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AFRICA: IL BATTITO CARDIACO DEL MONDO

di Marcello Piras

Il XX secolo è finito, o quasi; comunque possiamo abbracciarlo in un solo sguardo. E se


raffrontiamo il paesaggio musicale del 1° gennaio 1900 con quello di oggi, l’Occidente ci
appare irriconoscibile. Allora predominavano il violino e il pianoforte; i cantanti avevano le
voci impostate. Era un mondo sonoro che si avvicinava alle culture d’Oriente per l’emissione
vocale tesa e artificiosa, per la ricerca di suoni idealizzati, depurati dalle scorie della fisicità,
per il predominio della melodia — spesso ricca di fioriture — sopra un ritmo uniforme o
vago. Oggi la musica più comune, quella che ci insegue ovunque, è marcata da una pulsazione
bassa, metronomica, implacabile, da suoni sporchi e aggressivi, da un canto scandito,
sillabico, a volte gridato sopra il fragore del ritmo, che vi regna sovrano. Un identikit che
somiglia — in parole schematiche — a quello della musica dell’Africa Nera.
Davanti a questi raffronti all’ingrosso, i musicologi (corporazione cui il sottoscritto
appartiene, con disagio) storcono il naso. Per loro sarebbe facile opporre a questo elenco di
tratti caratteristici un elenco contrario. Noi potremmo confutarlo, senza con ciò convincerli.
Ma sarebbe tempo perso. I tratti qui sopra elencati sono sostanziali; distinguono in modo netto
il gusto musicale di una nonna da quello della nipotina; anzi, loro stesse userebbero criteri
simili. La nonna troverebbe sporco, volgare, martellante il suono della musica da discoteca, e
la nipotina troverebbe Puccini noioso, statico, imbellettato. Non motiverebbero le loro
preferenze appellandosi, che so, al contrappunto o alla teoria degli armonici. Le persone
semplici fanno discorsi semplici, ma sono cinque miliardi, e la storia la fanno loro, non noi.
In meno di un secolo la musica preferita dagli europei ha fatto un voltafaccia completo:
da “asiatica” è diventata “africana”. Uno dei geni musicali del nostro tempo, il pianista Cecil
Taylor, definì anni fa il fenomeno «la suprema africanizzazione dell’Occidente». Oggi,
qualche decennio dopo, possiamo ormai parlare di «africanizzazione del mondo». Si tratta
dell’evento più grandioso di tutta la storia della musica, eppure i musicologi non ne parlano; i
più neppure lo notano. Ciò non depone a favore della “scientificità” di cui si ammantano, né a
favore della musicologia. Ma poiché la musica è così importante per l’uomo, e merita che
qualcuno la studi, forse è giusto far qualcosa per riscattare questa disciplina, rivelatasi fin qui
poco abile nello spiegare e punto nel prevedere.
Nella prospettiva storica che proponiamo, l’attuale africanizzazione del mondo non è la
prima. Ve ne sono state diverse, e la più antica fra esse spiega come mai la attuale sia
possibile, e sia così inarrestabile. Per capirlo occorre però chiedere aiuto ad altri saperi, questi
sì scientifici per davvero.

* * * * *

La specie Homo sapiens sapiens — come ci siamo autodefiniti, con lieve caduta di stile
— è nata in Africa. Ormai i dubbi si affievoliscono. Tra i paleontologi c’è ancora qualche
sacca di resistenza; soprattutto i cinesi si sforzano di dimostrare che l’uomo — o per lo meno
il cinese — è nato in Asia. Ma di recente è entrata in campo una nuova, potente prova. La
biologia molecolare ha mostrato che nel nostro organismo il Dna, l’emoglobina e altre
molecole sono orologi che ticchettano scandendo il tempo di continue piccole mutazioni
genetiche. Essi raccontano da dove veniamo. Il confronto del Dna tra vari animali ci dice
quanti milioni di anni fa si differenziarono; quello tra popolazioni ci dice quante migliaia di
anni fa si separarono. Sono dati ancora freschi, ma si consolidano in fretta. Veniamo tutti
dall’Africa, solo passando per strade differenti. E sta prendendo forma una mappa delle vie
lungo cui i nostri antenati africani, da centomila anni in qua, hanno popolato le terre emerse.
Centomila anni! Dunque la storia che studiamo a scuola graffia appena la superficie. I
Sumeri fiorirono cinquemila anni fa, e avevano già 95 mila anni di passato culturale, di arte,
poesia, musica, danza. È pensabile che una così lunga storia sommersa non abbia lasciato
segni riconoscibili? Nessuna persona di buon senso, crediamo, lo direbbe.
Infatti i segni ci sono. Gli studiosi di graffiti rupestri hanno da poco iniziato a catalogare
e confrontare tutte le opere scoperte in ogni angolo della terra, da Israele alla California,
dall’Australia alla Val Camonica. Dappertutto emergono analogie profonde, che non possono
essere casuali. I linguisti iniziano a vedere, tra le cinquemila lingue note, tenui tracce di
un’origine comune. La radice *tik (“dito”, “uno”, “dito indice”, “additare”, “mano”) è la più
limpida finora individuata. Gli uomini che dall’Africa partirono alla scoperta del mondo
avevano già le parole per dire le cose semplici: occhio e mano, sesso e latte, io e tu, uno e due.
Non danzavano? Non cantavano? E allora perché tutti i popoli della terra cantano e danzano?
Ognuno ha rinventato tutto da capo?
Un analoga comparazione tra le musiche suggerisce analoghi risultati. Sotto la buccia
relativista delle diverse culture affiorerebbe un nucleo comune, fatto (attenzione!) di tratti sia
biologici (abbiamo tutti un naso e due orecchie) sia culturali. La radice *tik, infatti, è
culturale; i primi umani avrebbero potuto dire *sploz o *mum. Non lo fecero, per loro libera
scelta. Ma questa ha avuto impatto universale, perché precede il divergere delle culture. Cade
il vecchio schema: costante = biologia, variabile = cultura. Vi sono costanti culturali, così
come vi sono variabili biologiche (per esempio gli europei adulti digeriscono il latte, i cinesi
no).
Ora, per millenni l’umanità ha abitato solo in Africa. Là si divise in due rami, e uno ne
uscì per conquistare il mondo. Dunque, là dove troviamo tracce culturali comuni a tutta
l’umanità, è ragionevole farle risalire all’Africa. E ve ne sono in musica? Certamente.
Quando, circa un secolo fa, iniziò lo studio sistematico delle musiche di tradizione orale,
gli studiosi furono colpiti soprattutto dalla loro stupefacente varietà. Poi, pian piano, i dati
affluirono agli archivi, si prese a compararli, e prese forma un panorama che rivelava tratti
comuni a certe aree, piccole o grandi. A volte grandissime. Le parole scritte tanti anni fa da
André Schaeffner trasmettono ancora lo stupore della scoperta: «Il caso più strano di
migrazione ci è dato da un tamburo a membrana che il professor Sachs definisce, in mancanza
di meglio, “tamburo su gambe umane” (Menschenbeintrommel) e la cui cassa costituisce una
specie di tronco, collocato effettivamente su due gambe e su due piedi antropomorfi: ora lo
stesso strumento esiste presso i Bakundu del Camerun australe e nelle isole di Kisser e di
Timorlaut, fra l’Australia e la Nuova Guinea. A meno di accettare l’idea di una straordinaria
“sinonimia”, bisogna pur ammettere che qui ci troviamo di fronte a due punti estremi di una
diffusione di cui ignoriamo tutti i punti intermedi: (…) segno dell’antichità del suo arrivo,
qualsiasi testimonianza del percorso seguìto essendo stata nel frattempo cancellata da
successive migrazioni di altri strumenti».1 Dal Camerun all’Australia: un arco che abbraccia
mezzo Equatore.
Qualcuno propose anche un sistema per distinguere strati più e meno antichi. Lo si attinse
all’archeologia, e vale per gli oggetti fabbricati dall’uomo, quindi anche gli strumenti
musicali. Curt Sachs lo enunciò in tre punti, il terzo dei quali suona: «Più uno strumento è

1 André Schaeffner, Origine des instruments musicaux, Mouton, Paris 1936, ed. it. Origine degli strumenti musicali, Sellerio, Palermo 1978,
p. 382.
diffuso nel mondo, più la sua origine è lontana nel tempo».2 (Tra parentesi, egli era anche
«convinto che ognuna delle idee e invenzioni più antiche provenga, sia stata irraggiata da un
centro».3) Sachs suggerì una successione di ventitré strati, poi ritoccata da altri; nello strato I
pose, ad esempio, i sonagli appesi al corpo del danzatore. Ecco un elemento che può ben
risalire alla prima stagione di invenzioni umane, quella che vide nascere, in Africa, cose oggi
così universali e ovvie, che nessuno vi scorge più l’originaria scintilla creativa.
E che dire degli strati successivi? Il bizzarro tamburo a gambe non è isolato
nell’abbracciare Africa e Oceania. Ancora Schaeffner: «Storicamente o simbolicamente, tutto
accade come se la maggior parte degli strati successivi, sedici su ventitré, fosse venuta da
quell’immenso “mediterraneo” compreso fra la costa occidentale dell’America, la costa
orientale e australe dell’Asia e la costa orientale dell’Africa». Il tono è prudente, ma l’idea è
profetica. Nella mappa delle migrazioni antiche tracciata da Luca Cavalli-Sforza4 la freccia
più antica, uscendo dall’Africa, costeggia l’Oceano Indiano e arriva in Australia, 60 mila anni
fa, o più.
Immaginiamo i primi sapiens, che in qualche millennio di cammino, dalla savana
etiopica, approdano in Nuova Guinea e di lì (su tronchi? su zattere?) in Australia. Ai nostri
occhi essi appaiono come l’archetipo del pioniere. Ma non lo erano. La strada che batterono
in cerca di cibo non era nuova neanche allora.
La storia del genere Homo è scandita da glaciazioni. A ogni ondata di freddo, una calotta
di ghiaccio spessa chilometri copre una parte delle terre abitabili. Essa poi si ritira nei periodi
interglaciali, come l’attuale. Così, una tenaglia di ghiaccio si apre e si chiude intorno a
un’area centrale di terre sgombre. In questo apri-e-chiudi le fasce climatiche vanno su e giù
come un ascensore: arriva il gelo, e gli abeti scendono a sud; torna il caldo, e risalgono a nord.
Appresso alle piante si spostano gli animali; e appresso a piante e animali si spostava, già due
milioni di anni fa, Homo erectus. Questi, inseguendo i suoi cibi, uscì dall’Africa, camminò
tutt’intorno all’Oceano Indiano, almeno fino a Sumatra. Suo nipote sapiens rifece, senza
saperlo, la stessa strada.
L’area che chiamiamo qui circum-indiana si impone dunque come primo bacino di
fioritura delle culture paleolitiche per convergenti motivi di clima, vegetazione, fauna, siti

2 Curt Sachs, History of Musical Instruments, Norton, New York 1940, ed. it. Storia degli strumenti musicali, Mondadori, Milano 1980-
1996, p. 57.
3 Ibidem.
4 Luigi Luca Cavalli-Sforza, Chi siamo. La storia della diversità umana, Mondadori, Milano 1993, p. 182.
archeologici, orologio molecolare, lingue e musiche. Tra 100 e 90 mila anni fa, durante
l’interglaciale Riss-Würm, H. sapiens esce dall’Africa e inizia a esplorare l’Asia, dalla
Palestina (sito di Jebel Qafzeh) verso est. Tra 90 e 60 mila anni fa la glaciazione Würm I lo
spinge verso sud e lo confina nel percorso circum-indiano. 60 mila anni fa è già arrivato in
Australia (sito di Willandra); e recenti scoperte sembrano arretrare questa data.
Anche gli indizi linguistici sono concordi, e non sono affatto nuovi; anzi. Il lettore che sin
qui è stato così paziente da seguirci in questo itinerario tra le scoperte e le teorie più avanzate,
sarà sorpreso di sentir citare uno studioso italiano di cent’anni fa, ai più ignoto, che della
monogenesi delle lingue fu il primo sostenitore: Alfredo Trombetti.
È stupefacente, oggi, leggere Trombetti. Egli lavorò su una documentazione misera
rispetto all’attuale, e senza mandibole di Homo abilis a indicargli la strada. Eppure era
convinto che la culla dell’uomo fosse l’Africa. La sua potente arma erano i raffronti a largo
raggio basati su parole semplici (i numerali soprattutto), da cui aveva fatto emergere tratti
comuni a otto “superfamiglie”. Secondo la ricostruzione di Antonio Enrico Leva,5 «Trombetti
ebbe la prima intuizione della teoria monogenetica nell’elaborare uno studio sui nessi
genealogici fra le lingue del mondo antico (presentato nel 1902 all’Accademia dei Lincei, e
bene accolto, ma rimasto in manoscritto), in cui fra l’altro accenna alle affinità da lui
constatate fra i numerali africani della prima decade (in particolare del bantu e del sudanese) e
quelli del gruppo asiatico munda-khmer, facendo anzi rilevare che i numerali del munda
concordavano assai più col bantu anziché con quelli delle vicine lingue dravidiche».6
Anche Trombetti percepiva dunque echi circum-indiani, che collegano le lingue bantu
(oggi famiglia niger-khordofaniana) con gli arcaici resti di tribù paleolitiche dell’India interna
e con l’Indocina (lingue munda e mon-khmer, oggi famiglia austroasiatica). Ancora Leva: «Il
Trombetti volle anche reperire e indicare le relazioni delle lingue africane con quelle
austroasiatiche, e ravvisò i nessi più importanti nel confronto fra il bantu-sudanese e il
munda-polinesiaco, e fra il camito-semitico e il dravidico-australiano. Le lingue africane a
costruzione inversa (B-A) concorderebbero in moltissimi elementi con le lingue papuane e
loro affini, e avrebbero la medesima costruzione. Le rimanenti lingue africane a costruzione
diretta (A-B) concorderebbero con le lingue munda-polinesiane aventi in genere la medesima

5 Il contributo italiano alla conoscenza delle lingue parlate in Africa (dal Cinquecento al primo sessantennio del secolo XX), collana
L’Italia in Africa. Serie scientifico-culturale, a cura del Ministero degli Affari Esteri - Comitato per la documentazione delle attività
italiane in Africa, Istituto Poligrafico dello Stato, Roma 1969, p. 95 n.
6 Si veda in proposito: A. Savelli (cur.), La dottrina monogenistica di Alfredo Trombetti, Fondazione Trombetti, Faenza 1962.
costruzione».7
Tolto che oggi nessuno metterebbe più lingue dravidiche e australiane nella stessa
superfamiglia, rimane del tutto valido il quadro d’assieme, con le sue ardite connessioni. Si
noti che alcune di queste possono avere una spiegazione recente (l’Oceano Indiano è stato
solcato per secoli da navi arabe, indonesiane e cinesi); ma altre no.
Il principale allievo e continuatore di Trombetti, Oddone Assirelli, aveva idee meno
ardite. Anch’egli sottolineava le parentele circum-indiane; ma pensava a un’origine asiatica, e
vedeva l’Oceano Indiano come probabile «centro primordiale della dispersione degli
Ominidi».8 Più che di monogenesi africana preferì parlare di “parallelismo” afro-oceanico,
espressione «che lascia impregiudicata la questione delle origini e della dipendenza o meno di
uno dei termini dall’altro».9
Cosa vuol dire tutto ciò per la storia dell’uomo? Vuol dire anzitutto, per noi abituati a
indicare come “culla della civiltà” il Mediterraneo, o la Mezzaluna Fertile, spostare tale
qualifica all’Oceano Indiano. In questa area i Vedda di Sri Lanka, gli Andamanesi, i Semang
della foresta malese, le varie popolazioni di pigmoidi e negritos, fino ai Tasaday della foresta
filippina, rimasti paleolitici fino all’epoca attuale, ci appaiono quindi non più curiose varianti
dell’ingegnosità umana, ma fossili viventi, testimoni dei capitoli iniziali della Storia.
Possiamo immaginare questa così. Della prima fase in Africa sopravvivono i cacciatori
della savana, i San (Boscimani). Non possiamo certo attribuire con leggerezza agli uomini di
allora i caratteri dei San attuali, che hanno avuto centomila anni per evolversi. Tuttavia, per la
nota “legge delle aree periferiche”, mentre il centro va avanti, la periferia ne conserva
tradizioni superate. Possiamo quindi vedere, sulla cartina delle terre abitate durante la
glaciazione Würm I, i cacciatori-raccoglitori africani come centro di irraggiamento, e le
culture circum-indiane come “periferia”. Come il vecchio barbiere italiano di Brooklyn che
ancora tiene in cornice le foto del Duce e del Re, gli andamanesi, “africani emigrati”,
conserverebbero dunque memoria della cultura proto-San del Würm I. A bloccarne
l’evoluzione fu forse l’interglaciale Gottweiger che, sciogliendo i ghiacci, aprì un braccio di
mare invalicabile per la loro debole tecnica conservandoli, ignari del mondo, su sperduti
isolotti. Il fatto che oggi l’andamanese (come il tasmaniano) sia ascritto alla stessa famiglia
delle lingue papua (la indo-pacifica) conferma l’ampiezza e l’antichità dei rapporti qui

7 Leva, cit., p. 98.


8 Oddone Assirelli, L’Africa nel quadro della monogenesi, Zanichelli, Bologna 1966, p. 4.
9 Ibidem.
delineati.
L’applicazione sistematica della legge delle aree periferiche alle popolazioni circum-
indiane è compito da etnologi, e non vogliamo usurparlo. Ci limitiamo a un cenno. Le più
antiche tracce finora note di uso dell’arco sono state di recente individuate in Tanzania da
John Yellen e Alison Brooks,10 che le datano a 50 mila anni fa (glaciazione Würm II).
Naturalmente questa data è un termine ante quem. In ogni caso, le popolazioni circum-indiane
che non conoscono l’arco — né quindi l’arco musicale, il primo strumento a corda —
avrebbero lasciato l’Africa prima di quell’invenzione (è il caso dei Semang, che cacciano con
la cerbottana). Ecco come la musicologia può entrare in questo gioco di verifiche incrociate,
sia dando sia (più spesso) ricevendo appigli di datazione.
Come doveva essere la musica all’epoca di Würm I? Non doveva essere molto varia, né
disporre di strumenti raffinati: la percussione di tronchi, sassi, conchiglie, bastoni sul terreno,
tavole era tutto il suo repertorio organologico. Contro l’idea ingenua dei più, i popoli primitivi
non conoscevano i tamburi a membrana, che richiedono una tecnologia complessa per
montare e tendere la pelle.
D’altronde, la via aperta da Homo erectus tra Africa e Indonesia fu percorsa in su e in giù
per millenni, determinando rapporti non solo al livello più primitivo, ma anche a livelli più
evoluti. Le somiglianze tra la musica bantu e papua lo suggeriscono, in parallelo con le
somiglianze fisiche e linguistiche. Diego Carpitella, a proposito della musica papua, ha
parlato di «resti di civiltà negroide nelle regioni montagnose dell’interno»; e Marius
Schneider ne ha notato la parentela con la musica africana nell’organizzazione delle altezze
per terze parallele, alternativamente maggiori e minori.11
La scelta estetica per la quale gli africani vanno proverbialmente noti è comunque il
predominio del ritmo. Fu una scelta antica, a quanto ne sappiamo. Le celebri pitture rupestri
rinvenute da Henri Lhote nel Tassili-n-Ajjer, nel nord berbero del Sahara, e datate 6000-4000
a.C., quando quell’area era fertile, la rivelano già consolidata in forme tuttora attuali. Di
questa scelta di fondo per il ritmo come elemento che è nel corpo, regola il corpo, e può
dominarlo, resta qualche traccia, più o meno forte, in tutte le culture paleolitiche della Terra,
fino alle più remote aree dell’Artico, dove i poliritmi del tamburello sciamanico ne sono
l’ultima, lontana eco. Tutti noi umani abbiamo alle spalle le scelte musicali dell’Africa. Resta
10 Primitivi africani più evoluti di quelli europei, «La Repubblica», 7 maggio 1995, P. 28-9. Si veda anche Luigi Onori, Ritagli, «il
Sismografo - Bollettino della Sisma», n. 14 (luglio 1995), p. 33.
11 Diego Carpitella, «oceania», in DEUMM - Dizionario Enciclopedico Universale della Musica e dei Musicisti, vol. III, UTET, Torino
1984, p. 376-7.
da capire come e perché alcune culture siano cambiate strada facendo.
La scuola ci inculca fin da piccoli il mito dell’Europa, eterno faro della civiltà più
avanzata. Non sarà facile abituarsi all’idea che l’Europa fu forse l’ultimo continente abitato da
Homo sapiens. L’uomo, nato in Africa, era in Asia già 90 mila anni fa, in Australia 60 mila,
in America 35 o 60 mila, in Europa solo 40 mila. Il 70% della storia dell’umanità è trascorso
senza l’Europa. E quando sapiens vi giunse, aveva ormai compiuto scelte decisive, realizzato
migliaia di invenzioni e scoperte, creato utensili raffinati e arte.
Ma l’Europa è vicina all’Africa: perché sapiens non la invase subito? Perché la abitava
l’uomo di Neanderthal. Questo nostro antenato indiretto, non padre bensì zio dell’umanità
attuale, era giunto in Europa al tempo dell’interglaciale Riss-Würm, 125-90 mila anni fa.
Rimasto bloccato in Europa nelle due successive fasi glaciali, vi aveva sviluppato una cultura
adatta al freddo. Era un forzuto, ma non privo di capacità artigianali, sensibilità d’animo e
fede religiosa. Aveva però due limiti: una mente rigida, timorosa del nuovo, e una
preoccupante fragilità demografica, dovuta a una gestazione di dodici mesi, conclusa da un
parto difficile.
Da 100 a 40 mila anni fa, Neanderthal spadroneggiò in Europa e vicino Oriente.
All’inizio sapiens lo evitò: gli era inferiore per muscoli, e non gli era superiore per tecnologia.
Ma, alla fine di Würm II, sapiens invade l’Europa, e in poco tempo Neanderthal si estingue.
Sapiens veniva dall’Asia o dall’Africa? Dall’Asia, si risponde. È una buona risposta: vi
sono segni coerenti di un’avanzata di sapiens da est, e davanti a essa Neanderthal ripiega
verso ovest. In questa disperata battaglia finale, Neanderthal tenta perfino di rubare le armi
del nemico: nei suoi siti si trovano a volte oggetti di tecnologia sapiens. Ma sono imprestiti,
come le rivoltelle in mano agli indios. Così si spiega, crediamo, il flauto trovato di recente in
un sito di Neanderthal — se non è lo scherzo di un archeologo buontempone, o una bizzarria
stratigrafica — . E però il quadro ha qualche punto debole. Ad esempio, perché i capolavori
pittorici di sapiens europeo si trovano a ovest e non a est?
Si dice che sapiens non poté arrivare dall’Africa perché non sapeva navigare. Eppure la
penisola iberica si sta rivelando uno scrigno di siti archeologici; e questi sembrano delineare
una via che va dal Marocco verso nord. Le pitture rupestri, abbondanti e splendide, ne sono il
filo rosso.
Anche questa idea non è nuova; e ha avuto sostenitori illustri, mai smentiti, e però
ignorati. L’abate Breuil, per mezzo secolo il maggiore esperto mondiale di arte preistorica, si
convinse già decenni or sono dell’origine africana dell’uomo (il che richiedeva un bel
coraggio, mancando i fossili) e anche della civiltà (il che richiedeva incoscienza). «Sembra
sempre più probabile», scrisse, «che anche nei tempi ultramillenari dell’antica pietra
scheggiata, l’Africa non solamente abbia conosciuto stadi di civiltà primitiva paragonabili a
quelli dell’Europa e dell’Asia Minore, ma che forse sia stata la fonte di parecchie di queste
civiltà, le cui estreme propaggini hanno raggiunto a Nord i paesi classici».12
Oggi l’arte rupestre africana è ritenuta la più antica del mondo: in Tanzania e in Namibia
vi sono siti di 40 mila anni fa. Essi erano ignoti, o non ben datati, quando Breuil scriveva. Egli
fu dunque buon profeta. Gli ultimi paleolitici d’Africa, i San namibiani, hanno continuato a
produrre arte rupestre fino a oggi, con tecniche immutate: un loro dipinto a ocra raffigura una
contadinella olandese, vestita alla moda del primo Ottocento. È dunque possibile attribuire
alla loro tradizione culturale molta dell’arte rupestre africana. Da ciò (e da altro) si deduce che
un tempo gli antenati degli odierni San scorrazzavano per gran parte dell’Africa. Furono loro
a sbarcare in Europa, e a portarvi l’arte? La tesi ha avuto diversi sostenitori (tra cui Sergio
Sergi, ai primi del Novecento), e la confermerebbe qualche indizio archeologico. Il più antico
sito sapiens italiano è la grotta dei Balzi Rossi (Ventimiglia); esso ha restituito scheletri di
tipo definito “boskopoide”, cioè affine ai San. Che il più antico sapiens italiano spunti fuori in
Liguria va d’accordo con una sua venuta dall’Africa, via Spagna-Costa Azzurra. In quel sito è
stato notato tra l’altro come «la testa di un giovane di razza negroide fosse protetta da lastroni
formanti un vano riempito di ocra».13
Né mancano indizi linguistici. Alcuni sono superficiali (e non databili), ma affascinanti.
Benvenuto Terracini rilevò ad esempio la singolarità di toponimi protosardi «come Ittiri e
Isili, paragonabili all’africano Gilgili e all’iberico Bilbili».14 Altri appaiono più profondi. E
qui rifà capolino Alfredo Trombetti, con una delle sue più geniali intuizioni. Egli riconobbe
infatti la lontanissima parentela tra due misteriose isole linguistiche, il basco e il georgiano.
Come due affioramenti montuosi in un lago indoeuropeo, esse fanno pensare che prima
dell’arrivo di genti indoeuropee l’Europa paleolitica parlasse lingue come le loro. Propose
quindi una remota famiglia “basco-caucasica”; e quando l’illustre africanista Carl Meinhof
mise in rilievo le affinità fonetiche tra lingue caucasiche e khoisan (quelle dei San), Trombetti

12 Cit. in Eugène Guernier, L’apport de l’Afrique à la pensée humaine, Payot, Paris 1952, ed. it. Il contributo dell’Africa al pensiero umano,
Sansoni, Firenze 1963, p. 20.
13 Giacomo Devoto, Il linguaggio d’Italia, Rizzoli, Milano 1974, p. 26.
14 Ibidem, p. 35.
commentò, in una lettera a Carl Schuchardt: «Dal Caucaso adunque fino al Capo di Buona
Speranza, lungo la costa orientale dell’Africa, trovansi suoni profferiti a laringe chiusa, e
questo è uno dei fatti che comprovano il nesso speciale caucasico-camitosemitico-ottentotto o
caucasico-africano, di fronte a tutti gli altri gruppi linguistici».15
Si possono riconoscere, oggi, tracce di substrato khoisan nelle lingue indoeuropee? Ci si
è provato, con risultati degni di nota, il linguista olandese Jacobus van Ginneken; e anche
oltre è andato il polacco Roman Stopa,16 nell’ambito di un progetto paleolinguistico più
ardito: dimostrare come i fonemi di base nel linguaggio degli scimpanzè siano passati, con
significato analogo, nelle lingue khoisan, e formino quindi la base biologica della
comunicazione verbale.17 L’idea è fascinosa, ma azzardata. È stato infatti osservato18 che i
suoni avulsivi (click), cioè a risucchio, usati dagli scimpanzé, sono sì anche tipici delle lingue
khoisan, ma i bambini devono reimpararli. Ad ogni modo ciò semmai rafforza la tesi che
anche tali suoni siano stati conservati per volontà culturale. Dunque il substrato paleolitico
europeo potrebbe avere una certa tinta khoisanide, non liquidabile come mero deposito di
universalia biologici. Per esempio, nel proto-khoisan ricostruito dai linguisti, “chi” si dice
“!ku” (il punto esclamativo è un click), forma tra l’altro non congetturale ma tuttora attestata.
Alla domanda se l’uomo sia giunto in Europa passando solo dall’Asia o anche
dall’Africa, la biologia molecolare non dà al momento una risposta netta. Nelle mappe di
Cavalli-Sforza nessuna freccia passa per Gibilterra; tuttavia lo stesso Cavalli-Sforza valuta
che gli europei moderni portino con sé circa due terzi di eredità genetica asiatica, e un terzo di
africana. (Quest’ultimo cumula, beninteso, anche i geni portati dai Numidi a Roma, dai
musulmani nel Medio Evo, o dai matrimoni misti di epoca coloniale).
D’altro canto, non è buon senso pensare che paleolitici del Marocco siano andati in
Spagna passando per il Caucaso; o che la fitta mappa di siti archeologici sui due lati dello
stretto di Gibilterra sia mera coincidenza. Il mare è profondo, ma da una riva si vede l’altra. È
più sensato ritenere che sia stato attraversato più volte, in ambedue i sensi. Se, come
crediamo, ciò avvenne, intorno a 40 mila anni fa Neanderthal fu preso tra due fuochi: sapiens
lo annientò sia da sud-ovest sia da est.

15 Alfredo Trombetti, Delle relazioni delle lingue caucasiche con le lingue camitosemitiche e con altri gruppi, lettera alHugo Schuchardt, in
«Giornale della Società Asiatica italiana», XVI, 1903, p. 170.
16 Roman Stopa, Struttura del boscimano e sue tracce in indoeuropeo, Polska Akademia Nauk., Krakow 1972.
17 Roman Stopa, Evolution der Sprache, «Nova Acta Leopoldina» vol. 42 [N.F.] 218, Halle 1975, p. 355-75.
18 Irenäus Eibl-Eibesfeldt, Die Biologie des menschliches Verhaltens. Grundriss der Humanethologie, Piper, München 1984; ed. it.
Etologia umana. Le basi biologiche e culturali del comportamento, Bollati Boringhieri, Torino 1993, p. 347-8.
Ma, si chiederà il lettore sempre più paziente, è così importante che sapiens sia entrato in
Europa da una porta o da due? Rispondiamo con una controdomanda: se l’ingresso
dall’Africa, con tanti indizi a suo favore, fosse poco importante, perché non accettarlo senza
problemi?
E qui tocchiamo il nucleo profondo della questione.
Lo scienziato che studia una galassia o un cristallo può guardare con un certo (mai totale)
distacco all’oggetto di studio. Ma l’uomo che studia l’uomo? Lo studio della storia ci risulta
appassionante proprio perché ci riguarda. Ne siamo coinvolti. Conosciamo noi stessi
studiando il passato che vive dentro di noi. Ora, che le origini della cultura europea, e
dell’umanità in genere, siano o in Asia o in Africa pare un dilemma accademico, ma non lo è.
È invece il più viscerale che si possa porre: e sta a fondamento di tutte le altre questioni.
Nell’immaginario comune, l’Asia è il continente della antica sapienza. Di lì vengono la
religione, la filosofia, la conoscenza dell’uomo. Nessuno di noi (tranne qualche arancione)
vorrebbe andare a viverci; e in fondo sentiamo gli asiatici come oppressivi e crudeli, siano
essi oscurantisti taliban, o industriali dell’automobile. Sicché consumiamo cibi cinesi,
filosofie indiane, tecnologia giapponese, ma restando qui. Nello stesso immaginario comune,
l’Africa è il continente dell’istinto selvaggio. Non ha avuto geni, invenzioni e scoperte. Gli
africani sono primitivi eterni. Tutto ciò in cui eccellono lo devono all’istinto, o l’hanno
appreso da noi. Sotto l’alone di simpatia recato agli africani dalle mode musicali moderne il
pregiudizio vittoriano permane intatto: sporchi, superstiziosi, infantili, incivili. Una
concezione dispregiatrice sostenuta apertis verbis da illustri pensatori, da Hume a Hegel.
Quando Darwin capì che l’uomo discende dalla scimmia, ragionò subito: le scimmie più
strette parenti dell’uomo, gorilla e scimpanzè, stanno solo in Africa, dunque l’uomo viene
dall’Africa. Un secolo dopo i fossili gli hanno dato ragione. Ma a lungo si è preferita
un’origine dall’Asia, madre nobile e saggia, piuttosto che dall’Africa, madre sporca e
primitiva. Non vi è da stupirsi se ogni volta che si dà importanza, profondità storica, rilievo,
centralità a qualcosa di africano o di negro, vi è chi fa smorfie di disagio, si agita sulla sedia, e
infine reagisce ponendo domande perfide o sbottando in escandescenze. Il pregiudizio anti-
africano tocca uno strato profondo della personalità, dove si annidano sofferenze precoci e
traumi infantili.
Ma, se tutti siamo figli dell’Africa, perché tanta ingratitudine? Perché l’origine africana è
divenuta vergognosa? E da quando?
* * * * *

Come sa bene ogni amante del jazz, vi sono persone che hanno swing, che partecipano
alla musica con il corpo e con la giusta scioltezza, e persone che non hanno swing. Spesso
queste esprimono resistenze verso il jazz, con modi sprezzanti, imbarazzati o di nervoso
disagio. Ma tutto questo è pura esperienza: non si sa il perché.
La base dello swing è la capacità autonoma del corpo di seguire un ritmo regolare, non
sorvegliato a ogni istante dalla coscienza vigile. Il corpo ha ritmi suoi, e accordarli con un
ritmo esterno è cosa, al fondo, istintiva. Questo istinto in alcune culture viene incoraggiato, in
altre represso. Le culture africane lo incoraggiano: là i bambini acquisiscono subito
competenze corporee che noialtri non raggiungiamo mai, se non con fatica, e comunque con
esiti inferiori. Negli USA, bianchi e neri convivono da 350 anni, e l’influenza nera sulla danza
e sulla musica è schiacciante, eppure ancor oggi i neri si muovono con molta più grazia e
armonia. I balli di moda appresi al liceo non controbilanciano la repressione subìta
nell’infanzia.
In questo senso, le culture umane si possono dividere alla grossa in due gruppi: culture
del movimento sciolto e culture del movimento rigido. Alan Lomax,19 a margine del suo
progetto cantometrics (una mappa parametrica dei canti popolari di tutto il mondo), notò che
tutte le popolazioni hanno “stili di movimento”, proprio come hanno stili musicali.
«Setacciando molti filmati, ci siamo imbattuti in una distinzione di fondo nel tipo di
atteggiamento corporeo: (1) movimento in cui il tronco è trattato come un’unità, e (2)
movimento in cui il tronco è trattato come due unità. In (1) l’attore o danzatore usa il tronco
come una struttura compatta, un blocco. In (2) vi sono chiare torsioni alla vita o movimenti
ondulatori che si espandono dal centro del tronco verso altri segmenti del corpo, connessi a
movimenti degli arti superiori o inferiori. (…) L’atteggiamento a un blocco domina nei mondi
amerindio ed eurasiatico. Quello a due blocchi si incentra nell’Africa Nera con propaggini,
attraverso l’India, fino in Polinesia. Questa distribuzione collima con la mappa cantometrica
di numerosi tratti stilistici del canto che collegano gli stili dell’India meridionale con il
Pacifico e l’Africa Nera. (…) Nel sistema a due blocchi si manifesta un movimento

19 Alan Lomax, Irmgard Bartenieff e Forrestine Paulay, Dance Style and Culture, in Alan Lomax e altri, Folksong Style and Culture, AAAS
(American Association for the Advancement of Science) Publication No. 88, Washington 1968, p. 222-47.
contrastante fra le metà superiore e inferiore del tronco; l’attore o danzatore torce la vita». In
alcune danze africane studiate, «i fianchi e la parte superiore del corpo ruotavano, pulsavano,
saltavano, quasi come due entità del tutto indipendenti, talora muovendosi su ritmi diversi e
dando luogo a poliritmi corporei. Fuori dell’Africa nera abbiamo osservato un sistema a due
unità meno cristallizzato, un poco somigliante allo stile di atteggiamento corporeo africano,
nelle danze del ventre arabe e del vicino Oriente, come pure nelle morbide e insinuanti
ondulazioni di polinesiani e micronesiani. È suggestivo notare che l’Africa nera ha il
punteggio più alto per il sistema a due unità, con l’area del Pacifico insulare subito dopo.
L’orientamento erotico della cultura sia africana sia oceanica è troppo noto per parlarne».20
Lomax ricollega questa opposizione ai gesti del lavoro, ma una simile teoria non regge.
Egli ha invece (senza saperlo?) afferrato per un attimo la fondamentale opposizione tra
culture oppressive e culture liberatorie.
Nelle culture che articolano il tronco in due blocchi, i movimenti spontanei del corpo
vengono armoniosamente sviluppati e potenziati; ciò accade in Africa, India del sud,
Indonesia, Oceania. Lo chiamiamo qui “modello africano”. Quelle in cui la cultura reprime gli
istinti corporei sono nell’Asia centrale e artica, tra gli amerindi e nella cultura europea
dominante. Lo chiamiamo “modello asiatico”.
Ovviamente il modello africano è quello originario dell’umanità. Vi appartengono i San, i
pigmei, le culture del bacino circum-indiano. Dunque il modello asiatico deve essere nato
dopo: forse quando, nel Sud-Est asiatico, le genti si separarono: alcune rimasero nell’area
circum-indiana, altre si diressero a nord, risalendo la costa del Pacifico, e da qui esplorarono a
ovest la Cina, a est l’America. La data si collega quindi con quella (ancora incerta) dell’arrivo
in America. Un esodo verso nord si spiega però solo con una fine di glaciazione, con
cacciatori che inseguono le renne e si risalgono sempre più. La nostra ipotesi è che ciò
accadde all’inizio dell’interglaciale Gottweiger, 60-55 mila anni fa. In quella data si
separarono non solo due popolazioni, ma due filosofie del corpo.
È solo un’ipotesi. Ma l’albero linguistico-molecolare ci offre un sostegno.21 Nel ramo che
abbiamo chiamato “asiatico” rientrano gli amerindi, i siberiani, i popoli dell’Estremo Oriente,
quelli dell’Asia Centrale, gli indiani, gli indoeuropei e i camito-semitici collocati tra Vicino
Oriente e Nordafrica. L’unico elemento fuori posto è la presenza dei popoli dravidici

20 Ibidem, p. 237-8.
21 Cfr. Luigi Luca Cavalli-Sforza, Gènes, peuples et langues, ed. it. Geni, popoli e lingue, Adelphi, Milano 1996, diagramma ad albero di p.
214.
dell’India meridionale, che in realtà hanno uno stile corporeo africano; ma in quell’area il
substrato circum-indiano ha il suo effetto. Così pure, non stupirà che secondo l’albero di
Cavalli-Sforza i berberi o gli etiopi cadano nell’area “asiatica”; tra di essi, in effetti, lo stile
corporeo “africano” appare parzialmente abbandonato (la danza del ventre, ad esempio, la
praticano solo le donne).
Ulteriori dati preciseranno il quadro. A noi preme qui chiarire che lo stile corporeo
“africano”, diffusosi nel Vecchio Mondo con la prima radiazione demografica, a un certo
punto fu negato, combattuto, e rovesciato nel suo opposto, lo stile “asiatico”. Una tabella dei
caratteri dei due stili offre questa serie di dicotomie:

STILE ASIATICO STILE AFRICANO


Corporeità rigida Corporeità rilassata
Repressione sessuale Tolleranza sessuale
Introversione, solitudine Estroversione, socialità
Paura degli istinti Fiducia negli istinti
Depressione / collera Buonumore
Disciplina imposta dall’alto (singolo -> gruppo) Regole espresse dal basso (gruppo -> singolo)
Piacere della crudeltà Piacere del piacere
Purismo Contaminazione
Rigore, tendenza a escludere Tolleranza, tendenza a includere
Ascesi Edonismo
Trascendenza Immanenza
Stati di estasi Stati di trance

Lo stile asiatico delinea quindi uno schema della personalità che potremmo, alla grossa,
inquadrare come sadico-anale.
In molti casi, collocare una singola cultura nel campo asiatico o africano può risultare
impossibile, ma un motivo c’è sempre: di solito un conflitto tra substrato e superstrato. Va
infatti detto che, là dove culture asiatiche e africane si incontrano, le asiatiche tendono a
divenire dominanti, e le africane subalterne. Questo spiega non solo la tratta degli schiavi in
America, ma anche, ad esempio, il conflitto tra Mosè e il Vitello d’oro, o tra ariani e dravidici
in India, o ancora tra cinesi Han e Miao, e così via. Non di rado, inoltre, il substrato africano
viene conservato dalle donne, mentre lo stile asiatico si configura come maschile; ma
tralasciamo qui il punto per brevità.
Come si traduce in musica questo sistema di opposizioni? Anche qui occorre
schematizzare, facendo un po’ violenza alla realtà. Ma proviamo lo stesso:
STILE ASIATICO STILE AFRICANO
Ritmo libero o elementare Ritmo metronomico e intricato
Scansione lenta o assente Scansione rapida
Ritmo statico Ritmo propulsivo
Monodia fiorita Polifonia, antifonia
Dominio delle scale; microtoni Dominio degli arpeggi
Emissione vocale artificiosa Emissione vocale naturale
Timbri puri Timbri sporchi
Percussione aspra e secca Percussione calda e sonora
Distacco artista/pubblico Coinvolgimento collettivo
Ascolto mentale Ascolto corporeo
Fissazione del testo Instabilità del testo
Didattica autoritaria Didattica per prove ed errori

Nella realtà musicale, i due modelli si sovrappongono e mescolano. Essi, più che
individuare casi tipici (che pure esistono: si pensi alle orchestre di tamburi Tutsi di contro al
teatro kabuki), servono a smontare nelle sue componenti un codice musicale intermedio. Il
flamenco, ad esempio, congiunge un nucleo asiatico (il cante hondo) a un substrato africano
(la poliritmia di chitarre, castagnette e suoni corporei).
In Europa il substrato paleolitico basco-caucasico, con le sue possibili radici khoisan, è
portatore di una antica africanità, su cui si sono abbattute più ondate asiatiche: gli agricoltori
neolitici, gli indoeuropei, le religioni monoteiste, i popoli uralici, i turchi. L’equilibrio tra
principio asiatico e africano appare così sempre cangiante. A volte si spartiscono i generi e gli
stili, come, in Sardegna, le launeddas “africane” e il canto monodico con chitarra “asiatico”.
A volte si confinano in tempi diversi: come nell’antica Grecia, apollinea di giorno e
dionisiaca di notte,22 o nel succedersi calendariale di Carnevale e Quaresima. O convivono
fianco a fianco nello stesso musicista: si pensi al Frescobaldi serafico della Toccata IV da
sonarsi alla levatione e a quello dionisiaco delle Cento partite sopra Passachagli. O al
contrasto tra il secondo e il terzo movimento della Nona Sinfonia di Beethoven. O alla
suprema sintesi tra i due mondi osata da John Coltrane nelle sue ultime opere.23
Il XX secolo è quasi finito. Nacque quando la riproduzione del suono era in fasce, e la
musica si poteva fissare solo per iscritto. La circolazione cartacea favoriva l’astrazione del
suono-concetto dalla sua realtà fisica, quindi favoriva il predominio di uno stile asiatico,
cerebrale, rigido e autoritario. Disco, film sonoro, radio e tv hanno consentito di fissare e far
22 Cfr. Catherine Salles, Les bas-fonds de l’antiquité, Robert Laffont, Paris 1982, ed. it. I bassifondi dell’antichità, Rizzoli, Milano 1983. Si
veda in proposito anche Marcello Piras, in Aa.Vv., Atti dei convegni “La musica di ricerca in Europa alle soglie degli anni Novanta”
(1989) e “New Music from Russia” (1990), Associazione “Hic et Nunc”, Noci 1992.
23 Cfr. Marcello Piras, San Coltrane salvaci tu, in Aa.Vv. (a cura di Roberto Valentino), Quaderni dello Spettacolo - Bergamo Jazz 1997,
Teatro Donizetti, Bergamo 1997 (in corso di stampa).
circolare più ampiamente tutti gli stili musicali. Pochi decenni, e il pianeta Terra — le cui
strade sono state divergenti per centomila anni — ha iniziato a riconfluire sotto il segno di un
ritmo regolare, pulsante, biologico. L’Africa ha ritrovato l’antica centralità. Gli stili asiatici
non sono scomparsi, ma sono marginalizzati, o talora (come nella world music) recuperati
entro una logica di incorporazione, contaminazione, fusion che non è loro, bensì è africana.
Ecco allora che il substrato comune riemerge, nella forma di quelle strutture ritmiche e
melodiche abbastanza elementari da poter essere il minimo comun denominatore di tutti i
sistemi di attese. La stessa industria dei media — struttura asiatica, accentratrice e autoritaria,
incline a manipolare le masse, a sfruttarne il consenso, governata da anglosassoni e
giapponesi che concentrano consenso e potere — paradossalmente non può che veicolare
senso musicale in prevalenza africano, e a mettere in crisi ovunque nel mondo la
sopravvivenza di strutture politiche autoritarie. Dappertutto, la libertà dell’individuo, fondata
sul possesso del proprio corpo, viaggia sulle onde sonore, come messaggio immateriale, che
non si può imprigionare. È un messaggio indebolito, edulcorato, massificato, ma ha un effetto
al di là della volontà dei singoli, i quali ne divengono meri tramiti vibranti, così come accade
in un rito di trance.
Di fronte a un processo storico così rapido, che appare invertire la freccia temporale verso
la molteplicità delle musiche in una freccia verso l’uniformità, non è possibile restare
indifferenti o fingersi neutrali. Il modello asiatico e quello africano non si equivalgono: il
primo esclude, il secondo include. Inoltre essi sono sottesi da due diverse visioni dell’uomo,
che non possono risultarci ugualmente accettabili.
Attenzione però: la scelta etica a favore del modello africano non implica demonizzare
l’asiatico, proprio perché il primo è inclusivo, non esclusivo. Esso quindi ci dice che le
conquiste di sapere asiatiche (musicali e non) vanno recuperate all’interno di un paradigma
più ampio e comprensivo, che le de-assolutizzi. Possiamo anche essere malinconici o asceti,
insomma; ma solo per un po’.
Infine, la riafricanizzazione globale costringe tutti ad applicare parametri di giudizio
pertinenti, e tanto diversi da quelli del passato quanto è diversa la musica stessa. Solo chi è
intriso di africanità sa infatti distinguere, in ambito rock, la pulsazione ritmica di Prince —
elastica, biologica, invitante, dionisiaca — da quella, solo in apparenza simile, di tanti
gruppuscoli punk anglosassoni: che invece esprimono un ritmo malato, rigido, isterico,
dogmatico, in cui appaiono, come rappresi, tutti gli orrori che millenni di invasioni dall’Asia
centrale hanno portato all’Europa e al mondo, dall’espansione indoeuropea dei cavalieri dei
kurgan fino alle purghe staliniane.
La riconfluenza dei codici si compie dunque sotto il segno della riemersione del “ritmo
del mondo” come indefettibile resistenza del corpo a ogni teoria che presuma di esaurirne la
conoscenza, di ingabbiarlo in uno schema ultimo, nella montaliana «parola che squadri da
ogni lato» la nostra complessità biologica. Oggi le vittime dell’imperialismo coloniale stanno
cominciando a vincere il loro vincitore. Non è un processo storico compiuto e acquisito, ma è
comunque in corso. Il cuore pulsante della musica dell’uomo torna a battere forte.

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