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per nubes

.1.
collana
per nubes
.1.

Comitato scientifico
Manuel Boschiero (Università degli Studi di Verona)
Gabriella Pelloni (Università degli Studi di Verona)
Marika Piva (Università degli Studi di Padova)
Marco Prandoni (Alma Mater Studiorum – Università di Bologna)
L’EST NELL’OVEST

a cura di
Manuel Boschiero e Gabriella Pelloni

I LIBRI DI
EMIL
Volume pubblicato con il contributo dell’Università
degli Studi di Verona – Dipartimento di Lingue e Letterature Straniere

Ogni saggio contenuto nel volume è stato sottoposto


a procedimento di blind peer review

Copyright © 2018
Casa editrice I libri di Emil di Odoya srl
isbn (pdf): 978-88-6680-266-2

Via Benedetto Marcello 7 – 40141 Bologna – www.ilibridiemil.it


Indice
Premessa
Manuel Boschiero, Gabriella Pelloni 7

«Nella sinagoga come nella steppa».


Migrazione fisica e quête identitaria nel romanzo Questi sono
i nomi di Tommy Wieringa
Marco Prandoni 13

“Odissea Europa”. Il dramma Perikizi di Emine Sevgi Özdamar


Gabriella Pelloni 39

Sogni di pietra e libri bruciati.


La decostruzione dell’identità azerbaigiana in Akram Aylisli
Daniele Artoni 57

Dalle miniere al palcoscenico con Mauro Pawlowski.


Polacchi migranti dal carbone all’arte
Sonia Salsi  79

La guerra de identidad nella poesia e nel linguaggio


di Déborah Vukušić
Marco Paone 95

La presenza rizomatica dell’est nel romanzo Sefarad


di Antonio Muñoz Molina
Paola Bellomi  111

Vite parallele e spazi eterotopici.


Cannibalismo e identità in Emmanuel Carrère e Andreï Makine
Francesca Dainese 129
La rappresentazione dell’Albania postcomunista
nell’opera dello scrittore Carmine Abate
Angelo Pagliardini 143

Autofinzione e rappresentazione della storia comunista


in scrittori migranti romeni dopo l’ʽ89
Alexandra Vranceanu 163

“Une jeunesse au Moyen-Orient”.


Lingue e identità a confronto nel graphic novel L’Arabe du futur
Giovanni Tallarico 177

Katja Petrowskaja tra Est e Ovest.


Note su una lettura mnemografica di Forse Esther
Chiara Conterno 195

Babij Jar e la memoria della Shoah in Forse Esther


di Katja Petrowskaja
Manuel Boschiero 215

Sotto la lente del postcolonialismo occidentale.


Il ruolo e la ricezione di Svetlana Aleksievič e Serhij Žadan
tra est ed ovest
Marco Puleri235

Visions of East and West in V. Martsinovich’s Mova


and A. Bakharevich’s Dzetsi Alindarki
Ivan Posokhin 257

Siberia, il paesaggio mitico nella letteratura finlandese


contemporanea
Sanna Maria Martin 281
La rappresentazione dell’Albania
postcomunista nell’opera
dello scrittore Carmine Abate
Angelo Pagliardini

Premessa

Nel presente contributo si mira, da un lato, a puntare i riflettori su


uno Stato dell’Europa comunista che ha avuto delle peculiarità storiche
e anche specifiche nell’attraversamento dell’era comunista e di quella
postcomunista, dall’altro ad analizzarne la rappresentazione in uno
scrittore italiano legato da una trama di relazioni molto complesse
all’Albania: Carmine Abate. L’autore appartiene a una delle comunità
italiane arbëreshe, cioè di quella minoranza linguistica e culturale che
discende dalla diaspora albanese del XV secolo sotto i colpi della pres-
sione turca, dopo la caduta di Costantinopoli/Bisanzio. Un ulteriore
elemento d’interesse è la relazione instauratasi fra Albania e Italia dopo
la caduta del muro: data la contiguità territoriale, un tratto di mare di
soli 100 km separa o, per meglio dire, unisce le coste albanesi a quelle
pugliesi, elemento che ha reso l’Italia terra di approdo per un contin-
gente notevole di profughi e migranti albanesi. La comunità albanese
è, dopo quella rumena, la seconda in Italia per consistenza numerica: al
censimento del 2011 erano presenti in Italia 482.627 albanesi, a fronte,
ad esempio, di 209.934 cinesi (Repubblica Popolare Cinese).1 Si pensi

1
  1° gennaio 2011. La popolazione straniera residente in Italia. Istat, 22 settembre 2011,
online sul sito www.istat.it [consultato il 23 febbraio 2017].
al valore di questi numeri per il paese di partenza, in proporzione alle
rispettive popolazioni.
Come vedremo, nell’opera di Carmine Abate l’identità culturale
europea è data dalla storia delle divisioni che hanno accompagnato
e paradossalmente continuano a caratterizzare la convivenza sociale
e culturale nel vecchio continente, dalle lotte fra cristianità e islam, in
particolare dal Quattrocento in poi con i Turchi Ottomani, fino alla
cortina di ferro, a proposito della quale vedremo come Abate interpre-
ta gli sviluppi successivi all’abbattimento di questa frontiera europea
interna.

1. Introduzione storico-culturale

1.1. Particolarità dell’Albania comunista e postcomunista

Il primo elemento da tenere in considerazione è il fatto che in realtà


l’Albania, pur appartenendo all’Europa comunista, fosse delimitata
non soltanto dalla cortina di ferro, che virtualmente correva sul filo
delle acque dell’Adriatico fra le coste albanesi e quelle italiane, ma, non
facendo più parte del Patto di Varsavia dal 1968, con un allineamento
alla politica cinese, seguita anch’essa da una rottura diplomatica, il suo
isolamento all’interno dell’Europa era pressoché assoluto. Si tratta di
un isolamento che ha orientato in senso fortemente nazionalistico la
letteratura albanese, alla ricerca di miti peculiari della cultura albanese,
fra cui quello della resistenza alle tre “Rome”, i tre imperi universali
che hanno allungato gli artigli sui Balcani, quello romano, quello turco
e quello sovietico.2
Il secondo elemento, legato al primo, è la longevità del regime co-
munista albanese, che di fatto resistette dopo l’89 ed ebbe termine

2
  Si fa riferimento a tale mito in un’opera di Kadaré del 1976. Cfr. Marco Costantino,
Il mito nazionale nella letteratura albanese da De Rada a Kadaré, in Europa Orientalis,
XIII, 1994, pp. 7-24.

144
solo nel 1992, con la fine del governo di Ramiz Alia, successore di
Enver Hoxha, il dittatore che aveva lasciato il governo nel 1983, dopo
39 anni alla guida del paese. Tuttavia non si trattò di una transizione
facile, dato che la crisi economica e sociale dei primi anni del postco-
munismo proseguì fino all’anarchia albanese del 1997. Fabio Bego, in
un acuto saggio del 2014, rilegge la crisi del 1997, in cui entrarono in
conflitto la parte settentrionale e quella meridionale del paese, con la
dicotomia fra due etnie albanesi, i gegё e i toskё, rispettivamente nel
nord e nel sud del paese. Secondo Bego, il grande errore del naziona-
lismo comunista albanese è stato quello di non valorizzare tale aspetto
multiculturale, cancellando forzatamente le peculiarità locali.3 Si trat-
tava di una politica culturale coerente con lo “splendido isolamento”
del regime comunista albanese, che puntava tutto sull’esaltazione del
nazionalismo e sulla costruzione di un’identità fondata sul comunismo
e sulla tradizione, definito da Stepan e Linz “regime sultanistico”.4

1.2. Italia e Albania moderna

A questo proposito sarà opportuno ricordare che la prima massiccia


ondata di migrazione postcomunista fra l’Europa dell’Est e l’Italia sarà
proprio quella degli albanesi, come rappresentato magistralmente nel
film Lamerica, di Gianni Amelio.5 Dopo le prime blande riforme libe-
rali, nel 1990 ci fu un massiccio assalto alle ambasciate straniere per
ottenere i visti per l’espatrio, mentre i governi della Comunità europea
facevano pressione su quello di Tirana per aprire le frontiere e lasciar
partire i profughi. In questo contesto iniziò il grande esodo verso l’Ita-
lia: il 7 marzo 1991 arrivarono in Italia 27.000 albanesi in fuga dal loro
paese, l’8 agosto dello stesso anno circa 20.000 albanesi sbarcarono a

3
  Fabio Bego, La storia dell’Albania dal 1997 e l’identità albanese del post-comunismo,
in StoricaMente. Laboratorio di storia, X, 2014, pp. 1-26.
4
  Juan J. Linz, Alfred Stepan, Transizione e consolidamento democratico, Il Mulino,
Bologna 2000, pp. 85-89.
5
  Gianni Amelio, Lamerica, Italia, 1994, 125 minuti.

145
Bari stipati sul mercantile Vlora. Fra questi due episodi si colloca un
mutamento polare dell’opinione pubblica e della politica italiane, in
quanto si passa dall’accoglienza di perseguitati rimasti per anni in un
regime carcerario finalmente liberi, alla reazione di fronte ad un pro-
blema di ordine pubblico, un mutamento per certi versi paradigmatico
del capovolgimento dell’immagine dell’est nell’ovest. I profughi della
Vlora, che pensavano di aver raggiunto la terra promessa, vennero
prima rinchiusi nello stadio Vittoria di Bari, senza acqua né cibo, in
condizioni al limite della sopravvivenza, quindi arrestati, identificati e
ricondotti a Tirana con un ponte aereo da varie città italiane.6 Di fronte
alla caduta del muro di Berlino, prima lungamente auspicata, si sono
registrate sulla stampa italiana reazioni molto discordi, che andavano
dalla registrazione di un passo in avanti straordinario verso una unifi-
cazione europea, fino ai timori per i nuovi equilibri e per il possibile
afflusso di massa di profughi dell’est.7
La prima scena del citato film di Gianni Amelio ci introduce ad un
altro elemento importante nella storia dei legami fra Albania e Italia,
ossia la parentesi coloniale a ridosso della seconda guerra mondiale,
rappresentato attraverso le immagini dei documentari di propaganda
fascista dell’Istituto Luce nelle scene iniziali del film. Si tratta certo di
un evento che ha avuto durata troppo breve per lasciare tracce che
possano avvicinarsi al discorso postcoloniale, in quanto l’occupazione
italiana dell’Albania è iniziata nel 1939 e si è conclusa nelle fasi tumul-
tuose della seconda guerra mondiale seguite all’armistizio dell’8 set-
tembre 1943. Tuttavia, il primo romanzo del poeta e scrittore albanese,
poi emigrato in Francia, Ismail Kadare, del 1963, Il generale dell’armata
morta, è dedicato alle tracce di questa breve colonizzazione fascista

6
  Valeria Pini, Vent’anni fa lo sbarco dei 27.000. Il primo grande esodo dall’Albania, in
La Repubblica, 6 marzo 2011, online sul sito www.repubblica.it [consultato il 26 aprile
2017].
7
  Franco Pittau, Antonio Ricci, Gli albanesi in Italia. Oltre vent’anni prima della
tranquillità, in Alberto Becherelli, Andrea Carteny (a cura di), L’Albania indipendente e
le relazioni italo-albanesi (1912-2012), Edizioni Nuova Cultura, Roma 2013, pp. 310-311.

146
dell’Albania.8 A questo momento storico si trovano riferimenti anche
nel romanzo di Carmine Abate da noi analizzato in questo contributo,
Il mosaico del tempo grande.9

1.3. Relazioni antiche fra Italia e Albania

Un elemento storico-culturale che rende peculiare il rapporto fra


l’Italia e l’Albania è costituito dall’esodo albanese avvenuto nel XV
secolo, a fronte del periodo di massima forza espansiva dell’Impero
ottomano, che avrebbe portato alla caduta di Costantinopoli e alla fine
dell’Impero romano d’Oriente nel 1453. In seguito all’avanzata otto-
mana, iniziata alla fine del XIV secolo, iniziò una migrazione di gruppi
di albanesi nell’Italia meridionale, che proseguì nel secolo successivo,
anche per gli stretti rapporti fra principi albanesi e re di Napoli. Nel
1416 Alfonso I d’Aragona chiamò in suo aiuto mercenari albanesi per
conbattere la congiura dei baroni che volevano spodestarlo. In seguito
a ciò il capitano di ventura albanese Demetrio Reres divenne governa-
tore della Calabria Inferiore. Nella seconda metà del secolo il principe
albanese Giorgio Castriota Scanderbeg guidò la resistenza albanese
contro i turchi e fu alleato di Ferdinando I di Aragona, re di Napoli.
Si intensificò in seguito il flusso di albanesi che fondavano villaggi nelle
regioni del Regno di Napoli dopo la morte di Scanderbeg, nel 1468, cui
seguì la totale sottomissione dell’Albania all’Impero ottomano, fino al
1912. Il risultato di queste migrazioni è la persistenza di circa cinquanta
comunità arbëreshe fra Puglia, Calabria e Sicilia, in una delle quali,
Carfizzi in provincia di Crotone, nasce lo scrittore Carmine Abate nel
1954.10

8
  Cfr. Costantino, Il mito nazionale nella letteratura albanese, cit., p. 19.
9
  Carmine Abate, Il mosaico del tempo grande, Mondadori, Milano 2007. Nel racconto
del viaggio di Antonio Damis nell’Albania comunista troviamo un reduce della seconda
guerra mondiale alla ricerca nostalgica dei luoghi in cui ha combattuto in gioventù (pp.
187-192).
10
  Per le informazioni storiche cfr. Peter Bartl, Albanien. Von Mittelalter bis zur

147
La lingua di queste comunità, conservatasi fino ai nostri giorni e
oggi riconosciuta come minoranza linguistica in Italia, l’arbëresh, è
una variante arcaica dell’albanese, che ha dato origine ad una cultura
basata soprattutto su forme orali di trasmissione, come leggende, miti e
canti popolari, anche se non sono mancati importanti figure di scrittori,
come il poeta Girolamo De Rada, nato a Macchia Albanese in provin-
cia di Cosenza nel 1814, considerato fra i fondatori della letteratura
albanese moderna.11

2. L’Albania nell’opera di Carmine Abate

2.1. Lo scrittore Carmine Abate e le identità per «addizione»

L’opera di Carmine Abate riflette il percorso di attraversamento di


culture diverse che caratterizza il suo profilo culturale e biografico. La
vicenda personale e letteraria dello scrittore si muove su quattro assi
migratori. Il primo è costituito dalla storia o meglio dal mito fondante
della comunità a cui Abate appartiene, quella degli arbëreshë, gli alba-
nesi arrivati in Italia e in particolare, nel caso degli antenati di Abate, in
Calabria, nel XV secolo, in seguito alla pressione dei Turchi. Per Abate
l’italiano è la lingua della scolarizzazione, non la lingua madre, o meglio,
come afferma lo scrittore stesso, «la lingua del pane», mentre l’arbëresh è
«la lingua del cuore».12 Il secondo asse migratorio è quello percorso dal
padre, e vissuto dal figlio come ritorno impossibile e sempre rimandato,
in quanto il padre è dovuto emigrare in Francia e poi in Germania, an-
dando a far parte di quella frazione della comunità di origine, chiamata
dai compaesani rimasti in Calabria «i germanesi», cioè gli emigrati in
Germania che non facevano più parte a tutti gli effetti della comunità

Gegenwart, Verlag Friedrich Pustet, Regensburg 1995.


11
  Cfr. Costantino, Il mito nazionale nella letteratura albanese, cit., pp. 8-9.
12
  Queste definizioni sono riportate nella monografia di Martine Bovo Romeuf, L’epopea
di Hora. La scrittura migrante di Carmine Abate, Franco Cesati, Firenze 2008, pp. 39-40.

148
stessa.13 Il terzo asse è costituito dall’esperienza personale di emigrazione
dello stesso Abate, partito dopo la laurea per trovare lavoro in Germania,
come Giovanni Alessi, protagonista del romanzo La moto di Scanderbeg.14
Dopo la laurea in lingue straniere, che aveva conseguito realizzando il
sogno del padre di avere un figlio laureato, Abate non trova lavoro nella
sua regione e si deve trasferire, prima per attività stagionali, quindi in
maniera più stabile, in Germania, come racconta lui stesso.15 Completa
il profilo migrante dello scrittore un quarto asse, che risulta significativo
nella cultura e nella letteratura italiana, quello dell’emigrazione italiana
interna, con direzione Sud-Nord, in quanto lo scrittore, rientrato in Ita-
lia, ha avuto la necessità di emigrare nell’Italia Settentrionale per poter
trovare lavoro come insegnante, lasciando la Calabria per approdare a
Besenello, vicino a Trento, dove si è stabilito definitivamente.16
La sommatoria di questi processi migratori in cui si è trovato coin-
volto hanno portato lo scrittore a mettere nero su bianco, nelle proprie
opere, il risultato positivo di tutti questi attraversamenti di frontiere e
culture. La rappresentazione letteraria di questo processo può essere
definita «poetica dell’addizione», utilizzando un termine coniato dallo
scrittore e inserito nel titolo di una già citata raccolta di prose autobio-
grafiche saggistiche e narrative uscita nel 2010: Vivere per addizione e
altri viaggi. Con questa poetica lo scrittore indende rovesciare il deficit
del migrante che lascia e abbandona, con sottrazione d’identità, il pro-
prio spazio di origine, per sottolineare invece i successivi arricchimenti
che l’attraversamento di frontiere offre:

M’illuminai. Se per i tedeschi continuavo a essere uno straniero; per gli


altri stranieri, un italiano; per gli italiani, un meridionale o terrone; per
i meridionali, un calabrese; per i calabresi, un albanese o «ghiegghiu»,
come loro chiamano gli arbëreshë; per gli arbëreshë, un germanese o
un trentino; per i germanesi o i trentini, uno sradicato, io per me ero

13
  Ivi, p. 72.
14
  Carmine Abate, La moto di Scanderbeg, Fazi Editore, Roma 2001.
15
 Id., Vivere per addizione e altri viaggi, Mondadori, Milano 2010, pp. 39-40.
16
  Ivi, pp. 43-54.

149
semplicemente io, una sintesi di tutte quelle definizioni, una persona che
viveva in più culture e con più lingue, per nulla sradicato, anzi con più
radici, anche se le più giovani non erano ancora affondate nel terreno
ma volanti nell’aria.17

Possiamo definire la posizione di Abate transculturale, in quanto


la multiculturalità costruisce un sistema in cui le singole culture sono
compresenti e si pongono come elementi separati e coesistenti, mentre
la transculturalità pone l’accento sugli intrecci e le ibridazioni tra le
diverse culture a contatto, un sistema di sistemi aperti e transnazionali.
Secondo Kien Nghi Ha questa transculturalità, al micro-livello delle
singole comunità o gruppi che formano una società, si manifesta con
individui che, come Carmine Abate, in virtù di diverse origini culturali
assumono delle patchwork identities.18
Come possiamo vedere fra le identità culturali cui fa riferimento
Abate manca quella albanese, in quanto la storia della cultura arbëreshe
corre parallela alla storia albanese della seconda metà del Novecento:
per la dittatura comunista, non è stata possibile la tessitura di rapporti
regolari fra queste comunità e l’Albania. Allo stesso modo Carmine
Abate ha avuto contatti del tutto sporadici con l’Albania, tuttavia lo
scrittore non ha mancato di inserire nei suoi romanzi dei riferimenti
precisi all’Albania moderna, sia comunista che postcomunista, come
vedremo nel prossimo paragrafo.

2.2. Carmine Abate e l’Albania postcomunista

Pur essendo presenti tracce delle proprie identità migranti in quasi


tutte le opere di Abate, possiamo affermare che nel romanzo Il mosaico
del tempo grande, uscito nel 2006, lo scrittore intende fornire la rappre-

  Ivi, p. 144.
17

  Per questi concetti facciamo riferimento a Kien Nghi Ha, Hype um Hybridität.
18

Kultureller Differenzkonsum und postmoderne Verwertungstechniken im Spätkapitalismus,


Transkript, Bielefeld 2005.

150
sentazione letteraria della propria identità multipla, come affermato da
lui stesso in occasione della presentazione del libro a Carfizzi:

La parola mosaico – ha spiegato infatti – è la caratteristica fondamentale


della mia vita, della mia cultura, della mia scrittura… Identità che è fatta
di tante tessere, di tanti pezzi che vengono a volte da lontano, altre da
vicino e da cui nasce il quadro.19

Nel romanzo la narrazione è affidata, con modalità differenti, a due


personaggi, che costituiscono anche due alter ego dell’autore: il narrato-
re in prima persona, Michele, giovane neo-laureato che sta preparando
la sua festa di laurea, consapevole che comunque il suo sarà un titolo
di studio che non gli impedirà l’emigrazione dal paese natale, e Ardian
Damisa, detto Gojàri, il mosaicista che sta realizzando un grande mo-
saico con la storia di Hora, dalla fondazione nel Quattrocento da parte
dei profughi albanesi alle vicende contemporanee. Gojàri tesse le sue
narrazioni mediante due canali, quello visuale costituito dal mosaico
che sta realizzando, e quello verbale, in quanto racconta e commenta
le vicende rappresentate, parlandone a Michele e ai suoi amici. Questo
personaggio è ispirato al mosaicista albanese Josif Droboniku, nato a
in Albania a Fier nel 1952, emigrato nel 1991 e rifugiatosi a Lungro,
località arbëreshe della Calabria, divenuto membro della comunità lo-
cale e, come Gojàri, passato dal realismo socialista all’arte ecclesiastica
bizantina. L’artista era stato uno dei realizzatori del grande mosaico che
campeggia sulla facciata del Museo Nazionale di Tirana, inaugurato il
28 ottobre 1981 in pieno regime comunista.20 Nel romanzo di Abate il
personaggio Gojàri così ricorda quell’episodio:

19
  Le parole dello scrittore vengono riferite in un articolo di Pino Pantisano, Abate e
l’intrigante «Mosaico» di personaggi, in Il Crotonese, 7 marzo 2006.
20
  Troviamo una biografia molto dettagliata dell’artista sul sito del Museo Missionario
Cinese di Sava, in provincia di Taranto (www.museomissionariocinese.org; [consultato
il 13 febbraio 2017]).

151
Ci ha raccontato invece un suo ricordo di gioventù, di quando aveva
visto per la prima volta esibirsi il gruppo Shkendija: all’inaugurazio-
ne dell’immenso mosaico che campeggia sopra la facciata del Museo
Nazionale di Tirana, e che pure lui aveva cotribuito a realizzare. Quel
giorno, dall’elegante e sorridente compagno Enver Hoxha, il dittatore,
aveva ricevuto un bel diploma di merito con cui molti anni dopo, scap-
pando dall’Albania, si sarebbe pulito il culo, ha detto Gojari diventando
irruente e un po’ inquieto, come se fosse sul punto di perdersi nel fitto
intricato del bosco che lui stesso stava creando.21

Il termine «tempo grande», ripetuto più volte da Gojàri e da altri


personaggi, è un calco dell’espressione arberësh «moti i madh», con
cui si designa l’epoca di Scanderbeg e della diaspora dall’Albania, il
mito costitutivo della cultura arberëshe, mentre il mosaico di Gojàri è
la rappresentazione plastica dell’identità dello scrittore Carmine Abate.
Nei suoi romanzi, il paese di origine, Carfizzi, viene trasfigurato con il
nome Hora, che in arbëresh significa genericamente «in paese», il che
accade anche in questo romanzo, in cui si narra la fondazione (mitica)
della piccola comunità, la venuta dei profughi che sono scappati dalla
vecchia Hora, in Albania, per fondare la colonia omonima in Calabria
dopo la morte di Scanderbeg. In tutto il romanzo troviamo un anelito
al ritorno nella patria perduta, che attraversa più generazioni, a partire
dal primo viaggio verso l’Albania, quello intrapreso dal figlio del primo
papas (parroco di rito greco ortodosso) della comunità, Jani Tista Damis,
che riparte con Liveta, compagno di lotta di Scanderbeg, custode di un
prezioso pugnale d’oro ricevuto dal principe come ricompensa per aver-
gli salvato la vita, che sarà al centro del giallo raccontato nel romanzo.22
Il ritorno nell’Albania ottomana del Cinquecento, effettuato per ri-
trovare la prima Hora e per unirsi ad una nuova rivolta contro i turchi,

21
 Abate, Il mosaico del tempo grande, cit., p. 18.
22
  Sugli aspetti problematici del ritorno del migrante mi permetto di fare riferimento al mio
contributo: Angelo Pagliardini, La tematica del ritorno del migrante in Abate, Pascoli, Pavese,
Consolo, in Alexandra Vranceanu, Id. (a cura di), Migrazione e patologie dell’humanitas nella
letteratura europea contemporanea, Peter Lang, Frankfurt a. M. 2012, pp. 83-100.

152
si conclude con il massacro dei due viaggiatori, quindi testimonia l’or-
rore e la separazione violenta dell’Albania dall’Europa in questa fase
della storia europea, caratterizzata dalla frontiera orientale dell’Europa
con l’Impero ottomano, su cui vengono narrate storie di tradimenti e di
albanesi cristiani convertiti che hanno fatto guerra al proprio popolo,
mentre su tutto campeggia l’orrore del supplizio di Jani Tista:

A Jani Tista Damis, invece, tocca la stessa fine di Crocondila Cladas,


la vendetta riservata ai nemici peggiori: viene scorticato i gjallë i gjallë,
vivo vivo. Gli occhi spalancati a guardare con nostalgia la sua gente,
la vita. L’urlo è di sofferenza e rabbia, uno strazio che inonda i valloni
circostanti.23

Due fattori istituiscono una continuità formale della rete di vicende


trattate nel romanzo, che si estende su un arco di cinque secoli: il mo-
saico che sta realizzando il narratore Gojàri, il cui soprannome viene
anche tradotto in italiano con Boccadoro, alludendo alle sue facoltà
di narratore epico popolare, e la famiglia Damis, cui appartengono
molti personaggi del romanzo, fra cui il primo papas di Hora, la guida
spirituale dei primi profughi, e Antonio Damis, il protagonista delle
ultime vicende, che effettuerà due viaggi in Albania e che introdurrà
nel romanzo le vicende dell’Albania comunista e postcomunista.
Inoltre, un elemento strutturale lega i personaggi arbëreshë all’Alba-
nia, ossia l’intreccio diegetico/intradiegetico che caratterizza le vicende
di Gojàri. Non solo le scene rappresentate nel suo mosaico/poema
epico si estendono da Hora in Calabria a Hora in Albania, ma anche
l’artista stesso simboleggia in sé questo intreccio: profugo albanese
proveniente dalla vecchia Hora, e scappato dal proprio paese durante
i disordini del 1991, Gojàri era stato accompagnato da Antonio Damis
nella nuova Hora durante la prima grande diaspora albanese postco-
munista, attraversando così un apprendistato linguistico e culturale che

23
 Abate, Il mosaico del tempo grande, cit., p. 120.

153
lo aveva portato a re-integrare la doppia identità arbëreshe-albanese.
Come racconta il narratore Michele:

Avrà avuto circa cinquant’anni. Veniva dall’Albania ma ora parlava


l’arbëresh e l’italiano meglio di noi. Le parole gli sgorgavano come il
canto di un uccello al mattino, necessarie e melodiose, quasi senza pau-
se. Si fermava solo quando aveva esaurito il fiato, alla fine della storia.
Anche quella sera ha seguito il suo rituale.24

Anche dopo il passaggio dal regime comunista al periodo postco-


munista, il profugo ha tagliato definitivamente i ponti con il proprio
paese, ed esprime il rovesciamento totale dell’ordine dei valori che
aveva promosso il regime con il trauma dell’esule diviso dalla propria
la terra di origine, come mostra l’immagine del padre, rimasto solo nel
villaggio natale:

Gojari raccontava del vecchio padre che abitava da solo a Fshatirì: aveva
ottantadue anni, il padre, ma ancora lavorava in campagna e aveva una
memoria formidabile. Purtroppo non si vedevano da un anno e mezzo,
e questo era il cruccio di Gojàri, il vero dolore della sua lontananza: che
il padre potesse avere bisogno di lui o morisse senza averlo accanto.25

La vicenda centrale nella rappresentazione dell’Albania postcomu-


nista è la storia d’amore fra Antonio Damis, arbëresh e appartenente
alla famiglia del primo papas di Hora, e l’albanese Drita (antroponimo
che significa «luce» nella sua lingua), ballerina del gruppo albanese di
danza Shkendija. La loro fuga dall’Albania comunista, con il conse-
guente matrimonio fra un arbëresh e un’albanese, hanno certo un valore
simbolico per quanto riguarda la ricerca di una ricomposizione della
frattura culturale fra albanesi e albanesi della diaspora antica. Inoltre
Abate introduce il tema rievocando le esperienze delle associazioni
culturali marxiste che, finanziate abbondantemente da Mosca e dagli

  Ivi, pp. 17-18.


24

  Ivi, p. 144.
25

154
altri governi dell’Europa orientale comunista, organizzavano viaggi di
propaganda marxista in Albania negli anni Ottanta.26 Antonio Damis
decide quindi di ritornare dopo quasi cinque secoli in Albania alla
ricerca della vecchia Hora, ma soprattutto alla ricerca di Drita, cono-
sciuta in una tournée del suo gruppo di ballo in Calabria. Arrivati a
Durazzo, i turisti italiani vengono accolti in un albergo di lusso con
spiaggia privata, da cui vedono gli albanesi, separati da loro con reti di
recinzione, che si godono le vacanze a spese del partito, avvicendandosi
ogni settimana. Ma il racconto ufficiale non convince Antonio che,
notando come siano state selezionate solo persone con corpo atletico
e senza nessun problema fisico, capisce che si tratta di comparse ingag-
giate per dare un’immagine ideale dell’Albania agli stranieri. Questa
costruzione di una falsa immagine si conferma nella visita alla città di
Durazzo, sempre in gruppo e accompagnati dalle guide del partito,
senza alcuna possibilità di fotografare liberamente gli albanesi, sotto
lo stretto controlla della guida comunista albanese, Albert:

Ancor più deluso fu il giorno dopo, quando andò con il gruppo a visi-
tare la città di Durazzo, e provò a fotografare due bambini dagli occhi
grandi e neri, il moccio al naso, in canottiera bianca e pantaloncini,
scalzi, somiglianti a lui quand’era bambino. Albert, il buon Albert, gli
abbassò con un gesto di stizza la macchina fotografica. «Eh, no, no,
fotografate monumenti, quello là, fotografate» e mostrò una bruttissi-
ma statua con la testa cacata dagli uccelli, «o quella là» e mostrò una
bellissima chiesa con l’insegna di un ristorante sul portone.27

Questo episodio consiste in un inserto autobiografico, in quanto


anche Carmine Abate ha effettuato un viaggio in Albania negli anni

26
  Si trovano informazioni su queste iniziative nella tesi di dottorato di Nysjola Dhoga,
politologa dell’Università di Tirana, che analizza la formazione dell’Associazione di
amicizia Italia-Albania, sorta nel 1952 per iniziativa del Partito comunista italiano (cfr.
Nysjola Dhoga, L’Italia nella politica estera dell’Albania (1957-1985), La Sapienza, Roma
s.d., pp. 158-161, disponibile online sul sito http://padis.uniroma1.it [consultato il 15
febbraio 2017]).
27
 Abate, Il mosaico del tempo grande, cit., p. 88.

155
Ottanta seguendo un programma simile a quello descritto nel romanzo,
come ha raccontato in un’intervista rilasciata a Lisa Puzella nel 2015, in
cui descrive il forte richiamo che lo ha spinto a «tornare» nella patria
lontana negli anni Ottanta, e racconta tuttavia di aver provato tutta la
delusione nel trovare, invece del paese degli avi, una prigione senza
scampo per i suoi abitanti:

[…] volevo tornare nella terra che avevo sognato e sono rimasto delu-
sissimo, ho trovato una terra oppressa da una cappa grigia e soffocante,
e poi noi turisti eravamo tenuti rigorosamente separati dagli albanesi,
non potevamo nemmeno parlarci, né fotografarli.28

La situazione drammatica dell’Albania postcomunista irrompe nel


romanzo con i riferimenti alla storia della famiglia di Drita, e in partico-
lare del fratello Arben, che aveva tentato di scappare durante i disordini
del 1991 con la moglie e il figlio Zef. Le immagini si inscrivono tutte
nel segno del trauma, della lacerazione, della ferita da rimarginare,
in quanto il primo episodio che viene raccontato è il naufragio di un
gommone su cui viaggiavano i tre, e di cui si è salvato solo il bambino.
Michele, il narratore intradiegetico, e Laura, figlia di Antonio Damis e
Drita, sono in spiaggia, e il giovane, che sta corteggiando Laura, non
capisce perché il bambino stia a giocare lontano dal mare sulla spiaggia
in una calda giornata d’agosto, senza fare il bagno, e così decide di farlo
divertire buttandolo a forza in acqua:

Zef non ha capito subito quali fossero le mie intenzioni; quando ha visto
la riva sotto gli occhi ha cominciato a scalciare e, appena gli sono arriva-
te sulle labbra le prime gocce d’acqua salata, dal suo piccolo petto si è
liberato l’urlo più isterico e doloroso del mondo, un urlo interminabile
che ha fatto girare verso di noi tutti i bagnanti.29

28
  L’intervista è pubblicata in Lisa Puzella, Intervista a Carmine Abate, in Mangialibri
2015, online sul sito www.mangialibri.com [consultato il 4 ottobre 2016].
29
 Abate, Il mosaico del tempo grande, cit., p. 188.

156
Come raccontato in seguito da Laura, cugina di Zef, il bambino era
scampato due anni prima al naufragio del gommone, in cui erano morti
entrambi suoi i genitori, che non sapevano nuotare. Erano partiti dal
porto di Valona con uno scafista che trasportava, oltre ogni capienza
del mezzo, albanesi, curdi e kossovari in fuga, e che era naufraga-
to nel disperato tentativo di sfuggire alla polizia italiana, essendoci a
bordo anche un carico di droga. La rappresentazione più completa
dell’Albania postcomunista è affidata a un capitolo successivo, in cui
si raccontano gli antefatti di questa vicenda, cioè il crollo del regime
comunista e gli esodi di massa del 1990 di cui abbiamo parlato all’inizio
del presente contributo.
Nel capitolo del romanzo intitolato La fuga,30 Carmine Abate passa in
rassegna i fatti del 1990-91, con il progressivo dissolvimento delle strut-
ture istituzionali e sociali dell’Albania, rappresentata con una metafo-
ra sintetica: «La fuga era nell’aria, inevitabile come l’acqua impazzita
dopo il crollo di una diga».31 Nel romanzo troviamo le vicende di due
fughe dall’Albania verso l’Italia, quella di Gojàri e quella di Arben, il
fratello di Drita. Gojàri, dopo aver passato qualche settimana nell’am-
basciata italiana, accetta di uscire con la promessa di salire su una nave
italiana, la Appia Venezia,32 compiendo il passo fatale dell’esilio:

La grande nave su cui era salito Gojàri lasciò il porto alle prime luci
dell’alba, si chiamava Appia Venezia e per molti profughi divenne il
sinonimo della libertà. Gojàri ha detto che all’improvviso si era sentito
vuoto, come se non avesse una mente, un cuore, degli organi dentro il
corpo. Non aveva più né fame né sete, ora che sulla nave gli offrivano
da bere e da mangiare. Si specchiava negli occhi degli altri profughi e

30
  Ivi, pp. 188-256.
31
  Ivi, p. 207.
32
  A conferma della fitta e variegata composizione autofinzionale con elementi
parzialmente documentari presente nel romanzo, è esistita una nave Appia, registrata
a Venezia, che dopo un servizio di linea fra Brindisi e la Grecia è stata impegnata dal
1983 nel trasporto dei profughi fra Beirut e Larnaca per conto del Ministero degli Esteri
Italiano, e quindi fino al 1991 sulla linee fra Ancona e la (ex-)Jugoslavia (cfr. il sito www.
adriaticandaegeanferries.it [consultato il 13 aprile 2017]).

157
non si riconosceva, erano fantasmi, sporchi, trasparenti, con le facce
scavate, nere di barba, cotte dal sole.33

In questo passaggio si descrive, mediante sintomi fisici, il processo


di perdita d’identità del migrante: la rappresentazione dell’Albania
postcomunista è basata per Carmine Abate principalmente su elementi
di assenza e di negazione, come un organismo patologico in dissolvi-
mento. La prima grande ondata di profughi dall’Europa ex comunista
era stata accolta con grande empatia dall’opinione pubblica italiana,
come registra anche Abate in questo romanzo:

Ci fu una grande solidarietà internazionale. Antonio Damis ha detto


che oltre 3500 albanesi, arrivati in Italia, erano stati trasferiti in altri
paesi europei. Ottocento erano rimasti al campo profughi di Restinco,
a pochi chilometri da Brindisi.34

Questo particolare momento della storia culturale albanese viene


vissuto con una valenza bipolare da parte di Abate, in quanto la tra-
gedia della dittatura da un lato si dissolve lentamente in catastrofe,
come abbiamo evidenziato all’inizio di questo contributo, dall’altro
costituisce il primo momento storico in cui le due Albanie, l’Alba-
nia minore in Italia e l’Albania maggiore, hanno la possibilità di un
ricongiungimento. Si tratta di una svolta della storia della cultura al-
banese/arbëreshe che non può non rivestire un particolare interesse
per Abate: nella citata intervista a Lisa Puzella arriva a dichiarare che
aveva progettato di scrivere un libro incentrato proprio sulla caduta
del comunismo e sull’esodo dall’Albania all’Italia, e lo avrebbe fatto se
non fosse uscito il film di Gianni Amelio Lamerica, che secondo Abate
costituisce «un’opera perfetta» sull’argomento.35 Possiamo affermare

33
 Abate, Il mosaico del tempo grande, cit., p. 210.
34
  Ivi, p. 210.
35
  Si tratta del film di Gianni Amelio, Lamerica; a proposito del forte impatto della
migrazione albanese sull’opinione pubblica e sulla scena culturale italiana, possiamo
ricordare che nel 2002 il giornalista e saggista Gian Antonio Stella sceglie il titolo L’orda.

158
che il nocciolo di questo libro non scritto è confluito nel capitolo che
stiamo analizzando.
A questo punto abbiamo però un mutamento profondo nella visio-
ne dell’altro che caratterizza il nuovo atteggiamento degli italiani, e
anche degli altri europei occidentali, nei confronti degli albanesi. Si
tratta della seconda grande ondata di profughi di cui abbiamo parlato
nell’introduzione, con l’arrivo della nave Vlora, che imbarcava secondo
le fonti giornalistiche oltre ventimila profughi:

La foto della nave brulicante come un alveare di api fece il giro del mon-
do. I nuovi profughi furono rifiutati e, siccome non volevano andarsene,
scoppiarono dei tafferugli e gli albanesi furono rinchiusi nello Stadio
Della Vittoria a Bari. All’improvviso, il governo cominciò ad applicare
la legge alla lettera, gli italiani non erano più solidali, avevano paura di
essere invasi da una massa di profughi con la fama di violenti attaccabri-
ghe, pigri vagabondi senza voglia di lavorare. Nello stadio era rinchiuso
anche il fratello di Drita, che patì la sete sotto il sole cocente, vide con
i suoi occhi il pane cadere dal cielo, buttato dagli elicotteri come a cani
feroci, e si sentì umiliato nel profondo. Poi, il 17 agosto, fu rispedito
a casa sua in aereo con tutti quelli che non erano riusciti a fuggire.36

In questo brano possiamo individuare le tre linee che caratterizzano


la visione della rappresentazione dell’Albania postcomunista nell’opi-
nione pubblica italiana:
• il rovesciamento della solidarietà in avversione (insulti stereo-
tipici introdotti in rapida sequenza asindetica, reclusione nello
stadio, rimpatrio coatto, rappresentazione con tratti animaleschi
dei profughi);
• il tradimento della fiducia generata dai precedenti messaggi di

Quando gli albanesi eravamo noi per un volume in cui denuncia il razzismo manifestato
dagli italiani verso gli immigrati arrivati in Italia, ricordando le pagine drammatiche
dell’emigrazione italiana nel continente americano e in Europa (Gian Antonio Stella,
L’orda. Quando gli albanesi eravamo noi, Rizzoli, Milano 2002).
36
 Abate, Il mosaico del tempo grande, cit., p. 213.

159
solidarietà (Arben si sente umiliato, il pane che cade dal cielo
è metafora biblica, qui rovesciata in immagine diabolica e ani-
malesca, enfatizzazione dell’alterità nella formula «casa sua»);
• l’ingiustizia profonda di questo trattamento, denunciato da Aba-
te indirettamente, in quanto, a causa di questo primo respin-
gimento, Arben e la moglie sarebbero annegati nel successivo
tentativo di lasciare l’Albania.

Siamo di fronte ai tratti essenziali che caratterizzano l’immagine


italiana dell’Albania postcomunista nell’opera di Carmine Abate, in
riferimento ai primi anni seguiti alla caduta del regime comunista e
all’apertura delle frontiere.
Pare opportuno, a questo punto, un breve confronto con l’opera di
Ornela Vorpsi, scrittrice albanese nata a Tirana nel 1968 ed emigrata
nel 1991 in Italia, dove continua gli studi artistici all’Accademia di
Brera per poi, nel 1998, stabilirsi a Parigi, dove vive tutt’ora.37 Nel suo
primo romanzo Il paese dove non si muore mai, il tema centrale è la
violenza contro le donne nella società maschilista dell’Albania comuni-
sta. Siamo di fronte alla prima rielaborazione letteraria delle esperienze
nel paese in cui è cresciuta, un libro pubblicato a quasi quindici anni
di distanza dalla partenza. Nel capitolo Acque, ad esempio, si narra la
vicenda delle donne rimaste incinte ed abbandonate dai futuri padri,
che non solo non sono sostenute, ma vengono anche disprezzate dalla
società, per cui scelgono di andare a suicidarsi annegandosi in un lago
nei pressi di Tirana.38 Il libro è strutturato in capitoli, in cui prendono
la voce diversi io narranti, tutti personaggi femminili di età differenti,
fino all’ultima, una ventiduenne, l’età che aveva l’autrice alla sua par-
tenza dall’Albania. Il capitolo finale, dal titolo Terra promessa, ha per

37
  Le informazioni bibliografiche sono state ricavate dal sito della casa editrice Einaudi
(www.einaudi.it [consultato il 23 febbraio 2017]). Possiamo osservare per inciso in
questa sede la scelta particolare fatta da Vorpsi per quanto riguarda la lingua di scrittura,
in quanto la scrittrice albanese, pur vivendo in Francia, sceglie di scrivere in italiano.
38
  Ornela Vorpsi, Il paese dove non si muore mai, Einaudi, Torino 2005, p. 59.

160
protagonista Eva, che fugge dall’Albania con la madre per approdare
in Italia, dove spera di trovare accoglienza e giustizia. L’incontro con
gli italiani riflette lo stesso tipo di rovesciamento della solidarietà e
la stessa frustrazione per le aspettative che gli albanesi avevano nei
confronti dell’Italia, vista come terra della libertà e della giustizia. Ap-
pena sbarcate, la prima domanda che viene posta alla protagonista è:
«A quanto scopi?».39 L’epilogo è particolarmente incisivo in quanto
la prostituzione era stata analizzata come uno dei procedimenti per
attuare il consenso e il controllo da parte del partito comunista. Nel
capitolo Bel-Ami si narrava infatti la vicenda di una madre e di una fi-
glia costrette a prostituirsi per sopravvivere, quindi emarginate da tutta
la società che costituiva in blocco una specie di «occhio» del partito di
governo, e infine rinchiuse in un campo di rieducazione da cui riesco-
no a evadere solo tramite il suicidio. Come Abate, la Vorpsi denuncia
la visione occidentale dell’Albania postcomunista, in particolare delle
albanesi, come un tradimento, in quanto quella che si era presentata
come una sorta di terra promessa non aveva mantenuto la promessa.40

Conclusioni

Carmine Abate ha inserito la sua rappresentazione dell’Albania post-


comunista in un romanzo che da un lato ricostruisce la storia culturale
arbëreshe, dall’altra prende avvio da un nucleo di anamnesi culturale
per disegnare un’idea personale di cultura europea. Nel mosaico di
Abate/Gojàri, sulla trama plurisecolare della famiglia Damis e degli
arbëreshë di Hora, si trova in nuce la storia e la formazione dell’Europa.
Il conflitto fra Scanderbeg e i Turchi mostra la linea di sutura fra Oc-
cidente e Oriente, fra cristianità e islam, su cui si è definita la frontiera
europea, ma su cui si sono anche definiti i termini dell’identità europea,
almeno dal Medioevo al Settecento, una linea che sta diventando per

39
  Ivi, p. 110.
40
  Ivi, pp. 206-210.

161
certi versi di nuovo drammaticamente attuale. A questo conflitto suc-
cede nella seconda metà del Novecento un’altra linea di sutura sulla
quale si è giocata la costruzione dell’identità europea, una linea che
è oggetto centrale del presente volume, la quarantennale cortina di
ferro fra Europa occidentale ed Europa comunista, con le particolarità
dell’Albania, non inclusa nemmeno nello spazio dell’Europa orientale.
Si evidenzia così una significativa analogia fra l’imperialismo ottomano
e il comunismo sovietico, due imperi che non hanno avuto una penetra-
zione culturale pervasiva, come è stato invece il caso dell’Impero roma-
no. In questa plurisecolare storia della divisione europea, piuttosto che
della sua unione, si inseriscono le vicende degli scrittori migranti, che
hanno giocato un ruolo fondamentale come motori della circolazione
e dell’integrazione culturale: nel caso di Abate, la comunità arbëreshe
dalla vicenda della migrazione antica ricava la sua stessa ragione di
esistere, in particolare facendo riferimento alla misura epica del «tempo
grande»; nel caso di Vorpsi l’esperienza del comunismo rimane centra-
le nell’opera anche a decenni di distanza dalla fine del regime e della
fuga, ma è l’attraversamento di più culture a formare veramente la sua
identità letteraria, in quanto scrive in una lingua «altra», l’italiano, che
pone la sua scrittura in uno spazio «terzo».41
Su queste premesse si colloca per Abate la visione dell’est nell’ovest
dopo la fine del comunismo reale in Europa. La grande occasione, co-
stituita dalla caduta del regime comunista albanese e degli altri regimi
comunisti, in seguito all’inarrestabile effetto domino partito nel 1989
con il crollo del Muro di Berlino, non è stata colta dagli occidentali,
che hanno prima combattuto il muro e lanciato proclami di solidarietà,
quindi negato, o meglio rimosso la sua caduta lasciando in piedi bar-
riere invisibili ma tangibili, di natura culturale, sociale ed economica,
fra le due Europe, con un equivoco che costituisce fino ad oggi uno dei
massimi problemi da risolvere per una definizione totalmente inclusiva
dell’identità europea.

  Per la coniazione del concetto di third space si veda Homi K. Bhabha, The location of
41

culture, Routledge, New York 1994.

162

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