Sei sulla pagina 1di 17

CIVILTÀ ITALIANA

Collana diretta da Peter Kuon

Terza serie
3

ASSOCIAZIONE INTERNAZIONALE PROFESSORI D’ITALIANO


SPAZIO DOMESTICO E SPAZIO QUOTIDIANO
NELLA LETTERATURA E NEL CINEMA
DALL’OTTOCENTO A OGGI

A cura di
Kathrin Ackermann
e Susanne Winter

Franco Cesati Editore


“Civiltà Italiana” è la collana dell’A.I.P.I. – Associazione Internazionale Professori d’Italiano. I
contributi vengono selezionati mediante revisione paritaria da parte di almeno un lettore esterno e
almeno un membro del comitato scientifico.

“Civiltà Italiana” is the peer-reviewed series of A.I.P.I. – Associazione Internazionale Professori


d’Italiano. Each paper submitted for publication is judged independently by at least one external
reviewer and at least one member of the Editorial Board of the Series.

Comitato scientifico

Michel Bastiaensen (Bruxelles)


Alberto Bianchi (Wheaton College)
Pietro De Marchi (Zurigo)
Franco Musarra (Lovanio)
Dagmar Reichardt (Groninga)
Daragh O’ Connell (Cork)
Corinna Salvadori Lonergan (Dublino)
Roman Sosnowski (Cracovia)
Leonarda Trapassi (Siviglia)
Bart Van den Bossche (Lovanio)
Ineke Vedder (Amsterdam)

Volume pubblicato con il contributo del programma Arts & Humanities del Polo universitario
Wissenschaft & Kunst dell’Università Paris Lodron di Salisburgo e della Stiftungs-und Förde-
rungsgesellschaft der Paris-Lodron-Universität Salzburg.

Il presente volume contiene una selezione (avvenuta tramite revisione paritaria) di contributi ba-
sati sulle relazioni presentate nella sessione “Lo spazio domestico tra letteratura e arte” del XX
Congresso A.I.P.I. “L’Italia e le arti. Lingua e letteratura a dialogo con arte, musica e spettacolo”
(Salisburgo 5 - 8 settembre 2012).

ISBN 978-88-7667-490-7

© 2014 proprietà letteraria riservata


Franco Cesati Editore
via Guasti, 2 - 50134 Firenze

In copertina: Edward Hopper, Room in Brooklyn (1932), Boston, Museum of Fine Arts.

Cover design: ufficio grafico Franco Cesati Editore.

www.francocesatieditore.com – e-mail: info@francocesatieditore.com


INDICE

Introduzione, di Kathrin Ackermann & Susanne Winter pag. 9

Verga e «quelli della casa del nespolo». Analisi dei Malavoglia tra
affetti e realtà sociale, di Francesca Strazzi » 19

Spazi vulnerabili nei romanzi di Neera e Marchesa Colombi, di Ni-


kica Mihaljeviý » 29

La casa antonelliana: punto di incontro tra due mondi, di Antonela Pivac » 39

Modernizzazione e addomesticamento: la ricostruzione e il nuovo


habitus domestico degli italiani nel cinema degli anni Cinquanta, di
Chiara Borroni » 47

Il buen retiro di Montalbano e altre case da sbirro, di Srecko Jurisic » 63

Donne in una tana: i rifugi delle protagoniste di Milena Agus, di


Laura Nieddu » 73

Rifugi di fortuna e case-gioco: l’inafferrabile “ubicazione del bene”


in Ammaniti, Falco, Lagioia, Massaron e Vinci, di Eleonora Conti » 81

Il castello avito e le peripezie per il mondo: dentro e fuori lo spazio


domestico del Barone di Nicastro di Nievo, di Ilaria De Seta » 91

Dimensione privata e affresco civile ne La zia d’America di Leonardo


Sciascia, di Rosario Atria » 103
La casa oltre il confine. Rappresentazioni dello spazio nella narrativa
di Carmine Abate e Janusz Rudnicki, di Dario Prola » 115

La mia casa è dove sono: la recherche di Igiaba Scego, di Sara Lorenzetti » 127

Lo spazio domestico nella poesia italiana contemporanea. Antonella


Anedda ed Elisa Biagini: le chiavi del mito, di Maria Adelaide Basile » 139

Indice dei nomi » 151


LA MIA CASA È DOVE SONO: LA RECHERCHE DI IGIABA SCEGO

di SARA LORENZETTI

1. Lo spazio-tempo: un percorso alla ricerca delle origini

La mia casa è dove sono, ultimo romanzo di Igiaba Scego, pubblicato per l’edi-
tore Rizzoli nel 2010, costituisce un punto d’osservazione privilegiato sullo svilup-
po della letteratura d’emigrazione in lingua italiana.
Igiaba Scego è un’esponente di seconda generazione di quella Letteratura
Migrante Italiana, che Armando Gnisci ritiene la componente più vitale e fertile
nell’ambito della narrativa contemporanea1. Nata a Roma da genitori somali, si
laurea in Lingue e Letterature Straniere e consegue un dottorato in Pedagogia;
dopo l’esordio con il racconto Salsicce, per cui vince il premio “Eks&Tra”, si im-
pone all’attenzione della critica con alcuni romanzi; collabora con diverse testate
giornalistiche, occupandosi di intercultura.
La protagonista del romanzo è l’alter ego dell’autrice (ne porta il nome), una
giovane donna che introietta in sé la condizione dell’esule: «…una creatura a metà.
Le radici sono state strappate, la vita è stata mutilata, la speranza è stata sventrata,
il principio è stato separato, l’identità è stata spogliata»2. Sin da bambina Igiaba si
sente «Un ponte, un’equilibrista, una che è sempre in bilico e non lo è mai»3.
All’inizio del romanzo l’io narrante rievoca una giornata in cui i membri della
sua famiglia, esuli in diversi paesi, si ritrovano a Manchester, a casa del fratello
Abdul: abbandonandosi ai ricordi della terra somala, in preda ad una saudade,
essi decidono di disegnare la mappa di Mogadiscio così com’era, prima che possa
scomparire anche dalla memoria. Una volta completata la cartina, Igiaba si rende
conto che la città delle sue origini racchiude solo in parte il suo essere e si propone
di completarla con i luoghi più significativi di Roma, dove è nata e cresciuta: solo

1
ARMANDO GNISCI, La letteratura italiana della migrazione, in ID., Creolizzare l’Europa: lettera-
tura e migrazione, Roma, Meltemi, 2003.
2
IGIABA SCEGO, La mia casa è dove sono, Milano, Rizzoli, 2010, p. 55.
3
Ivi, p. 31.

127
Sara Lorenzetti

così il passato può acquisire significato ma anche conferire senso ad un presente a


cui si ricongiunge. La protagonista attacca dei post-it sopra il disegno della capi-
tale somala ed elabora una mappa che esprime la sua geografia personale, duplice
come doppie sono le sue radici culturali: Roma e Mogadisco, due universi che si
completano e sono imprescindibili l’uno dall’altro.
Il discorso narrativo prende avvio da un non-luogo: la capitale somala dise-
gnata nella mappa non è mai esistita: risultato dell’ingannevole ricostruzione sul
filo dei ricordi, ci appare come solo può essere restituita dal filtro deformante e
inattendibile della memoria; d’altra parte questa città, cristallizzata nell’immagine
di ieri, è stata devastata e distrutta dalla guerra civile.
Questo non-luogo segna, tuttavia, l’inizio imprescindibile del percorso: secon-
do una leggenda messicana citata nel romanzo, «la casa è il luogo in cui seppel-
liscono il cordone ombelicale da cui hai tratto il nutrimento prima di nascere»4.
Mogadiscio dunque è il primo luogo, la casa come principio da cui si trae origine.
Se il discorso prende avvio dalla condizione dimidiata dell’esule, allora la nar-
razione assume la forma di un percorso a ritroso alla ricerca della propria storia,
unica possibilità per ricomporre il proprio io, mentre lo spazio si connota come
uno spazio-tempo.
Lo spazio del presente, la seconda casa è Roma. Nel romanzo, che presenta
una struttura narrativa originale 5, ogni capitolo si apre con una parte introdut-
tiva in corsivo dedicata ad una via o un quartiere della Capitale, su cui vengono
fornite preliminari notizie di carattere storico-geografico. Anche in questo caso le
due dimensioni del cronotopo si intrecciano ed i luoghi diventano occasioni per
raccontare un passato nella duplice dimensione personale e nazionale. Infatti, le
piazze e le vie romane che fanno da sfondo alla vita di Igiaba le richiamano alla
memoria eventi in cui la storia dei due paesi si interseca: per esempio Piazza di
Porta Capena, che dal 1937 ospitò la stele funeraria di Axum, bottino di guerra ed
emblema della politica imperialista fascista in Etiopia, restituita alla sua terra solo
nel 20026. Talvolta, è il personaggio che proietta sui luoghi la propria esperienza
personale, come quando Igiaba bambina in Piazza Santa Maria sopra Minerva ri-
conosce lo sguardo triste dell’esule nell’elefantino della statua scolpita da Bernini,
poi diventato il suo migliore amico7.

4
Ivi, p. 103.
5
Un tratto costante dei romanzi della Scego è una struttura narrativa elaborata ed originale, dal-
la cui considerazione non si può prescindere in sede interpretativa. A questo proposito sembra allora
particolarmente pertinente l’indicazione di Ugo Fracassa che invita i critici ad esprimere un giudizio
di valore sui testi della letteratura migrante, abbandonando l’atteggiamento protettivo di cautela in-
terpretativa e prestando piuttosto attenzione all’analisi linguistica e testuale. (UGO FRACASSA, Patria e
lettere. Per una critica della letteratura postcoloniale e migrante in Italia, Roma, Perrone, 2012, p. 147).
6
IGIABA SCEGO, La mia casa è dove sono, cit., p. 71 sgg.
7
Ivi, p. 55.

128
La mia casa è dove sono: la recherche di Igiaba Scego

Quindi la narrazione segue un andamento in apparenza casuale e divagante,


perché «Io ho provato qui a raccontare brandelli della mia storia. Dei miei percor-
si. Brandelli perché la memoria è come uno specchio frantumato. Non possiamo
(né dobbiamo) rincollare i pezzi. Non dobbiamo fare la bella copia, ordinarli, pu-
lirli da ogni imperfezione. La memoria è uno scarabocchio»8.
Di pagina in pagina la protagonista ricompone la propria esperienza personale,
la storia della propria famiglia (ogni capitolo è infatti dedicato ad uno degli Scego) e
quella della tormentata Somalia9. Nell’apparente disordine del recupero memoriale
si costruisce allora un puzzle in cui ogni tassello trova sistemazione e si disegna un
climax che riconduce la vicenda personale nell’alveo di quella del proprio paese.
Se il romanzo assume la forma di una recherche, raccontare significa raccon-
tarsi. La protagonista ricorda una sua lettura adolescenziale, Il primo racconto del
cardinale di Karen Blixen, e cita la battuta di un personaggio che, quando gli viene
chiesta la sua identità, ribatte «Risponderò con una regola classica: racconterò una
storia»10. Questo passo costituisce una vera e propria mise en abîme ed è emble-
matico di come il romanzo della Scego, attraversato da una costante riflessione
sulla narrazione, possa essere considerato un meta romanzo. Il percorso a ritroso
nel proprio passato conduce alla consapevolezza che l’affabulazione sia un tratto
distintivo della propria stirpe: «Dopotutto se vi avvicinate a una somala o a un so-
malo otterrete questo: storie. Storie per il giorno e storie per la notte. Per la veglia,
per il sonno… per i sogni»11.
Le fiabe che la mamma sin da bambina raccontava ad Igiaba non solo le resti-
tuiscono una tradizione in cui identificarsi e costituiscono il primo tassello della
sua identità, ma impediscono che la sua storia venga inghiottita dall’oblio12; del
resto esse racchiudono possibili vie di salvezza, «Perché per i nomadi somali nella
storia c’è sempre nascosta la soluzione»13.

8
Ivi, p. 159.
9
Per gli scrittori provenienti dai paesi del Corno d’Africa scrivere della propria terra d’origi-
ne significa anche scrivere dell’Italia, dati i legami storico-politici che legano i due paesi, sostiene
ALI MUMIN AHAD, Corno d’Africa. L’ex impero italiano, in Nuovo Planetario Italiano, a cura di Ar-
mando Gnisci, Troina, Città Aperta, 2006. Ali Mumin Ahad, somalo emigrato in Italia, studioso di
Economia nonché scrittore e critico, è autore dei primi e fondamentali studi postcoloniali italiani
per quanto riguarda la Somalia. Si possono vedere, per esempio, ALI MUMIN AHAD, I peccati storici
del colonialismo in Somalia, in «Democrazia e diritto», XIIII (1993), 4, pp. 217-250; ALI MUMIN
AHAD, Il passato coloniale nel presente della Somalia, in AA.VV., Sguardi incrociati sul colonialismo:
le relazioni dell’Europa con l’Africa, l’Asia e l’America Latina, Roma, UCSEI, 2005, pp. 377-395;
ALI MUMIN AHAD, Africa dall’esilio, in Poetiche africane, a cura di Armando Gnisci, Roma, Melte-
mi, 2003, pp. 107-133.
10
IGIABA SCEGO, La mia casa è dove sono, cit., p. 159.
11
Ivi, p. 56.
12
Ivi, pp. 90-91.
13
Ivi, p. 153.

129
Sara Lorenzetti

«Sheeko sheeko sheeko xariir… Storia storia oh storia di seta»: così recita l’in-
cipit dell’opera, in cui l’autrice, secondo una modalità narrativa tipica degli scritto-
ri provenienti dal Corno d’Africa, cita una fiaba somala attingendo alla tradizione
orale. Questo ritornello si ripete nella parte iniziale del primo capitolo e la scan-
disce riproducendo ritmicamente la musicalità dei racconti trasmessi a voce, tipici
di un mondo nomade: «Fiabe più dure di una cassapanca di cedro. Iene con la
bava appiccicosa, bambini sventrati e ricomposti, astuzie di sopravvivenza»14 che
permettono di non pensare troppo alle fatiche materiali.
Riprendendo il patrimonio orale del suo paese l’autrice sembra dunque rinno-
vare il ruolo del saggio nell’antico mondo tribale, il cui compito era tramandare la
cultura di appartenenza15.

2. Un Bildungsroman: l’io e l’altro, alla ricerca della reciprocità

Nel romanzo la storia della protagonista si presta ad essere interpretata come


un Bildungsroman. L’esule inizia la recherche dai luoghi d’origine della famiglia,
dove la ragazza trascorre le estati della sua infanzia. La patria, ricordata nell’esilio
e agognata come luogo di un utopico ritorno, è pensata a partire da una condizione
di impossibilità che la rende mitica: nella terra di Punt al benessere fisico di un
paradiso terrestre (al caldo si gustano squisiti frutti tropicali mentre si osservano
gli animali correre liberi) si unisce la gioia del ricongiungersi alla terra materna ed
alle radici familiari16: la Somalia è la casa come luogo in cui ci si sente in armonia
con se stessi.
La seconda tappa del viaggio è l’Italia, l’esperienza dell’emigrazione e l’incon-
tro con il razzismo che conduce l’io ad una perdita di identità. In questo senso il
romanzo permette di approfondire un aspetto di peculiare interesse nella letteratu-
ra migrante che risiede nel tema del sentirsi straniero e nella reciproca visione che
a sua volta lo “straniero” veicola del paese ospitante17.
Gli Italiani sono presentati in primo luogo in una prospettiva storica nelle di-
gressioni sulle vicende della Somalia e nel racconto della vita degli antenati di

14
Ivi, p. 9.
15
ALI MUMIN AHAD, Africa dall’esilio, in Poetiche africane, cit., p. 132.
16
IGIABA SCEGO, La mia casa è dove sono, cit., pp. 117 e 149.
17
Si segnalano i lavori di BRIGITTE LE GOUEZ, Identikit dello straniero extracomunitario nella
narrativa italiana degli ultimi vent’anni, in «Narrativa», XV (2006), 28, pp.  67-79, e GRAZIELLA
PAGLIANO, Stranieri del nero e del giallo, cit., pp. 151-162, che si propongono un sondaggio circa
la rappresentazione dello straniero immigrato nella narrativa italiana contemporanea, e quello di
MARIA GRAZIA NEGRO, CRISTINA MACERI, Nuovo immaginario italiano, Roma, Sinnos, 2009, che
indagano in modo comparativo l’immagine dello straniero in un corpus parimenti distribuito di
autori stanziali e migranti.

130
La mia casa è dove sono: la recherche di Igiaba Scego

Igiaba: gli antichi dominatori hanno interpretato un colonialismo imperialista che


si è tradotto nello sfruttamento selvaggio delle risorse e nella vessazione crudele
della popolazione.
L’Italia attuale ha costruito la sua identità sulla rimozione della storia colo-
niale, cancellata con un “colpo di spugna” o spesso falsificata: «Vivono in via
Migiurtinia o si baciano in viale Somalia. Però ignorano la storia coloniale. Non è
mica colpa loro: a scuola mica le impari queste cose. Siamo stati bravi, ti dicono,
abbiamo fatto i ponti o le fontane. Il resto lo si ignora, perché non lo si insegna»18.
La voce narrante assume un tono condiscendente nell’osservare come dalla rimo-
zione del passato scaturisca un atteggiamento inevitabile di razzismo. Numerosi
sono gli episodi di persecuzione di cui la protagonista rimane vittima: gli insulti
dei compagni che le si rivolgono con l’appellativo “sporca negra” o la dileggiano
utilizzando il soprannome “Kunta Kinte”, personaggio televisivo di Radici, pro-
vocano la solitudine e l’esclusione della bambina e si ripercuotono sul suo profitto
scolastico.
In modo del tutto negativo è dipinto anche il mondo degli adulti: i genitori
dei compagni «pensavano che siccome ero nera il mio destino era di essere so-
marella e tutti davano per scontato che fossi piena di pidocchi»19; essi ritengono
naturale il fallimento scolastico, conseguenza deterministica della condizione di
immigrazione, ed accettano di buon grado lo scotto inevitabile che lo “straniero”
paga, pur di non abbassare lo standard qualitativo della preparazione della classe.
Non meno fosco è il ritratto degli insegnanti, tra cui si distingue il professore
di Educazione Fisica che per parecchi anni ad ogni lezione chiede all’allieva quale
colore abbia usato per tingere la sua pelle. «Ma come fai a essere così abbronzata,
Igiaba? Cosa usi la mattina prima di venire a scuola?»20. Diverso è solo il caso
della maestra elementare che è capace di porsi in un’attitudine di comprensione
umana e per questo riesce a trovare delle strategie per far sì che l’allieva superi il
blocco emotivo e si inserisca tra i compagni. Quello che potrebbe apparire come
un atteggiamento scontato di impegno e di apertura solidaristica appare agli occhi
del lettore un intervento straordinario ed è a posteriori considerato salvifico da

18
IGIABA SCEGO, La mia casa è dove sono, cit., p. 27. È un dato ormai acquisito dalla critica
l’assenza nella cultura italiana di una riflessione sull’esperienza coloniale sia a livello storico sia
letterario. La nascita di una letteratura italiana della migrazione costituisce un tassello fondamen-
tale della decolonizzazione e ci pone di fronte alla necessità di una revisione critica del passato e
dell’assunzione di responsabilità rispetto al ruolo del nostro paese nell’imperialismo europeo. Vedi
per questo concetto ARMANDO GNISCI, Decolonizzare l’Italia. Via della decolonizzazione europea, 5,
Roma, Bulzoni, 2007, p. 99 e VALENTINA ANSELMI, La questione postcoloniale italiana nella lettera-
tura della migrazione, in «Kùmà», IX (2009), 17, in www.disp.let.uniroma1.it/kuma/kuma.html e
si segnala il recente lavoro di CRISTINA LOMBARDI-DIOP, CATERINA ROMEO, Postcolonial Italy: The
Colonial Past in Contemporary Culture, New York, Palgrave, 2012.
19
IGIABA SCEGO, La mia casa è dove sono, cit., p. 151.
20
Ivi, p. 146.

131
Sara Lorenzetti

Igiaba: «E non scherzo quando dico che la mia maestra elementare, quella signora
dai vaporosi capelli bianchi, mi ha salvato la vita»21.
La popolazione del paese ospitante è ritratta in modo piuttosto stereotipato, a
tal punto che nessuno dei personaggi assume una caratterizzazione a tutto tondo e
riesce ad essere più di una comparsa: superficiali, inconsapevoli, razzisti ed egoisti,
gli Italiani del romanzo sono tutti uguali, quasi i loro fossero tratti genetici. Tale
modalità rappresentativa sembra un significativo riscontro di quello stereotipo di
alterità proiettato dallo scrittore migrante sui personaggi italiani che secondo Fra-
cassa22 potrebbe essere un interessante terreno d’indagine.
Se il paese reale è immerso nel degrado di un razzismo becero e squallido, il
paese ufficiale si esprime in una politica corrotta e compiacente che sacrifica i pro-
fughi agli interessi economici:
Oggi invece si rimandano i potenziali richiedenti asilo del Corno d’Africa nel-
le grinfie del colonnello Gheddafi, nei suoi lager osceni, e nessuno dice una
parola. Sembriamo tutti paralizzati. L’Italia ha fatto un accordo sul petrolio
con la Libia e per questo chiude gli occhi sulle atrocità commesse dalla parte
malata della società libica23.

La legislazione farraginosa ed assurda, lungi dall’essere per gli immigrati una


garanzia da eventuale soprusi, rende ancora più dolorosa e difficile la condizione
dell’emigrato e costringe molti, pur nati in Italia, a vivere da stranieri nel proprio
paese con il rischio paradossale di subire un decreto di espulsione per una terra
d’origine mai conosciuta24.
Se il romanzo della Scego può essere interpretato come un Bildungsroman su
un duplice piano individuale e collettivo, gli esiti del percorso sono tuttavia diversi.
Fallimentare risulta il percorso collettivo: il paese è percorso da un razzismo invi-
sibile e strisciante più subdolo di quello passato, mentre gli Italiani hanno perso
anche la capacità di commuoversi e di mostrare solidarietà di cui davano prova
un tempo, come nel 2003 quando moltissimi parteciparono ai funerali di stato dei
tredici somali morti nel naufragio di una barca carica di clandestini: «Quel giorno
però era un’altra Italia. Quella bella, sana. Un’Italia che sapeva fare suo il dolore
degli altri. Un’Italia che aveva ancora un’anima»25.
A livello individuale la problematica razziale acuisce la profonda crisi adole-
scenziale della protagonista: «Si innamoravano tutti: maschi e femmine. Non po-

21
Ivi, p. 156.
22
Fracassa osserva che sarebbe interessante l’«eventuale riscontro di analoghi stereotipi di
alterità proiettati però dallo scrittore migrante sui personaggi italiani». (UGO FRACASSA, Patria e
lettere. Per una critica della letteratura postcoloniale e migrante in Italia, cit., p. 147).
23
IGIABA SCEGO, La mia casa è dove sono, cit., p. 98.
24
Ivi, p. 107.
25
Ivi, p. 98.

132
La mia casa è dove sono: la recherche di Igiaba Scego

tevo essere diversa anche in quello. Mi dovevo adeguare. Scelsi quel ragazzo rozzo
per poter dire agli altri: “Be, anch’io sono come voi”»26. Le difficili condizioni
economiche e l’assenza dei genitori per lunghi periodi inducono Igiaba a chiudersi
nel suo «iperspazio di goffaggini e storpiature»27 e sfociano in episodi di bulimia.
Nel corso della vicenda, tuttavia, matura una crescita che si riflette nella con-
sapevolezza rovesciata che «avere l’Africa dentro è come toccare i piedi degli
arcangeli»28. Proprio allora il silenzio in cui Igiaba si chiudeva per difendersi dagli
insulti razzisti viene spezzato e l’allieva trova la forza di umiliare il professore au-
tore delle becere battute razziste: «Prof., finalmente le ho portato il prodotto. Io
uso questo la mattina. Me lo spalmo ben bene per un paio d’ore. Si attacca che è
una meraviglia»29. La risposta liberatoria si nutre di un tratto distintivo dei Somali,
il forte orgoglio e la capacità di mantenere la propria dignità in ogni circostanza.
In modo analogo ad Igiaba infatti, anche la comunità somala di Roma, abituata
a mimetizzarsi, dopo anni di silenzio, proprio in occasione del naufragio del 2003,
riscopre il suo orgoglio e rivendica il diritto di poter ricordare le proprie vittime:
«Noi che non abbiamo mai chiesto nulla a questa Italia che ci ha colonizzato, quel
giorno abbiamo urlato un diritto. Era la prima volta. La voce ci usciva fuori spez-
zata e balbuziente. Ma era uscita in qualche modo. Si era fatta sentire»30.
Può risultare proficuo indagare come venga proposta nel romanzo l’immagine
della Somalia e dei Somali, soprattutto perché si può rilevare una assenza di re-
ciprocità nella delineazione del rapporto Italiano/straniero, noi/altri. Le vicende
degli antenati della famiglia Scego che vivono durante la dominazione fascista si
intrecciano con quelle degli Italiani, in particolare quando il nonno di Igiaba diven-
ta interprete e stretto collaboratore del gerarca fascista Graziani. In questo senso è
interessante notare come la voce narrante, che aveva utilizzato un tono di costante
rampogna nei confronti della disumanità del dominio coloniale, esiti in preda al
dubbio («Mio nonno allora era fascista?»)31. Il tentennamento dura un istante e
la riprovazione si stempera in un atteggiamento di umana comprensione e quasi
ammirazione:

O forse il nonno era come Wangrin, il protagonista dell’Interprete briccone


di Amadou Hampâté Bâ? Uno che grazie all’intelligenza, all’astuzia, a una
certa sfacciataggine si prendeva gioco di tutti i potenti? Sia dei bianchi colo-
nizzatori sia dei neri conniventi?32

26
Ivi, p. 141.
27
Ivi, p. 138.
28
Ivi, p. 139.
29
Ivi, p. 147.
30
Ivi, p. 97.
31
Ivi, pp. 81-82.
32
Ibid.

133
Sara Lorenzetti

Più avanti la figura dell’antenato emerge in tutta la sua ambiguità, quando egli
diventa dapprima collaborazionista con un regime che opprime i suoi connaziona-
li, poi persino portavoce delle istanze democratiche e guida nel processo verso l’in-
dipendenza, ma la voce narrante lo assolve e trasforma la sua collusione in trionfo:

Il nonno è stato anche tra i promotori dell’indipendenza e ministro del primo


governo somalo. Una figura molto stimata nel panorama politico del paese.
Avviò i suoi figli verso la lotta contro quel colonialismo che lui era stato co-
stretto a servire. […]
Si è impegnato direttamente assumendo cariche, ma anche indirettamen-
te dispensando consigli. Lui che aveva conosciuto il male da vicino ha cercato
sempre di spiegarlo agli altri33.

Le notizie antropologiche che il testo fornisce sulla cultura somala, di soli-


to tramandate ad Igiaba dai racconti dei familiari, si prestano ad una lettura del
romanzo secondo un’ottica di genere. La famiglia della tradizione si basava sui
matrimoni combinati (Omar Scego da ragazzo sposa in prime nozze una moglie
scelta per lui dai genitori) e di solito gli uomini sposavano più donne, secondo l’uso
mussulmano. «L’amore veniva dopo il matrimonio e spesso le donne non lo cono-
scevano mai»34. La vita di una donna somala è segnata sin dall’infanzia dalla pratica
dell’infibulazione, che mappa il suo corpo con un marchio di dolore consumato
nella festosità e sacralità di un rito ma anche nell’ignoranza che non si tratti di una
prescrizione religiosa. La madre della protagonista, subita la mutilazione, decide di
porre fine a questa tradizione, preservando il corpo della figlia nella sua integrità.
Straordinario appare il carisma della figura materna che decide di non perpetuare
l’ingiusta barbarie subita e, portavoce di una coscienza femminista, conferisce alla
sua decisione individuale la potenzialità di cambiare la storia.
Se da un lato la cultura somala sembra relegare la donna ad un ruolo di infe-
riorità, in cui l’impossibilità di realizzare un progetto esistenziale autonomo trova
il corrispettivo nella condanna ad una vita sessuale priva di piacere, dall’altro l’im-
postazione matriarcale della famiglia fa sì che le vengano tribuiti onore e rispetto.
La voce narrante ricorda con nostalgia un passato in cui gli anziani erano venerati
e descrive la zia Fatuma che «Era come un giudice, che tutto sa e tutto ordina. Lei
era la legge, la giustizia»35.
La scrittura diventa uno strumento per dar voce alle donne, perpetuare la loro
memoria, spesso in passato «bruciata, silenziata, traviata»36: la parola si pone come
testimonianza che perpetui alle generazioni future quanto appreso dai padri e,

33
Ivi, pp. 84-85.
34
Ivi, pp. 61-62.
35
Ivi, p. 133.
36
Ivi, p. 54.

134
La mia casa è dove sono: la recherche di Igiaba Scego

quasi a riprodurre il meccanismo tipico nella cultura d’origine, diventa una tessera
nel processo di trasmissione narrativa.
Nella cultura somala la presenza della collettività segna anche l’altra tappa fon-
damentale dell’esistenza femminile: la maternità. Quando un bambino nasce, que-
sto evento interessa e coinvolge l’intera comunità che si prende cura della coppia
madre-figlio e lascia alla donna il tempo di riposare e di conoscere il suo piccolo.
Proprio in occasione della nascita dell’ultima figlia Igiaba, la mamma della prota-
gonista, che partorisce da sola in ospedale, nota criticamente come l’Italia, paese
in apparenza progredito, non preveda affatto una cultura dell’accoglienza: «Ma
nell’Occidente tanto evoluto tutto invece deve essere veloce. Non ti danno il tem-
po nemmeno per renderti conto che sei diventata mamma. Devi essere efficiente
da subito»37. Lasciando emergere un tratto di superiorità della tradizione somala
o, comunque, un’insufficienza nella cultura della maternità praticata in Italia, il
romanzo stimola in questo senso un fecondo confronto critico tra i due mondi in
un’ottica di interscambio.

3. Una Babele felice

L’aspetto forse di maggiore interesse nei romanzi della Scego risiede nell’im-
pasto linguistico utilizzato per cui è essenziale all’interpretazione un’analisi sotto
questo profilo, secondo l’indicazione di Fracassa38.
Con una modalità tipica degli scrittori migranti di seconda generazione, l’autri-
ce utilizza come base l’Italiano, l’idioma in cui nel periodo coloniale nella zona del
Corno d’Africa è stata veicolata l’istruzione39. La voce narrante si esprime in una
lingua che si presenta tuttavia estremamente variegata e si muove tra registri stilisti-
ci dissonanti: ricca di espressioni colloquiali («roba da sfigati»40), si colora talvolta
con dialettismi dell’area romanesca («Tutte fregnacce, ma molte ci credono»41 op-
pure «Ormai sono quarant’anni, mica bruscolini»42), ma tradisce l’alta formazione
della scrittrice nell’uso di termini propri di un lessico specifico come «diaspora»43.
La ricerca stilistica si scopre anche nel frequente ricorso a paragoni, che a volte
piegano la lingua in direzione poetica: «La sua parola segnava le pelli e i cuori, era

37
Ivi, p. 58
38
UGO FRACASSA, Patria e lettere. Per una critica della letteratura postcoloniale e migrante in
Italia, cit., p. 147.
39
ALI MUMIN AHAD, Corno d’Africa. L’ex impero italiano, cit., p. 241.
40
IGIABA SCEGO, La mia casa è dove sono, cit., p. 102.
41
Ivi, p. 104.
42
Ibid.
43
Ibid.

135
Sara Lorenzetti

spirito e acqua»44; in altri casi le similitudini cercano di conferire icasticità al rac-


conto, anche se spesso sfociano in espressioni trite e banali: «Il telegiornale, come
Ponzio Pilato, se ne lavava le mani»45 oppure «Piazza del Campidoglio faceva un
figurone, però. Era piena come certi otri di vino di campagna. Piena zeppa»46.
Nel corso della narrazione la lingua spesso si fa interprete del coinvolgimento
emotivo della protagonista e assume tratti marcatamente enfatici, con una sintas-
si folta di esclamative ed interrogative, come quando ella si interroga sdegnata a
proposito dell’assassinio dello zio e della possibile vendetta («È possibile uccidere
qualcuno a sangue freddo? […] Ma si poteva arrivare a uccidere? Macchiarsi dello
stesso crimine infame?»47) o sulla tragedia del mare che costa la vita a molti con-
nazionali («Era piena di somali, quella carretta colata a picco, ecco la realtà!»48).
L’impasto si compone anche di frasi o termini inglesi, di solito slogan come
black is beauty49 o parole ormai entrate nel repertorio comune. Una componente
fondamentale è, tuttavia, il somalo, che compare con vocaboli isolati, ma più spesso
con espressioni che ritornano ritmicamente nel corso del capitolo e lo scandiscono
come nelle narrazioni della tradizione orale: il ritornello «Hoog, balaayo, musiibo,
kasaro, qalalaas»50, che rievoca l’idea della catastrofe, percorre così il capitolo La
stele di Axum ed il racconto dell’assassinio dello zio.
Il pastiche di cui la scrittrice si serve costituisce il corrispettivo formale del com-
pimento del percorso di formazione tracciato nel romanzo. La protagonista nell’in-
fanzia trascorre in Somalia le estati: in questo periodo di gioia e spensieratezza la
famiglia riunita vive in pace e Igiaba scopre l’importanza delle storie: «Raccontare
una storia non era mai una perdita di tempo. Si imparava, si sognava, si diventava
adulti…»51. Allora la bambina elabora un «caravanserraglio di parole»52 in cui la
lingua madre, l’Italiano, si mescola con il somalo, la lingua delle canzoncine e ninne
nanne, ed insieme con il bravano, il dialetto paterno: «Ero molto confusa da picco-
la. Ma era una bella confusione, saltellavo come un grillo da una lingua all’altra e
mi divertivo come una matta a dire a mia mamma cose che il droghiere non potesse
capire»53.
Questo periodo di multilinguismo euforico viene spezzato al momento dell’in-
serimento scolastico che per lei coincide con la consapevolezza della diversità:

44
Ivi, p. 133.
45
Ivi, p. 97.
46
Ivi, p. 95.
47
Ivi, p. 89.
48
Ivi, p. 97.
49
Ivi, p. 104.
50
Ivi, p. 85.
51
Ivi, p. 149.
52
Ivi, p. 150.
53
Ibid.

136
La mia casa è dove sono: la recherche di Igiaba Scego

È stato bello, molto bello; poi è arrivata la scuola e ha cambiato tutto. Lì mi


dicevano: «Voi non parlate, fate i versi delle scimmie. Non si capisce nulla.
Siete strani, siete come i gorilla». All’epoca ero piccola e i gorilla, che sono
animali splendidi, mi facevano un po’ paura per via della loro stazza. Non
volevo essere un gorilla. Avevo constatato che la pelle nera non si poteva can-
cellare, quella me la dovevo tenere. Ma almeno sulla lingua potevo lavorarci.
Avevo quattro o cinque anni. Non ero ancora un’africana orgogliosa della sua
pelle nera. Non avevo ancora letto Malcom X. Quindi decisi di non parlare
più somalo. Volevo integrarmi a tutti i costi, uniformarmi alla massa. E la mia
massa allora era tutta bianca come la neve. Non parlare la mia lingua madre
divenne il mio modo bislacco di dire «Amatemi»54.

La fase della crisi del personaggio coincide con l’adesione forzata ad un mono-
linguismo, che rappresenta la tristezza dell’esclusione e dell’isolamento. Interven-
gono di nuovo con una funzione salvifica le storie che la mamma le racconta per
farle capire che anche loro appartengono ad una tradizione e quelle che la maestra
le propone di leggere e le chiede di raccontare ai compagni di classe. Attraverso il
percorso affabulatorio matura una presa di coscienza che conduce Igiaba all’accet-
tazione ed all’orgoglio della propria diversità.
Il romanzo si conclude con un ritorno alla positività che implica a livello for-
male il recupero del multilinguismo dell’infanzia: «Oggi che sono adulta vivo a Tor
Pignattara, una Roma che confina con Pechino e Dakka»55, una “babele” inedita
in cui diversi idiomi si intrecciano in modo confuso ma paritario.
Il quartiere di Tor Pignattara è il simbolo dell’Italia, del passato che l’ha resa
crocevia di stratificazioni culturali ed etniche, ma anche del mondo futuro, desti-
nato alla multiculturalità ed al plurilinguismo.

54
Ibid.
55
Ivi, p. 156.

137
Finito di stampare nel mese di maggio 2014
presso M. D. Grafica srl – Città di Castello (PG)

Potrebbero piacerti anche