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L’est nell’ovest

a cura di
Manuel Boschiero e Gabriella Pelloni

per nubes .1.

I LIBRI
DI EMIL
per nubes
.1.
collana
per nubes
.1.

Comitato scientifico
Manuel Boschiero (Università degli Studi di Verona)
Gabriella Pelloni (Università degli Studi di Verona)
Marika Piva (Università degli Studi di Padova)
Marco Prandoni (Alma Mater Studiorum – Università di Bologna)
l’est nell’ovest

a cura di
Manuel Boschiero e Gabriella Pelloni

i libri di
EMIL
Volume pubblicato con il contributo dell’Università
degli Studi di Verona – Dipartimento di Lingue e Letterature Straniere

Ogni saggio contenuto nel volume è stato sottoposto


a procedimento di blind peer review

Copyright © 2018
Casa editrice I libri di Emil di Odoya srl
isbn (pdf): 978-88-6680-266-2

Via Benedetto Marcello 7 – 40141 Bologna – www.ilibridiemil.it


Indice

Premessa
Manuel Boschiero, Gabriella Pelloni 7

«Nella sinagoga come nella steppa».


Migrazione fisica e quête identitaria nel romanzo Questi sono
i nomi di Tommy Wieringa
Marco Prandoni 13

“Odissea Europa”. Il dramma Perikizi di Emine Sevgi Özdamar


Gabriella Pelloni 39

Sogni di pietra e libri bruciati.


La decostruzione dell’identità azerbaigiana in Akram Aylisli
Daniele Artoni 57

Dalle miniere al palcoscenico con Mauro Pawlowski.


Polacchi migranti dal carbone all’arte
Sonia Salsi  79

La guerra de identidad nella poesia e nel linguaggio


di Déborah Vukušić
Marco Paone 95

La presenza rizomatica dell’est nel romanzo Sefarad


di Antonio Muñoz Molina
Paola Bellomi  111
Vite parallele e spazi eterotopici.
Cannibalismo e identità in Emmanuel Carrère e Andreï Makine
Francesca Dainese 129

La rappresentazione dell’Albania postcomunista


nell’opera dello scrittore Carmine Abate
Angelo Pagliardini 143

Autofinzione e rappresentazione della storia comunista


in scrittori migranti romeni dopo l’ʽ89
Alexandra Vranceanu 163

“Une jeunesse au Moyen-Orient”.


Lingue e identità a confronto nel graphic novel L’Arabe du futur
Giovanni Tallarico 177

Katja Petrowskaja tra Est e Ovest.


Note su una lettura mnemografica di Forse Esther
Chiara Conterno 195

Babij Jar e la memoria della Shoah in Forse Esther


di Katja Petrowskaja
Manuel Boschiero 215

Sotto la lente del postcolonialismo occidentale.


Il ruolo e la ricezione di Svetlana Aleksievič e Serhij Žadan
tra est ed ovest
Marco Puleri235

Visions of East and West in V. Martsinovich’s Mova


and A. Bakharevich’s Dzetsi Alindarki
Ivan Posokhin 257
Premessa

Nelle quasi tre decadi trascorse dal crollo del Muro di Berlino le
relazioni tra est e ovest dell’Europa hanno subito cambiamenti profon-
di. L’apertura delle vecchie frontiere e il proseguimento del processo
d’integrazione europea che ha seguito la fine della Guerra fredda e
della divisione ideologica ha riportato vigorosamente l’est al centro
della sfera d’interesse occidentale, ridefinendo le stesse categorie di
est e ovest e dando vita a nuove topografie culturali e ibridazioni iden-
titarie inedite.
Se è vero che durante la Guerra fredda una conoscenza approfon-
dita dell’est non era considerata opportuna, né veniva incoraggiata,
altrettanto evidente è il fatto che da sempre il discorso che l’ovest ha
prodotto sull’est (così come quello dell’est sull’ovest) è stato spesso
contraddistinto da un carattere generico, da un ricorso diffuso a stereo-
tipi, quando non da ostilità. Ancor oggi la vecchia “libera Europa” pec-
ca spesso di cecità rispetto alle distinzioni storiche e culturali tra paesi
vecchi e nuovi dell’Europa centro-orientale, dei Balcani, dei Paesi Balti-
ci, della Russia e della RDT. La cortina di ferro identificava uno spazio
dimostrativamente “altro” sul piano ideologico, e perciò omogeneo e
rassicurante, facile da delimitare e utile per una speculare definizione
dell’Occidente. La sua dissoluzione ha condotto alla frammentazione
e al problematico riposizionamento del sé e dell’altro all’interno delle
coordinate est-ovest, dentro e fuori uno spazio europeo in rapido cam-
biamento. Una ridefinizione difficile, percorsa certamente da nuove
forme di ibridazione identitaria transculturale, ma anche dalla nostalgia
dell’Europa ristretta della Guerra fredda, dall’ansia di costruire nuovi
muri e d’individuare nuove alterità, nonché dal diffondersi di nuovi e
vecchi nazionalismi e imperialismi, come testimoniano l’emblematico
caso dei Balcani, della Moldavia e – recentemente – dell’Ucraina. Una
ridefinizione che, infine, si nutre delle sollecitazioni provenienti dal
rapporto con le cosiddette identità euroasiatiche, la Russia e la Turchia,
dalla risemantizzazione dell’eredità storica e culturale dell’impero otto-
mano e di quello russo (e sovietico) alla luce delle dinamiche europee
contemporanee.
La fine dell’influenza sovietica sui vecchi stati satellite ha portato a
cambiamenti considerevoli nei rapporti tra Europa occidentale e orien-
tale. Da margine e condizione “altra”, l’est è diventato ovest in termini
di ideologia e di legami politici, grazie anche al processo di progressivo
allargamento dei confini dell’Unione Europea. Allo stesso tempo, però,
l’interesse culturale dell’ovest per un est ancora a tratti poco noto non
è scemato, ma sembra riproporsi con rinnovato vigore. I flussi migra-
tori, determinati da motivi economici, ma anche da ragioni politiche
e di guerra (come testimonia il caso dei Balcani), hanno contribuito
a complicare il quadro, esercitando un impatto notevole sui dibattiti
aventi come oggetto l’integrazione, i diritti di cittadinanza e le questioni
relative alla diversità culturale.
Negli ultimi anni l’intensificazione degli scambi tra est e ovest ha
avuto forti ripercussioni nell’ambito culturale, venendo a interessare
il teatro, il cinema, le arti visive, ma anche e soprattutto la letteratura,
dalle narrazioni dal taglio più prettamente documentaristico tipiche
dei resoconti di viaggio, alla realtà fittizia dei racconti e dei romanzi. In
particolare, la contaminazione conseguente alle migrazioni dall’Europa
dell’est ha dato vita a nuove ibridazioni identitarie e culturali, e con
esse a nuovi stili e modalità di espressione, finendo con l’annullare le
usuali distinzioni tra prospettiva interna ed esterna, tra realtà, stere-
otipo e immaginazione. A tutt’oggi l’est rappresenta per l’ovest non
solo uno spazio da (ri)scoprire, ma anche una sorta di specchio per
destabilizzare la propria concezione di sé, la propria visione della storia
e della tradizione culturale europea, alla ricerca di una rifondazione
identitaria che poggi su basi nuove, finalmente svincolate dalla frattura

8
novecentesca tra est e ovest. Un’indagine dello sguardo occidentale
verso est e di quello dell’est sull’ovest nella contemporaneità implica,
quindi, un’analisi delle sue manifestazioni letterarie all’interno dei sin-
goli discorsi nazionali e transnazionali, dove la riflessione identitaria si
realizza principalmente attraverso il distacco dalla visione dicotomica
della guerra fredda, ma in parte anche facendo riferimento a elementi
di continuità con il passato. Se si registra infatti da un lato il permanere
di stereotipi identitari, dall’altro la scena è ora più porosa e definitiva-
mente aperta per una loro decostruzione, che presuppone la capacità
di interpretare e di mettere in scena le differenze.
Uno dei temi ricorrenti che emerge nei saggi raccolti in questo vo-
lume è quello del conflitto in riferimento all’identità culturale. Inteso
come impulso critico di cui si vuole mettere in luce il potenziale inno-
vativo, l’idea di conflitto implica una concezione di transculturalità non
solo come incrocio e ibridazione culturale, bensì come continuo supe-
ramento di limiti e soglie. Superamento, quindi, anche delle categoriz-
zazioni operanti nel confronto con il passato, attuato con l’obiettivo di
riconsiderare il divario esistente tra memoria individuale e collettiva,
tra narrazione storica privata e quella ufficiale. Nelle dinamiche di ri-
semantizzazione dello spazio europeo tra est e ovest, un ruolo centrale
è infatti assegnato proprio alle dinamiche della memoria, nella perce-
zione del divario esistente e del conflitto tra memoria comunicativa,
familiare e quotidiana, e quella culturale, testuale e istituzionale (pur
nella problematicità di una rigida distinzione dicotomica),1 ma anche
nelle fratture e nelle strategie di ricostruzione e ri-attivazione della
postmemory, la trasmissione inter- e transgenerazionale dell’esperienza
traumatica.2 Se, come sottolinea Aleida Assmann, a partire dagli anni
Ottanta e Novanta, l’esperienza delle vittime, in particolare della Shoah

1
  Patrizia Veroli, Paesaggi della memoria. Il trauma, lo spazio, la storia, Bompiani,
Milano 2014, p. 29.
2
  Cfr. Marianne Hirsch, Family Frames: Photography, Narrative, and Postmemory,
Harvard University Press, London 1997 e Idem, The Generation of Postmemory: writing
and visual Culture after the Holocaust, Columbia University Press, New York/Chichester/
West Sussex 2012.

9
ma anche dell’impero coloniale, è diventata la base per la costruzione
di un’identità collettiva,3 all’interno di una società europea occidentale
in cui il trauma ha assunto un’importanza fondante,4 la linea di confine
tra est e ovest in Europa segna ancora oggi una divergenza sul piano
della memoria traumatica, non solo in relazione all’esperienza del co-
munismo. Nella letteratura attuale, tuttavia, si avverte la ricerca di un
discorso identitario unitario, che si esprime attraverso tentativi di di-
segnare nuovi percorsi condivisi nella memoria traumatica europea. In
questo senso, il testo letterario può diventare un percorso topografico
della memoria, un percorso che dà voce alla complessa trasmissione
intergenerazionale del trauma attraverso le fratture della storia e allo
stesso tempo valica i confini geopolitici novecenteschi attuando un
loro superamento.5
Sul piano critico, come emerge da diversi saggi nel volume, si scor-
ge un’analoga dinamica nel diffondersi degli studi postcoloniali nella
descrizione delle dinamiche culturali dei paesi postcomunisti, un feno-
meno che soprattutto a partire dagli anni Duemila si fa particolarmente
evidente. Malgrado permangano delle resistenze, per lo più dovute a
un’interpretazione restrittiva del quadro teorico postcoloniale, e tal-
volta mosse da un tentativo di difesa di modelli culturali d’impronta
nazionale, o addirittura di nuovi discorsi imperiali (come il caso della
Russia), l’adozione di una simile prospettiva in ambito postcomunista
o postsovietico si è ormai affermata, fornendo non soltanto un qua-
dro teorico per la descrizione delle dinamiche culturali precedenti e
successive alla caduta del muro di Berlino (nella considerazione della

3
  Aleida Assmann, Europe: A Community of Memory?, «Bulletin of the German
Historical Institute» 40, no. 1 (2007), pp. 11–25.
4
  E che, dunque, può essere considerata, secondo la definizione di Patrizia Veroli, una
società traumatizzata (cfr. Veroli, Paesaggi della memoria, cit., p. 57).
5
  Per una definizione del concetto di topografie della memoria cfr. Alexandra Lübcke,
Enträumlichungen und Erinnerungstopographien: Transnationale deutschsprachige
Literaturen als historiographisches Erzählen, in Helmut Schmitz (a cura di), Von der
nationalen zur internationalen Literatur und Kultur im Zeitalter globaler Migration,
Rodopi, Amsterdam/New York 2009, pp. 77-79

10
specificità del contesto dell’Europa centro-orientale, che impone dovu-
te cautele), ma ponendo anche le basi per la creazione di un unico di-
scorso transnazionale tra est e ovest: la descrizione di un’unica Europa
postcoloniale, sia pure attraversata dalla memoria di diverse tipologie
di esperienze coloniali.6
Manuel Boschiero
Gabriella Pelloni

6
  Dobrota Pucherová, Róbert Gáfrik, Introduction, in Id. (ed.), Postcolonial Europe?
Essays on Post-Communist Literatures and Cultures, BRILL RODOPI, Leiden/Boston
2015, p. 14.

11
“Odissea Europa”.
Il dramma Perikizi di Emine Sevgi Özdamar
Gabriella Pelloni

Con Perikizi, una pièce scritta nel 2010, Emine Sevgi Özdamar tor-
na al teatro dopo essersi dedicata per anni alla narrativa:1 la trilogia
autobiografica composta dai romanzi Das Leben ist eine Karawanse-
rei, hat zwei Türen, aus einer kam ich rein, aus der anderen ging ich raus
(1990, La vita è un caravanserraglio, ha due porte, da una sono entrata,
dall’altra sono uscita), Die Brücke vom Goldenen Horn (1998, Il ponte
del corno d’oro, 2010),2 Seltsame Sterne starren zur Erde (2004, Strane
stelle guardano a terra), è, com’è noto, il frutto più significativo di que-
sta produzione. Il dramma Perikizi, la cui protagonista è una ragazza
che intraprende un avventuroso viaggio dalla Turchia all’Europa per
realizzare il suo sogno di diventare attrice, riprende numerosi motivi
della trilogia, di cui rappresenta, almeno in parte, una riscrittura in
chiave drammatica. Anche in questo senso, quindi, siamo di fronte ad
un testo dallo spiccato carattere intertestuale, che si richiama non solo

1
  Per una panoramica recente dell’opera di Emine Sevgi Özdamar cfr. TEXT + KRITIK.
Heft 211: Emine Sevgi Özdamar, a cura di Yasemin Dayioǧlu-Yücel e Ortrud Gutjahr,
TEXT + KRITIK. Zeitschrift für Literatur, Richard Boorberg Verlag, München 2016.
2
  Il ponte del corno d’oro è l’unico romanzo della trilogia, ripubblicata da Kiepenheuer
& Witsch nel 2006 con il titolo Sonne auf halbem Weg. Die Istanbul-Berlin:Trilogie (Sole
a metà strada. La trilogia Istanbul-Berlino), finora uscito in Italia nella traduzione di
Umberto Gandini per la casa editrice Ponte alle Grazie.
alla tradizione letteraria europea, ma rielabora anche quel materiale
biografico che era già stato l’oggetto della narrazione dell’io femminile
dei romanzi.3 A rendere Perikizi un testo particolarmente significativo
per il tema in questione è, però, il suo addentrarsi con sagacia nel me-
rito dell’attualità europea (nello specifico tedesca) rispetto al problema
dell’integrazione, e questo dalla prospettiva interna ed esterna ad un
tempo di una figura il cui retroterra culturale è quello di un paese, la
Turchia, la cui storia è sì profondamente intrecciata con quella del
continente europeo, ma che continua a risultare abbastanza esotico
per rappresentare l’“altro” culturale agli occhi di ogni europeo. Un
paese che nel dopoguerra ha vissuto una massiccia emigrazione verso
l’Europa, ma che a tutt’oggi non riesce ad accettare le radici multicul-
turali della sua storia e a fare i conti con le efferatezze del passato. Mi
vorrei concentrare su un tema che costituisce un filo rosso nella pièce:
il legame tra genocidio, nazionalismo e attuale difficoltà nell’approc-
cio con lo straniero, un complesso tematico colto dalla prospettiva di
una soggettività “in transito”, che trova nel viaggio dall’est all’ovest la
chance di una trasformazione. La storia rappresentata rievoca eventi
che mettono in luce alcuni parallelismi strutturali tra est e ovest rispetto
al problema del nazionalismo e della xenofobia, come se l’est fungesse
da specchio per l’ovest e ne svelasse alcune dinamiche psicologiche e
culturali recondite.
Perikizi nasce nel contesto di un festival di teatro dal titolo Odyssee
Europa, un progetto promosso nel 2010 dai principali teatri delle città
della Ruhr, che ha visto coinvolti sei drammaturghi di lingua tedesca cui
era stato chiesto di trasportare il mito di Odisseo nei giorni nostri per
raccontarlo come una moderna interrogazione della nostra identità di
europei.4 Il testo di Özdamar, che si distingue per il taglio prettamente

3
  La critica ha trovato la felice formula di «messinscena dell’Io» per definire la
peculiare figura dell’Io narrativo dei romanzi. Cfr. Ortrud Gutjahr, Inszenierungen eines
Rollen-Ich. Emine Sevgi Özdamars theatrales Erzählverfahren, in TEXT + KRITIK. Heft
211: Emine Sevgi Özdamar, cit., pp. 8-18.
4
  I sei testi sono stati pubblicati nel volume Theater Theater – Odyssee Europa. Aktuelle
Stücke 20/10, a cura di Uwe B. Carstensen e Stefanie von Lieven, Fischer Taschenbuch

40
interculturale, affida ad una giovane donna turca le sembianze di
Odisseo, una scelta con cui Özdamar si distacca radicalmente da tutta
la moderna ricezione dell’Odissea.5 L’autrice trasforma quindi il mito
patriarcale, archetipo di una ricerca della conoscenza legata alla prova
e al dolore, nella storia di migrazione di una giovane donna, raccontata
in un dramma a stazioni che dalla Turchia la vede attraversare i luo-
ghi distrutti dalla guerra nell’ex Jugoslavia, approdare in una foresta
tedesca incendiata, quindi scendere negli Inferi per ritornare infine
nella natale Istanbul. Come è evocato dal sottotitolo, Ein Traumspiel
(Un sogno), il viaggio di Perikizi, dai marcati tratti onirici, è in primo
luogo un’avventura della soggettività, metafora di un atto psichico che
nell’interazione con la realtà europea, nella sua dimensione assieme
mitica e reale, si configura come un processo di trasformazione in cui
il confronto con i traumi del passato assume un ruolo centrale.

II

Il dramma si apre con una lunga scena in cui la recente storia della
Turchia è evocata attraverso le esperienze dei componenti della famiglia
della ragazza. Il legame tra la storia turca e quella tedesca emerge già
in questo contesto quando la nonna ricorda l’alleanza tra i due pae-
si nella prima guerra mondiale, e richiama alla memoria il genocidio
degli armeni e di altre minoranze dell’impero ottomano. La nonna,
che racconta di aver perso il marito e sette figli nella guerra, è tutto-
ra perseguitata dai fantasmi del passato, dalle violenze e dalle morti

Verlag, Frankfurt a. M. 2011. La pièce è di recente stata pubblicata in traduzione italiana


con testo a fronte: Emine Sevgi Özdamar, Perikizi. Ein Traumspiel / Perikizi. Un sogno,
introduzione, traduzione e cura di Silvia Palermo, Liguori [Testi per il teatro], Napoli
2016. Le citazioni contenute in questo articolo sono tratte da questa edizione.
5
  Su questa figura di Odisseo al femminile cfr. Franziska Schlößler, Das Theaterevent
Odyssee Europa der Kulturhauptstadt Essen. Prekäre Männlichkeit und Emine Sevgi
Özdamars Traumspiel Perikizi, in Zeitschrift für Interkulturelle Germanistik, 2010, 1.2,
pp. 79-95.

41
con cui si è dovuta confrontare da giovane, in particolare dal ricordo
traumatico del genocidio degli armeni. Il trauma, che basta una parola
a rievocare, si esprime in reazioni fisiche, sintomatico è il sangue dal
naso che accompagna i ricordi. Alla testimonianza delle violenze la
nonna dà voce con una litania ripetitiva che ricorda la marcia durante
la quale sono cadute vittima due giovani donne armene che abitavano
nel suo villaggio:

Abooo, Abooo! Le spose armene, come si sono lanciate giù dal ponte!
Le spose armene, come si sono lanciate giù dal ponte! L’inferno hanno
visto con i loro giovani occhi, che volevano essere ciechi, l’inferno e il
fuoco su questa terra, il grembiule ancora sopra il vestito, scalze, gli
occhi grandi, le mani grandi, i piedi grandi per la marcia dei morti, i
loro figli come scheletri davanti ai piedi, il fuoco nel quale loro a lungo
camminarono, camminarono e camminarono, scottava sette volte di più
di quello dell’inferno. […] Eravamo dei buoni vicini di casa di queste
spose. Quando erano ancora in vita, nel villaggio arrivavano giornali
armeni da Istanbul. Quando morirono, i giornali non arrivarono più.
Dove sono andate tutte queste persone? Dove?6

Gli incubi della nonna tormentano anche la nipote, che ne assume


a tratti il ductus e la voce e accenna in uno stato quasi incosciente
alle vicende del genocidio in una sorta di riemersione del trauma, che
sembra così estendersi a livello inconscio da una generazione all’altra.
Una volta sveglia e cosciente Perikizi respinge i ricordi della nonna,

6
  «Abooo, Aboooo. Wie die armenischen Bräute sich von den Brücken heruntergestürzt
haben. Wie die armenischen Bräute sich von den Brücken heruntergestürzt haben.
Gesehen haben sie mit ihren jungen Augen, die blind sein wollten, die Hölle und das
Feuer auf dieser Erde, die Schürze noch über ihren Kleidern, barfuß, die Augen groß,
die Hände groß, die Füße groß vom Totenmarsch, ihre Kinder als Skelette vor ihren
Füßen, das Feuer, in dem sie lange liefen, liefen und liefen, war siebenmal heißer als das
Höllenfeuer. […] Wir waren gute Nachbarn dieser Bräute. Als sie noch lebten, kamen
armenische Zeitungen aus Istanbul ins Dorf. Als sie starben, kamen keine Zeitungen
mehr. Wohin sind all diese Menschen gegangen, wohin?» (Özdamar, Perikizi, cit.,
pp. 18-19). “Aboo” è un’esclamazione colloquiale turca che indica grande stupore,
costernazione e disperazione.

42
intrisi delle violenze che riemergono da un passato mai rielaborato:
il desiderio di emigrare in Europa nasce così direttamente da questa
sofferenza che giunge alla protagonista con il peso delle generazioni,
nonché dalla volontà di cercare possibilità alternative di esistenza e
nuovi modelli di identificazione. La sua passione per il teatro è già
indicativa di questa ricerca: all’inizio la vediamo con il Sogno di una
notte di mezza estate sotto il braccio recitare il ruolo di Titania, la regina
delle fate, capace di incantare con la sua voce e le sue parole. Il suo
stesso nome, Perikizi, significa in turco “figlia delle fate”. Un evento
della sua infanzia, rievocato dalla nonna, quando la madre l’aveva de-
posta in una tomba per ingannare la morte e guarirla da una malattia,
rimarca l’esistenza liminale della protagonista, sospesa tra vita e morte,
tra realtà e sogno, tra il mondo dell’infanzia, la Turchia, e il futuro, la
meta del suo viaggio, l’Europa.
Nella seconda parte della scena salgono sul palco i genitori di Peri-
kizi. Dalle loro parole emerge immediatamente come anche per questa
generazione le vicende di guerra, la morte dei genitori e i successivi
sviluppi storici del paese rappresentano un tassello identitario centrale.
Anche loro sono segnati dall’esperienza della perdita, un trauma che
emerge nella dura reazione al desiderio della figlia di emigrare in Euro-
pa: «Ti verseranno stelle d’oro sul capo, forza, va’ in quest’Europa! Che
ha sulla coscienza tutti i tuoi nonni. I morti che sono i nostri dei, non ti
perdoneranno mai, oh senza pace!»7 Le parole del padre riflettono la
tendenza a riversare su altri la colpa della guerra, e a rimuovere com-
pletamente quei crimini di cui anche il proprio paese si era macchiato.
Le argomentazioni dei genitori, cariche di pregiudizi e cliché razzisti,
sono un esempio evidente della retorica nazionalistica del sangue e
della terra (Blut und Boden) che continua a vigere in Turchia. In linea
con questa visione, e con l’immagine dell’Europa che emerge dalle sue
parole, il padre mette in guardia Perikizi dalla solitudine, dall’alienazio-
ne e dalle discriminazioni che la attendono, ricorrendo all’esempio di

7
  «Sie werden goldene Sterne auf dein Haupt schütten, wohlan zu dieser Europa. Die
Toten, die sind unsere Götter, nie werden sie dir verziehen, du Ruhelose.» (ivi, pp. 40-41).

43
Odisseo nell’antro del ciclope, che per sfuggire al gigante si definisce
un «nessuno»:

Figlia mia bella, Odisseo aveva detto che si chiamava Nessuno. Questo
lo salvò, ma a confronto con il gigantesco formato spirituale del ciclope,
Odisseo è davvero un Niente, un Nessuno. Il ciclope è un gigante, per-
ché la sua coscienza abbraccia territori giganteschi. Il gigante vive nel
suo ambiente, ha pecore, agnelli e capre, questa è la sua terra. Odisseo
nelle sue peregrinazioni si è invece quasi rimpicciolito a un Niente,
a un Nessuno. […] Un Nessuno alla fine possiede solo solitudine, la
solitudine dell’Io, nel quale, come pipistrelli accecati dalla luce, abitano
dolori, vane speranze e perdite.8

Il rischio paventato dal padre di Perikizi è quello della perdita della


propria individualità, della riduzione a stereotipi, e del rischio di tro-
varsi ad occupare una posizione subalterna:

Poniamo il caso che scrivi un romanzo, con tutte le tue fantasie, con i
tuoi sentimenti delicati. […] Queste creazioni, che scaverai fuori dal
tuo corpo, saranno archiviate come turche. Diranno: “Guardate com’è
bella la lingua turca”. Nessuno sa il turco, ma improvvisamente tutti
sanno che è turco.
E tu finisci nello scomparto turco. Europa, giardino zoologico delle lin-
gue, qui ci sono gli animali turchi. Come se la Turchia fosse un villaggio,
in cui tutti gli abitanti fanno le stesse esperienze. Così tenteranno di
cancellarti dalla memoria, perché loro non ne hanno. Poiché loro non
ne hanno, non puoi averla neanche tu. Anche perché se ne infischiano.9

8
  «Meine schöne Tochter, Odysseus hatte gesagt, er hieße Niemand. Das rettete ihn,
aber im Vergleich zum geistigen Riesenformat des Kyklopen ist er tatsächlich ein Nichts,
ein Niemand. Der Kyklop ist ein Riese, weil sein Bewusstsein riesige Gebiete umfasst.
Der Riese lebt in seiner Umgebung, hat Schafe, Lämmer und Ziegen, das ist sein Land.
Odysseus ist aber auf seiner Irrfahrt in der Fremde beinahe zu einem Nichts, Niemand
geschrumpft. […] Ein Niemand besitzt am Ende nur Einsamkeit des Ichs, in dem
Leiden, leere Hoffnungen, Verluste, wie vom Licht geblendete Fledermäuse zu Hause
sind.» (ivi, pp. 44-47).
9
  «Nehmen wir an, du schreibst einen Roman, mit all deinen Phantasien, deinen

44
Se da un lato sembra insistere su un’idea di identità come ricerca e
lavoro individuale, che scardina l’idea di una nazionalità omogenea ed
esclusiva, dall’altro il padre resta attaccato all’idea di una “vera” identi-
tà turca, costruita tramite una dicotomia rigida e netta che prevede tra
l’altro la diffamazione dei migranti turchi, colpevoli a suo dire di aver
creato in Europa un’immagine riduttiva e peggiorativa della Turchia:

Qui noi siamo moderni, abbiamo la nostra storia, le nostre ricchezze, la


nostra cultura. Quelli che sono andati via sono i poveri, i ‘senza cultura’,
gli schiavi. Attraverso loro in Europa la nostra vera identità, la nostra
ricca storia vengono rimpicciolite. All’improvviso l’Europa scrisse una
nostra storia miniaturizzata.10

Il padre si fa quindi portavoce di un discorso identitario che vede


la mescolanza tra culture come potenzialmente pericolosa, e destinata
unicamente a produrre violenza:

I poveri europei mi faranno sempre pena, sia che sorridano, sia che
guardino male. Gli estranei divideranno sempre in due il paese in cui
arrivano. Questo significa una guerra di parole fra gli abitanti divisi in
due. Rifletti solo un momento: tu costringi le persone che sono nate lì
a diventare ogni giorno dei custodi.11

empfindsamen Gefühlen […] Diese Schöpfungen, die du aus deinem eigenen Körper
ausgraben wirst, werden unter Türkisch registriert. Sie werden sagen: “Schauen Sie, wie
schön die türkische Sprache ist.” Keiner kann Türkisch, aber plötzlich wissen sie, dass
es Türkisch ist.
Du landest in der türkischen Schublade. Europa, Tiergarten der Sprachen, hier sind
die türkischen Tiere. Als wäre die Türkei ein Dorf, in dem alle Einwohner die gleiche
Erfahrung haben. So werden sie versuchen, dir dein Gedächtnis auszulöschen, weil sie
keines haben. Weil sie keines haben, darfst du auch keines haben.» (ivi, pp. 54- 55).
10
  «Wir sind hier modern, wir haben unsere Geschichte, unsere Reichtümer, unsere
Kultur. Die, die weggegangen sind, sind die Armen, die Kulturlosen, die Sklaven. Durch
sie wird in Europa unsere wahre Identität, unsere reiche Geschichte klein gemacht.
Plötzlich schrieb Europa unsere reduzierte Geschichte. Ridicule.» (ivi, pp. 46-47).
11
  «Die armen europäischen Leute, die werden mir alle leidtun, ob sie lächeln, oder
böse schauen. Ausländer machen die Einheimischen zu Pförtnern. Die Fremden werden
das Land, in dem sie ankommen, immer zweiteilen. Das bedeutet Wörterkrieg unter den

45
Nel corso del viaggio questa visione dell’identità individuale va in-
contro ad una radicalizzazione; allo stesso tempo, però, viene messa
alla berlina e minata alla radice nella sua ridicolezza. Ma già l’ambien-
tazione stessa della scena iniziale, la città di Istanbul, metropoli multi-
culturale per eccellenza, è connotata come un luogo di contaminazioni
culturali, una connotazione che rende caricaturali le parole del padre:
non a caso appaiono sulla scena due musicisti, uno greco e uno tur-
co, che cantano canzoni tradizionali greche, turche e armene, quasi a
voler ricordare e celebrare le radici multietniche e multiculturali della
Turchia odierna.
Il valore dell’esperienza di migrazione che si preannuncia nella prima
scena del dramma consiste quindi niente di meno che nel richiamare
alla memoria la storia multiculturale rimossa della Turchia, e in questa
prospettiva è da intendersi, ironicamente, la risposta della protagonista
al discorso del padre: «Padre, io renderò la storia di nuovo grande».12 Il
viaggio diventerà da un lato l’occasione di un confronto con i discorsi
nazionalistici che si conducono in Europa tra gli autoctoni così come
tra i migranti, dall’altro consentirà di far luce sul nesso profondo che
accomuna il passato dei due paesi. Da una Turchia macchiata da una
colpa rimossa e mai rielaborata, Perikizi arriva in una Germania che
ancora lotta con i fantasmi del proprio passato. Non è un caso che
ad accompagnarla siano le ombre dei rappresentanti della guerra, il
giovane soldato, il nonno defunto, accompagnato da un asino, e le
due giovani spose armene morte durante la marcia. Si ribadisce così il
carattere liminale dell’esistenza della protagonista, che appare dotata
di una sensibilità fuori dal comune, capace di entrare in contatto con i
morti e di fungere da loro portavoce – un tema caro ad Özdamar, che
già nel primo romanzo, Das Leben ist eine Karawanserei, aveva raccon-
tato l’intimità del legame tra nonna e nipote e il sottile filo che, nella
persona della nonna, univa l’esistenza della protagonista con quella

zweigeteilten Einheimischen. Überleg dir nur einen Moment lang, dass du die Menschen,
die dort geboren sind, täglich zwingst, zum Pförtner zu werden.» (ivi, pp. 48-49).
12
  «Vater, ich mache die Geschichte wieder groß.» (ivi, pp. 46-47).

46
dei morti. Durante una scena successiva, intitolata Il sogno di Perikizi
(Perikizis Traum), viene conferita per la prima volta una voce alle due
donne armene, una voce che, tuttavia, può accennare solo in modo
indiretto alle violenze subite: «Non ci è permesso. Non ci è permesso
di parlare. È già un’eternità che non ci è permesso di parlare».13 Signi-
ficativamente, è il lamento di due alberi di fico che le osservano passare
a raccontare la marcia della morte di cui erano cadute vittima le due
giovani, una strategia scelta evidentemente per rappresentare la misura
della rimozione storica della tragedia del genocidio in Turchia. Ma se
è indubbiamente vero che la scena nasconde un richiamo pregnante
all’attualità, rimandando al rifiuto da parte del governo turco di ricono-
scere il genocidio, e quindi ai possibili rischi che parlarne apertamente
può avere nella Turchia odierna,14 altrettanto importante è la funzione
rivestita dal sogno nel processo di maturazione della protagonista, la
quale pare accogliere la “verità” che i morti le consegnano, vestita delle
testimonianze degli orrori della guerra e del genocidio. Alla rimozione
collettiva dei traumi storici del proprio paese, da cui, come suggerisce
il testo, derivano le attuali tendenze nazionalistiche e xenofobe, Peri-
kizi contrappone l’acquisizione di una consapevolezza del passato e,
su questa base, la ricerca nella Fremde, nell’esperienza di una cultura
straniera,15 di possibilità alternative per il suo presente.

III

13
  «Wir dürfen nicht. Wir dürfen nicht sprechen. / Schon ewig lange dürfen wir nicht
sprechen.» (ivi, pp. 104-105).
14
  Stefani Kugler, Ariane Totzke, Nationalismus und Völkermord in Emine Sevgi
Özdamars Theaterstück Perikizi – Ein Traumspiel, in Elke Sturm-Trigonakis, Simela
Delianidou (a cura di), Sprachen und Kulturen in (Inter)Aktion, Teil 1 – Literatur- und
Kulturwissenschaft, Peter Lang, Frankfurt a. M. 2013, pp. 107-120.
15
  Sul concetto e sull’esperienza della Fremde cfr. Lucia Perrone Capano, Sprachfremde
and Fremderfahrung as Acoustic and Visual Experience in Works by Yoko Tawada and
Emine Sevgi Özdamar,  in Robert Schechtman, Suin Roberts (a cura di),  Finding the
Foreign, Cambridge Scholars Press, Newcastle UK 2007, pp. 245-260.

47
È quindi dalla prospettiva di un processo di consapevolizzazione in
fieri che la protagonista, durante il viaggio, giunge a confrontarsi con
due aspetti centrali dell’identità europea: la tendenza all’esclusione
dell’altro che deriva dalla percezione di sé come identità omogenea
e statica, e, legato a questa, la burocratizzazione e la regolamentazio-
ne degli arrivi. Sul treno che attraversa la ex Jugoslavia tre prostitute
spiegano a Perikizi che il suo destino in terra straniera sarà quello di
venire ridotta ad un passaporto, un permesso e un contratto di lavoro.
In effetti, l’avvertimento del padre si avvera: Perikizi rimane invisibile
ai più, come si osserva nella scena Nel bosco bruciato a metà (Im halb
verbrannten Wald). Il bosco richiama l’ambientazione del Sogno di una
notte di mezza estate, un luogo mitico della fantasia, che però nella re-
altà appare contrassegnato dalle distruzioni della guerra. Ma il bosco
è anche e soprattutto uno dei simboli centrali della cultura tedesca, e
nella sua distruzione simboleggia la Germania ancora profondamente
segnata dai crimini del passato. In questo bosco incendiato Perikizi
incontra i portavoce del discorso sulla Shoah e sul nazismo che attual-
mente si conduce in Germania. Sono tre giganti con un occhio solo,
un dettaglio che richiama l’immagine del ciclope dell’Odissea di cui
parla il padre di Perikizi. Significativamente vengono definiti “giganti
dei sensi di colpa”, e caratterizzati come intellettuali dal viso paonazzo,
che divorano salsicce, bevono birra, e addirittura si lavano nella bir-
ra. Parlano all’unisono, come un coro, e si perforano la testa con dei
trapani per scacciar via il ricordo traumatico e cancellare la memoria.
Il loro esprimersi collettivo sul nazismo e sulla Shoah, intonato in un
canto funebre, si riduce a vuote formule e a frasi fatte:

CORO DEI SENSI DI COLPA


Siamo i sensi di colpa della guerra.
Odiamo nostro padre,
nostra madre, peccato hanno loro,
hanno peccato. Noi viviamo qui nel peccato.
È grande, troppo grande, il peccato
la nostra storia un amaro fato.

48
Il nostro bosco è bruciato, non può essere salvato,
da malvagi piedi paterni calpestato.
Le nostre teste sono vuote,
da mille domande appesantite.
Cos’è accaduto nel nostro bosco?16

Secondo questa scena, auto-aggressività e fissazione sterile sulla


colpa collettiva sono le modalità principali con cui in Germania ci
si rapporta con i crimini del passato. Ed è proprio questa patologica
concentrazione su se stessi, questa insistenza ossessiva sulla colpa e sul
dolore, a rendere i giganti ciechi al punto di non accorgersi neppure
della migrante, finendo così per produrre nuova esclusione e violenza.
Questa scena, che si può leggere come un adattamento dell’episo-
dio di Ulisse e del ciclope nell’Odissea, trova una continuazione in
un episodio successivo, che si svolge in un convitto per lavoratrici
ospiti (Gastarbeiterinnen) in Germania. Si tratta di un luogo-chiave
nella topografia reale e simbolica dell’autrice, che vi ambienta i primi
capitoli del romanzo Il ponte del corno d’oro, dove la protagonista,
giunta a Berlino dalla Turchia nella metà degli anni sessanta, trova nelle
ragazze che vi soggiornano una nuova comunità di appartenenza. Il
convitto femminile del dramma è invece il luogo in cui Perikizi viene
per la prima volta a contatto con l’ultranazionalismo turco: delle tre
operaie turche che appaiono sul palcoscenico con sembianze di polli
una sventola una bandiera turca e si rivolge con aggressività a Perikizi,
chiedendole immediatamente se è di etnia armena. La ragazza-pollo
porta una benda sull’occhio sanguinante, un altro richiamo al ciclope
dell’Odissea, ma anche ai tre giganti dei sensi di colpa. In questo modo,
sul piano dei motivi e delle immagini prima che su quello del discorso,
si stabilisce un nesso tra l’attuale nazionalismo turco e l’odio di sé, al-

16
 «Schuldgefühlechor Wir sind die Schuldgefühle des Kriegs. / Wir hassen
unsern Vater, / unsere Mutter, gesündigt haben / sie, gesündigt. Wir leben hier in Sünde.
/ Die Sünde ist groß, viel zu groß, / unsre Geschichte ein bittres Los. / Unser Wald ist
verbrannt, nicht zu retten, / von bösen Vaterfüßen zertreten. / Unsere Köpfe sind leer; /
von tausend Fragen schwer. / Was geschah in unserem Wald?» (ivi, pp. 80-81).

49
trettanto cieco e violento, dei rappresentanti del discorso sul nazismo
in Germania. Questo nesso trova un’ulteriore declinazione in una scena
successiva, intitolata Essere senza parole nel bosco bruciato a metà (Die
Sprachlosigkeit im halb verbrannten Wald), con l’entrata in scena di un
lupo vestito da intellettuale, una figura che rappresenta evidentemente
il movimento nazionalista turco dei Lupi grigi. Il lupo compie davanti
agli occhi di Perikizi uno show anti-tedesco, condito da gesti osceni e
provocatori all’indirizzo dei giganti, e accompagnato da queste parole:

Miei cari amici ragionevoli occidentali, io sono contro l’Illuminismo.


Voi siete tradizionalisti bau bau bau la nostra lotta comune va avanti,
via libera a tante moschee, ma col minareto, per favore, bau bau bau.
Via libera ai veli pudichi delle donne, bau bau.17

Questa scena mostra come un confronto pseudo-intellettuale e dog-


matico con il passato, che all’ideologia della superiorità della razza sa
contrapporre solo auto-aggressività e autoumiliazione collettive, im-
pedisca non solo un rapporto alla pari tra migranti e non migranti, ma
addirittura costituisca il terreno fertile per il sorgere e il maturare di
posizioni estremiste e atteggiamenti di esclusione radicale da entrambe
le parti.
Nel suo far luce sulle dinamiche intrinseche che regolano i rapporti
tra migranti e non migranti in Germania il bilancio dell’esperienza
della protagonista in terra straniera non può dunque dirsi positivo.
Perikizi viene da un lato ridotta a una serie di cliché e stereotipi, come
rende particolarmente evidente una scena in cui due ragazze tedesche
le rivolgono delle domande che lei non comprende e a cui può rispon-
dere solo a monosillabi, e che dimostrano come la sua identità venga
misurata solo su fattori aprioristici, come il portare o non portare il
velo. Dall’altro lato Perikizi è vittima di discriminazioni anche da parte

  «Meine lieben abendländischen vernünftigen Freunde, ich bin gegen die Aufklärung.
17

Ihr seid traditionsbewusst, wauwauwauwau, unser gemeinsamer Kampf geht weiter,


Freiheit für viele Moscheen, aber mit Minarett, bitteschön, wauwauwau. Freiheit für
Schamtücher der Frauen, wauwauwauwau.» (ivi, pp. 146-147).

50
di un nazionalismo turco aggressivo e violento che in Germania sembra
prosperare anche a cagione del rapporto malsano che i tedeschi dimo-
strano di avere con l’alterità culturale e con la colpa collettiva storica. È
significativo, infatti, che i giganti neghino a Perikizi il loro aiuto, e ad un
certo punto si mettano addirittura dalla parte del lupo quando questi
le annoda un velo attorno alla testa: «I TRE GIGANTI DEI SENSI
DI COLPA: Non nasconderti! Non nascondere la tua vera identità!
Non aver paura di noi occidentali. Non aver paura di noi occidentali.»18
Nelle scene finali, tuttavia, diviene evidente che, nonostante le umi-
liazioni subite, il viaggio di Perikizi non è stato affatto inutile. Grazie
all’esperienza della migrazione la ragazza arriva infatti a confrontarsi
con il trauma della nonna, e facendo propria la sua prospettiva lascia
emergere i ricordi, che diventano parte della sua stessa identità. È così
possibile la scena dai tratti conciliatori che ha luogo negli inferi, Nell’A-
de (Im Hades), una scena inframezzata da versi tratti dall’Iperione di
Hölderlin, dove accanto a Hölderlin stesso appaiono le due donne
armene e il nonno di Perikizi. L’incontro tra la ragazza e i morti avviene
all’insegna di una vita e di un’esperienza che si tramanda di generazione
in generazione, di una saggezza che non può essere messa a tacere, ma
deve arricchirsi reciprocamente delle rispettive esperienze: «IL SOL-
DATO Se non sai come andare avanti, devi tornare dai morti, parlare
con noi. Così noi viviamo ancora dentro di te. […] Non solo tu impari
dai morti, anche i morti imparano da te.»19 L’episodio si conclude con
la lettura di una strofa della poesia Itaca di Kavafis, poesia che celebra
l’essere in viaggio e valorizza la ricchezza delle esperienze accumulate
durante il percorso rispetto alla volontà di raggiungere velocemente la
meta.20 La scena, che rimanda chiaramente agli attuali sviluppi della

18
  «DIE DREI SCHULDGEFÜHLE-GIGANTEN Steh doch, steh doch zu
deiner wahren Identität. Keine Angst vor uns Abendländern. Keine Angst vor uns
Abendländern.» (ivi, pp. 148-149).
19
  «SOLDAT Wenn Du nicht weiß, wie es weitergeht, musst du zu den Toten
zurückkehren, mit uns sprechen. So leben wir auch in dir weiter. […] Nicht nur du
lernst von den Toten, die Toten lernen auch von dir.» (ivi, pp. 154-155).
20
  Sul tema del ritorno impossibile, in riferimento all’esperienza della migrazione e ad

51
società turca, ha anche un’evidente funzione di monito, che richiama
la necessità di raccontare finalmente quello che è stato.
Tuttavia la scena finale, che è di nuovo ambientata a Istanbul e rap-
presenta la protagonista, come nella prima scena, seduta di fronte allo
specchio recitare i versi di Titania, sembra negare la conclusione ar-
moniosa ipotizzata nell’episodio precedente, riportandola sul piano
dell’utopia. Con il riprendere quasi interamente la scena iniziale essa
toglie ogni finalità teleologica all’azione drammatica, e riconduce più
realisticamente lo spettatore alla consapevolezza dell’impossibilità di
regolare una volta per tutti i conti con il passato, nello specifico con il
nazionalismo e il razzismo come parti integranti della propria storia e
della propria identità.

IV

Come altri testi teatrali di Özdamar, anche Perikizi si distingue per


l’umorismo surreale e grottesco, che va da un lato a scuola dallo stra-
niamento brechtiano, dall’altro sembra ispirarsi, nella sua mescolanza
di elementi grotteschi, fantastici e carnevaleschi, all’estetica del car-
nevale di Bachtin.21 La protagonista, che dall’inizio vediamo portare
con sé una maschera d’asino che si toglie e si mette, si definisce a più
riprese uno «Schelm», un «Narr», ossia un briccone, un folle. Molti
dei personaggi che appaiono sulla scena hanno sembianze di animali,
mentre spesso si assiste all’esposizione del corpo, nei suoi aspetti più
ordinari. Sono significative, in questo senso, le riprese di motivi della
cultura cristiana legati alla figura dell’asino. Tipiche della tradizione

Odisseo quale suo archetipo, cfr. Maria E. Brunner, Migration ist eine Hinreise. Es gibt
kein „Zuhause“, zu dem man zurück kann,  in Manfred Durzak (a cura di),  Die andere
deutsche Literatur, Königshausen & Neumann, Würzburg 2004, pp. 71-90.
21
  Su questo aspetto cfr. Norbert Mecklenburg, Karnevalistische Ästhetik des
Widerstands. Formen des gesellschaftlich-komischen bei Emine Sevgi Özdamar, in Peter-
Weiss-Jahrbuch für Literatur, Kunst und Politik im 20. und 21. Jahrhundert, 16, 2007, pp.
85-102.

52
medievale cristiana, le feste dell’asino erano infatti riti di rovesciamen-
to che parodiavano la messa e i suoi simboli. Interessante è anche, in
questo contesto, il richiamo alla scena dello Zarathustra di Nietzsche
in cui un asino viene adorato come se fosse Dio, scena che Perikizi
sembra citare quando urla ripetutamente I-A (in tedesco “sì”) contro
il padre, il quale da un lato esalta l’identità turca, dall’altro idolatra
attori americani. Ma anche nella tradizione medievale turca l’asino è
spesso presente, come nella leggenda del Nasreddin Hodscha, grande
narratore di storielle e aneddoti umoristici, che è sempre accompagnato
da un asino durante i suoi viaggi.
È tuttavia importante notare come l’umorismo grottesco e carnevale-
sco si affermi solo nella seconda parte della pièce, nel corso del viaggio
in Europa, mentre la prima scena dal carattere espositivo, che è ambien-
tata a Istanbul, ha tratti prevalentemente realistici, e le figure e le loro
esperienze traumatiche mantengono un’aura tragica. Özdamar riesce
a restituire alla storia la sua drammaticità ricostruendo l’indicibile del
trauma del genocidio armeno dalla prospettiva delle vittime. La nonna
e le due donne armene, che sono funzionali a dar voce a un passato di
cui in Turchia fino ad oggi è vietato parlare, sono presenti anche nella
seconda parte del dramma, dove fungono da tragico contraltare ad
una società tedesca che viene invece assolutamente ridicolizzata nei
suoi stereotipi e cliché. In questo modo si stabilisce un contrasto tra
i due paesi nel rapporto con il passato che essi dimostrano di avere:
mentre i rappresentanti del discorso sulla Shoah e sulla colpa collettiva
in Germania sono figure grottesche e ridicole, il genocidio armeno
acquista sul palcoscenico una presenza dolorosa nella presenza delle
vittime e nel loro lamento. La differenza nel rappresentare un evento
storico analogo è indicativa del diverso modo in cui esso viene vissuto
nei rispettivi paesi: mentre gli uni tacciono il passato e lo rimuovono,
gli altri ne parlano fin troppo, così da svuotare il discorso di ogni signi-
ficato. Il viaggio di Perikizi mostra emblematicamente le conseguen-
ze pericolose che possono derivare da entrambi gli atteggiamenti: da
un lato una modalità disturbata di rapportarsi con l’alterità culturale,

53
dall’altro un nuovo emergere ed affermarsi di posizioni nazionaliste e
estremiste, un groviglio di problemi, quindi, che è lo sguardo ingenuo
e al contempo sensibile di Perikizi, lo sguardo di chi, come afferma il
nonno defunto, «ha un cuore», a sviscerare nella sua urgente attualità.

Perikizi è concepito come un dramma intertestuale, il cui testo prin-


cipale di riferimento, come richiesto dall’organizzazione del festival
per cui è stato scritto, è l’Odissea di Omero. Appare subito evidente,
però, la ricchezza dei richiami intertestuali, ben lungi dall’esaurirsi nel
legame strutturale con il pre-testo principale. Il dramma shakespea-
riano Sogno di una notte di mezza estate, ad esempio, svolge un ruolo
altrettanto importante, dal momento che Perikizi non veste solo i panni
di Odisseo, ma si identifica con Titania, la regina delle fate. Inoltre, il
testo è disseminato di citazioni da altre opere, nello specifico da po-
esie di Konstantinos Kavafis, Friedrich Hölderlin e Heinrich Heine.
Numerose sono quindi le autocitazioni, i richiami a motivi contenuti
nell’opera della stessa autrice, ma anche i riferimenti a fiabe e a leg-
gende della tradizione culturale turca, nonché a elementi della cultura
popolare e trash. Questa ricchezza di rimandi risponde palesemente a
una strategia interculturale di ibridizzazione, tesa a creare una plura-
lità di voci che vuole essere anche e soprattutto un rifiuto del registro
alto dell’Odissea, e quindi di una cultura, quella greca antica, che ha
prodotto per la prima volta la netta dicotomia culturale tra ovest e est,
tra centro e periferia, tra oriente e occidente. Dietro questa strategia
intertestuale è evidentemente adombrata la critica a un uso del mito
come fattore di continuità dai greci agli europei, all’interno di una
visione che esclude il cosiddetto “barbaro” dal cammino della civiltà.
Non a caso una delle voci citate in questa pièce plurivocale è quella di
Kavafis, di cui si legge, significativamente, non solo da Itaca, ma anche
dalla poesia Aspettando i barbari, che vede proprio nel loro arrivo la
soluzione all’inerzia del presente:

54
Cosa aspettiamo, qui riuniti al Foro?
Oggi devono arrivare i barbari.
Perché tanta inerzia al Senato?
E i senatori perché non legiferano?
Oggi arrivano i barbari. Tcünkü barbarlari bekliyoruz
Che leggi possono fare i senatori?
Venendo i barbari le faranno loro.
[…]
Tutto a un tratto perché questa inquietudine e questa
agitazione?
(oh, come i visi si son fatti gravi)
Perché si svuotano le vie e le piazze
e tutti fanno ritorno a casa preoccupati?
Perché è già notte e i barbari non vengono.
Come faremo adesso senza i barbari?
Dopo tutto quella gente era una soluzione.22

L’esperienza di Perikizi vuole rendere evidente come il confronto con


il passato, parte essenziale della costruzione di ogni identità individuale
e collettiva, debba comprendere anche il ripensamento dei crimini
del passato, un uscire dalle parti negative del suo retaggio alla ricerca
di un altro retaggio migliore. Come rivela la voce di questo poeta,
che viene citato in contrapposizione ai discorsi con cui Perikizi viene
a contatto nella Fremde, la connessione con il passato che Özdamar
propone vuole dire addio ad un’Europa dalle strutture gerarchiche e
accentratrici, in favore di un’Europa delle vie non lineari, in questo
analoghe a quelle dei migranti delle diaspore del XX e XXI secolo:
un procedere, quindi, in tutte le direzioni possibili, nell’intento di fare
rinascere la comprensione delle origini miste e molteplici dell’Europa
e della connessione tra le culture.

  Costantino Kavafis, Aspettando i barbari, in Id., Settantacinque poesie, a cura di Nelo


22

Risi, Margherita Dalmàti, Einaudi, Torino 1992, pp. 37, 39.

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