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heim (Maria Carmela Schisani e Roberta Ascarelli) e Mario Recanati (Ro-


saria Savio), oltre ad approfondimenti circa personaggi ebrei rilevanti nella
storia del Meridione, come Angelo Levi che partecipò ai moti carbonari,
vari politici, docenti, militari, funzionari di Stato, persone alla ricerca delle
proprie origini sefardite (Bruno Di Porto).
Due libri importanti che forniscono un notevole contributo alla rico-
struzione storico-sociologica delle vicende ebraiche nel Meridione.

Silvia Haia Antonucci

Andrei Oișteanu, L’immagine dell’ebreo. Stereotipi antisemiti nella


cultura romena e dell’Europa centro-orientale, trad. di Horia Corneliu
Cicortaş e Francesco Testa, Livorno, Salomone Belforte 2018, pp. 901.
Euro 38.

L’immagine dell’ebreo nella cultura romena (Imaginea evreului în


cultura română, Ediţia a IIIa, revăzută, adăugită şi ilustrată, Iaşi, Poli-
rom 2012) ha ricevuto decine di giudizi entusiastici da parte dei più fa-
mosi intellettuali romeni, del paese e della diaspora (Lucian Boia, Andrei
Pleşu, Vladimir Tismăneanu, Moshe Idel) e dei più autorevoli studiosi di
storia dell’ebraismo, dell’antisemitismo e della Shoah in Europa Orien-
tale (Alex Drace-Francis, Paul Hanebrink, Peter Sherwood, Günther Ji-
keli, Robert Moses Shapiro, Joanna B. Michlic). Tutti hanno sottolineato
il carattere interdisciplinare dell’opera, di rilevante interesse per molte
discipline: storia dell’Europa Orientale, etnologia, antropologia culturale,
folklore, e di ambiti di studio: antisemitismo, ebraismo in generale, na-
zionalismo e populismo etnocentrico. Io amplierei questa lista con altre
discipline: sociologia della cultura, filosofia della storia, teoria della sto-
riografia, storia dell’arte (il corredo di immagini va da figurazioni anti-
che e medievali fino a cartoline satiriche diffuse in Francia, Germania e
Gran Bretagna), la storia della letteratura (pan-europea, non solo romena,
della quale si offre comunque un caleidoscopio unico nel suo genere, da
Dimitrie Cantemir a Vasile Alecsandri, da Ion Luca Caragiale a Liviu
Rebreanu e Mihail Sadoveanu, fino a Mircea Cărtărescu). Il capitolo IV
(Il ritratto mitico e magico) e il capitolo V (Il ritratto religioso), ma non
solo essi, offrono naturalmente una messe di materiali, spesso poco noti,
e una serie di stimoli interpretativi alla disciplina che io stesso professo,
la storia delle religioni, in conformità con la problematica e lo stile com-
parativo della stessa.

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Presento anzitutto una sintesi dei contenuti e dei fini dell’opera basata
sullo schema proposto dall’A. (pp. 31-32). Si possono individuare quattro
direttive d’analisi ben distinte:
– La comparazione nel tempo, che contestualizza diacronicamente il
tema, indagando lo sviluppo temporale degli stereotipi, dei clichés e delle
leggende sugli ebrei attraverso i tempi.
– La comparazione nello spazio, in cui l’autore cerca di collocare il
tema in un preciso contesto geo-culturale, confrontando i modi in cui le
immagini dell’ebreo nella cultura romena differiscano o meno da quelle
presenti nella cultura tradizionale di altri popoli dell’Europa centrale e
orientale.
– La comparazione etnica, con la quale si cerca di mettere in risalto i
tratti che hanno portato l’ebreo a essere immaginato in maniera differente
rispetto ad altri stranieri con cui, nel corso dei secoli, il popolo romeno è
venuto a contatto.
– La comparazione culturale, in cui l’A. prova a indagare la transizione
degli stereotipi antisemiti da un ambiente popolare legato a una cultura ru-
rale a uno intellettuale, inserito in una cultura urbana, e di come questi ele-
menti siano stati rimodulati nella letteratura e nella politica alta dell’Otto-
Novecento. Mi limiterò qui a una serie di appunti generali.
Anzitutto una notazione sull’architettura dell’opera, saldamente strut-
turata e ricca di suggestioni. La traduzione italiana (di gran lunga la più
accurata tra le varie traduzioni finora apparse), con la numerazione dei
capitoli, paragrafi, sezioni, valorizza l’armonia della composizione. I primi
due capitoli abbracciano la sfera del corpo, il terzo quella della mente, il
quarto e il quinto lo spirito, suggerendo l’idea dell’uomo, ebreo o romeno,
immaginato o reale, come un microcosmo. Di seguito sintetizzo le mie
impressioni secondo due linee, una psicologica e una epistemologica.
L’immagine dell’ebreo è un testo sconvolgente, lo si legge con pathos e
talora con vera e propria sofferenza e compartecipazione. Continuamente
siamo costretti a chiederci: Ma siamo stati e siamo proprio così?, perché
da certi indizi sembra che la situazione dei rapporti tra Io e l’Altro non
sia cambiata in maniera sensibile, a parte universali dichiarazioni di buoni
sentimenti. Nella prospettiva di uno studioso che ancora creda al valore
dell’educazione, riterrei che un libro siffatto dovrebbe essere introdotto
come lettura curricolare in tutte le scuole d’Europa, alla pari di Se questo è
un uomo di Primo Levi e Cristo si è fermato ad Eboli di Carlo Levi. L’im-
magine dell’ebreo potrebbe forse vantaggiosamente sostituire un buon nu-
mero di manuali di storia, di geografia, di storia letteraria, perché in questo
libro c’è tanta storia, tanta geografia e tanta letteratura nella dimensione,

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talora più umana e talora più dis-umana, la dimensione della fame, del
sesso, della fatica, del sudore, del fetore, della crapula e dell’eccesso, del
sangue della passione, del sogno, del mito, della fede.
Quanto alla linea epistemologica, mi sembra che la totale assenza di
pregiudizio etnico e ideologico da parte di Oișteanu, in un’opera che col-
leziona una quantità incredibile di pregiudizi a doppio senso, dimostri che,
come non esistono l’ebreo immaginario e il romeno immaginario, così non
esiste l’ebreo reale o il romeno reale, o l’italiano vero celebrato dal can-
tautore Toto Cutugno («Sono un italiano, un italiano vero»). Si pensi ai
paragrafi dedicati alla puzza di aglio/cipolla, che i romeni attribuiscono
agli ebrei e altri popoli attribuiscono ai romeni (I, 5), e a quelli dedicati
alla donna ebrea (I, 6), che sarebbe al tempo stesso troppo virtuosa e
troppo libertina. In numerosi casi l’A. adduce una serie di testimonianze
che sembrano confutare la realtà di una caratteristica negativa (o, rara-
mente, positiva) e poi previene il lettore dal giungere a conclusioni affret-
tate, adducendo testimonianze che possono dare sostanza all’insorgere del
pregiudizio. Esemplare è in tutta l’opera la fermezza, scientifica e morale,
con cui l’autore si rifiuta di confutare un cliché estremizzandone quello
opposto.
Nato da famiglia ebraica in terra romena, Andrei Oișteanu è consa-
pevole del suo complesso retaggio e difende in ogni caso le ragioni della
verità documentata contro la verità immaginata. Come uomo e come sto-
rico, egli presenta le ragioni degli uni e degli altri, i fatti e i misfatti, con
un’onestà, un equilibrio e un rigore intellettuale davvero raro.
La sensazione di ordine generale che ho ricavato dall’ingente documen-
tazione raccolta in quest’opera è che le idee e le azioni dei romeni siano do-
minate da un’insanabile contraddizione. Siamo effettivamente in presenza
di due stereotipi entrambi esagerati: quello del romeno buono e tollerante
opposto a quello del romeno barbaro e malfattore. Al di là dell’immagina-
zione, incontriamo però la bruciante realtà dei fatti che ebbero luogo tra il
1940 e il 1944, nella Romania che Carol II aveva, suo malgrado, conse-
gnato nelle braccia del Maresciallo Ion Antonescu il 5 sett. 1940. Segue
un’esposizione, in estrema sintesi, dei fatti che si susseguirono a quella
data, basata sulla recente storiografia accademica, in particolare l’accura-
tissima imparziale monografia di Vladimir Solonari, Purificarea națiunii.
Dislocări forțate de populație și epurări etnice în România lui Ion Antone-
scu, 1940-1944, Iași 2015.
La distruzione fisica dei cittadini rumeni di origini ebraiche fu con-
comitante a quella economica con le modalità di una rapina di Stato. Ne
furono deportati in Transnistria 195.000, solo 49.927 dei quali erano an-

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cora vivi nel novembre 1943. In Transnistria, il governo di Antonescu


sterminò oltre 170.000 ebrei ucraini. In totale oltre 300.000 ebrei furono
massacrati. In seguito all’ordinanza speciale di “Pulizia del terreno”, il
territorio tra il Dniester e il Bug divenne un enorme cimitero, cosparso
di decine di migliaia di cadaveri spogliati delle vesti e lasciati a marcire
lungo le strade, nella totale indifferenza della popolazione locale e dell’e-
sercito rumeno. Pur avendo il governo romeno stretto accordi di collabo-
razione con le SS, i comandi tedeschi redassero rapporti sulla crudeltà,
rapacità, corruzione e inefficienza dei colleghi romeni, che agivano in
modo non pianificato, senza rimuovere le tracce di esecuzioni di massa
e perpetrando rapine, ricatti e stupri. Dagli scambi di lettere di protesta
sembra che i tedeschi fossero preoccupati per la mancanza di organiz-
zazione e pianificazione e non per i massacri in sé. I rapporti inviati dal
gruppo D-SS e dalla gendarmeria militare tedesca erano pieni di informa-
zioni su esecuzioni e rapine eseguite dai rumeni in totale disorganizza-
zione. Nel rapporto di sintesi, inviato dal Gruppo D-SS il 30 ottobre 1941
al Ministro degli Esteri tedesco Ribbentrop, si legge: «Il modo in cui i
Romeni si comportano con gli Ebrei è completamente privo di metodo.
Non avremmo nulla da obiettare alle numerose esecuzioni se i preparativi
tecnici e le esecuzioni fossero sufficientemente corretti. Generalmente,
i Romeni lasciano i corpi degli uccisi nel luogo in cui sono stati colpiti,
senza seppellirli» (traduzione mia).
I risultati degli ordini speciali per la “Pulizia del terreno” furono i se-
guenti:
– In generale, la Romania non consegnò gli ebrei alla Germania per lo
sterminio.
– I crimini e i pogrom antiebraici nel territorio sotto l’amministrazione
dello stato romeno furono “in certi casi” il risultato delle azioni di singoli
cittadini “romeni”.
– Ad eccezione di questi casi isolati, le grandi azioni antiebraiche (po-
grom, deportazioni, massacri, ecc.) furono però dettate dall’alto, o dal Mo-
vimento Legionario o dal governo Antonescu.
– Nonostante i massacri e le persecuzioni, la situazione finale dei cit-
tadini ebrei in Romania risultò più mite rispetto ai paesi vicini (Ungheria,
Polonia, ecc.) e più lontani (Francia, Olanda, Cecoslovacchia, ecc.). Gli
ebrei della Transilvania settentrionale (Ungheria) si salvarono trasferen-
dosi nel 1944 in Romania.
Le azioni dei Romeni (capi, gregari, gente della strada) e le parole del
capo SS tedesco si commentano da sole nella loro cruda atrocità. Non po-
tremo e non dovremo mai dimenticarle, e nessun deconstruzionismo, nes-

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sun detergente per quanto potente – in chiave filosofica, antropologica o


sedicente storica – riuscirà mai a lavarle, imbiancarle, annullarle.

Giovanni Casadio

Michaël Bar-Zvi, Philosophie de l’antisémitisme, suivi de Que signifie


haïr les Juifs au XXIe siècle? par Pierre-André Taguieff, Paris, Les Provin-
ciales 2019, pp. 218. Euro 22.

Prima di ricusare il proprio cognome polacco, Herszlikowicz, in favore


di uno dal suono più aramaico, il filosofo francese Michaël Bar-Zvi aveva
dato alle stampe una Philosophie de l’antisémitisme passata pressoché
sotto silenzio tanto nel campo degli studi filosofici quanto in quello delle
ricerche intorno all’antisemitismo.1 Correva l’anno 1985: la Guerra Fredda
cominciava a finire; l’Europa entrava nella fase neoliberale e declinante del
proprio sviluppo, i suoi intellettuali di tendenza e le sue facoltà umanisti-
che si lanciavano con affermativo entusiasmo nell’avventura del postmo-
derno; mentre gli ebrei d’Israele e della Diaspora erano intenti a scacciare
i fantasmi di Begin e di Sabra e Shatila, i palestinesi preparavano la prima
intifada. Con questo studio sull’antisemitismo il giovane Herszlikowicz,
promettente allievo di Levinas e del nazionalista maurrassiano Pierre Bou-
tang, da poco addottoratosi alla Sorbona con una tesi in filosofia politica
su L’idée de nation dans la pensée juive à l’époque moderne, intendeva
confermarsi come nuovo filosofo del sionismo e gettare le fondamenta
ideologiche della svolta conservatrice per cui la gran parte dell’ebraismo
francese si era ormai già decisa. Non si può dire che vi riuscì.
Trentaquattro anni dopo quell’iniziativa editoriale non molto fortunata,
il collega filosofo Pierre-André Taguieff ha preparato, con la casa editrice
Les Provinciales, una nuova edizione della Philosophie de l’antisémitisme.
Per renderla attuale l’ha pubblicata sotto il nome Michaël Bar-Zvi (con cui
Michel Herszlikowicz, recentemente scomparso, aveva preso a chiamarsi
solo in seguito, nell’ultima parte della sua vita) e corredata di una post-
fazione in cui si domanda cosa significhi odiare gli ebrei nel XXI secolo.
Ci si può legittimamente domandare quale contributo possa dare la fi-
losofia alla conoscenza dell’antisemitismo, alla sua comprensione storica,

1
Michel Herszlikowicz, Philosophie de l’antisémitisme, Paris, Presses Universi-
taires de France 1985.

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