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miti e gli dei del pantheon romano hanno nutrito secoli di fantasie letterarie,
teatrali, iconografiche, e fanno parte del bagaglio culturale (e dell’immaginario)
dell’intera cultura occidentale. Ma in quale misura i romani credettero alla loro
religione? Era una religione realmente sentita o aveva una vita piú letteraria che
reale? E poi: quanto fu originale e quanto ripeté il modello greco?
Sono questi alcuni degli interrogativi ai quali il presente volume tenta di dare
una risposta originale, una risposta cioè che rifiuti ogni comoda (e fuorviante)
schematizzazione e vada al di là dei luoghi comuni ancora imperanti (i romani
non credevano alla propria religione e si limitarono a “copiare” quella greca). A
tale scopo, Feeney elabora un ripensamento globale della religione romana, dei
suoi fondamenti, dei suoi legami con l’eredità greca, con la società e con la
letteratura dell’antica Roma. E proprio la lettura dinamica dell’interazione tra
religione e letteratura, tra dato letterario ed elemento storico-sociale, tra, infine,
cultura romana e cultura greca permette importanti acquisizioni sull’intera
questione.
Ne risulta un’intelligente difesa dell’originalità dei romani in un settore,
quello della religione, troppo spesso scarsamente considerato, e insieme
un’importante chiave di lettura dei piú significativi autori latini della tarda
antichità e del primo impero.
PICCOLI SAGGI
6
DENIS FEENEY
LETTERATURA E RELIGIONE
NELL’ANTICA ROMA
CULTURE, CONTESTI E CREDENZE
Traduzione di
Claudio Salone
Presentazione di
Piergiorgio Parroni
SALERNO EDITRICE
ROMA
Titolo originale dell’opera:
ISBN 978-88-6973-063-4
Copyright © 2015 by Salerno Editrice s.r.l., Roma. Sono rigorosamente vietati la riproduzione, la
traduzione, l’adattamento, anche parziale o per estratti, per qualsiasi uso e con qualsiasi mezzo effettuati,
senza la preventiva autorizzazione scritta della Salerno Editrice S.r.l. Ogni abuso sarà perseguito a norma di
legge.
PRESENTAZIONE
«Se la conoscenza che i romani avevano della loro religione era parziale, a
maggior ragione non può che esserlo anche la nostra e in misura ancora piú
rilevante». È questa la malinconica conclusione di Denis Feeney al termine di un
saggio che suscita in noi piú problemi di quanti riesca a risolverne. Che cosa
sappiamo noi veramente della religione dei romani, della loro “fede”, dei loro
miti, dei loro riti, come dobbiamo interpretare le testimonianze, cosí varie e
contraddittorie, degli scrittori e dei poeti, che rapporto c’è tra religione indigena
e tradizione mitologica greca? La realtà è complessa e sfaccettata, sicché quando
ci sembra di aver raggiunto una parziale certezza ecco che Feeney ci mostra il
rovescio della medaglia che ci riporta in alto mare, che rimette tutto in
discussione. La letteratura ci dà una testimonianza “irreale” della religione, ma
qual era la religione “reale”? Il fatto è che su noi moderni che giudichiamo di
religione romana pesano almeno due condizionamenti: il fatto di avere alle
spalle due millenni di cristianesimo e il fatto di considerare la religione romana
spesso unicamente alla luce di quella greca. Cosí da un lato siamo portati a
chiederci se i romani, o almeno le élites cólte, credevano davvero ai loro dei,
dall’altro se i romani in fatto di religione siano stati originali o abbiano piuttosto
supinamente ricalcato la religione dei greci. Due interrogativi a cui la communis
opinio dà di solito risposte scontate: Virgilio, Orazio, per non dire Ovidio, non
credevano affatto ai loro dei; la religione romana è una religione “secondaria”,
quindi non originale. Feeney dimostra che si tratta di due questioni mal poste. Il
primo interrogativo ha poco senso: la religione romana (come del resto la greca)
non è una religione “rivelata”, e come tale ignora l’aspetto soteriologico, non è
una religione “unica”, e quindi non possiede verità di fede, ma solo una pluralità
di credenze, il cui rispetto non è in rapporto con una vita futura ma solo
condizione indispensabile per la conservazione e la crescita della «comunità
nell’esistenza presente». Il secondo interrogativo nasconde un equivoco. Certo, i
greci non ebbero chi rivestisse nei loro confronti il ruolo che essi esercitarono
nei confronti dei romani, dunque di necessità i romani «vissero l’intera loro
esperienza in rapporto dialettico con l’altra cultura». Ma di qui ad affermare che
ciò che è “primitivo” è “originale”, ciò che è “secondario” è “inautentico” ce ne
corre. Del resto, lo stesso concetto di “primitivo” non è assoluto: davvero tutti i
miti greci furono originali e autoctoni o non è vero che in piú casi «essi nacquero
all’interno di una società che si formò in un intenso rapporto dialettico con le piú
antiche civiltà dell’oriente»? Ed è poi vero che i greci credettero nei loro miti e i
romani no, che la cultura greca è una cultura unitaria, mentre quella romana è
una cultura differenziata?
Feeney si libera di ogni schematizzazione, magari comoda e in qualche caso
suggestiva (come il culto per il “primitivo” di sapore tardo-romantico), per
ripensare in modo nuovo la religione romana in sé e in rapporto con la
letteratura. La ricostruzione di questo vasto e complesso quadro lo porta alla
conclusione che i romani si posero di fronte al mito greco in modo «innovativo e
creativo», affermando anche in questo campo la loro originalità. Insomma, «gli
scrittori latini si dedicarono a generare significati dal mito greco e non abbiamo
motivi per sminuire tali significati solo perché gli autori non avevano un cordone
ombelicale che li collegava alle origini, dovunque e qualunque cosa esse
fossero». Le divinità antropomorfe, le potenze minori non sempre rappresentate
iconicamente, le personificazioni di concetti astratti vengono messe al servizio di
una ideologia, quella imperatoria; è cosí che l’imperatore, come un antico eroe,
può essere divinizzato post mortem, ma anche, e qui sta l’elemento di novità,
mentre è ancora in vita. Il culto imperiale non è una faccenda ridicola, come può
apparire a noi moderni, ma la manifestazione di una «istituzione forte e vitale».
Come un’antica divinità l’imperatore possiede il potere e l’immortalità, con la
differenza che quest’ultima non è nelle mani del princeps, bensí in quelle del
poeta. Ecco il legame inscindibile che si crea fra religione e poesia: il poeta
reinventa e ricrea il mito per destinarlo ad una funzione che non ha esempi nel
passato. Possiamo forse sentire nostalgia per la perdita degli elementi
fondamentalmente romani del rito, una nostalgia che del resto dovevano sentire
gli stessi poeti latini (Tibullo sognava una pace agreste che non esisteva piú,
Orazio vagheggiava i riti dell’antica vita contadina perpetuati nella rustica
Phidyle), ma non possiamo fare a meno di riconoscere «l’enorme forza
intellettuale e culturale della esegesi del rito romano» creata dalla poesia
augustea.
In sostanza questo libro è un’intelligente difesa dell’originalità romana in un
settore, quello della religione, troppo spesso scarsamente considerato, e insieme
un’importante chiave di lettura dei piú significativi poeti della tarda repubblica e
del primo impero, in cui la religione ha una parte rilevante e cosí difficile da
comprendere in tutte le sue sfumature e i suoi riposti significati.
PIERGIORGIO PARRONI
Ai miei genitori, che per primi
mi insegnarono la letteratura e la religione
PREMESSA
Avevo pensato che sarebbe stato piú facile scrivere un libro breve piuttosto
che uno lungo, ma mi sbagliavo. Nella mia esplorazione di un argomento tanto
vasto come questo, mi sono giovato dell’aiuto di molti amici e colleghi, che
hanno generosamente commentato i miei brogliacci, hanno risposto alle mie
domande o mi hanno reso disponibili i loro lavori ancora in preparazione o in
corso di stampa: Alessandro Barchiesi, Mary Beard, Peter Bing, Susanna Morton
Braun, Jason Davies, Mary Depew, Julia Dyson, Larry Earp, Elaine Fantham,
Kirk Freudenburg, Polly Hoover, Jonas Jølle, Robin Lane Fox, Jennifer Larson,
Jacques Lezra, Charles Martindale, Barry Powell, Simon Price, Christopher
Rowe, William Sax, Neil Whitehead, Peter Wiseman, Susanne Wofford, Tony
Woodman. Tra questi sono particolarmente riconoscente per l’attenta lettura e
l’acume editoriale a Julia Dyson e a Tony Woodman. Ho saggiato le mie idee, in
special modo quelle relative ai primi due capitoli, di fronte a piú di un uditorio:
in primo luogo la Roman Society a Londra, poi le Università di Chicago, Emory,
Harvard, Iowa, Ohio State, Oklahoma, Pisa, Princeton, Stanford, Texas (Austin),
Verona, Virginia, Washington. Spero non risulti sgradito se tra quegli ascoltatori
estraggo alcuni nomi per dei ringraziamenti particolari: Gian Biagio Conte, Karl
Galinsky, Robert Kaster, John Miller, Niall Slater, Richard Tarrant, Richard
Thomas, Peter White e Andrew Wallace-Hadrill (per il suo consiglio rem tene
che mi sono sempre sforzato di ricordare). Debbo rimproverare solo me stesso se
non mi sono avvalso come dovevo dell’aiuto che tutte le persone qui menzionate
mi hanno dato.
Sono principalmente debitore a due amici: il mio co-editor Stephen Hinds e
Terry McKiernan. Per mia somma fortuna, fin dall’inizio del mio progetto di
scrivere questo libro mi hanno incoraggiato e illuminato in diverse conversazioni
e con annotazioni scritte sui miei abbozzi. Invariabilmente, hanno compreso
meglio di me l’argomento. In particolare, Stephen Hinds ha commentato diverse
fasi successive della stesura in un periodo in cui era molto occupato; sebbene
siano numerose le pagine che dovrebbero recare in nota il riconoscimento del
suo contributo, debbo in special modo ricordarlo per quel che riguarda la sezione
sugli inni nel primo capitolo.
Il mio editor, Pauline Hire, ha dimostrato una pazienza ammirevole,
incoraggiandomi ed esercitando l’arte maieutica. A lei un ringraziamento
speciale per avere acconsentito all’idea della collana; avrò sempre caro il ricordo
dei nostri incontri a Broadway, assieme a Stephen Hinds, per progettare «Roman
literature and its contexts». Nello spirito della collana, ho tentato di ridurre al
minimo l’apparato critico; tuttavia mi sono riferito compiutamente alle fonti
secondarie di maggiore rilevanza da cui ho tratto dati, cosí che altri potessero
egualmente farlo autonomamente. Ho dovuto tagliare non pochi nodi gordiani;
soprattutto ho finito per citare Feeney 1991 piú spesso di quanto non avrei
desiderato, ma in un libro di piccole dimensioni come questo l’economia non
poteva non avere la meglio sulla modestia.
Ho iniziato cercando di mettere su carta i miei pensieri durante un semestre
trascorso presso l’Humanities Research Institute di Madison (primavera 1993); il
mio caloroso grazie va ai Senior Fellows per avermi eletto, al mio dipartimento
per avermi esonerato, agli altri colleghi per le loro critiche stimolanti, severe, ma
comunque sempre amichevoli. È un piacere per me ringraziare ancora una volta
la Graduate School dell’Università del Wisconsin - Madison per il sostegno
avuto durante l’estate del 1993, come pure la Fondazione Vilas per l’appoggio
offertomi nelle estati del 1994 e del 1995.
Le abbreviazioni dei periodici seguono quelle dell’Année Philologique. Le
citazioni delle opere e delle collane sono riprese dall’Oxford Classical
Dictionary (2a ed.), con due eccezioni: per le lettere di Cicerone ho usato il
sistema di numerazione di Shackleton Bailey e per i frammenti delle Antiquitates
rerum humanarum et diuinarum di Varrone la numerazione di Cardauns 1976.
La sigla BNP si riferisce a Beard-North-Price (di prossima pubblicazione), di cui
ho potuto leggere parti in dattiloscritto, grazie alla squisita cortesia di Mary
Beard e Simon Price.
INTRODUZIONE
2. IL MODELLO GRECO
Qualora tentassimo di adattare la categoria di “letteratura” a questa
problematica, ci troveremmo a dover affrontare, e non certo in via definitiva, la
questione del modello greco. Naturalmente è la discussione sulla cultura romana
in generale ad essere stata svantaggiata da confronti ingenerosi con la
controparte greca, fin dal Romanticismo, quando Roma diventò la “non Grecia”,
ovvero un sistema imperfetto.17 Quando però giungiamo a valutare il problema
dell’elemento religioso nella letteratura, la prospettiva romana si restringe
impietosamente, poiché prassi di lettura profondamente radicate attribuiscono
automaticamente forza culturale alla letteratura greca nella sua dimensione
religiosa e altrettanto automaticamente la negano a quella latina. Dopo tutto,
secondo la communis opinio, in Grecia, o quanto meno nella Grecia pre-
ellenistica (la periodizzazione qui è significativa) esisteva una religione autentica
e vissuta, in cui affondava le proprie radici un’espressione artistica egualmente
autentica, che nutriva ed era nutrita da un sentimento religioso ricco e condiviso
dalla società nel suo complesso. Non importa come quel sentimento religioso
venga ridefinito dai mutevoli paradigmi della scienza moderna; il risultato è
sempre quello di leggere la letteratura greca in un modo organico. Trent’anni fa,
ad esempio, ci veniva detto che gli ateniesi si riunivano una o due volte l’anno in
occasione dei concorsi tragici per apprendere verità profonde riguardo la
teologia; adesso, dopo la rivoluzione strutturalista, sappiamo che si riunivano per
apprendere verità profonde in merito alla sociologia. Qualunque siano le sue
istanze, lo strutturalismo si è dimostrato un altro modo per far proseguire un
progetto caro alla cultura europea fin dal romanticismo, cioè quello di
conservare un’interpretazione olistica dell’esperienza greca. Non c’è da
meravigliarsi per il grande successo che ha incontrato, giacché il suo modus
operandi prevede di dimostrare che ogni elemento del sistema è in qualche modo
correlato a ogni altro elemento, cosa che del resto i romantici hanno voluto
credere a proposito dei greci.
D’altro canto, per quel che riguarda Roma, come abbiamo visto, l’assunto
prevalente era quello secondo il quale non esisteva alcuna esperienza religiosa
autentica che rivestisse un ruolo primario. Del resto è possibile cogliere il
contrasto con gli atteggiamenti degli studiosi verso la Grecia da questo punto di
vista anche in ambiti di rilievo minore, come quello relativo ai tempi verbali
usati per descrivere le pratiche delle diverse religioni: per chi si occupa di
religione greca è di norma il presente degli antropologi, laddove il tempo piú
adatto a descrivere la religione romana è il passato degli antiquari. Se è esistito
un qualcosa definibile come un’autentica esperienza religiosa romana, secondo
l’opinione piú diffusa, dovette trattarsi davvero di ben poca cosa, visto che o
svaní prima dell’inizio della letteratura latina, oppure, se sopravvisse in una
qualche forma, non ha conservato legami forti con la letteratura formalistica
grecizzante dell’élite. Il tipo di simbiosi naturale che gli studiosi ricercano
istintivamente nel mondo greco, non sembra far parte dell’esperienza romana e
la letteratura che tocca problemi religiosi o mitologici non può perciò che essere
bollata come artificiosa, parte di un mondo di fantasia o persino (e in questo caso
si tratta della condanna piú dura se pronunciata da un classicista) come
“esercizio letterario”. La tradizionale disattenzione nei confronti della forza
culturale della religione romana si unisce in una poderosa cospirazione con la
tendenza estetizzante, ben radicata nello studio della letteratura latina. Cosí, da
questo punto di vista, la rivoluzione nell’analisi della religione romana ha alla
fine lasciato praticamente intatti gli abiti mentali con cui la maggior parte dei
latinisti legge i testi, nonostante alcuni notevoli tentativi fatti di tagliare il nodo
gordiano.18
I problemi posti da questa antitesi greco-latina ci impegneranno in tutto questo
nostro lavoro. L’antitesi non è tale da poter essere evitata, poiché gli assunti della
critica moderna e degli studi in materia di religione sono saldamente ancorati ad
essa: l’antitesi grecolatina resta il nostro esempio piú evidente del mito
dell’impotenza imitativa, di un originale che ne risulta quindi indebolito.
Qualunque affermazione facciamo a proposito dell’esperienza romana in questo
campo non potrà che essere in rapporto dialettico con l’esperienza greca e a tale
dialogo è meglio dar voce piuttosto che tacitarlo. Né gli stessi romani poterono
evitare questa stessa contrapposizione, dato che la loro cultura – quantunque
consapevolmente romana – era cosí radicalmente ellenizzata, soprattutto in
ambito letterario, da datare il proprio inizio nel momento in cui un greco
tradusse in latino un’opera drammatica greca. Uno degli scopi principali di
questo libro è di tentare di rimodellare l’antitesi in modi tali che non definiscano
l’elemento romano come passivo, inerte, “secondario”, ma piuttosto come
partecipe di un processo culturale dinamico e rivoluzionario. Cosí saremo in
grado di vedere che l’ellenismo compie per i romani una funzione analoga a
quella che Jonathan Z. Smith descrive riferendosi al giudaismo per lo studioso
cristiano contemporaneo di religione, giacché esso è «vicino, eppure distante;
simile, eppure diverso; “occidentale”, eppure “orientale”; banale eppure
“esotico”. Questa tensione tra ciò che è familiare e quello che non lo è, collocata
nel cuore stesso dell’immagine del giudaismo, ha in sé un potere cognitivo
enorme. Invita e ricerca il confronto. Il giudaismo è sufficientemente estraneo
per rendere necessari il paragone e l’interpretazione; è sufficientemente lontano
per rendere possibili il paragone e l’interpretazione».19
3. AGENDA
La questione del paradigma greco, quantunque di importanza assoluta, verrà
trattata soprattutto nei primi due capitoli, intitolati La fede e Il mito. L’argomento
della fede è molto piú vasto del tema dello scetticismo di un’élite, che invece ha
attratto molto piú l’attenzione. Nell’esaminare cosa significhi parlare di fede in
un contesto religioso antico, dovremo spazzare via una spessa stratificazione di
assiomi, ad iniziare dall’idea che la fede sia una componente costante di ogni
attività religiosa o che una società antica offrisse in primo luogo un “qualcosa”
di unitario, una “religione” che è tale in quanto è “creduta”, adoperata come
sfondo omogeneo su cui intessere la letteratura. Seguendo il sentiero tracciato da
Paul Veyne, documenterò la varietà dei discorsi religiosi a Roma e in Grecia e
quindi discuterò il problema del come questi discorsi diversi interagiscano
reciprocamente e con gli altri in ambito letterario. Quantunque possa sembrare
che la coesistenza di questi differenti generi di fede testimoni una mancanza di
energia o di significato in ognuno, dimostrerò che l’interazione competitiva tra le
varie modalità di fede è invece feconda, dinamica e generatrice di significato. La
letteratura latina non è parassitaria o autodenigratoria da questo punto di vista,
ma consapevole del modo in cui possiede funzioni e capacità non utilizzabili in
altri discorsi. Un caso di rilievo esemplare lo ritroveremo nel rapporto tra i ludi
saeculares di Augusto e il Carmen saeculare di Orazio, la cui performance
rappresentò il culmine di un rituale protrattosi per tre giorni.
Poi ci volgeremo al “mito”; qui sarà necessario andare in profondità per
portare alla luce i fattori che hanno tradizionalmente ostacolato lo studio del
mito nella cultura romana. I piú importanti tra questi sono i pregiudizi
solitamente non argomentati che si sono originati in una visione ellenocentrica
della mitopoiesi. La visione romantica di un processo mitico greco organico e
naturale è diventata comune sia in un ambito culturale piú vasto che nella
cerchia piú ristretta degli studiosi di professione. Il fascino esercitato dall’oralità
e dal primitivo ha soffocato l’analisi del mito nella società romana, animata da
forti dinamiche di adattamento e di acculturazione. Sarà quindi necessario porre
in discussione il valore di questo modello ellenocentrico di mito, non solo nella
sua cattiva applicazione al mondo romano, ma nello stesso suo contesto greco.
Dopo la fede e il mito, tratteremo il concetto di “divinità”, che ancora oggi
molti potrebbero considerare come non particolarmente cogente in un contesto
romano. Un punto di vista oggi superato negava persino l’antropomorfismo alle
divinità romane piú antiche e parlava piuttosto di numina o – con ancora
maggiore ispirazione – di mana. La metodologia funzionalista di Jocelyn,
mirando a elucidare la dimensione sociale della religione romana, tende a
svalutare l’importanza degli dei come entità da incontrare e con cui negoziare un
contratto: «i riti e le cerimonie tradizionali non erano doveri immutabili
dipendenti da potenze di un altro mondo, ma piuttosto mezzi per utilizzare taluni
tipi di potere in questo mondo» (vd. sopra, p. 18). Tuttavia una valutazione di
come i romani si figuravano gli dei in quanto partecipanti o persone, oltre a non
essere affatto inconciliabile con l’approccio funzionalista, potrebbe aiutare a fare
luce sulle modalità con cui gli stessi romani rappresentavano il potere e la
struttura della città e dell’impero. Si tratta comunque di un’impresa non facile,
poiché la personalità degli dei resta problematica sotto diversi aspetti. Avevano
le proprie immagini, le proprie sedi (aedes), i loro letti tricliniari e le loro
pubbliche liturgie; a loro si rivolgevano preghiere e sacrifici e molto si è
discusso sulla natura, sulle categorie e sui poteri che loro competevano. Tutte
queste forme di rappresentazione sono state messe alla prova in un vasto ambito
di contesti letterari e non letterari. Per una società che era ben abituata a
manipolare tali forme di rappresentazione, la natura della divinità assume
un’importanza molto rilevante quando gli uomini di stato di maggior rilievo
iniziano a saggiarne i limiti divenendo loro stessi oggetto di culto e dimorando
nei templi.
Un terreno piú solido sembrerebbe sostenerci trattando del concetto di “rito”
in ambito romano, poiché la rivalutazione della religione di Roma ha concentrato
i propri sforzi sul culto pubblico in modi tali che lascerebbero attonito un
latinista dell’ultima generazione. Liquidata per molto tempo come sterile e
frigida, come una vuota formalità, un misero surrogato delle feste della polis,
espressione autentica di consapevolezza e compattezza sociale, il culto civico
romano è diventato un fattore decisivo: se è possibile provare che esiste qualcosa
che fa riferimento al culto, si dimostra con ciò stesso che questo culto ha un
significato. Di qui, la sorprendente, per quanto parziale, riabilitazione dei Fasti
ovidiani, un poema che appena dieci anni fa era del tutto escluso dal canone.
Tuttavia il rito non è un sistema capace di essere compreso senza spiegazioni,
per cui resta aperta la sfida di analizzare come gli scrittori latini abbiano reso i
sistemi significativi del rito parte dei sistemi significativi dei loro testi.
La rivalutazione del rito in un contesto romano è in una qualche misura il
risultato della sensazione che si tratti in fondo di un’area in cui possono essere
trasferiti dall’ambito greco le tecniche e i successi dello strutturalismo. In effetti,
comunque, questa nuova attenzione prestata al rito mette fine ad un’opinione
perpetuatasi per lungo tempo, secondo la quale il luogo tipico dove cercare
l’elemento “essenzialmente romano” della religione è nel culto. Nel tentare di
rendere giustizia al fascino esercitato dal rito, oggi come nell’antichità, ponendo
al centro dell’attenzione i Fasti di Ovidio, questo capitolo dimostrerà che lo
sforzo per definire il rito come l’elemento autenticamente romano nella
letteratura o nella religione è soggetto a essere un esercizio di nostalgia non bene
orientato, sebbene gli stessi romani lo praticassero.
Infine (e non al principio) affronteremo il tema della “conoscenza”. Il sistema
religioso romano era ampio e malfermo, senza testi rivelati e senza un organismo
di controllo. Lo stesso semplice argomento di come gli scrittori latini si
procurassero informazioni sulla religione è interessante di per sé, ma fino a
Foucault non è stato possibile pensare alla conoscenza come una semplice
questione di informazione. Quali tipi di sistemi cognitivi esistevano? Come
interagivano e si definivano reciprocamente? Quali interessi servivano? Per gli
inizi del principato c’erano montagne di materiali scritti su ogni concepibile
argomento, ma oggi è andato praticamente tutto perduto. Si potevano leggere
libri sull’augurato, sull’aruspicina, sull’astrologia, sull’interpretazione dei tuoni,
sul sacerdozio e sulle divinità indigene e straniere. Alcuni collegi sacerdotali
avevano scritti loro propri. Considerando come tutte queste diverse forme di
testimonianze si pongono in rapporto l’una con l’altra e con i testi che definiamo
“letterari”, saremo ricondotti di nuovo al problema dell’interazione tra i diversi
generi di fede da cui avevamo preso le mosse all’inizio del libro.
1. CONTE 1994, pp. 108-10; cfr. KRAMER 1989, pp. 114-15; KENNEDY 1993,
cap. 1, in partic. pp. 7-8; BARCHIESI 1994, in partic. l’Introduzione [per le
abbreviazioni, si rimanda alla Bibliografia finale, pp. 201 sgg.].
2. I temi e i pregiudizi sono molto simili a quelli rivelatisi nello studio della
letteratura greca postclassica. Vd. in proposito HUNTER 1993, pp. 1-7; PARSON
1993, pp. 154-55.
3. È chiaro qui quanto debbo a NORTH 1986 e a BEARD-CRAWFORD 1985, pp.
28-39; cfr. SCHEID 1987; PHILLIPS 1991a e 1992. L’opinione tradizionale è
rappresentata da lavori quali WARDE-FOWLER 1911, ma la sua influenza continua
a esercitarsi in alcuni testi autorevoli e relativamente recenti quali SCULLARD
1981.
4. JOCELYN 1966, p. 101.
5. WEINSTOCK 1971; LIEBESCHUETZ 1979, pp. 15-20; MACMULLEN 1981, pp.
24-25, 129; PRICE 1984, pp. 15-16; SCHEID 1985, pp. 12-13; PHILLIPS 1986, pp.
2708-9; BEARD 1994, pp. 729-34. Sull’inapplicabilità delle nostre categorie di
“politico/religioso”, ad esempio, all’Islam, vd. ASAD 1993, in partic. pp. 28-29.
6. NORTH 1976; WARDMAN 1982; BEARD 1994, pp. 739-45.
7. CORNELL 1978, p. 110; cfr. TOMLIN 1974, p. 156, sul Giappone: «non è mai
esistito un Giappone autentico che non fosse anche un Giappone avido di
assimilare influssi esterni. È questo [corsivo dell’Autore] il Giappone autentico».
8. EDWARDS 1996, pp. 49-50.
9. NORTH 1976; WARDMAN 1982, p. 8.
10. BEARD 1986 e 1994, pp. 755-61; NORTH 1986.
11. LIEBESCHUETZ 1995, p. 315.
12. NORTH 1989, pp. 604-7, e ID. 1995.
13. WALLACE-HADRILL 1994, p. 60.
14. NORTH 1989, p. 606.
15. BAKKER 1994, pp. 40-43.
16. WALLACE-HADRILL 1994, p. 60; BAKKER 1994, pp. 179-80, per la
collocazione degli oggetti di culto.
17. HABINEK 1992; sulla religione e la mitologia in particolare, vd. PHILLIPS
1991a e 1992, in partic. pp. 60-63; BEARD 1993.
18. In partic. BEARD 1993.
19. SMITH 1982, p. XII. Da questa prospettiva il mio libro costituisce un altro
capitolo nel dibattito infinito su ciò che è greco e ciò che è romano nella
letteratura latina, nutrito da opere fondamentali come quella di FRAENKEL 1960,
WILLIAMS 1968 e GRIFFIN 1985. Ogni generazione di latinisti deve reinventare la
stessa ruota, cosí come fece ogni generazione di romani: vd. il cap. 3 (Diacronia:
la storia letteraria e i suoi elementi narrativi) di HINDS 1998.
I
LA FEDE
Item constabat Elide in templo Mineruae repetitis atque enumeratis diebus, quo
die proelium secundum Caesar fecisset, simulacrum Victoriae quod ante ipsam
Mineruam collocatum esset et ante ad simulacrum Mineruae spectauisset ad
ualuas se templi limenque conuertisse. Eodemque die Antiochiae in Syria bis
tantus exercitus clamor et signorum sonus auditus est ut in muris armata ciuitas
discurreret. Hoc idem Ptolemaide accidit. Pergamique in occultis ac reconditis
templis, quo praeter sacerdotes adire fas non est, quae Graeci adyta appellant,
tympana sonuerunt. Item Trallibus in templo Victoriae ubi Caesaris statuam
consecrauerant, palma per eos dies […] inter coagmenta lapidum ex pauimento
exstitisse ostendebatur (‘Parimenti risultava che nel tempio di Minerva a Elide,
nel giorno in cui Cesare aveva combattuto felicemente, la statua della Vittoria,
posta dinnanzi a quella della dea e rivolta a guardare il suo simulacro, si fosse
girata verso la porta d’ingresso del tempio. Quello stesso giorno ad Antiochia di
Siria si udirono per due volte grida di soldati e squilli di tromba, tanto che tutti i
cittadini in armi corsero alle mura. Analoghi eventi si verificarono a Tolemaide.
A Pergamo, nei luoghi piú segreti dei templi, dove potevano entrare solo i
sacerdoti e che i greci chiamano adyta, risuonarono i timpani. Cosí a Tralle, nel
tempio della Vittoria, dove avevano consacrato una statua a Cesare, si mostrava
una palma nata allora […] tra le commessure delle lastre del pavimento’).
Questa irruzione nella prosa misurata delle relazioni senatorie giunge con
l’effetto di una folgore dopo dieci volumi di silenzio sui segni del divino.
Potremmo dire che Cesare abbia soppresso sistematicamente i dettagli tipici
della divinazione politico-militare romana, perché non ci credeva e che le
profezie asiatiche concorrano ad una rivelazione definitiva e culminante di ciò in
cui egli realmente credeva. È tuttavia piú utile vedere come entrambe le
strategie, nelle loro differenti modalità, lumeggino il notevole livello di
emancipazione individuale dall’apparato della tradizione. Quello che
individuiamo come “razionalismo” è un modo di dimostrare che l’imperator è
indipendente dalle convenzionali garanzie di successo religiose e politiche e che
i presagi asiatici di vittoria servono ad uno scopo analogo: l’apparato statale
tradizionale della res publica viene sostituito dalla manifestazione del favore
divino per lo straordinario carisma dell’individuo.29
Per sostenere questa prospettiva antropologia o sociologica, dobbiamo inoltre
ricordarci dei problemi connessi ai riferimenti letterari, di cui abbiamo parlato
all’inizio dell’introduzione. Se la “fede” è un problema per l’antropologia, lo è
anche per la critica letteraria. Solo molto di recente i classicisti hanno iniziato ad
affrontare la questione complessiva del tipo di fede indotta dalle diverse forme di
discorso e approvata dai differenti pubblici; questo è particolarmente il caso dei
testi che trattano di religione: come afferma Hunter, «nell’ambito della
presentazione del divino […] non esiste neppure un linguaggio critico
concordato con cui trascendere inutili asserzioni su ciò a cui i poeti “credevano”
o “non credevano”».30
L’argomento può apparire finora non piú che una via rimodernata per arrivare
a conclusioni sostanzialmente simili a quelle raggiunte dal vecchio formalismo,
che considerava la letteratura latina isolata nella propria sfera o nei propri ambiti,
senza relazione alcuna con un credo autentico dell’autore o del suo pubblico,
fluttuante su una cultura frammentata e incapace di fornire un solido ancoraggio
di significato condiviso. È comunque un errore concludere che, se non
possediamo un sistema integrante sovraordinato ci troviamo solo con un
ingranaggio che gira senza fine e senza fare mai presa.31 Le “province” di Veyne
non possono essere indipendenti e non comunicanti, ma devono avere una
politica estera che consenta loro di mediare e di confrontarsi l’un l’altra. Esse
hanno i loro ambiti definiti e divengono comprensibili in quanto tali proprio in
virtù della loro reciproca interazione. Come nella teoria del romanzo questa
categoria è vista costituirsi e definirsi continuamente dall’interazione con altre
forme di discorso,32 cosí accade anche con ciascuno dei generi che
raggruppiamo sotto il capitolo della letteratura latina e della religione romana.
La coesistenza di diversi generi di fede non prova la loro impotenza, ma
piuttosto costituisce la condizione autentica che rende possibile il significato. Il
significato è prodotto dal dialogo, ad ogni livello,33 e la ricerca di un sistema
significativo unico e monolitico non può che procedere soffocando questa
onnipresente attività dialogica.34 Il rimanente di questo capitolo, e molto del
resto del libro, sarà dedicato ad analizzare casi particolari di queste interazioni,
ovvero ad osservare la filosofia in rapporto con l’epica, la satira con la scultura,
la lirica con il sacrificio.
4. I LUDI SAECULARES
Con l’andare del tempo non scomparve la coscienza che i romani avevano
della presenza, all’interno del loro culto civico, di una componente greca, che
poteva comunque essere sempre riattivata. Essa fornisce un esempio affascinante
di come i romani fossero consapevoli della variabilità contestuale del loro
comportamento religioso. Come testimonianza di questa variabilità contestuale,
e come modo per mettere a fuoco alcuni dei problemi principali relativi
all’argomento della fede in ambito romano, vale la pena di scendere nei dettagli
esaminando quello che è forse la fruizione piú spettacolare e sistematica delle
categorie di greco e di romano nel culto, cioè a dire i Ludi saeculares, celebrati
da Augusto nel 17 a.C.60
I primi Ludi saeculares, celebrati nel 249 a.C., vennero organizzati per espiare
alcuni prodigi dopo che i decemuiri, il collegio di dieci sacerdoti che
sovrintendevano agli Oracoli Sibillini e ai culti stranieri in generale, avevano
consultato i Libri Sibillini.61 Di conseguenza i Ludi del 249 recavano una
marcata impronta greca nelle due divinità onorate con tre successivi sacrifici
notturni eseguiti Achiuo ritu, ‘secondo il rito acheo’: Dis Pater (ovvero Dives
Pater, ‘Padre dell’Abbondanza’, un calco del dio greco ctonio Pluto, ‘La
ricchezza’) e la sua consorte Proserpina (Persefone). Per nessuna delle due
veniva officiato un culto in città ed era allora la prima volta che lo stato prestava
onore a questi dei del mondo sotterraneo. I Ludi di Augusto, circa duecentotrenta
anni piú tardi, furono organizzati dallo stesso collegio sacerdotale responsabile
per i culti stranieri (quantunque adesso fossero in quindici, i quindecemuiri,
appunto). Lo stesso Augusto ne era membro ed esercitò la supervisione sulle
prescrizioni dell’Oracolo Sibillino che decise l’occasione e la forma che
dovevano assumere i Ludi; questo testo in esametri greci, posto per tradizione
sotto la custodia dei quindecemuiri, era stato di recente emendato e trasferito dal
tempio di Giove Ottimo Massimo a quello di Apollo Palatino, che faceva parte
del complesso residenziale di Augusto.62
Augusto trasformò l’atmosfera e gli scopi dei Ludi, distogliendoli
dall’originario orientamento di espiazione infera e dirigendoli verso la
propiziazione della futura fecondità;63 il rituale restò tuttavia ancora
appannaggio dei quindecemuiri e Augusto mantenne l’importanza della
componente greca, ponendola altresí in rilievo con un insieme complesso e
contrappuntistico di azioni notturne e diurne. Si compirono ancora i tre sacrifici
notturni consecutivi, ad iniziare dalla sera del 31 maggio, nello stesso luogo di
sempre del Campo Marzio, officiati da Augusto Achiuo ritu: è probabile che
l’imperatore abbia agito in abito greco la prima notte e poi, in tutte le cerimonie
successive, indossando la toga, ma con la testa scoperta, alla maniera greca.64 Le
divinità ctonie del 249 a.C., Dis Pater e Proserpina, lasciarono il posto a tre dei
piú benevoli, che condividevano comunque con Dis Pater e Proserpina la duplice
caratteristica di essere greci nella nomenclatura e di non avere un culto nello
stato romano: le Moire, ‘il Fato’, Ilithyiae, ‘le dee delle nascite’ e Terra Mater,
‘la Madre Terra’, la Γαῖα dell’oracolo, ma che era affine alla greca Δημήτηρ (si
noti, non Tellus, il nome della terra nel culto civico).65 In contrasto con questi riti
notturni di stampo greco, furono celebrati tre sacrifici diurni in tre giorni
successivi, officiati assieme da Augusto e da Agrippa, sempre Achiuo ritu, ma
stavolta in onore di Giove Ottimo Massimo, il dio supremo di Roma e fulcro del
culto repubblicano (1 giugno), Giunone Regina, la sua consorte capitolina (2
giugno), seguita da Apollo e Diana sul Palatino (3 giugno), i quali ultimi
dimoravano da solo dieci anni e mezzo nel tempio a loro dedicato da Augusto.
Siamo qui in presenza di un complesso straordinariamente ben definito di
opposizioni: notte/giorno, senza/con culto cittadino, greco/romano,
aniconico/iconico, personificazioni/individui, non olimpici/olimpici,
ctoni/celesti, esterni/interni rispetto al pomerium, pianura/collina, sacrificatore
singolo/sacrificatore duplice. Il modo in cui furono organizzati i sacrifici mostra
un princeps che ostenta la capacità che il suo status, la sua famiglia e lui stesso
in quanto persona avevano di dominare e controllare la gamma piú ampia
possibile di significati religiosi e di potere; egli infatti fa rientrare nel medesimo
ambito le antiche divinità capitoline ed entità straniere quali quelle legate alla
nascita e alla fecondità e inoltre organizza una processione che verifica i confini
tra lo stato romano e l’oikoumene. Augusto e i suoi colleghi hanno condensato in
un’unica sequenza la dinamica interrelazione tra categorie greche e romane che
tanto bene e tanto a lungo aveva fatto gli interessi dello stato.
Questi tre giorni devono essere stati tra i piú significativi dell’intera vita di
Augusto, eppure non appena iniziamo a parlare della “fede personale”, la
struttura che genera quel significato ci scivola via dalle mani. Augusto
certamente aveva già fatto in precedenza sacrifici a Giove Ottimo Massimo, ma
ciò nonostante fu il primo a sacrificare alle Moire nella città di Roma e nessun
altro romano celebrò cerimonie analoghe per sessantatré anni, fino a che il
pronipote di Augusto, Claudio, non organizzò nuovamente i Ludi saeculares.
Bisogna perciò ritenere che Augusto e le molte migliaia di spettatori credettero
in ciò che l’imperatore stava facendo durante i riti del primo giorno, perché
erano romani e tradizionali e non in ciò che accadde durante la prima notte,
perché si trattava di riti greci e senza precedenti nella città? Il solo porre la
questione in questi termini rivela la sua futilità. È proprio l’intersezione tra
romano e greco, l’antico e il nuovo, che genera il potere emotivo e cognitivo dei
tre giorni. Il rito nel suo insieme articola con notevole sobrietà il tema della
rinascita all’interno di una cornice tradizionale rielaborata, che è poi il segno
distintivo dell’ideologia augustea del Rinnovamento dei Tempi e, in verità, del
regime nel suo insieme.66 Appare essenziale all’azione il rapporto tra il nuovo e
la tradizione e se ci si concentra sulla novità come elemento privo di organicità e
di significato o si impiega ogni energia per cogliere quale componente della
processione significhi piú delle altre, viene a sgretolarsi l’intero organismo.
Il rito giunge ammantato dall’aura della tradizione, ma è facile comprendere
quanto sia rivoluzionario.67 Il destinatario ultimo del sacrificio, Apollo, l’unico
dio con nome greco adorato durante il giorno, rappresenta una suggestiva
miscela di antico e di nuovo, proprio come il suo protégé Augusto. Introdotto in
città già da quattrocento anni, egli aveva adesso un nuovo tempio e un nuovo
simulacro, posti per la prima volta all’interno del pomerium, venendo cosí a
invadere la sfera delle prerogative di suo padre Giove. Se si osserva la
distribuzione delle offerte tenendo presente Apollo, ci accorgiamo dell’esistenza
di interessanti linee di collegamento stese attraverso le dicotomie
apparentemente forti del rito. Il solo Augusto, di notte, sacrificò nove agnelle e
nove caprette alle Moire e una scrofa gravida alla Terra Mater, mentre Augusto e
Agrippa insieme, di giorno, sacrificarono un toro e una vacca rispettivamente a
Giove e a Giunone. Alle Ilithyiae Augusto offrí ventisette dolci, divisi in tre
categorie (due delle quali con nomi greci traslitterati, popana e phthoes); ma
l’elemento di maggior rilievo, dato che (stando almeno a quanto ne sappiamo) a
Roma Apollo non aveva mai ricevuto prima sacrifici incruenti,68 consiste nel
fatto che Augusto e Agrippa offrirono al dio e alla sorella Diana lo stesso
sacrificio. La scelta delle offerte supera la linea di demarcazione tra la notte e il
giorno e fa dei due gemelli divini i mediatori tra le due dimensioni della
cerimonia. Il pupillo di Apollo, Augusto, si presenta analogamente come
mediatore tra epoche, culti e culture rispecchiati nei Ludi. I quindecemuiri
sovrintendevano a tutti i culti stranieri e in particolare a quelli di Apollo e della
Magna Mater, le cui sedi erano accanto alla dimora dell’imperatore; con
l’organizzazione voluta da Augusto, Giove e Giunone furono per cosí dire
sussunti nel Graecus ritus dell’intera processione e di Apollo Palatino in
particolare.69
5. IL CARMEN SAECULARE
Nelle prescrizioni dettate dall’Oracolo Sibillino per i Ludi (vv. 18-22), dopo
l’elenco dei sacrifici vi sono norme relative al canto in latino del peana
(άειδόμενοί τε Λατῖνοι / παιᾶνες), intonato da cori distinti di giovani e ragazze,
con entrambi i genitori viventi. Gli Acta registrano che un carmen venne
intonato due volte l’ultimo giorno, prima dinnanzi ad Apollo Palatino e poi
dinnanzi a Giove Ottimo Massimo. Il carme era cantato da due cori di ventisette
ragazzi e ventisette ragazze con i genitori ancora viventi (un ragazzo per
ciascuna delle focacce date ad Apollo e una ragazza per ciascuna di quelle
offerte a Diana). Gli Acta ci dicono inoltre che carmen composuit Q. Horatius
Flaccus. Questa composizione è naturalmente conservata nel corpus oraziano
come Carmen saeculare e in essa possiamo rintracciare i segni dell’impegno del
poeta nei contesti rituali cosí attentamente costruiti e ricostruiti dal princeps. Se
gli stessi Ludi illustrano la consapevolezza con cui i romani potevano
manipolare le diverse categorie del loro culto, il discorso peculiare del carmen
aggiunge un’altra dimensione a quella autoanalisi.
Il canto oraziano riconosce le distinzioni notte/giorno dei sacrifici,
raggruppando in sequenza le tre divinità straniere dei culti notturni (13-32) e
parlando di «giochi affollati tre volte nel chiaro giorno e altrettanto nella dolce
notte» (ludos / ter die claro totiensque grata / nocte frequentis, 22-24). Tuttavia
fin dall’inizio l’inno si concentra nel seguire l’uso del rito dedicato ad Apollo e a
Diana come ponte gettato attraverso le categorie, affermando ancora piú
apertamente dello stesso rito lo status delle due divinità, che appaiono il punto
finale del percorso di tutti e tre i giorni.70 Il carmen comincia con
un’invocazione alla coppia palatina: Phoebe siluarumque potens Diana, /
lucidum caeli decus (‘Febo e Diana signora delle selve, luminoso ornamento dei
cieli’). Questo linguaggio fa già venire meno la distinzione notte/giorno, poiché
la singolare espressione «luminoso ornamento dei cieli» si riferisce
congiuntamente alla coppia, con il fratello che splende come il sole di giorno e la
sorella come la luna di notte. La seconda strofa, riferendosi al fatto che il carmen
viene cantato per disposizione dei versi sibillini, accenna al nuovo ruolo di
Apollo come custode di quei versi. La terza strofa mira ad un altro ruolo rivestito
da Apollo, quando i cori si rivolgono al sole, dicendo che è nato ‘altro ed
eguale’, alius… et idem (10). Queste parole alludono non solo all’illusione fisica
che ogni giorno il sole sia “un altro” sole, ma anche alla “alterità-identità” del
sincretismo di Apollo con Sole/Helios. Nelle parole dell’oracolo il dio è
chiamato parimenti ‘colui il quale viene anche detto Helios’ (ὅστε ϰαἱ Ήέλιος
ϰιϰλήσϰεται, 17); dobbiamo rammentare che quando i cori lo cantarono per la
prima volta avevano di fronte il tempio di Apollo Palatino, sul cui tetto era posta
l’immagine scultorea del carro del Sole, al quale si rivolgono i cori all’inizio di
questa strofa, con le parole curru nitido, ‘carro splendente’ (9).71
Dopo queste prime tre strofe legate in una forma o in un’altra alla coppia
palatina, i cori si rivolgono a Ilithyia, la dea che presiede alle nascite. Il
movimento del carmen si articola in questo modo per mettere in collegamento
Ilithyia da un lato e Apollo e Diana dall’altro, collegamento che Augusto aveva
stabilito mediante l’offerta sacrificale. Quando Orazio usa il termine «Lucina»
come un epiteto possibile per Ilithyia (15), rammentandoci che la stessa Diana
potrebbe essere considerata «Lucina», dato che controlla la stessa sfera di
Ilithyia, si crea un’ulteriore connessione tra queste categorie. Seguono preghiere
ai Fati e alla Terra (25-32), prima che i cori si volgano ancora una volta ad
Apollo, benevolo e sereno come nelle fattezze della sua statua di culto sul
Palatino, e a Diana (come Luna, 36).
Ci troviamo adesso alla metà del canto e non è stata ancora fatta alcuna
menzione delle divinità romane, a cui erano stati offerti sacrifici nel primo e nel
secondo giorno, Giove e Giunone; questo senso di esclusione viene rafforzato
nei vv. 33-36, dove ci si rivolge ad Apollo e a Diana a mo’ di clausola forte;
infatti con questi versi siamo ricondotti, per la struttura ad anello della
composizione, all’invocazione iniziale della prima strofa.72 Fin da quando sono
stati ritrovati gli Acta nel 1890, è apparso evidente che gli dei cui il carmen
doveva rivolgersi a partire dalla sua metà (Roma si uestrum est opus, ‘Se Roma
vi appartiene’, 37), non potevano che essere Giove e Giunone, visto che le
successive tre strofe ci conducono gradualmente alla descrizione di Augusto che
sacrifica bianchi tori a queste divinità (49): gli Acta chiariscono senza equivoci
che Giove e Giunone erano i soli dei che ricevevano quel tipo di offerte durante i
Ludi.73 Tuttavia, con un’elisione che è del tutto inconcepibile in un inno, un tipo
di preghiera in cui il nome del dio invocato acquista un’importanza capitale,
Giove e Giunone vengono invocati senza essere nominati. Di qui discese
l’opinione condivisa da tutti i commentatori prima del 1890 che questa intera
sezione del canto fosse egualmente dedicata ad Apollo e Diana. L’Oracolo
Sibillino, che fino al 1890 era stata l’unica testimonianza relativa alla forma del
rito, afferma esplicitamente che Apollo doveva ricevere lo stesso sacrificio di
bovini concesso a Giove e a Giunone (16-18): solo la scoperta degli Acta ha
rivelato che era intervenuto un cambiamento di programma e che Apollo in
effetti aveva ricevuto le stesse offerte date ad Ilithyia. Possedendo
esclusivamente il dato fuorviante dell’Oracolo Sibillino e senza alcuna specifica
menzione di un mutamento nella divinità officiata, i bianchi tori nominati da
Orazio al v. 49 sarebbero stati inevitabilmente riferiti ai sacrifici in onore di
Apollo.
Dunque non si fa il nome di Giove e di Giunone, sebbene adesso i cori si
rivolgano direttamente a loro. Con questa evidente omissione, Orazio allude e
nello stesso tempo corregge la soppressione dei nomi di Apollo e Diana
all’inizio delle Georgiche virgiliane, dove i due gemelli divini vengono invocati
anonimamente come ‘fulgidissime luci del mondo’ (clarissima mundi / lumina, 1
5-6);74 per tutto l’inno Orazio in effetti compensa in abbondanza quella
omissione, facendo scorrere un nome dietro l’altro per Apollo e sua sorella
(Phoebus, Sol, Apollo; Diana, Lucina, Luna). Giunone poi non viene mai
nominata in tutto il carme, mentre Giove (se si eccettua la breve menzione che se
ne fa come dio celeste al v. 32, Iouis aurae) compare solo nell’ultima strofa,
dove non può che approvare il responso favorevole di Apollo e Diana, le cui lodi
chiudono l’inno (doctus et Phoebi chorus et Dianae / dicere laudes, 75-76). È
difficile sapere se questa omissione di Giove e di Giunone abbia fatto piú
scalpore durante la prima recita dell’inno di fronte ad Apollo Palatino o durante
la seconda recita, di fronte a Giove Capitolino. L’eclisse delle antiche divinità
del Campidoglio ad opera di quelle palatine del princeps non poteva esser piú
evidente ed è stata esposta con maggiore nettezza in dieci minuti di canto che
non in tre giorni di celebrazioni rituali.
In origine il peana è un inno in onore di Apollo e Artemide;75 l’inno di
Orazio, come il peana richiesto dall’Oracolo Sibillino, fa tesoro dell’antica
forma allo scopo di rafforzare l’enfasi rituale sulla coppia palatina. Se il carmen
dilata oltre misura il tema del rito da un lato, dall’altro esso comunque
rappresenta non già un’esagerazione, ma un distacco. In particolare, il modo di
nominare le divinità greche cui vennero offerti i sacrifici notturni costituisce una
variazione interessante sulle sottolineature augustee.76
Al v. 14, Ilithyia viene invocata con il suo epiteto greco, per il quale non esiste
un preciso equivalente latino, ma Orazio costringe immediatamente lo stile degli
inni ad una alternativa di nomi affatto nuova, quando prosegue e dice siue tu
Lucina probas uocari / seu Genitalis (‘sia che preferisca essere chiamata Lucina
o Genitalis’, 15-16). Qui egli offre alla dea greca «una scelta tra due nomi di
culto latini, Lucina e Genitalis: o Ilithyia, dobbiamo chiamarti (in latino) Lucina
o Genitalis?».77 La nuova denominazione data ad una divinità straniera fino ad
allora tenuta fuori dal culto della res publica viene fortemente sottolineata,
poiché adesso la dea ha per la prima volta la funzione di propiziare il successo
della legislazione matrimoniale di Augusto. Per mettere in luce lo sforzo
compiuto in questa operazione di trasferimento culturale, nella strofa successiva
Orazio si volge ad un tipo di linguaggio completamente diverso e chiama in
causa il tipico gergo costituzionale latino, cosí spesso bandito perché considerato
d’impaccio: patrum […] / decreta super iugandis / feminis (‘i decreti dei padri
sul vincolo coniugale delle donne’, 17-19). Le successive divinità greche che
vengono invocate sono le Moire. Latinizzate in Parcae (25), con un altro termine
latino equivalente al nome greco, fata, collocato enfaticamente come l’ultima
parola della loro strofa (28). Infine Augusto sacrificò alla Terra sotto il nome di
Terra Mater, scegliendo deliberatamente un epiteto che non faceva parte della
religione di stato; Orazio sceglie invece la parola Tellus (29), il nome della terra
nel culto cittadino; egli rafforza il legame tra quest’ultima divinità associando
Tellus a Cerere (29-30), poiché la statua di Cerere si trovava all’esterno del
tempio di Tellus.78
Riscrivendo la nomenclatura greca usata dal princeps, l’inno, grecizzante, si
rivela piú attento a creare un’atmosfera latina di quanto non abbia fatto lo stesso
rito ufficiale. Se dovessimo stabilire “un grado di autenticità della fede” rispetto
ad una scala di latinità o romanità, termineremmo dicendo che il carmen è piú
“autentico” del rito e a questo punto potremmo anche concludere che non ci
stiamo servendo di una terminologia utile. Al contrario, potremmo vedere il
carmen come impegnato con le dinamiche del rito, non per replicarle, ma per
costituire un complesso tangenzialmente correlato di categorie e di prospettive di
intervento sull’uditorio, nel tentativo di utilizzare il carmen come un modo per
ripercorre gli ultimi tre giorni e nello stesso tempo per guardare avanti ai
prossimi centodieci anni.
La processione augustea è un sistema semiotico di enorme complessità e il
carmen di Orazio non la rispecchia e non la rappresenta (né potrebbe farlo).
Mutando gli accenti e facendo venir meno le distinzioni, oppure rispettandole, il
carmen richiama con insistenza l’attenzione sul fatto che esso non è il rito, che
non si tratta di una tautologia. Ciò viene compiuto soprattutto delimitando uno
spazio per la poesia come discorso distinto. La latinizzazione completa delle
divinità invocate è un segno di tale ambizione, cosí come lo è il modo in cui il
carmen guarda avanti, ad una sua ricezione come ulteriore elemento della lirica
oraziana.79 Piú significativo ancora il dialogo con l’Eneide di Virgilio, morto
appena due anni prima. Nel suo complesso il carmen riconosce il fatto che
l’Eneide è già diventata il mezzo fondamentale di concettualizzazione della
nuova ideologia.80 Inoltre Orazio raffigura le azioni presenti di Augusto come il
compimento di quello che sta scritto nell’Eneide. Augusto è ‘superiore a chi
intraprende una guerra, clemente nei confronti del nemico battuto’ (bellante
prior, iacentem / lenis in hostem, 51-52) e il suo impero ha l’ampiezza del
mondo (53-56). Qui Augusto è diventato il soggetto e il destinatario della
profezia di Anchise nel VI libro dell’Eneide, che prefigura il dominio universale
di Augusto (792-800) e che è essa stessa diventata alla fine un oracolo sibillino.
Quando Anchise si rivolge al “romano” e gli ingiunge ‘ricorda, romano / […] di
risparmiare chi si sottomette e abbattere chi si insuperbisce’ (tu […] Romane,
memento / […] parcere subiectis et debellare superbos, VI 851-53), usa un
linguaggio sibillino, dello stesso tipo di quello impiegato dall’oracolo per i Ludi
saeculares: ‘ricorda, romano’ (μεμνῆσϑαι, ‘Pωμαῖε, 3). La profezia poetica di un
progenitore è qui diventata piú di un testo cui alludere: il suo potere oracolare
viene contestualmente rivitalizzato. Nel coro di Orazio l’esametro latino
virgiliano coopera con quello greco dell’oracolo sibillino di Augusto, che è
strumento e origine del rito, ma che, in ultima istanza, si può altresí considerare
a buon diritto un testo poetico sui generis. Le nostre categorie di poesia e di rito
smettono di funzionare allorché il carmen ci dice che a far sí che tutto questo
“accadesse” sono stati entrambi gli oracoli sibillini di Virgilio e di Augusto.
Uno dei poteri peculiari della poesia è la sua capacità di superare la barriera
del tempo; su questo tema entra in gioco l’ossessione lungamente nutrita da
Orazio. Il poeta crede che la sua poesia possa celebrare e preservare la memoria
degli eventi molto piú efficacemente di qualsiasi altro mezzo espressivo, degli
stessi monumenti in marmo e in bronzo;81 il motivo oraziano acquista ulteriore
forza nel suo contesto rituale, poiché è lo stesso stato che si preoccupa di
conservare il ricordo dei Ludi, con un’epigrafe di sette righe dedicata ad un
senatus consultum che disponeva l’innalzamento di due monumenti, in bronzo e
in marmo, a futura memoria dell’evento (ad futuram rei memoriam, cfr. rr. 58-
63). Nel carmen Orazio celebra e conserva un momento particolare di quella
sacra circostanza (tempore sacro, 4) e da questo punto di vista il suo tipico
interesse lirico ne risulta particolarmente accentuato, in quanto i Ludi stessi
riguardano tutti il tempo. Il loro rito di conservazione è destinato a creare un
nuovo ciclo temporale, una persistenza per lo stato che trascende ogni trascorrere
di vita singola: gli Acta fanno riferimento per due volte al fatto che nessun
mortale potrà assistere una seconda volta ai giochi e partecipare al rito (rr. 54-
56). L’ossessione lirica di Orazio del permanere e del trascorrere si inserisce in
un dialogo nuovo con l’analoga ossessione del rito e con i tentativi da parte dello
stato di preservare nel bronzo e nel marmo la memoria di quel rito.82
La consapevolezza che il carmen ha del fatto di costituire un’opera di poesia
che non può essere coestensiva con il rito, si rispecchia indirettamente
nell’interesse che mostrano alcuni studiosi moderni nel discutere se lo stesso
carmen fosse o no una “parte” del rito. Per certi versi lo fu (era stato prescritto
dai versi sibillini e la sua realizzazione canora è stata registrata negli Acta);83 per
altri non lo fu (in termini rigorosi non si trattava di una precatio, una ‘preghiera
di culto’ e le sue vere parole non furono scolpite in marmo come fossero quelle
delle precationes di Augusto e di Agrippa).84 La strana posizione del carmen
all’interno del rito non rappresenta un elemento di goffaggine, ma un sofisticato
riconoscimento della sua relazione sfaccettata con il resto degli adempimenti
rituali. Come vedremo nel cap. IV dedicato al rito, uno dei contributi piú
importanti degli studi di revisione della religione romana è stato il
riconoscimento che l’esegesi e il dialogo interpretativo contribuiscono a
costituire la pratica religiosa romana piuttosto che essere un elemento estraneo o
aggiuntivo.85 Il Carmen e i Ludi, indipendenti eppure reciprocamente collegati,
ci offrono un caso esemplare da questo punto di vista. L’interpretazione fa già
esplicitamente parte dell’intero spettacolo di tre giorni.
2. MAI PRE-GRECO
Dobbiamo in primo luogo registrare la pervasività del mito greco nella vita
romana. Parlare di “mancanza”, di “secondario”, di “inautentico” può oscurare la
densità e l’antichità del mito greco a Roma e la sua importanza nella vita dello
stato.12 Già nel precedente capitolo (pp. 47-48) abbiamo messo in rilievo
l’ubiquità degli elementi greci nell’esistenza e nel culto della Roma dei re e della
prima repubblica e la familiarità con il mito greco era probabilmente parte di
questo stesso scambio culturale. Come altre città del Lazio e dell’Italia centrale,
la Roma piú antica ospitava artigiani e mercanti greci ed etruschi, che
producevano e importavano diverse rappresentazioni del mito greco. Ad
un’epoca ancora anteriore all’instaurarsi della repubblica risalgono un minotauro
dipinto su un frammento di terracotta proveniente dalla Regia e una
raffigurazione di Atena che introduce Eracle in Olimpo (530 a.C. circa) in forma
di gruppo statuario fittile dal santuario di S. Omobono nel Foro Boario.13 La
coppia Atena-Eracle appare particolarmente interessante, poiché costituisce con
ogni probabilità un elemento dell’ideologia monarchica, che riflette la
propaganda contemporanea greca favorevole ai tiranni.14 Dunque è fin
dall’inizio che il mito greco ha forse fatto parte dell’ideologia ufficiale romana,
traendo il proprio potere ben al di là dei confini dello stato.
Nel caso dell’Atena del Foro Boario, il problema sta nel sapere se si debba in
effetti parlare di “Minerva”. Appare certo che la prassi di riscontrare tali
analogie fosse già avviata in questa fase cosí antica. Gli scavi condotti da
Coarelli in quello che egli identifica come il sacello di Vulcano nel Foro hanno
riportato alla luce un vaso attico in cui è raffigurato il ritorno di Efesto in
Olimpo; l’ovvia implicazione è che qualcuno – greco, romano o etrusco –
dovette stabilire una sorta di identificazione tra Efesto e Vulcano già negli anni
580 o 570 a.C., ovvero tre secoli e mezzo prima della nascita ufficiale della
letteratura latina.15
Non ci è dato di conoscere come si naturalizzarono questi miti greci nella
prima Roma. I romani comunque, come abbiamo visto nel cap. 1, furono sempre
molto attenti a non indulgere in un totale accoglimento del culto greco nella loro
città, facendosi invece sostenitori di un dialogo tra culti indigeni e culti
importati; piú avanti vedremo che nel periodo storico fu importante per loro
essere in grado di conservare la consapevolezza che il mito greco proveniva in
ultima istanza dall’esterno.16 È possibile che un senso di differenza e di distanza,
per quanto labile e variabile, fosse un elemento importante dell’opera culturale
compiuta dal mito greco a Roma fin dall’inizio.
È probabile che la presenza di rappresentazioni mitiche greche a Roma sia
antica, ma è immediatamente evidente la rilevanza della periodizzazione, poiché
esistono due fasi principali ben definite nella ricezione romana dei culti greci e,
per probabile analogia, della cultura ellenica in generale. In termini di culto,
possiamo collocare la fine della prima fase con l’introduzione di Apollo nel 431
a.C., l’ultima importazione degli inizi della repubblica. Dopo di ciò si apre uno
iato di 130 anni, fino all’esplodere delle innovazioni e degli adattamenti
ellenizzanti, che ebbe inizio attorno al 300 (segnato in particolare
dall’introduzione del culto di Esculapio nel 291) e che continuò fino al termine
della guerra annibalica, con l’importazione della Magna Mater nel 204.17 Questi
due ampi periodi di ricettività dell’ellenizzazione nel culto sono grosso modo
sovrapponibili alla piú generale periodizzazione di Wiseman, in cui «Roma può
essere descritta come “ellenizzata” nei periodi arcaico e ellenistico della cultura
greca, […] e non nel periodo classico».18
6. I LIMITI DELL’ANTITESI
a) “Primario” versus “secondario”
La distinzione tra mito “primario” in Grecia e mito “secondario” a Roma,
latente nella frase antitetica di Horsfall citata sopra, a p. 78, è una di quelle che la
maggior parte dei latinisti ritiene assodata. Eppure la distinzione tra mito
primario e secondario è stata messa in discussione da molti dei piú recenti
studiosi del mito.35 Una teoria del mito che si concentri sulle origini dovrà
individuare il proprio obiettivo nell’autenticazione del mito stesso risalendolo
fino al suo scaturire originario. Tuttavia questa ricerca di autenticazione avviene
inevitabilmente a spese dell’attenzione verso il mito per quello che fa e per come
agisce in un dato momento dell’analisi. Una priorità del genere finisce
fondamentalmente per non identificare correttamente il luogo dove va cercato il
significato: per dirla con l’aforisma di Versnel, «l’origine non va identificata con
il significato».36 Piuttosto, come puntualizza Jonathan Z. Smith nel contesto
della sua critica mossa alla distinzione romantica tra «il momento primario del
mito e la sua applicazione secondaria»: «non esiste alcun mito primigenio, c’è
solo il suo porsi pratico».37
Sorprende il fatto che talvolta gli studiosi parlino di un aspetto qualsiasi di una
cultura in termini di “primario”, “secondario”, “originale”, “inautentico”. Il
pomodoro venne introdotto nella cucina italiana solo nel ’700: è forse per questo
che la gastronomia dell’Italia attuale si può considerare inautentica? Fu sempre
nello stesso torno di tempo (tanto per prendere un esempio di influenza in
direzione inversa, attraverso l’Atlantico) che gli indiani delle pianure del
Nordamerica iniziarono a cavalcare. L’intera civiltà nomadica della guerra e
della caccia, basata sul cavallo, ebbe dunque una durata inferiore a due secoli. Si
tratta di un aspetto assolutamente essenziale dell’immagine popolare che si ha
della cultura indiana nordamericana, eppure fu patrimonio di sole cinque delle
cinquecento o novecento generazioni che si succedettero dal momento del
passaggio di quelle genti dallo stretto di Bering. La cultura del cavallo degli
indiani delle pianure va allora definita inautentica? Quand’è che il cavallo cessa
di essere un elemento non originale della cultura sioux o comanche e inizia ad
essere autentico? Nel 1750? Nel 1780? Nel 1782? Nell’agosto del 1782?
Avendo compreso le insufficienze di una visione del mito e della cultura
fondata sul binomio “primario/secondario”, molti studiosi del mito greco si sono
dimostrati aperti alla possibilità che un mito possa essere considerato come tale
anche se non affonda in un passato “immemorabile”, anche se non è
“indigeno”.38 La ragione principale che ci fa sentire vicini a questa posizione va
naturalmente ricercata nel fatto che in essa vi è la consapevolezza del gran
numero di miti greci dei quali è dimostrabile la non “immemorabile antichità” o
la “radice autoctona”, che non si possono «ritenere sorti spontaneamente da
un’origine incontaminata; essi piuttosto nacquero all’interno di una società che si
formò in un intenso rapporto competitivo con le piú antiche civiltà
dell’oriente».39 Gli elementi che stanno al cuore della mitologia panellenica, dai
miti teogonici a quello dei Sette contro Tebe, possono essere entrati a far parte
della tradizione greca giungendo da est solo poco prima dell’inizio della nostra
documentazione.40 In realtà, anche questo modo convenzionale di articolare
l’argomento può non rendere giustizia alla natura aleatoria di gran parte del
processo. Si è detto che miti apparentemente fondamentali come quello del
cavallo di Troia o del giudizio di Paride, oppure ancora di Ercole e l’Idra sorsero
tardi, nell’VIII secolo, come risultato dei tentativi di spiegare rappresentazioni di
artisti greci che avevano per soggetto iconografie vicino-orientali che neppure
gli autori comprendevano: «alcune raffigurazioni che riteniamo essere delle
illustrazioni di miti greci furono in realtà esse stesse le fonti dei miti».41
Per quanto ne so, non c’è nessuno che impugni “l’autenticità” del mito greco
da questo punto di vista (sebbene, come vedremo, ciò può essere causa di
qualche ansia per gli ellenisti, allorché si trovano ad avere a che fare con una
natura che si suppone comune del mito). Inoltre, la mutevolezza del mito
osservabile nei tempi storici, soprattutto in quanto elemento di una continua
“creazione di tradizione” nella sfera politica, viene spesso citata come uno dei
suoi maggior tratti distintivi, senza che questi miti nuovi o drasticamente alterati
vengano definiti negativamente come meno “originali” e piú “secondari”. Per
mille ragioni i miti furono rivisti e reinventati senza posa. La creazione ateniese
del mito di Teseo a partire dalla fine del VI secolo ne costituisce un chiaro
esempio.42 Inoltre, il mito della battaglia tra ateniesi e amazzoni «non è attestato
prima delle guerre persiane»,43 ma sarebbe apparso quantomai bizzarro
censurare la presenza del mito stesso nella Stoa Poikile o nel Partenone perché
non autentico. Analogamente, anche i miti “non politici” sono aperti a
ridefinizioni radicali.44 Al centro del mito di Medea, ad esempio, sembrerebbero
essenziali due aspetti: si tratta di una donna barbara e di una madre che uccide i
suoi figli. Eppure è possibile che entrambi questi motivi siano stati inventati da
Euripide per la sua tragedia nel 431 a.C.45 Come appariva il mito di Medea nel
432? In buona sostanza, molti potrebbero essere d’accordo con l’opinione di
Bremmer, secondo la quale «è proprio questo carattere di improvvisazione del
mito a garantire la sua centralità nella religione greca».46
L’inventività romana e la sua “secondarietà” vengono comunque considerate
in modo molto differente da quelle dei greci. Horsfall, ad esempio, ha scritto
pagine illuminanti sulla malleabilità del mito nella tradizione letteraria greca
arcaica e classica;47 la sua disponibilità a cogliere la creatività mitopoietica come
un elemento culturalmente dinamico nel contesto greco non fa che mettere in
luce la sua corrispondente indisponibilità a fare altrettanto per il contesto
romano. La capacità del mito di essere reinventato o trasportato da una cultura
ad un’altra è messa in evidenza come prova della vitalità del sistema ellenico e
nello stesso tempo dell’artificiosità di quello romano.
Non sto qui sostenendo che i processi di interazione culturale siano costanti,
per cui i romani fecero nei confronti dei greci semplicemente quanto questi
ultimi avevano fatto in un’epoca precedente nei confronti dei loro vicini
orientali. Piú avanti in questo stesso capitolo discuteremo in maggior dettaglio la
natura delle differenze. In questa fase il mio scopo è piú limitato, ovvero vuole
solo fissare il punto fondamentale per cui saremmo costretti ad escludere un gran
numero di miti greci e romani se i nostri criteri di selezione fossero quelli che si
basano sul ricercare se il mito è giunto o no da qualche altro luogo o se un mito è
stato o no creato o sostanzialmente ridefinito.
8. UN MODELLO ROMANO
Mi sia concesso di richiamare due punti trattati in precedenza e ai quali avevo
detto di voler tornare. In primo luogo l’insistenza romana nel conservare il senso
di ciò che era distintamente greco nel culto e nel mito della loro città. A tal
proposito è bene ricordare che si tratta di una scelta culturale molto difficile da
farsi, poiché «è molto piú arduo mantenere le differenze che superarle».66 I
romani avrebbero infatti potuto concentrarsi maggiormente su un’opera di
naturalizzazione nel loro stesso ambito del culto greco, ma, come abbiamo visto,
intrapresero vie alquanto complesse per mantenere il senso di differenza e di
distanza in questa sfera della vita cittadina (vd. sopra, pp. 46-49). Nonostante la
loro lunga familiarità con il mito greco e il processo di assimilazione che pure vi
fu, essi seppero comunque conservare la consapevolezza di quali miti fossero
greci.67 Certo, le loro distinzioni possono non coincidere con quelle di un
osservatore moderno, ma non è questo il punto: quel che conta è l’azione del
distinguere, non la sua “attendibilità”. All’epoca in cui i romani iniziarono il loro
progetto di letteratura nazionale, i greci avevano già speso dei secoli per definire
il mito come categoria e parte dell’eredità che l’Ellade lasciò a Roma si
identificò proprio con la consapevolezza della linea di demarcazione tra il mitico
e il non-mitico: nella cultura romana il mitico fu spesso raffigurato come
“l’elemento greco”, per cui questo processo di estrapolazione venne a costituire
una parte integrante della loro ellenizzazione.
La consapevolezza delle origini straniere dei loro miti si pone in evidente
contrasto con gli atteggiamenti degli stessi greci di età preellenistica, i quali, ad
esempio, non conservarono la coscienza che i loro miti cosmogonici erano giunti
da altri contesti culturali. A questo punto è difficile distinguere tra greci e romani
senza dare l’impressione di voler ridurre falsamente la mitopoiesi ellenica e
l’interazione culturale ad una forma piú attenuata e primitiva. Analogamente,
dobbiamo rendere giustizia al problema della periodizzazione; le guerre
persiane, in particolare, furono evidentemente un evento cruciale nel provocare
una piú netta esclusione di ciò che non era greco.68 È ad esempio affatto
possibile che il pubblico della prima recita della Teogonia esiodea fosse del tutto
consapevole di non aver mai udito fino ad allora molte di quelle vicende; è
persino possibile che Esiodo abbia contato su questa consapevolezza all’inizio
delle sue Opere, allorché fornisce un aition autoctono delle sofferenze umane
(Pandora), facendolo destramente seguire da un altro di matrice vicino-orientale
(le cinque Età, la fonte unica di questo mito per tutti gli autori successivi).69 Ciò
nonostante, la questione importante è che questa consapevolezza originaria – se
è esistita – non è diventata parte del poema o della sua ricezione. Disposti come
furono in molti contesti e in molti periodi a parlare di come si appropriarono
della scrittura, dell’astrologia o di divinità di altre culture, rispetto ai romani i
greci si mostrarono inclini alla polarità assimilativa: «Sembra proprio che i greci
furono inclini, e con ottimi risultati, a trasformare le novità importate in
tradizioni autoctone».70 Anche i numerosi racconti sull’arrivo in Grecia di popoli
e di pratiche straniere vengono spesso ad assumere un carattere etnocentrico;71
appare quantomai importante, inoltre, il fatto che queste storie su apporti
dall’esterno ci siano giunte non come narrazioni esse stesse provienienti
dall’esterno. «Tutto ciò che giungeva da fuori (e che costituiva un elemento di
spicco) veniva assimilato in un forte e solido ambito di esclusiva
monoglossia»:72 l’ampia generalizzazione compiuta da Bakhtin a proposito della
cultura greca classica coglie comunque un fattore distintivo e un elemento di
netta diversità rispetto alla cultura romana.
Il secondo punto, collegato al primo, riguarda la natura senza precedenti di
quel momento memorabile dell’ultimo terzo del III secolo a.C., allorché i romani
si servirono di alleati stranieri per realizzare il progetto di impossessarsi della
cultura letteraria di un altro popolo, allo scopo di crearne una propria ed espressa
nella loro lingua (ciò accadde per la prima volta in Europa e rese anche possibile
alle successive società europee di avere una storia letteraria).73
Se mettiamo insieme queste due osservazioni, saremo in grado di osservare
come la risposta romana al mito greco non è stata supina e impoverita, bensí ha
posto in essere una delle molte, consapevoli stretegie per appropriarsi del potere
in un continuo confronto con l’esperienza greca.74 In buona sostanza, tutti sanno
che i miti greci furono una parte indispensabile del modo in cui i romani
organizzarono la propria cultura e la propria letteratura. Non potevano infatti
godere di una cultura e di una letteratura ellenizzanti senza i miti, i quali perciò
non costituivano un’opzione. Senza mito non ci sarebbe stata letteratura e senza
letteratura non ci sarebbe stata cultura: le élites romane, per un insondabile
complesso di motivi, desideravano una cultura che potesse stare alla pari con
quella dei greci.75 Se volevano inserirsi nel sistema panellenico della cultura
mitica avevano bisogno di farlo come un qualsiasi altro membro di un qualsiasi
altro stato greco posto ai margini del mondo greco.76 Come questi altri stati,
Roma possedeva il suo piccolo gruzzolo di miti locali, ma i ceti dominanti
desideravano inserirsi nelle principali correnti della narrazione mitica che
provenivano dal grande deposito delle conoscenze panelleniche, che sole
potevano dare sostanza alla straordinaria ambizione dei romani di diventare i
primi che dall’esterno reclamavano per sé un tale patrimonio straniero.77
Potremmo interpretare questo modo di agire come volto a distribuire il potere,
non a rimuoverlo. A distribuirlo non solo ai romani, ma in potenza a tutte le
culture successive. La storia del mito in Europa deve infatti fare i conti con
l’esperienza romana, non con quella greca: quando Lamberton afferma che «la
nostra concezione di un corpus di letteratura europea che vede le proprie origini
nella Grecia arcaica è una costruzione moderna», si potrebbe sostituire l’ultima
parola con “romana”.78 Questa storia ci conduce in una dimensione che abbiamo
escluso come non nostra, ma che possiamo, o dobbiamo, fare nostra. Di qui il
ruolo centrale che assume il mito greco nella definizione della cultura romana,
«poiché il paradosso centrale, essenziale di quella cultura fu proprio la sua
incorporabilità simultanea all’interno delle norme greche e il suo insistente
rifiuto di costruirsi in quei termini».79
9. LA ZONA DI CONTATTO
Pur sapendo di correre il rischio di essere accusato di costruire un mio proprio
mito delle origini, mi piace considerare questo paradosso come un’eredità delle
prime generazioni interstiziali, quando quei semigraeci bi e trilingui esplorarono
i crepacci tra le culture che confliggevano nell’Italia meridionale e centrale.80
Non dovremmo sottovalutare il potere cognitivo generatosi in queste “zone di
contatto”, cosí come le ha definite Pratt, il quale sceglie questo termine al fine
«di mettere in evidenza le dimensioni interattive e improvvisative delle relazioni
coloniali», guardando ai rapporti interculturali «non in termini di separatezza o
di apartheid, ma in termini di copresenza, interazione, di pratiche e intese tra
loro implicate, spesso all’interno di rapporti di forza radicalmente
asimmetrici».81 All’interno della zona di contatto, in una dialettica descritta
come «mimesi e alterità» dall’antropologo Michael Taussig, le culture che
interagiscono selezionano l’una dall’altra tratti caratteristici, vuoi per disprezzo,
vuoi per invidia.82 Un processo di imitazione rende con la massima economicità
questi tratti fruibili alla sperimentazione e all’analisi, consentendo all’uno di
catturare e di controllare il potere a lui estraneo dell’altra cultura. Quando le
caratteristiche estranee sono fatte proprie, il senso di ansia e di rigetto che ne
risulta provoca un contraccolpo che pone nuovamente a distanza le
caratteristiche imitate. Le culture in competizione oscillano quindi tra il
concentrarsi sull’alterità, mettendo a fuoco ciò che le distingue dai rivali, e il
concentrarsi sulla similarità, mediante un processo imitativo che meglio consente
loro di definire e padroneggiare l’elemento che compensa quell’alterità.
I modelli dinamici e interattivi di questo tipo sono piú validi dei concetti
correnti di “influsso” o di “imprestito”. Prima di tutto ci consentono di stare in
guardia contro l’idea che i romani si sono adoperati in ogni modo per
“impadronirsi” o per “sfruttare” il mito greco. I greci sono parte attiva di questa
transazione fin dall’inizio: le vicissitudini del mito troiano, ad esempio, per
mezzo del quale i greci e i romani possono essere considerati e affini e
reciprocamente estranei, sono con tutta evidenza il prodotto di un dialogo
continuo piuttosto che di un’imposizione di uno schema da parte degli uni agli
altri.83 In generale, la maggior parte degli studi sull’ellenizzazione romana si
concentrano sugli apporti provenienti da una sola direzione e non ragionano in
termini di «tensione dinamica che ha dato forma ad entrambe le culture».84
Inoltre è molto piú facile dare un senso alla diversità del rapporto che i romani
ebbero con la cultura greca se si suppone una zona di contatto labile e oscillante
piuttosto che un processo incessante di assimilazione. È difficile valutare
l’assimilazione se non in termini migliorativi, laddove l’atteggiamento romano
verso la cultura greca spazia entro una vastissima gamma di sentimenti,
dall’ammirazione e dall’invidia al disprezzo e al timore.85 I romani desiderano la
paideia greca per non trovarsi alla sua mercé e per questo la imitano
sistematicamente; eppure questa stessa strategia imitativa fa nascere in loro la
non facile consapevolezza che tale paideia non è autoctona, per cui è sempre
attivo un complesso processo di inclusione ed esclusione.86 Parte dell’attrazione
esercitata dalla Grecia sui romani deriva dal fatto di potersene servire come uno
schermo su cui proiettare tutto ciò che non è romano. In questo modo, il piú
rabbioso tra gli ellenofobi scopre che non può sfuggire ai greci, che sono
indispensabili per la sua stessa autodeterminazione. Insomma, non esiste alcuna
identità romana essenziale alla quale si aggiungono, dal di fuori, gli elementi di
ellenizzazione; ciò che conta invece come identità romana è stato sempre
ricostituito sotto la pressione di nuovi fattori interattivi.
Soprattutto, se consideriamo la mobilità del mito tra le culture, il modello
dinamico che ho suggerito risulta piú utile di quello tradizionale, che tende a
vedere il mito come radicato fondamentalmente nella società, come un qualcosa
di già dato, che riflette norme sociali, le quali a loro volta sono già date. La
risposta di Edmunds al fatto che i miti del Vicino Oriente siano trasmigrati in
Grecia mette in luce le difficoltà che comporta il modello tradizionale: «Questa
qualità migratoria si pone in contraddizione con il concetto largamente condiviso
secondo il quale il mito possiede un valore particolare per la società che lo
racconta. Basandoci su tale principio, un mito dovrebbe essere legato ad un
preciso organismo sociale e di conseguenza dovrebbe essere stabile. Come
potrebbe la fede che si esprime in quella società e che si incarna in quel mito
diventare la fede di un’altra società?».87
Questi miti assomigliano un po’ piú al folclore, afferma Edmunds
oscuramente, facendo ricorso ad una delle antitesi dispregiative che il modello
ellenico non può non produrre in queste circostanze. Tuttavia, se pensiamo nei
termini delle dinamiche attive nelle zone di contatto, siamo in grado di osservare
che è proprio la mancanza di un preciso “adattamento” a rendere attraente e
vitale l’appropriazione di un mito. Smith ha suggerito che anche all’interno di
una data società, nell’operazione del mito «si genera un piacere, un gusto sia
nell’ “adattamento” che nell’incongruità dell’ “adattamento”»;88 il potere di una
tale fascinazione, legata ai binomi “applicabilità/inapplicabilità”,
“congruità/incongruità”, non può che essere maggiore quando nasce negli
interstizi tra culture diverse.
Gli studi sulla zona di contatto ci aiutano inoltre a concettualizzare i rilevanti
risultati generali che potrebbero scaturire dall’abilità dei romani nel vedere i
greci e i loro sistemi allo stesso tempo come eguali e differenti. Greenblatt ha
scritto della “mobile sensibilità” europea che si è formata nelle zone di contatto
nate tra l’Europa occidentale e il Nuovo Mondo e le implicazioni che questa
“mobile sensibilità” ha prodotto sono state lucidamente riassunte da Slater: «Si
comprende il pensiero di un altro non come percezione della verità, ma piuttosto
come un sistema ideologico e perciò costruito e perciò manipolabile. Sebbene
l’altro comprenda la propria percezione come una semplice verità, chi è in
possesso della “mobile sensibilità” si colloca all’esterno di tale percezione ed è
quindi in grado di manipolare e controllare l’altro».89
In altre parole, i romani potevano considerare il sistema mitico greco come un
sistema, in un modo che agli stessi greci era precluso (si dovrebbe forse
specificare “greci pre-ellenistici”, dato che il mondo ellenistico nel cui seno
crebbe la letteratura latina possedeva un proprio senso della distanza che lo
separava da un corpus di testi di mitologia classica preesistente e codificato). Il
senso che ne risultava di vicinanza e di lontananza assieme non solo rendeva i
greci “agibili al pensiero” dei romani, non solo consentiva ai semigraeci di
coltivare persino l’ambizione smodata di interagire con la cultura letteraria
greca, come fecero (di volta in volta collaborando, aggiungendosi o
allontanandosi da essa), ma rese anche loro possibile una visione sinottica da una
prospettiva vantaggiosa, che era invece negata a chi si trovava all’interno. Dopo
tutto i romani hanno partecipato per secoli al sistema mitico greco, ma ne sono
stati altresí osservatori; tale condizione ha loro permesso di controllare il mito
greco con un diverso tipo di potere analitico.90
1. PHILLIPS 1991a, pp. 143, 149; GRAF 1993a, in partic. pp. 32, 34, 43.
2. OGILVIE 1981, p. 4.
3. BRUIT ZAIDMAN-SCHMITT PANTEL 1992, p. 213.
4. BEARD 1993, p. 47. Non posso qui non dichiarare che il presente capitolo
deve molto a questo denso e profondo scritto.
5. CIC., Nat. D., 3 60; DION. HAL., Ant. Rom., 2 18-20, con GABBA 1991, pp.
118-38 e BOURGEAUD 1993.
6. Importante dibattito in PRICE, BNP, vol. 1 cap. 4.
7. Il fenomeno sottolineato da Dionigi era però circoscritto e riferito ad una
particolare categoria di miti: BOURGEAUD 1993, pp. 176-77.
8. Vd. BEARD 1993, pp. 44-50, per uno sguardo d’insieme e una critica ai
punti di vista di DUMÉZIL 1970, GRANT 1971 e WISEMAN 1989. Vd. ora anche
WISEMAN 1995 e Fox 1996.
9. BREMMER-HORSFALL 1987, p. 4.
10. Il suo insistere sulle scuole di declamazione in BEARD 1993 costituisce
naturalmente una mossa retorica, allo scopo di costringerci ad una rivalutazione
delle modalità con cui consideriamo il problema del mito, ma lascia comunque
intatto (ad eccezione di p. 50 n. 15) il problema dell’interpretazione del corpo
centrale dei dati documentari. Vd. però adesso BEARD 1996, per un impegno
diretto sulla questione del mito greco a Roma.
11. BREMMER-HORSFALL 1987, p. 1; la sua frase qui citata fa riferimento a
quanto dice BURKERT 1979, p. 2.
12. WISEMAN 1995, in partic. pp. 35-42.
13. BOARDMAN 1994, pp. 272-79; WISEMAN 1995, pp. 37-39; CORNELL 1995,
pp. 147-48.
14. CORNELL 1995, p. 148.
15. COARELLI 1983, p. 177; cfr. CORNELL 1995, pp. 162-63.
16. Vd. sopra, pp. 47-48; avanti, pp. 98-101.
17. GARNSEY-SALLER 1987, p. 170; sugli inizi del III secolo in particolare, vd.
WEINSTOCK 1957.
18. Wiseman 1989, p. 132; cfr. Cornell 1995, p. 397.
19. Una sintesi introduttiva in FEENEY 1991, pp. 100-2.
20. JOCELYN 1972, p. 991; MOMIGLIANO 1975, p. 17; BAKHTIN 1981, p. 63.
21. BADIAN 1966, pp. 6-7, su Q. Fabio Pittore, L. Cincio Alimento, C. Acilio e
A. Postumio Albino.
22. FANTHAM 1989, p. 220. Cfr. JOCELYN 1972, p. 991: «I sabelli, gli umbri e i
messapi subirono la forte influenza della cultura greca, ma, sebbene usassero le
loro rispettive lingue al modo greco per scopi giuridici e religiosi, non esiste
alcuna prova che possedessero una letteratura scritta». I romani si trovarono in
questa stessa condizione prima del 240 a.C. Vd. HORSFALL 1994 per le forme
pre-letterarie della società romana.
23. FEENEY 1991, pp. 120-28.
24. Una magistrale esposizione in FRAENKEL 1960, cap. 3, Elementi
mitologici, in partic. pp. 85-87.
25. WISEMAN 1974.
26. BARCHIESI 1962, p. 227.
27. WISEMAN 1995, pp. 72-76, per le varie ipotesi.
28. VIAN 1952, pp. 285-86.
29. Per le varie ipotesi, vd. FEENEY 1991, pp. 118-19; GOLDBERG 1995, p. 52.
30. FEENEY 1991, p. 119.
31. Sulla pompa circensis, vd. LATTE 1960, pp. 248-50; LONG 1987, pp. 239-
42. Long sottolinea giustamente che non è sicuro che i dodici dei fossero
raggruppati in una categoria loro propria all’interno della processione; il culto
romano aveva comunque riunito le dodici divinità in altri contesti per almeno
due secoli prima di Virgilio (ivi, pp. 236-37, e sembra verosimile che essi
mantenessero tale raggruppamento anche nella pompa.
32. PRICE 1984. Torneremo sull’ode 1 12 piú avanti (pp. 158-60).
33. HARDIE 1986; ZANKER 1988; HÖLSCHER 1993; SCHEID 1993.
34. Cfr. BEARD 1993, pp. 45-46.
35. Già BARCHIESI 1962, pp. 440-41 protesta in modo eloquente contro le
conseguenze disastrose dell’imposizione di questa polarità sulla letteratura latina
arcaica.
36. VERSNEL 1993, p. 242 (i corsivi sono dell’A.); si tratta di un motivo
conduttore del libro (che riguarda anche il rito): cfr. pp. 190, 218, 231, 233;
BURKERT 1993, pp. 19-20. Torneremo su questi temi dell’origine nel cap. IV.
37. SMITH 1978, p. 299; cfr. pp. 206, 308; ID. 1982, pp. 88-89; inoltre il suo
contributo in HAMERTON-KELLY 1987, dove si dimostra lo stesso caso per il
rituale (in partic. p. 195). Per puntualizzazioni analoghe nel contesto del mito
greco, vd. PARKER 1987, p. 188; BRILLANTE 1990, pp. 114-15.
38. GRAF 1993a, p. 36 (uralt, indigen).
39. BURKERT 1987, p. 11.
40. ID. 1993, p. 20; in generale WEST 1988; BURKERT 1992.
41. POWELL 1997; cfr. MORRIS 1992, pp. 116, 163, 184.
42. PARKER 1987; MORRIS 1992, pp. 336-57; GRAF 1993b, pp. 136-40;
CALAME 1995, pp. 189-201.
43. MORRIS 1992, p. 312.
44. MARCH 1987.
45. HALL 1992, pp. 194-95.
46. BREMMER 1987, pp. 3-4 (sebbene personalmente sostituirei l’ultima parola
con “cultura”).
47. HORSFALL 1993, pp. 135-37.
48. Si osservi la formulazione insolitamente opaca di GRAF 1993a, p. 29:
«Zuzugeben ist, daß in Rom Mythos als Fiktion galt, während er in der
homerischen oder sophokleischen Dichtererzählung geglaubte Vergangenheit
war»: la nota a piè di pagina relativa a questa frase e che fa riferimento a VEYNE
1988 funge quasi da carica di profondità.
49. Mi riferisco ancora un volta all’importante lavoro di BOWIE 1993 e di
PRATT 1993.
50. DÉGH-VÀZSONYI 1976, p. 109.
51. BREMMER-HORSFALL 1987, p. 1.
52. BURKERT 1987, p. 11; cfr. GRAF 1992, p. 22 e ID. 1993a, p. 43; BREMMER
1987, pp. 4-5.
53. VI secolo: WOODBURY 1985, p. 206; Atene classica: HERINGTON 1985, pp.
63-64; HÖLSCHER 1993, p. 71.
54. Il forte influsso esercitato dall’antropologia simbolica sugli studi ellenici
appare qui con grande evidenza: vd. DESAN 1989, pp. 64-65, per una critica alla
definizione dell’antropologia simbolica secondo cui la cultura è «in primo luogo
un sistema di simboli collettivamente sostenuto», che «in buona sostanza mette
in rilievo il ruolo della cultura come una sorta di sottile meccanismo per il
mantenimento dell’ordine, del significato e della coesione sociale»; cfr. BLOCH
1989, pp. 106-36.
55. GEERTZ 1994, p. 3; cfr. BLOCH 1989, in partic. pp. 119-20; CLIFFORD 1988,
p. 250 n. 13, per la bibliografia.
56. SMITH 1987, pp. 187-88.
57. Cfr. VEYNE 1988, p. 45: «Crediamo davvero che l’Atene classica fosse una
grande collettività urbana dove ogni mente agiva di concerto, dove il teatro
ratificava l’unione dei cuori e dove il cittadino medio poteva superare qualsiasi
esame su Giocasta o sul ritorno degli Eraclidi?». Temo che la risposta sia molto
spesso affermativa.
58. MORRIS 1992, p. 148.
59. VEYNE 1988, pp. 43-45; GRAF 1993b, pp. 4-5; POWELL 1997.
60. POWELL 1997.
61. ZIPES 1987, pp. XXIV-XXV. BEARD 1993, pp. 57-58 ha proposto un esempio
cogente contro l’uso della mistica oralistica per negare ogni “funzione sociale”
al mito letterario romano, dimostrando che «non può semplicemente darsi che
[…] la storia di Tarpeia, ad esempio, sia mera letteratura se è nelle mani di
Properzio e mito carico di valore se raccontato attorno al fuoco di un
accampamento militare».
62. BURKERT 1979, p. 24.
63. Vd. sopra, n. 1.
64. Cfr. WALLACE-HADRILL 1982, uno studio che ha aperto la strada alla
comprensione della capacità del mito (il mito delle età) di avere una “funzione
sociale” nelle mani di Virgilio, di Orazio, di Ovidio e di Augusto.
65. CALAME 1991; BEARD 1993, p. 62; VEYNE 1988, p. 153 n. 210: «Il “mito”
non è una variante metastorica, un elemento non sottoposto a mutamenti […]. Il
mito non è un’essenza». Cfr. GRAF 1993a, p. 5, sulla necessità di rompere con il
modello ellenico se si vuole progredire nello studio del mito a Roma.
66. WHITEHEAD 1995, p. 59 (il corsivo nell’originale).
67. Ad esempio, la consapevolezza di Ovidio su questo tema emerge molto
chiaramente da GRAF 1988; vd. piú avanti, pp. 104-6 e 174-81.
68. HALL 1989.
69. Cfr. WEST 1978, pp. 155 (Pandora, un “mito tradizionale”), 176-77 (il mito
delle Età non greco), 172 (i due miti incompatibili).
70. MORRIS 1992, p. 105 (sull’Età del bronzo e del ferro); cfr. p. 385, sui
periodi arcaico e classico.
71. HALL 1992, pp. 187-88.
72. BAKHTIN 1981, pp. 66-67.
73. Vd. sopra, pp. 81-82.
74. Merita ricordare che devo la maggior parte di questo paragrafo a una
conversazione avuta con Robert Kaster.
75. GRUEN 1990, pp. 82-84, per un’indagine su tali motivi alla fine della prima
guerra punica.
76. Mutatis mutandis, si potrebbe individuare un parallelo nell’adozione
sistematica della monetazione da parte dei romani una generazione prima: «La
monetazione era un procedimento greco e la sua adozione da parte dei romani
segna un loro consapevole sforzo per entrare nel milieu culturale del mondo
ellenistico» (CORNELL 1995, p. 397).
77. Cfr. quanto osserva T. HÖLSCHER in GRAF 1993a, p. 187 n. 48.
78. LAMBERTON 1986, p. 10.
79. BEARD 1993, p. 63 (corsivi dell’A.).
80. Bakhtin fu affascinato dall’energia e dalla creatività di quest’epoca, che
interpretò come un’anticipazione del mondo rabelaisiano: BAKHTIN 1968, pp.
470-72, e ID. 1981, pp. 61-63. Si tenga presente l’ipotesi di West, secondo la
quale il trasferimento della mitologia orientale alla Grecia fu opera «di un certo
numero di poeti bilingui, probabilmente anch’essi dell’est, che si erano stabiliti
in Grecia e che avevano appreso a comporre canti epici alla maniera dei Greci»
(WEST 1988, p. 171).
81. PRATT 1992, p. 7; cfr. GREENBLATT 1991, p. 4, su «ciò che sta in mezzo, la
zona di intersezione»; WHITE 1991, sul «terreno intermedio».
82. TAUSSIG 1993. Devo molto a Neil Whitehead per le discussioni avute circa
il suo lavoro, ancora non terminato, sulla «mimesi e l’alterità» nelle relazioni
coloniali nel Nuovo Mondo.
83. GRUEN 1992, pp. 6-51.
84. WOOLF 1994, p. 135 (sul periodo imperiale); vd. l’importante trattazione
di CURTI-DENCH-PATTERSON 1996, pp. 181-88.
85. Il principale pregio dell’indispensabile studio di Gruen è il suo
concentrarsi sull’assimilazione come fattore positivo.
86. WALLACE-HADRILL 1988.
87. EDMUNDS 1990, p. 142.
88. SMITH 1978, p. 206.
89. SLATER 1993, p. 120, con riferimento al cap. 6 di GREENBLATT 1980. Slater
non si serve di Greenblatt per gli stessi miei scopi e perciò posso liberamente
qualificare la “semplice verità” della mia citazione come inapplicabile alle
modalità con cui i greci hanno sempre pensato i loro sistemi.
90. Peter Bing mi sollecita a sottolineare che «un altro tipo di potere analitico
non significa un tipo “superiore”: io non desidero affatto far intendere che un
Alceo o un Euripide erano a tal punto intrappolati nella propria cultura
(primaria) da non poter manipolare il mito ad un qualunque livello di potere
analitico» (per litteras).
91. BURKERT 1979, p. 24 (vd. sopra, p. 96).
92. GRAF 1988, pp. 60-62; FORBES IRVING 1990, p. 29; si vedano le importanti
precisazioni fatte da MYERS 1994, p. 94 a proposito della posizione di Graf.
93. GRAF 1988, pp. 61-62; MYERS 1994, pp. 95-132.
94. SOLODOW 1988, p. 75.
95. Uno studio importante in SCHMIDT 1991, in partic. pp. 70-78.
96. FEENEY 1991, pp. 195-98; SCHMIDT 1991 con il suo contributo sulla
«Psychologie als anthropologische Hermeneutik» (pp. 17-19) di Ovidio, fa
assumere una nuova prospettiva al tradizionale interesse per il Sulmonese come
poeta della psicologia umana.
97. KNOX 1986, p. 14.
98. KNOX 1990, p. 200, sulla trasformazione formale; cfr. WILLS 1990, p. 154.
99. GRAF 1988, p. 62. Come rileva MYERS 1994, p. 62, Ovidio fa menzione,
all’inizio del racconto, del fatto che i vincitori dei giochi Pitici in onore di
Apollo all’inizio ricevevano in premio ghirlande di quercia, poiché l’alloro non
esisteva ancora (1 445-51); dal punto di vista formale, dunque, la metamorfosi di
Dafne è l’aition di una pratica cultuale, ma l’enfasi posta nella narrazione è tutta
altrove.
100. FORBES IRVING 1990, p. 136.
101. Sul primo modello, vd. FEENEY 1991, pp. 199-200, 209-20.
102. BLUMENBERG 1985, p. 351. Come primo passo successivo al racconto di
Dafne, si osservi come Petrarca si appropri della natura autoreferenziale della
passione di Apollo nel suo sentimento nei confronti di Laura, il “lauro” che lo
farà “laureato” (FRECCERO 1975).
103. Debbo a Stephen Hinds l’antitesi tra uiuam e absens.
104. GRAF 1993a, p. 5, con una bibliografia preliminare.
III
LA DIVINITÀ
I «pittori» e gli «scultori» cui Cotta allude in questo brano erano ovviamente
greci e lo erano stati fin dagli anni 490 a.C., allorché Damofilo e Gorgaso
abbellirono il tempio di Cerere con pitture e statue di terracotta, cosí come
veniva detto nei versi greci posti nel santuario stesso, in cui si dichiarava che
Damofilo aveva lavorato nella parte destra e Gorgaso nella parte sinistra
dell’edificio (Plin., HN, 35 154).
Gli dei antropomorfi, con nome e attributi personali, non erano l’unica forma
in cui il culto romano concettualizzava il divino. Talune divinità erano solo
genericamente antropomorfe e mantenevano le stesse caratteristiche e funzioni
indifferenziate dovunque si trovassero: ogni casa poteva avere i suoi Lari, i suoi
Penati, il suo Genius.33 Come nel mondo greco, alcuni oggetti naturali o creati
dalla mano dell’uomo erano venerati come divinità, quantunque la natura di tali
divinità fosse – e resti – molto problematica.34 Inoltre, in una preghiera poteva
essere elencata una moltitudine di potenze minori, senza che queste venissero
rappresentate iconicamente e che comparissero in altri contesti che non fossero
una rara forma di incantesimo liturgico.35 Tali Indigitamenta avevano nomi
significativi, che esprimevano funzioni minuziosamente specializzate (Vaticanus
faceva piangere il bambino, Cunina lo custodiva nella culla, Potina gli dava da
bere). I primi cristiani e alcuni studiosi moderni sono stati concordi nel farsi
beffe di queste manifestazioni, che ben si adattavano all’opinione ostile di
entrambi i gruppi verso la religione romana, considerata poco spirituale e
incoerente. Un approccio del genere è tipico del modo in cui gli elementi
marginali della religione romana sono stati elevati a sue caratteristiche peculiari.
In realtà, tali creature soprannaturali non sostituiscono le personalità divine piú
complete e definite, ma hanno lo scopo di fornire loro un seguito,
raggruppandosi attorno al grande dio come la schiera di schiavi, parassiti, liberti
e clienti si addensava attorno all’aristocratico romano.36 Sugli Indigitamenta ci
fermiamo qui.
Le personificazioni, come sono definite per convenzione, ma anche
maldestramente, fondano una categoria importante e concettualmente complessa
all’interno del culto della città romana, come pure di quella greca.37 Ad un
lettore moderno esse appaiono difficili da interpretare, a causa della lunga
tradizione ostile all’allegoria e in particolare all’allegoria personificante, che ci
mette in una posizione di evidente debolezza quando si tratta di valutare tali
aspetti. Fin dalle prime fasi sembra che alcune forze, qualità o condizioni siano
state onorate come divine dai romani e fatte oggetto di venerazione, nella
speranza di attrarre il potere intrinseco al loro nome se benefico (Ops,
‘Ricchezza’) o di tenerlo lontano se malefico (Robigus, ‘Ruggine del grano’,
Febris, ‘Malaria’): possiamo qui osservare che la divinizzazione di
caratteristiche negative costituiva un evidente scandalo per i filosofi.38
Egualmente antichi erano alcuni culti di entità che i lettori moderni
riconoscerebbero facilmente come “personificazioni”: Concordia (‘Armonia’,
‘Concordia’), Salus (‘Salvezza’, ‘Sicurezza’). La grande maggioranza di tali
personificazioni entrarono dunque a far parte della vita e del culto romani
sull’onda medesima del rinnovamento religioso ellenizzante di cui abbiamo già
parlato nel cap. I, durante lo spettacolare “secolo lungo” in cui i romani si
dilatarono rapidamente da potenza centro-italica a potenza mediterranea e
asiatica (300-188 a.C.).39 Furono questi gli anni che videro, ad esempio,
l’introduzione di Victoria, Spes, Fides, Libertas, Mens, Virtus. Basate sui culti
degli stati greci, queste nuove divinità si costituirono a seguito delle prescrizioni
dei Libri Sibillini e furono officiate graeco ritu: nel tempio di Honos, ad
esempio, era possibile partecipare a un rito niente affatto romano come quello
del sacrificio di una vittima femminile (una vacca) ad una divinità maschile.40I
nuovi culti erano evidentemente molto popolari e per la classe al potere
rappresentavano un modo efficace e flessibile di conciliare valori e ideologie
greche e romane, in un periodo in cui tale conciliazione era di vitale importanza
per l’impero in espansione.41 Ancora una volta vediamo come fossero i contesti
religiosi a offrire il punto di incontro piú interessante e insieme funzionale per
l’articolarsi di nuove ideologie, sebbene la tenace tendenza primitivista nello
studio della religione romana abbia fatto numerosi tentativi di retrodatare ad
un’antica fase pregreca quelle personificazioni che appaiono incarnare in forme
piú seducenti le qualità archetipiche romane (Fides, Virtus).42
Le personificazioni ritrovarono in seguito un terreno favorevole al servizio di
un’altra, nuova ideologia religiosa, quella degli imperatori.43 Qui ci imbattiamo
nella nostra ultima categoria di rilievo, dato che la città non solo onorava divinità
che tutti sapevano essere state degli uomini, ma anche l’imperatore vivente,
all’interno del contesto di un altro culto divino e con le forme derivate dal culto
degli dei.44 La divinizzazione di esseri umani era ed è un argomento
enormemente complesso e controverso; alla fine di questo capitolo indagheremo
alcuni dei modi in cui gli scrittori latini affrontarono le difficoltà concettuali e
artistiche che da tale argomento derivavano.
Se queste sono le principali categorie di divinità, esse tuttavia non esauriscono
l’incredibile parcellizzazione del divino, verso cui i romani prestavano
un’attenzione particolare (di certi, incerti, praecipui et selecti, nouensides,
indigetes, consentes…). Tutte queste categorie erano oggetto di intense
discussioni fin dagli inizi della tradizione culturale e letteraria latina.45 La
categorizzazione del divino era sotto gli occhi di tutti nel culto civico, dato che
ogni anno, nelle processioni di immagini che aprivano i giochi, la cittadinanza
poteva osservare i diversi tipi di divinità raggruppate assieme: i dettagli ci
sfuggono, ma la pompa comprendeva certamente gli dei maggiori dello stato
(Giove, Giunone, Nettuno, ecc.), come pure semidei quali Ercole, Esculapio e i
Dioscuri, nonché le personificazioni come la Vittoria.46 Il linguaggio delle
preghiere dimostra analogamente di corrispondere alla vasta gamma delle
possibilità divine: un romano poteva dire all’occasione «con qualunque nome tu
desideri essere chiamato», «chiunque tu sia», «sia che tu sia maschio o
femmina».47 Espressioni del genere non fanno che ammettere con arguzia che la
rete con cui gli uomini cercano di avviluppare le creature appartenenti a un’altra
dimensione è solo uno strumento costruito dall’uomo, del quale non si può mai
essere sicuri che abbia le maglie della giusta dimensione.48
Pur riconoscendo che la nostra stessa rete è anch’essa alquanto grossolana,
vogliamo comunque gettarla sulle diverse forme di raffigurazione del divino,
soprattutto in letteratura. Innanzi tutto prenderemo in considerazione le
personificazioni, perché le altre categorie rappresentano un continuum migliore e
vengono meglio trattate in sequenza. Successivamente esamineremo gli dei
maggiori e le loro immagini e ci dirigeremo, passando per l’epifania, a trattare
dell’interazione tra dei e uomini; potremo quindi concludere il capitolo
percorrendo a ritroso la scala, per indagare la divinizzazione degli esseri umani.
4. LE PERSONIFICAZIONI
Questo tipo di culti presentava – e presenta – difficili problemi di definizione.
Pax, Virtus et similia sono attributi di una divinità o divinità in quanto tali?
Oppure ancora: sono attributi umani divinizzati o qualità intrinsecamente umane,
che restano umane, ovvero contraffazioni umane di divinità?49 In Fast., 6 92
Ovidio raggruppa quasi tutte queste possibilità interpretative in quattro parole,
quando descrive la Concordia come placidi numen opusque ducis, ‘la divinità e
l’opera di un placido duce’. Si tratta di una forza divina, che ispira Augusto
dall’esterno; è una forza divina che sorge da Augusto stesso; è «l’opera» di
Augusto in quanto, come leader politico, egli realizza e incarna la funzione di
armonico accordo.
Da un punto di vista moderno, il problema degli astratti sembra trovare una
composizione nel fatto che i romani non facevano distinzioni tra lettere
maiuscole e minuscole. Pensare alla differenza tra Pax e pax non è facile, ma è
certamente piú agevole che farlo tra PAX e PAX. La chiarezza che si esprime
attraverso le moderne regole tipografiche può tuttavia oscurare i vantaggi
collegati ad una mentalità che non imponeva demarcazioni rigide tra parole,
qualità e ipostasi e che poteva servirsi utilmente dell’indeterminatezza in uno
spirito di improvvisazione.50 Come spesso accade, una battuta plautina vale a
illustrare in modo efficace queste possibilità,51 facendoci nel contempo
comprendere come il riconoscimento di tali possibilità fosse intrinseco al sistema
fin dall’inizio della documentazione letteraria in nostro possesso.
Sul principio delle Bacchides, quando il giovane Pistoclero entra in una casa
per partecipare a una festa, il servo Lido gli chiede chi abiti là dentro e ottiene in
risposta ‘Amore, Piacere, Venere, Venustà, Gioia, Gioco, Riso, Chiacchiere,
Dolcebacio’ (Amor, Voluptas, Venu’, Venustas, Gaudium, / Iocu’, Ludus, Sermo,
Suauisauiatio, 115-16). In questo lungo elenco di astrazioni, spicca naturalmente
la presenza di Venus, Venere, in quanto “autentica” divinità; Plauto tuttavia
personalizza la sua qualità, giustapponendole il termine affine di Venustas,
‘fascino’, ‘la qualità di essere come Venere’; egli inoltre ci induce a chiederci
retrospettivamente se Amor sia un sostantivo o il nome del figlio di Venere. Il
servo chiede a Pistoclero perché egli avesse rapporti ‘con dei che sono stati tanto
dannosi per te’ (cum dis damnosissumis), ponendosi, seppur comicamente, lo
stesso problema di cui abbiamo parlato poc’anzi (p. 124), cioè a dire come le
cattive qualità potessero essere divinizzate. Il giovane, indignato, castiga il servo
per aver parlato male degli dei, suscitando nel contempo un interrogativo di
straordinario interesse: ‘Dolcebacio è forse una divinità?’ (an deus est ullus
Suauisauiatio?, 120). Pistoclero non cessa di incalzare Lido a motivo della sua
ignoranza in materia di nomenclatura divina (stultior es barbaro †poticio† / qui
tantus natu deorum nescis nomina, 123-24), ma la domanda del vecchio ha
rivelato l’apparente casualità che sottende l’intera operazione, giacché ogni
termine astratto di grande rilevanza può sembrare terribilmente vicino ad una
divinità, se posto in un idoneo contesto.
Naturalmente, ad un determinato livello è possibile dirimere la questione con
chiarezza. Come dimostra un altro passo di Plauto, ogni divinità deve avere una
statua, un altare e ricevere dei sacrifici; da questo punto di vista alcune
“astrazioni” sono dei, altre non lo sono.52 Eppure anche questa linea di
demarcazione può risultare incerta. Nel Carmen saeculare di Orazio, ad
esempio, tutte le personificazioni sono messe assieme, in un luogo poetico loro
proprio, quasi a voler attirare l’attenzione su questa particolare categoria di
divinità (Fides, Pax, Honos, Pudor, Virtus, Copia, 57-60); questo modo di isolare
il gruppo corrisponde alla pratica cultuale, che non ha mai visto riunite divinità
astratte e personali.53 Oltre questo elenco, tuttavia, Pudor (‘Pudore’, ‘Modestia’)
ci colpisce in quanto il nome della “Modestia” nel culto romano non è certo il
maschile Pudor, ma la femminile Pudicitia. Pudicitia però non entra nello
schema metrico saffico e Orazio si ritiene evidentemente autorizzato a usare un
termine astratto affine a quello del culto ufficiale, anche se l’astratto non è
oggetto di culto ed è di genere differente. La qualità della divinità risiede nella
radice della parola, non in una forma particolare o in un particolare tempio.
Dunque, mentre gli studiosi possono individuare come oggetto di culto quelle
astrazioni scritte, per cosí dire, con la lettera maiuscola, esistono tuttavia non
poche aree di incerta definizione. L’utile lavoro di Axtell 1907, ad esempio,
divide le astrazioni divinizzate in «culti di stato», «astrazioni venerate dal
popolo, ma non ufficiali», «divinizzazioni singole e occasionali», «casi dubbi».
La forma mentis essenzialmente imprevedibile che sta dietro il riconoscimento
pubblico di una qualità come divina non può essere limitata alla sfera civica e gli
artisti possono innovare ex tempore, proprio come i privati cittadini. Orazio,
ancora lui, nel suo inno alla Fortuna Anziate (Carm., 1 35) introduce diverse
personificazioni nel corteggio della dea. Due tra queste, Spes e Fides, erano
associate al culto romano della Fortuna e Fides è persino raffigurata ad
imitazione dei suoi sacerdoti ufficiali, con la mano coperta (21-22).54 La sinistra
figura della Necessitas non risulta però oggetto di culto (17-20): è la greca
Άνάγϰη, qui trasformata in una schiava romana, dotata dei terribili strumenti
ufficiali di morte e di tortura (ganci, chiodi, cunei, piombo fuso).55 Axtell, come
molti altri, appare turbato dalla collocazione di «un mero concetto nato
dall’immaginazione» accanto a «una divinità vera e propria» e questa parata di
astrazioni viene regolarmente stigmatizzata come frigida;56 eppure l’originale
introduzione che Orazio opera della Necessità greca, attualizza vividamente la
moltitudine dei ministri della Fortuna, cogliendo quella miscela di terrore e di
dignità che caratterizza l’entourage del magistrato in procinto di punire un
malfattore. Inoltre lo stesso status cultuale della Fortuna costituisce una sorta di
problema in questo ambito, poiché l’inno alla dea è preceduto da un testo poetico
in cui ci imbattiamo nella fortuna “senza lettera maiuscola”, intesa come forza in
generale, in rapporto dialettico con Giove Tonante e le dottrine di Epicuro (1 34).
La Tyche del pensiero ellenistico viene modulata nella dea civica del culto
romano: i due brani poetici ci consentono di cogliere due diverse condizioni
riferite allo “stesso” nome.57
Nel raffigurare tali qualità come persone, al fine di renderle oggetto di culto, si
aprono interessanti questioni. Innanzi tutto, visto che devono avere una statua, è
necessario attribuire loro un sesso e il sesso di un termine astratto determina
inevitabilmente quello della divinità. Da qui discende il fatto che i neutri, come
auxilium, ‘aiuto’, non possono diventare dei: un punto questo su cui gioca Plauto
in un ragguardevole passo all’inizio della Cistellaria, quando il personaggio
inetto che rappresenta il dio Auxilium entra goffamente in scena dopo 150 versi,
lamentandosi perché il suo ruolo, come Prologo divinizzato che spiega la trama,
è stato vanificato dal soliloquio di uno dei personaggi (149-53). Un’altra
conseguenza della convenzione dei generi è che in pratica ogni divinità di questo
tipo finisce per essere femminile, non solo perché molti sostantivi astratti latini
sono femminili, ma perché quasi tutti quelli greci lo sono e numerose divinità di
questo tipo sono di derivazione ellenistica.58 Per questo motivo, la forza divina
che incarna l’essenza stessa del maschile, grammaticalmente e
iconograficamente è femminile: Vir-tus. Stazio, ad esempio, quando introduce la
figura esotica della Virtus sul campo di battaglia tebano, ha piena coscienza della
stridente anomalia (Theb., 10 639-46): la dea tenta di rendersi piú femminile,
allontanandosi dai suoi connotati mascolini, indossando vesti muliebri allo scopo
di persuadere l’eroe tebano Meneceo a ritirarsi dallo scontro e a darsi la morte
per espiazione.59 Il suo tentativo di assimilarsi al proprio genere grammaticale
mette in evidenza la stranezza delle sua funzione tradizionale come incarnazione
del principio maschile: tali momenti aprono uno iato profondo nell’intero
sistema delle convenzioni, rivelando che non può mai darsi una sovrapposizione
totale tra l’idea generale della qualità e le sue manifestazioni particolari.
Se si vogliono porre nella giusta prospettiva le loro peculiari caratteristiche, è
di cruciale importanza vedere queste divinità come parte di un sistema piú
ampio, assieme agli altri dei dello stato. Nessuna categoria divina sostituisce
l’altra: nei momenti di crisi e di rinnovamento, lo stato fa sorgere nuove divinità
all’interno di ciascuna categoria, per cui, ad esempio, all’epoca della catastrofica
invasione annibalica, si giunge all’istituzione contemporanea dei nuovi culti di
Mens (‘Intelligenza’, ‘Ragione’) e di Venus Ericina sul Campidoglio, nel 215
a.C. (Liv., 22 9 10 e 10 10). Il caso della Concordia illustra una modalità
particolarmente importante in cui la divinità delle personificazioni differisce da
quella degli altri dei. Colpisce il fatto che, per un lungo periodo di tempo,
vennero innalzati diversi templi ed edifici sacri dedicati alla Concordia.60 È
evidente che, quando si realizzarono momenti rilevanti di rappacificazione, lo
stato non si accontentò di un tempio preesistente per onorare e ringraziare la
divinità del suo intervento, ma ritenne opportuno consacrarle un nuovo luogo di
culto, in riconoscimento della sua propizia comparsa. Ovidio svela la mentalità
che si cela dietro un tale atto di omaggio, allorché annota la ricostruzione e la
nuova dedica da parte di Tiberio dell’antico tempio della Concordia voluto da
Camillo: causa recens melior, sono le sue parole in Fast., 1 645, dimostrando
cosí che i diversi interventi della dea venivano colti distintamente e collegati ad
una manifestazione specifica della sua qualità nella sfera umana.
Come puntalizza a proposito Whitman, le personificazioni «emergono da un
particolare accento posto sulle condizioni umane».61 Esse sono un mezzo per
proiettare «verso l’alto» caratteristiche del nostro mondo, cosí da consentire una
partecipazione degli uomini ad un’altra e maggiore dimensione di forza, dalla
quale, all’occorrenza, richiamarle nuovamente «in basso». D’altro canto, Giove,
Giunone e altre figure divine possiedono una volontà e una personalità loro
proprie (e spesso imperscrutabili), che le pongono in una condizione di maggiore
indipendenza rispetto alle categorie umane. La differenza si manifesta con
chiarezza nel fatto che gli dei dotati di personalità non si associano a gruppi
particolari tramite genitivi di modificazione, come invece è talvolta il caso delle
personificazioni. Il senso di identità di questo o quel gruppo può esprimersi in
dediche alla “Concordia del popolo di Agrigento”, oppure alla “Concordia del
nostro collegio”, ma le piú importanti persone divine non attribuiscono a se
stesse tali gruppi al genitivo.62 Una distinzione siffatta non dovrebbe essere letta
automaticamente come un segno che le personificazioni costituiscono forme
inferiori; piuttosto, esse vanno viste come parti di un sistema flessibile e
intelligente, che può concepirsi come uno dei modi evoluti di concettualizzare e
di soggiogare il potere della divinità, che diventa cosí fruibile dallo stato, dalle
associazioni, dal singolo e dall’artista.
Lucilio può anche avere avuto la fama di essere prolisso, ma in questi pochi
versi egli punta il dito su non poche e importanti questioni riguardanti la
rappresentazione del divino nel culto di stato.66 Lucilio mette alla berlina il
“sovraumano, ma ancora riconoscibilmente umano” ritratto convenzionale degli
dei, affermando che i bambini cadono in due tipi di errore. In primo luogo
ritengono che le statue siano vive, mentre sono, ovviamente, inanimate; in
secondo credono anche che siano umane, mentre alcune di loro “sono” in realtà
degli dei. Tuttavia gli errori dell’adulto superstizioso appaiono molto peggiori,
perché egli confonde la rappresentazione del dio con il dio, ritenendo che
l’intelligenza della divinità si trovi a suo agio all’interno di un oggetto di bronzo
cosí come il termine usato da Lucilio per designare l’intelligenza, COR, sia
appropriato alle statue (signis COR inesse in aenis). L’adulto superstizioso è
privo di intelligenza come la statua e con lui ci troviamo di fronte ad un essere
umano vivo e stolto che contempla un dio inanimato senza intelligenza:
l’osservatore umano e il divino osservato finiscono per avere, ancora una volta,
piú elementi in comune di quanto si sarebbe volentieri indotti a credere. L’ultimo
verso del passo citato mescola altre due categorie, quelle del culto e dell’arte: le
immagini sono tutte il prodotto delle botteghe, destinato ad essere messo in
mostra e venduto, sia che rappresenti il divino sia che raffiguri l’umano.67
Il problema del rapporto tra gli dei e le loro rappresentazioni è stato molto
discusso in diversi luoghi e periodi del mondo antico.68 È importante rendersi
conto fin dall’inizio che, quando i letterati romani si impegnano su questi
argomenti, non compiono semplicemente un’interessante operazione su un
determinato complesso di forme statiche e lineari di comportamento, giacché lo
stesso culto dello stato romano mostra un’energia creativa e variegata
nell’esplorare i problemi concettuali associati alle immagini divine. Come bene
osserva Gordon, «la gente credeva ad un tempo che quelle statue fossero dei e
che non lo fossero»; egli descrive l’atteggiamento che ne risulta come «un gioco
del tipo “facciamo che siano dei”, che i greci (e i romani) intrattenevano con le
loro statue e le altre raffigurazioni della divinità».69 In un certo qual modo, gli
dei vengono concepiti come se occupassero una dimensione loro propria,
indipendente dalla rappresentazione che se ne faceva nella città: nella disciplina
dell’augurato, ad esempio, essi vengono immaginati rivolti a sud, senza badare
all’orientamento dei templi e delle immagini.70 Eppure la rappresentazione
cultuale degli dei nella città è un modo per legarli alla vita civile, per ancorarli in
quanto concittadini e compartecipi del tempo e dello spazio allo stesso titolo di
tutti gli altri.71 Cicerone su questo punto mette in contrasto in maniera esplicita il
culto greco e romano con quello persiano. I persiani possono aver pensato che i
greci sbagliavano a chiudere gli dei all’interno delle mura di un tempio,
basandosi sul principio che tutto doveva restare libero e aperto per le divinità, il
cui unico sacello non poteva che essere il mondo; «tuttavia i greci e noi romani
abbiamo un modo migliore per favorire la pietà nei confronti degli dei, che è
quello di averli voluti abitanti delle nostre stesse città» (easdem illos urbis quas
nos incolere uoluerunt, Leg., 2 26).
Un frammento di diatriba senecana contro la superstizione, tramandatoci da
Agostino (De Civ. D., 6 10) ci offre un’interessente visione degli atteggiamenti
che i romani assumevano riguardo alla materializzazione delle divinità nelle loro
statue. Seneca descrive la gran confusione che regnava sulla sommità del colle
capitolino e ci racconta della moltitudine di schiavi che prestavano servizio
presso i grandi dei della Triade capitolina (Giove, Giunone e Minerva). Giove ne
aveva uno che gli annunciava i nomi dei visitatori, dice Seneca, e un altro che gli
segnalava l’ora. Tuttavia gli altri servitori di Giove (come pure di Giunone e di
Minerva) che egli ci descrive ci appaiono di gran lunga piú bizzarri, còlti da
Seneca nell’atto di compiere un complesso gioco imitativo mirato a far credere
che:
alius lutor est, alius unctor, qui uano motu bracchiorum imitatur unguentem, sunt
quae Iunoni ac Mineruae capillos disponant (longe a templo, non tantum a
simulacro stantes digitos mouent ornantium modo), sunt quae speculum teneant
(‘Uno fa l’inserviente ai bagni, l’altro l’untore, il quale, muovendo a vuoto gli
arti, imita chi unge; ci sono poi quelli che acconciano le chiome a Giunone e a
Minerva [stando lontano dal tempio, e non solo dalla statua, muovono le dita al
modo dei parrucchieri] e ancora ci sono quelli che tengono lo specchio’).
Queste persone non stanno lí a soddisfare i bisogni degli dei, perché gli dei non
hanno bisogni, ma non badano neppure a quelli delle statue. Se gli dei vogliono
fingere di materializzarsi nella statua, di avere i capelli in ordine, la pelle asciutta
e occhi per vedere la “loro” immagine riflessa in uno specchio, allora gli uomini
non potranno che fingere di curarsi di “loro” nella statua. Il comportamento di
questi fedeli costituisce un esempio evidente di quanto i romani sapessero
ragionare lucidamente sui limiti delle forme mimetiche con cui onoravano i loro
dei. La materializzazione non è commisurata alla divinità, ma la mancanza stessa
di commensurabilità suggerisce con forza la grandezza del potere incontenibile
del dio.72
Nel suo studio sui banchetti dei Fratelli Arvali, J. Scheid ci ha offerto un bel
resoconto di come il rituale di stato potesse essere perfettamente consapevole
della natura e del potere fittizi della sua mediazione con la divinità. I banchetti
offerti agli dei dai Fratelli Arvali erano organizzati in modo tale da mettere in
luce il fatto che l’esperienza del cibarsi non era “reale” e che le statue delle
divinità non erano esse stesse i convitati: l’effetto era quello di evocare la
presenza del dio, esprimendo nel medesimo tempo «l’alterità, la superiorità, ma
anche la solidarietà della divinità».73 I romani invitavano regolarmente gli dei a
partecipare a tali banchetti assieme a loro, compiendo un rito chiamato
lectisternium, nel corso del quale le immagini degli dei erano deposte reclinate
su cuscini come fossero cittadini romani.74
L’occasione in cui le raffigurazioni divine venivano esposte nel modo piú
elaborato era quella costituita dalla processione che precedeva i giochi, la pompa
circensis. Gli dei, fatti uscire dalle loro case (aedes) e portati su lettighe speciali
(fercula), venivano condotti ad assistere ai giochi e a farsi ammirare, mentre gli
attributi propri di ciascuno (exuuiae) erano collocati su appositi carri (tensae).75
Le molte categorie di divinità che sfilavano, davano vita a uno spettacolo che era
peculiarmente romano e il cui vivido splendore è solo pallidamente conservato
in alcuni movimentati rilievi.76 In quanto occasione principale per l’ostensione
delle divinità, la pompa poteva sollevare grandi ondate emotive ed era
necessariamente adattabile ai mutamenti delle ideologie: quando Ottaviano e
Antonio rimossero la statua di Nettuno, il dio favorito dal loro rivale Sesto
Pompeo, scoppiò un tumulto e cosí pure l’introduzione da parte di Cesare della
propria statua nella pompa segnò il primo passo verso l’appropriazione in senso
imperiale della cerimonia.77
Uno degli aspetti piú impressionanti della pompa era quello della doppia
sfilata delle immagini degli dei e dei loro attributi: Giove non vi era dunque
rappresentato solo da una statua portata da quattro uomini, ma anche dalla sua
folgore sistemata su un carro. Talvolta la differenza è stata spiegata in quanto
risultato di uno sviluppo storico che aveva visto le forme iconiche giungere dopo
quelle simboliche degli attributi.78 Tuttavia i due tipi di rappresentazione sono in
rapporto dialogico l’una con l’altra, in un modo che ricorda la finzione sottesa al
lectisternium dei Fratelli Arvali. Sono qui esposte due concezioni diverse della
divinità e della sua rappresentazione: la divinità è materializzata nella statua, ma
nello stesso tempo è raffigurata per sineddoche nei suoi attributi.79 Quando le
immagini sacre vengono portate fuori dai templi, si realizza la concezione degli
dei intesi come concittadini, forse con un grado extra di mimesi, dato che la
raffigurazione che sfilava in processione era probabilmente un esemplare
portatile della piú massiccia statua di culto ufficiale.80 La turba delle effigi
divine fanno sentire gli dei presenti, manipolabili, assimilabili alle norme umane,
come noi; quando vengono condotti fuori dalle proprie sedi e sistemati in modo
da assicurare loro un buon punto di visione e cosí via, si imita la loro
partecipazione fisica (qui soprattutto si apprezza la profonda intuizione di
Taussig quando dice che «la creazione e l’esistenza di un manufatto che raffigura
le fattezze di qualcuno o di qualcosa conferisce una sorta di potere sopra ciò che
è stato ritratto»).81 La sfilata degli attributi divini, d’altro lato, è un modo per
alludere e per simboleggiare il potere sovraumano delle divinità: questa strategia
rappresentativa vede gli dei assenti, misteriosi, inavvicinabili attraverso una
diretta mimesi umana.
b) Le rappresentazioni in letteratura
Gli autori della letteratura latina mostrano un vivo interesse per i problemi
della rappresentazione della divinità, poiché essi non appartengono solo ad una
cultura cittadina che continua a mettere in scena compulsivamente le categorie e
gli attributi degli dei, ma sono anche membri onorari di una cultura greca,
poetica e critica, che si è egualmente occupata di tali questioni per secoli.82 Già
in Omero «preoccupazione costante del poeta […] appare il problema dello
stabilire fino a che punto la potenza divina è suscettibile di adattamento alle
necessità narrative, che pure sono il mezzo indispensabile per catturare quella
potenza – una tale preoccupazione rispecchia la ricorrente insistenza pagana
sulla “contraddizione e l’ambiguità” inerenti al divino “prevedibile e
imprevedibile, umano e non umano”».83 I poeti devono adattare la divinità alle
forme del linguaggio, proprio come lo stato fa usando l’avorio o il marmo.
Virgilio ci svela come possano queste forme di mimesi essere profondamente
implicate l’una con l’altra, allorché descrive Enea che viene reso piú bello dalla
madre in occasione dell’incontro con Didone, in un momento simile ad una
epifania (Aen., 1 588-93):
restitit Aeneas claraque in luce refulsit
os umerosque deo similis; namque ipsa decoram
caesariem nato genetrix lumenque iuuentae
purpureum et laetos oculis adflarat honores:
quale manus addunt ebori decus, aut ubi flauo
argentum Pariusue lapis circumdatur auro.
6. ATTRAVERSANDO LA LINEA
a) Epifania
Molti dei problemi piú interessanti associati alla divinità vanno colti nei
momenti in cui il divino urta la barriera che separa la nostra e la sua dimensione
nell’epifania.100 Secondo una visione prevalentemente nostalgica, un tempo
quella barriera non esisteva. Persino un filosofo della politica poteva dire che
‘l’antichità era piú vicina agli dei’ (antiquitas proxume accedit ad deos, Cic.,
Leg., 2 27); storici e antiquari poi, pur con vari gradi di generico scetticismo,
erano capaci di riferire occasioni remote in cui gli dei mangiavano assieme agli
uomini o si mescolavano a loro in guerra e in amore.101 Esistevano anche
riferimenti a casi piú vicini nel tempo, per lo piú relativi all’aiuto portato in
battaglia e le caratteristiche di tali epifanie all’interno delle testimonianze
storiche erano oggetto di acute disamine: gli interlocutori di Cicerone nel De
natura deorum, ad esempio, discutono animatamente sulle molte e famose
epifanie dei Dioscuri.102
Per i poeti, il richiamo fantastico di quelle età era molto forte. Prima dello iato
tremendo venutosi a creare alla fine dell’Età dell’oro, come dice Catullo nel
concludere il suo “Peleo e Teti”, ‘nelle epoche passate gli abitatori dei cieli
usavano far visita alle pure dimore degli eroi, presenti nella loro piena corporeità
agli occhi dei mortali, quando ancora la pietà verso gli dei non era oggetto di
scherno’ (praesentes namque ante domos inuisere castas / heroum, et sese
mortali ostendere coetu, / caelicolae nondum spreta pietate solebant, 64 384-
86). Una volta iniziata l’epoca del peccato, quando gli umani scacciarono la
giustizia dai loro cuori (397-98), i crimini commessi spinsero la saggia mente
degli dei a porre termine a quegli incontri comuni: quare nec talis dignantur
uisere coetus, / nec se contingi patiuntur lumine claro (‘perciò non si degnarono
di partecipare a tali incontri, né consentirono di essere toccati dalla chiara luce
del giorno’, 407-8). Niente piú visioni della divinità, dunque, di quel genere che
abbelliva la luminosità diurna, allorché Argo prese il mare, all’inizio del canto,
nell’ultimo giorno dell’Età dell’oro (illa, atque haud alia, uiderunt luce marinas
/ mortales oculis nudato corpore Nymphas, ‘in quel giorno luminoso e in nessun
altro occhi mortali videro le ninfe del mare con i loro corpi nudi’, 16-17).
Catullo introduce una nota finemente romana nel suo catalogo delle diverse
presenze divine che gli uomini non potevano piú percepire. Una delle differenze
fondamentali tra la perduta Età dell’oro e quella attuale era che dei e uomini non
prendevano piú pasti in comune;103 per questo il poeta colloca come quadretto
iniziale, che illustra l’intimità tra dei e uomini esistente prima dell’epoca della
colpa, Giove mentre mangia con esseri umani: nei giorni della sua festa annuale,
‘il padre degli dei, sedendo nel suo splendido tempio, spesso vedeva cadere a
terra cento tori’ (saepe pater diuum templo in fulgente residens / […] conspexit
terra centum procumbere tauros, 387-89). Tuttavia le parole di Catullo possono
essere lette come la descrizione della partecipazione di Giove al culto romano
contemporaneo del lectisternium, o di ‘Giove a banchetto’ (Iuppiter Dapalis). Le
parole e l’immagine del dio che osserva la scena dal tempio sono identiche in
entrambi i casi; allora però il dio era in tutto e per tutto presente, mentre adesso
tale presenza è solo quella che può offrire la sua statua.
Ora che l’Età dell’oro e quella sua intima immediatezza sono scomparse,
vedere una divinità può essere molto pericoloso, se non fatale; già in Omero
udiamo una dea affermare che ‘è arduo reggere il confronto con un dio, quando
lo vediamo in tutta la sua luce’ (Il., 20 131).104 Abbondano i racconti di uomini
inceneriti, mutilati, accecati allorché si imbattono in un dio (Semele, Anchise,
Tiresia, Saul). Perciò, di norma, l’apparizione di una divinità viene mediata dal
sogno o da mentite spoglie e Virgilio rivela la stretta somiglianza di tali
comportamenti allorché impiega un linguaggio virtualmente identico per
descrivere un dio che compare in un sogno e che si mostra in abiti altrui (omnia
Mercurio similis, uocemque coloremque / et crinis flauos, Aen. 4 558-59; omnia
longaeuo similis uocemque coloremque / et crinis albos, 9 650-51). Solo nel
momento in cui il dio si allontana si può cogliere un lampo della sua vera natura,
laddove si rivela l’illusorietà dell’incontro (1 402-5):105
Come appare in questo esempio, dove Venere intavola una conversazione diretta
con suo figlio, talvolta possiamo gettare uno sguardo al di là della barriera. Gli
uomini sono di solito talmente terrorizzati dall’epifania che è difficile
considerare quel momento come una potenziale manifestazione di debolezza e di
compromesso dal punto di vista della divinità. Nella circostanza il dio si adatta
ad entrare in una dimensione per cui sente interesse se non affetto, ma che in
ultima istanza resta ineffabilmente inferiore.106 Di qui l’amara vergogna di
Afrodite dell’Inno omerico, resa folle e costretta ad unirsi al mortale Anchise
(198-99, 247-55); di qui il rifiuto perentorio di Venere a farsi coinvolgere nel
dolore di suo figlio, nato da quell’unione (Verg., Aen., 1 385-86). Quando gli dei
si mescolano agli umani indossando panni altrui possono anche evitare le
complicazioni e i rischi di una autentica interazione. Nel dialogo tra Giove
travestito da Anfitrione e la moglie di quest’ultimo, Alcmena, Plauto mette in
luce le differenze di ciò che è in palio per il dio e per l’uomo. Dopo che il vero
Anfitrione ha aspramente rimproverato Alcmena a causa del suo apparente
adulterio, Giove ritorna sotto le spoglie dell’uomo per avere ancora amore dalla
sua donna. L’intera scena ruota attorno alle parole di quest’ultimo che dichiara di
avere scherzato e alla confessione di lei della molta pena provata per quello
scherzo (903-22). Qui l’umorismo è mordente, fino a che da ultimo Giove non le
dice la verità: per lui, alla fine, tutto è iocum e niente è serium.
Dietro molti racconti di epifanie si può scoprire una sensazione di profondo
distacco tra l’ormai perduto contatto immediato di un’epoca rivissuta dalla
fantasia e gli incontri foschi del presente, delimitati dall’incertezza del sogno,
della visione o del travestimento. Nel carme 68 Catullo evoca mirabilmente
questa separatezza con l’epifania di un essere umano, la sua ‘candida dea’
(candida diua, 70). L’arrivo di lei nella casa dove faranno l’amore viene
paragonato all’arrivo della sposa attesa dallo sposo (73-74) e l’atmosfera
dell’epitalamio fornisce il punto di partenza per il raffronto dell’amata con una
dea e del suo giungere con una epifania.107 Le implicazioni di una tale equazione
sono sconvolgenti, poiché la donna di Catullo viene ad essere cosí dotata della
suprema irresponsabilità degli dei e della loro indifferenza sostanziale nei
confronti dei loro ospiti umani:108 l’immenso potere che lei ha di donare felicità
corrisponde in simmetria ad un altrettanto forte potere di ferire. Alla fine del
carme Catullo si ritrae dalla sua equazione, osservando in forma anodina che non
è giusto paragonare gli umani agli dei (141); nel congedo egli prega perché la
persona cui i suoi versi sono dedicati ottenga le benedizioni divine che un tempo
Themis distribuí nell’Età dell’oro (153-55), alludendo cosí ad un tipo di incontri
che sono ormai scomparsi per sempre. Questi ripiegamenti ci fanno comprendere
come l’amata si libri tra la dimensione divina e quella mortale, non essendo
pienamente assimilata né all’una né all’altra e in ultima istanza refrattaria ad
ogni descrizione. Il confronto con l’evento liminale dell’epifania ci aiuta a
focalizzare la particolare natura del momento che il carme cerca di ricondurre
alla mente: si tratta di un evento trascendente (che collega l’amata alla sfera
divina e nello stesso tempo la coppia ad un passato remoto, popolato di eroi ed
eroine splendidi e fatali), ma anche di un momento contestualmente in rapporto
con il presente (questa soglia, questa casa). La donna amata si colloca dunque ai
margini di tutti i generi di esperienza, presente e fantastica, mondana e
romantica, umana e divina, ma soprattutto al limite della rappresentabilità.109 È
questo il modo in cui ella appare piú simile ad un dio.
b) Apoteosi
Il fatto che la donna amata da Catullo venga rappresentata come una dea ci
conduce ad esaminare l’ultima categoria di questo capitolo, quella dell’umano
divinizzato. In tutte le distinzioni principali tra divino e umano che abbiamo
finora preso in considerazione, i confini ci sono apparsi nelle varie epoche piú
flessibili di quanto non accada all’interno di altre tradizioni religiose: «non è
esistita alcuna polarità semplice, ma piuttosto uno spettro senza soluzione di
continuità tra umano e divino».110 Da un punto di vista filosofico si poteva
postulare l’esistenza di creature intermedie, i cosiddetti “demoni”; le famiglie e
lo stato conservavano il culto degli antenati (Cicerone elaborava questa
tradizione nei suoi progetti di un sacello destinato ad assicurare l’apoteosi della
diletta figlia Tullia).111 Le stesse facoltà di improvvisazione che abbiamo visto
all’opera con le personificazioni potevano altresí esprimersi nel riconoscimento
di un elemento divino in un’altra persona: i personaggi di Plauto possono
apostrofare in maniera magniloquente i loro salvatori come “Giove”, i poeti
elegiaci creano una mistica della ‘divina fanciulla’, puella diuina.112 Il modo in
cui Lucrezio parla di Epicuro dimostra quante sfumature fosse possibile
apportare nello sforzo di giungere ad una innovazione personale. L’inno che egli
indirizza a Epicuro all’inizio del III libro non reca né il nome del filosofo, né una
richiesta e perciò si astiene accuratamente dall’usare le forme proprie del culto e
dall’attribuire un qualche potere all’intervento della persona cui ci si rivolge;
all’inizio del V libro, Lucrezio dice che Epicuro era un dio (deus ille fuit, deus, 5
8) e appare o è visto come un dio (deus esse uidetur, 5 19); mentre all’inizio del
VI libro Epicuro viene definito un uomo (uirum, 6 5), che è stato innalzato al
cielo dall’ampia rinomanza acquisita dopo la sua morte, a causa delle sue
scoperte degne di una divinità (cuius et extincti propter diuina reperta /
diuulgata uetus iam ad caelum gloria fertur, 6 7-8).
Attribuire qualità divine ad una persona è un conto; affermare che si tratta di
un dio o che lo diventerà è un altro. Lo stato riconobbe la divinità di alcuni figli
di dei, dedicò loro templi e permise che le loro immagini fossero portate in
processione nella pompa (Ercole, Esculapio, i Dioscuri, Liber), sebbene per tutto
il tempo in cui si mantenne la repubblica, come vedremo, nessun romano
ricevette mai quegli onori, ad eccezione del fondatore della città
Romolo/Quirino. Anche durante la repubblica gli aristocratici romani potevano
trovarsi a meditare se un uomo poteva o no diventare un dio. Giovane senatore
di trentatré anni, Cicerone fece parte di una commissione incaricata dal senato di
dare un parere su una disputa accesasi tra i collettori del fisco romano e gli
abitanti di Oropo, dove si trovava un santuario sacro al vate Anfiarao.113 I
publicani sostenevano che il santuario non doveva essere esentato dal pagamento
delle imposte in quanto fondazione religiosa, poiché Anfiarao era stato un tempo
uomo e adesso non poteva essere un dio. La commissione comunque espresse
parere favorevole a che il senato accogliesse l’istanza degli abitanti di Oropo,
come poi a tempo debito avvenne.
La rottura principale giunse però con il collasso della repubblica e l’emergere
di una autocrazia rivoluzionaria. Come componente di un riorientamento dei
tradizionali legami romani tra religione ed esercizio del potere, il supremo
dominatore del mondo venne nuovamente definito non solo come agente
religioso, ma anche come personalità religiosa. Prima il dittatore Cesare e poi
suo figlio adottivo Augusto e i suoi successori, riunirono le diverse trame del
sacerdozio e del culto repubblicano in un unico filo, diventando membri di tutti i
collegi sacerdotali, organizzando una politica religiosa, associandosi alla divinità
in una gamma di contesti e diventando gli oggetti di forme di culto attentamente
distinte in tutto l’impero, forme di culto destinate a culminare idealmente
nell’accoglienza nel pantheon dello stato di quei governanti, diventati diui dopo
la loro morte.114
Alcuni importanti contributi recenti hanno sottolineato la continuità tra la
repubblica e il principato nel modo di considerare i legami tra divino e
umano;115 è innegabile che molte delle idee e delle pratiche che sottendono il
“culto imperiale” sono osservabili fin dall’epoca di Scipione Africano: sono
attestati casi in cui i grandi generali della repubblica furono oggetto di culto
nell’oriente greco, rivendicarono la protezione di divinità quali Giove o Venere,
ricevettero libagioni in occasione di banchetti proprio come gli dei o furono a
questi associati nella statuaria monumentale. Chiunque celebrasse un trionfo o
conducesse la pompa circensis era “Giove per un giorno”, vestito degli abiti del
dio, con il viso dipinto di rosso come quello della statua. Dunque nulla nasce dal
nulla, ma ciò nonostante la condizione di un Augusto o di un Nerone
rappresentava qualcosa di nuovo, nelle dimensioni e nel genere. Anche il culto
dell’imperatore nell’oriente greco, pur considerando tutti i precedenti
rintracciabili nel culto ellenistico del sovrano, costituisce in buona sostanza «un
fenomeno nuovo».116
A Roma nessuno ebbe culto civile nel periodo che va da Romolo/Quirino a
Cesare; considerando quanto le culture prossime e locali offrissero campo alla
divinizzazione, è testimonianza di tenacia il fatto che l’ideologia repubblicana
abbia saputo tener lontano per cosí lungo tempo quello che sarebbe sembrato
uno sviluppo naturale delle cose.
Mentre appaiono certamente valide le idee di un continuum tra repubblica e
principato, e tra umano e divino, i romani erano consapevoli della natura
innovativa del nuovo sistema, con orgoglio in taluni casi (deos enim reliquos
accepimus, Caesares dedimus, ‘gli altri dei li abbiamo ereditati dalla tradizione,
ma i Cesari sono un nostro contributo’, Val. Max., Pr., 4), con risentimento in
altri (bella pares superis facient ciuilia diuos, ‘le guerre civili renderanno i diui
pari agli dei superi’ (Luc., 7 457). Sotto importanti punti di vista, il nuovo
sistema era ambiguo e indeterminato, cosí che lo status dell’imperatore, divino o
umano, rivoluzionario o custode della tradizione, potesse restare in ultima
istanza al di fuori di ogni categorizzazione.117 Questa indeterminatezza
consentiva risposte molteplici e diverse iniziative da tutti gli ordini e da tutte le
zone dell’impero, compiacendo il potere senza confronti dell’imperatore e nello
stesso tempo facendolo rientrare nella cornice della tradizione. Ancora una volta
vediamo come per i romani la religione rappresentasse il mezzo piú flessibile e
pronto per compiere sperimentazioni di fronte alle richieste del nuovo.
Fino a tempi recentissimi gli studiosi moderni sono stati notoriamente avversi
all’intero apparato della divinizzazione, dando particolare rilievo a testi come
l’Apocolocynthosis di Seneca, che sembra offrire un sostegno alle opinioni di chi
ritiene che le classi colte guardassero alla faccenda dell’apoteosi come ad una
questione ridicola.118 In effetti, l’esistenza di tali opere parodistiche può essere
considerata come prova dell’opposto, ovvero del fatto che il culto imperiale
rappresentava un’istituzione forte e vitale, capace di suscitare interrogativi e
dibattiti. Il diritto di un imperatore defunto all’apoteosi non è mai stato
automatico, ma doveva essere sottoposto a discussione.119 Cosí come «le
critique appartenait […] à la tecnique mythografique»,120 la verifica e l’analisi
dei fatti facevano parte della tecnica dell’apoteosi.
Tale discussione era propria di una élite. È importante ricordare che erano
appunto i membri dell’élite i fruitori e i produttori principali delle creazioni che
tanto fecero per conformare i comportamenti alle regole della nuova
amministrazione. All’inizio del principato l’élite fu l’unica ad essere
profondamente toccata dalla rivoluzione religiosa, quella che dovette compiere il
piú sensibile riadattamento e la cui opinione ebbe la maggiore importanza per
Augusto.121 Per l’osservatore moderno, che può forse considerare istintivamente
la divinizzazione di Augusto come una sorta di commedia messa su per
impressionare il popolino, è salutare tenere a mente che la riflessione creativa sul
tema della divinità di Augusto continuò a svilupparsi in forme elitarie, quali il
cammeo o la poesia, anche dopo l’importante spartiacque del 28 a.C., allorché
l’assimilazione al divino venne drasticamente ridotta sugli strumenti di piú vasta
comunicazione come le monete e la produzione artistica di stato.122
Un esempio evidente di tale riflessione creativa lo possiamo trovare nel carme
1 12 di Orazio, dove lo status del princeps viene visto ancora una volta sullo
sfondo di una esplorazione sistematica e sulla messa in discussione delle
categorie della divinità. La poesia si apre con il poeta che chiede alle Muse quale
uomo o eroe o dio ella si accinga a celebrare (Quem uirum aut heroa […] / […]
sumis celebrare, Clio? / quem deum?, 1-3). Questa apertura solenne allude
direttamente a quella pindarica della II Olimpica, dove il poeta chiede alla sua
lira che intona gli inni «Quale dio, quale eroe, quale uomo celebreremo?».
Pindaro risponde immediatamente alla domanda, facendo i nomi di Zeus, Eracle
e Terone (3-7), mentre Orazio inizia a farlo solo alla quarta strofa, quando allude
a Giove (senza nominarlo). Nella Roma di Orazio, le categorie di dio, eroe e
uomo non erano quelle della Grecia di Pindaro; quando il carme muove verso il
culmine evocativo di Augusto, inteso come colui il quale le assomma tutte e tre
nello stesso tempo, si rivela la porosità delle partizioni costruite dalle tradizioni
greca e romana.
Il primo segno della difficoltà di mantenere i personaggi all’interno della
giusta cornice appare con l’intrinsecamente trasgressivo Dioniso. Orazio ha
prima menzionato Giove (13-18), poi la dea che da lui è nata direttamente,
Pallade (19-21). Si volge quindi a Liber (Dioniso), che si trova nella medesima
strofa di Diana/Artemide e Apollo (21-24). In questo raggruppamento Dioniso è
uno degli dei olimpi e cosí facendo Orazio pone un problema di classificazione
nel culto greco. Lo status di Dioniso come una delle dodici divinità dell’Olimpo
era infatti fluttuante, collocandosi ora all’interno ora all’esterno di quel novero,
spesso alternandosi a Hestia.123 Nel sistemare qui un dio la cui autentica natura
olimpica era controversa, Orazio dimostra che le categorie greche non sono cosí
ben definite come potrebbero apparire. In un contesto romano emergono poi
ulteriori problemi, poiché il poeta ha posto Liber al di fuori dell’ambito che il
dio occupa nel culto della città (e altrove nella sua poesia). Per i romani, Liber
apparteneva alle divinità di seconda categoria, ovvero, nello schema di Pindaro e
dello stesso Orazio, a quella degli eroi o dei semidei, come Ercole e i Dioscuri,
che vengono nominati assieme come un gruppo nella strofa seguente (25-28).
Una strofa centrale di tono disteso, che descrive gli effetti pacificanti dei
Dioscuri sulle tempeste marine, media tra le due componenti greca e romana del
carme (29-32, l’ottava di quindici strofe).124 Addentrandoci nella metà romana,
il primo nome in cui ci imbattiamo è quello di Romolo, il corrispettivo romano
dei semidei che chiudevano la metà greca (33): come loro, è anch’egli un
gemello, figlio di un padre immortale e di una madre mortale, che raggiunge
l’immortalità grazie alle sue valorose azioni. Tuttavia questa seconda parte del
carme rivela immediatamente che la sua struttura si basa su criteri differenti da
quelli della prima. Questa infatti appare organizzata attorno alle categorie della
divinità, presentando dei e semidei (con Dioniso a far da ponte tra i due gruppi) e
nessun uomo (se si esclude Orfeo, che viene lodato per due strofe prima di
Giove, 5-12). La metà romana, in un certo senso, colma quella lacuna,125 ma è
altresí importante osservare come essa sia articolata secondo criteri storici e
cronologici, iniziando e terminando con personaggi che oltrepassano i confini
(Romolo, Giulio Cesare e Augusto). Questa parte del carme si apre con una
strofa di ampio respiro, che ci conduce dalla fondazione della città in guerra
(Romolo) e in pace (Numa, 33-34), alla fine della monarchia e alla fondazione
della repubblica (Tarquinio, 34-35) e da ultimo al tramonto della repubblica con
la nobile morte di Catone Uticense (35-36).126 Dopo questo sguardo d’insieme
sul procedere dalla storia, Orazio ci illustra una serie di personaggi meritevoli di
epoca repubblicana, che sono ancora tutti uomini (37-44).127 Dopo questa
rassegna il poeta non parla di alcun individuo umano divinizzato; poi, con il
Iulium sidus (47) allude ad un tempo alla cometa che segnò l’apoteosi di Cesare
e allo status stellare di suo figlio Augusto.
Ecco dunque che Cesare e Augusto chiudono il cerchio della cronologia
romana, riconducendoci a Romolo, il primo fondatore e l’unico romano ad
essere divinizzato prima di loro. L’invocazione a Giove che segue e che chiude il
carme (49-60) ci riporta a sua volta alle categorie della divinità e alla prima lode
a Zeus/Giove (13-18). Sono stati molto studiati i legami tra Giove e Augusto
all’epoca in cui Orazio scriveva;128 adesso Augusto non è piú solo un uomo che
eredita la tradizione repubblicana e non solo il figlio di un dio come Romolo, ma
una persona che gode di un rapporto unico (che in talune circostanze si volge in
identificazione) con lo stesso dio supremo. Orazio inizia il suo canto chiedendo
«quale uomo, eroe o dio debbo io celebrare?», e gradualmente svela che quelle
categorie sono adesso tali che in ogni caso la risposta può convergere su un solo
nome.129
Tali esperimenti sono di importanza vitale per la costituzione della nuova
ideologia. In effetti talvolta Orazio giunge a parlare quasi apertamente del ruolo
che la poesia dovrà rivestire nella costruzione e nel consolidamento della
divinità di Augusto. Nella prima raccolta lirica, il punto di maggiore prossimità è
espresso da una visione fantastica su alcune rappresentazioni future in Carm., 3
25 (quibus / antris egregii Caesaris audiar / aeternum meditans decus/stellis
inserere et consilio Iouis?, ‘in quali grotte sarò udito modulare il canto su come
inserire la gloria eterna di Cesare tra le stelle e il consesso di Giove?’, 3-6).
Anche nel quarto libro delle Odi, dove la sua poesia «rende immortali gli
immortali», come dice Barchiesi,130 il suo elenco comprende i semidei familiari
(Ercole, i Dioscuri, Liber, 4 8 29-34), ma non Augusto. Nell’epistola ad Augusto
comunque l’interdipendenza tra poeta e princeps diventa uno dei temi principali,
che li vede strettamente uniti nelle loro ambizioni di immortalità. Augusto è
superiore rispetto ai normali semidei, dice Orazio, perché è onorato come un dio
durante la sua vita di uomo e non deve attendere fino alla sua morte per esserlo
(Ep., 2 1 5-17).131 La frase che usa per l’apoteosi dei semidei è ambigua e
interessante, in quanto può essere letta “poeticamente” e quindi ascritta al genere
di elevazione presente nell’epica e nella lirica, oppure anche
“costituzionalmente”, nel senso dell’istituzione di un culto di stato: deorum in
templa recepti, cosí si esprime (6), dove i templi degli dei possono essere le
regioni del cielo dei poeti, come pure gli edifici della città. Quando giunge a
concludere il carme, ritorna al tema di chi controlla l’accesso a questi templi;
introducendo la sezione sui meriti dei diversi mezzi di commemorazione di
grandi personalità come quella di Alessandro o di Augusto, descrive i poeti
come aeditui, custodi del tempio, della uirtus del grande (229-31). La frase è
umile e ostenta modestia come è proprio del genere,132 ma rivela la
consapevolezza di Orazio del fatto che toccherà a lui, a Virgilio e a Varo (247) il
controllo ultimo del destino postumo del princeps.
Potere e immortalità costituiscono i tratti caratteristici quintessenziali
dell’antica divinità, e il potere e l’immortalità di Augusto sono entrambi legati
alle rappresentazioni poetiche. I poeti erano dunque nel novero dei protagonisti
principali dell’articolato dibattito che si svolgeva attorno ad Augusto e che
condizionò i termini del suo potere; giungendo al tema dell’immortalità, il ruolo
dei poeti diventò ancora piú importante, poiché furono consapevoli, e Augusto
con loro, che l’immortalità, in ultima istanza, non era nelle mani del princeps.133
1. VARRO, Div., fr. 18; contro questo punto di vista e i suoi moderni
sostenitori, CORNELL 1995, pp. 161-62.
2. WISSOWA 1912, pp. 9, 23-24.
3. OGILVIE 1981, pp. 12-13.
4. NORTH 1989, p. 605.
5. Vd. sopra, p. 45; VERNANT 1983, p. 328. In tali contesti, come mi ha fatto
notare Terry McKiernan, dobbiamo ricordare che la personalità che noi
ricerchiamo in un dio antico è in realtà moderna, complessa e imbevuta di
soggettività; la personalità sulle cui tracce si muovevano invece gli antichi non
poteva che essere in linea con la loro nozione di personalità umana, piú oggettiva
(su questo vd. GILL 1996).
6. FEENEY 1991, p. 106.
7. Fr. 4; sul significato di questa organizzazione, vd. TURCAN 1988, 2 p. 5;
GORDON 1990, p. 180.
8. PFEIFFER 1968, p. 261.
9. SMITH 1978, p. 248.
10. NAGY 1979, p. 7; BURKERT 1985, p. 120; cfr. SOURVINOU-INWOOD 1991,
pp. 148-50. È interessante notare che il greco Dionisio di Alicarnasso descrive
Romolo che si comporta in modo molto simile a Omero ed Esiodo, fissando «le
rappresentazioni, i simboli, i poteri e i beni dispensati» degli dei (Ant. Rom., 2 18
2, mentre il romano Varrone elenca un sovrano dopo l’altro all’atto di introdurre
divinità, concentrandosi sulla natura cumulativa e sequenzialmente collaborativa
del processo: frr. 35 (Romolo), 36 (Tito Tazio), 37 (Numa).
11. TRESP 1914, pp. 2-29.
12. Tutti questi aspetti si collegano con molteplici divinità nel modello
generale di religione proposto da LAWSON e MCCAULEY 1990, pp. 163-65.
13. Uno studio importante in GORDON 1979; cfr., ad es., ELSNER 1995.
14. BEARD 1989, p. 57; cfr. ELSNER 1995, p. 171.
15. SCHEID 1990, pp. 475-676 (sacrifici alla Bona Dea); PRICE 1984.
16. BALAGANGADHARA 1994, p. 286, sui dilemmi occidentali a proposito della
categorizzazione, ad esempio, del Buddismo.
17. Ad es. LIEBESCHUETZ 1979, pp. 29-33.
18. TAC., Ann., 4 1 2, con MARTIN-WOODMAN 1989, ad loc.
19. MIKALSON 1983, pp. 63-68; cfr. BLOCH 1963, p. 14, sulla discrepanza in
Grecia tra le rappresentazioni mitiche e cultuali dell’intervento divino.
20. FEENEY 1991, pp. 85-86; cfr. MIKALSON 1983, p. 112.
21. MIKALSON 1991, p. 18 sui greci; BLOCH 1963, p. 86 sulla differenza tra
greci e romani.
22. LINDERSKI 1986, p. 2228, sulle caute supposizioni che sottendono la legge
augurale; cfr. anche p. 2202 n. 198.
23. JOCELYN 1973, pp. 105-6, su CIC., Div., 2 64 e HOM., Il., 2 320.
24. BLOCH 1963; LEVENE 1993, sull’uso di questa tradizione in Livio.
25. Ad es. CIC., Har. Resp., 39; Pis., 46 (con NISBET 1961, ad loc.).
26. LIEBESCHUETZ 1979, pp. 50-51; BEARD 1994, pp. 745-49.
27. NORTH 1976, pp. 6-8; SCHEID 1985, pp. 51-53; LINDERSKI 1986, p. 2207;
BEARD 1990, p. 36.
28. MIKALSON 1983, p. 72, sebbene egli consideri tutto ciò un «paradosso»,
che «costituisce un tratto distintivo della religione popolare ateniese» (p. 73).
29. Una tassonomia molto utile in questo senso in BNP, God and Goddesses,
old and new; cfr. LATTE 1960, pp. 50-61.
30. BURKERT 1985, pp. 88-92: TURCAN 1988, 1 pp. 11-12, sui diversi attributi
delle immagini cultuali romane: VARRO, Div., fr. 228, sui templi e le statue come
attributi di definizione degli dei pubblici presso il popolo romano.
31. Sull’impatto delle immagini cultuali sulla concezione greca della divinità,
MACMULLEN 1981, p. 31: LANE FOX 1986, pp. 153-54.
32. TURCAN 1988, 1 p. 8.
33. ORR 1978, pp. 1562-75; al di fuori della casa i Lari e il Genius potevano
avere epiteti aggiunti a specificare il loro ruolo.
34. DUMÉZIL 1970, pp. 23-28; cfr. DE VISSER 1903, pp. 54-156, per le analogie
con la Grecia.
35. DUMÉZIL 1970, p. 36; TURCAN 1988, 1 p. 6; USENER 1896, pp. 247-73, per
le analoghe figure minori di eroi e demoni in Grecia, con riferimenti incrociati
agli Indigitamenta (273).
36. DUMÉZIL 1970, pp. 33-38; per la turba del dio, vd. MCKEOWN 1989, su
Ov., Am., 1 1 5-6.
37. DEUBNER in ROSCHER 1884-1937, 3 2 2127-45; FEARS 1981, con pp. 830-
33 sulla terminologia.
38. CIC., Nat. D., 3 63, con PEASE 1955-1958, ad loc.
39. FEARS 1981, pp. 846-49; qui, sopra, pp. 79-80.
40. FEARS 1981, pp. 858-59.
41. Ibid., pp. 849, 859, e GRUEN 1992, p. 101, rappresentano i primi passi di
un’indagine su questo affascinante fenomeno; AXTELL 1907, pp. 69-70, e
FRAENKEL 1960, p. 216, sulla popolarità di questi culti in Plauto.
42. FEARS 1981, p. 846 n. 76.
43. Ibid., pp. 889-938.
44. PRICE 1984 e capp. 4 e 7 di BNP.
45. RAWSON 1985, p. 289.
46. DION. HAL., Ant. Rom., 7 72 13; Ov., Am., 3 2.
47. ALVAR 1985.
48. DUMÉZIL 1970, pp. 43-46.
49. CIC., Nat. D., 2 79, 3 61, Leg., 2 28; VARRO, Div., fr. 189; cfr. WISSOWA
1912, pp. 327-28.
50. FEARS 1981, p. 845 n. 69.
51. AXTELL 1907, p. 71.
52. si quidem mihi statuam et aram statuis / atque ut deo mi hic immolas
bouem: nam ego tibi Salus sum (Asin., 712-13); cfr. VARRO, fr. 190: Felicitas
dea est, aedem accipit, aram meruit, sacra congrua persoluta sunt.
53. Con l’eccezione di Esculapio e Salus: AXTELL 1907, p. 93.
54. NISBET-HUBBARD 1970, pp. 395-96.
55. Secondo WEST 1995, pp. 172-73; per l’origine greca, NISBET-HUBBARD
1970, pp. 395-96.
56. AXTELL 1907, p. 68.
57. Vd. NISBET-HUBBARD 1970, p. 387 per la differenza tra Tyche e la Fortuna
romana.
58. Solo Honos e Bonus Eventus erano maschili nel genere e nell’iconografia.
59. FEENEY 1991, pp. 382-85.
60. WISSOWA 1912, pp. 328-29.
61. WHITMAN 1987, p. 272 (i corsivi sono dell’A.); cfr. FEENEY 1991, pp. 390-
91, e KUTTNER 1995, p. 21, sui santuari di Honos e Virtus innalzati da Mario e
Pompeo, che erano «piú un modo per il generale vittorioso di far sapere dei suoi
propri successi che l’espressione di una reverenza nei confronti di una divinità
oggetto ormai di un culto regolare».
62. AXTELL 1907, p. 89.
63. BURKERT 1985, p. 88 n. 53, con riferimenti alla tradizione greca.
64. VARRO, ap. AUGUST., De Civ. D., 4 27 (CARDAUNS 1976, 1 p. 37); PLIN.,
HN, 2 14.
65. FEENEY 1991, pp. 6-7 (antropomorfismo); CARDAUNS 1976 su VARRO,
Div., fr. 18 (il motivo politico).
66. Il v. 487 è dubbio: il contesto dell’iconografia mi spinge ad accettare
l’emendamento di L. Müller; vd. tuttavia O’HARA 1987 per un’alternativa.
67. Cfr. GORDON 1979, p. 11 sulla riclassificazione romana delle “offerte”
greche come “arte”.
68. GORDON 1979; LANE FOX 1986, pp. 102-67; VERSNEL 1987; FARAONE
1992. Il contemporaneo culto indú mostra un analogo, sofisticato interesse per il
problema dello status delle immagini divine: WAGHORNE-CUTLER 1985.
69. GORDON 1979, pp. 16-17; VERSNEL 1987, pp. 46-47.
70. LINDERSKI 1986, p. 338, sulla testimonianza di Varrone conservata in
Ling., 7 6-7, e FESTO, 454L.
71. CATALANO 1978, in partic. p. 445; SCHEID 1985, pp. 51-55. Ancora una
volta le concezioni indú appaiono molto vicine: «come coabitanti di un piano
dell’essere spaziale e temporale comune, dei e uomini sono coinvolti in mutue
intersezioni». Cutler, in WAGHORNE-CUTLER 1985, pp. 168-69.
72. GORDON 1979 è indispensabile per tutto l’argomento.
73. SCHEID 1990, p. 670.
74. RE, 22 1108-15 (Wissowa); LATTE 1960, pp. 242-44.
75. LATTE 1960, pp. 248-50; LONG 1987, pp. 239-42.
76. TURCAN 1988, 2 figg. 50-52. Sulla rarità di tali processioni di immagini in
Grecia, vd. BURKERT 1985, p. 92.
77. DIO, 48 31 5 (Nettuno); DIO, 43 45 2 (Cesare), con FISHWICK 1987-1992,
pp. 555-56 sugli sviluppi successivi.
78. LATTE 1960, p. 249 n. 2.
79. Sulla differenza, vd. GORDON 1979, p. 13; PRICE 1984, p. 184.
80. LONG 1987, p. 242; per un’altra interpretazione, vd. FISHWICK 1987-1992,
p. 554.
81. TAUSSIG 1993, p. 13.
82. Per lo sfondo e il dibattito sull’argomento in Omero, Apollonio, Virgilio e
Ovidio, vd. FEENEY 1991, pp. 45-52, 69-80, 165-71, 233-35. La mia trattazione
in questa sede è un complemento di quanto detto allora con maggiore ampiezza.
83. FEENEY 1991, p. 51, rif. a GOULD 1985, p. 24, 32.
84. HENRY 1873-1892, 1 773-77, afferma che a fare da riferimento è proprio
una statua. La somiglianza di Enea ad un dio allude alla profezia di Hymn. Hom.
Ven., 200-1, ma la statuaria allude al culto statale dei Cesari: il vocabolo, non
privo di per sé di echi, caesariem (590) è ripreso immediatamente da genetrix,
l’epiteto con cui veniva designata la Venere del Foro di Cesare, dove pure si
innalzava una statua del dittatore (PLIN., HN, 34 18).
85. Cfr. BARCHIESI 1994, pp. 193-98.
86. BEARD 1995.
87. BARCHIESI 1994, pp. 195, 198.
88. TURCAN 1988, 1 pp. 3-4.
89. ORR 1978, pp. 1561, 1580.
90. FEENEY 1991, pp. 120-22.
91. Sullo stile, vd. SKUTSCH 1985, pp. 424-25.
92. FEENEY 1991, p. 124, per la molteplice natura di Giove in Ennio.
93. Ibid., pp. 130-42.
94. PUTNAM 1986, pp. 39-42, su Saffo; A. Barchiesi mi ha fatto notare
l’importanza di questo «di nuovo» e della posizione del carme di Saffo nelle
raccolte delle sue liriche.
95. Su questa “annotazione riflessiva”, vd. HINDS 1998, cap. 1: Riflessività:
allusione e auto-annotazione.
96. Acute le discussioni su questo tema in PUTNAM 1986; HARDIE 1993b;
BARCHIESI 1996.
97. Vd. Carm., 4 2 19-20, per una giustificazione del mio approccio
molteplice.
98. PUTNAM 1986, pp. 295-99.
99. Ibid., pp. 295-96; in 4 15 risponde altresí alla preghiera dello stesso Orazio
in 1 2, laddove Venere e Marte sono giustapposti come possibili fattori di
pacificazione (33-40).
100. PFISTER, in RE, Suppl. 4 227-323; LANE FOX 1986, pp. 102-67; VERSNEL
1987.
101. DION. HAL., Ant. Rom., 1 77 3 (Marte e Ilia); PAUS., 8 2 4-5 (Zeus e
Licaone); LIV., Praef., 7; 1 7 4-12 (Ercole e Evandro).
102. CIC., Nat. D., 2 6, 3 11-13, con PEASE 1955-1958. Vd. PRITCHETT 1976,
pp. 11-46, con una raccolta di “epifanie militari”. Secondo la posizione ufficiale
piú comunemente accettata, gli dei non comunicano attraverso l’epifania, bensí
attraverso i prodigi (CIC., Har. resp., 62), che sono in pratica la voce di Giove
Ottimo Massimo (ivi, 11).
103. ESIODO, fr. 1 6-7; GATZ 1967, pp. 36-37.
104. LANE FOX 1986, pp. 109-14.
105. Per il distacco come frequente momento di rivelazione, vd. RICHARDSON
1993, su HOM., Il., 24 460-67.
106. GRIFFIN 1980, pp. 179-204.
107. Cfr. 61 16-20 (la sposa è come Venere che si reca da Paride); EDWARDS
1991; FEENEY 1992, pp. 33-34; ROBERTS 1989, sui successivi epitalami. Nelle
nozze indú, «la sposa e lo sposo nel giorno del matrimonio sono esseri divini»
(FULLER 1992, p. 30).
108. Come dimostra acutamente EDWARDS 1991, p. 73.
109. FEENEY 1992.
110. BEARD 1994, p. 750; cfr. TOYNBEE 1947, in partic. pp. 126-29;
WEINSTOCK 1971, pp. 291-93. Vd. piú avanti, p. 157, per le riserve sull’uso di
questo paradigma al fine di neutralizzare il culto del dominatore. Cfr. FULLER
1992, p. 3 sul modo in cui l’induismo «a differenza del giudaismo, del
cristianesimo e dell’islam […] non postuli alcuna distinzione assoluta tra esseri
umani e divini».
111. Sui demoni: BURKERT 1985, pp. 331-32; sul culto dei morti: WEINSTOCK
1971, pp. 291-92; su Cicerone e Tullia, vd. sopra, p. 38.
112. PLAUTO, Pers., 99, con WEINSTOCK 1971, p. 292; puella diuina:
MCKEOWN 1989, su OV., Am., 1 5 1-8.
113. CIC., Nat. D., 3 49, con PEASE 1955-1958 ad loc. su Dittenberg. SIG, 23 p.
747.
114. Ho trovato molto utile su questo argomento: WEINSTOCK 1971; PRICE
1984 e capp. 4 e 7 in BNP; FISHWICK 1987-1992; GORDON 1990; WALLACE-
HADRILL 1993, pp. 79-97; BEARD 1994, pp. 749-55; KUTTNER 1995, pp. 53-68;
GALINSKY 1996, pp. 288-331.
115. Per i punti che seguono, vd. WEINSTOCK 1971, pp. 292-96; BEARD 1994,
pp. 749-55; KUTTNER 1995, pp. 53-68.
116. MILLAR 1984, p. 53; cfr. PRICE 1984, pp. 54-59 e, in generale, VERSNEL
1993, pp. 218-19.
117. PRICE 1984, pp. 220, 233; cfr. ELSNER 1995, pp. 167-72, per la
divinità/umanità della statua di Augusto di Prima Porta. Non per nulla Varrone
raggruppò gli esseri umani divinizzati in una categoria da lui definita di incerti
(frr. 214-15).
118. PRICE 1984, pp. 11-19, e ID. 1987, pp. 87-91.
119. PRICE 1987.
120. SCHEID 1993, p. 126.
121. KUTTNER 199, p. 66.
122. GALINSKY 1996, p. 314; cfr. POLLINI 1990.
123. BURKERT 1985, p. 125.
124. WEST 1995, p. 58.
125. BROWN 1991, p. 328.
126. Ibid., p. 330
127. In una composizione poetica sulla rottura delle categorie, Orazio non
resiste alla tentazione di saldare nuove suddivisioni. Romolo, Numa Pompilio e
Tarquinio sono raggruppabili in quanto re, ma che ci fa Catone in loro
compagnia (33-36)? Se si è seguaci della filosofica stoica catoniana, il saggio ha
maggiori titoli di Tarquinio per essere chiamato re (CIC., Fin., 3 75); lo scherzo,
se cosí possiamo chiamarlo, trova conferma nel nome della persona che viene
nominata in seguito, il primo degli eroi repubblicani, il ‘piccolo re’ (Regulum,
37). Fabrizio poi spezza la strofa di Regolo, poiché egli «appartiene al gruppo
della strofa seguente» (NISBET-HUBBARD 1970, p. 159).
128. FEENEY 1991, p. 220; inoltre POLLINI 1990 e KUTTNER 1995, pp. 34, 54-
55.
129. Per l’esame di altri procedimenti oraziani volti a mettere a fuoco la
condizione ambigua di Augusto tra il divino e l’umano, vd. DUQUESNAY 1995,
pp. 151, 181, 183, a proposito di Carm., 4 5.
130. BARCHIESI 1996, p. 21, cfr. 40-44, e HARDIE 1993b, pp. 134-35.
131. Vd. DUQUESNAY 1995, p. 183 per i collegamenti con Carm., 4 5.
132. BRINK 1982, ad loc.
133. Cfr. GRIFFIN 1984, p. 204.
IV
IL RITO
Qui il primo verso parla del materiale tradizionale del modello fulviano e
verriano, mentre il secondo annuncia un argomento del tutto estraneo.46 Il
patrimonio tradizionale recondito della cronografia greca e le tradizioni della
poesia astronomica dotta (quella praticata da Arato, Cicerone e Germanico)
vengono qui annesse per la prima volta alla tradizione dei fasti. Prima del grande
codice calendario del 354 d.C., la tradizione romana dei fasti non aveva mai
compreso alcuna informazione astronomica o astrologica e certamente non in
modo sistematico come osserviamo invece nel poema ovidiano.47 La
consapevolezza di Ovidio in merito a questa sua innovazione è segnata da un
interrogativo “ponte” che giunge solo sei versi dopo il passo citato nel
precedente paragrafo, allorché il poeta dimostra come i fasti “in quanto tali”
siano solo uno degli elementi del suo materiale. La domanda giunge nel
momento in cui si introduce la prima notizia astronomica, il tramonto del
Cancro: quid uetat et stellas, ut quaeque oriturque caditque, / dicere? (‘chi mi
impedisce di narrare il sorgere e il declinare di ciascun astro?’, 1 295-96).
Il risultato di questa decisa scelta di originalità è che Ovidio si impegna a
seguire, come evidenzia Miller «non uno, ma due schemi cronologici, quello dei
ritmi del cielo e quello del ciclo regolare delle celebrazioni a Roma».48 Inoltre,
dato che il materiale di cui Ovidio si serve per la parte astronomica è tratto tutto
dall’astrologia e dalla mitografia greca, con la moltitudine dei suoi catasterismi,
ci troviamo di fronte ad una rilevante dicotomia già presente nei primi due versi
del poema: per dirla in termini sommari, uno dei suoi schemi temporali è
romano, l’altro è greco.49 Naturalmente, quando Ovidio scriveva questi due
schemi trovavano una loro armonizzazione in Augusto. Fu Giulio Cesare il
primo a mettere in relazione l’anno solare e l’anno civile romano, ma nel 9 d.C.
Augusto dovette apportare al sistema delle correzioni definitive. Di tali
correzioni venne conservata memoria in un poderoso complesso architettonico-
urbanistico nel Campo Marzio: un grande obelisco trasportato dall’Egitto
fungeva da gnomone di una linea meridiana, a fianco della quale erano segnati,
in lettere greche, i segni zodiacali e le fasi dell’anno astronomico, cosí come
erano stati elaborati dalla scienza greca.50 L’intero complesso «stava quindi a
commemorare specificatamente il controllo militare e culturale augusteo sul
mondo greco-romano» e la coraggiosa decisione di Ovidio di fare del suo nuovo
genere letterario un dialogo tra i sistemi cronologici e ideologici greci e romani
deve essere letto alla luce del dialogo che lo stesso Augusto volle stabilire tra
queste due sfere.51
Il pentametro “greco” che si accosta al primo esametro del poema rappresenta
una forte dichiarazione di intenti e annuncia che il modo in cui Ovidio parlerà
del rito romano sarà in continuo dialogo con un’altra forma di conoscenza e con
un altro quadro di riferimento. Che differenza fa per quel che concerne la nostra
lettura dell’esegesi ovidiana del rito?
Perché, ogni venti anni, il Giappone ricostruisce il suo santuario piú venerato,
traslocando la dea solare Amaterasu dalla sua vecchia casa per sistemarla in una
nuova? Non sono certo, è la risposta di Kenichi Yano, un sacerdote anziano di
servizio al santuario […] ci sono numerose teorie, da quella del rinnovamento
dello spirito della dea a quella del rinnovamento della cultura giapponese.
Tuttavia la gente ha attribuito diversi significati all’intervallo di venti anni e non
possiamo dire con sicurezza quale di questi sia vero.
I romani sembrano avere avuto una propensione piú marcata dei greci per tali
esegesi multiple. La differenza è stata spiegata in termini cronologici: laddove la
moderna e complessa società della Roma imperiale doveva confrontarsi con un
buon numero di spiegazioni contrapposte dei riti, nello stato arcaico greco,
unitario e fondato sull’oralità, ciascuno sarebbe stato d’accordo con un’unica
eziologia.55 Siamo peraltro autorizzati a chiederci se un senso della comunità
cosí monolitico fosse davvero possibile nella Grecia arcaica;56 eppure, anche
nella Grecia innegabilmente piú complessa e moderna dell’epoca imperiale, resta
la tendenza ad una minore propensione per le eziologie multiple rispetto a Roma.
Un confronto istruttivo è costituito dai due libri che Plutarco scrisse sulle
eziologie greche e romane in relazione alle pratiche correnti (quasi tutte
ritualistiche). Laddove le Questioni romane contengono in pressoché tutti i casi
aitiai multiple (86 su 113), le Questioni greche ne hanno assai raramente (3 su
59) e anche quando Plutarco introduce una “risposta” singola ad una “questione”
romana, egli aggiunge una disgiuntiva, ἤ, ‘oppure’. Il patrimonio tradizionale
greco viene presentato come fossilizzato, mentre quello romano appare ancora
inserito in un processo di formazione.
Ovidio riproduce questi schemi culturali, evitando le eziologie multiple in
relazione al materiale mitico greco che adopera e riservandole per quello cultuale
romano.57 Ovidio non solo offre differenti spiegazioni eziologiche per le diverse
feste e pratiche rituali, ma altresí, e questo assume un rilievo affatto particolare,
differenti tipi di spiegazione eziologica allo stesso tempo. Gli studi dedicati ai
Parilia (21 aprile) da Beard e Price fanno emergere con chiarezza la consapevole
varietà e in certi casi persino l’incompatibilità dei tipi di spiegazione offerti.58
Dopo averci detto come ci si dovrebbe purificare con l’acqua e poi bruciare della
paglia e saltarci sopra allorché si giunge all’apice di un rito scrupolosamente
osservato, Ovidio fa una pausa (Fast., 4 783-4):
(‘abbiamo esposto il costume; non ci resta che dire della sua origine: la
quantità di spiegazioni genera il dubbio e ci trattiene dall’impresa’).
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INDICE
PREMESSA
INTRODUZIONE
1. Paradigmi vecchi e nuovi
2. Il modello greco
3. Agenda
I. LA FEDE
1. La “balcanizzazione” dei cervelli
2. La fede tra i greci
3. Una provincia greca della mente
4. I Ludi saeculares
5. Il Carmen saeculare
6. La fede nella rappresentazione
7. Gli inni nei libri
8. Generi diversi di fede in competizione
II. IL MITO
1. Una vecchia antitesi
2. Mai pre-greco
3. I primi greci che scrissero letteratura in latino
4. I miti greci al servizio dello stato romano
5. E tutti gli “altri” miti greci?
6. I limiti dell’antitesi
7. I limiti del modello ellenico
8. Un modello romano
9. La zona di contatto
10. Il sistema di Ovidio
11. Origini secondarie
III. LA DIVINITÀ
1. La (difficile) ricerca dell’Altro a Roma
2. La prosa come testimonianza neutrale?
3. Una tassonomia delle rappresentazioni divine nel culto romano
4. Le personificazioni
5. Gli dei antropomorfi dotati di personalità
6. Attraversando la linea
IV. IL RITO
1. La realtà del rito
2. L’irrealtà del rito
3. Tibullo, 2 1: spazio del rito, spazio della poesia
4. La “realtà” dei Fasti di Ovidio
5. Le esegesi del rito
6. Il rito romano in una cornice greca
7. Nostalgia antica e moderna
V. EPILOGO. LA CONOSCENZA
BIBLIOGRAFIA