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Rüpke
Pantheon
Una nuova storia della religione romana
Elenco delle illustrazioni
Questo libro si basa sulla convinzione che una visione d’insieme della storia
delle religioni nell’antichità, che non ha origine da attori collettivi come Roma o
«i romani», non solo genera un altro modo di vedere la religione, ma soprattutto
un nuovo sguardo alla variabilità della storia della religione. Un advanced grant
dello European Research Council e i risultati della ricerca e del lavoro di gruppo
condotti con Marlis Arnold (che mi ha aiutato nella scelta delle immagini),
Christopher Degelmann, Valentino Gasparini, Richard Gordon (che devo
ringraziare per lo scambio di idee piú che decennale), Maik Patzelt, Georgia
Petridou, Rubina Raja (codirettrice del progetto), Anna-Katharina Rieger, Lara
Weiß, e da ultimo con Emiliano Urciuoli e Janico Albrecht, mi hanno permesso
di testare questo convincimento. Ciò che questo gruppo ha condiviso con me
supera di gran lunga quello che ho potuto indicare nelle note e nella bibliografia.
Lo stesso vale per i numerosi colleghi che hanno collaborato a questa impresa,
partecipando agli incontri, come ospiti del Max-Weber-Kolleg o come fellows
del gruppo di ricerca intitolato «Religiöse Individualisierung in historischer
Perspektive», finanziato dalla Deutsche Forschungsgemeinschaft, o ancora come
contributori della rivista «Religion in the Roman Empire», nata da questo
progetto. Vanno menzionati Roberto Alciati, Clifford Ando, Michal Bar-Asher
Siegal, Eve-Marie Becker, Elisabeth Begemann, Anton Bierl, Malcolm Choat,
Maria Dell’Isola, Nicola Denzey-Lewis, Ulrike Egelhaaf-Gaiser, Esther
Eidinow, Cristiana Facchini, Harriet Flower, Ingvild Gilhus, Simon Goldhill,
Jonas Grethlein, Manfred Horstmannshoff, Julia Kindt, Karen King, Harry
Maier, Patricia McAnany, Teresa Morgan, Maren Niehoff, Vered Noam, Valeria
Piano, Ilaria Ramelli, Federico Santangelo, Günther Schörner, Seth Schwartz,
Marco Francisco Simón, Christopher Smith, Darja Šterbenc Erker, Guy
Stroumsa, Ann Taves, Zsuzsanna Várhelyi, Jutta e Markus Vinzent, Katharina
Waldner e Greg Woolf. La collaborazione con quest’ultimo è stata sostenuta
dalla Alexander von Humboldt-Stiftung grazie al finanziamento di un progetto di
ricerca sui santuari. Jan Bremmer, Max Deeg, Martin Fuchs, Valentino
Gasparini, Bettina Hollstein, Ute Hüsken, Antje Linkenbach, Katharina Rieger,
Veit Rosenberger (che è mancato poche settimane dopo, e del quale sentiamo
ancora la mancanza) e Michael Stausberg si sono presi la briga di discutere con
me l’intero testo nel mese di luglio del 2016. Il mio sincero ringraziamento a
tutti quanti!
Ursula Birtel-Koltes e Diana Püschel hanno creato l’infrastruttura
organizzativa per il lavoro. Katharina Waldner si è fatta carico non solo dei miei
doveri didattici, liberandomi da molti obblighi. La direzione del Max-Weber-
Kolleg, Bettina Hollstein, Wolfgang Spickermann e poi Hartmut Rosa, cosí
come quella dell’Università, Kai Brodersen e Michael Hinz, Walter Bauer-
Wabnegg e Thomas Gerken, hanno sostenuto con tutti i mezzi possibili il
progetto. A tutti loro va il mio piú sincero ringraziamento, cosí come al
personale delle strutture di finanziamento. Sarah Al-taher e Karoline Koch
hanno cercato instancabilmente letteratura secondaria incorporandola nella
bibliografia. Ringrazio anche loro e la British School di Roma col suo direttore
Christopher Smith, che mi ha fornito un porto sicuro durante il processo di
editing finale.
Il libro non avrebbe preso la sua attuale forma se Al Bertrand della Princeton
University Press e Stefan von der Lahr dell’editore C.H. Beck non mi avessero
persuaso a scriverlo al contempo come una narrazione dei cambiamenti religiosi
e un’analisi dei meccanismi della religione nell’antichità in generale.
Per questa edizione italiana ringrazio Roberto Alciati e Maria Dell’Isola, che
hanno curato la traduzione, e il personale della casa editrice Einaudi.
Pantheon
2. La religione.
Guardare agli individui distanti da noi due secoli è difficile. Ammesso che le
interviste o i diari riescano davvero a gettare una luce sulla parte «piú intima» di
un vivente, le tracce che restano dell’antica vita quotidiana e delle
comunicazioni passate presentano difficoltà ancora maggiori. È perciò piú
importante sviluppare almeno un modello per comprendere come le strategie
proprie dell’agire religioso degli abitanti dell’area mediterranea nell’antichità
abbiano potuto svilupparsi. Intanto, quali sono gli aspetti di particolare interesse?
E come hanno plasmato la religione negli ultimi secoli del I millennio a.C. e nei
primi secoli d.C.?
Tre sono gli aspetti da considerare con maggior attenzione: lo sviluppo della
competenza religiosa, le identità religiose, le tecniche e i mezzi della
comunicazione religiosa. Tutti e tre sono strettamente legati fra loro e ci offrono
tre diverse prospettive per esaminare ciò che ai nostri occhi appare piú o meno
familiare relativamente alla religione antica. C’è stata infatti una religione
assolutamente innervata nell’esperienza e nell’agire dell’individuo e che allo
stesso tempo fu soggetta a costanti cambiamenti nel suo divenire, eludendo
incessantemente i tentativi di tacitarli e fissarli, come il renderla un sistema
rituale, un pantheon di dèi, un sistema di credenze. Ciò nonostante, notevoli sono
le tracce lasciate da questi tentativi, nelle organizzazioni religiose, come anche
nei testi e nei monumenti.
In principio era la casa. E la casa era abitata. Non da un dio, bensí dagli esseri
umani. Non da molti esseri umani. La casa, o meglio, la capanna, che vediamo
attraverso il cannocchiale della ricerca archeologica nell’Italia centrale nel
passaggio dal II al I millennio a.C., è piccola. Le piú antiche case lunghe in
grado di ospitare dozzine di persone erano andate fuori moda.
Che cosa significava religione in questa casa? Mettiamo a fuoco il nostro
cannocchiale, ma non ne vediamo traccia: nessun altare domestico, nessuna
statuetta, nessuna fossa sacrificale. Una donna entra nel nostro campo visuale.
Avrà circa 25 anni e questo vuol dire che non gliene restano molti altri da vivere.
Per noi è senza nome, ma naturalmente aveva un nome, anche se non lo
conosciamo. Senza la scrittura la storia rimane senza nomi e in questa parte del
mondo sarà cosí per altri duecento anni. Chiamiamola dunque semplicemente
Rea. Quando ne parliamo, in ogni caso lei acquista forma, sentimenti, azioni,
volontà; perché dunque non darle anche un nome che potrebbe avere benissimo
portato, qui, sulle colline della costa tirrenica?
Non le chiediamo della sua religione, ma di che cosa si meraviglia, cosa va
oltre e trascende la sua vita quotidiana, cos’è per lei «speciale». Lei
probabilmente comincerebbe col dire che il telaio è qualcosa di speciale: dalla
lana che è fornita dalle pecore hanno origine i vestiti che la proteggono e
l’adornano. La tecnica è stata tramandata di generazione in generazione, ma i
capi che ne escono sono sempre differenti, variando da villaggio a villaggio, se
non da famiglia a famiglia e spesso addirittura sono il prodotto di un’invenzione
individuale. Questa è l’alta tecnologia nella capanna, ed è speciale 1. Rea poi
probabilmente farebbe riferimento alle stoviglie, a qualche suppellettile di legno,
ma soprattutto alla ceramica. Anche questa è alta tecnologia, fatta in casa.
Bisognerà attendere il VII secolo a.C. perché la ceramica sia normalmente
ottenuta da specialisti operanti sul mercato, secondo una rigorosa divisione del
lavoro. Come per la tessitura, il rischio tecnico è considerevole. Come il filo di
ordito può strapparsi, cosí la parete può essere troppo sottile, la temperatura di
combustione troppo bassa, il tempo di cottura troppo lungo e inserzioni di altro
materiale possono danneggiare non solo l’aspetto esteriore del recipiente, ma
anche la sua solidità, e gli errori nella cottura possono deformarne l’effetto
visuale.
I rischi sono tuttavia in agguato anche nei manufatti perfetti e già pronti ad
accogliere generi alimentari. E questo è probabilmente il terzo ambito che attira
l’attenzione di Rea. Ma qui non si può sbagliare! I quadrupedi che scalciano e gli
uccelli che beccano qua e là possono ostacolare la semina; la pioggia e il vento,
il freddo, la siccità e il calore possono danneggiare diverse colture e ridurre
drammaticamente – nel senso che si rischia davvero la vita – il raccolto. La
necessità di conservare una parte sostanziale della messe annuale come semente
per la semina dell’anno successivo lascia poco margine di manovra nel caso di
cereali come il farro. Lo stesso vale per alcuni prodotti orticoli e per il bestiame.
La transumanza, il cambio di pascolo fra estate e inverno, che può tenere l’uomo
lontano dal casolare anche per settimane, è faticosa e dispendiosa. La vita è
sempre in pericolo, anche se non si deve pensare sempre a questo.
Quando Rea si guarda attorno nella stanza, i suoi occhi possono indugiare
sullo spazio, l’architettura, la capanna. Questo tipo di abitazione, che ospita un
nucleo familiare abbastanza piccolo e le sue sostanze, non è semplicemente
un’alternativa pratica al vivere nelle caverne (stile di vita molto comune laddove
la roccia vulcanica, facilmente lavorabile, rende possibile questa modalità, per
non dire che nega ogni altra struttura architettonica) o piuttosto nelle case lunghe
o nelle costruzioni a forma di tenda. Le molte repliche in altri contesti, e su cui
tornerò in un momento, suggeriscono che per Rea questa capanna ha un forte
potere emotivo, dal momento che rappresenta il piú stabile rifugio della sua
precaria esistenza e allo stesso tempo una meraviglia tecnica che ha fatto di una
serie di fragili componenti – sempre anche insidiosi – un tutt’uno stabile.
Chi deve ringraziare Rea per tutto questo? Forse non avrebbe capito la
domanda. Lei ha visto come la capanna è stata costruita e come è stata piú volte
riparata, lei sa cosa fa e cosa fanno gli altri, è conscia delle difficoltà che implica
tessere, fare vasi e cucinare, trasformare ciò che è immangiabile e perciò
inutilizzabile in qualcosa di commestibile e utile. Ma potrebbe anche dirci di
avere vicini che sostengono che il successo non dipende solamente dai propri
sforzi. Questi vicini dicono che ci sono altri che hanno un nome ma che non
possono essere visti, il cui aiuto, o almeno la buona intenzione, è importante, se
non fondamentale. Molti di quei vicini conservano parte della loro produzione –
proprio come si fa per la semente – per questi aiutanti o sostenitori invisibili,
cosí da poterla consegnare in luoghi particolari, nelle caverne o presso le «acque
marce» ai margini dell’abitato, dove, sebbene non possano essere visti – almeno
cosí ritengono molti che sono coinvolti in queste cose –, qualcuno prova
comunque a mettersi in contatto con loro. Le parole di Rea non rivelano
pienamente cosa lei pensi di tutte queste cose, ma possiamo immaginare che, se i
tempi avessero dovuto diventare difficili, avrebbe forse provato a chiedere a
coloro che hanno maggior confidenza con quei nomi e ad agire di conseguenza.
2.1. Lo spazio.
Italia, Sicilia e Malta formano con la Tunisia una catena nevralgica lungo il
Mediterraneo, che in tempi diversi ha creato ponti piuttosto che divisioni 8.
Questo ponte si estende sino all’estremo nord, all’arco alpino, spesso poroso e in
grado di canalizzare, anziché impedire, lo scambio culturale ed economico.
Questa catena, inoltre, non è affatto isolata: il mare Adriatico è stretto e nel III e
II millennio a.C. rende possibili contatti stabili e duraturi 9. Allo stesso tempo, va
rammentato che la costa orientale dell’Italia si presentava come poco attraente in
termini di porti e navigazione sottocosta 10. All’inizio del II millennio a.C., le
principali rotte del mar Egeo fra le attuali Grecia e Turchia e quelle provenienti
dal Levante e dal Mediterraneo orientale raggiungevano solo pochi punti sulla
costa meridionale dell’Italia: attraverso lo Stretto, le isole Eolie, quindi la Sicilia
e da qui la Sardegna o Malta. L’altro cambio è avvenuto invece in modo
indiretto, per mezzo della navigazione costiera locale. Il livello di facilità con cui
queste regioni erano accessibili ha influenzato la loro integrazione culturale
all’interno della piú ampia regione mediterranea. Lo scambio intenso che si
percepisce in grandi isole come la Sicilia e la Sardegna 11 è molto diverso da
quello della costa occidentale dell’Italia, di cui solo pochi tratti erano facilmente
navigabili, specialmente nel golfo di Napoli e poi nuovamente piú a nord nella
regione centrale del Lazio e della Toscana.
Rotte e destinazioni possono cambiare, se i venti e le correnti lo permettono.
Fino alla tarda età del Bronzo alla fine del II millennio a.C., il coinvolgimento di
Malta e delle Eolie era notevolmente ridotto, mentre c’era un accesso diretto
all’Adriatico settentrionale e da qui all’estuario del Po 12. Sono queste le rotte che
vengono riprese, dopo la fine dei contatti minoici al termine del II millennio, dai
mercanti e dagli artigiani ciprioti, fenici e, a partire dall’VIII secolo in
particolare, da quelli greci, e che si estendono nel sud della Spagna e nella valle
del Guadalquivir (Tartessos) 13 e, ovviamente, sulle coste della Tunisia (vedi
Cartagine) e nel suo retroterra. Tuttavia, lo scambio culturale e il traffico di
materiale su queste rotte era evidentemente squilibrato, in generale piú intenso
nella direttrice est-ovest che in quella ovest-est. Fino a che punto gli scambi
culturali arrivarono in specifici luoghi dipese grandemente dal livello di
selettività, cosí come dalla ricettività e da quanto fosse l’iniziativa dei gruppi
locali e delle loro élite. Fatti salvi i rapporti all’interno della Magna Grecia, il
livello di connettività fra Levante e Grecia non ebbe eguali 14.
1. Mnajdra (Malta), complesso templare di epoca neolitica (fine IV millennio a.C.).
3. Depositi.
4. Sepolture.
Le sepolture sono fra le piú antiche pratiche che rientrano nell’ambito della
religione e si distinguono fra loro per una grande varietà e rapidità di
cambiamento, anche in limitate aree geografiche e in brevi lassi temporali. In
Italia, la cremazione e la deposizione in urne ebbe origine a partire dal XII secolo
a.C., probabilmente sotto l’influsso della cultura dei campi di urne dell’Europa
centrale e nordoccidentale 53. Queste sepolture, probabilmente realizzate in fosse
di famiglia poste le une accanto alle altre, furono successivamente sistematizzate
e coordinate con le aree di insediamento. Allo stesso tempo, in alcuni
insediamenti abitativi, ci fu una lunga tradizione di sepolture domestiche dei
bambini. Le tombe rupestri dell’età del Bronzo furono quasi completamente
abbandonate 54, anche se le deposizioni in zone remote dove erano presenti
sorgenti continuarono. Il luogo dove seppellire i propri simili non lasciava
ovviamente indifferenti gli abitanti di questi insediamenti. Nello stabilire un
luogo di sepoltura, uno spazio per i morti, a portata di mano, costoro stavano
anche dicendo qualcosa a proposito dello spazio di una comunità formata dai
morti e dai vivi. La fissazione dello spazio per gli uni significava anche
stabilirne uno per gli altri. Per questa ragione reclavamano e delimitavano
un’intera area per sé e per gli altri. Questa tecnica, di per sé, non era per nulla
nuova. Questa forma di territorialità per mezzo della creazione di cimiteri, ossia
luoghi di sepoltura mantenuti da diverse persone per un dato periodo, si era già
sviluppata in diverse zone nel IX millennio 55, tuttavia nei casi specifici si era
sempre mantenuta per periodi limitati: o i rispettivi gruppi erano scomparsi o
non avevano continuato a servirsi di quei luoghi.
Ma come avevano luogo le sepolture? Nell’ambito della civiltà villanoviana
dell’Italia settentrionale a sud della pianura padana, e successivamente in Etruria
e in Lazio, l’utilizzo di urne cinerarie a forma di capanna (fig. 2) diventò la
norma a partire dal IX secolo 56; che il popolo di Vulci – dopotutto un centro
etrusco e non certo un insediamento remoto – nell’VIII secolo abbia potuto
optare per la cremazione diretta in una buca (fossa) 57 di forma allungata mostra
quale fosse la possibilità di scelta, secondo le «tendenze» del momento. Il fatto
che gli esseri umani modellassero i vasi per le ceneri – ossia la cenere e i resti
ossei non completamente bruciati – a forma di capanna ci fa tornare alla mente la
contemplazione da parte di Rea per ciò che, nella sua esistenza, era «speciale».
La sistemazione finale dei defunti si mostrò chiaramente in stretta connessione
con la sfera domestica 58. Pensando al destino dei morti, si dava modo di pensare
al destino comune dei viventi.
2. Urna cineraria a forma di capanna, bronzo e piombo nel doppio pavimento, 40,5 × 35,7 cm, h 28,5 cm (c.
800-750 a.C.). Proveniente dalla necropoli dell’Osteria a Vulci, Tomba della Cisti litica.
3. Sepolture a tumulo nella necropoli della Banditaccia a Cerveteri/Caere (VI-V secolo a.C.).
5.1. Immagini.
7. Lituus in bronzo (36,5 × 2,5 cm) proveniente da una tomba a camera a Caere.
8. Numa con lituus sul rovescio del denarius di Pomponio Molo (97 a.C.).
1.1. Innovazione.
10. Modello in terracotta di un antico tempio greco proveniente da Perachora, Grecia (c. VIII secolo a.C.).
1.2. Investimenti.
Per ritornare all’Italia centrale: l’azione religiosa poteva ben avere i suoi
rischi, ma l’iniziativa dei promotori o delle promotrici a Satricum – non
dimentichiamo che le «tombe principesche» furono costruite anche per le
donne 11 – era stata pagata profumatamente. Il nuovo sito, o la visibilità
enormemente accresciuta che l’antica fossa aveva ricevuto grazie alla
costruzione della nuova struttura, si dimostrò attraente per molti. La questione
del perché risorse ingenti dovessero essere investite in sepolture visibili o tombe
nella necropoli nordoccidentale era stata posta già da qualche tempo, o
comunque aveva cominciato a essere avvertita allora 12. Le famiglie si
allargavano (anche se è importante precisare che questa condizione non
riguardava tutti indistintamente) e gradualmente cominciarono a invitarsi a
vicenda nei rispettivi banchetti cerimoniali, e fu a proposito di queste occasioni
che gli individui cominciarono a ricordarsi l’un l’altro, oppure a ricordare gli dèi,
nelle loro sempre piú ricorrenti deposizioni non soltanto di coppe per bere e di
caraffe, ma anche di altri oggetti legati alla cura del proprio aspetto, i quali erano
poi probabilmente investiti di un significato maggiore per il fatto di essere stati
utilizzati per l’ultima volta durante un banchetto con sposi e amici. In
corrispondenza della seconda fossa, posta successivamente sull’altro lato della
strada e utilizzata a partire dal V secolo a.C., molte persone organizzarono spesso
delle celebrazioni e crearono dunque contatti con le divinità; secondo i dati di
una precisa analisi almeno 67 eventi di questo tipo si svolsero qui 13. I
partecipanti e le partecipanti non si limitavano soltanto a bere, ma in queste
occasioni mangiavano anche la carne di animali addomesticati come mucche,
pecore e maiali 14. È probabile anche che avessero cominciato a ricercare la
comodità di uno spazio al chiuso, soprattutto per le stagioni piú fredde o in caso
di pioggia, e questa potrebbe essere stata dunque la funzione primaria della casa
accanto alla fossa, come anche delle strutture absidali in Grecia 15.
Questo successo a lungo termine ebbe i suoi riflessi anche su altre forme di
sviluppo. Alcuni decenni dopo la costruzione della prima struttura, nella seconda
metà del VI secolo a.C., essa fu rimpiazzata da un’altra costruzione a cui ci si
riferisce come «tempio 1». Quelli che intrapresero questa operazione di
rinnovamento volevano impressionare innanzitutto con il tetto; anche in Etruria
questo dettaglio fu spesso considerato come decisivo per catturare l’attenzione
immediata, ma non fu tuttavia l’Etruria a fornire il modello per la prima, o forse
soltanto la seconda versione della struttura a Satricum. Coloro che
commissionarono il tetto, che sopravvive in almeno 4000 frammenti, volevano
comunque impressionare in ogni modo. Le tegole di terracotta nella gronda e nel
timpano erano fornite di pietre di rivestimento, o antefisse, che rappresentavano
palmette, teste e gorgoneia che facevano smorfie e mostravano la lingua (fig.
11), mentre fra le caratteristiche decorative del colmo del tetto si distinguevano
dei felini, e ancora alla base del frontone erano state collocate rappresentazioni
in terracotta di mucche.
Queste decorazioni sul tetto seguivano la tendenza che si era sviluppata di
recente in Campania, nella zona piú meridionale, e che era piú vicina allo stile
del disegno greco. Gli artigiani di Capua avrebbero potuto forse riprodurre in
loco, a Satricum, dei motivi che risultavano familiari ai loro committenti che li
avevano già osservati durante i loro viaggi commerciali verso sud. Sembra
tuttavia che questi stessi committenti abbiano optato alla fine per una procedura
piú semplice ma allo stesso tempo anche piú costosa: per avere l’intero tetto
prodotto a Capua, la spedizione di circa 2500 tegole, con un peso totale di circa
40 tonnellate, fino a Satricum fu condotta attraverso la strada costiera e
l’Astura 16. Questa decisione radicale potrebbe forse essere stata motivata dalla
costruzione di un secondo tempio a Satricum, probabilmente attorno al 550 a.C.,
quindi poco prima 17. In questo caso, era stata commissionata una cella a tre
elementi, che rivelava analogamente una conoscenza extraregionale delle
tendenze architettoniche nella costruzione eseguita a Macchia Santa Lucia, e che
probabilmente non fu neanche la prima a essere stata realizzata in questo luogo.
Che un certo numero di persone a Satricum avesse estesi contatti con altri luoghi
è poi attestato da quegli oggetti importati dall’Italia e dalla Grecia, basati in parte
su modelli ciprioti ed egiziani, che venivano ostentati durante i funerali prima di
essere depositati all’interno di ricche tombe del VII secolo 18.
11. Terracotta proveniente dal tempio di Mater Matuta a Satricum (c. 490 a.C.).
2. Tempio e altare?
14. Lastra in terracotta raffigurante cavalieri al galoppo, 21,5 × 64 × 4 cm (c. 530 a.C.).
Le necessità pratiche e l’interesse dei patroni nella promozione di queste
associazioni nobilitanti portò a diverse forme ibride, non soltanto nell’ambito
della decorazione. La Regia, la «casa reale», nel Foro romano, apparteneva
chiaramente alla stessa tipologia architettonica. Il costruttore della «terza Regia»
alla metà del VI secolo, con uno dei primi tetti di terracotta e i suoi elementi
decorativi, collocò la struttura all’interno di un gruppo di edifici che
comprendeva non soltanto palazzi come quello di Murlo, ma anche i
contemporanei edifici di culto a Sant’Omobono. La «quarta Regia», nel terzo
quarto dello stesso secolo, fu decorata a partire dallo stile di Veio, Velletri e
Roma, che si ritrova anche nella fase successiva che caratterizza l’edificio di
culto a Sant’Omobono 90. La sua pianta fu configurata in modo da incorporare
funzioni di culto (successivamente sostenute da diversi sacerdoti) all’interno di
un complesso residenziale 91, e questo ci riporta al legame precedentemente
menzionato fra il ruolo politico e quello religioso nella Grecia arcaica 92.
Evidentemente precedente allo spostamento delle sepolture all’interno di siti che
si trovavano al di fuori dei confini cittadini, la fondazione dell’edificio stesso
nella sua primissima fase alla fine del VII secolo a.C. va collocata proprio sul
luogo di un’antica sepoltura 93.
Sullo sfondo dei tentativi che venivano contemporaneamente messi in atto in
Etruria per distinguere il religioso dalla sfera dell’élite politica 94, non sorprende
che dopo aver bandito i governanti politici che portavano il titolo di rex, Roma
rendesse effettiva questa separazione attraverso la figura del rex sacrorum, un
«re delle attività religiose» che aveva un ruolo esclusivamente religioso,
nell’ambito di un processo radicale di cui non sappiamo nient’altro 95. Forse la
serie di dodici altari a Lavinio dovrebbe essere interpretata sullo sfondo di
questo contesto generale. Qualunque sia lo scopo che si cela dietro questo
particolare processo di accrescimento, coloro che la misero in atto evitarono di
attribuire allo spazio religioso una qualunque colorazione che fosse puramente
aristocratica, cosa che peraltro ben si adatterebbe al presupposto per cui, a modo
loro, questi «focolari» rendevano omaggio a un progetto comunitario: la
fondazione delle colonie latine 96.
Capitolo quarto
Le pratiche religiose (VI-III secolo a.C.)
Molto di ciò che costituí il rituale alla metà del I millennio a.C., soprattutto
nel campo dell’attività religiosa, giace al di là di qualsiasi possibilità di
ricostruzione. Questo riguarda le parole, ancora di piú quelle formulate
ritmicamente, e soprattutto riguarda le formulazioni melodiche, quindi i canti e
la musica 1. In alcune occasioni, uno strumento a fiato deposto all’interno di una
tomba sta a simboleggiare l’elemento del suono. La stessa considerazione vale
anche per la dimensione dell’olfatto, a cui soltanto raramente si accenna
nell’immaginario, ma che abbiamo già incontrato nell’esempio della figura che
annusa il fiore. Specifiche tipologie di movimento, come danzare oppure battere
i piedi sul suolo, avevano la funzione di attirare l’attenzione degli agenti
sovrannaturali a cui ci si rivolgeva, e mentre simboleggiavano allo stesso tempo
la forma speciale che la comunicazione con loro aveva assunto, sono
documentate soltanto da fonti e immagini tarde e strettamente connesse al
rituale 2. Il ruolo centrale rivestito dal corpo nell’attività religiosa è
simboleggiato ancora una volta da quegli oggetti che venivano portati al sito
dagli attori umani, oggetti con cui essi avevano interagito e che poi alla fine
avevano lasciato lí.
Già all’inizio del VII secolo a.C., alcuni abitanti di Trestina, nel tratto
superiore del Tevere, gettavano statuine di bronzo dalle sembianze umane
all’interno di fosse o pozzi come forma di comunicazione con l’invisibile 3.
Questa pratica venne imitata nei secoli successivi da un numero abbastanza
consistente di individui nell’Etruria settentrionale, spesso in insediamenti
altrettanto piccoli e lontani dalle città. Questi individui offrivano tali statuine
come rappresentazioni dell’immagine specifica che intendevano dare di se stessi,
e talvolta mettevano in rilievo il proprio prestigio locale mediante la presenza di
armi, ma piú di frequente attraverso un’accurata rappresentazione delle vesti 4.
Anche a Roma, nelle buche che si trovano nell’area di Sant’Omobono, le
persone utilizzavano questi strumenti per mettere in rilievo la propria duratura,
sebbene non necessariamente visibile, presenza all’interno di luoghi speciali.
15. Statue in terracotta, raffiguranti donne a grandezza naturale, provenienti dal sito di Lavinio - Pratica di
Mare (V secolo a.C.).
Era possibile fare di piú. In alcuni complessi di culto piú estesi, per quanto
una tale strategia fosse ancora accessibile, e soggetta alla crescente interazione
fra iniziativa e imitazione, questa presenza veniva espressa a grandezza naturale.
A Lavinio, all’inizio del V secolo a.C., furono probabilmente giovani donne e
uomini ad avviare la tradizione di rappresentare se stessi mediante statue di
terracotta a grandezza naturale o leggermente piú piccole (fig. 15),
verosimilmente nel contesto di pratiche locali che celebravano la fine
dell’infanzia: una tradizione che fu ripresa e tramandata dalle generazioni
successive fino al II secolo a.C. 5. Si continuarono a realizzare splendide statue di
bronzo nel II e forse anche nel I secolo a.C., e a erigerle all’interno di strutture di
culto nell’Etruria settentrionale, sempre nell’ambito della comunicazione
religiosa.
Questa fu una pratica che molti potevano a malapena permettersi. Forse già
alla fine del VI secolo a.C., semplici teste di terracotta (forse rette da piedistalli)
cominciarono a essere utilizzate nell’area di Campetti a Veio 6. Questa pratica
venne imitata soltanto sporadicamente, ma divenne molto popolare dalla fine del
V secolo a.C. I ceramisti riuscirono a soddisfare la domanda grazie a una nuova
tecnologia che divenne disponibile in Italia probabilmente a partire dalla fine del
VI secolo: la produzione in serie di statue attraverso l’utilizzo di una matrice
singola oppure doppia 7. In tutta l’Italia centrale, specialmente nei luoghi di culto
piú estesi, venivano offerte alle persone una serie di teste, oppure – sicuramente
piú economici – mezzirilievi di teste che potevano essere utilizzati per la
comunicazione religiosa. Furono gli oggetti stessi a suggerire gli usi a cui
avrebbero dovuto essere destinati, poiché molti di essi erano provvisti di anelli
alla loro base, grazie ai quali potevano essere fissati in maniera sicura su podi o
palchi, all’interno di bauli oppure teche, o anche sul pavimento nel caso in cui lo
si ritenesse idoneo. I mezzirilievi, dal canto loro, erano configurati in modo da
poter essere esposti 8.
La qualità di questi oggetti spesso lasciava a desiderare. La parte posteriore e
i bordi spesso non venivano lavorati, mentre dopo diverse centinaia di colate le
sagome si consumavano, oppure presentavano naturalmente dei difetti che
venivano ritoccati soltanto in superficie. I prodotti spesso non venivano dipinti, e
quasi sempre restavano senza iscrizione, e questo testimoniava come una
mancanza di potere d’acquisto si sommasse a uno scarso livello di
alfabetizzazione. Molti vennero realizzati sulla base dei bisogni dettati dagli
stessi acquirenti, mentre altri vennero terminati diversamente, secondo lo stile
del ritratto. Malgrado tali differenze, il messaggio che veniva inviato agli dèi e
agli umani attraverso l’esposizione di queste teste era di natura simile:
nonostante tutta la splendida architettura e le decorazioni, nonostante tutto quello
che sappiamo dei costruttori di questo luogo, e della loro posizione come
membri dell’élite economica, militare, politica, e ora per coronare il tutto anche
religiosa, ci siamo ancora anche noi! Anche se non era sfuggito a molti degli
attori che le loro teste a un certo punto sarebbero state rimosse oppure spostate, e
alla fine gettate nelle fosse o nei pozzi, in questo modo essi comunque si
appropriarono di questi luoghi rievocativi dei poteri sovrumani e dei potentati
umani, e ne presero possesso, legittimati dal fatto che le loro azioni avevano una
base religiosa.
Dove l’attività religiosa concesse ad alcuni individui un’autorappresentazione
attraverso lo splendore architettonico, rappresentando allo stesso tempo il
tentativo di indirizzare le pratiche religiose verso particolari direzioni, concesse
invece ad altri di appropriarsi degli stessi spazi attraverso la modificazione delle
pratiche d’élite, e cosí facendo consentí agli individui stessi di rivendicare il
riconoscimento dei loro interessi e desideri. Una tale appropriazione richiedeva
anche una giustificazione, ed è precisamente a Roma e nel Lazio che tracce
frequenti di coperture della parte posteriore delle teste in terracotta di semplici
personaggi forniscono una prova evidente del fatto che la comunicazione
religiosa aveva ormai raggiunto una certa portata 9. Sia le teste in terracotta sia i
progetti di costruzione crebbero di importanza fino alla fine del II secolo a.C.
Vasti strati sociali ed élite restarono coinvolti in uno scambio indiretto nell’Italia
centrale; la presenza in grandi quantità di oggetti che erano stati realizzati da una
moltitudine di mani produsse come effetto non soltanto quello di appropriarsi
dell’infrastruttura religiosa, ma anche di rafforzarla contribuendo in maniera
cruciale alla sacralizzazione delle strutture e dei luoghi 10. In questo caso si
trattava di uno strumento di comunicazione che serviva a scopi abbastanza
differenti in molte parti della Grecia, mentre spesso subiva analoghi processi di
diffusione. In Grecia tuttavia gli dèi, oppure gli dèi e gli umani, costituivano i
due grandi motivi dei rilievi in terracotta 11.
16. Intestini e utero in terracotta proveniente dall’Etruria (III-II secolo a.C.).
1.3. Voti.
Menerva sacru | La. Cotena La. f. pretod de | zenatuo sententiad vootum | dedet cuando
datu rected | cuncaptum.
Il praetor Lars Cotena, figlio di Lars, ha fatto un voto sacro a Minerva su decisione del
senato. Quando è stato fatto è stato formulato in maniera corretta 31.
M(arcus) P(ublius) Vertuleieis | C(ai) f(ilii) quod re sua difeidens asper(a) | afleicta parens
timens | heic vovit voto hoc | soluto [d]ecuma facta | poloucta leibereis luben | tes donu(m)
danunt | Herculei Maxsume | mereto semol te | orant se voti crebro | condemnes.
Marco e Publio Vertuleio, figli di Gaio: quello che il padre, disperato per la sua difficile e
travagliata situazione, ha qui promesso nella paura, i figli – una volta che il voto fu sciolto per
mezzo della decima parte offerta come sacrificio – lo danno con gioia a Ercole Massimo come
dono. Allo stesso tempo chiedono di essere condannati spesso al soddisfacimento di un
voto 32.
2. Sacralizzazione.
2.1. Classificazioni.
2.2. Strategie.
Le buche, gli oggetti e le costruzioni facevano tutti parte delle strategie che
miravano a separare l’azione come comunicazione religiosa dall’azione che, non
attribuendo valore agli attori speciali, di conseguenza non aveva bisogno di
affermare neanche la sua importanza per gli attori stessi. In questo senso, furono
gli oggetti e le pratiche comunicative a conferire al divino una presenza concreta
e localizzata 42. Ma la sacralizzazione comportò anche pratiche particolari. L’uso
dell’incenso, proveniente dal Mediterraneo orientale dove costituiva già un
prodotto importato, era una delle modalità preferite in cui il desiderio di
distinguersi e la volontà di innalzarsi socialmente si combinavano con il
desiderio di sacralizzazione. La sua «scoperta» fu una caratteristica del periodo
orientalizzante, contraddistinto da un intero complesso di innovazioni e
importazioni derivate dai contatti d’oltremare. Gli utensili necessari vennero
copiati da modelli fenici, e riprodotti primariamente in bronzo a livello locale.
Le forme furono sottoposte a una successiva fase di sviluppo durante il V secolo
e in quelli successivi, per essere alla fine standardizzate in una forma
semplificata che era quella del bruciatore di incenso a forma di ciotola 43. A
differenza della Grecia, l’associazione fra incenso e libagione – ture et vino –
divenne un doppio indicatore che denotava le attività come sacre. La pyxis tonda
etrusca per l’incenso oppure l’acerra romana rettangolare divennero accessori
che contraddistinguevano un individuo come sostenitore temporaneo di un ruolo
religioso 44. L’olla o urna, a forma di brocca con due manici, poco adatta all’atto
del versare, venne sostituita di frequente dalla greca hydria a tre manici, anche
se il modello piú antico continuò a essere utilizzato a lungo nel culto nell’Italia
centrale, e dalle vergini vestali di Roma anche fino all’età imperiale. Le vestali,
con l’elevata visibilità di cui godevano nel centro di Roma, continuarono a
utilizzare a lungo anche modelli arcaici di utensili da banchetto e di anfore 45, e
in particolari contesti rituali la loro veste prevedeva fibulae di bronzo del tipo
diffuso già nella civiltà di La Tène nell’Europa centrale 46.
Colui che aveva reso le sue azioni speciali in questa maniera, mentre parlava
a destinatari speciali attribuendo loro significato, nello stesso tempo si rivolgeva
anche a se stesso, garantendosi cosí analogamente valore e significato 47.
Entrambi gli elementi di questa conversazione devono anche essere stati
concepiti per un pubblico piú ampio di esseri umani, come abbiamo visto nel
capitolo I . Nell’incidere iscrizioni su oggetti destinati alla comunicazione
religiosa, sia nei templi sia sulle tombe, gli antichi utilizzatori prima del greco, e
poi della scrittura etrusca e latina, trassero vantaggio dalla possibilità inerente
alle tre scritture di riprodurre i suoni reali che componevano le parole, incluse le
consonanti e le vocali. I donatori e gli oggetti furono cosí in grado di «parlare»,
ma soltanto se potevano confidare nella collaborazione dei lettori, nel loro
rispondere alla sfida implicita nei segni fonetici, leggendoli ad alta voce, come
era d’altronde normale nell’antichità 48. La famosa iscrizione dell’inizio del V
secolo a.C. proveniente da Satricum, «[–]iei steterai Popliosio Valesiosio
suodales Mamartei» («… come compagni di Poplios Valesios, eressero questo
per Marte») 49, era stata concepita per essere declamata, e deve essere stata
destinata a un tale pubblico.
Il pubblico appare ancora piú evidente nel caso di altre forme di
ritualizzazione. Perché gli aristocratici avrebbero dovuto organizzare gare di
bighe o combattimenti tra gladiatori se non avessero avuto a disposizione un
pubblico? L’elemento della sacralizzazione, il riferimento ai morti o agli dèi, che
conferiva a un evento una particolare importanza, assicurando un pubblico
ancora piú vasto, appare ancora piú problematico in questo caso. Anche se i
singoli competitori potrebbero aver invocato le divinità per nome nell’ambito di
tali occasioni, la sacralizzazione sarebbe comunque apparsa piú distintamente
riconoscibile e impressionante se l’intero evento avesse reso manifesto questo
tratto. I nuovi mezzi di comunicazione religiosa offrivano varie soluzioni, e la
scelta del luogo dei «giochi» fu una di queste, che fosse sul Campidoglio a
Roma, vicino al tempio di Giove, o richiedesse la costruzione di un intero
complesso, come a Olimpia nel Peloponneso. Un’altra invece riguardò il
coinvolgimento delle statue, che dovevano essere trasportate in processione dai
templi. Oltre alle gare, i dipinti funerari del VI e forse anche del VII secolo a.C.
attestano la presenza di parate e processioni nelle città etrusche, e in varie
località esse compaiono nel repertorio dei motivi disegnati per la
rappresentazione del prestigio aristocratico. Bighe a due ruote, come quelle che
venivano utilizzate nelle corse e nelle processioni, caratterizzano i fregi in
terracotta dei tetti, come abbiamo già avuto modo di notare, facendo sicuramente
riferimento a una realtà diffusa in Italia 50: infatti possono essere individuate a
Roma in forma chiaramente sacralizzata dalla fine del VI secolo 51. Assistere a
tali spettacoli, ascoltare lo scalpitare degli zoccoli e delle armature, sentire
l’odore del sudore dei cavalli e dei concorrenti, oppure dell’olio con cui
ungevano i loro corpi, forse anche correre insieme a loro: tutto questo faceva sí
che semplici osservatori e spettatori diventassero invece veri e propri
partecipanti al rituale 52. E questo ha trasformato l’attività aristocratica del gioco
(i ludi), già rielaborata come comunicazione religiosa, in qualcosa di piú:
un’azione pubblica. Questo però non riguardò tutte le attività. La
rappresentazione aristocratica della caccia, prevalente già in epoca antica, e
praticata su vasta scala nella prima età moderna, costituí il soggetto di immagini
e narrazioni, tuttavia fu raramente sacralizzata fino a quando le capacità
organizzative e architettoniche romane permisero di collocarla nell’ambito
dell’anfiteatro 53.
La ritualizzazione e la sacralizzazione delle attività avevano alcune
implicazioni a cui bisognava prestare attenzione. Si cominciò con lo stabilire
giorni particolari dell’anno in cui si sarebbero dovuti svolgere gli eventi, poi ci
furono le questioni relative ai ruoli degli attori. Da semplici partecipanti e
competitori, gli aristocratici divennero organizzatori e promotori, e le cose
peggioravano quando si voleva sottolineare lo «speciale» carattere religioso,
uccidendo ad esempio il cavallo vittorioso nella corsa dell’October equus o
costringendo il vincitore della gara capitolina a bere assenzio 54. Questi eccessi
forse tendevano a essere omessi nel caso di ruoli meno esposti. La danza poteva
costituire un elemento frequente, ma possediamo soltanto strumenti indiretti di
conoscenza 55. Non erano soltanto i bambini ad andare in altalena durante le
feriae latinae, le festività che portavano i latini delle città piú lontane fino ad
Alba Longa 56. La ritualizzazione e la sacralizzazione, la routinizzazione e la
caratterizzazione della comunicazione come «peculiare», modificarono la
quotidianità, aggiungendo nuove forme all’attività religiosa e rendendola
maggiormente visibile in molti modi, insomma facendola diventare «pubblica».
3. Rituali complessi.
3.1. Calendari.
Il mio esame della sacralizzazione degli spazi ci ha condotto entro piú ampie
estensioni temporali, e questo è dovuto non soltanto alla limitata disponibilità di
fonti, ma anche al fatto che molti cambiamenti – nello specifico presenti
probabilmente in ogni performance individuale di un rituale, ma nei casi
individuali solitamente percepibili soltanto a un livello microscopico – fecero
sentire i loro effetti soltanto nel lungo periodo. Dall’altro lato, i cambiamenti
verificatisi nella partecipazione delle persone alla sacralizzazione del tempo,
legati dunque al calendario, sono stati spesso rivoluzionari, e comunque
divennero oggetto di accesi dibattiti. In questo caso dobbiamo soffermare la
nostra attenzione su Roma nello specifico. Anche il calendario giocò un ruolo
importante nella storia delle pratiche religiose, specialmente in termini di
sacralizzazione, e su questo aspetto si è concentrata la mia attenzione in questo
capitolo.
Il nostro intendere i fasti romani come un dato naturale ha a che fare
esclusivamente con il fatto che molti calendari moderni sono discendenti diretti
della tipologia di calendario che troviamo a Roma, e la cui storia completa ho
già ripercorso altrove 65. In breve, alla fine del IV secolo a.C. le fasi della luna
cessarono di essere considerate la principale forma di misurazione del tempo,
vennero stabiliti mesi di lunghezza simile e il meccanismo intercalare esistente
venne di conseguenza regolato. Roma cosí si allontanò da tutte le pratiche che
possiamo invece osservare altrove, sia nel mondo italico sia in quello greco, in
cui il corso del mese da luna nuova a luna nuova costituiva l’unità di misura
fondamentale dell’anno solare, e veniva di conseguenza rispettato; il sole e la
luna rappresentavano il corso stabilito del tempo, e offrivano la cornice entro cui
poter attribuire certe qualità a determinati giorni, in modo da poterli
sacralizzare 66. Come misura tecnica, i governanti locali inserivano di tanto in
tanto mesi intercalari, per ragioni astronomiche e di conseguenza climatiche, ma
spesso semplicemente perché un prolungamento temporale dell’anno appariva
politicamente opportuno 67: l’intento a Roma era quello di modificare questa
situazione.
Sia che ne fosse la causa oppure la conseguenza, legata in modo indissolubile
alla rinuncia dei mesi lunari misurati su base empirica fu la fissazione del
calendario in forma scritta, che rappresentava tutti i giorni dell’anno in colonne
mensili. Questa iniziativa superò chiaramente quella intrapresa per esempio a
Capua all’inizio del V secolo a.C., in cui le operazioni rituali, probabilmente
relative al sacerdozio, erano state organizzate in una lista di tutti i giorni che
risultavano interessati da tali attività (Tabula Capuana) 68. Mentre questo modo
cosí accessibile di rappresentare il calendario ne facilitò innanzitutto l’utilizzo
nella sfera legale, politica e anche in quella economica, esso rivelò anche la
misura in cui il tempo era stato sacralizzato, in analogia con il possesso sacrale
della terra. Non c’è dubbio che questo progetto facesse parte di un processo
politico in cui vari strati della società, specialmente l’élite patrizia e plebea, si
erano fusi in un’unica élite politica, ed erano quindi obbligati a estendere la loro
attenzione alle diverse dedizioni religiose della controparte 69. Con l’avvento
della «repubblica», la rivendicazione da parte dei «patrizi» di essere gli unici ad
avere la capacità particolare di saper comunicare con gli dèi cominciò pian piano
a essere contestata 70. Non a caso la nuova rappresentazione grafica venne
rinominata a partire da quei giorni che non erano legati direttamente all’attività
religiosa, i dies fasti. I principali modelli storici furono rappresentati dalle liste
che provenivano dall’Attica e che elencavano tutti i giorni in cui gli obblighi
finanziari scaturivano direttamente dalla dedizione cultuale, accanto ai nomi dei
benefattori 71. Quelli che erano attivamente impegnati nel progetto romano, fra i
quali le fonti nominano in particolare il censore Appio Claudio (che
successivamente acquistò il cognomen di Caecus) 72 e colui che era
probabilmente il suo scriba pontificale, Gneo Flavio, utilizzarono il calendario
come uno strumento municipale destinato a definire i confini di una religione
«pubblica» che fosse importante per tutti; i loro sforzi, tuttavia, incorporarono
numerosi errori individuali che dovettero essere risolti dalla cosiddetta lex
Hortensia del 287 a.C.
Forse pubblicamente disponibile nella forma di un’unica copia, il testo del
calendario risultava inutile per gli individui ai fini di una facilitazione del loro
orientamento o delle loro scelte religiose. Anche quando cominciarono a essere
disponibili edizioni private del calendario, e le stesse presero poi a diffondersi
durante l’età imperiale, le indicazioni in esso contenute circa le festività riservate
agli dèi (feriae) e i giorni commemorativi della fondazione del tempio sembrano
non essere state utilizzate dagli individui per suddividere il tempo sulla base
delle loro attività religiose 73. I rituali complessi e la sacralizzazione del tempo al
di là dei ritmi settimanali e mensili visibili nel calendario furono il riflesso della
crescente complessità della città di Roma; sotto la dimensione aristocratica, si
trattò piú di una fonte di intrattenimento e identificazione occasionale che di un
modello per l’attività religiosa personale.
4. Narrazioni e immagini.
18. Pittura muraria proveniente dalla tomba François a Vulci (Lazio): Achille sacrifica i prigionieri troiani
per vendicare l’uccisione di Patroclo (c. 320-310 a.C.).
Capitolo quinto
Gli attori: appropriazione e formazione delle pratiche religiose (V-I secolo
a.C.)
1. Eterarchia e aristocrazia.
Questi uomini si servivano delle attività religiose nell’ambito delle loro case o
del loro clan anche per organizzare grandi raduni. I giochi, i sacrifici di
bestiame, o semplicemente la distribuzione di carne proveniente dalle scorte o il
surplus della produzione agricola gestita da questa élite, cosí come le
dimostrazioni del suo potere dispositivo sul materiale da costruzione e sul
lavoro, costituirono complessivamente un aspetto importante nella costruzione
della res publica. Nel vasto contesto della libera cittadinanza, piú che una forma
di comunicazione politica e di deliberazione in comune la «cosa pubblica»
rappresentava, rispecchiando l’interpretazione della politica che arriva fino alla
prima età moderna, una forma del dare e ricevere 20. Di conseguenza le
disuguaglianze, i doveri e il riconoscimento dei valori condivisi vennero
assicurati nel lungo periodo; allo stesso tempo, le opportunità di competizione, la
possibilità di distinguersi e superarsi l’un l’altro offerte da questi rituali
rendevano la spesa degna di essere affrontata da parte degli individui che li
organizzavano 21.
20. Statuetta in bronzo, c. 13 cm, raffigurante un victimarius con perizoma e coltello (culter), coronato
d’alloro, probabilmente nell’atto di afferrare una corda per condurre l’animale (inizi del I secolo d.C.).
2. I sacerdoti.
21. Bassorilievo con quattro vergini vestali e, a destra, un sacerdote (pontefice massimo?) in piedi davanti
agli altari; il sacerdote si rivolge a Vesta seduta alla sua sinistra. Proveniente da Mistretta, Sicilia (I secolo
d.C.).
3. Distinzione.
Marco Emilio Lepido (c. 230-152 a.C.) era già stato designato per la sua
prima posizione come legato nel 201. Venne nominato pontefice nel 199, sei
anni piú tardi (193) divenne curule edile, poi console per la prima volta nel 187
(dopo una candidatura senza successo nel 189) e per la seconda volta nel 175.
Contemporaneamente venne eletto pontefice massimo nel 180, 19 anni dopo la
sua nomina, e subito dopo divenne censore, nel 179. Come censore utilizzò delle
armi votive, che in realtà erano state dedicate agli dèi, per finanziare il rinnovo
del tempio capitolino di Giove. A partire dallo stesso periodo fu princeps
senatus. Nello stesso anno, come pontefice massimo, egli aveva fatto fustigare
una vestale. A differenza di altri sacerdoti, in questo caso la tradizione ci ha
consegnato ulteriori dettagli biografici. Nel 172 recitò infatti la preghiera davanti
ai magistrati per i vota decennalia, e nel 159, all’interno di un conflitto di cui
non conosciamo il contenuto, multò il precedente tribuno del popolo e pretore
per quell’anno. Nel 156 un fulmine scagliò nel Tevere il tetto della sua residenza
ufficiale insieme alle colonne che lo sorreggevano. Quattro anni piú tardi, nel
152, su decisione del collegio rifiutò al censore il diritto di validare la dedicatio
di una statua di Concordia. Infine, sul letto di morte, si dice che abbia fatto
richiesta di un funerale modesto senza porpora, che costasse non piú di un
milione di asses 43. Con questa cifra, egli avrebbe potuto sfamare l’intera
popolazione di cittadini liberi di Roma nel giorno del suo funerale.
Lucio Cornelio Dolabella fu un piú giovane patrizio dell’epoca che entrò in
conflitto con il predecessore di Lepido, il plebeo Gaio Servilio Gemino,
nell’ufficio di pontifex maximus. Gemino, nell’anno finale del suo ufficio (180),
aveva designato Dolabella per la carica di rex sacrorum come successore di
Gneo Cornelio Dolabella. Il giovane rifiutò, sebbene si trattasse probabilmente –
non possiamo saperlo infatti con certezza – di succedere a suo padre, e
nonostante l’ammenda ricevuta da Gemino, non volendo dimettersi da duumvir
navalis (180-178 a.C.) in favore della carica che gli era stata offerta, che era
soggetta a restrizioni politiche. Al suo posto dovette dunque essere designato
Publio Clelio Siculo 44.
Piuttosto differente fu la reazione di Gaio Valerio Flacco quando,
completamente contro la sua volontà, nel 209 a.C. venne eletto flamen Dialis.
Egli dimostrò come gli scrittori imperiali fossero soddisfatti di un uomo in grado
di poter cambiare le cose, e inaugurò le sue nuove funzioni con una volontà
estremamente risoluta, al punto che riuscí a rivendicare un seggio senatoriale per
il flamen, e il diritto di occupare un ufficio municipale 45. Venne persino trovata
una soluzione al problema che sorse quando egli venne designato come edile
(199) e dovette quindi prestare giuramento (un obbligo che era considerato
impossibile da assolvere per un flamen): suo fratello prestò giuramento per lui.
Anche la vita di Gaio Giulio Cesare (13 luglio 100 a.C. - 15 marzo 44 a.C.),
anch’egli patrizio, può essere descritta in termini di sacerdozi. Egli era
probabilmente già diventato un salius da ragazzo: questi sacerdoti camminavano
per tutta la città esibendosi in una danza «saltata», ed erano attivi soprattutto a
marzo quando, muniti di scudi dalla foggia arcaica, a forma di otto, erano
coinvolti in un certo numero di rituali. La designazione per questo ruolo, che
poteva riguardare anche le donne, e che forse si era sviluppato a partire da rituali
di iniziazione, avveniva solitamente in giovane età, mentre in epoca imperiale i
membri si ritiravano di regola dall’ufficio dopo aver assunto una posizione piú
elevata 46. Cesare fu probabilmente nominato, e presumibilmente anche insediato
come flamen Dialis in occasione dell’iniziazione di Cinna all’inizio dell’84,
all’età di 15 anni, dopo la sua separazione da Cossuzia e il matrimonio con la
figlia di Cinna, Cornelia. Quando, nel corso di un processo di riorganizzazione
dei sacerdozi, Silla provò a spingerlo a separarsi dalla figlia del suo avversario
facendo leva sulla paura della suprema sanzione pontificale, Cesare si appellò al
rimedio della provocatio ad populum per contrastare la misura presa, ma perse
comunque la causa al cospetto di un’assemblea dominata da Silla, non potendo
piú esercitare in tal modo le funzioni del prestigioso ufficio. Si giunse tuttavia a
un compromesso per iniziativa dei compagni di Cesare, membri del collegio
pontificale: la precedente disposizione secondo cui Cesare deteneva
impropriamente l’ufficio venne mitigata dal fatto che il flaminato non fu piú
occupato per un certo periodo, tanto che rimase vacante fino al 14 a.C., e a
Cesare fu dunque offerta la possibilità di occupare di nuovo il suo posto nel
collegio pontificale, di cui faceva parte come flamen Dialis. Venne dunque
nominato pontifex in sua assenza attorno al 73 a.C. (a quel tempo, il voto
popolare era stato di nuovo annullato, benché Silla avesse incrementato il
numero dei membri che facevano parte dei collegi, portandoli da 9 a 15), e la sua
nomina a pontefice precedette la carica di questore (69/68), ottenuta con la
maggioranza dei sostenitori di Silla nel collegio. Nel 63, dunque prima di essere
designato pretore nel 62, Cesare venne eletto pontefice massimo a discapito dei
candidati, suoi compagni, piú anziani e noti: Quinto Lutazio Catulo e Publio
Servilio Vatia Isaurico. Console per la prima volta nel 59, fu soltanto dopo le sue
vittorie in Gallia e il secondo consolato nel 48, e la seconda dittatura nel 48/47, a
metà della guerra civile, che venne eletto augure, ancora nel 47 o al piú tardi
all’inizio del 46 (contemporaneamente il voto popolare era stato reintrodotto, e i
collegi aumentarono la propria ampiezza, sebbene di un seggio soltanto –
riservato forse allo stesso Cesare – fino ad arrivare a 16 membri). Da dittatore
Cesare realizzò a quel punto una riforma sistematica del calendario, che grazie
alla sua autorità di pontefice massimo trasformò mediante l’introduzione di mesi
intercalari che portarono la durata complessiva dell’anno fino a 445 giorni totali.
Il De astris accompagnò quest’operazione di riforma, proprio come i
Commentarii de bello Gallico avevano accompagnato le sue precedenti attività
militari, non facendo però nessuna menzione del pontificato supremo 47.
Come i nostri esempi dimostrano, l’attività religiosa, anche nelle sue forme
istituzionalizzate, ammontava a piú dell’uso razionale della risorsa che era
interamente calcolabile, poiché gli attori non innegabilmente plausibili
difficilmente intervenivano di proprio accordo, e le regole dell’azione rituale
rimasero solide 48. Gli esseri umani utilizzarono l’azione religiosa come forma
speciale di risoluzione dei problemi 49: essi reagirono alla piú grande varietà di
situazioni problematiche ricorrendo a una pletora di destinatari tratti dalla lunga
lista di divinità che si aggiunse alla sfera della comunicazione religiosa durante
la media e tarda repubblica, e che si estendeva da quelle personificazioni dei
valori sociali come Concordia e Virtú, fino agli dèi e alle dee legati all’azione
terapeutica e alla protezione, come Asclepio e Iside. Questo non era certamente
il «pantheon» organizzato di una «religione della polis», ma il risultato
disorganico di decisioni individuali affermatesi nel contesto di ciò che era
conosciuto e accettabile al livello di famiglia, regione o intelletto, sia per portare
avanti un culto oppure per abbandonarne un altro. Gli attori coinvolti
percepivano il comportamento passato e i precedenti destinatari come tradizioni
che dovevano essere consolidate tramite la ripetizione, alterate dalle
modificazioni, o assorbite in modo creativo (e all’occasione anche sovversivo).
Come risolvere il problema legato al fatto che il territorio in espansione sotto
la dominazione imperiale necessitava di posizioni che dovevano essere ricoperte
tendenzialmente al di là dei confini di Roma, mentre allo stesso tempo
sussistevano particolari responsabilità sacerdotali che risultavano comunque
legate alla città? Senza che venisse formulata nessuna regola esplicita in merito,
l’esame di tutti i casi che sorsero sporadicamente durante il corso di mezzo
secolo condussero comunque alla conclusione che gli uffici sacerdotali che
richiedevano la presenza di un patrizio dovessero essere ritenuti inconciliabili
con tali assenze, e questo processo investigativo comportò tutta una serie di
conseguenze: si verificò una serie di dimissioni dal ruolo di flamen; i plebei
potevano diventare rex sacrorum soltanto una volta; il flamen Dialis ricevette un
seggio in senato; il pontefice massimo assunse volontariamente la cittadinanza
italica invece di quella della provincia. Per quanto la distinzione di un ufficio
sacerdotale venisse apprezzata, c’era scarsa volontà di abbandonare altre
possibilità per il proprio interesse.
Aesculapius (292), Bellona (296), Bona Dea (II secolo), Castore e Polluce (II secolo?),
Clementia Caesaris (44), Concordia (216), Consus (272), Diana (179), Faunus (194), Felicitas
(151), Felicitas Feronia (225), Flora (244), Flora (III secolo), Fons (231), Fors Fortuna (293),
Fortuna Equestris (173), Fortuna huiusce diei (168), Fortuna huiusce diei (101), Fortuna
Primigenia (194), Fortuna Publica (241), Hercules (III secolo), Hercules Invictus (292),
Hercules Magnus custos (223), Hercules Musarum (189), Honos (233), Honos (III secolo),
Honos e Virtus (222), Honos e Virtus (inizio del I secolo), Hora Quirini (III secolo), Ianus
(260), Iuno Curritis (241), Iuno Regina (179), Iuno Sospita (194), Iuppiter Fulgur (III secolo),
Iuppiter Invictus (c. II secolo), Iuppiter Libertas (246), Iuppiter Stator (294), Iuppiter Stator e
Iuno Regina (146), Iuppiter Victor (295), Iuturna (242/41), Iuventas (191), Lares (III secolo),
Lares Permarini (179), Luna (III secolo), Mars (138), Mars Invictus (II secolo?), Mater Magna
(191), Mens (215), Minerva (263/62), Neptunus (257), Ops (III secolo), Ops Opifera (250),
Pales (267), Penates (III secolo), Pietas (181), Pietas (91), Portunus (292), Salus (302), Sol e
Luna (III secolo), Sol Indiges (III secolo), Spes e Fides (258/57), Summanus (276), Tellus
(268), Tempestates (259), Tiberinus (III secolo), Vediovis (194), Vediovis (192), Venus
Erucina (215), Venus Erucina (181), Venus Genetrix (46), Venus Libitina (costruzione del
tempio incerta, III secolo), Venus Obsequens (295), Venus Verticordia (114), Venus Victrix,
Honos e Virtus e Felicitas (55), Vica Pota (III secolo), Victoria Virgo (193), Volcanus (252),
Vortumnus (264) 50.
Pochi anni dopo il 146 a.C. (data certa del primo tempio di marmo a Roma), a
seguito di un assalto di pirati respinto con successo, un mercante di nome Marco
Ottavio Erennio, che era stato un tempo un suonatore di flauto, costruí un tempio
circolare sul Tevere e lo dedicò a Ercole vincitore (fig. 22). Cosí facendo, e
come confermato da Masurio Sabino all’inizio del I secolo d.C., egli collegò la
generale associazione di Ercole con la riuscita nel commercio alla sua specifica
interpretazione della propria personale esperienza 53. È possibile che egli fosse
sostenuto dall’architetto di spicco Ermodoro, che era attivo in questo periodo. La
struttura era insolita in molti sensi 54. Essa non aveva infatti né un podio né una
facciata chiaramente definita, e le venti colonne erano poste cosí vicine l’una
all’altra che ostruivano interamente la vista della struttura centrale, la cella, e da
una certa distanza oscuravano anche l’entrata che risultava caratterizzata da due
finestre contigue. Soltanto da vicino, dunque, con la porta e le finestre aperte, la
statua posta al centro della cella avrebbe potuto essere ben illuminata e visibile.
Le fondamenta erano state costruite con il tufo, diffusamente utilizzato, di Grotta
Oscura, ma la struttura superiore metteva in evidenza una certa innovazione e
un’alta dimensione estetica. I muri interni erano stati costruiti invece con il
nuovo, ma locale, travertino, e le slanciate colonne di quasi dieci metri e mezzo
di altezza erano state realizzate con il marmo pentelico proveniente dall’Attica.
In questo modo, il fondatore mostrò la propria condizione di grande benessere, e
di quell’apprezzamento della cultura greca che risulta ben visibile nel paesaggio
urbano, nelle sue istituzioni e nei suoi teatri, rendendo cosí testimonianza del
livello culturale raggiunto e anche della ricchezza del bottino.
23. Tempio dedicato alla Fortuna del giorno presente in Largo Argentina a Roma (II secolo a.C.).
Fu probabilmente pochi decenni piú tardi che Quinto Lutazio Catulo continuò
l’esperimento dei templi circolari costruendo un tempio della «Fortuna del
giorno presente» (Fortuna huiusce diei) nel Campo Marzio, che oggi può essere
ammirato come il «tempio B» di Largo Argentina (fig. 23). L’importanza che il
console del 102 a.C. attribuí alla comunicazione religiosa è dimostrata non
soltanto da questo tempio costruito l’anno successivo, ma anche dal fatto che,
essendo egli stesso probabilmente senza ufficio sacerdotale, riuscí a fare in modo
che suo figlio venisse designato dai pontefici durante il decennio successivo, un
figlio che verrà a sua volta celebrato per aver portato a termine, con uno stile
sontuoso, il restauro intrapreso già da Silla del tempio capitolino di Giove 55.
In modo abbastanza differente dal tempio fatto costruire da Erennio, Catulo
posizionò la sua struttura circolare su un podio alto due metri e mezzo e
circondato da diciotto imponenti colonne con basamenti attici e capitelli corinzi,
per un’altezza complessiva che raggiungeva gli undici metri. Il costruttore
conferí a questa struttura, uno della serie di templi 56 collocati in questa piazza
sul Campo Marzio, un orientamento chiaro e un aspetto frontale. Un’ampia
gradinata conduceva fin sopra al podio, e l’entrata era posta nel punto di accesso
che si trovava dietro un ampio intercolumnio. Catulo aveva posizionato la
colossale immagine di culto in modo tale che essa, con i suoi colori vivi, si
trovasse proprio di fronte al visitatore che entrava, nel lato opposto dello spazio
interno; le parti visibili del corpo erano in marmo bianco (forse dalla superficie
dipinta), mentre il resto potrebbe essere stato costituito da un rivestimento
bronzeo. Con l’entrata aperta, a un’altezza di circa otto metri, questa statua che
riempiva lo spazio poteva essere visibile da una grande distanza.
Anche Catulo rinvia alla tradizione che identificava Fortuna con la forza del
fato, collegandola a un personale colpo di fortuna come presenza visibile, in
modo persino insistente: essa rappresenta la forza che lo ha aiutato in un
particolare momento. Il suo intento è interamente polemico. Catulo sta infatti
celebrando qui come una sua vittoria la sconfitta inflitta ai Cimbri a Vercelli (nel
giugno del 101 a.C.), vittoria riportata insieme a Gaio Mario, il comandante già
celebrato: una proclamazione questa a cui la costruzione di un tempio conferiva
una rilevanza monumentale. Non bisogna dimenticare d’altronde che Catulo
realizzò tutto ciò nell’ambito di un contesto in cui l’offerta di oggetti votivi
costituiva ancora una diffusa forma di pratica rituale popolare. La struttura di
marmo risplende in contrasto con gli oggetti in terracotta lasciati sulle panche e
nelle fosse 57, mettendo cosí in rilievo il fatto che non si trattava semplicemente
di un edificio, ma della rappresentazione e perpetuazione di una specifica
comunicazione religiosa che tendeva verso potenze superiori. Sicuramente
Quinto Lutazio aveva anche registrato la sua versione degli eventi tramite la
parola scritta e orale, ma, nell’atmosfera sempre piú competitiva che
caratterizzava la tarda repubblica, le semplici storie o proclamazioni non erano
piú sufficienti 58, e chiunque avesse una certa disponibilità materiale faceva sí
che gli edifici dedicati agli dèi divenissero la testimonianza in pietra
dell’importanza della propria persona.
Il giorno nono prima delle calende di settembre, quando Lentulo fu consacrato flamine di
Marte, si adornò la casa, si allestirono sale da pranzo con divani d’avorio: in due presero
posto i pontefici Quinto Catulo, Mamerco Emilio Lepido, ***, Decimo Silano, Gaio Cesare,
*** re dei sacrifici, Publio Scevola, Sesto <Cesare flamine di Quirino>, Quinto Cornelio,
Publio Volumnio, Publio Albinovano e l’augure Lucio Giulio Cesare che lo consacrò; nella
terza sala le vergini vestali Popilia, Perpennia, Licinia e Arrunzia, la moglie del nuovo
flamine Publicia e sua suocera Sempronia. Questa fu la lista delle vivande. Antipasti: ricci di
mare, ostriche crude a volontà, ostriche grandi, spondili, cozze, ortiche di mare, beccafichi,
lombate di capretto e di cinghiale, pollo marinato, beccafichi, conchiglie del murice e della
porpora. Portate: mammelle di scrofa, testa spaccata di cinghiale, pasticcio di pesci, pasticcio
di mammella di scrofa, anitre, arzavole lesse, lepri, pollame arrosto, crema, panini del
Piceno 64.
Quello che manca nel frammento del racconto del pontifex maximus Quinto
Cecilio Metello Pio 72 è un’indicazione del vino bevuto. Il vino era stato la
bevanda dell’aristocrazia italica sin dalla prima età del Ferro. Con gli uomini che
si riservavano il suo consumo in maniera esclusiva, all’interno di questo strato
sociale il vino serviva, in riferimento ai recipienti che venivano utilizzati per
contenerlo, anche come importante strumento per la costruzione delle diversità
di genere 73. L’intossicazione, interpretata in senso religioso, di vino puro e non
diluito (associato al piú antico e a forma di calice kantharos) potrebbe essere alla
base delle rappresentazioni nelle tombe di grande rilievo dopo il VI secolo a.C. a
Tarquinia 74. Immagini e rituali del greco Bakkhos – la personificazione
dell’estatico Dioniso che divenne poi noto in etrusco (Pacha) e latino
(Bacchus) 75 – sembrano aver fornito temi e motivi per l’interpretazione e la
perpetuazione di queste esperienze. La richiesta di immagini bacchiche su vasi
che risulta evidente nel corso del IV secolo a.C. 76 non fu tuttavia un fenomeno
isolato; non ultimo nelle regioni produttrici di vino che costituivano una delle
piú importanti reti economiche e immaginative dell’impero romano, anche oltre i
confini della regione del Mediterraneo, l’interesse nei confronti delle
concettualizzazioni bizzarre di tali esperienze spinse i proprietari delle abitazioni
a investire nei mosaici pavimentali e negli affreschi in modo da portare fin
dentro le mura domestiche quel mondo immaginario.
Il vino, come anche le anfore, era diventato, grazie ai mercati, un bene
accessibile anche a coloro che non appartenevano all’aristocrazia, nella misura
in cui avevano la disponibilità economica per poterselo permettere. Anche le
interpretazioni culturali, o piú precisamente religiose, associate al vino potevano
essere disponibili sul mercato (almeno per quella parte benestante della società)
grazie all’influenza esercitata da isolate fonti greche durante l’età ellenistica.
L’interesse piú grande sorse laddove il consumo di vino era accessibile agli
abitanti residenti in città, come esperienza sociale aperta sia agli uomini sia alle
donne, e l’esperienza estatica all’aperto divenne invece accessibile anche
nell’ambito dei vari contesti domestici. Questa forma «borghesizzata» 77 di
attività religiosa, che consentiva anche l’intrattenimento 78, e apriva nuovi ruoli
per le donne 79, venne ricercata anche in Italia, dove tuttavia risulta piú difficile
per noi da individuare, poiché era ancora assente una cultura paragonabile a
quella che è possibile trovare in Grecia, caratterizzata da una forma di
comunicazione pubblica che si esprimeva mediante le iscrizioni, permettendo
cosí all’attività religiosa di diventare visibile anche senza l’ausilio
dell’architettura monumentale e di depositi votivi durevoli.
Come in Grecia, tali gruppi potrebbero essersi radicati all’interno delle reti
sociali costituite da individui influenti a livello locale in vari modi: attraverso il
coinvolgimento di attori individuali in rituali preminenti 80, oppure mediante gli
altari o i templi situati in città 81. L’azione religiosa cosí socialmente disseminata
venne resa di conseguenza accettabile, ma questo non significa che non
potessero verificarsi conflitti sociali in casi singoli. A Roma, nel 186 a.C., il
sospetto che il coinvolgimento nelle reti bacchiche si stesse estendendo ben oltre
la dimensione di piccoli gruppi di cittadini, e avesse cominciato a essere usato
per scopi di opposizione politica, scatenò la persecuzione quasi fino al punto del
conflitto civile. Il fattore critico potrebbe essere stato costituito piú dallo stato
generale del discorso che dalla formazione di gruppi religiosi, come abbiamo già
avuto modo di osservare prima. Dopo le molte eccezioni e improvvisazioni
generate dalla seconda guerra punica (218-201 a.C.), il dibattito
sull’istituzionalizzazione della norma nell’ambito e all’interno del «regno
comune» divenne intenso. Come doveva essere routinizzata la norma, e allo
stesso tempo come doveva essere ristretto il potere degli individui? Quando un
ex console poteva presentarsi di nuovo per l’ufficio consolare? Quando un
praetor poteva presentarsi per la prima volta? La questione implicita riguardava
le prerogative che dipendevano dalla comunicazione con gli dèi, e quali limiti
dovessero essere fissati per questo tipo di attività religiosa.
I ruoli sacerdotali vennero aperti a nuovi gruppi, oppure al contrario vennero
chiusi, e nuovi sacerdozi vennero creati 82. Nel 190 a.C. un comandante, Publio
Scipione Cornelio Africano, aveva giustificato una probabilmente contestata
tregua militare in Asia Minore appellandosi agli obblighi religiosi realmente
incombenti su di lui in quanto salius a Roma 83. Le misure drastiche, che si
spingevano fino al rogo dei libri sacri di Numa, costituivano l’ordine del
giorno 84. In una tale atmosfera, il giro di vite dato alle società bacchiche costituí
una misura analogamente radicale, con ramificazioni che si estesero anche oltre i
confini di Roma 85. I senatori, che in quest’occasione erano in maggioranza,
riconoscevano interamente il suo carattere speciale, utilizzando termini come
sacerdos (sacerdote) e caerimonia (rituali), e non proferendo neanche una parola
contro la divinità 86. Le tattiche consistevano nel restringere
l’istituzionalizzazione sociale dei riti alle donne, e nel rendere la creazione o la
continuazione già in uso degli spazi chiusi dipendente dal supporto offerto dai
patroni senatoriali: in breve, si trattava di integrare il rito nelle reti sociali
dell’élite, o di renderlo dipendente da esse. Quest’ultimo punto, la dipendenza
obbligatoria mediante il patronato, non era affermato a chiare lettere, ma fu
implicato dalla necessità di approvazione senatoriale, che era richiesta in
maniera esplicita.
La concezione personale di essere un mystes di Bacco, che fosse nella forma
assunta da un sarcofago oppure nella decorazione di una stanza da ricevimento,
rimase inalterata 87. Gli autori della risoluzione non affrontarono la religione
come se fosse un concetto, ma svilupparono al contrario un’idea delle pratiche
religiose interpretandole come qualcosa che gli individui potevano considerare
necessaria, e perseguire indisturbata fino a quando le pratiche stesse non furono
profondamente istituzionalizzate. Come era normale a Roma, si trattava di una
decisione unica, nel senso che era indirizzata nello specifico alle particolari
circostanze del culto di Bacco cosí come veniva percepito. La decisione tuttavia
dimostra una linea di pensiero a cui si sarebbe dovuto ricorrere ancora in epoca
successiva, in materia ad esempio di regolamentazione delle pratiche religiose
nelle colonie 88.
5. Comunicazione di massa.
5.1. I giochi.
Nelle città greche con le loro cittadinanze esclusive, i teatri permanenti erano
stati dei luoghi dedicati alla celebrazione comune e alla riflessione, sin dal V
secolo a.C. A partire da Siracusa, nei secoli successivi anche i governi delle città
italiane che si ispiravano al modello greco optarono in favore di queste strutture,
e la tendenza si registrò inizialmente in Sicilia, per estendersi poi
successivamente anche a Metaponto e a Locri Epizefiri, nel II secolo a.C. in
Campania, e alla fine del secolo anche a Nuceria e Pietrabbondante, e forse
anche a Lanuvio 96. Gli spettatori romani di Plauto all’inizio del II secolo a.C. già
volevano sedere in questi teatri, ma l’élite romana bloccò la creazione di uno
spazio permanente dove gli spettatori potessero comunicare intensamente tra di
loro e persino con gli attori, arrivando fino al punto di proibire di sedersi,
sebbene la pratica frequente di costruire palchi temporanei fosse stata comunque
per lungo tempo associata a strutture piú durevoli che offrivano uno spazio
riservato al pubblico 97. Anche l’elemento architettonico fu certamente parte di
questo dono offerto agli dèi e agli umani.
I promotori delle attività potevano controllare soltanto parzialmente le
dinamiche che scaturivano dall’interazione fra istituzione rituale e spazio
architettonico. Nel I secolo a.C. gli attori divennero solisti ben pagati, come nel
caso di Decimo Laberio, e i guidatori di bighe in epoca imperiale divennero delle
vere e proprie star. Le sentenze di Publilio Siro segnarono la quotidiana
consapevolezza morale di diverse generazioni, e nella tarda antichità i «fan club»
delle squadre che partecipavano alle gare di corsa determinarono le linee di
demarcazione fra le varie posizioni politiche che contraddistinguevano gli
abitanti della città. Questi sviluppi appartengono sicuramente ai successivi piú
importanti eventi della storia della religione romana. La comunicazione religiosa
offrí l’occasione e il contesto per l’intrattenimento, e definí la tempistica – con i
busti degli dèi che venivano trasportati durante la pompa circensis, nell’ambito
di una sontuosa cerimonia, fino al circo e ai posti d’onore del pulvinar 98, e che
resero ben visibile il carattere di questo processo – senza determinarne però il
contenuto, ma è soprattutto grazie al tentativo da parte della successiva polemica
giudeo-cristiana di rielaborazione del carattere religioso dell’intero evento che
possediamo oggi una conoscenza dettagliata delle performance rituali che lo
caratterizzavano. E infatti Tertulliano, nel De spectaculis, rimproverava i suoi
lettori di non essersi accorti di questo.
Gli «dèi» costituivano soltanto una classe degli «attori non innegabilmente
plausibili». Anche una tomba poteva infatti costituire un locus religiosus, come
il grammatico o antiquario Aelius Gallus durante la tarda repubblica dichiarava
in maniera anche abbastanza evidente, cercando forse di giustificare la cosa
tramite la protezione accordata dagli dèi 99. Che la tomba fosse sacra ai di manes
del defunto divenne gradualmente l’espressione diretta di un sentimento
regolarmente espresso sulle lapidi tombali, inizialmente nella città di Roma, poi
in seguito anche nelle province. Questi attori, la cui efficienza e potenza
risultava ancorata a un livello di espressione ancora piuttosto ridotto, vennero
onorati a Roma dal III secolo a.C. in poi attraverso competizioni spettacolari
pubbliche. Nel 264 a.C. Decimo Giunio Pera, console nel 266 a.C., insieme al
fratello piú giovane Marco organizzò le prime gare di gladiatori, in occasione
della cremazione del padre Decimo Giunio Bruto Pera 100. Meno di un secolo
dopo, nel 174 a.C., Tito Flaminino dispose per i giochi funebri in onore di suo
padre la celebrazione di tre giorni di gare che prevedevano la partecipazione di
74 gladiatori, insieme a una distribuzione di carne (visceratio) e a quattro
giornate di rappresentazioni teatrali 101. A proposito della distribuzione di carne,
attestata a Roma fin dal 338 a.C., l’origine e di conseguenza il contesto in cui
questo tipo di uccisioni sacrificali va collocato sembrano essere stati cosí privi di
importanza sia per i donatori sia per i riceventi che qualsiasi riferimento a un
qualunque precedente sacrificio, sia che si trattasse di caccia oppure – e
sicuramente questa sarà stata la norma – di un’uccisione compiuta nel mattatoio
cittadino, rimase inespresso 102.
Non c’erano limiti alle possibili variazioni di questo copione. Alla fine del
secolo, Marco Scauro allestí come giochi funebri delle gare di atleti, dello stesso
tipo di quelle che già nel 186 a.C. aveva organizzato Marco Fulvio Nobiliore nel
contesto dei giochi da lui promessi in guerra, insieme a una caccia a leoni e
pantere 103. E la famiglia di Lucio Emilio Paolo, mettendo in scena gli Adelphoe
di Terenzio per i giochi funebri in suo onore, chiarí che proprio attraverso le
celebrazioni funebri organizzate in onore di questo grande generale si invitava a
una riflessione sui ruoli del comandante e di coloro che erano obbligati a
obbedire 104.
Tutte queste attività contribuivano a definire i membri della famiglia sulla
base del significato specifico di un unico concetto, che fa riferimento
etimologicamente alla dimensione della mutualità e allo scambio, e che esprime
allo stesso tempo anche l’idea di «obbligo» e «dovere d’ufficio», cosí come di
«dono» e «regalo»: munus. In alcuni casi, mirando al raggiungimento di una
tempistica migliore per l’organizzazione della propria campagna di esposizione
pubblica, i membri delle famiglie non esitarono a concedere che trascorresse
anche un considerevole periodo di tempo dopo i funerali; come gli organizzatori
dei giochi in onore degli dèi, essi trasportavano dunque gli elementi rituali da un
contesto all’altro, e in entrambe le direzioni.
5.2. Le guerre.
26. Trionfo di Tito, presentazione del bottino (compresa la Menorah), in un passaggio dell’Arco di Tito,
Roma (post 81 d.C.).
6. Il divino.
Per la plausibilità degli dèi come destinatari, sembra aver costituito un fattore
importante il fatto che, in ogni circostanza di comunicazione religiosa, chi
guardava dall’esterno come spettatore fosse in grado di riconoscere che queste
divinità non erano interamente né sempre a disposizione degli attori umani. Nel
periodo qui preso in esame, questa condizione si espresse concretamente in una
serie di discussioni sull’eventuale presenza degli dèi nelle statue e nei templi, e
in tutte le misure intraprese dagli attori umani per dimostrare quanto fosse
incerto l’esito di un sacrificio quando questo si basava per esempio sullo studio
del fegato, che per natura appare altamente individuale, di un animale
sacrificato, oppure sull’osservazione della forma assunta dalle fiamme dopo che
vi era stato gettato l’incenso.
L’aristocrazia repubblicana enfatizzò questo elemento empirico nella
caratterizzazione dei prodigi, considerati come segni non richiesti, classificati
come anormali, e che spesso assumevano la forma di eventi meteorologici o
biologici 129: essi potevano essere osservati e raccontati da chiunque, e lo stesso
storico dell’età augustea, Livio, notò la presenza di una sensibilità crescente nei
loro confronti in corrispondenza dei periodi di crisi. Un segno doveva essere
riconosciuto dal senato, che metteva l’interpretazione nelle mani degli specialisti
religiosi, i sacerdoti oppure i decemviri (successivamente quindecimviri) sacris
faciundis, gli interpreti dei Libri sibillini. Questi poi, a seconda del caso,
suggerivano le «misure» correttive da prendere (procuratio), che poi dovevano
essere implementate dagli stessi sacerdoti oppure dai magistrati. Gli haruspices,
gli esaminatori etruschi delle viscere che venivano convocati occasionalmente in
qualità di esperti, furono presenti a Roma su un piano sia ufficiale sia privato dal
III secolo a.C. in avanti. La conoscenza straniera – come gli aristocratici etruschi,
che erano politicamente legati alla libertà d’azione, avevano ribadito – che era
stata rivelata, trascritta e quindi appresa, accrebbe anche in questo caso la
credibilità. L’importanza di cui godevano gli haruspices crebbe gradualmente,
sempre di piú, e non tanto per la loro partecipazione, all’inizio soltanto
sporadica, ai sacrifici pubblici, quanto piuttosto per il loro stretto legame
personale con i membri delle classi piú elevate 130, e infatti Lucio Cornelio Silla
riferí nella sua autobiografia di essere stato guidato dai consigli dell’haruspex
Gaio Postumio 131. Lo stesso valeva, ma soltanto a partire dall’età imperiale,
anche per l’astrologia, che non rivestí un ruolo pubblico, ma dal II secolo a.C. in
poi venne gradualmente utilizzata nell’ambito delle relazioni personali con gli
specialisti di ambo i sessi.
Il tentativo di raggiungere una conoscenza diretta della volontà e della
sapienza divina non finí qui. Venne riconosciuta l’esistenza di oracoli non
romani, come attesta Plauto attorno al 200 a.C., e in luoghi come il santuario
della Fortuna, nelle vicinanze di Preneste, gli esperti offrivano i loro servizi in
circostanze particolari 132, mentre altri esperti ancora operavano invece senza una
base istituzionale di questo tipo. Lo scarso numero di fonti esplicite a riguardo
contrasta notevolmente con la significativa importanza che l’apparire di figure
profetiche (vates) nella Roma repubblicana deve aver rivestito. Soprattutto
l’esortazione morale sembra essere stata una caratteristica ricorrente dei loro
messaggi, ma i ceti elevati della società romana non sembrano aver mostrato
particolare apprezzamento per questa fonte socialmente marginale di autorità
religiosa, anche se ciò non impedí per esempio alla popolazione di poter
ascoltare in maniera anche particolarmente intensa i Carmina Marciana durante
la seconda guerra punica. Negli anni finali della repubblica, anche fra le file del
ceto equestre vennero composti dei testi letterari il cui autore assumeva il ruolo
di vates: Orazio e Properzio, ad esempio, erano fra questi 133. In aggiunta,
circolavano in gran numero e venivano diffuse con notevole velocità raccolte di
oracoli, i libri Sibyllini o Etrusci: sembra infatti che ne siano stati individuati
duemila durante un’ispezione proprio di questi oracoli condotta sotto
Augusto 134.
All’inizio del I secolo a.C., dopo la guerra sociale, l’interesse dei senatori nei
confronti dell’accettazione e il trattamento dei prodigi diminuí. Forse questa
forma di comunicazione religiosa, nell’ambito delle sempre piú personalizzate
situazioni di conflitto che caratterizzarono quest’epoca, poteva apparire ai
protagonisti come non specifica, generalizzata, mentre proprio in
contrapposizione ai prodigi si affermava in maniera sempre piú estesa il sistema
degli auspici, a cui abbiamo già accennato, e che risultava ampiamente privo di
elementi empirici. Il volo degli uccelli, o anche il beccare dei polli, veniva
sottoposto a osservazione, e la conclusione che ne veniva tratta di volta in volta
si risolveva essenzialmente o in una inequivocabile approvazione oppure in un
rifiuto. Ogni segno possedeva un chiaro significato che i magistrati o i sacerdoti
potevano creare, contraffare o ignorare, e solitamente l’interpretazione non era
piú richiesta. Nel classico oracolo tratto dall’osservazione del comportamento
dei polli (auspicium ex tripudiis), infatti, il loro mangiare in maniera avida tanto
da arrivare a far cadere i chicchi dal becco costituiva naturalmente il piú forte
segnale di approvazione, ma l’esito della prova poteva anche essere manipolato
dando da mangiare ai polli in precedenza, oppure affamandoli, o ancora
controllando la consistenza del cibo che sarebbe poi stato loro somministrato
(mantenendolo umido oppure secco). Ma nulla del genere era tuttavia realmente
necessario. La verifica pubblica non era infatti prevista, perché pubblico era
soltanto l’annuncio degli esiti, e questo significava che la consultazione poteva
essere ridotta a un semplice dialogo stereotipato fra l’assistente, che aveva il
compito di osservare la maniera in cui i polli divoravano il cibo, e il magistrato
che invece intraprendeva la procedura; in tal modo i segni reali e quelli fittizi
finivano per essere praticamente equivalenti, e risultavano generalmente
indistinguibili agli occhi degli «utilizzatori finali». Il diritto di ricorrere agli
auspici costituí dunque un’espressione diretta della competenza propria del
magistrato, e infatti con l’espressione imperium auspiciumque 135, «dominio e
diritto di auspicio», si alludeva proprio a questo.
Il risvolto di questa forma di legittimazione fu l’obbligo costante di consultare
gli auspici. I magistrati non erano legittimati per l’intera durata della carica a
partire dalla loro elezione, ma al contrario proprio la loro legittimazione venne
minata dalla costante necessità di rinnovo della carica 136, diventando di
conseguenza precaria. Essi furono in grado di procurarsi il consenso divino
singolarmente, soltanto caso per caso, ma le lacune che caratterizzavano il potere
magistratuale vennero poi strettamente ridefinite: i tribuni ebbero infatti la
possibilità di intervenire, e i colleghi dello stesso rango ebbero il diritto di veto.
In aggiunta a questo, gli auguri avevano il diritto di obnuntiatio, ovvero il diritto
di registrare quei segni che interrompevano l’attività politica in corso. Queste
possibilità di esercitare parimenti un altro tipo di comunicazione religiosa
costrinsero dunque il singolo magistrato a cercare un consenso a dispetto della
propria apparente ampiezza di potere. In ogni caso, nonostante tutti i tentativi di
istituzionalizzazione intrapresi dagli attori negli ultimi anni della repubblica,
l’azione religiosa continuò comunque a far parte dei vari giochi di negoziazione
e a rappresentare la possibilità di conferire un’importanza particolare alle varie
posizioni individuali.
Questo punto specifico può essere dimostrato facilmente sulla base della
seconda Filippica di Cicerone (composta nel settembre del 44 a.C., ma
pubblicata soltanto nel novembre dello stesso anno). Marco Antonio, come
console e funzionario capo elettorale, aveva impedito l’elezione di Dolabella
(nominato in sostituzione da Cesare) al consolato denunciando segnali contrari
con la sommaria formula di proroga alio die, «un’altra volta», durante la fase
finale della procedura elettorale 137. Cicerone dichiarò che Antonio aveva già
anticipato questo impedimento il 1° gennaio (2,80), facendo affidamento in
questo sulla sua condizione di augure (2,81), ed è proprio su questo che Cicerone
fonda la sua critica: l’anticipazione mostrava che i supposti auspici erano in
realtà fallaci; Antonio non aveva specificato né quanto aveva ascoltato né quanto
aveva visto (2,83), e inoltre aveva dichiarato in seguito che l’elezione doveva
essere valida (2,84), cosa che equivaleva a un voltafaccia politico da parte sua.
Se quanto Cicerone afferma nelle sue accuse è corretto, allora Antonio aveva
evidentemente infranto le regole. Ma queste regole comprendevano
principalmente una perpetuazione della finzione di quella genuina, ed
empiricamente consistente osservazione? Se la comunicazione religiosa era in
grado di segnalare una rilevanza particolare, allora l’obnuntiatio aveva
principalmente lo scopo di porre fine a tutte le negoziazioni. In un frangente
molto tardo, Antonio aveva messo in discussione e invalidato l’intero processo
di comunicazione che era stato portato avanti fino a quel momento, citando un
«no» divino. Per un circolo ristretto che comprendeva i piú alti magistrati per
l’anno in corso (eletti l’anno precedente) e il collegio degli auguri con il loro
prolungato status costituzionale, questa forma di disconoscimento costituiva uno
strumento legittimo: era un’azione espressiva – «senza di me» –, e non fu
dunque semplicemente un lavoro di interpretazione per esperti 138.
Questo tuttavia aprí la porta alla contro-critica: Cicerone accusò Antonio di
non essere in grado di stabilire se Giove avesse mandato tuoni oppure scagliato
fulmini, ma alio die parla da sé, come lo stesso Cicerone ammise altrove 139.
Cicerone fu di conseguenza obbligato a intensificare le sue accuse, e quindi
attaccò Antonio per il fatto di aver infranto certe altre norme di procedura. Il 1°
gennaio era stata sollevata un’obiezione relativa alla deliberazione imperiosa da
parte di Cesare in merito alla designazione dei consoli dell’anno successivo, ed
era stato compito del consul in servizio Antonio richiedere che il processo
venisse avviato nel momento in cui la nobiltà nominava i candidati e li
presentava per l’elezione o la selezione da parte del populus Romanus. Con il
suo annuncio, in qualità di augur, di un segno che era stato riferito, tuttavia,
Antonio aveva indicato cosí un allontanamento dal processo decisionale politico,
da riprendere poi soltanto in seguito e in maniera arbitraria ritirando la sua
obiezione.
Una caratteristica dell’interazione fra le istituzioni politiche a Roma in questo
periodo fu che la gestione dell’interruzione delle negoziazioni ebbe conseguenze
abbastanza differenti a seconda del soggetto coinvolto. Gli oppositori spinsero
l’obnuntiatio esattamente fino al punto in cui il processo di decisione lasciava il
campo d’azione della nobiltà e veniva trasferito invece nell’ambito delle
assemblee popolari (comitia), raggiungendo cosí un grado di diffusione pubblica
il piú vasto possibile. Il circolo ristretto di persone che erano autorizzate a fare
dichiarazione di obnuntiatio 140, e le possibili conseguenze ad ampio raggio della
sua contestazione, misero drasticamente davanti agli occhi del populus, di coloro
che avevano diritto di voto, la realtà, ovvero che non poteva esserci nessuna
questione di sovranità popolare.
In questo caso, tuttavia, l’obnuntiatio deve essere andata ben oltre
l’affermazione sul locus dell’autorità, poiché la protesta augurale ha avuto
conseguenze molto diverse. Le leggi furono promulgate nonostante questo,
eppure le elezioni vennero ritardate, e a differenza della creazione delle leggi, le
elezioni al contrario non erano considerate alla stregua di decisioni straordinarie.
La «macchia» dell’errore augurale (vitium) persisteva anche durante
l’esecuzione delle attività dell’assemblea. L’obiezione poteva essere raccolta in
qualsiasi momento dal collegio degli auguri, valutata e poi sottoposta al senato
per la decisione di annullare il precedente decreto popolare 141. Scrive Cicerone:
«Non aggiungo altro, ché non vorrei dar l’impressione che io sia per
l’annullamento degli atti di Dolabella; questi atti dovranno, una buona volta,
essere deferiti all’esame del nostro Collegio» 142. Per quanto riguardava le leggi,
questo significava soltanto che si procedeva a una maggiore «fluidità» nelle
decisioni a cui doveva essere attribuita la dignità piú elevata di lex. Al contrario,
per quanto riguardava le elezioni le conseguenze erano invece piú serie: quando
veniva contestata la legittimità fondamentale di una particolare decisione, non
era soltanto quella singola decisione a essere soggetta a una grave riserva, bensí
ogni decisione che era stata presa durante l’intero periodo d’ufficio 143. Questo
era considerato tuttavia intollerabile da parte di tutti coloro che erano coinvolti, e
in una tale situazione il consenso fu non soltanto desiderabile, ma addirittura
necessario: il potere dei magistrati fu limitato soltanto geograficamente,
mediante il diritto di provocatio, all’interno dei confini di Roma o della
giurisdizione provinciale, e ancora temporalmente, mediante la restrizione del
periodo d’ufficio a un anno soltanto, e infine personalmente, a causa
dell’obbligo di dividere il potere con colleghi che avevano le stesse funzioni e lo
stesso potere, il quale a sua volta venne limitato dalla necessità da parte di coloro
che avevano anche competenze religiose di raggiungere, in taluni casi
importanti, un piú ampio consenso. Come alternativa al consenso stesso restava
a disposizione soltanto la violenza, e negli anni finali della repubblica l’utilizzo
della forza venne sempre piú frequentemente associato alle strategie di
ostruzione 144. In questo contesto l’azione religiosa non poteva sostituire la
giurisdizione amministrativa.
Uccidere una serie di tori bianchi sani, oppure depositare una figura di bronzo
di grande formato, poteva risultare costoso, ma non complicato, a parte i
problemi pratici che potevano derivare naturalmente dai procedimenti di
uccisione o di colata del bronzo. Questo però non dipendeva dal fatto che la
religione potesse essere innovativa e gli attori in grado di enfatizzarne la
rilevanza compiendo azioni inaspettate, perché anche laddove il successo presso
gli dèi e gli uomini veniva raggiunto mediante il ricorso ad atti tradizionali, gli
uomini comunque continuavano ad apprendere la religione tramite
l’osservazione e la partecipazione, e non avevano bisogno di nessuna formazione
particolare. Soltanto a partire dall’età imperiale, dunque molto tempo dopo
l’affermazione dell’idea che la religione potesse essere anche conoscenza, come
vedremo qui in seguito, incontriamo la questione dell’insegnamento della
«religione romana» destinato ai giovani nobili che crescevano lontani da Roma 1.
Se paragoniamo la comunicazione religiosa al linguaggio (tenendo sempre in
considerazione il fatto che essa veniva utilizzata molto piú raramente di quanto
venisse parlata invece una lingua madre), allora possiamo provare ad applicare i
fondamenti degli studi linguistici alla dimensione della tradizione orale che
caratterizzava l’azione religiosa. Diversamente da quanto affermano i
pionieristici studi del XIX secolo, siamo in presenza non di un sistema che
possiede un vocabolario stabile, condiviso da una particolare generazione e che
dà luogo a cambiamenti sulla base di una serie di regole fisse, ma di una
situazione in cui dobbiamo fare i conti con una serie di variazioni sistematiche,
locali, sociali e di genere all’interno di una comunità, e in cui ognuna di queste
varianti risulta appresa dai bambini in maniera differente, anche in vista delle
difficoltà della realizzazione fonetica, e che inoltre è costantemente sottoposta a
mutamenti per via del cambiamento dei contesti e dei contatti con i gruppi di
parlanti coinvolti, di volta in volta differenti.
Nell’Italia centrale, cosí come a Roma, la conoscenza pratica sull’agire
religioso era ampiamente diffusa, e questo continuò a valere per molte aree della
pratica religiosa ellenistica, anche in epoche successive. Laddove gli attori rituali
producevano dei testi, essi tendevano a stabilizzare in maniera consapevole
pratiche modificate, anziché introdurre, e di conseguenza imporre, standard
uniformi 2, e anche quando il numero dei sacerdoti romani venne quasi
raddoppiato, grazie alla lex Ogulnia del 300 a.C., mediante l’apertura dei collegi
a diversi nuovi membri plebei senza le idonee tradizioni familiari, essi non
avvertirono alcun bisogno di mettere per iscritto le loro procedure. La spesa in
termini di tempo per i membri del collegio restò entro i limiti, e come molti
sacerdoti greci anche quelli romani furono sacerdoti a tempo parziale 3.
Laddove cominciarono a essere conservate le registrazioni interne – come
sembra essere accaduto per il senato a Roma a partire dalla fine del III secolo
a.C. –, si diffuse di conseguenza un grande interesse nei confronti della
documentazione relativa all’appartenenza dei membri al proprio collegio 4,
mentre tramite la documentazione riguardante la sequenza delle portate che
caratterizzavano i pasti durante le assemblee ufficiali abbiamo già avuto modo di
conoscere un ulteriore interesse, accedendo cosí nello stesso tempo anche al piú
lungo frammento conosciuto di protocollo pontificale. Fu probabilmente il
pontefice massimo e console del 280, Tiberio Coruncanio, a dare il via nel 249 a
registrazioni progressive di questo tipo, e fu proprio lui ad aver presumibilmente
introdotto un servizio pubblico di consultazione legale. Inoltre nel 254, forse
come pontefice (maximus) di piú lunga durata, Coruncanio fu il primo plebeo e il
primo eletto nei comitia a diventare pontefice massimo 5.
I pontefici avevano già introdotto le registrazioni scritte poco prima del 300,
attraverso la fissazione per iscritto e la pubblicazione del calendario, ovvero la
lista dei giorni feriali e festivi (fasti), e forse già a partire da questo periodo essi
costituirono l’unico collegio sacerdotale ad avere i propri scribi, i quali a loro
volta erano figure cosí importanti da essere in seguito definite «pontefici
minori» 6. Gli altri collegi sacerdotali non svilupparono nulla di paragonabile a
questo. Affiggendo fuori dalla propria abitazione (e non dalla Regia, sede del
suo ufficio) delle tavolette di legno imbiancate, su cui erano riportati alcuni
estratti dai registri, il pontefice massimo sottolineava, mediante un vero e
proprio atto dimostrativo di pubblicazione, la sua rivendicazione di autorità che
si espresse ben presto nei conflitti con gli altri sacerdoti 7. Tutto ciò non diede
luogo tuttavia allo sviluppo di una dottrina pontificale né di uno ius pontificum 8.
27. Modello di fegato ovino in bronzo (12,6 × 7,6 × 6 cm) proveniente da Piacenza (II secolo a.C.).
28. Modello di fegato ovino in terracotta (14,6 × 14,6 cm) con iscrizioni cuneiformi, proveniente
probabilmente da Sippar, Iraq (c. 1900-1600 a.C.).
Le profezie di Vegoia, che nell’88 a.C. intervenne nei conflitti fra Roma e le
popolazioni italiche, potevano emergere e avere senso ed efficacia soltanto sullo
sfondo di un tale corpus di conoscenza e letteratura 20. Ad eccezione degli
Oracoli sibillini, i precedenti tentativi romani di dare autorità alle profezie scritte
o i testi in generale erano sempre stati problematici: questo valse per i carmina
Marciana, le profezie di Gneo Marcio o dei fratelli Marcii del tardo III secolo,
che sebbene contestati portarono tuttavia alla fondazione dei ludi Apollinares nel
212 21. Il pretore della città fu piú scettico nel caso dei libri pseudoepigrafi di
Numa, che furono «rinvenuti» nel 181. Il loro riferimento a Pitagora non riuscí a
impedire che venissero bruciati 22. I Libri sibillini rappresentarono un campo
testuale talmente vasto nella tarda repubblica che potevano tranquillamente fare
riferimento a se stessi, mentre non esistevano altri testi che avessero reso la
profezia scritta un fenomeno esegetico cosí come nell’Antico Testamento.
La serie di regole che nella forma di iscrizioni sul modello greco si potevano
incontrare anche nei santuari italici dalla tarda repubblica in avanti non forní
tuttavia nessuna base. Chi, come donatore oppure magistrato, pubblicizzò tali
norme, riferendosi falsamente a esse come leges sacrae, lo fece con l’intenzione
di spingere il comportamento degli utenti dei siti di culto al di là delle costrizioni
spaziali imposte dall’architettura e della stimolazione prodotta dalle immagini.
Queste serie di norme furono fondamentalmente di natura pragmatica, e anche in
età greca non si erano occupate della separazione fra regolazione religiosa e
profana 23. Ciò nonostante, i loro autori segnalarono la rivendicazione di poter
imporre con successo i limiti dell’attività religiosa, e specialmente nelle
situazioni in cui tali rivendicazioni dovettero essere negoziate nuovamente, come
nei primi anni successivi alla fondazione di una colonia o di una provincia,
questi testi divennero una componente importante di metacomunicazione, come
testimoniato in maniera convincente dal caso delle regole sul rituale funebre per
Germanico all’inizio del I secolo d.C. 24.
Già nel VI secolo a.C. i pensatori greci avevano formulato una critica
fondamentale contro le pratiche religiose, cosí come contro le narrazioni mitiche.
La filosofia greca della natura rappresentò infatti una prima forma di negazione
significativa del mito, nonostante continuasse ad avvalersi essa stessa di un
linguaggio marcatamente mitico per la formulazione delle proprie
argomentazioni. Principî differenti andarono a sostituire i molti attori divini, e
cosí per Talete di Mileto questo principio fu l’acqua, per Anassimene l’aria, per
Anassimandro l’«indefinibile». E ancora Senofane di Colofone, alla fine del VI
secolo a.C., giunse a formulare un’esplicita polemica contro i miti: «Omero ed
Esiodo hanno attribuito agli dèi tutto quanto presso gli uomini è oggetto di onta e
di biasimo: rubare, fare adulterio e ingannarsi reciprocamente». Ma la sua critica
si estese ben oltre le questioni relative alla moralità: «Ma i mortali credono che
gli dèi siano nati e che abbiano abito, linguaggio e aspetto come loro. Ma se i
buoi <e i cavalli> e i leoni avessero mani e potessero con le loro mani disegnare
e fare ciò appunto che gli uomini fanno, i cavalli disegnerebbero figure di dèi
simili ai cavalli e i buoi simili ai buoi, e farebbero corpi foggiati cosí come
<ciascuno> di loro è foggiato» 42. Non gli dèi, ma la terra e l’acqua divennero la
base di tutto, e il mare si rivelò sufficiente a spiegare la formazione delle nuvole,
dei venti e delle correnti.
A questo si aggiunsero le critiche degli storici, a cominciare da Ecateo di
Mileto, contemporaneo di Senofane. Egli affermò, senza tanti giri di parole, che i
racconti mitici erano molteplici e ridicoli, mentre Tucidide, nella sua storia della
guerra peloponnesiaca fra Atene e Sparta, alla fine del V secolo a.C., si spinse
anche oltre. Egli infatti espresse elevate dichiarazioni a proposito del suo utilizzo
del metodo storico, mettendolo a confronto con la tendenza propria dei poeti a
ricamare sopra i loro racconti perché, egli credeva, il loro piacere nel raccontare
una bella storia superava l’attenzione per la verità, e allo stesso tempo non esitò
ad accusare i suoi predecessori storiografi di cadere preda della stessa tendenza.
Insomma, questo intero repertorio di critiche doveva essere sufficiente a coprire
tutta l’epoca antica, fino ad arrivare poi all’età della polemica cristiana contro i
miti.
Sempre nel VI secolo a.C., tuttavia, si alzarono anche altre voci dal versante
filosofico nell’ambito della discussione sul mito, voci che cercarono di
dipingerlo e porlo sotto una luce piú favorevole rispetto a quanto era fino ad
allora accaduto. Teagene di Reggio aveva infatti letto e interpretato le lotte degli
dèi omerici come testimonianza del conflitto fra i vari elementi naturali, e cosí
Apollo, Elio ed Efesto rappresentavano il fuoco, Poseidone e Scamandro
l’acqua, Artemide la luna, Era l’aria, Atena era invece la ragione, Ares
l’irrazionalità, Afrodite l’amore, ed Ermes la parola. Questa forma di
interpretazione venne descritta come allegorica, poiché si credeva che il metodo
degli antichi narratori del mito fosse quello di sostituire sistematicamente agli
elementi e alle forze naturali i nomi delle divinità, mentre soltanto
successivamente lo stesso tipo di argomentazione venne estesa anche agli attori
umani presenti nella narrazione omerica 43.
Non ogni testo venne comunque affrontato e interpretato secondo questa
particolare modalità 44. I poemi epici di Esiodo e di Omero avevano chiaramente
raggiunto una dimensione altamente significativa alla fine del VI secolo a.C.,
tanto da non poter piú essere concepiti in maniera separata dal culto e
dall’autocomprensione di molti greci. In molte città queste opere erano
addirittura diventate testi in qualche modo canonici, finendo per costituire un
vero e proprio modello per le successive configurazioni mitiche. Si trattava di
testi che offrivano spunti per una forma di messa in ridicolo e per una critica, ma
comunque apparivano degni di difesa, e proprio i difensori del genere, attraverso
la tecnica dell’interpretazione allegorica, riuscirono a spingere ancora piú in là il
livello critico del significato. Non furono piú dunque le azioni dei personaggi, le
loro lotte e le loro battaglie a rappresentare l’aspetto piú importante dell’opera,
poiché dovevano essere subito messe in luce le contraddizioni, e gli elementi che
potevano risultare scabrosi dovevano essere condannati. Insomma, il poeta aveva
voluto dire realmente qualcosa d’altro, e questo secondo significato veniva
rivelato esplicitamente proprio dalla dimensione allegorica. I rappresentanti di
questa tendenza interpretativa spesso basavano le loro interpretazioni sulle
somiglianze di suono, mentre fu soltanto a partire dal III secolo a.C. che i filosofi
stoici presero a sviluppare il concetto di etimologia nella loro ricerca dell’origine
delle parole. Lo stoico Cornuto, alla fine del I secolo d.C., descrisse il suo
tentativo come una specie di missione di salvataggio. A conclusione del trattato
sulle considerazioni riguardanti l’insegnamento della teologia greca, egli infatti
scrisse: «Cosí, ormai, anche il resto dei racconti che appaiono tramandati in
forma mitologica riguardo agli dèi, possa tu, o fanciullo, ricondurlo agli elementi
illustrati a scopo esemplificativo, convinto che gli antichi non furono gente di
poco conto, bensí erano anche capaci di comprendere la natura del cosmo e ben
portati a filosofare su di essa attraverso simboli ed enigmi» 45.
Non tutti i critici furono tuttavia clementi come Cornuto. L’epicureo
Filodemo, per esempio, ospite degli aristocratici romani, nel I secolo a.C. aveva
fondamentalmente rifiutato l’idea che le stelle fossero delle divinità, sebbene
ammettesse che la confusione determinata dalla distanza e le condizioni di
osservazione degli dèi visibili soltanto attraverso il firmamento fossero
comunque spiegabili. La sua intenzione principale in ogni caso era quella di
attribuire maggiore legittimità persino a una prospettiva che risultava ancora cosí
confusa, invece che accordarla ai templi, che erano le abitazioni degli dèi
costruite da mani di uomini 46. Furono infatti proprio le strategie fondamentali
per la rappresentazione degli dèi a essere al centro della critica: i templi, le
immagini e soprattutto in Grecia i riti sacrificali 47. Qui i motivi della critica del
mito e della critica del rituale si fondevano.
3. Sistematizzazione.
3.3. «Religione».
1.1. Augusto.
Gaio Ottavio, il futuro Augusto, aveva diciotto anni quando Cesare venne
assassinato nel 44 a.C., e divenne quindi suo successore e suo figlio adottivo,
Gaius Iulius divi filius Caesar. Anche se i suoi generali riuscirono ad avere la
meglio contro gli avversari a Filippi, Nauloco e Azio, il suo intento costante era
quello di pensare ai piani di dominio sullo sfondo della sorte che era toccata a
Cesare. Augusto sembra aver gradualmente sviluppato l’idea secondo cui il
successo derivatogli dalla fine delle guerre civili e il consolidamento della sua
posizione personale non potessero essere perseguiti attraverso un ulteriore
sconvolgimento politico, ma piuttosto mediante la restaurazione della «causa
comune», della res publica, un programma politico che era già apparso come
slogan nei testi della guerra civile che appartenevano al Corpus Caesarianum 14.
Un lungo processo condusse alla creazione di una posizione di potere all’interno
della cornice di piú antichi uffici e norme, caratterizzati fino alla morte di
Augusto nel 14 d.C. da un’autorità informale oppure soltanto temporanea 15. Su
questo sfondo, la «restaurazione» apparve sia come un programma sia come una
soluzione di conflitto che in alcuni casi individuali condusse ripetutamente a
risultati sorprendenti. Allo stesso tempo, in considerazione dell’abbondanza di
tradizioni e tendenze a disposizione, le correlazioni con le linee di fondo che
stavano alla base dell’approccio di Varrone appaiono sorprendenti. Questo
orientamento verso un modello antiquario, che si rifà a quello greco definito
come classico, tradisce la natura radicale di quell’innovazione che si nasconde
dietro questa «restaurazione della libertà del bene pubblico» 16. Visto anche lo
stato relativamente buono in cui versano le fonti che abbiamo a disposizione per
la tarda repubblica, appare degno di nota il fatto che quanto viene rappresentato
come tradizione dagli attori nel circolo di Augusto, in molti casi non aveva in
realtà nessun antecedente, o comunque nessun antecedente che fosse simile a
quanto veniva allora proposto.
Augusto e i suoi contemporanei fecero senza dubbio un uso molto
consapevole della comunicazione religiosa in questo processo, ma nessuno degli
ambiti trattati veniva chiaramente definito come «religione». Nelle Res gestae,
scritte al termine della sua vita e promulgate nella forma di iscrizioni
monumentali in latino e greco – parti delle quali sono state preservate ad Ankara,
Antiochia e Apollonia –, Augusto parla dei suoi sacerdozi mentre enumera i suoi
uffici, dei voti e degli altari a lui dedicati sotto il titolo degli onori ricevuti, dei
templi costruiti e restaurati grazie alle spese affrontate con i denari provenienti
dalle proprie casse, e poi anche dei giochi e degli spettacoli teatrali da lui stesso
sponsorizzati 17.
Quando tuttavia si trattava di onori e spese che a Roma risultavano visibili,
insomma della comunicazione con la popolazione, e soprattutto quella urbana
della città, le pratiche religiose e le istituzioni offrivano di gran lunga il piú
ampio campo d’azione. Lasciando da parte le assemblee politiche e le loro
modeste infrastrutture del comitium e della curia, era principalmente l’azione
religiosa a costituire in linea generale il «dominio pubblico». Risulta chiaro dal
resoconto offerto da Augusto che l’incontrastato potere militare e il dominio
sull’impero costituivano i prerequisiti essenziali per il progetto augusteo, ed era
lí che le risorse finanziarie andavano ricercate, ed è per questo dunque che
parleremo della costruzione dell’impero e delle strategie religiose dei vincitori e
degli sconfitti nel prossimo capitolo.
1.2. Reti.
Si deve allora ritenere che il divi filius avesse in mente di perseguire scopi piú
ampi quando decise di riorganizzare il collegio sacerdotale che istituiva
collegamenti di natura mitica con Romolo, il quale, in quanto fondatore della
città, era a quel tempo una figura a cui Augusto era desideroso di associare la
propria persona, poiché sembrava che potesse facilmente rappresentare una
prefigurazione del suo ruolo 31. Furono poi probabilmente le critiche a cui venne
sottoposta la figura di Romolo nel suo ruolo di re durante l’età di Cesare ad
allontanarlo dall’idea di assumerlo come modello e prefigurazione di se stesso,
anche se restò una figura importante 32: quello di rex era infatti un concetto
diametralmente opposto a quello di libertà (libertas), come gli storici della tarda
repubblica che si appoggiavano alle teorie greche dello stato avevano dimostrato
a proposito della storia romana. Alla fine, nel gennaio del 27 a.C., i consiglieri di
Augusto riuscirono nel brillante stratagemma di attribuirgli l’epiteto onorifico di
augustus, un aggettivo che richiamava numerosi solenni riecheggiamenti di
natura religiosa (augur e augurium) ma risultava libero da riferimenti di natura
storica 33. Questo sarebbe poi diventato il suo nome proprio, e alla fine si sarebbe
trasformato nell’appellativo che indicava la carica piú alta nella nuova
monarchia romana.
Gli uffici sacerdotali non prevedevano alcun titolo onorifico, ma erano
obbligati all’azione, alla comunicazione religiosa, e in questo modo offrivano la
possibilità di una connessione all’interno di una rete che veniva supportata
dall’interazione regolare con gli altri membri della rete stessa. Come nel caso di
altri collegi, l’abitazione del magister degli Arvali, che era ogni anno diverso,
era spesso anche il luogo in cui si svolgevano incontri e rituali ufficiali 34, e
questo consentiva, e dunque definiva, i contatti fra gli individui, ovviamente
maschi, che erano membri di clan differenti. Questo poi riguardava non soltanto
quegli individui la cui elezione aveva consentito loro di ricoprire posizioni di
spicco all’interno della classe senatoriale, perché infatti già forse nel contesto
della reinterpretazione dei feziali il «figlio di dio» aveva mostrato una rinnovata
attenzione nei confronti dei Salii, formati da giovani aristocratici, che per la
prima volta venivano differenziati attraverso uno sdoppiamento in Salii Palatini
e Collini. La stessa attenzione venne mostrata anche nei confronti dei Luperci, di
cui facevano parte gli esponenti della classe equestre e che forse su iniziativa di
Cesare erano stati consolidati e ridotti di numero, e infine verso vari collegi
sacerdotali di comunità latine fittizie o piuttosto estinte i cui membri erano stati
nominati da Roma 35.
La riorganizzazione dei distretti di Roma in 14 regioni comprendenti 265
villaggi (vici), intrapresa dopo l’elezione di Augusto a pontefice massimo nel 12
a.C. e completata nel 7 a.C., consentí proprio ad Augusto di trasferire importanti
elementi di formazione della rete agli strati sociali chiaramente piú bassi.
Trattando i vicomagistri come sacerdoti, Augusto concesse loro di trovare i
rispettivi ruoli pubblici nella comunicazione religiosa con i lari locali. Non era
una forma di comunicazione gerarchica, né un iter burocratico quello che
avrebbe condotto i numerosi magistri (due per ogni vico), attraverso i curatores
regionali, fino alle magistrature piú elevate e alla fine ad Augusto, con cui il
legame era peraltro mantenuto attraverso la comunicazione religiosa. Era stato
proprio Augusto a trasferire il culto a queste comunità nel suo ruolo di pontefice
massimo, e le comunità lo ricordavano come un evento storico, conservandolo
nel conto delle epoche (che talvolta variava da villaggio a villaggio) nei sontuosi
altari di marmo, cosí come all’occasione nelle liste della successione delle
cariche 36. Se Augusto non era presente fisicamente come membro, lo era però
simbolicamente nella forma del genius Augusti, che faceva parte del culto dei
lari: presso un ampio numero di piccoli e sacralizzati siti che si trovavano in
corrispondenza dei crocevia (compita), Augusto stesso era visibile sopra le teste
dei suoi funzionari 37.
1.3. Rituali.
Fu forse la sensazione che non fosse piú necessario pensare secondo le regole
tradizionali che stavano alla base della costruzione dei templi, o anche dei
templi-teatro, come quello che aveva fatto costruire Pompeo, a spingere i
progettatori del programma di costruzione promosso da Augusto a riprendere e a
modificare radicalmente una diversa e antica forma di struttura di culto: mentre
infatti il tipico stile dell’altare circolare risultava poco adatto a porsi come
oggetto di rappresentazione e prestigio pubblico, soprattutto per via della sua
forma snella che sembra ricordare quella di una clessidra, gli altari-piattaforma
senza immagini di culto aprivano possibilità quasi illimitate di modificazione
della scala di grandezza. È con un altare (ara) di questo tipo che la «Fortuna del
ritorno» (Fortuna redux) venne ringraziata per il rientro di Augusto dalla Spagna
nel 19 a.C., e i giochi annuali degli Augustalia del 12 ottobre concentrarono
sempre piú l’attenzione su di essa. Quella che le raffigurazioni sulle monete ci
mostrano essere stata una struttura piuttosto modesta 64 venne superata
ampiamente dall’Ara Pacis Augustae, che venne commissionata dal senato, il
quale agiva in questo modo come attore collettivo (fig. 33). Le tre ali che
costituivano il piano dell’altare, al cui interno si accedeva mediante un totale di
sette scalini, erano alte piú di quattro metri, mentre la piattaforma stessa
dell’altare si estendeva all’interno di uno spazio che misurava otto metri per
nove, e che era definito da mura decorate da rilievi di marmo e interrotto
soltanto da due lati piú lunghi 65. La forma e il luogo di una successiva Ara
Numinis Augusti sono sconosciuti, ma devono comunque essere stati significativi
se quattro grandi collegi sacerdotali si trovarono ad agire lí nei giorni festivi 66.
Gli attori del periodo augusteo adottarono cosí i modelli degli altari greci come
quelli eretti a Samotracia, Priene, Magnesia sul Meandro, Efeso e ovviamente
Pergamo, che già da lungo tempo si erano diffusi in Italia. Un altare di tal tipo,
cosí delimitato, venne eretto nel II secolo a.C. a Rossano di Vaglio, forse come
santuario della federazione lucana sul territorio del successivo municipium di
Potenza 67. L’appropriazione di questo spazio da parte di Augusto e del senato si
rifaceva dunque a forme di sacralizzazione non romana, e l’innovazione
religiosa ancorò il potere del princeps in maniera piú solida allo spazio urbano.
3. Il raddoppiamento della religione.
3.1. Monete.
3.3. Testi.
Scrivendo durante il regno di Tiberio, vale a dire subito dopo l’età augustea,
Valerio Massimo collezionò «fatti e detti memorabili» setacciando un’enorme
quantità di letteratura storiografica tardorepubblicana e augustea, e offrendo una
disposizione strutturale topica al posto di una narrazione continua riuscí in
questo modo a rendere facilmente accessibili i «documenti» relativi ai piú
antichi uomini virtuosi 89. Valerio fonda la sua autorità sulle abilità dello
storiografo, non su una presa di posizione morale, e attribuisce il secondo posto
in ogni categoria agli esempi stranieri, ma «i fatti e i detti memorabili dei
Romani e dei popoli stranieri», per citare l’incipit del suo libro, sono tutti
documentati in una serie che comprende una storia interna e una relativa a ciò
che proveniva dall’esterno, dunque straniera 90. Per l’impero del primo principato
sarà dunque sufficiente soltanto una storia universale, e Valerio la dedica a
Tiberio, «nelle cui mani il consenso degli uomini e degli dèi volle che fosse
riposta la suprema direzione del mare e della terra» 91.
Dal punto di vista degli osservatori della tarda repubblica e della prima età
imperiale, le complessità del divino erano materia di conoscenza, come ho avuto
modo di mostrare sopra, e la conoscenza costituiva la base per sfruttare con
successo le risorse religiose offerte dal divino sotto forma di numerose divinità
propizie. Gli dèi erano presenti come attori riguardo ai quali poteva svilupparsi
una certa conoscenza, e la loro presenza persisteva nella forma delle narrazioni,
ma potevano anche essere moltiplicati, meglio individuati, oppure potevano
ricevere una definizione maggiore attraverso la possibilità di essere
«conosciuti» 92.
Nel primo capitolo del primo libro Valerio presenta una selezione, e
attraverso le sue scelte costruisce la sua visione della religione. La selezione di
Valerio costituisce la base di molti resoconti moderni della religione romana di
età repubblicana, ma come selezione appare comunque lontana dall’essere
tradizionale e consequenziale. Essa racconta di regole religiose che hanno la
precedenza su qualsiasi altra cosa, e di sacerdoti pubblici che costituiscono il
fulcro della religione in virtú del loro controllo totale della conoscenza. Tuttavia,
una tale conoscenza della religione non costituiva semplicemente un’impresa di
tipo intellettuale. Augusto bruciò duemila libri di oracoli perché contenevano
una conoscenza di tipo divinatorio 93. La conoscenza astrologica fu intensamente
sfruttata dallo stesso imperatore Tiberio, ricorrendo a specialisti come Scribonio
e Tiberio Claudio Trasillo 94. La conoscenza divinatoria però era anche
potenzialmente pericolosa 95. Nel 17 d.C., i mathematici furono espulsi da Roma
insieme ai giudei 96, e alcuni erano stati giustiziati l’anno precedente perché
sospettati di essere coinvolti in una supposta congiura 97. Secondo Svetonio,
Tiberio pretendeva che l’haruspex venisse consultato soltanto in pubblico e
davanti a testimoni 98.
Per Valerio, la religione non era un codice da imparare a memoria, né la
tradizione, o «consuetudine antica», era una risorsa fissa. Al contrario, la
narrazione storica ed esemplare dimostrò che la conoscenza religiosa era una
questione pratica, codificata nelle azioni di uomini virtuosi. Valerio condivideva
con il suo contemporaneo Velleio Patercolo 99 la convinzione fondamentale che
ci fosse una continuità nella storia di Roma, che invece noi tendiamo a dividere
in maniera netta in «repubblica» e «impero». Quella continuità poteva essere
compresa e delimitata focalizzandosi sulle persone e le virtú piú che sulle regole
esplicite e gli uffici, e la sua fonte principale fu costituita prima da quelle
pratiche religiose che in parte risalivano fino alla fondazione della città, come
stabilisce Valerio nel caso degli auspici 100. Un passato composto da valori venne
concretizzato nei «documenti» e nelle «lezioni impartite», universalizzato nelle
narrazioni che provenivano sia dall’interno sia da fuori, che erano insomma
straniere, profilato attraverso poche storie contrastanti, e infine naturalizzato e
immunizzato dagli effetti misteriosi della natura stessa, dai miracoli 101. Come
Varrone, Valerio fornisce una lista di dèi, ma la presenta nella forma di racconto
storico. Cominciando con le due storie su Castore e Polluce 102, Valerio elenca
Esculapio, Giunone, Fortuna, Silvano, Marte, i penati, il Divo Giulio e Apollo.
Questa era una religione basata sulla conoscenza e su persone che aderivano a
una conoscenza in grado di affrontare la straordinaria sfida della presenza divina.
La religione di Valerio è incentrata sull’«imperatore come dio vivente» 103.
Castore e Polluce dovevano essere stati preminenti nell’autorappresentazione di
Tiberio; egli aveva infatti dedicato loro un tempio già nel 6 d.C. 104. Valerio
racconta una religione che, incentrata sulla città di Roma, ma non piú confinata a
essa, offre una prova storica scrupolosamente ordinata dei benefici e dei
vantaggi della divinizzazione. La religione è basata sulle regole, controllata dai
sacerdoti, ma soprattutto è soggetta a un’essenza virtuosa esemplificata e
deificata nella persona dell’imperatore vivente. L’attore individuale è
scarsamente visibile, tranne che come lettore, ma i testi letterari resero
accessibile all’individuo sia il cosmo culturale sia quello naturale, ed è proprio
su questi individui che occorre ora puntare i riflettori.
Capitolo ottavo
Religione vissuta (I-II secolo d.C.)
2. Casa e famiglia.
2.1. Combinazioni.
4.2. Giardini.
36. Ricostruzione di un gruppo di statue nel giardino della Casa degli Amorini dorati a Pompei.
Tuttavia, il desiderio di questa esperienza, che fra i membri piú ricchi della
società era diventato quasi un fenomeno di massa, poteva essere soddisfatto
attraverso l’appropriato allestimento di giardini privati. I progettatori dei giardini
romani perseguirono esplicitamente l’imitazione dei boschi sacri, e l’utilizzo di
tali giardini per la comunicazione religiosa nel contesto dei rituali festivi non era
mera fantasia poetica 82. Gli abitanti di Pompei adibirono un quinto dei loro
santuari domestici all’allestimento di giardini circondati da mura o anche da un
peristilio 83. Gli ultimi abitanti della Casa degli Amorini dorati (VI,16,7), forse lo
stesso Gneo Poppeo Abito (Habitus), installarono nel giardino di circa 800 metri
quadrati due tempietti alti un paio di metri, decorati con delle statuette, fra cui
una di Horus, e un altare di pietra mobile alto 57 centimetri (fig. 36). Inoltre i
muri erano decorati da molti rilievi simboleggianti divinità e da maschere che
rappresentavano Sileno, le baccanti e Dioniso, figure presenti anche in forma di
erme insieme ad altre erme-ritratto o con teste di bambini. Il giardino, dominato
da una vasca centrale lunga tre metri con una fontana, era completato da statue
di marmo di varie dimensioni, alcune di animali 84. A dispetto dell’elevato
numero di oggetti, Habitus non volle realizzare una raccolta enciclopedica: gli
elementi sacralizzanti avevano infatti pochi distinti punti focali, sia sul piano
spaziale sia su quello tematico. Questo cittadino benestante creò l’ambiente
desiderato allestendo un mondo dominato dall’immaginario dionisiaco, con tutte
le associazioni di natura orgiastica, alcolica e sessuale (fig. 37), inserendo in
questo contesto specifiche pratiche religiose con Horus e Fortuna da una parte, e
dall’altra Giove, Giunone, Minerva e Mercurio, insieme ai lari con la veste
romana, onnipresenti a Pompei 85.
37. Fauno e Baccante in una pittura muraria proveniente dalla Casa dei Dioscuri a Pompei.
In questo modo Habitus faceva riferimento a un mondo che dalla sua casa
arrivava fino a Roma, e che era evidentemente romano in tutte le sue
sfaccettature. Con la presenza di Mercurio, non trascurò di sottolineare la
dimensione mercantile, ma contemporaneamente si riferiva a un mondo che, in
relazione al suo benessere personale, era piú grande, piú opaco e imprevedibile
persino per lui che era un mercante. Allo stesso tempo, tuttavia, una forma
specifica di esperienza mondana poteva essere facilmente realizzata
nell’immediato sia dallo stesso Habitus sia almeno da qualche altro abitante
della casa, mediante l’aiuto di maschere e l’allestimento del giardino, con il vino
e il sesso. Il fatto che Habitus citasse un rilievo dedicatorio greco dimostra che la
sua concezione di questo mondo direttamente esperienziale era quella di uno
spazio sacralizzato 86, che incorporava la garanzia della presenza degli attori non
innegabilmente plausibili, gli dèi e i satiri, Sileno e le baccanti. Ma Habitus non
era un caso isolato 87: chiunque volesse erigere un altare decorato con dei rilievi,
pensava innanzitutto al proprio giardino come luogo ideale per ospitarlo 88.
La creazione di spazi per questo tipo di esperienze e la possibilità di viverle
avevano bisogno di supporto 89; per entrambi i processi c’erano testi appropriati,
che potevano essere letti ad alta voce o cantati. Un’intera categoria di poesie o
canti di argomento bucolico si assunse cosí il ruolo di facilitare le intense
esperienze religiose nei contesti rurali. Nel III secolo a.C. il poeta greco Teocrito,
che visse nella città di Cos e nelle metropoli di Siracusa e Alessandria, con i suoi
Idilli fondò un genere letterario nel quale si cimentarono i poeti romani di età
augustea e dell’epoca successiva con la produzione di singoli componimenti
(Tibullo, Properzio, Ovidio) o di interi libri di poesie (Virgilio, Calpurnio
Siculo). Il giardino come spazio esperienziale poteva poi essere ulteriormente
potenziato e sacralizzato ricorrendo a fiori profumati, bruciando l’incenso
oppure legni aromatici – e per questo c’era ovviamente un altare apposito.
L’esperienza religiosa in un luogo simile era sicuramente meno dispendiosa e
piú contenuta rispetto al viaggio verso i grandi santuari, e poteva svolgersi anche
durante i giorni di pioggia, ma senza il necessario sfondo culturale non era un
mondo cosí semplice da comprendere. I «sacri idilli», paesaggi dipinti, fornivano
il contesto. In essi i pittori ritraevano ambienti rurali che si combinavano con
antichi luoghi di culto (spesso contrassegnati come tali dalla rovina che
caratterizzava il loro stato) (fig. 38), con statue autonome o erme, padiglioni
inghirlandati, e occasionalmente contadini danzanti e doni votivi: queste
immagini si incontravano ovunque, nella villa Farnesina a Roma, a Boscotrecase
o nella villa di Poppea a Oplonti. Le botteghe dei pittori 90 (e degli scultori, nel
caso dei rilievi) riproducevano i luoghi descritti negli idilli poetici, persino
eccedendo i limiti della riproduzione che i giardini piú estesi consentivano.
Queste immagini esistevano in parallelo ai concetti dionisiaci dipinti, cosí come
venivano allestiti negli spazi creati all’interno di altre ville romane e
pompeiane 91. A questi si aggiungevano poi i motivi dionisiaci dipinti sui piatti e
il vasellame, motivi che non si riferivano soltanto a Dioniso, ma che fornivano
comunque un contributo all’elemento tipico del culto dionisiaco del mangiare e
del bere 92. Le immagini utilizzate non erano meramente decorative, ma
costituivano una parte integrante dell’agire dionisiaco, anche se il loro effetto
veniva sollecitato dai riferimenti corrispondenti che provenivano da altri oggetti,
come i gesti corporei o la musica di un liuto, diventando cosí parte di
un’atmosfera generale che era anche emozionale. In questo modo il giardino,
come spazio per la comunicazione religiosa, era parte di un’intera struttura piú
estesa, completata nelle stanze da ricevimento da decorazioni, dipinti e oggetti.
Attraverso un’esperienza che veniva di frequente ripetuta, e la sacralizzazione di
particolari angoli e oggetti, questo insieme offriva un invito costante a una
rinnovata comunicazione ed esperienza religiosa 93.
38. Pittura muraria in quarto stile a Pompei: scena egiziana con pigmei e una donna presso un altare posto
di fronte a un tempio; sullo sfondo, una torre.
4.3. Tombe.
I giardini non erano progettati soltanto per abbellire le case, o come parchi
extracittadini. Almeno in Italia, chiunque progettasse una tomba per se stesso,
oppure per un membro defunto della propria famiglia, poteva pensare di
collocarla all’interno di un giardino o di costruirvene uno intorno 94; anche senza
giardino, tuttavia, le tombe erano tenute in elevato riguardo in quanto luoghi
adibiti all’esperienza e all’attività religiose 95. L’enorme rilevanza di cui
godevano questi spazi particolari richiede dunque un’analisi esaustiva.
Ciò che valeva per centinaia di migliaia di persone all’interno di una
metropoli come Roma, valeva ugualmente per i proprietari di grandi giardini
urbani, cosí come per le piccole città: i corpi dei defunti dovevano essere
trasportati fuori dai confini cittadini, e anche la cremazione o la sepoltura
dovevano essere effettuate fuori dal perimetro del centro abitato. Questo era un
obbligo, che a Roma divenne valido sicuramente a partire dal V secolo a.C.,
mentre venne regolato legalmente in alcune città campane nella prima età
imperiale 96. Tutto il resto costituiva soltanto un’opzione. In principio, le regole
che definivano il trattamento dei familiari defunti consentivano un utilizzo
esaustivo di tutte quelle opportunità per la distinzione, l’autodefinizione e
l’autoaffermazione che abbiamo avuto modo di osservare a proposito della prima
età del Ferro. Queste opportunità, combinate con la pressione sociale di
adempiere agli «obblighi» nei confronti dei defunti, erano diventate sicuramente
ordinarie all’interno delle classi sociali medio-alte, ma se ne erano appropriate
anche le strutture di gruppi quasi-familiari fra gli schiavi meglio collocati
socialmente, specialmente fra gli schiavi liberati. Non conosciamo quale
percentuale dell’intera popolazione fosse inclusa nella categoria, e quante
persone fossero state destinate a quelli che Varrone, nella seconda metà del I
secolo a.C., descriveva come puticuli, «piccole buche», sull’Esquilino 97. Ancora
nel 200 d.C., in caso di epidemie o altre catastrofi che producevano un numero
elevato di morti, la sepoltura comune veniva adottata anche per i membri
dell’élite 98.
Sia che la tomba fosse nuova, di famiglia o di una collettività, il legame con il
luogo in cui si trovava veniva rivelato pubblicamente soltanto quando i familiari
del defunto componevano il corteo funebre dalla casa al luogo in cui si sarebbe
compiuta la cremazione o la sepoltura. Il crematorio (ustrinum) faceva
solitamente parte dei servizi offerti dalla città; a Pozzuoli faceva parte di una
serie di onoranze funebri offerte da un’attività monopolistica, che affittava anche
l’altare e lo spazio apposito per l’esecuzione dei riti (chalcidium). La rimozione
della salma poteva essere eseguita di notte, per esempio nel caso dei bambini,
oppure nel caso degli schiavi giustiziati poteva essere praticata, secondo una
modalità umiliante, attraverso l’utilizzo di un gancio. Si trattava comunque
normalmente della parte piú visibile di un processo che risultava altamente
ritualizzato, e in quanto tale, in termini anche del suo contenuto, facilmente
riconoscibile sia dagli osservatori sia dai partecipanti. Nel caso di membri
dell’élite politica, che nel I secolo a.C. comprendeva anche le donne, la
processione prevedeva anche una sosta al Foro per la recita di un’orazione
funebre 99. La famiglia provvedeva anche alle statue viventi che
accompagnavano il corteo: si trattava di attori che indossavano le maschere di
importanti antenati che erano stati a loro volta onorati con delle statue pubbliche.
Attraverso l’adozione di questi strumenti, i discendenti creavano una sorta di
costruzione pubblicamente visibile delle loro famiglie e della loro posizione
nella società che perdurò fino alla prima età imperiale 100.
Ma parenti e amici del defunto in che modo mettevano in rilievo la situazione
eccezionale rappresentata dalla morte? Da un lato trascurando in maniera
ostentata la loro immagine esteriore, lasciando dunque incolti i capelli (o
comunque evitando di decorarli), vestendo in modo trasandato o indossando
abiti «consunti» (o comunque di colore scuro), insomma rinunciando a tutti
quegli elementi che permettevano loro di distinguersi dalle classi sociali inferiori
– qualora si trattasse di persone provenienti invece dalle classi sociali piú
elevate 101. Allo stesso tempo, tuttavia, c’era il desiderio di non perdere
l’opportunità dell’esposizione pubblica che un rituale come quello del pianto
funebre poteva offrire, in modo da mettere in mostra il proprio status personale e
il prestigio della famiglia o del gruppo di appartenenza. Di conseguenza, il
defunto diventava lo strumento che consentiva di trasmettere questo messaggio.
Le Leggi delle XII tavole, presumibilmente la piú antica raccolta di leggi a
Roma, che è stata datata al V secolo a.C., avevano già proibito l’utilizzo di piú di
tre ricinia (grandi scialli) e di una piccola tunica color porpora, probabilmente
per il defunto 102. Anche il pianto rituale costituiva un’opportunità per esporsi in
maniera consistente. In questo periodo, l’elogio di un membro defunto della
classe senatoriale non doveva essere intonato da giovani uomini che
appartenevano al suo stesso gruppo sociale, ma da donne che cantavano
intonando una sorta di lamento, anche se, come nel caso dell’orazione funebre, si
poteva raggiungere una qualità di esecuzione superiore ricorrendo a esecutori
professionisti. Sempre nelle XII tavole è possibile osservare come la classe
senatoriale avesse già tentato di limitare l’ostentazione da parte delle famiglie in
occasione dei funerali fissando come limite massimo quello di dieci flautisti 103.
Questa forma di limitazione, insomma, costituí l’occasione per mettere in campo
una costante interazione fra controllo ed elusione.
39. Tomba del fornaio Eurisace collocata esternamente alla Porta Maggiore a Roma (seconda metà del I
secolo a.C.).
Il soggetto – anche di sesso femminile, con frequenza via via piú significativa
– entrava in relazione con il proprio sé in qualità di futuro defunto, configurando
una pratica culturale che sebbene peculiare godette di larga popolarità 130. Questo
non significa che l’attore non riconoscesse la propria posizione nell’ambito delle
relazioni familiari, come madre o moglie, come figlio o padre 131, anzi l’uso
frequente del dativo nelle iscrizioni funerarie – «per il tal dei tali» – implicava
l’esistenza di un soggetto anche se questa persona non veniva esplicitamente
nominata. Gli autori di questi progetti di costruzione durante gli anni finali della
repubblica, e di molte altre tombe successive, agivano abbastanza chiaramente
con l’intenzione che il defunto che era stato seppellito (e poteva trattarsi dello
stesso autore del progetto, come nel caso prima citato del mastro fornaio
Eurisace) dovesse rimanere socialmente presente anche dopo la morte,
portandolo dunque in maniera inequivocabile all’interno dell’ambito circoscritto
della memoria sociale, e facendo sí che mediante un’iscrizione, una statua o un
ritratto la sua presenza perdurasse ben oltre la memoria di coloro che erano
presenti alla celebrazione 132. Nel caso di una tomba di famiglia costruita se vivo,
l’autore dell’iscrizione entrava in una modalità di comunicazione specificamente
religiosa con coloro che dovevano ancora morire o che erano morti ormai da
tempo, come se egli fosse il soggetto di un’iscrizione funeraria scritta da qualcun
altro. In questo modo aveva l’opportunità di definire se stesso, configurandosi
socialmente o presentandosi come cittadino oppure migrante, proprietario
terriero (anche se si trattava di una tomba molto piccola) oppure benefattore.
42. Colombario di Pomponio Hylas nei pressi di Porta Latina sulla via Appia, Roma (I secolo d.C.).
Beneficiari particolari di questa nuova tecnica culturale 133 furono coloro il cui
status sociale inferiore impediva di impiegare altri strumenti per articolare o
rappresentare se stessi, e cosí nella modificata sfera pubblica fuori dai confini
della città essi furono in grado di appropriarsi impunemente delle tecniche
utilizzate dall’élite 134. Soprattutto gli schiavi liberati celebrarono, attraverso il
recupero della libertà, la possibilità di libera disposizione dei propri corpi e di
quelli dei propri familiari, che per la prima volta rappresentavano con certezza
una famiglia, e dunque ora anche queste persone avevano la possibilità di
presentarsi a pieno titolo come uomini nelle iscrizioni funerarie e nei ritratti 135.
Ma anche gli schiavi, insieme ai meno abbienti, avevano formato delle
associazioni che consentivano loro di mantenere delle relazioni e di poter godere
di occasionali pasti condivisi e di celebrazioni, e anche loro utilizzarono i fondi
dei patroni, cosí come i propri, per realizzare delle tombe che garantissero a se
stessi e alle loro grandi famiglie spazi interni in cui poter praticare le loro forme
particolari di esperienza religiosa. Qui nei columbaria, spazi sotterranei
caratterizzati da scompartimenti simili a delle colombaie, essi sembrano aver
creato nell’uniformità delle nicchie in cui erano riposte le urne un grado di
uguaglianza sociale che solo in quel contesto poteva trovarsi espresso, non
altrove (figg. 41-42) 136. In un caso estremo si era giunti ad avere a disposizione
1800 posti, tutti occupati 137.
Se le iscrizioni funerarie romane e i progetti di costruzione di tombe
divennero strumenti di autorappresentazione, a partire dalla stessa Roma con le
sue specifiche configurazioni legali, sociali e spaziali, questo non significò
tuttavia che la tomba non potesse costituire anche la scena di intense emozioni.
Soltanto raramente coloro che erano coinvolti espressero in maniera cosí chiara
questa condizione come lo fece invece uno dei due amanti di Allia Potestas, una
donna che morí probabilmente nel II secolo d.C. Egli non soltanto indossava un
anello con l’immagine della sua amata ormai defunta, ma descrisse sia il suo
corpo sia il dolore che provava per questa perdita in una poesia profondamente
commovente 138. Allo stesso modo, anche i figli che erano morti presto potevano
suscitare nei genitori tentativi simili di preservare la loro memoria sociale contro
il sentimento stesso della perdita 139.
Le sepolture dei bambini in special modo sembrano aver fornito uno stimolo
consistente per la creazione di lussuose, e allo stesso tempo presumibilmente piú
intime, forme di sepoltura dei corpi nella città di Roma, alla fine del I secolo d.C.
I primi sarcofagi in pietra – dobbiamo considerare qui anche i modelli in legno o
terracotta che non si sono conservati – che vennero commissionati a Roma erano
stati progettati per accogliere i bambini, e questo accadde secondo una frequenza
molto piú elevata rispetto a quanto sarebbe poi accaduto nel periodo
successivo 140. Chiunque desiderasse utilizzare dei sarcofagi per le sepolture – se
ne sono conservati fino a oggi circa 15 000 esemplari – dalla metà del II secolo
fino a circa la fine del III secolo d.C. aveva a disposizione un mercato
sovraregionale che abbracciava tutto l’impero romano (fig. 43) 141, e questo
produsse un’enorme varietà nell’interazione fra importatori, fornitori locali e
clienti. Al contrario, i committenti dei sarcofagi etruschi in terracotta, che nel IV
secolo a.C. potevano offrire rappresentazioni individuali e ricche di pathos,
comprese le immagini di coppie sposate sul coperchio del sarcofago stesso,
ancora fino al I secolo potevano contare su un mercato che era di dimensione
piuttosto regionale 142. L’attenzione riservata ai ritratti consentí ai progettatori dei
sarcofagi di raggiungere un elevato grado di individualizzazione anche senza
ricorrere alle iscrizioni 143, mentre una selezione di soggetti mitici per ulteriori
rilievi di decorazione poteva contribuire a rafforzare in maniera piú
considerevole questo effetto 144.
43. Sarcofago in marmo proveniente da Roma raffigurante motivi biblici; al centro, Giona che sta per essere
ingoiato (III secolo d.C.).
5.1. I lari.
Se per molti la comunicazione con i manes – a partire dagli anni finali della
repubblica definiti come di manes, in quanto classificati come divinità – costituí
l’espressione dell’agire religioso piú fermamente ancorato alla vita quotidiana
fuori dalla casa e persino dalla città, al contrario la comunicazione religiosa
all’interno dell’ambiente domestico era quella con i lares. Le concezioni
coinvolte in questo processo risultavano similmente vaghe, tanto che le forme
del duale e del plurale si alternavano allegramente con la forma singolare lar, di
frequente interpretata piú come un titolo generico in una ontologia complessa,
collocata da qualche parte fra gli dèi, le ninfe, gli eroi, i demoni, i mani e i
penati. Tra la fine del III e l’inizio del II secolo a.C. Plauto, nel prologo
dell’Aulularia, profila un lar familiaris che dimora nel focolaio domestico e che
di conseguenza agisce come se fosse un superio che veglia sulla famiglia.
Duecento anni piú tardi un visitatore greco a Roma, Dionigi di Alicarnasso, mise
insieme l’attore prolifico nel cuore del palazzo reale romano e i lares Compitales
celebrati nelle strade di Roma, concependoli dunque come eroi legati alla
dimensione della casa ma venerati al suo esterno 166. Ancora 400 anni dopo, il
commentatore di Virgilio, Servio, ricostruí il culto dei lari come un’espressione
della venerazione degli antenati che risale a una fase anteriore al divieto di
sepoltura in casa, e da una prospettiva storica questa è forse l’ipotesi piú
plausibile per il culto domestico: i lares e i manes come il risultato di una
separazione forzata fra la casa e la tomba come luoghi per la comunicazione con
i morti 167.
44. Pittura muraria in due registri a Pompei: sopra, due giovani uomini in tunica affiancano una scena
rituale dove un genius con cornucopia sparge una libagione sull’altare (al posto del maggiordomo); sotto,
due serpenti ai lati dell’altare.
45. Il cosiddetto fregio dei Vicomagistri raffigurante la consegna delle statuette dei lares (c. 25-50 d.C.).
Nella Roma antica non c’era religion privée né «religione domestica» 178. Al
contrario, il tipo di comunicazione che in questo libro viene considerata come
religione era in primo luogo il risultato di una rete di strategie pratiche,
esperienze e concezioni, che comprendeva anche atti di istituzionalizzazione e
segni condivisi che venivano utilizzati in spazi sociali differenti o che già
strutturavano la comunicazione. Questi segni e queste strategie dovevano essere
appresi e applicati a spazi e situazioni costantemente nuovi, necessitando in
questo senso di essere ulteriormente sviluppati, ma soprattutto dovevano porsi in
confronto con la comunicazione religiosa praticata da altri. La competenza
religiosa, che comprendeva conoscenza, esperienza e anche coraggio e volontà
di sperimentare, spingeva le persone che la possedevano verso e attraverso spazi
differenti, e tali viaggi o trasferimenti, fughe o deportazioni furono
presumibilmente motivati soltanto di rado da preoccupazioni di natura religiosa,
mentre gli spazi in cui queste persone vennero condotte erano in varia misura, e
tramite l’agire di attori diversi, già occupati da segni e azioni religiose.
Nelle grandi città dell’età imperiale e nelle metropoli la strada stessa era
concepita come una casa che comprendeva stanze diverse, costituendo per molti
lo spazio vitale primario. Tuttavia, i pochi abitanti che furono in grado di
configurare attivamente le caratteristiche architettoniche e l’arredamento delle
loro case crearono un’«infrastruttura» che poté essere utilizzata anche da altri in
una varietà di modi differenti. Quanto abbiamo potuto vedere dall’esempio del
giardino può essere applicato anche agli spazi interni. L’illuminazione aveva una
parte importante, in riferimento non soltanto alla scelta di quali spazi illuminare
e utilizzare, ma anche a quali elementi spaziali, se decorazioni parietali oppure
pezzi dell’arredamento, posizionare in modo da finire sotto l’effetto della luce.
Le stesse lampade divennero strumenti di comunicazione religiosa di
prim’ordine (fig. 46): le decorazioni scultoree montate attorno al lucignolo delle
lampade in bronzo o in terracotta proiettavano ombre corrispondenti grazie
all’effetto prodotto dalla luce 179. Ma la lampada stessa era illuminata, e metteva
in mostra le figure di divinità che decoravano la sua apertura in cima, in
corrispondenza della fiamma 180. Queste figure, insieme a motivi diversi come le
scene di circo o quelle erotiche, divennero veri e propri «catalizzatori
dell’attenzione», stimolando la vista e dando all’osservatore, come veri e propri
occhi che irradiavano luce, la sensazione di essere osservato. Molte opzioni
erano a disposizione ogni giorno, e molte esperienze erano di conseguenza
possibili.
46. Lampada a olio, età imperiale. Cibele sul suo trono affiancata da due leoni.
Lo stesso vale per un altro strumento religioso di centrale importanza: l’altare
(figg. 47-48). L’elegante, spesso anche riccamente decorato e snello altare
italico, e forse anche il suo mobile e pieghevole equivalente in bronzo, aveva il
suo posto specifico nel giardino 181, e veniva utilizzato come un segno
inequivocabile di comunicazione con una presenza che non era altrimenti
immediatamente visibile agli occhi, sia che si trattasse di «dèi» sia invece di
defunti. Il suo utilizzo era impensabile senza un fuoco o una libagione, come
richiedeva la forma stessa della superficie superiore. Tuttavia, non si trattava
puramente di un oggetto strumentale: essendo decorato con raffigurazioni di
procedure rituali e altri strumenti e materiali utilizzati a tale scopo, si poneva
esso stesso come un atto di esecuzione del rituale e di comunicazione religiosa.
Poteva inoltre essere attivato ulteriormente con il semplice posizionamento di
una lampada, e con un minimo di canto o recitato. L’effetto poteva essere
rinforzato appoggiandovi sopra pani di diversa forma, gusto e profumo, e una
gran varietà di fiori.
47. Pittura muraria in quarto stile raffigurante il sacrificio di una cerva, proveniente dalla Casa dei Vettii a
Pompei.
48. Lampada a olio in terracotta (10,5 × 8,9 × 3 cm) raffigurante un uomo con mantello (sagum) che si
avvicina a un altare ardente seguito da una persona col capo coperto (I secolo d.C.).
Era sempre possibile fare di piú, ma raramente era necessario. Ciò valeva per
la casa, per gli angoli delle strade, per il tempio e per le tombe. La semplice
rappresentazione di un toro poteva essere sufficiente, perché un’immagine non
costava nulla, e gli dèi in questo modo venivano certamente ingannati, anche se
lasciavano intendere talvolta agli uomini di essersi accorti dell’inganno. I cani,
d’altra parte, venivano sacrificati piú spesso di quanto fosse documentato o
comunque riferito 182. L’approvvigionamento di carne costituí comunque un
aspetto marginale della pratica religiosa romana, poiché il pasto non era
consumato insieme agli dèi 183, ma d’altra parte, provvedere a portate di carne
come strumento per ottenere e attribuire prestigio, nella forma di una «liturgia»,
era un aspetto del rituale tenuto in alta considerazione e particolarmente
stimato 184.
Le strategie praticate nelle case (o nelle strade) potevano essere utilizzate
anche negli spazi istituzionali progettati per la comunicazione religiosa, come
l’area in cui si trovava il tempio e anche il tempio stesso. Se i graffiti erano
particolarmente graditi nelle case, nella forma dell’espressione entusiasta di
qualche ospite invitato, questa minore ma comunque durevole forma di
comunicazione linguistica poteva esercitare un ruolo considerevole anche
all’interno dei recinti che delimitavano l’area sacra del tempio. Fu proprio
quanto si verificò a Dura Europos, nella parte orientale dell’impero romano. Qui,
nei templi e negli edifici in cui si tenevano le assemblee dei giudei, in cui si
riunivano i seguaci di Cristo e coloro che veneravano invece Mitra, gli
utilizzatori del luogo religioso si sforzavano di perpetuare se stessi nel luogo piú
vicino possibile al focus della comunicazione religiosa, dunque vicino
all’immagine di culto, sui dipinti parietali o nei corridoi, con la richiesta di
«commemorazione» o di «benedizione» 185, e in questo modo si appropriavano
anche dei significanti bi-o tridimensionali della comunicazione religiosa che
appartenevano ad altri. Ovviamente, gli altari sia di grandi sia di piccole
dimensioni, insieme a un crescente numero di lampade nella forma di offerte,
continuarono a esercitare un ruolo significativo in età imperiale, a discapito di
altre deposizioni 186.
Ma la comunicazione religiosa poteva essere anche molto piú intima.
Laddove i potenti, gli Augusti, utilizzavano sontuosi strumenti nella loro
comunicazione con un dio personale che garantiva loro protezione, molti altri al
contrario raggiunsero lo stesso fine mediante l’uso di amuleti fatti di pasta di
vetro o di pietra incisa, o di gioielli 187 che combinavano la conoscenza,
tramandata per tradizione, delle efficaci proprietà delle pietre con le invocazioni
figurative o testuali agli attori sovrumani nel loro ruolo di protettori (fig. 49) 188.
Questo uso poteva essere continuativo, o limitato a un’occasione particolare, ad
esempio in caso di un problema ginecologico 189. Anche questi oggetti venivano
portati al tempio 190 per integrare tale luogo nella rete della comunicazione
religiosa della persona che li aveva indossati.
E ancora, a dispetto dei pochi membri degli strati piú elevati della società che
gareggiavano con i vescovi nel V e VI secolo d.C., con le stanze delle loro ville
che riproducevano lo stile delle basiliche e le libere realizzazioni
dell’architettura ecclesiastica nella forma di cappelle private 191, le tombe
costituirono per la maggior parte delle persone il luogo in cui la configurazione
della comunicazione religiosa poteva raggiungere il livello di maggiore
individualità. Nel lungo periodo, con il culto dei martiri e delle reliquie, proprio i
sepolcri si avviarono a diventare i luoghi piú importanti per l’innovazione nelle
chiese cristiane fino alla prima età moderna.
Le tombe furono anche un luogo privilegiato dove deporre preghiere, per
chiedere agli attori sovrumani la restaurazione di una giustizia che non poteva
piú essere garantita dalle relazioni di potere nella società 192. Proprio qui, dove la
comunicazione religiosa scaturiva da una condizione di soggezione che non
poteva essere altrimenti alterata, le persone bisognose mettevano in campo il
loro intero bagaglio culturale, le loro abilità retoriche e letterarie e qualsiasi
frammento di conoscenza istituzionale che fossero in grado di trovare, e quando
pensavano che potesse essere necessario portavano le loro richieste fino al
tempio. Queste sono le parole di una supplicante lasciate su una piccola tavoletta
di piombo nel tempio di Magna Mater a Magonza:
Mater Magna, io ti supplico, per i tuoi santuari e il tuo divino potere: Gemella ha rubato le
mie spille, e io ti supplico di fare in modo che esse la taglino tutta, cosí che ella non sia piú
sana e intera. Proprio come i Galli tagliarono se stessi, cosí voglia tu che ella non si tagli al
punto da piangere. Proprio come […] essi hanno depositato gli oggetti sacri nel tempio, cosí
non possa tu riscattare la tua vita e la tua salute, Gemella, dalla madre degli dèi, né con gli
animali sacrificali, né con l’oro né con l’argento, a meno che il popolo non assista alla tua
morte 193.
Capitolo nono
Nuovi dèi (I secolo a.C. - II secolo d.C.)
1. Condizioni generali.
2. Iside e Serapide.
50. Pittura muraria a Pompei raffigurante un sacerdote e una sacerdotessa di Iside, I secolo d.C.
51. Sistrum (sonaglio) di bronzo usato nei rituali dedicati a Iside e proveniente dalla tomba di una
sacerdotessa sull’isola Rineia.
Le città portuali menzionate prima – fra cui anche Roma – erano fortemente
collegate non solo con l’Egitto, ma anche con l’intera area mediterranea. Tale
circostanza potrebbe essere alla base della presenza di una gran varietà di
immagini di Iside in queste località: una divinità potente ampiamente venerata
all’interno della regione mediterranea (il suo nome era lo stesso in egiziano, in
greco e in latino); un elemento della cultura egiziana, allo stesso tempo esotico e
attraente 12; una divinità femminile associata a Serapide, la divinità inventata dai
governanti tolemaici, e in relazione con Osiride e Apis. Nella Roma della tarda
repubblica l’invocazione di Serapide e Iside faceva parte di una strategia
religiosa perseguita dai gruppi senatori di importanza cruciale. Al piú tardi agli
inizi degli anni Cinquanta, costoro opposero la coppia regale Serapide e Iside
all’accaparramento da parte degli aristocratici di Giove (come la divinità di tutti)
e Venere (come la patrona personale di molti aristocratici, fra cui Silla, Pompeo
e Cesare), tentando di porla sul Campidoglio, e piú precisamente sull’arx 13. Cosí
facendo, tuttavia, incorsero non solo nell’opposizione del senato, ma anche
nell’ostilità dei membri della nobiltà di origine etrusca che operava a Roma
l’arte dell’aruspicina, ossia ispezionava le interiora degli animali 14. Il luogo di
culto di Iside, evidentemente, fu usato soprattutto come un centro destinato agli
oracoli. Questo era anche dovuto all’importante funzione oracolare di Iside e
Serapide ad Alessandria, a Canopo e a Menouthis. Anche Cicerone, che altrove
polemizzò contro queste due divinità considerandole come il cavallo di Troia 15
per la venerazione degli animali tipicamente egiziana, le menziona altrove solo
una volta usando l’espressione «gli indovini isiaci» 16. Il poeta contemporaneo
Catullo intendeva il dio bambino Arpocrate, associato alle due divinità egiziane,
come il dio del silenzio 17, e anche come una possibile componente di un’attività
oracolare. Questo rende piú comprensibile l’accanimento attorno al luogo di
culto, alla sua costruzione, poi demolizione e in seguito ricostruzione, e persino
alla decontaminazione del luogo con la rimozione di ogni traccia delle vittime lí
sepolte.
Fu precisamente l’esotismo di questa iniziativa, che comprendeva persino il
culto di Anubi dalla testa di canide, a legittimare questo culto oracolare come
una conoscenza straniera in un mondo che parlava latino e che, dopo l’Etrusca
disciplina e la speculazione pitagorica sui numeri, aveva appena cominciato a
guardare alla sapienza «caldaica» dell’astrologia 18. In termini di confronto
politico, i molti attori interessati dovettero correre il rischio di considerare la
comunicazione con le divinità straniere come promettente. La rapida
appropriazione da parte di Antonio e degli Augusti successivi mostra quanto
grande fosse il potenziale che si riteneva avessero queste nuove divinità. La
mancata realizzazione del voto espresso dai triumviri, raccontato da Cassio
Dione per l’anno 43 a.C. 19, e l’espulsione dei seguaci di Iside nuovamente nel 19
d.C. 20 provano quale fosse il rischio connesso alla comunicazione religiosa con
questi nuovi destinatari. Fu solamente con gli Augusti della dinastia flavia, e
specialmente con Vespasiano, la cui ascesa al potere fu non da ultimo supportata
dagli oracoli alessandrini, che Serapide e Iside divennero un fenomeno
mainstream della città di Roma. Grazie alla venerazione di entrambi con
modalità esotiche ed egizie, fu possibile formulare una rivendicazione di potere
geograficamente estesa e un’identità ecumenica per Adriano o per la dinastia dei
Severi che proveniva dall’Africa 21. Sotto i Flavi quindi venne inaugurata la fase
di costruzione dell’Iseo campense, come ampiamente dimostrabile da un punto
di vista archeologico 22. Motivi egizi, dai geroglifici alle pietre colorate, dalle
installazioni d’acqua agli obelischi, furono qui presentati in una forma
monumentale (fig. 52).
52. Pittura muraria in quarto stile a Ercolano, raffigurante sacerdoti intenti a celebrare un rituale teatrale del
culto di Iside e Serapide; ibis e sfingi rimandano all’Egitto.
A un certo punto, fra il 140 e il 160 d.C., Astragalo dedicò a Iside un altare di
marmo (fig. 53). Dal nome e dalla funzione, si deduce che quest’uomo
proveniva dalle file dei guardiani del tempio, ossia dalla parte opposta dello
spettro sociale in cui si colloca Lucio Ceio 28. L’iscrizione di cinque righe
sull’altare (Isidi sacrum Astragalus aeditimus D M) terminava con
l’abbreviazione normalmente impiegata nella prima riga delle epigrafi funerarie,
D(is) M(anibus). L’osservatore antico, confuso, doveva guardare quell’oggetto
piú da vicino. Su uno dei due lati è raffigurato un uomo che tiene in mano una
colomba sopra un altare ricolmo di frutti; sul lato opposto, c’è una donna con un
sistrum (il tipico sonaglio di Iside), il vasellame rituale (una scodella per il cibo e
un secchiello) e una corona in testa (forse di loto). Questa sembrerebbe la stessa
dea Iside piú che una delle sue sacerdotesse. La sigla D M (ci sarebbe stato
spazio a sufficienza per formule diverse e meno comuni!) rende chiaro il legame
fra le due persone, l’iscrizione e l’immagine: la loro unione va oltre la morte.
Nel rilievo, la dea e l’esperto del rituale (l’uomo è qui rappresentato in questo
modo, non come un custode) vanno incontro l’una all’altro. Il canale di
comunicazione fra i due che si dà per mezzo dell’altare è rigidamente regolato
dalla pietra. Il rituale, per il quale l’altare e il rilievo sono lí, è reso permanente.
In questo modo, la comunicazione religiosa forní ad Astragalo margini di
manovra che difficilmente la sua posizione sociale avrebbe potuto procurargli.
Decimo Valerio Chaereas, invece, scelse un altro tipo d’azione. Insieme al
figlio, che portava il suo stesso nome, e a un certo Publio Elio Alessandro, che
chiama «fratello», presentò un busto d’argento di Serapide a un collegio non
meglio identificato, probabilmente quello di Serapide o Iside 29. In questo caso,
egli non fu mosso da vanità, bensí, come enfatizza l’iscrizione frammentaria,
dall’apparizione della divinità (ex visu). Tuttavia, non si può dire che l’inizio
dell’iscrizione non sia vanaglorioso, sottolineando l’importanza della posizione
rivestita dal promotore all’interno del collegio destinatario del dono:
quinquennalis perpetuus e quinquennalis, qualcosa come presidente onorario. Il
fatto che abbia condiviso questa posizione privilegiata con due personaggi
minori probabilmente non fu legato al loro contributo finanziario, bensí
andrebbe inteso come segno di liberalità: rappresenterebbe una sorta di «lettera
di raccomandazione» per entrambi. Anche i gruppi religiosi avevano
caratteristiche organizzative che richiedevano l’impiego di risorse finanziarie e
prestigio sociale. E in questo caso, la comunicazione religiosa apre la possibilità
ad altre vie.
In molti di questi contesti, Iside e Serapide sono stati utilizzati né piú né meno
di altri segni o «destinatari» religiosi. Le condizioni per le quali gli attori
scelsero queste due divinità in particolare dipese molto spesso non dalle
narrazioni che circolavano o dai loro successi documentati nelle iscrizioni – per
cosí dire, dal «profilo» di queste dee e dèi –, ma dalla loro specifica situazione e
dal loro specifico contesto. Per molti aspetti, le persone cosí come le richieste
nelle quali venivano spesi i nomi di uno o di un altro dio al fine di coinvolgere
attori divini erano simili. Persino un Varrone, che si serve di quindici libri delle
sue Antiquitates per chiarire le differenze storiche e di sistema fra gli dèi, alla
fine afferma che tutti questi fattori non sono altro che differenze secondarie
dell’unico principio divino. Egli condivideva questa opinione con molti altri
filosofi.
Ciò nondimeno questa libertà d’azione, valida in linea di principio, nei casi
concreti era limitata. Le scelte dei singoli dipendevano dalle situazioni personali
o contestuali, oppure erano saldamente legate a ragioni associative. Dove gli
specialisti religiosi – anche in questo caso il riferimento a entrambi i sessi è
significativo – costruirono strutture di gruppo e luoghi di culto, importante fu
anche il diverso livello di «conoscenza», in forza del quale veniva attribuito
grande valore alla differenziazione nelle pratiche e nei segni, vale a dire negli
attributi delle statue o nei doni offerti e nei rituali. Fu precisamente questo a
renderne possibile il riconoscimento, cosa che spinse gli adoratori di Iside a
praticare il proprio culto anche a Salonicco. Se poi i visitatori che provenivano
dalla città vicina percepissero la cosa allo stesso modo, è un altro discorso.
3. Augusti: iniziative.
3.1. Istituzioni.
4. Il sé.
Le numerose divinità a cui sono state spesso dedicate intere monografie non
avranno qui sottocapitoli a loro riservati. Come ho detto alla fine del paragrafo
su Iside e Serapide, esse non costituiscono «personalità» dal profilo ben definito
e la cui «essenza» sarebbe sufficiente a spiegare il loro impiego nella
comunicazione religiosa. Al contrario, rappresentano segni religiosi che,
nonostante la loro centralità, furono spesso intercambiabili. I nomi degli dèi
erano il risultato di strategie di nominazione contingenti: potevano avere
funzioni espressive in grado di evidenziare esperienze particolari, indicare un
profilo ben definito di un attore religioso umano, o anche costituire strategie per
conquistarsi un pubblico. Giove (o Zeus nei testi greci) fu il nome divino piú
frequentemente usato in quasi tutte le province. Questo si deve al fatto che molti
ritenevano tale nome da una parte espressivo per formulare un’identità romana,
dall’altra funzionale a poter ottenere un profilo elevato all’interno delle gerarchie
locali, senza per questo doversi presentare come rappresentanti dello Stato, cosa
che sarebbe stata necessariamente insinuata menzionando la triade capitolina 100.
Da un punto di vista sociologico, per quanto possiamo vedere nelle fonti a nostra
disposizione, i seguaci di Mitra non erano affatto diversi rispetto a quelli di
Silvano. Molto piú semplicemente, il primo faceva riferimento in genere a
gruppi organizzati attorno alla divinità, il secondo no 101. L’immagine di un
gruppo di divinità differenziato in modo funzionale si prestò a un certo numero
di tentativi di sistematizzazione nell’antichità e saltuariamente forní le
condizioni per nuove creazioni creative. Solamente in questi precisi contesti le
associazioni, spesso legate al concetto di pantheon, si davano veramente. Per
raccontare i cambiamenti religiosi nell’antichità, tuttavia, «pantheon» deve
essere inteso in modo diverso, e piú precisamente come uno sguardo sull’intero
panorama religioso.
Fra le numerose divinità che qui non possono essere menzionate, ce n’è una
non trascurabile: il sé. Inizialmente, a parte fenomeni marginali come le già
menzionate foglie d’oro «orfiche» poste nella bocca dei morti e accompagnate
da racconti scritti 102, il sé non era oggetto di pratiche religiose. I filosofi
contemporanei rifletterono sulla posizione precisa dell’individuo nel mondo
(oikeiosis) e fecero dell’anima e del sé due concetti chiave. È in Seneca il
Giovane, nel I secolo d.C., che vediamo una relazione con uno specifico
interesse biografico 103, che coincide con un elemento d’interesse fondamentale
per le scuole filosofiche 104. Furono queste scuole, e non la religione, a offrire un
percorso formativo di autoriflessione. L’ispezione del sé stoica puntava a
raggiungere la coerenza nel modo di vivere dell’individuo 105. Non si trattava,
tuttavia, di una forma di individualismo potenziato, bensí piuttosto orientato
verso l’analisi della condizione naturale 106 e sociale. Furono infatti in modo
particolare i seguaci romani della Stoa a insistere sui doveri verso i congiunti
invece che verso il mondo in generale 107. L’anima di cui si parla qui non era
precisamente un qualcosa di individuale, e che forse persino sopravviveva alla
morte corporea, ma un concetto universale indicante il divino negli esseri
umani 108. Ritroviamo questo esercizio continuo, questa askesis, nella tarda
antichità nei diari monastici riguardanti i movimenti dell’anima 109.
Il linguaggio figurativo e la topografia dell’interiorità che gli intellettuali
hanno formulato in vari modi rimanevano tuttavia complessi 110. Da Platone a
Plotino, la figura del demone ha costituito un’immagine riflessa attraverso la
quale era possibile scoprire il proprio sé che sta all’interno (comparativo) o che è
piú profondo (superlativo), e anche il sé dell’altro (o, al plurale, gli altri) che
definisce ciò che è piú intimo negli esseri umani 111. Al campo della
comunicazione religiosa appartenevano anche e soprattutto le pratiche, le quali,
allo stesso tempo, seguivano una propria logica specifica di tipo medico. Attori
importanti trovarono una cornice istituzionale in una rete di santuari dedicati ad
Asclepio e fondati a partire da Epidauro sino al confine del mondo ellenistico.
Essi trattavano le malattie come fenomeni individuali, le quali venivano
considerate soprattutto come rotture dell’ordine sociale naturale e delle sequenze
generazionali 112. Elio Aristide nei suoi Discorsi sacri, un resoconto in piú libri
che un invalido fa dei propri sogni, dei pellegrinaggi e degli incontri con
Asclepio, non solo scandaglia il proprio sé, ma lo esalta per la sua straordinarietà
nonostante le terribili malattie, indicandolo come la prova piú importante del
potere dei suoi dèi 113. Ma anche al di fuori degli apprezzati santuari di Asclepio,
dove i malati come Aristide diventavano adoratori organizzati, le divinità erano
implorate per la buona salute o per guarire dalla malattia 114.
I sogni rivestivano un ruolo speciale ed erano presi in seria considerazione a
tutti i livelli sociali 115. Per la loro interpretazione erano a disposizione manuali e
altri ne furono scritti in seguito 116. Le divinità popolari erano proprio quelle che
apparivano in sogno: lo faceva Asclepio, e regolarmente anche Silvano,
suscitando il compimento di azioni religiose 117. L’età imperiale vide anche un
revival di queste pratiche e una diffusione di oracoli locali e di dimensioni
ridotte, pronti a essere consultati individualmente 118. Brevi testi come gli oracoli
della sorte resero la procedura piú snella e alla portata di tutti. In termini di
accessibilità, questo significò democratizzazione. Anche dove il sé non è
diventato il luogo centrale per la comunicazione col divino o con una sua
manifestazione, è comunque diventato oggetto d’interesse, un oggetto per la
comunicazione religiosa anche con destinatari divini che si trovavano al di fuori
dell’anima, di cui si faceva esperienza nei santuari e nei siti degli oracoli e a cui
ci si poteva rivolgere in vario modo e per i motivi piú diversi.
5. Riepilogo.
1. L’autorità religiosa.
2. Esperte ed esperti.
56. Pittura muraria: un esperto di magia offre i suoi servigi a un viaggiatore. Pompei, Casa dei Dioscuri (I
secolo d.C.).
57. Flauto doppio (aulos). Osso rivestito in rame, 28,5 cm (II-III secolo d.C.).
In questa vasta gamma di attori con specifica autorità religiosa, quale ruolo
assunsero a Roma i maggiori sacerdozi occupati dalle classi superiori? Furono
un punto di riferimento o piuttosto fornitori di servizi, al di là del loro contributo
personale ai grandi riti e alla loro funzione di consiglieri del senato? Il senatore
greco Lucio Cassio Dione, proveniente dalla Bitinia, studiò le testimonianze per
i primi due secoli d.C. nell’ambito della sua indagine sulla storia romana e
compilò una serie di osservazioni a partire dalla sua esperienza personale nella
città di Roma, prima di ritornare alla città natale di Nicea, dopo il secondo
consolato nell’anno 229, collezionando questo materiale al fine di produrre una
personale descrizione dell’impero romano 37. Stando al suo racconto, l’intera
impresa – scritta sulla base di un precedente lavoro (non sopravvissuto) su sogni
e segni premonitori – si fondava tanto sulla preghiera di Severo per il suo primo
lavoro quanto su un comando celeste (tò daimónion) ricevuto in sogno 38. Egli
prestò adeguata attenzione sia ai sogni sia ai prodigi, esercitando per questa
ragione una grande influenza sui futuri Augusti e sugli altri attori.
I grandi sacerdozi erano, a suo parere, soprattutto un campo d’azione
imperiale. Questo era particolarmente vero per quanto riguardava l’assegnazione
dei posti, benché ciò non fu quasi mai oggetto di conflitto. Gli stessi Augusti
riservarono a sé molti ruoli sacerdotali, in particolare quello di supremo
pontefice, ma quasi mai agirono esplicitamente in questo ruolo. Gli stessi
sacerdoti furono oggetto del racconto di Dione quando dovevano assumere la
gestione di nuovi giochi, spesso in collaborazione con altri sacerdozi. In periodo
augusteo, fu il caso dei giochi attici o delle circumambulazioni comuni attorno
alla pira di Augusto 39. Le deificazioni portarono a nuovi uffici, a partire, dopo la
morte di Augusto, dai già descritti sodales Augustales e da quello di Livia come
flaminica 40. In questo caso, sembrava che il numero sufficiente di candidati non
mancasse. Al contrario, era difficile trovare abbastanza candidate per le virgines
Vestales: nel 5 d.C. furono ammesse persino le figlie di donne liberte e Cassio
Dione ritenne fosse un fatto assolutamente degno di nota 41. Per quanto riguarda i
sacerdoti, notò variazioni solamente nel cambio del personale e in poche altre
occasioni, come l’introduzione e l’abolizione di feste nel susseguirsi delle
dinastie 42.
Ma questi sacerdoti furono fornitori di servizi, e parte di un’infrastruttura
religiosa la quale, come aveva immaginato Cicerone a proposito dei privati,
desiderava proseguire con gli antichi culti oppure aspirava a introdurne dei
nuovi? 43. Le loro deliberazioni avevano luogo in ville private, cosí come i loro
pasti. La dimensione di questi gruppi era gestibile, di norma dodici o quindici
persone, a cui spesso si aggiungevano un paio di soprannumerari. Il grande
collegio pontificale, composto da pontefici, pontefici minori, flamini e vestali,
comprendeva non piú di trenta persone, di cui spesso solo alcuni rappresentanti
erano in grado di essere presenti. Neppure in queste occasioni, ovvero quando si
facevano i riti, erano in grado di essere a disposizione della popolazione. Delle
vestali almeno era noto dove poterle trovare (cosa altrettanto valida solo per il
pontefice massimo, che poteva essere trovato nel palazzo sul Palatino). Tutti gli
altri, con la loro toga praetexta, erano irriconoscibili 44. La consulenza legale fu
per lungo tempo cercata altrove; i pontefici erano considerati essere competenti
solamente per le questioni cimiteriali – qualora si volessero interpellare. In un
solo caso risalente al 155 d.C., un conoscente personale di un pontefice si rivolse
anzitutto all’imperatore 45.
Coloro che cercarono la prossimità dei grandi sacerdozi per ragioni religiose
furono capaci di stabilire un contatto, perlomeno nel caso delle vestali, per altre
vie. Già nel periodo repubblicano, i littori avevano del personale. In epoca
imperiale possedevano inoltre dei «fornai» (fictores). Non si trattava ovviamente
di persone comuni, ma spesso senatori, i quali, tuttavia, erano integrati con altro
personale, schiavi di proprietà «pubblica» e agenti ausiliari (apparitores),
attraverso i quali venivano forniti altri mezzi d’accesso. Questo era
particolarmente vero nel caso degli «strilloni» (kalatores), di solito liberti dei
sacerdoti. Il collegium calatorum pontificum et flaminum aveva una sala riunioni
(schola) vicino alla Regia nel Foro romano, per la quale uno sponsor, Giulio
Aniceto, negli anni 101/2, produsse una lista di trentasei nomi sotto forma di
dedica a Traiano 46. La stessa persona costruí a Trastevere, in un’area cultuale, un
portico per Sol, il dio sole (per il quale aveva fatto dediche anche altrove),
facendo riferimento all’autorizzazione dei kalatores 47. Che questa autorizzazione
fosse necessaria o avesse un qualche valore legale era discutibile. L’abilità di
mettersi in relazione con attori religiosi tangibili, e allo stesso tempo ufficiali,
poteva costituire ancora un gesto utile per estendere il proprio spazio di
manovra. La pietra e la memoria permangono. Nello stesso contesto spaziale, piú
di un secolo dopo, sotto Alessandro Severo, fu scritta un’altra dedica, questa
volta per Giulia Mamea come mater Augusti e mater castrorum, anch’essa
realizzata «col permesso dei kalatores» 48. Qui tuttavia non è indicata la presenza
di una delegazione permanente composta da persone con competenza
sacerdotale (ammesso che mai ce ne fosse stata una) 49.
Anche se la distanza sociale fra i sacerdotes publici e la dimensione pubblica
al di là del ranghi senatori a Roma era enorme, questa non poteva essere estesa a
situazioni analoghe in altri luoghi. In alcune città delle province della Misia e
della Lidia in Asia Minore, i sacerdoti di sesso maschile erano disponibili per
intense consultazioni richieste da clienti maschili e femminili in caso di malattia
o di disgrazie familiari, anche gravi. Certamente sotto l’influenza delle iscrizioni
dedicatorie e onorifiche che furono realizzate soprattutto in città 50, essi
svilupparono una forma particolare di comunicazione religiosa riservata ai piú
abbienti. Agendo in questo modo, costoro portavano l’introspezione a
trasformarsi in una colpevolizzazione, che, a sua volta, portava a doni e rituali di
purificazione in templi appropriati, e cosí infine alla risoluzione dei problemi.
Tali risultati venivano fissati con soddisfazione da parte degli interessati in steli
ben visibili sotto forma di iscrizioni. Sulla base della posizione di negoziazione, i
sacerdoti sembravano piú interessati a enfatizzare un particolare: come rivolgersi
benevolmente alla divinità e come fare in modo che la procedura avesse
successo. Dall’altro lato, ciò che risultava essere molto piú importante per i
clienti (uomini e donne) era stilare una lista completa dei servizi forniti e pagati
e registrare la persistenza e il grado di conforto ottenuti nella soluzione del
problema. In alcuni casi, addirittura, erano compresi i membri della famiglia e i
loro discendenti, colpevoli, complici o innocenti che fossero 51.
Cassio Dione, che fu, come abbiamo visto, lui stesso guidato dai sogni in
importanti decisioni, trascurò comprensibilmente il fenomeno rurale e tipico
dell’Asia Minore descritto prima. Rispetto a Roma, vide l’innovazione religiosa
nelle azioni dei profeti piuttosto che in quelle dei sacerdoti. Nell’anno 7 d.C.,
comparve a Roma una donna che pretendeva di essere divinamente posseduta.
Costei aveva delle lettere graffiate sul braccio. Augusto si vide costretto dal
sentimento generale a promettere dei giochi per Mater Magna 52. All’inizio del
38 d.C., una schiavo di nome Machaon salí sul pulvinar di Giove Capitolino,
pronunciando cupe profezie, quindi prima uccise il cane che aveva portato con
sé e poi se stesso 53. La resistenza religiosa risultò evidente anche in episodi
successivi. Nell’anno 217 d.C., prima un visionario anonimo e poi un individuo
di nome Serapio profetizzarono la fine del regno di Caracalla. Al contrario,
l’oracolo del dio sole Elagabalo intravide l’insediamento di un nuovo
governante 54.
Ciò che a Cassio Dione sembrò interessante raccontare solo in alcuni episodi
trova conferma in molti altri testi. Nella tradizione ellenistica, autori anonimi o
pseudonimi scrissero testi oracolari noti come i Libri sibillini, e apocalissi come
il Quarto libro di Esdra, l’Apocalisse di Enoch o di Giovanni, tutti con una
chiara venatura antiromana e precedentemente antiellenistica, forse proprio
perché i loro autori erano membri di una precedente élite non piú coinvolta nel
governo che ora etichettavano come una signoria nemica 55. Per eliminare questi
testi autoritativi sgraditi, Augusto e Tiberio ricercarono e bruciarono migliaia di
libri. Tuttavia, all’epoca del grande incendio di Roma del 64 d.C., molti di essi
erano stati rimessi nuovamente in circolazione 56.
Poco prima della metà del II secolo d.C., fa la sua comparsa a Roma un testo
altrettanto apocalittico, «rivelatore dell’occulto», molto meno radicale, ma per
questo ancora piú popolare. Questo testo molto corposo, probabilmente a causa
di pressanti richieste formulate in momenti diversi, era stato scritto dal già
menzionato Erma, sempre che ci si voglia fidare della prima persona del
narratore (cosa a cui l’autore dà molta importanza). Questo Erma si trovò a fare i
conti col problema di ogni «veggente»: come fare in modo che il proprio
messaggio potesse essere ritenuto una rivelazione autentica. Un problema del
genere era ancora piú marcato per un autore che non poteva fare riferimento a
un’istituzione come un santuario di Asclepio o un oracolo. Nel caso poi il testo
dovesse essere solamente letto, l’eloquenza dell’oratore gli mancava. Per questa
ragione, il Giovanni dell’Apocalisse, un testo di poco anteriore, identificatosi
con un nome probabilmente reale, rivendicò la propria autorità fondandola sulla
tradizione profetica e sull’astrologia 57. Erma, da parte sua, presentò se stesso con
una nota autobiografica decisamente piú offensiva, indugiando persino sulle
proprie debolezze e fornendo dettagli sui luoghi dove viveva e lavorava 58. Egli
quindi sviluppò passo passo l’idea di apocalisse a partire dalle riflessioni
contemporanee sulla possibilità di divinazione per mezzo di visioni 59.
Questo autore ci consente, come pochi altri, di gettare uno sguardo sui
problemi della comunicazione visionaria in presenza di altri 60. Secondo lo spirito
dei trattati filosofici contemporanei, il testo di Erma è chiaramente rivolto a
uditori e lettori individuali, ai quali è offerta la possibilità di un’evoluzione
personale. Per questa ragione egli cercò di avere accesso sin dall’inizio a luoghi
istituzionali, in modo tale che lo scritto fosse letto nell’ambito dei presbyteroi e
degli episkopoi come un testo di origine divina 61. Si serví invece di un’altra
cerchia di persone per ammonire un certo Massimo noto a tutti 62. Una certa
Graptê dovette leggere il testo a vedove e orfani, mentre un tale Clemente lo fece
circolare in forma di lettera 63. Il fatto che i destinatari incoraggiassero l’autore
ad avere sempre nuove visioni, copiassero questo testo e lo traducessero
rapidamente in latino e nelle lingue della Siria e dell’Egitto, prova quanto il
successo di questa terapia di lettura condusse a trasformazioni individuali
all’interno dell’«assemblea» (ekklesia) e a modificazioni della sensibilità e della
condotta di vita (metanoia). Solo occasionalmente l’autore lascia intendere di
pensare al seguace di Cristo, che sa cos’è una sibilla, ma la percepisce come
qualcosa di diverso.
Ma diverso da chi? Per quanto riguarda i suoi primi uditori e lettori, Erma ha
presunto che a loro fossero familiari istituzioni romane come l’esercito,
l’economia e l’agricoltura italiche. Decisiva era pertanto la loro condizione di
«cittadini» 64. Per i cittadini di un impero era tipico possedere, per cosí dire, una
doppia cittadinanza: da un lato erano abitanti di Roma, dall’altro, Erma cercò di
stabilire una seconda relazione con una città celeste, l’alternativa alla
Gerusalemme definitivamente perduta. Testi contemporanei provenienti dal
Mediterraneo orientale incoraggiavano i loro lettori a immaginare una
distruzione di Roma alla fine dei tempi, che essi stessi, come individui, ora
potevano indurre adottando un nuovo stile di vita 65.
Di fronte a queste fantasie in province lontane, Erma si rivolse a destinatari
che abitavano addirittura a Roma e che ammiravano le sue infrastrutture
costruite con marmo di eccellente qualità nell’età dei Flavi 66. Di conseguenza,
nelle immagini di cui si serví, non si basò sull’altra città, ma su una architettura
che fosse universalmente concepibile come perfetta o perfettibile: una torre. Al
suo personaggio femminile, attraverso il quale avviene la rivelazione, diede uno
scranno romano e la fece accompagnare da sei giovani in veste di attendenti 67.
Queste non erano descrizioni alternative alla fine dei tempi, ma rappresentazioni
interiori, immaginazioni, che potevano essere coltivate qui e ora. Non c’era nulla
da costruire; c’era invece da prendersi cura di vedove e orfani e delle anime
degli esseri umani di questa città, da intendersi come i campi (!) e le case della
città terrena 68. Aumentando il numero dei destinatari coinvolti a livello
individuale, nessuna rivolta popolare sembrava doversi porre in essere. Tali
individui, tuttavia, sarebbero potuti giungere a decisioni insolite e devianti: cosí,
all’inizio del III secolo d.C., fu rappresentata anche Perpetua come una visionaria
che si serví di immagini oniriche per legittimare un cambiamento radicale dei
ruoli sociali familiari, compreso quello della maternità 69.
I visionari non furono un fenomeno eccezionale (fig. 59). Tuttavia, le fonti
delle loro rivelazioni potevano variare notevolmente: un dio in forma di
serpente, come Glykon; il dio unico; nuove interpretazioni di antichi testi
ispirati; e, naturalmente, l’accusa abituale di immaginazione, malvagità e
menzogna. A ben vedere, Luciano, Celso e coloro che compresero Montano e le
sue donne come (ovviamente falsi) profeti concordavano 70. L’autorità religiosa,
sia in carne e ossa sia in forma testuale, era apparentemente facile da ottenere,
forse non piú facilmente di prima, ma certamente da parte di soggetti provenienti
da diverse posizioni sociali. Gli osservatori, tuttavia, videro la comunicazione
religiosa perlopiú come dissidenza.
59. Patera con superficie d’argento proveniente da Parabiago raffigurante il trionfo di Mater Magna /
Cibele e Attis (IV secolo d.C.).
5. Fondatori di religione.
61. Rilievo proveniente dal mitreo di Dieburg, raffigurante Mitra mentre caccia e trasporta un toro,
circondato da altre scene. Dedicato dal calzolaio Silvestrus Perpetuus, dal fratello scultore Silvestrus
Silvinus e dal nipote Silvinus Aurelius. Pietra arenaria (tardo II secolo d.C.).
6. Cambiamenti.
Già alla metà del I secolo a.C., Cicerone nel De legibus aveva cercato di
assegnare ai «datori di pubblici riti» (sacerdotes publici) il controllo
dell’innovazione religiosa 90. Questo ruolo, tuttavia, non fu mai raggiunto nei tre
secoli seguenti. Sebbene fra i sacerdoti dell’epoca tardorepubblicana siano
esistiti sistematizzatori e autori di testi religiosi 91, nei secoli a venire, se si
escludono le apparizioni nei rituali pubblici, furono soprattutto i membri
subalterni del collegio a ricoprire un ruolo di mediazione per i singoli attori
religiosi.
Due sono le ragioni di tutto questo: da una parte le comunicazioni religiose di
questi «sacerdoti pubblici» furono sempre piú concentrate attorno agli Augusti,
intesi sia come attori che con essi collaborano sia come oggetto delle loro azioni.
Dall’altra, i candidati raccomandati per il reclutamento da parte dell’Augusto
regnante o che provenivano dalla sua rete facevano parte di quel gruppo che si
stava progressivamente distinguendo, economicamente, socialmente e in termini
di autorappresentazione nei propri palazzi e nelle proprie tombe. Gli stessi
Augusti, a partire dalla fine del III secolo d.C., si servirono di simboli religiosi
sia nelle proprie argomentazioni politiche sia in quelle cerimoniali. Allo stesso
modo, singoli sacerdoti e interi collegi acquistarono un piú spiccato
orientamento religioso, che li portò ad agire come gruppi religiosi e ad
autocomprendersi come attori religiosi. Attorno al 380 d.C., i pontefici posero
fine alla propria dipendenza dall’imperatore come pontefice massimo 92.
Tra i molti fattori, certamente rilevante fu l’urbanizzazione mediterranea,
aumentata considerevolmente in seguito all’espansione dell’impero romano
nell’Africa settentrionale, nell’Europa occidentale, sia a nord che a sud, e alla
fondazione di città nella regione danubiana. In un numero sempre maggiore di
luoghi, gli esseri umani optarono per la vita in comune in uno spazio circoscritto,
con tutti gli svantaggi che questo comportava, al fine di giovarsi, attivamente e
passivamente, delle opportunità offerte da questo accentramento. Durante
l’epoca imperiale, in queste società urbane del mondo latinofono – come già da
tempo in quelle orientali –, altamente specializzate ma ancora legate a un
contesto circostante agricolo, «intellettuali» formularono una critica dell’attività
cultuale e, soprattutto, del sacrificio, ponendo cosí in discussione, allo stesso
tempo, la tradizionale élite fondata sulla terra e che aveva a sua disposizione le
risorse necessarie per gli imponenti sacrifici rituali, specialmente per quanto
riguardava il bestiame. Anche se gli autori provenivano dallo stesso milieu o
operavano sotto la protezione delle medesime famiglie, scrivendo queste cose,
diedero corpo alla propria rivendicazione di autorità 93, come se avessero
compreso che cosí facendo la religione sarebbe diventata qualcosa di separato,
svincolando in questo modo la comunicazione religiosa dallo spazio e dal tempo
e, soprattutto, dalla presenza nei rituali. Anche se i caratteri degli alfabeti
mediterranei erano, in linea di principio, facili da imparare, gli effetti di questi
testi rimanevano legati a una circostanza particolare, ossia che fossero letti e
citati in presenza di un pubblico. Ciò naturalmente aveva implicazioni
economiche: quello di cui qui gli intellettuali parlano è un’azione religiosa a
buon mercato, se paragonata alla dispendiosa comunicazione religiosa delle élite
tradizionali. Lo stesso vale per le pratiche piú economiche tradizionali:
declamare non era certamente piú conveniente di depositare doni provenienti
dalla produzione di massa; quand’anche si tenga conto delle spese di soggiorno
del lettore e del costo delle copie, non richiedeva infrastrutture architettoniche
comparabili.
La religione aveva preso la forma della conoscenza, e la conoscenza
specializzata che era stata sviluppata da scrittori provenienti dalle antiche culture
orientali (o a loro attribuita) diventò sempre piú affascinante. Questo processo
era già stato osservato nella Grecia del V e IV secolo a.C., ad Alessandria nel III e
a Roma nel II , e coincise con un crescente interesse per le traduzioni e la
traducibilità sia di pratiche culturali locali sia di interi bagagli di conoscenza. Il
cambiamento dello scenario politico e culturale provocato dalla costruzione
dell’impero romano incrementò le riflessioni sopra menzionate sulle pratiche
religiose della vecchia élite 94. I sacerdoti, che erano attivi come specialisti della
conoscenza, furono cosí messi sotto pressione dai filosofi della religione 95. Dove
il rituale era privo di un’elaborata interpretazione divenne insipido, anche
quando, allo stesso tempo, era fonte di inesauribile e preziosa speculazione
intellettuale 96. Al contrario, gli attori che nelle sinagoghe tardoantiche si
concentravano sulle parole e sui canti, come nel caso di Sepphoris, cercarono di
ottenere autorità servendosi di riferimenti testuali o iconografici ad azioni
sacrificali che rimandavano al non piú esistente tempio di Gerusalemme (fig.
62) 97.
62. Pittura muraria proveniente dalla parete occidentale della sinagoga di Dura Europos (Siria) e
raffigurante Aronne che celebra il culto nel tempio. Nuova costruzione del 244/45 d.C. con un fregio che
illustra il Tanakh. Gli affreschi sono stati trasferiti al Museo Nazionale di Aleppo.
Non furono solo i grandi autori del canone letterario, o i cui nomi erano noti,
a speculare in questo modo: molto piú numerosi erano gli «intellettuali
primitivi», le cui deliberazioni si ritrovavano nei programmi pittorici dei
giardini, nelle decorazioni degli spazi e nelle tavolette di maledizione. Molti non
articolarono ulteriormente le proprie riflessioni e, dove questo avvenne, non ci fu
nessun interesse da parte dell’ambiente circostante quando queste voci si
tacquero e morirono. In questo caso, la scrittura fece la differenza in modo
decisivo.
Questi processi, tuttavia, non riguardarono solamente coloro che si erano
trasferiti nella città piú vicina, anche se questo era probabilmente il caso piú
comune, tenuto conto delle poche megalopoli presenti nell’antichità. Alcuni poi
si spostavano all’interno di un ampio spazio geografico, volontariamente o come
prigionieri di guerra o schiavi. Tali circostanze si combinavano non solo con la
mobilità sociale e il distacco dalla società di appartenenza coi suoi ruoli e i suoi
stili di vita socialmente definiti, ma anche con eventi piú drammatici, come la
schiavitú e la manomissione. Quest’ultima infatti non liberava gli schiavi dalle
molteplici dipendenze, ma a una persona di circa trent’anni concedeva
comunque uno status radicalmente nuovo e nuove prospettive. Una conseguenza
a lungo termine fu l’individualizzazione 98, che ha modellato la religione in vario
modo 99. La vita congestionata con un’infinita varietà di altre persone nei centri
urbani e all’interno delle piú significative istituzioni che si alimentavano di
immigrazione (per esempio l’esercito) creò nuove contiguità e un confronto con
nuove gerarchie, nuovi valori e nuove lingue. La monetizzazione, ovvero la
diffusione del denaro come mezzo universale di scambio in queste regioni, è
andata ulteriormente a rafforzare opzioni e differenze 100. Tutto ciò portò a nuove
possibilità e desideri nei confronti di fattori quali le comunità o il culto dei morti,
nonché a impulsi per l’autoriflessione, cosí come una corrispondente volontà a
fare le esperienze offerte.
A soggetti desiderosi di riconoscimento vennero distribuiti leggendari
affrancamenti da zone rurali marginali o dalla condizione servile. Di
conseguenza, un membro della vecchia élite come Petronio poteva ridicolizzare
nel Satyricon il liberto Trimalcione. Nonostante ciò, queste traiettorie
rimanevano dei modelli per molti, anche se le prospettive immaginate, alla fine,
si rivelavano essere poco realistiche. Le elevate aspettative potevano facilmente
trasformarsi in emancipazione, rendendo cosí tutto possibile: un visionario come
Erma ha avuto immediatamente il suo libro di visioni copiato per il mercato
delle esportazioni 101.
Aiutare gli altri nella comunicazione religiosa rese possibile inoltre l’avvio di
una serie di attività economiche. Questo era già cominciato nel corso del V
secolo a.C. tra gli artigiani che producevano enormi quantità di offerte votive per
il consumo presso i luoghi di culto. Sin dall’epoca ellenistica, ci fu un numero
crescente di fornitori di servizi religiosi, che offrivano guarigioni o il
disvelamento della volontà divina, la divinazione, ma che allo stesso tempo
vendevano in modo sempre piú crescente straordinarie esperienze e conoscenze
religiose. Furono probabilmente questi piccoli imprenditori religiosi, diffusi
soprattutto fra i liberti, ma anche fra donne e schiavi, e le cui possibilità di
azione erano meno soggette a vincoli, a diventare l’elemento piú innovativo
della storia delle religioni in età imperiale. Di norma, svolsero le proprie attività
in maniera casuale, fino a quando non furono in grado di ottenere clienti o
patroni di ambo i sessi fra gli strati piú elevati, sfruttando le estreme disparità di
ricchezza. È difficile concepire una «missione» a tempo pieno in queste
circostanze. Anche l’artigiano Paolo (di Tarso?), i cui viaggi furono descritti
negli Atti degli apostoli nel II secolo come se fossero stati principalmente
motivati dalla concezione di una missione che avrebbe dovuto giungere sino a
Roma, fu probabilmente motivato soprattutto dalla necessità di trovare
continuamente nuovi clienti per i suoi prodotti senza dubbio di alta qualità 102,
fino a quando non riuscí a trovare una forma di sostentamento come filosofo e
visionario.
Questi imprenditori religiosi hanno avuto successo quando i loro modelli
esplicativi trovarono conferma nel contesto degli stili di vita precari dei loro
clienti di ambo i sessi, insieme alle continue vicissitudini che questi hanno
sofferto in termini di cibo, salute, ambito familiare o addirittura status giuridico,
in un lasso di tempo in cui le interpretazioni proposte potevano essere ricordate.
Dal momento che difficilmente un riscontro negativo poteva essere visibile agli
estranei, pochi casi positivi erano sufficienti per confermare le tecniche
impiegate e l’efficacia dei tecnici che se ne servivano 103. La disaffezione, al
contrario, tendeva a essere espressa in termini politici, portando all’espulsione di
interi gruppi professionali.
Ma perché anche quelle persone localmente dotate di mezzi finanziari
adeguati, potenziali patroni di ambo i sessi, ebbero interesse a sostenere sia la
comunicazione religiosa dei propri colleghi sia gli esperti necessari per mettere
in atto le tecniche menzionate? Tali gruppi relativamente privilegiati avrebbero
potuto comprendere che, con lo stabilizzarsi dell’impero romano e la sua
monarchia, in principio centralizzata, la situazione di molte élite locali era ormai
cambiata radicalmente 104. Da un lato, tali gruppi furono invitati a partecipare a
un’amministrazione piú o meno ampiamente coordinata, alla formazione di un
mercato unico (anche se rimanevano numerose tasse locali) e alla concentrazione
della forza militare, o piú precisamente all’accentramento delle decisioni che la
riguardavano. In questo modo hanno rivestito un ruolo fondamentale nel fondare
un’amministrazione centrale il piú possibile snella 105. Questa fu senza dubbio
una ragione importante per partecipare intensamente alle pratiche accordate ai
divini Augusti 106. Sino all’epoca severiana, per esempio, il tentativo di essere
presenti per mezzo di iscrizioni in contesti locali rimase un motivo diffuso 107.
Nel corso del tempo, tuttavia, soprattutto nelle città di piú recente fondazione,
risultò chiaro che le élite locali avevano perso il monopolio del potere. I
governatori provinciali e gli Augusti erano diventati istanze d’appello,
certamente resi piú percepibili anche nell’ambito piú locale da monete, statue,
edifici e altri atti di beneficenza. Questa «mediatizzazione» di quel che era stato
fino a quel momento il livello piú importante per le identità politiche collettive
ebbe, col trascorrere del tempo, conseguenze sempre piú evidenti, specialmente
nel III e IV secolo d.C. La notevole, importante, ma allo stesso tempo cosí
remota, costruzione dell’«impero», tangibile solamente nella persona degli
Augusti, non fu piú percepita come un sostituto della riduzione del livello
intermedio, ovvero di quello delle identità politiche urbane 108.
Ciò sembra aver dato una nuova prospettiva alle pratiche religiose già da
tempo stabilite come forme di comunicazione pubblica. Quest’ambito infatti era
al contempo legato al mondo nel suo insieme, intrecciato con l’impero e radicato
nell’esperienza individuale. Di conseguenza, i membri delle classi benestanti
trovarono interessante partecipare alla costruzione di reti e gruppi attraverso la
comunicazione religiosa, piuttosto che continuare a investire nei sacra publica
della città 109. I patroni ebrei del III secolo concentrarono i loro sforzi nella
costruzione di sinagoghe 110, e anche gli schiavi poterono essere manomessi a
beneficio di queste istituzioni 111. La costruzione di reti religiose era forse piú
pronunciata nell’oriente greco, con la sua tradizione di molteplici identità
regionali, che nell’occidente latino 112. Nonostante tutta la retorica relativa a una
specifica identità da ogni parte 113, la supremazia politica a livello imperiale non
fu messa in discussione, anche se i lessici familiari e politici, specialmente la
semantica etnica, della cittadinanza e del diritto civile e della civitas, offrivano le
metafore piú importanti per ragionare sulle identità collettive oltre i contesti
familiari. Un governo dal cielo «per grazia di dio», come quello di Giustiniano
nel VI secolo, non era ancora minimamente pensabile.
La proiezione oltre il proprio luogo spinse i fornitori di nuove pratiche
religiose o di bagagli di conoscenza ad ancorare simbolicamente tutte queste
offerte al di là dell’ambito locale. Il riferimento alla conoscenza «caldea» o alla
veste «persiana» non doveva essere giustificato. Ma erano questi stessi attori
sempre in movimento a sfruttare la riconoscibilità di sistemi simbolici
precedentemente esperiti. Schemi iconografici, modelli librari, testi che non
circolavano in cerchie molto allargate, e successivamente in modo sempre piú
raro, aiutarono a creare riconoscibilità 114. Abbiamo cosí da un lato innumerevoli
invocazioni del divino sotto i nomi e i segni iconografici di Mitra, Silvano o
Iside, dall’altro modelli «in franchising» molto popolari per certe forme di
comunicazione religiosa con gli stessi destinatari. In questi contesti, le
opportunità sembrano essere a portata di mano soprattutto per singoli attori di
ambo i sessi.
In sintesi, è possibile affermare che, nonostante la competenza con cui ogni
singolo individuo ha affrontato il problema della comunicazione religiosa e che è
continuato a esistere, c’è stato un numero crescente di fornitori al di sotto
dell’élite politica che ha rivendicato per sé, in un modo o nell’altro, autorità
religiosa. La loro presenza e il loro scambio di conoscenze pratiche, nonché la
loro ingegnosità e il loro zelo competitivo, forgiarono e modificarono ciò che era
sempre piú inteso come qualcosa di speciale, la «religione». Questo è stato
possibile a livello imperiale o in santuari locali, grazie all’azione di donne
anziane o di profeti itineranti: costoro avevano in comune la pretesa di stabilire
un contatto col divino, con quel destinatario non innegabilmente plausibile, in
modo da promettere una risposta a chi domandava, la salvezza a chi sperava e la
guarigione a chi era malato.
Capitolo undicesimo
Comunità immaginarie, comunità reali (I-III secolo d.C.)
1. Le comunità testuali.
In primo luogo: quale ruolo hanno avuto le pratiche di lettura e di scrittura per
i gruppi religiosi? 12. In numerosi testi del II -III secolo d.C. gli autori formularono
polemiche che sembravano voler tracciare confini tra diversi gruppi, fornendo in
questo modo materiale per la costruzione stessa di tali gruppi. C’era
evidentemente una situazione concorrenziale che poteva trovare espressione
nelle rivendicazioni di esclusività. Da un lato, vediamo l’aspirazione a posizioni
apicali da parte di un membro senza che si abbia un conflitto continuo con altre
formazioni 13; dall’altro, troppa concorrenza fu considerata problematica, come
mostra chiaramente Filostrato nel quadro che dipinge sulle biografie dei vari
«sofisti» 14. Ma i testi corrispondevano a quei gruppi?
Alcuni di questi testi sono diventati fondamentali, almeno per la storia
religiosa e intellettuale europea, e in qualche misura contraddistinguono la nostra
percezione dell’alterità religiosa sino a oggi. Questo vale non solo per il canone
del Nuovo Testamento, ma anche per le opere eresiologiche. In second’ordine,
un’opera come l’Adversus haereses, l’«esame e confutazione di quella che è
erroneamente chiamata gnosi» (Élenchos kaì anatropé tês pseudônúmou
gnóseôs), forní, nella sua traduzione latina, le categorie per la classificazione
storico-religiosa sino alla prima età moderna. La concezione degli autori che
scrivono per il «loro» gruppo e ne condividono lo «spirito», e quella della forza
performativa esercitata sui testi in questione da tali gruppi, hanno sedotto i
commentatori nel perseguire le asserzioni strategiche e le agende individuali di
questi testi 15 senza ulteriori critiche 16. Ma gli eresiologi non volevano fare storia
sociale. Spesso si trattò solo di competizione e prossimità, che portarono a
produrre all’interno di questi testi profonde distinzioni 17. Talvolta tali processi di
sistematica esclusione retorica ebbero conseguenze sul piano sociale, come nel
caso del gruppo che si formò attorno al visionario Montano nell’Asia Minore del
II secolo d.C., i cui membri furono etichettati, e quindi trattati, come aderenti al
«montanismo» 18. La formazione di comunità testuali, tuttavia, non fu un
processo semplice, bensí l’esito di un lungo periodo di lettura in comune e di
modi di interpretazione 19. Tutto questo ebbe inizio con elementi di base, i testi,
la loro forma materiale e l’intermediazione del processo comunicativo.
Nelle società scrittografiche dell’antichità, l’unica duplicazione possibile era
tramite ricopiatura, cosa che rendeva ogni libro un unicum. Indubitabilmente,
una produzione libraria di tipo commerciale e una distribuzione dei volumi, la
prima basata sulla dettatura simultanea a diversi schiavi incaricati di scrivere e la
seconda sulle librerie, furono già presenti a partire dalla prima età imperiale;
tuttavia, il settore rappresentato dai testi disseminati in questo modo potrebbe
essere rimasto confinato, forse, a pochi autori di successo 20. Decisiva fu, al
contrario, la distribuzione per mezzo di dediche e, di conseguenza, per mezzo
degli stessi dedicatari e nelle cerchie di amici 21, racchiudendo cosí l’intero
contenuto delle biblioteche di chi ne faceva parte. La prossimità spaziale dei
partecipanti era pensabile fintantoché poteva essere coperta da richieste via
lettera 22. In un tale contesto, il circolo dei lettori non poteva che essere élitario. I
suoi membri dovevano essere in grado non solo di farsi carico del costo dei
rotoli e dei mezzi di trasporto, ma anche di servirsi della scriptio continua, per
leggere la quale, anche quando usata nei testi piú semplici, ci volevano anni di
esperienza. In questo modo si escludevano tutti coloro che avevano avuto
un’educazione elementare, a malapena sufficiente per leggere gruppi di lettere
distinti in maniera chiara e formulari 23.
Le rappresentazioni drammatiche, che fossero pantomime o messinscene
mitologiche tratte dai racconti di Iside, si rivolgevano, grazie all’architettura di
luoghi come il teatro, a un «pubblico di massa». Questo valeva anche per le
declamazioni. Le letture invece avevano luogo in spazi piú piccoli, spesso
privati. In questo caso, ci si poteva trovare di fronte un pubblico anonimo 24. Ma
soprattutto, coloro che prendevano parte alle recite e alla critica che ne seguiva
erano invitati personalmente, facendo sí che la comunità di lettura fosse un
gruppo con una soglia d’ingresso alta 25. Come nel caso del teatro, le chiavi
d’accesso erano nelle mani dei rispettivi finanziatori o organizzatori. Giovenale
descrive uno di questi inviti nella casa di un autoproclamatosi poeta laureato,
non trascurando l’attenta orchestrazione del pubblico e degli applausi 26.
Difficilmente ci si trovava di fronte a una situazione diversa nel caso di letture di
testi visionari. Chiunque fosse invitato a queste letture ad alta voce doveva avere
la sensazione di prendere parte a pratiche che erano proprie delle élite.
La parola scritta permise cosí la comunicazione con chi non era presente. La
corrispondenza di Plinio il Giovane all’inizio del II secolo d.C. fu un caso
paradigmatico e, per quanto riguarda il suo allestimento e la sua pubblicazione,
un esempio consapevole di una rete aristocratica che si fonda sullo scambio
epistolare 27. Paralleli si possono trovare a partire dal I secolo a.C. nelle lettere di
Cicerone – pubblicate postume – all’amico Attico, al fratello, ai parenti, agli
amici e agli oppositori politici, cosí come nelle lettere di Paolino di Nola o
Simmaco fra IV e V secolo d.C. Data la frequente mancanza di separazione, al di
fuori della crescente burocrazia imperiale, fra apparato amministrativo e
corrispondenza privata, in questi casi la corrispondenza personale e quella
relativa all’organizzazione non è sempre chiaramente distinguibile.
Chi ha raccolto, pubblicato o semplicemente simulato lettere, non era
interessato esclusivamente a destinatari personali. Egli piuttosto desiderava la
pubblicazione per raggiungere un pubblico anonimo o per la lettura ad alta voce
in una precisa cerchia di destinatari. All’inizio del II secolo d.C., le cosiddette
Seconda e Terza lettera di Giovanni richiamavano l’attenzione sul problema del
controllo dello spazio di recitazione, per esempio proibendo la lettura ad alta
voce. Mentre la seconda lettera descrive, come esempio, il buon gruppo in grado
di comunicare efficacemente, la terza, formalmente indirizzata a un singolo
membro, Gaio, si concentra invece su quello cattivo: «Ho scritto qualche parola
alla Chiesa ma Diòtrefe, che ambisce il primo posto tra loro, non ci vuole
accogliere. Per questo, se verrò, gli rinfaccerò le cose che va facendo, sparlando
contro di noi con voci maligne. Non contento di questo, non riceve
personalmente i fratelli e impedisce di farlo a quelli che lo vorrebbero e li
scaccia dalla Chiesa» 28.
Infine, c’erano dibattiti intellettuali, dispute fra coloro che facevano della
contrapposizione polemica il proprio mestiere. Nei centri intellettuali
dell’impero, a Roma, Atene, Antiochia, Alessandria, antagonisti maschili e
femminili 29 si affrontavano direttamente 30. Questo avveniva anche nei dibattiti
che avevano come oggetto del discorso filosofico la conoscenza religiosa.
L’allievo di Taziano Rhodon lo spiega bene quando, in opere successivamente
citate da Eusebio, dà conto in modo esauriente di una discussione con Apelle 31.
Galeno ha confrontato le argomentazioni di Mosè con quelle di Platone come se
fossero autoevidenti 32. In queste intense controversie, i testi che venivano
prodotti erano spesso un pot pourri di quelli precedenti.
Gli ascoltatori si ricordavano di quello che avevano letto e gli scrittori di
quello che avevano sentito (fig. 63). Testi scritti e presentazioni orali si
influenzavano a vicenda. La raccolta di aforismi di Publilio Siro del I secolo d.C.
era basata sul suo vivido ricordo del successo come mimo nella seconda metà
del I secolo a.C. Nello stesso periodo, le interpretazioni dei miti come allegorie
da parte di Cornuto funzionarono solo se poste sullo sfondo dei racconti
popolari, sempre ricordati e riattualizzati in rapporto diretto con le immagini. Le
comunità testuali non sorsero attorno a un testo in uno spazio vuoto. Ma in ogni
caso, dove si trovavano queste comunità?
63. Brocca d’argento, probabilmente della regione dei Balcani, raffigurante Crise, un sacerdote di Apollo,
mentre sacrifica un toro al dio affinché invii una pestilenza tra le file dei troiani, ispirandosi ai primi versi
dell’Iliade (seconda metà del I secolo a.C.).
Non c’è dubbio che, durante l’epoca imperiale, un numero maggiore di esseri
umani acquisí la capacità di leggere caratteri scritti; tuttavia, elevati gradi di
competenza testuale rimasero un fenomeno d’élite. In questo contesto, la
religione venne considerata sempre piú non solo come qualcosa di conoscibile,
ma anche come qualcosa che aveva a che fare coi testi. In questa
«testualizzazione della religione» 44, i riti religiosi diventarono materia per i testi.
Anche la familiarità con testi sull’attività religiosa agevolò esperienza e
comunicazione religiosa, nella scrittura cosí come nella lettura e nell’ascolto.
Durante il II secolo d.C., gli autori caratterizzati da un ampio orientamento
tematico come Plutarco e Luciano dedicarono un quinto dei loro «scritti morali»,
ossia un quarto della loro intera produzione, per titolo o contenuto, a temi
religiosi in senso stretto 45. Per Varrone o per Cicerone, invece, la religione non
ebbe un’importanza comparabile. Con l’aumentare del volume di produzione e
comunicazione, coloro che erano coinvolti svilupparono altre forme linguistiche
e comunicative e incrementarono quelle precedenti. In questo modo, il mito
come genere letterario non fu affatto liquidato in seguito allo sviluppo della
filosofia e della storiografia, come Varrone e Cicerone amavano sostenere per
giustificarsi 46. Al contrario, in condizioni di crescente testualità, l’impulso
narrativo si sviluppò in un certo numero di generi letterari, ed espressamente
nella sfera religiosa, nella scrittura di storie legate a un’istituzione 47, negli Atti
degli apostoli e dei martiri, nelle biografie, come quella di Mosè (Filone) e forse
di Abramo (pseudo-Ecateo) 48.
A partire, al piú tardi, dal II secolo a.C. e con Aristarco di Samotracia, si ebbe
un’esegesi professionale, inizialmente solo di testi omerici, ma rapidamente
estesa anche ai testi biblici, forse a partire da Aristobulo contemporaneo di
Aristarco. Con Filone, agli inizi del I secolo a.C., e Origene, alla fine del II ,
l’esegesi dei testi bibici raggiunse livelli comparabili a quella dei testi «classici».
Fra le culture testuali che si contrappongono l’una all’altra nella mezzaluna
fertile, le traduzioni furono ordinaria amministrazione, e con la versione dei
Settanta, la traduzione greca della Bibbia e la Stele di Rosetta questo investí
direttamente anche la religione. Testi importanti poterono essere rapidamente
tradotti; forse lo sforzo di copiare in una lingua straniera non appariva poi cosí
lontano da quello richiesto per una riformulazione nella propria lingua. In
aggiunta, tale processo di traduzione non doveva comportare la perdita di
identità: la creazione di uno specifico testo in un’altra lingua non rendeva
possibile solo l’assimilazione, ma anche la definizione di una varietà linguistica
distinta e con le proprie peculiarità, in termini di sintassi, semantica e lessico 49.
Una traduzione poteva anche avere un’aria aliena, cioè essere in grado di
mostrare l’origine straniera. Questo fu vero non solo per i Settanta, ma anche per
i testi di Nag Hammadi o il cosiddetto latino «cristiano».
Ma il multilinguismo richiedeva una manutenzione costante. Oltre alla Bibbia
dei Settanta, ulteriori traduzioni dall’ebraico o aramaico in greco furono
intraprese sino all’età imperiale. Si trattò di progetti di singoli individui, che
ebbero difficoltà a identificare se stessi come «giudei» o «cristiani» o lo fecero
in modo sempre differente. Questo vale per gli autori delle traduzioni della
Bibbia greca, Aquila, Simmaco o Teodozione, e anche per i redattori di
interpretazioni bibliche, i quali, come nel caso di Filone, possono essere
identificati come cristiani o, in modo polemico, come ebrei 50. Il siriaco permise
di trasportare i testi anche al di là dei confini dell’impero romano 51.
Il movimento rabbinico ha dimostrato che la rinuncia deliberata alla
traduzione potrebbe essere anch’essa uno strumento di controllo, acquistato però
a prezzo di espansione 52. Al contrario, traduzioni come l’adattamento celtico del
calendario romano di Coligny implicavano una perdita di controllo per i creatori
dell’originale 53. Questo si dà anche quando a cambiare è il genere letterario. Con
la tragedia Esodo, l’autore ellenistico Ezechiele portò la Bibbia in palcoscenico.
Flavio Giuseppe, in una riformulazione di materiale biblico in dieci dei venti
volumi delle sue Antichità giudaiche, fece della Bibbia un libro di storia.
Qualcosa di simile si trova nell’opera storica dello pseudo-Filone 54.
Tutti questi casi si riferivano maggiormente agli specifici interessi e alle
innovazioni dei singoli autori piú che alla formazione di gruppi. I corpora di
lettere pubblicati non hanno dato origine a reti, bensí, dando per scontato che tali
reti di relazioni esistessero, hanno permesso che queste diventassero un modello
per altri. Solo occasionalmente ci furono rapporti maestro-discepolo nell’ambito
della filosofia e delle «eresie» filosofiche, laddove haireseis significava appunto
«scuole». Costoro offrivano soprattutto una conoscenza sulla storia del proprio
gruppo, in modo da rafforzare l’identità collettiva contro gli attacchi provenienti
dall’esterno 55. Di conseguenza, spesso non erano i discepoli a scrivere queste
cose, ma figure terze.
La paternità autoriale è una caratteristica della letteratura antica che non deve
affatto essere data per scontata. La rappresentazione di storie o di norme intese
come lavoro di una persona determinata, e non di una collettività anonima,
indicavano responsabilità e autorità. Tale posizionamento individuale fu comune
anche fra i produttori di testi religiosi. In alcuni casi, ovviamente, gli autori, e
occasionalmente anche le autrici – non i gruppi! –, ricorsero alla strategia della
paternità del testo invisibile, spesso in forma pseudoepigrafica, soprattutto nel
genere apocalittico menzionato sopra, dove si presume che i testi siano appena
venuti alla luce. Per quanto riguarda il contenuto, questo metodo permise la
diffusione di importanti innovazioni e di acute polemiche. Allo stesso tempo,
assumevano posizioni minoritarie, ma diffuse al punto da essere
sufficientemente divisibili. Con una lettura appropriata, il singolo destinatario
avrebbe potuto sviluppare una particolare identità collettiva e diventare un
sapiente osservatore. In questo caso l’anonimato dello scrittore ha autorizzato i
riceventi 56. Dal I secolo d.C. in poi, le richieste di azione sembrano essere
tipicamente dirette da individuo a individuo. Questo ha dato luogo a teorie
cospiratrici e azioni repressive da parte dei governanti, come ripetutamente
descritto dalla storiografia, ad esempio da Cassio Dione, al punto da raggiungere
livelli paranoici.
Ovviamente, i testi potevano essere utilizzati all’interno di gruppi – per
esempio in quelli che si formavano di continuo nei santuari di Asclepio a
Pergamo 57 – ma solo in casi eccezionali la costituzione di questi gruppi si
realizzò effettivamente. Quel giudaismo che si era definito in relazione a una
collezione di testi e cominciava a emergere in diversi luoghi a partire dal periodo
ellenistico 58 fu in realtà un segmento di gruppi in cui la recitazione dei testi
avrebbe dovuto svolgere un ruolo sempre piú importante. Si trattò in questo caso
di una pratica diffusa dagli inizi del I secolo d.C., certamente prima della
distruzione del tempio 59, e che non si basava precisamente su tassi di
alfabetizzazione elevati. Altrove, tuttavia, qualche piccola traccia di comunità
testuali c’era. Le reti erano piuttosto locali o consistevano in weak ties, ovvero
legami deboli fra gli attori 60. Tipicamente, i testi coinvolti rimasero all’interno di
forum di discussioni élitari e ben al di qua della formazione di gruppi religiosi,
oppure godettero di una ricezione diffusa che andò ben al di là di quel livello.
Questo fu anche percepito da coloro che si vedevano minacciati da tali testi. Le
prove sono ampie, a partire dal rogo di 2000 raccolte di Oracoli sibillini da parte
di Augusto, o dalla soppressione di testi individuali indesiderati nella prima età
imperiale, per giungere alla ricerca mirata di libri col fine di distruggere le
strutture cristiane nel tardo II secolo e ad altre pratiche comparabili della tarda
antichità 61. Prima di questa fase, tuttavia, la distruzione ha sempre riguardato
singoli possessori o scrittori, ovvero le loro versioni degli eventi passati e delle
previsioni future. I testi non furono importanti per la genesi dei gruppi.
2. Le narrazioni.
I testi non creavano gruppi attorno a loro, ma, a parte gli inni (i cui autori
erano spesso conosciuti per nome) e le preghiere parlate, la lettura o l’ascolto
furono di gran lunga le pratiche religiose piú importanti in epoca imperiale 62.
Erano prodotti individuali, che richiedevano particolari modalità di utilizzo e che
riflettevano queste stesse pratiche e aspettative. I creatori e le creatrici dei testi
contribuirono in questo modo ai cambiamenti del periodo e i testi, a loro volta,
furono modificati da tali cambiamenti. Non tutti i testi erano o offrivano
narrazioni, tuttavia erano opportunità per affermare la propria identità e la
propria relazione con il mondo, specchiandosi nelle vite degli altri, nelle loro
«storie». Le narrazioni alteravano processi reali o immaginati, dalle genealogie
ai riti, in una forma di conoscenza in grado di essere ripetutamente raccontata.
La stesura che è giunta sino a noi è, in questo senso, solamente un’istantanea di
una narrazione che è stata costantemente ampliata, modificata, e che spesso si è
anche estinta. La religione testualizzata fu soggetta a tali trasformazioni nella sua
interezza.
Il raccontare storie, in forma orale o scritta, ma reso piú difficile dall’assenza
del narratore, fu, al di là del contenuto, un fenomeno sociale. Il narratore,
precario nel suo essere un visionario e al contempo credibile, doveva generare
accettazione per mezzo della coerenza e della verificabilità dei suoi riferimenti a
fatti o ad altre narrazioni 63, o in forza del proprio nome o di uno pseudonimo
plausibile. Le narrazioni pertanto generavano comunità, cioè comunità
immaginate, offrivano un «noi» a cui ci si poteva unire o opporre. Estese
narrazioni storiche si sono offerte a un gruppo ben preciso. Le favole brevi,
d’altra parte, con i loro attori non nitidamente definiti o semplicemente non
umani, si offrivano ai lettori e alle lettrici di ogni orientamento 64. Occuparsi
delle strutture delle narrazioni religiose di epoca imperiale permette pertanto di
farsi un’idea significativa delle competenze e delle identità religiose in questo
ambito 65.
Uno dei modi in cui a Roma la religione fu dotata di una base di conoscenze
nella seconda metà del I secolo a.C. fu il racconto storico. Varrone, nelle
Antiquitates, purtroppo giunte a noi solamente in modo frammentario,
sembrerebbe aver strutturato il suo lavoro con compendi storici nei libri I e XV
(quindi prima delle riflessioni filosofiche conclusive), raccontando delle
fondazioni dei templi e dei rituali. Tutto questo prendeva le mosse
principalmente, ma non esclusivamente, dagli sviluppi della città di Roma.
Intenzionato a rappresentare la religione come qualcosa che si era sviluppato
storicamente, ma che avrebbe potuto svilupparsi anche in altri modi, uno dei fini
di Varrone fu quello di dare spazio anche alla ricezione di istituzioni non
romane: nel contesto dell’espansione imperiale nel corso del I secolo, Roma
doveva essere rappresentata come una città aperta, dove la cultura era
potenzialmente universale 108. Due generazioni dopo, nelle Metamorfosi, Ovidio
offriva un’antropologia universale e una storia culturale con al centro Roma,
mentre Valerio Massimo, negli anni Trenta del I secolo d.C., dimostrava che i
modelli extraromani (externi) avrebbero potuto avere una rilevanza per l’etica
all’interno dell’impero romano nell’epoca del principato. Strabone e Pompeo
Trogo, da outsider, provenendo rispettivamente dalla Grecia e dalla Gallia,
avevano già scritto narrazioni universali che mostravano come il territorio
appena conquistato dai romani fosse portatore di una lunga e variegata storia 109.
Queste narrazioni, comuni a tutte le storiografie, furono costruzioni dei loro
stessi autori. Essi riorganizzarono il passato per mettersi in relazione coi
problemi del presente, sentendosi, in questo modo, abilitati ad affrontarlo
direttamente, nella forma, ad esempio, di una vita provinciale all’interno
dell’impero romano. Ma al contempo erano in grado di affrontare particolari
sviluppi dell’impero romano, sia muovendo critiche sia mostrando approvazione.
Lo pseudo-Filone, nel «libro sulle antichità bibliche», ha offerto una storia
biblica degli inizi che trattava contropelo la serie dei governanti e le genealogie
presentate nei libri delle Cronache. Essendosi egli stesso confrontato, nel corso
del I secolo d.C., con una monarchia «giudaica» ripetutamente criticata di essere
giudaica solo di nome e in grado di governare grazie alla clemenza dei romani,
l’anonimo autore racconta una storia in cui la successione non è piú per diritto di
nascita, ma in forza di una serie di scelte divine, che hanno reso possibile
l’alternanza tra profeti e re 110.
64. Mano usata come simbolo di Sabazio al posto di una raffigurazione antropomorfa completa; 13 cm,
bronzo, età imperiale.
Ma la vita a Roma non era grigia. Nel 354 d.C., il calligrafo Furio Dionisio
Filocalo consegnò un lussuoso calendario in forma di codice, noto oggi come il
«Cronografo del 354», al suo dedicatario 60. La dedica fornisce il nome di
quest’ultimo, Valentino, probabilmente un membro minore della famiglia dei
Simmachi, consolare di Campania dal 364 al 375 e fratello del celebre oratore e
sacerdote Quinto Aurelio Simmaco 61. Il committente, se non addirittura
l’ideatore del testo, fu presumibilmente il padre, Lucio Aurelio Aviano
Simmaco, oratore e forse poeta e, al tempo della sua morte nel 376, membro di
due prestigiosi collegi sacerdotali 62. Furio fu l’inventore delle elaborate lettere
filocaliane che dominarono gli epitafi dei martiri e dei vescovi commissionati
dal vescovo Damaso dopo il 366 63.
La copertina identificava il codice come una raccolta di documenti ufficiali.
L’opera si inseriva quindi in un processo attraverso il quale migliaia di rotoli di
testi letterari delle biblioteche pubbliche e private furono trascritti in forma di
codice. Allo stesso tempo, furono creati nuovi testi, come l’epopea
dell’aristocratica romana Faltonia Betitia Proba, morta prima del 380,
sull’usurpazione di Magnenzio dal 351 al 353, e il suo Cento, una preghiera a
Cristo composta da un pastiche di emistichi virgiliani 64. Tali attività non erano
semplicemente casuali. Un osservatore contemporaneo, il filosofo itinerante
Iunior, caratterizzava la classe senatoriale come disinteressata alle funzioni
politiche. I membri preferivano piuttosto godersi le loro proprietà di campagna e
venerare gli dèi. In questo caso, la religione non era primariamente un’arena per
il conflitto politico, bensí un campo di studio caratteristico del modus vivendi
senatoriale 65.
Dedicata a Valentino per la sua educazione (paideia), l’opera contiene
informazioni cronologiche e storiografiche: rappresentazioni di quattro divinità
della città, una dedica agli imperatori regnanti in nome del proprietario del libro
Valentino, un elenco dei compleanni degli imperatori in forma di calendario e
rappresentazioni degli dèi planetari, seguite da informazioni astrologiche sui
dodici segni zodiacali. Queste indicavano quali attività fossero da preferire
quando la luna si trovava nel segno in questione. A questo punto Filocalo fa
seguire al calendario dodici pagine doppie. Le date delle feste ebraiche e
cristiane sono assenti. I ritratti di due consoli – probabilmente quelli per il 354 –
separano il calendario da un elenco di «consoli» dal 509 a.C. sino ad allora,
completato da tutti i quattro riferimenti temporali: la nascita di Gesú Cristo (1
d.C.), la sua morte (29), l’arrivo di Pietro e Paolo a Roma «per assumere
l’episcopato» (33) e le loro morti nel 55. Seguono le date di Pasqua dal 312 (e
previste fino al 411) e un elenco dei praefecti urbis. Filocalo aggiunge poi una
lista, ordinata come un calendario, delle sepolture dei vescovi nella città di Roma
con la loro data di morte, dal 255 al 310/11, cosí come le «deposizioni» dal 336
e 352, insieme a un elenco simile per i funerali o «compleanni» (dies natales)
dei martiri (forse furono i suoi committenti a farglielo aggiungere) 66, seguito da
un elenco cronologico degli episcopi romani. Quest’ultimo inizia con la
sequenza di successione da Cristo crocifisso a Pietro. Nelle copie piú tarde del
Cronografo vennero poi aggiunti altri elementi.
La composizione non fu casuale. Alla base c’era un interesse per l’astrologia:
l’autore, infatti, non solo dedica a essa le prime dieci pagine del codice, ma la
inserisce anche in ulteriori liste. L’elenco dei consoli, che contiene informazioni
sulle caratteristiche planetarie e lunari all’inizio dei rispettivi anni di incarico,
non aveva precedenti. L’interesse astrologico viene poi esteso alla nascita e alla
morte di Cristo. Gli eventi sociali sono naturalizzati, legati a un ordine
cosmologico che trascende le contingenze della storia e ritmati da un ciclo di 84
anni, utilizzato anche per calcolare le future date della Pasqua. Nonostante le
critiche di alcuni intellettuali, l’astrologia restava il metodo piú sviluppato
dell’epoca per comprendere il cosmo 67.
All’interno del quadro cosmologico, a Valentino ne fu offerto anche uno
imperiale. All’inizio del suo codice, Filocalo mostra una Fortuna alata, scrivendo
salvis Augustis felix Valentinus su uno scudo, da cui consegue che il benessere
degli Augusti e la felicità individuale sono in relazione fra loro. Le implicazioni
geografiche sono illustrate dall’inclusione delle Fortunae di Roma, Alessandria,
Costantinopoli e Treviri, ma il focus rimane fisso su Roma. Il codice fu prodotto
poco prima che Costantinopoli ricevesse piú peso e prestigio istituzionale,
attraverso il trasferimento in città di importanti reliquie nel 357, la carica di
praefectus urbis introdotta per analogia con Roma 68 e forse anche una Curia,
costruita da Giuliano per il «senato di rango inferiore» della capitale orientale 69.
In previsione di tali cambiamenti, l’autore del codice prese una decisione, forse
persino mettendosi lui stesso alla ricerca dell’elenco dei prefetti della città, e
aggiungendo un elenco di vescovi che proclamavano un’unica linea di
successione da Cristo ai di lui contemporanei funzionari romani. La città era
romana, in primo luogo, e non certamente una moltitudine di migliaia di vescovi,
tra i quali molti importanti funzionari, come aveva lasciato intendere, già
decenni prima, Eusebio di Cesarea nella Storia ecclesiastica.
Con la scelta e la realizzazione del testo, al codice venne anche assegnato un
posizionamento religioso. Ciò vale, ad esempio, per il suo riferimento ai conflitti
coi Novaziani, che, come i Donatisti, avevano il proprio vescovo di Roma e
certamente anche le loro liste di successioni, con nomi che differivano dai nomi
delle liste di Filocalo 70. Le questioni cristiane contemporanee erano complicate.
Cosí il vescovo esiliato Liberio, che aveva sostenuto la causa di Magnenzio,
sarebbe dovuto tornare in città e confrontarsi con un rivale, Felice, eletto nel
335. E questi non erano affatto casi isolati. Al contrario, erano situazioni proprie
delle rivalità e del pluralismo del cristianesimo romano, come avrebbero
dimostrato gli eventi degli anni a venire sotto il vescovo Damaso 71. Una
genealogia unificata era dunque una dichiarazione altrettanto chiara di quella dei
fasti consolari. Le tradizioni e la legittimità di alcuni culti dei martiri e luoghi a
essi connessi vennero messe in questione in questo momento 72. Anche il
problema delle date della Pasqua era una controversia attuale (e permanente) 73.
Fornire le date per il successivo mezzo secolo usando il metodo di calcolo
romano – perché ce n’erano anche altri! – voleva dire sposare una posizione,
ovviamente quella vincente.
Il padre (probabilmente) di Valentino e l’artefice del Cronografo gli
presentarono una collezione privata di singole versioni delle tradizioni piú
antiche. La conoscenza religiosa, specialmente la conoscenza storicizzata, era
una questione di formazione e di riflessione. Nuove pratiche religiose, istituzioni
e narrazioni furono cosí legate a una struttura di base, caratterizzata
dall’astrologia, dall’iconografia classica degli dèi e dalle secolari istituzioni
romane. Le rigide linee di demarcazione nei conflitti in corso, ad esempio contro
i Novaziani, cosí come una tendenza all’armonizzazione quando si affrontavano
tensioni piú generali, alla luce di un cristianesimo che risaliva all’epoca iniziale
dell’impero imperiale, facevano parte di questa appropriazione individuale
élitaria della religione, che poteva essere coltivata, fatta oggetto di riflessione e
praticata anche in privato.
Come nel caso del codice del 354 a.C., ci furono tentativi anche altrove, e non
solo in ambito filosofico, di abbinare nuove tradizioni alle pratiche culturali delle
classi piú elevate, rendendole cosí adatte alla formazione dell’élite 74. Questo
avvenne non solo a Roma. Il presbitero Gaio Vettio Aquilino Giovenco, egli
stesso «di illustre lignaggio», viveva in Spagna, nel sud di una delle province piú
fortemente romanizzate. Negli ultimi anni del regno di Costantino, stava
lavorando a una versione dei Vangeli in quattro volumi in versi 75. Nella sua
prefazione, Giovenco si riallacciò abbastanza esplicitamente alla tradizione epica
greco-latina, collocandosi nella linea di Omero e Virgilio. Come costoro,
anch’egli associò la sua narrazione a un fiume – in questo caso il Giordano – ma
anziché mentire sulle azioni degli esseri umani, affermò di offrire il «sicuro
fondamento della fede» (certa fides) fornito dalle opere di Cristo. Giovenco
considerava l’attività poetica come una performance religiosa che avrebbe avuto
il proprio peso nel bilancio finale della sua esistenza, cosa che fu anche decisiva
per la ricezione di Erma e che sarebbe servita per la copiatura e la scrittura di
ulteriori epiche bibliche e dei ben piú numerosi Atti dei martiri.
I quattro libri dell’opera costituivano una biografia basata sulla versione del
Vangelo di Matteo, ma integrata da quelli di Luca e Giovanni. Il Vangelo di
Marco era ancora poco letto in questo periodo 76. Contrariamente alla successiva
asserzione dell’esperto del canone Girolamo, Giovenco, coi suoi quattro volumi,
non si basò su nessun canone, bensí misurò la sua narrazione sul modello
classico della durata della giornata, sino all’inizio della notte o al tramonto del
sole. Anche nel registro, Giovenco cercò di raggiungere il tono eroico del metro
servendosi di un corrispondente adeguamento del suo stile di prosa.
In una sottocultura letteraria, una tale opera era una scommessa, al punto che
trovò un erede solo quasi cent’anni dopo: questi si riallacciò direttamente a
Giovenco e non piú a Virgilio. Ma la narrazione risalí molto piú indietro nel
tempo. Si attribuí piú importanza all’interpretazione del testo fondamentale. La
definizione di una posizione teologica era ormai considerata uno strumento di
distinzione piú appropriato dell’idea di utilizzare testi di alto valore per avere
successo coi membri di uno strato sociale superiore e che, a partire dal V secolo,
aveva adottato da tempo il paradigma cristiano 77. Per contro, a quella prima
generazione apparteneva anche la già citata Faltonia Betitia Proba, membro
dell’aristocrazia romana e moglie di un praefectus urbi. Poco dopo la metà del
IV secolo, scrisse un epos biblico di circa settecento versi. Il poema copre il
periodo dalla creazione a Noè e all’esodo dall’Egitto, ricollegandosi poi
direttamente alla nascita e alla vita di Cristo. Realizzando il testo nella forma del
centone virgiliano, attraverso un processo di atomizzazione e ricombinazione, si
è cosí potuto dare all’antica tradizione epica un significato completamente
nuovo. Questo innesto fece sí che l’opera fosse all’altezza dell’antica origine e al
contempo una nuova creazione; la sua diffusione pertanto non deve essere
sottovalutata 78. Il riferimento a diverse tradizioni fu esplorato piú di mezzo
secolo dopo da Nonno di Panopoli nella sua epica su Dioniso, realizzata secondo
la lunghezza e la struttura dell’Iliade e dell’Odissea, diventando cosí, coi suoi 42
libri, il piú lungo di tutti i componimenti epici antichi 79. L’epica biblica si era
solo affiancata ai compendi epici degli altri miti, senza rimpiazzarli.
4. In concorrenza.
1. Sul fenomeno delle missioni e le sue conseguenze vedi Fuchs, Linkenbach e Reinhard (a cura di) 2015. Il
concetto di rete in questo contesto è sviluppato in Habermas 2008. Sulle conseguenze, spesso solamente
di breve durata, di altri imperialismi (non prendendo in considerazione gli imperialismi centro e
sudamericani), vedi Reinhard (a cura di) 2014.
2. Questo consiglia l’uso della periodizzazione prima e dopo Cristo (a.C./d.C.). Considerata infatti
l’esistenza di altre periodizzazioni molto diffuse, non possiamo definirla common era né vogliamo
nascondere la sua specifica origine cristiana per mezzo della formula «la nostra era» (unsere
Zeitrechnung).
3. Vedi per esempio Meena 2013.
4. Durkheim 1912. Vedi anche Pickering 2008; Rosati 2009.
5. Asad 1993; McCutcheon 1997; Masuzawa 2000 e 2005. Per un’analisi dettagliata di quanto segue: Rüpke
2015e.
6. Nongbri 2013.
7. Luckmann 1967. Vedi anche Dobbelaere 2011, p. 198 e Rüpke 2016d.
8. Per la critica al riduzionismo della teoria della modernizzazione vedi Rüpke 2012h e per un’analisi piú
dettagliata Rüpke 2013d.
9. Sulla nozione di appropriazione vedi Certeau 1980 e anche Füssel 2006. L’aspetto frammentario rimane
centrale per Certeau 1987.
10. Rüpke 2012d, in riferimento a McGuire 2008.
11. Sulle reti religiose nell’antichità vedi Rutherford 2007; Eidinow 2011; Rüpke 2013e; Collar 2014.
12. Sugli dèi come «attori» vedi anche Latour 2005, p. 48.
13. Boyer 1994.
14. Archer 1996, pp. 225-26.
15. Si veda per esempio Kippenberg, Rüpke e Stuckrad (a cura di) 2009. Per il XIX secolo: Nipperdey 1988;
Hölscher 2005.
16. Per un esempio di come si possa scrivere una storia delle religioni partendo dai singoli attori vedi Lane
Fox 1988.
17. Per una ricerca sull’individualizzazione religiosa al di là del cristianesimo e della cosiddetta modernità
vedi Rüpke 2012h; Rüpke e Spickermann (a cura di) 2012; Rüpke 2013d; Fuchs e Rüpke 2015; Fuchs,
Linkenbach e Reinhard (a cura di) 2015.
18. Vedi Rüsen 1990 e Certeau 1975.
19. Si vedano per esempio i lavori di M. Weber 1985 e Schütz 1981, o quello precedente di Geertz 1973.
20. Vedi Joas 1996.
21. Emirbayer e Mische 1998.
22. Ibid., p. 970.
23. Fondamentali a questo proposito sono Emirbayer e Mische 1998, ripresi da Hitlin e Elder 2007,
Dépeltau 2008, Campbell 2009, Noland 2009, Small 2011, Silver 2011.
24. Emirbayer e Mische 1998, pp. 975, 983, 993.
25. Ibid., p. 1004.
26. Vedi per esempio Brelich 1969; Cancik 1973.
27. Vedi Gill 2008, 2009b; Setaioli 2013; Rüpke e Woolf 2013b.
28. Vedi Rüpke 1995a, 2006f.
29. Vedi Gordon 2013d.
30. Vedi per esempio Belayche et al. 2005; Santangelo 2013.
31. Rebillard 2012, pp. 2-5 sulla salient identity.
32. Di capitale importanza per la social identity theory sono stati i lavori di Tajfel e Turner (vedi Tajfel
1974, p. 69 sulla definizione di gruppo; J. C. Turner 1975). Per una sintesi vedi Ellemers, Spears e
Doosje 1999.
33. Ashmore, Deaux e McLaughlin-Volpe (a cura di) 2004, p. 83 con un grafico illustrativo.
34. Beard 1991; cfr. Woolf 2012a.
35. Vedi Ashmore, Deaux e McLaughlin-Volpe (a cura di) 2004, p. 84.
36. Van Dommelen, Gerritsen e Knapp 2005, p. 56.
37. Vásquez 2008, p. 167 in riferimento ad Appadurai 2000.
38. Quanto segue si trova in Rüpke 2014e.
39. Sperber e Wilson 1987, Wilson e Sperber 2002 e 2012.
40. Si veda per esempio il caso di Sparta descritto in Richer 2012, cap. V . Sull’assenza di sacerdoti nei
santuari rurali punici vedi López-Bertran 2011, p. 57.
41. Vedi per esempio Fögen 1993; Sear 2006.
42. La questione è ampiamente trattata in Otto 2011; sul dibattito scientifico a riguardo vedi Otto e
Stausberg 2013.
43. Su questa concezione dinamica della sacralizzazione e per una critica dell’uso scientifico del concetto di
sacro vedi Rüpke 2013m. Sulle definizioni di religione basate sul «sacro» vedi brevemente Dobbelaere
2011; Taves 2009 sostituisce questo concetto con quello di «speciale».
44. Cfr. J. E. Cameron 2004, p. 257 (senza alcun riferimento alla religione).
45. Punyanunt-Carter et al. 2008.
46. Vedi Onorato e Turner 2004; Verkuyten e Martinovic 2012.
47. Questa pretesa da parte degli studi religionistici è giustificata da Taves 2011.
1. Sulla fecondità della metafora della tessitura vedi Scheid e Svenbro 1996. Prendo il concetto di
«speciale» come definizione generale di religione da Taves 2009.
2. Per un esaustivo resoconto sul sacrificio animale nel Mediterraneo dell’età del Bronzo vedi Wilkens
2012.
3. Zuchtriegel 2012; per i periodi successivi vedi Prayon 1990; Giontella 2011. Per una discussione
generale su questi depositi vedi Haynes 2013.
4. Vedi per esempio Pezzoli-Olgiati e Rowland (a cura di) 2011, brevemente a p. 11.
5. Sul termine e il contesto di ricerca: Rüpke 2012h, 2013g, 2013f.
6. Meyer 2008.
7. Per una trattazione completa della questione Raja e Rüpke (a cura di) 2015b. Per un breve accenno
all’«archeologia postprocessuale» Cazzella e Recchia 2013; sulla costruzione teoretica della correlazione
fra oggetti, loro biografia e agency vedi Latour 2005; Hodder 2012.
8. Sulla regione mediterranea come ambito storico dell’agire vedi Horden e Purcell 2000; Woolf 2003;
Abulafia 2005; Harris 2005; Horden e Purcell 2005.
9. Ridgway 2000a, p. 181; Recchia 2011; Alberti e Sabatini 2012.
10. Snodgrass 2000, p. 173.
11. Bietti Sestieri 2010.
12. Cazzella e Recchia 2009.
13. Perdigones Moreno 1991; a proposito del contatto: López Castro 2005.
14. Vedi Bresson 2005, pp. 100-2; sui contatti fra medio oriente e Grecia in ambito religioso vedi per
esempio Auffarth 1991; Bremmer 2008; Burkert 2011b.
15. Bietti Sestieri 2005, pp. 16-17.
16. Per Malta: Freeden 1993; per la Britannia: Darvill 2010, p. 221.
17. Morris 2009, p. 66.
18. Per una critica di questo modello vedi C. J. Smith 2006.
19. Per esempio Gilman et al. 1981.
20. Rathje 2005, p. 26.
21. C. Morgan 2009, p. 54.
22. Prayon 2004b, pp. 88-89.
23. Mazarakis Ainian 1997, p. 394; Morris 2009, p. 73; De Polignac 2009, p. 429.
24. C. Morgan 2009, p. 53.
25. Secondo la datazione di Mazarakis Ainian 1988.
26. Mazzocchi 1997, p. 179.
27. Papadopoulos 1980.
28. Kyrieleis 2008.
29. De Polignac 2009, p. 440.
30. Bietti Sestieri 2005, pp. 18-19; Tore 1983, p. 458.
31. Lo Schiavo 2002, p. 4.
32. Ibid., p. 12.
33. Tore 1983.
34. Lo Schiavo 2002; vedi anche Torres Ortiz 2005 per la Spagna.
35. Kleibrink 2000, pp. 443-44. Simili ritrovamenti sono attestati a Roma nella Casa delle Vestali: Argento,
Cherubini e Gusberti 2010, p. 81.
36. Kleibrink 2000, p. 441.
37. Kleibrink, Kindberg Jacobsen e Handberg 2004, p. 48; vedi anche Scheid e Svenbro 1996.
38. Questa interpretazione si basa su Mauss 1925.
39. Vedi per esempio Beijer 1991.
40. Per i corredi funerari vedi Laneri 2007 e 2011; Rieger 2016.
41. Zuchtriegel 2012, p. 235. Sul tempio: p. 259.
42. Ibid., p. 269.
43. Di Giuseppe e Serlorenzi (a cura di) 2010.
44. Luckmann 1967.
45. Comella 1981 e 2005d.
46. Per il periodo imperiale cfr. Rüpke e Woolf 2013b.
47. Van Rossenberg 2005, p. 90.
48. Wilkens 2002 e 2012, pp. 75-76.
49. Devo ringraziare Julie Casteigt, fellow del Max-Weber-Kolleg, per questo suggerimento.
50. Gilman et al. 1981. I corredi funerari sono interpretati in questo modo per esempio nel caso della
deposizione di armi a Vulci, dove diventano marcatori di un cambiamento all’interno dell’omogeneità
sociale (Cherici 2005); vedi anche Putz 1998.
51. Seguo qui C. J. Smith 2005, pp. 76-78, in particolare l’applicazione di questo concetto al caso di Roma.
52. Wilkens 2012, p. 57.
53. Bartolini 2013, p. 80.
54. Van Rossenberg 2005, p. 88.
55. Pettitt 2011.
56. Buranelli 1983, p. 117; la cronologia è oggetto di dibattito.
57. Sgubini e Ricciardi 2005, p. 526. Tabolli 2013 ha stabilito che le temperature di cremazione
nell’insediamento falisco di Narce nell’VIII e nel VII secolo a.C. sono state fra i 600 e i 700 gradi
Celsius.
58. Van Rossenberg 2005, p. 87.
59. Cfr. ibid. e, piú in generale sulle strategie di delimitazione degli spazi religiosi in questo periodo, Van
Dommelen, Gerritsen e Knapp 2005; per la Siria del III millennio a.C. cfr. A. Porter 2008. Sulla
temporanea costituzione di necropoli delimitate a Tarquinia vedi Buranelli 1983, p. 117.
60. Per Tarquinia vedi Steingräber 1985a, p. 74.
61. Per Orvieto: Prayon 1975, p. 179; per Cerveteri: Izzet 2007, p. 117.
62. Marín Ceballos e Belén 2005; Ridgway 2000a e 2000b; Prayon 2000.
63. Colonna 2000, pp. 258-59, segnala queste differenze per le città vicine di Cere, Populonia e Vetulonia a
proposito dell’accesso alle tombe, della frequenza e della durata nell’uso dei tumuli. Vedi anche
Steingräber 1985b, p. 35, a proposito dell’orientamento delle tombe.
64. Cuozzo 2005.
65. C. J. Smith 2006, p. 145; sul problema dell’identificazione dei clienti vedi D’Agostino 2005. In
generale: Laneri 2007, pp. 9-10.
66. Rüpke 2012b.
67. Carroll 2006; Carroll e Rempel (a cura di) 2011; Hope e Huskinson (a cura di) 2011.
68. Sul significato di questa fase: Laneri 2011, pp. 28-29.
69. Croucher 2012.
70. Van Rossenberg 2005, p. 88. Per una possibile pratica di esposizione della salma su un tumulo
sepolcrale a Cortona nel VI secolo a.C. vedi Prayon 2010, p. 77.
71. Kleibrink 2000, p. 453.
72. Zuchtriegel 2012, p. 241.
73. De Grummond 2006; Radke 1970 e 1979.
74. Pfiffig 1975, pp. 240, 260, 270.
75. Maggiani 1997, pp. 431-32; Pfiffig 1975, p. 24; sui gruppi linguistici stabili: Renfrew 1993, p. 48.
76. Rüpke 2012d. Sul concetto di appropriazione di Certeau vedi Füssel 2006; Certeau 1980.
77. La descrizione di Veio si trova in Maggiani 1997, pp. 433-34.
78. Lorusso e Affuso 2008.
79. In un modo particolarmente sofisticato su quei recipienti di bronzo chiamati situla, per esempio Wamers
et al. 2011, pp. 63-66. Sulle figure di bronzo provenienti dalla zona etrusca settentrionale e datati
all’VIII-VI secolo a.C. vedi Marchesi 2011.
80. Prayon 1998a e 2004b. Tuttavia, esempi isolati esistono a diverso livello, per esempio i Giganti di
Mont’e Prama in Sardegna (IX-VIII secolo a.C.) o i menhir della Lunigiana che vanno dal neolitico
all’VIII o persino VI secolo a.C. Per una trattazione piú generale del ruolo della diffusione vedi
Wilkinson, Sherratt e Bennet (a cura di) 2011.
81. Plinio, Naturalis historia 35,152; vedi anche Dionigi di Alicarnasso 3,46,3-5; Strabone 5,2,2; Roncalli
1985, p. 75. Sull’influsso esercitato dagli artigiani a Pitecusa, il primo insediamento greco in Italia, vedi
Scatozza Höricht 2006.
82. Prayon 2004b. I malintesi evidenti nella produzione di tali oggetti mostrano l’uso di modelli punici:
Meissner 2004.
83. Su Lefkandi vedi Lemos 2000.
84. Mazzocchi 1997.
85. Kimmig 1985.
86. Questa analogia si trova in Holloway 2005, p. 34.
87. Torelli 2011, pp. 3-4; Edlund-Berry 2011; Lulof 2011.
88. Torelli 2011, p. 5, fig. 4.
89. Sulla discussione dei possibili precursori: Coarelli 2011, pp. 49-50; ma anche Zuchtriegel 2012, p. 293.
90. Izzet 2000 e 2007, pp. 130-42; vedi anche pp. 128-29 sulle mura e le porte. Su simili pratiche di guida
visuale posizionando fregi con immagini o costruendo il frontone in Grecia: Osborne 2000.
91. Kleibrink, Kindberg Jacobsen e Handberg 2004.
92. Bonghi Jovino 2005. Sulla discussione: Riva 2010; Fulminante 2014.
93. Berardi e Priori 1997.
94. Aigner-Foresti 2000.
95. Roth-Murray 2005; una situazione differente a proposito del Lazio è sostenuta da Kleibrink 2000, p. 458
e Bietti Sestieri 2010, p. 274; per l’Etruria Id. 2011, p. 410. Vedi anche Gleba e Horsnaes 2011.
96. Rüpke 2013a.
97. Winther 1997, p. 424.
98. Botto 2005.
99. Batino 1998, pp. 34-35.
100. Zuchtrieger 2012, pp. 259-62. Per strutture rituali e ritrovamenti contemporanei e successivi ad Anagni
vedi Gatti e Picuti (a cura di) 2008, pp. 31-48.
101. Vedi cap. VI , § 1.1.
1. Le osservazioni che seguono si basano sull’analisi degli scavi olandesi in C. J. Smith 1999. Io propendo
per la datazione alta a proposito del «tempio 0».
2. Vedi ibid., p. 466. Questi processi di differenziazione possono essere osservati nella civiltà villanoviana a
partire al piú tardi dall’VIII secolo a.C. (Giardino, Belardelli e Malizia 1991).
3. Sul concetto di monumentalità vedi Meyers 2012.
4. Diversamente C. J. Smith 1999, p. 458.
5. Coldstream 2003, p. 317; la tipologia che segue è trattata alle pp. 321-27.
6. Vedi ibid., pp. 328-29.
7. Ibid., p. 327.
8. Ibid., p. 338.
9. Cfr. Van Wees 2011, p. 19 su Göbekli Tepe.
10. Coldstream 2003, pp. 329-30.
11. Come nel caso della Tomba Castellani vicino a Preneste (per una sintesi, Coarelli 2011, p. 30). A tal
proposito dobbiamo anche pensare alle voluminose statue greche di donne (korai; vedi Franssen 2011, p.
402).
12. Vedi ibid., p. 467.
13. Bouma 1996.
14. Ibid., cap. VIII . Vedi anche Bouma e Prummel 1997.
15. Sinn 2005b, p. 88.
16. Lulof 2006, pp. 239-40 argomenta in modo convincente questa ipotesi.
17. C. J. Smith 1999, p. 465.
18. Ibid., p. 466.
19. Vedi cap. II , § 5.1.
20. Per esempio Meuli 1946; Burkert 1981 e 1984; Cancik-Lindemaier 1987; Hultgård 1993; Müller-Wille
1999; Gladigow 2000; Janowski e Welker (a cura di) 2000; Zemmer-Plank (a cura di) 2002;
Mylonopoulos 2006; Stroumsa 2005b. Vedi anche Girard 1972; Hamerton-Kelly (a cura di) 1987.
21. Rivisto in Rüpke 2006b, pp. 140-46.
22. In breve Comella 2005b, p. 226 e anche 2005c; 2005e.
23. Sulla teoria delle relazioni del sé con se stesso, gli altri e il mondo vedi Rosa 2016.
24. Vedi Van Wees 2011, in particolare pp. 3-5, in cui si mette in rilievo come la competizione come
«forza» storica non segua una direzione costante.
25. Vedi Franssen 2011, pp. 397-98.
26. Per uno sguardo d’insieme vedi Ben Abed e Scheid 2003. Sull’Etruria vedi Prayon 1990; per l’Italia
centrosettentrionale nel suo complesso vedi Giontella 2011.
27. Vedi sotto, a proposito del complesso di Portonaccio. Una cisterna fu installata anche a Sant’Omobono
(ringrazio Marlis Arnold per l’informazione).
28. In breve Attenni 2013.
29. Osanna e Sica 2005; ripreso da Cerchiai 2008.
30. Vedi cap. I , § 3.2 sul concetto dell’identità religiosa collettiva.
31. Vedi per esempio la caratterizzazione del «monoteismo» della religione minoica, formulato a partire da
queste linee argomentative, in Peatfield 1994, p. 34, e in Barberis 2004, pp. 195-99 per Metaponto (in
breve, Barberis 2005). Sulla persistenza delle forme aniconiche per i simboli degli dèi vedi Gaifman
2012.
32. Cosí Prayon 2010, p. 75.
33. Non è chiaro fino a che punto siano stati definiti questi legami familiari. È certo comunque che il VII
secolo a.C. vide l’emergere del nome gentilizio nell’Italia centrale, che indicava un rapporto familiare
che andava ben oltre il patronymikon greco: Rix 1972.
34. Diversamente, per esempio a Pisa, vedi Prayon 2010, p. 76.
35. Ibid., pp. 78-81.
36. Ibid., pp. 78-79.
37. Sinn 2005a, pp. 15-16.
38. Colonna (a cura di) 1985, p. 23; per i particolari vedi Bonghi Jovino e Bagnasco Gianni 2012, p. 31.
39. Vedi già Catone, De agri cultura 18,6.
40. Per un quadro d’insieme vedi Comella 2005a; Marcattili 2005; Menichetti 2005.
41. Argento, Cherubini e Gusberti 2010, p. 86.
42. Vedi Bomhard e Kerns 1994, p. 530, nota 381. Cosí anche l’assonante termine ittita per «focolare».
43. Cfr. Matasović 2010 per l’inusuale costruzione, che riprende un’espressione dal campo semantico del
«fuoco» per «focolare», mentre solitamente si nota una generalizzazione che procede nell’altra direzione.
44. Critici nei confronti della ricerca precedente (ma proseguendo con la messa a fuoco sul sacrificio):
Ekroth 2011, López-Ruiz 2013 e Naiden 2013.
45. C. Bell 1992; Humphrey e Laidlaw 1994; Rüpke 2013l.
46. Vedi Scheid 1985 e 1988, per l’analisi dell’importanza rivestita dal pasto festivo romano sullo sfondo
degli studi dedicati al sacrificio nel contesto greco.
47. Per l’antica Grecia vedi Coldstream 2003, p. 332.
48. Per il periodo antico questa constatazione può essere estrapolata solo sulla base delle prove offerte dalla
tarda repubblica e dall’età imperiale: Rüpke 2005d. Vedi anche Veyne 2000. Per l’importanza
dell’alterità nella creazione dello spazio rituale vedi Mol 2015.
49. Linke 2003; Berg 2008; Estienne 2011.
50. Coldstream 2003, p. 321. La velocità della diffusione dipese sia dai mezzi sia dai motivi. I motivi che
possedevano un’importanza attuale per i tempi «viaggiavano» velocemente sulle ceramiche in Grecia,
tanto che divennero popolari nella Magna Grecia nel giro di pochi anni. Quelle tendenze che invece
risultavano meno rilevanti dal punto di vista politico giunsero con un ritardo di un quarto di secolo circa
(Giudice 1998, p. 147).
51. Greco 1998, pp. 47-48. Sul sito nei pressi del Sele vedi Greco 2008 e Cipriani 2008.
52. Greco 1998, p. 58. Per i casi paralleli: p. 62.
53. Breglia Pulci Doria 1998, pp. 97 e 107.
54. Gaultier 2010, p. 121: io seguo questa ricostruzione.
55. Ibid., pp. 122-23; su Ercole: Plinio, Naturalis historia 35,157.
56. Gaultier 2010, p. 125 in riferimento a Etruskische Texte Ve 3,40. 37. 10. 9. 14. Vibenna: Etruskische
Texte Ve 3,11; Thesaurus linguae Etruscae 35.
57. Gaultier 2010, pp. 127-28.
58. Sulla profondità del fastigio etrusco rispetto all’architettura greca in pietra, vedi N. A. Winter 2006.
Sugli inizi dello sviluppo autonomo dell’architettura in terracotta nell’Italia centrale vedi anche Id. 1993.
La combinazione di travi in legno e placche di terracotta potrebbe essere stata un’invenzione corinzia
(Coarelli 2011, p. 74).
59. Warden 2012, pp. 97-99.
60. Gaultier 2010, p. 132 a proposito dei modelli provenienti da Falerio.
61. Ibid., p. 126.
62. Colonna (a cura di) 1985, p. 98.
63. Colonna 2002, p. 158.
64. Gaultier 2010, p. 135.
65. Vedi Colonna (a cura di) 1985, pp. 67-68.
66. Sulla natura di questo insediamento vedi Holloway 1994, pp. 166-67.
67. Colonna 1991.
68. Per una discussione completa sulla datazione di questa fase vedi Sommella Mura 1977b, soprattutto p.
121, e 1977a, p. 11. Per un quadro generale vedi Ioppolo 2000; Pisani Sartorio 2000. Per una valutazione
critica della ricostruzione vedi Brocato e Terrenato 2012. La prima monumentalizzazione del tempio di
Apollo a Pompei dovrebbe essere collocata nello stesso periodo (Zevi 1998, p. 6).
69. Torelli 1997, p. 116. Vedi anche Lulof 1993.
70. Livio 5,19,6.
71. La data del 509 a.C. circa per l’espulsione dei re etruschi da Roma era una costruzione dell’antica
storiografia romana, e non fornisce elementi per precisazioni anteriori al terzo quarto del V secolo a.C.
(Bleicken 1988, p. 18).
72. Vedi Livio 1,56,1 a proposito del lavoro forzato nel tempio capitolino di Giove.
73. A lungo andare questo richiese quantomeno elementi decorativi specifici su una base unica: Strazzulla
2006, pp. 38-39.
74. Vedi (sebbene non utilizzi il termine) Oakley 2014, p. 4.
75. Gaultier 2010, p. 129.
76. Per esempio quello di una Iana: «L’Année épigraphique» (da qui in poi AE) 1995, p. 189.
77. Bartoloni 1989-90. Vedi anche il catalogo (per tutta la repubblica) in Marroni 2010, pp. 43-206.
78. Vedi Sciortino 2005, p. 92: depositi a partire dal VII secolo a.C. in avanti.
79. Zeggio 2005, p. 69.
80. Pensabene et al. 2005, p. 105.
81. Bartoloni 1989-90, p. 758.
82. Sommella Mura 2000, p. 60.
83. Ibid. e Sommella Mura 2009. Per una storia della costruzione in sintesi vedi Perry 2012.
84. Hopkins 2012, p. 124.
85. Plinio, Naturalis historia 35,154. Per la caratterizzazione dei plebei vedi Oakley 2014, p. 8.
86. Livio 2,42,5; vedi anche 4,20,12, e Dionigi di Alicarnasso 6,13.
87. Per una ricostruzione dell’edificio vedi I. Nielsen e Poulsen 1992, soprattutto le pp. 75-79.
88. Questo aspetto è messo in luce da Holloway 1994, p. 169. La sua tesi è supportata dai ritrovamenti
menzionati da Guzzo 1998. Cfr. anche la deposizione di dischi di peso graduato alla metà del VI secolo
a.C., prima che si affermasse un’economia monetaria (ibid., pp. 29-30).
89. Per una trattazione completa vedi Torelli 1997, e anche i contributi in Palombi 2010.
90. Downey 1993, pp. 243-45; per una trattazione completa vedi Downey 1995.
91. Liou-Gille 2004, pp. 249-51; Losehand 2007, pp. 82-84; Coarelli 2011, pp. 61-64.
92. Vedi cap. II , § 2.2.
93. Filippi 2007-2008, pp. 626-28 e 636; cfr. Gallone 2008, pp. 662-63.
94. Vedi cap. II , § 3.
95. A proposito di questo processo vedi Rüpke 2012f, pp. 19-20. Sulla storia dell’istituzione vedi Bianchi
2010.
96. Per l’ipotesi finale vedi Zevi 1993.
1. Sulla sua centralità nel rituale vedi Michaels 2010, pp. 20-21; Howes 2011, p. 95.
2. Vedi Lacam 2011 per le Tabulae Iguvinae. Sul problema delle fonti: Naerebout 2015; verosimilmente i
movimenti della danza non venivano quasi mai raffigurati, perché sebbene ricorressero di frequente,
erano comunque in contrasto con i valori che dovevano essere rappresentati.
3. Vedi Romualdi 1990, che si concentra specialmente sulle aree rurali dell’Etruria settentrionale (catalogo:
pp. 632-49).
4. Ibid., p. 626.
5. Per una trattazione esaustiva, ma con ipotesi inaccettabili, Torelli 1984 (per un giudizio critico: Ampolo
1988); Comella 2004, p. 32.
6. Steingräber 1980, pp. 224-26, anche a proposito di quanto segue. Ringrazio Marlis Arnhold per le
indicazioni a proposito della possibilità di rappresentazioni con bastoni e toghe.
7. Hofter 2010, p. 70. Teste e ritratti realizzati a mano: pp. 72-73.
8. Steingräber 1980, p. 234. Sulla visibilità e l’invisibilità: Bagnasco Gianni 2005.
9. Su questo punto vedi Söderlind 2005, p. 362; Comella 2004, p. 337; vedi anche p. 333 sulla
rappresentazione delle teste coperte nelle statue dell’area latina.
10. Sul concetto di sacralizzazione al posto di quello di «santuario» vedi Rüpke 2013m.
11. A proposito del contrasto, in breve, Steingräber 1980, p. 251; sui rilievi greci in terracotta fino alla fine
del V secolo a.C. vedi Comella (a cura di) 2002. La situazione è differente nell’ambito del culto di
Asclepio.
12. Per esempi estremi vedi Recke e Wamser-Krasznai 2008, pp. 67-69; Charlier 2000.
13. Recke e Wamser-Krasznai 2008, cat. n. 25.
14. Corpus Inscriptionum Latinarum (da qui in poi CIL) 12,4 = Inscriptiones Latinae Selectae (da qui in poi
ILS) 8743 = Inscriptiones Latinae Liberae Rei Publicae (da qui in poi ILLRP) 2, e piú di recente AE
1992, p. 75, 1994, p. 102 e 1995, p. 89: «Iovesat deivos qoi med mitat nei ted endo cosmis uirco sied |
asted noisi ope toitesiai pakari vois | Duenos med decet en manom einom dzenoine med malo statod».
15. Vedi Edlund-Berry 2004, p. 372.
16. Come viene messo in rilievo ibid., p. 375.
17. ILLRP 143 = AE 1922, p. 97: brat datas (lat. Parata data, verosimilmente in relazione al donatore, non
alla divinità).
18. ILLRP 101 = CIL 14,2863 = ILS 3684.
19. Edlund-Berry 2004, p. 369, n. 343: da Satricum, a forma di clessidra.
20. Vedi Nonnis 2003.
21. Vedi Comella 2005d; per un inquadramento generale: De Hemmer Gudme 2012.
22. Sul vaso (omphalos) vedi Boardman et al. 2004, p. 305.
23. Per un inquadramento generale vedi Edlund-Berry 2004.
24. Sui problemi di metodo nella verifica vedi per esempio Van Andringa e Lepetz 2003. Per un
inquadramento complessivo Söderlind 2004, che mette in rilievo la frequente coincidenza di
rappresentazioni di animali e umani nell’Italia centrale.
25. Bodel 2009, p. 18; Rüpke 2009a, p. 36.
26. Per questo gli studi in Estienne et al. (a cura di) 2015.
27. Madigan 2013; Estienne 2015.
28. Plauto, Rudens 60; Titinio, Comicorum Romanorum Fragmenta 153.
29. Scheid 1981 ha magistralmente illustrato lo sviluppo della situazione che si venne a creare a Roma.
30. J. N. Adams 2007, pp. 101-7.
31. ILLRP 238 = ILS 3124 = AE 1998, p. 506 (traduzione mia). C’è un dibattito che verte attorno al secondo
«fatto», e alla possibilità che si riferisca alla formulazione del voto oppure indichi la sua realizzazione
(in questo senso quindi sarebbe una forma abbreviata di donom dedit; vedi Wachter 1987, pp. 450-52).
Tuttavia, una formulazione corretta è necessaria soltanto per la precedente base contrattuale, perché la
resa stilistica è evidente.
32. ILLRP 136 = CIL 10,5708 = ILS 3411.
33. Livio 31,9,9-10.
34. Livio 28,38,8.
35. ILLRP 241.
36. CIL 11,5389. Per i rituali legati al tracciamento dei confini nelle Venezie cfr. Gambacurta 2005.
37. Vedi Rüpke 2006a.
38. Gaio, Institutiones 2,3-9.
39. Cfr. Lacam 2010a, p. 215.
40. Coarelli 1977.
41. Aberson 2009.
42. Per un inquadramento generale Belayche e Pirenne-Delforge 2015, e Elsner 2012a, p. 15 sulla
proporzionalità teologica della cultura materiale.
43. Bubenheimer-Erhart 2004, p. 58.
44. Krauskopf 2009, p. 506; qui anche sulle «urne».
45. Argento, Cherubini e Gusberti 2010, p. 83. Nel caso di modelli particolari, non si esclude il processo
inverso per cui i modelli utilizzati in un contesto sacrale potevano essere adottati anche per un uso
domestico (p. 84).
46. Ibid., p. 92.
47. Vedi Rüpke 2016c, pp. 110-14.
48. Stähli 2014, pp. 135-36 (per la Grecia).
49. Vedi Stibbe et al. 1980; Versnel 1982; Prosdocimi 1994.
50. Per un resoconto completo vedi N. A. Winter 2010, p. 128 e Lubtchansky 2010, p. 166.
51. Coarelli 2005; Rüpke 2012f, p. 19 in riferimento alla tomba delle bighe (Tarquinia) e alla tomba della
scimmia (Chiusi), oltre che alle anfore da Ponti di Micali (Bruni 2004, p. 29).
52. Huet 2015.
53. Per un inquadramento generale vedi Toner 2014. Per una trattazione comparativa della caccia, e a
proposito della caccia del cervo in particolare, vedi Sykes et al. 2014.
54. Rüpke 2009b; per l’assenzio: Plinio, Naturalis historia 27,45 (vedi Malavolta 1996, p. 261).
55. Wheeler 1982; Lonsdale 1993; Connelly 2011; Naerebout 2015 (sull’archeologia).
56. Festo 212,15 - 214,3 (ed. Lindsay); vedi anche Pasqualini 1996, pp. 225-26; Kyle 1998, pp. 36-37.
57. Per un quadro completo: Rutherford 2007 e 2013.
58. Dionigi di Alicarnasso 7,72.
59. Tabulae Iguvinae Ia.1-Ib.7, piú dettagliatamente in VIa.1-VIb.46 (testo e commento, con traduzione
latina: Devoto 1940).
60. Vedi Lacam 2010b, p. 229, che tuttavia attribuisce maggiore rilievo alla scrupolosità rituale e al
controllo pubblico.
61. Livio 40,6,5 parla di lustratio e del dispiegamento di un’unità militare come mos, proiettandolo cosí nel
passato sotto la forma della tradizione (per esempio 3,22,4); già in 1,44, la cittadinanza riunita viene
costituita in questo modo. Egli parla prima di lustrare urbem nei libri restanti dopo il 218 a.C. (21,62,7),
mentre in precedenza per due volte parla della lustrazione del Campidoglio dopo i prodigi. Per gli studi
meno recenti vedi Bouché-Leclercq 1904; F. Boehm 1927; Ogilvie 1961; U. W. Scholz 1970; Gagé
1977. Per un contributo piú recente vedi invece Scheid 2016b, a proposito soprattutto della critica mossa
all’interpretazione di lustratio come purificazione.
62. Vedi per esempio D. Baudy 1998. I suovetaurilia sono attestati nel primo periodo a Satricum: Bouma
1996, vol. I, p. 443.
63. Catone, De agri cultura 141.
64. Per una trattazione concisa di questo sviluppo vedi Rüpke 1990a, pp. 216-17; altri studi importanti in
merito: Halkin 1953; Freyburger 1988; Linke 2003; Naiden 2006; C. Février 2009.
65. Rüpke 2006f; per una trattazione dettagliata del tempo romano vedi Rüpke 2011d.
66. Vedi per esempio De Grummond 2009.
67. Vedi Pritchett 1968, Pritchett 2011.
68. Vedi Stoltenberg 1952; Cristofani 1995; Rüpke 1999b.
69. Sul calendario come primo elemento del processo di razionalizzazione repubblicano vedi Rüpke 2012f,
pp. 94-110.
70. Vedi Rüpke 2016c, pp. 26-41.
71. Sui cosiddetti «calendari sacrificali» (che non documentano tutti i giorni dell’anno) vedi Jameson 1965;
Dow 1968; Scullion 1998; Pritchett 1999; Pritchett 2001; Gawlinski 2007.
72. Fasti sacerdotum (da qui in poi FS = Rüpke 2008a) n. 1172; Flavius: n. 1657.
73. Herz 1975.
74. Per degli studi generali sui racconti storici vedi Rüsen 1996, Straub 2001.
75. Wamers et al. 2011, pp. 58-66 a proposito delle situlae.
76. Rüpke 2001a.
77. Vedi Agelidis 2010; Steingräber 2002 (a proposito delle teste di legno le pp. 129 sgg.).
78. Steingräber 1990a.
79. Vedi Torelli 1997, p. 143: locus medius.
80. Per una visione d’insieme vedi Chapman 2013.
81. Batino 1998, p. 25.
82. Prayon 2004a, p. 54 a proposito della tomba dei Volumni a Perugia, e sulla questione in generale p. 57;
anche a proposito delle relative figure non umane.
83. Cfr. il complesso tentativo di interpretazione in Steiner 2004, pp. 305-9.
84. Prayon 2004a.
85. Maggiani 2000, pp. 264-66; vedi anche Prayon 2004a, p. 66, con ulteriore letteratura alla nota 80.
86. Per esempio nella tomba degli Scudi (Prayon 2004a, p. 50).
87. Per esempio la tomba degli Anina a Tarquinia o la tomba degli Hescanas a Orvieto (Prayon 2004a, pp.
65 e 48).
88. Vedi Steuernagel 1998, p. 170.
89. Cfr. Prayon 2004a, p. 51 a proposito della tomba del Tifone a Tarquinia.
90. Per una descrizione completa vedi Coarelli 1972.
91. Coarelli 1983. Ma per l’interpretazione vedi Musti 2005, che fa notare come non ci sia un parallelismo
greci-troiani ed etruschi-romani (sul problema dei racconti sull’origine troiana dei romani che allora
cominciavano a diffondersi vedi Erskine 2001 e Battistoni 2010). Steingräber 1990b, p. 78 collega i
cambiamenti che si registrarono nella pittura tombale con l’emergere di uno strato sociale di equites
sotto l’élite politica.
92. Vedi Vollkommer 1990.
V. GLI ATTORI
1. Per un resoconto completo sullo stato complessivo della ricerca vedi C. J. Smith 2006.
2. A livello di ipotesi, ma per un resoconto esaustivo delle associazioni religiose storicamente possibili, vedi
Palmer 1970; per il piano politico: Linke 1995; Jehne 2013b, pp. 132-37; C. J. Smith 2005, pp. 78-80
con riferimento al contesto latino; sulla lex curiata vedi anche Rüpke 1990a, pp. 47-51.
3. Paolo Diacono, Epitome (ex Festo) 56,7 e 21-22 (ed. Lindsay); Dionigi di Alicarnasso 2,50,3.
4. Dionigi di Alicarnasso 2,23,2; vedi anche Festo 180,32-33 (ed. Lindsay).
5. FS n. 2334: Livio 27,8,1-3 (elezione) e 41,21,8 (morte).
6. Sulla fine delle curiae vedi C. J. Smith 2005, p. 81. Sullo sviluppo dei vici nell’età augustea vedi cap. VII ,
§ 1.2. La presenza delle phratries e dei gene ad Atene fu definita in modo molto piú consistente: vedi per
esempio Sourvinou-Inwood 2011, pp. 340-53.
7. Holland 1953; Ampolo 1981; Frateantonio 2001. Ampolo è piú incline a ipotizzare un rituale comune di
alto livello attorno al Palatino.
8. Terrenato 2011, pp. 238-39.
9. U. Walter 2014b, p. 105.
10. Rüpke 1995b.
11. Hölkeskamp 2011. Gli sviluppi in Cina, in cui analoghe situazioni di precarietà politica condussero a
una monarchia duratura, sono discussi in Scheidel 2009. Sul concetto di collettività: Jehne 2013a, Jehne
e Lundgreen 2013.
12. Vedi Hölkeskamp 2011, pp. 109-11.
13. Vedi C. J. Smith 2006, pp. 290-95 a proposito della gens Fabia e della sua sconfitta sul Cremera.
14. Livio 1,24,4-6, vedi Rüpke 1990a, pp. 100-3 e 97-121, e Santangelo 2008, pp. 86-87, e inoltre
Santangelo 2014 sui fetiales e il loro statuto storico. Sulla questione del territorio di Roma vedi anche
Ando 2015, pp. 17-24.
15. Vedi Scheid 2001, e per una trattazione esaustiva del consolato Pina Polo 2011a, pp. 21-57 e 2011b
(sotto l’inappropriato neologismo curatores pacis deorum). Sul carattere «immanente/performativo»
della cultura politica di Roma vedi Hölkeskamp 2009, p. 47.
16. Pina Polo 2011b, pp. 104-8. Sulle feriae latinae: Simón 2011.
17. Vedi per esempio Properzio 4,8.
18. Simmel 1907.
19. Secondo Dong Zongshu, Rugiada lussureggiante degli Annali delle Primavere e Autunni, il culto delle
montagne e dei fiumi era normativamente riservato agli ufficiali (ringrazio per il suggerimento Heiner
Roetz, Bochum).
20. Schorn-Schütte 2012, p. 13. Cfr. Linke 2009, p. 354, il quale limita in modo troppo riduttivo questo
aspetto al contesto militare.
21. Cfr. per la Grecia classica Chaniotis 2013, pp. 42-43.
22. Vedi M. E. Smith et al. 2015.
23. Holloway 2005, p. 34; su quanto segue, p. 35.
24. Sulla storia della tarda ricezione di questi palazzi italiani come modello per la diffusione di ville di
questo tipo, in qualità di edifici di prestigio, vedi Terrenato 2001, pp. 27-28. Sulla continuità delle
sontuose tombe d’élite in Italia vedi in breve Terrenato 2010, p. 513.
25. Cosí Bietti Sestieri 2006, p. 85.
26. FS s.v. Navius, Attus; Cicerone, De divinatione 1,31-2; Livio 1,36,3-6; Dionigi di Alicarnasso 3,70-1.
27. Per una trattazione completa vedi Brelich 1972; Vangaard 1988; Simón 1996.
28. Risulterebbe problematico il passaggio dalla a breve della parola sanscrita alla a lunga del termine
latino. Si potrebbe pensare a una derivazione comune da bhlaghmen.
29. Cicerone, Brutus 56; FS n. 2807: Laenas, dal mantello di lana laena.
30. Livio 1,21,4; Wissowa 1912, p. 134.
31. Rüpke 2010b.
32. Rüpke 2012c. Sulla costruzione rituale vedi Schultz 2012.
33. Asconio Pediano 39-40 (ed. Clark); vedi FS nn. 491, 2219 e 2361. Per una trattazione completa Rüpke
2012f, p. 122.
34. Su Claudia e suo padre Appio Claudio Pulcro vedi FS n. 1152 e 1225; Valerio Massimo 5,4,6.
35. A proposito del rituale centrale: Ovidio, Fasti 4,629-40 e 721-40. Ovidio dichiara di essersi procurato le
ceneri da sé, incoraggiando i suoi lettori a fare lo stesso. Per ulteriori esempi di allusioni a questo tipo di
materiale utilizzato nel rituale vedi Rüpke 2006b.
36. Per esempio Gneo Statilio Cerdone e Gneo Statilio Menandro attorno alla fine del II secolo d.C. (FS nn.
3129, 3135). Statua: CIL 6,32418 (FS n. 1668).
37. Sulle statue vedi Lindner 2015.
38. Sulla discussione classica a proposito di questa questione fondamentale vedi R. E. Mitchell 1984 e
Schiavone 2005; sulla giurisprudenza pontificale e il suo ruolo nel processo di razionalizzazione
repubblicano vedi Rüpke 2012f, pp. 94-110. Pons: vedi per esempio Festo 452,13-22 (ed. Lindsay).
39. Una trattazione completa sulla differenziazione delle competenze è contenuta in Linderski 1986.
40. Harrison 2006, pp. 139-40.
41. Sul problema dei numeri in Livio 10,6,3-8 vedi Rüpke 2005c, pp. 1621-22.
42. Cosí Cicerone, De lege agraria 2,16-18; vedi Rüpke 2005c, pp. 1623-50. Augusto, Res gestae 10.
43. FS n. 507. Roman Republican Coinage (da qui in poi RRC) 419/2 (pontifex maximus); Livio 32,7,15
(nomina); 40,42,12 (elezione come pontifex maximus); Obsequens 8; Periochae 48 (morte).
44. FS seguente n. 1322. Livio 40,42,8-11.
45. FS n. 3393. Centrale: Livio 27,8,4-10 e Valerio Massimo 6,9,3.
46. Soltanto una moneta del 48/47 indica l’appartenenza come membro all’ufficio mediante la
raffigurazione di un ancile, ma Cesare deve essere stato ammesso secondo le regole normali prima della
morte di suo padre nell’85.
47. FS n. 2003 (con fonti; salius: RRC 452/3).
48. Per un’analisi in termini di regole e conflitti con le regole vedi Lundgreen 2011.
49. Piú in dettaglio su quanto segue: Arnhold e Rüpke 2016.
50. Secondo Rüpke 2006d.
51. Plinio, Naturalis historia 36,43.
52. Vedi per esempio P. J. E. Davies 2012.
53. Macrobio, Saturnalia 3,6,11. Per tutti i seguenti dettagli architettonici vedi Arnhold in Arnhold e Rüpke
2016.
54. Se stiamo parlando del tempio circolare ancora visibile nel Foro Boario, e che non deve essere
identificato con quello, sempre dedicato a Ercole vincitore, costruito da Lucio Mummio, il vincitore
contro Corinto. Per un resoconto completo della discussione Coarelli 1992, pp. 92-103, 185-204.
55. FS n. 2308.
56. Non bisogna dimenticare che la visibilità di un tempio dipendeva principalmente dal grado di sviluppo
degli ambienti e delle strutture circostanti; le strette strade di Roma consentivano di frequente soltanto
punti di osservazione piuttosto ridotti (Betts 2011, p. 129).
57. A proposito di questo strato a Largo Argentina vedi Andreani, Moro e Nuccio 2005.
58. Questa è forse la ragione fondamentale per cui i fregi narrativi sui templi non giocavano piú un ruolo
significativo nella ricerca di distinzione individuale (cosí Rous 2011).
59. A proposito di questo sviluppo vedi Torelli 2012; Volpe 2012; J. A. Becker e Terrenato 2012.
60. Vitruvio 6,5,3. Questo qualche volta confliggeva con l’impegno nella costruzione del tempio: Plinio,
Naturalis historia 36,5-6.
61. Sewell 2013.
62. Sulle conseguenze prodotte da tali cambiamenti sulla pratica rituale e l’esperienza, vedi in particolare
Favro e Johanson 2010.
63. Sui principî fondamentali Wallace-Hadrill 1997b, p. 239; vedi anche Platt 2002. Sull’uso religioso vedi
cap. VIII , § 4.
64. Macrobio, Saturnalia 3,13,10-12 [trad. it. I Saturnali di Macrobio Tedosio, a cura di N. Marinone,
Torino 1977]. Per un’ulteriore interpretazione vedi Rüpke 2016f.
65. Marziale 7,20.
66. Orazio, Satire 1,15,10-11; Marziale 13,92 (anche a proposito delle lepri); sulle anatre: Marziale 13,52.
67. Plinio, Naturalis historia 8,209.
68. Wallace-Hadrill 1994, p. 39 in riferimento a Villa Oplontis.
69. Vedi ibid., p. 31.
70. Se, come indicato in Plutarco, Lucullo 41,5, è vero che Lucullo associò differenti sale da pranzo nella
sua abitazione con precisi livelli di cucina, questo potrebbe quantomeno suggerire la possibilità che ci
fossero tali riferimenti.
71. Varrone, De re rustica 3,6,6.
72. FS n. 985.
73. Vedi Batino 1998, pp. 27-28; Iaia 2006.
74. Maggiani 1997, p. 444.
75. Schlesier 1997, p. 653. Su Pacha: Pfiffig 1975, pp. 288-93.
76. Wiseman 2000.
77. Jaccottet 2011.
78. Vedi Schneider 2009, p. 574. Per una panoramica generale: Gilhus 1997.
79. Faraone 2013.
80. Per Mileto vedi Burkert 2011a, p. 434.
81. Vedi Pfiffig 1975, p. 293.
82. Rüpke 1995a, pp. 319-30.
83. Vedi Rüpke 2010c.
84. Rosenberger 2003.
85. Per una trattazione completa vedi Rüpke 2006b.
86. Senatusconsultum de Bacchanalibus: CIL 12,581 = ILS 18 = ILLRP 511.
87. Jannot 2009; Estienne 2010.
88. Vedi Rüpke 2013j e 2014b, pp. 132-34.
89. Una trattazione completa in Rüpke 2012f, pp. 28-50.
90. Leppin 1992. A proposito della storia della corsa delle bighe, vedi Meijer 2004.
91. Per un’analisi classica vedi Veyne 1976. Per lo sviluppo in età repubblicana, vedi Bernstein 1998 e
2007; e ancora Clavel-Lévêque 1984 e 1986; David 1998; S. Bell (a cura di) 2004; Toner 2014.
92. Bernstein 2007, pp. 226-27.
93. A proposito della crescita della popolazione da un ordine di grandezza di 200 000 persone censite alla
fine della seconda guerra punica fino ad arrivare a piú di 400 000 alla fine del II secolo a.C. vedi
Rosenstein 2012, p. 268.
94. Orlin 1997.
95. Albers 2010, p. 78, in riferimento al Campidoglio di Cosa.
96. Sear 2006, pp. 48-52. Sugli sviluppi greco-ellenistici vedi Kotlinska-Toma 2015.
97. Sear 2006, pp. 54-55; Livio, Periochae 48; Varrone in Servio, Commentarii in Vergilii Georgica 3,24.
98. Vedi Berg 2008; vedi anche Estienne 2008, pp. 694-97.
99. Vedi Festo 348,27-350,12 (ed. Lindsay).
100. Livio, Periochae 16; Valerio Massimo 2,4,7.
101. Livio 41,28,11.
102. Kajava 1998.
103. Valerio Massimo 2,4,7; Fulvius: Livio 39,22,2.
104. Leigh 2005, pp. 187-90.
105. Cfr. J. Keegan 1976; Lazenby 1991.
106. Durante il periodo del principato l’età di reclutamento oscillava fra i 17 e i 21 anni: Scheidel 1992.
Sulla questione del coinvolgimento di altri gruppi vedi il lavoro, purtroppo spesso poco critico, di Evans
1991.
107. Catone, De agri cultura 141 fornisce un racconto dettagliato di questo rituale.
108. Cfr. la tavola in Rüpke 1990a, p. 243.
109. Questa ipotesi resta decisamente piú plausibile di quella relativa all’esistenza di un calendario civile
locale e specifico delle colonie (cosí Reeves 2004).
110. Tutt’altra cosa sono invece le pratiche religiose dei soldati durante la campagna militare, benché
principalmente nelle guarnigioni permanenti dell’età imperiale: vedi Stoll 2001, soprattutto le pp. 133-
209, per un resoconto che pur restando ampiamente scettico e proponendo una distinzione fra «religione
dell’esercito» (ufficiale) e «religioni nell’esercito» non offre comunque avanzamenti decisivi sul piano
concettuale.
111. Gellio 15,22,1-9.
112. Ferri 2010.
113. AE 1977, p. 816; vedi Rüpke 1990a, p. 164.
114. Vedi Lonis 1979, pp. 140-42.
115. Sulla pratica greca vedi Jackson 1991.
116. Per una trattazione completa in merito vedi Valvo 1990. Sulle eccezioni vedi Amiotti 1990;
Clementoni 1990; Sordi 1990. Sulla pratica greca vedi Vaughn 1991.
117. Flaig 1992.
118. Livio 22,42,7-9.
119. Cicerone, De divinatione 1,37.
120. Van Haeperen 2012; C. J. Smith 2006, pp. 217-25.
121. Naiden 2006, pp. 219-40.
122. Sull’aspetto estetico e performativo della processione trionfale e le trattative precedenti, vedi
Itgenshorst 2005; Beard 2007; Rüpke 2008c; Östenberg 2009; Lange e Vervaet (a cura di) 2014.
123. Rüpke 2012f, pp. 62-81.
124. MacCormack 1981; McCormick 1987; Dufraigne 1994.
125. Sulla politica di Augusto a riguardo vedi Hickson 1991. L’imperatore era un vincitore permanente,
vedi per esempio Graziano nel 369 d.C. (ILS 771). Gli studiosi parlano di una théologie de la victoire
(Heim 1992).
126. Versnel 1981; González 1984: Germanico.
127. Sull’assenza di un effetto negativo esercitato dalle sconfitte sulla successiva carriera politica del
generale vedi Rosenstein 1990.
128. Per un resoconto programmatico vedi Terrenato 2010, p. 513.
129. Rosenberger 1998 e 2005.
130. E. Rawson 1978.
131. Fr. 9 Scholz e Walter 2013 (= Cicerone, De divinatione 1,72).
132. Sugli oracoli italici per sorteggio vedi in particolare Champeaux 1986, 1987 e 1990.
133. E. Rawson 1974, pp. 157-58; Wiseman 1994; Bendlin 2002.
134. Svetonio, Augustus 31,1.
135. Vedi Bleicken 1981.
136. Gladigow 1977, p. 20.
137. Cicerone, Philippica 2,82-83.
138. È significativo che il caso piú consistente di «disconoscimento», il boicottaggio politico di Bibulo
contro Gaio Giulio Cesare, fosse collegato a una permanente obnuntiatio (Cicerone, De domo sua 40;
Svetonio, Iulius 20,1 passim). Ma confronta Scheid 2012a.
139. De legibus 2,31.
140. Vedi Burckhardt 1988, p. 192.
141. Linderski 1986, pp. 2162-68. Vedi Burckhardt 1988, pp. 193-94, con ulteriori esempi.
142. Cicerone, Philippica 2,83 [trad. it. Le Filippiche, a cura di B. Mosca, Milano 1963].
143. Vedi gli esempi in Linderski 1986, pp. 2168-73.
144. Flaig 1995b, p. 92 sottolinea proprio questo.
1. Cancik 1973.
2. Vedi per esempio Massa 2013.
3. Rüpke 1996a.
4. Rüpke 2012g, pp. 50-51. Sul 249 a.C., p. 53.
5. FS n. 1399.
6. Rüpke 2008a, p. 43.
7. Non posso essere d’accordo con l’interpretazione simbolica fornita da Rodriguez-Mayorgas 2011,
secondo la quale sono il controllo del collegio sul destino di Roma e la sua importanza fondamentale nel
mantenimento della pax deorum a trovare espressione qui. Quell’espressione è attestata per la prima
volta alla metà del I secolo a.C. in Lucrezio 5,1229: divum pacem.
8. Vedi anche Cicerone, De legibus 2,47.
9. Per una ricostruzione e la conseguente interpretazione di Corpus Inscriptionum Etruscarum (CIE) 5385-
86, vedi Morandi 1987.
10. Testo e commento: Torelli 1975; vedi Cornell 1978.
11. Steuernagel 1998, p. 171.
12. Questa la tesi categorica di Steuernagel.
13. Vedi Prayon 1998b, p. 173.
14. A proposito di questa caratterizzazione della divinazione vedi Rüpke, Stagl e Winiwarter 2012.
15. R. Bloch 1966 e 1968.
16. Steuernagel 1998, p. 177. Per l’influenza ellenistica: Briquel 1990; vedi per esempio Furley e
Gysembergh 2015. Cfr. Briquel 1985; Capdeville 1989; Gaultier e Briquel (a cura di) 1997.
17. Steuernagel 1998, p. 176. Ma la rappresentazione dell’esame del fegato a partire dalla fine del V secolo
a.C. mostra espressamente l’indovino greco Calcante: Van der Meer 2011, 37. Sul fegato: Id. 1987, p.
18. Vedi anche Id. 2010.
18. Per i dettagli: Turfa 2012, e sicuramente la collezione di frammenti Thulin 1906a, 1906b, 1906c.
19. Su questo (ma con conclusioni non radicali) vedi Siewert 2012.
20. Per un’interpretazione dei conflitti in questione vedi De Sanctis 2015.
21. FS n. 2367.
22. Rosen 1985; Willi 1998; Rosenberger 2003.
23. Gagarin 2011. Per le collezioni di testi per la Grecia: Sokolowski 1969, 1955 e 1962; vedi anche
Zimmermann 2000; Ennabli e Scheid 2007-2008. Per i fondatori vedi cap. X , § 5.
24. Vedi González 1984; González e Arce (a cura di) 1988; Lebek 1990; Wolters 1990.
25. Sui generi vedi Manuwald 2001 e 2011.
26. Panayotakis 2010.
27. Fr. 7 Keil (= Carisio, Ars grammatica 204,22). A differenza di quanto affermato da Panayotakis, questa
era una funzione privata da augure, non presumibilmente ufficiale.
28. Vedi Giancotti 1967, pp. 22-26. A proposito di quanto segue ibid., p. 31: individualismo raffinato.
29. Girolamo, Epistulae 107,8, Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum Latinorum (da qui in poi CSEL) 55, p.
299.
30. Thom 2012. Vedi anche Mikalson 2010. Sul discorso morale con una adeguatamente ampia portata
sociale vedi T. Morgan 2007 e 2015.
31. Vedi la tipologia in Dunsch 2014, p. 639. Per gli agenti: p. 650.
32. Aricò 2001.
33. Accio, Scaenica 169-70 Ribbeck; vedi Rüpke 2012f, pp. 57-60.
34. Ibid., pp. 55-56.
35. In maniera esaustiva su quanto segue U. Rüpke e J. Rüpke 2010 e Rüpke 2014d. Cfr. la trattazione
fondamentale della relazione fra mito e rituale nell’introduzione a Bierl, Lämmle e Wasselmann 2007.
36. Vedi Müller 1993; Winiarczyk 2002; Whitmarsh 2013, pp. 49-62; sull’interpretazione evemeristica del
mito: Hawes 2014, pp. 25-28.
37. Vedi Battistoni 2010, pp. 79-111.
38. Vedi, in generale: Bickerman 1968; Samuel 1972; Möller e Rüpke 2002.
39. Rüpke 2009b.
40. Erskine 2001.
41. Vedi Feeney 2016, p. 243.
42. Senofane, frammenti 11, 14 e 15 Diels-Kranz [trad. it. I Presocratici. Testimonianze e frammenti,
Roma-Bari 1993].
43. Vedi Hawes 2014, pp. 28-35.
44. Cfr. ibid., pp. 35-36.
45. Cornuto 35,7 [trad. it. Compendio di teologia greca, a cura di I. Ramelli, Milano 2003].
46. Essler 2011, p. 262 (col. 10). Per ulteriori testi essenziali di Filodemo: Obbink 1996.
47. Sulla critica delle immagini vedi per esempio Graf 2001, p. 233.
48. Vedi Piano 2013; a proposito di nyx/notte vedi Piano 2010.
49. Per un inquadramento generale: Rüpke 2014f, pp. 69-70 e 97-101.
50. Vedi per esempio fr. 3 e 5 Scholz e Walter 2013 (sogni di Enea), fr. 7a (Plutarco, Romolo 7,2); 7b
(Dionigi di Alicarnasso 1,79,13) (pratiche rituali di Romolo); fr. 15 (Livio 1,55,8) (finanziamento del
tempio capitolino).
51. Vedi Levene 1993; J. P. Davies 2004.
52. Per un resoconto completo del fenomeno vedi Ma 2013. Per quanto riguarda Roma: Stewart 2003.
53. Miano 2011.
54. Plinio, Naturalis historia 34,30-31; Sehlmeyer 1999, pp. 152-61.
55. Polibio 6,53. Su questa interpretazione del funus publicum vedi Rüpke 2006e e 2008c.
56. Vedi Sallustio, Iugurtha 4,5-6 a proposito della memoria e del suo effetto incentivante all’interno delle
grandi famiglie.
57. Vedi Cancik 2012a.
58. Per una breve trattazione dell’attidografia vedi Rhodes 1990; brevemente su Filocoro vedi Brodersen
2013.
59. Una variazione sulle teorie di Ungern-Sternberg 1988, pp. 262-65. Vedi anche Id. 2008, p. 528.
60. Fabio Pittore fr. 6 Seckel e Kübler 1988 (= Servio, Commentarii in Vergilii Georgica 1,21).
61. Per un resoconto completo sulla questione relativa a questa identificazione vedi FS n. 1600.
62. Vedi E. Rawson 1985 e Rüpke 2012f per una trattazione piú ampia della questione.
63. A proposito di questi conflitti vedi Beard 1994 e Beard, North e Price 1998, pp. 108-13.
64. Rüpke 2012f, pp. 111-25.
65. Yarrow 2007, pp. 76-77; Rüpke 2012a, pp. 112-13; 2012f, p. 218.
66. Vedi Rüpke 1990b; Flower 2015, e per una trattazione generale C. Smith 2009; P. Scholz e Walter
2013.
67. Per la Grecia: Chaniotis 1988; Però 2012 (sull’orientamento interno: p. 25). Su Ennio: Rüpke 2006c;
2011d, pp. 105-8. Per esempi ulteriori: Id. 2012g, pp. 95-110.
68. Rüpke 1995a, pp. 391-416 e 2011d, pp. 121-39.
69. Vedi cap. IV , § 3.
70. Con cautela: Belfiore 2010.
71. Sugli elementi arcaici vedi Gabba 1988, pp. 162-63.
72. Sul secondo libro del De legibus di Cicerone vedi Rüpke 2016c, pp. 21-31.
73. Vedi Crawford 1996b, p. 362. A p. 396 è presente un vago tentativo di ricostruzione del concetto di
religione per la lex Ursonensis.
74. Gabba 1988, p. 158.
75. Cosí anche Raggi 2011, pp. 342-43.
76. Vedi i capitoli 65, 69-72; centrale anche nel cap. 128. Per maggiori dettagli vedi Rüpke 2014b, pp. 113-
36. Cfr. Raggi 2006, p. 719 sull’autoevidenza di questo finanziamento pubblico nella successiva lex
Irnitana.
77. Quanto segue è basato su Rüpke 2012f, pp. 192-202.
78. Cosí anche la lettura di Feil (a cura di) 1986.
79. Cicerone, De natura deorum 1,118-19; analogamente Lattanzio, De divini institutionibus 5,14. Sul
concetto di pietas come relazione essenzialmente sociale vedi Schröder 2012.
80. Vedi Henrichs 2010.
81. Deduzione mia. Questa è l’agenda filosofica che viene ripetuta nel successivo De divinatione
ciceroniano (2,148-49).
82. Nella misura in cui possiamo dirlo noi, Cicerone sta sviluppando qui un punto polemico che manca di
riconoscere adeguatamente l’ampia accettazione degli dèi tradizionali tipica degli epicurei sia precedenti
sia contemporanei (vedi Obbink 2001).
83. Cfr. J. Henderson 2006 e Krostenko 2000, p. 357.
84. J. Henderson 2006.
85. Van Nuffelen 2010 e 2011. L’idea stoica della coerenza razionale potrebbe costituire un fattore su
questo sfondo (Long 2010, p. 53).
1. Sull’opera vedi soprattutto Cardauns 1976; Jocelyn 1982; Traver 1997; Rüpke 2005e, 2014c.
2. Varrone, Antiquitates fr. 4 Cardauns. Sul metodo etimologico nella teologia vedi Blank 2012, pp. 279-88.
3. Varrone, Antiquitates fr. 2a.
4. Wallace-Hadrill 2008, p. 236.
5. Varrone, Antiquitates fr. 206 Cardauns; sull’aniconismo: fr. 18.
6. Rüpke 2012f; in maniera analoga Wallace-Hadrill 2008, pp. 215-51 (vedi Wallace-Hadrill 1997a, pp. 5-
6). Non esisteva nessuna aspettativa nel normale procedimento legislativo paragonabile alla richiesta di
coerenza avanzata da Cicerone (U. Walter 2014a, p. 17).
7. Vedi Cramer 1954; Barton 1994; Wendt 2015.
8. Deshours 2011, pp. 303-16.
9. Vedi Gentili 2005.
10. Sulle lastra Campana vedi Strazzulla 1993.
11. Sui gruppi di statue: Ellinghaus 2004, p. 119.
12. Bubenheimer-Erhart 2004, pp. 58-59.
13. Plinio, Naturalis historia 35,160. Per la biografia vedi Sallmann 2002.
14. Cesare, De bello civili 1,22,5; a proposito dell’opposizione vedi anche Bellum Africanum 22.
15. Bleicken 1998, pp. 297-369. Vedi anche U. Walter 2010.
16. Cosí Augusto, Res gestae 1,1.
17. Per un suggerimento della struttura vedi Scheid 2007b, pp. XXXVII-XL .
18. FS n. 1012.
19. Vedi FS per il 35 a.C. Fino alla tarda età augustea, sappiamo meno dei membri del collegio pontificale
rispetto agli altri collegi antichi. Per il ruolo di Lepido, vedi i Fasti Privernati.
20. Tacito, Annales 1,10,5. Nerone (FS n. 1216) era il padre del futuro imperatore Tiberio, che Augusto
aveva adottato nel 4 d.C.
21. Vedi Albert 1980; Rüpke 1990a, pp. 97-127; Santangelo 2008 e 2014.
22. Wiedemann 1986; Rüpke 1987.
23. Cassio Dione 43,24,4; esattamente come nel resoconto offerto da Tacito sulla decisione del collegio
pontificale a proposito del matrimonio di Ottaviano, anche qui il linguaggio utilizzato nel verdetto
storiografico sull’evento risulta sarcastico (Pascal 1981, p. 263). Per un resoconto completo del rituale
vedi Rüpke 2009b.
24. Rüpke 1993a.
25. Vedi Cassio Dione 51,20,3. Scheid 1978, pp. 632-39 data l’inizio del processo al 36 a.C., dopo la fine
della guerra siciliana e la capitolazione di Lepido. Sulla «tradizione inventata» vedi Hobsbawm e Ranger
1983.
26. Augusto, Res gestae 25,3.
27. Per una trattazione completa vedi Scheid 1990.
28. Vedi ibid., p. 149. Sull’archeologia vedi Broise e Scheid 1987; Broise, Scheid et al. 2018.
29. Rüpke 1995a, p. 45.
30. Rüpke 2016c, pp. 110-14. Sugli effetti delle iscrizioni sulle pallottole per coloro che le lanciavano cfr.
Ma 2010.
31. Scheid 1990, p. 700, in riferimento a Cassio Dione 53,6,79.
32. Galinsky 2013, pp. 32-36.
33. Vedi Berthelet 2015, pp. 287-88; la sua assunzione di una particolare auctoritas da parte degli auguri
(ibid., pp. 215-17), d’altra parte, dovrebbe essere respinta.
34. Cosí per esempio Acta Arvalia 1 Scheid (con integrazioni).
35. Vedi Bremmer 1993 sui Salii e Demougin 1992, p. 170 sui Luperci. A proposito dei collegi sacerdotali
latini, soprattutto in merito ai sacerdotes Caeninenses, vedi Scheid 2009, p. 287; ma cfr. Rüpke 2008a,
pp. 10-11.
36. Rüpke 2012g, pp. 114-15.
37. Una trattazione completa in Tarpin 2002, pp. 137-73, qui p. 161, e Lott 2004, pp. 81-171. Sulla
preistoria: Niebling 1956; Flambard 1981. Per lo sviluppo dell’immagine vedi Rosso 2015.
38. E. Simon 1986.
39. Varrone, De lingua latina 5,165, con riferimento a Pisone; su quanto segue vedi Rüpke 1990a, pp. 136-
41.
40. Cfr. Norden 1915. Per le ripetizioni vedi Svetonio, Nero 36,1; Orosio 7,3,7.
41. Cfr. il commento di Tiberio su Augusto, citato da Galinsky 1996, p. 292, con l’effetto derivante
dall’aver adattato al presente qualcosa dal piú profondo passato (Tacito, Annales 4,16).
42. Una trattazione completa di questo in Censorino, De die natalis 17.
43. Weiß 1973.
44. Galinsky 2012, p. 100.
45. Testo e commento: Schnegg-Köhler 2002 (ILS 5050); sul rituale vedi anche Cancik 1996.
46. Alföldy 1991.
47. Ma 2012, pp. 142-43.
48. Galinsky 1996, p. 385.
49. Vedi Berthelet 2015, pp. 290-92 e 318-21.
50. Gurval 1995, p. 135.
51. Vedi Hölkeskamp 2001 e Miano 2009, che a p. 367 menziona soprattutto l’evidenza augustea. In
maniera piú generale C. J. Smith 2015.
52. Per una trattazione completa dell’argomento vedi Kolb 1993.
53. Zevi 1979; Ley e Struß 1982; Aa.vv. 1989; Meyboom 1995; Quilici e Quilici Gigli 1995. Vedi anche
Meusel 1923; Buchet 2012. A proposito del rituale teatrale a Pompei vedi Gasparini 2013.
54. Vedi cap. IX , § 2.
55. Mattern 2000, p. 153.
56. Una trattazione completa di questo in Gros 1976; Galinsky 2007, pp. 73-74.
57. Zink e Piening 2009.
58. Vedi Properzio 2,31.
59. Bradley 2006 e 2009.
60. Zanker 2010.
61. Ibid., ma senza alcun riferimento ai templi.
62. Varrone, De re rustica: la cornice narrativa del dialogo.
63. Eck 2010, pp. 96-98: trapezophora.
64. L. Richardson 1992, p. 157. Sulla causa vedi Bleicken 1998, p. 362.
65. Per la descrizione della struttura vedi Andersen 2003; sui rilievi E. Simon 1967; Koeppel 1987 e 1988;
Settis 1988; Elsner 1991; Billows 1993. Sul tema ornamentale floreale vedi Pollini 2012, capitoli V-VI .
66. Vedi Bleicken 1998, p. 381.
67. Cazanove 2011, pp. 36-38; vedi anche Nava e Cracolici 2005.
68. Sull’evoluzione dei numeri della popolazione vedi De Ligt 2012; De Ligt e Garnsey 2012; Hin 2013.
69. Crawford 1985; Wallace-Hadrill 1986; Meadows e Williams 2001; Norena 2001; riassunto in Williams
2007.
70. RRC 540/2 (36 a.C.); RRC 480/21 (44 a.C.).
71. RRC 436/1 e 543/1. Il genitivo, forse presente formalmente anche qui, veniva utilizzato nelle
raffigurazioni presenti nei palazzi, ma il nominativo era comune per le teste.
72. Roman Imperial Coinage (RIC) Augustus 365-66 e 170.
73. Shaya 2013, pp. 95-100.
74. Crawford 1996a, p. 424.
75. Rüpke 2003b; Feeney 2007.
76. A proposito dei cambiamenti di data collegati ai restauri vedi in breve Rüpke 2011d, p. 124.
77. E. Winter 2013, p. 192.
78. Ibid., p. 194.
79. Vedi Rüpke 2017a.
80. Vedi Berger 2011, p. 350. Per quanto riguarda Livio vedi Levene 1993, e in breve Scheid 2015, che a p.
87 giustamente mette in rilievo il carattere individuale della sua posizione. Su Dionigi: Gabba 1982;
Mora 1995; vedi anche K. Clarke 1999 su Strabone. Cfr. M. Simon 2011, p. 437, a proposito
dell’interesse di Livio a minimizzare il ruolo della cultura greca nella storia di Roma.
81. Mittag 2012, p. 25 sulla serie di monete e la loro datazione attorno al 23 a.C.
82. Per esempio Tibullo 2,5.
83. Su Filone vedi Barraclough 1984; Sandmel 1984; N. Walter 1987; Williamson 1989; J. Dyck 2002; R.
S. Bloch 2011. Sui Maccabei: Bickerman 1979; Honigman 2014.
84. Properzio 2,31; qui: 4,6.
85. Properzio 4,9.
86. Cfr. Fantham 2009, pp. 5-33.
87. Vedi Rüpke 1996b e 2006f; Gee 2000. Sui parapegmata associati a questi dati cfr. Lehoux 2007. Per
una trattazione generale dei Libri fastorum vedi Wallace-Hadrill 1988; Scheid 1992; Herbert-Brown
1994; Fantham 2002.
88. Su Manilio vedi Abry 2011.
89. I paragrafi successivi riassumono Rüpke 2016a.
90. Ibid.
91. Valerio Massimo 1, Praefatio [trad. it. Detti e fatti memorabili, a cura di R. Faranda, Torino 1971].
92. Cfr. Varrone, Antiquitates fr. 3: «pro ingenti beneficio … iactat praestare se ciuibus suis, quia non
solum commemorat deos, quos coli oporteat a Romanis, uerum etiam dicit, quid ad quemque pertineat»
[«Dove sarebbe quindi l’enorme vantaggio che Varrone presume d’aver procurato ai suoi concittadini,
ricordando non solo gli dèi che per i Romani era opportuno venerare, ma sottolineandone persino le
specifiche competenze?»: Agostino, La città di Dio, a cura di L. Alici, Milano 1984].
93. Svetonio, Augustus 31,1.
94. Id., Tiberius 14,2 e 4. Vedi il giudizio generale in 69: «Circa deos ac religiones neglegentior, quippe
addictus mathematicae…» [«Quanto a dèi e a cose di religione era molto incurante, dedito qual era
all’astrologia…»: Caio Svetonio Tranquillo, Le vite di dodici cesari, a cura di G. Vitali, Bologna 1951].
95. Vedi Rüpke 2011a, pp. 105-9 e Fögen 1993 sulla radicalizzazione del problema a partire dal III secolo
d.C. in poi.
96. Svetonio, Tiberius 36.
97. Tacito, Annales 2,32.
98. Svetonio, Augustus 63.
99. Cowan (a cura di) 2011, p. X .
100. Valerio Massimo 1,4,1.
101. Ivi, 1,8 ext. 18; cfr. la ripetizione della nozione «natura» in 2, Praefatio.
102. Ivi, 1,8,1; vedi 2-10 per quanto segue.
103. Mueller 2002, p. 175.
104. Wardle 2000, pp. 489-90.
1. Platone, Repubblica 427bc; Cicerone, De legibus 2,20 e 25 (vedi anche 2,21 in riferimento agli errori
rituali).
2. Scheid 2016a ha proposto la difesa migliore di questo tipo di interpretazione, diversamente da Rüpke
2016c e 2016e.
3. Su questo concetto vedi sopra, pp. 10-11.
4. Su questa specifica dinamica vedi Raja e Rüpke 2015a; Rüpke 2015d.
5. Vedi Köves-Zulauf 1990, p. 11, con una discussione completa del fraintendimento che potrebbe
verificarsi nell’ambito della questione in esame.
6. Per ulteriori dettagli vedi Kajava 1994.
7. Vedi il riassunto fornito da Dondin-Payre 2011; sullo sviluppo storico vedi Salway 1994.
8. Gli schiavi liberati con uno status «latino» fittizio, i cosiddetti Latini iuniani, costituivano un caso
speciale; anch’essi possedevano i tria nomina, ma non avevano la cittadinanza (e cosí il diritto di voto);
devono comunque aver rappresentato una parte considerevole della cifra totale di schiavi: De Ligt e
Garnsey 2012.
9. Vedi Plutarco, Questioni romane 101; Stupperich 1985; Goette 1986a e 1990. Sulla dimensione
comunicativa del vestire vedi Edmondson e Keith 2009.
10. Cosí Varrone, De re rustica 1,17,1.
11. Purtroppo ci sono pochi esemplari di tavolette di legno dipinte (per la pittura murale vedi Stewart 2015,
p. 357).
12. Per una diversa, e anche negativa associazione di rappresentazioni semplici ma non arcaiche vedi
Mylonopoulos 2015, p. 281.
13. Per una trattazione completa vedi Rosa 2016.
14. Vedi sopra, p. 130.
15. Gury 2008.
16. Vedi per esempio Boehm e Hübner 2011; S. J. Green 2014.
17. Volk 2009.
18. Denzey Lewis 2013; vedi anche Schildgen 2012.
19. Horden e Purcell 2000. Ringrazio Greg Woolf per il riferimento ai severi limiti quantitativi imposti alla
mobilità dalla capacità di trasporto e dalle strade sulle lunghe distanze.
20. Stowers 2008, p. 10.
21. Per un ritratto classico del culto domestico: Bakker 1994; Bodel e Olyan (a cura di) 2008; Boedeker
2008; Giacobello 2008; Nevett 2010.
22. Vedi Wallace-Hadrill 2003.
23. Su questo, in maniera generale: Waltzing 1895; Poland 1909; Liebenam 1964; Ausbüttel 1982; Kolb
1995; Kloppenborg e Wilson (a cura di) 1996; Bollmann 1998; Harland 2003; Kloppenborg 2006;
Bendlin 2011; Harland 2014. Con un riferimento particolare a questo contesto specifico: Steuernagel
2004.
24. Per un’introduzione: Hunt 1984; C. Adams e Laurence 2011; vedi anche Wachsmuth 1967 per una
discussione sugli aspetti religiosi.
25. Cicerone, De legibus 2,25-26.
26. Bodel 2008, p. 251. Sulla consueta e concorde concezione dei culti domestici cfr. per esempio
Gherchanoc 2012, in riferimento alla Grecia.
27. Flower 1996 e 2002, ma vedi anche Rüpke 2006e.
28. Bowes 2015a, p. 217.
29. Vedi ibid., p. 212.
30. Stirling 2008. Su Roma p. 131.
31. Ibid., p. 133.
32. Per le foto dei singoli oggetti consulta il sito www.augustonemetum.fr/News/Info-24/Religion-et-
culte.html (02.08.2016).
33. Kaufmann-Heinimann 2007. Su un complesso trovato a Kaiseraugst vedi Id. 1998; Schmidt e
Kaufmann-Heinimann 1999.
34. Dopo Boyce 1937 vedi i piú recenti Cicala 2007; Bassani 2008; per le immagini: Frölich 1991; nelle
province: Kaufmann-Heinimann 1998 e in breve Schmidt e Kaufmann-Heinimann 1999. Per quanto
segue faccio riferimento a Rüpke 2012i.
35. Vedi Van Andringa 2009, pp. 265-69.
36. Ibid., p. 265; Bodel 2008, p. 261.
37. Elio Aristide, Discorsi sacri 2,27 [trad. it. a cura di S. Nicosia, Milano 1984].
38. Per esempio ivi 4,43; vedi la sezione seguente.
39. Per le iscrizioni: Graf 2010a. Per le urne: G. Davies 2011, p. 28.
40. Morciano 2009.
41. Fu fatto un uso soltanto limitato della possibilità di utilizzare i nomi propri come teofori. Per alcuni
esempi vedi Paganini 2009; contra Frankfurter 2014.
42. Rives 1995, pp. 186-93 con riferimento al CIL 8,999, 24528 e 24518, e anche alle Inscriptiones Latinae
Africae 354.
43. Vedi Rives 1995, pp. 190 e 192. Qui si potrebbe parlare di pragmatica individualità del culto. Per una
differenziazione fra i diversi tipi di individualità religiosa vedi Rüpke 2013g, 2015d e 2016d.
44. Per una trattazione generale vedi Collins 2008.
45. Vedi i casi di studio in J. R. Clarke 2012.
46. Fondamentale: Petzl 1994; importante per un loro inquadramento nella storia della religione: Belayche
2006 e 2008. Sulla collaborazione vedi Gordon 2016.
47. Cosí Marco Galli, con il riferimento alle Inscriptiones Graecae 4,88.
48. Zosimo 4,18 (devo ringraziare Silviu Anghel, di Gottinga, per il suggerimento).
49. Nilsson 1940, p. 68: Athenaeus II,473b = Antikleides 140 F 22. Per gli oggetti: Kaufmann-Heinimann
2007, pp. 195-97; sul salvadanaio vedi anche Robinson 1924 (illustrazioni).
50. Sulla partecipazione dei bambini alle pratiche religiose vedi Van der Leeuw 1939; Brelich 1969; Mantle
2002. L’istruzione religiosa esplicita è inusuale: Cancik 1973. Per la Grecia vedi Bremmer 1995a;
Auffarth 2012.
51. Platone, Leggi 887d, citato in Prescendi 2010, p. 78; ibid., p. 77, anche per la citazione seguente.
52. Prudenzio, Contra Symmachum 1,197-214.
53. Sul De superstitione di Seneca e il Sulla superstizione di Plutarco vedi Rüpke 2016e, pp. 45-48. Sul
concetto vedi Eitrem 1955.
54. Prudenzio, Contra Symmachum 1,207. 215-44.
55. Sull’assenza di una chiara distinzione nel concetto di carmen vedi Hickson Hahn 2007, pp. 236-37. Per
un inquadramento generale vedi Brulé e Vendries (a cura di) 2001.
56. Questo riguarda anche i vari studi, per esempio Gordley 2011; per una interpretazione alternativa vedi
Habinek 2005 e Eberhardt e Franz 2012, p. 261, con riferimento a Kowalzig 2007, p. 393. Per un
resoconto completo vedi Brulé e Vendries (a cura di) 2001; Garelli 2007, soprattutto le pp. 145-294.
57. Presentato come il contenuto principale degli inni cristiani da Gordley 2011, p. 391.
58. Vedi per esempio Zanker 1976, p. 20, sui dipinti architettonici.
59. Larcher 1990.
60. Vedi Lorenz 2008.
61. Per un inquadramento generale vedi Esposito 2014.
62. Vedi Feldherr 2010, soprattutto le pp. 243-92.
63. Vedi Elsner 1995.
64. Cosí Trimble 2011, anche nella sua critica a Squire 2009, che esamina la varietà dei riferimenti di testo
e immagine.
65. Anche questa forma di nuovo incontro era importante, poiché non c’era un canone di testi che potesse
fungere da punto di riferimento (Gordon 1979).
66. Bergmann 1994.
67. Vedi sopra, p. 48. Vedi anche Rüpke 2013c.
68. Steuernagel 2009b, pp. 124-26 e 2009a, pp. 238-39.
69. Hesberg 2007. Plinio, Naturalis historia 36,185 narra l’inserimento dei mosaici nel tempio capitolino di
Giove nel 149 a.C.
70. Hesberg 2007, pp. 458-59.
71. Ibid., p. 456.
72. Vedi Moormann 2011.
73. Vedi in generale Gordon 1979; Rüpke 2010d.
74. Bowes 2008, 2015a e 2015b.
75. Walde 2001; G. Weber 2005-2006; Frenschkowski 2006; Renberg 2010a; ricco di materiale: Harris
2009.
76. Vedi Deubner 1900; LiDonnici 1995; Renberg 2015.
77. Elio Aristide, Discorsi sacri 4,45-46.
78. Pastore di Erma 8,1; 9,1; per il testo vedi Peterson 1959; Hellholm 1980; Rüpke 2005b e 2015b.
79. Vedi per esempio Rieger 2017.
80. Varrone, De lingua latina 5,152 e 5,49. Sui boschi romani vedi Stara-Tedde 1905; Goodhue 1975;
Broise e Scheid 1993; Scheid 1993b; Häuber 2001.
81. Su questa testimonianza e la sua interpretazione vedi Neudecker 2015, pp. 226-27.
82. Ibid., p. 228, con riferimenti ai testi tratti dal Corpus Tibullianum (3,3,15) e dallo stesso poeta di età
augustea Tibullo (2,5, 95-96).
83. Stackelberg 2009, p. 87.
84. Inventario: www.stoa.org/projects/ph/house?id=21 (03.08.2016). Per una trattazione completa vedi
Seiler 1992.
85. Vedi Stackelberg 2009, pp. 87-88.
86. Comella 2011, pp. 104-10.
87. Vedi anche il progetto del giardino bacchico di Messalina nel 48 d.C.: Tacito, Annales 11,31,2 s.
88. Vedi Dräger 1994.
89. In breve Neudecker 2015, pp. 229-30.
90. A proposito della loro mobilità vedi Esposito 2005.
91. Per esempio a Lavinium: Wyler 2006.
92. Su questo principio cfr. Gosden 2005; sulla creazione delle emozioni mediante l’interazione fra esseri
umani e oggetti vedi Riis e Woodhead 2010, p. 208.
93. Alcuni aspetti di cambiamento nella tarda antichità sono discussi in Morvillez 2016.
94. Rebenich 2008, pp. 192-98; Laforge 2009, pp. 199-203.
95. Sul culto della tomba inteso come questione familiare vedi per esempio Shaw 1984; Hope 2001; Carroll
2006; Carroll e Rempel (a cura di) 2011.
96. Per Roma: Cicerone, De legibus 2,58 (Leggi delle XII tavole). Le leggi campane (soprattutto Pozzuoli):
AE 1971, p. 88; Panciera 2004; Schrumpf 2006; Castagnetti 2012; sulla sepoltura dei bambini vedi anche
Varrone, Antiquitates fr. 109 Riposati; Servio, Commentarii in Vergilii Aeneidos libros 12,142-43.
97. Varrone, De lingua latina 5,25. Su questo problema vedi Hope 2009, p. 158.
98. Per la sepoltura con abiti pregiati vedi Blanchard et al. 2007.
99. Sulla laudatio funebris vedi Vollmer 1892; Mommsen 1905; Kierdorf 1980. Per la ricostruzione della
processione via Foro vedi Favro e Johanson 2010.
100. Rüpke 2006e; per una visione alternativa vedi Flower 1996; vedi anche Flaig 1995a.
101. Una breve e completa trattazione in Degelmann 2018.
102. Leggi delle XII tavole 10,3; Cicerone, De legibus 2,59 con A. R. Dyck 2004; Crawford 1996b, pp.
2705-6.
103. Ibid.
104. Cfr. B. W. Porter e Boutin (a cura di) 2014; per le province: Pearce 2011.
105. Per Roma vedi per esempio Grossi e Mellace 2007; per le province gli articoli in Faber et al. (a cura
di) 2007 e Scheid (a cura di) 2008; per Palmira: Henning 2013.
106. Bodel 2004, p. 157. Vedi anche Cicerone, De legibus 2,60: sumptuosa respersio; longae coronae;
acerrae con Dyck ad loc. Luciano, Sui funerali 12 offre un’enfasi diversa.
107. Varrone, Vita populi Romani fr. III Riposati.
108. Tacito, Annales 3,2,2; Buccellato, Catalano e Musco 2008, p. 86.
109. Vedi Virgilio, Aeneis 11,201.
110. Cfr. Properzio 4,7 con Cicerone, De legibus 2,60 (Leggi delle XII tavole). Su questo aspetto materiale
della memoria vedi Graham 2011b. Ossifragus era un termine utilizzato in riferimento a una categoria o
funzione specifica: una persona che spezzava le ossa piú grandi in modo da farle entrare dentro l’urna;
vedi AE 2007, p. 260, A21-24 come immagine degli inferi su una tavoletta di maledizione nella
necropoli sulla via Ostiense fuori Roma.
111. Bel 2010.
112. L’approccio all’os resectum, un piccolo osso che figura nella letteratura antiquaria come misura
minima, quando si arriva a coprire il corpo con la terra, sembra di conseguenza incoerente (vedi Graham
2011a, pp. 92-103).
113. Scheid 1993a.
114. McCane 2007.
115. Hesberg 1992.
116. Plinio, Naturalis historia 35,160. Sulla percezione, da parte degli uomini del tempo, della tradizione
pitagorica vedi Flinterman 2014, pp. 343-50.
117. Sulla persona vedi Rüpke 2005c, n. 1139.
118. Questa l’interpretazione in Petersen 2003, pp. 245-47.
119. Ibid., p. 234.
120. Ibid., p. 251. L’iscrizione è ben spiegata in Kolb e Fugmann 2008, pp. 120-24. Qualcosa di simile si
trova in forma testuale nel II secolo d.C. nel Pastore di Erma (Rüpke 1999a).
121. Petronio 71,5-12; sulle disposizioni legali vedi Ulpiano in Digesto 11,7,6.
122. Per il testo della Vita di Abercio cfr. Thonemann 2012; testo: 258-59; con traduzione inglese
https://en.wikipedia.org/wiki/Inscription_of_Abercius. Ringrazio Markus Vinzent per aver condiviso la
sua nuova analisi e per il suo desiderio di analizzare i testi separatamente.
123. Sulla cronologia vedi Hesberg 1992, in breve pp. 242-43.
124. Vedi Hope 1997, pp. 81-82.
125. Alcuni esempi in Van Andringa 2013.
126. Hesberg, Nowak, Thiermann 2015, p. 246.
127. Vedi per esempio fuori dalla città di Roma Hesberg 2006.
128. Carroll 2013.
129. Champlin 1991, p. 183. Vedi anche p. 184 sui costi della sepoltura.
130. Graham 2009 trascura questo punto vitale nel suo stimolante saggio. In generale sulla pratica delle
iscrizioni funerarie vedi Eck 1987.
131. Anche per l’epicureo Filodemo, nel suo trattato Sulla morte, le disposizioni verso gli amici e la
famiglia costituiscono un motivo d’onore per l’eredità (Tsouna 2007, pp. 261-62).
132. Vedi Carroll 2011.
133. Sulla terminologia vedi Maye 2010.
134. D’Ambra 2002, pp. 240-41. Sui casi in cui la qualità del lavoro soffrí vedi Pollini 2007, p. 261. In
maniera generale sulla funzione delle strade che fiancheggiavano le tombe vedi Hesberg e Zanker (a cura
di) 1987.
135. Mouritsen 2011, pp. 284-89.
136. Borbonus 2014. Cfr. Penner 2012, p. 146 a proposito della concentrazione in età giulio-claudia e
l’inusuale elevata presenza di salme femminili (30-41 per cento).
137. Borg 2013, p. 273.
138. CIL 6,37965; un breve resoconto in Hope 2011, pp. 178-79.
139. Lamotte 2010. Sull’atteggiamento nei confronti della morte prematura vedi Graf 2010b.
140. Mielsch 2009, p. 30; senza alcun riferimento a Mielsch, vedi G. Davies 2011; anche a proposito del
ruolo dinamico degli acquirenti (pp. 48-49). Un inquadramento generale in B. Rawson 2003.
141. Vedi Koch 1993.
142. M. Nielsen 2009, p. 87. Lo stesso vale per le tradizioni regionali dell’attuale Abruzzo: Benelli e
Rizzitelli 2010, p. 137.
143. Newby 2011, p. 224.
144. D’Ambra 1988.
145. Borg 2011, p. 60, anche a proposito dei progetti dei templi.
146. Ibid., soprattutto le pp. 64-65. Anche gli Haterii scelsero questa forma, a giudicare dal ben noto rilievo
(p. 62).
147. Quanto segue si trova condensato in Borg 2013, pp. 271-78.
148. Sul Vaticano vedi Liverani e Spinola 2010 (devo questo suggerimento e molti altri a Richard Gordon).
149. Vedi Pirson 1997; Gering 2002.
150. Rebillard 2003; Rüpke 2005a; Borg 2013, p. 274.
151. Cfr. Borg 2013, pp. 276-77 con Scott 1997, p. 58 e Trimble 2011, p. 324.
152. Inscriptions Latines d’Afrique 225; vedi Vigourt 2011.
153. Jastrzeboska 1981; P.-A. Février 1990; McDonough 2004.
154. Una trattazione eccellente dei ritrovamenti archeologici tombali in Van Andringa 2013.
155. Pseudo-Quintiliano, Declamationes maiores 10.
156. Digesto 11,7,6,1; vedi anche 11,7,2 sulle ulteriori caratteristiche di una tomba autentica. Secondo
Ulpiano (11,8,4) la tomba non può mai diventare proprietà personale in virtú di un possesso reale di
lunga data.
157. Ovidio, Fasti 5,419-446 nell’interpretazione di Bettini 2009, pp. 124-26.
158. Cicerone, De legibus 2,22, nella ricostruzione testuale di Andrew Dyck.
159. Bettini 2009, pp. 109-18.
160. Vedi Norden 1966; Bauckham 1988; Colpe, Habermehl 1996; Markley 2013.
161. King 2013.
162. Graf e Johnston 2007, n. 9. Testi ulteriori in Edmonds 2011.
163. Su questa caratterizzazione dell’orfismo vedi Edmonds 2013; per una discussione piú specifica delle
foglie d’oro vedi Edmonds 2009; Calame 2011; De Jáuregui 2011; Faraone 2011a e 2011b; Riedweg
2011a.
164. Cuneo 2012: per Costantino II nel IV secolo.
165. Vedi S. Fine 2010 sulla debole correlazione fra evidenza archeologica e «credenze». Su quest’ultime e
la loro vaghezza vedi Cavallin 1979.
166. Plauto, Aulularia, Praefatio; Dionigi di Alicarnasso 4,2 e 4,14. La tradizione testuale relativa
all’ultimo riferimento menzionato è erroneamente ritenuta inattendibile, poiché il tentativo da parte di
Dionigi di mettere insieme i vari elementi non riesce a dire quello che gli interpreti si aspettano.
167. Seguo qui la linea di Samter 1901, pp. 105-28, contra Wissowa (in breve Wissowa 1912, pp. 174-75);
posizioni discusse in maniera esauriente in F. Boehm 1927, e piú di recente anche da Mastrocinque
1999. Per una trattazione completa della questione dei lares vedi Flower 2017.
168. Sul mito: Dionigi di Alicarnasso 4,2. Per Pompei: Foss 1997, p. 217.
169. Vedi Weiss 2009 sull’Egitto nell’età romana; una trattazione completa in Weiss 2015b. Sulle nicchie
pompeiane, soprattutto negli ambienti di lavoro, vedi Kastenmeier 2007.
170. Su questo concetto vedi Weiss 2015a.
171. Vedi Niebling 1956; Flambard 1981. Per una prosopografia dei vicomagistri vedi Rüpke 2008a.
172. Vedi per esempio CIL 10,1235: Genio et Laribus (da Nola).
173. Giacobello 2005, p. 242; lararium: Historia Augusta, Aurelius 3,5; Alexander Severus 29,2-3 e 31,4,5.
174. Vedi sopra, p. 217.
175. Sulla questione dell’eliminazione vedi Svetonio, Caligola 5.
176. Il materiale si trova in Linderski 2000, ma non sono state tratte conseguenze.
177. Qui, sullo sfondo di una comparabile conoscenza testuale, l’intuizione di Charles César Baudelot nel
suo Utilités des voyages (1686) appare piú vicina all’interpretazione antica rispetto al tentativo da parte
di Wissowa e dei suoi allievi (e ancora Hersch 2010, pp. 278-79) di individuare ferme distinzioni
maggiormente convergenti con l’idea di un culto di stato sistematico (ringrazio per il suggerimento
Martin Mulsow, Forschungszentrum Gotha).
178. Sebbene questa dichiarazione sia ancora sostenuta in Laforge 2009.
179. Bielfeldt 2014, p. 202.
180. Ibid., p. 221. Sulla concezione antica del vedere grazie alla proiezione attiva della luce, pp. 213-14.
181. Dräger 1994.
182. Lacam 2008. Devo il riferimento alle diffuse rappresentazioni non documentarie dei sacrifici di tori
nell’età romana imperiale a Günther Schörner, Vienna.
183. Rüpke 2005d; vedi anche Foss 1997, p. 217 e Estienne 2011; contra Scheid 1985. Sull’ambivalenza
del consumo di carne vedi Corbier 1989 e Kearns 2011. Sulla pratica imperiale in area orientale cfr.
Petropoulou 2008.
184. Sulla visceratio cosí come è riflessa nel Nuovo Testamento vedi Standhartinger 2012.
185. K. B. Stern 2014, soprattutto p. 146. Per le case: Scheibelreiter-Gail 2012, p. 161 con esempi dal I
secolo a.C. al IV secolo d.C.
186. Illustrativo: Scapaticci 2010, soprattutto p. 107.
187. Dasen 2015.
188. Per le divinità protettrici vedi Potter e Mattingly 1999, pp. 165-66; per l’interazione tra le varie forme
di conoscenza vedi invece Gordon 2011; Faraone 2011b. Per i gioielli: Michel 2000 e 2001; Nagy 2011.
189. Gaillard-Seux 1998.
190. Mastrocinque 2009.
191. Per le basiliche: Scott 1997, p. 54; per le cappelle private: Bowes 2015b.
192. Gordon 2013d; vedi anche Gordon 1999. Per la deposizione nelle tombe a Roma vedi per esempio
Bevilacqua 1998.
193. Defixionum Tabellae Mogontiacenses I.
IX. NUOVI DÈI
X. ESPERTI E FORNITORI
1. Sulla preghiera come caratteristica principale della religione romana rispetto al sacrificio vedi Patzelt
2018. Sulla lunga continuità e sul ruolo essenziale della preghiera dall’ellenismo al giudaismo rabbinico
vedi Chazon 2012, p. 387; vedi anche Jonquière 2007.
2. Fondamentale Mauss 1925. Vedi inoltre Moebius e Papilloud (a cura di) 2006; Hoffmann et al. (a cura
di) 2016.
3. Questo è ciò che viene chiamato embedded religion.
4. Acta arvalia 49,8-32 Scheid.
5. Simpulatrices: Paolo Diacono, Epitome (ex Festo) 455,15-16 (ed. Lindsay); la sola popa di cui si conosce
il nome era una donna: FS n. 1419. Sulla svariata serie di ruoli religiosi (e culturali) delle donne vedi P.
Keegan 2014, pp. 121-34; precedentemente Momigliano 1992a.
6. Festo 472, 19-23 (ed. Lindsay).
7. Goette 1986b, p. 64 ipotizza un pontifex minor, ma le prove per questo mancano.
8. Vedi inoltre Gordon 1990.
9. P. Keegan 2014, p. 133.
10. Sul ruolo dei filosofi vedi Vinzent 2017.
11. Ullucci 2012; per un contesto piú ampio vedi Knust e Vàrhelyi (a cura di) 2011; Faraone e Naiden (a
cura di) 2012.
12. Eckhardt 2014; vedi Plutarco, Numa 16,2. Cfr. Stroumsa 2005b, dove, tuttavia, si dà troppa importanza
al ruolo di ebrei e cristiani in queste pratiche.
13. Elsner 2012b.
14. Gordon 2009a, p. 640; Meier 2009, pp. 207-8; Remijsen 2015.
15. Vedi Rüpke 2016e. Sulla scelta del termine episkopoi vedi Eck 2014, pp. 344-45.
16. Sulla natura problematica del termine vedi Ando e Rüpke 2006a e 2006b.
17. Radin 1927. Il mio ragionamento qui deve molto a Richard Gordon (esemplare, da questo punto di vista,
Gordon 2005).
18. Vedi sopra, p. 258.
19. Wilburn 2012 sui limiti della tradizione e sui vuoti che sistematicamente ha la nostra conoscenza di
queste pratiche. Sui suoni in generale vedi Vendries 2015.
20. Sul termine vedi Mulsow 2012. Per nozioni letterarie sulla cosiddetta poesia personale si veda per
esempio Luck 1992; C. R. Phillips 1994; O. Phillips 1995; O’Neill 1998; Janowitz 2001; Murray 2007;
Rüpke 2016c, pp. 65-79.
21. Festo 232,33-234,2 (ed. Lindsay); qui sono menzionati anche i sinonimi successivi. Definizione di saga
in Cicerone, De divinatione 1,65.
22. Fa eccezione P. Keegan 2014, p. 129.
23. Vedi Varrone, De lingua latina 6,14: sacerdotes Liberi. Si conoscono solo due maschi libarii e
provengono dai graffiti di Pompei (CIL 4,1768-69). La consueta supposizione che si tratti di fornai
«profani» è discutibile.
24. Marziale 10,24,4. La grande varietà di torte per i rituali includeva anche l’arculata: Paolo Diacono,
Epitome (ex Festo) 15,10 (ed. Lindsay).
25. Belayche 2013, pp. 114-22 giustamente critica ogni separazione categorica fra preti di sesso maschile o
femminile e specialisti di divinazione.
26. Vedi Rüpke 2013i, Eidinow 2013 e Bowden 2013, pp. 54-56, sulla crescente importanza dell’ultimo
aspetto nel corso dell’età imperiale.
27. Catone, De agri cultura 5.4: voci critiche anche in Plauto, Amphitruo 1132.
28. Plauto, Miles gloriosus 693.
29. Vedi cap. V , § 2.1.
30. Cosí in generale Van Nuffelen 2011 (cfr. Adluri 2013 per una tendenza piú a lungo termine). Su
Manilio vedi Volk 2009.
31. Schmid 2005; Green 2014, qui anche per quanto segue.
32. Firmico Materno, Contra mathematicos 2,30,5.
33. Pseudo-Quintiliano, Declamationes maiores 4,17,1. Sul testo vedi Stramaglia 2013.
34. Sulle tecniche e sui gruppi di clienti: Demandt 1990; Brodersen 2006; Nollé 2007. Per l’Italia: Bouché-
Leclercq 1882; Champeaux 1986 e 1990; Buchholz 2013. In generale: Bouché-Leclercq 1879; Belayche
et al. 2005. Sul manuale: Mowat 2016.
35. Epitteto 1,31; sulla rivalità con gli indovini: 1,32.
36. Vedi Denzey Lewis 2017 in riferimento a Ireneo e all’Ippolito della Refutatio; successivamente si unirà
a loro Epifanio.
37. Kemezis 2014.
38. Cassio Dione 72,23,1-2.
39. Ivi, 53,1,5; 58,12,5.
40. Ivi, 56,46,1.
41. Ivi, 55,22,5.
42. Per esempio Cassio Dione 52,30,4-6; 54,8,5; 55,6,5; spec. 56,46,5 e 59,6,4.
43. Un’analisi completa di quanto segue è in Rüpke 2011b.
44. Rüpke 2010b.
45. ILS 8380; vedi Van Haeperen 2002, pp. 198-201.
46. CIL 6,31034.
47. Ivi, 709; 6,52.
48. Ivi, 40684.
49. Cfr. Digesto 1,2,2,49 sulla concessione di uno ius publice respondendi per mezzo degli Augusti.
50. Esmonde Clearly 2013, pp. 226-30. Tuttavia, le «iscrizioni confessionali» sono un fenomeno rurale
(come ribadito da G. Horsley in una conferenza tenuta all’Università di Erfurt il 1° ottobre 2015).
51. Cosí Gordon 2016. I testi sono disponibili in Petzl 1994. Vedi anche Rostad 2002, Chaniotis 2009 e
Belayche 2013 sul ruolo dei sacerdoti.
52. Cassio Dione 55,31,2-3.
53. Ivi, 59,9,3.
54. Ivi, 79,4,1-5; 79,31,1-2.
55. Cosí J. Z. Smith 1978b, capitolo II . In generale, sulle scritture apocalittiche: Momigliano 1992b. Sulle
sibille: Collins 1987; Parke 1988; Potter 1990 e 1994; Neujahr 2012, pp. 195-242; sulle apocalissi:
Nagel, Schipper e Weymann (a cura di) 2008; K. R. Jones 2011.
56. Cassio Dione 57,18,4-5. Sull’incendio di Roma: 62,18,3.
57. Satake 2008, p. 126; Malina 1995; vedi Taeger e Bienert 2006, pp. 162-63.
58. Osiek 1999, p. 24; Rüpke 2013b.
59. Rüpke 2005b.
60. Su quanto segue vedi Gordon 2013b.
61. Pastore di Erma 8,3.
62. Ivi, 7,4; vedi inoltre Leutzsch 1989, pp. 70-71.
63. Pastore di Erma 8,3.
64. Lieu 2004, p. 243. Cfr. Cicerone, De legibus 2,5, e le discussioni degli ebrei di Alessandria in Flavio
Giuseppe, Contro Apione 2,6 e A Diogneto 5-6.
65. Apocalisse 17-18; 4 Esdra 11-12; Oracoli sibillini 5,408-27; K. R. Jones 2011.
66. Sui Flavi: Boyle e Dominik (a cura di) 2003; cfr. Rüpke 2012i per un testo un poco precedente a Roma,
e Nasrallah 2010 per le città del Mediterraneo orientale. Cfr., per contro, i modi di citazione
nell’Apocalisse di Giovanni: Karrer 2012.
67. Pastore di Erma 9 (visio 3,1), 4 e visio 1,4,1 e 3; visio 3,1,6 e 10,1.
68. Ivi, 50,8-10.
69. Waldner 2012.
70. Vedi per esempio l’Alessandro di Luciano, o La morte di Peregrino 11; Origene, Contro Celso 7,9 (per
il suggerimento ringrazio Maria Dell’Isola che sta per pubblicare un lavoro sulla costruzione
storiografica del montanismo).
71. Frontone, Lettere 2, p. 10 (226 N): epularum dictator, cenarum libator, feriarum promulgator.
72. Luciano, La morte di Peregrino 13.
73. Vedi per esempio AE 1997, p. 857; Chaniotis 2005, p. 163; una descrizione completa è in Alföldy 1997.
74. Ireneo, Adversus haereses 1,23; Allen Brent, in una relazione presentata alla British Patristic
Conference a Londra nel 2014. Per esempio Lucio Elio Mole Iunior e suo figlio Lucio Elio Terenziano
Mole, alla fine del I o nel II secolo d.C., costruirono a Keraia (Belören, in Turchia) un piccolo culto
locale che si basava esclusivamente su libagioni in onore del dio Men Keraeiton (Horsley 2007, n. 110).
75. Quanto segue si basa essenzialmente su Gordon 2012, pp. 971-72. Sull’origine iraniana dell’idea di un
sacrificio cosmico di fondazione vedi Gordon 2017.
76. Sulla diffusione delle immagini di Mitra vedi Boschung 2014.
77. White 2012, pp. 481-86. Sull’invocazione di «Mitra» in altri contesti vedi per esempio Inscriptiones
Graecae ad Res Romanas Pertinentes 1,79: Gordon 1994, p. 471; Sanzi 2005; Latteur 2011.
78. Gordon 2017; contro una localizzazione del culto nell’ambito militare vedi Gordon 2009b.
79. Gordon 2017; vedi anche Martens 2015; in generale sui ritrovamenti a Tienen e similari (come per
esempio il vaso con serpente proveniente dal mitreo di Ballplatz a Magonza) vedi Martens e Boe 2004.
80. Vedi Gordon 2013c che si basa su Chalupa e Glomb 2013. Su un Cautes con testa di toro vedi Szabó
2015.
81. Cfr. Gordon 2013c. Questo pone notevoli problemi per quanto riguarda una «archeologia del rituale»
(vedi per esempio Van Andringa e Lepetz 2003; Scheid 2008) e l’interpretazione delle ossa animali e
degli avanzi di cibo: ossa di pollo possono anche indicare il sacrificio di tori.
82. Quest’ultimo fattore funziona allo stesso modo nelle occorrenze del nome di Giove Dolicheno,
ampiamente assente in Gallia e Spagna (Schwarzer 2012); su questo cosiddetto culto vedi per esempio
Merlat 1960; Hörig e Schwertheim 1987; Blömer e Winter (a cura di) 2012; Sanzi 2013.
83. Auffarth 2013.
84. Sulle esperienze facilitate da tutto questo vedi Gordon 2015. Sull’impiego delle luci nei misteri: Patera
2010.
85. Un’analisi esemplare della questione è in Gawlinski 2012.
86. Rogers 2012. Per esempio Horsley 2007, n. 21 (prima metà del I secolo d.C.).
87. Vedi per esempio O. Pappalardo 2012 sulla Villa dei misteri a Pompei. Cruciale qui è il testo di
Pausania. Sull’esperienza religiosa di Pausania vedi Funke 2010, p. 226.
88. Simón 2010; Harland 2011; vedi anche Klotz 2012, p. 404 su Tebe. Sui viaggi italici verso templi greci
in epoca repubblicana vedi Naso 2011.
89. Una descrizione completa in Van den Horst 1982.
90. Cicerone, De legibus 2,20-1; Rüpke 2016e, pp. 29-31.
91. Vedi capitolo VI , § 3.2. Tacito il quindecimvir non si occupò di religione.
92. Per i dettagli vedi Rüpke 2014b, pp. 239-49 contra A. Cameron 2007 e 2011.
93. Vedi Ullucci 2012, sebbene non fornisca una dettagliata differenziazione sociale. Come sostenuto da
Rebillard 2010, la critica cristiana fino al V secolo riguardava quasi esclusivamente la partecipazione ai
sacrifici e non il beneficiare della «carne sacrificale» che veniva prodotta da questi riti.
94. Cosí gli importanti ritrovamenti di Schörner 2011, p. 94. Sulla traducibilità: Richter 2011, p. 211.
95. Auffarth 2013, p. 434. Vedi per esempio Galeno, De pulsuum differentiis 2,4.
96. Cosí Van Nuffelen 2011. Sul ruolo della «conoscenza» religiosa e dell’autorità da essa conferita vedi
North 2010, p. 47; vedi anche Sanders 1992, p. 191.
97. Branham 2012, pp. 222-23; Swartz 2017.
98. Sui processi di individualizzazione religiosa in epoca imperiale vedi Rüpke e Spickermann 2012; Rüpke
2013g e 2013k; Rüpke e Woolf 2013a.
99. Rüpke 2016c. Esempi delle conseguenze religiose nella mobilità geografica sono in Hekster et al. (a
cura di) 2009.
100. Cosí Richard Gordon. Sulla situazione romana: Orlin 2010.
101. Pastore di Erma 8,3. Per questa idea, e per l’opportunità di poterla sviluppare in futuro, ringrazio Jos
Verheyden (Lovanio).
102. Schellenberg 2011, pp. 156-58; Baslez 2011, p. 25.
103. Qui condenso considerazioni proposte da Richard Gordon a proposito della percezione del
funzionamento delle tavolette di maledizione: Gordon 1995, 2007, 2013e e specialmente 2013d.
104. Brevemente, Ando 2008, 2013a e 2013b; Woolf 2009 e 2012b; Rüpke 2014b, pp. 1-21.
105. Hurlet 2011, p. 134. Sul carattere asistematico del regime vedi Eck e Müller-Luckner 1999.
106. L’argomento decisivo si trova in S. R. F. Price 1984.
107. Vedi, in generale, G. A. Fine 2010.
108. Vedi Martin 1995, p. 723; sulla sostituzione vedi Picard 2012.
109. Sul venir meno di nuovi investimenti nei templi pubblici nell’Europa nordoccidentale a partire dalla
seconda metà del III secolo d.C. vedi Van Andringa 2014a e gli esempi citati in Id. 2014b.
110. Bazzana 2010, pp. 108-9; S. Schwartz 2010, p. 170.
111. Harland 2014, n. 95 dall’81 d.C.
112. Sulle differenze nelle complesse identità politico-culturali vedi Demougin 2012, p. 109; sulla
situazione nel Mediterraneo orientale vedi per esempio C. P. Jones 2004; Raja 2013b, p. 169. Sulle
sinagoghe come associazioni: P. Richardson 2004.
113. Lieu 2004; DePalma Digeser 2006; Schott 2008; Perkins 2009; Nigdelis 2010; Rebillard 2012.
114. Questo oggi ci spinge a indulgere in discorsi che parlano indistintamente di «culti», dove l’accento è
posto sulle desiderate somiglianze, senza tener conto delle infinite varianti locali.
1. Sul contesto: Gordon 2013b, p. 165. La fondazione di un’associazione in un paese straniero al fine di
provvedere alla sepoltura è menzionata a Nicomedia nel Nordovest dell’Asia Minore, da parte del
falegname fenicio Papos: S. Price 2012, p. 8 (in riferimento a «Bulletin de correspondance hellénique»,
102, 1978, pp. 413-15).
2. Vedi Ausbüttel 1982, pp. 35-37.
3. Vedi per esempio Harland 2014, n. 103: una dedica condivisa alla dea Roma assicurava alla popolazione
locale e ai mercanti romani una base comune per il commercio. Una situazione simile si trova a Kozluca:
Horsley 2007, n. 328 (Myliadeis, mercanti romani, residenti traci).
4. Esemplare: Bendlin 2011.
5. Una trattazione completa della questione in Egelhaaf-Gaiser 2000, pp. 272-329.
6. Bollmann 1998; in particolare, in riferimento ai gruppi religiosi: White 1990 e I. Nielsen 2014.
7. Rohde 2012, p. 359. Sulla datazione cfr. Trimble 2011, p. 337.
8. Ando 2013b, pp. 92-100.
9. Digesto 47,22,1,2; White 1990, pp. 26-28. Su un’associazione al confine fra contesto familiare e vicinato:
CIL 6,455 (collegium Larum).
10. Vedi Digesto 47,22,1,1; anche Bendlin 2005, pp. 80-82.
11. Noy 2010, p. 211; Belayche e Dubois (a cura di) 2011.
12. Questa prima sessione si basa su Rüpke 2016g.
13. Ascough 2005 e 2007.
14. König 2011.
15. Cfr. Certeau 1975 sugli storiografi.
16. Sulla critica: Stowers 2011; Urciuoli 2013. Sugli specifici problemi che ne conseguono, come nel
discorso a proposito dei pitagorici, vedi Cornelli 2013.
17. Vedi Iricinschi e Zellentin 2008; Denzey Lewis 2017.
18. King 2008, p. 35.
19. Vedi Stock 1983 per il medioevo; per l’antichità vedi Brakke 2012.
20. Vedi K. Quinn 1982, pp. 79-93.
21. Starr 1987.
22. Per la tarda antichità vedi Mratschek 2010.
23. Johnson 2012, capitolo II .
24. P. L. Schmidt 2001, p. 940.
25. Johnson 2012, pp. 42-56.
26. Giovenale 7,36-47.
27. Hoffer 1999, pp. 10-13; Gibson e Morello 2012, pp. 136-38; sull’inclusione indiretta delle donne vedi
J.-A. Shelton 2013. Per gli aspetti prosopografici delle reti rimane insostituibile Sherwin-White 1966.
28. 3 Gv 9-13. [Si cita da La Bibbia di Gerusalemme, Bologna 1998 15. N.d.T.].
29. Musonio nelle sue Diatribe III e IV incoraggia direttamente le donne a filosofare; vedi Ramelli 2008, ad
loc.
30. Vedi Vinzent 2011.
31. Eusebio, Storia ecclesiastica 5,13,5-7; devo a Vinzent 2011, p. 126 questo riferimento.
32. Per esempio Galeno, De usu partium 11,14; vedi Tieleman 2005.
33. Rüpke 2012g, pp. 74-78.
34. Pseudo-Cesare, Bellum hispaniense 42,7 [trad. it. La lunga guerra civile (Alessandria-Africa-Spagna), a
cura di L. Loreto, Milano 2001].
35. Momigliano 1992b; Potter 1990, 1994; Gauger 1998, pp. 412-18.
36. Per esempio Oracula Sibyllina 1,2; 3,163; cfr. 4,1 e 5,1. Esseri umani/mondo: 1,4; 2,21; 3,7; 8,1,3. Cfr.
Usher 2013 sulla possibile ricezione nell’Octavia praetexta, critica del regime imperiale.
37. Vedi I. Henderson 2012.
38. Cosí Cancik 2011.
39. Vedi Arnal 2011 e piú avanti. Sulla loro designazione da parte di altri, e conseguentemente anche da
loro stessi, come «cristiani» vedi Trebilco 2012, pp. 272-311.
40. Scopello 2010; Schenke in Schenke, Bethge e Kaiser (a cura di) 2007, p. 2.
41. Cosí Ramelli 2005, pp. 1358-59, confrontando questi testi con quelli della raccolta post-classica del
Corpus Hermeticum.
42. Cfr. ibid., pp. 1344 e 1362-64. La discussione sull’uso monastico di questa collezione in Lundhaug e
Jenott 2015.
43. Cfr. Vielhauer 1975, p. 602: senza un pubblico reale.
44. Schaper 2009, qui in relazione al periodo che va dal VII al V secolo a.C.
45. Nel caso di Luciano è possibile, per esempio, mettere in relazione alla religione 20 dei 70 testi a nostra
disposizione, per Plutarco invece circa 15 dei 78 raccolti nei Moralia.
46. Rüpke 2013h.
47. Vedi Cancik 2011; Rüpke 2012g; cfr. E. M. Becker (a cura di) 2005.
48. Su quest’ultimo vedi Rajak 2009.
49. Ibid., pp. 152-75; sul foreignizing p. 153.
50. Vedi Rajak 2009, p. 311.
51. Millar 2010; Takahashi 2014.
52. A proposito della tesi della split diaspora, per l’estesa perdita di contatti con le comunità della diaspora
occidentale prima dell’epoca islamica e le possibili molte assimilazioni latino-cristiane vedi Edrei e
Mendels 2007, 2008 e 2012. Trattando della questione dello sviluppo di comunità ebraiche in occidente,
entrambi gli autori sono reticenti e non fanno riferimento al problema di una minoranza grecofona in un
ambiente circostante latinofono.
53. S. Stern 2012, pp. 303-13.
54. Rajak 2009, pp. 223-24.
55. Watts 2010, pp. 45-52. In generale vedi Cancik-Lindemaier 2012; Cancik 2012b, p. 103 sul ruolo di tali
narrazioni nell’ambito della transizione dal giudaismo al cristianesimo.
56. Cfr., con un’enfasi diversa, Brakke 2012, p. 275.
57. Martzavou 2012a, p. 195; Petridou 2017.
58. Kratz 2013; Sharon 2012, p. 439 sullo sviluppo delle sinagoghe in Egitto a partire dal III secolo a.C.
59. Rajak 2009, pp. 234-35.
60. Sul concetto vedi Granovetter 1973.
61. Svetonio, Augustus 31,1; Teja Casuso e Marcos 2012.
62. Quanto segue si basa su Rüpke 2016b.
63. Verdoner 2011, p. 19.
64. In generale, Dithmar (a cura di) 1995.
65. Quanto segue si basa su Koschorke 2012, pp. 27-110 per la terminologia analitica.
66. Ovidio, Fasti 2,721-852. Per una trattazione completa vedi Rüpke 2010a.
67. Koschorke 2012, pp. 61-74. Per i vangeli: King 2015.
68. Vedi la panoramica offerta in Seeliger e Wischmeyer 2015, pp. 1-45; vedi anche Waldner 2004.
69. Valerio Massimo 9,15,5 e 9,15, ext. 1.
70. Wardle 2000 e 2002; Lucarelli 2007. Sul concetto di post-memory vedi Hirsch 2012.
71. Marcione 1,2 Klinghardt = Lc 3,1.
72. Vedi già Bowersock 1994; Whitmarsh (a cura di) 2010; Woolf 2010.
73. Su questa connettività vedi Koschorke 2012, pp. 29-38.
74. Knauer 1964.
75. Per esempio Bremmer 1991; Hartmann 2013; per l’inserimento successivo nella storia di Policarpo vedi
Zwierlein 2014 e Seeliger e Wischmeyer 2015, p. 29.
76. Specialmente utile per la biografia antica: McGing e Mossmann (a cura di) 2006; Shuttleworth Kraus
2007; Radke-Uhlmann 2008; Hägg 2012. Sulla biografia religiosa vedi Talbert 1978; Cox 1983;
Momigliano 1987; Dihle 1993; J. M. Dillon 2006; König 2006; Debié 2010.
77. Vedi per esempio Krauss 1930; Kröger 1940; Rüpke 2012g, p. 74 su Cesare e Tacito.
78. Plutarco, Numa 9,1.
79. Sulle precedenti concezioni di Numa vedi Deremetz 2013.
80. Rüpke 2012i.
81. Lombardi 2012, p. 391.
82. Su Giuseppe cfr. Hadas-Lebel 1993. Sull’autobiografia: Engels 1993; Pelling 2009; C. Smith 2009.
83. McLaren 2013.
84. Per la discussione sul carattere biografico dei vangeli vedi Cancik 1984a e 1984b; Dormeyer,
Frankemölle 1984; scettica E. M. Becker 2006; una sistemazione diversa del problema in Baum 2013.
85. Vedi per esempio Stefaniw 2012; Johnston 2012.
86. Demoen e Praet (a cura di) 2009 su Apollonio; Lipsett 2011 su Erma e gli Atti di Paolo e Tecla, cosí
come il Libro di Giuseppe e Aseneth. Sui rari esempi di conversione come narrazione biografica
specifica vedi Bremmer 2014c e 2016.
87. Cfr. lo sviluppo del romanzo clementino e la sua trasformazione in un racconto in prima persona in
ambito siriaco (Wehnert 2015).
88. In generale Koschorke 2012, pp. 38-51, specialmente p. 41.
89. Rüpke 2015a.
90. Ben-Eliyahu, Cohn e Millar 2012, p. 62.
91. Vedi anche, per il XIX secolo, Lersch 1843.
92. Standhartinger 2010, sintesi a p. 25.
93. Bremmer 1995b.
94. Vedi sopra, p. 312.
95. Vedi T. P. Henderson 2011, p. 224 sull’applicazione del concetto ad alcuni dei testi successivi. Sul
concetto vedi Schiffman 1985 e Feldman 1998.
96. Epistula apostolorum 14; Ehrman 2003, p. 75.
97. Ascensio Iesaiae 11,8-9; Vinzent 2011, pp. 119-22.
98. Evangelium soteros 7 = P. Berol. 22220; ed. Ehrman 2003.
99. Niehoff 2012.
100. Cfr. Newlands 2009, pp. 372-73 con Nikolaidis 2009.
101. Per esempio 1,25,49; vedi T. P. Henderson 2011.
102. Haines-Eitzen 2012.
103. Krueger 2004, p. 191; per il periodo successivo: Krueger 2010.
104. Vangelo degli Ebioniti 1 = Epifanio, Panarion 30,13,6.
105. Esemplare Feldherr 2010 su Ovidio.
106. Come si sottolinea in Frenschkowski 2009, anche a proposito del concetto di «sottocultura» (pp. 230-
32).
107. Vedi Brown in Brown e Lizzi Testa (a cura di) 2011, p. 607.
108. La questione è ampiamente trattata in Rüpke 2014c.
109. Vedi per esempio Nicolet 1988; K. Clarke 1999; Dueck 2012; su Trogo, Widevoort Crommelin 1993.
110. Gillet-Didier 2002, pp. 391-92.
111. Sulle pratiche religiose di memorializzazione e storiografia a Roma vedi Rüpke 2012g. Piú in generale
sul fenomeno: Rüsen 1996 e 2001; Straub 2001.
112. Gruen 2011, p. 227.
113. S. Schwartz 2001, pp. 19-21.
114. Per l’Egitto, e in modo particolare per Elefantina e Leontopoli, vedi Kratz 2013. Su quanto segue vedi
S. Schwartz 2001, pp. 32-99, benché l’autore manchi di riflettere sulle implicazioni generali di questi
accadimenti.
115. Tuval 2012, p. 238.
116. Tacito, Annales 15,44,2-3; Plinio, Epistulae 10,96-97. Cfr. Zetterholm 2003.
117. Sul carattere ambivalente della circoncisione come elemento distintivo e forma di controllo vedi
Jacobs 2012; vedi anche Neutel e Anderson 2014 sull’ambivalenza del simbolo maschile in Filone e
Paolo. Sul programma «imperiale» di Paolo vedi Arnal 2011.
118. S. Mitchell 1999 e 2010; Belayche 2011a.
119. Valerio Massimo 1,3,2 in relazione alla soppressione delle pratiche religiose straniere (giunto a noi
solamente grazie all’epitome di Giulio Paride).
120. Cosí, in modo convincente, Wendt 2015.
121. Vedi Tacito, Annales 15,44,3.
122. Su quest’ultimo punto vedi G. J. Baudy 1991, con la critica in Rüpke 1994. Piú in generale, Shaw
2015.
123. Per la discussione vedi Goodman 2012; Clements 2012. Sui colori dell’arco: S. Fine 2015. Vedi anche
Weikert 2016, pp. 75-76 per i destinatari dell’arco; sulla narrazione del conflitto in Giudea vedi Rudich
2015.
124. Ebner 2012, pp. 85-91 in riferimento a Paolo e alla Prima lettera di Clemente. Cfr. Maier 2015 su
Erma e Neutel 2015 su Paolo.
125. Rüpke 2012i sulla Lettera agli Ebrei.
126. Cosí Ebner 2012, p. 91 in riferimento ad Atti 18,1-3; lo stesso si trova in Giustino.
127. Brevemente su Alessandria: Clauss 2004, pp. 161-64; vedi anche Bland 1996. Su Bar Kochba: Eck
2012.
128. Quanto segue si basa sulla ricostruzione della priorità del Vangelo di Marcione recentemente adottata
da Vinzent 2014a e 2014b, anche a proposito delle fonti (2014a, pp. 10-133). Per la ricostruzione
testuale: Klinghardt 2015, il quale lascia comunque aperta la questione della paternità del vangelo
utilizzato da Marcione, cosí come anche l’intervallo di tempo che intercorre fra esso e il periodo in cui
Marcione fu attivo.
129. Nicklas 2014, p. 97; Frenschkowski 2002; Monnot 2003.
130. Sull’opera centrale di Harnack e la sua posizione precedente vedi Harnack 1921; Steck 2003; Kinzig
2004. La fonte piú importante è Tertulliano (vedi Moreschini 2014).
131. Cfr. le osservazioni contenute in E. M. Becker 2011, p. 143 su Matteo e Marco (con una datazione di
molto piú antica).
132. In generale su questo Foley 1987 e 1988.
133. Vedi in generale su questo Ankersmit 2002; Ascough 2008.
134. Vinzent 2014a, pp. 73, 272-76; per la stessa datazione della raccolta ma su una base differente vedi
Zwierlein 2010, p. 143; Id. 2009, pp. 299-301. Nicklas 2014, p. 218, caratterizza l’orientamento di Paolo
come una nuova messa a fuoco all’interno del contesto giudaico.
135. Clements 2012. Per gli Atti degli apostoli come racconto di uno scisma vedi Cancik 2011, pp. 328-33.
136. T. P. Henderson 2011.
137. Cassio Dione 69,2,3.
138. Ivi, 76,15,7; 78,18,3.
139. Ivi, 78,7,1-3, Xiphilinos.
140. Ameling 2011, p. 485; vedi anche Rizzi 2010, p. 20. Sul cristianesimo come forma popolare di
giudaismo vedi Hezser 2013.
141. Sull’assenza di una tradizione locale: Zwierlein 2010; Ameling 2011. Critico sulla liturgia: Bradshaw
2014; vedi anche Leonhard 2017.
142. Nicklas 2014, p. 61.
143. Caprioli 2007, pp. 288-93.
144. Per una trattazione completa di questo processo vedi Jung 1999, 2004, 2005 e 2006. Sul linguaggio:
Schlette e Jung (a cura di) 2005.
145. Le teorie rituali hanno ottenuto questi risultati sulla base di posizioni altamente varie: vedi per esempio
Staal 1980; Burkert 1981; Bernardi 1984; Heesterman 1986; Rappaport 1992.
146. Vedi la critica in Rüpke 2013l.
147. Sulla reinterpretazione e il caricamento affettivo degli scritti sociali rituali vedi Schechner 1985;
Kranemann e Rüpke (a cura di) 2003; Rüpke 2003a.
148. Des Bouvrie 2011, p. 171, ha caratterizzato i rituali pubblici (e le produzioni drammatiche in
particolare) come «un programma di performance […] che producono una sequenza di emozioni
stabilite». Vedi anche Woolf 2013.
149. Grimes 1990; Rappaport 1999; Assmann 1999; Brandt e Iddeng 2012; Rüpke 2012e.
150. Rüpke 2012e.
151. Petsalis-Diomidis 2007, p. 252.
152. Vedi per esempio Kuhfeldt 1882; Lomas 1997; Lackner 2013; Quinn e Wilson 2013. Questi progetti di
costruzione seguirono il cambiamento verso lo status di colonia molti decenni dopo, o un secolo piú
tardi.
153. Cfr. Petsalis-Diomidis 2007, p. 252.
154. Vedi per esempio Woolf 2009.
155. Sulla «sospensione dell’incredulità» vedi Eco 1994. Sulla base cognitiva vedi Boyer 1994.
156. Petsalis-Diomidis 2007, p. 289.
157. Ringrazio Georgia Petridou per il suggerimento.
158. J. Z. Smith 1978a.
159. Asclepius 24; Giovenale 3,62.
160. Momigliano 1992b; Frankfurter 1998; cfr. Webster e Cooper 1996; Chakrabarty 2008.
161. Vedi Bracht 2014 e il capitolo seguente, § 1. Il commentario di Eracleone al Vangelo di Giovanni
potrebbe essere stato composto a Roma, in tal caso già negli anni attorno al 170, immediatamente dopo
la compilazione di un primo corpus testuale «cristiano».
XII. LINEE DI CONFINE E COMUNITÀ
1. Vedi la contrastività fra maestri da una parte ed episkopoi, preti e leviti dall’altra in Ippolito, Commento a
Daniele 1,18.
2. Vedi ibid. 4,8,7 e 4,9,2. Sulla datazione cosí come sui dettagli della seguente interpretazione vedi Rüpke
2017b. Per una difesa della datazione tradizionale del 204 d.C. cfr. invece Bracht 2014, pp. 58-64.
3. Sull’identificazione dei due diversi autori: Scholten 1991; Brent 1995 e 2004; Volp 2009; Heintz 2011;
cfr. Cerrato 2002 e 2004; Heine 2004.
4. Cassio Dione 77,16,1-2.
5. Cosí anche Markschies 1999.
6. Su Giuda, conosciuto solo grazie a Eusebio (Storia ecclesiastica 6,7), vedi Strobel 1993, pp. 113-15, che
lo colloca ad Alessandria, benché la sua argomentazione non sia per nulla convincente. Anche Origene
trascorse un po’ di tempo a Roma nel 212/13.
7. Brevemente Burgess e Kulikowski 2013, pp. 110-17, con la mia recensione sul «Journal for the History
of Astronomy», 2015. Per una descrizione completa di Africano: Wallraff (a cura di) 2006; Wallraff et
al. 2007; Wallraff e Mecella (a cura di) 2009.
8. Sull’eventualità che si possa essere avvalso del testo di Teodozione vedi la discussione in Bracht 2014,
pp. 17 e 43-47.
9. Berchman 1984; J. M. Dillon 1996; J. D. Turner e Corrigan 2010; J. M. Dillon 2012.
10. Ippolito, Commento a Daniele 4,18; un altro esempio in 4,19. Per una critica all’atteggiamento: 4,16,6;
21,4-22,1.
11. Vedi Magny 2006, p. 430.
12. Cfr. Rebillard 2016.
13. Cfr. inoltre Marcus 2011, specialmente pp. 395-96.
14. Ippolito, Commento a Daniele 1,22,2; 2,34; 4,50,3; cfr. tuttavia 1,15: «ebrei per circoncisione». Per i
termini «ebrei» ed «elleni» o pagani come differenziazioni all’interno del gruppo vedi Boin 2014.
15. Per esempio ivi 2,20 (2 Maccabei) o 4,42 (1 Maccabei). Sulla ripresa di interesse per i Maccabei col
Quarto libro dei Maccabei, scritto all’inizio del II secolo d.C., vedi Spieckermann 2014, pp. 165-83,
specialmente pp. 172-73.
16. Per l’interesse verso il Libro di Daniele nella (prima) età imperiale: Borrelli (a cura di) 2006; Hill 2007;
Tilly 2007; Oegema 2008. Una lettura critica degli eventi del 167/66 si può leggere in Honigman 2014.
17. Vedi Van Henten 2010; vedi anche W. B. Shelton 2003, pp. 69-78; Id. 2008.
18. Brevemente sulla cristologia angelologica di Ippolito: Bracht 2014, pp. 291 e 296-97; piú in generale:
Bucur 2009.
19. CIL 6,502 = ILS 4150 = Corpus Cultus Cybelis Attidisque (da qui in poi CCCA) 231 (simile: 6,504 =
CCCA 233). Cfr. 6,510 = ILS 4152 = CCCA 242: in aeternum renatus. I taurobolia venivano spesso
effettuati alla presenza delle mogli, ma si poteva anche dar loro una venatura pro salute imperatoris: CIL
12,1745 (Valentia); AE 1910, p. 217 (Nemausus).
20. Rajak 2009.
21. Vedi Stefaniw 2011.
22. Vedi Jenott e Pagels 2010.
23. Niehoff 2011a e 2011b; Rajak 2013.
24. Cfr. i contributi di S. Mitchell e Van Nuffelen 2010.
25. Berchman 1998; Frede 1999; Girgenti e Muscolino 2011; D’Anna 2011; Addey 2014; Agosti 2015. Sul
rituale vedi, in modo particolare, Janowitz 2002; A. Smith 1997 e 2011. Vedi anche Marx-Wolf 2014.
26. Papyrus Gissensis 40. Una nuova traduzione e interpretazione del papiro come prodotto locale si può
leggere in Bryen 2016.
27. Ando 2008, 2010, 2013b e 2015; una panoramica in Ando 2012.
28. Plinio, Naturalis historia 3,39.
29. Vedi Rüpke 2011e, trad. it. pp. 219-42. Ma vedi anche alla fine del IV secolo Ambrogio, per esempio la
lettera a Valentiniano II: «fides … quae servat imperium» (Epistulae 72,3, CSEL 82,3).
30. Rives 1999, p. 152. Sulle reazioni a questa decisione nelle lettere di coloro che ne furono investiti vedi
Luijendijk 2008, pp. 216-26.
31. Vedi piú in generale North 1994 e 2011.
32. Per una dettagliata descrizione della persecuzione a Cartagine vedi Brent 2011.
33. Seeliger e Wischmeyer 2015, pp. 9-13. Brevemente Ando 2018.
34. Rives 2011a, p. 212.
35. Schwarte 1994.
36. Sulle finalità davvero limitate di questo progetto vedi Belayche 2011b.
37. Schmidt-Hofner 2016.
38. Vedi Rosenbaum-Alföldi 2015a per le monete probabilmente coniate a partire dal 313 d.C.
39. Vedi Supplementum epigraphicum graecum 18, 555.
40. La letteratura su Costantino è vasta. Contributi importanti alla discussione sono A. Cameron 2006;
Bleckmann 2007; Eck 2007; Schuller e Wolff (a cura di) 2007; Van Dam 2009; Barnes 2011; Potter
2013; Lenski 2016.
41. Qui seguo l’interpretazione di Schott 2008, pp. 110-28.
42. Sull’elemento emozionale nella pubblicazione delle norme imperiali vedi Hahn 2011, p. 216.
43. Per quanto segue mi baso su Curran 2000 (servendomi di Rüpke 2006b).
44. Curran 2000, pp. 59-63.
45. Ibid., p. 70.
46. Ibid., pp. 99-115.
47. Bauer 2001; Isele 2010; Lønstrup Dal Santo 2012; Ward-Perkins 2012; Ando 2013b; Mulryan 2013.
48. J. N. Dillon 2012. Fondamentali: Ando 2000, 2011.
49. Codex Theodosianus 16,10,1, pr. (320/1 d.C.); vedi anche 9,16,9 del 319 d.C. Inoltre, in modo piú
dettagliato, Rüpke 2011a, pp. 77-116. Sugli antecedenti: Fögen 1993.
50. Vedi Codex Theodosianus 16,10,4 con 16,10,7 (del 381 d.C.).
51. Su quanto segue: Barceló 2013 con Rüpke 2014a. Vedi anche G. Clark 2004, pp. 95-100; Thompson
2015.
52. Lenski 2016, pp. 93-94.
53. Rapp 2000.
54. Ringrazio per il suggerimento Jan Bremmer; vedi Salzman 1992, 2002.
55. Cfr. per il periodo attorno al 200 d.C. Tertulliano, De praescriptione haereticorum 41,5 e 8.
56. Cfr. Stroumsa 2015.
57. Rebillard 2012; questo non significa assenza di conflitti: Shaw 2011.
58. Vedi Schott 2008, pp. 128-35, con ulteriori esempi. Per altri contesti di riorganizzazione urbana vedi
Lenski 2016, pp. 147-78. Su Elena: Cooper 2013, pp. 131-37; Dirschlmayer 2015, pp. 50-52 (mai
attestata come sponsor).
59. Barnes 2011, p. 142.
60. Sul testo e il suo contesto sociale H. Stern 1953; Salzman 1990; Divjak 2002; Wischmeyer 2002;
Burgess 2012; Rüpke 2015c (di cui mi servo per quanto segue).
61. Rüpke 2005c, n. 876. Salzman 2002, p. 201, propone il nipote.
62. Simmaco, Lettere 1,2; Rüpke 2005c, n. 808.
63. Girolamo, De viris illustribus 103.
64. E. A. Clark e Hatch 1981; Jensen 1991; Matthews 1992; Harich-Schwarzbauer 2001; Cooper 2013, pp.
140-46. Sul significato del codice per le pratiche cristiane vedi Wallraff 2013.
65. Iunior, Expositio totius mundi et gentium 55. Su quest’ultimo: Demandt 2007, p. 341.
66. Sulla rappresentazione e il banchetto rituale vedi Carletti 2004.
67. Von Stuckrad 2000a e 2000b.
68. Demandt 2007, p. 112.
69. Ibid., p. 447, n. 62.
70. Su essi: Hirschmann 2015.
71. Ammiano Marcellino 27,3,12-13; Guyon 1995, pp. 886-87.
72. Pietri 1976, pp. 376-80.
73. Brevemente in Pietri e Markschies 1996, p. 316; per i dettagli vedi Mayr 1955 e Mosshammer 2008.
74. Cfr. Leppin 2012, p. 260 sulla fase di «neutralizzazione» nell’ambito della sua idea di cristianizzazione.
75. Una breve biografia in Girolamo, De viris illustribus III,84. Quanto segue è ampiamente trattato in
Rüpke 2012a, pp. 233-44. Vedi anche Flieger 1993.
76. Vedi Stökl Ben Ezra 2012.
77. In generale Kartschoke 1975; Roberts 1985; Nodes 1993; Speyer 1996.
78. Agosti 2013.
79. Shorrock 2011, p. 119. Su Nonno: Newbold 2003; Auger 2003; Accorinti 2009 e 2013; Spanoudakis
2014. Vedi anche Massa 2014; De la Fuente 2013 e Kirkpatrick 2013 sulla presenza di Dioniso nella
tradizione giudeo-cristiana.
80. Non c’è modo di quantificare una maggior rilevanza nel corpo di testi sopravvissuti e non
rappresentativi.
81. Cfr. Giradet 2011, p. 225. Sulle immagini vedi per esempio Lightfoot 2007, p. 83; Rebillard 2009, p.
325.
82. Ando 2008, pp. 21-42; Deligiannakis 2015. Esempi in Van den Kerchove 2012.
83. A questo proposito, si trovano buone osservazioni in Eshleman 2012.
84. Vedi per esempio Stroumsa 2005a; Johnston 2012; Stefaniw 2012; Ullucci 2014. Sui rabbini,
brevemente Reed 2013.
85. Vedi Stefaniw 2011.
86. Frankfurter 1998, pp. 131-44.
87. G. Clark 2004, pp. 107-8; per ulteriori sviluppi in questa direzione Brown 2015. Sulla centralità della
liberalità e della beneficenza nelle società mediterranee cfr. S. Schwartz 2010.
88. Rüpke 2010e e 2011c.
89. Sull’effetto (limitato) nelle lettere private vedi Choat 2006, specialmente p. 143 sulle formulae
politeistiche.
90. Gotter 2011, p. 152; vedi anche Goldhill 2006, pp. 161-62. Per un punto di vista popolare sulla religione
tradizionale vedi lo pseudo-Melitone (Lightfoot 2007). Per una trasposizione concreta è sempre richiesto
un consenso fra i piú importanti attori locali: Meyer-Zwiffelhoffer 2011, p. 128; Wiemer 2011, p. 176
(per Antiochia).
91. Ward-Perkins 2011.
EPILOGO
1. CIL 14,3469.
2. CIL 6,1778-79.
3. Rüpke 2014b, pp. 238-41 contra Cameron 2011. Leppin 2008, per contro, presuppone la formazione di
un «paganesimo» coerente.
4. Cfr. Nesselrath 2012 e Cribiore 2013 con Tanaseanu-Döbler 2008.
5. Vedi Fuhrer 2011; Stefaniw 2011; Niehoff 2011a.
6. Importanti contributi in Bowersock 1978; Athanassiadi 1992; Wojaczek 1992; R. Smith 1995;
Mastrocinque 2005; Rosen 2007; Tanaseanu-Döbler 2008; Marcos 2009; Riedweg 2011b; Baker-Brian e
Tougher 2012; Harrington 2012; Elm 2012.
7. Hahn 2004, p. 22.
8. Pseudo-Clemente, Omelie 11,16; vedi Reed 2008, p. 181. Sul patriarcato: Curran 2011.
9. Vedi per esempio Harries 1986; Chesnut 1992; T. Morgan 2005; Grafton e Williams 2006; Willing 2008;
Bazzana 2010; Verdoner 2011.
10. Per il dibattito sulla astoricità della Mishnah e la formazione dei rabbini vedi per esempio W. S. Green
1979; Neusner 1979, 1997 e 2004; Stemberger 1999; Lightstone 2002; Boyarin 2004 e 2008; Yuval,
Harshav, Chipman 2008; Goodman, Alexander 2010; Lapin 2012; Dohrmann 2013; Goldhill 2015. Sulla
distinzione fra «legge» e «verità» sviluppata in questo tipo di discorso vedi Hayes 2015, pp. 244-45.
11. Hahn 2004, pp. 275 e 285 sull’interazione con le amministrazioni provinciali; Haas 1997, pp. 278-330.
In generale: Sizgorich 2009; Isele 2010. Per una panoramica con ulteriore letteratura vedi Bremmer
2014b.
12. Sul ruolo limitato dei monaci vedi Hahn 2004, p. 267. Un resoconto dettagliato in Watts 2010. Su
Costantinopoli: Bond 2013.
13. Ando 2008, pp. 149-97. Sulle reliquie: Lønstrup Dal Santo 2012; sulla giustificazione del culto delle
reliquie vedi Constas 2002.
14. Curran 2000, p. 96. Su quanto segue vedi pp. 155-57 e 129 sgg.; 139 (scisma).
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Indice analitico e dei nomi 1
identità: civica, 283, 308, 309, 367; collettiva, 10, 14, 21, 42, 43, 55, 107-9, 115, 116, 308, 317, 318,
327, 328, 345-48, 370, 373, 374; ecumenica, 264; etnica, 211, 315, 316, 338; formazione dell’, 32,
346; giudaica, 339; politica, 138, 212, 315, 330, 331, 346-48; religiosa, 5, 11-14, 36, 64, 221, 222,
244, 346-50, 367, 368; sociale, 62; strutturazione dell’, 20, 21; sovrumana, 66, 69, 72, 73, 124, 125,
251, 252, 323.
Ignazio di Antiochia, 331.
Iguvium, 173.
immagine, vedi rappresentazione.
immagini di sé (degli attori religiosi), 212.
immolatio, 114.
imperatore (comandante), 142, 145.
individualismo, 7, 284.
individualità, 221, 348.
individualizzazione, 21, 43, 243, 313, 333, 354, 355.
individuazione, 27.
iniziative, 12, 19, 28, 35, 49, 58, 76, 77, 81, 83, 119, 120, 174, 175, 194, 200, 201, 203, 204, 259-61,
268-70: personali, 19, 276, 277, 279, 280, 330, 331; religiose, 269, 290.
innovazione, 55: architettonica, 55-58, 74, 75, 126, 258, 286-88; letteraria, 326, 327; religiosa, 55, 63,
74, 75, 78, 93, 94, 117, 118, 155, 171, 172, 183, 184, 190, 194, 198, 199, 234, 244, 245, 298, 299,
301, 302, 310.
insegne militari, 139, 275.
interpretatio romana, 289.
Ippolito romano, 352-56.
Ireneo, 260, 351.
Irzio, Aulo, 323.
Isaura Vetus, 141.
iscrizioni, 9, 10, 14, 18-20, 267-72, 319, 320: cerimoniali, 201, 202; come marcatori di conoscenza e
contenenti istruzioni, 158, 171, 173, 174, 187-89, 193, 194, 202; comunicazione per mezzo di, 110,
111, 131, 132, 218, 219; cuneiformi, 29, 159 fig; dedicatorie, 201, 219, 226, 287, 301, 339, 371; di
confessione («confessioni»), 221; funerarie, 170, 171, 239-42, 367; monumentali, 184, 290; private,
89-91; provinciali, 238, 239; scolpite, 57; sepolcrali, 159, 160, 246-48, 272, 279; su edifici, 280, 318;
votive, 15.
Iseo, 347: campense, 203, 264; metellino, 262.
Iside, 17, 18, 122, 182, 195, 259, 260, 261 e fig, 262-64, 265 e fig, 267, 268, 283, 316, 320, 347, 349.
istituzionalizzazione: della religione, 4, 5, 21, 150, 253, 275-78, 304, 361, 372; di attività, 25, 109, 122,
132, 133, 153, 225, 310; di ruoli e identità religiosi, 114, 118, 122; di una norma, 132.
Iuno, vedi Giunone.
ius, 117: fetiale, 185; pontificum, 157.
iustitium, 147.
Kaifeng, 6, 214.
Kea, 58.
kleros (chierici), 358, 360, 372.
korai e kuroi, 47.
Macchiagrande, 74.
Macchia Santa Lucia, 60.
Machaon, schiavo, 302.
magia, 20, 113, 295 fig.
Magna Grecia, 28, 101, 165.
Magnenzio, Flavio Magno, 363, 364.
Magnesia, 199.
Malaga, 175.
maledizione, 13, 334: tavolette di, 20, 312; vedi anche anatema.
Malta, 27, 29.
Manilio, 206, 213, 296.
Marcia (vestale), 114.
Marcione di Sinope, 331, 332, 342, 343, 345, 348, 349, 351.
Marco (evangelista), 335, 343, 366.
Marco Antonio, 150, 151, 173, 182, 185, 186, 263, 269, 277, 278, 323.
Marco Aurelio, 292, 304, 317, 349.
Maria di Nazareth, 335.
Maria Maddalena, 247.
Mario, Gaio, 127, 269.
Mario (Gratidiano), Marco, 269.
martiri, 258, 326, 330, 331, 333, 355, 363, 365, 366.
Marzabotto, 39, 66.
maschere di cera, 171, 215, 246.
Massenzio, Marco Aurelio Valerio, 358-60.
Massimino Daia, 358.
Masurio Sabino, 125.
Mater Magna deum Idaea, 123, 196, 258, 294, 305 fig, 355, 371.
Mater Matuta, 60 fig, 75.
Materno, Firmico, 297.
Mattatia, 349.
Matteo (evangelista), 335, 343, 366.
memoria: collettiva e condivisa, 14, 41, 146, 170, 171, 346; istituzionale, 10; mezzi e luoghi della, 26,
34, 85, 194, 198, 200-202, 205, 214, 255-57, 300, 308, 343; nei riti/rituali, 235, 236, 240, 278, 346;
sociale, 239-42.
Menfi, 6.
Menouthis, 263.
Mercurio, 217, 228, 251.
Mesopotamia, 5, 29, 338, 374.
metanoia, 303.
Metaponto, 71, 135.
Metello Pio, Quinto Cecilio, 130, 262.
metropoli, 6, 135, 200, 214, 230, 232, 252, 253, 343.
mezzi di comunicazione, 5, 21, 89, 90, 203, 204, 315, 316: di massa, 200, 201; durevoli, 107; letterari,
216, 217; nuovi, 95, 287; religiosi, 11, 20, 21, 34, 35, 62, 63, 74, 75, 86, 143, 194, 256-58, 288, 292,
367, 368; secondari, 19; vedi anche comunicazione.
midrashim, 334.
miles, 308.
Minerva (o Menerva), 44, 45, 73, 75, 88, 90, 123, 219, 220, 228, 290.
miniaturizzazione, 18, 26, 33, 34, 43, 44, 69, 87, 89.
Miseno, trattato di, 185.
misteri, 264, 280, 308, 309, 310.
mistica, 3.
miti, 4, 5, 73, 75: appropriazione dei, 186-189, 204-6, 216, 222, 223, 242, 243; cosmici, 206; critica dei,
163-69; di fondazione, 164; epici, 366, 367; greci, 104, 105; interpretazione dei, 321; messa in scena
dei, 186, 319, 320; pan-mediterranei, 133.
mitologia, 75, 105, 164, 169, 182, 320.
Mitra, 16, 256, 264, 282, 306 e fig, 307, 308, 309 fig, 316, 347, 348, 350, 372.
mitreo, 308, 309 fig.
modernizzazione, 21.
mola salsa, 114, 192.
monoteismo, 5, 338, 356, 362.
Montano, 304, 319.
monumentalizzazione, 29, 33, 46, 49, 55, 58, 63, 71, 76, 78, 86, 187, 188, 195, 235, 246, 286; vedi
anche architettura; spazio.
mos maiorum, 181, 209; vedi anche tradizione.
Mosè, 204, 321, 326, 334.
musica, 17, 81: strumentale, 17, 230, 234.
Musonio Rufo, Gaio, 298.
rabbanim, 293.
rappresentazione: autorappresentazione, 31, 78, 83, 84, 127, 171, 198, 206, 208, 234, 240-42, 311, 353;
concetti di, 45; critica, 169; degli dèi, 31, 32, 71-74, 87, 88, 130, 131, 216, 217, 223, 228, 282, 341,
363; degli imperatori, 282, 291, 361, 362; del culto, 248-50, 308; della guerra, 144-146; della pratica
religiosa, 202, 203; della religione, 195, 336; delle idee, 368; delle qualità, 102; del rituale, 193, 194;
di animali, 59, 88, 89, 255, 307, 308; di comunicazione, 25, 26, 81, 126, 127; di parti del corpo, 84-
86; di popoli, 31-33, 45, 46, 63, 81, 83, 89, 157, 223, 224; di status sociale, 81, 83, 211, 212, 233,
236, 239, 240; di storie e miti, 31, 32, 73, 162, 163, 169, 216; letteraria, 157-60, 195, 203, 204, 213,
282, 336, 337, 341; mancanza di, 44, 47, 314, 315; mediante i calendari, 99-100, 202; mediante il
corpo, 101, 102, 212; mediante immagini, 46, 47, 71, 72, 130, 131, 146, 216, 217, 221, 248-50;
mediante l’architettura, 127, 128; mediante sculture, 31, 32, 46, 58-60, 81, 83, 170, 223, 224;
rappresentativa, 368; restrizioni della, 87-89; sulle monete, 87, 88, 222, 223, 286.
Regia (Foro romano), 79, 114, 144, 156, 300.
religione: civile, vedi civic religion; collettiva, 7, 64; della polis, vedi polis; di stato, 114, 290; vissuta,
7, 10, 11, 25, 30, 209, 210, 253; pubblica, 96, 100.
res publica e causa comune, 109-11, 114, 143, 153, 172, 173, 175, 183, 209, 246, 272.
restaurazione: augustea, 183; dei templi, 126, 184, 194-96, 202, 224, 225, 345; della giustizia, 258.
reti: di comunicazione, 21; del passaparola, 334; di santuari, 284; di strade e sentieri, 54, 65; narrative,
165; regionali, 253; religiose, 4, 5, 8, 131, 132, 258, 293, 294, 310, 311, 315, 316, 313-16, 343, 343,
349, 356, 367, 369, 370, 372; sociali, 50, 51, 118, 119, 131-33, 189, 259, 260, 320, 321, 348, 346,
347, 368; testuali, 326-28; vedi anche gruppo.
rex sacrorum, 80, 120, 123, 128.
rischio, 46, 55, 144, 145, 270, 271, 283: gestione del, 98; nella produzione, 24, 34, 35, 44; nelle azioni
religiose, 41, 58, 263, 269; nel sacrificio, 34, 35.
risonanza, 63, 98.
rituali: appropriazione dei, 346; barbarici, 357; comunicazione mediante i, 13, 16-18, 30, 35, 36, 43, 44,
48, 62, 226, 227, 234, 253-55; di evocazione, 140-42; di guerra, 138-48, 190, 191; di ringraziamento,
218, 219; esclusivi, 17, 18, 107, 368, 369; funerari, 39, 42, 43, 234, 235; immaginazione dei, 202;
imposizione dei, 48, 49; in cerchio, 138; iniziazione, 120, 121, 264, 325; innovazione nei, 171, 172;
interpretazione dei, 162, 163, 185, 186, 311, 312; matrimoniali, 116, 117; partecipazione ai, 95, 96,
217-19; pianto funebre, 146, 147, 160, 232, 233; purificazione, 115, 116, 300, 301; regole per i, 122,
123; sacrificali, 70, 71, 115, 116, 310, 311; sistema di, 10; su larga scala, 193, 194, 200; testi, 324,
325; variazione dei, 38, 39; vedi anche comunicazione; divinazione; giochi; preghiera;
ritualizzazione; sacralizzazione; sacrificio; specialisti.
ritualizzazione, 17, 30, 70, 95, 96, 130, 144, 160, 186-90, 233, 289: dello spazio di culto, 189.
rivalità, 31, 32, 48, 49, 73, 74, 77, 172, 200, 318, 319, 358, 365.
rivolte popolari, 157, 186, 304, 342.
Roma (dea), 219, 275.
Romolo, 178, 189, 278, 359; Quirino, 274, 278.
Rossano di Vaglio, 199.
ruoli: appropriazione dei, 187-89; cambi di ruolo, 96, 97, 215; divini 10, 202, 217; funzionali
(apparitores, 300; fictores, 116, 300; fossores, 373; calatores, 300; guardiani del tempio, 267;
victimarii,110 fig, 112 fig, 116); femminili, 130, 131, 295, 296, 334, 335; genere, 115, 116, 295, 296;
modello di ruolo, 353, 354.
Uni, 44.
urbanizzazione, 28, 29, 72, 214, 311.
urna, 94.
Urso, 174, 175.
1. I numeri di pagina del presente indice analitico sono riferiti all’edizione cartacea dell’opera.
Per trovare le corrispondenze in questo e-book utilizzare la funzione «cerca» del dispositivo e-reader.
Non tutti i termini potrebbero essere ricercabili.
Il libro
quindi necessario collocarla sempre in relazione con gli sviluppi politici, sociali,
economici e culturali. L’autore sottolinea ogni peculiarità della religione romana,
presentando, tra l’altro, una nuova visione di concetti centrali quali «tempio» e «altare», e
dei ruoli maschili e femminili nelle pratiche religiose.
Un saggio innovativo e completo, che si basa sulle recenti ricerche degli studi religiosi,
sempre attento a non «modernizzare» la religione antica, illustrandone tutte le forme
all’interno di un «pantheon» complessivo.
L’autore
JÖRG RÜPKE (1962) insegna Religioni comparate all’Università di Erfurt dove è anche
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