Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
sede legale
corso Vittorio Emanuele II, 68 - 10121 Torino
sede operativa
strada Santa Rosalia, 9 - 12038 Savigliano
ufficio stampa
tel. 02 34592395 fax 02 94591756
e-mail: info@ninoaragnoeditore.it
sito internet. www.ninoaragnoeditore.it
ai miei indimenticabili Maestri
Michel David e Edoardo Sanguineti,
con immutato affetto
NOTA EDITORIALE
Au. Autore
C. Campanella Tommaso
Esp. Esposizione (le note di commento di C. alle sue poesie)
Fr. Civitas Solis, in: Realis philosophiae epilogisticae..., a Th. Adami nunc pri-
mum editae, Francofurti, Tampachii, 1623
L. ms Lucchese
P. Civitas Solis, vel De Reipublicae idea, in: Philosophia realis, Parisiis, Houssaye,
1637
R. ms Riccardiano
T. ms Trentino (qui edito)
T. pagina.rigo es. T. 12.24: rigo 24 della colonna del testo del ms Trentino di Città di p.
12; invece: 12.24 (senza T.) corrisponde a rigo 24 della colonna del testo
di Civitas di p. 12.
Senso dell’opera
I tre cardini su cui poggia la visione del mondo dei Solari, la loro ‘fi-
losofia di vita comunitaria’ (“si risolsero vivere alla filosofica in comu-
ne”), sono abbastanza chiari ed espliciti:
1) la legge naturale: non fare agli altri quel che non vuoi sia fatto a te
(132.33-5)2;
2) la legge sociale: il tutto ha priorità sulla parte (86.1-2), la collettività
viene prima dell’individuo;3
3) la legge economica: a) sradicare l’amor di sé, alias l’egocentrismo,
perché con la messa in comune dei mezzi di produzione e riprodu-
zione spariranno tutti i guai e guasti sociali (sia civili che penali:
20.24-36); b) non servire le cose, ma servirsene (56.30-1): la dialetti-
ca essere/avere è sì una costante del cristianesimo evangelico, ma è
anche una straordinaria anticipazione della teoria marxiana dell’a-
lienazione.
Inoltre, in quanto visione del mondo, CS è una sorta di enciclopedia
della scienza campanelliana in compendio e in vulgata; donde la scelta
della forma del dialogo, non filosofico (il Genovese ammette aperta-
mente: “Io non so disputare”), ma descrittivo (di teorie e pratiche di vi-
ta alternative), evenemenzialmente nullo, ma strategicamente molto ef-
ficace, sia per catturare il lettore (facendo recitare a un uomo di mare,
non di biblioteche, la summa della sua filosofia), sia per schivare il cen-
sore, come ripetutamente esorterà Galilei “che trattasse questo suo si-
stema in dialogo... per assicurarci da tutti ecc.” - anche se quello strata-
gemma non giovò molto allo scienziato.4
Meno perspicua risulta invece la motivazione che ha indotto C. a va-
gheggiare questa repubblica filosofica: per un’innata aspirazione uma-
na a fingere paradisi in terra? Per rifugiarsi almeno idealmente in un
2
I rinvii testuali si riferiscono rispettivamente a pagina e, separato dal punto, rigo (o righi)
della presente edizione: 132.33-5 significa dunque pag. 132, righi 33-5 di Civitas; invece i rin-
vii a Città sono preceduti da T. (=abbrev. di ms Trentino) e quindi pagina.rigo (in corsivo).
3
Trascurare questa premessa porta ad uno dei più classici travisamenti: CS sarebbe il prototi-
po dell’utopia prescrittiva, coercitiva, dominata da un potere onnipresente e onnipotente, in
contrasto con l’idea di utopia come libero gioco e anarchica cuccagna. Invece, sotto il profi-
lo ideologico, il trattatello campan., pur dettato da esigenze di giustizia sociale, è da un lato
il riflesso della persecuzione, operata in quegli anni dalla monarchia in direzione sempre più
assolutistica, contro tutti i particolarismi, e che infatti si traduce in un potere capillare dello
stato che tutto regola e dirige; e dall’altro è una prosecuzione dell’‘integralismo’ cattolico
medievale, con la sua perfetta congruenza e compattezza dei tre ordini sociali, incarnati dal-
le tre Primalità: Pon, Sin, Mor.
4
C., Lettere, a c. di V. Spampanato, Laterza, Bari, 1927 (lettere del 1.5 e 5.8.1632); per la for-
ma-dialogo cfr il bel saggio di Ordine.
XIV LA CITTÀ DEL SOLE
Proviamo allora ad elencare i possibili motivi che sono alla base del-
la stesura di CS:
5
Le quattro Quaestiones politicae apparvero nell’edizione parigina della Philosophia Realis
(1637; p. 100-12); il testo e la traduzione della IV, dedicata a problematiche ‘Solari’, adesso la
si può leggere in appendice all’edizione di CS, a c. di G. Ernst (BUR, Milano, 1996, p. 97).
6
Più recentemente A. Brucioli diceva che bisogna sforzarsi di trovare “come doverrieno es-
sere fatte et instituite quelle città, che veramente si potessino chiamare Republiche, secondo
quelle, dico, che sono state o che possano essere, e non secondo quelle impossibili che d’al-
cuno sono state imaginate, più presto secondo le favole de’ Poeti” (Dialogi, Venezia, per B. de
Zanetti, 1538 [rist.: Napoli, 1983], VI, c. 26v).
INTRODUZIONE XV
7
Per una definizione di ‘utopia’, in: Utopie per gli anni Ottanta, a c. di G. Saccaro Del Buffa e A. O.
Lewis, Gangemi, Roma, 1986, p. 809.
8
“Scripsi praeterea Aphorismos politicos… et politicam scientiam condidi… adiecique ideam
reipublicae quem voco Civitatem Solis, longe praestantiorem quam sit Platonica aut alia quae-
vis” (De libris propriis et recta ratione studendi Syntagma, a c. di G. Naudé, Paris, 1642, I III [re-
centemente riedito e tradotto, in: Tommaso Campanella, testi a c. di G. Ernst, introd. di N. Ba-
daloni, Ist. Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma, 1999, p. 361]).
9
Nella prima glossa dell’edizione parigina di CS C. annota che questo dialogo “contiene la
XVI LA CITTÀ DEL SOLE
La morale della favola bella narrata dal Genovese, come ogni morale
che si rispetti, è enunciata nel finale. O meglio: avrebbe dovuto esserlo.
Il finale infatti è tronco, interrotto com’è da una reiterata dichiarazione
d’impossibilità: Genovese: “Ma di quanto è per seguire presto nel mon-
do te ‘l dirò un’altra fiata […]”; Ospitaliero: “Di grazia non ti partire; se-
gui quello che mi prometti, adesso che è tempo, ché mi sarà di soma
grazia.”; Genovese: “Non posso, non posso”. Che cosa davvero ‘non
può’ dire il Genovese? Lasciamo da parte, infatti, l’escamotage dell’im-
prorogabile partenza; l’impossibilità vera del Genovese è dovuta all’i-
neffabilità del presagio; profezie come quelle non si possono enunciare
brevemente e, di più, impunemente. Infatti quel che il Genovese pro-
mette che dirà “un’altra fiata” sarà l’oggetto di un’opera di poco poste-
riore: gli Articuli prophetales, una cui prima anticipazione era già conte-
nuta in un trattatello (perduto), il Prognosticum astrologicum de his quae
mundo imminent usque ad finem stilato nel 1603, nonché “ampio sviluppo
della Secunda delineatio defensionum, nella quale C. per giustificare la pro-
pria azione in Calabria, alludeva agli autori, teologi, profeti sacri e pro-
fani, astrologi che avevano profetizzato una profonda riforma della
Chiesa” (Ernst, p. 386n del Syntagma). Le memorie difensive, non più
presentate da C. che nel frattempo era ricorso allo stratagemma della
pazzia per salvarsi, erano rimaste nelle mani degli amici, e “verranno
riordinate da un ignoto amanuense per mano di Vincenzo Ubaldini di
Stilo e da fra Pietro Ponzio che si occupa degli scritti d’ispirazione pro-
fetica” (Formichetti 1999, p. 115-6).
Si possono, a questo punto, fare le più disparate ipotesi: ad es. che il
nucleo dei futuri Art. proph. (identificabile nell’ultimo capitolo) avreb-
be dovuto costituire l’originario finale di CS e restituire le motivazioni
profonde dell’operato (la prassi!) di un frate dipinto nel processo come
un rivoluzionario, un traditore alleatosi con i Turchi, un eretico che vo-
leva farsi passare per novello Messia rivelatosi, dopo la cattura e la con-
danna, un vigliacco che non aveva saputo assumersi la responsabilità
del gesto velleitario costato tante vite e sofferenze ai suoi seguaci; ebbe-
ne, proprio nel cit. capitolo degli Art. proph. (il XVII), C. si presenta co-
me un profeta disarmato, come un redivivo Noè, che, nell’imminenza
della catastrofe presagita, traghetta i superstiti al riparo su una monta-
gna (il monte Consolino di Stilo?), non diversamente da come avevano
fatto i Veneziani, per salvarsi dalle invasioni barbariche, senza per que-
sto esser tacciati di ribellione all’Impero: “nulla osta a che io confessi di
aver voluto predicare questa desiderata repubblica, se fatalmente fosse
sopraggiunta la rovina per il regno e la provincia, raccogliendo i super-
stiti sui monti; non enim haeresim aut rebellionem confessus sum, sed
voluisse uti malo eventu in bonum” (Art. proph., p. 297):11 nel finale di
CS, come nel finale di Art. proph., il profeta voleva mostrare di essere sta-
to non un eretico eversore ma un eroico salvatore della patria.12
11
Articuli prophetales [1603-6], ed. crit. a c. di G. Ernst, La Nuova Italia, Firenze, 1976, p. 297.
12
È C. stesso ad ammettere le sue eterodossie, oltre che nei verbali dei processi, in svariati al-
tri luoghi, raccolti da Amerio (R. A., Un’altra confessione dell’incredulità giovanile del C., ‘Rivista
XVIII LA CITTÀ DEL SOLE
niam omnes sumus mali ex amore proprio nimioque, viros bonos ita vivere, ut alii ex pudore
et honore et amore boni communis exacto, quem in eis inspiciunt, sic vivant, ut aliis sint
commodi, totumque corpus Reipublicae ita coalescat, ut omnia membra sint proficua conso-
nentque omnibus membris” (Quaestiones Oeconomicae III, I; in: Philosophia Realis, Parisiis, 1637,
p. 181).
15
L’altro caposaldo dell’eticità di questo stato poggia sulla sua ‘aurea medietas’: “abbiamo
sfuggito gli estremi, e ridotto tutto al giusto mezzo, dove sta la virtù, e perciò non è possibile
immaginare una repubblica più felice o più semplice” (Quaest. Pol. IV I, p. 102).
16
Genovese: “Non posso, non posso”: perché assolutamente non può? Perché urge la par-
tenza? O c’è qualche motivazione più grave e sostanziale legata al contenuto delle profezie?
L’insistenza dell’Ospitaliero e l’‘impotenza’ del Genovese non lasciano forse intendere che il
non detto è insieme più importante e più indicibile di quanto fin lì era stato detto?
XX LA CITTÀ DEL SOLE
17
Illuminante il caso di un’altra sua opera, l’Atheismus triumphatus, che, pur avendo subìto
svariate censure (in partic. dovette espungere un passo “de Ecclesiae instauratione”), dopo
sei mesi (1631) viene ritirata dalla circolazione; nell’edizione successiva (apud Tussanum Du-
bray, Parisiis, 1636), tuttavia, non poté fare a meno di precisare: “Scripseram in hoc Astrolo-
gicum prognosticum pro Eccle. non discordans a vatilinio [sic] S. Vincen., Brigid., Cath.
Carthusiani: sed prudentia summi pontificis iussit deleri quamvis cum protestatione ne de-
mus ansam Astrologiae... et hoc ipse dixit S. Brigidae: ‘Quod si homo siderum motum consi-
deraret, de providentia Dei nil dubitaret’” (p. 209); la stessa autocensura su pronostici e pro-
fezie sul futuro del cristianesimo, che i Solari hanno riferito al Genovese (136.4sg), la ritro-
viamo a 154.9-11: “prognostica nec recitare volo quoniam sapientissimus Papa noster iustis
de causis vetuit”.
18
Ad Casparum Schoppium (giugno 1607; in: Lettere, p. 100-1).
INTRODUZIONE XXI
Vi sono dunque alcuni indizi che potrebbero far ipotizzare che al-
l’atto della prima stesura di CS l’Autore è tentato a narrare quanto sa-
rebbe accaduto “presto nel mondo” per sommi capi, forte della scusan-
te della fretta di partire dell’Ospitaliero. Per ragioni di opportunità ab-
bastanza ovvie (profetare, e per giunta predire sciagure alla Chiesa, era
molto rischioso nelle sue condizioni), decide di limitarsi a vaghe allu-
sioni e, tagliato il finale, rimandare ad “altra fiata’ – ed altre sedi meno
compromettenti. Il tempo di profetare non è ancora giunto: anche
un’altra opera scritta in questi anni cruciali (fine 1604), Il senso delle cose
e la magia, riserva l’ultimo capitolo all’astrologia, accennando breve-
mente alle questioni principali, ma, come in CS, omettendo qualsiasi
pronostico rinviato esplicitamente a un’altra opera in fieri: “di tutte
quest’arti farò un libro se Dio vorrà”: l’Astrologia, certo, ma pure Art.
proph. Ancora: nel sonetto 57, troncato anch’esso su una promessa di va-
ticinio, troviamo la possibile motivazione: dopo che si sarà verificata la
grande congiunzione astrale del 1603, “Ecco ceder le sètte empie e ne-
fande / al Primo Senno; e, s’io fuor di periglio sarò, predicherò cose
ammirande”. Ciò spiegherebbe, oltre a finali troncati e rabberciati alla
meglio, il fatto che anche nelle successive redazioni di Città (ed edizio-
ni di Civitas), il finale sia rimasto immutato: Art. proph. era diventato ad-
dirittura imbarazzante per il suo smaccato filo-ispanismo (con un Filip-
po III imperatore mondiale e C. il suo profeta); e il fatto che nel finale
della Civitas parigina abbia svelato un altro ‘segreto d’importanza’ (le
navi mosse non dal vento o dai remi, anch’esso spesso sbandierato nei
memoriali a fini ‘contrattuali’), ma di natura tecnico-nautica, compro-
verebbe che comunque l’explicit era originariamente la sede dello svela-
mento di un segreto; ma il vero segreto ancora una volta andava rinvia-
to ad altra sede, perché era stato recentemente e severamente rinnova-
to il divieto papale di effettuar pronostici specie riguardanti il papa e la
Chiesa, divieto su cui appunto si sofferma lungamente nella parte ag-
giunta dell’edizione parigina (142.25sg).
19
Ad es. nella Monarchia di Spagna: “Questo poi sarebbe facile facendo predicare la fine del
mondo vicina, e che sarà unum ovile sotto il Papa, e che egli è posto come Ciro a congregar-
lo... e altre cose che meglio a bocca che per scrittura dir voglio” (in: Monarchie d’Espagne et
Monarchie de France, éd. et ann. par G. Ernst, trad. par N. Fabry et S. Waldbaum, Presses Uni-
versitaires de France, Paris, 1997, p. 52).
XXII LA CITTÀ DEL SOLE
20
Theologicorum libri XXX, a c. di R. Amerio, Edizione nazionale dei classici del pensiero ita-
liano, II serie, Roma, 1949-, XXV, pp. 205 e 217.
21
Nell’aprile del 1607, infatti, C. scriveva alla Curia che, in base alle profezie, in partic. di
Gioacchino da Fiore, che prediceva la venuta dell’“Antichristus magnus” trent’anni dopo Lu-
tero, “iam praesens est, vel anno 1630 revelabitur, videlicet triginta annis post hoc centena-
rium: et hoc tempore luna convertetur in sanguinem et sol in tenebras... tunc apparebit An-
tichristus” (Lettere, p. 62).
22
Discorsi universali del Governo Ecclesiastico per far una gregge e un pastore [1631], in: Opere di G.
Bruno e T. C., a c. di A. Guzzo e R. Amerio, Ricciardi, Milano-Napoli, 1956, p. 1117.
INTRODUZIONE XXIII
23
V. Frajese, ‘Introduzione’ a: T.C., La Monarchia del Messia, Ed. di Storia e Letteratura, Ro-
ma, 1995, p. 24.
NOTA AL TESTO ITALIANO
1
In un primo momento fu scambiato per una traduzione di Civitas: al codice è stato “infine
aggiunto un elenco degli Hospedali di Venezia, ed una versione in italiano della De civitate So-
lis di T. Campanella” (Sorbelli, p. 36 - il primo a renderne pubblica l’esistenza).
2
Sono stati analizzati anche altri 9 mss, tre dei quali Bobbio e Firpo non avevano potuto stu-
diare, sia per difficoltà a reperirli (Londinese e Yelverton), sia perché all’epoca ignorati
(Kansas). È risultata confermata la loro posizione bassa nello stemma, come già avevano ipo-
tizzato gli studiosi torinesi, e dunque la loro irrilevanza in questa sede (cfr. Tornitore, p. 183;
Ernst 1997a ha collazionato altri due mss, segnalati da Kristeller a Costanza e ad Amsterdam,
appartenenti anch’essi però alla posteriore e deteriore famiglia β).
XXVI LA CITTÀ DEL SOLE
α T[1602]
α1
R[1603] α2 α3 L[1611]
β Civitas [1614]
(restanti mss)
3
Ernst 1997a, p. 82 ne fornisce invece la descrizione più aggiornata (e accurata): “Il ms è per-
venuto alla Biblioteca [Comunale di Trento] in seguito al lascito del barone Antonio Mazzet-
ti (1781-1841)... In seguito al restauro cui è stato sottoposto nel 1980, è legato in piena per-
Fig. 1 - La carta 13r del ms Trentino (qui a T.60.9-62.37)
Fig. 2 - Ultima carta del ms Trentino
NOTA AL TESTO ITALIANO XXIX
gamena con cartoni. Cartaceo, si compone di due unità codicologiche distinte, riunite in
tempi successivi alla loro scrittura. La prima (cc. 1-142) contiene una cronaca di Venezia dal
1297 al 1582; la seconda il testo della Città del Sole. Il secondo fascicoletto è costituito da 30
cc., con numerazione coeva nell’angolo superiore destro; mm. 196 x 129, rigatura a matita di
piombo; unica mano della fine del XVI-inizi del XVII secolo” (per quanto sto per dire, dis-
sento dall’ultima frase: le due battute finali del dialogo mi sembrano aggiunta di altra mano;
v. fig. 2).
XXX LA CITTÀ DEL SOLE
per esteso i simboli astrologici (il ‘sole’ astro però ha l’iniziale minu-
scola, per distinguerlo da ‘Sole’ sommo sacerdote)
– Non si è uniformata la diversa grafia delle stesse parole, né si è inter-
venuti sulle doppie e neppure sull’apostrofatura.
4
Soltanto in questo e nel successivo paragrafo i mss TRL sono privi di punto abbreviativo; le
osservazioni curatoriali sono comprese fra << >>; le varianti di mss dentro la stessa stringa te-
stuale sono comprese fra { }, le lacune fra [].
NOTA AL TESTO ITALIANO XXXI
la vendemmia, ma nel formare il cascio e {L: nel} mungere [] si soleno pur {L:
[]} le donne
34.21: erbe. L’arti – RL: erbe ed essercizi minimi {L: facili} Ma universalmente l’arti
34.26: fuor – RL: altro
34.28: E ch’è – RL: Pur chi è
34.29: La musica però è delle – RL: musica [] è solo {L: solo è} delle
34.32: Fanno le – RL: Fanno anche le
34.36: di venti uno anno. – RL: di vinti anni.
34.38: Stanno – RL: Hanno
36.25: fratelli – RL: frati
36.28: ciascuno il suo piatto – L: ciascuno, secondo il suo esercizio, piatto;
36.29: piatto; e li – R: piatto di porzione e menestra; e li – L: piatto di pitanza e mi-
nestra, frutti, cascio; e li
36.34: l’officiali hanno la miglior parte, e mandano spesso in tavola del loro a
chi – R: offiziali si dan meglior parti, e {L aggiunge: questi} mandano spesso del
loro in tavola a chi
36.41: cantar in musica – R: cantar [] musica
38.2: cocina, e nelle stanze, nelle strade, nelli vasi e nelle vestimenta stimano
assai la polizia. – RL: cucina, e alli refettori e stimano assai la nettezza nelle strade,
nelle stanze, nelli vasi e nelle vestimenta. {L aggiunge: e nella persona.}
38.7: lino, sopra un vestito con giuppone e calze intiere, – RL: lino, poi un ve-
stito ch’è giubbone e calza insieme, <<in T una (stessa?) mano ha cancellato il
“poi”, sostituendolo con sopra, e ha trasformato “insieme” in intiere>>
38.12: fin – R: sin – L: insino
38.13: pedale grande come bolzacchino – R: pedal [] bolzacchino <<soprascr.:
stivaletta>>
38.15: ben – R: bell’
38.19: volte: – RL: volte varie:
38.23: decenza – RL: procerità
38.29: tutti – R: tutto
38.31: bugata – RL: bucato
38.35: vivandarî – RL: refettori
38.44: sorgente, molta nelle – R: sorgente, e molta nelle – L: sorgente molta, e
nelle
40.29: quelli molestati da Venere. Ma – RL: quelli più molestati da Venere. Li
provedono, ma
40.39: testa. – L: testa, e la seconda volta crescen la pena finché diventa capitale. {RL:}
Ma chi si astiene {L: ritiene} fino alli 21 anno d’ogni coito è celebrato con alcuni ono-
ri e canzoni.
42.2: lotta – RL: lotta, come i Greci antichi,
42.4: ch’è impotent’al – RL: chi è impotente o no al
42.5: con quali si – L: con [] si
42.17: se non han – L: non quando han
42.20: pitture – L: statue
42.28: stanza – RL: cella
NOTA AL TESTO ITALIANO XXXIII
42.34: mirati da Marte di buono aspetto e da Saturno così – RL: mirati da Giove
di buono aspetto e da Saturno e Marte così
44.9: sorte. – L: sorte, dependente dall’armonia del tutto con le parti.
44.12: solo nella fondazione della – R: solo nella complessione, nella
44.15: Saturno. <<T: “Ma... Saturno” a marg.>> RL: Saturno, se non con buone di-
sposizioni.
46.9: arte, e che – L: arte, e che difficilmente senza disposizione naturale può la virtù
morale allignare, e che
46.15: principale – R: possibile
46.21: mutano – L: mettono
46.27: perch’essa non procuri – R: perché nessuna si procuri
46.44: lottare o vero alle – RL: lottare e alle
48.5: e dopo di questo si – RL: e poi si
48.14: costumi. – L: costumi e questa è concordia stabile nella republica.
48.16: l’altro. – R: l’altro, e questa concordia stabilisce la republica.
48.21: si chiama – L: chiamano
48.25: eccellenti – RL: valenti
48.25: nell’arte loro o fanno – R: nell’arte [] e fanno
48.37: Tortelio ecc. E questi nomi s’aggiungono – RL: Tortelio o simili altri. E
questi cognomi s’aggiungono
50.5: dolore che non sia fatto generatore? – RL: dolore a chi non è {L: sia} fatto
generatore << T: “generate”; così anche a r. 6 per “generatione”>> o quel che
ambisce?
50.7: Signor no, – R: [] Non,
50.13: Né ci bisogna inganno – R: <<a marg.:>> Platon disse che si doveano gabba-
re li pretendenti a belle donne immeritamente, con far uscir la sorte destramente secon-
do il merito; il che qui non s’osserva Né ce bisogna inganno – L:
Platone...<<=R>>, il che qui non bisogna far con inganno
52.7: grandezza – L: e vivezza e
52.8: bellezza – RL: beltà
52.9: in bellettar – RL: imbellettarsi
52.13: tampoco comodità di – RL: comodità manco di
52.14: chi le daria loro? R: li daria []? L: ci li daria []?
52.19: colori, di pianelli – L: colori e alte pianelle
52.20: belle. – RL: belle per tenerezza e così guastano la propria complessione e della
prole.
54.13: eroi la – RL: eroi ed eroisse la
54.27: che si commette. – R: che la commise. – L: che l’ha commesso.
54.39: Genova – RL: Napoli
54.39: sono settantamila anime e non faticano se non le diece o quindici mila –
L: son da trecento milia anime, e non faticano cinquanta milia
56.1: lussuria – RL: lascivia
56.25: menzognari – L: bugiardi
56.34: servire in ogni cosa, se bene ogni – RL: servire alle cose, ma ogni
56.36: le religioni – R: la religione
56.39: Bella e santa cosa mi par questa, ma – RL: È bella cosa questa e santa; ma
XXXIV LA CITTÀ DEL SOLE
154.20: savi, cioé sopra l’asside di Giove in Libra, aereo, mobile, casa di Satur-
no, e Venere, e Mercurio, padre dell’arti ed invenzioni, e sopra la congiun-
zione magna che sarà in Sagittario, casa di Giove e del Sole; e sì come per
Cancro aqueo se trova la navigazione, cossì per Acquario aereo il volare si
trovarà; e perché segueno dopo la congiunzione magna l’eclissi in Ariete e
Libra, segni equinoziali, con l’alterazione dell’asside faran –
RL: savi circa la mutazion dell’asside de’ pianeti e dell’eccentricità e solstizi ed equinozi e
obliquitati, e poli variati e confuse figure nello spazio immenso; e del simbolo c’hanno
le cose nostrali con quelle di fuori del mondo; e quanto seque di mutamento dopo la
congiunzion magna e l’eclissi, che sequeno dopo la congiunzion magna, in Ariete e
Libra, segni equinoziali, con la renovazione dell’anomalie, faran
158.9: di prescia non ti lo potresti imaginare. Un’altra – RL: di prescia [].
Un’altra
158.29: prolungò – RL: promulgò
160.11: OSP.: Di grazia non ti partire; segui quello <che> mi prometti, adesso
che è tempo, ché mi sarà di soma grazia. – RL: OSP.: Aspetta, aspetta.
1
Successivamente il testo è stato controllato anche sulla pregevole ed. Crahay, in cui, pur
condividendone alcune linee di fondo (come la scelta di P. come base dell’edizione), tuttavia
non mancano alcune mende, sulle quali non ci sembra il caso di soffermarci dettagliatamen-
te (anche perché, a causa della sopraggiunta morte di Crahay, la pubblicazione è stata curata
da altri); comunque, in generale l’edizione belga si caratterizza perché:
a) utilizza un doppio testo a fronte: Civitas (nell’ed. P.) con sotto Città (nella red. di Firpo)
nella pagina pari, e la traduzione francese nella pagina dispari;
b) a Città e Civitas segue un ‘Annexe’ contenente Quaest. Pol. IV curato da P. Jodogne (p. 261-
82).
In particolare, poi:
– la variantistica a pie’ pagina è esemplata principalmente su Fr., ma anche sull’ed. (postu-
ma) del 1643 e su quella di B., della quale dice: “cette édition est soignée; celle qu’on trou-
vera ici s’en sépare sur quelques points, presque toujours pour écarter une correction qui ne
paraît pas s’imposer”, adottando dunque una linea ultraconservativa: “il faut maintenir des
aberrations dont il [=C.] est manifestement responsable” (p. 56);
– tale conservatività è desumibile fin dalla grafia: mantenimento delle ‘u’ in luogo delle ‘v’ (a
partire da “nauigatione” di 2.2) e viceversa (solo nelle capitali del titolo: “DIALOGVS POE-
TICVS”);
– numeri espressi in cifre romane, simboli di Hoh e astrologici mantenuti invariati;
– espunzione di tutte le glosse qui paragrafate, perché “ne constituent nullement une suite
des idées”; invece le “notes de référence... sont incorporées... à celles de la présente édition”
(p. 61), pur con alcune mende.
Infine alle p. 23-9, riassumendo Crahay 1973, analizza minutamente il latino di Civitas.
XLII LA CITTÀ DEL SOLE
ciant vobis homines, et vos facite illis”; l’ed. P. (qui ripristinata a 132.33-5)
teneva distinte le due massime, per le ragioni dette nella nota a questo
passo: “Quod tibi non vis, alteri ne feceris, et Quae vultis ut faciant vobis ho-
mines, et vos facite illis”;
– identica la disciplina delle maiuscole (rispettando però la volontà
di C. di “scrivere il nome di ‘DIO’ in tutte maiuscole” – Gramm. III II, in
SL, p. 689 – , qui solo relativamente al nome del Figlio), la normalizza-
zione della grafia (“&” diventa “et”, e così per il regime delle “u”/”v” e
“ij”) e la partizione delle parole (ad es. a p. 149 vi è “sub porticibus” re-
so in 18.11 con “subporticibus”, e viceversa è disgiunto “Operaepre-
tium” di p. 158 [78.1]); i pochi numeri in cifre arabe sono tradotti, sal-
vo quelli delle indicazioni bibliografiche, nell’espressione verbale corri-
spondente (es. p. 149: “qui autem viginti duos annos plures habent, vo-
cantur ab eisdem patres, qui pauciores 22, filios [sic]”); per i casi di gra-
fie dubbie, ho seguito due criteri: di conservatività, se nel testo vi è
un’unica occorrenza, purché lessicalmente attestata (es. “Cignus”), o,
di converso, se è costantemente adottata una certa grafia inconsueta
(es. “praelium”, “praeliantur”; così pure per le contrazioni: ad es.
Crahay corregge “observarint” di 46.22 in ‘observaverint’, in contrasto
con l’‘usus’ campan., testimoniato da 66.2: “usurparint”); ho seguito in-
vece un criterio di normalizzazione nel caso in cui si tratti di allografia
rispetto ad altre occorrenze intratestuali (un “faemina” di p. 152 viene
corretto in “foemina”, testualmente prevalente), salvo un’eccezione
(‘Machomettus’, v. infra n. 2);
– scioglimento delle abbreviazioni (“Resp.”, “Videl.”, ecc.); una cate-
goria a parte è costituita dai simboli astrologici. A differenza dei mss ita-
liani, in Civitas vi sono solo tre simboli nell’ultima pagina, tipografica-
mente molto densa per economia di spazio: Marte, Saturno e Venere
(quest’ultimo stampato a rovescio); un caso particolare e curioso è co-
stituito dal Sole, che è insieme stella e nome del principe-sacerdote: nei
mss le due entità sono indifferentemente indicati col nome o col sim-
bolo (un cerchietto con un puntino al centro), tanto che alcuni codici
lo riportano anche nel titolo. Per sciogliere questi equivoci (grafici o at-
tributivi) Fr. poneva, alla prima occorrenza del nome del Sacerdote,
‘Sol’ (10.18: “sacerdos, quem vocant suo idiomate Sol, nostro autem di-
ceremus Metaphysicum”), e in seguito il segno astrologico; ma, come ri-
levava B.: “l’espressione suo idiomate, riferita alla trasparente parola la-
tina Sol, e la mancata corrispondenza con la traduzione in ‘Metafisico’
indussero il C. a coniare per la seconda ed. quella parola fantastica
Hoh”. In P., dopo il primo (e unico) “HOH”, il capo della Città verrà
identificato sedici volte con un cerchietto simile ad una ‘O’ maiuscola’,
sette volte con un cerchietto più piccolo con al centro un puntino (tut-
NOTA AL TESTO LATINO XLIII
ti questi casi sono stati ‘traslitterati’ da B., e così in questa edizione, sul-
la prima occorrenza), e quattro volte con ‘Metaphysicus’; cioè, strana-
mente, il sommo sacerdote è quasi sempre indicato con il simbolo astro-
logico, mentre l’astro solare con le declinazioni di ‘Sol’ (v. n. 10.19).
2
In C. la grafia a stampa, del nome e dell’aggettivo derivato, è soggetta a tre tipi di oscilla-
zione e loro combinatoria: con/senza ‘c’; con/senza ‘h’; ‘t’ semplice/geminata; infatti, a
94.10: Machomettus; a 140.12: mahometanos (e in altre opere ulteriori combinazioni). Impossi-
bile una normalizzazione della grafia, per cui non resta che limitarsi a registrarne le oscilla-
zioni; B., pur normalizzando in ‘Machomettus’ i primi due casi, poi riporta “machometanos”
(160,31). Per ragioni analoghe si mantengono le due grafie di ‘Annibale’: “Annibalem” in
18.9 (così, ad es., anche Mon. Messiae, p. 8) e il più corrente “Hannibalis” in 64.27.
3
L’usque di Fr. sembrerebbe rispecchiare la lezione di Città: “le donn’han la sopraveste fin
sotto il ginocchio, e l’uomo sopra” (T.26.14); ma in Civitas ‘usque’ è sempre seguito da ‘ad’ e
accusativo. Pertanto, diversamente dalle edizioni moderne (B. e Crahay), la sua espunzione
può esser considerata volontaria (e del resto il contesto suggerisce chiaramente che si sta
parlando della lunghezza delle vesti).
4
Unica attestazione; tali sono pure: 70.24 “Cignum” (B.140,19 “Cygnum”) [Forcellini, Ono-
mast.]; 90.4 “maratrum” (B.146,21-2 “marathrum”) [Du Cange; Thesaurus]; 118.21 “tropheo”
(B.155,11 “tropaeo”) [Forcellini; Du Cange].
5
Su 20 casi di coniugazioni di ‘nosco’, 14 sono contratte; nella presente edizione, inoltre, è
stato normalizzato “authoris”, che, insieme all’“authorem” di 148.30, è diventato “aucto-”
perché a 132.29 vi è “auctorem” (v. ‘Tavola delle emendazioni’, dove i casi di normalizzazio-
ne vengono segnalati solo alla loro prima ricorrenza).
6
Senza ‘n’ anche in 68.27.
NOTA AL TESTO LATINO XLV
7
‘Grabatum -i’: è probabile che sia una reminiscenza evangelica (“Tolle grabatum tuum et
ambula” Mr. 2,4-12), anche se non è dalla Bibbia che si può desumere il genere (infatti le No-
vae Concordantiae riportano sia ‘Grabatus’ che ‘Grabatum’); dai lessicografi si apprende che
nel latino classico era maschile, e nel latino cristiano è passato al neutro (Isidoro, XX XI:
“Grabatum Graecum est”; tuttavia un suo commentatore lo considera un lapsus o un errore:
“Grabatum neutro genere apud antiquiores vix reperietur; Graece est ‘kràbatos’... Ciceroni,
Martiali et aliis, masc. gen. grabatus pro lecto humili, in quo mendici cubabant et meretrices
diobolares. Fortasse apud Isidorum legendum grabatus” [PL LXXXII, 1049]); e lo stesso Du
Cange lo registra solo come neutro (attribuendo al latino classico la forma maschile), citan-
do appunto il summenzionato passo evangelico. In Theol. XIV, p. 33 ricorda che “il vescovo
Spiridione riprende il confratello suo Trifillo, che predicando non aveva voluto usare come
troppo duro il vocabolo evangelico ‘grabato’ [=grabatum] e l’avesse sostituito con ‘lettuccio’
[=lectulum]”.
8
Anche se i lessici non riportano la forma ‘cae-‘, non s’impone la correzione (accolta anche
da Crahay), perché unica attestazione in Civitas, dove questa dittongazione è spesso sui ge-
neris (es.: ‘caeterus’; ‘caelestis’ e ‘coelum’).
9
È il sottostante “glossa” (56.40) che va postillato, perché la nota bibliografica campan. rin-
via alla “glossa” e non all’epistola di S. Clemente. Un caso analogo poco oltre: al periodo che
comincia con “At qui” (62.7), B. appone questa nota: “In margine: ‘Vigor evangelii non po-
test totus naturaliter nosci’. Nell’ediz. del ’23 manca. Qui è fuori posto: forse andrebbe rife-
rita al passo che precede: ‘Nihilominus mittunt ad explorandum mores nationum et melio-
res semper amplectuntur’, a cui nel testo italiano segue una frase di contenuto analogo”. In
realtà è per mancanza di spazio, a causa di due corpose glosse adiacenti, che il proto seicen-
tesco non ha potuto porre questo commento al margine che gli spettava, e cioè proprio do-
ve B. ha giustamente indicato. Analogamente dicasi a 144.13, ma stavolta dovuto a un’erro-
nea punteggiatura in B.
10
Aggettivo e sostantivo (64.40) sempre dittongati ‘oe’.
11
Dittongo ‘ae’ in tutti i casi sostantivati e verbali.
XLVI LA CITTÀ DEL SOLE
12
Così anche tre righi sotto.
13
Il “deiiciunt” della Fr., adottato anche da Crahay, p. 142, forse è formalmente più corretto,
correlandolo a T.70.35 (“tirano e gettano”; per cui avrebbe potuto essere ‘deiiciunt proster-
nuntque’) e ad una possibile influenza del “deiiciuntque” di 70.24; tuttavia l’ortografia, pur
con tutti i limiti della punteggiatura editoriale seicentesca, sembra voler circoscrivere para-
dittologicamente i due predicati correlati; donde l’opzione per una soluzione conservativa,
sospettando una volontà autoriale sia in questo caso che in quello analogo di 96.19, dove un
“aliaque” di Fr. (anch’esso accolto da Crahay, p. 170) è diventato “alia” in P.
14
T., R., L. riportano “Caucacina”, mentre in scritti latini usa: “Cocinchinensium” (SL, p. 528,
pur con varie oscillazioni dei mss: cfr Firpo 1954, p. 1308); dunque questa forma potrebbe es-
ser un mero calco dell’italiano, sebbene in SL (p. 962) ci sia un “Cochincina”.
15
V. 54.30: “excrementa excernunt” senza ‘s’.
16
Lacuna o cassatura? Lacuna: è un omoteleuto (come ad es. a 68.11 – v. ‘Tavola delle emen-
dazioni’); cassatura: Fr.: “eiusmodi criminibus; deinde sua publice...”: essendoci una correzio-
ne nell’intorno adiacente, qui si accoglie la lezione seriore, anche per ragioni contenutisti-
che (v. n.104.24-37).
17
Anche Crahay, p. 198 lo mantiene invariato. A 142.29 “supernaturales” (nessun caso invece
di ‘supranaturalis’) si riferisce ad eventi trascendentali, mentre in questo caso allude, come
dice T., a “cose sopracelesti”, cioè a entità che si trovano al di là del cielo (a quale cielo, poi,
C. stia pensando, non saprei indicarlo con sicurezza: può essere quello oltre Saturno, e dun-
que l’anello zodiacale, in base a un’erronea teoria astrologica che identifica apogei ed esal-
tazioni dei pianeti; oppure si tratta del cielo delle stelle fisse, perché poco sotto [124.27] i So-
lari s’interrogano sull’esistenza di altri mondi: e la “simpatia” potrebbe esser un indizio del-
l’esistenza di tali universi paralleli). L’Au. ripristina in P. la ‘lectio difficilior’; infatti ‘supernas
-atis’ significa: proveniente dal ‘mare superum’, cioè l’Adriatico (con es. di Vitruvio), ed
estensivamente “qui est supra”, con es. di Plinio (Forcellini); il ricorso a un ‘supernas’ gli per-
metteva così d’instaurare un duplice sistema oppositivo: da un lato si contrappone a ‘inferio-
ra’, al basso, cioè alla Terra, e dall’altro a ‘supernaturalia’, che alluderebbe a un’oltremon-
danità non più fisica.
18
“Planctarum” è grafia corrotta per “plantarum” (136.1: “plantas”): naturalmente le piante,
e non i pianeti, possono esser dissezionati, come del resto conforta la redazione italiana.
NOTA AL TESTO LATINO XLVII
161,19 cum seminant... cum putant 142.24 cum seminat... cum putat19
161,n. Thomas p. 1, et 3 con. 144.28 Thomas P[rima] P[ars] et 3
[Gen.] 5 Con[tra Gentiles] 85.20
162,33 fundatur 148.3 fundantur
165,37 statuerit 158.16 statuerat21
19
In effetti P. recita: “cum seminat in Septembri, cum putant in Martio” (Crahay, p. 220 stra-
namente e arbitrariamente li rovescia: “seminant... putat”); B. ha omologato i predicati su un
possibile soggetto collettivo ([gli uomini] seminano a settembre, potano a marzo); invece in
questa ediz. si è ritenuto di unificarli al singolare, perché il soggetto implicito è la “causa li-
bera” di 142.17.
20
Il primo numero è un errore della einaudiana, il secondo di P.: “p.p.” (e non ‘p. 1’) sta per
‘Prima Parte’ della Summa Theologica. Il secondo è congetturale perché: 1) poco sopra
(140.15) l’abbreviazione del Contra Gentiles è: “3. con. Gen. cap. 70”; ma una postilla a margi-
ne deve essere molto più sintetica, ed inoltre le postille di rinvii bibliografici interni all’ope-
ra tomistica (Piana, vol. XIV) stenografano la Summa contra Gentiles per mezzo di con; 2) il
cap. 5 di 3SCG tratta ‘Rationes quibus videtur probari quod malum non sit praeter intentio-
nem’, dove si dimostra la volontarietà, e non la preterintenzionalità, del male: nulla a che ve-
dere con l’indipendenza del libero arbitrio dagli influssi astrali trattata qui da C.; dunque o
non è quella l’opera cui rinvia la glossa (ma non ho trovato altre opere abbreviate in con); o
non è quello il capitolo: poiché il cap. 85 del 3° libro di Contra Gentiles tratta proprio que-
st’argomento, mi è sembrato che la spiegazione più economica sia quella di una lacuna edi-
toriale dell’‘8’: una conferma indiretta la si può ricavare da un rinvio proprio a questo capi-
tolo tomistico da parte di Firpo, p. 463 (riferito all’equivalente di T.158.12sg, dov’è ribadito
appunto lo stesso concetto di 142.33-6).
21
È da reputare un’emendazione autoriale sulla Fr., perché: a) non è un’opinione, ma una
ferma decisione; b) per la ‘consecutio’ avrebbe dovuto esser ‘statuisset’.
XLVIII LA CITTÀ DEL SOLE
quasi quadraginta novem22 [-Fr.], (-B.); 10.37illorum [-Fr.] (-B.); 12.27 ta-
bulae perculiares [-Fr.]; 14.10 fornicum sunt exteriori [-Fr.]; 16.8 et mu-
scae <l’esplicativa modale è più logica della pur plausibile correlativa>;
16.20 declararetur; 18.1 Zamolhim; 18.15 peritiam extate; 20.13 Magorum;
22.3 quantus [-Fr.] (-B.) <22.6: “quanto”>; 24.10 dgnoscitur; 24.18 duos fi-
lios [-Fr.]; 24.39 detractationis [-Fr.] <66.25: “detrectant”>; 26.10 quidam;
26.32 quatuor [] exinde; 26.33 Namque [] alii; 28.6 dedicerit [-Fr.]; 28.8
vocamus; 28.18 perficiendi <28.19: “praeficiendus”>; 30.2 idaealibus [-Fr.](-
B.) <nel sottotitolo vi è: “Idea”>; 30.20 nati sunt <così anche Crahay; ma
la causale è retta da “reputatos”, un predicato indicante opinione>;
30.28 authoris [-B.] <132.29: “auctorem”>; 32.36 propter haec (-B.)
<T.32.39: “di più”>; 36.20 pulcra <da 8.6 quasi sempre con l’‘h’>; 38.17
22
L’indiziaria storia testuale di questa svista è così ricostruibile. Il quasi di 10.7 traduce il “da”
di T.10.5, che però era già diventato “quasi” [=q.] in mss seriori e deteriori (Napoletano2 e
sue copie – mss che comunque avevano avuto una seppur superficiale revisione autoriale);
non nel L., che, anzi, correggendo T.54.39-40 (v. 54.39 in ‘Apparato della varianti di α’), ag-
giunge un altro “da” (“son da trecento milia anime”). Da una ricognizione dei q., si scopre
anzitutto che ben undici volte su quattordici ricorrenze, esso è un’aggiunta di Civitas rispet-
to a Città (e se computiamo anche i sinonimici fere, diventano diciassette su venti: una vera e
propria sordina inflitta al testo), a volte con funzione di approssimazione per eccesso (“q. se-
pientibus” [4.32]), a volte con funzione di modalizzatore (10.8: “q. vexillum”). Una di queste
aggiunte è l’unico altro caso in cui il q. precede un numerale: “q. octo passus” (8.15) traduce
“vi sono per otto passi” (T.8.13). Il q. difettivo italiano è reso in latino con fere: ‘q. tre’ signifi-
ca ‘da 2,1 a 2,9’, e infatti “fere tribus” traduce “dui passi o tre” (T.6.2). Poiché a 10.7 l’Au. ha
usato q., qualunque preposizione italiana (“da” o “quasi”) abbia tradotto, è ovvio che intende
attribuirgli un significato non difettivo, ma semplicemente approssimativo: ‘più o meno di’
(visto che non esistono occorrenze in Città di ‘circa’ [ma in Mon. Fr., p. 490: i Francesi “son
25 millioni d’uomini in circa, e Spagna non ne fa 4 al più”], e l’unico circa latino [76.32] non
si riferisce a una quantità, ma significa ‘relativamente a’). Inoltre l’altra occorrenza di L. (“da
trecento milia”) indica senz’ombra di dubbio che il Genovese adotta un sistema di arroton-
damento decimale (nella Bibbia, ad es., vi è la ‘venticinquina’: Ez. 8, 16: “quasi viginti quin-
que viri”; nel Decameron la dozzina e la mezza dozzina: V,3,10: “da 12 fanti”; III, 10, 24: “da sei
volte”): dunque ‘quasi quarantanove’ sarebbe un’inesattezza formale, perché riferito a enti
(= ‘religiosi’) non approssimabili ad ordini di grandezza minori dell’unità. Perciò non resta
che ipotizzare che il ‘q. 49’ sia solo frutto di una mera svista. Il ms L., infatti, dopo il numera-
le “quaranta” porta la stenografia di “etc.” (una ‘&’ con una ‘c’ sottoscritta a mo’ di svolazzo:
“&c”). Presumendo che l’archetipo di L. sia lo stesso su cui successivamente fu esemplata Ci-
vitas, si può ipotizzare che l’Au. ha scambiato un analogo simbolo stenografico dell’archeti-
po per un ‘9’, vuoi per somiglianza grafica che per adiacenza al numero espresso in lettere:
in pratica il “da quaranta&” riportato da L. è stato preso per un ‘quaranta9’ e quindi è stato
tradotto in “q. quadraginta novem” (per quanto riguarda poi l’uso campan. dell’“etc.”, l’ap-
prossimazione della cifra e ulteriori prove indirette che questa sia quaranta e non quaranta-
nove, v. n.10.6-7; per un altro caso analogo, v. n.54.34-56.9). Il previdente Alberti raccoman-
dava “a chi sta copiando questo libro [= De Architectura] di trascrivere i numeri, che ora sa-
ranno menzionati, non già con simboli, ma con i loro nomi per disteso” (VII VI, p. 564), con-
sapevole, al pari di Pico, che gli amanuensi “molto spesso travedono nella trascrizione dei nu-
meri” (II, p. 101).
NOTA AL TESTO LATINO XLIX
* La difesa di questo dialogo si trova nella Quarta delle Quaestiones in Politicis dove
si mostra che esso contiene la dottrina pagana propedeutica al buon governo e alla
fede cristiana schiettamente apostolica4.
1
Cavaliere dell’Ordine di Malta o, più genericamente, colui che, in una comunità laica o re-
ligiosa, sovrintende all’accoglienza degli ospiti (v. n. compl.).
2
È il nome indiano grecizzato dell’isola di Ceylon, situata però a 10° di latit. Nord; l’accenno
alla sua equatorialità (2.10) ha fatto però pensare a Sumatra, in cui, a partire dalla metà del
XV sec., i viaggiatori europei hanno creduto di riconoscere l’edenica Taprobana di Tolomeo
(Geogr. VII, 58d; v. n. compl.).
3
Con Bobbio ritengo trattarsi di contadini muniti di attrezzi agricoli, scortati eventualmente
da drappelli armati, come si chiarisce in seguito (80.27; v. n. compl.).
4
«Proponendo l’esempio di questa città, da un lato insegno ai pagani a vivere in modo retto,
se non vogliono che Dio non si curi di loro; dall’altro persuado i cristiani che la vita di Cristo
è conforme a natura» (Quaest. pol. IV, p. 107; v. n. compl.).
4 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS
la città fa due miglia di dia- ces, qui ea constat magnitudine, qua civita-
metro e più, e viene ad essere tis diameter duo et plus milliaria continet,
sette miglia di circolo; ma, per ut circuitus sit septem; at ex gibbositate plu-
la levatura, più abitazion’ha, ra capit quam si in planitie foret.
che se fuss’in piano. 5 Distincta est civitas in septem gyros ambi-
È la città distinta in sette tusve ingentes, a septem planetis nomina-
gironi grandissimi, nominati tos, et ab altero in alterum per quatuor stra-
dalli sette pianeti, e s’entra ta viarum intratur perque portas quatuor ad
dall’un all’altro per quattro mundi angulos quatuor spectantes. Et pro-
strade e per quattro porte, alli 10 fecto sic aedificata est, ut si quis primum ex-
quattro angoli del mondo pugnaret gyrum, necesse habet duplicato
spettanti; ma sta in modo che, labore expugnare secundum et maiori ter-
se fuss’espugnato il primo gi- tium, ac semper geminare vires laboresque.
rone, bisogna più travaglio al Quapropter septies expugnanda est volenti
secondo e poi più; talché sette 15 eam subiugare. Ego tamen iudico nec pri-
fiate bisogna espugnarla|1v> mum posse occupari ambitum, ita crassus
per vincerla. Ma io son di pa- est, terra plenus, munitus propugnaculis,
rere che n’anco il primo si turribus, bombardis et fossis.
può, tanto grosso è terrapieno, Ingressus igitur per portam Aquilonarem
ed ha valguardi, torrioni, ar- 20 (quae ferro operta est, sic fabrefacta ut possit
tellaria e fossati di fuora. elevari ac demitti, et facile et fortiter obserari
Entrati dunque per porta processibus suis in postium robustorum sinu-
Tramontana di ferro coperta, bus decurrentibus mirifico artificio), interca-
fatta che s’alza e cala con bel- pedinem planam vidi septuaginta passuum
lo ingegno, si ved’un piano 25 inter prima ac secunda moenia. Dehinc vi-
di cinquanta passi tra la mu- suntur palatia ingentia muro secundi gyri co-
raglia prima e l’altra. Ap- pulata omnia ut unum esse omnia dicere
presso stanno palazzi tutti queas. Porriguntur ex media altitudine pala-
uniti per giro col muro, che tiorum fornices continuati per gyrum totum,
puoi dire che tutti siano uno; 30 super quibus sunt deambulatoria, et substen-
e di sopra han li revellini so- tantur columnis ab imo crassis formosisque,
pra colonne, come chiostri de subporticus quasi sepientibus, sicuti peristy-
frati, e di sotto non v’è introi- lia sive claustra monachorum. Inferne autem
to, se non dalla parte conca- introitus non habent nisi ab interiori pariete
va delli palazzi. Poi son le 35 in sui parte concava, et intratur in aedes infe-
stanze belle con le finestre al riores plane, in superiores vero per scalas
convesso ed al concavo, e son marmoreas ad interiora consimilia deambu-
destinte con piccioli muri tra latoria, et ex illis ad superiores aedes, quae
loro. Solo il muro convesso è formosae sunt et fenestras habent ad conca-
grosso otto palmi, il concavo 40 vum et convexum parietem et gracilibus di-
tre, il mezano uno o poco più. stinguuntur parietibus. Quippe murus con-
vexus, id est exterior, crassitiem habet palmo-
rum octo, concavus vero trium, intermedii
unius et forte cum dimidio.
LA CITTÀ DEL SOLE 5
molteplici gironi si estendono per lungo tratto oltre i piedi del monte, e
le sue dimensioni sono tali da misurare più di due miglia di diametro e
quindi sette di circonferenza; e tuttavia, sviluppandosi su una conves-
sità, sfrutta una superficie maggiore che se fosse estesa tutta in pianura1.
La città è divisa in sette grandi gironi, o cinte, ognuno avente il nome
di un pianeta, e si accede dall’uno all’altro per quattro strade e quattro
porte rivolte ai quattro punti cardinali. Ed è evidente che è stata edifica-
ta in modo tale che, ammesso che fosse espugnato il primo girone, sa-
rebbe stato necessario uno sforzo doppio per espugnare il secondo, an-
cor più grande per il terzo ecc., dovendo duplicare ogni volta gli sforzi
e le fatiche. Perciò chi volesse impadronirsene, dovrebbe espugnarla
sette volte. Ma secondo me, non è possibile conquistare neanche il pri-
mo girone, talmente è massiccio il terrapieno e munito di bastioni, tor-
ri, bombarde e fossati.
Entrato dunque per la porta Settentrionale (tutta ricoperta di ferro,
essa è stata ideata in modo tale da poter esser alzata, abbassata e chiusa
facilmente e solidamente con un meccanismo molto ingegnoso grazie
ad appositi sistemi di scorrimento collocati negli incavi di robusti bat-
tenti), ho visto un intervallo pianeggiante di settanta passi2 tra la prima
e la seconda cinta muraria. Da lì si scorgono grandi palazzi serrati tutti
al muro del secondo girone tanto che potresti dire esser un tutt’uno.
Dai palazzi, a mezz’altezza, sporgono ininterrottamente per l’intero gi-
ro i porticati, con sopra dei loggiati, sorretti da colonne larghe alla ba-
se e ben tornite, che chiudono quasi i sottoportici, come nei peristili o
nei chiostri dei frati. In basso poi hanno gli ingressi solo nella parte in-
terna, o concava, delle mura, attraverso i quali si entra nelle stanze infe-
riori direttamente, mentre alle superiori si accede attraverso scalinate
marmoree che immettono in corridoi consimili. Da essi si passa quindi
nelle stanze superiori, che sono belle ampie, dotate di finestre sia nel
muro esterno che in quello interno, e separate tra loro da pareti sottili.
Ogni muro convesso, ovvero esterno, è spesso otto palmi, il concavo so-
lo tre, e i tramezzi uno e mezzo circa.
1
La superficie dell’emisfero può arrivare fino al doppio di quella del cerchio sotteso (v. n.
compl.).
2
A Napoli un passo misurava 185 cm e mille passi formavano un miglio, cioè 1,855 Km (Ma-
gini, 7v: «Il miglio, misura che hoggi è communemente in uso... abbraccia mille passi... par-
lando delle miglia latine e delle nostre italiane»; e C. stesso rende 110 mila miglia con 110
milioni di passi [v. n. 114.5-6]); e, poco sotto, un palmo è circa 26 cm (Treccani e GDLI).
6 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS
1
A rigore sarebbe il terzo girone, avendo già oltrepassato il «secondo» (6.3); l’ipotesi più at-
tendibile, essendo improbabile una svista a così breve distanza testuale, è che il primo circui-
to sia strutturalmente e funzionalmente diverso dagli altri sei anelli, costituiti da doppie mu-
ra con palazzi porticati e affrescati; il primo invece è esclusivamente difensivo (4.15-8 e 76.2):
dunque questo è il secondo dei gironi abitati.
2
Da questo elegante chiasmo («columnis… inferne, superne… picturas») parrebbe che le
pitture stiano solo in alto, e i portici inferiori non siano affrescati; ma successivamente (12.8;
18.11) risulta che anche i sottoportici sono istoriati. È possibile che sia una svista, anche per-
ché dietro vi è una complicata storia testuale: tutti i mss di Città, a partire da T.6.9, dicono
che le pitture murali sono collocate nel portico superiore e in quello inferiore del girone; sal-
vo L., che le confina al solo portico superiore («ha il chiostro con le colonne di sotto, e di so-
pra con belle pitture»), sanando in tal modo una contraddizione con T.40.8-9 (le arti specu-
lative si esercitano «di sopra, dove sono le pitture»). Se non che in Civitas forse l’Au. è ritor-
nato all’ideazione originaria (pitture sopra e sotto), aggiungendo a 40.7 un «nobiliores», che
potrebbe richiamare l’«egregias» di 6.9; e in tal caso si eviterebbe l’incoerenza. Più avanti, in-
fatti, si legge che Sapienza ha fatto dipingere le mura non solo «dentro e di fuori» (T.12.6),
ma anche «inferiores ac superiores» (12.8); e sempre in Civitas aggiunge che gli eroi militari
sono «in inferioribus subporticibus depictos» (18.11, assente in T.18.5): è solo in base a 18.11
che si evince che le pitture sono distinte e gerarchizzate non soltanto sull’asse orizzontale
(esterno/interno), ma anche su quello verticale: inventori, legislatori, profeti e Cristo stesso
sono dipinti nei portici superiori, dove sono le pitture «egregias» (6.9), ovvero «nobiliores»
(40.7).
3
«Insensibili» asseconda la lezione di T.6.19, probabilmente travisata da un esemplare alto
dello stemma di mss, essendo attestata già da R., e trascinatasi così in tutti i rami fino a L. In-
fatti Firpo 1948, p. 252: «T. mostra che l’aggettivo fu deformato nella trascrizione, perché la
dolcezza delle scale a gradini inclinati, tali che l’ascesa “non si conosce”, vuol che si ritorni al
primitivo “altura... insensibile”» (del resto “insensibile” non è altro che una generalizzazione
sensoriale di “invisibile”).
8 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS
OSP. - Seguita in cortesia. HOSP. - Perge nunc, perge, dic, oro per vi-
GEN. - Il tempio è tondo tam.
perfettamente, e non ha mu- GEN. - Templum absolutae ro- Templi
raglia che lo circonda; ma sta tunditatis forma decoratur: non structura in
situato sopra colonne gross’e 5 circumdatur muris sed super co- cacumine
bell’assai. La cupola gran- lumnis haeret crassis, pulchre con-
d’ha in mezo una cupoletta cinnatis. Testudo maxima, mira arte
con uno spiraglio, che pende exstructa, in centro vel polo sui testudi-
sopra l’altare, ch’è uno solo e nem editiorem habet parvam, et in hac spi-
sta nel mezo del tempio. Gira- 10 raculum, quod altari imminet, quod uni-
no le colonne trecento passi e cum est ac in centro templi. Columnis cir-
più, e fuor delle colonne della cumseptum, templum vero excedit trecen-
cupola vi sono per otto passi tos quinquaginta passus. Capitellis forinse-
li chiostri con mura poco ele- cus columnarum innituntur fornices por-
vate sopra le sedie, che stan 15 recti quasi octo passus extrorsum, unde
d’intorno al concavo dell’este- aliae columnae ipsos sustinentes attollun-
rior muro, benché in tutte le tur, inhaerentes crasso muro fortique erec-
colonne interiori, che sensa to passibus tribus, inter quem ac priores co-
mura fraposte tengono il tem- lumnas deambulatoria sunt inferiora, pavi-
pio, vi siano sedie portatili 20 mentis constrata pulchris; et in muri conca-
assai. vo, crebris distincti portis amplissimis, sedi-
Sopra l’altare non v’è altro lia sunt immobilia, tametsi inter columnas
ch’un mappamondo assai interiores templum substentantes non de-
grande, dove tutt’il cielo è di- sint sellae portatiles plurimae decoraeque.
pinto, ed un altro dov’è la ter- 25 Super altare nihil conspicitur nisi globus
ra. Poi sul cielo della cupola magnus in quo totum depictum est coelum,
vi stanno tutte le stelle mag- et alter globus in quo depicta est tellus. Porro
giori del cielo, notate con i in coelo testudinis magnae omnes coeli stel-
nomi loro e virtù, ch’hanno lae a prima usque ad sextam magnitudinem
sopra le cose terrene, con tre 30 depictae cernuntur, propriis notatae nomini-
versi per una; ci sono li poli bus ac virtutibus, quas terrestribus influunt
ed i circoli segnati non del rebus, in tribus quaeque versiculis. Adsunt
tutto, perché ci manca il mu- poli et circuli maiores minoresque iuxta rec-
ro a basso, ma si vedeno fini- tum horizontem ipsorum in templo adnotati,
ti in corrispondenza nelli 35 sed non perfecti, quoniam deficit murus in-
globbi dell’altare. V’è sempre ferne, at videntur perfici in relatione ipso-
accese sette lampadi nominati rum ad globos, qui sunt in altari. Pavimen-
dalli sette pianeti. tum pretiosis lapidibus collucet. Lampades*
aureae septem continuo igne accensae pen-
40 dent, septem planetarum nomina gerentes.
1
Il concetto è richiamato astro-magicamente a 146.16 e 148.22, e si rifà a Ex. 25, 9sg.; ed è
espressamente cit. in: Metaph. XVI I IV [III, p. 195]: «Mosè fabbrica l’atrio del tabernacolo ad
imitazione del cielo mentale... all’esterno invece accende sette lumi, molto somiglianti ai set-
te pianeti» (v. n. compl.).
10 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS
1
Come dirà in seguito, nelle celle inferiori abitano quaranta magistrati-religiosi, nelle cellet-
te superiori invece dimorano stabilmente i ventiquattro sacerdoti-scienziati di 106.41, cui im-
plicitamente rinvia quell’«etc.» (v. n. compl.).
2
Nella cupoletta si trova l’albo d’oro, nonché libro dei segreti, evocato più avanti come «li-
bro degli eroi» (v. 112.8 e n. compl.).
3
Il Fisiologo (o Fisico) è l’esperto delle qualità (chimico-)fisiche degli enti naturali, uomo in-
cluso: «Il fisico, che le cose velenose e contrarie intende, può ammazzare e salvare... Ora il fi-
sico conosce queste cose dal calore, dal sapore e dall’odore e dalla consistenza crassa o len-
12 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS
solo, dove stan tutte le scien- unumque modo volumen habent, quod vo-
ze, che fa leggere a tutto il po- cant Sapientiam, in quo omnes sunt scien-
polo ad usanza di Pitagorici. tiae compendio ac facilitate mira conscrip-
E questo ha fatto pingere tutte tae. Hunc legunt ad populum iuxta ritum
le muraglia, su li revellini, 5 Pythagoreorum.
dentro e di fuori, |3r> tutte le |148> Hic Sapientia, totius ci- Scientiarum
scienze. vitatis parietes internos externo- faciles per
Nelle mura del tempio este- sque, inferiores ac superiores, picturam
riori e nelle cortine, che si ca- picturis praestantissimis adornari disciplinae
lano quando si predica per 10 fecit, omnesque scientias in eis de-
non perdersi la voce, vi sta signari mirifico ordine.
ogni stella ordinatamente con In muris templi exterioribus et in corti-
tre versi per una. nis, quae demittuntur cum sacerdos concio-
Nel dentro del primo giro- natur, ne vox dispersa praetervolet audito-
ne tutte le figure matemati- 15 res, pictae sunt stellae, ipsarumque magni-
che, più che non scriss’Eucli- tudines, virtutes et motus, tribus versiculis
de ed Archimede, con le loro notatae singulae.
proposizioni significanti. Nel In interiori muro primi ambitus conspi-
di fuori v’è la carta della ter- ciuntur depictae omnes figurae mathemati-
ra tutta, e poi le tavole d’ogni 20 cae longe plures quam Archimedes et Eucli-
provinzia con i riti, costumi e des invenerunt, et ad parietis proportionem
leggi loro, e con l’alfabeti or- grandes et decore signatae cum brevi decla-
dinati sopra il loro alfabeto. ratione, versiculo contenta in singulis; sunt
Nel dentro del 2° girone vi et definitiones et propositiones etc. In exte-
son tutte le pietre preziose e 25 riori convexo est primo descriptio integra
non preziose, e minerali, e permagna simul totius terrae; hanc conse-
metalli veri e finti, con le di- quuntur tabulae peculiares cuiuslibet pro-
chiarazioni di dui versi per vinciae, ubi et ritus et leges et mores et ori-
uno. Nel di fuori vi son tutte gines et vires incolarum brevi prosa com-
sorti di laghi, mari, fiumi, 30 prehenduntur; et alphabeta, quibus utun-
vini, ogli ed altri licori, e loro tur provinciae omnes, visuntur super alpha-
virtù ed origine e qualità; e ci beto Civitatis Solis.
sono le carrafe piene di diver- In interiori secundi gyri, domiciliorum
si licori di cento e trecento an- scilicet secundorum, cernuntur omnia lapi-
35 dum genera pretiosorum et communium
et mineralium metallorumque pictorum, at
et verorum quoque frustula, cum declara-
tione apposita singulis in duobus versiculis.
In exteriori omnia maria signata sunt et flu-
40 mina et lacus et fontes quae sunt in mun-
do, et vina, olea et liquores cuncti, ipso-
rumque origines, qualitates et virtutes; ad-
suntque ampullae super fornicibus muro
confabricatae, diversis plenae liquoribus a
LA CITTÀ DEL SOLE 13
le. I Solari adottano un unico libro che si chiama Sapienza, nel quale so-
no trattate con mirabile concisione e chiarezza tutte le scienze. Questo
libro, secondo l’usanza dei Pitagorici, viene letto al popolo.
Questo Sapienza fece adornare le mura1 interne ed ester- Le discipline
ne, superiori e inferiori della città con pitture splendide rap- scientifiche
presentanti tutte le scienze opportunamente classificate. facilmente
assimilabili
Nelle mura esterne del tempio e nelle sue cortine, calate
tramite
giù, quando il sacerdote predica, per non disperderne la voce, le pitture
sono dipinte le stelle, ognuna delle quali è accompagnata da tre
versetti che spiegano grandezza, virtù e moti.
Nella muraglia interna del primo girone si possono osservare i dise-
gni di tutte le figure geometriche, molto più numerose di quelle sco-
perte da Archimede ed Euclide; tali figure ben riprodotte e di grandi di-
mensioni, proporzionate come sono alla parete, vengono adeguata-
mente accompagnate ognuna da una breve nota illustrativa di un ver-
setto; vi sono definizioni, proposizioni ecc. Nella muraglia esterna con-
vessa vi è anzitutto una gigantesca mappa complessiva e complanare di
tutta la Terra; seguono quindi le tavole specifiche di ogni regione, ac-
compagnate da un breve trafiletto in prosa2 in cui sono esposti riti, leg-
gi, costumi, origini e risorse dei loro abitanti; e gli alfabeti di tutte le na-
zioni sono correlati a quello della Città del Sole.
Sulla muraglia interna del secondo girone, ovvero del secondo anel-
lo di palazzi, si vedono tutte le specie di pietre, preziose e comuni, di
minerali e metalli, dipinti, ma anche presenti in piccoli campioni, con
l’apposita didascalia in due versetti. Nel muro esterno sono segnati tut-
ti i mari, i fiumi, i laghi e le sorgenti della Terra; e i vini, gli oli e tutti i li-
quori, con le rispettive provenienze, qualità e proprietà; sopra le arcate
vi sono dei recipienti sferici murati, pieni di diversi liquori vecchi di
ta» (Senso, p. 243-5). Per questa sua conoscenza della natura e proprietà delle cose, cioè del-
la fisiologia umana e della fisica degli elementi, è lui ad occuparsi della posologia alimenta-
re, dai poppanti (46.31) agli adulti (88.22); mentre la composizione della dieta spetta a un
capomedico (88.32): se dunque il Medico si occupa dell’aspetto qualitativo (=cosa?), il Fisio-
logo cura quello quantitativo (=quanto e quante volte? V. n. compl.).
1
Esclusa la settima cinta, soltanto protettiva, non abitativa, e quindi, a rigore, non facente
parte della ‘civitas’.
2
L’improvviso passaggio dalla poesia (12.16, 23 e 38; in T.12.19-23 non si menzionano dida-
scalie) alla prosa può esser casuale ‘variatio’, oppure può stare a indicare che il sussidio mne-
monico offerto dal ritmo poetico non è necessario per (o conciliabile con) l’apprendimento
di dati geografici.
14 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS
ni, con li quali sanano tutte centum et trecentis annis, quibus varias cu-
infirmità. rant infirmitates. Sunt et grandines et nives
Nel dentro del 3° vi sono et tonitrua et quaecunque in aëre fiunt,
tutte sorte d’erbe ed arbori del suis expressae figuris versiculisque. Habent
mondo pinte, e pur in teste di 5 artem etiam faciendi intra cubiculum om-
terra sopra il revellino, e le di- nia meteorologica, idest ventos, pluvias, to-
chiarazioni dove prima si nitrua, iridem etc.
trovâro, e le virtù loro, e le so- In interiori tertii gyri sunt omnes arbo-
miglianze ch’hanno con le rum et herbarum species depictae, aliquae
stelle e con li metalli e con le 10 autem sunt in testis vivae super fornicum
membra umane, e l’uso loro exteriori pariete, cum declarationibus ubi
in medicina. Nel di fuori tut- primo inventae sunt, quae sint ipsarum vi-
te maniere di pesci di fiumi e res et qualitates et similitudines ipsarum
laghi e mari, e le virtù loro, cum rebus coelestibus et metallis et cum
ed il modo di vivere, di gene- 15 partibus corporis humani et cum rebus ma-
rarsi ed allevarsi, ed a che rinis, et ipsarum usus in medicina etc. In ex-
serveno e le somiglianze |3v> teriori omnia piscium genera fluviorum, la-
ch’hanno con le cose celesti, cuum et marium, ipsorumque mores et vir-
terrestri dell’arte e della natu- tutes, generationis ratio, vitae, educationis,
ra; oh che mi stupii, quando 20 et usus, quem habent ad mundum et ad
trovai pesce vescovo e catena e nos, ipsorum quoque similitudines cum re-
chiodo e stella, a punto come bus coelestibus et terrestribus a natura et ab
sono questi cossì tra noi. Ci arte productis, ita quod obstupui cum vide-
sono incini, rizzi, spondoli, rem piscem episcopum et catenam et lori-
tutto quanto è degno di sape- 25 cam et clavum et stellam et verpam, et simu-
lacra istarum rerum apud nos existentium
omnino referentes. Visuntur echini, conchi-
lia, spondili etc. et quidquid scitu dignum
LA CITTÀ DEL SOLE 15
1
Fonti antiche: Plinio, IX I [Conte]: nel mare si trovano parecchi esseri mostruosi, perché es-
so è particolarmente propizio alla infinita combinazione, da parte delle correnti e dei venti,
dei semi generativi, «cosicché diventa vera l’opinione comune secondo cui qualsiasi cosa na-
sca, in qualsiasi parte della natura, si trova anche in mare; e in più nel mare si trovano molte
cose che non sono da nessuna altra parte. Che vi siano immagini di oggetti, e non solo di ani-
mali, è possibile comprenderlo se si considera l’uva [animale ignoto], la spada [=il pesce spa-
da], le seghe ed anche il cocomero, che è simile, sia nel colore che nell’odore, a quello di ter-
ra, per cui non ci si dovrebbe meravigliare che teste di cavallo sovrastino chiocciole così pic-
cole [=ippocampi]»; Ambrogio, V II,5, elenca tutti i tipi di pesci che hanno corrispettivi terre-
stri e alati: «i cani marini, i vitelli marini... i leoni di mare. Perché [non] aggiungere anche i
pesci merli, tordi e persino i pesci pavoni, dei quali vediamo riprodotti negli uccelli anche i
colori...?». Alle fonti moderne cit. da Firpo (ed. Ernst 1997a, p.9), la principale delle quali re-
sta Botero per il pesce vescovo (p. 50), bisogna associare «il mio amico Imperato, diligentissi-
mo nella sua storia» naturale (Hist. II, p. 1245), e di cui Sensu, p. 222r ricorda lo «studium seu
technotecha» a Napoli, a metà fra ‘Wunderkammer’ e museo naturale: nelle Camere delle
meraviglie «era proprio il confronto ‘vis-à-vis’ tra gli oggetti che sottolineava il senso generale
di una catena di dipendenze cosmiche... La raccolta enciclopedica preilluminista riunisce in-
sieme una serie di omologhi, cioè di oggetti nei quali si riconoscono legami e connessioni...
Come [fa] C. delle misteriose corrispondenze tra gli esseri più diversi, come i pesci a forma di
catena, chiodo, stella, di cui parla in Senso, e questo è il ‘consenso’ o principio della somi-
glianza» (Lugli, p. 119). Contro questa teoria delle ‘segnature’, già nel 1670 Scilla, p. 38: «la-
scerò ad altri l’arbitrio di credere... che la Palla marina e l’Ermodattilo, il Fallo, il Boratmets
somiglino più alla castagna che ad un graspo d’uva, più alla mano che al nostro ginocchio, più
al dio degli orti Priapo che al petto umano, e per finirla più ad un agnello che ad un serpe, ma
16 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS
non già che siano istessissimi nel disegno», come vorrebbero quelli che riducono tutto a «una
sola virtù formatrice». Invece a favore delle corrispondenze si era pronunciato Della Porta,
Magia I IX, 13r-v: «Tutte le spetie delle cose... secondo la loro possanza, vediamo che cercano
inclinare, tirare, allettare et convertire nella sua somiglianza, e se di virtù saranno più gagliar-
de, questo più facilmente succederà». Entrambi – Della Porta e Imperato – sono menzionati
nella stessa pag. di Senso IV I; e quest’ultimo è ancora evocato in Metaph. VI VII I (II, p. 103):
«Abbiamo visto che tutto ciò che viene generato sulla terra viene pure generato nel mare, tal-
ché alcuni pesci abbiano la foggia di calamaio, altri di porta-spada, altri di vescovo mitrato, al-
tri la catena, altri la corazza, come scrive l’Imperato, altri lo stesso pescatore; e gli enti marini
non solo imitano quelli naturali terrestri, ma pure quelli artificiali». Infatti Imperato riporta a
p. 680 nelle sue tavole grandi e dettagliate le figure di piante e animali rari, fra cui la «lorica
marina» [=pesce corazza], questa «spezie di animale imperfetto, simile a corio [=involucro
dell’embrione dei mammiferi] delineato in modo di scame [=squame] commesse, procede
nell’acqua con movimento serpeggiante, d’incesso diritto e non colcato». Tutti questi esseri
marini vengono menzionati, sempre a suffragio dell’analogia fra i regni naturali, anche in:
Mon. Sp. III, p. 18; Senso, pp. 25, 218 e 323 (cui lui stesso rinviava in una glossa marginale pre-
sente in una copia tarda di Città [il solo ms Casanatense]: «De natura horum animalium vide
in nostra Magia»); Epilogo, p. 331, che, come nei precedenti casi, scrive: «pesci vescovi... pesci
loriche» (per cui ho sempre replicato in traduzione il nome di genere, ‘pesce’, consideran-
dolo un nome composto come in ‘pesce martello’).
18 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS
1
Schiavo e poi allievo di Pitagora, tornò dalla sua gente, gli Sciti, a predicare il verbo pitago-
rico, fingendo di averlo ricevuto dagli dei (v. n. compl.).
2
Il più antico legislatore siciliano (VII-VI sec. a.Cr.), nativo di Catania e discepolo di Zaleuco
di Locri (v. n. compl.).
3
Personaggio mitologico, figlio di Inaco e della ninfa Melia: secondo Platone, Tim. 22, fu il
primo uomo; secondo Pausania (II, 15, 5) «fu il primo a riunire in comunità gli uomini che
prima di allora vivevano isolati»; Igino chiarisce che aveva fondato una città-mercato, chia-
mata poi Argo (p. 175); e, per gli Argivi, fu lui, e non Prometeo, a dare il fuoco agli uomini
(Pausania, 19, 5; v. n. compl.).
4
Con “historicus” qui allude a una conoscenza puramente descrittiva, limitata all’epifenome-
no, naturale o culturale (v. n. compl.).
20 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS
*Vedi la Terza delle Quaestiones in Politicis a favore di questa forma di stato, contro
Aristotele3.
1
«I tartari hanno ora due grandi imperi: l’uno è de’ tartari mogori, l’altro de’ cataini: i mo-
gori hanno a’ tempi nostri disteso incredibilmente il lor dominio» (Botero, I, p. 386). ‘Mo-
gori’ erano chiamati i sudditi mussulmani di Akbar (1542-1605), imperatore Moghul (in Oc-
cidente appellato ‘Gran Mogòl’), che aveva represso i culti indù e ostacolato le missioni ge-
suite (v. n. compl.).
2
Pol., 1261b 30-5: «Di quel che appartiene a molti non si preoccupa proprio nessuno... per-
ché suppongono che ci pensi un altro» (v. n. compl.).
3
È vero che la III Quaest. pol. porta come sottotitolo ‘Se la forma di stato descritta da Aristo-
tele come eccellente fra tutte sia veramente la migliore, o non la peggiore’, e che essa esor-
disce: «Aristotele, dopo aver criticato nel libro II della Politica la repubblica di Platone che
prevede il comunismo integrale... ricorrendo secondo la sua abitudine ai propri sofismi... fi-
nalmente delinea la propria forma di stato» (p. 95); ma in effetti i due nodi polemici vengo-
22 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS
GEN. - Io non so tener dietro alla disputa. Ti posso dire però che essi
amano la patria così tanto da non credersi; e senz’altro più dei Romani
– che pur, a detta degli storici1, si sacrificavano volentieri per la patria –,
in quanto i Solari hanno rinunciato del tutto alla proprietà. Credo anzi
che se frati, monaci e chierici nostrani non si facessero corrompere dal-
l’affetto per parenti e amici o dall’ambizione di ascendere a più alte ca-
riche, sarebbero di gran lunga più venerabili, meno attaccati ai beni
materiali e più dediti alla carità verso il prossimo, come era al tempo de-
gli Apostoli2 e com’è ancor oggi per la maggior parte di loro.
OSP. - È quanto sembra sostenere Sant’Agostino3; ma l’amicizia dun-
no affrontati non nella III, bensì in Quaest. pol. IV II: Aristotele «dice che circa questa pro-
prietà comune dei beni, [vi sono tre possibilità:] o i campi sono privati e i frutti comuni, o vi-
ceversa, o entrambi comuni. Nel primo caso chi avrebbe più suolo, dovrebbe lavorare di più
per coltivarlo, e ricevere la stessa parte di frutti di quelli che non lavorano: donde la discor-
dia, e la rovina... Secondo caso: la pigrizia assalirebbe tutti, i campi sarebbero mal coltivati,
perché ognuno penserebbe più al suo che al comune interesse e dove ci sono tanti servitori
peggiore è il servizio, poiché ognuno si aspetta che l’altro faccia il lavoro che dovrebbe fare
lui. Lo stesso avverrebbe nel terzo caso con un’aggravante, perché ognuno pretenderebbe la
parte migliore e maggiore di frutti, e la minore di fatiche; donde in luogo dell’amicizia, sor-
gerebbero discordie e inganni» (p. 104; per l’amicizia v. n. 24.2-3; per l’antiaristotelismo v.
nn.30.26-31 e 116.19).
1
«I Romani fino alla guerra contro Terracina combattevano senza stipendio e gareggiavano a
morire per la patria; non appena però subentrò la brama del possesso, il valore a poco a po-
co svanì. E Sallustio [De Catil. coniur., 52] e Sant’Agostino [CD 5,13,209, dove riporta il passo
di Sallustio] insegnano che essi conquistarono un così grande impero per amore della co-
munità; e Catone in Sallustio [dice]: “la ricchezza pubblica e la povertà privata, all’esterno
un potere giusto e all’interno un animo libero di manifestarsi e sgombro da paura e cupidi-
gia, rafforzarono lo stato romano”» (Quaest. pol. IV, p. 107; il passo sallustiano sarà varie volte
menzionato da C. – ad es.: Afor., 42).
2
At. 2, 44-5 e 4, 32: «Nemo dicebat aliquid proprium, sed erant illis omnia communia». Nel
Cinquecento circolava invece l’idea che la comunità dei beni fosse praticabile solo nello sta-
to d’innocenza e, contingentemente, dai primi cristiani (da More, 226 a C.G. Canapicio, Phi-
losophia..., 1540, p. 215, cit. da Cantimori, p. 50; v. n. 59.1).
3
«Hoc» può riferirsi: 1) alla su citata frase di Sallustio, ripresa da Agostino, 2) al fatto che la
proprietà uccide la carità, concetto che per tre volte attribuisce ad Agostino in Quaest. pol. IV
(I, p. 109; II, p. 127; III, p. 161), alludendo, secondo Ernst, p.109, al cap. 36 del ‘De nutrien-
da charitate’ (De div. quaest., 83 [PL XL, 25]): «Veleno della carità è la speranza di acquistare
e possedere beni temporali»; 3) allo stile di vita comunitaria dei primi cristiani, ereditato poi
dai monaci, ma che anche presso costoro si andava corrompendo: Quaest. pol. IV ne accenna
due volte (II, pp. 127 e 141), fornendo anche una nutrita schiera di Autorità patristiche av-
verse alla proprietà privata, nonché una breve storia del ‘comunismo’ protocristiano, fino a
papa Simplicio, che, nel 470, «per ragioni di forza maggiore», fece sì che la Chiesa passasse
da un regime comunitaristico a uno proprietario: «Ma ancora Papa Gelasio poco dopo, e S.
Agostino non volevano ordinare uno chierico se non metteva tutto in comune... Concedia-
mo poi che la Chiesa abbia potuto accordare la divisione [dei beni] più per tolleranza che
per diretto ed esplicito proposito: del resto, come dice S. Agostino, è meglio un chierico zop-
po che morto, cioè proprietario anziché ipocrita»; in tal caso bisogna rifarsi a Enarr. in Ps.
24 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS
amicizia, poiché non si fan at inquam ergo inter hoc genus hominum
piacere l’un l’altro? amicitia nil valet, qui non habent unde mu-
GEN. - Anzi grandissima, tua beneficia sibi conferant.
perch’è bello a vedere, che tra GEN. - Imo maxime. Nam operae pretium
loro non ponno donarsi cosa 5 est videre munera nulla quidem alterum ab
alcuna, perché tutto hanno altero accipere posse; quidquid enim neces-
del comune; e molto guarda- se habent a communitate accipiunt, ac bene
no gl’officiali, che nullo ab- cavent magistratus, ne quis plusquam me-
bia più che merita. Però reatur accipiat; at nihil necessarium dene-
quant’è |5r> bisogno tutti 10 gatur ulli; amicitia vero dignoscitur inter
l’hanno. E l’amico si conosce eos in bello, in infirmitate, in scientiarum
tra loro nelle guerre, nell’in- comparatione, ubi mutuis auxiliis ac doctri-
firmità, nelle scienze, dove na sese iuvant; interdum laudibus, verbis,
s’aiutano e insegnano l’un functionibus et de suo necessario se mutuo
l’altro. E tutti li giovani s’ap- 15 colunt. Omnes contemporanei se vocant in-
pellano frati, e quelli che sono vicem fratres: qui autem viginti duos annos
quindeci anni più di loro, plures habent, vocantur ab eisdem patres,
padri, e quindeci meno, figli. qui pauciores viginti duos, filii. Porro et ma-
E poi vi stanno l’officiali a gistratus bene intendunt, ne quis alter alteri
tutte cose attenti, che nullo 20 in confraternitate iniuriam inferat. |150>
possa far all’altro torto nella HOSP. - Ecquomodo.
fratellanza. GEN. - Quotquot apud De accusationibus
OSP. - E come? nos sunt virtutum nomina,
GEN. - Di quante virtù noi apud illos sunt magistratus: est
abbiamo, essi hanno l’officio: 25 enim qui vocatur Magnanimitas, qui Forti-
c’è l’un che si chiama Libera- tudo et Castitas et Liberalitas, Iustitia crimi-
lità, un Magnanimità, un nalis et civilis, et Solertia et Veritas, Benefi-
Castità, un Fortezza, un centia, Gratitudo, Hilaritas, Exercitium, So-
Giustizia criminale o civile, brietas etc.; ad eiusmodi munera eliguntur,
un Solerzia, un Verità, Bene- 30 quisque ad illud ad cuius virtutem magis a
ficenza, Gratitudine, Miseri- pueritia in scholis praenoscitur aptissimus.
cordia; e a ciascun de questi Quapropter cum inter eos nequeant latroci-
s’elegge quello, che da fan- nia inveniri, nec caedes insidiosae, nec stu-
ciullo nelle scuole si cono- pra, incesta, adulteria, aliaque facinora, in
sc’inclinato a tali virtù. Però, 35 quibus nos invicem accusamus, ipsi se accu-
non sendo tra loro latrocinii, sant ingratitudinis, malignitatis, quando
n’assassinii, né stupri, n’in- quis honestam negat alteri satisfactionem,
cesti e adultèri, delli quali noi et pigritiae et tristitiae et iracundiae et scur-
ci accusiamo, essi s’accusano rilitatis et detrectationis et mendacii, quod
d’ingratitudine, di mali- 40
gnità, quando uno non vuol
piacere onesto, di bugia, che
LA CITTÀ DEL SOLE 25
que non ha alcun valore per un popolo come questo i cui cittadini non
possono scambiarsi nessun bene1.
GEN. - Anzi, è fortemente sentita. Infatti è molto apprezzabile vedere
che nessuno può accettare alcun favore dall’altro, perché qualunque
cosa loro abbisogna la ricevono dalla comunità, e i magistrati sorveglia-
no affinché nessuno ottenga più di quanto meriti – comunque a tutti è
assicurato il necessario. Ma l’amicizia tra loro si manifesta in guerra,
nella malattia, nello studio, dove si scambiano aiuti, conoscenze e, tal-
volta, anche lodi, parole d’incoraggiamento, servigi e addirittura lo stes-
so necessario. Tutti i coetanei si chiamano fratelli; coloro i quali hanno
ventidue anni più degli altri sono chiamati padri dai minori, e quelli
che hanno ventidue anni meno sono chiamati figli dai maggiori. E inol-
tre i magistrati vigilano per impedire che litigi turbino lo spirito frater-
no della comunità.
OSP. - In che modo?
GEN. - Quante sono le virtù presso di noi, tante sono le ma- Le accuse
gistrature presso di loro: c’è infatti il magistrato chiamato Ma-
gnanimità, quello chiamato Fortezza, Castità, Liberalità, Giustizia pena-
le e civile, Solerzia, Sincerità, Beneficenza, Gratitudine, Gaiezza, Atti-
vità, Sobrietà ecc.; viene eletto a ciascuna di queste cariche colui che fin
dall’infanzia a scuola si è mostrato particolarmente incline a tale virtù.
Quindi, non potendo incorrere in latrocini, assassini, stupri, incesti,
adultèri e altri reati di cui noi altri ci incolpiamo, i Solari si accusano di
ingratitudine, malignità (quando qualcuno nega all’altro una debita
soddisfazione), pigrizia, scontrosità, iracondia, scurrilità, maldicenza e
131, 5 o a Serm. 355 e 356 (PL XXXIX, 1568sg), dove il vescovo di Ippona dice che la pro-
prietà privata dei chierici è tutt’al più tollerata, non certo incoraggiata, ma che il modello da
imitare (e praticare, almeno secondo la regola del convento da lui fondato a Ippona) è quel-
lo «di quei beati di cui parlano gli Atti degli Apostoli»; è questo precetto apostolico che di-
stingue e innalza i cristiani sui Romani: «distribuire a ciascuno secondo il suo bisogno, né dir
mai che una cosa ci appartiene, bensì avere tutto in comune» (CD 5,18,220; v. n. 60.4-6);
4) secondo Crahay, p. 87 si riferisce a De haeres., 5 (PL XLII, 32) in cui condanna gli Anabat-
tisti, passo anch’esso evocato in Quaest. pol. IV II, p. 125: «È un’eresia negare la divisione dei
beni, a quanto afferma S. Agostino contro coloro che avevano mogli e campi comuni e soste-
nevano che bisognava vivere così per imitare gli Apostoli»; ma l’ortodossia della comunione
dei beni non è tanto in causa qui, quanto a 60.1 e relativa glossa.
1
Riprende una delle obiezioni aristoteliche alla repubblica platonica: «soccorrere gli amici o
gli stranieri o i compagni è la cosa più gradita e condizione di ciò è il possesso privato della
proprietà (...) mentre la virtù farà sì che, nell’uso, le proprietà degli amici siano comuni, co-
me vuole il proverbio» (Pol., 1263b 5 e 1262a 30) pitagorico: «omnia amicorum esse com-
munia» (Diogene, VIII, 10; v. n. compl.).
26 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS
1
Questo ‘dux’ è chiamato «rex» dalla sua schiera (84.5). Fonte (rielaborata) del passo è Plu-
tarco, Lyc. 16, 7-13.
2
Il senso della frase è che Hoh deve conoscere le primalità dell’Ente e degli enti, ovvero, più
in generale, deve conoscere la filosofia (fisica e metafisica) campan. La metafisica campan.
(v. 128.2 sg.) contempla un Dio distinto in tre primalità spirituali (Potenza, Sapienza e Amo-
re), le quali, per agire sui principi fisici (spazio e materia, caldo e freddo), si servono o emet-
30 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS
ze con le cose celesti, terrestri e marine e con le idee prime in Dio, al-
meno per quanto è possibile a mente umana; ed infine occorre che sia
versato anche in profezia e astrologia. Pertanto sanno molto in anticipo
chi sarà il futuro Hoh; e del resto non si può aspirare ad una carica così
elevata prima dei trentacinque anni. Tale dignità è perpetua, almeno fi-
no a quando non si scopra qualcuno più sapiente di lui e più capace di
governare.
OSP. - Ma chi è in grado di conoscere un così gran nu- I sapienti sono
mero di cose? E anzi, chi si dedica al sapere non è ritenuto atti a governare?
capace di governare.
GEN. - Anch’io sollevai quest’obiezione, a cui essi così risposero: «Ab-
biamo più probabilità noi di riscontrare in un uomo così colto doti di
governo, rispetto a voi, che affidate il potere a uomini ignoranti, ritenu-
ti abili a regnare solo perché di sangue reale o perché eletti da una fa-
zione1 molto potente. Ma anche se il nostro Hoh si rivelasse del tutto in-
capace di governare, comunque non sarà mai crudele, né scellerato, né
tiranno, visto che è così sapiente. Tuttavia non vi nascondo che quell’o-
biezione ha molto peso per voi, che reputate che sia più colto chi più
conosce la grammatica e la logica di Aristotele o di qualsiasi altro auto-
re; al che, per la vostra cultura dottrinale basta solo applicare lo sforzo
della memoria servile, che rende l’uomo inerte, perché non osserva le
cose, ma le parole dei libri, e nei morti simboli delle cose l’anima s’avvi-
lisce, e perciò non sa cogliere in che modo Dio regga gli enti, né le leg-
gi e le vicende della natura e dei popoli. Il che non può accadere al no-
stro Hoh. Non è in grado infatti di acquisire un simile patrimonio di ar-
ti e scienze colui che non mostra un ingegno acutissimo e versatile in
tutto, e quindi massimamente nell’arte del governo. Del resto sappiamo
bene che chi conosce una sola disciplina, in realtà non conosce vera-
mente né quella né le altre, e chi si è dedicato a una sola materia, ap-
tono delle ‘influenze magne’: «nasce la Necessità dalla Potenza, il Fato dalla Sapienza e l’Ar-
monia dall’Amore» (Poesie : 23, Madr. 1, Esp.). Per il loro tramite si realizzano le generazioni
e mutazioni non caotiche degli enti secondi: «La necessità dunque è l’influsso della divina
potenza nel fare e muovere le cause al loro fine. Il fato è la serie ordinatissima delle cause e
concause, derivata dalla sapienza di Dio. L’armonia è l’influsso del divino amore, per cui le
cose si armonizzano ai propri fini e questi da ultimo al fine supremo. E senza questi influssi
non può avvenire nulla» (Theol. I [II, p. 155]; v. n. compl.).
1
È l’insieme di «coloro che cospirano contro i buoni e i probi» (Tertulliano, Apolog. XL, 1):
v. 78.2.
32 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS
quella né l’altre bene; e che co- vere scire nec alias, et qui aptus est uni mo-
lui ch’è atto ad una sola, stu- do scientiae, ex libris haustae, rudem atque
diata in libro, è inerte e gros- inertem esse; ast id non contingit ingeniis
so. Ma non coss’avviene al- promptis expertisque in omni scientiarum
l’ingegni pronti e facili ad 5 genere et ad considerandas res natura ido-
ogni conoscenza, come biso- neis, veluti necesse est nostrum esse Hoh.
gna che sia il Sole. E nella Praeterea et in civitate nostra ea facilitate
città nostra s’imparano le addiscuntur scientiae (ut vides) qua plus
scienze con facilità tale, come proficiunt discipuli hic in anno uno quam
vedi, che più in un anno qui 10 apud vos in decem aut quindecim. Fac,
si sa ch’in dieci o quindici tra quaeso, periculum in his pueris”.
voi, e mira in questi fanciul- Qua in re ipse vehementer obstupui
li”. |7r> propter sermonem veridicum ipsorum et
Nel ch’io restai confuso per propter experimentum illorum puerorum,
le ragioni sue e la prova di 15 qui et meam linguam bene callebant. Si qui-
quelli fanciulli, ch’intende- dem tres ex eis oportet esse peritos nostrae
vano la mia lingua; perché linguae et tres Arabicae et tres Polonae et
d’ogni lingua sempre han- tres aliarum singularum, et nullum ocium
n’essi tre che la sappiano. E eis datur, nisi quo etiam doctiores fiunt.
tra loro non c’è ozio nullo, se 20 Nam et ideo in campestria egrediuntur gra-
non quello che li fa dotti; ché tia scilicet cursitandi, sagittas et lanceas ia-
però vanno in campagna a culandi, archibugiis reboandi, feras perse-
correre, a tirar dardi, sparar quendi, herbas agnoscendi et lapides, etc.,
archibugi, sequitar fere, lavo- agriculturam et pastoralem discendi, modo
rare, conoscer l’erbe, or una 25 agmen unum, modo aliud.
schiera e or un’altra. Tres quidem Principes Hoh assistentes
Li tre officiali primi non non necesse habent scire, nisi artes ad suum
bisogna che sappiano se non pertinentes regimen: itaque norunt histori-
quell’arti ch’all’officio loro ce tantum artes communes omnibus, pro-
appartengono. Onde sanno 30 prias vero exquisite, quibus nimirum alius
l’arti comuni a tutti, istorica- alio dedicatur magis. Ita Potestas eruditissi-
mente imparandole, e poi le mus est in arte equestri, in ordinando exer-
proprie, dove più se dà uno citu, in castrametatione, in fabrica armo-
ch’un altro: cossì il Potestà rum omnis generis et machinarum bellica-
saperà l’arte cavaleresca, fa- 35 rum et stratagematum et in tota militari re
bricar ogni sorte d’armi, cossì etc. Sed praeter haec huiusmodi Principes
di guerra machine, arte mili- necesse habent fuisse philosophos, histori-
tare ecc. Ma tutti questi offi- cos, politicos et physicos. Idem dic de aliis
ciali han da essere filosofi, di duobus triumviris.
più, e istorici naturalisti e 40 HOSP. - Equidem publica Communitas
umanisti. munera omnia dicas velim ac vitae et artium
OSP. - Vorrei che dicessi l’of- distinguas, et educationem et distributio
fici tutti, e li distenguessi; e s’è communem luculentius narres. foeminis
bisogno le educazioni cumuni. et maribus
LA CITTÀ DEL SOLE 33
1
Grazie ai sussidi audiovisivi delle mura; in varie Lettere (pp. 27, 136, 160, 174, 194, 411), C.
diceva di esser in grado d’insegnare in un anno tutto lo scibile, servendosi del mondo stesso
«per libro e per memoria locale».
2
‘Strategema’ in Civitas indica o le tecnologie belliche (come in questo caso), o gli espe-
dienti tattici (68.34), o entrambe le cose (68.26): v. n. compl.
34 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS
GEN. - Sono prima le stan- GEN. - Aedes communes sunt illis et dor-
ze comuni e belli letti e biso- mitoria et grabata aliaque necessaria. At po-
gni; ma ogni sei mesi si di- st quoscunque menses sex secernuntur a
stingueno dalli mastri, chi magistris, qui dormituri sunt in hoc circo
ha da dormire in questo giro- 5 quique in alio et alio, et qui in primo cubi-
ne o in quell’altro, e nella culo et qui in secundo: quod per alphabe-
stanza prima o 2a, notate per tum notatum habent in superliminio.
alfabeto. Sunt et artes communes mechanicae et
Poi son l’arti comuni speculativae masculis et foeminis, hac cum
agl’uomini e donne, le spe- 10 discretione: quod artes operosae magis et
cu|7v>lative e mecaniche; con ubi iter requiritur, tractantur ab masculis, si-
questa distinzione, che quelle cuti arare, seminare, fructus legere, in area
dove ci va fatica grande e laborare forte et in vindemia. At ad mulgen-
viaggio, le fanno l’uomini, das oves et caseum formandum solent et
come arare, seminare, coglier’i 15 mulieres destinari; itidem et ad hortos pro-
frutti e pascer li armenti; però pe civitatis pomerium ad colligendas herbas
nell’aia, nella vendemia, nel et excolendas similiter vadunt. Artes vero
formare il cascio e mungere quae sedendo et stando tractantur ad mu-
l’uberi si soleno le donne lieres spectant, veluti texere, nere, suere,
mandare, e nelli orti vicini al- 20 tondere capillos et barbas, pharmacopia et
la città per l’erbe. L’arti che si omnia vestimentorum genera conficere, ex-
fanno sedendo e stando, per lo cluduntur tamen ab arte lignaria et ferraria
più son delle donne: come tes- et fabrica armorum. At si quae picturae est
sere, cuscire, tagliar li capegli idonea, non prohibetur. Musica tamen solis
e le barbe, la speziaria, e far 25 est data mulieribus, quia delectant magis,
tutte sorti di vestimenti; fuor quin et pueris: non tamen buccinarum et
che l’arte del ferraro e dell’ar- tympanorum usus. Item epulas parant et
mi. E chi è atta a pingere, mensas sternunt; sed mensis ministrare pro-
non se li vieta. La musica prium est puerorum munus et puellarum
però è delle donne, ché più di- 30 usque ad vigesimum annum.
lettano, e de’ fanciulli, ma Sunt in quolibet circo propriae culinae,
non le trombe e tamburri. horrea et promptuaria utensi|152>lium,
Fanno le vivande, apparec- esculentorum et poculentorum, et cuilibet
chiano le mense; ma lo servir functioni praeest senex compositus et anus
a tavola è proprio delli giova- 35 altera, qui simul imperant ministris ac pote-
ni, maschi e femine, finché so- statem habent verberandi vel iubere ut ver-
no di venti uno anno. berentur negligentes et inobedientes, ac
Stanno in ogni girone le
publiche cucine e le dispense
della robba. E d’ogni officio 40
soprastante è un vecchio e
una vecchia, che comandano
e han potestà di battere o far
battere d’altri li negligenti o
LA CITTÀ DEL SOLE 35
1
L’esclusione di donne e bambini dall’uso di certi strumenti a fiato o a percussione dipende
dal fatto che, oltre a richiedere una notevole forza fisica, il loro suono, come diceva Virgilio,
Aen. VI, 164, è ‘marziale’; «nessun clangore si stima più efficace per incitare gli animi al co-
raggio» del «suono spezzato delle trombe», ripeteva Ambrogio, V XXII, 76. Anche per C. i
«suoni hanno forza magica che lo [=spirito] muovono a diversi affetti secondo la varietà: gli
aspri della trombetta e tamburo lo infuriano a guerra et ira; i molli e piani del liuto ad amo-
re» (Senso, p. 292-3). A Napoli, poi, «gli strumenti a fiato si limitano alle trombe e ai pifferi...
Ma questi sono strumenti, come del resto i tamburi, ‘poco nobili’, usati prevalentemente nel-
le celebrazioni ufficiali, siano religiose o laiche, per rimarcare l’atto solenne o avere effetto
di richiamo sulle folle e perciò vengono affidati a galeotti o a ‘suonatori’ occasionali» (R.
Bossa, La musica nella Napoli del Seicento, cit. da Leone, p. 193-4).
36 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS
1
La «veste» è presumibilmente la «sopraveste» (T.26.14; 26.12: «toga»), che viene stretta da
una cinta (ai soli giovani; o solo in occasione del servizio a mensa, per agevolare i movi-
menti).
38 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS
alcuna. Son vecchi savi sopra- compositi praesunt rei coquinariae et mini-
stanti a chi co|8v>cina, e nelle stris refectoriorum, et magnifaciunt mundi-
stanze, nelle strade, nelli vasi tiam in stratis, aedibus, vasibus, vestibus et
e nelle vestimenta stimano as- officinis et portibus.
sai la polizia. 5 Alba interula utuntur ad De vestimentis
Vesteno dentro camisa carnes, cui adhaeret vestis,
bianca di lino, sopra un ve- quae simul thorax ac caligae est, absque cri-
stito con giuppone, e calze in- spis, fissa a summis lateribus usque ad imum
tiere, sensa pieghe e spaccato crurum et similiter ab umbilico ad nates in-
per mezo, dal lato e di sotto, e 10 ter coxendices; et globulis hinc porrectis,
poi imbottonato. E arriva la exceptis vinculis illinc, obserantur fixura-
calza fin al tallone, a cui si rum orae; cruralia caligis continuata ad ta-
pone un pedale grande come los usque descendunt; mox udonibus pedes
bolzacchino, e la scarpa so- vestiunt grandibus quasi semicothurnis, fi-
pra. E son ben attillate, che 15 bulis adstrictis, quibus calceos superpo-
quando si spogliano la sopra- nunt; ac tandem toga, ut diximus, amiciun-
veste, si scerneno tutte le fat- tur: et ita apte concinnatae sunt vestes,
tezze della persona. Si muta- quod, quando toga spoliantur, discernuntur
no le vesti quattro volte: partes effigiei totius distinctae prorsus et
quando il sole entra in Can- 20 nihil fallentes. Mutant vestes quater in anno
cro e Capricorno, Ariete e Li- varias, hoc est cum Sol ingreditur Arietem
bra. E, secondo la complessio- et Cancrum et Libram et Capricornum; et
ne e decenza, sta al Medico iuxta conditionem ac necessitatem in Medi-
distribuirle col Vestiario di ci arbitrio est ac Vestiarii singulorum gyro-
ciascun girone. Ed è cosa mi- 25 rum eas distribuere, et mirum est quod eo-
rabile ch’in un punto hanno dem in tempore quot opus sunt vestes simul
quante veste vogliono, grosse, habent, rudes et graciles, pro tempore. Al-
sottili, secondo il tempo ecc. batis utuntur omnes; et lavantur singulis
Vesteno tutti di bianco, e ogni mensibus lixivio vel sapone etc.
mese si lavano le vesti col sa- 30 Aedes inferiores omnes sunt officinae ar-
pone, o bugata quelle di tela. tium et culinae et cellaria et horrea, promp-
Tutte le stanze sottane so- tuaria, armamentaria, refectoria et lavacra,
no officine, cocine, granari, quamvis ad pilas peristyliorum laventur, et
guardarobbe, dispense, vi- aqua deiicitur per canales, in cloacas defe-
vandarî e lavatorî; ma si la- 35 rentes. In qualibet platea singulorum circo-
vano nelle pile delli chiostri. rum sunt proprii fontes, qui per canales ia-
L’acqua si getta per le latrine culantur aquas attractas ab imo fere montis
o canali, che vanno a quelle. sola agitatione artificiosi manubrii: sunt
Hanno in tutte le piazze delli aquae fontales et in cisternis, quo pluviales
gironi le loro fontane, che ti- 40
rano l’acque dal fondo solo
con muover un legno, onde
esse spicciano |9r> per li ca-
nali. V’è acqua sorgente, mol-
LA CITTÀ DEL SOLE 39
1
Cioè una specie di tuta aderente («giuppone» di T.38.8 è «giubbone» sia in R. e L. [v. ‘Ap-
parato delle varianti di α’], che in Poesie, 29, Madr. 7, Esp.: «come un giubbon che non sta be-
ne addosso di chi lo porta»).
40 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS
1
Cambia l’ortografia, e quindi il senso, rispetto a T.40.9 : «...e nel tempio si leggono nell’atri
di fuori. Sono orologi di sole...». L’explicit del periodo precedente, è diventato l’incipit di
quello seguente, con un netto peggioramento, perché, come diceva Firpo 1948, p. 254, cor-
reggendo, sulla scorta dei mss T. ed L., la punteggiatura adottata da Bobbio, «i gironi all’e-
sterno non hanno ‘atri’, ma il muro pieno, mentre appunto il tempio è cinto dal colonnato»;
e inoltre perché i portici che circondano il tempio (8.19) sono più indicati per tenervi lettu-
re sacre anziché orologi campanari o solari, secondo quanto suggeriva Alberti, VIII V (p.
706): «Altri strumenti assai convenienti sulle torri potranno essere delle figure mobili indi-
canti la direzione del vento, o la posizione del sole nella volta celeste, e l’ora del giorno» (per
‘atrium’ v. n. 82.23).
2
Si tratta del «Genitarius» (98.8) alle dirette dipendenze di Amore; è un ‘pari grado’ di un al-
tro magistrato, che determina il cruciale momento della generazione (42.26) e che non è un
mediconzolo qualsiasi (sarebbe curioso che una meno impegnativa decisione circa la liceità
di rapporti sessuali non riproduttivi sia affidata a un «magnus... medicinae doctor» [40.26-7],
e quella ben più grave di fissare l’ora adatta a procreare sia demandata a un medico ‘generi-
co’), ma è il «Medicus» alle strette dipendenze di Sapienza, insieme al «Physicus» (98.4). An-
che in Oecon. I III, p. 193 raccomanda un consulto prematrimoniale: «ex physicorum pru-
dentumque senum consultatione».
42 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS
1
Sono le statue dei loro ‘eroi’, come chiarito a 112.16-9. Le pratiche emulative si fondano su
un’antica credenza: la presunta immaginazione delle gestanti (anche animali: v. n. 83.1), tan-
to potente da plasmare il feto (v. n. compl.).
2
L’Astrologo, in quanto magistrato superiore direttamente sottoposto a Sapienza (10.41), è
probabilmente uno dei sacerdoti (come si evincerebbe da 44.19), fra i cui compiti c’è ap-
punto quello di ‘decernere’ l’ora propizia al concepimento (108.9).
3
Senso, p. 205 sintetizza così i consigli ai genitori: «aspettare il tempo quando benigne stelle
siano nell’Ascendente e nel mezzo cielo, e li pianeti si guardino con buoni aspetti fra loro e
con le stelle fisse, e siano in dignità perché molto dispongono e aiutano alla nobiltà della
prole». È il primo di una serie di passi astrologici (i più estesi sono a pp. 86, 136 e 150-8),
per la cui terminologia tecnica v. nn compl. da 42.28 a 44.11.
4
Sottintende: l’oroscopo natale è «dunque» lecito, perché, anche se l’influsso degli astri ‘in-
clina’, non costringe – come sarà ampiamente illustrato alla fine del trattatello (pp. 140-58).
44 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS
1
Luoghi afetici (etimologicamente: ‘datori di vita’) sono quelli che ospitano il pianeta che
presiede all’impulso della vita (Astrol., p. 128, che lo deriva da Tolomeo; v. n. compl.)
2
Questi righi contengono un implicito monito pratico: procreare quando né Saturno né
Marte transitano in una delle quattro case angolari. Fondamento dell’astrologia giudiziaria è
infatti che il momento fatale (concezione o nascita) determina tutta la vita futura, perché in
quell’istante si concentra l’influsso delle forze celesti. Un ruolo cruciale, in questo processo,
lo svolgono l’Ascendente, che è ‘fons vitae’, e gli altri tre cardini, che segnano altri momenti
decisivi dell’esistenza. Pertanto influssi nefasti in questi quattro luoghi critici compromette-
rebbero l’intero quadro del tema natale (ad es., proprio per la predilezione di Mercurio e
Vergine rischiano di contrarre l’epilessia [v. n. compl. e n.94.6]).
3
La concentrazione di pianeti non deve far da scorta (=‘satellitium’) a uno di questi due, a
meno che la sua preminenza non derivi dall’esser particolarmente dignificato. Il potere ma-
lefico di Saturno, pianeta freddo, e di Marte, secco (Astrol., p. 84-5), viene ulteriormente esal-
tato quando il pianeta transita nella casa di cui è signore (Saturno in Capricorno e Acquario,
Marte in Ariete e Scorpione: Astrol., p. 34; v. n. compl.).
4
Oltre alle dodici dello Zodiaco, sono convenzionalmente distinte altre trentasei costellazio-
ni esterne alla cintura zodiacale: ventuno boreali, quindici australi (Astrol., p. 20-1). Le stelle
fisse sono tali non perché immobili nel firmamento, come credevano gli antichi (o stelle len-
tissime, secondo Tolomeo [Astrol., p. 29]), ma perché non muta la loro posizione relativa re-
ciproca – a differenza delle ‘stelle erranti’ o pianeti –, in quanto il cielo, oltre la fascia zodia-
cale, dentro cui sono immerse, ruota in ventiquattro ore (120.20; v. n. 120.28-9); a causa del-
la loro distanza sono i pianeti a fungere da transponder degli influssi stellari sulla Terra
(Astrol., p. 53; v. n. compl.).
46 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS
Così stanno bene attenti a far accoppiare questi sapienti con donne
di natura vivace, forti e belle. E analogamente gli uomini svegli, ardenti
e di tempra molto focosa ed energica si uniscono con donne grasse e
d’indole placida.
Dicono che la purezza del temperamento, da cui deriva ogni virtù,
non si può acquistare con l’impegno personale, e che gli uomini malva-
gi per natura si comportano bene per timore della legge o di Dio, ma
una volta venuto meno tale timore, o in segreto o apertamente manda-
no in rovina lo stato: donde tutto l’impegno prioritariamente profuso
nell’eugenetica, e nel fare attenzione alle vere disposizioni naturali,
non a ricchezze e fallace nobiltà del casato.
Se una di queste donne non è resa gravida da un uomo, la si accop-
pia ad altri; se alla fine si rivela sterile, è a disposizione di tutti, ma non
le è concesso l’onore delle matrone di sedere nel Consiglio della gene-
razione, nel tempio e in mensa: ciò per evitare che certe donne si pro-
curino la sterilità per fornicare a piacimento. Quelle invece che hanno
concepito restano a riposo per quindici giorni. Quindi si dedicano a
degli esercizi moderati per fortificare il nascituro e aprirgli i canali del
nutrimento, e progressivamente s’irrobusticono intensificando l’atti-
vità fisica. Possono cibarsi solo degli alimenti nutritivi prescritti dai dot-
tori. Dopo il parto loro stesse allattano e allevano i neonati in case co-
muni appositamente adibite: i piccoli sono allattati per due anni e più,
secondo la prescrizione del Fisiologo. Svezzata la prole, la si affida poi
alla cura delle maestre se femmina, dei maestri se maschio. E allora
con gli altri bambini cominciano giocosamente ad esercitarsi allo stu-
dio degli alfabeti e delle figure dipinte, a camminare e a correre, a far
48 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS
lari non hanno alcun valore, se non come materia per far vasi o orna-
menti comuni.
OSP. - Dimmi, dunque: ma chi non è stato eletto a una magistratura o
a un’altra carica ambita, non prova gelosia o dispiacere?
GEN. - Per niente. Tutti infatti sono forniti del necessario, compresi i
piaceri.
La generazione è regolamentata scrupolosamente in vista del bene
pubblico e non privato, e perciò devono obbedire ai magistrati. Essi
non condividono la nostra idea secondo cui è naturale per l’uomo, af-
finché possa riconoscere ed allevare la prole, avere moglie, casa e figli
propri; i Solari affermano invece, come S. Tommaso1, che la generazio-
ne ha per fine la conservazione della specie, non dell’individuo. Di con-
seguenza la riproduzione è di competenza pubblica, non dei privati, se
non in quanto membri dello stato; e poiché per lo più i singoli individui
generano malamente e educano malamente la prole con gravi conse-
guenze per la collettività, allora i Solari con uno zelo religioso l’affida-
no, quale fondamento primo dello stato, alla cura dei magistrati. E la
garanzia dell’identità è fornita dall’appartenenza alla comunità, non al
singolo.
Accoppiano dunque con discernimento i procreatori e le procreatri-
ci dotati di eccellente costituzione. Platone ritiene che queste unioni
debbano esser regolate dal sorteggio, affinché quelli, cui non furono
concesse donne belle, non si rivoltino per gelosia e rabbia contro i ma-
gistrati; e ritiene che bisogna ingannare coloro che non meritano di fe-
condare le più belle, facendo addomesticare dai magistrati i sorteggi
con l’astuzia, in modo da destinare non quelle che a loro piacciono, ma
quelle che a loro si addicono2. Questa astuzia però – per cui a uomini
1
3SCG, 122, ad 4: «Semen autem, etsi sit superfluum quantum ad individui conservationem,
est tamen necessarium quantum ad propagationem speciei»; e naturalmente «bonum speciei
est melius quam bonum individui: quia ‘bonum gentis est divinius quam bonum unius ho-
minis’ ut dicitur Ethica [c. 2, lect. 2]» aristotelica (v. n. 86.1-2).
2
Resp., 459d-460a: «i migliori devono unirsi alle migliori più spesso che possono e, al contrario,
i più mediocri con le più mediocri... E tutto ciò deve avvenire senza che nessuno lo sappia, ec-
cetto gli stessi governanti, se si vorranno evitare al massimo le discordie... Si deve allora ricorre-
re, secondo me, a ingegnosi sorteggi sì che quella persona mediocre incolpi la fortuna per cia-
scuna unione, ma non i governanti» (cfr anche Timeo, 18d). Per l’estrazione a sorte si ricorreva
alle «ballotte» (T.50.14), cioè ai bussolotti, come narra Andreotti, II, p. 269, per le elezioni po-
litiche cosentine nel XVI sec.: «si piglino tante ballotte quante sono persone, e tre di queste sia-
no dorate, e sei d’argento, e si mettono in una cassetta», e dopo si procede al sorteggio.
52 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS
1
«Le donne napoletane portavano al piede delle ‘iscarpette’, ma facevano anche abbondan-
te uso di pianelle lavorate in città al ‘vico dei Pianellari’, al Pendino; avevano la tomaia di
stoffa, a volte anche riccamente ricamata, e la suola di sughero, altissima, fin quasi a farne ve-
ri trampoli» (Leone, p. 47); pur occultati da gonne lunghe rasoterra, questi «piedi di legno»
non riuscivano però a sfuggire alla satira, come quella dell’anonima cinquecentesca Ballata
contro le nuove foggie I, 228: «Più d’un palmo de pianelle/ per la terra vui portate, / per parer
maior e belle / quando per la via passate». Fra i lussi e le mode della vanità femminile, stig-
matizzati da C., le scarpe alte hanno un posto particolare, perché «il soverchio spessore, la
pesantezza e l’altezza delle scarpe impediscono alla donna di esercitare il corpo, ed essa
mentre si muove ha bisogno di un servo cui appoggiarsi come se fosse paralitica... disgustan-
do chi le guarda. Onde per difetto di esercizio corporale divien languida e pallida e ha biso-
gno di nuove artificiali tinte, che la marciscono vieppiù, indeboliscono la prole, contamina-
no e degenerano lo stato. Perciò si diffondono, in pubblico e in privato, costumi imbellettati
e falsi, esempi turpi... Di contro vedi come le Calabresi, che non portano sandali spessi e non
si truccano, né stanno mai in ozio, hanno corpi grandi, agili, robusti, di carnagione vivace.
Perciò una madre di famiglia eliminerà tali cose da casa sua come la peste, per tutti i benefi-
ci che a lei, la famiglia e lo stato ne seguiranno. Per evitare di incorrere in questo male l’uni-
co rimedio è far sì che le donne siano continuamente applicate ad arti utili, e mai vivano in
ozio» (Oecon. III III, p. 199-202). Consiglia pertanto scarpe non più alte di un dito, non stret-
te, ma ben chiuse per proteggere dall’acqua, e piatte, come le basi delle statue: «ridiculi et
casui [=caduta] expositi sunt, qui tuberatos [=spessori] subter gerunt» (Medicina, p. 63-4).
Prima che moda abbellitiva, per il fittizio aumento di statura, gli ‘stomachevoli’ trampoli (o
calcagnini, copine, tapine) ideati originariamente dalla pretestuosa necessità di proteggersi
dal fango e dagli escrementi delle strade (Goretti, p.196), o, in Spagna, adottati come espe-
diente preventivo e coattivo anti-adulterio (calzando queste ‘pianelle di castità’ così alte e
scomode, era impedito alle donne non solo di fuggire, ma, come rileva lo stesso C., anche so-
lo per camminare era necessario appoggiarsi a una persona, ovvero a un custode, guardia del
corpo e sorvegliante insieme), in Italia (e in particolare a Venezia) divennero bersagli insie-
me di satira e di «infamia, a causa dello speciale incitamento alla lascivia sotteso dall’andatu-
ra sinuosa e ‘pompeggiata’ cui obbligavano» (Goretti, p. 197).
54 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS
* Decretum Gratiani, Causa XII, q. 1, Comma II: «Dilectissimis...», incipit del De com-
muni vita di S. Clemente.
1
Gli astragali sono dadi a quattro facce ricavati originariamente dall’omonimo osso del pie-
de del montone; se ne lanciavano quattro contemporaneamente e vinceva chi totalizzava il
punteggio più alto. La trottola è una specie di cono di legno con intorno avvolto un filo che
si tira violentemente per farlo girare il più a lungo possibile; essa sostituisce il «rollo» di
T.56.19, gioco questo di gran lunga più movimentato, perché si trattava di far rotolare a lun-
go un disco di legno (secondo Bobbio e Firpo; secondo il GDLI, che cita il passo di Città, si
tratta del gioco dei birilli). Presumo che la sostituzione sia stata dettata dalla maggior diffu-
sione della prima e dalla mancanza di un lemma latino corrispondente per il secondo (v. n.
compl.).
58 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS
1
At. 2,44: «Tutti i credenti stavano insieme e avevano tutto in comune» (e così anche 4,32).
Dopo la resurrezione, Cristo riapparve trasfigurato agli Apostoli, i quali «videro il regno
quando fu fondata sopra di essi la Chiesa con ogni spirituale felicità possibile in terra... dove
aspiriamo a una comunanza di vita [=communitatem vitae] quale conviene allo stato di in-
nocenza e al secolo aureo» (Theol. XXV, p. 51); anzi uno degli evangelisti, Marco, a sentire Fi-
lone, fondò una «republica mirifica» ad Alessandria (Quod rem. 3, p. 117; Quaest. pol. III,
p.102). «S. Clemente nel citato canone afferma: “le mogli secondo la dottrina degli Apostoli
devono essere comuni”. Ma siccome questo [principio] urta l’onestà dei cristiani, si deve ac-
cettare la glossa ivi apposta: “Per quanto concerne il servizio [= obsequium] non il letto”; a
conferma di ciò Tertulliano attesta che così sono vissuti i primi cristiani, cioè avevano tutto in
comune (salvo le donne per quanto riguarda il letto); è evidente infatti che possono svolge-
re [=ministrare] tutti i compiti... Sostengo la comunanza nelle funzioni [=functionibus], sal-
vo il governo politico... La nostra Città è totalmente coerente al modello apostolico, se sosti-
tuisci alla comunanza sessuale la comunanza obsequiorum muliebrium» (Quaest. pol. IV III,
pp. 108 e 112; tr. Ernst, p. 173: «la comunità delle donne quanto all’ossequio»). La frase di S.
Clemente, che però si riferiva ai pitagorici (tra amici «in omnibus autem sunt sine dubio et
coniuges» [v. nn.25.1 e 56.43-4]), è così glossata (da Bartolomeo da Brescia [Ernst 1997a, p.
25]): «E le mogli, non carnalmente, ma nel servizio [= ad usum obsequii] o nel diletto». ‘Ob-
sequium’ è il ‘servizio’ o ‘dovere’ (e, al limite, ‘culto’) fra persone aventi un rapporto non pa-
ritario; ma la disparità fra chi serve e chi è servito è qui molto sfumata, per evidenziare la po-
tenziale partecipazione delle donne a (quasi) tutte le funzioni sociali della ‘communitas’ (v.
n. compl.).
2
Apolog. XXXIX (PL I, 535): «da noi tutto è indiviso salvo le mogli», disprezzando (appellando-
li «lenones») invece proprio i poco oltre citati «Socrate per i Greci e Catone per i Romani, i qua-
li cedettero agli amici le mogli che avevano sposato»; anche nell’Epitome XXXIII (XXXVIII), 1-5,
Tertulliano si scaglia contro l’assunto della Repubblica platonica che «tutto fosse comune a
tutti», replicando le motivazioni probabilmente di Cicerone, De rep. IV, 5.
3
A 42.4 sg., per la coppia di ‘generatori’ programmati dallo stato (50.7 e 24 sg.; v. n. compl.).
4
Quaest. pol. IV III, p. 112: «Ortensio o Catone, uomo molto saggio e dotto, concesse sua mo-
glie a Bruto, per aver un figlio da lei, quasi che quell’inflessibile stoico giudicasse in base alla
[sola legge di] natura che ciò avvenisse per carità naturale» – dove C. stravolge un aneddoto
plutarchiano sulla vita di Catone uticense: Q. Ortensio chiede a Catone di concedergli la fi-
glia Porcia, già maritata a un altro; ma Catone risponde che non può disporre di chi non ap-
partiene più «sua potestate»; allora Ortensio gli chiede sua moglie, Marcia, e Catone a quel
punto dovette concedergliela. Per quanto riguarda Platone, si riferisce alle teorie espresse in
Resp. (segnatamente 457c-d); e per Socrate, all’episodio narrato da Diogene (II, 5, 26), se-
condo cui gli toccarono due mogli, quando per crisi demografica Atene aveva provvisoria-
mente permesso la bigamia (Gellio, XV, 20).
60 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS
stare che lassassero questo uso sed, ut dicis, male intellecti. Aiunt* S. Augu-
un giorno, perché nelle città stinum communitatem approbare magis,
soggette a loro non accomu- sed non foeminarum, quia est haeresis Ni-
nano se non le robbe, e le don- colaitarum, in thoro; ecclesiam autem no-
ne quanto all’ossequio e al- 5 stram permisisse, ut maius malum vitaret et
l’arti, ma non al letto; e que- non ut maius bonum introduceret, proprie-
sto l’ascriveno all’imperfezio- tatem bonorum. Fieri posset ut quandoque
ne di quelle che non hanno hunc morem deponerent: nam in civitati-
|13r> filosofato. Però vanno bus subditis non sunt communia nisi bona
spiando di tutte le nazioni 10 alia, mulieres vero minime, nisi quoad obse-
l’usanze, e sempre migliora- quium et artes. At Solares id adscribunt im-
no. perfectioni aliorum, quia philosophati mi-
nime fuerint. Nihilominus** mittunt ad ex-
plorandum mores nationum et meliores
15 semper amplectuntur.
Consuetudo quidem aptas bello mulieres
facit et aliis usibus. Itaque Platoni consen-
1
«L’eresia dei Nicolaiti consistette in questo: ognuno poteva unirsi come e con chi gli pare-
va; ma ciò è contrario al diritto naturale, e guasta la generazione» (Quaest. pol. IV III, p. 112;
Theol. XXV, p. 93; v. n. compl.).
2
Domingo de Soto, domenicano e teologo-giurista a Salamanca nel XVI sec., in De iustitia et iu-
re IV III I, p. 304, sostiene che ‘Haeresis est negare rerum divisionem’ rinviando ai passi aristo-
telici, all’agostiniano De haeres., 40 [PL XLII, 32] e alla condanna di Hus da parte del Concilio
di Costanza (v. n. 154.13), per confutare la naturalità della comunanza dei beni, facendo risa-
lire la nascita della proprietà privata all’origine del creato quando Adamo divise il mondo ai
suoi successori. In un’altra opera (Comment. in IV Sentent., dist. 26, q. 1, art. 1 ‘Utrum matri-
monium sit hominibus naturale’ [II, 82-5]) combatte la promiscuità della ‘republica socrati-
ca’, che «merito Aristotelem multis nominibus repudiasse» (v. n.compl. e n. 60.4-6).
3
Originariamente scritto in italiano (1607), e intitolato Riconoscimento della vera religione
(Schoppe, p. 25; Lettere, p. 192: «Recognitio verae religionis contra l’anticristianismo, praecipue mac-
chiavellistico»), il volume fu dedicato e inviato a Schoppe, che lo reintitolò Atheismus
triumphatus, «titolo che piacque a C. e fu conservato in fronte all’opera» (Firpo 1940, p. 101)
pubblicata in latino prima a Roma nel 1631, e poi, revisionata, a Parigi, nel 1636; opera che
l’Au. chiama anche, a volte (es. Poët. VI III [SL, p. 1024]) Antachitofellismus (sintesi del finale di ti-
tolo latino: ‘contra antichristianismum Achitophellisticum’), a volte (es. Aforismi, p. 152) Anti-
machiavellismo (sintesi dell’italiano ‘contro l’anticristianesimo machiavellistico’). In questo libro
Machiavelli è accusato dei guasti prodotti nella politica e nella religione cristiana, avendo basato
«la ragion di stato sull’amor parziale» (Lettere, p. 26), cioè l’egoismo, e, con la mortalità dell’ani-
ma e l’eternità del mondo, ha ridotto la religione a mero ‘instrumentum regni’. Il passo cui qui
si allude è in Atheismus X XIII, p. 117, replicante la spiegazione pseudotomista dell’avversione
agostiniana agli ‘apostolici’: ‘mio’ e ‘tuo’ sono la radice di ogni male; la divisione dei beni è il
male minore a cui si è dovuto ricorrere; ma certo Agostino non condanna «qui se dicebant Apo-
stolicos propter communitatem bonorum (hoc enim haereticum est assistere)», ma «propter
communitatem mulierum» (v. n. compl.).
62 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS
Di più questo è bello, che tio, ex quo istas vidi, et rationes Caietae*
fra loro non c’è difetto che fac- nostri non satis approbo, minime vero ari-
cia l’uomo ozioso, se non l’età stotelicas.
decrepita, quando serve solo Hoc egregium est illis, imitatione di-
per conseglio. Ma chi è zoppo 5 gnum, quod nullus defectus ociosos reddit
serve alle sentinelle con l’oc- homines, excepta decrepita aetate, quando
chi; chi non ha occhi serve a etiam adconsulendum adhibentur. At qui
cardare la lana e levar il pelo claudus est, servit in excubiis speculans ocu-
dalli nervi delle penne per li lis, quos habet; qui caecus est, carminat ma-
matarazzi; chi non ha mani, 10 nibus lanam, exspoliando plumas pilis qui-
ad altro esercizio; e s’un mem- bus replentur anaclinteria et pulvinaria; qui
bro solo ha, con quello serve; caret oculis et manibus, usum aurium reipu-
ma questi stanno (se non so- blicae commodat vel vocis etc.; et tandem si
no illustrissimi della Città) unum modo membrum habet, cum illo ser-
nelle ville, e sono governati 15 vit vel in villis, et bene tractantur et sunt ex-
bene, e son spie ch’avisano al- ploratores rempublicam admonentes quae-
la republica ogni cosa. cunque audierint.
OSP. - Dimmi ti prego per HOSP. - Dic, quaeso, nunc rem belli- De re
ora della guerra; ché poi del- cam; deinde enim artes et victum dices bellica
l’arti e vitto mi dirai, poi delle 20 et scientias et postremo ipsorum reli-
scienze, e al fine della religione. gionem. |156>
GEN. - Il Podestà tiene sot- GEN. - Potestas triumvir sub se habet ma-
to di sé un officiale dell’armi, gistrum armorum, magistrum artilleriae et
dell’artelleria, un delli cava- equitum et peditum et architectorum et
lieri, un dell’ingegnieri; ed 25 stratagematum etc., et horum cuilibet pa-
ognun di questi ha sotto di sé rent magistri et artifices primarii multi eiu-
molti maestri di quell’arte. sdem artis. Insuper athletis praeest, qui mi-
Ma di più ci sono l’Atleti, litare exercitium docent omnes; et hi, pro-
ch’a tutti insegnano l’eserci- vecti aetate, prudentes duces sunt, a quibus
zio della guerra. Questi sono 30 exercentur pueri post duodecimum an-
attempati, prudenti capitani, num, quamvis ante assueti sint luctae, cur-
ch’esercitano li giovani di do- sui, iaculationi lapidum etc. sub magistris
dici anni in suso all’armi; inferioribus. Nunc autem docentur ferire
benché prima nella lotta e cor- hostem et equos et elephantos, tractare en-
rere e tirar pietre erano avezzi 35 sem, lanceam, sagittas, fundas, equitare,
da mastri inferiori. Or questi persequi, fugere, manere in ordine militiae,
l’insegnano a |13v> ferire, a adiuvare commilitonem, arte praevenire
guadagnar l’inimico con ar- hostem ac vincere. Mulieres quoque has do-
te, a giocar di spada, a saet- centur artes sub magistris et magistrabus
tare di lancia, a cavalcare, a 40
sequire, a fuggire, a star nel-
l’ordine militare. E le donne
imparan’anch’esse quest’arti
sotto maestre e mastri loro, * Caieta Consentinus in dialogo De pulchro.
LA CITTÀ DEL SOLE 63
pieno con Platone, e, per contro, dissento del tutto dal nostro Gaeta*, e
ancor più, invero, da Aristotele.
Quel che è veramente apprezzabile nei Solari, e degno d’imitazione,
è che nessun difetto fisico è un pretesto valido all’inattività, tranne l’età
molto avanzata – i vegliardi però si prestano ancora a dare consigli. Ma
chi è zoppo è utilizzato nei servizi di sorveglianza, potendo usare gli oc-
chi di cui è dotato; chi invece è cieco, con le mani carda la lana o spiu-
ma le penne con cui s’imbottiscono materassi e cuscini; chi è privo di
occhi e mani serve lo stato con le orecchie o la voce ecc., e se ha anche
soltanto un arto, con quello serve, ad esempio in campagna; e vengono
trattati bene; e sono anche spie che riferiscono allo stato quel che han-
no ascoltato.
OSP. - Parlami adesso, per favore, dell’organizzazione militare; L’arte
poi delle arti, del vitto, delle scienze e in ultimo della loro religione. militare
GEN. - Il triumviro Potestà ha sotto di sé il maestro d’armi, quello
dell’artiglieria, della cavalleria, della fanteria, del genio, della tattica
ecc.; e a ciascuno di essi obbediscono molti mastri e ufficiali della stessa
specializzazione. Inoltre egli è a capo degli atleti, i quali insegnano a
tutti le esercitazioni militari; e questi, in età avanzata, diventano i capi
avveduti sotto cui si esercitano gli adolescenti dai dodici anni in poi; pri-
ma di quell’età, comunque, i fanciulli erano già stati allenati alla lotta,
alla corsa, a lanciar pietre ecc. dai maestri inferiori. Ma adesso devono
imparare a colpire l’avversario, i cavalli, gli elefanti1, a maneggiare la
spada, la lancia, l’arco, la fionda, a cavalcare, inseguire, ripiegare, stare
inquadrati, soccorrere il compagno, superare il nemico in abilità e
sconfiggerlo. Anche le donne imparano queste arti sotto la guida di lo-
1
Da ultimo Botero, II II II parla della loro presenza a Ceylon (anche se probabilmente più
che geografica, sarà una reminiscenza storica – Pirro, Annibale...).
2
Nato da famiglia patrizia, Giacomo Di Gaeta o Jacopo da Gaeta «è dottor di legge, ma è
molto intendente delle lingue [greca e latina], et della poesia, et della philosophia telesiana»
scrive di lui G. G. de Rossi nella Tavola degli autori delle Rime per la Castriota (Vico Equense,
1585, cit. in: Bolzoni 1977, p. 236). Il dissenso, come chiarisce in Quaest. pol. IV (v. n. 62.1-3),
riguarda l’attitudine muliebre alla guerra, negato dal Cosentino nel Ragionamento, p. 71-5,
dove dice che Platone era «fuorviato dalle favole sulle Amazzoni» (Ernst 1996, p. 149), men-
tre il taglio della mammella da loro praticato era la miglior prova della inidoneità a dare la
morte da parte di chi la natura aveva destinato a generare la vita (le Amazzoni antiche sono
ammirate a 64.5, le moderne sono deprecate a 150.12: v. n. 152.12-4; per il Gaeta v. n.
compl.).
64 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS
essi, che non a’ propri Reggi. priis regibus: quapropter saepe bellum in
Onde spesso lor’è mossa guer- hos movetur, causando quod confines usur-
ra, sotto color d’usurpar con- parint et impie vivant, propterea quod non
fini e di viver empiamente, habeant idola, nec sectentur superstitiones
perché non segueno le super- 5 Gentilium aliorum, nec Bragmanorum pri-
stizioni de Gentili, né dell’al- scorum. Et tanquam in rebelles insurgunt
tri Bragmani; e spesso li fan alii Indi, quibus prius subditi erant, et Ta-
guerra, come rubelli che pri- probanenses, quibus primo indiguerunt;
ma erano soggetti. E con tutto nihilominus victores sunt semper Solares.
questo perdeno sempre. Or es- 10 Porro hi, cum primum patiuntur insultum
si Solari, subito che patiscono aut dedecus aut praedam vel ipsorum amici
preda, insulto o altro disono- vexantur aut ab aliis civitatibus tyrannide
re, o son travagliati gl’amici oppressis tanquam liberatores advocantur,
loro, o pur son chiamati d’al- repente in Concilium eunt consultum. Ubi
cune città tiranneggiate come 15 primo coram Deo genuflectunt, ut inspiret
liberatori, essi si metteno a consilium optimum. Deinde examinantur
consiglio, e prima s’ingenoc- merita negotiorum et sic indicitur bellum.
chiano a Dio e pregano che li Mittitur statim sacerdos, quem vocant Fo-
faccia consigliarsi bene, poi rensem. Hic petit ab hostibus praedae resti-
s’esamina il merito del nego- 20 tutionem aut ut solvant oppressione suos
zio, e cossì se bandisce la amicos aut deponant tyrannidem: quibus
guerra. Mandano un sacer- negantibus indicit bellum invocando Deum
dote detto Forense: e’ diman- ultionum, Deum Sabaoth, in exitium eo-
da a’ nemici che rendan’il rum qui iniquam tuentur causam. Si vero
tolto o lascino la tirannia; e 25 detrectant respondere hostes, sacerdos dat
se quelli negano, li bandisco- illi terminum respondendi horam unam, si
no la guerra, chiamando Dio rex est, tres vero, si respublica, ne illudere
delle vendette in testimonio queant. Ac ita suscipitur bellum contra con-
contro di chi ha il torto; e se tumaces iuris naturalis et religionis. Indicto
quelli prolungano il negozio, 30 bello, omnia exequitur Vicarius Potestatis.
non li danno tempo, s’è re, Potestas autem, quasi dictator Romanus,
più d’un’ |14v>ora, e s’è re- omnia proprio agit consilio et voluntate, ut
publica, tre ore a deliberar la tarditas noxia vitetur. At cum res magni mo-
resposta, per non esser burla- menti fuerit, consulit Hoh et Sapientiam et
ti; e così si piglia la guerra se 35 Amorem. Sed ante in Concilio magno pro-
quelli son contumaci alla ra-
gione. Dopo ch’è pigliata,
ogni cosa esequisce il locote-
nente del Podestà; ed esso co-
manda senza consiglio d’al- 40
tri; ma s’è cosa di momento,
domanda il Amore e ‘l Sa-
pienza e il Sole. Si propone in
Consiglio grande, dov’entra
LA CITTÀ DEL SOLE 67
spesso muovono guerra contro di loro, con il pretesto che hanno scon-
finato o che vivono empiamente – perché i Solari non hanno idoli, né
seguono le superstizioni di altri pagani o degli antichi Bramini. Inoltre,
trattandoli da ribelli, guerreggiano contro di loro sia altri Indiani, di cui
prima erano stati sudditi, sia gli stessi Taprobanesi, al cui aiuto inizial-
mente avevano fatto ricorso; eppure i Solari ne escono sempre vincitori.
Essi, appena subìta una provocazione, un affronto, una razzia, o se i
loro alleati sono attaccati, o appena sono chiamati da altre città per li-
berarle dalla tirannide da cui sono oppresse, immediatamente si riuni-
scono in Consiglio. Lì, per prima cosa s’inginocchiano davanti a Dio, af-
finché ispiri loro la decisione migliore. Quindi si entra nel merito delle
questioni e si aprono le ostilità in questo modo: anzitutto si manda un
sacerdote chiamato Forense1; questi richiede ai nemici la restituzione
del bottino razziato, o la cessazione delle persecuzioni contro i loro al-
leati, o l’abbattimento del regime tirannico; se rifiutano, egli dichiara
guerra, invocando il Dio delle vendette, il Dio degli eserciti, a sterminio
di chi parteggia per l’ingiustizia. Se poi i nemici tergiversano, il sacer-
dote esige la risposta entro un’ora, se è un regno (tre, se repubblica)2,
affinché non s’illudano di poterli raggirare. E così si fa la guerra a chi si
pone fuori del diritto naturale e della religione. Dichiarata la guerra, la
conduzione passa al Vicario di Potestà. Il Potestà invece, analogamente
al dittatore per i Romani, decide tutto autonomamente, onde evitare ri-
tardi fatali. Se però si tratta di una questione particolarmente grave,
consulta Hoh, Sapienza e Amore. Ma dapprima al Gran Consiglio, dove
1
È l’equivalente di ‘Feziale’ o ‘Feciale’, uno dei venti membri di un collegio di sacerdoti ro-
mani cui era affidata la difesa del diritto internazionale (cit. in Mon. Messiae XVII, p. 81 e Di-
sc. univ. XII, p. 1144: «l’abbia [=la guerra] a dechiarar giusta, come usavano i Romani con
consenso de’ sacerdoti», e «s’il feciale non bandia la guerra, non l’imprendeano, come fu a
tempo di Coriolano» [Avvertimenti, p. 454]); i quali sacerdoti con determinate cerimonie
consacravano trattati di pace, alleanze, impedivano le guerre ‘empie’, o viceversa chiedevano
soddisfazione agli stati che avevano rotto i patti, offeso o danneggiato i Romani, e quando
questa veniva negata, aprivano le ostilità (Varrone; Cicerone, De rep. 3,22 e De leg. 2,21; Livio,
1,24,3sg; Gellio, XVI, 4).
2
«Nota che tutte le repubbliche sono tarde in deliberare, per gli molti consigli» (‘A Venezia’
[Poesie, 38, Esp. 13]).
68 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS
1
Propriamente l’‘efippio’ è una sella primitiva formata da una coperta ripiegata, o meglio,
secondo l’unica attestazione italiana registrata dal GDLI (Colonna, Hypnerotomachia, 28-9),
«drappo per cavalcatura» (Pozzi, II, s. v.); in questo caso allude più specificamente al ‘quarto’
o ‘quartiere’: «ciascuna delle due ampie e forti pezze di cuoio che pendono ai lati dell’arcio-
ne e su cui poggiano le ginocchia del cavaliere» (GDLI).
2
Cicno (così Graves, p. 697) si chiama sia un figlio di Ares, ucciso con la clava, ma da Ercole
(Esiodo, Lo scudo di Ercole, 57-138 e 318-480); sia un figlio di Poseidone, che a Troia si scontrò
con Achille e fu ucciso però non con la clava, ma strangolato (Ovidio, Metam. XII, 138-44).
Per Amerio, l’Au. deve aver confuso i due miti; invece C. ha presente proprio il mito ovidia-
no, sia perché all’epoca notissimo (nel Furioso XXIX, 19 Rodomonte fece a Isabella tutti gli
scongiuri «che far lo può qual fu già Cigno e Achille»; Della Porta, Fisonomia V X, p.809: «Fin-
gono i poeti Cigno, figlio di Nettuno, esser stato ammazzato da Achille»), sia perché non è
tanto a quei versi che pensa, ma a quelli immediatamente precedenti, quando Achille lo in-
calza e percuote con l’elsa della spada, usata quindi alla stregua quasi di una clava: dopo vari
inutili tentativi di trafiggerlo con la lancia, Achille «percosse con l’elsa tre o quattro volte il
volto e le tempie dell’uomo che gli stava davanti; quello arretrava e lui lo incalzava e imper-
versava, piombandogli addosso e stordendolo, senza dargli tregua» (p. 132-5).
72 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS
1
Bisogna fare in modo che le staffe, pur restando saldamente agganciate alla sella tramite gli
staffili (= corregge di cuoio), nello stesso tempo possano ruotare onde tirare e rilasciare le re-
dini incrociate. Il ‘segreto’ sta nella staffa. Vista in sezione frontale, essa ha il profilo di un
cerchio circoscritto a un triangolo; infatti è costituita da un largo anello cavo, e probabil-
mente anche un po’ concavo esternamente, cioè con i due orli esterni rialzati – e dunque un
rocchetto –, dentro il quale è fissato un sostegno di forma triangolare, che permetta al piede
di cambiare l’angolazione d’appoggio, cioè di premere su uno dei tre lati. In tal modo, in
teoria, con i piedi si può stringere, allentare o lasciar invariate le briglie. Queste sono fissate
ad una estremità esterna del rocchetto, per cui, ruotandolo, le redini incrociate si avvolgono
o svolgono; la staffa, a sua volta, è accalappiata agli staffili attraverso un loro terminale ad
anello, piuttosto largo o sdoppiato, che permetta di sostenerla senza impedire la rotazione
del rocchetto. Con qualche lieve ritocco si è sostanzialmente accolta la spiegazione di Firpo,
più convincente di quella di Bobbio. Inoltre è sospettabile un refuso di P. rispetto a Fr., per-
ciò, con Crahay, p.142, si è corretto l’«inferius» di r. 2 con ‘interius’, non solo perché in op-
posizione logica col precedente «exterius» (T.72.2: «di fuori la sfera e dentro il triangolo»),
ma anche perché il triangolo ‘inferiormente’ alla staffa sferica non avrebbe alcuna funzione.
C. aveva trattato quest’artifizio nel Trattato dell’arte cavaglieresca [1596, perduto]: «far che li
soldati a cavallo adoprino ambe le mani senza tener la briglia e guidar bene il cavallo per
ogni verso meglio ch’i Tartari» (Firpo 1939a, p.472; Firpo 1947, p.82); e poi in: Lettere, pp. 28,
161, 174, 411; in Art. proph., p. 277 dice che l’ingresso dell’apogeo di Mercurio in Sagittario
(in Scorpione a 136.16), tra le altre invenzioni, sarà generoso «praecipue pertinentium ad
equestrem ordinem».
74 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS
per molti giorni sono esenti et honores impartiuntur, qui et plures dies
dalle fatiche publiche. Ma es- vacant a laboribus publicis: quod nec illis
si l’hanno a male, ché non placet nimis, quoniam nesciunt ociosi esse
sanno star oziosi e aiutano itaque opem ferunt amicis. E contra autem
l’altri. All’incontro quelli che 5 qui propria culpa victi sunt aut victoriam
per loro colpa han perduto, si amiserunt, vituperio excipiuntur, et qui pri-
riceveno con vituperio, e chi mus fugam arripuit, mortem evadere nullo
fu il primo a fuggire non può pacto valet, nisi cum totus exercitus eius vi-
scampar la morte, se non tam poscit et singuli partem poenae in se
quando tutto l’esercito di- 10 recipiunt. Ac raro admittitur ad hanc indul-
mandi la sua vita, e ognuno gentiam, nisi ubi rationes multae illi favent.
piglia parte della pena. Ma Qui vero socio aut amico non tulit oportu-
poco s’ammette tal’indulgen- nam opem, virgis caeditur. Qui inobediens
za, e se non v’è gran ragione. fuit, traditur bestiis devorandus intra quod-
Chi non aiutò l’amico o fece 15 dam vallum, daturque baculus in manu
atto vile, è frustato; chi fu di- eius; et si vicerit leones et ursos, qui ibi sunt,
sobediente, si pone a morire quod fere impossibile est, recipitur denuo
dentro un palco di bestie con in gratiam.
un bastone in mano, e se vin- Civitates subiugatae aut ultro illis datae
ce li leoni e l’orsi, ch’è impos- 20 confestim omnia in communi reponunt,
sibile, torna in grazia. |158> praesidium et magistratus Solares ac-
Le città superate o date a cipiunt, ac paulatim assuescunt moribus Ci-
loro subito metteno ogni |16v> vitatis Solis, magistrae omnium, ad quam
cosa in comune, e riceveno etiam filios docendos mittunt, nihil pro ex-
l’officiali solari e la guardia, 25 pensis contribuendo.
e si van sempre acconciando Operosum esset narrare de exploratori-
all’uso della Città del Sole, bus et magistro ipsorum et excubiis et de or-
maestra loro; e mandano li fi- dinibus ac ritibus intra et extra civitatem,
gli ad imparare in quella, quae ex te potes cogitare, quia eliguntur a
sensa contribuire a spese. 30 pueritia iuxta inclinationem et constellatio-
Saria lungo dirti del ma- nem, in ipsorum genituris inspectam. Qua-
stro delle spie e sentinelle, del- propter singuli operantes iuxta naturalem
l’ordini loro fuori e dentro la propensionem suam bene tractant ministe-
città, che te li puoi pensare, rium suum et iocunde, quia naturaliter.
ché sono eletti da bambini se- 35 Idem dico de stratagematis et aliis functio-
condo l’inclinazione e costel- nibus etc. Excubiae fiunt in civitate diuque
lazione vista nella genitura
loro. Ond’ognuno, operando
secondo la proprietà sua na-
turale, fa bene quell’esercizio 40
e con piacere per esserli natu-
rale; così dico delle stratagem-
me e altri. La Città di notte e
di giorno ha le guardie nelle
LA CITTÀ DEL SOLE 75
costoro sono esentati per parecchi giorni dai lavori collettivi, la qual co-
sa loro non garba troppo, perché non sanno stare in ozio, e perciò con-
tinuano ad aiutare i compagni. Invece coloro i quali, per propria colpa,
furono sconfitti o persero un’occasione di vittoria, sono biasimati; a chi
per primo se la diede a gambe, spetta inesorabilmente la pena di morte,
a meno che tutto l’esercito non chieda a gran voce di risparmiargli la vi-
ta ed ogni commilitone sia disposto a scontare una parte del castigo. Ma
raramente si concede una simile grazia, e solo quando parecchi argo-
menti depongono a suo favore. Chi invece non ha debitamente soccor-
so il compagno d’armi o l’amico è frustato. Chi ha disobbedito, è con-
dotto, armato solo di un bastone, in un recinto di belve per esser divo-
rato; e se, per un caso, è capace di vincere i leoni e gli orsi ivi racchiusi,
cosa pressoché impossibile, viene graziato.
Le città conquistate o arresesi spontaneamente mettono subito ogni
cosa in comune, accolgono una guarnigione e i magistrati solari, e pro-
gressivamente assimilano gli usi della Città del Sole, maestra di tutte lo-
ro, presso la quale inviano anche i propri figli a studiare gratis.
Sarebbe laborioso riferirti delle spie e del loro maestro, delle senti-
nelle, e di quelle disposizioni e pratiche1 dentro e fuori la città che ti
puoi facilmente figurare. A tali incarichi i cittadini sono destinati fin
dall’infanzia secondo l’inclinazione e la costellazione che presiedette
alla loro genitura; perciò, assecondando la propria tendenza naturale,
ciascuno compie il suo dovere con zelo, e anche con gioia, essendo in
sintonia con la sua indole. Lo stesso dicasi dei maestri di stratagemmi, e
di altre funzioni militari. Le sentinelle sono di guardia notte e giorno al-
1
Si riferisce in generale alle pratiche e ordinamenti solari? O specificamente a quelle milita-
ri di sorveglianza? In base a quanto segue immediatamente, si direbbe che il Genovese stia fa-
cendo una digressione di carattere generale circa le inclinazioni di ogni Solare per una spe-
cifica attività (civile o militare che sia); se invece si tiene conto dell’intera risposta, si vedrà
che il tema trattato è sempre l’organizzazione militare, e quindi la dittologia ablativale è da
intendersi presumibilmente come: ‘l’organizzazione militare’, fra le cui molteplici funzioni
si esaminerà poco oltre (74.36) quella relativa alle misure di sorveglianza.
76 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS
1
Non essendoci proprietà privata di cose o persone, quelle possono essere le uniche cause di
litigi.
2
Sembrerebbe più sensato il «severamente» di T.76.29, ma la ‘lectio difficilior’ «secretamen-
te» del solo, ma autorevole L. è da preferirsi, avallato anche da Oecon. III III, p. 199: se la mo-
glie pecca per ignoranza, il marito la deve «admonere clam»; e, più attinentemente, per quel
che consiglia Machiavelli: «se nasce una sedizione o discordia tra’ soldati», bisogna «gastiga-
re i capi degli errori; ma farlo in modo che tu gli abbia prima oppressi che essi se ne siano po-
tuti accorgere» (VI, p. 591). Tuttavia la punizione segreta parrebbe in contrasto con il prin-
cipio appena enunciato (v. n. 74.8-10) della collettivizzazione della pena – e quindi della sua
massima pubblicità.
78 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS
OSP. - Bella cosa per non fo- HOSP. - Operae praetium, ne De opificio
mentare fazioni a ruina della factiones foveantur in patriae per-
patria e schifar le guerre civili, niciem ac civilia bella extinguantur, ex
onde nasce il tiranno, come fu quibus oritur tyrannus saepe, veluti Roma
in Roma ed Atene. Narra ora, 5 et Athenae admonent. Nunc ipsorum, rogo,
ti prego, dell’artefíci loro. dic opificia etc.
GEN. - Devi aver inteso co- GEN. - Audisse te credo, quo pacto com-
me comun’è a tutti la militare, munes sunt illis ars militaris, agricultura, pa-
l’agricoltura, la pastorale storalis: quilibet enim has nosse tenetur,
ch’ognuno è obbligato a saper- 10 quas in primo nobilitatis gradu celebrant.
le: queste sono le più nobili tra Attamen qui plures callet artes, nobilior ha-
loro; ma chi più arti sa, più betur et ad discendam artem is addicitur,
nobile è, e nell’esercitarla quel- qui aptior est ad ipsam. Artes operosiores
l’è posto, che più è atto. E l’ar- sunt apud eos laudabiliores, veluti ferraria,
ti fatigose son di più laude, 15 aedificatoria etc. ac nemo aggredi ipsas de-
com’il ferraro ed il fabricatore; trectat eoque magis quod in ipsorum genesi
e non si schifa nullo a pigliar- propensio patet; et inter eos ob laborum di-
le, tanto più che nella natività stributionem nemo laborem adit destructi-
loro si vede l’inclinazione, e vum individui, sed conservativum modo. Ar-
|17v> tra loro, per lo comparti- 20 tes operosae minus foeminarum sunt. Nos-
mento delle fatiche, nullo vie- se natare omnes tenentur et hanc ob rem
ne a participare fatica distrut- sunt piscinae extructae extra moenia civita-
tiva dell’individuo, ma solo tis et intra prope fontes.
conservativa. L’arti di manco Mercatura illis exiguum praestat usum.
fatica son delle femine. Saper 25 Agnoscunt tamen pretia monetarum et cu-
nuotar’è a tutti necessario, e dunt pecuniam legatorum et exploratorum
vi sono a posta le pescine fuor, gratia, ut pecunia victum comparent. Ex va-
nelli fossi della città, e dentro riis mundi regionibus accedunt ad civitatem
vi son le fontane. ipsorum mercatores, empturi superflua bo-
La mercatura a loro poco 30 na civitatis. Solares autem renuunt pecu-
serve, ma però conoscono il va- niam accipere, sed merces rerum, quibus
lor delle monete, e batteno mo- ipsi carent, accipiunt in communicatione et
neta per l’ambasciatori loro, a saepe emunt pecunia. Ac pueri Solares in ri-
finché possano commutar con sus prorumpunt cum vident mercatores pro
la pecunia il vitto che non 35 parvo pretio tantam mercium copiam elar-
ponno portare, e fanno venir giri; at non ita senes rident. Nolunt a man-
d’ogni parte del mondo merca-
danti a loro per smaltire le cose
soverchie, e non vogliono da-
nari, se non merci di quelle co- 40
se ch’essi non hanno. E se ri-
dono quando vedeno i fan-
ciulli, che donano tanta robba
per poco argento, ma non li
LA CITTÀ DEL SOLE 79
1
Perché si sottolinea la serietà dell’anziano? In un episodio di More, 130 (ispirato a sua volta
dal Nigrinus di Luciano), si narra della venuta di alcuni ambasciatori vestiti sfarzosamente,
ignari del disinteresse utopiano per metalli e pietre preziose, lì destinate, come «nugae», ai
passatempi infantili; un ragazzo, rivolgendosi alla madre, dice: «Guarda, mamma, quel gros-
so bietolone che gioca tuttora con perle e pietruzze quasi fosse ancora bambinello!»; al che
la madre, «tutta seria: - Zitto, figliolo, credo che sia uno dei buffoni dell’ambasciata». Sia le
motivazioni del riso fanciullesco che della serietà degli adulti sono diverse rispetto a CS: men-
tre le due generazioni utopiane prendono due diversi abbagli (ma entrambe restando anco-
rate al loro codice ‘capovolto’), forse l’incongrua serietà del vecchio Solare è spiegabile con
la conoscenza, appunto per esperienza d’età, del codice di valori dell’‘altro’ mondo, quello
del mercato e della proprietà – e della sua contagiosa rischiosità. Suppongo che C. avesse un
ricordo impreciso di questo passo dell’Utopia: una sua valenza (la serietà dell’anziano – che lì
rendeva ancor più arguto il doppio equivoco) è sfumata, se non proprio persa, una volta pas-
sata in CS (cfr., ma con accentuazioni diverse, Moneti, p. 166). C. si limita a un accenno, che,
sia per brachilogia, sia per sua idiosincrasia con la sfera del comico, non può esser gustata ap-
pieno, e senz’altro non quanto la scenetta di More. Infine l’opposizione campan. ‘puer/se-
80 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS
vecchi. Non vogliono che cipiis et advenis civitatem pravis moribus la-
schiavi o forastieri infestino la befactari. Idcirco mercantur in portis et
città di mali costumi; però vendunt quos bello capiunt aut excavandis
vendeno quelli che pigliano in fossis aut operosis laboribus extra civitatem
guerra, o li metteno a cavar 5 ipsos destinant, quo perpetuo quatuor mili-
fossi, e far esercizi faticosi fuor tum agmina mittuntur ad custodiam agro-
della città, dove sempre vanno rum, ac simul laboratores, ex quatuor por-
quattro squadre de soldati a tis, quae vias habent lateribus constructas
guardar il territorio e quelli usque ad mare ut facile res conducantur et
che lavorano, uscendo dalle 10 advenae non impediantur, quibus sane iu-
quattro porte, le qual’hanno le cundi sunt ac munifici.
strade de mattoni sin al mare Tribus diebus publicis expensis De hospitio
per condotta delle robbe e faci- alunt eos, lavant pedes ipsorum exhitio
lità delli forastieri, alli quali primo, ostentant civitatem et ordi- exhibendo
fanno gran carezze: li danno 15 nem ipsius, Concilio et mensa pu-
|18r> da mangiare per tre blica eos secum dignantur; et sunt viri de-
giorni, li lavano li piedi, li putati ad hospitum curam |159> et custo-
fan veder la città e l’ordine lo- diam. At si velint fieri cives in Republica So-
ro, entrar’in consiglio ed a lis probant eos per mensem in villa et alte-
mensa. E ci sono uomini de- 20 rum mensem in civitate, deinde decernunt
putati a guardarli, e se voglio- et recipiunt eos certis ceremoniis et iura-
no farsi cittadini, li provano mentis etc.
un mese nelle ville e uno nella Agricultura plurimi fit: non De agricultura
Città, e cossì poi risolveno, e li est terrae palmus absque fructu.
ricevono con certe cerimonie e 25 Observant ventos stellasque pro-
giuramenti. pitias. Paucis relictis in civitate, exeunt om-
L’agricoltura è in gran sti- nes armati in campos ad arandum, semi-
ma: non c’è palmo di terra nandum, fodiendum, sarculandum, meten-
che non frutti. Osservano li dum, colligendum, vindemiandum, cum
venti e le stelle propizie, ed 30 buccinis, tympanis et vexillo, et omnia expe-
escono tutti in campo armati diunt paucissimis horis perficiuntque labo-
ad arare, seminare, zappare, res ex arte. Carris utuntur velis su- De carris
metere, ricogliere, vendemiare persparsis, quae vento feruntur
con musiche, trombe, stendar- etiam contrario, artificio mirabili
di; e ogni cosa fanno fra po- 35 rotarum contra rotas, et cum ventus deest,
chissim’ore. E hanno le carra bestia una plaustrum magnum trahit, pul-
a vela, che caminano col ven- chrum visu. Custodes territorii di-
De custodia
to, e quando non c’è vento, scurrunt interim armati semper agrorum
una bestia tira un gran carro per vices. Stercoratione non utun-
– bella cosa! –; e hanno li 40
guardiani del territorio ar-
mati per li campi sempre. Po-
LA CITTÀ DEL SOLE 81
Non vogliono che la Città sia corrotta dai cattivi costumi di schiavi e
stranieri; perciò il commercio si tiene nei porti e vendono i prigionieri
di guerra, o li tengono per scavare fossati o per altri lavori faticosi fuori
dalla città; dove, insieme ai lavoratori, quotidianamente vengono invia-
te a custodia dei campi quattro schiere di soldati dalle quattro porte, da
cui si diramano fino al mare quattro strade pavimentate di mattoni, per
agevolare i traffici e anche l’accesso degli stranieri con i quali si mostra-
no affabili e generosi.
Infatti i forestieri sono mantenuti a spese della colletti- Dimostrazioni
vità per tre giorni: anzitutto lavano loro i piedi, poi gli mo- di ospitalità
strano la Città e la sua organizzazione, li accettano al Consi-
glio e a mensa; e vi sono degli uomini incaricati di proteggerli e pren-
dersi cura di loro. Ma se vogliono assumere la cittadinanza solare, li ten-
gono in prova un mese in campagna e un mese in città; poi, in caso di
ammissione, li accolgono con apposite cerimonie, giuramenti ecc.
In grandissimo conto è invece tenuta l’agricoltura: non vi L’agricoltura
è palmo di terra che non sia coltivato. Osservano i venti e le
stelle propizie. Lasciati pochi abitanti in città, escono tutti in
campagna attrezzati per arare, seminare, zappare, sarchiare, mietere,
raccogliere, vendemmiare, con trombe, tamburi e la bandiera, e tutto
sbrigano in poco tempo e a regola d’arte: si servono di carri con I carri
su una vela spiegata, che marciano anche con venti contrari, at-
traverso un ingegnoso sistema di ingranaggi; e quando il vento
manca, basta un solo animale a trainare un grosso carro – che è proprio
un bello spettacolo. I guardiani nel frattempo sempre a turno Sorveglianza
pattugliano armati i campi1. dei campi
nex’ ha anche una motivazione psicologica: «gli animi leggeri dei fanciulli e delle donne so-
no attratti da beni piccoli e imitazioncelle vane... che facilmente commuovono e divertono il
loro spirito tenue, fluido, sconsiderato, che... gode nell’espandersi, anche senza motivo. In-
vece la gente dotta si rallegra del vero bene e di esempi utili» (Poët. VIII XI [SL, p. 1165-7])
Circa poi lo ‘scambio ineguale’, il dettato testuale sembra ricalcare Diodoro, III III (I, p.
156): la città di Saba era più di ogni altra ricchissima, «conciosia cosa, che nel negotiare del-
le mercatantie, e nel venire facendo i cambi, e baratti, con una delle cose loro di pochissimo
peso, prendono dai mercanti sempre gran prezzo» e perciò hanno vasellami e finimenti tut-
ti d’oro (come i Solari [50.1], seppur per motivi opposti); e infine «accipiunt in communica-
tione» [78.32] contiene un’eco dell’espressione diodorea «in rerum commutatione ca-
piunt».
1
La ragione della presenza di queste guardie campestri (in cui forse il Genovese si è imbat-
tuto poco dopo il suo sbarco [2.12]) forse deriva, oltre che da Platone, Leg., 762a, da una sug-
gestione di Diodoro, V X (I, p.274-7): «Sono intenti i soldati alla difesa della patria con l’ar-
82 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS
me. Pars enim quaedam eius orae a latronibus, qui agricolas per insidias capiunt, infesta est».
Non si accenna mai a predoni che infestano i campi in CS (anche se era fenomeno fin trop-
po diffuso all’epoca, specie al Sud); però fra le cause di apertura di ostilità vi erano anche ac-
cuse di sconfinamento (66.2).
1
«È usanza de’ gran signori dipingere belli cavalli e belli cani e farli vedere alli cavalli e alli
cani quando si fottono perché simili li generassero» (Senso, p. 304; v. n. 82.19-20).
84 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS
1
Sono segnati tutti e tre sulla carta dell’Asia dell’Ortelius: i primi due sono regni della peni-
sola indocinese, corrispondenti all’incirca il primo all’attuale Thailandia (da Singapore alla
Cina), il secondo alla regione delle foci del Mekong e del Dong, a cavallo fra Cambogia e
Vietnam del Sud; se questi sono prossimi a Sumatra, il regno di Calicut, con capitale omoni-
ma (oggi Kozhikode), dove sbarcò Vasco de Gama nel 1498, si trova nella provincia sud-occi-
dentale indiana del Malabar, e quindi è più prossimo a Ceylon (v. n. compl.).
86 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS
GEN. - Essi dicono che pri- GEN. - Ipsi docent prius consulendum es-
ma bisogna mirare alla vita se vitae totius, deinde partium. Idcirco
del tutto e poi delle parti; on- quando civitatem extruxerunt signa fixa po-
de quando edificâro la città, suerunt in quatuor mundi angulis; in horo-
posero i segni fissi nelli quat- 5 scopo Leonem et Iovem a Sole orientalem,
tro |19v> angoli del mondo. Mercurium vero ac Venerem in Cancro, sed
Il sole in ascendente in Leo- prope quod facerent satellitium; Martem in
ne, e Giove in Leone orientale Sagittario in quinta, foelici aspectu aphe-
dal sole, e Mercurio e Venere tam et horoscopum roborantem; Lunam in
in Cancro, ma vicini, che fa- 10 Tauro, quae bene aspiciebat Mercurium et
cean satellizio; Marte nella Venerem, nec tamen quadrato feriebat So-
nona in Ariete, che mirava di lem. Saturnus quartam appetebat domum,
sua casa con felice aspetto l’a- nil tamen laedens Solem et Lunam sed sta-
scendente e l’afeta, e la Luna biliens fundamenta erat. |160> Fortuna
in Tauro, che mirava di buo- 15 cum Algol erat in decima, ex quo ipsi augu-
no aspetto Mercurio e Venere, rabantur sibi dominatus firmitatem et ex-
e non facea aspetto quadrato cellentiam. Porro et Mercurius in bono Vir-
al sole. La Fortuna con il ca- ginis aspectu et absidis, a Luna illustratus,
po di Medusa in decima qua- malus esse non potest; et cum iovialis sit,
si era, ond’essi s’augurano si- 20 ipsorum scientia non mendicat; parum cu-
gnoria, fermezza e grandezza. rant in Virgine ipsum praestolari et co-
E Mercurio, sendo in buono niunctionem. Observant quoque ad robur
aspetto di Vergine e nell’assi- et diuturnitatem vitae singularum positio-
de suo, illuminato dalla Lu- nem stellarum in conceptione, ut dictum
na, non può esser tristo; ma, 25
sendo gioviale, la scienza loro
non mendica; poco si curâro
LA CITTÀ DEL SOLE 87
GEN. - Essi credono che bisogna badare prima alla vita del tutto e poi
a quella delle parti. Perciò quando fondarono la città, indicarono i se-
gni fissi sui quattro angoli del tema oroscopico1: Leone all’Ascendente
con Giove orientale rispetto al Sole, Mercurio e Venere in Cancro, ma
vicini a Giove, in modo da creare una concentrazione planetaria; Marte
in Sagittario in quinta casa, che rafforzava con l’aspetto propizio l’afeta
e l’ascendente2; Luna in Toro, in buon aspetto3 con Mercurio e Venere,
ma senza una sfavorevole quadratura col Sole. Saturno entrava in quar-
ta casa, senza comunque nuocere a Sole e Luna, e anzi era quello che
rendeva stabili le fondamenta. Il punto di Fortuna si trovava in decima
casa congiunto con Algol4, e grazie a questa circostanza essi si augurava-
no stabilità e grandezza di dominio. Inoltre anche Mercurio, in buon
aspetto con Vergine e con il proprio apogeo5, influenzato dalla Luna,
non può esser malefico, anzi, risentendo dell’influsso di Giove, i Solari
non sono costretti ad andare elemosinando il sapere e la conoscenza; si
preoccupano poco di aspettarlo in Vergine e della congiunzione. Os-
servano anche, per determinare il vigore e la longevità degli individui,
la posizione delle singole stelle al momento del concepimento, come
1
‘Angoli’ in accezione astrologica sono i quattro cardini dell’oroscopo: Ascendente, Medium
Coeli, Discendente, Imum Coeli (0°, 90°, 180°, 270°).
2
Marte è il vertice di un triangolo che ha agli altri estremi l’Ascendente e il punto di Fortuna
(in nona casa), essendo il trigono (=120°) l’unico aspetto positivo conciliabile.
3
All’interno della circonferenza zodiacale gli astri situati sulle parallele alla linea dei solstizi
‘si guardano’ (mentre quelli sulle parallele alla linea degli equinozi ‘si ascoltano’ [Tolomeo,
Tetrab. I,15-6]); ma questo termine spesso indica genericamente uno degli aspetti astrologi-
camente significativi.
4
Ogni stella, in base a grandezza e colore, è assimilata a un pianeta, di cui quindi viene a con-
dividere, generalmente, le caratteristiche astrologiche; Algol, nome arabo del «capo di Me-
dusa» (T.86.19), appartiene alla costellazione di Perseo e, quale stella di natura saturnina
(Astrol., p. 54), contribuisce alla saldezza della città.
5
Apogeo e perigeo di un pianeta sono gli «absides, in quibus planetae elevantur et deprimun-
tur» (‘Ecloga’, 16, Esp.), che Firpo 1954 (SL, p. 284) e Giancotti (Poesie, p. 617) traducono «le
assidi», adottando la dizione campan. (es.: T.86.23), non accolta dai lessici correnti che regi-
strano ‘abside’ e, meglio, ‘apside’. Gli apsidi hanno un’importanza sia astronomica (il loro
spostamento è uno degli indizi della fine del mondo) sia astrologica, come in questo caso, in
cui significa che Mercurio, trovandosi in Cancro, è in duplice aspetto propizio, essendo in se-
stile (=60°) con Vergine (dove nel V sec., al tempo di Marziano Capella, era collocato il suo
apogeo, e dov’è anche la sua esaltazione) e in triplicità (=120°) con il suo attuale apside, arre-
trato, all’epoca di Copernico, nel segno dello Scorpione – il ms L., commettendo un errore
pur tuttavia sintomatico, riporta infatti: «in buono aspetto di Scorpio e nella triplicità dell’as-
side suo».
88 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS
già detto. Dicono infatti che Dio ha fornito le cause di tutte le cose, di
cui il saggio deve far uso, non abuso.
Si cibano di carne, burro, miele, formaggio, datteri e ortaggi Cibi
d’ogni genere. Dapprincipio non volevano macellare gli animali
reputandolo un atto di crudeltà; ma considerando poi che altrettanto
crudele era uccidere le piante, dotate anch’esse di sensazione1, per cui
sarebbe stato inevitabile morire di fame, hanno capito che gli esseri in-
feriori sono stati creati per i superiori, e perciò ora si nutrono di tutto.
Ciononostante malvolentieri uccidono gli animali proficui, come buoi
e cavalli. Sanno distinguere fra cibi salutari e nocivi, e se ne servono in
base ai dettami della scienza medica. Alternano sempre una di queste
tre vivande: il primo giorno mangiano carne, il secondo pesce, il terzo
verdura, quindi ritornano alla carne, per non affaticare e debilitare l’or-
ganismo. Ai vecchi vengono serviti tre volte al giorno cibi più digeribili
e in quantità moderata; la comunità invece mangia due volte al giorno,
i fanciulli quattro, secondo le prescrizioni del Fisiologo. Campano al-
meno cent’anni, ma la maggior parte arriva a duecento.
Sono moderatissimi nel bere. Ai giovani fino a diciannove anni Bevande
è vietato bere vino, salvo per ragioni di salute. Dopo quell’età lo
bevono mischiato con acqua, e così pure le donne. Solo gli uomini che
hanno raggiunto i cinquant’anni, per lo più lo bevono assoluto. Si ciba-
no degli alimenti più proficui in base alla stagione dell’anno, e sempre
dietro parere del Protomedico, a ciò preposto. D’altronde, riten- Nota
gono che nessuna cosa, in quanto creata da Dio, sia nociva, se non
se ne abusa smodatamente2. Perciò d’estate mangiano frutta: perché
è umida, succosa e fresca, onde contrastare la secchezza e la calura del-
la stagione estuosa; d’inverno mangiano cose secche, in autunno uva,
perché Dio ce l’ha data per combattere malinconia e tristezza.
Si servono molto di erbe odorose: al mattino, appena alzati, tutti si
1
‘Senso’ è la sensibilità universale (percezione e attrazione/repulsione), in vari gradi e modi
presente negli enti (primi e secondi, minerali, vegetali e animali), orientati comunque tutti a
quel che oggi chiameremmo ‘istinto di conservazione’: Dio ha dato alle cose «senso d’esser
bene, perché si conservino a sua gloria» (Senso, p. 35; v. n. compl. e n. 14.12-6).
2
Il «Nota» a margine è una rimarcatura di questo periodo. È spesso usata da More, ma intra-
testualmente, come a 266: «Lettore prendi nota di questo». In SN invece le frasi, aventi un
‘Nota’ in glossa, sono in corsivo, per cui, anche coerentemente agli usi tipografici dell’epoca,
si potrebbe considerare la frase da «Nihil» a «adsit» come se fosse sottolineata dall’Autore.
90 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS
1
Portano estenuatezza, secchezza e consunzione, e sono dovute all’anormale ritenzione di
calore nella parte solida degli organi, che consuma l’umidità corporea: «Per Hecticam, con-
sumitur soliditas ac spiritus exhalat et compositum dissolvitur» (Physiol. VI I, p. 31; la classifi-
cazione delle febbri s’ispira alla trattatistica galenica: v. n. compl.).
2
Febbri originatesi negli spiriti vitali; le effimere (rigo 38) sono quelle che durano da 24 a 72
ore (SD XIV VI).
92 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS
mere solo con odori e brodi brodio pingui aut somno aut sonis aut exul-
grassi o con dormire o con tatione; tertianas emissione sanguinis et
suoni e allegrie; le terzane con reubarbaro aut persimili attractivo aut de-
levar sangue e con reubarba- cocta aqua in radicibus herbarum purgati-
ro o simili attrattivi, o con be- 5 varum et acetosarum. Sed raro medicinam
vere aque di radiche d’erbe purgativam bibunt. Quartanas facile curant
purganti e acetose. Raro ven- repentinum improvisis metum incutientes
gono a medicina purgante. et herbis humori quartanae oppositis aut
|21r> Le quartane son facili persimilibus; et ostenderunt mihi arcana
a sanare per paure subbite, 10 contra ipsas. Diligentiori opera curant con-
per erbe simili all’umore o op- tinuas, a quibus pavent magis, et observatio-
posite; e mi mostrâro certi se- ne stellarum et herbarum et precibus ad
creti mirabili di quelle. Delle Deum contra ipsas dimicant. Quintanas,
continue tengono conto assai, sextanas, octanas etc. fere nullas vides, ubi
e fann’osservanza di stelle e 15
d’erbe, e preghiere a Dio per
sanarle. Quintane, sestane,
ottane poche si trovano, dove
LA CITTÀ DEL SOLE 93
seggere con odori e brodi grassi o col sonno o con musica e allegria; le
terzane con salassi e rabarbaro, o attrattivi1 analoghi, o con decotti di ra-
dici di erbe purgative e acidule. Ma raramente prendono purganti. Cu-
rano facilmente le quartane col causare al malato un repentino spaven-
to2 e per mezzo di erbe dalle proprietà opposte o identiche3 all’umore
della quartana; e mi mostrarono le loro ricette segrete contro queste
febbri. Maggiore impegno profondono contro le febbri persistenti, più
temute, e contro di esse ricorrono all’osservazione degli astri, alle erbe
e alle preghiere a Dio. Non vedi quasi mai quintane, sestane, ottane
1
Nella medicina antica: ‘che attira gli umori del corpo’ (GDLI). «Le cose che odore e sapore
di collera [=bile] hanno, sono atte a purgare la collera per similitudine, come il reubarbaro»
(Senso, p. 247-8; Medicina V III-VIII è dedicato ai purganti; v. n. 111.1). Nel trattato sui sempli-
ci di Avicenna, Canon II II, 585 (I, 159G-H), al rabarbaro si attribuiscono, tra le altre virtù
(principalmente trar fuori la bile), quella di giovare «febribus antiquis et habentibus perio-
dos» (come sono appunto le terzane). Attrattive (e lassative) sono quelle sostanze che per le
loro qualità di calore e sottigliezza riescono ad attrarre ed estrarre ‘corpi’ estranei e nocivi
(duri o molli, come gli umori) dall’organismo, «ut magnetes, asa faetida, maiorana, apium,
piretrum...» (SD XII LXXXIV).
2
Il potere terapeutico della paura improvvisa è così spiegato da Epilogo, p. 498: la febbre com-
porta un’esalazione eccessiva di calore, quindi di spiriti; invece «nella paura, lo spirito fugge
dentro... et si fa [=crea un] senso di freddo», e così questa adunata e concentrazione di spiri-
ti, psicosomaticamente indotta, potrà meglio sciogliere gli umori superflui. In Medicina, p.
678 narra di alcuni casi di guarigioni dalla febbre quartana (da cui lui stesso era stato afflitto
a 14 anni: Syntagma I I), in seguito a paure per gravi incidenti o torture. La fonte è Telesio, V,
29 (II, p. 379): «lo spirito... nella paura e nella tristezza si raccoglie tutto nei ventricoli del
cervello e negli altri casi nelle parti esterne»; nel caso di febbri persistenti, in cui cioè lo spi-
rito (= calore) si è diffuso negli organi corporei periferici (e rischia di esalare), occorre co-
stringerlo a riagglomerarsi e compattarsi nella sua sede naturale, il cervello: ecco spiegato il
ricorso alle paure repentine. Analogamente per Della Porta (Fisonomia VI XIII, p.982): l’ec-
cesso di umori porta alla loro putrefazione, se non si riesce ad espellerli o neutralizzarli; la
quale putrefazione genera calore, ovvero febbre e allora «la paura molto raffredda per modo
di disseccare», tanto che correntemente si dice che il terrore gela il sangue; più precisamen-
te condensa e quindi essicca gli umori, impedendone l’alterazione maligna.
3
Medicina, p. 282: le medicine devono avere o la proprietà «attrahendi per similitudinem, ut
senna melancholiam; vel extinguendi per oppositionem, ut borrago, vel acoetosella et aran-
tii et citri pars interior, quae melancholiam reprimunt minuuntque». Questa teoria ‘omeo-
patica’, ripetutamente e variamente enunciata (ad es. Senso, p. 216 dove loda «il Porta»; Phy-
siol. [in Epilogo, p. 442]; Theol. IV [II, p. 115]; vi è anche un’estensione escatologica in Politici,
p. 118: «Li Macchiavellisti... son imperversanti a guisa de demoni [dei] quali sono imitatori,
e alfine saran compagni, perché ogni simile va al suo simile» [v. n. 125.3]), tale teoria era dif-
fusa tra gli scienziati cinquecenteschi, come appunto Della Porta, Magia I XIII c. 21r-v: «De si-
mili assai ne dicano i precetti de’ Medici, come alcune parti del corpo si rallegrano del lor si-
mile, come il cervello del cervello, i denti de denti... e finalmente ogni membro al membro
simile fa gran giovamento», per cui, ad es., «se desideri far uno loquace, dagli lingue da man-
giare»; e Persio, p. 35: «quando volete alimentar bene un de’ vostri membri, per essempio il
cielebro, o il fegato, o tale altro, mangiate di un simile membro d’animale, il quale habbi
qualche raffronto colla complession dell’huomo, cioè cielebro o fegato di gallina o d’altri».
94 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS
non ci sono umori grossi. crassi humores desunt. |161> Utuntur bal-
Usano li bagni ed olii all’u- neis, ideo et thermas habent ritu Romano-
sanza antica, e ci trovâro rum, et oleis; ac longe plura remedia arcana
molti più secreti per star net- invenerunt ad munditiem, sanitatem et ro-
to, sano, gagliardo. Si sforza- 5 bur servandum. His aliisque modis dimi-
no con quest’ed altri modi cant contra morbum sacrum quo crebro in-
aiutarsi contra il morbo sa- festantur.
cro, che ne pateno spesso. HOSP. - Signum mirifici ingenii, unde
OSP. - Segno d’ingegno Hercules, Scotus, Socrates, Callimachus et
grande, ond’Ercole, Socrate, 10 Machomettus eodem laborarunt.
Macometto, Callimaco ne GEN. - Dimicant autem precibus ad coe-
patîro. lum, corroboratione capitis et rebus acidis
GEN. - E s’aiutano con et exquisita exultatione et brodiis pinguibus
preghier’al cielo e con odori e insparsis flore farinae triticeae. In condien-
confortamenti della testa e co- 15 dis ferculis peritissimi sunt: apponunt ma-
se acide e allegrezze e brodi cim, mel, butyrum, aromata multa valde
grassi, sparsi di fiore di fari- corroborantia; et pinguedinem acetosis
na. Nel condire le vivande temperant, ne unquam respuant. Non bi-
non han pari, con macis, mè- bunt frigidum nive potum nec calefactum
le, butiro e con aromati assai, 20 ex arte, uti Chinenses; non enim indigent
che ti confortano grandemen- auxilio contra humores in caloris nativi sub-
te. Non beveno annevato, sidium, sed hunc roborant contuso allio,
neanche caldo, come li Chine- aceto, serpillo, menta, basilico, in aestate et
si, perché non han bisogno lassitudine praesertim. Norunt et arcanum
d’aiutarsi contro l’umori in 25 ad renovandam vitam quolibet post septen-
favor del calore, ma lo confor- nio, absque afflictione et ex arte suavi ac mi-
tano con aglio pesto ed aceto, rifica quidem.
serpillo, menta e basilico, l’e- HOSP. - Adhuc de scientiis De magistratuum
state e nella stanchezza. et magistratibus non dixisti. electione
Hanno un secreto di rinovar 30 GEN. - Utique, sed quo- et regimine et
la vita ogni sett’anni, sen- niam ita curiosus es, plura an- Concilio iterum
s’afflizione, con buon’arte. nectam. Quolibet in novilunio ac pressius
OSP. - Non hai ancora det- ac plenilunio congregant Con-
to delle scienze e dell’officiali, cilium post sacrificium. Huc admittuntur
che molto desidero sapere. 35 omnes a viginti annis et supra, et interro-
GEN. - Sì, ma poiché sei gantur una singuli, ut referant quid desit
tanto |21v> curioso, ti dirò di reipublicae, qui magistratus suo munere
più. Ogni nova Luna ed
ogni opposizione sua fanno
consiglio dopo il sacrificio; e 40
qui entrano tutti da venti an-
ni in su, e si dimanda ad
ognuno che cosa manca alla
città, e quale officiale sia buo-
LA CITTÀ DEL SOLE 95
ecc., in quanto essi sono privi di umori densi. Fanno anche ricorso ai ba-
gni – perciò hanno le terme come i Romani –, e agli oli balsamici; e
hanno scoperto tanti altri segreti per conservare l’igiene, la salute e il vi-
gore del corpo. In questi e in altri modi combattono il morbo sacro da
cui sono spesso afflitti.
OSP. - Segno questo di genialità, tanto che anche Ercole, Scoto, So-
crate, Callimaco e Maometto ne furono colpiti1.
GEN. - Essi lo combattono con preghiere al cielo, col ritemprare gli
spiriti della testa, con sostanze acide, col cercare di stare in allegria, con
brodi grassi cosparsi di fiore di farina di grano. Sono abilissimi nel con-
dire le pietanze: vi mischiano macis2, miele, burro e molte spezie corro-
boranti, correggendone il grasso con sostanze acetose, per evitare di
sputare. Non usano bevande raffreddate con la neve, o, come fanno i
Cinesi, artificialmente riscaldate; infatti non hanno bisogno di alcun ri-
costituente per rafforzare il calore naturale corporeo contro l’eccesso
di umori, ma in estate e specialmente nei momenti di stanchezza lo for-
tificano con aglio tritato, aceto, timo, menta, basilico. Conoscono an-
che un segreto per ringiovanire ogni sette anni3, senza dolore, con me-
todi dolci e tuttavia portentosi.
OSP. - Non mi hai ancora parlato delle scienze e dei magi- Di nuovo,
strati. ma più
GEN. - Non è vero, ma poiché sei tanto curioso, aggiun- brevemente,
sull’elezione
gerò ulteriori particolari. Ad ogni novilunio e plenilunio, dei magistrati,
dopo l’ufficio divino, si riuniscono in Consiglio. Ad esso so- il governo e
no ammessi tutti i cittadini dai venti anni in su, e si domanda il Consiglio
ad ognuno di riferire pubblicamente sulle carenze della Città4,
1
Giovanni Duns Scoto, filosofo e teologo inglese del XIII sec., soprannominato ‘doctor sub-
tilis’ per l’acutezza dei suoi scritti; Callimaco è probabilmente una svista per Maraco, antico
poeta siracusano, menzionato nei Problemata aristotelici, insieme a Socrate, dei cui stati esta-
tici parla anche Gellio (II I, 1-3; v. n. compl.).
2
È l’involucro carnoso situato tra il frutto della noce moscata e la buccia esterna (v. n. compl.).
3
Dopo sette anni avvengono dei ‘mutamenti’ fisiologici (trasformazioni, ‘esalazioni’, ri-gene-
razioni), «perché in questi [numeri] patiscono novità» (Epilogo, p. 441); tali mutamenti cli-
materici delle membra fanno «buoni succhi dentro [l’organismo] generare, e ammollire la
carne e ossa e purgare, finché ogni pravità esali e si rinovi tutta la temperie. Dal che si vede
che l’uomo muta complessione... perché a puerizia è ridotto il corpo, e così si può trovar ar-
te e rinnovare la vita... La magia imita questo nella teriaca e purgazioni segrete e unzioni
esteriori» (Senso, p. 262-3; v. n. compl.).
4
Letteralmente: ‘di cosa manca allo stato’, cioè i bisogni; oppure ‘in cosa manca lo stato’,
cioè le inadempienze (così, secondo Crahay, p. 171: «ce qui ne va pas dans l’Etat»)? La tra-
96 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS
no e quale sia tristo. Dopo recte fungantur et qui prave. Item post oc-
ogn’otto dì, si congregano tavum quemque diem omnes magistratus
tutti l’officiali, che sono il So- congregantur, videlicet Hoh primus et cum
le, Potestà, Sapienza, Amore; eo Potestas, Sapientia et Amor, quorum qui-
e ognun di questi ha tre offi- 5 sque tres sub se magistratus habet, qui simul
ziali sotto di sé, che sono tre- sunt tredecim, iique functiones artium sibi
dici, e ognuno di quelli tre al- convenientium habent: Potestas militiae,
tri, che fan 40; e quelli han Sapientia scientiarum, Amor victus, vestitus,
l’officio dell’arti convenienti generationis et educationis. Conveniunt et
a loro, il Potestà della mili- 10 omnium agminum magistri, qui sunt decu-
zia, Sapienza delle scienze, riones, quinquagenarii, centuriones, cum
Amore del vitto, generazione, mulierum tum virorum, et tractatur de his,
vestito ed educazione, e li ma- quae reipublicae intersunt, et eliguntur ma-
stri d’ogni squadra, cioè ca- gistratus, qui tantummodo nominati antea
porioni, decurioni, centurio- 15 fuerant in Concilio magno. Itidem quotidie
ni sì dell’uomini come delle consilium ineunt Hoh et tresviri Principes
donne. E si ragiona di quel de rebus occurrentibus, et corrigunt et con-
che bisogna al publico, e s’e- firmant et exequuntur quae decisa sunt in
leggono l’officiali, nominati electionibus, alia provident necessaria. Non
nel Consiglio grande. Dopo 20 utuntur sortibus, nisi ubi sunt omnino dubii
ogni dì fa consiglio Sole e li quo pendere debeant. Hi magistratus per-
tre Prencipi delle cose occor- mutantur iuxta populi voluntatem. At prio-
renti e confirmano o conciano res quatuor nunquam, nisi ipsimet de consi-
quel che s’è trattato nell’ele- lio inter eos habito cedant dignitatem illi,
zione, e l’altri bisogni. Non 25 quem pernoverint sapientiorem seipsis et
usano sorti, se non quando ingenio clariorem et puriorem; profecto ita
son dubi in modo che non dociles ac probi sunt, quod libenter cedunt
sanno a qual parte pendere. sapientiori et ab eo discunt. Sed hoc raro
Questi officiali si mutano se- accidit.
condo la volontà del popolo 30 Principalia scientiarum capita subiiciun-
s’inchina, ma li quattro pri- tur Sapientiae triumviro praeter Metaphysi-
mi no, se non quando essi cum, qui est ipse Hoh, qui omnibus scientiis
stessi, per consiglio fatto tra
loro, cedeno a chi veggono sa-
per più di loro, ed aver più 35
purgato ingegno; e son tanto
docili e buoni, che volentieri
cedeno |22r> a chi più sa e
imparano da quelli; ma que-
sto è di raro assai. 40
Li capi principali delle
scienze sono soggetti al Sa-
pienza, altro ch’il Metafisico
ch’è esso Sole, che a tutte
LA CITTÀ DEL SOLE 97
quale magistrato fa bene il suo dovere e quale si comporta male. Del pa-
ri, ogni otto giorni tutti i magistrati si riuniscono: cioè, insieme alla pri-
ma carica dello stato, Hoh, vi sono Potestà, Sapienza e Amore, ognuno
dei quali ha sotto di sé tre magistrati – e in tutto fanno tredici –, e cia-
scuno presiede alle rispettive competenze: Potestà alla difesa, Sapienza
alle scienze, Amore a vitto, vestiario, generazione e educazione; si radu-
nano altresì i comandanti di ogni squadra sia di uomini che di donne,
cioè i centurioni, i quinquagenari, i decurioni. Tutti costoro trattano le
cose di pubblico interesse, e ratificano la nomina dei magistrati che il
Consiglio grande in precedenza aveva soltanto proposto. Inoltre Hoh e
i triumviri giornalmente si consultano sugli affari correnti, rettificano,
confermano e fanno eseguire le decisioni prese dall’assemblea, e prov-
vedono a tutto quanto è necessario. Non si servono dei sorteggi, se non
quando proprio non sanno che decisione prendere. Questi magistrati
sono sostituiti secondo la volontà popolare. Ma i primi quattro mai,
tranne quando essi stessi, dopo aver deliberato insieme, decidono di la-
sciare l’incarico a colui che hanno visto esser più sapiente e d’ingegno
più acuto e retto del loro; sono davvero così miti e disinteressati, che vo-
lontariamente si dimettono e si rimettono al più sapiente. Ma ciò acca-
de di rado.
I principali capi delle scienze sono soggetti al triumviro Sapienza sal-
vo il Metafisico, cioè Hoh, che sovrintende su tutti i campi come un ar-
duzione cerca di salvaguardare entrambi i sensi, attraverso il duplice valore, soggettivo e og-
gettivo (più letterale), del genitivo.
98 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS
1
A rigore, cioè in base a quanto detto a 28.36, si tratterebbe del responsabile dei professori
di lingue straniere; tuttavia la prossimità a «Logicus» (come a 30.27) induce a una traduzio-
ne più letterale.
2
La prospettiva era considerata quella branca della geometria dedicata allo studio della per-
cezione e rappresentazione dello spazio, utilizzata eminentemente in pittura.
3
Assente nei lessici: Du Cange e il Thes. riportano il tardo latino ‘cicur’ = mansueto (v. 82.16),
da cui ‘cicurare’ = ‘mansuefacere’ (così Varrone, VII, 91: «‘cicur’ designa ciò che non è sel-
vaggio»; Celio, XIII VIII, p. 477: di Eliogabalo si tramanda che avesse leoni e leopardi «exar-
matos cicuresque: quos ita instituerant mansuetarii, ut ad mensas secundas iussi accumbe-
rent...»): è colui che si occupa dell’ammaestramento degli animali domestici (per le fiere vi
è il ‘domitor’ – contemplato anche in Garzoni, CXXXVII: ‘De’ domesticatori d’animali sel-
vatici’); mentre l’allevamento è curato dal ‘pastor’ che pascola ovini e suini, e l’‘armentarius’
buoi e cavalli (il «Bubuculus» di Mon. Messiae I,7 traduce il «bifolco» di Mon. del Messia, p. 49;
per la distinzione ‘armenta’/‘greges’ cfr Isidoro, XII [in SN XVIII II]).
4
Per l’elencazione v. n. 32.35; in particolare lo «Stratagemarius» – da non confondere con lo
stratega (=es. Crahay, p. 173: «Stratège») perché lo ‘strategus’ è «dux exercitus» (Forcellini),
mentre il comandante supremo dell’esercito solare è Potestà (66.31) –, è uno specialista nel-
le tattiche militari, disciplina che fino a più di un secolo e mezzo fa si chiamava proprio ‘stra-
tegica’: «l’arte degli stratagemmi della guerra», secondo il Diz. tecn.–etimol.–filolog. (Milano,
Pirola, 1829); il «Campionista» è presumibilmente il capitano degli ‘atleti’, cioè degli istrut-
tori delle arti marziali (62.27); lo «Iustitiarius», infine, è un alto magistrato incaricato di am-
ministrare la giustizia (non il Giustiziere perché i Solari ne sono sprovvisti [100.27]); a Na-
poli vi era la carica «del Gran Giustiziero, soprintendente di giustizia, retto in pratica dal reg-
gente della Vicaria» (Leone, p. 163), espressamente evocato da Mon. Messiae XIV, p. 69:
«Nam Iustitiarius Neapolitanus dependet a Prorege immediate, a Rege mediate».
100 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS
1
Il calunniatore è punito con la legge del taglione: cioè egli subisce la stessa pena che sareb-
be stata inflitta al calunniato (e non: ‘viene a sua volta calunniato’, come, troppo alla lettera
e troppo blandamente, intende Bobbio), se quello fosse risultato davvero colpevole del reato
attribuitogli dal calunniatore. La pena risale alla legislazione mosaica: Mosè «propone la pe-
na del taglione per i testimoni e gli accusatori falsi» (Theol. XIV, p. 113), richiamandosi a
Deut. 19, 18-9: «I giudici facciano una diligente inchiesta, e se troveranno che quel testimone
mente e ha deposto il falso contro il suo fratello, trattate lui come aveva pensato di fare a suo
fratello»; principio ripreso dalla patristica (Damasceno, Parall. III CXVII, 161E: se si trova uno
che ha reso falsa testimonianza, «reddent ei sicut fratri suo facere cogitavit»), accolto dal di-
ritto canonico (SD VIII CIX-CXII), ed ancora vigente in ambito ecclesiastico: un confratello
«maestro di bona vita si mettea ‘in poena talionis’ se non provava quanto era» stato da lui
scritto in una lettera circa il malcostume del Generale dell’Ordine (Lettere, p. 284); e sarebbe
stato auspicabile che fosse esteso anche a quello laico: il Re giusto «deve anco provveder a fal-
si testimonii, dei quali il mondo abonda, e far che sia la pena della pariglia a chi accusa e non
prova, perché oggi sono più le calunnie che l’accuse» (Mon. Sp.1, p. 40).
104 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS
Dio, che cosa è angelo, che co- vissimo, quid videlicet est Deus, quid ange-
sa è mondo, stella, omo, ecc., lus, quid mundus, stella, homo, fatum, vir-
con gran sale, e d’ogni virtù tus etc., magno quidem sale; et omnium vir-
la diffinizione. E li giudici tutum definitiones ibi sunt delineatae. Et
d’ogni virtù hanno la sedia 5 iudices omnium virtutum sedile habent,
in quel luoco, quando giudi- hoc est tribunal, quilibet sub ea columna in
cano, dicono: «Ecco, tu pec- qua virtutis, cuius sunt iudices, definitio ex-
casti contra questa diffinizio- tat; et cum iudicat, ibi sedet dicens: ‘Fili, tu
ne: leggi»; e così lo condan- peccasti contra hanc sacram definitionem
nano o d’ingratitudine o di 10 beneficentiae vel magnanimitatis, vel etc.:
pigrizia o d’ignoranza; e le lege’; ac, habita discussione, condemnat
condanne sono certe vere me- ipsum ad poenam, cuius est reus, videlicet
dicine, più che pene, e di sua- maleficentiae, abiectionis, superbiae vel in-
vità grande. gratitudinis vel pigritiae etc. Condemnatio-
OSP. - Or dir ti bisogna 15 nes autem sunt certae veraeque medicinae
delli sacerdoti, sacrifici e cre- et quidem suavitatem redolentes magis
|23v>denze loro. quam poenam.
GEN. - Sommo sacerdote è HOSP. - Iam te dicere opor- De sacerdotibus
Sole; e tutti l’officiali sono sa- tet de sacerdotibus, sacrificiis et religione,
cerdoti, parlando delli capi, e 20 et religione ac fide ipsorum. sacrificio et
officio loro è purgar le co- GEN. - Summus sacerdos est oratione
scienze. Onde tutti si confes- ipse Hoh et omnes magistratus,
sano a quelli, ed essi impara- at primores tantum; eorum munus est con-
no che sorte de peccati regna- scientias expurgare. Itaque universa civitas
no. E si confessano alli tre 25 clancularia confessione, qua utimur et nos,
maggiori tanto li peccati pro- peccata sua pandunt magistratibus, qui si-
pri, quanto li strani in gene- mul purgent animas ac addiscant quae pec-
re, sensa nominare, e li tre si cata grassentur in populo. Deinde ipsi magi-
confessano al Sole. Il quale stratus sacri confitentur peccata propria tri-
conosce che sorte d’errori cor- 30 bus Principibus supremis et confitentur si-
reno e sovviene alli bisogni mul aliena, neminem tamen nominando
della Città e fa a Dio sacrifi- sed confuse, praesertim graviora et noxia
cio ed orazioni, a cui esso reipublicae. Ipsi tandem tresviri eadem pec-
confessa li peccati suoi e di cata ac propria simul confitentur ipsi Hoh,
35 qui proinde agnoscit quae peccatorum ge-
nera grassantur in civitate, et succurrit op-
portunis remediis. Tunc offert sacrificium
Deo et preces; ac prius confitetur peccata
LA CITTÀ DEL SOLE 105
cose, in stile filosofico e sintetico1; cioè: cosa è Dio, cosa è angelo, cosa
è mondo, stella, uomo, destino, virtù ecc., e scritte con molta sottigliez-
za. Ci sono pure le definizioni delle virtù; e i giudici hanno là una sedia
per ognuna di esse, cioè un tribunale, ognuno posto sotto quella colon-
na in cui c’è la definizione della virtù di sua pertinenza; e quando deve
emettere una sentenza, seduto lì dice: ‘Figlio, tu hai peccato contro
questa sacra definizione della beneficenza o della magnanimità ecc.:
leggi!’; e, discusso il caso, lo condanna alla pena di cui si è reso colpe-
vole, cioè, ad esempio, per malvagità, disprezzo, superbia, ingratitudi-
ne, pigrizia ecc. Le pene sono vere ed efficaci medicine, che sanno più
d’affetto che di punizione.
OSP. - Ora è d’uopo parlare dei sacerdoti, dei sacrifici, I sacerdoti e
della religione e delle credenze di costoro. la religione,
GEN. - Sommo sacerdote è lo stesso Hoh e sacerdoti sono il sacrificio e
la preghiera
tutti i magistrati superiori: compito loro è purificare le co-
scienze. Così tutti i cittadini, attraverso una confessione segreta, come
la nostra, confidano i loro peccati ai magistrati, che purgano le anime
e nello stesso tempo apprendono quali sono i falli più frequenti tra i
Solari. Poi i magistrati consacrati confessano ai tre Principi supremi i
propri errori, ed anche quelli altrui ma in modo generico e anonimo,
segnalando in particolare le colpe più gravi e più pericolose per lo sta-
to. Infine gli stessi triumviri fanno altrettanto con Hoh, il quale così è
messo al corrente dei peccati di cui più si macchia la Città, e ricorre
agli opportuni rimedi: offre un sacrificio e preghiere a Dio, e davanti a
1
Termine della scolastica, per indicare l’essenza o qualità sostanziale di un ente: «oggetto
proprio dell’intelletto è la quiddità» = ‘quod quid est’, ciò che una cosa è (Tommaso, 1SCG,
58). C. lo usa non solo in latino (ad es. Metaph. V II II [I, p. 369]): la scienza «inferisce pro-
posizioni universali esprimenti le essenze [=quidditates] delle cose corporee»; Compendio
XLII,7: «Intelligere est intus legere quidditatem ex notionibus praecedentibus rerum»); ma
anche in italiano ‘quiddità’ (Canzone 81 [Madr. 2, 13]: «ogni quiddità vien dal Potere», che
è una delle Primalità) o «quidità» (T.102.40, forse influenzato dalle prime attestazioni dan-
tesche: ‘quiditate’ [Par. XX, 92]) è termine ‘proprio, anche se inusuale’ (Rhet. XII II [SL, pp.
883 e 893]), che l’Au. però privilegia rispetto ai suoi sinonimi: «Platone per primo disse
‘idea’ e Aristotele ‘entelechia’; perché io non dovrò dire ‘primalità’ e ‘quiddità’?... Quando
vogliono indicare l’essenza di una cosa... i termini ‘quidditas’ ed ‘essentia’ sono più significa-
tivi e concisi» (Gramm. I I II [SL, p. 441]). A proposito poi della concisione delle «definizioni»
filosofiche, presentando a Séguier le sue Quaestiones, scrive: «scientiae omnes in hoc opere
continentur, stylo quidem brevi claroque» (Lettere, p. 379); è difficile, però, stabilire se il «me-
taphysico stylo» sia prosastico o poetico (v. n. 13.2), visto che l’Au. è anche autore di poesie
metafisiche, e in Poët. IV I (SL, p. 967) aveva ricordato che «Solone diede le leggi in versi», e
in I I (SL, p. 909) aveva esaltato l’arte poetica, «instrumentum legislatoris».
106 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS
salmi a Dio; l’altro compito loro è osservare le stelle e con gli astrolabi
registrarne i moti, per studiare i loro effetti sulle vicende umane e le lo-
ro virtù. Perciò sanno sempre in quale regione del mondo e in quale
momento c’è stata o ci sarà una mutazione; mandano poi degli osserva-
tori a controllare se si è avverata, e annotano le predizioni esatte e quel-
le errate, in modo da riuscire a fare, grazie all’esperienza, pronostici
sempre più corretti. Sono loro a individuare l’ora propizia alla procrea-
zione e i giorni della semina, del raccolto e della vendemmia; sono con-
siderati una sorta di messaggeri, intercessori e mediatori tra Dio e gli
uomini, e la maggior parte degli Hoh sono reclutati fra costoro; anno-
tano i fatti più importanti e investigano le scienze. Giù non scendono se
non per i pasti, allo stesso modo in cui lo spirito cala dalla testa allo sto-
maco e al fegato; raramente si congiungono con donne, e solamente
per ragioni di salute. Hoh sale ogni giorno da loro a informarsi di quel
che hanno scoperto di nuovo per il bene della Città e di tutti i popoli
della Terra. Nel tempio da basso resta sempre una persona a pregare
davanti all’altare, sostituita dopo un’ora da un’altra, come noi siamo so-
liti fare nella supplica solenne delle quaranta ore, e questa preghiera la
chiamano ‘sacrificio perpetuo’1.
Dopo la refezione ringraziano Dio con musiche. Poi cantano le gesta
degli eroi cristiani, ebrei, pagani e di tutte le nazioni, cosa a loro som-
mamente grata, non avendo invidia per nessuno. Cantano inni sull’a-
more, la sapienza e su ogni virtù, sotto la direzione del loro capo. Ognu-
1
Mon. Sp.1, p. 26: la Spagna è chiamata a «reedificar Gerosolima, liberandola da cattività, e
per far il tempio a Dio del cielo, ove si instituisca continuo sacrificio, come i profeti han det-
to... E ora per tutto il suo stato che cerchia il mondo si celebra ogn’ora messa, e nel suo Im-
perio giamai annotta» (così anche Lettere, p. 26; Supplizio, pp. 83 e 149; in Quod rem. 3, p. 58,
dice che il sacrificio permanente è segno certo della missione unificatrice della Spagna).
Ernst rinvia a Is. 44,28 e 45,1sg; ma la sua istituzione risale a Ex. 29, 38sg (comment. da
Theol. XVII, p. 108: ‘Lex iugis sacrificii’) e la sua formulazione è in Dan. 8,11-3, mentre Ago-
stino, CD 16, 22 la fa risalire alla benedizione di Abramo da parte di Melchisedec (Gen.
14,18): «E là per la prima volta si manifestò il sacrificio che ora i cristiani offrono su tutta la
faccia della terra» (Comestore, super Gen., cap. 67 e in Num., cap. 40 [in SH II XIX e XLVI]:
«iuge sacrificium vel indesinens»). Invece la devozione delle Quarantore, cioè l’esposizione
del Sacramento ai fedeli per tre giorni di seguito, in ricordo del periodo di tempo che Cri-
sto era rimasto nel sepolcro, diffusa in Italia nel Cinquecento, fu approvata il 25 novembre
del 1592 da Clemente VIII con la bolla Graves et diuturnae, in cui si regolamentava la turna-
zione continua del culto nelle principali chiese di Roma. L’orazione perpetua, comunque,
è istituzione né solo cristiana (Platone, Leg., 828a), né solo occidentale (Palladio, 11: i Bra-
mini «pregano continuamente» – e sulla «preghiera continua dei brahmani, cfr. Bardesane»
[Desantis, p. 56]).
110 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS
la che più ama, e fanno alcu- centur honesta formosaque sub peristyliis.
ni balli sotto chiostri bellissi- Mulieres gestant prolixos capillos, conser-
mi. Le donne portano li ca- tos collectosque in nodum unum omnes in
pelli lunghi, inghirlandati e capitis coronide, eductos tamen in contex-
tutti in un groppo in mezo la 5 tum cincinnum unum; homines vero unum
testa ed una treccia. Gli uo- modo cincinnum attonsis circum reliquis
mini solo un cerro, un velo e crinibus, unum velum et unum desuper ca-
berrettino. Usano cappelli in pucium rotundum, parum excedens capitis
campagna, in casa berrette formam. Pileis in campestribus utuntur, do-
bianche o rosse o varie, secon- 10 mi vero biretis albis aut rubris aut variis iux-
do l’officio ed arte che fanno, ta artem aut ministerium quisque suum;
e l’officiali più grandi e pom- magistratus vero grandiusculis et pomposio-
pose. ribus.
Tutte le feste loro son quat- Ipsorum festivitates magnae De festis
tro principali, cioè quand’en- 15 sunt, quando Sol quatuor mundi diebus
tra il sole in Ariete, in Can- cardines intrat, hoc est in Cancrum,
cro, Libra e Capricorno; e in Libram, in Capricornum et Arietem,
fanno gran rapresentazioni et doctas formosasque exhibent actiones
belle e dotte; e ogni congiun- quasi comicas, et singulis pleniluniis et novi-
zione e opposizione di Luna 20 luniis festum celebrant, et in diebus quando
fanno certe feste. E nelli gior- civitatem fundaverunt aut victorias reporta-
ni che fundâro la città e ebbe- verunt aut etc., et cum musica vocum foe-
ro gran vittorie, fanno il me- minearum et cum tubis et tympanis et bom-
desmo con musica di voci fe- bardis.
menine e con trombe e tam- 25 Ac poëtae canunt laudes prae- De poëtarum
burri ed artigliarie; e li poeti clariorum ducum et victorias. Ve- usu
cantano le laudi delli più vir- runtamen qui mentitur, etiam in
tuosi. Ma chi dice bugia in alterius herois laudem, punitur. Non po-
laude è punito; non si può test poëtae munus exercere qui mendaciter
dir poeta chi finge menzogne 30
LA CITTÀ DEL SOLE 111
no poi sceglie la donna che più gli piace e intrecciano balli decorosi e
giocondi sotto i chiostri. Le donne portano i capelli lunghi, intrecciati e
annodati in un’unica treccia raccolta a crocchia sulla sommità del capo;
gli uomini invece hanno solo un ciuffo sulla testa rasata1, uno zucchetto
e sopra un cappuccio rotondo di poco sporgente sul capo. In campagna
si coprono con cappelli, in casa con berretti bianchi o rossi o di vari co-
lori secondo il mestiere o la funzione di ognuno; il copricapo dei magi-
strati infatti è un po’ più grande ed elegante.
Le loro festività più importanti sono quando il Sole entra nei Festività
quattro punti cardinali – Cancro, Bilancia, Capricorno, Ariete –;
si fanno degli spettacoli belli e istruttivi, simili a commedie; sono festeg-
giati anche i pleniluni e noviluni, gli anniversari della fondazione della
città, delle vittorie ecc., e accompagnano queste feste con cori femmini-
li, trombe, tamburi e colpi di cannone.
I poeti cantano le lodi dei condottieri più illustri e le loro Compito
vittoriose imprese. E tuttavia chi mente, anche se decanta la dei poeti
virtù di un eroe non Solare2, viene punito. Non può rivestire la ca-
1
Le donne portano i capelli ‘intrecciati e raccolti in una crocchia sulla sommità del capo, an-
nodati però in un’unica treccia’ (così alla lettera); e analogamente gli uomini hanno una
foggia che può considerarsi l’inverso della tonsura (Crahay, p. 187). Il lessico è biblico: Ez.
8,3: «in cincinno capitis mei»; 1Cor. 11,14-5: «La stessa natura non v’insegna forse che è cosa
indecente per l’uomo portare i capelli lunghi, mentre la lunga capigliatura è una gloria per
la donna? Perché i capelli le sono stati dati come velo»; così commentato da Crisostomo, In
Epist. pr. ad Cor., Hom. XXVI (IV,526-9): sarebbe un crimine «si mulieres detecto capite, vel si
tecto viri incedant», in quanto «symbola viro et mulieri tradidit... viro quidem principatus,
mulieri autem subiectionis... Non est creatus vir ex muliere, sed mulier ex viro... Ideo debet
mulier velamen traductum habere super caput suum... Ergo velari subiectionis est sub mariti
potestate... Quod si vir comam nutriat, ignominia est illi; mulier vero, si comam nutriat, glo-
ria est illi, quum capilli pro velamine dati sunt ei. Et si pro velamine dati sunt, inquit, qua gra-
tia aliud addendum est velamen? Ut non tantum suapte natura, sed etiam voluntate subiec-
tam se esse confiteatur». La foggia dei capelli può invece ispirarsi sia a usanze meridionali
(ad es. le fanciulle napoletane portavano acconciature «o alla scozzese, coi capelli cioè a ca-
nestrette intrecciati di nastri o fettucce (zagarelle) incarnatine o verdi, o alla spagnola col
tuppo» [B. Capasso, cit. da Leone, p. 56]), sia a suggestioni esotiche: le donne in India por-
tano i capelli «pettinati e fatti in una treccia in cima della testa, e posti in quella molti fiori e
odori» (Odoardo Barbosa e Niccolò de’ Conti [in Ramusio, II, pp. 607 e 809]); anche le Ci-
nesi «usano grand’arte in acconciarsi il capo e mettono assai tempo e diligenza in pettinarsi
e acconciare i capelli e poi li legano nella cima da ogni banda con una benda guernita di per-
le e d’oro» (Maffei, I, p. 370).
2
Per Crahay, p. 188 «alterius», vocabolo scarsamente perspicuo o pertinente, potrebbe esse-
re la corruzione di ‘altioris’: ‘dell’eroe più sublime’. Secondo me, vuol dire che le bugie non
sono permesse neanche parlando di eroi stranieri (e quindi poco noti), perché la scarsa fa-
miliarità non è alibi sufficiente a giustificarle.
112 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS
tra loro; perché questa licenza fingit, hancque licentiam iudicant esse or-
dicono ch’è ruina del mondo. bis humani perniciem eo quod auferat
Non si fa statua a nullo, praemium virtutibus ac aliis praebeat saepe
se non dopo che muore; ma, vitiosis ex metu vel adu|164>latione, ambi-
vivendo, si scrive nel libro 5 tione et avaritia.
dell’eroi chi ha trovato arti In nullius gloriam erigitur statua, nisi po-
nuove o secreti d’importanza, st eius mortem. Attamen vivens inscribitur
o fatto gran beneficio in guer- in libro heroum quicunque invenisset novas
ra o pace al publico. Non artes aut arcana utilissima vel beneficium
s’ |25r>atterrano li corpi mor- 10 ingens sive domi sive militiae in rempubli-
ti, ma se brugiano per levar cam contulerit. Non humantur corpora de-
la peste e convertirsi in fuoco, functorum sed cremantur, ut pestis non su-
cosa tanto nobile e viva, che boriatur et ipsa convertantur in ignem, rem
vien dal sole ed a lui torna; e tam nobilem ac vivam, quae a Sole venit et
per non restar sospetto d’ido- 15 ad Solem regreditur; item et ne idololatriae
latria. Restano pitture solo o detur occasio. Remanent tamen statuae ac
statue di grand’uomini, e picturae heroum, ipsasque inspec-
quelli mirano le donne formo- tant formosae saepe mulieres, ge- De orandi
se, che s’applicano all’uso nerationi dedicatae a republica. vitu
della razza. 20 Orationes fiunt ad quatuor mundi
L’orazione si fa a’ quattro angulos horizontales et quidem mane,
angoli del mondo orizontali, primo ad ortum Solis, deinde ad occasum,
e la mattina prima a levante, deinde ad austrum, deinde ad septentrio-
poi a ponente, poi ad austro, nem; e contra in vespere, primo ad occa-
ed in ultimo a settentrione; 25 sum, deinde ad orientem, deinde ad sep-
la sera al riverso, prima a po- tentrionem et deinde ad austrum; et repli-
nente, poi a levante, poi a cant unum modo carmen quo postulant
settentrione, ed in ultimo ad corpus sanum et mentem sanam sibi ipsis
Austro. E replicano solo un omnibusque gentibus et beatitudinem, et
verso, che dimanda corpo sa- 30 concludunt: “Veluti Deo videtur optimum”.
no, mente sana, a loro e a Caeterum publica oratio prolixa est et in
tutte le genti, e beatitudine, e coelum effunditur. Idcirco altare rotundum
conclude: «come par meglio a est et ad angulos rectos decussatim divisum
Dio». Ma l’orazione attenta- interviis, per quas Hoh intrat post quatuor
mente e lunga si fa in cielo; 35 repetitiones, ac rogat suspiciendo coelum:
però l’altare è tondo e in croce hoc illis observatur ut mysterium magnum.
spartito, per dove entra Sole Vestimenta pontificalia sunt mirificae for-
dopo le quattro repetizioni, e mositatis et significationis instar Aaronis:
prega mirando in suso. Que- imitantur naturam et mirificant artem.
sto lo fanno per gran miste- 40
rio. Le vesti ponteficali sono
stupende di bellezza e signifi-
cato a guisa di quelle d’A-
ron.
LA CITTÀ DEL SOLE 113
rica di poeta chi fa poesia con le menzogne, e ritengono che questa li-
cenza della poesia sia perniciosa per il genere umano, perché toglie il
premio a uomini virtuosi per accordarlo spesso, per timore, adulazione,
ambizione o cupidigia, ai viziosi.
Non si erigono statue a gloria di nessun cittadino, se non dopo la sua
morte; quand’è ancora in vita, invece, lo si iscrive nel libro degli eroi, se
ha scoperto nuove arti o segreti utilissimi oppure se, in pace o in guer-
ra, ha recato notevoli servigi allo stato.
Non seppelliscono i morti, ma li cremano, per evitare la peste e per
convertirli in fuoco, elemento tanto nobile e vivo che viene dal Sole e al
Sole ritorna, e ancora per impedire ogni occasione d’idolatria. Conser-
vano solo ritratti e statue di eroi, e queste sono le stesse effigi su cui
spesso fissano gli sguardi le donne belle destinate dallo stato alla gene-
razione.
Elevano le loro preghiere ai quattro punti cardinali e cioè La preghiera
la mattina, volgendosi prima ad oriente, poi ad occidente, circolare
quindi a mezzogiorno e infine a settentrione; all’opposto al ve-
spro: prima ad occidente, poi ad oriente, quindi a nord e infine a sud; e
replicano una formula sempre identica, in cui chiedono corpo e mente
sani e la beatitudine per se stessi e per tutto il mondo, e che termina co-
sì: ‘come par meglio a Dio’. Invece la preghiera pubblica è più lunga e
la si rivolge al cielo. Perciò l’altare è rotondo e attraversato da quattro
corridoi tagliati ad angolo retto, attraverso i quali accede Hoh dopo
quattro repliche della preghiera, lo sguardo rivolto al cielo: questa ceri-
monia è osservata da loro come un gran mistero. Le vesti pontificali so-
no d’ineguagliabile magnificenza e di profondo significato come quelle
di Aronne1: imitano la natura e magnificano l’arte.
1
Aronne è il fratello maggiore e l’aiutante di Mosè, le cui vesti sacerdotali sono descritte in
Ex. 28,4 e 39,1; ma C. richiama più spesso (Theol. III, p. 53; Apologia, p. 22; Disc. Cometa, p. 71)
un versetto di Sap. 18, 24: «sulla lunga sua veste/ vi era tutto l’universo», così commentato:
«Nelle vesti di Aronne sono chiari i dodici segni celesti espressi nell’Efod nei dodici figli di
Israele e nelle dodici gemme trasparenti che rappresentano le figure celesti e, come dice Sa-
lomone nel libro della Sapienza, tutto l’orbe vi era figurato nel peso, e i tintinnaboli e le pie-
tre di granato annunciavano la voce che il mondo interiore manda verso il mondo esteriore.
E se ben si guarda, come le parti dell’uomo sono in relazione alle parti del mondo, così i va-
ri ornamenti erano in relazione alle varie parti del sacerdote, il quale a sua volta significava
Cristo» (Theol. XVII, p. 219; per le fonti v. n. compl.).
114 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS
1
Il calendario lunisolare ebraico (Beroso, 8r ne attribuisce l’invenzione a Noè), adottato dai
Solari, si fonda sul ciclo metonico (da Metone, astronomo ateniese del V sec. a.Cr.) di 235 lu-
nazioni che corrispondono quasi esattamente a diciannove anni, con anni di dodici e tredici
mesi. Il calendario dei Solari si basa su un duplice confronto: principalmente anno
solare/anno lunare; e secondariamente anno solare/anno siderale. L’anno solare (o tropi-
co) è il tempo impiegato dal Sole per passare sullo stesso punto zodiacale, detto punto gam-
ma, perché all’epoca di Ipparco (l’astronomo greco, vissuto intorno al 150 a.Cr., che ha sco-
perto la sfasatura fra le due misurazioni [Tolomeo, Tetrab. III,2]) lo si faceva cadere a 0° di
Ariete (il cui simbolo astrologico è simile alla lettera greca g), e quindi l’inizio dell’anno
astrologico coincideva con l’equinozio di primavera. L’anno sidereo è il tempo compreso fra
due successive congiunzioni del Sole con una medesima stella, ed è maggiore dell’anno tro-
pico di oltre ventuno minuti in un anno, a causa della precessione degli equinozi: per un len-
to movimento di oscillazione dell’asse terrestre, il punto gamma di intersezione fra l’eclittica
e l’equatore celeste si anticipa di un grado ogni settantadue anni circa (cento anni, secondo
gli antichi). Ed è appunto questa differenza (anno sidereo/anno tropico) che i Solari ‘anno-
tano’ (114.3) annualmente, in quanto, come dice subito dopo, essi ritengono che non sia co-
stante (cioè = 21 minuti), e che ciò dipenda dal progressivo avvicinarsi del Sole alla Terra. In-
vece il confronto fra il ciclo lunare e quello solare viene effettuato ogni diciannove anni, cioè
nel punto ‘capitale’ (114.15) in cui la Luna torna a passare dall’emisfero settentrionale a
quello meridionale della sfera celeste (v. n. compl.).
2
Capo e Coda del Drago sono i due ‘nodi’, cioè le due intersezioni delle orbite lunari con il
piano dell’eclittica verificantisi ogni «18» (Garin 1946, II, p.543) anni: «quando il pianeta
[=Luna] si dirige verso Austro si chiama ‘Coda del Drago’ o nodo discendente; quando è in
direzione boreale, si chiama nodo ascendente, o ‘Capo del Drago’« (Astrol., p. 29), nominati
così, perché le intersezioni orbitali lunisolari avevano suggerito questa strana figura. Perciò
‘Capo del Drago’ significa punto di massima distanza del deferente (= la circonferenza per-
corsa dal centro dell’epiciclo) dalla Terra, cioè, in questo caso, intersezione dell’eclittica con
l’orbita della Luna che passa dall’emisfero meridionale a quello settentrionale.
3
Sul primo vissuto a Samo nel III sec. a.Cr., il giovane C. aveva scritto il perduto De sphaera Ari-
starchi (che è anche il titolo di un art. di Physiol. I XVI IX, p. 196): «pose il sole per centro, opi-
nione seguita dal Copernico a’ tempi nostri» (cit. da Firpo 1940, p. 172; ma Ernst 2002 sostiene
che «C. non ricorda mai» il De sphaera «almeno con questo titolo; il rinvio di Firpo alla Phil. rea-
lis non sembra trovare riscontro» [p.261]); Filolao di Crotone, pitagorico del V sec., a detta di
116 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS
ze, l’altro con le fave, ma nessuno con le cose stesse numerate e misura-
te, e perciò ripagano il mondo con banconote false1.
I Solari dunque dedicano il massimo sforzo allo studio dell’astrono-
mia: è assolutamente necessario conoscere la fattura e il meccanismo
dell’universo, se esso sia perituro e, se sì, quando. E credono ciecamen-
te alla profezia di Cristo circa l’apparizione di segni nel Sole, nella Luna
e nelle stelle, cose che a molti sciocchi nostrani sembrano follie e così la
fine del mondo li sorprenderà come un ladro di notte. Quindi loro
aspettano il rinnovamento del mondo, e forse la fine.
Dicono che è molto difficile sapere se il mondo sia stato creato dal nul-
la o dalle rovine di altri mondi2 o dal caos, ma tuttavia ritengono proba-
bile, anzi certo, che esso sia stato creato e non che sia sempre esistito. Per-
ciò dissentono profondamente in questo da Aristotele, che definiscono
loico, non filosofo. E dall’osservazione delle anomalie astronomiche3 ad-
ducono parecchie ragioni contro l’ipotesi dell’eternità dell’universo.
Diogene, VIII, 85, «fu il primo ad affermare che la Terra si muove secondo un circolo», intorno
a un ‘focolare’ centrale, causa dell’origine e della fine del cosmo (v. n. compl.).
1
Servirsi di modelli matematici (anziché dell’osservazione diretta del cielo) per spiegare il
meccanismo dell’universo è come pagare con ‘fiches’ anziché con monete reali. Entrambe le
teorie cosmologiche sono dei meri artifici matematici, aventi una qualche utilità pratica, ma
non rispecchianti la realtà, che è solo questa: Dio è il Grande Orologiaio che decide come
muovere ogni singolo ingranaggio cosmico: «Ho additato tali fenomeni [=le anomalie co-
smiche] in base alle osservazioni di tutti gli astronomi, i quali sanno bensì vedere esattamen-
te, ma sono incapaci di rendersi ragione delle cose viste, e perciò ricorrono a petizioni di
principio e pongono per cause quelle che cause non sono, con duplice paralogismo, perché
trascurano il fatto che è la Causa Prima del mondo quella che imprime al vero il suo caratte-
re razionale» (Mem. ined., p. 209); i moti degli astri, dunque, dipendono direttamente dall’a-
zione divina, che non è arbitraria, ma anzi li utilizza come segnali indirizzati a quelli tra gli
uomini che sono vigili ai Suoi cenni: «Copernico con tutti gli altri fecero ben il conto e mo-
strâro l’esorbitanze in cielo; ma poi nel rendere a ragione errâro, perché non vollero rico-
noscere che questi son li segni dati da Cristo» (Lettere, p. 221; v. n. compl. e n. 114.17-18).
2
Allusione a Empedocle: sul filosofo agrigentino aveva scritto un perduto De philosophia Empe-
doclis, in cui confutava, come emergerebbe da Metaph. XI III II [III, p. 17], quella teoria (caos e
cosmo si succederebbero eternamente), che porterebbe ad un inconcludente, se non perico-
loso, ‘regressus ad infinitum’. Anche per Democrito ed Epicuro l’universo è eterno, indistrutti-
bile e infinito, composto da innumerevoli mondi, che muoiono e rinascono per l’inarrestabile
rimescolamento degli atomi. Per gli stoici invece vi è solo questo mondo che «però innumere-
voli volte nasce e perisce a determinati intervalli di secoli» (Agostino, CD 11,5).
3
Le (presunte) anomalie sono le discrepanze fra le osservazioni della posizione degli astri e
gli arbitrari calcoli della cosmologia tradizionale, alcune apparenti (v. n. 121.1), altre reali e
perciò cariche di influssi astrologici (cfr Astrol. II IV, p. 76); la principale di queste ultime è
costituita dall’orbita spiraliforme del Sole intorno alla Terra (114.5-9); le altre sono elencate
a 156.7sg. (insieme a configurazioni astrologiche), quale preludio di un nuovo ordine co-
smico (per le anomalie v. anche 132.1).
118 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS
1
«L’adorazione è una testimonianza prestata non solo alla virtù, ma anche alla superiorità, e
può essere prestata soltanto dall’inferiore al superiore. Essa si distingue in latria, con cui si
esibisce al superiore una perfetta servitù e una soggezione tanto esterna quanto interna, e in
dulia, con cui si riconosce una superiorità, ma non somma né infinita» (Theol. XVIII [II,
p. 187]); la venerazione di Dio, «come principio dell’essere e dell’ordine... non si deve avere
per nessuna creatura, o si commette empietà» (Comment., p. 807; v. n. compl.).
2
Per spiegare le irregolarità (già nell’antichità considerate apparenti) dei moti planetari (l’a-
vanzamento, la retrocessione e la stazionarietà), Apollonio di Perge (circa 262 a.Cr.; secondo
altri Ipparco di Nicea, 161-126 a.Cr.), aveva elaborato l’ingegnosa quanto macchinosa teoria
degli epicicli, fatta propria da Tolomeo e dominante fino al Cinquecento: il moto planetario
sarebbe costituito dalla composizione di due moti circolari sempre in direzione Ovest→Est:
una prima circonferenza planetaria di raggio minore (l’epiciclo) ha per centro il Sole; il Sole
a sua volta si muove in un’orbita di raggio maggiore intorno alla Terra (questo cerchio virtua-
le maggiore da esso tracciato si chiama deferente); il moto risultante è una epicicloide (in pra-
tica è lo stesso moto dei satelliti nel sistema eliocentrico). I pianeti inferiori, poi, aventi cioè
un’orbita interna a quella solare, hanno il deferente omocentrico, cioè coincidente col centro
della Terra; i pianeti superiori, Marte, Giove, Saturno, con orbita esterna alla solare, hanno il
deferente eccentrico, e dunque, come scriveva nel 1612 Galilei, altro avversario di questa teo-
ria, questo cerchio «circonda la Terra, ma non la contiene nel suo centro, ma da una banda»
(Op., XI, p. 345, cit. da Bobbio). Come e prima di Galilei (ma poggiando su altre basi teoreti-
che – le simpatie cosmiche [v. n. 123.1] –, e quindi elaborando un altro modello cosmologico,
prima geocentrico e poi ‘misto’), C. già in Epilogo, p. 250 riduceva questo complesso sistema di
epicicli e deferenti alle sole orbite eccentriche: «L’alzare et l’abassare de pianeti vien dalla lu-
ce più o meno dal sole ricevuta, e non dalle eccentrici et hepicicli». Copernico in effetti con-
sidera gli epicicli dei tolemaici un’ipotesi superflua, ma C. scrive: «Benché sembri che Coper-
nico dia la ragione del fatto che Venere e Mercurio non si allontanano dal Sole, come i tre pia-
neti superiori, ciò nondimeno egli adopera ancora gli eccentrici e gli epicicli nella Luna e nel-
la Terra, pone gli eccentrici nei pianeti e non fornisce la ragione del fatto che la Terra inclina
verso lo zodiaco. Dunque la sua posizione non toglie tutti gli inconvenienti ed erra in quanto
affastella dottrine di Tolomeo e Filolao» (Metaph. XI XV IV [III, p. 35]).
120 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS
1
C. spiega (ad es. in Senso, p. 173) le apparenti anomalie del moto dei pianeti in maniera di-
versa dall’astronomia vigente (tolemaica; per Telesio, invece, i pianeti orbitano da occidente
a oriente, mentre «l’orbita suprema da oriente a occidente» [I,9,91]), e cioè che tutti i corpi
celesti si muovono nella stessa direzione da Est a Ovest (e non: il cielo delle stelle fisse da
Ovest a Est, e i pianeti in senso opposto [v. n. 118.22-122.4]); in secondo luogo che le orbite
planetarie sono ellittiche e non epicicloidali (escluso Mercurio e Venere che ruotano intor-
no al Sole, e poi tutto questo sotto-sistema eliocentrico ruota intorno alla Terra immobile:
quindi l’orbita risultante è un epiciclo). Perciò la terminologia corrente risulta inadeguata:
in particolare ‘retrogradatio’, che C. sostituisce con ‘velocitas’ (in Theol. III, p. 136 l’aveva
chiamata ‘subdeficentia’), in quanto i pianeti non tornano indietro, ma accelerano o decele-
rano rispetto alla velocità costante delle stelle; tuttavia, per intendersi, «loquendum ut plu-
res» (v. n. 120.11). Dal canto suo l’orbita anomala della Luna, il cui apside è in funzione del-
l’angolo col Sole, fa sì che risulti doppiamente diverso anche il suo moto apparente: da un la-
to essa viaggia a una velocità prossima a quella delle stelle, e dall’altro non sembra mai in-
dietreggiare, ma tutt’al più sopravanzare il firmamento (= ‘il primo cielo’), anche se è diffi-
cile avvertire lo scarto sotto i tredici gradi.
122 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS
1
Sensu, ‘App.’ a I, 8 (in: Senso, p. 336): sympathia «non sensus est, sed affectio ex sensu pro-
diens» (‘sensus’, sempre in accezione campan. di sensibilità diffusa e diversa secondo i va-
ri enti). C. farebbe ricorso ad essa per giustificare, secondo Crahay, p. 199, «perché questo
ritardo varia da un pianeta all’altro» rispetto al moto celeste; oppure perché sospetta, er-
roneamente, una connessione fra esaltazione e apside planetario, cadendo nell’equivoco
di identificare apogei ed esaltazioni. «Rebus supernatibus» è il simmetrico del più diffuso
‘[rebus] inferioribus’ (es.: 124.1-2; v. n. 151.2), ma non è chiaro se si riferisce a corpi o re-
gioni celesti che stanno oltre il sistema solare (come ritengo, proprio perché l’apside è
astrologicamente rilevante per C. [v. 86.18]), o addirittura oltre il firmamento (v. n.
compl.).
2
San Girolamo sostiene che gli Ebrei, nel periodo della deportazione babilonese, avevano
adottato il calendario caldaico, secondo il quale «october est primus mensis» (Comm. in
Ezech. I, 6; v. n. compl.).
3
Per ‘regione inferiore’ qui s’intende il nostro sistema solare (v. n. 124.27-8 per l’altra ac-
cezione di ‘mundus’). Circa le due teorie cosmologiche rivali, C. opterà per un terzo mo-
dello, il geo-eliocentrico, sostenendo di esserci arrivato indipendentemente da Tycho (v.n.
160.1-2 §3); e infine circa l’ipotesi dell’esistenza di altri sistemi planetari nel nostro uni-
verso, resasi imperiosa dopo l’apparizione delle comete (136.23) e dopo che il telescopio
aveva mostrato i satelliti di Giove e le ‘macchie’, solari e lunari, indizio che gli astri non
erano puramente eterei, ma erano impastati degli stessi elementi terrestri, su tale ipotesi,
dunque, C. nutriva perplessità d’ordine fisico e metafisico, ma non la escludeva a priori: il
fatto che il cosmo in cui vi è la nostra Terra sia composto di materia, e quindi quantitativa-
mente limitato, non permette di «asserire che il mondo sia finito, poiché vi possono essere
altri sistemi anche al di fuori della circonferenza del nostro cielo» (Compendio X,3; v. n.
compl.).
124 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS
Tengono doi princìpi fisi- Duo autem principia physica re- De physica
ci: il sole padre e la terra ma- rum inferiorum asserunt: scilicet
dre; e l’aere essere cielo impu- Solem patrem et Tellurem matrem. Aërem
ro, e il fuoco venir dal sole, e vero esse portionem coeli impuram ignem-
il mare esser sudor della terra 5 que omnem a Sole derivari. Mare autem su-
liquefatta dal sole ed unir dorem esse telluris vel fluorem combustae
l’aere con la terra, com’il san- fusaeque terrae in visceribus ac vinculum
gue il spirito col corpo uma- aëris atque terrae, sicuti sanguis spirituum
no; ed il mondo esser animale et corporis animalium. Mundum animal es-
grande, e noi star intra lui, 10 se ingens, nosque in eius ventre vivere, sicu-
come i vermi nel nostro corpo; ti vermes in ventre nostro. Idcirco non per-
e però noi appartenemo alla tinere nos ad stellarum et Solis et terrae
providenza di Dio, e non del providentiam, sed Dei tantum, quoniam re-
mondo e delle stelle, perché ri- spectu illorum, aliud intendentium nihil
spetto a loro siamo casuali; 15 quam sui amplificationem, casu nati sumus
ma rispetto a Dio, di cui essi et vivimus; respectu vero Dei, cuius illi sunt
sono stromenti, siamo previsti instrumenta, praescientia et ordine conditi
e provisti; però a Dio solo ave- sumus et ad finem magnum destinati. Idcir-
mo l’obligo di signore, di pa- co soli Deo obligati sumus ut patri, et omnia
dre e di tutto. 20 ab eo recognoscere tenemur.
Tengono per certa cosa Procul dubio credunt immortalitatem
l’immortalità dell’anima, e animarum, hasque post mortem associari
che s’accompagni, morendo, angelis probis aut pravis, prout illis aut his
con spiriti buoni e rei, secon- in actibus praesentis vitae sese similiores
do il merito. Ma li luochi del- 25 reddiderunt. Omnia enim sibi similia pete-
le pene e premî non l’hanno re. De locis poenarum et praemiorum pa-
per tanto certe; ma assai ra- rum a nobis discrepant. In ancipiti versan-
gionevole pare che sia il cielo tur, num alii mundi extra nostrum sint, ac
e li luochi sotterranei. Stanno furoris esse arbitrantur asserere nihil esse,
anche molto curiosi di sapere 30 quoniam, inquiunt, nihil neque intus ne-
se queste pene sono eterne o que extra mundum est, Deusque, ens infini-
no. Di più son certi che vi sia- tum, non compatitur secum nihilum. Infini-
no angeli buoni e tristi,
com’avviene fra l’uomini, ma
quello che sarà di loro aspet- 35
tano aviso dal cielo. Hanno
in dubio se ci siano |27r> al-
tri mondi fuor di questo, ma
stimano pazzia il dire che
non ci sia niente, perché il 40
niente né dentro né fuori del
mondo è, e Dio, infinito, non
LA CITTÀ DEL SOLE 125
Secondo loro esistono due princìpi fisici delle cose inferiori1: La fisica
il Sole padre e la Terra madre. L’aria non è altro che la parte im-
pura del cielo e tutto il fuoco deriva dal Sole2. Il mare è il sudore della
Terra o il fluido del magma fuso e combusto nelle sue viscere, nonché il
legame fra aria e terra, come il sangue lo è tra gli spiriti e il corpo degli
esseri animati. Il mondo è un gigantesco animale, e noi viviamo nel suo
ventre, come i vermi nel nostro. Perciò il nostro destino non dipende
dalla provvidenza delle stelle, del Sole e della Terra, ma solo di Dio, poi-
ché rispetto agli astri, spinti unicamente dall’impulso ad espandersi, la
nostra nascita e la nostra vita sono del tutto accidentali; invece in rap-
porto a Dio, di cui gli astri sono strumenti, noi siamo stati creati con
prescienza e secondo un progetto, e siamo destinati ad un grande sco-
po. Perciò siamo obbligati soltanto a Dio come a un padre, e siamo te-
nuti a riconoscere che tutto ci viene da lui.
Credono fermamente nell’immortalità dell’anima, che dopo la mor-
te si accompagna agli angeli buoni o cattivi, secondo che, per le azioni
compiute in vita, si sia resa più simile a questi o a quelli. Infatti il simile
è sempre attratto dal simile3. Sui luoghi del premio e della pena hanno
pressappoco le nostre credenze.
Sono incerti circa l’esistenza di altri mondi fuori del nostro, ed è una
follia, secondo loro, asserire che vi sia il nulla, poiché – sostengono – il
nulla non è né dentro né fuori del mondo, e Dio, ente infinito, non può
tollerare al suo fianco il niente4. Si rifiutano però di credere ad un infi-
1
La fisica campan. poggia sull’impianto classico (come l’Occidente lo eredita dal Medio
Oriente – Caldei, Egizi – attraverso la mediazione greca, in particolare pitagorica): divisione
del cosmo in due settori, il superiore etereo e il mondo sublunare costituito dalla mescolan-
za dei quattro elementi (acqua, aria, terra, fuoco), sebbene derivati e ridotti a due ‘princìpi’
generatori: il padre sole e la madre terra, due antagonisti mortali, sul cui precario equilibrio
dinamico (caldo/freddo) si regge la vita (v. n. compl.).
2
L’aria è materia celeste ispessita: «L’aria è cielo impuro, ed è calda e umida» (Compendio XI,
4); la materia celeste sta all’aria come l’aria sta all’acqua (Senso III I); Physiol. VI I,28 (glossa
B) chiarisce altresì che l’aria e l’acqua non sono, come pensa Aristotele, elementi primi; ma
il mare è sudore della terra, e l’aria ne è l’evaporazione: «generatur enim a sole... est pars
caeli impurior»; il fuoco stesso è calore solare che, addensatosi, si rende visibile.
3
È frase proverbiale fortunatissima e antichissima, risalente almeno ad Omero, Odissea XVII,
218, ripresa quasi alla lettera in ‘Canzone Quarta’ (Poesie, 79, Madr. 5, Esp.; v. n. 60.13 e
n. compl., per l’Aldilà); la legge fisica di attrazione fra i simili (v. n. 93.3) è estesa alla metafisica.
4
Se qualcuno posto sull’ottava sfera, come argomentano gli Stoici, scagliasse fuori del cosmo
una lancia, sarebbe dimostrabile che «se non va, ci sia corpo resistente, e se va ci sia spazio...
Adunque è ente, né si può intendere che sia niente... né in Dio, né fuor di Dio, perché... Dio
[sarebbe] finito, mentre ci è il niente... E così se Dio è infinito ente, il niente non si trova né
126 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS
nito corporeo1.
Pongono due principi metafisici, ovvero l’ente che è il La metafisica
sommo Dio, e il niente, che è la mancanza d’essere e insie-
me il termine a partire dal quale si produce fisicamente qualsiasi cosa:
infatti non si fa ciò che già è, dunque ciò che è fatto non c’era. Analoga-
mente di quell’ente e di quel niente si sostanzia metafisicamente l’essere
finito. E parimenti dal tendere al nulla nasce il male e il peccato; e il pec-
cato ha causa deficiente non efficiente: per causa deficiente intendono
una mancanza di potenza o di sapienza o di volontà. Nella mancanza di
volontà consiste il peccato; perciò chi sa e può fare del bene, deve anche
volerlo: la volontà infatti nasce da potere e sapere, e non viceversa. È stu-
pefacente che anche loro adorino Dio nella Trinità, dicendo che egli è
somma Potenza, da cui procede la somma Sapienza, che è insieme lo
stesso Dio, e da entrambi Amore che è insieme Potenza e Sapienza –
quello che procede non può non avere la natura di quello da cui proce-
fu mai» (Senso, p. 32). Qualunque cosa ci sia oltre il firmamento, sicuramente questa cosa
non è il nulla, contrariamente a quanto pensa Aristotele, Phys. IV («omne namque univer-
sum non est alicubi... Et extra omne et totum nihil est»), perché il nulla ‘essenziale’ sarebbe
incompatibile con l’Essere. «S’e’ [=l’Essere] fu sempre, il Niente non fu mai» (31, Madr. 4,
9): se l’Essere è, il non-essere non è. La coesistenza di Ente e niente è un’aporia blasfema:
un’aporia, perché un niente che è ente (cioè sostanziale), è un ossimoro; una bestemmia,
perché Dio, essere perfetto, esclude di per sé l’esistenza di un non-essere, che intaccherebbe
la perfezione proprio del suo predicato fondamentale, l’ontologico («nec duo Dii esse pos-
sunt, duoque prima maxima entia infinita omnino repugnat esse» [Physiol. V VII, p. 27]; gli
enti sono formati «di un essere finito e di un non-essere infinito, mentre Dio consta soltanto
di un infinito essere. Perciò se Dio è ente infinito, non può non essere qualche cosa, perché
gli mancherebbe qualche cosa, mentre l’infinito comprende tutti gli enti e non ha fuori di sé
alcuna entità: altrimenti egli sarebbe circondato e limitato dal nulla» [Theol. I (I, p. 133)]; v.
n. compl. e n. 126.7-8). Pertanto, come scriverà il gesuita Atanasio Kircher nell’Iter exstaticum
coeleste (1671), «quando ti raffiguri quello spazio immaginario che sta al di là del mondo, non
è necessariamente il nulla quello che tu concepisci, ma la pienezza della sostanza divina»
(cit. da Poulet, p. 43).
1
L’universo non può esser infinito per due ragioni, fisiche e metafisiche: il motivo fisico è
che un cielo, per quanto igneo, non potrebbe percorrere in ventiquattr’ore uno spazio infi-
nito, «idcirco mundum infinitum haud esse puto» (Quaest. phys. XI I, p. 112); le ragioni me-
tafisiche sono due: 1) «infinità di tempo, di luogo e di vigore» soltanto «in Dio» (Poesie, 3,
Esp. 8) possono darsi, perché due infiniti sono incompatibili: Dio creò il mondo «non tutta-
via dalla propria sostanza, perché allora Dio e il mondo sarebbero ugualmente infiniti e eter-
ni; d’altra parte non vi può essere che un solo infinito e un solo eterno» (Metaph. XI III II [III,
p. 17]); 2) «Da lui, per lui e ’n lui [=Dio] vien stabilito [=reso stabile, la ‘base’]/ lo smisurato
spazio e gli enti sui,/ al cui far del nïente si è servito»: proprio in quanto creature, «le cose
non sono infinite, ma mancano di Dio, partecipano il non essere e la divisione; donde nasce
il numero e la contrarietà» (3, 10 e 15, Esp.): anche lo spazio, dunque, in quanto creato, pri-
ma non c’era, e dunque, partecipando del non-essere (essendo ‘fatto’ di ente e niente), non
può essere infinito (v. n. compl.).
128 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS
mo Amore. Ma non conosce- beat naturam eius a quo procedit et non re-
no le persone destinte e nomi- cedit. Veruntamen non agnoscunt personas
nate al modo nostro, perché distinctas nominatas, ut in lege nostra Chri-
non ebbero revelazioni, ma stiana, eo quod careant revelatione, sed no-
sanno che in Dio c’è proces- 5 runt in Deo esse processionem et relatio-
sione e relazione da sé a sé; e nem sui ad se, in se et a se. Itaque omnia en-
cossì tutte cose compongono tia essentiantur eis metaphysice quidem ex
di possanza, sapienza ed potentia, sapientia et amore, in quantum
amore, in quanto han l’esse- habent esse, et ex impotentia, insi-
re; d’impotenza, insipienza e 10 pien|166>tia et disamore, in quantum parti-
disamore, in quanto pendeno cipant non esse: et per illas merentur et per
dal non essere. E per quelle has peccant, aut peccato naturae ex primis
meritano, per queste peccano, duobus, aut moris et artis in totis tribus vel
o di peccato |27v> di natura in tertio. Quippe et natura particularis pec-
nelli primi o d’arte in tutti 15 cat ex impotentia aut ignorantia faciendo
tre. E cossì la natura partico- monstrum. Caeterum haec omnia a Deo,
lare pecca nel far i mostri per omnis nihilitatis experte, praecognoscuntur
impotenza o ignoranza. Ma et ordinantur tanquam a potentissimo, sa-
tutte queste cose sono intese da pientissimo et optimo. Quare in Deo ens
Dio potentissimo, sapientissi- 20 nullum peccat, extra Deum peccat. At extra
mo ed ottimo, onde in lui nul- Deum non itur, nisi nobis et respectu nostri,
l’ente pecca e fuor di lui sì; non autem sibi et respectu sui. Namque in
ma non si va fuor di lui, se nobis est deficientia, in ipso vero efficientia.
non per noi, non per lui, per- Idcirco peccatum actus Dei est in quantum
ché in noi la deficienza è, in 25 entitatem et efficientiam habet, at in quan-
lui l’efficienza. Ond’il peccare tum habet non entitatem et deficientiam, in
è atto di Dio, in quanto ha es- qua consistit quidditas ipsius peccati, est in
sere ed efficienza; ma in nobis et a nobis qui ad non esse per deordi-
quanto ha non essere e defi- nationem declinamus.
cienza, nel che consiste la qui- 30 HOSP. - Pape, quam arguti sunt!
dità d’esso peccare, è in noi. GEN. - Profecto si memoria tenuissem et
OSP. - Oh, come sono ar- cura discedendi non sollicitarer et metu,
guti! mirabilia profunderem; at navim amitto nisi
GEN. - S’io avesse tenuto a propere discessero.
mente, e non avesse prescia e 35 HOSP. - Per fidem rogo, hoc De causa
paura, io ti sfondecaria gran unum ne caeles: quid dicunt de mundanorum
cose; ma perdo la nave, se peccato Adae? malorum
non mi parto. GEN. - Ipsi plane confitentur
OSP. - Per tua fé, dimmi multam in orbe corruptelam grassari, homi-
questo solo: che dicono del 40 nesque regi non veris superioribus rationi-
peccato d’Adamo?
GEN. - Essi confessano che
nel mondo ci sia gran corrut-
tela, e che l’uomini si reggono
LA CITTÀ DEL SOLE 129
follemente e non con ragione; bus, probos cruciari et male audire, pravos
e ch’i buoni pateno e i tristi dominari, quamvis infoelicitatem vocent
reggono; benché chiamano in- horum vitam beatam: nam annihilatio
felicità quella loro, perch’è quaedam est haec ostensio essendi quod
annichilarsi mostrarsi quel 5 non sunt, videlicet reges, sapientes, strenui,
che non è, cioè d’essere re, sancti, quod in veritate non sunt; ex quo ar-
d’esser buono, d’esser savio gumentantur magnam in rebus humanis ex
ecc. Dal ch’argomentano che quopiam accidenti perturbationem subor-
ci sia stato gran scompiglio tam esse. Et primo quasi eo pendebant ut
nelle cose umane, e stavano 10 dicerent cum Platone orbes coelestes in pri-
per dire con Platone, che li scis saeculis revolutos esse ab occasu, prae-
cieli prima giravano dall’oc- senti eo ubi nunc orientem dicimus, ac po-
caso, là dove adesso è il le- stea contrarium assumpsisse cursum. Dixe-
vante, e poi variâro. Dissero re etiam possibile fuisse ab aliquo inferiori
anche che può essere che go- 15 numine res inferiores regi atque a primo
verni qualche inferior Virtù, numine sic permitti, sed hoc assertum stul-
e la |28r> prima lo permetta, tum reputant. Ac stultius quod Saturnus pri-
ma questo pur stimano paz- mo bene regnarit ac deinde Iovem minus
zia. Più pazzia è dire che pri- bene, deinde vero caeteros successisse pla-
ma resse Saturno bene, e poi 20 netas, quamvis fateantur mundi aetates or-
Giove; ma confessano che dinari secundum seriem planetarum. Cre-
l’età del mondo succedeno se- duntque ex absidum mutationibus post mil-
condo l’ordine de pianeti, e le annos aut mille et sexcentos res variari in-
credeno che la mutanza del- signiter. Hanc nostram aetatem assignan-
l’assidi d’ogni mill’anni o 25 dam videri Mercurio, tametsi a magnis co-
mill’e seicento variano il
mondo. E questa nostra età
par che sia di Mercurio, se
LA CITTÀ DEL SOLE 131
1
Propriamente ‘annihilatio’ è una delle specie della ‘mutazione’: «La mutazione dal non-en-
te simpliciter all’ente si dice creazione; dall’ente al nulla si dice annihilatio» (Compendio XIV,3).
‘Annichilimento’, perché si vuol apparire quel che non si è: se ogni singola e unica determi-
nazione è affiancabile da infinite negazioni (A è A, ma è anche nonB, nonC...), allora l’ap-
parenza consisterà nell’assumere per determinazione non quella sola positiva, ma una delle
negative (donde l’essere un non-essere). Innumerevoli le volte in cui questa forma di non-es-
sere viene condannata: ad es. nel celebre sonetto ‘A certi amici…’ (63, 8): «il viver sporca chi
per viver finge»; oppure: l’uomo «si finge/ saggio, buon, valoroso: talché in sfinge/ se stesso
annicchilando alfin converte»; così autocommentato: «questo fingersi quel che non siamo, è
un annicchilamento di quel che siamo, assai penoso» (10,2-3; v. nn. 24.39-26.1 e 56.5); ma
Dio, alla fine della ‘commedia’ (v. nn. 84.5 e 128 [glossa]) smaschererà il niente che c’è die-
tro queste larve: «At ego in fine dierum cuncta iudicabo in comediae universalis agnitione,
redditis terrae larvis, evacuatisque scaenis» (Moralis XV, 61). Naturalmente la finzione va di-
stinta dalla generazione (un fiore diventa frutto: v. n. 126.7-8) e dall’allucinazione: i deliran-
ti «credunt se videre quae non sunt: et se esse reges, et canes et lupos: in his vera est appa-
rentia, sed non vera existentia» (Medicina, p.342).
2
Polit., 269a: nella contesa fra Tieste e Atreo per il vello d’oro, Giove, «per dar testimonianza
del suo favore ad Atreo, mutò il corso degli astri nella direzione attuale»; per Platone è una
prova della ciclicità dell’universo (v. n. compl.).
3
Un accenno alle loro mutazioni anche a 156.7 (ma v. n. 87.5); tali mutazioni sarebbero in-
tervenute a partire dalla profezia di Aggeo circa la venuta del Messia, e gli apsidi «si sono già
spostati innanzi di trentaquattro gradi secondo Copernico, Ticone e Keplero» (‘Ecloga’, 169,
16, Esp.): dal fatto che gli estremi orbitali dei pianeti toccano nuove costellazioni si deduco-
no due cose: a) la precessione degli equinozi; b) le disorbitanze dei pianeti, che, insieme al
Sole, si avvicinano alla Terra per incendiarla. In Astrol. sono riportate le tabelle delle varia-
zioni di equinozi e apogei, secondo i calcoli di Brahe.
132 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS
1
Mentre T. riporta sempre ‘congiunzioni magne’ (T.132.1, 136.18, 156.2 e 158.4), qui si par-
la due volte di grandi ‘coniunctiones’ (l’altra a 158.3) e quattro di ‘synodi’ (136.14 e 22,
142.22, 156.14), termine quest’ultimo con cui Tolomeo intendeva una congiunzione o op-
posizione dei soli Luminari, mentre a partire dal Medio Evo le si riferisce ai tre pianeti mag-
giori (v. nn. 136.22, 156.13-158.5).
2
Nessuna ironia sulla limitatezza di tale convincimento; «contentatur» e il successivo «etiam»
sono le parole cruciali, per comprendere il senso (e l’importanza) di questo passo in cui, per
l’Au., si celebra il vertice della consonanza fra ‘religio abdita’ e ‘indita’: per afferrare la cau-
sa essenziale di tutti i mali del mondo, è sufficiente ai Cristiani aver fede nelle parole della Ge-
nesi, che possono essere confortate anche da un risvolto scientifico: colpevoli accoppiamenti
(=Peccato) creano degli incolpevoli penitenti (=trasmissione di pena senza colpa), con la dif-
ferenza che le pene dei figli ricadono sui padri e sull’intera società. Si potrebbe dire che il
dogma del peccato originale sia stato qui assunto a ‘figura’ di una verità storico-naturale, e vi-
ceversa (v. n. seg., n. compl. e n. 128 [glossa]).
3
Se il padre pecca, il figlio continua a scontarne la pena; ma la colpa è del solo padre (e ov-
viamente è peggiore la colpa della pena, come insegnavano Platone, Gorg., 472e e 478-9, e
More, 182; v. n. compl.).
134 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS
dalli figli e dalle genti noi cer- et ab hominibus requirimus honorem et bo-
camo onore, alli quali poco na quibus parum elargimur, plura nos de-
damo, assai più dovemo noi beamus Deo a quo totum recipimus, totum
a Dio, da cui tutto recevemo, sumus et ubique in eo. Laus illi in saecula.
in tutto siamo e per tutto. Che 5 HOSP. - Profecto cum hi, qui naturae tan-
sia sempre lodato. tum legem norunt, tantopere propinquent
OSP. - Se questi, che segue- Christianismo, qui nihil addit supra leges
no solo la legge della natura, naturae nisi sacramenta conferentia auxi-
son tanto vicini al cristiane- lium ad observantiam illarum, ego argu-
smo, che nulla cosa aggiunge 10 mentum validum sumo mihi pro religione
alla legge naturale se non li Christiana, quod sit omnium verissima
sacramenti, io cavo argomen- quodque, sublatis abusionibus, domina sit
to da questa relazione che la futura in toto terrarum orbe, ut praeclario-
vera legge è la cristiana, e res theologi docent et sperant. Aiuntque id-
che, tolti l’abusi, sarà signora 15 |167>circo Hispanos novum orbem invenis-
del mondo. E che però li Spa- se (quamvis inventor primus sit Columbus
gnuoli trovâro il resto del maximus heroum noster genuensis) ut om-
mondo, bench’il primo trova- nes nationes in unam legem congregentur.
tore fu il Colombo vostro ge- Ergo hi philosophi erunt testes veritatis,
novese, per unirlo tutto ad 20 electi a Deo. Hinc agnosco nos nescire quid
una legge; e questi filosofi sa- agamus, sed esse Dei instrumenta; illi, cupi-
ranno testimoni della verità, ditate auri et divitiarum, novas quaeritant
eletti da Dio. E vedo che noi regiones, Deus autem finem altiorem inten-
non sappiamo quel che face- dit. Sol terram exurere contendit, non qui-
mo, ma siamo instromenti di 25
Dio. Quelli vanno per avari-
zia di danari cercando nuovi
paesi, ma Dio intende più al-
to fine. Il sole cerca struggere
LA CITTÀ DEL SOLE 135
1
Il soggetto è sempre «theologi» (esplicitato nella traduzione di Crahay, p. 213: «ces théolo-
giens»), perché l’Ospitaliero non sta riportando le tesi dei Solari, ma di «illustrissimi teologi»
(tra cui è certamente da annoverare C. stesso, autore di una sterminata Theol. e sostenitore
della riunificazione del mondo in un solo ovile, sotto il pastorale papale [Mon. Messiae]).
2
Città invece porta «il Colombo vostro genovese» (T.134.19); il cambio di persona è forse do-
vuto alla grafia dei mss, spesso abbreviato in u.ro, per cui la «v» scritta come una ‘u’ è stata
scambiata per una ‘n’. Bisogna quindi intenderlo come ‘vostro’, cioè cittadino di Genova co-
me il suo interlocutore, senza inopportune illazioni sull’‘italianità’ dell’Ospitaliero (fatte ad
es. da Crahay, p. 205).
3
Questa deduzione è da collegare a 134.14, dopo «sperant», perché conclude la prima parte
dell’analisi circa la facilità con cui, una volta ‘ridotti alla ragione’ i popoli, li si può converti-
re al cristianesimo. Mentre la seconda parte appartiene alla sfera profetale e provvidenziale
della sua teologia della storia: Cristo ha preannunciato che la fine del mondo ci sarà quando
la Terra ubbidirà ad un’unica legge; cosa che appunto sta accadendo a seguito della prodi-
giosa espansione dell’impero spagnolo – uno di quei segnali terrestri, che insieme a quelli
celesti (specificati a 136.14-25), indicano che il nuovo Avvento è certo e prossimo.
4
«Il Sole, la Luna e le stelle, agiscono sulla Terra per la sua distruzione, secondo la propria
intenzione; invece secondo l’intenzione di Dio, sono origine della distinzione, generazio-
ne e corruzione delle cose» (Compendio XII,1). Questa teoria di una Mente che orchestra al
fine di un bene superiore i conflitti ‘elementari’ è replicata incessantemente: da Epilogo,
p. 240: «Bella cosa è... che ’l calore e ’l freddo, diffondendosi da i due elementi [Cielo e
Terra] l’un contra l’altro, da sé stessi agendo contra sé stessi non intendono altro che mol-
tiplicar la natura»; ad Astrol., ‘Prefaz.’, 2, Theol. I (I, p. 65) e Metaph. VII I VI (II, p. 249):
«sotto un sapientissimo artefice, mentre il cielo e la terra si combattono, essi non realizza-
no quel che vorrebbero, cioè la distruzione reciproca, bensì ciò che non vorrebbero, cioè
la nascita dei secondi enti». L’idea di provvidenzialità divina, così com’è qui espressa, è
d’origine telesiana: I, 13; III, 35; IV,29 («in tutte le Sue opere cambia in sommi vantaggi e
136 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS
la terra, non far piante ed dem producere plantas et homines etc., sed
uomini; ma Dio si serve di lor Deus utitur ipsorum pugna ad horum pro-
in questo. Sia laudato. ductionem. Ipsi laus et gloria.
GEN. - E se sapessi che cos- GEN. - O si scires, quid per astrologiam di-
sì dicono per astrologia e per 5 cunt et ex nostris quoque prophetis de sae-
li stessi profeti nostri ed ebrei e culo venturo, et quod saeculum nostrum
altre genti di questo secolo plus historiae habet in annis centum quam
|29r> nostro, ch’ha più isto- mundus totus in quatuor milibus, plure-
ria in cent’anni che non ebbe sque libri editi sunt in hoc centenario quam
il mondo in quattro mila; e 10 in quinque milibus; et de inventione mirifi-
più libri si fecero in questi ca typographiae, archibugiorum et usus ma-
cento ch’in cinque milia; e gnetis, praeclaris signis simulque organis
dell’invenzioni stupende del- congregationis mundigenarum in unum
la calamita e stampe, arche- ovile; et qualiter, dum fiebant synodi ma-
bugi, gran segni dell’unità 15 gnae in trigono Cancri, abside Mercurii
del mondo; e com’entrando in Scorpionem procurrente, hae mirabiles in-
Cancro l’asside di Mercurio a ventiones acciderunt a Luna et Marte, po-
tempo che le congiunzioni tentibus in hoc trigono ad navigationem no-
magne si facevano in Can- vam novaque regna et arma nova. At cum
cro, fece queste cose inventare 20 mox intraverit Saturni absis in Capricor-
per la Luna, Giove e Marte, num, et Mercurii in Sagittarium, et Martis
ch’in quello segno valeno al in Virginem post primas synodos magnas et
navigare novo, novi regni e visionem novae stellae in Cassiopea, monar-
nov’armi. Ma entrando l’as- chia nova insurget et reformatio legum, ar-
side di Giove in Libra, pur se- 25 tium, et prophetae et renovatio. Et aiunt na-
gno di mutazione, sarà gran
monarchia nova e di leggi
reforma. E dicono ch’a’ cri-
LA CITTÀ DEL SOLE 137
non certo di produrre piante, uomini ecc., ma Dio si serve del combat-
timento fra la Terra e il Sole per la riproduzione degli esseri viventi. A
Lui la lode e la gloria.
GEN. - Sapessi cosa prevedono per i tempi che verranno, grazie all’a-
strologia e ai nostri profeti! Dicono che sono successe più cose in questi
cento anni che nei quattromila della storia passata del mondo, e che so-
no stati pubblicati più libri in questi cento che in cinquemila anni; e
quindi l’invenzione della stampa, delle armi da fuoco e della bussola so-
no segni evidenti e strumenti insieme della riunificazione di tutte le
genti in un solo ovile. E dicono che, mentre si verificavano le grandi
congiunzioni nel trigono del Cancro, con l’apogeo di Mercurio che ol-
trepassava lo Scorpione, sono state fatte queste scoperte mirabili grazie
alla Luna e a Marte, molto potenti in questo trigono a spronare a nuove
navigazioni e a fondare nuovi regni e a scoprire nuove armi1.
Ma non appena l’apogeo di Saturno entrerà in Capricorno, quello di
Mercurio in Sagittario e quello di Marte in Vergine, dopo le prime gran-
di congiunzioni e l’apparizione di una nuova stella in Cassiopea2, sor-
gerà una monarchia nuova, si riformeranno le leggi e le arti, verranno
nuovi profeti e un generale rinnovamento3. Presagiscono altresì che da
beni quegli svantaggi e quei mali, che accadono per necessità di materia»; v. n. 114.5-6, per
l’avvicinamento del Sole e la conseguente combustione terrestre; e n. 28.41-3 per l’Armo-
nia primalitativa).
1
Alle cause addotte da Tolomeo (comete, eclissi), C., con gli astrologi arabi e Cardano, ag-
giunge i periodi bisecolari delle triplicità (l’alternanza delle grandi congiunzioni nei quattro
trigoni, come spiegato in Astrol., p. 69-76). Della triplicità o trigono di Cancro (con Scorpio-
ne e Pesci, segni d’acqua), posto sotto la signoria di Venere, Marte e Luna (v. n. 153.3), qui si
esalta l’aspetto positivo dell’aver fomentato le scoperte geografiche e tecniche (replicato a
142.21), agevolate anche dall’apogeo di Mercurio in Scorpione, mentre Marte e Luna, «si-
gnori degli itinerari», hanno permesso la scoperta del Nuovo Mondo, e il giro del mondo di
Magellano «primus magnificus profugus»; Giove in esaltazione con Mercurio in apogeo fa-
vorì l’invenzione della stampa; e infine, Mercurio in Scorpione e Marte in aspetto favorevole
facilitarono la scoperta delle armi da fuoco (Art. proph., p. 273; a 150.5sg., dove riprende il di-
scorso, il Genovese invece espone anche gli effetti negativi di questo trigono: domini e co-
stumi femminei ed eresie [v. n. 152.19]).
2
Nel 1572 Tycho Brahe osservò nella costellazione di Cassiopea un nuovo corpo celeste (o il
collasso di una supernova?), che brillò fino al 1574 (v. n. compl.).
3
Riforma della legge precedente, e non introduzione di una nuova legge che azzeri le passa-
te (Cardano); e neppure «eversio» (Arquato), ovvero rivoluzione. Essa servirà invece ad ag-
giornare la legge esistente, raddrizzando le storture inevitabilmente venutesi a creare nel
corso di 1600 anni di storia cristiana; recuperata la lettera e lo spirito evangelici, essa coinci-
derà con la legge naturale e ne agevolerà così l’universalizzazione.
138 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS
1
Grazie all’invenzione della stampa, delle armi da fuoco e della bussola l’espansione del-
l’Occidente ha assunto ritmi vertiginosi, che in brevissimo tempo porterà alla globalizzazio-
ne, anche perché sono alle porte altre strepitose scoperte: strumenti ottici e acustici, mac-
chine volanti. Tali invenzioni sono state favorite da ‘phaenomena’ celesti: astronomici, quali
l’accelerazione delle anomalie cosmiche, prima fra tutte l’avvicinarsi del Sole, che, riscaldan-
dolo, ha civilizzato in special modo il Nord Europa (stampa e polvere da sparo sono inven-
zioni tedesche [Astrol. VII, p. 10-1; Art. proph., p. 283]); e astrologici: il passaggio delle con-
giunzioni dei pianeti maggiori dal IV al I trigono, secondo quanto sostiene Cardano, com-
porterà l’ascesa di un monarca universale (v. n. 143.1); e siccome il I è il trigono in cui Cristo
era apparso la prima volta, ciò implica, non solo la conversione e riunificazione del mondo
in «unum ovile unumque pastorem» (= il Papa), ma anche – «evelli et extirpari» – l’Apoca-
lisse prossima ventura (Art. proph., p. 275-6; v. n. compl.).
2
Questo fantascientifico strumento, coniato per mera analogia ‘sensoriale’ (vista/udito) col
cannocchiale, è puro ‘flatus vocis’, a differenza di altri ‘segreti’ dei Solari: «come il telescopio
ha reso visibili le stelle fino ad ora invisibili, allo stesso modo uno strumento auricolare per-
metterà di sentire l’armonia dei cieli, perché ogni moto è suono» (Astrol. VII, p.11). Secondo
Crahay, p. 217 sarebbe un’ennesima contraddizione con la teoria di un solo cielo (v. n. 118.23-
4): ma per C. anche i singoli pianeti girando vorticosamente nell’etere producono un’armonia
celestiale, che non riusciamo a percepire, essendo le nostre orecchie immerse in quest’atmo-
sfera tanto densa rispetto all’eterea, quanto lo è l’acqua rispetto all’aria (v. n. compl.).
3
Una prosa a volte ellittica e a volte ripetitiva, punteggiata da un ostico lessico filosofico-teo-
logico (condito da qualche neologismo), può far perdere il senso complessivo di questa e
della successiva risposta del Genovese, che segna l’inizio del lungo intermezzo qui aggiunto
(da 138.14 a 150.4) a difesa dell’astrologia: Dio è il creatore della natura, costituita da enti e
da una rete di rapporti causali gerarchizzati (v. n. 142.1-4); una volta creata, la natura funzio-
na da sola (salvo Suoi interventi supernaturali); dunque: a) il Creatore di ogni cosa e di ogni
causa non può non esser onnipresente (altrimenti, venuto meno il predicato dell’esistenza,
le cose sparirebbero), ma ciò non significa che Dio è mescolato alle cose né che si sostituisce
alle cause: Lui è il Creatore che fornisce continuamente l’essere alle cose, ma poi gli enti
hanno capacità autonoma di agire. Come dice Tommaso, 3SCG, 69, il fatto che Dio governi il
mondo non esclude le cause seconde, cioè quelle interposte fra Dio e gli effetti ultimi, e ad
esse sono da imputare le imperfezioni: un artigiano può esser un maestro della sua arte e fa-
re un pessimo manufatto per colpa degli strumenti difettosi; b) di converso l’onnipresenza
140 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS
tutte le cose in una maniera diretta, che non è però quella della causa
particolare, ma è quella del principio e della potenza universale. Non è
infatti Dio che mangia quando Pietro mangia, minge, ruba, sebbene sia
Lui a fornire l’essenza e la facoltà di mangiare, di orinare e di arraffare,
come Causa immediata generale rispetto alla Quale nessun’altra è più
diretta e ogni altra è più particolare, e tale quindi da modificare l’infi-
nità dell’azione divina.
OSP. - Benissimo! La stessa cosa sostengono i nostri dottori scolastici,
specialmente S. Tommaso contro i filosofi maomettani i quali asserisco-
no che l’operazione della causa prima1 è più diretta attraverso il contat-
to di quella della causa seconda – in 3 Summa contra Gentiles, 70, in 2 Sen-
tentiarum, distinz. 37, nel De Potentia, q. 1, art. 3 e 5, nel nono degli Opu-
scula, quest. 38, S. Tommaso insegna che la causa universale agisce per
l’azione diretta del principio e non del contatto, che è proprio della
causa particolare. Prosegui.
(e onnipotenza) di Dio non deve far cadere nell’errore opposto (commesso dai Maometta-
ni), che, essendo la causa strettamente legata all’effetto, considera quindi Dio il recondito
autore di tutto (non è il Sole che riscalda, ma Dio); c) i due Tommasi obiettano che prima di
tutto non esiste rapporto causa-effetto senza contatto (i raggi del Sole ci colpiscono diretta-
mente e ci riscaldano); e in secondo luogo che in tal modo si cadrebbe nell’assurdo che a
Dio si ascriverebbero le azioni più vili e delittuose; invece è un Pietro qualsiasi, impastato di
essere e non-essere (126.7-8), e non Dio, puro Essere, che ruba. Anzi, proprio la fallibilità de-
gli esseri è la miglior prova della loro autonomia. Anche gli astri sono cause universali auto-
nome, cioè dipendenti solo indirettamente dall’intervento divino; ma ciò non significa esser
caduti dalla padella del ‘pancausalismo’ divino dei maomettani alla brace del determinismo
astrologico. Infatti bisogna tener conto di due fattori: 1) tra le cause create da Dio vi è anche
la causa libera (=libero arbitrio) di cui ha dotato solo l’uomo, che è talmente libero da poter
bestemmiarLo (158.21; Quaest. in Eth. II I, p. 24); 2) a maggior ragione l’uomo può opporsi
alle cause universali – quando è buio infatti accende la lucerna –, specialmente se si tiene
presente che le cause celesti agiscono sul senso, e non sulla ragione (e quindi sulla volontà).
In questo modo C. crede di risolvere due delle più grosse questioni che hanno travagliato la
Controriforma: il libero arbitrio e la liceità dell’astrologia, col dotarla di uno statuto a deter-
minismo limitato (è il programma di Astrol., dove «insegna a separare l’astrologia fisica dalla
superstiziosa, senza sovvertire la Provvidenza divina né intaccare la libertà umana»
[‘Praef.’]).
1
C. distingue l’azione dall’operazione («L’operatione non è azzione né passione, come stima
Aristotele, ma l’habito dell’essere» [Epilogo, p. 224]), in quanto la seconda si esplica esclusi-
vamente nella conservazione della propria entità; ad es.: operazione del fuoco è il moto, co-
me quella della terra è la quiete; pertanto scagliare un sasso in aria è un’azione da parte del-
la causa che ha scatenato il moto locale violento, è una passione per il sasso che ne subisce
l’effetto, mentre è un’operazione il suo tendere a ritornare allo stato naturale di quiete. La
frase di Civitas significa che, secondo i Maomettani, quando vi è stretto legame, e quindi con-
tatto, fra la causa (es. il fuoco) e l’effetto (= calore), è direttamente Dio e non l’ente (=il fuo-
co) ad operare, cioè ad agire (= riscaldare; v. n. compl.).
142 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS
1
Ogni regime statuale ha il trigono di segni che più gli si confà: «in regno primus triangulus
Solis et Iovis laudatur», cioè il I trigono dei segni di fuoco (Ariete-Sagittario-Leone) è propi-
zio all’avvento delle monarchie (Astrol., p. 220-1; v. e n. 139.1).
2
Con quest’espressione cerca di mediare fra il tomistico «potenze inferiori» dell’anima (le
passioni o «appetitus» per la volontà e le funzioni conoscitive inferiori per l’intelletto: imma-
ginativa, cogitativa e memoria), «che sono strettamente legate agli organi corporei» (ST I,
115,4), e la sua teoria ‘de sensu’ e degli spiriti animali; sono presenti in questo rigo le tre
‘parti’ di cui si compone l’essere umano: «corpus», cioè l’organismo fisico; «sensum», cioè la
144 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS
* Analogamente S. Tommaso, Summa Theologica I e Summa contra Gentiles III, cap. 85.
sensibilità fornita dagli spiriti che lo pervadono; e, poco oltre, la «mens» (=l’anima), termine
che ricorre altre due volte in accezione lata (a 112.28 è il generico ‘stato mentale’, come nel-
la massima ‘mens sana in corpore sano’; a 158.28 indica il ‘pensiero’ distorto, eretico dei
Riformati); in questo caso è apparentabile invece a quel ‘senso altro’, «il senso dell’uomo in-
teriore» (Agostino, CD 11,27), cioè la coscienza, di cui Agostino stesso in Trin. 9,3,3 descrive
le funzioni: «raccoglie sia le informazioni degli oggetti concreti provenienti dai sensi corpo-
rei che quelle degli enti astratti per semetipsam». Si chiama «Mens enim ex eo quod emineat
in anima, eminentior et praestantior dicta est» (SN XXVII I); infatti Damasceno, Orth. fidei II,
216H dice che essa «nihil aliud est, quam purissima ipsius [=dell’anima] pars: quod enim
oculus in corpore, hoc mens est in anima».
1
La duplicazione non è affatto un refuso, ma la concordanza delle statistiche: è perché la
maggioranza degli uomini è asservita al senso, che la maggioranza dei pronostici astrologici
sono indovinati; infatti la stessa replicazione troviamo in Senso, p. 316 (che dichiara anche la
fonte tomistica: 3SCG, 85): «gli astrologi per lo più indovinano, perché gli uomini vivono se-
condo il senso alterato dalle stelle, per lo più, e non secondo quella mente divina che Dio gli
infonde» (la replicazione dell’avverbio, comunque, è di matrice aristotelica; ad es. Eth. Nic.,
1168b 1: «si deve amare soprattutto chi è soprattutto amico e amico è soprattutto colui che,
se vuole bene a qualcuno, glielo vuole proprio per lui»).
2
Allude a Astronomiae instauratae Progymnasmata (Prague, 1602; in: Opera omnia, ed. J. L. E.
Dreyer, Hauniae, 1916, III, 308sg [v. n. 136.23]): secondo il pronostico di Tycho (fondato sul-
l’apparizione della nuova stella in Cassiopea [136.23]), un «sovrano del Nord» sarebbe di-
ventato il monarca universale; e una serie di favorevoli coincidenze fece supporre che costui
fosse Gustavo Adolfo (duca di Finlandia era uno dei titoli dei re di Svezia) e che il 1632 sa-
146 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS
rebbe dovuto essere l’anno fatale: in effetti fu l’anno del suo massimo trionfo, vincendo con-
tro Wallenstein nella battaglia di Lützen, dove però trovò anche la morte (v. n. compl.).
1
Moto angolare di un astro infausto verso un luogo oroscopicamente ‘vitale’.
2
‘Gioviale’ è da intendersi in senso astrologico, cioè di una musica presumibilmente ‘conso-
nante’ a Giove (mentre la «musica saturnina» si addice ai funerali [Comment., p. 768]); così
come esistono anche cibi gioviali che contrastano le malattie saturnine (Astrol., p. 16: «ad ma-
la saturnina iovialibus [cibis], ad martialia venereis»). Ai pianeti corrispondono determinate
musiche, tenendo conto sia dell’‘harmonia mundi’ (Plinio, 2, 84 ricorda che Pitagora utiliz-
zava la teoria armonica per calcolare la distanza dei pianeti e chiama «distanza dalla Terra al-
la Luna un tono, dalla Luna a Mercurio mezzo tono... per un totale di sette toni che si chia-
ma diapason, cioè l’accordo universale; Saturno si muove secondo il modo dorico, Giove se-
condo il frigio e così gli altri»; perciò, essendo Giove «rotundus, temperatus», è possibile che
gli corrisponda anche un ‘tono’ e quindi un’armonia ben temperata); e sia tenendo conto
della teoria delle corrispondenze, per cui ad ogni pianeta corrisponde uno strumento o un
genere musicale (v. n. 92.1 e n. compl.).
3
Metaph. II II I (I, p. 219): «Il seme è la sintesi delle cause e dei principi e degli elementi e del-
le primalità, la quale perviene alla sostanza dell’effetto»; ‘germe’, in senso non biologico, ma
astratto: «nel seme si trovano tutte le cause, ricondotte insieme nella sostanza del causato»
(p. 220). Già Pico, VII VII (II, p. 192) paragonava la malignità dell’influsso con la peste: «a
quel modo che le vesti infette non perdono l’infezione [=a pestilentia infectae venenum] per
un certo tempo, così dicono avvenire alle parti del cielo» (v. n. 44.2-6).
148 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS
1
Nell’ordine: Gen. 1,2,2; Apoc. 8,2; 15,7 e 16,1-20; 10,3-4; 4,5; 5,1. (v. n. compl.).
2
Zc. 3,9: «Ecco la pietra che io metto dinanzi a Giosuè: su quest’unica pietra sono sette occhi:
io stesso vi inciderò sopra la sua iscrizione – dice il Signore degli eserciti –, e rimuoverò in un
solo giorno l’iniquità da questo paese». È la quarta delle otto visioni messianiche del profeta.
3
«S. Agostino si sofferma ovunque sui misteri e le virtù dei numeri, e loda Pitagora per la sua
filosofia dei numeri nel X libro della Civitas Dei, e nell’XI, cap. 30 e 31 disserta dottamente
sull’utilità del senario e del settenario, secondo la Sacra Scrittura, attestando che non è da di-
sprezzare la natura dei numeri, poiché, afferma, Dio ha creato ogni cosa ‘secondo numero,
peso e misura’« (Apol. ad lib., p. 321; v. n. compl.).
4
«Vana observantia» si ha «quando si attende un effetto da cose, che non sono cause di quel-
l’effetto, né segno posto da Dio o dalla chiesa di Dio o dalla natura, e perciò S. Tommaso,
nella [ST] II IIae q. 96, insegna che la superstizione del patto tacito si ha solo quando si ap-
pongono alle cose utilizzate per il rimedio caratteri o lettere, che sono segni e non cose ope-
ranti... Ma nel procedimento di cui si parla non si pongono caratteri né lettere, per cui non
c’è nessuna superstizione» (Apol. ad lib., p. 317).
5
Bucol. VIII, 73-5: «Terna tibi haec primum triplici diversa colore/ licia circumdo, terque
haec altaria circum/ effigiem duco: numero deus impare gaudet»: l’amante cerca di ricon-
150 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS
durre a sé l’amata lontana con un incantesimo che consiste nell’avvolgere tre volte tre fili in-
torno ad un’immagine di lei, e tre volte portarla intorno all’altare, in quanto la divinità pro-
piziatrice (Ecate, secondo Goelzer), ama il numero dispari. Vives, nel commento a CD 10, 23,
cita il passo virgiliano: «Pythagoricos in tribus posuisse perfectionem rerum... et in deorum
sacris hunc numerum solitum usurpari... Virgilius expressius: ‘Terna tibi...’»; il fatto, dunque,
che per un incantesimo tutte le azioni vadano ripetute tre volte, è ritenuta un’usurpazione
diabolica, che scimmiotta una pratica e una numerazione divina (anche per Crahay, p. 227,
nel passo virgiliano «deus» starebbe a indicare il diavolo; v. n. compl.).
1
Galeno, De simpl. medic. XI VI, ‘De agarico’, p. 814: «ex crassis aut viscosis humoribus sanat»;
Zimara, p. 194: «Reubarbarum bene hominem calefacit»; Della Porta, Magia I VIII: «Il Reu-
barbaro non purga si non la collera gialla chiamata bile... l’Agarico, la pituita» (c. 11r; v.
n. 93.1). L’agarico è un fungo «resolutivum, incisivum grossorum humorum, aperitivum om-
nium oppilationum...» (Avicenna, Canon II II [I, 107EF]), che, secondo Dioscoride: «ven-
trem purgat, et choleram et phlegma deponit... et icteros ex hepatis constipatione iuvat» (in
SN IX XXVIII); oggi è ritenuto un purgante drastico ad azione emetica. Aveva utilizzato que-
st’es. in Apol. ad lib., p. 319: «Come un medico, che utilizzasse insipientemente l’agarico per
purgare la bile nera – ciò che esso non può fare, dal momento che gli è naturale purgare la
sola pituita –, non incorrerebbe nell’accusa di superstizione, così chi con i Pitagorici ritenes-
se che nei numeri ci sia una virtù che in realtà non c’è, non per questo sarebbe superstizioso,
ma ingannato e ignorante».
2
Esemplare la parafrasi di Ernst alla similare redazione italiana: i segni femminili «favorisco-
no il prevalere di forze solitamente più deboli: di qui il dominio politico delle sovrane cin-
quecentesche». Con ‘inferiora’ s’intendono gli elementi (soggetti e oggetti) terreni diretta-
mente sottoposti agli influssi superiori celesti; espressione frequentissima, che in Astrol. ap-
pare fin dal titolo dell’Introd. («et stella agere quadruplici modo in inferiora»; v. n. 150.14-
152.4).
3
La Nubia è una delle cinque «parti principali» dell’Africa, «confinata a ponente da Gaoga,
a Tramontana dall’Egitto, a Mezogiorno dal deserto Garan», cioè corrisponde alla parte set-
tentrionale del Sudan e all’estremità meridionale dell’Egitto; «sono governati da donne,
chiamano la lor regina Gaua» (Botero, I III, p. 163). Il Monopotapa era un antico impero, ca-
pitale Zimbabue, che occupava un territorio compreso fra i fiumi Zambesi e Limpopo, e cor-
risponderebbe agli attuali Mozambico e Zimbabwe, esplorato nel 1560 dal gesuita Gonzales
de Silveyra. A nord di questa «isola» di 750 leghe di giro abita «la gente più guerriera che
habbia questo Prencipe [di Monopotapa, la quale gente] sono donne, che si governano a
guisa dell’antiche Amazone. Vagliono assai con l’arco in mano: mandano i figliuoli maschi a
i padri fuor della provintia; e tengon per sé le femmine: habitano verso occidente, non lungi
dal Nilo» (Botero, I III, p. 173). Dunque ci sarebbero varie popolazioni di donne guerriere (e
152 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS
nel mondo novo ed in tutte le mutatio sub providentia Dei, semper ad bo-
marine d’Africa ed Asia au- num inclinantis, nisi nos inclinationem per-
strali è intrato il cristianesmo vertamus. Hic mihi dixerunt mirifica de
per Giove e sole, ed in Africa consensu coelestium cum terrestribus et
la legge del Serefo per la Luna 5 moralibus, et de Christianae legis amplifica-
e Marte, in Persia quella de tione in novum orbem, et de eius perma-
Alle rinovata dal Sofì, con nentia in Italia et Hispania, et de vacillatio-
mutarsi imperio in tutti que- ne in boreali Germania, Anglia, Scandina-
sti paesi. Ma in Germania, via, Pannonia, quarum prognostica nec re-
Francia ed Inghilterra entrò 10 citare volo, quoniam sapientissimus Papa
l’eresia per esser essi a Marte noster iustis de causis vetuit, at nec de Xeri-
ed alla Luna inclinati; e fi et Sofii mutationibus in Africa et Perside,
Spagna per Giove ed Italia quo tempore Wiclef et Us et Lutherus reli-
per il sole, a cui sottostamo, gionem labefactarunt apud nos, et Minimi
per Sagittario e Leone, segni 15 ac Cappuccini illustrarunt; et quomodo ea-
loro, restâro nella bellezza del- dem coeli motione alii utuntur in bonum,
la legge cristiana pura. E alii abutuntur in malum, quamvis haeresis
quante cose saran più d’ora inter opera carnis ab Apostolo memoretur,
innanzi, e quanto imparai ac proinde passionibus sensui illatis a Mar-
da questi savi, cioè sopra l’as- 20 te, Saturno et Venere ob subiectam sponte
side di Giove in Libra, voluntatem. Hoc tamen narrabo quod Sola-
|30r>aereo, mobile, casa di res iam artem volandi invenere, aliasque ar-
Saturno, e Venere, e Mercurio tes ex Lunae et Mercurii constitutione,
padre dell’arti ed invenzioni, adiuvante Solis abside. Nam in aëre hae
e sopra la congiunzione ma- 25 possunt stellae ad artem volandi: etenim
gna che sarà in Sagittario, quod aqueum in regionibus nostris ac na-
casa di Giove e del sole; e sì tans, sub aequatore est aëreum ac volitans
come per Cancro aqueo se tro- ob situm terrae ad coelum apricum magis.
va la navigazione, cossì per Namque novam condidere quidem astrono-
Acquario aereo il volare si tro- 30 miam, ut in altero hemispherio ab aequato-
re ad austrum domus Solis sit Aquarius, Lu-
LA CITTÀ DEL SOLE 155
1
Quod rem. 4, p. 152sg. narra la storia dell’ascesa al trono di Fez e del Marocco dello «Xerif-
fus» (o ‘Serifus’), cioè dei discendenti di ‘Machomettus Bentonettus Xeriffus’, «lo Sceriffo
del Marocco, cioè il sovrano della dinastia Sa’diana, che conquistò il trono di Fez nel 1549 e
condusse il regno a grande prosperità e potenza militare» (Firpo 1951, p. 50n); mentre in
Art. proph., p. 287, ne predice la caduta. ‘Sofius’ (‘Soffius’ in Quod rem.), o Sofì, fu detto in Oc-
cidente il re di Persia, Sciah-Ismail es-Sufi, che fondò nel 1502 la dinastia dei Safawidi e rista-
bilì l’unità politica della Persia dopo l’invasione mussulmana, rendendosi famoso per le stra-
gi di popolazioni di rito sunnita, essendo lui sciita. Botero, II III, p.109-16 nel lungo paragr.
dedicato al ‘Seriffo’, esordisce: «Tra tutti i Prencipi dell’Africa non credo se ne possa alcuno
proferire in ricchezza di stato e in grandezza di forze al Seriffo, conciosia che il suo stato
comprende tutta quella parte della Mauritania», in cui è racchiusa la porzione più civile del-
l’Africa, e «tra gli altri i famosissimi regni di Marocco e di Fessa»; le sue vicende «paiono as-
sai simili a que’ d’Ismael re di Persia. Amendue s’acquistarono seguito col mantello della re-
ligione e del sangue; amendue soggiogarono in breve tempo molto paese; amendue crebbe-
ro con la ruina dei principi vicini; amendue riceverono gravi disdette da’ Turchi e perderono
una parte degli Stati loro» (v. n. compl.).
2
S. Paolo, Gal. 5, 19-20: «si svelano facilmente le opere della carne, che sono... l’idolatria, la
magia... le sètte» (v. n. compl.).
156 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS
varà; e perché segueno dopo nae Capricornus, etc. Et omnia signa et po-
la congiunzione magna l’e- testates invertunt et sub aequatore intra tro-
clissi in Ariete e Libra, segni picos aliter signa nominantur et aliter pla-
netis distribuuntur quam extra et quam in
5 subpolaribus. Et ita necesse est ex vi natu-
rae. Evax! ecquantum didici ab his sapienti-
bus de mutationibus absidum et excentrici-
tatum et obliquitatis, aequinoctiorum et sol-
stitiorum et polorum, et figurarum coele-
10 stium confusione in spatio immenso, mun-
di machina nutante, et de symbolis rerum
nostrarum cum eis, quae sunt extra mun-
dum nostrum; et quantum mutationis se-
quatur post synodum magnam [...] in Arie-
LA CITTÀ DEL SOLE 157
1
Quel che in T.154.28-30 è un avvicendamento (alle scoperte marittime fatte sotto un segno
d’acqua, com’è Cancro, seguiranno quelle aeree, quando verrà l’età dell’aereo Acquario), in
Civitas assume un’altra prospettiva: coloro che stanno agli antipodi hanno i segni rovesciati, e
perciò quel che per noi è acqueo per loro è aereo (donde i maggiori progressi aviatori dei Sola-
ri rispetto a quelli marinareschi), come appunto insegnava Astrol., I VII, art.3: «Quanto a coloro
che abitano oltre l’equatore e che osservano il polo australe, essendo equidistanti rispetto a noi
dall’equatore, hanno i domicili planetari in luogo contrario. Poiché invero la Luna è a loro vici-
nissima in Capricorno e agisce potentemente nei corpi ivi inferiori, il domicilio della Luna è il
Capricorno, quello del Sole l’Acquario (…) Queste cose gli Etiopi, i Taprobani e gli Spagnoli
che posseggono colonie sotto l’equatore possono meglio comprendere per esperienza». Quin-
di, a differenza di 114.16-7 (che rinviava semmai alla perduta Astronomia), qui si tratta della rifon-
dazione non dell’«astronomia», nell’accezione moderna, ma dell’astrologia.
2
Sono due segnali (assenti in T., ma presenti in R. e L.: v. n. 156.13-158.5) dell’avvicinamen-
to dei pianeti alla Terra (v. n. 114.1-5): eccentricità è il rapporto costante (<1) delle distanze
dei punti di una parabola (in questo caso l’ellisse orbitale) da un fuoco: l’anomalia rivele-
rebbe pertanto una variazione dell’orbita, in particolare, per C., un suo restringimento; le
«obliquitati» sono le orbite planetarie (Sole incluso, s’intende) inclinate rispetto al piano
dell’equatore celeste (per C. coincidente con quello terrestre), inclinazione che è di circa
23°30’, corrispondente alla fascia tropicale, la quale si va accorciando dai 23°51’20” al tempo
di Aristarco ai 23°28’30” misurati da Copernico (Theol. XXV, p. 177; Mon. Sp., p. 20).
3
La precessione degli equinozi, dovuta allo spostamento dell’asse terrestre, porta ad una
sempre più marcata discordanza fra sito reale delle costellazioni e zodiaco tropico, che crea
appunto la ‘confusione delle figure’ zodiacali (v. n. seg. e n. 156.10).
4
Non è chiaro (a C. stesso) se l’oscillazione riguardi i poli celesti o terrestri; oppure si tratti
di un altro degli effetti dello scivolamento della cintura zodiacale; o infine se sia un’oscilla-
zione Nord/Sud, come si direbbe da questa frase: «inveni etiam polos ex sedibus suis reces-
sisse: stellas australes factas boreales et e contra» (Lettere, p. 65). Ma in Astrol., p. 77 respinge
l’ipotesi copernicana di doppia librazione dei poli terrestri, che causa dei moti a corolla di
tutta la sfera cosmica, con ulteriore complicazione delle ghirlande orbitali («nec polos sic co-
rollari putandum»), per poi condividerla in Theol. XVIII (I, p. 57): la profezia di Aggeo sarà
completamente adempiuta quando perirà «il mondo stesso e il cielo e la terra... Infatti anche
la terra vacilla, come dimostra lo spostamento dei poli osservato da Francesco Maria di Fer-
rara e da Copernico».
5
Sulla scorta della concordia di tutti i mss di Città e principalmente della incongruenza
(astro)logica del passo, occorre restaurare una probabile lacuna omoteleutica recuperando
il dettato del ms più prossimo a Civitas, cioè L.: «dopo la grande congiunzione, e l’eclissi, che
sequeno dopo la congiunzion magna, in Ariete e Bilancia» (v. n. compl.).
158 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS
1
Intende dire angolari, dotati quindi di influssi ancor più potenti.
2
In T.158.15 era semplicemente «un uomo». Nella lettera a Schoppe, scritta cinque anni do-
po nell’orrida fossa di Sant’Elmo, gli ritorna l’incubo della sua passata tortura: «E infine sono
rimasto quaranta ore, legato con corde strettissime che mi segavano la carne fino alle ossa, ap-
peso con le mani legate e incrociate dietro sopra un legno molto affilato [=acutissimum], che
mi divorò [=devoravit] la sesta parte dei glutei e fece scorrere a terra dieci libbre di sangue; so-
no guarito con l’aiuto divino dopo sei mesi, e ora sono stato scaraventato in una fossa» (Schop-
pius, p. 71; alla tortura alludono vari passi di Lettere, pp. 52 e 59; Theol. V [I, p. 47] ecc.).
3
Nominati spesso insieme quali massimi eroi moderni (es. Mon. Sp. XXXI, p. 350: «quei che
han con virtù trovato e acquistato quei paesi... Colombo e Cortese»; in Poetica IV, p. 321 pro-
pone le loro avventure come soggetto letterario ideale); tale accoppiamento si deve a Botero,
IV II, che aveva già lodato «Fernando Cortese» a I V, p. 211: «Costui fu non meno eccellente
nel ben governare i popoli che nel soggiogarli, e nell’arti della pace che nel maneggio del-
l’armi». Del primo si è detto (v. n. 134.16-7); il secondo (di cui T.158.28 – anche in questo ca-
so, meno generico rispetto a Civitas – ricorda l’evangelizzazione del Messico) è menzionato
pure come un conquistatore (uno di «quei che fanno gran acquisti» [Mon. Sp.1, p. 78], in
quanto «astu sane Cortesius occupavit Mexicanum Regnum» [Mon. Messiae XVIII, p. 84-5]),
che andrebbe ricompensato con una munificenza più simbolica che venale. Negli anni in cui
Cortés conquistava il Messico (1519-27) si sanciva anche la rottura di Lutero con Roma.
160 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS
1
Questa frase (traduzione letterale di T.160.1-3) secondo Firpo ed Ernst 1997a, p. XLIII, rin-
vierebbe al De symptomatis mundi per ignem interituri, il trattatello che doveva andare in appen-
dice all’Astronomia (entrambi andati perduti), e al Prognosticon astrologicum de his quae mundo
imminet usque ad finem, anch’esso del 1603 e divenuto l’ultimo capitolo degli Art. proph. Tutte
queste opere erano state scritte, perse, riprese... eppure quella promessa resta ancora immu-
tata in L., in Fr. e 35 anni dopo. Oltre a una supina inerzialità testuale e al reiterato interven-
to papale sui pronostici (v. n. 142.25-144.11), si può motivare tale silenzio, in tutte le reda-
zioni di CS, con la constatazione che di fatto quelle opere non erano in circolazione? O piut-
tosto che si trattava di rivelazioni così gravi, per la chiesa o lo stato, che non potevano essere
rese pubbliche impunemente? (v. Introduzione e n. compl.).
2
Secondo Bobbio, il finale di Città è un’aggiunta posticcia (non necessariamente apocrifa):
se si dovesse tener conto del primo tentativo di congedo del Genovese, dovrebbe finire subi-
to dopo la sezione metafisica, che del resto coronerebbe degnamente la descrizione di una
repubblica filosofica. Questa intuizione di Bobbio sarebbe confermata dal finale di T., le cui
ultime tre righe sono aggiunte da altra mano (v. ‘Nota al testo italiano’). Tuttavia anche il
dialogo di Doni si conclude con una brusca interruzione: «Non aver per male che io mozzi il
tuo ragionamento...» (p. 82). E, volendoci concedere un’illazione nel congedarci, diremmo
che quella nave che si riporta via il Genovese sta andando a Taprobana, analogamente al suo
antesignano Itlodeo «che oggi risiede di propria elezione nell’isola di Udepotia, ma che di
tanto in tanto fa qualche scappata fra noi» (lettera di Budé premessa a More, p. 86; così an-
che Gilles a Busleyden: pare che «in parte divenuto insofferente delle usanze dei suoi, in par-
te spinto dalla nostalgia di Utopia, se ne sia tornato per mare laggiù» [p. 61]).
COMMENTO AL TESTO
d) c./‘colonia’: “‘Civitas’ proprie dicitur, quam non advenae, sed eodem nati in
solo condiderunt. Ideoque urbes a propriis civibus conditae, civitates non
coloniae nuncupantur” (Isidoro, XV II, VIII); Magini, 2r: “Ma certe città sono
Metropoli, che a guisa di madri di sé generano altre città. Sonoci però di
quei che chiamano Metropoli la città primaria della regione o della Provin-
cia”. In CS non usa mai ‘metropoli’,1 del resto qui assolutamente fuori luo-
go, perché 1) Città del Sole non ha colonie, ma ‘subditae’ (60.9); 2) non
clona città copie o satelliti, come Amauroto a Utopia e la città di Doni, di cui
“ciascuna provincia ne aveva una” (Mondi, p. 163); 3) Città del Sole stessa è
semmai una ‘colonia’ di profughi che ha tagliato i ponti con la madrepatria
indiana (20.12 e 62.11), costituendo una ‘enclave’ in un ambiente ostile
(64.40 e 66.6) – il XVII sarà proprio il secolo che vedrà la nascita di questa
nuova forma di colonizzazione del Nuovo Mondo da parte di comunità a va-
rio titolo perseguitate nel Vecchio.
Disegnato lo spazio semantico del nominativo (= Civitas), è facile specificare il
genitivo (= Solis), perché è l’Au. stesso a enunciarlo nell’‘Ecloga’: “urbem, So-
lis de nomine dictam” (169, 121), astro precedentemente eretto a “insegna del-
la semblea d’esso Autore” (89, 2, Esp.), cioè, come annota Firpo 1957, p. 1341:
“la ‘semblea’ è la collazione ecumenica delle genti ispirata ai princìpi della
Città del Sole e della Monarchia dei Cristiani”; ed Ernst 2002, p. 97-8: “l’immagine
solare è molto presente nel Cinquecento, in autori e in contesti diversi”: da Fi-
cino e i neoplatonici agli ermetici, dai viaggiatori che descrivevano culti astrali
nel mondo nuovo, come Benzoni, ai letterati come Ruscelli, “che parlando del-
l’insegna di Filippo II di Spagna, tesseva il più caldo elogio del sole che vi era
raffigurato”.
Per quanto riguarda la sua funzione sintattica, il titolo nella sua integralità è
stato foggiato su una triplice matrice: a) quella di ‘genere’: le utopie porteran-
no a lungo il marchio ‘u-toponimico’, cioè designeranno un nome di non-luo-
go, e di ‘Città del Sole’ non ne esistono (più); b) poi quella agostiniana (l’au-
tore più citato in assoluto da Civitas: quattro volte): nel sintagma |La Città di –|
la sostituzione di ‘Dio’ con ‘Sole’ è senz’altro voluta, perché il Sole è da un la-
to l’emblema ‘naturale’ (ovvero razionale) della divinità, e dall’altro vuol esse-
re implicitamente l’antesignana (v. n. 2.29: i Solari sono ‘catecumeni’) della
Gerusalemme celeste, “quando [ri]sorge il Messia, vero Sole” (Theol. XXV, p.
99); c) infine l’onomastica urbana ha un debole per i nomi propri, reali o em-
blematici, da sempre (es. Alessandria), ma specialmente in occasione di neo-
fondazioni urbane, sia immaginarie (Sforzinda di Filarete) che reali (la Co-
smopoli dell’architetto Buontalenti dedicata a Cosimo I de’ Medici). Si vuol di-
re che il modulo ‘città-del-sole’ rispecchia, crittografato, il sistema di battezza-
re le città col nome del fondatore; e dunque esso sta per l’auto-citazione (e -ci-
1
Ricorre, ad es., in Politica, il cui cap. VII s’intitola ‘De coloniis et civitate’: “Coloniae con-
flandae sunt ex civibus propriis metropolis imperii… Quae civitates sint metropolitanae
ipsius regionis…” (v. n. 20.18).
COMMENTO AL TESTO 165
2
Quod rem. 3, 131; Astrol., p. 228; Comestore, V: “Natus est Dominus anno regni Augusti 42,
nocte dominicae diei… Nam ea die qua dixit: ‘Fiat lux, et facta est’ visitavit nos oriens ex al-
to” [SH VI LXXXVIII]; Pico: gli astrologi arabi “sono soliti chiamare solare la nostra religione,
perché rispettiamo il giorno del Sole che chiamiamo domenica” (I, p. 621).
3
Nella Bibbia: Is. 19, 18 profetizza “Civitas Solis vocabitur una”; Gs. 19, 41 cit. da Agostino,
Quaest. in Hept. I, 136; e, nella selva di autori classici: Strabone, XVII, che la nomina per il
tempio del Sole; Plinio (V IX), che menziona anche quella araba (XI II), patria della fenice
contemplata nel bestiario Solare (16.6); Isidoro, XV I, p. 33: “Heliopolis quae latine inter-
pretatur solis civitas”.
4
Gli abitanti adoravano al di sopra di tutti gli altri dèi il Sole, “da cui sia le isole che essi stes-
si prendono il nome” (Diodoro, II XIII [I, p. 120]).
5
Con CS è avvenuto l’opposto: è stata una rivolta, fallita, a determinare la nascita di quest’al-
tra città solare (cfr Finley, p. 274-6).
6
J. Bidez, La cité du monde et la cité du soleil chez les Stoiciens, Paris, 1932 (cit. da Bobbio, p. 35).
7
Scipione Ammirato, Istorie fiorentine, Firenze, 1641, cit. da Firpo 1970, p. 387; cfr anche Fir-
po 1965, p. 70-1; e principalmente Firpo: “La suggestione più vicina e probabile sembra esse-
re quella della razionalistica ‘Civitas Solis’ o ‘Paradisus’ in cui si sarebbe dovuto parlare solo
latino, vagheggiata dal Granduca di Toscana intorno al 1585; accenna ad essa il Botero (Delle
cause della grandezza delle città, Roma, 1588, cap. I, 2)”.
166 LA CITTÀ DEL SOLE
2.c: DIALOGUS
“Est disputatio vel collatio duorum vel plurimorum, quem Latini sermonem di-
cunt” (SD I XLIII). Platone “ha scritto tutte le sue opere in forma dialogica, per-
ché comprendessimo che si può sapere solo quello che enunciamo parlando
vicendevolmente, ma che non si conoscono le cose come sono in sé” (Syntagma
IV I). La forma dialogo dunque è (stata) impiegata per la conoscenza comune
(‘doxa’), non per quella assoluta dell’essenza (‘episteme’). Il genere dialogico
è segnale di divulgatività e insieme di ‘dialetticità’, secondo il modello ‘classi-
co’ (platonico, non teatrale) della disputatio: “Componiamo i discorsi o sermo-
ni, i dialoghi e i sintagmi, non secondo il metodo delle scienze, ma secondo
l’occasione che si offre, e per la soddisfazione di coloro per i quali scriviamo, e
per la discussione dell’argomento di cui si scrive” (Syntagma III IV). L’indiffe-
renza per le coordinate primarie dell’evenemenzialità (spazio e tempo: dove
[comunque v. n. 128.31-4] e quando si svolge questo dialogo?) mostra come la
cornice dialogica sia ormai ridotta a vuoto contenitore neutro, una volta trasfe-
rita in generi non letterari (filosofico: Bruno; scientifico: Galilei; e ovviamente
politico, dalla Respublica platonica a Utopia).
2.d: POËTICUS
Intrigante la lettura (implicita) che fa Caye di questo aggettivo, che viene sol-
levato dal duplice piano letterale e (anti)realistico (si tratta, insomma, di un
finto dialogo), per diventare un traslato investente l’intera operetta: “C. de son
côté se méfie à ce point de l’utopie qu’il fera de sa Cité du Soleil, ce qu’il appel-
le une Poétique du politique et non pas une utopie, revenant ainsi à la distinc-
COMMENTO AL TESTO 167
8
“C. arriva a Padova [nell’ottobre 1592] dove... conosce Galilei (forse anche Sarpi)” (Vivanti).
168 LA CITTÀ DEL SOLE
9
Il suo rango lo possiamo ricavare, più che dal postremo “Magnus”, da quel ‘voi’ con cui gli
si rivolge il Genovese in T.2.4, che però già a T.26.10 diventa ‘tu’: “Ma toccate voi, la Signoria
Vostra (non vo’ dir più ‘tu’, ch’io mi ricordo che avete grado)” (Doni, Mondi, p. 339).
10
Cfr P. Miller, Peiresc’s Europe: Learning and Virtue in the Seventeenth Century, Yale Univ. Press, 2000.
170 LA CITTÀ DEL SOLE
11
Firpo 1970, p. 380: “un marinaio genovese ch’era a bordo delle navi di Colombo”; Battista,
p. 730: “il Genovese è addirittura un protagonista della scoperta dell’America”; il commento
di Plastina – “si deve osservare che il Colombo di cui parla il C. non può esser identificato
con Cristoforo Colombo, giacché nel corso del dialogo si parla di cose, come il cannocchia-
le, che furono inventate dopo la morte del navigatore genovese” – apre la strada a tutt’altra
ipotesi, come quella di Formichetti 1999, secondo cui è “un nocchiero genovese della nave
‘Colombo’” (p. 139): ipotesi plausibile, ma presumibilmente falsa, visto che in CS quel nome
viene a cadere.
12
D’altronde, se s’interpreta “questo secolo” di T.150.10 [150.11: “hoc saeculo”], come ‘il no-
stro secolo’, esso non può che essere il XVI.
13
Sapendo per giunta che C. vi incorreva spesso – uno degli ultimi anacronismi è additato da
Firpo 1986, in Mem. ined., p. 214 a proposito del sacco di Roma.
COMMENTO AL TESTO 171
suo esser marinaio, vi sono due casi in cui Genova è chiamata in causa: a) il pri-
mo caso è forse una svista del copista (anche se un po’ strana – v. n. 54.36-56.9)
presente solo in T.54.39; b) il secondo caso, sull’onda di un empito ‘nazionali-
stico’, compare a 134.17, dove si richiama la patria di Colombo. L’ipotesi plau-
sibile è che C., sulla scia di More (che finge un Itlodeo al seguito di Vespucci),
voleva coniare una figura di marinaio la cui ‘serietà’ era garantita dalla sua so-
la origine, cioè dall’appartenere a quella razza di navigatori, che non solo ave-
va prodotto un così ammirevole Capitano (“Supera tutte le imprese umane
quella del Colombo… il più grande degli eroi” [Poët. VII II; v. 134.16]), ma che,
forte dell’esperienza, aveva contribuito a fugare le tenebre della superstizione,
in cui vagavano anche spiriti eccelsi: “Sant’Agostino e Lattanzio si burlavano
dell’altro emisfero; e ‘l testimonio delli marinari di Colombo li convince d’er-
rore” (Lettere, p. 50). Peripezie testuali o sviste autoriali hanno poi ingarbuglia-
to gli annessi: perché se non era (crono-)logico che costui, oltre che concitta-
dino, fosse anche nocchiero di Colombo, di contro era molto più logico che
un Genovese conoscesse meglio la realtà sociale e demografica della sua città
(con la quale per giunta i numeri concordano), che non quella di Napoli, ama-
ra capitale del suo Au.14
In conclusione, è probabile che inizialmente avesse intenzione di ambientare il
dialogo in epoca prossima alla Scoperta, ma strada facendo o l’intendimento si
è perso o non si è mantenuto coerente con l’impostazione iniziale, e il punto
di vista temporale dei dialoganti è venuto a coincidere con quello dell’Au.
14
Sebbene C. ricordi che i Genovesi, fungenti da appaltatori d’imposte per conto degli Spa-
gnoli, “han nel regno di Napoli, di 2700 popolazioni che vi sono, quasi le due mila” (Mon. Fr.,
p. 442) - sui rapporti C./Genova cfr il bel contributo di Arato F.
15
Come quella dello pseudo-Ambrogio, che utilizza lo stesso verbo a proposito del viaggio di
Alessandro in India: “e Macedoniae regione consurgens, totum pene peragravit mundum”
(PL XVII, 1135-6).
16
Anche Botero, grande esploratore di biblioteche, nella ‘Dedica a Carlo Emanuele di Sa-
voia’, esordiva: “avendo io finito una peregrinatione di tanti anni… nella quale ho girato l’u-
no et l’altro emisfero”; e così l’Itlodeo moreano.
172 LA CITTÀ DEL SOLE
mare per la quale el fo portato in una grande isola”); ritrovarsi in piena cam-
pagna; incontro con abitanti che parlano la sua stessa lingua (2.14).
2.6: Taprobanam
La geografia in CS è molto poco sviluppata, coerentemente all’economia del-
l’opera, che sacrifica i dettagli non strettamente funzionali al messaggio ideo-
logico. Dal testo comunque si ricava che:
– Città del Sole si trova a Taprobana;
– Taprobana è un’isola (64.39) equatoriale (2.10);
– è prossima all’India, da dove è fuggita la comunità di bramini (20.12, 64.16), seb-
bene dai loro ex-dominatori i Solari subiscano ancora delle persecuzioni (66.7);
– tuttavia le coordinate di quest’isola sono fuori dalle rotte occidentali, per-
ché nessuno è ancora andato a predicare il Vangelo (128.4), e anzi si direb-
be che il Genovese sia il primo europeo approdatovi; di contro i Solari co-
noscono bene cultura e tradizioni occidentali, perché mandano continua-
mente osservatori in giro per il mondo (18.16, 60.13-4);
– a precisare ulteriormente la loro collocazione, contribuisce l’indicazione
dei loro rapporti commerciali e diplomatici, che privilegiano l’area estre-
morientale: Cina, penisola indocinese e isole (84.29-31), fino al Giappone
(54.20);
– della geografia isolana non si sa quasi nulla (il monte su cui è costruita la
città, campi coltivati, foreste e strade che portano al mare sono assoluta-
mente generici), salvo forse la presenza di quattro regni (64.39) e di alcune
città assoggettate (60.8, 106.10).
In sintesi, la Taprobana di C. è un (non-)luogo ibrido, collocato all’equatore
come Sumatra, ma geo-antropologicamente simile alla Ceylon premoderna, e
scelto proprio per queste sue presunte caratteristiche: l’insularità per marcar-
ne l’alterità (ad es. 30.15sg), l’antipodicità per la prossimità al luogo di prove-
nienza dei profughi indiani, ed essenzialmente l’equatorialità, luogo dal clima
ottimale, indispensabile per la felicità individuale e sociale dei suoi abitanti.
Dato questo quadro testuale, restano due questioni aperte: cos’è Taprobana e
perché proprio Taprobana?
La prima è molto complessa e insieme poco importante. Complessa, perché vi
sono ottime ragioni (come quelle avanzate da Plastina, Flamigni, Ernst, Lerner
2001 [p. 234]) per sostenere che per C. Taprobana corrisponde a Ceylon, e ve
ne sono altrettanto valide (come quelle sostenute da Bobbio, Firpo, Amerio e
altri) per propendere per Sumatra. Trascurabile, perché: a) lo scarso rilievo
che ha la geografia, la riduce automaticamente a mera cornice spaziale ‘qual-
siasi’, e dunque ‘Taprobana’ non sarebbe altro che una pura convenzione lin-
guistica, intercambiabile sia con Ceylon che con Sumatra, per cui, come scrive
Crahay, bisogna rinunciare a pronunciarsi reputando “vain de vouloir serrer
de trop près les réalités géographiques qui figurent chez les auteurs d’utopies”
(p. 63); b) di converso, proprio per la specificità del contenuto ‘ideale’, non è
tanto la realtà ‘oggettiva’ geografica quel che conta per il testo, quanto la realtà
‘soggettiva’, cioè quel che Taprobana rappresenta per l’Au. (e quindi la que-
stione cruciale non è tanto cos’è, ma perché Taprobana).
COMMENTO AL TESTO 173
17
Allude a 1Re 10, 23-8, in cui si parla di una città “Tharsis”, di “Coa” e dell’isola di Ophir, do-
ve Colombo credette di essere approdato (invece era Haiti – Anghiera, I I, p. 4); ancora Pao-
lino: “Salomonis naves tres circiter annos navigationis ad insulam Taprobanem seu Ceylan
impendebant” (Systema, p. 307); ma oggi tali nomi sono d’incerta interpretazione e colloca-
zione secondo la Bibbia concordata.
18
Niccolò dei Conti visita entrambe le isole: in mezzo a un lago di Ceylon vi è “una città re-
gale che circonda tre miglia”, governata “da certe genti che discendono dalla stirpe di Bra-
mini, i quali sono riputati i più savii che altre persone, perciò che non attendono ad altro,
tutto il tempo della loro vita, che agli studii della filosofia, e son molto dediti all’astrologia e
alla vita più civile”. Sumatra “è quella che appresso gli antichi è detta Taprobana… [le genti]
sono molto crudeli e di pessimi costumi… gli uomini pigliano quante donne lor piacciono”
e addirittura “i Taprobani mangiano carne umana, e le teste usano in luogo di monete” (Ra-
musio, II, p. 793-4).
174 LA CITTÀ DEL SOLE
nel Cinquecento, si era scoperto che l’isola tagliata dall’equatore non era
Ceylon, considerata la mitica Taprobana e l’edenica sede del paradiso terre-
stre,19 con il suo ‘pico de Adam’ avente sulla vetta la gigantesca impronta del
nostro progenitore; l’isola equatoriale, dunque era invece Sumatra, descritta
però come un luogo altamente ‘inamoenus’ con paludi e cannibali. A Plinio
si richiama anche il Botero geografo (evocato in Quaest. phys. XXIV IX, App.,
p. 236): “Plinio fa mentione della Taprobana, e prima di lui Ovidio: ‘Quid ti-
bi si calida, prout, laudare Syene, / Aut ubi Taprobanen Indica tingit aqua?’.
La qual Taprobana è sotto l’equinottiale” (I IV, p. 194); e non solo nelle Rela-
tioni dedica un paragr. a ‘Zeilan’, la più “eccellente” e “fertile” delle isole del
golfo del Bengala, “detta da gli antichi Taprobane” (I II, II, p. 24); ma nel
1607 scrive appositamente un Discorso per ribadire la sua teoria, in seguito al-
l’obiezione sollevatagli da “un cavaliere portoghese di molto giudicio e sen-
no”: costui “meravigliò confidentemente meco che nelle mie Relationi univer-
sali io avessi scritto che l’isola di Zeilan fosse quella che gli antichi chiamaro-
no Taprobana; contra l’oppinione commune, che vuole che Taprobana sia
quella che si chiama oggi Samatra [sic]”. Tranne Barros, I, 169r-v, infatti, tutti
gli autori cinquecenteschi20 ritengono ormai assodato che la Taprobana di
Tolomeo sia Sumatra – compresi i due cartografi, che C. considera prope-
deutici agli studi geografici (Syntagma IV VI): Ortelio (1570) e Mercatore
(1594). Ortelio, nella tav. dell’Asia (p. 3), la identifica in Sumatra (“Samotra
olim Taprobana” è l’indicazione sulla carta), mentre nella descrizione dell’A-
sia è chiamata solo col nome Taprobana: “Insulae quae huic Asiae ascribun-
tur, inter fere innumeras, hae sunt praecipuae… Taprobana et Zeilan in In-
dico Oceano”, riportato identico nell’Atlas minor di Mercatore curato da Io-
docus Hondius (= G. De Jode) nel 1607, dove per la prima volta Taprobana
sparisce dalla mappa, e restano solo l’isola di “Ceylon” e l’isola di “Sumatra”.
Ma anche i cartografi prendono abbagli sorprendenti: la tavola dell’Asia che
accompagna le Relationi boteriane riporta correttamente “Zeilan” sotto l’In-
dia, mentre sotto l’Equatore vi è “Samotra olim Taprobana”. Il che significa
che l’ignoto cartografo non ha rispecchiato il dettato testuale (anche Suma-
tra per Botero, I III, p. 197 è sotto l’equatore, ma non è Taprobana), bensì l’o-
pinione (e la cartografia) corrente. A far inclinare Firpo a quest’ultima ipo-
tesi, sarebbe stato quel passo di Varthema che dice che a Taprobana/Sumatra
vi sono: “quattro re de corona, li quali sono Gentili” (p. 272), proprio come a
64.39. Il che, ammesso pure che il dato sia attinto da fonti esclusivamente sto-
rico-geografiche (e non anche trans-storiche [v. n. 64.39-66.1]), è vero solo a
19
Com’era nei sogni dei Padri fino a Colombo (Collo e Crovetto, p. 65; Gil, p. 134-153); “in
essa [= Ceylon] è tanta dolcezza d’aria, tale fertilità di terra e copia di fiumi e d’acque perpe-
tue, che si dice questa esser già stata la stanza de’ primi nostri Padri” (Maffei, I, p. 180); “mol-
ti s’imaginano che qui [= Taprobana] già ci fusse il Paradiso Terrestre” (Magini, II, p. 192v).
20
Acosta, 48r; Varthema, p. 272; Maffei, I, p. 53 (pur con incongruenze, ad es. in I, p. 435:
“andò a Ceilan, ovvero alla Taprobana”); Garzoni, p. 552 (che si rifà all’ed. Ruscelli [1561]
della Geogr. di Tolomeo); Magini, II, 192v.
COMMENTO AL TESTO 175
metà, perché anche a “Zailon sonno quatro re tutti Gentili; non ne scrivo le
cose de ditta insula perché essendo questi re in grandissima guerra fra loro,
noi non potessemo star lì molto… In questa insula è bonissimo aere… e qui
non è né troppo caldo né troppo freddo… È posta questa insula sotto la linea
equinoziale” (p. 148-50). Oltre ai punti di contatto con la Taprobana di CS (il
principale è l’equatorialità; ma in più si specifica che i quattro re di Ceylon
sono bellicosi, cosa che non è detta per quelli di Sumatra), quel che è ancor
più interessante è che nella redazione ramusiana (I, p. 845) dell’Itinerario di
Varthema, mentre a Ceylon vi sarebbero “quattro re, tutti gentili” (e la nota
curatoriale rinvia proprio a Plinio: “quattuor satrapiae”), invece di Sumatra,
dice che “al parer mio (come ancor molti dicono) credo che sia la isola Ta-
probana, nella quale sono tre re di corona, li quali sono gentili”. Anche per
Magini Ceylon ha quattro reami, mentre Sumatra/Taprobana alcuni la sud-
dividono “in quattro Regni, altri in dieci e altri in ventidue. Ma otto ne sono
solamente noti”. Una testimonianza incontrovertibile, ma ignoro se C. la co-
noscesse, la fornisce Garzoni: “L’isola Taprobana oggi detta Somotra o Suma-
tra o Salice, che è sotto l’imperio di quattro re, sta all’incontro di Cori pro-
montorio dell’India” (p. 552). L’esistenza di quattro regni a Taprobana, in ef-
fetti, si basa presumibilmente proprio su un’equivoca interpretazione plinia-
na: chiuso il capitolo taprobanese, nelle edizioni attuali della Nat. hist., il suc-
cessivo (= XXV) si apre così: “Haec conperta de Taprobane. Quattuor satra-
piae, quas in hunc locum distulimus, ita se habent”; intende dire che adesso
riprende a parlare dei quattro regni persiani, cui aveva accennato preceden-
temente (p. 78: “Etenim plerique ab occidente non Indo amne determinant,
sed adiiciunt quatuor satrapias… Quatuor vero satrapiae mox paulo, ad Ta-
probanam insulam festinante animo”). Quella frase, che invece nelle ediz.
cinquecentesche (Plinio [Victorius]) chiude il capitolo taprobanese, è resa
così dalla traduzione coeva (Plinio [Domenichi]): “Le quattro satrapie lequa-
li differimmo in questo luogo, stanno così” (p. 159). Come si può constatare,
il passo pliniano si prestava, per la sua collocazione e per una certa sua ambi-
guità, ad esser mal interpretato o mal ricordato, e quindi collegato a Tapro-
bana (e non alla Persia). L’equivoco risale al Medioevo come prova il De mo-
rib. dello pseudo-Ambrogio (PL XVII, 1133), il quale narra di uno “scholasti-
co Thebaeo”, che decide di visitare “insulam quae Taprobane vocatur… in
qua illi, quibus beatorum nomen est, longissimam aetatem vivere asserun-
tur… Huic quattuor moderantur reges seu satrapae, inter quos unus est
maximus, cui caeteri subjacent, obediuntque, ut ille scholasticus referebat
(Ptolemaeus, lib. VII Geographiae, c. 4)”. Rinviando alle singole note per gli
svariati elementi di contatto fra la Taprobana ambrosiana e campan., si noti
come i quattro re isolani sono chiamati anche ‘satrapi’, a conferma dell’equi-
voco derivato da un’inesatta lettura (o tradizione) del testo pliniano.
In breve: se per Barros e Botero, Taprobana è sicuramente Ceylon (suddivisa
però in nove regni; mentre Sumatra ne avrebbe avuto ventinove “innanzi che i
Portoghesi entrassero nell’India” [I II, II, p. 23]), per tutti gli altri invece è Su-
matra, pur con notevoli imprecisioni e indecisioni: Andrea Corsali in una pri-
ma lettera a Lorenzo de’ Medici scrive di “Sumatra, che dicon esser la Tapro-
176 LA CITTÀ DEL SOLE
21
Cfr G. Mangani, Il ‘mondo’ di Abramo Ortelio. Misticismo, geografia e collezionismo nel Rinasci-
mento dei Paesi Bassi, Modena, Panini, 1998; J. Schulz, La cartografia tra scienza e arte. Carte e car-
tografi nel Rinascimento italiano, Modena, Panini, 1990.
COMMENTO AL TESTO 177
22
Per l’intera questione cfr M.-T. Gambin, ‘L’île Taprobane: problèmes de cartographie dans
l’Océan Indien’, in: M. Pelletier (a c.), Géographie du monde au Moyen Âge et à la Renaissance,
Paris, 1989 (p. 191-200).
23
“Nonnullis Iamboli insula [= Taprobana] videtur, a Diodoro Siculo descripta” (Ortelius, Sy-
nonymia).
24
Firpo traduce: “in circostanze straordinarie venne trascinato a Ceylon, donde raggiunse
Calicut”, quest’ultima menzionata anche in CS (84.31); Itlodeo sarebbe il primo europeo ad
abbordare l’isola venendo da est, reduce dalla spedizione di Magellano.
178 LA CITTÀ DEL SOLE
te secoli che vanno da Carlo Magno a Carlo Quinto, quando cioè Dio “vorrà
porre il mondo a monarchia, / sotto il più saggio imperatore e giusto”: XV, 24)
nasceranno i nuovi Argonauti: Colombo, Cortés… gli stessi eroi che ritroviamo
in CS (158.32).
Quindi dalle opere e relazioni geografiche C. ha cavato i pochi dati funzionali:
l’assenza di Paradisi edenici; l’equatorialità; i quattro regni bellicosi che giusti-
ficano la loro urbanistica, insuperabile (4.15-8) quanto il loro apparato milita-
re (66.14); gli abitanti che vivono una vita più prossima a natura che a cultura
(questo è poi il significato di Quaest. pol. IV I, p. 102 – i Solari invece sono civi-
li[ssimi] e ‘naturali’ insieme); e infine insularità+antipodicità, per ‘isolare’ ap-
punto la purezza della comunità da contaminazioni con popoli corrotti (la
“malvagità” che si ritrova in altre zone del mondo collocate all’equatore “di-
pende dalla mescolanza con quanti vivono ai tropici, ciò che nella nostra re-
pubblica evitiamo” [ib.; v. infatti 80.2-5]), e anche per farla risaltare sulla realtà
degradata: “Taprobane è stata a lungo considerata un altro mondo [alterum
orbem terrarum], conosciuto con il nome di terra degli Antictoni” (= abitanti
dell’emisfero australe – Plinio [Conte], VI, [24] 81): l’“altro mondo”, che era
stato scambiato dai Padri per l’Altro mondo edenico, diventa in C. un mondo
altro. Lancioni ha ricostruito “lo strano caso Ceylon-Taprobane” (p. 194), e
cioè il proliferare e vagare di quest’isola nella cartografia cinquecentesca, con-
cludendo (p. 205-6): “ironia della sorte, dopo tanto cercare, al posto di Tapro-
bane, là dove gli antichi avevano situato l’Altro Mondo [= gli Antictoni], tro-
viamo davvero l’Altro Mondo [= Utopia]… Un’identificazione definitiva di Ta-
probane ed Utopia può essere quella di T.C. che situa su Taprobane la Città del
Sole”.
Per concludere, alla domanda iniziale – perché quella Città del Sole, che dove-
va sorgere nella patria dell’Au., è emigrata in un’isola antipodica? –, la risposta
più suggestiva ci sembra quella data da Nigro, p. 1153: “Nel ‘non luogo’ artifi-
cioso dell’utopia che sottintende e nega la città reale, si colloca l’altra Napoli
di C.: ‘sotto l’equinoziale’, sulla linea dell’Equatore”; come dire: la Città del So-
le è agli antipodi, perché è un mondo antitetico, rispetto a quella Napoli sim-
bolo dello sfacelo occidentale (56.38).
25
A prescindere dalla ben nota ammirazione di C. per Dante, massimo “poeta cristiano”, che
“ebbe assai del pittagorico, ché beneficando il publico ha sempre favellato” (Poetica, p. 428).
26
C. sapeva bene che gli indigeni non accoglievano i ‘Conquistadores’ sempre a braccia aper-
te: gli Spagnoli “sopra la Florida Spagna e Nuova Francia e sopra Baccalaos e sopra Messico
nel settentrione non hanno potuto entrare, sendo ributtati da terrazzani” (Mon. Sp.).
27
II XIII (I, p. 120): Iambulo e un suo anonimo compagno, fatti salire a forza su una piccola
imbarcazione, dopo quattro mesi “furon trasportati ad un’Isola di forma rotonda… E come
si cominciarono a venire all’Isola accostando alcuni huomini di essa facendosi loro incontro,
tirarono alla riva la scafa. E gl’altri che quivi concorrevano, meravigliandosi della venuta di
questi forestieri, con molta benignità e piacevolezza gli ricevettero”, facendo loro vedere
“tutte quelle cose le quali eglino appresso loro si ritrovavano”.
28
È la contaminazione di due notizie della Geografia di Tolomeo, di cui Gil (pp. 49 e 65) for-
nisce altre testimonianze, a cui si può aggiungere Mandeville, che però accredita questa leg-
genda all’isola di “Oriens” [= Hormuz] e all’impero del Prete Gianni (CXXXIX e CLXV).
180 LA CITTÀ DEL SOLE
gio a causa delle secche che la circondano; proprio quelle secche che salvaro-
no Taprobana dall’assalto dei Cinesi, i quali abbandonarono l’impresa “per un
naufragio di 80 vascelli, che perderono nello stretto che è tra l’isola e il Conti-
nente, pieno di basse, scogli, sirti, che non si può navigare se non per un cana-
le” (Botero, I II, II, p. 25).
29
L’ottimalità del clima equatoriale è uno dei refrain campan.: Epilogo, p. 208; Physiol. III II,
p. 10; Gentilismo, p. 40; Medicina, p. 57; Astrol. II II, II; in Syntagma II II, esorta a “non respinge-
re a prima vista ciò che non s’accorda con il tuo intelletto; infatti troviamo molte verità che
prima collocavamo tra le cose impossibili, come quella secondo cui non era possibile vivere
all’equatore”.
30
A p. 29 dice che Tommaso avrebbe potuto spiegare il calore mortale equatoriale ricorren-
do alla spada fiammeggiante di cui parla la Genesi (3, 24): “Foedius errarunt, qui zonam tor-
ridam esse gladium flammeum angeli custodientis viam paradisi docent; cum iam nihil im-
pedimenti viatoribus & navigantibus zonam illam afferre compertum sit” (cfr anche le note
20-2 a p. 207 dell’ed. Lerner dell’Apologia, da cui si evince che tutte le ‘auctoritates’ antiche e
COMMENTO AL TESTO 181
maso, più prossimo e più utopista, reputava l’equatore inabitabile per l’eccesso
di calore (More, 6). Di contro un aristotelico convinto come Acosta, giunto in
Perù trovò la “zona torrida” così fredda che doveva mettersi al Sole all’aperto:
“che altro potevo fare, dunque, se non ridere delle Meteore di Aristotele, veden-
do che in quel luogo e in quella stagione, mentre secondo le sue regole ci sa-
rebbe dovuto essere un calore bruciante, io e tutti i miei compagni avevamo
freddo?” (I, p. 105).31
2.16: ratione
“Ratio assume presso i filosofi molti significati”, tra cui: “criterio che regola l’i-
deato e l’ideante”, come ad es. “in Sallustio, nella Catilinaria: ‘Vi mostrerò il
modo [= rationem] di evitare questo’” (Comment., p. 763). Per ‘ratio’ equiva-
lente di ‘modus’ (e che, associata a ‘philosophandi’, indica il ‘metodo’) cfr
Lerner 2001, pp. LIV e XCVI.
2.19: collis
Collina molto estesa, non molto alta (altrimenti sarebbe un ‘mons’, espressa-
mente scartato in Quaest. pol. IV, p. 102: “montes asperrimos ut minus civiles ef-
fugimus, colles elegimus ad robur civitatis”): “è monte un altissimo tumore di
terra, detto dal montare… È colle un minor monte, e quasi un monticello”
(Magini, 2v), definizione derivata da Isidoro (“montes sunt tumores terrarum
altissimi… Colles sunt praeeminentia montium iuga, quasi colla” [XIII VI]). Fu
proprio Colombo che ad Haiti “super edito igitur colle a septentrione civita-
tem erigere decrevit… Inhaeret praeter ea huius montis radicibus vasta plani-
ties, longitudinis millium passuum circiter sexaginta” (Anghiera, I III, p. 30).
Ma la fonte potrebbe esser Maffei, come parrebbe di capire dalla concordanza
di molti altri dettagli descrittivi: a Ceylon “vi sono monti vestiti di selve, che pie-
gate in forma di teatro fanno una bella vista, e nel mezzo v’è rinchiusa una
gran pianura di lungo circuito a simiglianza del piano del teatro, uno de’ qua-
li s’alza da terra quasi sette leghe, e va sempre molto diritto, e nella cima v’è un
piano molto uguale” (I, p. 180-1: il paragone col teatro può aver contribuito al-
l’idea di una struttura urbana a gironi circolari degradanti, anche se a simme-
tria rovesciata).
Nei suoi memoriali C. promette di “far fabricare una città salubre ed inespu-
gnabile” (Lettere, p. 158; Lettere1, p. 62). La scelta del colle risponde sì a esigen-
ze difensive, ma principalmente igieniche: “Altitudo locorum aërem habet cla-
rum et mundificatum, quia venti septentrionales ab altis locis nascentes ad al-
tiora loca cito penetrant. Aqua igitur eorum clara, subtilis et dulcis est. Homi-
nes pulchri coloris, fortes et sani, corpora eorum magna: humiles sunt et man-
sueti”; ‘De locis convenientibus habitationi humanae’: “In locis altis homines
sunt sani, fortes et laboris multum patientes, diu vivunt” (SN IV CXII e VI XIX).
Ciò spiega, almeno in parte, perché la Città del Sole sia edificata in cima a una
collina che degrada fino al piano, e non sul mare, come sarebbe stato più ov-
vio, trattandosi di un’isola (si pensi ad Amauroto, porto dell’isola di Utopia),
nonché più conforme allo spirito dell’epoca. Infatti gli urbanisti, sull’onda del-
le ricchezze e dei progressi procurati dalle scoperte o dai traffici marittimi,
esaltano le città marinare: “Genova, Napoli, Anversa, Amsterdam testimoniano
la potenza e i benefici del porto”, sostiene Scamozzi nell’Idea dell’Architettura
universale [1615] (cit. da Finotto, p. 176). Oppure, anziché per una collocazio-
ne intermedia, perché non optare per una soluzione decisamente montana,
molto più protetta, come suggeriva l’altra fonte principe di quest’utopia, Pla-
tone (Leg., 704-5)? Dagli atti processuali sappiamo che, se non fosse fallita la ri-
volta del 1599, la vera Città del Sole sarebbe dovuta sorgere sul monte Consoli-
no che sovrasta Stilo (a cui in gioventù [1598] aveva dedicato un sonetto: ‘So-
COMMENTO AL TESTO 183
vra il monte di Stilo’ [Poesie, 101]), distante una decina di Km dallo Jonio: “Per-
ché incitasti [sogg.: C.] all’istituzione della repubblica sulle montagne con l’e-
loquenza e le armi?” (Supplizio, p. 97); “riferivano i congiurati: ‘il monte di Sti-
lo si sarebbe chiamato monte pingue e di libertà’” (Bobbio, p. 31). In Aphor. e
Politica VII, 3-4, Quaest. pol. III, ‘in 1’ e Quaest. pol. IV I, C. analizza le due ipote-
si topografiche rivali, difendendo la sua scelta, a partire da quella geografica
equatoriale: Aristotele (Pol. VII, 6) propende per la città portuale (marittima o
fluviale) per due ragioni: a) facile accessibilità per uomini e merci; b) arricchi-
mento demografico e culturale dei cittadini; per ragioni etiche e strategiche,
“Platone invece ritiene [Leg. 704-5] che la libertà si tuteli meglio sui monti”
(Quaest. pol. IV, p. 100). Purtroppo ognuna di queste soluzioni comporta anche
degli svantaggi: per la città-mercato di Aristotele, poca sicurezza, corruzione
dei costumi e conseguente rischio di diventar preda della tirannia, ancor più
probabile nelle isole; per la città-fortezza di Platone, scarsità di popolazione e
scomodità logistica, che, impedendo un agevole scambio di cose e persone, in-
selvatichisce gli abitanti. Pertanto per una città il sito ottimale, cioè che coniu-
ghi i benefici delle due soluzioni precedenti, senza i rispettivi handicap, è un
colle non lontano da un porto, che presenta per la ‘salute’ degli abitanti van-
taggi:
– morali, in quanto si evitano le commistioni di costumi stranieri potenzial-
mente corruttori (80.1);
– politici: “ad robur civitatis” – sebbene la sicurezza della città, più che dal col-
le, è assicurata dall’architettura e dalla virtù dei suoi abitanti;
– fisici: luogo ben ventilato, e quindi salubre;
– spaziali: una città costruita in collina può avere fino al doppio dello spazio
disponibile rispetto a una città equivalente costruita in pianura (4.3-4);
– ‘panoramici’: “sopra i monti e i promontori, in verità, [le città] si edificano
più comodamente per difendere la libertà, la legge e la virtù… È necessario
poi avere attenzione… alla possibilità della vista ad oriente e verso le altre re-
gioni celesti” (Politica VII, 4); a metà fra strategia e astrologia, si colloca la
città panottica (il colle Solare si eleva solitario al centro di un’immensa pia-
nura); sia in senso attivo: sulla panoramicità insisterà Alberti: “conviene fon-
dare la città nel centro del suo territorio, in posizione tale da poter tener
d’occhio fino i margini della propria zona, discernere quanto conviene fare,
e intervenire al momento giusto dove è necessario; e tale che i fattori e i col-
tivatori possano recarsi ai campi quando vogliono e tornarsene poi traspor-
tando il raccolto… A mio parere la posizione migliore per fondare una città
dovrebb’essere una zona pianeggiante situata in montagna o un rialzo in
pianura… Gli antichi, e principalmente Platone, consigliano di fondare le
città a dieci miglia dal mare… Parimenti la positura di una città sopra la cre-
sta eminente di un’altura riesce di grande vantaggio al suo decoro, alla sua
piacevolezza, e soprattutto alla sua salubrità e sicurezza” (De re aedif. I IV, p.
36 e IV II, p. 278-80 – un trattato, che, secondo De Mattei 1953, contiene an-
ticipazioni della futura città campan.). E che il panorama sia anche requisi-
to urbanistico indispensabile lo conferma, quasi due secoli dopo (1615),
Scamozzi, esortando a prediligere i “luoghi più elevati, ricchi di aria pura, di
184 LA CITTÀ DEL SOLE
32
Cfr il sonetto ‘A Svizzeri e Grisoni’ (41); Antiven., p. 78: “li Svizzeri… vivono [in] repubbli-
ca populare sopra quelli monti, separati dalla gente, dove stanno invitti”.
33
Per l’esattezza, in Pol. 1327a 5-15 e particolarmente VII, 11, Aristotele ritiene che “la posi-
zione ideale [sia] in alto”, purché di facile comunicazione col mare, in luogo salubre come
esposizione ai venti, e ben difesa.
COMMENTO AL TESTO 185
re, 79; Brucioli caldeggia anche lui questa soluzione ‘anfibia’: occorre che “la
città possa repugnare facilmente contro a quegli che le volessero fare violenza,
e questo si farà più facilmente, se ella sia partecipe del Mare e della Terra, aven-
do l’aiuto d’ambedue le parti” (VI, 43v); Patrizi: “in parte edificata sopra colle
rilevato, perché sia più esposta all’aure… in parte posta al piano, dove la fred-
dura non può aver così gran forza” (p. 95).34
Ma un ruolo altrettanto determinante per la scelta di un tale sito collinare
l’hanno avuto le suggestioni allegorico-profetiche cristiane, a partire dalla Ge-
rusalemme celeste, costruita “sopra un monte grande ed eccelso” (Apoc., 21,
10; Is. 2, 2; 11, 6 e 9; 65, 18 e 25: “si godrà la gioia, l’allegrezza eterna in grazia
di quanto io sto per creare. Ecco, io creo Gerusalemme per l’esultanza ed il suo
popolo per la gioia… Non vi sarà più male né distruzione sopra tutto il mio
monte santo – dice il Signore”; Eb. 12, 18-22: “Voi non vi siete accostati ad un
monte che si poteva toccare… Vos autem accessistis ad montem Sion et ad civi-
tatem Dei vivi, ad Ierusalem quae est in coelo”); passi che C. cita spesso: in
Mon. Messiae: “montem sanctum tuum”, il monte Sion, “in quo constituitur Da-
vid Rex praedicans praeceptum Dei, sciunt omnes esse Ecclesiam” (III, p. 17);
in Art. proph., a proposito proprio dei vaticini sul secolo aureo prossimo ventu-
ro (p. 87); ‘Fundamenta eius in montibus sanctis’ è l’incipit del Ps., 86 [87],
cioè della profetica visione della Gerusalemme messianica, ed è anche il titolo
del paragr. incipitario dei Disc. univ., dedicato ai lineamenti dell’“ottima repu-
blica descritta da’ filosofi”, ma che sarà realizzata quando “regnarà per tutto il
mondo solo il vicario di Cristo” (I, p. 1120).
Al sacro monte, in ambito cristiano, fanno capo almeno due tradizioni: la Mon-
tagna del messaggio universale (prima di Dio a Mosè e poi di Cristo ai discepo-
li), su cui bisogna inerpicarsi per ascoltarlo e quindi poter conseguire la salvez-
za: “certe ita: Mons ecclesia appellatur, de quo dicit Propheta: ‘Mons Dei, mons
uber’ [Ps. 67]. Ascendit ergo Christus in montem, ut illic discipulis suis myste-
ria traderet veritatis, ostendens quoniam omnis qui vult discere mysteria verita-
tis, in montem ecclesiae debet ascendere” (Crisostomo, In caput Matthaei V,
Hom. IX [II, 796C]).35 L’altro archetipo è l’Eden: nel ‘Comment.’ all’Orth. fidei
II XI di Damasceno (che sosteneva l’orientalità dell’Eden), De Billy, a fine ‘500,
scrive che ovunque fosse, “scimus eum terrenum esse, et interiecto oceano et
montibus oppositis remotissimum a nostro orbe, in altum situm, pertingentem
usque ad lunarem circulum, unde aquae diluvii illuc minime pervenerint”
(214H). Dunque il Paradiso terrestre (o celeste: Olimpo) “si sviluppa sull’apice
di un luogo ritenuto in qualche modo separato dalla natura indifferenziata e
prossimo al cielo, collegato ad esso da una montagna… In quanto nesso privi-
34
Cfr S. Plastina, La figura e l’opera di Francesco Patrizi da Cherso nella critica più recente, ‘B&C’
III/2 (1997, p. 335-44); Francesco Patrizi, filosofo platonico nel crepuscolo del Rinascimento, a c. di P.
Castelli, Firenze, Olschki, 2002; e Mazzoni, De triplici hominum vita [1576], n. 1219 (cit. da Fir-
po).
35
Quest’omelia pare non sia da ascrivere al Crisostomo.
186 LA CITTÀ DEL SOLE
legiato fra terra e cielo, una montagna trasferisce il proprio prestigio ai feno-
meni architettonici – i templi, per onorare e ospitare il dio – che la coronano;
di riflesso, anche la città circostante acquista un carattere sacro” (McClung, p.
45). La montagna sacra, la montagna purgatoriale in cima alla quale c’è l’E-
den, “in attesa di raggiungere la vera città del sole, quella celeste” (Agazzi); la
montagna di Astolfo “che non lontan con la superna balza / dal cerchio de la
luna esser si stima”, sulla cui vetta “surgea un palazzo in mezzo alla pianura, /
ch’acceso parea di fiamma viva / … che più di trenta miglia intorno aggira”
(Orlando Furioso XXXIV, 48-52): il palazzo del Paradiso terrestre è fatto di pie-
tre preziose, come la Gerusalemme Celeste dell’Apocalisse (e infatti non a caso
il suo guardiano è S. Giovanni). Strofe, queste, menzionate in Theol. IV, p. 188
e addirittura lodate da C. in Poët. VIII IX: “Dottissima quella [favola] dell’Ario-
sto, che narra… ciò che i Padri immaginano sul Paradiso terrestre” (p. 1101);
sebbene lui dubiti che ci sia un Paradiso terrestre in una qualche isola beata
(Poët. IX VI, p. 1199: “l’isole Fortunate, dove gli antichi posero il paradiso, son
le più sparadisate del mondo”), o in cima a un colle: “circa il luogo del paradi-
so la disputa è viva. Alcuni infatti lo pongono su monti altissimi, dove secondo
una leggenda prodotta da semplicità di spirito e raccolta dai Padri il cielo si
congiunge alla terra. Questo è vero soltanto se si prende il cielo per l’aria, ma
allora ogni monte si congiunge al cielo” (Theol. IV [II, p. 187]).36 Il mito di Ge-
rusalemme invece permane, e su due piani: quella terrestre sarà la ‘caput mun-
di’, quando il mondo diverrà un unico ovile con un solo pastore (ad es. Theol.
XXVII IV, I: ‘Ierusalem reaedificandam fore sedem saeculi aurei potiusquam
Romam et caput monarchiae Christi’); quella Celeste è evocata esplicitamente
da C. a proposito del tentativo insurrezionale in Calabria (Supplizio, p. 141:
“Come risulta da Ezechiele e dall’Apocalisse, avrà luogo sulla Terra questo felice
Stato ecumenico… a guisa di preludio per quella Gerusalemme che si erigerà
in Cielo”; Lettere, p. 43: “al fine le reliquie dopo la rovina [= i superstiti] s’edifi-
caranno in novo tempio e nova Ierusalemme”).
Diffusamente, inoltre, raffigurazioni di una Gerusalemme idealizzata presentava-
no analogie patenti con l’urbanistica Solare: la xilografia di Hartmann Schedel
[1493] (Kruft, p. 56) replicata, esattamente un secolo dopo, in un anonimo inta-
glio su legno (McClung, p. 99), la raffigura in pianta elevata, con in vetta il ‘Tem-
plum Salomonis’ e con triplice fila di mura circolari concentriche, degradanti
lungo un colle, dalle numerose porte collocate simmetricamente lungo lo stesso
asse radiale, con i palazzi compressi fra le mura tanto che sembrano far blocco.
36
Cfr anche Apologia, pp. 13 e 57, e le corrispondenti note di Lerner 2001, pp. 207-8 e 289,
con annessa bibliografia sulla localizzazione del paradiso terrestre dall’Antichità al Medio
Evo, da P.-D. Huet [1691] a J. Delumeau [1992]: circa le congetture dei Padri – gli antipodi,
una montagna altissima addirittura fino alla Luna – Apologia è drastica: “iam deceptos eos, ex
navigantium testimonio apparet”.
COMMENTO AL TESTO 187
2.29: cathechismum
“Immagino tale repubblica [= Città del Sole] in ambito pagano, i cui abitan-
ti, in attesa della rivelazione di una vita migliore, si rendono meritevoli di
conseguirla, in quanto la loro organizzazione è conforme a ciò che detta la
ragione naturale. Si può dire che essi vivano in un periodo che prelude alla
vita cristiana, proprio come, nel Contro Giuliano, Cirillo dice che la filosofia è
stata data ai gentili come introduzione [= catechismus] alla fede evangelica”
(Quaest. pol. IV I, p. 107). La filosofia quale “catechismus ad fidem” è formula
che C. attribuisce erroneamente a Cirillo;38 infatti, come rilevava Femiano
(p. 168), probabilmente C. si confonde con Stromata I di Clemente Alessan-
drino: “Cette probabilité est renforcée par le fait que, dans un autre passage
du Gentilismo (art. 2, p. 29), C. écrit: «Data est enim gentibus ait Clemens
Alexandrinus et Cyrillus philosophia, ut catechismum ad fidem ab Autore na-
turae, a quo dicimur rationales naturaliter, et Christiani ex fide supernatura-
li»” (Lerner 2001, p. 213). Sulla propedeuticità del paganesimo al cristianesi-
mo, sulla razionalità del cristianesimo e sul fatto quindi che, se Cristo è la Ra-
gione universale, tutti i buoni filosofi, come i Solari, sono quasi cristiani, si
sofferma anche Atheismus (p. 85).39
37
Tradotta la prima volta da Passerini nel 1836, e quattordici anni dopo, sempre a Lugano,
da un anonimo, ristampata nelle Opere scelte di C. curate da D’Ancona nel 1854, è stata infine
ritradotta da Ernst 1996 (p. 97-173).
38
Comment., p. 682; Gentilismo I, p. 3; Apologia, pp. 16 e 20: “cum eorum [= i pagani] philo-
sophia sit catechismus, et nostra sit perfecta doctrina, teste Cyrillo”.
39
“La ragione naturale è effetto e raggio del Verbo o Ragione divina, che è Cristo, dal quale
tutti ci denominiamo razionali. E per questo tutto quanto i filosofi asseriscono razionalmen-
te, lo asseriscono come cristiani, sebbene non sappiano esplicitamente che Cristo è la prima
ragione” (Theol. I [I, p. 21]; cfr anche Atheismus, p. 85 e Frajese 1998, p. 340-1; v. n. 120.20-4).
188 LA CITTÀ DEL SOLE
2.29a: politiam
Parola d’origine greca (‘politèia’ – “perché è costituita di armati”), è usata da Ari-
stotele sostanzialmente in due accezioni: retto governo di popolo, contrapposto
alla democrazia, sua degenerazione (Pol. 1279a 37-9); “‘ariste politeia’ significa
anche costituzione perfetta” (Bertelli, p. 295), che è la seconda accezione: l’or-
dinamento ideale, mediano, è incarnato astrattamente dalle Leggi platoniche
(1265b 25); e concretamente dalla costituzione spartana: “la politia è, per dirlo in
maniera generale, una mistione di oligarchia e di democrazia… la mistione ha di
mira solamente agiati e disagiati, ricchezza e libertà”; la perfetta riuscita di questa
sintesi si ha “quando è possibile dire la stessa costituzione democrazia e oligar-
chia… e questo succede a una costituzione che stia al centro, giacché allora cia-
scuna delle sue forme estreme si riconosce in essa” (1293b-1294b). Ambrogio
usa ‘politia’ per un’organizzazione ‘politica’ a cui guarda con simpatia: la ‘re-
pubblica delle gru’ (V XIV, 50-2). Nell’Umanesimo passerà quindi a significare
genericamente forma o prassi di governo (spesso riferita all’organizzazione poli-
tica Comunale). La parola sarà d’uso corrente nel lessico giuridico cinquecente-
sco (Spinasatus, I II, 3; Botero, I IV, p. 201), e la ritroviamo frequentemente an-
che nelle opere politiche campan.: Afor. 5 e 146n; Politica III, 8: “Il dominio di
uno buono si dice regno e monarchia; di uno malvagio tirannia. Di più buoni,
aristocrazia; di più malvagi, oligarchia. Di tutti buoni, politia; di tutti malvagi, de-
mocrazia”; Oecon. III I, p. 197; Lettere1, p. 36: “non han potuto i filosofi trovar me-
glior modello di republica che la monarchia in San Pietro fondata e la politia di
tanti vescovi e arcivescovi e senato di cardinali”; Mon. Sp. XXX, p. 336, in acce-
zione strettamente aristotelica: nell’avvicendarsi circolare delle forme di gover-
no, la politia segue l’oligarchia e degenera in democrazia; Antiven., p. 79 e Disc.
Princ., p. 134, dove ‘politia’ “vale appunto: buon governo” (Firpo 1954, p. 1340;
ripreso da Amerio e Giancotti, p. 441); ma anche in una poesia del 1606 (86,
175-6): l’ape “Oh, come sape – politìa e governo / d’està e d’inverno!”, che è l’u-
nica attestazione riportata dal GDLI (nell’accezione di “prassi di governo”). Il
lemma latino, identico nel significante, lo è anche nel significato di ‘sistema di
governo’: quella del tiranno è una “fragilis politia” (Mon. Messiae I, 8); ed esorta
il re persiano affinché “politiam habeas humaniorem” rispetto alla spietatezza
dei Turchi (Quaest. pol. IV, p. 107).
40
Alberti [Bartoli] ricorda che “la Città certo del Sole edificata da Busiride, la quale chiama-
no Tebe… girò venti miglia” (IV III, p. 106).
COMMENTO AL TESTO 189
Le misure della città fornite dal testo, infatti, sono insufficienti a ricostruirne la
pianta; il testo non ci dice neppure il numero dei suoi abitanti, malgrado questa
sia una preoccupazione costante tanto di Platone che di More. Ci mancano in-
fatti le tre dimensioni dell’anello abitato di ogni girone, in partic. la larghezza, e
l’ampiezza del piano sulla vetta del monte. Pertanto non è possibile sapere: a) se
la struttura a bersaglio è totalmente (dalla circonferenza al centro) o solo par-
zialmente (dal settimo al primo girone) omogenea: cioè il raggio dei 7+1 cerchi
concentrici ha un incremento costante (70+x passi), oppure lo spazio dov’è eret-
to il tempio (6.22-5), ha rispetto agli altri un raggio maggiore (y+63 passi =
[(350:6,28)+8]); b) perché i 50 passi dei gironi (T.4.26) sono diventati 70 (4.24),
e i 300 del tempio (T.8.11) sono passati a 350 (8.12-3): privi della pianta urbana,
sono possibili solo illazioni sia sulla ragione di quelle grandezze sia sulle cause
del loro aumento – pratico-funzionali, simboliche o altro?41
Le fonti: un possibile referente, specie per la minuziosa descrizione, ma anche
per una profonda identificazione dell’Au. con il Profeta esiliato e perseguitato,
è Ez., 40-8: Ezechiele rapito in estasi vede “sopra un monte altissimo… costrui-
ta una città” quadrata con al centro il tempio, la cui urbanistica presenta varie
somiglianze con quella Solare (ad es.: “un muro che lo cingeva dai quattro ven-
ti” [42, 20], che ricorda il nome delle porte Solari [4.19]; le celle e cellette
adiacenti al tempio [41, 6-7], come a 10.1-7), e naturalmente fra le numerose e
dettagliate misure fornite, alcune cifre coincidono, come il “cinquanta” (cubi-
ti) di spazio libero intorno al tempio, che è un quadrato di 500 cubiti (45, 2); o
il “settanta” (cubiti) di lunghezza dell’edificio occidentale (41, 2), l’“otto” e il
“due” (cubiti) del vestibolo (40, 9); però anche l’incubatrice di tutti i futuri vi-
venti, l’arca (Gen. 6, 15), è lunga trecento cubiti e larga cinquanta, numeri non
solo biblicamente rilevanti,42 ma anche “esemplati sulle proporzioni del corpo
umano” (Agostino, CD, 15; e C. stesso: l’arte imita la natura “e fabbrica le navi
come uccelli… le città come organismi del corpo umano” [Theol. I (II, p. 39)]).
Di queste misure faranno tesoro gli architetti: da Alberti (IX VII, p. 834) a Vil-
lalpando, che attraverso un sontuoso commento (proseguito poi da Prado) al-
la visione della Gerusalemme celeste, getta le basi di un’architettura ideale ba-
rocca (In Ezechielem explanationes, Romae, 1596-1604, 3 vol.).
41
A proposito della minuziosità del dettaglio e dell’eccesso, diceva Sciascia: “quanto più sono
inverosimili tanto più sono nei dettagli precise” (‘Quel che Voltaire si è perso’, in: Gli amici
della Noce, Sciardelli, 1997).
42
Origene, In Genesim Hom. II (PG XII, 171): “si Scripturis sanctis intendas ex otio, permulta
invenies magnarum rerum gesta sub tricenario vel quinquagenario numero contineri”.
43
Ad es. in ‘Salmodia’ 86, 65-6: montuosità e avvallamenti rendono la superficie terrestre più
capiente che se fosse tutta pianeggiante.
190 LA CITTÀ DEL SOLE
struite su alture, vi sarebbe anche quello per cui, a parità di superficie, essa
conterrebbe “plura” che se fosse contenuta in piano; i suoi detrattori invece
obiettano che “nec plures mons capit, quam area eius” (Quaest. pol. IV, p.
100). Amerio, semplificando, prova a spiegarlo così: poiché la città si estende
lungo i fianchi del monte, “è come ipotenusa rispetto a cateto”. Il ragiona-
mento è geometricamente ineccepibile, ma architettonicamente impraticabi-
le. Infatti a 6.15-21 si dice che il dislivello viene ammortizzato attraverso le
doppie porte, e quindi proprio sotto l’anello dei fabbricati, che avranno il
muro esterno più alto di quello interno, per cui o le case hanno il pavimento
in pendenza parallela a quella del monte (con effetti comicamente immagi-
nabili); oppure hanno regolari impiantiti ortogonali alle pareti, ma in tal
modo il loro pavimento è diventato uno dei cateti. Allora in che consiste que-
sto vantaggio, tenendo conto altresì che lo spazio aperto fra i gironi è stato
terrazzato (6.14-5)? Il discorso, per giunta, avrebbe senso solo quando, in su-
perfici molto estese, l’incremento di curvatura è molto basso, e in pratica
l’arco è di poco più grande della corda; in superfici ridotte o in forti dislivel-
li, il necessario ricorso al terrazzamento annullerebbe il vantaggio. In realtà
C. non sta parlando di superficie abitativa, ma di spazio in generale – si noti
che Civitas parla di “plura” (neutro), e non di “plures” (= persone), come fa
Quaest. pol. IV; e allora, non solo è indubbio che la superficie semisferica è
maggiore (fino al doppio) dell’area del cerchio sotteso, ma poiché si tratta di
un “collis ingens” in larghezza, proprio per quanto appena detto, non sareb-
be da escludere anche una maggior capienza abitativa. Più in generale, in
Quaest. pol. IV, C. sostiene che il suo progetto urbano unisce il vantaggio igie-
nico e difensivo della città montana platonica (Leg., 778c: “sulle alture per ra-
gioni di difesa e di pulizia”; 704b-705: evitare intrusioni e contaminazioni
straniere [v. 80.1]), a quello espansivo della città marittima aristotelica, senza
patirne gli svantaggi: per la città-porto di Aristotele la scarsa sicurezza e il de-
cadimento dei costumi;44 per la città-fortezza di Platone,45 la scomodità logi-
stica e la penuria di abitanti, cui qui provvede un’adeguata eugenetica, quan-
titativa oltre che qualitativa (controllo della razza).
44
Ma v. nota 1 a pag. 192.
45
Anche Machiavelli, in base proprio a considerazioni strategiche, dettate dai nuovi arma-
menti, sosteneva che “le terre… forti per natura” sono quelle poste “sopra un monte erto…
perché quelle poste sopra a’ monti che non sieno molto difficili a salirgli, sono oggi, rispetto
alle artiglierie e le cave, debolissime” (VII, p. 597).
COMMENTO AL TESTO 191
46
“Formata di cinte concentriche, la disposizione della detta fortezza è tale, che una cin-
ta non supera la vicina che dell’altezza dei merli. Il sito, che è una collina isolata, può già
in certa misura concorrere a questa disposizione; ma essa fu, per la maggior parte, realiz-
zata appositamente. Il numero delle cinte è di sette in tutto; ed è nell’ultima che si trova-
no i palazzi e i tesori. La più estesa è all’incirca della lunghezza della cinta di Atene. Nel-
la prima cinta i merli sono bianchi; nella seconda neri; nella terza porpora; nella quarta
blu; nella quinta rosso aranciato… delle due ultime, una ha i merli argentati e l’altra do-
rati” (I, 98).
47
“Pro sui [= del cielo] concameratione graece dicitur ‘uranon’ idest palatium: unde dicitur
‘coelum’ quasi ‘casa Helios’, idest Solis, quia Sol sub ipso positus ipsum illustrat” (Comestore
in SN III I; v. n. 8.28).
192 LA CITTÀ DEL SOLE
spora come gli antichi Ebrei, possono trarre solo dal Libro della Natura i lo-
ro modelli.48
– Facilità e stabilità mnemonica: Camillo dice che il suo sforzo principale è
stato quello di individuare ‘luoghi’ della memoria non caduchi, a differenza
delle altre mnemotecniche, e “che tengano sempre il senso svegliato e la
memoria percossa… pertanto piglieremo i sette pianeti, le cui nature an-
chor da’ volgari sono assai ben conosciute… Questa alta et incomparabile
collocatione fa non solamente officio di conservarci le affidate cose, parole
et arte, che a man salva ad ogni nostro bisogno informati prima la potremo
trovare, ma ci dà anchor la vera sapienza ne’ fonti di quella, venendo noi in
cognition delle cose dalle cagioni et non da gli effetti”, allo stesso modo in
cui se volessimo vedere un bosco per intero, cercheremmo “una erta, la qual
ci conducesse sopra un alto colle: del bosco uscendo, dall’erta comincerem-
mo a veder in gran parte la forma di quello; poi, sopra il colle ascesi, tutto in-
tiero il potremmo raffigurare. Il bosco è questo nostro mondo inferiore, la
erta sono i cieli, e il colle il sopraceleste mondo” (p. 53-4: l’equivalenza con
la Città del Sole è perfetta, compreso anche il Tempio in cima al colle).
– Robustezza: la forza difensiva poggia in piccola parte sulla proverbiale soli-
dità della fabbrica celeste (per la metafora architettonica del cielo v. n.
116.5), e in gran parte sulla simbolica del ‘sette’: “Salomone al nono de’ Pro-
verbii dice la sapienza haversi edificato casa, et haverla fondata sopra sette
colonne. Queste sette colonne significanti stabilissima eternità, habbiamo
da intender che siano le sette Saphiroth del sopraceleste mondo”. Il luogo
veterotestamentario cit. da Camillo (p. 51: sette colonne simbolo di massima
stabilità) è integrabile da un altro archetipo, legato da un lato alla cosmolo-
gia e dall’altro a un celeberrimo episodio biblico: le sette spire del labirinto
oppure – che per certi versi è lo stesso (cfr Kern, p. 166sg) – le sette proces-
sioni necessarie a espugnare Gerico; come già osservato (da ultimo Mollia,
p. 46) a proposito del “sette fiate” di T.4.15-6, per far cadere le mura di Ge-
rico, occorrerà che sette sacerdoti per sette giorni l’assaltino a suon di trom-
be (Gs. 6, 3-5).
48
Sulle prime città edificate a immagine del cielo cfr G. Della Pergola, Le città antiche cosmo-
goniche, testo&immagine, 2001.
49
Il ‘sette’ è al secondo posto con ventiquattro occorrenze, metà delle quali però a 148.9sg:
v. n. 146.27-148.2 e da n. 148.9-15 a n. 148.21-3.
COMMENTO AL TESTO 193
d’Israele accorrenti dai quattro venti del cielo” [2, 4]; Dio “raccoglierà i di-
spersi di Giuda dai quattro angoli della terra” [11, 12]), divenuta una sineddo-
che topicamente indicante la totalità spaziale, ma che in CS ha spesso (44.3-4;
86.4; 112.21) una valenza tecnica astrale; b) Botero: “Era in Cuzco il ricchissi-
mo tempio del Sole… Eravi una piazza spaziosa, onde erano tirate 4 strade alle
4 porti [sic] dell’imperio”; e c’era anche il tempio “dell’idolo Vitzilpuitzli”, che
“aveva quattro porte, volte alle quattro parti del mondo, e a ciascuna risponde-
va una strada lastricata lunga sei e più miglia” (V I, 6). Ma anche la meno spa-
zio-temporalmente esotica Vitry-le-François, voluta da Francesco I a metà Cin-
quecento, ha i quattro assi viari principali denominati e orientati cardinalmen-
te (Klein, p. 314).50
Se Vitruvio prevedeva un accesso alla città sghembo, per agevolare la difesa,
che divenne regola aurea nel Medio Evo (“Curandumque maxime videtur ut…
portarum itinera non sint directa, sed scaeva” [SD XI XXI]), nel Rinascimento
invece Francesco di Giorgio Martini opta per la simmetricità e la linearità degli
assi viari: “Se la città fusse locata in un poggio rotondo… le strade che proce-
dono dal centro alla circunferenzia debbano sempre essere dritte, et a le porti
correspondere” (Tratt. di Arch. III, cit. da Le Mollé, p. 297).
50
Le Mollé (p. 286-7) la considera, dopo Sforzinda e con la Città del Sole, uno dei pochi ca-
si di città ideali rinascimentali che s’ispirano a un modello cosmico.
51
Per notizie e bibliogr. degli autori cit., cfr la nota di Firpo 1954, p. 1373; inoltre per Nicola
Antonio Stigliola (o Stelliola) cfr Formichetti 1999, pp. 29 e 40; Lerner 2001, p. 171-2, ed
Ernst 2002, p. 260; secondo DBIt, autore di Della vera disciplina è Giulio Cesare e non Lelio
Brancaccio, il quale alla fine degli anni Ottanta “si offriva a Venezia come consulente per i la-
vori di fortificazione della cittadella di Bergamo”.
194 LA CITTÀ DEL SOLE
le lezioni tenute da Galileo che furono raccolte in due trattati sull’arte delle
fortificazioni (Opere II, p. 79-146).
52
1Re 6, 33-4; Comestore, XVIII (in SH I LXXVII): “In latere meridiano erant quattuor portae
duplices valvas habentes, quae laminis aureis et argenteis miro opere erant decoratae” - le
‘porte’ del tempio, “cioè le colonne”, sono chiamate “valvas” a 102.35.
COMMENTO AL TESTO 195
4.25: moenia.
Indica le mura di delimitazione della città (64.23 e 78.22), a precipuo scopo
protettivo; in questo unico caso coinvolge il secondo girone (che è anche abi-
tativo) per pura economia della frase, essendo le mura dei gironi interni de-
nominati ‘parietes’ (4.40), ‘muri’ (6.41) o ‘moeniana’ (6.7 e 40.6). Rabano
Mauro, De Universo XIV I (PL CXI, 384): “moenia sunt muri civitatis dicta ab
eo quod muniant civitatem… proprie autem moenia sunt tantum muri: mu-
rus autem turribus propugnaculisque ornatur” (che riecheggia proprio 4.17-
8, ed è replicato a 76.2-3). L’idea di un blocco unico case-mura risale a Leg.,
779ab di Platone: “Se bisogna veramente che un qualche muro di difesa ab-
biano gli uomini, è necessario che fin da principio si gettino le fondamenta
delle case dei privati, in modo che tutta la città stessa sia una fortezza, e tutte
le case siano disposte sulle strade in modo regolare, fatte nella stessa forma,
adatte alla difesa; non è spiacevole a vedersi una città che ha l’aspetto di una
sola casa, e sarebbe anche cosa eccellente per la sicurezza dei singoli e dello
stato sulla base della facilità con cui si presta alla vigilanza” (cfr anche Crizia,
117de).
4.29: fornices
I “revellini” (di norma sono delle fortificazioni a protezione dei punti deboli
della cortina muraria – principalmente delle porte53 –, ma nella Città solare so-
no delle logge sporgenti a mezza altezza dai palazzi) e i “passeggiatori” (T.6.5 =
camminamenti di ronda) diventano corridoi e porticati in Civitas: l’aspetto bel-
licistico della Città del Sole viene lievemente depresso a vantaggio di quello di-
dattico.
4.39: fenestras
La loro funzione è prevalentemente igienica (non estetica): quando il passag-
gio dei venti purificatori è “impedito dalle case, vi suppliscono le finestre con-
trapposte, in modo da chiudersi alle correnti nocive ed aprirsi a quelle benefi-
che” (Quaest. pol. IV, p. 103), come insegnavano Virgilio (Georg. IV, 297-8), Al-
berti (I XII, p. 80), e lo si ritrovava in Agostini.
53
Bisogna “coprire le porte con rivellini, in modo che non si entri o si esca dalla porta per li-
nea retta, e dal rivellino alla porta sia uno fosso con uno ponte” (Machiavelli, VII, p. 601).
COMMENTO AL TESTO 197
8.3: rotunditatis
Gli antichi “pensavano che a’ varii Dii si avessero a fare e convenissero varie for-
me di Tempii: percioché lodavano che al Sole e a Bacco era bene di farli tondi”
(Alberti [Bartoli], VII III, p. 205).
8.9: spiraculum
“Le finestre dei templi devono essere di dimensioni modeste e in posizione
ben elevata, sì che attraverso di esse non si possa scorgere altro che il cielo, né
i celebranti e gli oranti siano sviati altro che dal pensiero della divinità” (Alber-
ti, VII XII, p. 616).
fine si esamini la storia delle cose celesti e terrestri…” (Syntagma II II e III; la co-
smografia celeste e terrestre è riprodotta anche nelle cortine del tempio, e nel-
le mura esterne del tempio e del primo girone [v.12.12-7 e 12.24-6]; per la più
dettagliata descrizione dell’altare v. 112.32-6).
8.28a: stellae
È il termine più diffuso (venti ricorrenze in Civitas) per indicare genericamen-
te i corpi celesti; solo in qualche caso è possibile dedurre dal contesto se si rife-
risce alle stelle (es. 136.23 per la ‘nova’ apparsa in Cassiopea) o ai pianeti (es.
120.17, 154.25). Un sinonimo è “sidera”, usato solo quattro volte: due nel sen-
so di pianeti (120.36 e 146.14) e due come corpi astrali (142.29 e 144.4).
“Astra” invece compare una volta sola a 159.25, anch’esso in accezione lata.
‘Constellatio’ (quattro ricorrenze: 44.11, 48.9, 74.30, 158.26) ha significato
astrologico di ‘concorso di corpi astrali’, legati ad un oroscopo (v. n. 44.10-1).
Malgrado esistano anche vocaboli specifici per ognuno dei corpi celesti (nove
ricorrenze di ‘planeta’, quattro di ‘fixa’ per le stelle del firmamento, sei di ‘si-
gnum’ per le costellazioni zodiacali, e un “cometes” a 146.12), predomina
un’approssimazione lessicale, pur essendo l’Au. un esperto di scienze astrali.
Ciò non deve affatto stupire: già Isidoro testimoniava una diffusa improprietà
linguistica in fatto di astronomia: “Stellae et sydera inter se differunt. Nam
54
Cfr Gerardo Mercatore, Catalogo, Ed. Bibl. e Civ. Museo di Urbania, 1996.
55
Cui si può aggiungere che Alberti [Bartoli], VII XI, p. 240 apprezzava “quel che scrive Var-
rone che nella volta [del tempio] fusse dipinta la forma del Cielo, e una stella mobile, che
con la sua lancetta [= raggio] dimostrasse qual’hora fusse del giorno, e che vento ancora ti-
rasse dal lato di fuora. Certo che siffatte cose piacciono grandissimamente”, e sedussero in-
fatti Colonna, Hypnerotomachia, p. 194, che l’adottò per il suo tempio di Venere.
200 LA CITTÀ DEL SOLE
‘stella’ est quaelibet singularis, ‘sydera’ vero sunt stellae plurimae factae, ut
Hyades, Pleyades; ‘astra’ autem sunt stellae grandes, ut Orion, Lucifer, Bootes.
Sed haec nomina scriptores confundunt, et astra pro stellis et stellae pro syde-
ribus ponentes” (III LX).
56
Identica partizione del mondo in [pseudo-]Galeno, De hist. phil. XIX XII ‘De divisione coe-
li’ e XXI ‘De divisione terrae’.
202 LA CITTÀ DEL SOLE
è l’Agnello… Come infatti il Sole produce in questo mondo i giorni e gli anni,
così nel secolo futuro e nella Gerusalemme celeste la faccia di Dio produce il
giorno perenne e gli anni eterni senza interposizione di notte” (Theol. XXV, p.
143).57
57
Per la doppia comparazione lucerna/Sole e Sole/Dio, v. n. 142.10-2, n. 146.7-20, n. 148.21-
3; per il ‘fuoco perenne’ cfr Ex. 27, 20-21 e Lev. 24, 4: Aronne “terrà in ordine le lampade sul
candelabro d’oro puro, perché ardano di continuo davanti al Signore”; e infine per la sim-
bologia del sette v. n. 146.27-148.2 e da n. 148.9-15 a n. 148.21-3.
58
Così anche: Theol. XVII, pp. 77 e 173; Theol. XXV, p. 79; Quaest. pol. III, p. 90. Lessico (“iux-
ta exemplar”, ad es. in Ex. 26, 30) e figuralità biblica sono presenti anche in: Ludovico, 66, 1
(135v); Apologia, p. 22; e risalgono ai primi pensatori cristiani (ad es. la concezione del co-
smo/tabernacolo è già in Clemente Alessandrino, Strom. V, 6).
59
C. aveva potuto leggere di Zoroastro nell’Iside et Os. plutarchiano, cit. in Quaest. pol. IV, p.
121.
COMMENTO AL TESTO 203
ognuno dei bracci del candelabro “sette fiaccole e sette lampade [= ‘lampa-
dià’], simboli di ciò che i sapienti chiamano pianeti” (Mosis II, par. 102-3).60
Un’ultima suggestione è l’incipit del Purg., XXX: “Quando il settentrïon del
primo cielo”, in cui i sette candelabri (simbolizzanti i sette doni dello Spirito
Santo [XXIX, 50] – sette candelabri e sette doni anche a 148.11-3) vengono pa-
ragonati alle ‘septem triones’, cioè le sette stelle dell’Orsa, in un contesto alta-
mente profetico-visionario. Il tema dovette tornare in auge nel ‘500 anche in
aree non strettamente ortodosse, visto che tra gli scritti di Camillo Delminio
contenuti nel cod. 59 della Bibl. Univers. di Pavia, vi è una Breve et chiara inter-
pretazione del Candeliero exemplare;61 ed anche altrove accenna al “candelabro au-
reo con sette lucerne significanti i sette pianeti” (Camillo, p. 112). Altra fonte
non trascurabile è Doni, che apre il ‘Mondo massimo’ con un comm. all’Esodo:
“Mentre ch’io rimiro tutte l’università di questo mondo, mi si rappresenta il
gran Tabernacolo di Moisè, nel qual si può comprendere quanto gran misterio
egli avesse dentro, e poiché si può appropiare all’essempio del mondo, che fu
cavato dal divino modello… Che vuol dire che ‘l candellieri aveva sette rami?
Non altro che i sette pianeti che illuminò e formò il Lume e il Fattor dell’uni-
verso… E il lume dell’Evangelio venne a illuminare il mondo con sette doni
dello Spirito Santo” (Mondi, p. 190-2).
60
L’allegoria o ‘modello’ lo si ritrova ‘in extenso’ in Filone, Quis, par. 215-6, 440-1 e 567; e an-
cora: Giuseppe Flavio, Antiq. jud. III VI, 7; Pietro Comestore, super Gen., cap. 57 e 66 (in SH II,
XXIV): “per septem lucernas candelabri septem planetas”; Pico, Heptaplus, II Proem., p. 187: la
parte media del tabernacolo “era illuminata da un candelabro a sette braccia che indicano,
secondo gli interpreti latini, greci, ebrei, i sette pianeti”.
61
Segnalato da Vasoli 1977, che si chiede “se sia veramente del Delminio (morto nel 1544)
la versione del Candelabrum typicum, pubblicato a Venezia soltanto nel 1547 dal Postel” (p.
197-8).
204 LA CITTÀ DEL SOLE
– ubi: si riferisce a tutte le stanze (= celle e cellette), o alle sole celle grandi in-
feriori?
– sacerdotes et religiosi: sono due categorie distinte, o è una dittologia sinonimi-
ca, visto che di ‘religiosi’ Solari il testo non farà più parola?
– quasi quadraginta: a prescindere che le edizioni latine riportano “quasi qua-
draginta novem” (ma si tratta probabilmente di una svista, cui si è voluto ri-
mediare in questa edizione – v. n. 22 della ‘Tavola delle emendazioni’ lati-
ne), quaranta è il numero totale degli ecclesiastici, o dei soli fantomatici ‘re-
ligiosi’?
– etc.: di solito serve a interrompere un elenco sequenziale omogeneo, di cui il
testo ha fornito un numero sufficiente di elementi atti a individuarlo (es.:
12.24: “sunt et propositiones et definitiones etc.” [= ‘e così di seguito’]);
però, in questo caso (che è anche la prima occorrenza in Civitas), “etc.” non
è preceduto da nessun catalogo ripetitivo, ma semmai tronca una descrizio-
ne, che il lettore non potrà completare da solo: che cosa sottintende, dun-
que?
Per sciogliere i vari dubbi, viene in soccorso T. (e la pressoché concorde tradi-
zione manoscritta italiana). Proviamo a ricostruire diacronicamente quel che è
potuto accadere nel corso delle principali stesure di questo passo. In prima ste-
sura – “e qui abitano li religiosi, che sono da quaranta” (T.10.4-6) – l’intenzio-
ne autoriale è abbastanza nitida: nelle celle inferiori, quelle cioè menzionate
nella frase immediatamente precedente, abitano i (soli) quaranta religiosi. In-
fatti l’Au. presumibilmente ha già in mente, a quest’altezza testuale, due punti
che tratterà in seguito: a) che gli ufficiali (o magistrati) superiori sono tutti “sa-
cerdoti” (T.104.19-20); b) che costoro sono quaranta (T.96.8). Ed è agevole
presumerlo: il primo punto, per ovvie ragioni ideologiche (C. è un teocratico);
il secondo, perché quel numero è l’aritmetizzazione della ‘tetractis’ pitagorica
(v. n. 96.6), setta d’appartenenza dei Solari (T.64.17). È molto probabile che
l’Au. sapesse già anche a chi fossero destinate le cellette superiori del tempio:
ai ventiquattro sacerdoti di T.106.39, che hanno collocazione e funzioni diver-
se degli ufficiali-“religiosi”. Il che ci induce a escludere che “religiosi” di T.10.5
sia sinonimo di ‘sacerdoti’ o indichi la classe generale in luogo della specie par-
ticolare, ma sta appunto a denotare una precisa categoria del clero Solare: la
magistratura superiore. L’unica ‘svista’ commessa dall’Au. è di non aver man-
tenuto coerentemente in tutto il testo tale distinzione lessicale: in Città, infatti,
non riappare più il termine ‘religioso’, ma userà sempre e solo ‘sacerdote’ (co-
me si è appena visto a T.104.18-9 – per cui non si capiva più se sul tempio c’e-
rano quaranta religiosi e ventiquattro sacerdoti, quaranta in tutto, oppure, co-
me rilevava già Bobbio, i quaranta originari nel prosieguo diventavano con-
traddittoriamente ventiquattro). A ulteriore conferma che i quaranta religiosi
delle celle sono proprio e solo gli ufficiali superiori sta il fatto che, immediata-
mente dopo aver descritto la struttura del tempio, il Genovese elenchi l’orga-
nigramma Solare, a partire dal “prencipe sacerdote” (T.10.17): il nesso implici-
to tra la pianta topografica e quella organica della nomenklatura Solare non
può che esser proprio quel “religiosi” – e si può anche comprendere, almeno
in parte, la sparizione del termine ‘religioso’, proprio perché in una frase co-
COMMENTO AL TESTO 205
62
Ammesso che volesse alludere alla somma dei sacerdoti delle cellette e del nuovo numero
di ufficiali-religiosi, avremmo avuto 24+13 = 37, che semmai sarebbe ‘quasi quadraginta’ e
non ‘quadraginta novem’; ed essenzialmente sarebbe in contrasto con l’architettura templa-
re che prevede un numero maggiore di celle, e quindi di religiosi, e un numero minore di
cellette, e quindi di sacerdoti.
63
Un uso analogo di “etc.” per rinviare ad un altrove dello stesso testo è a 64.3: l’educazione
militare è impartita alle donne, affinché, “si quando opus foret, opem ferre masculis in bello
propinquo civitatis etc., ac moenia tueri…”; quell’“etc.” sospende - e qui addirittura a metà
frase - la trattazione dell’impiego delle donne in battaglia, perché sarà ripresa a 70.1-10, e
quindi sottintende: ‘come si vedrà in seguito’.
64
Ovvero: a quest’altezza testuale il Genovese sta descrivendo solo parte del clero Solare – gli
ufficiali-sacerdoti –, ma ve n’è un’altra parte, distinta per collocazione e mansioni, di cui si
farà menzione ‘via di seguito’: i sacerdoti.
206 LA CITTÀ DEL SOLE
roborata (a prescindere dalla discrasia delle cifre) da CS. Infatti tutti i magi-
strati sono sacerdoti (44.19); o meglio: solo i magistrati superiori (104.22), a
partire da Hoh, che è il sommo sacerdote e capo supremo (10.18), general-
mente prescelto tra i ventiquattro che dimorano sul tempio (108.12-3). Essi so-
no mediatori (108.11: “copula”; T.108.10: “mezani”) fra dio e l’uomo, a volte
anche solo fra uomo e uomo, come ad es. il Forense (66.18), e i loro compiti
sono in genere confessionali (104.23-4). Mansioni precipue dei ventiquattro
sacerdoti invece sono la preghiera quattro volte al giorno (106.42sg) e le osser-
vazioni astrologiche, con finalità molto pratiche – ad es. determinare l’ora pro-
pizia alla riproduzione dei generatori (42.26 e 108.9), mentre essi, pur non os-
servando il voto di castità, non sono di norma procreatori (44.20-1 e 108.16-8).
Come si diventa religioso lo si apprende solo da L. (v. 78.25 in ‘Apparato delle
varianti di a’: il migliore nelle discipline speculative diventa lettore per poi di-
ventare sacerdote, potenziale futuro Hoh); oppure la vittima umana, scampata
al rito sacrificale, viene accolta in questa eletta schiera (106.34; v. 106.35 in ‘Ap-
parato delle varianti di a’). Si direbbe che l’Au. avesse in mente una doppia
struttura clericale scandita spazialmente sul duplice asse alto/basso e inter-
no/esterno: ventiquattro sacerdoti-sacerdoti (sapienti) ‘superiori’, che vivono
cioè nelle cellette in alto ed hanno mansioni esclusivamente interne al tempio
(preghiera e osservazione degli astri); e quaranta religiosi-ufficiali ‘superiori’
(in senso solo gerarchico, perché loro risiedono nelle celle in basso), che inve-
ce si occupano della gestione corrente e quindi prevalentemente esterna della
Città. Da Città a Civitas la spazialità è sostanzialmente rimasta invariata, o addi-
rittura resa ancor più nitida da almeno due nuovi elementi: il dimorare dei sa-
cerdoti nelle cellette (106.30); l’esplicita assegnazione del sacrificio perpetuo
al popolo (108.22).
Ora si può tentare di rispondere ai quesiti posti all’inizio:
– ubi: si riferisce alle sole celle inferiori;
– religiosi et sacerdotes: le quali celle sono abitate dai religiosi/magistrati,
– quasi quadraginta: che sono in tutto quaranta, quante sono (/erano origina-
riamente e correttamente) le magistrature,
– etc.: ‘e il resto in seguito’, ovvero: dei (ventiquattro) sacerdoti-scienziati resi-
denti stabilmente nelle cellette superiori, e delle loro funzioni se ne ripar-
lerà a partire da 104.21 (v. n. 106.41-4 sulle fonti del duplice ordine ecclesia-
stico Solare).
Infine, a ulteriore e terminale riprova che il numero corretto è quaranta (e
non 49 o 13, frutto di sviste di copisti e non intenzionali revisioni d’Au.), si può
addurre l’importanza che esso riveste nella ‘numerologia’ campan.: quaranta
sono le ore di tortura di Cristo e “quarant’ore di tormento” (T.158.14) sono
quelle patite dall’Au., alludendo all’ultima tortura del ‘polledro’, che durò in
effetti trentasei ore (Firpo 1954, p. LXXVI). Ciò significa che quel ‘quaranta’
ha un forte potere modellizzante (nel caso della sua tortura, l’arrotondamento
deriva naturalmente da un’identificazione con quell’altro Messia ingiustamen-
te perseguitato). Dunque è un numero carismatico, legato com’è alla sfera del
sacro e del sacrificio, replicato nel rito delle “quaranta ore” di fresca istituzione
(T.108.25; v. n. 118.3 e n. 106.41-4, dove si chiarisce, come su accennato, che
COMMENTO AL TESTO 207
non vi è alcun nesso fra il numero dei sacerdoti delle cellette [= 24] e il sacrifi-
cio perpetuo). Formichetti adduce un’ulteriore testimonianza: nel Commentum
in carmen cuius titulus ‘Vera sapientia mortis meditatio’ di Urbano VIII, composto
di quaranta versi, “C. ritiene non casuale la scelta [del numero di versi] fatta da
Maffeo Barberini e ricollega il numero quaranta ai giorni del digiuno di Mosè
e di Elia e alla Quaresima, attribuendo ad esso un significato magico e propi-
ziatorio” (p. 35). Il quaranta, del resto, era una cifra carica di valenze simboli-
che sia ‘naturalistiche’ (quaranta giorni è la nona parte dell’anno – ne tratta,
ad es., Alberti, IX V, p. 818), sia religiose: Ephrem Siro (III, 230sg), nell’esalta-
zione ‘In sanctos quadraginta Martyres’, e Isidoro in Liber numerorum (PL
LXXXIII, 197-8: il quaranta “plenitudinem indicat temporum”) fanno un am-
pio excursus delle presenze e valenze di questo numero in luoghi cruciali bi-
blici; e in partic., nella descrizione della reggia di Salomone, cui C. si è proba-
bilmente ispirato per ideare le dimore dei sacerdoti solari, ricorre spesso que-
sto numero per indicare delle misure: 1Re 6, 17: “lunga quaranta cubiti”; 7, 38:
“il bacino conteneva quaranta bati”.
comm. XVI III, XIII, p. 402: “de eorum numero non jam inter omnes convenit; alii
enim esse quatuor praecipuos volunt, tum alios innumeros statuunt, aliis octo
esse placet, aliis duodecim, alii item quatuor et viginti commemorant”. Infatti
Marco Polo e gli architetti umanisti (da Alberti, I III a Filarete) adottano il mo-
dello vitruviano a otto direzioni, e suoi multipli (nell’ed. Cesariana alle carte
XXV-XXVIII vi sono varie rose di venti, compresa una sezione di pianta urbana
le cui strade sono orientate in base a una rosa di ventiquattro venti); e quello di-
venta lo standard moderno, come conferma Imperato, che traccia una rosa a ot-
to direzioni “secondo il moderno uso” (IX IV, p. 242). E C. stesso, come si è visto
e come anche farà altrove, adotta il quadrante a otto: “Dai quattro cardini del
Mondo e dai quattro punti opposti dei Tropici si segnano otto venti, distinti in
ogni regione con diversi nomi, ed in mezzo di loro se ne segnano altri che si
vanno dividendo per l’uso della navigazione” (Epilogo, p. 281).65
10.13: climatis.
In senso tecnico ‘clima’ è l’inclinazione del Sole rispetto all’equatore; gli astro-
nomi antichi avevano suddiviso la Terra in fasce climatiche latitudinali, dall’equa-
tore ai poli (e da oriente a occidente), per cui è passato a significare zona geo-
grafica (v. n. 8.33). Isidoro, III XLII: “Climata coeli, id est, plagae vel partes qua-
tuor sunt”, cioè orientale, occidentale, settentrionale, australe; “sunt et alia cli-
mata coeli, quasi septem lineae ab Oriente in Occidentem, sub quibus et mores
hominum dispares, atque animalia specialiter diversa nascuntur; quae vocata
sunt a locis quibusdam famosis”: Meroe, Siene, Catachoras [= Africa], Rodi, Elle-
sponto, Mesoponto, Boristene. “Li savi la [= Terra] trovaro divisa per l’operazio-
ne de li planeti en sette parti, li quali so’ chiamati climata, sì che ciascheduno pla-
neta ha lo suo clima come ciascheduno signore ha la sua provinzia” (Restoro d’A-
rezzo, II, 5, 9); si hanno così sette “strisce longitudinali diverse secondo la latitu-
dine” (Morino, p. 202), a partire dal “primo clima” che è “da lato del cerchio de
l’equatore”, dove il giorno è uguale alla notte e vi sono due estati e due inverni
(Restoro, ib., che riporta da Alfragano, p. 86sg, anche le varie regioni e città che
stanno sotto ogni clima). La restrizione della previsione deriva dalla consapevo-
lezza, come dice Pico, che “nei mutamenti meteorologici… la stessa situazione
stellare [= ab eadem constellatione] determina variazioni atmosferiche diverse
nei diversi luoghi, là violente, qua tranquille, qui nevi, là sereno” (II, p. 471).
65
In queste pagine si trattano anche le funzioni dei venti, il loro nesso con clima, agricoltu-
ra, salute ecc., temi che interessarono fin da subito C.: in Phil. sens. c’è un paragr. dedicato a
‘De signis ventorum’ (p. 333).
COMMENTO AL TESTO 209
T.112.5-7, riportano: “si scrive nel libro dell’eroi chi ha trovato arti nuove o se-
creti d’importanza”; tutti, salvo quattro (deteriori) che invece del relativo chi
hanno la congiunzione che. A favore del che (o comunque di una interpretazio-
ne del chi come congiunzione non necessariamente dichiarativa) militano va-
rie argomentazioni grafologiche e intratestuali:
a) il capostipite generale di questi quattro mss (il Berlinese) reca un anodino
“ch’ha”, il che spiega la duplicità delle lezioni nei suoi discendenti;
b) spesso la grafia antica della ‘e’ è molto prossima a quella della ‘i’; inoltre un
errore ortografico rivela un travisamento del copista di T. (“… si scrive nel li-
bro dell’Eroi. Chi ha…”) di fronte a una congiunzione presumibilmente
causale (‘… dell’Eroi, ché ha’);
c) il chi sarebbe pleonastico, reso implicito dal “vivendo” iniziale e dal sogget-
to sottinteso, mentre il che ci fornisce un dato supplementare, ovvero che
nell’albo d’oro sono segnati non solo gli inventori, ma anche – ed è meno
ovvio – le invenzioni;66
d) il che permette di comprendere meglio la natura, la funzione, nonché l’ori-
ginale collocazione (nella cupoletta del tempio) del misterioso “libro in let-
tere d’oro di cose importantissime”: le ‘cose importantissime’ sono appunto
questi ‘secreti d’importanza’ tecnico-scientifica dei Solari;67
e) quando CS ritorna sull’argomento sacerdoti, loro numero e residenza
(106.41), dopo poco (112.8) compare il “libro dell’eroi”, che, non solo ha
una singolare (fortuita?) assonanza col precedente (più marcata in R.: “d’e-
roi”/“d’oro”); ma per giunta in Città il sintagma ‘importan-’ compare solo
due volte, e proprio in relazione al contenuto dei libri (del libro).
In conclusione: malgrado tutto il peso della tradizione principale manoscritta,
condivisa anche da Civitas (“quicunque” [112.8]), probabilmente si tratta di
un errore nel ms di riferimento, trascinatosi inerzialmente, a causa della di-
stanza testuale fra i due libri (v. n. 10.6-7): ovvero libro d’oro e libro d’eroi so-
no simili per significante e uguali per significato, come la lezione di quel grup-
po di quattro mss lascerebbe intravedere, permettendo di avanzare quest’ipo-
tesi sull’enigma del libro, curiosamente tralasciata da tutti i commentatori.68
66
I punti c-e sono ripresi da Tornitore, p. 199.
67
Trattando dei libri ‘magici’ di Della Porta, Ernst 2002 ricorda che “il mago napoletano in-
seriva la vasta gamma dei suoi ritrovati entro i motivi neoplatonici resi popolari da Ficino, Pi-
co della Mirandola e Cornelio Agrippa, secondo i quali il ruolo del mago consiste nel mari-
tare le cose terrene a quelle celesti… ma connetteva altresì tale tradizione al fortunatissimo
filone della letteratura dei segreti, che dalla metà del secolo, grazie alla raccolta di segreti del
sedicente Alessio Piemontese, aveva conosciuto un successo e una diffusione crescente” (p.
19 - rinviando per i libri dei segreti a W. Eamon, La scienza dei segreti della natura. I libri discreti
nella cultura medievale e moderna, Ecig, Genova, 1999 [1994]).
68
Bobbio: il libro delle arti speculative che si legge nel tempio, la Bucolica, la Georgica; Firpo:
“vien fatto di pensare ai ‘segreti’ posseduti dai Solari in materia di allevamento, di medicina
e di guerra, spesso citati più innanzi” (così anche Crahay, p. 71: sebbene “placé a cet endroit,
ce codex pourrait contenir des éphémérides”); Amerio: “il libro contiene le osservazioni e i
210 LA CITTÀ DEL SOLE
pronostici tratti dai venti, l’importanza dei quali nei riguardi dell’agricoltura e della naviga-
toria è indicata dal C. in più luoghi”; Agazzi accoglie e sintetizza entrambi i punti di vista, in-
sistendo sul contenuto astrologico; Widmar invece ipotizza una raccolta dei principi morali
ed economici dei Solari, ma già Sapienza funge da summa enciclopedica: “unumque modo
volumen habent” (12.1); cfr anche De Mattei 1969, p. 150-1 e v. n. 104.1-3.
69
Così anche More: Firpo 1979 traduce con ‘magistrato supremo’ (p. 181) e assimila questa
carica vitalizia a quella del doge (v. n. 28.20).
70
Illuminante il commento di Frajese: “Principato e sacerdozio non sono quindi due poteri
che si sommano, quanto piuttosto due diverse funzioni dello stesso potere naturale” (p. 40).
71
Cfr anche: Lettere1, pp. 36 e 133; Antiven., p. 59; Mon. del Messia, p. 62-3; Papatus, p. 140; Ti-
toli, p. 299; Metaph. XVI VII, V (III, p. 283): già Platone e Aristotele consigliavano “che i re do-
vessero venir consacrati al sacerdozio, perché fossero venerabili presso i popoli ed evitassero
la tirannide”; Mon. Fr., p. 378: “dove regna un sacerdote sommo armato, non può nissun aspi-
rare a regno universale”; Quaest. oec. II IV, p. 178 e Mon. Messiae II, p. 10-1 ricordano che anti-
camente paternità, principato e sacerdozio erano uniti – in Adamo; sapienzialità, sacerdota-
lità e regalità in Ermete Trismegisto –, come si rileva anche dalla lettera di Platone ai Siracu-
COMMENTO AL TESTO 211
Oltre al papato, agli ebrei e ai selvaggi, l’altro esempio di teocrazia che C. po-
teva aver presente era la Pancaia di Diodoro, dove “i Sacerdoti sono quelli che
tutti gl’altri guidano: e a loro si rimettono di tutte le liti i giuditij, e tutto quel-
lo che d’intorno alle cose publiche si viene determinando” (V X [I, p. 274-5]),
o l’imperatore di Costantinopoli “signore di temporali e spirituali in so paese”
(Mandeville, XXVIII) e quello etiopico, che per modestia si faceva chiamare
Prete (Mon. Sp. XXVIII, p. 308: “il re delli Abassini, detto il Pretejanni”), impe-
ratore teocratico di un regno in cui “come el papa, li arcivescovi, vescovi e ab-
bati sono re” (Mandeville, CLXVII). Nell’utopia di Doni a capo della città è
eletto il più anziano dei cento sacerdoti, responsabili delle cento strade/quar-
tieri in cui essa è divisa (p. 72).
10.19: Hoh,
I nomi del teocrate e dei triumviri (Pon, Sin, Mor) sono gli unici lemmi della
lingua Solare. A chi si ispirano? Per i nomi dei triumviri v. n. sg. Il nome del
sommo sacerdote in Città era “Sole” (T.10.19: v. ‘Lezioni manoscritte variate’);
viazione (ad es.: la ‘.a.’ sta per ‘autem’). La ¤ di Città, dunque, anzitutto celava
tino al centro oppure compresa fra due punti (.O.), che è un segnale di abbre-
una contraddizione: infatti, una volta sostituito il simbolo astrologico con il no-
me, la frase diventa incongruente, come avvertiva già Bobbio: “L’espressione
suo idiomate, riferita alla trasparente parola latina Sol [presente nell’ed. Fr.], e la
mancata corrispondenza con la traduzione in ‘Metafisico’ indussero il C. a co-
niare per la seconda ediz. quella parola fantastica ‘Hoh’”. La “parola fantasti-
ca” invece potrebbe essere una semplice ideografia e stenografia insieme: “Ta-
luni infatti scrivono con un particolare carattere un unico vocabolo, e ciò av-
viene in due modi: cioè sia imitando col disegno, come se ad esempio ‘o’ signi-
ficasse pane… come usano fare i Cinesi… Altri invece si valgono di una figura
simile, come gli Egizi, o simbolica, come fanno i Caldei, che indicano i pianeti
o i segni dello zodiaco con le figure di quegli animali… allo stesso modo gli
Egizi in luogo di ‘Iddio’ tratteggiano misticamente il carattere del sole”
(Gramm. III I, III, p. 681-3).72 Non è da escludere, però, che C. avesse in mente
un nome ‘esotico’ pertinente, come quell’‘On’, nome egizio della “Civitas So-
lis” (Is. 19, 18; o ricavabile da qualche esegesi biblica); oppure il geroglifico
dell’occhio e dello scettro, ideografia di Osiride, ricordato da vari autori: Dio-
doro, I I, II (I, p. 12): “Certa cosa è che ‘l primo Re che fosse appresso gli Egit-
tij, fu detto Sole”; Plutarco, Iside e Os. X e Macrobio, Saturn. I, 21, 12: questo
sani (Epist. VIII, 356e), e “idem abservatur apud Gentiles novi orbis multos”, a conferma del-
la ‘naturalità’ di tale carica.
72
Annota Firpo 1954: “C. aveva dunque riconosciuto il simbolo astrologico del sole ¤ (che
anche in cinese significa Sole) in qualche geroglifico egiziano”, che aveva potuto osservare
nell’“obelisco eretto in Roma di fronte alla basilica lateranense” (p. 1399).
212 LA CITTÀ DEL SOLE
simbolo indica che “Osiride è il sole, e che con potere divino vede dall’alto
ogni cosa; infatti gli antichi chiamano il sole ‘occhio di Giove’”; fino a una del-
le tante ed. cinquecentesche illustrate di Orapollo, II, 34: “il sole sovrasta e
scruta ogni cosa ed è per questo che viene chiamato ‘dai molti occhi’”, e quin-
di spesso [aggiunta cinquecentesca, p. 231:] “significavano Dio con l’immagine
di un occhio”.73
C. ha poi affiancato alla O due H, presumibilmente in seguito a una duplice
esigenza: a) uniformare la nomenclatura del vertice uni-trinitario a tre lettere;
b) utilizzare una lettera che non alterasse il suono della vocale-simbolo (Poët.
IX II, p. 1181: “La ‘h’ è quasi una vocale… serve per allungare le vocali”); la
doppia acca, poi, serve a evitare equivoci: una H sola avrebbe potuto esser
scambiata o per interiezione se seguiva, o per verbo se precedeva la O.74
Infine non è da escludere che sull’onomastica Solare abbiano influito le più va-
rie suggestioni: ad es. HOH è quasi il rovescio della celebre segnatura OMO
impressa sul volto umano (Dante, Purg. XXIII, 31-3); oppure, anziché lingue
esotiche nel tempo, è probabile che siano state lingue esotiche nello spazio a
fornirgli quantomeno un modello di riferimento: in SH I LXV si legge infatti
che “Omnes in illis partibus [= Persia] Solem colunt, qui ipsorum lingua Hel
dicitur”; ancora da Iapon., p. 146 o da Botero: “tutto il Giapone era sotto un Si-
gnore che si chiamava Dairi, avero Vò” (I II, I, p. 12); e anche gli abitanti delle
Molucche “hanno in tanta riverenza li Re loro, che non osano riguardarli e
non li chiamano altramente che con nome di Sole e di cose tali” (I II, I, p. 17).
Fin qui il significante. Per il significato di ‘Hoh’, le motivazioni dell’emblema
solare sono praticamente le stesse per cui al Sole è stato dedicato il nome della
città:
a) principio fisico telesiano positivo, e quindi simbolo della divinità naturale;
b) simbolo e protettore del papato (“Sol idest Papatus”), anche astrologica-
mente (Art. proph., p. 287);
c) il Sole è topicamente adottato a emblema del potere assoluto, tanto da
(s)piegarne l’etimologia (‘sole’→‘solo’): “Se tutto il mondo fosse retto da
uno solo, ut Alexander dicebat ab uno sole, cesserebbero le guerre e anche
le malattie” (Aphor. X, 23 [p. 197]); secondo C., Alessandro Magno avrebbe
73
L’occhio-sole, cioè il cerchio con un puntino al centro, non è poi altro che la pianta urba-
na della Città del Sole vista dall’alto e stilizzata nelle sue componenti fondamentali: l’anello
del girone con il Tempio solare centrale; immagine questa a C. non peregrina, visto che, per
rendere l’idea dell’eternità come puro presente, ricorre proprio a un modello panottico: “se
il centro del cerchio fosse occhiuto in tutte le direzioni, vedrebbe tutti i punti della periferia,
in cui terminano le linee, circuirlo, essendo gli uni passati e gli altri futuri rispetto ad essi
punti, ma rispetto a sé tutti presenti” (Theol. I [II, p. 15]).
74
Secondo Firpo 1970, le H servono a “renderla [= la O] più misteriosa” (p. 384); per
Crahay, invece, non si tratterebbe della lettera ‘O’, ma di “un modo approssimativo per ren-
dere il segno astrologico del Sole e le due ‘H’ servono a metterlo in rilievo, conferendogli un
aspetto esotico” (p. 73) – e infatti nella sua ed. gli “Hoh” del testo latino sono sistematica-
mente sostituiti dal cerchio con puntino.
COMMENTO AL TESTO 213
coniato questo paragone autoreferenziale (Mon. Messiae III, pp. 17 e 46; Po-
litica X, 23), divenuto etimologia corrente: infatti la si ritrova in Cicerone, De
nat. deor. III XXI; Macrobio, Somnium I XX (e Sat. I, 17, 65): “Il sole è il capo
degli astri… così il suo nome latino è derivato da una parola di quella lingua
che significa ‘solo’”; Isidoro, III LXXI: “Sol dicitur, quia solus apparet obscu-
ratis fulgore suo cunctis syderibus”; De Billy, 205I: “quod solus super hemi-
sphaerium nostrum insigniter eluceat”; Francesco Sansovino: “il Sole è vera-
mente un solo, et non più, et però si chiama Sole” (Delle cose mirabili della
città di Venezia, Venezia, 1587, in: Bolzoni 1995, p. 231); ed è onnipresente
nelle op. campan., in genere per polemizzare contro Aristotele che sostiene
“quod unus non possit regere mundum totum” (Mon. Messiae cit.);75
d) l’ultimo tocco a questo quadro non è escluso che provenga dall’ermetismo:
secondo Yates 1981, p. 27, il sacerdote Sole è la reincarnazione del Trisme-
gisto: “Egli era un sacerdote egiziano, il più saggio di tutti loro, eccelso come
filosofo per la sua vasta conoscenza, come sacerdote per la santità di vita e la
pratica di culti divini, degno infine del rango reale come amministratore
delle leggi” (per le coloriture magiche del ritratto di Hoh v. n. 28.24-30.5); e
infatti Mon. Messiae II, p. 12, a proposito della vetustà di questa carica, cita
proprio “Trismegistus, rex Aegyptiorum, vocatur ter maximus, quia erat
Rex, Sacerdos et Philosophus excellentissime”;
e) per ultimo, ma è la prima e unica cosa esplicitata dal testo, Hoh è la tradu-
zione ‘solariana’ di “Metafisico”, che significa ‘filosofo per eccellenza’ (in
contrasto con ‘Logico’, mero manipolatore di parole, com’è apostrofato Ari-
stotele a 116.19): se la filosofia è la suprema delle discipline umane, la meta-
fisica è la regina delle discipline filosofiche: “il legislatore è per la vita e i co-
stumi quello che il metafisico è per le scienze – anzi, se è un buon legislato-
re, è innanzi tutto metafisico” (Rhet. I I, p. 719).
75
Ad es. Gramm. III IV, I: “Sol perché risplende da solo” (p. 707); cfr anche: Lettere, p. 74; Epi-
logo, p. 551; Senso, p. 217; Supplizio, p. 137.
214 LA CITTÀ DEL SOLE
10.30: magistratus
“‘Magistratus’ vero, quod sint maiores reliquis officiis” (Isidoro in: SD VII XI).
Carica onorifica meritocratica, non strettamente giuridica, sinonimo di “offi-
cialis” (in T. anche ‘mastro’), di derivazione platonica (es. Resp., 459b); pertan-
to le successive occorrenze di ‘officialis’ sono state tradotte con ‘magistrato’, ri-
servando ‘ufficiale’ all’esclusivo ambito militare, come in questo caso; i nomi
delle cariche militari sono ripetute genericamente a 62.22 e specificamente a
98.12sg.
COMMENTO AL TESTO 215
76
Per tutta la questione dello statuto sociale delle arti v. n. 32 (glossa) § 3, punti 2 e 3.
216 LA CITTÀ DEL SOLE
10.38: doctores
I docenti, cioè “Doctores in publicis gymnasiis et templis”, sono sì “praeclario-
res”, ma le altre figure professionali (“Iudices, Procuratores, Medici, Pharma-
copolae”) sono “utiliores” (Quaest. oec. III I, p. 183); Botero, Ragion: “dottori ec-
cellenti in teologia e in ragione canonica” (p. 134).
10.41: Cosmographus
L’astrologia “tratta della causalità delle stelle sulle cose inferiori”; l’astronomia
è la scienza che “investiga i moti delle stelle, i siti, le quantità”; la cosmografia
“delinea la situazione di tutto il mondo e le moli dei corpi; un’altra che fa lo
stesso per la terra, è detta geometria” (Metaph. V II, II [I, p. 369-71]); in Mon.
Sp., p. 72, infatti, scrive che il principino “si deve pigliare spasso mirando le fi-
gure di matematici, cioè la descrizione delli suoi regni”. A Tolomeo risale la di-
stinzione fra astronomia propriamente detta, o astrologia matematica, e astro-
logia giudiziaria; distinzione che sarà consacrata e consegnata al Medio Evo da
Isidoro (III XXVII) e ripresa da Pico, I, p. 53. La “cosmographia”, nel ‘500 sino-
nimo di geografia,77 richiedeva le ‘matematiche’ come discipline propedeuti-
che (geo-metria), secondo l’insegnamento di Tolomeo: per la Geografia “la
scienza delle Matematiche… è importantissima, convenendole considerar la
forma, o la figura e la grandezza di tutta la terra, e insieme il sito e la disposi-
tione, che ella ha col cielo che la circonda…” (Geogr. I I), che significa, secon-
do il suo commentatore, “in che modo sia ciascun luogo situato per rispetto
del cielo, cioè in qual clima sia egli posto, sotto qual parallelo e a qual meridia-
no soggiaccia” (Magini). In geografia “descrittione commune” è “la descrittio-
ne della terra divisa per Regioni, e di tutte le cose che se ritrovano dentro di
quella, e parimente di fuore, dei monti, dei mari, dei fiumi, delle historie, e si-
milmente di tutte quelle cose che sono in ogni luogo riputate e meravigliose e
memorabili”; perciò C. vorrebbe che il re abbia “cosmografi che descrivano il
mondo tutto da Spagnoli navigato, perché Tolomeo poco ne seppe… Deve an-
77
Così Garzoni, XXXVII, p. 528 e CXXXII, p. 1351; e C. stesso, Theol. IV (II, p. 184); anzi lui
spesso menziona – ad es.: Mon. Fr., p. 490; Syntagma IV VI – la sua (perduta) Cosmografia
(1598), che raccoglieva lezioni di geografia impartite a nobili napoletani (Firpo 1954, p.
LXXII).
COMMENTO AL TESTO 217
10.44: Physiologus,
Da T.10.42 a Fr. era “il Fisico”; e nel prosieguo di CS non ci s’imbatterà mai in
Fisiologi, ma sempre e solo in Fisici: 46.31, 88.22, 98.4. Ciononostante, ho pre-
ferito continuare a tradurlo sempre con ‘Fisiologo’, per tre motivi:
a) “Physiologus” è usato come sinonimo di ‘Fisico’ dall’Au. (ad es. uno dei tito-
li della sua Astronomia era De motibus astrorum libri 4 contra physiologos et astro-
nomos; e in Theol. XXV, p. 58 se la prende con ‘astronomi et physici’), e quin-
di significa genericamente: ‘scienziato della natura’;
b) “Physicus” e “Physiologus” esercitano la stessa funzione, che, nella Città, è
contigua a quella di “Medicus” (ne è una specializzazione); e infatti nell’a-
nalogo elenco di magistrature soggette a Sapienza stilato a 98.4, il “Physicus”
è anche lì adiacente a “Medicus”;
c) ‘Fisico’ è oggi correntemente usato in accezione diversa, attestata anche in
CS (es. 32.38), in relazione oppositiva con Metafisico, e quindi in questi casi
va mantenuta la traduzione letterale del termine.
‘Fisiologia’ ha un significato generale e uno particolare, ma in entrambe le ac-
cezioni è un sinonimo di ‘fisica’. In generale, ‘fisiologia’ significa filosofia e
scienza della natura: “chi vuol conoscere la filosofia naturale [= physiologiam],
deve prima apprendere la storia naturale dei minerali, dei vegetali e degli ani-
mali…” (Syntagma II II); un esempio di ‘poema physiologicum’ è il Salmo CIII
di David, “dove si disputa del cielo, della terra, del mare, dei monti, delle sor-
genti, degli angeli, degli animali, delle erbe e delle stelle, e delle singole crea-
ture, in che modo sono state create per il vantaggio degli uomini… ci trovi na-
turas rerum et haec proprie est physiologia utilis…” (Poët. VIII I, p. 1061). Ma
anche la fisica ha lo stesso significato di scienza naturale; infatti il Forcellini de-
finisce la ‘Physiologia’ “scientia quae de naturis rerum disserit, eadem ac physi-
ca”, e “Physiologus… est qui etiam Italice fisiologo dicitur, qui nempe natura ar-
cana inquirit et interpretatur”, e dunque è equivalente di “Fisico, Filosofo na-
turale”. I Triumviri devono essere anche dei fisici (32.38), cioè naturalisti, visto
che, tra l’altro, il curriculum scolastico prevede lezioni “omnium scientiarum
naturalium” (26.30); scienze “physicas” (28.33), che certo Hoh deve conosce-
re, anche se deve eccellere in “metaphysicam” (28.37) – non a caso si chiama il
Metafisico. Comunque i contenuti e i confini tra Fisica e Metafisica sono af-
fiancatamente tracciati a 124.1sg (‘De physica’) e 126.2sg (‘De metaphysica’).
E la fisica, come lì vedremo, si occupa dei primi principi naturali e dell’origine
del mondo, è cioè la sommatoria di biologia (zoologia e botanica) e geologia
con un occhio di riguardo alla genesi delle forme minerali, vegetali e animali.
Il Fisico ha come “artis obiectum… veritatem naturae”, “le leggi di natura”
(Poët. I I, p. 912) – e questa è appunto la valenza divenuta oggi prevalente (se
non esclusiva), per cui, usato in questo significato, ‘physicus’ va tradotto fedel-
mente con ‘fisico’.
218 LA CITTÀ DEL SOLE
12.2: Sapientiam,
Assente in Città, avrà introdotto questo titolo per analogia con gli altri due testi
fondamentali dei Solari, Georgica e Bucolica (82.10 e 34); l’altra differenza è che
in Città è il triumviro Sapienza a tenere questo libro e leggerlo al popolo, men-
tre in Civitas sono tutti i magistrati a lui soggetti.
Oltre che da motivazioni ovvie (è un’enciclopedia del sapere, compilata dal Sa-
pienza), è probabile che tale titolo gli sia stato suggerito da un passo di Brigida,
in cui il mondo è chiamato “Sapientia Dei”, come si evince da Gentilismo, p. 16;
Theol. I (I, p. 23) e Apologia, p. 16 [trad., p. 142]: Salomone “nel capo VII della
Sapienza rivela di conoscere le scienze naturali, matematiche, astronomiche e
logiche… E per questo il mondo da principio era chiamato ‘Sapientia Dei’ (co-
me fu rivelato a santa Brigida) o ‘libro’ affinché noi tutti vi leggessimo dentro”:
Sapienza, dunque, perché viva e vera, e non scolastica, come uno dei tanti libri
morti che impigriscono lo spirito e lo distolgono dalla contemplazione del
Mondo, principale Libro divino (v. n. 30.31-3).
Dante, Parad. XXXIII, 85-7: “Nel Suo profondo vidi che s’interna, / legato con
amore in un volume, / ciò che per l’universo si squaderna”: nella Luce divina
è contenuto, come se fosse legato in un solo volume, ciò che è sparso in tutto
l’universo; per giunta la Luce “parvemi tre giri / di tre colori e d’una conte-
nenza” (116-8). Mentre a Thélème vi è ancora una immensa biblioteca, che oc-
cupa un intero lato della città esagonale (Rabelais, Gargantua I, 53), la nuova
“ossessione del secolo [è] quella di un’opera che contenga tutto, e ci si prova-
78
Un corrispondente di Mersenne, Villiers, letta la Medicina campan., dice di averla trovata
“pour l’egard du sujet plus physique que prattique”.
COMMENTO AL TESTO 219
no in tanti a scriverla: gli autori delle piazze universali, dei gran teatri del mon-
do… Possederlo equivarrà a possedere il mondo… Anche nella città ideale di
C. tutto il sapere e tutte le conoscenze sono contenute in un unico libro, anzi il
libro è conservato al centro di un tempio che ha tutta la larghezza didattica di
un grande museo”, che si espande e completa nelle mura (Lugli, pp. 100 e
138). Ancora auroralmente, C. è avvinto in un miraggio pansofico, “il libro
stesso tende a diventare tutta la biblioteca: è un contenitore aperto, pronto ad
assorbire in sé tendenzialmente tutti gli altri libri” (Bolzoni 1995, p. 63).
12.5: Pythagoreorum.
A Crotone Pitagora era arrivato ad avere duemila seguaci che conducevano vi-
ta comune secondo i suoi princìpi filosofici, formando un ‘makòeion’, “hoc est
auditorium publicum, ad quod omnes convenirent” (Giamblico, Vita [Theo-
doreto], VI, p. 43). I Solari, del resto, sono (stati – secondo R. e L.) “Bragmani
ex parte Pythagorici” (v. n. 64.16).
Il giovane C., influenzato dalle conversazioni con Stigliola (v. n. 4.15-8), aveva
scritto una Philosophia Pythagorica carmine Lucretiano instaurata, “un poemetto la-
tino in tre libri, composto in Napoli fra il 1590 e il ‘91” (Firpo 1954, p. 1366),
da lui menzionato spesso (Poetica XI, p. 338; nella lettera a Galilei del 13 gen-
naio 1611 lo chiama De philosophia pythagoreorum), considerando le loro teorie,
specie quelle astronomiche, ‘concordi con le Sacre Scritture’ (Apologia, p. 10-
1).
79
A dimostrazione della convinzione, o pervicacia, dell’Au., la stessa promessa è reiterata ad
altri illustri corrispondenti (Lettere, pp. 158, 174; Lettere1, pp. 24, 62), e viene ripresa in Quae-
st. pol. IV: “Ho eliminato i mali che derivano dall’ignoranza e dall’insipienza, grazie alla gran-
de familiarità degli abitanti con ogni tipo di dottrina, e poi la struttura stessa di questa città e
le immagini murali comunicano a chi le guarda tutte le scienze, almeno da un punto di vista
descrittivo” (trad. Ernst, p. 111).
80
Thomas Elyot in The Boke named the Governor usa per la prima volta nel 1531 il termine “en-
ciclopedia”; il termine latino moderno deriva da una falsa lettura dell’espressione greca
‘enkyklios paideia’, cioè ‘istruzione circolare’ = ‘insieme di dottrine che costituiscono un’i-
struzione totale’. Entrambe queste accezioni sono perfettamente compatibili con l’invenzio-
ne dei murales: la ‘circolarità’ e la ‘totalità’ dello scibile. Era ancora l’accezione aristotelica
220 LA CITTÀ DEL SOLE
plutarchiana (basti pensare all’Ethica nicomachea): quella che in certo modo domina pure
l’enciclopedismo medievale e rinascimentale. Nel senso moderno di esposizione di tutto lo
scibile il termine appare solo nel 1620 nel Cursus philosophici Encyclopaedia di Johann Alsted.
Invece l’ordine alfabetico fu introdotto solo nel Settecento dal Coronelli. “Il termine ‘enci-
clopedia’ adoperò il C. la prima volta nel 1598, intitolando un compendietto, oggi perduto,
non si sa bene se dell’universo sapere o della sola cosmografia, che egli aveva allora imparti-
ta a certi nobili in Napoli. Ma non frequentò più gran che un tal vocabolo, passando a quel-
la sua ‘universalis instauratio scientiarum’ che al concetto di giro compìto dello scibile asso-
cia quell’altro di una generale rifusione del sapere… In effetti sono riconoscibili nel C. tre
enciclopedie: l’enciclopedia come ‘polimazia’ e sentimento che il filosofo ebbe della propria
forza intellettuale; l’enciclopedia come ‘teorica dell’enciclopedia’, cioè come epistemologia;
infine l’enciclopedia come giro compìto delle scienze da lui restaurate” (Amerio 1966, p.
157): naturalmente qui è in causa quest’ultima accezione; e, visto che l’aveva usato come ti-
tolo di un’opera pedagogica perduta, non escluderei che la pseudo-etimologia del nome
stesso – educazione circolare – abbia contribuito all’idea delle mura ‘enciclopediche’.
COMMENTO AL TESTO 221
2. Tassonomia
“Mirifico ordine”: qual è dunque il criterio ordinativo di questa enciclopedia
murale illustrata, che è lo specchio dell’universo? E perché poi sarebbe così
‘mirifico’?
Mentre fino a 10.14 il vettore descrittivo era orientato dall’esterno all’inter-
no (dal basso verso l’alto), adesso (12.12) è come se lo sguardo del Genove-
se, giunto in cima al pinnacolo più alto, contemplasse dalla prospettiva op-
posta la Città, o, secondo Donno, facesse dietrofront. In effetti non è così.
Anzitutto la descrizione urbanistica e (quindi) la narrazione in presa diretta
è terminata con la domanda dell’Ospitaliero sulla natura del regime politico
(10.15); in secondo luogo la descrizione delle figure murali si arresta alla se-
sta cinta e pertanto si sviluppa non in base a punti di vista prospettici del visi-
tatore,81 ma secondo i criteri tassonomici dell’ideatore, il Sapienza. Il filo
conduttore del sapere è un arco teso fra il vertice del macrocosmo (le stelle)
e il vertice del microcosmo (Cristo). Che non si tratti di un ordine ‘esotico’,
casuale o prettamente pedagogico, basterebbe a dimostrarlo l’indice di Phil.
realis (il vero Sapientia, e non quello fittizio dei Solari [12.2]), dove i capitoli
si dipanano secondo lo stesso filo attorcigliato ai sei gironi: ‘sei’, questo nu-
mero sacro (come il sette: 148.18), corrisponde ai giorni della Creazione.82
In effetti il ricorso alla Bibbia è abbastanza ovvio, non tanto per la formazio-
ne religiosa di C.,83 quanto per la teoria del doppio codice scritto da Dio, il
Libro della Natura e quello dei Profeti, disprezzando invece i libri degli uo-
mini (v. n. 30.26-31 e n. 30.31-3), specie se peripatetico-lullistici (v. punto
seg.): basta rammentare l’eloquente sonetto 6 (‘Modo di filosofare’), dove si
esorta a “non studiare i libri e tempii morti delli uomini”, “copiati dal vivo
con più errori”, per “tornar all’original libro della natura”. Perciò una città
ideale e naturale non può che ‘tornar all’originale’, cioè all’ordine primor-
diale, quello con cui Dio ha creato, sistemato e insegnato il mondo prima ad
Adamo e poi, attraverso appunto la Bibbia, agli uomini. Premesso ciò, l’orga-
nizzazione della conoscenza del mondo, ovvero del Libro della Natura, è age-
81
Né soltanto, come dice Firpo, per la “prevalente funzione difensiva” della settima cerchia;
il motivo lo si può dedurre, invece, da Quaest. phys. II III, 11, dove, volendo anticipare un po’
quanto veniamo a dire, C., dopo aver ripercorso le tappe principali della Creazione, conclu-
de: “et deinde [Dio creò] hominem in sexto die. Nam in sex diebus operatum esse, et in sep-
timo quievisse, [la Genesi] narrat”: il settimo girone è bianco perché Dio si riposò, e, termi-
nata la Creazione, l’Enciclopedia è finita.
82
Un C., che ironizzava sul fatto che, mentre i rabbini sulle lettere ci “costruiscono una filo-
sofia, i nostri ne cavano appena degli anagrammi” (Gramm. III I, V, p. 687), non poteva non
accorgersi del facile anagramma gironi/giorni, essendo inoltre entrambi chiamati con i no-
mi dei pianeti (4.6; cfr anche Astrol., pp. 214 e 228, dov’è esplicitato il nesso giorni della crea-
zione/pianeti).
83
Tommaso, trattando della gerarchia dei regni naturali e degli uomini, afferma: “È eviden-
te che la divina provvidenza ha posto un ordine in tutte le cose, cosicché è vero quanto dice
l’Apostolo: ‘Le cose che sono da Dio sono ordinate’” (3SCG, 81).
222 LA CITTÀ DEL SOLE
84
Il comm. di Damasceno definisce “Liber naturae est ipsa mundi dispositio, singulas creatu-
rarum species pulcherrimo ordine complectens, et summum omnium authorem ex ipsis
quoque pacto dinoscendum insinuans… Liber vero Scripturae est sacra pagina… in quibus
divina revelatione nobis indultis manifesta traditur Dei cognitio” (Orthod. fidei I, 164C).
COMMENTO AL TESTO 223
3. Memoria e immaginazione
Se oggetto del sapere è la Natura, e la Scrittura, suo specchio fedele, fornisce il
criterio tassonomico e gerarchico, come si fa poi concretamente ad apprende-
re una simile mole di dati, per giunta presto e bene? A quali risorse, materiali e
intellettuali, bisogna far appello? Di certo non ricorrendo ai libri e alla “me-
moria servile” (T.28.28-9 – affermazione ancor più autorevole, perché sostenu-
ta da uno che leggeva e ricordava tutti i libri).
I Solari, pur conoscendo ed apprezzando la stampa come uno dei segnali del
moderno (136.9-11), non alludono mai a biblioteche e in tutta l’opera si men-
85
L’Au., che si ritaglierà uno spazio in finale come ‘filosofo magno’ (158.12), lo possiamo
senz’altro immaginare in quest’eletta schiera, “sesto fra cotanto senno” (Inferno IV, 102), pas-
so cui allude, per altro scopo, in Poët. IV III. E così i vertici dell’umanità, con l’immortalità
della fama, si approssimano al divino – Cristo, il teandro, “in loco dignissimo” (18.5) –: che la
tassonomia ‘naturale’ sia anzitutto una gerarchia, è quasi tautologico, com’è magnificamen-
te tratteggiato dal chiaro e sintetico schema agostiniano: “In his ergo quae a Deo facta sunt,
praeponuntur viventia non viventibus; et in his quae vivunt, sentientia non sentientibus; et in
his quae sentiunt intelligentia non intelligentibus; et in his quae sentiunt et intelligunt, im-
mortalia mortalibus. Sed ita praeponuntur ordine naturae” (Civ. Dei, X).
224 LA CITTÀ DEL SOLE
zionano solo tre libri (il Sapientia, che è la versione cartacea dell’enciclopedia
murale, e due manuali tecnico-pratici, la Georgica [82.10] e la Bucolica [82.34] –
tralasciando il Libro a lettere d’oro [10.13-4], perché è probabilmente un Albo
d’oro, con funzioni celebrativo-commemorative più che manualistiche [v. n.
10.13-4]); ciò non esclude che essi posseggano una biblioteca, da cui attingere,
ad es., per le letture pubbliche fatte in varie sedi (a mensa, nelle lezioni milita-
ri ecc.). È certo però che il libro, la cultura libresca, non gode buona fama nel-
la Città, perché:
• tutto quello sciupio di vernici e superfici (a fronte del totale silenzio in fatto
di biblioteche) sembra deporre a favore della cosa sulla parola, della figura
sulla scrittura (e la lettura è sempre un’attività corale, non individuale, cioè
vi è sempre qualcuno che legge ad un uditorio: 12.4, 36.15, 64.25);
• l’unica volta, in tutta l’opera, in cui un Solare prende la parola, lo fa per
rampognare gli Occidentali che incentivano la ‘memoria servile’ infarcen-
dola di sillogismi aristotelici, col duplice risultato d’intorpidire le menti e di
allontanarle per sempre dalla verità delle cose reali a causa di quel filtro di
preconcetti con cui sono state imbottite (v. n. 30.26-31).
• Primato della vista sull’udito, dell’esperienza sull’ipse dixit? Solo in parte.
Quel che forse qui è in causa non è tanto la vetusta gerarchia dei sensi,
quanto una germinale ‘psicologia’, cioè un profondo ripensamento di ruolo
e funzione delle principali facoltà mentali: memoria e immaginazione.
Nell’età del Manierismo e del Barocco si assiste all’ultimo grande trionfo del-
le arti della memoria, che sono certamente le principali ispiratrici di que-
st’enciclopedia murale; quelle arti che, decollate nel XIII sec., per impulso
dei domenicani (come Romberch), furono portate all’apice (ermetico) dal
domenicano Giordano Bruno (Yates 1972, p. 183). “L’arte della memoria,
nel Cinquecento, conserva i tradizionali ingredienti di base (i loci, l’ordine,
le immagini), ma tende anche a trasformarsi profondamente. La rinnovata
fortuna del lullismo e la riforma della logica legata al ramismo dischiudono
nuovi orizzonti”; si va alla ricerca di un metodo capace di riprodurre il ritmo
profondo della realtà, un metodo che sia dunque in grado di offrire la clavis
universalis, ovvero “quel metodo o quella scienza generalissima che pongono
l’uomo in grado di cogliere, al di là delle apparenze fenomeniche o delle
‘ombre delle idee’, la struttura o trama ideale che costituisce l’essenza della
realtà… mettendolo a contatto non con i segni, ma con le cose; dar luogo ad
enciclopedie totali, a ordinate classificazioni che siano lo specchio fedele del-
l’armonia presente nel cosmo” (Rossi 1983, p. 17). Molti maestri di memoria
sono inoltre affascinati dalle dottrine di ascendenza ermetica, cabalistica,
neoplatonica. “L’arte della memoria diventa allora parte di un complesso in-
sieme di procedure attraverso cui si cerca di decifrare la fitta rete di corri-
spondenze che legano il microcosmo al macrocosmo, sperando di impadro-
nirsi dei poteri che l’accesso ai livelli più profondi e più segreti della realtà
comporta”: questa citazione di Bolzoni 1995 (p. 253-4), oltre ad esser la sin-
tesi più efficace e aggiornata del quadro delle mnemotecniche moderne,
contiene molte delle potenziali componenti alla cui risultante sta l’enciclo-
pedia murale, utopistica ma non troppo – visto che l’Orbis sensualium pictus
COMMENTO AL TESTO 225
86
Comenio aveva conosciuto la filosofia di C. attraverso l’Adami, cancelliere dell’università
di Jena (cfr anche Yates 1972, p. 350-1 e Salsano).
87
“Con cui C. carteggiò” (Amerio 1966, p. 179), e a cui Tobia Adami aveva indirizzato la let-
tera dedicatoria dell’edizione del 1621 della raccolta poetica campan., di cui Andreä aveva
tradotto in tedesco sei sonetti già nel 1619. Su Andreä e Comenio cfr E. Garin, L’educazione in
Europa 1400/1600, Bari, 1957, p. 222-9; Rossi 1983, p. 203-11; Zoppi Garampi, p. 38-9 ricorda
inoltre l’amicizia di Adami con Johann H. Alsted, autore di una Clavis artis lullianae (1609) e
di Vernat con Wolfgang Ratke, “che come Alsted aveva utilizzato la dottrina ramista per clas-
sificare in maniera sistematica tutti gli elementi della realtà e garantire così il possesso della
sapienza universale”.
226 LA CITTÀ DEL SOLE
Fig. 5 - La Scala dell’Ascesa e della Discesa di Ramon Lullo (da Yates 1972, p. 166).
228 LA CITTÀ DEL SOLE
Fig. 6 - Figure dell’Ars Brevis di R. Lullo (Strassburg, 1617; in: Salsano, fig. 7)
COMMENTO AL TESTO 229
88
Il passo (cit. da Rossi 1983, p. 147) è la traduzione di Syntagma I I, dove C. rievoca la lettu-
ra giovanile di Lullo nel convento di Altomonte; “de principiis sciendi per categorias”, tra cui
quelle “Lullianas”, si occuperà più tardi in Metaph. (Syntagma I III): è molto probabile che
l’Ars magna lulliana sia stata, prima e più di altre opere, la lettura che gli ha ispirato, sia in po-
sitivo che in negativo, i criteri epistemologici e pedagogici concretizzatisi poi nelle mura so-
lari. La differenza, anzi l’antitesi, è stata illustrata dall’Au. stesso, ed è quella classica – le pa-
role contro le cose –: Lullo si basa solo su parole [“per vocabula tantum”], mentre C. sogna
una scienza enciclopedica che si basi sulla combinatoria di nove generi di sensibili [“redactis
ad novem genera sensibilium”]. L’invenzione di Lullo consisteva infatti in un sistema combi-
natorio globale dei concetti: “i segni dei concetti più importanti in certi gruppi dovevano es-
sere disposti intorno a cerchi come le punte del compasso, e le varie combinazioni si ottene-
vano facendo ruotare i cerchi intorno a un centro comune” (Kneale, p. 281). Da Lullo (tor-
nato in auge proprio nel XVI-XVII sec., e rilanciato da Leibniz), comunque, C. può aver de-
rivato: a) l’aspirazione ad un metodo insieme rigoroso e facile, che assicuri una sapienza uni-
versale: l’Ars magna si propone incipitariamente infatti come sistema innovativo con cui com-
binare i principi universali, da applicare poi secondo la specificità di ogni scienza, imparan-
do a ragionare correttamente e analogicamente: “per hanc quidem scientiam possunt aliae
scientiae perfacile acquiri. Principia enim particularia in generalibus huius artis relucent” (f.
1); b) la divisione in cerchi concentrici delle muraglie e delle ruote dell’arte mnemonica: la
Fig. IV dell’ed. da me consultata è composta da un cerchio più grande suddiviso in nove set-
tori, segnati dalle lettere dell’alfabeto (una cui epifania deve esser la tavola di tutti gli alfabe-
ti posti in corrispondenza con quello Solare [12.30-2]), e due cerchi di carta più piccoli ruo-
tanti su un perno di spago (ancor più eloquenti le figure dell’Ars brevis lulliana riportate in
un’edizione seicentesca [v. fig. 6]): nel caso della Città anziché i settori, sono le schiere di al-
lievi a ruotare intorno alle mura; Orazio Toscanella trasformerà le ruote dei princìpi del lul-
lismo in vere e proprie macchine combinatorie, formate da settori semicircolari e radiali: “il
modello della macchina interagisce con quello dello spazio… [Le ruote] diventano ‘came-
re’, quasi stanze di un edificio che contiene appunto il tesoro dell’eloquenza” (Bolzoni 1995,
p. 69-70, dove sono anche riprodotte); o si metamorfizzano in uno degli svariati sistemi cir-
colari mnemotecnici: dal Teatro della memoria di Giulio Camillo, al fittissimo Sole radiante
di Bruno (cfr M. Cambi, La machina del discorso. Lullismo e retorica negli scritti latini di Giordano
Bruno, Napoli, Liguori, 2002), dalle città ultraterrene di Cosma Rosselli (riprodotte in: Yates
1972, n° 10, 11, 16…) alle ruote della fortuna in cui Sigismondo Fanti (Triompho di fortuna,
Venezia, 1527) ha trasformato gli ingranaggi delle macchine combinatorie di Toscanella e
Castelvetro: “l’intero cosmo, e l’enciclopedia, sono scomposti/ricomposti entro un percorso
ludico” (Bolzoni 1995, p. 114-6), inaugurando i giochi didattico-mnemonici derivati dal gio-
co delle ‘sorti’: figure accompagnate da didascalie, che sono una via di mezzo fra i tarocchi e
un sussidiario; queste e tante altre ‘trouvailles’ analoghe, che denotano il fertile mimetismo
e trasformismo del ‘kyklos’, il cerchio, e della ‘paideia’, vengono rilanciate dal ‘Controrina-
scimento’, il cui universalismo mistico ed ermetico si opponeva al neoaristotelismo emerso
in ambiente riformato (Salsano, p. 63-4).
89
Yates 1972 ne riporta la pianta, la cui cavea è suddivisa in sette ordini di gradinate, ognuno
dedicato a un pianeta; pianta che in una conferenza al Warburg “confrontò con i sistemi di
memoria di Bruno, di C. e di Fludd” (p. 122n). Un fervido ammiratore di questo teatro pla-
230 LA CITTÀ DEL SOLE
4. Fonti
Per questo suo progetto plastico-pedagogico, C. può aver tratto ispirazione, ol-
tre che dalle suddette riflessioni a margine di psicologie, mnemotecniche ecc.,
anche da due ordini di suggestioni (più che fonti certe):
A) tecnico-pratiche:
• Architettoniche: a prescindere dalla valenza estetica (è spesso elogiata l’ec-
cellenza delle pitture ‘praestantissimae’ [12.9], “mirabili” [16.1] ecc.; già
Aristotele raccomandava le mura non solo per difesa, ma quale “ornamento
alla città” [Pol. 1331a]), a partire dal Medio Evo le chiese con le mura o le ve-
trate decorate di immagini e storie sacre furono l’unico libro degli illettera-
ti: Damasceno dedica un capitolo a spiegare che “imagines sunt monimenta
quaedam”, e “etenim illitteratis hominibus hoc sunt, quod litteratis libri. Et
quod auribus oratio est, idem est oculis imago” (De imag. I, 504K). “‘Quod le-
gentibus scriptura, hoc idiotis praestat pictura’, si legge nelle epistole di Gre-
gorio Magno e un pensiero analogo si trova in un passo del Decretum Gratia-
ni” (Saxl, p. 427-8 – il Decretum è cit. in Civitas [56.43]). In Sisto da Siena, C.
aveva letto questa pagina di commento ad un’illustrazione di Aronne ad-
dobbato nei suoi paramenti sacerdotali (in Civitas a 112.37-9): la Sciographica
è “umbratilis et picturalis expositio, quae per varias figurarum et imaginum
delineationes clarius et apertius prae oculis ponit ea, quae non admodum
aperte verbis exprimi potuerunt”; ad es. in matematica, molti teoremi sareb-
be arduo comprenderli senza il sussidio di figure e didascalie (“absque pic-
netario, Fabio Paolini, nel 1589 pubblica a Venezia le Hebdomades (citato, insieme al De arte cy-
clognomica [Anversa, 1569] del medico Cornelius Gemma, in Apol. ad lib., p. 326): “la divisio-
ne settenaria era il chiodo fisso di Camillo, e Paolini la rispetta scrupolosamente, facendo del
suo libro un catalogo generale di sette oggetti, diviso in sette volumi ciascuno di sette capito-
li… Tutti gli oggetti del mondo dovevano essere distribuiti in sette serie”, con il vantaggio
che ogni immagine, parola, idea veniva caricata anche di una “forza planetaria” (Couliano
1987, p. 390-1, che sintetizza un cap. di Walker); utili anche le ‘noterelle intorno a Giulio Ca-
millo Delminio’ di Vasoli 1977, p. 219-46; e poi si vedano anche le figg. dell’inferno e del pa-
radiso “come immagine di memoria artificiale, da Cosma Rosselli, Thesaurus artificiosae memo-
riae, Venezia, 1579”, strutturate a gironi ascendenti simili alla Città del Sole.
COMMENTO AL TESTO 231
90
III, p. 168; cfr Ernst 1997b, p. 307-8; Ernst 2002, p. 213: “In questo tipo di esposizione ‘um-
bratile e pittorica’, l’immagine pone sotto gli occhi cose che non si possono esprimere in mo-
do adeguato con le sole parole. Oggetti come l’arca di Noè, il tabernacolo mosaico, il tempio
di Salomone si comprendono male e a fatica senza la figura, mentre grazie alla loro rappre-
sentazione si comprendono facilmente e si ricordano più a lungo”.
91
Svariate sarebbero le testimonianze di edifici le cui pareti interne e soffitti riproducono ci-
cli cosmologici più o meno enciclopedici, da Schifanoja al Palazzo della Ragione a Padova;
un monaco-poeta francese dell’XI-XII sec., Baudri, vide nella corte di Adele di Blois un sof-
fitto che simulava la volta celeste piena di stelle con le sedi dei pianeti, e sul pavimento un
mosaico che rappresentava il globo terrestre con i suoi fiumi, i mari ecc. Sulle pareti delle sa-
le erano raffigurati i grandi eventi del cosmo: il caos e la creazione, la storia della Bibbia e
quella narrata dalla mitologia greca (Morpurgo, p. 180sg).
232 LA CITTÀ DEL SOLE
vien mostrato tutto ciò che deve essere conosciuto. Così è il museo enciclo-
pedico” (Lugli, p. 104). In alcuni casi, anziché le figure, sono raccolte le co-
se stesse (dall’erbario ai ‘liquori’ prodigiosi [12.41sg e 14.10sg]); il collezio-
nismo europeo nacque all’intersezione proprio tra un sapere che si pensava
come enciclopedico e il tentativo di raggiungere poteri magici e alchemici
(Bolzoni 1995, p. 246sg). Ad es. tra le ‘mirabilia’ orientali (oltre quelle occi-
dentali: Imperato e Della Porta a Napoli [v. n. 12.41]), C. conosceva quanto
si favoleggiava di un celebre personaggio mitico: Mandeville, CLXVII narra
che il Veglio della Montagna (“Oatalonabos” o “Gatholonabes”) “havia una
montagna cum uno castello sì forte e sì nobile quanto se potesse dire: egli
haveva facto murare tutta la montagna nobelmente e dentro da questi muri
erano li più belli giardini che se potessero trovare e havere; ivi havea fatto
piantare ogni bona cosa odorifera e tutti li arbori e le herbe… C’erano in
quel posto parecchie cose insolite e immagini istoriate: di animali e di uc-
celli che per mezzo di speciali congegni cantavano deliziosamente” (Mande-
ville e Mandeville 1982, p. 188). Ma più (/oltre) che una ‘Wunderkammer’,
C. poteva aver sott’occhio un testo avente svariati punti di contatto con la
sua creatura murale: la Tipocosmia di Alessandro Citolini (Venezia, 1561); lo
schema è il solito percorso nel palazzo-mente e palazzo-mondo: arrivati alla
settima stanza, “il padrone di casa invita tutta la compagnia ‘a veder con gli
occhi già formato quel mondo, che per sei giorni havea con le parole dipin-
to’ (p. 546); li conduce dunque in un’ampia stanza, dove ‘mostrò loro una
grandissima palla, ne la quale entrar vi si potea. E quivi entrati si videro din-
torno il cielo, e nel mezzo la terra’… Questa specie di museo didattico lascia
insoddisfatti i visitatori: ‘tutti finalmente conclusero queste esser cose più to-
sto da fanciulli, che da desiosi di sapere. Menolli poi il conte ne lo studio
suo, e aperto un libro di estrema grandezza, incominciò a mostrar loro que-
sto suo nuovo ed artificioso mondo’”, che offrì un’immedesimazione con i
principi delle cose: parve loro di entrare in un giardino, “dove si trovano tut-
ti gli animali e tutte le piante, ‘e in cotal forma vedendoli, non i nudi nomi
solo, ma la vera essenzia e figura loro a comprender venivano’” (Bolzoni
1995, p. 252). Sei stanze, sei giorni della Creazione, e solo sei gironi sono af-
frescati (gli unici che sono anche porticati); alla settima stanza con il suo
planetario corrisponde ovviamente la sferica cupola del Tempio con quel
che contiene; infine il Grande Codice, riposto nel ‘secretum’ e che trasfor-
ma questi cinquecenteschi cybernauti fra le reti di modelli virtuali, in novel-
li Adamo, che conoscono non più nominalistiche parvenze, ma le essenze
delle cose: sembrerebbe la sconfessione del Libro della Natura, a vantaggio
dei “mortuis signis” (30.32), come direbbe C. Ma non è così. Anzitutto an-
che i Solari hanno un libro dei libri, la Sapienza (v. n. 12.2); e poi, come non
pensare al ‘Libro d’Oro’, specie quando era pieno di “cose importantissime”
(T.10.13), situato in cima al Tempio, equidistante dai ‘cubicula’, le cellette-
studio dei sacerdoti-scienziati? Infine in quel passo della Tipocosmia si avver-
te chiaramente un doppio grado di conoscenza: un sapere ‘esteriore’, ‘fan-
ciullesco’ con dei tratti di facilità e inevitabile semplificazione, e un sapere
profondo delle cose, intellettuale e metafisico; analogamente: le pitture mu-
COMMENTO AL TESTO 233
rali forniscono una conoscenza “historico tamen modo” (18.26), mentre sul-
le colonne del tempio sono incise le “quidditates” delle cose (102.38).
B) Fonti teoretiche:
• Bibbia: Ez. 8, 10: “Ingressus vidi et ecce omnis similitudo reptilium et anima-
lium… depicta erant in pariete in circuitu per totum”.
• Svariate potrebbero essere altre fonti non tecniche, da cui C. può aver ere-
ditato questa mirifica invenzione: dagli affreschi nel tempio che Didone sta
costruendo, dove Enea “in ordine vede l’iliache pugne” (Aen. I, 620); dall’o-
vidiana reggia del Sole (Metamorf. II, 1-18: Vulcano aveva “inciso sul metallo
[delle porte] l’immagine dei mari che recingono la terra, la sfera del mondo
e il cielo che la sovrasta”, con le rispettive creature); da questa frase di Am-
brogio, che sta illustrando proprio i sei giorni della creazione: “Ecce, Hieru-
salem, pinxi muros tuos” (VI VII, 42; anche se Gerusalemme è simbolo del-
l’anima, e la citazione deriva dalla versione dei Settanta di Is. 49, 16); dai
bassorilievi esemplari purgatoriali (XII, 23-72); dai portici interni dell’abba-
zia di Thélème, le cui gallerie erano “dipinte di antichi fatti illustri, storie, e
descrizioni della terra” (Gargantua I, 53), ed erano “ornate di corni di cervo
e di liocorni, rinoceronti, ippopotami, denti d’elefante e altre mirabili cose”
(I, 55); da relazioni di viaggio in un più o meno favoloso Oriente (il mitico
giardino del Veglio della Montagna su cit.).
• Vi è una favola, infine, che, più di tutti i testi precedenti, presenta notevoli e
svariate affinità non solo pertinenti alle mura dipinte e alla loro funzione pe-
dagogica. Manca però la prova di una filiazione diretta – e infatti chi per pri-
ma ha indicato questa suggestione parla di “rapporto intertestuale” (Bolzoni
1993, p. 64). Si tratta di un passo del Libro di Sindbad, una raccolta incorni-
ciata di favole persiane dell’VIII-IX sec., il cui originale è andato perduto,
ma una sua redazione posteriore fu tradotta in greco alla fine dell’XI sec. e
approdò in Europa all’epoca delle crociate, quando Giovanni di Altaselva la
tradusse, debitamente rielaborata, nel Dolopathos sive Opusculum de Rege et
Septem Sapientibus (circa 1184-5): la ramificazione europea dell’opera è mol-
to complessa.92 Ho potuto consultare appunto l’Ystoire, l’ed. D’Ancona e sva-
riate redaz. dell’Erasto, oltre alla redaz. spagnola, la quale è una ramificazio-
ne secondaria del Sindban siriaco (il capostipite, diciamo così, del Syntipas
[Runte, p. XIV]): tranne proprio Erasto, che risalirebbe al XVI sec. (D’Anco-
na, p. XXXI), e di cui esistono svariate stampe veneziane (ne ho consultato
una del 1561 e una del 1596), tutte e tre le altre ediz. contengono allusioni
alla casa dipinta, e alla sfida ad istruire uno o due fanciulli in un tempo re-
cord: Libro de los engannos I (Comparetti, p. 78): “et fiso faser un gran palaçio
92
Cfr schema di Runte (p. XVIII), da cui emerge che la versione italiana, Il libro dei Sette Savi
[ed. D’Ancona], sarebbe l’immediato antecedente di sterminate e intricate redazioni occi-
dentali (tra cui una mediofrancese, edita appunto da Runte: Li Ystoire de la male marastre), e in
volgare – tra cui Il libro dei Sette Savi (dalla redaz. Cappelli a quella curata da Segre) –; e poi
Storia di una crudele matrigna, Storia di Stefano, L’amabile di continentia, Erasto… e tralascio le re-
dazioni latine.
234 LA CITTÀ DEL SOLE
hermoso de muy grant guisa, et escribiò por las paredes todos los saberes
quel’ avie de mostrar et de apprender, todas las estrellas et todas las feguras
et todas las cosas etc.”; l’Ystoire: “En milieu de cel vergier fisent li siet sage fai-
re une maison si noble comme il le seurent deviser. Une chambre i ot ou il
fisent les siet ars paindre dou milleur ouvrier que on seuist en nule terre. Et
en celi chambre tinrent il les doi enfans a escole” (137a; Runte, 2, 40). In Ita-
lia si ebbero due aree di diffusione della favola orientale: quella toscana
(esemplata nell’ed. D’Ancona), più tarda (posteriore al Decameron), era d’o-
rigine francese; l’altra, veneta, è quella ‘indigena’ (riportata da Battaglia
Ricci – Il libro dei sette savi), traduzione da un originale latino (Segre). La ver-
sione a cura di D’Ancona narra che ognuno dei sette Savi di Roma offre i
suoi servigi all’imperatore per istruirgli a dovere il figlio; alcuni di loro gli
promettono di completare l’istruzione in tre anni (26.15: “et ante trien-
nio”). Salomonicamente l’imperatore lo consegna a tutti e sette, i quali lo
portano fuori Roma; scelto l’inevitabile ‘locus amoenus’, “ivi fecion fare una
casa assai agiata e quadrata e grande e bella, e le camere di dietro, e belle
loggie dinanzi e quando la magione fu fatta e compiuta i Sette Savj vi fecio-
no dipigniere le sette arti nelle quattro faccie della casa, cioè astronomia, ni-
gromanzia, gieometria, retorica, musica, aritmetica e loica; e fecion fare el
letto del giovane nell’un canto della sala, sì che poteva vedere le sette arti; e
cominciarono ad aprendere e a insegnare, e quando l’uno il lasciava e l’al-
tro il pigliava e gl’insegniava il meglio che sapeva ecc.; e così il tennono tre
anni, sicch’egli si sapea ben conosciere delle Sette Arti”. In Erasto vi è da un
lato una precisa corrispondenza fra i sette sapienti e le sette arti liberali, ma
lo scolaro soggiorna “dieci anni” (3v-4r). Invece nella traduzione greca l’a-
spetto pedagogico è massimamente sottolineato: Syntipas (grecizzazione di
Sindbad) promette al re di educargli l’unico figlio, che non aveva tratto al-
cun beneficio da tre anni di scuola, talmente bene da farne un filosofo per-
fetto in sei mesi.93 Trascorsi i quali, il principino stesso svela al padre l’ele-
mentare segreto di un così prodigioso apprendimento: “Una creatura anco-
ra infantile non può imparare facilmente: ogni bambino cerca diletto nei
giochi e nello svago, e non presta mente all’insegnamento… Syntipas, con-
siderando la mia età puerile, non mi sottopose a un insegnamento pesante,
né pretese di usare con me, all’inizio, parole difficili, per evitare che l’allie-
vo, subito affaticato dal peso di concetti ardui da assimilare, finisse per re-
spingere dalla mente ogni ammaestramento” (p. 97). Dopo aver insistito sul-
la ineludibilità dei pronostici astrologici, senza la buona disposizione dei
quali ogni educazione è inutile (“la sorte che presiedeva alla sua nascita ha
arricchito – così credo – la virtù del suo intelletto”), all’ennesima domanda
93
Anche nella redaz. persiana, riportata nell’Introduzione, il saggio fa costruire “una torre
quadrata e dipingere con immagini sul soffitto e sui muri delle stanze le più importanti dot-
trine: a questo modo gli riesce, spiegando a voce quelle pitture, di compiere in sei mesi l’e-
ducazione del ragazzo” (p. LIV).
COMMENTO AL TESTO 235
94
Ma non ripreso da Bolzoni 1995, dove del resto le mura dipinte solari non sono mai men-
zionate: forse perché quelle mura sono lo spartiacque fra i ‘thesauri’ mnemotecnici e l’Enci-
clopedia il cui ordine è puramente sequenziale e, tra breve, convenzionale? Le mura solari
sono a metà strada fra il Teatro di Camillo e l’Encyclopédie.
236 LA CITTÀ DEL SOLE
piegate da Sindbad con il figlio di Ciro. Intorno ai dodici anni Wird Khan è or-
mai maestro di ogni arte e scienza, e Shimas può esibire la saggezza del ragaz-
zo al re e ai sapienti visir raccolti in assemblea, ponendogli una serie di quesiti
ai quali l’allievo fornisce abili risposte” (Mattei, p. 22).
Forse nella novellistica cinquecentesca, che riprese vigore al seguito della stam-
pa bembiana del Decameron, gualteruzziana del Novellino ecc., o in quella folk-
lorica sarà possibile rintracciare questi elementi sul mai tramontato mito di
un’istruzione facile, veloce e completa, che C. in varie lettere voleva far passare
come sua invenzione strepitosa.95
95
Un altro poema persiano del XII sec. (Nezami, Le sette principesse, a c. A. Bausani e G. Ca-
lasso, Milano, 1982) narra di un re che sposa sette principesse e fa innalzare loro sette padi-
glioni, ognuno di un colore diverso e “costruiti secondo l’indole dei sette pianeti”.
COMMENTO AL TESTO 237
12.27: provinciae,
‘Provincia’ è la sottopartizione geo-antropica di un’entità politica (= reame) o
geografica (continente, isola) più vasta, equivalente a ‘regione’: “Non sa gover-
nare il mondo chi non sa governare un imperio, né un imperio chi non sa un
reame, né un reame chi non sa una provincia, né una provincia chi non sa una
città, né una città chi non sa una villa, né una villa chi non sa una famiglia”
(Mon. Sp., p. 70); “La sesta [comunità è unione] di più città in una provincia.
La settima, di più province in un regno…” (Politica I, 4). In altre occorrenze te-
stuali (20.18, 106.12) invece prevale l’accezione latina di territorio soggetto (in
cui l’occupante ha insediato una guarnigione, introdotto lingua, costumi ecc.:
74.19-25), e la valenza dominante allora risulta la sua opposizione con la ‘capi-
tale’ (o stato egemone).
Narra Alberti che per primo Aristarco (cit. a 114.18) “sopra una tavola di ferro
avrebbe tracciato un disegno del mondo diviso in province” (VIII IX, p. 766 –
fonte: Vitruvio IX VIII, 1). ‘Province’ erano in Tolomeo la prima ripartizione
dei continenti (Europa, Asia e Africa totalizzavano ottantanove province); per
Gastaldo (in Tolomeo, Geogr. [Munster] III): “Regione si chiama ogni Provin-
cia che sia governata da Re”; Barros, I, 86v: “per honore di una così grande ter-
ra [= Brasile], noi la chiamaremo provincia”; per Magini, 2: “dicesi continente
ogni terra soda o ferma, quella… tutta unita e congiunta insieme. È la regione
una parte di terra laquale veniva retta da Re, percioché avanti che si facessero
le Provincie, le Regioni erano sotto i re, e rette da loro… Dicevasi provincia
ogni regione acquistata in guerra lungi dall’Italia; quella che ‘l popolo Roma-
no aveva vinto di lontano. Tuttavia, per il più, confondosi hoggi Regione e Pro-
vincia, e l’una si prende senza diferenza per l’altra”; e infatti Doni, Mondi, p.
163: “ciascuna provincia… come dir, verbi grazia, la Lombardia, la Toscana…”.
12.30: alphabeta,
Forse è una suggestione derivatagli dall’uso degli alfabeti come sussidio mne-
monico. Sottesa a questa tavola comparata di tutti gli alfabeti vi è infatti un’in-
tenzione pedagogica: Garzoni (che riprende da Rosselli – integrabile, ad es.,
con Le ombre delle idee [1583] di Bruno, e le sue ruote plurialfabetiche coassiali)
dice che “gli alfabeti di diversi caratteri, che sono assegnati da questi professo-
ri di memoria, siano molto comodi per l’istessa” facoltà mnemonica (LX, p.
842); e insieme vi è un progetto ecumenico (v. n. 2.14 e n. 32.12-9): in attesa
della lingua perfetta filosofica universale, l’apprendimento delle lingue è la
COMMENTO AL TESTO 239
12.34: lapidum
La stessa tassonomia del Compendio: cap. XXII: pietre; XXIII: metalli; XXIV-
XXVI: piante; XXVIIIsg: animali; in Hist. (p. 1233) cita il trattato sui metalli di
Agricola (De re metallica [1530]).
12.41: liquores
La combinazione di tipo di calore (possente/moderato) e di terra
(densa/molle, uguale/disuguale) determina i vari ‘liquidi’, dalla cui solidifica-
zione (ma anche alimentazione)98 derivano le pietre e i metalli, e dalla cui eva-
porazione i gas e fenomeni meteorologici connessi: gli stati fisici della materia,
cioè i ‘Gradi tra ‘l raro e ‘l denso’ (Epilogo, pp. 233-7, 303) ovvero “disposizioni
degli elementi” (‘Salmodia’ 84, 49 Esp.) o “passioni materiali tra la densità e la
tenuità sono il lentore, la malleabilità, la viscosità, la scivolosità [= lubricositas],
la fluidità, la liquidità [= liquor], la vaporosità, la tenuità e molti altri di cui non
c’è nome” (Compendio XII, 7; idem in Mathem. I I [p. 35]): dai cinque stati fisici
di Persio 1575, n° 1521-6 (‘lentor’ o ‘flexibilitas’, ‘mollities’, ‘viscositas’, ‘fluor’,
‘tenuitas’) si è passati ad almeno nove.
‘Liquor’ dunque sta a indicare uno stato intermedio della materia fra raro e
denso (nel Medio Evo, del resto, il termine indicava il grado di densità, ad es.
del vino: “Vini diversitas propter liquorem triplex est: aut enim subtile aquo-
sum, aut terrestre et crassum, aut mediocre” [SN V]), ottenuto sia artificial-
mente (cioè un estratto per distillazione o spremitura) che naturalmente: la
terra “aquam, vinum, oleum et liquores alios, tamquam lac a mamillis, submi-
96
Mon. Sp., p. 300-2; Disc. univ.; per la riforma dell’alfabeto, cfr Poetica XXV e Poët. IX I.
97
Per le lingue utopiche, perfette e immaginarie cfr le sterminate bibl. di Rossi 1983, Pelle-
rey, Eco, Cornelius e, da ultimo, C. Marrone, Le lingue utopiche, Viterbo, Stampa Alternativa &
Graffiti, 2004.
98
‘Salmodia’ 86, 129-31: “Si cresce e pasce di liquor terrestre / il ferro, il sasso alpestre; – un
grasso e molle / l’erbe satolle, – immobili animali”; annota Giancotti: “Per l’opinione che
metalli e sassi, dotati di senso, crescano pascendosi di liquor, cioè di umore, terrestre, cfr Epilo-
go III, 2; Senso III XIII”.
240 LA CITTÀ DEL SOLE
nistrat” (Oecon. II IV, p. 194), e di tali liquori terrestri si nutrono minerali, vege-
tali e animali.
12.43: ampullae
Etimologicamente ‘ampia bolla’: “‘Ampulla’ quasi ampla bulla similis est enim
rotunditate bullis” di sapone (SD XI XXIX: ‘De vasis liquoris’).
99
“A far tuoni e lampi come Dio fa nell’aria, così fa l’uomo con l’artegliaria” (Senso, p. 124);
e cfr anche Astrol. VII II, 3, 8.
COMMENTO AL TESTO 241
100
V. n. 45.4 [f.p.], n. 122.1, n. 123.1 [f.p.] e n. 154.3-5 per le valenze astrologiche.
242 LA CITTÀ DEL SOLE
‘90, del De sensitiva rerum facultate, titolo che presto cambierà in De sensu rerum”
(Formichetti 1999, p. 18; Badaloni, p. 677sg; Bruers, p. VIII).
Ma questa ‘simpateticità’ da tempo faceva ormai parte di un sapere diffuso: “ab
antiquis dictum est etiam quod non est herba in terra quae non habeat stellam
in coelo, quae eam respiciat et crescere faciat” (SN III LXXXIII): tra gli ‘antichi’,
C. ha presente senz’altro Plinio (come sostiene in Metaph. VI X, I [II, p. 147]) e
il celebre aforisma del Picatrix: “quicquid continetur in maiori mundo, conti-
netur naturaliter in minori”; tra i moderni: Gesner (nello specchio proemiale,
in cui presenta la distribuzione della materia delle Historiae animalium ricche di
molte tavole a colori, alla lettera D è prevista la trattazione anche di “Sym-
pathiae et antipathiae, hoc est naturales quaedam concordiae et dissensiones
singulorum, primum ad alias animantes, deinde ad res inanimatas”),101 Impe-
rato (cfr Bolzoni 1995, pp. 144 e 254) e Aldrovandi.
14.16: In exteriori
Due gironi dedicati 1/4 alla botanica e 3/4 alla zoologia hanno per spartiac-
que il tipo di ‘sensibilità’ (= “capacità di riconoscere un oggetto sensibile grazie
alla passione che si percepisce da esso”), che caratterizza i suoi membri: “ci so-
no cinque sensi: naturale, animale, umano, angelico e divino”; naturale, quello
delle piante (e minerali), animale degli esseri animati, cioè semoventi: “lo spi-
rito animale più abbondante e più puro dello spirito della pianta, agitandosi
può separare e muovere dalla materia comune la sua sede”; tale spirito “è ge-
nerato all’interno di una materia fluida e densa, dalla quale, non riuscendo ad
uscire verso il cielo cui è simile, forma, per ispirazione dell’ideatore, gli organi
della vita e, agitando, li separa dalla materia comune per il movimento. L’ani-
male, dunque, è formato dallo spirito che anima la statua, dall’umido di cui lo
spirito e i vasi si nutrono e, infine, dal solido, da cui si costruiscono gli organi e
i vasi” (Compendio XXVIII). La zoologia campan. prevede quattro “gradus”
ascendenti di animali (Physiol. X II, p. 57; ‘Salmodia’, 86, 125-85): pesci, uccel-
li, rettili e insetti, quadrupedi. Come qualsiasi altro essere, anche le specie ani-
mali hanno a loro origine e fondamento le molteplici modalità d’interazione
primaria caldo/freddo (= fuoco/terra): “l’animale non è sole, ma terra in cui
il sole, operando, spirito produsse fra durezze, di cui, esalar non potendo, or-
ganizzò la mole e fece atta alla vita loro” (Senso, p. 2). La varietà e gerarchia del-
le specie dipende dalla volontà della divina Sapienza, che ordinò che certe spe-
101
Castelli sintetizza così lo specchio proemiale: “Gesner prevede, articolati in varie lettere, i
punti che illustreranno aspetto e significato dell’animale preso in considerazione. I punti ‘A-
D’ descrivono rispettivamente la storia del costume degli animali, la dislocazione di questi, la
differenza tra le specie, le azioni dei corpi o fisiognomica degli animali, simbologie e antipa-
tie. Sono inoltre specificati i cibi e i rimedi che si traggono da questi per la vita dell’uomo, gli
alimenti… né sono estranee osservazioni riguardanti predizioni, religione, proverbi… [re-
stando ancorato] a modelli invalsi il secolo precedente, come dimostra la lettera prefatoria
del Gaza [all’Hist. Anim. aristotelica], dove venivano largamente giustificati i valori simbolici,
i costumi e le virtù degli animali” (p. 74).
COMMENTO AL TESTO 243
14.17: piscium
I pesci precedono gli uccelli, perché la sfera dell’acqua sta più in basso di quel-
la dell’aria (e non a caso, per ultimo, menziona l’uccello del fuoco, la fenice).
In Plinio, VIIIsg infatti la sequenza è: animali terrestri, acquatici, volatili (uc-
celli, insetti). SN fa solo apparentemente eccezione (prima gli uccelli [XVI] e
poi i pesci [XVII]), perché considera aria e acqua, all’atto della Creazione, un
solo elemento, il “commune productivum volucrum et natatilium” (XVII I), co-
me del resto fa anche C., quando si richiama alla Bibbia: “Deus iubet: ‘Produ-
cat Terra animam viventem et producant aquae reptilia et volatilia’” (Sensu, 2r).
Molte voci delle scienze naturali solari (morfologia, abitudini, qualità, “vita” –
con cui s’intende sia il grado di sensibilità o coscienza, sia la durata dell’esi-
stenza) sono già contemplate in quella ‘summa’ del sapere medievale che è SQ,
sebbene C. si rifaccia anche ai naturalisti moderni (come Rondelet, cit. a p.
1233 di Hist., per il quale v. n. 14.24-5).
eiconem accepi, talem omnino exhibeo. Vera ea sit an non, nec affermo, nec
repello” (XVI XXI ‘De pisce Episcopi habitu’, p. 494; v. fig. 7); Gesner, Animan-
tium marinorum ordo (XII, p. 174): “Monstrum aliud marinum anno D. 1531 in
Polonia visum, Episcopi habitu”; Aldrovandi riporta anche la testimonianza in-
diretta del Bellonius (Pierre Belon) sempre relativo a questo presunto esem-
plare polacco: “in Batavinis annalibus de pisce episcopo scriptum est… cuius
corporis magnitudo, facies et cultus talis erat omnino, qualem videmus figu-
ram alicuius Episcopi, mitra et reliquis suis ornamentis induti” (Monstrorum,
p. 355).
Pesce catena: “Specie di pesce noto agli antichi” (GDLI; voce assente nel GDU).
Pesce lorica: GDLI alla voce ‘Loricaridi’: “Famiglia di pesci siluroidei, con ro-
busta corazza di piastre ossee che protegge il corpo; aperture branchiali picco-
le; bocca ventrale usata come ventosa per il fissaggio sul fondo; vivono nei fiu-
mi dell’America meridionale e centrale”; alla voce ‘Loricati’ (assente in que-
st’accezione in GDU): “Sottordine di pesci caratterizzati da testa grossa, coraz-
zata con piastre ossee e forti spine velenifere”; GDU: alla voce ‘loricaria’ (assen-
te in GDLI): “Pesce d’acqua dolce del genere Loricaria diffuso nell’America
tropicale”; alla voce ‘Loricaride’: “Pesce della famiglia dei Loricaridi, dal corpo
in parte coperto da placche ossee e bocca ventrale a ventose, diffuso nei tor-
renti dell’America centrale”.
Pesce chiodo: “Così detto per la forma” (GDLI; assente nel GDU).102
Pesce stella: nome arcaico di ‘stella marina’, “echinoderma della famiglia Aste-
ridi che presenta una caratteristica struttura raggiata; asteria” (GDLI); in GDU
alla voce ‘Stella marina’: “Nome comune di varie specie marine della classe de-
gli Asteroidei, caratterizzate da corpo pentagonale con cinque o più bracci ri-
vestiti di piastre calcaree”.
Pesce priapo (nella red. latina dell’Epilogo [IV VI, p. 331] è chiamato “priapus”
il pesce ‘verpa’): “Priapo marino: oloturia” (GDLI); alla voce ‘Priapulo’ (un ver-
me marino di forma cilindrica, che abita i fondali sabbiosi, della famiglia dei
‘Priapuloidi’), riporta la definizione del Tramater, che l’ascrive all’ordine degli
echinodermi “così denominati dalla loro forma a foggia del pene”; GDU alla
voce ‘Oloturia’: “animale marino del genere Oloturia, diffuso lungo i litorali di
tutti i mari” dal “corpo di forma allungata e cilindrica”; alla voce ‘Priapulo’:
“Invertebrato del genere Priapulo dotato di una sola appendice caudale”; i
Priapulidei sono “diffusi principalmente nei mari freddi, dove vivono in galle-
rie scavate nella sabbia”. Rondelet 1555 dedica i capitoli XXII e XXIII del ‘liber
de insectis et zoophytis’ alla ‘Mentula marina’ e a ‘De altera mentulae marinae
specie’: “Mentulae marinae nullus veterum… mentionem fecit praeter Athe-
naeum… Mentulam marinam vocamus, eius figura et specie maxime nos ad id
impellente, atque etiam vulgari appellatione, qua Massilienses [= i Marsigliesi]
et nostri utuntur… Corio enim duro constat… Quum vivit, intumescit ac di-
stenditur, post mortem flaccessit [sic per ‘flaccescit’]. Foramina duo habet, qui-
bus aquam trahit et reiicit. Partes internae indiscretae sunt. Multa huiusmodi
Zoophyta circa stoechadas insulas capiuntur. Varia sunt, alia viridia, alia nigri-
cantia, alia flavescentia”; analogamente l’altra “neque a Mentulae contractae
forma multum distat, si eam cum scroto accipias”; invece i capp. XVIII-XX so-
no dedicati a ‘De Holothuriis’ (senz’alcun accostamento al membro virile).
102
Quest’esemplare, come del resto anche i precedenti, non sono segnalati né da Rondelet
né da Gesner, a conferma che la ‘technoteca’ di Imperato è stata la sua fonte principale (for-
se si tratta dell’aguglia appartenente ai beloniformi).
246 LA CITTÀ DEL SOLE
Presumo che C. avesse in mente il primo tipo di ‘Mentula marina’, così raffigu-
rata:
Tale figura viene riprodotta poi da Gesner, V, che, però, non solo la inserisce
fra i crostacei e non fra gli ibridi ‘zoofiti’ (“Mihi certe plus quam Zoophytum,
hoc animal videtur”), ma nel riportare, come suo solito, tutte le testimonianze
note di questo che egli chiama, pudicamente, “pudendum marinum virile”
(senza però tralasciarne il nome in volgare: “Vulgus Italicum ‘Cazo marino’
noncupat”), conclude: “Holothuriorum secunda species paulo ante exhibita [a
p. 262 c’è il disegno uguale all’oloturia di secondo tipo di Rondelet: fig. 9], ge-
nitalis virilis quandam similitudinem prae se fert” (p. 265).
103
Il luogo di nidificazione della fenice risorta è “prope Pancaiam in Solis urbem”; postilla di
Domenichi: “porta tutto il nido presso a Panchaia nella Città del Sole”, cioè l’Eliopoli sita sul
delta del Nilo.
104
L. 23, tr.1, c.24, 110 (II, p. 1493-4); in un Libellus de natura animalium attribuito erronea-
mente ad Alberto Magno (Vincenzio Berruerio, Mondovì, 1508) vi è un’incisione ‘De Feni-
ce’, riportata in Castelli, Tav. III.
248 LA CITTÀ DEL SOLE
16.7: reptilium
La distinzione degli animali terrestri in rettili e quadrupedi ricalca Gen. 1, 22
(sesto giorno): “Produca la terra animali viventi secondo la loro specie: anima-
li domestici, rettili, bestie selvagge della terra”; At. 10, 12: “tutti i quadrupedi e
i rettili della terra”. In base alla lettura della Genesi che fa C., Mosè distingue-
rebbe gli animali terrestri “in rettili, i quali mancano di piedi… in bestie, che
vivono di preda errando, e in giumenti, che son di aiuto all’uomo” (Theol. III,
p. 183); è trasparente il duplice criterio di selezione: imperfetti (striscianti) i
primi; perfetti (ambulanti) i secondi, a loro volta suddivisibili in selvatici e do-
mestici. Tale partizione era del resto comune a molte scuole di pensiero paga-
ne: dagli gnostici (Stobeo, I, 49, 69: “Quelli che hanno avuto molta acqua, mol-
ta terra, una quantità media d’aria e poco fuoco, sono diventati quadrupedi, a
causa del calore che è in loro sono diventati più aggressivi di altri animali.
Quelli che hanno avuto una parte uguale di terra e di acqua sono diventati ret-
tili”) agli ermetici (in Poimandres, 11 [49] vi è omogeneità: “l’aria produsse i vo-
latili e l’acqua gli animali acquatici… E la terra quindi partorì dal suo grembo
gli animali che erano in lei, quadrupedi e rettili, fiere selvagge e animali do-
mestici”). I rettili, in base alla locomozione, furono suddivisi in tre specie: “ser-
pentia” o colubri che strisciano sulle costole, “repentia”, che fanno leva sulle
zampe (lucertole e batraci), e “trahentia”, come i vermi che si muovono facen-
do leva sulla bocca (SN XX I; SH I XXVIII).
16.8: dracones,
“Di serpi e draghi il fischio e la bravura / e la varia pittura / a noi ci fan paura,
/ gli rendon brutti, e tra lor belli e santi” (29, madrig. 2, 9). Del resto di draghi
se ne incontrano anche nella Bibbia, per cui Ambrogio (V XIV, 45) e Agostino
sono costretti a darne un sobrio ritratto, da cui emerge il loro duplice statuto
motorio (strisciano e volano): “I draghi si dice che sono privi di zampe, riposa-
no nelle grotte e si sollevano nell’aria” (De Gen. ad Litter. 3, 9, 13). Più detta-
gliatamente: Albertus, De animal., l.3, tr.2, c.2, 79 e specialmente l.25, 2, 25-9:
“Draco secundum Avicenna et Semeryon” appartiene al terzo genere di ser-
penti, quelli nocivi per il morso, non per il veleno, che è curabile; “secondo
questi filosofi drago è un nome di genere che contempla molte specie; sono di
105
Ma Gesner non ne riproduce la figura, come fa invece per tutti gli altri volatili; cfr R. Van
den Broek, The Mith of the Phoenix: according to Classical and Early Christian Traditions, Leiden,
1972.
COMMENTO AL TESTO 249
grossa corporatura, dai 5 agli oltre 30 cubiti, specie quelli che si trovano in In-
dia… Desub terra etiam dicunt dracones tempore tempestatum erumpere et
evolare in aërem late diffusis alis eius pelliceis”; e SN XX XXIX-XXXII ‘De draco-
ne’: con testimonianze tratte da Aristotele, Plinio, dal Fisiologo, Isidoro, Avicen-
na, che concordano sulla sua localizzazione in Oriente (più o meno estremo) e
nei deserti (SD XV CIX). Tra le testimonianze moderne, Giovio: in un’immensa
catena montuosa dell’Africa meridionale, secondo gli indigeni, “his in vallibus
dracones gigni alatos, qui anserinis [= d’oca] pedibus gradatim humi serpant”
(I XVIII); e Gesner, che dedica un lungo capitolo a ‘De dracone’ e ai serpenti
alati, ‘quos vulgus dracones vocat’ (con incisioni, e ricchissimo corredo di fon-
ti e descrizioni), conclude con una testimonianza personale: “Anno Domini
1543 audivi in finibus Germanicae prope Stiriam subito multos serpentes ap-
paruisse, quadrupedes, lacertorum instar, alatos, morsu irrimediabili. Froscho-
verus [= l’editore] narrabat ex bibliopola Stirio auditum” (V, p. 55).
rebbe incompatibile con insetti e animali nocivi; e lo stesso Aristotele che par-
la di ‘cose vili’ in natura, “se si riferisce ai pidocchi… alle serpi, si mostra poco
filosofo, perché sono cose basse e vili rispetto a noi, non rispetto alla natura”
(Metaph. II, p. 169b). A dimostrazione del male insito nella natura si prende
questa categoria (insetti e serpenti), la cui nocività (velenosità?) per l’uomo
sembra l’unico denominatore comune riconoscibile, con ulteriori riscontri:
“mosche, zanzare, serpenti… [sono] cose contrarie alla natura umana”, alla
cui formazione presiedono angeli cattivi: “perciò Belzebù, forse in base a tale
ministero, significa re delle mosche” (Metaph. XV II, II [III, p. 155]). Nella fossa
di Sant’Elmo, del Sole “son privo tanto ch’invidio alle mosche ed a serpi”, cioè
ai più infimi (Lettere, p. 135). Mentre alla suddetta domanda degli eretici, la ri-
sposta topica medievale è quella espressa da SH I XXVIII (Dio, sapendo che l’uo-
mo sarebbe caduto in peccato, “in poenam laboris dedit ei iumenta, quasi ‘iu-
vamenta’, ad opus vel esum; reptilia vero et bestiae sunt ei in exercitium”), con
C. invece si affaccia il relativismo biologico: quel che è male per l’uomo, è be-
ne per altre specie, a partire da quelle cosiddette nocive: ‘mors tua, vita mea’,
il tutto orchestrato dal Supremo progetto provvidenziale che a noi sfugge.
106
La perfezione non riguarda solo gli animali: anche tra le pietre vi sono le “imperfette co-
me il tufo” e le “perfette come la selce” o il diamante; e così “esistono metalli perfetti come il
ferro e imperfetti come il mercurio” (Compendio XXII, 2 e XXIII, 2).
107
‘Di tutti i mondi in ordine di successiva partizione’: “Fra gli animali della terra Mosè ne ri-
corda tre: giumente, rettili e belve; con queste partizioni, non essendocene più di così, ci in-
dica le differenze dei bruti privi di ragione. Le belve infatti, che sono dotate di perfetta fan-
tasia, hanno una posizione di mezzo fra gli esseri irrazionali e non si lasciano né educare, né
addomesticare dall’uomo. I rettili hanno fantasia imperfetta e stanno quasi fra gli animali e
le piante. Le giumente, anche se mancano di ragione, essendo in qualche modo capaci di di-
sciplina umana, sembrano partecipare di un certo grado di ragione; la loro condizione è qua-
si intermedia fra i bruti e gli uomini” (p. 301).
COMMENTO AL TESTO 251
16.19: Pape,
È una delle interiezioni (con “Perge”, “Per fidem”, “Evax”…) più spesso repli-
cata (128.30 e 146.21), e secondo Crahay esse costituirebbero la spia linguisti-
ca della “seule influence littéraire précise: celle des comiques latins” (p. 24).
L’interiezione indica “solo un sentimento, ed è utilissima al poeta… Una espri-
me il riso, un’altra la gioia, come ‘evax!’, un’altra minaccia… Infine, quanti so-
no i sentimenti ricordati nella Retorica, tante interiezioni si possono usare”
(Poët. IX IV, p. 1185; v. n. 138.11).
108
Ma sostanzialmente questa classificazione era già quella di Erodoto, e tale resterà (Agosti-
no, CD 11, 16; così Albertus, che dedica l’intero libro 21 a ‘de perfectis et imperfectis anima-
libus et causa perfectionis et imperfectionis’, e, dello pseudo-Albertus, il IV De secretis, quasi
coevo a Città) fino ai tempi di Redi.
252 LA CITTÀ DEL SOLE
16.28: legumlatores,
“Legislatore è chi fonda un nuovo stato [= imperium], con nuove leggi e reli-
gione, armi, riti e auspici” (Aphor. VI, 167 ‘De legislatoribus’). Al vertice della
‘mathesis’ di una Città sapienziale abitano inventori e legislatori, secondo una
gerarchia tracciata appunto negli Aforismi, e così sintetizzata nella postilla lati-
na a Afor., 54: “Legislatores, sacerdotes, magistratus, senatus, iudices, milites,
artifices, pastores, agricolae et mercatores” (p. 108). Dunque, primato del legi-
slatore, specie se dotato dei crismi del divino: “la più grande azione magica del-
l’uomo è dare leggi agli uomini” (Senso, p. 318; ancora: Epilogo, p. 508; Metaph.
XVI VII, II); crismi che forse l’Au. stesso credeva, o aveva creduto, di possedere,
a sentire alcuni testimoni del processo del 1599: C. si proclamava “lo primo ho-
mo del mondo, legislatore e Messia”;109 ma C. stesso, seppur meno empiamen-
te, lascia intendere che, poiché “politicam scientiam condidi” (Syntagma I III),
sarebbe da inscrivere nell’albo d’oro tra “i legislatori d’Italia e gli filosofi anti-
chi”, e invece da vent’anni è perseguitato dall’ingrata patria (36, Madrig. 4),
cioè da quella Spagna che “per accomodar le cose sue ha bisogno d’un gran sa-
vio come Licurgo o Solone, delli quali più ne sono oggi che a loro tempo, ma
più invidiati e meno conosciuti, per essersi ristretto l’intendimento delle cose
sotto a certe regole vili, ecc.” (Mon. Sp. XXXII, p. 358).
A confortarlo in quest’idea di un primato dei legislatori (e inventori) sono:
– fonti classiche pagane: Platone (Leggi) e Cicerone, De rep. VI, 13 e 28 (Ma-
crobio, Somnium II XVII): “i loro [= dello stato] governanti e conservatori, di
qui [= cielo] partiti, qui ritornano”; Plinio dedica buona parte del VII libro
(191-209) agli inventori; ma principalmente Diodoro (v. n. sg).
– fonti moderne cristiane: secondo Tommaso chi governa ha meriti, in terra e
specialmente in cielo, maggiori: “La virtù più eccelsa è quella con cui l’uo-
mo è in grado di governare non soltanto se stesso ma anche gli altri, e tanto
più quanto più vasto è il numero dei componenti la società… Dunque quan-
to più merita lode degli uomini e premio da Dio, colui il quale fa sì che il
paese goda della pace, tiene a freno le violenze, osserva la giustizia, e con le
sue leggi e i decreti stabilisce ciò che i sudditi devono fare?” (Opuscoli Filoso-
fici – Il potere politico, p. 48-9);
– fonti umanistiche: se Telesio si limita a esaltare genericamente i ‘sapienti’
“come enti divini” (IX, 6 [III, p. 363-5]), in tutto il Cinquecento è vivissimo
questo primato del politico, per retaggio quattrocentesco: “di cielo venire, e
in cielo ritornare tutti i giusti governatori delle repubbliche, per tutti i seco-
li del mondo, è stato da’ sommi ingegni certissimamente approvato”; la fra-
se ciceroniana diventa un motto che Matteo Palmieri (Vita civile IV, cit. in De
Mattei 1982, p. 26-7) consegna ai vari Tassoni, Cebà, Zùccolo, Bonini, Bona-
109
Soldaniero aveva sentito dire da Ponzio che “C. et loro predicarebbero la libertà della sug-
getione reggia et della legge et che predicariano nova lege, et C. farebbe nove leggi et predi-
cando farebbe miracoli, sì che il populo gli crederebbe et seguiterebbe” (Amabile, Congiura
III, p. 139).
COMMENTO AL TESTO 253
110
Per un’aggiornata panoramica abbracciante anche questo “fantomatico trattato”, cfr Ber-
ti e Popkin, ‘Introduz.’ (v. n. 60.23-4).
254 LA CITTÀ DEL SOLE
111
Cfr anche: Aphor. VI e VIII; Politica V, 4; Senso, p. 235; Atheismus, p. 130-1 ripercorre la tra-
dizione dossografica – da Patrizi a Cardano – sui legislatori sedicenti divini; Poët. V II; Metaph.
XVI VII, IV ([III, p. 269).
112
Poetica II, p. 318; Senso: “ogni nazione quel che di nuovo vide, ignorandone le cause, l’at-
tribuì a divinità” (p. 234).
113
Div. Inst. I VIII e XV: li si è creduti dèi, forse “quia reges maximi ac potentissimi fuerint: ob
merita virtutum suarum aut munerum, aut artium repertarum, cum cari fuissent iis quibus
imperitaverant, in memoriam sunt consecrati” (PL VI, 156).
COMMENTO AL TESTO 255
114
“Quos igitur pagani Deos asserunt, homines olim fuisse produntur, et pro uniuscuiusque
vita vel meritis coli apud suos post mortem caeperunt, ut apud Aegyptum Isis, apud Cretam
Iupiter” (Isidoro, Etymol. VIII XI).
115
Telesio, IX, 6 (III, p. 363-5); gli uomini di alto ingegno “soperchiarono l’humana natura,
e dagli huomini furono deificati dopo morte, e honorati d’altare e di tempio” (Persio, p. 61).
256 LA CITTÀ DEL SOLE
16.28a: Moysem,
“Mosè in ogni cosa è talmente superiore, che gli altri legislatori, come Pitago-
ra, Numa, Minosse, Seleuco, Solone, Zamolxi, Maometto e gli altri, non sono
che sue scimmie” (Syntagma II V). Infatti ha potere legislativo assoluto “o Dio,
che ha cura di tutto, ed è la somma ragione; o colui cui Dio delega le sue veci,
come Mosè e Pietro” (Politica V, 4). “Moïsè legista e ubidente” lo chiama Dante
(Inf. IV, 57 e Par. XXXII, 130) riferendosi a Ex., 32-4, come fa anche C.: “Ad
Abramo l’obediente, a Job il paziente, a Mosè il legifero: questi [titoli gloriosi]
non si ponno mutare, perché opera eorum sequitur illos” (Titoli, p. 297); infatti
“Mosè promulgò le leggi dategli da Dio e fondò uno stato rettissimo, e finché
gli Ebrei vissero in ottemperanza alle sue leggi, prosperarono; quando invece
le trasgredirono, decaddero” (Quaest. pol. IV, p. 101); ma le leggi mosaiche fu-
rono ottimamente riformate da Cristo: “nisi Christus legem Moysi laudasset…,
nemo forte nunc in mundo praeter vos [= Ebrei] legem Moysi crederet” (Quod
rem. 3, p. 132).116
16.28b: Osirim,
Divinità egizia, figlio del cielo e della terra; tagliato a pezzi dal fratello Seth
(Syntagma IV I), fu ricomposto e resuscitato dalla sorella Iside; simboleggiava
l’alternarsi del giorno e della notte e le periodiche inondazioni del Nilo. “Isi e
Osiri dagli Egizi… per essere stati inventori d’arti o di religioni o leggi, furono
riveriti con sacrifizi e con poemi” (Poetica II, p. 318), ma sono dei millantatori
(Aforismi, 107 e 167). Alcune fonti (Diodoro, I I, II [I, 12] e I XIII, IV; Plutarco, Is.
et Os., 13, 356A-B; Beroso, 20r; Giamblico, Misteri, p. 264 [VIII III]; Macrobio,
Saturn. I, 21, 11; Eusebio, Chr., 48b.22) attribuiscono ad Osiride la civilizzazio-
ne dell’umanità attraverso l’agricoltura e l’istituzione delle leggi e dei culti re-
ligiosi; altre fonti invece (Agostino, CD 8, 27; 18, 37 e 40; Comestore, 70), dico-
no che è la moglie Iside ad aver civilizzato gli Egizi con la scrittura, come so-
stiene altrove lo stesso C.: “gli Egiziani attraverso Iside” ricevettero le loro leggi
(Theol. I [I, p. 25]).
116
Cfr anche Mon. Sp. I, 4; Poetica XI; Afor., 33-4, 57, 65; ma le pagine più intense ed inneg-
gianti a Mosè sono in Comment., p. 860-8; Mon. Sp., p. 4 e ai cap. V-VI di Theol. XVII.
COMMENTO AL TESTO 257
16.28c: Iovem,
Per C. l’equivalente caldaico del nome di Dio era “Jove”, da cui deriva prima lo
“Jeova” ebraico: “il nome di Giove presso gli antichissimi Caldei, donde Abra-
mo lo introdusse tra i Giudei, era un vero nome tetragramma [= Geova] ma
poi fu comunicato agli uomini e Belo, re d’Egitto della stirpe di Nembrot, se lo
usurpò per primo, e dopo di lui altri principi, compreso quello che presso i
Cretesi fu chiamato Giove. Perciò Senofonte dice che i primi monarchi furono
chiamati Saturni, i figli Giovi e i nipoti Ercoli” (Theol. I [I, p. 181]; Senso, p.
225). Anche il Giove dei Greci e Latini è dunque un impostore, come mostra la
sua tomba a Creta (Theol. XVII, pp. 121 e 181; Theol. XXVI, p. 48); ed è que-
st’ultimo, probabilmente, che è effigiato dai Solari, come parrebbe da Mon.
Sp., in cui appare nello stesso terzetto e insieme distinto da Belo (= il Baal di
1Re 16, 31; uno degli antichi progenitori Fenici): “quando li Assiri sotto Nino
mutâro la religione di Noè e fecero quella di Giove Belo… I Macedoni… si fe-
cero Alessandro figlio del Dio Ammone… Lascio stare Giove, Mercurio, Osiri e
altri antichissimi quanto fecero con questo” (X, p. 94; cfr altresì: Metaph. III XI
XVII, I; Poetica II; Quod rem. 2, p. 19; Comment., ‘Proemio’ [p. 693]).
Fonti: in Theol. I (I, p. 25) C. esplicita la fonte: “I Gentili considerano Giove e
Mercurio come autori delle loro leggi, secondo le testimonianze di Platone, e
così Minosse e Numa dichiarano di aver introdotto le leggi e la religione per
opera divina”; in effetti fu Giove, secondo Platone, a dettare le leggi a Minosse
(e dunque ai Cretesi): Minos. 318-20, Leg. 624a-636d, Protag. 322c-d; altre fonti:
Beroso, 8v; Mela, II VII; Servio, Ad Aen. VII, 180; Solino, Coll. XI, 7; Diodoro, V,
71-2; e specialmente Lattanzio, Div. Inst. I XI; Agostino, CD 9-12; per ‘Iuppiter
Stator’: Cicerone, De leg. 2, 11, 28 e Agostino, CD 3, 13 e 7, 11 (“quod haberet…
impellendi, statuendi, stabiliendi, resupinandi potestatem”, reggitore e sosten-
tatore del mondo); SN XXXII XXIX.
Oltre alle sue qualità legislative, Giove ebbe almeno tre altre ‘marche’ suscetti-
bili di divinizzazione:
– inventore dell’agricoltura: Virgilio, Georg. 1, 121, irriso da Agostino, CD
7, 19;
– mago diabolico: “Iuppiter, magorum celeberrimus, et totius sceleris officina,
apud vulgus ignobile arcem divinitatis obtinuit, quoniam ad perpetrandos
incestos nepharios in quaslibet formas deformavit” (SN XXIII LXXVI); Giove
è stato deificato per le sue pratiche magiche, volte a soddisfare la sua lasci-
via, esperto com’era in trasformismi (cigno, toro, pioggia d’oro… );
– divinità antonomastica per indicare la pervasività del divino nella natura
(l’animismo), sulla scorta di un motto, spesso cit. da C. (es. Lettere, p. 118),
attribuito da Sensu, p. 235n a Catone, e da Theol. I (I, p. 95) a Lucano che l’a-
vrebbe derivato a sua volta dalle Georgiche virgiliane: “Superos quid quaeri-
mus ultra! Juppiter est quodcunque vides, quodcunque movetur” (per C. e
la teoria dell’‘anima mundi’ v. n. 124.9-10, n. 132.35-134.3); è invece molto
più diffuso il motto presente in Bucol. III, 60 (“Iovis omnia plena”): da Ara-
to, che lo colloca proprio in incipit, come ricorda Macrobio, Somnium I XVII;
ad Agostino, CD 7,9; e modernamente allo Stephanus, Annotat. a Callimaco
p. 1: “A Iove principium, quoniam Iovis omnia plena”; Pulci, per dire che
258 LA CITTÀ DEL SOLE
agli Antipodi sono pagani, scrive: si “adora il Sole e Juppiter e Marte” (Mor-
gante XXV, 231).
16.29: Mercurium,
A partire da Ficino (es.: Amore II XIII [I, p. 215]), Ermete Trismegisto era chia-
mato correntemente Mercurio (con o senza l’appellativo di ‘Tre volte grande’)
e quindi si rischiava di confonderlo con l’omonima divinità romana.117 “Si trat-
ta di una figura sincretica, nata dalla fusione, avvenuta nella cultura greco-lati-
na, di Thoth118… e di Ermete, dio greco (‘Mercurius’ per i Latini), messaggero
degli dei e guida delle anime dei defunti. A lui furono attribuiti testi in lingua
greca che in realtà appartengono a diversi autori dei primi tre secoli dell’era
cristiana. Essi sono distinguibili in due gruppi: uno di trattati e di formule di
carattere magico, alchemico, astrologico, e un altro di testi di carattere filosofi-
co-religioso, influenzati dalla filosofia greca e dalla cultura giudaica, cristiana e
gnostica. Il secondo gruppo è oggi rappresentato dal cosiddetto Corpus Herme-
ticum, che comprende diciassette trattati in lingua greca, scritti, a quanto pare,
ad Alessandria o in ambiente alessandrino”,119 i più famosi dei quali sono l’A-
sclepius e il Poimandres. In questi scritti Ermete risulta un saggio e un legislatore,
perciò C. nei suoi scritti mostra tanta ammirazione per “Trismegisto sapientis-
simo”; mentre “i miracoli di Giove [Sensu aggiunge: “Mercurii”], di Bacco, d’A-
pollonio e d’altri Dei, parte furono naturali, che alla sciocca gente parevano
miracoli” e parte diabolici, invece per primo e da solo, “Trismegisto il vero
Dio… stimò, e non stima quelli Dei Egizii”.120
La tradizione, cui attinge C., vuole che Mercurio (“Mercurius, quod mercibus
praeest”, secondo l’etimol. di Isidoro, VIII XI), figlio di Giove e di Maia,121 ov-
vero nipote di Atlante,122 sarebbe stato inviato dal padre a portare a tutti gli uo-
mini indistintamente “il pudore e la giustizia, affinché servissero da ordina-
mento della città e da vincoli costituenti unità di amicizia” (Platone, Protag.,
117
In Mondi “l’eliminazione da parte del Doni dell’aggettivo peculiare del Trismegisto” fa
problema (Pellizzari, p. 176).
118
O Theuth, dio egiziano inventore della scrittura e delle matematiche (Platone, Phaedr.
274c). È all’età alessandrina in effetti che risale la sua identificazione con Hermes (Saxl, p.
167; Schiavone, p. 186).
119
Giancotti, p. 212-3, a commento del sonetto 40, 10: “cerca fuor di zelo in umil tende / Ca-
ton, Minoi, Pompili e Trismegisti”, cioè una lista di legislatori e dunque uomini “atti al re-
gno”.
120
Senso, pp. 233-4 e 323; e così in: Theol. I (es. I, p. 19); Mon. Messiae II, p. 12; Quod rem. 3, p.
24: “Trismegisto” autore del Pimandro; Opusc. ined., p. 23: autore dell’Asclepius – in quegli stes-
si anni [1614], però, Casaubon ne provava l’inautenticità –; in Metaph. III XV, III espone le
dottrine di Ermete o “Mercurius, quem vocant Trismegistum”.
121
Cicerone, De nat. deor. III XXI-XXII, ricordato da Lattanzio, Div. Inst. I VI.
122
Isidoro, Chronic. (PL LXXXIII, 1025) parla di un “Serapis, Jovis filius, Aegyptiorum rex,
moriens, in deos transfertur… Tunc fuit et Mercurius, nepos Atlantis, multarum artium peri-
tus” (Atlante è infatti padre delle Pleiadi, una delle quali è appunto Maia).
COMMENTO AL TESTO 259
322cd). Dall’Hermes pagano poi finse di essere stato ispirato il Theuth egizio,
e già Diodoro (I I, II e I II, V) testimonia che il processo di contaminazione fra
le due divinità era in atto; Girolamo, In praepar. Evang. I IX: “Aegyptii Thoyth
vocarunt, Alexandrini Thoth, Graeci Hermen, hoc est Mercurium”; Ficino, la
cui lista di legislatori ‘divini’ coincide quasi con quella di CS: “Trismegistus
Aegyptiis in Mercurium” (II, 1135 [in Minoem] – per il contesto della citaz. v. n.
16.28-18.6). O addirittura il Trismegisto si fece passare per suo figlio: “Ermes il
mio avo, di cui porto il nome” (Agostino, CD 8, 23). Una controprova la si può
trovare in Naudé, Considérations III, p. 118: nella sua lista di statisti simulatori,
che dice di aver ricavata direttamente da C., sostiene che Trismegisto fece cre-
dere di aver ricevuto le leggi da Mercurio come Minosse dal padre Giove.
16.29a: Lycurgum,
Mitico autore della costituzione spartana insieme a Solone e Numa, appartiene
ai sapientissimi legislatori designati dal popolo (Aforismi) e “ai quali viene affi-
data la ragion comune dello stato” (Politica, V, 4); in Quaest. Eth. (I, 11) è posto
(con Mosè, Romolo e Codro) fra i ‘dominatores’ virtuosi contrapposti ai perfi-
di tiranni vantati da Machiavelli; e in Theol. XVII, p. 179 addirittura fra i marti-
ri (insieme a Pitagora, Zaleuco, Romolo, a parte Mosè e Cristo): “I Lacedemo-
ni perseguitarono a morte il buon Licurgo, che dava loro le leggi, e anzi uno di
essi gli trasse un occhio con un colpo”.
Il plutarchiano Lycurgi et Numae comparatio è una fonte palese: non solo i due
statisti si trovano affiancati, ma si narra anche l’apologo dei due cani che s’az-
zuffano per un misero osso trascurando la caccia, citato spesso da C., e adatta-
to alla realtà contemporanea (es. Disc. univ. XVIII [p. 1153]). Sullo statista
spartano, oltre Lyc. 5, 4, cfr anche: Erodoto, 1, 65, 4; Platone, Leg. 630d, 691e,
858e; Cicerone, De rep. II, 2; De leg. I, 57; Diodoro, I, 94-5; Agostino, CD 10, 13;
Giustino, III: “finse che autore delle leggi fosse Apollo Delfico” (SH II XC).
16.29b: Pompilium,
È uno dei tipici casi di ribaltamento di giudizio: originariamente annoverato
tra i “gran dottor della legislatura” (36, Madr. 4, 1 [circa 1603]), eletto dal po-
polo (Afor., 33), e, per la sua prudenza (Mon. Sp. V, p. 38), giustizia e tempe-
ranza, capace di guidare rettamente lo stato (p. 97); giudizio replicato da
Aphor. V, 4; ma sempre in Aphor. [1619] viene tacciato d’impostura, alla stregua
di Maometto, che con la spada e con la menzogna ha conquistato un dominio
perituro (VIII, 3); insomma un ingannatore “officioso e utile” (espressione
averroistica: “mendaces officiosi”, secondo Metaph. XVI VI, II [III, p. 239]), per-
ché “meditava le leggi nel bosco e poi le consegnava ai Romani come se le aves-
se ricevute là da un dio” (Metaph. XVI VII, IV [III, p. 271]), e cioè dalla ninfa
Egeria (Poetica VI; Theol. XVII, p. 125), persuadendoli “con la forza dell’orato-
ria” (Rhet. I II, p. 727).
Fonti: Virgilio, Aen. 7, 763; Ovidio, Fasti 3, 273; Agostino, CD 7, 35; Isidoro (in
SH II, CIV) dice che traspose in latino le leggi di Solone e stilò le Dodici Ta-
vole.
260 LA CITTÀ DEL SOLE
18.1: Pythagoram,
Prevalgono i giudizi positivi su di lui: anch’egli appellato “il gran dottor della
legislatura”,123 anche se non mancano le riserve: è un ingannatore che “finse di
aver conversato per due anni con gli dei” (Metaph. XVI VII, IV [III, p. 271]), e
per giunta con quelli “dell’Averno” (Poët. V II, p. 1101), ed è tra coloro, come
Numa, le cui leggi sono scomparse, perché affermate con la spada o l’inganno
(Aphor. VIII, 3).
Fra le varie fonti note ed in parte dichiarate da C. (autore di una perduta Phi-
losophia Pythagorica [v. n. 12.5]), classiche,124 patristiche (Giustino [SH III XXIV],
Agostino, Eusebio, Tommaso), e moderne (da Beroaldo a Barri), è degna di
menzione quella del condiscepolo telesiano Persio: “il nostro Pithagora andò
fino ad Egitto per apparar le mathematiche… in Isparta per conoscer le leggi
di Minos di Licurgo. Onde tornatosene in Italia, e in Crotone dimorato per
venti anni, città nobile della magna Grecia, venutosene a Metaponto, luogo po-
co lontano dalla nostra patria [Persio è di Matera], qui terminò gli anni suoi”,
e la sua casa fu trasformata in tempio, “dove egli avesse a essere adorato e mi-
rato con devotione come Dio” (p. 67).
18.1a: Zamolxim,
Di Napoli traduce ‘Zamolxide’ (Metaph., Proem. [I, p. 87]); Amerio ‘Zamolsi’
(es. Theol. I [I, p. 25]); Piazzi: ‘Zamolxis’; Cesaro: ‘Zalmosse’ a p. 91 e ‘Zal-
moxis’ a p. 210; gli studiosi francesi hanno antesposto la ‘l’ alla ‘m’;125 qui si è
optato per la traduzione di Firpo 1941 e 1954 e Bolzoni 1977, p. 967, non es-
sendoci alcuna grafia prevalente.126
La storia di questo millantatore, prima schiavo, poi allievo di Pitagora, che, af-
francatosi e arricchitosi, tornò tra la sua gente, gli Sciti, a propagandare il ver-
bo pitagorico, facendosi passare per una divinità col trucco di fingersi morto e
‘risorgere’ dopo quattro anni, è ampiamente nota nell’antichità: Erodoto, IV,
93-5; Platone, Charm. 156e-157a; Aristotele, Fragm. 104; Diogene, I, 1 e VIII, 2;
Porfirio, Vita, 14-5; Giamblico, Vita, 104, 173 (Theodoreto, XXX, p. 154-5); Cri-
sostomo, Contra Gentiles 1036D. Della Porta, Magia, 1r lo considera invece un
‘mago’ eccellentissimo. C. lo inserisce fra gli impostori: “lo scita Zamolxi, dopo
essere rimasto nell’antro del monte, diede la legge al popolo che l’aspettava ai
123
Insieme con Numa: 36, Madr. 4, 1 e sonetto 137, 31; ebbe “intelligenza mistica” della na-
tura, come Platone (Theol. I [I, p. 37]), e “gareggia con Mosè nella legislazione” (Apologia, p.
56).
124
Da Diogene a Livio, da Plutarco a Ovidio – a cui rimprovera “confusioni cronologiche, co-
me l’incontro di Numa con Pitagora” (Poët. VIII IX, p. 1099) –, da Giamblico a Clemente Ales-
sandrino.
125
F. Pfister, Zalmoxis, ‘Studies…’ (1953); M. Eliade, De Zalmoxis à Gengis-Khan, Paris, 1970;
Crahay: ‘Zalmoxis’.
126
La correzione dell’unico “Zamolhim” dell’ed. Parigina è effettuata sulla base della Fr. e
delle altre opere, nonché della presunta agevole corruzione della ‘x’ in ‘h’ (anche se in Com-
ment., p. 866 c’è “Zamolsius”).
COMMENTO AL TESTO 261
piedi del monte” (Theol. XVII, p. 127-9), fingendo di aver avuto lì “convegno
con gli dèi” (Poët. V II, p. 1011) – cioè la dea Vesta, secondo Diodorus, I XCIV e
Ficino, Amore II, 1135.
18.1b: Solonem,
Modello di “buono legislatore in fatti” (Afor., 57; mentre Platone lo fu ‘in lette-
re’ e Mosè in tutti e due), espressione della ragione naturale (Afor. V, 4), scris-
se in versi le leggi ateniesi, per agevolarne la memorabilità (Poetica IX, p. 339).
In Theol. XXIX, p. 65 muta parere: Solone è un altro impostore che finge di es-
sere stato ispirato da Minerva.
Fonti: Platone, in partic. Tim. 20-7; Plutarco, Solon, 17-25; Cicerone, De leg. I, 57;
Livio, III, 31-2; Diogene, 45, 55-63; Ocellus, p. 12; Agostino, CD 18, 25 (uno dei
sette sapienti: “si dice che diede alcune leggi agli Ateniesi”); il dettaglio auto-
biografico più intrigante, che cavava dal plutarchiano Solon VIII, è la sua finta
follia, per incitare gli Ateniesi alla riconquista di Salamina, senza incorrere nel-
la pena di morte: “Bruto e Solon furor finto coperse” (Sonetto 62, rinviando in
nota a “quando [l’Au. stesso] bruciò il letto e divenne pazzo, o vero o finto”).
18.1c: Charondam,
Non mi risulta menzionato da C. prima di Quaest. pol. IV, p. 102 [circa 1620]:
anche lui condannato, come Solone, Licurgo, Zamolxi, Numa “per non aver
osservato la religione che tenevano per vera e davvero data da Dio, mentre ve-
devano in essa molte cose contrarie alla ragione naturale”. Eppure le fonti ac-
cessibili su questa figura forse mitica di legislatore catanese del VI sec. a. Cr.
non scarseggiano affatto, e tratteggiano unanimemente un profilo positivo:
Platone gli attribuisce “il merito di aver agito da buon legislatore e fatto l’utile
dei suoi cittadini” (Resp. 599e); è spesso citato nella Pol. aristotelica, segnata-
mente a 1274a25-1274b8, quale allievo di Zaleuco; e poi: Cicerone, De leg. I, 57;
II, 14; Diogene, II, 76; Eliano, III, 17; Porfirio, Vita, p. 21; Giamblico, Vita, p.
130 [Theodoreto, pp. 103, 123, 154], che l’annovera fra i pitagorici; Ocellus, p.
12. Diodoro, I II, V [I, p. 74-6] lo considera “legislator de’ Sibariti” e in XII [I, p.
524-32], “huomo di ottima natura, e di singolar peritia nelle cose del mondo, e
delle divine parimente dotato, e appresso ornato di tutte le scienze e buone di-
scipline. E questi usando non picciola diligenza di venir considerando di qua-
lunque natione le leggi, e gl’instituti, e di quelle tutte le miglior cose, e che più
gli parevano a proposito… eleggendo, e quasi che in un corpo riducendole,
impose loro che quelle dovessero per leggi loro osservare”; Doni, Mondi (p.
123) ne storpia il nome in “Gerondia”; e forse a una storpiatura del nome del-
la sua patria è dovuta la menzione in Ficino, Amore II, p. 1135 quale legislatore
dei Cartaginesi (Catanesi?), ripresa proprio da C. in Theol. XXIX [circa 1623],
p. 65 e in Comment. p. 866: “Charondas [legifer] Chartaginiensium”.
18.2: Phoronaeum,
Come Caronda, anche questo nome manca nell’ed. del 1623; in Comment., p.
866 è chiamato legislatore “Graecorum”: figlio di Inaco, fu il più antico re di
Argo (se non proprio della Grecia), e insegnò agli uomini l’uso del fuoco e a
262 LA CITTÀ DEL SOLE
vivere riuniti in città. Solone “favoleggiò di lui come il primo uomo” (Platone,
Tim. 22b) vissuto prima del diluvio. Altre fonti: Diodoro, I, 94-5; Plinio, VII,
194; Igino, p. 143; Apollodoro, II, 1, 1; Pausania, I 39, II 15 e IV 40; Eusebio,
Chron. 30a.12; Isidoro, V I e Chron. [PL LXXXIII, 1025] dice che per primo die-
de ai Greci le leggi (anzi ‘forus’ sarebbe derivato da “Foroneo”, secondo Etym.
XV II, 27), seguito da Comestore, LXX in SH I CX e Bellarmino, Chron. 3: circa
diciannove secoli a. Cr. “claruit Phoroneus legislator primus”; Agostino, CD 18,
3 (“la Grecia accrebbe la sua fama grazie alle leggi e tribunali istituiti sotto Fo-
roneo, re dell’Argolide”); Filarete lo reputa fratello di Isis e primo legislatore
della Grecia; Bosio, II, 35: secondo re di Argo e fondatore della città di Rodi;
Doni, Mondi (p. 68-9) plagia (e quindi sbaglia come) Guevara, che lo conside-
ra legislatore degli Egizi, “e fu lor re, fu uomo giusto, non meno virtuoso che
savio e onesto. Alcuni vogliono che le sue leggi corressino tutto il mondo, per-
ché si vede i Romani aver chiamate certe leggi giustissime ‘forum’ per memo-
ria del re Foroneo”.127
18.3: Mahomettum
Fin dall’oroscopo si poteva intuire che sarebbe sortito uno dei peggiori
“prophetas falsos, pestiferos, venereos, fabulosos, inanes, viribus gladii non ra-
tione fretos, stultiloquos” (Quod rem. 4, p. 127), e uno di quei legislatori, “i qua-
li spinti dall’astuzia o da un demone, finsero di essere stati inviati da Dio, come
imitatori dei suoi veri messaggeri” (Politica V, 4); in effetti “le lettere del suo no-
me Magumettus formano il numero 666”, cioè quello della Bestia ovvero del
più infernale Anticristo, secondo Apoc. 13, 18 (Disc. univ., X); e del resto ogni
sua azione denuncia la matrice demoniaca: infatti non avrebbe “potuto inven-
tare così favolose e colossali bugie, e rispondere con tanta prontezza a tutte le
questioni per mezzo di sciocche invenzioni, se nell’antro in cui credeva di par-
lare con Gabriele non fosse stato ingannato dal Diavolo, che era sempre appic-
cicato alla sua lingua: infatti chi esamina i suoi scritti nota che egli parla in mo-
do quasi affascinante”.128
18.5 IESU-CHRISTI
Tanto viene depresso Maometto (e, come si è visto, quasi l’intero pantheon
pagano, Pitagora incluso), quanto viene esaltato Cristo – la distanza con
T.18.2 misura qui forse sia un tentativo di chiarimento che un ravvedimento:
nelle redaz. italiane, Cristo è una delle manifestazioni (seppur massime, op-
127
Il nome, in realtà, “significa probabilmente ‘Il portatore’, ossia il benefico”, secondo Gui-
dorizzi (p. 416), alla cui nota si rinvia per l’esaustivo elenco delle fonti greche: “è una note-
vole figura di fondatore culturale” (secondo Pausania, 2, 19, 5, scopritore del fuoco; secondo
Igino il primo a fabbricare armi), e “fu anche il primo uomo e il primo re, e sarebbe stato an-
che il primo ad innalzare un altare in onore di Era” (p. 521).
128
Poët. V II, p. 1013; per la sua diabolica fascinazione cfr anche il sonetto 16; Mon. Messiae I,
6; il XIV cap. di Art. proph.; Apologia, p. 57; sulle fonti di C. circa la dottrina di Maometto, cfr
nota di Amerio a Quod rem. 4, p. 6-7, e Lerner 2001, pp. 184 e 288.
COMMENTO AL TESTO 263
129
Gramm. III II, I, p. 689: “la religiosità ci insegna poi a scrivere il nome ‘DIO’ in tutte maiu-
scole”.
130
Da Dionisio Ponzio, aiutante di C., aveva sentito dire che “sebben Christo morì, non resu-
scitò, ma il corpo suo fu robato e fece come gli altri che davano lege alli popoli che non la-
sciavan trovar li corpi loro” (Amabile, Congiura III, p. 204).
131
Cfr Firpo 1947, p. 235-6; invece Giancotti, p. 482-5, è molto più cauto circa la paternità
campan. di questa poesia.
132
Anticampanella in compendium redactus…, Paris, 1655 [1637I].
264 LA CITTÀ DEL SOLE
18.10: heroas,
“Dicitur Heros quasi semideus”:135 gli eroi sono qui effigiati per ragioni cultu-
rali (dei primi due e del quarto i Solari commentano le storie [v. n. 64.25-6]),
non cultuali, altrimenti si macchierebbero d’idolatria (112.6). Il culto degli
eroi è unanimemente raccomandato, da Platone (Crat. 398b) e Pitagora (cui
Diogene, VIII, 23 fa dire: “onora gli eroi prima che gli uomini”), fino a More,
224.
18.16: exploratores
In Platone è un ruolo semi-istituzionale: “Viaggerà come osservatore quanti an-
ni vuole dei dieci che intercorrono fra i suoi cinquanta e i sessant’anni e, tor-
nato in patria, si presenti al Consiglio dei magistrati ispettori delle leggi” (Leg.
950d). Senza limitazioni d’età in CS, il viaggio a scopo di conoscenza è indizio
di apertura mentale (ripetutamente perorata nel testo: 60.14-5, 84.20-32), per-
ciò bisogna prender esempio dai “signori veneziani, che quando tornano dal-
l’ambasciarie fanno certe relazioni delle cose del paese” (Mon. Sp. XII, p. 112).
133
Livio, Plutarco, Svetonio – una copia delle Vitae Caesarum di quest’ultimo è stata rinvenu-
ta nel convento di Nicastro dalla De Vinci.
134
Botero scrisse per i figli di Carlo Emanuele I di Savoia, di cui era precettore, I Prencipi
(Alessandro, Cesare e Scipione) (Torino, 1600).
135
Ludovico 87, 10; così anche Sansovino: “Heroe vuol dire Huomo grande, Principe e parti-
cipante del divino con l’intelligenza delle cose” (6v).
COMMENTO AL TESTO 265
18.20: in hac
Crahay l’interpreta diversamente: “De celle-ci [= république] ils tirent beau-
coup de satisfaction”; ma annotando dubbiosamente: “forte legendum in hoc
(in questo It.)” (p. 82): cioè i viaggiatori solari, dopo aver visitato le altre nazio-
ni, provano piacere a ritornare in patria, dove stanno meglio (che altrove). Sia
la versione proposta che quella supposta sono, però, poco pertinenti rispetto al
contesto, in contrasto con il passo parallelo di Città (T.18.13) e anche con le
sue probabili fonti: Mandeville vuol fornire notizie sui Bizantini, “perché mol-
te gente prendeno dilecto de odire cosa nova” (XXVIII); e More, 171 (qui ri-
calcato quasi alla lettera). Invece “hac” è corretto (testimoniato anche da Fr.),
e il soggetto sottinteso della frase non è ‘gli esploratori’, bensì le loro relazioni;
quindi: nella Città le relazioni di viaggio sono molto apprezzate.
136
Ad es. in Metaph. XI III, II: “ed ora sono state inventate l’arte tipografica e le bombarde, le
quali benché prima possedute dai Cinesi, tuttavia fra noi hanno una nuova nascita” (III, p.
11); il sistema suggerito in Mon. Sp. con “quei della Taprobana” per “introdurre il Cristiane-
simo a loro” è quello di donare “scienze e stampe e pitture e altre arti [pacifiche] che essi am-
mirano” (XXIX, p. 316).
266 LA CITTÀ DEL SOLE
celebrato Liceo, e tutte l’antiche scuole de’ filosofanti in tanti secoli con tanti
sforzi e con tante composizioni non potevano mai penetrare” (II, p. 224).
18.26: historico
Vi sono almeno tre accezioni del termine ‘historia’ (e derivati) riferito agli af-
freschi delle mura:
a) ‘percezione’: alle idee platoniche, nonché agli universali aristotelici, che dan-
no solo immagini sfocate e generiche delle cose, C. antepone le percezioni
che ce le restituiscono nella loro concretezza; queste percezioni del reale,
che chiama ‘historiae’, sono il fondamento epistemologico: “principia scien-
tiarum sunt nobis historiae” (Metaph. I VI, II), e sono di due tipi: “historiae di-
vinitus promulgatae” (la teologia), e “historiae humanitus notae” (Metaph. I
V, II, II), o ‘micrologia’, la scienza del mondo creato – piccolo mondo rispetto
all’Infinità –, a sua volta suddivisa in naturale (le scienze fisiche) e morale (le
scienze umane). Dunque con ‘storico’ qui (e più chiaramente ancora a
32.28) allude ad un sapere diretto, percettivo e descrittivo del mondo, non
mediato da astrazioni o categorizzazioni posticce (o ‘libresche’). Questo sa-
pere ‘storico’, proprio per la sua natura descrittiva, è però limitato alla sola
superficie del reale. E del resto tale limitazione è connaturata all’arte stessa
utilizzata, la pittura, a cui i Solari fanno ricorso, come surrogato delle cose
stesse, proprio per evitare o limitare la mediazione libresca; pittura, che “rap-
presenta le cose di fuore, senza interiormente conoscerle” (Poetica III, p.
319), cioè “senza render causa” (Senso, p. 221), come Galilei, il cui Nuncius
“sul nuovo cielo e sulle nuove stelle è opera storica: infatti non spiega perché
intorno a Giove ruotino quattro pianeti e due intorno a Saturno, ma riferisce
quanto è stato constatato” (Hist. II, p. 1245). L’aderenza all’epifania, alla ‘let-
tera’ delle cose spiega anche la scelta del termine ‘historicus’ che appartiene
al lessico dell’ermeneutica biblica: del resto, essendo Mondo e Bibbia due Li-
bri, uno fatto e l’altro scritto dallo stesso Autore, è ovvio che la strumentazio-
ne esegetica debba essere affine; e quindi, come nella Natura “vi è un dupli-
ce senso: uno storico e l’altro mistico: il senso storico è il senso percepibile
con i sensi… il senso mistico è quello per cui, mediante la ragione conve-
nientemente retta da Dio, scrutiamo le verità riposte, giacché sappiamo che
le cose tutte sono simili alle loro cause, e che tutte son simili a Dio” (Theol. I
[I, p. 37]); analogamente anche la Scrittura è pluristratificata: il senso scrit-
turale è “quatruplex: historicus, moralis, allegoricus et anagogicus, et nonni-
si historicus fundet dogma” (Quod rem. 4, p. 124; Theol. I [I, p. 39]); il signifi-
cato ‘storico’ o ‘letterale’137 è il primo e più superficiale grado d’interpreta-
zione della Scrittura, “comune agli storici”, rispetto al senso morale, proprio
dei “poeti, per educare i costumi con l’esempio; il terzo si trova in figurazioni
137
“Unum capitulum Bibliorum moraliter et literaliter exponat” (Quod rem. 4, 2 [p. 1240]); è
l’escatologia della salvezza che costringerà a interpretare il ‘sensus litteralis’ come ‘sensus hi-
storicus’ (cfr Jauss, II, p. 41-4).
COMMENTO AL TESTO 267
di cose passate simili a quelle future ed è proprio dei profeti e delle profezie
espresse per immagini”, culminante nel senso ‘anagogico’ quando ci si eleva
alla speculazione delle cose superiori, cioè “quando si descrivono per mezzo
delle cose presenti quelle che avverranno dopo la morte in un’altra vita”;138 e
sempre in ambito religioso, Senso distingue fra una fede che “viva si può dire
e non istorica solamente” (p. 228), cioè esteriore, fredda, “che può essere
propria anche di un ‘uomo tristo’, e una fede intrinseca, che si nutre dell’a-
more divino e trasforma ‘l’amante nell’amato’” (Ernst 2002, p. 117).
b) Istoriatura: ‘historicus’ sta dunque a precisare quell’“istoricamente”
(T.18.20), che è decisamente equivoco; infatti Bobbio e Firpo l’intendono:
‘mediante figure istoriate’, che invece vale solo per T.48.1 (“figure istoriate”),
a sua volta girato in: “historiis figuratis” (48.1). È dunque la forma figurale
specifica di questa enciclopedia murale, in un’accezione già presente nel ti-
tolo di un libro del Trattato [1584] di Lomazzo: ‘Della virtù e necessità dell’i-
storia, o forma che vogliam dire della pittura’: “Qui il concetto di ‘forma’…
viene equiparato a quello di ‘istoria’”, commenta puntualmente Saxl, p. 431.
c) ‘Datità’ (18.13 e T.18.7): “l’istoria tratta una o diverse azioni del mondo e
narra quello che per tutto si trova, senza unità, ordinandole solo al sapere”,
cioè alla mera informazione (Poetica V, p. 323). ‘Storia’ ha dunque il valore
corrente di sequenza evenemenziale reale, ma in cui, al solito, più che sul
contenuto, l’accento batte sulla forma: ‘storia’ significa, ‘strictu sensu’, cro-
nologia degli avvenimenti di rilevanza civile o naturale: “la storia è un di-
scorso narrativo, pluricomposito, veritiero, schietto, chiaro, adatto a fornire
i fondamenti delle scienze… Sopprimerà dunque lo storico tutto ciò che
non contribuisce alla cognizione delle cose necessarie alla scienza” (Hist.,
pp. 1225 e 1229).139 L’antitesi ‘quia’/‘quid’ (v. 102.38 le “quidditates” meta-
fisiche inscritte nelle colonne del tempio), ovvero storia/filosofia, era fatta
risalire ad Aristotele: dopo la tripartizione del sapere secondo la tassonomia
platonica basata sull’essenza divina (in Dio coesiste: “causa subsistentis, ratio
intelligendi et ordo vivendi”, ovvero la filosofia naturale, razionale e mora-
le), “porro quarta et ultima, videlicet historialis, licet ad Philosophiam di-
recte non pertineat, eo quod singularia [soltanto gli eventi singoli, staccati,
138
Poët., VIII II, p. 1071. Tale quadripartizione risale alla Scolastica, e Nicola De Lyra, nella
postilla alla Lettera ai Galati, la sintetizzò in un celebre distico: “Littera gesta docet, quid cre-
das allegoria / Moralis quid agas, quo tendas anagogia”; cfr Apologia, p. 27 e note di Lerner
2001, p. 230 sulle fonti ivi cit. da C. sui sensi della Scrittura, e p. 260, in cui commenta il sum-
menzionato Theol. I: “Le livre de la nature comporte deux sens: un sens ‘historique’, celui
que nous percevons avec nos sens, et un sens ‘mystique’, par lequel la raison bien conduite
nous amène jusqu’au Créateur de toutes choses. Quant à l’Ecriture, elle comporte quatre
sens, qui sont ceux de la tradition de l’Eglise: historique, moral, allégorique et anagogique”.
139
Sull’ancillarità della storia concordava Persio 1593: la “cognizione del quia, cioè che la co-
sa sia così”, senza conoscerne la causa o senza trarne utilità o senza riuscire a inquadrarla in
un sistema coerente non “basta a coloro che vogliono conoscere le cose per le loro cagioni”
(41v).
268 LA CITTÀ DEL SOLE
privi cioè di un ‘sistema’] rerum gesta tantum enarrat, de quibus, scilicet sin-
gularibus, secundum Arist., ars non est” (SQ I, Prol., XVI). Secondo Louis, in
un titolo come quello aristotelico o pliniano, ‘istorìa’ può significare sia
‘esposizione dei fatti relativi agli animali’, sia lo ‘stato della conoscenza rela-
tiva agli animali’. Per cui qui ‘storico’ indicherebbe anche lo ‘stato dell’arte’
delle singole discipline, che è il gradino preliminare indispensabile per fare
poi scienza o filosofia. Che è proprio quello che C. insegna a Naudé in Syn-
tagma (II II): come base ‘ad recte philosophandum’ occorre anzitutto cono-
scere “ejusdem historiam”, a partire da quella naturale; proprio per aver tra-
scurato la ‘storia’, “le scuole si estenuano in battaglie di parole, perché igno-
rano la storia delle cose sopra la quale si costruisce la scienza, per cui dalle
cose si volgono ai discorsi fini a se stessi”.
140
Ad es. in: Mon. Sp.1, p. 32; Quaest. pol. IV, p. 112; Senso, p. 305: “mi stupisco che siamo tan-
to bestiali che trascuriamo la generazione umana e tenemo tanto conto della razza delle be-
stie”; v. n. 40 (glossa).
270 LA CITTÀ DEL SOLE
perché ognun partecipa della sua sapienza con sua arte, ma si doveria distin-
guere il maestro teologo dal maestro ferrario” (Titoli, p. 300); invece secondo
Astrol. (VII II, 5) è chi fa delle scoperte significative nelle arti manuali a chia-
marsi ‘magus’, perché dietro c’è la mano divina a suggerirgliele: da ‘magus’ de-
riva il riduttivo in –astro, contrattosi infine nel volgarizzato ‘mastro’ (Lettere, p.
123: “Ho scritto a Scioppio che ti [= Pflug] faccia vedere tutti i libri del mastro,
perché ‘mastro’ mi chiami” – v. n. 10.35-6, n. 28.24-30.5).
20.13: Mogorum
L’impero dei Moghul è uno dei sette regni “che presero origine da Maometto”
(elencati in Theol. XXVI, p. 71: “regem Abdel seu Mogor Magnum”, e
nell’‘Ecloga’, 127); “li Tartari vincitori dell’Oriente” (Mon. Sp.1, p. 33), mal-
grado il nome, “non sono Mongoli, ma una dinastia turca musulmana, origina-
ria di Samarcanda e insediatasi in India verso il 1526-30 grazie al conquistatore
Babur [o Baber = Zahir al-Din Muhammad, il ‘Gran Mogol’], un discendente
di Tamerlano” e di Gengis-Khan (Auboyer, p. 196), conquista ulteriormente
estesa e consolidata da Akbar (Singh, p. 69).
“Da 50 anni in qua un Principe di estremo potere, che gli Orientali chiamano
il gran Mogor, a quel modo che noi diciamo il gran Turco” ha allargato enor-
memente la sua sfera d’influenza “sopra gli stati di qua dal Gange. La più com-
mune opinione si è che i Mogori siano Tartari di nazione… La loro città mae-
stra è Samarcanda, onde uscì il gran Tamberlane, del cui sangue si vanta d’es-
ser il Prencipe dei Mogori”, i quali, chiamati in aiuto da un re indiano spode-
stato, “avendo conosciuto l’abbondanza dell’India e gustato la sua fertilità,
hanno in pochi anni occupato, con un corso di perpetue vittorie, quasi tutto
ciò che giace tra il Monte Caucaso e il mare, e tra il Gange e l’Indo, nel quale
spazio contano 47 regni. Acabar, successore di Mahumudio, prese… la più par-
te della Cambaia, ove sono le famose città di Madabar, Campanel (questa ha
sette cinte di muraglia, e siede sopra un monte, che s’alza in mezo d’un pia-
no)”, recando “la rovina dei paesi per li quali passa e nei quali si ferma” (Bote-
ro, II II, p. 84-7). Questa è la fonte principale, perché il passo cit. è quasi tra-
dotto alla lettera in Quod rem. 4, pp. 110-2 e 172 (si noti l’accenno alla distru-
zione dell’eptamurata Campanel). Altre notizie sui “Tartari Mogori” le cavava
dai geografi141 e dai missionari: il gesuita Matteo Ricci redigerà una relazione
141
L’India orientale abbraccia varie nazionalità, tra cui “li Maumettani, alcuni de’ quali sono
COMMENTO AL TESTO 271
per il suo superiore, padre Maffei, Historiarum Indicarum libri XVI (Firenze,
1588), sulla breve missione di Rodolfo Acquaviva da Akbar (Maffei, II, p. 141;
cfr Lacouture, p. 292; Leed 1996, p. 126).
La Città campan. si differenzia dai paradisi naturali semi- o sempiterni, per il
fatto di avere una storia delimitata e recentissima: mezzo secolo prima di Città
un gruppo di profughi ideologicamente affini (come si assisterà nei secoli suc-
cessivi: dai Mormoni agli Ebrei), sfuggito alle persecuzioni (dei Mogori/Spa-
gnoli? [v. n. 64.16]), ha fondato una comunità ‘chiusa’, cioè un’enclave inci-
stata fra i regni taprobanesi, prima soccorrevoli, poi invidiosi e bellicosi
(64.39). Tagliatisi i ponti alle spalle e azzerato il loro passato, i Solari sono di-
ventati un popolo ‘a-storico’, vivente in un tempo immutabile, che cioè non è
frutto di un’evoluzione e che presumibilmente non muterà mai (sebbene sia
aperto al cambiamento [60.7-15]).
Persiani, altri Scitti, hoggi detti Mogores” (Magini, II, 184v, 188); nella Cosmographia di Testu,
coeva di Akbar, il regno del Bengala, 10° a Nord del Tropico del Cancro, è occupato dai “Tar-
tari Mogori”.
142
L’ultima forma del mito solare. Sulla teologia politica di fra T.C., in: ‘Jahrbuch der Schweizeri-
schen Philosophischen Gesellschaft’ (1944).
272 LA CITTÀ DEL SOLE
20.18: provinciae
Se s’intende ‘provincia’ (v. n. 12.27) come unità politico-geografica, allora può
alludere o alla regione indiana di provenienza, oppure ai quattro regni dell’i-
sola (64.39; Taprobana è una ‘provincia’ per Tolomeo [Geogr. VIII, 63]). Ma è
più probabile che ‘provincia’ qui debba esser inteso ‘etimologicamente’, cioè
come territorio assoggettato (v. ad es. Disc. Princ., p. 116: “Li Medi signoreggiâ-
ro centoventisette provincie nel medesimo sito del mondo”), sia per la rimar-
catura di ‘ipsi’, sia perché a 60.8-13 ritorna la motivazione ‘filosofica’ che ha
portato ad escludere le province dal regime di comunanza sessuale (v. n. 32
[glossa] § 2). Le altre province solari, dunque, sono “città suddite”, oltre che
intellettualmente (mandano i loro figli a studiare a Città del Sole: 74.23-5) e re-
ligiosamente (i loro prìncipi devono confessarsi ad Hoh: 106.9-11) – cose que-
ste che potrebbero anche rientrare nelle normali relazioni capitale/provin-
ce143 –, principalmente perché sono dotate di un regime sociale (sessuale) di-
verso, per l’‘imperfezione’ dei loro abitanti (60.11): lo spirito della legge natu-
rale s’incarna solo nella Città, è solo lei l’essenza dello stato; tutto il resto sono
appendici ‘coloniche’ secondarie, non saldate in una rete di rapporti organici
e omogenei, presupposto di quella moderna statalizzazione del territorio che
invece andava prendendo piede in Europa. Infatti “chi comanda su regioni di
diversi climi, deve dar loro leggi diverse, o anche le stesse, operati cambiamen-
ti di cittadini mediante mutue colonie e trasferimenti… Le colonie vanno for-
mate dai cittadini propri della metropoli dell’impero o dai vicini, come dai Ro-
mani e dai Latini. Quelle città siano metropolitane della stessa regione, ovvero
altre di nuovo edificate, quando gli indigeni delle nuove colonie non concor-
dano per costumi o per comodità. Così vengono costituite sotto nuovi auspici,
leggi e religioni” (Politica VII, 1-2).
143
Anche il “Mondo Nuovo” di Doni era organizzato in “province”, come “la Lombardia, la
Toscana, la Romagna, il Friuli, le Marche”, ognuna con un proprio capoluogo identico alla
capitale.
274 LA CITTÀ DEL SOLE
144
È cit. in Quaest. pol. IV II; cfr anche Mon. Sp., p. 36 e Poët. VIII VI, dove suggerisce al “poeta
di trattare dell’organizzazione politica e militare degli uomini, parlando di quella delle api o
delle gru” (p. 1085).
145
Queste sono le accuse mosse da Aristotele a Platone: v. n. 20.37-9 e n. 21.3 (f.p.).
COMMENTO AL TESTO 275
culus, omnium rerum vel uxorum communitate usam”; così anche i Garaman-
ti, abitanti dell’estremo sud dell’Africa, i Massageti e gli antichi Britanni (I XII,
p. 30). Il neoplatonismo contagia buona parte delle utopie moderne: More,
54, 57 e 105 (a distribuire i beni comuni è il capofamiglia, anziché un magi-
strato); Doni, Mondi, p. 166: “Tutto era in comune”; Roseo, Instituzione, p. 44 (v.
56.21-33 e note collegate, e n. 32 [glossa]).
146
Trad. di Ernst, che rinvia per Caterina al Libro della divina dottrina volgarmente detto Dia-
logo della divina provvidenza, Bari, 1928, p. 348sg; per Agostino v. n. 23.3 (f.p.); in Quaest. pol.
IV III, ‘ad primum’, ribadisce il nesso: comunione dei beni = cessazione dell’amor proprio.
276 LA CITTÀ DEL SOLE
ricorda il motto dello “stoico Catone: ‘Non sibi, sed toti natum se credere mun-
do’”.147 Un contesto analogo, poi, lo trovava anche in Doni: “Noi siamo tanto
appiccati all’amore de’ figliuoli, all’affetto dell’acquisto della roba, al desiderio
del vendicar le ingiurie… che noi stiamo occupati tutte l’ore in sì vili operazio-
ni” (Mondi, p. 67, e a p. 247 fa suo il celebre motto agostiniano: “Duas civitates
duo faciunt amores…”).
147
Per il resto della citaz. v. n. 86.1-2; e, sempre per la dialettica parte/tutto, v. n. 20.15-6, n.
32 (glossa) § 1.
148
Ma uno degli ‘aurei precetti’ pitagorici suona proprio: “amicorum omnia esse communia
et amicum seipsum esse alterum” (SH III XXV), indirettamente ripreso anche qui (v. n. 24.2-
3, n. 25.1 [f.p.] e n. 59.1 [f.p.]).
149
Comm. in Arist. Pol. II, 1-7; del diritto naturale al possesso comune discute ST I-II, 94.
150
C. lo conobbe a Roma nel settembre del 1592; la sua proposta utopistica o riformatrice
(Republica regia III IX-X) “rifiuta in modo esplicito, sulla base più dell’utile economico e poli-
tico che della morale cristiana, l’ipotesi comunitaria di Platone, facendo proprie le critiche
mossegli da Aristotele” (Zucchini, p. 300).
151
Ivi specificava che Aristotele, e non Cristo, aveva insegnato che “nessuno stato comunista
è in grado di prosperare” (Firpo 1979, p. 83).
152
V. n. 24.15-8, n. 32 (glossa) § 1; in Quaest. pol. IV, p. 129 Ernst cita le fonti cristiane di que-
sto passo.
COMMENTO AL TESTO 277
22.8: clericos
I ‘chierici’ “predicano il cielo e si afferrano alla terra, come il zingaro: ‘Guarda,
compare, suso!’, e tu guardi, e ti piglia li danari dalla borsa. O come Diogene
[Cinico], che avendo fame sputava dentro la minestra, perché gl’altri la la-
sciassero, ed esso poi solo si la trangugiava. Così paion li clerici, che predicano
contro li dinari, contro la libidine, contro le ricchezze, contro gl’onori, ed essi
si li pigliano, e a tempo di tribulazione fuggono li guai e li lasciano alle pecore
loro; e pur si fan tener per santi. Onde è nato proverbio che ‘li santi moderni
fan dubitar di vecchi’” (Ateismo II, 3 [in Ernst 1997c, p. 626]). La corruzione
del clero C. l’aveva vanamente denunciata già a Clemente VIII (v. n. 20.21-3 e
n. 56.31), poi a Paolo V, con precise istruzioni onde evitare accaparramenti in-
dividuali;153 ma la testimonianza più potente e dettagliata è la lunga lettera di
C. a Urbano VIII del 9 aprile 1635 (Lettere, p. 282-95), infra citata (v. n. 144.27-
146.2).
153
Lettere, p. 44-5; idem Disc. univ. VIII (p. 1132), XXII (p. 1159), XXIV (p. 1162); Quod rem.
4, 1.
154
Proprio a quest’intorno testuale allude la glossa di 60.18 (v. n. 60.18-23). C. conosce anche
altre testimonianze classiche sull’incompatibilità comunitarismo/amicizia, come quella di
Epicuro che contesta la sentenza di Pitagora ‘Comuni sono i beni degli amici’ (Diogene, X,
11), perché “una tale comunanza implica sfiducia, e senza fiducia non vi può essere amicizia”
(Theol. IV [II, p. 105]).
278 LA CITTÀ DEL SOLE
stituzione, pp. 48 e 54; e Brucioli, VI, 28v). Tale obiezione può sottintenderne in
realtà due, come chiarisce Quaest. pol. IV: a) se tutto (mezzi di produzione e
prodotti) fosse in comune, “ognuno pretenderebbe di ricevere la parte miglio-
re e più grande di frutti in cambio della più piccola parte di fatica. Di qui liti e
inganni in luogo dell’amicizia”; b) la seconda è una minaccia ben più grave al
sistema di valori (il collante sociale): “Una volta stabilita la comunità [dei beni]
sparisce la liberalità, l’ospitalità e la carità verso i poveri: chi infatti non possie-
de nulla di suo, non può fare queste cose né mostrar gratitudine” (p. 104, cit.
‘in extenso’ a n. 21.3 [f.p.]). E ciò era quanto appunto Aristotele (Pol. II, 3-4)
contestava alla Repubblica platonica: “dove donne e figli sono comuni ci sarà
meno amicizia”, quindi meno concordia e unità nello stato, perché “l’amicizia
si diluirà necessariamente proprio per l’effetto di una comunanza di tal sor-
ta… Due sono infatti le cose che portano gli uomini a preoccuparsi e ad ama-
re: ciò che è proprio e ciò che è caro: ora né l’uno né l’altro possono trovarsi
nei cittadini d’uno stato così governato”. Il sistema comunistico platonico ren-
de impossibile la liberalità (essendo tutto di tutti) e la continenza (essendo tut-
te di tutti), minando la base morale della società (1263b 15). C. risponde all’o-
biezione, additando il modello di vita conventuale ben regolata, dove non esi-
stono incuria e negligenza. La contestazione di Aristotele non si limita però so-
lo a questo livello ‘etico’; vi è un altro, e ben più grave, aspetto ‘eugenetico’,
che in parte e implicitamente è evocato dalla risposta del Genovese (per il ri-
schio d’incesto v. n. 32 [glossa] § 2, punto 3).
24 (glossa): De accusationibus
1.
Partiamo dalle formulazioni più tarde, quindi più prossime a Civitas, perché
contengono i fondamenti dell’etica campan.: Comment.: “Vis è la prima espres-
sione del potestativo che serve a maneggiare, acquistare o respingere gli ogget-
ti esterni. Da vis deriva virtù, cioè il principio dell’azione perfetta… Si ritrova
155
Al quale Oecon. si richiama: “Patet etiam sic institui civitas in communitate, ut sit quasi fa-
milia una, quemadmodum Socrates docet, et S. Clemens, et nostra Civitas solis” (I I, p. 189).
COMMENTO AL TESTO 279
una virtù naturale nei bruti e nelle piante, una virtù razionale negli uomini e
una virtù infusa nel cristiano… Non è data virtù morale che non sia anche una
massima [= decretum] della sapienza e non derivi da un’inclinazione della vo-
lontà e da un ordine della potenza… La virtù quindi è regola delle passioni,
delle conoscenze e degli affetti, che ci spinge a cercare il bene e a fuggire il ma-
le, in base a un responso della capacità conoscitiva, ad una propensione della
volontà, ad un ordine della potenza” (p. 761); Physiol. I, 4: “Puritas Primalita-
tum in mente, in spiritu et corpore, quae facit bonum, idest servat esse homi-
nis, dici videtur virtus”, cioè “virtù è sapienza, potenza et volontà buona” (Epi-
logo, p. 518g); Quaest. Eth. III: “Virtutem sua prima significatione vim esse natu-
ralem cuiuscunque rei, ad sui esse tuitionem, invenimus, ut virtus lapidis est
durities, qua se a malis corrumpentibus defendit… Quapropter fortitudo est
virtus prima: et proprie secundum vocabulum… Deinde virtus dicta est non il-
la, quae servat subiectum suum, sed quae ad alterius utilitatem proficit… dein-
de dicta est virtus, quaecunque facultas hominis, unde actus bonos, nobis et
aliis elicimus” (p. 33), di cui appunto si occupa l’etica. Ma in effetti il volere
(cioè amore) non è in sè vero bene, “ma mezzo ad acquistar la vita”; e neppure
il sapere, “perché ogni scienza s’impara per acquistare la conservatione… Né il
primo bene è l’operatione [= potere: “È l’operare effetto della potenza sponta-
neamente agente” (p. 516b)], perché questa è mezzo per acquistare il bene”.
Dunque tutte e tre le primalità convergono in un unico fuoco e fine: l’essere
(ovvero Dio in essenza, come posto in 126.2), “perché la conservatione è fine
della sapienza, della voluptà… et dell’operatione, et ogni ente la desidera per
esser sempre et immortalarsi in vita eterna… Ne seguita ch’essa sia il sommo
bene di tutti gli enti amabilissimo, et che Dio, che donò l’essere et la conserva-
tione, sia il bene vero amabilissimo sopra noi medesimi” (p. 514-5). Insomma
la virtù non è altro che “partecipazione o perfezione della potenza, della sa-
pienza e dell’amore, la quale regola le affezioni e operazioni dell’uomo in vista
del bene, che è la conservazione dell’ente” (Theol. I [II, p. 111]).
La legge naturale fondamentale, l’autoconservazione, impone a ogni indivi-
duo di ‘fuggire il male e cercare il bene’, cui, volendo, può e specialmente sa
provvedere: poiché infatti tutte le cose sono impastate di bene e di male, la co-
noscenza di quel che è il vero bene è il presupposto anzitutto per volere e po-
ter far bene, e poi è la base (metafisica) del sistema di vizi e Virtù specifiche, in
cui si diffrange e attraverso cui si mira ad esso. Dunque “la conservazione in ge-
nerale è funzione delle primalità, ma siccome sono nel mondo cose diverse e
operazioni diverse… la virtù si plurifica… e ciascuna di esse deriva in maniera
prevalente da questa o quella primalità” (ad es. la fortezza dalla potenza, la giu-
stizia dalla sapienza, la misericordia dall’amore: Theol. I [II, p. 135]). L’altro
versante su cui poggia il sistema etico è quello fisiologico, deterministico e in-
natista.
Perciò, in sintesi, le virtù sono una mescolanza di qualità naturali innate, “di
scienza et arbitrio”: “che le virtù sian naturali quinci si vede, che il troppo cal-
do è iracondo, il freddo molle, il mediocre mansueto… Dunque non l’uso fa le
virtù et i vitij, ma son casi naturali – come la gravezza alla pietra, che non ha
modo di esser leggiera”. Il libero arbitrio, per C., è salvo grazie alla possibilità
280 LA CITTÀ DEL SOLE
“di volere e disvolere. Quinci è che gli impudichi per natura et gli avari per na-
tura ponno operare pudicamente e liberalmente, perché seguitano il decreto
della sapienza propria che dà legge alle virtù, o la sapienza della legge divina
predicata da Religiosi”. Il guardiano degli spiriti è la mente, retta dal bene na-
turale, ovvero l’anima, “commandata dalla Religione soprannaturale” (Epilogo,
p. 516-7bc). Nel mondo, scaturito dalla lotta di principi fisici contrari, non so-
lo il bene è spesso inseparabile dal male, ma è sempre relativo, in base al ben
noto principio del ‘mors tua, vita mea’ (124.11-20), per cui Dio affidò alla men-
te il compito di ‘corrigere’ lo spirito con il sussidio “delle virtuti animali obbe-
dienti” a lei, persuadendole che lei agisce in vista di un bene universale e po-
tenzialmente assoluto: “virtù è quel decreto dell’anima, che giudica doversi sa-
pere et imparare quanto si può per conservatione dell’essere presente et futu-
ro” (p. 510). E qui s’innesta il ‘potenziale’ divino che trasforma, si potrebbe di-
re con lieve forzatura,156 la mente in anima: tu anima, “immagine” di Dio, “por-
ti le potenze da ricevere la gratia, che ti fa operare non solo bene ma con me-
rito eterno” (p. 506); perciò la “mente” guida il retto agire ‘naturalmente’;
l’“anima”, ovvero una mente le cui potenze sono state attualizzate dalla Rivela-
zione, agisce bene ‘soprannaturalmente’.
Tale concezione innatista delle virtù comporta almeno due conseguenze prati-
che, adombrate in Civitas: a) le pene per i viziosi ‘sono vere medicine’ (v. n.
104.14-5), cioè castigare è, alla lettera, curare: ad es., la Sapienza riflette ed esige
“lo spirito puro”, cioè “sottile”, “atto a specolare”, invece “l’impuro” rende “sme-
morato et stolido”; perciò chi ha uno spirito naturalmente versato (cioè un flus-
so di calore privo di vapori o altre fuligginose impurità), non fa fatica ad esser sa-
piente; altrimenti occorrono “molti essercitij” che “purificano lo spirito et lo ren-
dono mobile” (p. 517);157 b) ognuno nasce con una particolare inclinazione de-
terminatasi al concepimento, sia per gli influssi astrologici (42.26) e sia per ra-
gioni che oggi diremmo genetiche;158 tale inclinazione condiziona non solo la vi-
ta attiva,159 ma anche la sfera propriamente etica (ad es. l’avarizia è “segnale di
spirito vile, sconfidente, piccolo, fuliginoso” [p. 520]); ed è appunto questa incli-
nazione che i magistrati solari cercano di riconoscere nei fanciulli (24.31).160
156
Per C., infatti, ‘mens’ e ‘anima’ sono quasi sinonimi: v. n. 64.13, n. 142.36-144.3.
157
Non saprei dire, però, se la privazione della mensa o di altri ‘onori’ sia da considerare una
‘medicina’ o una dissimmetria fra le pene comminate a 26.1-3 e quelle inflitte a 104.14-7.
158
“Inclinationem et constellationem” di 74.30 è quasi una dittologia, come chiarisce Mon.
Sp.1: “a far l’uomo virtuoso ci vuol anco l’inclinazion naturale, che dalla complessione de ge-
nitori, dalla salubrità dell’aere e dall’influenze dei pianeti deriva”(p. 32).
159
L’immaginazione “quando è in spirito sottile fa habilità nelle mathematiche et metafisi-
che scienze et nelle morali, che trattano le cose non esposte al senso… Et quando è in spiri-
to più corpolento et copioso fa attitudine alle mechaniche arti di orologij, di fabriche, di
stampe etc.” (p. 484-5).
160
Nella Città, comunque, proprio per la rigida politica eugenetica, vitale per lo stato (46.5-
10 e 50.15-20), queste diversità fisiche, caratteriali e attitudinali tendono ad azzerarsi, risol-
vendo così qualsiasi problema, compreso quello del sorteggio delle generatrici (50.26).
COMMENTO AL TESTO 281
161
Ottaviano considera questo “il primo e originale tentativo di una fenomenologia della vi-
ta morale da un punto di vista… strettamente fisiologico”, anche se il libero arbitrio “è irre-
parabilmente compromesso”, e l’innesto con la religione positiva è “voluto, ma non giustifi-
cato” (pp. 149 e 154), cioè è un’appendice posticcia, voluta o dovuta. La disuguaglianza na-
turale degli uomini, nonostante il messaggio evangelico, è tratto costante nel ‘500, appog-
giandosi alla teoria ‘scientifica’ degli spiriti: “gli huomini (parte atti a comandare et parte ad
esser comandati) secondo che la loro natura e l’ingegno dettava loro, et soprastando gli spi-
ritosi a gli obtusi, cominciarono a dominare” (Sansovino, Dedica a Roberto Strozzi).
162
La donna è un maschio mancato, cioè difettoso, e non solo fisiologicamente: la vera bel-
lezza non sarà mai di pertinenza femminile, perché le “manca il segno del valore et di senno”
(Epilogo, p. 432).
282 LA CITTÀ DEL SOLE
133), cui l’anima può adattarsi o contrastare (non è l’anima che lo determina;
l’anima sopraggiunge a organismo già formato “pugnatura hic [= nel corpo],
alibi vero regnatura”). La disuguaglianza originaria naturale viene inoltre fun-
zionalizzata alla divisione del lavoro sociale, secondo la quadruplice gerarchia
su indicata (Moralis XV, p. 60; v. Afor., 28 e 29 cit. in n. 48.11-3).
2.
A difesa della sua Città, C. adduce, tra l’altro, l’aver “evitato i due estremi, pri-
vilegiando il loro punto medio, nel quale risiede la virtù, e perciò non è possi-
bile immaginare una repubblica più felice e più semplice” (Quaest. pol. IV I, p.
111). Il sistema etico aristotelico (la ‘medietas’ come virtù fra due opposti vizi)
resterà quello egemone per tutto il Medio Evo, come ad es. può dimostrare la
struttura di SM I III, che distingue le Virtù, teologali e cardinali, “et vitiis oppo-
sitis”. Ma già Telesio, IX, 35 (III, p. 479) accusava Aristotele di non aver ‘posto
correttamente né lo scopo né il numero delle virtù’, perché è dallo scopo che
si deduce il loro numero (concetto che C. riprende nelle Quaest. Eth.), “per cui
ne omette parecchie, come la Solerzia, la Beneficenza, la Gratitudine; riduce
ad una sola virtù la Sobrietà e la Castità (le quali non solo sono diverse per na-
tura e non si uniscono sempre, ma anche si trovano separate in molti); e sepa-
ra e divide la Sapienza e la Prudenza, le quali… sono certamente un’unica
virtù”. Invece “il numero delle virtù deve essere ottenuto in base al numero de-
gli affetti e delle operazioni… cioè la facoltà d’intendere deve essere divisa in
tante virtù e chiamata in tanti modi, quanti sono gli affetti che devono essere
moderati e quante sono le operazioni che devono essere guidate”.
Sulle orme del suo maestro, C. riprende non solo la polemica antiaristoteli-
ca,163 ma lo stesso sistema etico, con le sue articolazioni e definizioni (IX, 5-22),
stilando un elenco di 32 vizi che sono l’eccesso e il difetto delle 16 ‘virtù natu-
rali’,164 stavolta in linea con l’insegnamento di Aristotele, che “in secundo Eth.
ait virtutes esse mediocritates passionum substantialiter” (Quaest. Eth. III II, p.
56). Il criterio tassonomico di C. respinge sia quello stoico che peripatetico;
non si fonda, cioè, sugli oggetti (perché lo stesso oggetto può esser di perti-
nenza di più discipline) né sui soggetti, “sed a primalitatum distinctis viis ten-
dendi in obiecta”: le cose bianche sono di genere diverso (il Sole, l’uovo), ma
in quanto riferite alla vista pertengono tutte al visibile, e così le virtù si ordina-
no “aliae ex volitivo, aliae ex cognoscitivo, aliae ex potestativo”: ad es. per la
conservazione nostra e da tramandare ai figli o alla fama, ci occorre vivere in
un consorzio di uomini: “erga quos [= gli uomini] ex tribus primalitatibus trina
virtus oritur, seu Benevolentia, Beneloquentia et Beneficentia”. Dunque se og-
getto della virtù è il bene, sarà bene tutto ciò che conserva l’‘homo socialis’,
163
Epilogo, pp. 526a e 511b; Gentilismo: “Tratta la morale senza metodo… ignora il numero
delle virtù, come appare… dal lib. VIII di Telesio” (p. 42).
164
Epilogo, p. 519-68, schematizzato da Ottaviano, p. 154; Telesio, IX, 5 (III, p. 359): “Dato
che la virtù stabilisce azioni moderate, ed al contrario il vizio stabilisce azioni o che eccedono
o che difettano, alle singole virtù o a parecchie di queste pare opporsi un duplice vizio”.
COMMENTO AL TESTO 283
male ciò che lo distrugge. Quindi le virtù si dividono anzitutto in base alla loro
fonte: derivano dal “Potestativo” quelle relative alle passioni, come la Fortezza,
che è la ‘regola’ (= medietas) tra timore e audacia; “aliae dicuntur ab Intellec-
tivo… ut prudentia est regula scientiae et ignorantiae”; “aliae sunt volitivi regu-
lae”, relative agli affetti, come ad es. “erga parentes et patriam Charitas”. Poi si
ordinano “circa modos conservandi, qui est finis”: l’uomo si conserva in Dio (le
tre virtù teologali sussunte nella “Sanctitas”), in sé stesso (“Fortitudo, Exerci-
tium, Solertia, Probitas, Liberalitas”), nei figli (“Castitas”), nello stato (“Iusti-
tia”) e negli amici, cioè la fama (es. “Magnanimitas”).165 Poi si distinguono in
base agli oggetti: ad es. la moderazione rispetto all’appetito sessuale è la Ca-
stità, rispetto alla gola è la Sobrietà. E infine “ex Principatu”: rispetto a se stes-
si, infatti, tutte le altre virtù sono subordinate a Fortezza, Prudenza e Santità; ri-
spetto agli altri, soggiacciono a Benevolenza, Beneloquenza e Beneficenza.
Tale sistema morale, che passerà strutturalmente immutato nella Physiol., costi-
tuisce anche l’ossatura predominante dei valori e disvalori Solari.166 Sparita la
proprietà privata, infatti, quasi l’intero esercizio della giustizia si risolve in cor-
rezione delle sbandate dalla retta, mediana via delle virtù, come rispecchiato
dalle magistrature e dalle tavole della legge (102.33 [glossa]: ‘Leges. Iudi-
cium’). Ma esistono anche sporadici accenni a singoli vizi particolarmente de-
testabili, come la bugia (caricata di un forte rilievo sia nell’elenco a 24.39, sia a
sè stante a 110.27, dove, fra l’altro, trae implicazioni notevoli sulla funzione ci-
vile di una letteratura ‘veristica’, non menzognera, adulatrice, timorosa) o la
superbia (cui è dedicato un capoverso a 54.21).
Del sistema di Epilogo, T.24.26-32 (e così R. e L.) menziona 10 Virtù e 3 vizi lo-
ro corrispondenti; Civitas 12 Virtù e 8 vizi (5 dei quali simmetrici alle Virtù
elencate). Vizi e Virtù vengono nuovamente citati a proposito dei tribunali po-
sti sotto le colonne, anche qui con diversa distribuzione fra Città e Civitas, co-
me appresso schematizzato:167
165
Quaest. Eth. III III, p. 58-9; Moralis I III, p. 12; Titoli, p. 291; Theol. I (II, p. 135-7) e X; Rhet. V
IV (p. 781-3) con qualche variante; Compendio LXII e Medicina dettagliano così: le affezioni
del volitivo sono amore e odio (in presenza dell’oggetto: voluttà/dolore; in assenza: deside-
rio/abominio); i mezzi per raggiungere il sommo bene (in base al loro uso moderato) sono:
‘Mens [= Anima], corpus, uxor et filii, res familiaris, Respublica, honor, venus, cibus, amici,
proximi’: “Sanctitas est erga finem [→Mens], sanitas et medela [→corpus]; circa se, natos et
uxores, caritas; erga parentes, pietas; erga Rempublicam, iustitia; erga rem familiarem, libe-
ralitas; erga acquisitionem eius, solertia; erga amicos aliosque homines, benevolentia et be-
neficentia, gratitudo, aequalitas, mansuetudo; erga ipsorum bona, benignitas et aemulatio;
in conversatione hilaritas, veracitas; erga alimentum et venerem, sobrietas et castitas; erga
honores, magnanimitas” (p. 5).
166
Tranne in Comment., dove, costretto dall’Elegia di Urbano VIII, che parla di “septem virtu-
tes”, pone proprio il problema: “cur septem ponit virtutes tantum” (p. 765-7), quando Ari-
stotele ne pone 12, Telesio 20 e Tommaso più di 100? E si aggrappa al tetracordo delle 4 virtù
cardinali naturali, cui successivamente seguì la cetra delle 4+3 teologali.
167
La lista cerca di rispecchiare l’ordine di apparizione nei testi; le Virtù fra <> sono il corri-
284 LA CITTÀ DEL SOLE
T.24.26-31 24.25-9
Liberalità Magnanimitas
Magnanimità Fortitudo
Castità Castitas
Fortezza Liberalitas
Giustizie Iustitiae
Solerzia Solertia
Verità bugia Veritas mendacium
Beneficenza Beneficentia
Gratitudine ingratitudine Gratitudo
Misericordia
<Benignità> malignità <Benignitas> malignitas
Hilaritas scurrilitas/tristitia
Exercitium pigritia
Sobrietas
<Mansuetudo> ira
<Benedicentia> detrectatio
T.104.10-1 104.10-4
Magnanimitas abiectio/superbia
<Esercizio> pigrizia <Exercitium> pigritia
Beneficentia maleficentia
<Gratitudine> ingratitudine <Gratitudo> ingratitudo
<Sapienza> ignoranza
È agevole, anche visivamente, operare dei confronti quantitativi fra gli elenchi
delle due redazioni,168 stilati in base all’ordine sequenziale in cui appaiono le
Virtù nei rispettivi testi. Data la casualità di questi elenchi (basta appunto os-
servarne la metamorfosi passando da T. a Civitas), per illustrarne le singole oc-
correnze, è opportuno rifarsi al sistema di Epilogo, che tuttavia non è meccani-
camente sovrapponibile, per due ordini di ragioni generali (per i dettagli si
rinvia alle note al testo specifiche):
• tassonomica: Epilogo colloca le Virtù in una scala che va dalla meno (“Soler-
tia”) alla più importante (‘Magnanimità’, non a caso chiamata anche ‘Subli-
mità’), da quelle individuali alle sociali;169
• qualitativa: mentre in Epilogo ognuna delle 16 Virtù è accompagnata dai due
spettivo sottinteso del vizio; in grassetto le non coincidenze; con / si separa il vizio per ecces-
so e quello per difetto della stessa Virtù, la quale consiste sempre nella “mediocrità”, l’‘aurea
medietas’.
168
Il corredo completo di Epilogo, come si diceva, è di 16 Virtù + 32 vizi complementari; in
Città se ne menzionano rispettivamente 10 e 6, in Civitas 12 e 12.
169
“Nell’Epilogo le diverse virtù vengono via via elencate secondo il filo dei vari livelli e ambi-
ti dell’autoconservazione – in se stessi, nei figli, nella società –, e anche questa enumerazione
segue da vicino quella di Telesio” (Ernst 2002, p. 48).
COMMENTO AL TESTO 285
vizi simmetricamente “contrarij”, uno per eccesso e uno per difetto, nel rap-
porto Virtù/vizi di CS si verificano quattro casi:
a) c’è o la sola Virtù (Castità) o un solo vizio (ira);
b) c’è una Virtù seguita, generalmente da un corrispondente vizio (Veri-
tas/mendacium), raramente da entrambi (Hilaritas/scurrilitas + tristitia);
c) per un vizio (malignità) CS fornisce una definizione che non solo non
corrisponde a quella fornita da Epilogo, ma neppure, almeno univoca-
mente, a nessuna delle categorie ivi contemplate; bisogna ricorrere al si-
stema etico telesiano (di cui Epilogo è quasi una fotocopia), per avere chia-
rimenti: Telesio, infatti, chiama “malignitas” quel vizio per cui uno “si rat-
trista dei beni degli altri, perché non si sente dotato di essi né spera di po-
terlo essere; e perciò in quei beni vede i propri mali” (IX, 20 [III, p.
407]); ‘non dar soddisfazione agli altri’ (ovvero non gioire con e per loro
[24.36-7] - come fa invece la simmetrica virtù della “Benignitas”, la com-
passione) è appunto la definizione telesiana, che, per trascinamento iner-
ziale, resterà immutata, pur essendo il sistema etico presente nella Phil.
realis ormai sensibilmente diverso da quello del 1602;
d) in alcuni casi Epilogo fornisce dei sinonimi (“sublimità o magnanimità o
generosità” [p. 565]); ma in CS vi sono due nomi di vizi, uno in Città e in
Civitas (“pigrizia”/ “pigritia”), e l’altro solo in Civitas (“detrectatio”), non
contemplati in Epilogo: se nel primo caso è Physiol. a indicarci il sinonimo
(= ozio, e non inerzia) e di conseguenza la Virtù connessa (= Esercizio, e
non Solerzia), nel secondo caso bisogna ricorrere a Moralis IX, 3, in cui si
tratta della “Benedicentia” (‘dar il buon esempio, diffondere il sapere e
cose proficue’) e dell’opposta “maledicentia”, che tra le sue ulteriori sud-
divisioni contempla anche la ‘detrectatio’: “cum famam aliorum in secre-
to diminuimus” (p. 36), ovvero la denigrazione occulta.170
Queste sono dunque le probabili “definizioni” etiche (104.3-4) incise dai Sola-
ri sulle tavole del tempio.
La Sapienza, regina delle virtù umane,171 è, come si è detto, la “ragione ordi-
natrice” (Epilogo, p. 505),172 che discrimina il bene da seguire dal male da fug-
gire, e, in quanto primalità, è la base metafisica (126.17sg) su cui poggia l’etica;
pertanto è prima e fuori da ogni schema; un suo vizio è l’ignoranza (Telesio:
“insipientia” [IX, 7]), “quella determinatione et impotenza dello spirito a co-
noscer le cose” (Epilogo, p. 511).
170
Così anche Theol. X (III, p. 151); SM I LI, III e III I, IV ‘De detractione’: “Quantum ad di-
gnitatem personae laeditur aliquis occulte… per detractiones, quibus aliquis aufert famam
suam”.
171
“S. Bern. in Cant. Sapientiae subdit ‘omnem virtutem’… et similiter Telesius [IX, 5 (III, p.
353)] docuit omnem virtutem esse sapientiam” (Quaest. Eth. III II, p. 56).
172
“È quella facoltà intelligente la quale stabilisce di percepire a fondo le nature e le facoltà
di tutte le cose… e così intende quali cose e quali forze siano buone e comode all’uso pre-
sente”, e viceversa (Telesio, IX, 6 [III, p. 361]).
286 LA CITTÀ DEL SOLE
Solerzia: “facoltà nativa nel trattare le cose”, grazie alla quale l’uomo, per la sua
capacità di imitare l’arte divina insita nella natura, inventa “tutte l’arti mecha-
niche: agricoltura, pastorale, statuaria, mercatura” (Epilogo, p. 518; Rhet. V IV, p.
781): cioè è la virtù indispensabile a procurarsi il necessario per vivere (Quaest.
Eth. III II, p. 58). La Liberalità, che è insieme parsimonia e magnificenza (ib.),
“maneggia i beni che la solertia acquista” e li spende a vantaggio proprio e dei
propri amici (Epilogo, p. 520). Esser moderati nell’alimentazione (= Sobrietà
[p. 521]), nella sessualità riproduttiva (= Castità [p. 523]), e non trascurare l’E-
sercizio fisico (“de qua virtute non dixit Telesius neque Arist., sed Chrys. illam
magnifecit” [Quaest. Eth. III II, p. 58]), impigrendosi nell’ozio, “il qual genera
tutti gli appetiti superflui e toglie i naturali” (Epilogo, p. 526), significa sapersi
autoconservare bene. Nell’assicurarci i predetti beni, possiamo esser molto tra-
vagliati dalle cose e ancor più dagli uomini: la Fortezza, “distinta dalla forza del
corpo”, è “virtù del senno”, che ci dice “quanto e come et a chi dobbiamo resi-
stere et vendicarci” (p. 545).
Le precedenti virtù servono all’uomo in quanto individuo; in quanto animale
sociale, gli necessitano le “virtù politiche”, cioè la Giustizia, che “insegna gli
huomini a vivere insieme et rendersi l’officij l’un l’altro, et che ogn’uno faccia
quello a che è nato et goda quei beni che ei s’acquista con virtù et non con vi-
tio. Et quando ciò non fanno li punisce con pena” (Epilogo, p. 549).173 Se la
Giustizia è l’anima del corpo sociale, la Verità ne è lo spirito, per cui il vizio op-
posto, la bugia, rende il bugiardo “infelicissimo animale, perché annichila se
stesso facendo et dicendo quello che non gli è nell’animo, et riducendo l’esse-
re al non essere” (p. 554).174
La terza virtù indispensabile alla vita dello stato è la Beneficenza, che “fa bene
a chi merita, et con danno di sé medesimo, quando il ben di colui a chi si fa
eccede il nostro danno” e che “apprezza più il tutto che la parte, più il comu-
ne che il particolare… non per interesse, ma per giubilo che ha della sua
bontà”; la maleficenza è far “male a gli altri et massime a buoni” o anche solo
chi “potendo far bene altrui no ‘l fa” (Epilogo, p. 556). “Sorella” della Benefi-
cenza è la Gratitudine, che “rende il benefitio quando può”, mentre ingrato è
“chi non rende quando può a chi n’ha bisogno et quando l’ha” (p. 558).
L’“Allegrezza”, indispensabile alla vita, “perché non si vive bene senza spasso”,
è “segnale di spirito lucido e puro, non disperante per i mali”, mentre i suoi
estremi, la tristezza e la “buffoneria”, adombrano uno spirito difettoso, “impu-
ro, fuliginoso” (p. 560). Altrettanto impuro è lo spirito dell’iracondo (il vizio
per eccesso della Mansuetudine), ma “desideroso di purità et nobiltà” (p.
173
La Giustizia è dotata di “due atti o modalità” (Theol. XI [III, p. 31]): distributiva (= ugua-
glianza per meriti delle persone) e commutativa (= equivalenza delle cose); v. n. 24.26, n.
40.33.
174
La spiegazione di quest’ultima frase sta nella definizione telesiana di “mendacium”: “la fa-
coltà intelligente la quale considera i non enti come enti, ed al contrario gli enti come non
enti oppure diversi da quelli che sono” (IX, 13 [III, p. 389]).
COMMENTO AL TESTO 287
561). La malignità, antitesi della Benignità, che gode del bene degli altri sen-
za sperare nulla in cambio (chiamata Misericordia se ci “si duole dei mali de
gli altri con animo di soccorrerli”), “duolsi del bene d’altri come testimonio
del suo poco essere”: chi vale poco si dispiace molto degli altrui successi o for-
tune (p. 562). Lo spirito Magnanimo, intessuto della stessa sostanza del Cielo,
è etereo: questa “virtù eroica… [che] ama la propria eccellenza solamente”,
“ad honores veros nos afficiens” (Quaest. Eth. III II, p. 58), che regola il divino
desiderio di eccellenza dell’uomo e che, a differenza della Fortezza, “sua si-
rocchia minore… non si vendica dell’ingiurie de malvaggi… perché giudica i
suoi malfattori indegni di contender seco… Né teme morir se non per pro-
pria colpa” (Epilogo, p. 565 – dove sembra trasparire un tratto autobiografico);
i vizi opposti sono l’abiezione, che “spregia gli honori perché non conosce la
loro bellezza”, e la superbia, “la qual ama quegli honori di cui non è per virtù
degna” (p. 564).175
Infine vi è la per nulla trascurabile componente astrologica, che qui appena ac-
cenniamo: “Quicquid coeperis animo, vide cui planetarum correspondet. Nam
Saturnus habet firmitatem, et perseverantiam… Juppiter… liberalitatem, magnifi-
centiam… Mars fortitudinem, victoriam, iracundiam… Sol omnium virtutum api-
cem, quae in magnanimitate continentur, habet… Ergo quando aliquid coeperis
alicui sideri conveniens in his, quae spectant ad animum, pone sidus illud in
ascendente…” (Astrol., p. 216): ogni pianeta, dunque, sovrintende a certi vizi e
virtù, in partic. al Sole fa capo la magnanimità; perciò quando bisogna mostrare o
ricorrere a una di queste virtù, bisogna porre il pianeta suo signore in Ascenden-
te (v. n. 44.3). Il rapporto fra fisiologia e astrologia nella plasmazione del morale
dell’uomo è appena abbozzato: si può dedurre che esiste una specie di gerarchia,
per cui alcuni vizi, come ignoranza e pigrizia risentono più spiccatamente degli
influssi astrali, che combinati però con “spiritibus crassis, stupidis, fuliginosis in
male affirmato cerebro” (Astrol. VII, p. 15) danno luogo al temperamento preva-
lente. Per alcuni di questi vizi temperamentali, fornisce anche dei consigli su co-
me correggersi (ad es. agli iracondi, frequentare persone mansuete).
175
Nell’edizione parigina dell’Ethica “le virtù che vengono ad aggiungersi tendono a sottoli-
neare la convergenza e l’armonia fra religione e natura. Non a caso l’elenco si apre con la
sanctitas, che, ponendo Dio come fine di tutte le virtù e orizzonte entro cui esse si collocano,
‘sancit et sanctificat’, vale a dire purifica, tutti i fini intermedi dirigendoli a lui, da cui deriva
ogni cosa e a cui ogni cosa ritorna” (Ernst 2002, p. 50).
288 LA CITTÀ DEL SOLE
176
“Jus civile [o ‘jus gentium’] est quod quisque populus, vel civitas sibi proprium, humana
divinaque causa constituit” (Isidoro, V V).
177
Ancora utile il cap. ‘La terminologia giurispubblicistica in C.’ di R. De Mattei (La politica
di C., Roma, 1927).
COMMENTO AL TESTO 289
24.27: Beneficentia,
“I Solari hanno sostituito la liberalità con la beneficenza, che è una virtù più
grande” (Quaest. pol. IV II, ‘ad tertium’), e che è in sistema con ‘dominio’ e ‘di-
ritto’: “Il diritto infatti esiste tra gli uguali in ciò in cui sono eguali; il dominio
è proprio del superiore verso gli inferiori in ciò in cui sono inferiori… Il bene-
ficio si ha, invece, tra colui che possiede e colui che è bisognoso: quindi, il be-
neficio è proprio della carità, il diritto della ragione, il dominio del potere” (§2
del cap. II della Politica, intitolato appunto ‘De dominio, de iure, et beneficio,
et regno’).
178
Esplicitata in Quaest. pol. IV II, p. 137; III, pp. 151 e 165-7 (ed. Ernst).
290 LA CITTÀ DEL SOLE
sempre il doppio registro: una morale per il popolo, e una ‘ad usum Delphi-
ni’.179
179
A tacere del celeberrimo Accetto, Pissavino (cui si rinvia per la bibl. sul ‘mendacio’ - oltre
al su cit. art. della Fintoni, che mostra come a C. sia ben nota la letteratura nicodemistica) a
p. 320 cita un brano tratto da Botero, Ragion (‘Della neutralità’), ripreso anche da Zuccolo:
“Maometto II re de’ Turchi diceva, che il mantener la parola era cosa da mercatante, non da
prencipe, perché il mercatante vive del credito e della fede, il prencipe si vale della forza e
dell’arme” (p. 446). More fa della sincerità una bandiera ideologico-letteraria: “curerò con
ogni impegno che nel libro non appaia falsità di sorta, così di fronte ad eventuali dubbi pre-
ferirò dire cosa non vera piuttosto che una menzogna, perché mi è più caro essere onesto
che sapiente” (lettera a Gilles premessa a Utopia).
180
Circa la medicalizzazione dell’abbigliamento, cfr Medicina IV IV ‘De Vestibus’, in cui C.
esorta ad una ‘naturalità’ del vestire, in modo da imitare i rivestimenti naturali: “Vestibus na-
turam imitabere, quae arbores ac fructus et ova interius membrana tenui, in medio medulla-
ta, exterius duro vestit cortice. Unde camisiam, diploidem et sagum [= mantello e saio] com-
menti sumus”.
292 LA CITTÀ DEL SOLE
ria a dire che le vesti son un titulo muto, che parla più che il titolo loquace, e
se li cardinali non fusser distinti di vestimento da vescovi e dottori, sariano in
minore stima, quantunque avessero titolo d’altissimo e santissimo: e però dice
Livio e Plutarco, li regi e senatori si distinsero d’abiti e colori dalli popolani per
esser venerabili, e li lor precetti meglio osservati, e san Bernardo loda la pur-
pura nel papato, benché sotto ci desideri il cilicio, scrivendo ad Eugenio [III]
papa” (Titoli, p. 298; per i colori v. n. 38.5, n. 54.15-8 e n. 54.19-20).
Circa l’uniformità del vestire, per foggia e colore, cfr More, 99 e 255: nel tem-
pio vestono tutti di bianco, colore gradito agli dèi, come già Pitagora181 e Pla-
tone (Leg. 956a) tradotto da Cicerone (De leg. II, 45), insegnavano; Roseo spie-
ga la necessità dell’‘uniforme’: “tutti si debbano vestire d’un panno e in un me-
desimo modo; perché la varietà del vestire genera pazzia e scandalo ne i popo-
li” (pp. 44 e 54); Doni propone foggia uguale, ma colori che mutano, col cre-
scere dell’età, dal bianco al nero (p. 72). Inoltre, insieme agli evidenti modelli
monastici (i domenicani vestono di bianco) e le suggestioni moreane a favore
della praticità, hanno pesato anche leggi suntuarie e biasimi ecclesiastici, a par-
tire dai primi padri della Chiesa: se lo scopo delle vesti è quello di proteggersi
dal clima, “vide ne non alia quidem viris, alia vero foeminis vestis tribuenda sit:
tegi enim utrisque commune est, quemadmodum comedere et bibere. Cum
usus itaque sit communis, constructionem similem comprobamus” (Clemente
Alessandrino, Paedagogus II, 86) ; e il loro colore ideale è il bianco (“Atque eos
quidem, qui sunt candidi, et non intus adulterini, candidis et minime curiosis
ac operosis vestibus uti convenientissimum”); che è proprio quanto sostiene
C.: vesti sobrie, pratiche, in linea con la generale riforma dei costumi, sia mo-
rali che materiali, pena la vita per quelle donne che inseguissero la moda delle
gonne lunghe per nascondere le scarpe alte (52.10-2); infatti anche in una
città ideale, ma dalla struttura sociale reale e dove quindi i colori e le stoffe va-
riano in funzione del censo (dal rosato per i nobili al ‘paonazzo’ dei mercanti,
dal verde delle arti minori all’azzurro e bianco per gli altri), vi è una rigida po-
litica suntuaria (Filarete, pp. 509 e 619).
181
In: Diogene, VIII, 19, 33; Giamblico, Vita [Theodoreto], XXI, pp. 100 e 149.
COMMENTO AL TESTO 293
182
Così Amerio commenta un passo di Disc. univ. IX, in cui si dice che “la matematica in com-
mune è necessaria” (p. 1133).
183
Come ricorda lo stesso Ospitaliero, il mondo è stato creato “in numero, pondere et men-
sura” (148.8), pur senza scadere in cabale superstiziose (148.23-31).
COMMENTO AL TESTO 295
razione scientifica, procedevano allo studio delle opere della natura e dell’ori-
gine del mondo”. E la scelta della soglia dei sette anni deriva appunto dal fatto
che a quell’età “ratio, qua rationales dicimur, ex praenotionibus [= le cognizio-
ni innate] primo septenario compleri dicitur” ([Pseudo-]Galeno, De hist. phil.
XIX XXIV, p. 304).
28.20: Concilio
Salvo i quattro Principi, la cui carica è vitalizia (30.8-9, 96.22-9), la permanenza
in tutte le altre magistrature è soggetta alla volontà popolare. Esistono vari or-
gani e gradi assembleari nella Città: vi è un Gran Consiglio, organo plebiscita-
rio (per accedervi basta avere almeno vent’anni [68.3; 94.35: “omnes”; mentre
T.68.1 è inequivoco: “tutto il popolo di 20 anni in su, e le donne ancora”]),
184
“Pidocchi ed escrementi dello stato”: così più spregiativamente C. definisce questi “uomi-
ni falsamente chiamati nobili” in Moralis III II, p. 22, Politica IV, 15-6, Disc. univ. XIV e Quaest.
oec. III I, p. 182, dov’è ripreso quasi alla lettera.
296 LA CITTÀ DEL SOLE
185
“Una prima volta l’elezione degli ufficiali è fatta dai quattro capi supremi insieme coi mae-
stri delle arti, e i nomi prescelti sono proposti in Consiglio grande; una seconda volta invece
è fatta dal Consiglio minore, il quale ratifica i nomi proposti dal Consiglio grande” (p. 48).
186
Disc. univ. XXII (p. 1159): “nella Chiesa il Papa rappresenta Dio, di cui è luogotenente; li
cardinali son l’angioli assistenti in tre gradi di Serafini, Cherubini e Troni”; Afor., 16; Theol. X
(III, p. 31).
COMMENTO AL TESTO 297
meno eleggeva [v. 96.21-9]… Questa costituzione politica degli Ebrei è l’esem-
plare di tutte le altre, affinché servano soltanto a Dio e non ci sia alcun uomo
padrone di altri uomini e tutte le faccende siano deferite dai laici ai sacerdoti”
(Theol. XVII, p. 213-5; v. n. 10.18-9 e n. 10.19).
187
Non c’è poi da stupirsi, se questo ritratto sembra lo specchio del diavolo, almeno a senti-
re il De sortilegiis di Paolo Grillando: “conosce la virtù delle erbe, delle pietre, dei metalli; le
proprietà di ogni animale, i segni e gli influssi celesti, i veleni che uccidono e quelli che risa-
nano, ed è proprio perché sa ogni più riposto segreto della natura che i teologi lo chiamano
filosofo, teologo, architetto, matematico, dialettico, fisico, grammatico, musico e medico ec-
298 LA CITTÀ DEL SOLE
28.34: astrologicas.
Ribadito a 30.4: se non bastasse l’entusiasmo dell’Au. per questa scienza, non
solo Diodoro racconta che nell’Isola del Sole “si dà opera molta alle scienze
tutte e all’Astrologia sopra tutte l’altre” (II XIII [I, p. 121]), ma anche Niccolò
de’ Conti (v. n. 64.16) riferisce che “per tutta l’India è una setta di filosofi chia-
mati Bramini, dediti all’arte dell’astrologia, la quale studiano molto per saper
predire le cose future” (Ramusio, II, p. 791). Invece gli Utopiani sono ottimi
astronomi, ma disprezzano l’astrologia (More, 138).
loghi difettivi (e non contrari!): “contingenza, caso e fortuna (o disarmonia). Ciò infatti che
è debole e impedibile, si chiama contingente, e deriva dall’impotenza… Ciò che si trova al di
fuori dell’ordine della sapienza, si chiama casuale: se infatti viene previsto, è sapienziale e fa-
tale, perché il fato è latinamente ciò che viene espresso e ordinato nella parola… Ciò che è
fuori dell’amore si chiama fortuito: quando infatti, volendo noi una cosa, capitiamo in un’al-
tra, buona o cattiva, abbiamo fortuna o infortunio… E la fortuna deriva dal nonessere della
volontà, il caso dall’ignoranza e la contingenza dall’impotenza” (Theol. I [II, p. 195]).
189
Mon. Sp., p. 4; Senso, p. 235; Theol. I (I, p. 241); Antiven., pp. 7 e 126: “il fato è la stessa vo-
lontà di Dio, eseguita dalle cause tutte insieme, che, da noi ignorata, si dice fato e fortuna e,
conosciuta, si dice provvidenza”; Metaph. VI VI, III (II, p. 75); Mon. Messiae I, 6: “Fatum, hoc est
divinus ordo”.
300 LA CITTÀ DEL SOLE
190
P. 479; e Carena, citando Gilson: “Se vi sono delle vestigia di Dio nella natura, devono te-
stimoniare la sua trinità non meno della sua unità” (p. 1301), stabilendo così varie analogie
trinitarie fra il mondo e il suo Autore.
COMMENTO AL TESTO 301
tate, fato, fortuna aut caso’) e Agostino (CD 5, 10 contro la necessità; 5, 8, 197
sul fato = “il nesso e la successione casuale che provoca ogni avvenimento”),
perché vi leggevano un’interferenza con la Provvidenza divina da un lato e con
la libertà morale dall’altro (analogamente Pico, I, p. 447-9, che si richiama pro-
prio ad Agostino).
Fonti di strutture triadiche universalizzanti (per la Trinità v. n. 126.17-8):
• scritti ermetici: Pupilla, 4 (p. 39) sulle tre funzioni dell’anima: Volere, Ama-
re, Potere; Poimandres: tre gradi di ricerca di Dio; e principalmente nella pre-
faz. al Pimander (che C. conosceva: Yates 1981, p. 408), Ficino associa insie-
me, come i “due libri divini” di Ermete Trismegisto, il libro Sulla potestà e la
sapienza di Dio (cioè i quattordici trattati del Pimander) e il libro Sulla volontà
divina (= Asclepius – Yates 1981, p. 33);
• scritti pitagorici, “di cui sopravvivono solo frammenti” (Syntagma IV V): nei
Triagmi di Ione di Chio (dal titolo già eloquente): “Principio del mio discor-
so: tutto è tre, e nulla è più o meno di questo tre. Condizione perfetta di cia-
scun essere è una triade: intelligenza, forza e fortuna” (in: Pitagorici II, p.
11); e così Giovanni Lidio, che cita Ocello: “‘La triade per prima stabilì prin-
cipio, mezzo e fine’” (ib., II, p. 399; cfr Aristotele, De coelo A1, 268a 10; e Pla-
tone, Leg. 715 E, e nelle Defin. vi è “Amore” [412], “Sapienza” [414] e “Pos-
sanza” [416]); Ficino, II, p. 1323 (In Convivium): “Trinitatem Pythagorici
philosophi rerum omnium mensuram esse voluerunt, ob eam arbitror ratio-
nem quod Deus ternario numero res gubernat, atque res ipsae ternario nu-
mero terminantur”;
• tre absoluta (degli 8 totali) centrali e adiacenti nella tavola dell’Ars di Lullo
sono ‘Potestas’, ‘Sapientia’, ‘Voluntas’: ‘De Deo per potestatem deducto’,
‘De Deo per sapientiam deducto’, ‘De Deo per voluntatem deducto’ (pars
IX, f. 48v);
• naturalismo: mentre Telesio riserva quel trinomio solo a Dio,191 lo Stilese,
coniato il termine ‘primalità’,192 ne fa una chiave per decifrare il mondo:
dalla Monotriade “sono andato specolando in tutte le scienze verità mirabi-
li. Non c’è infatti cosa alcuna che non le renda testimonianza” (Quod rem. II
I [p. 1199]).
191
Ad es. in IV, 29 (II, p. 197): “il mondo non è stato costruito a caso, ma da Dio sapientissi-
mo, potentissimo e ottimo [=longe eo sapientissimo longeque potentissimo et longe opti-
mo]” – stessa formula usata da C. qui a 128.18-9, ma anche in Theol. I (I, p. 14).
192
Metaph. I IX, XIV; Gramm. I I, II; Theol. I (I, p. 249): “quando dunque ricerchiamo l’ente per-
fetto, intendiamo l’ente integrato da queste che gli Scolastici chiamano perfezioni e io pri-
malità, perché essenziano le cose piuttosto che perfezionarle”.
302 LA CITTÀ DEL SOLE
che han tutte nazïoni / degli enti nostri e del celeste coro; / vari riti, costumi
vite ed arti / de’ passati e presenti, degli astri e delle piante, de’ sassi e delle fie-
re; / tempi, virtuti, luoghi e forme tante; / le guerre e le cagion de gli elemen-
ti / noti chi vuol sapere, / ch’e’ nulla sappia, e non con finti accenti”; Esp.: “da
questo [madrigale] conosce che più cose assai gli restano a sapere, e che que-
ste neanche sa, perché vede tanta la sua ignoranza d’esse, per la varietà e pic-
cola penetrazione in loro, che s’accorge poi bene non veramente sapere. E
questo è ‘l sapere al quale può arrivare l’uomo perfettissimo, secondo la Meta-
fisica dell’autore”: non a caso il significato del nome ‘Hoh’ è Metafisico (v. n.
98.1-2).193
193
Cfr G. Ernst, ‘La fabbrica del mondo e di sue parti’: senso delle cose e armonia del tutto nella filoso-
fia della natura di C., in: L’interpretazione nei secoli XVI e XVII, a c. di G. Canziani e Y.-C. Zarka,
Milano, Angeli, 1993 (p. 247-69).
194
“Coloro che sono provvisti di una conoscenza più perfetta sono incaricati di ordinare gli
altri esseri” (Tommaso, 3SCG, p. 77).
COMMENTO AL TESTO 303
zioni di governo rispetto ai più dotti [= literatis]”; poiché però l’ipocrisia na-
sconde i reali meriti, e appare buono chi è malvagio, è meglio far appello alla
“dottrina [= literatura]”, la quale non si può simulare “e non può andar del tut-
to scompagnata dalla virtù” (Quod rem. 4, 2 [p. 1240]).
A confortarlo che il culto del vero e del bello non indebolisce l’azione pratica
(anzi: Minerva nasce armata), Platone, Resp. 349c-350c, 409d, 473d, 487b, 490c
(nell’impossibilità di fare saggio l’uomo politico, occorre far politico il saggio,
cioè il filosofo); Diogene, VII, p. 122-3; Palladio, II, 3 (“il filosofo non è domi-
nato ma domina, nessun uomo ha potere su di lui”); tra le sentenze e proverbi
di Platone, “ad un principe non esser altrimenti la sapienza necessaria che l’a-
nima al corpo: beatissime quelle republiche dovere essere nelle quali overo li
filosofi siano signori, o almeno quelli che governano, per una divina sorte, alla
filosofia attendano; perché niente diceva più pestifero essere che la potestà e la
audacia da una ignoranza accompagnata” (Ficino, Epist. IV, p. 259). Infine la
platonica connessione bontà/sapienza era stata ripresa anche da Telesio, IX, 6:
“Come tutti gli antichi hanno ritenuto, solo colui che è sapiente può sembrare
buono e fornito di tutte le virtù; anzi la sapienza procura allo spirito non solo il
bene supremo, ma lo rende simile agli enti divini” (III, p. 365).
30.16-41: nos… quam vos… insuper vos non lateat… Nos quoque non latet:
Vi sono due modelli selettivi fondati in ultima analisi su due modelli pedagogi-
ci antitetici: quello occidentale che si basa sui morti libri (da rifuggire: “fuggi-
te, amici, le seconde scuole”, cioè “quelle, che non da Dio nella natura impara-
no, ma da’ libri degli uomini, parlanti come opinanti di proprio capriccio”
[‘Proemio’ delle Poesie, 10 e Esp.]), e quello Solare, che si basa sul Libro della
Natura, o suoi immediati sostituti (le pitture o i reperti distribuiti sulle mura: v.
n. 12 [glossa] e n. 30.31-3).
Questa opposizione frontale ‘Voi/Noi’, fra realtà Occidentale negativa e ‘alte-
rità’ positiva, si ritrova a partire almeno dallo pseudo-Ambrogio (PL XVII,
1145), in cui il bramino Dandami contrappone ripetutamente la corrotta ‘ci-
viltà’ del conquistatore Alessandro Magno con la sanità di costumi del suo po-
polo: “Vos… tam pravis moribus vivitis… Nos autem…”.
195
Cfr U. Motta, A. Querenghi (1546-1633). Un letterato padovano nella Roma del tardo Rinasci-
mento, Milano, 1997.
COMMENTO AL TESTO 305
196
Theol. I (I, pp. 23 e 7); Metaph. I; per il ‘simbolo’ del Libro della natura in C. e in Galilei cfr
Garin 1961, p. 451-65; I. Calvino, Perché leggere i classici, Milano, 1991: ‘Il libro della Natura in
Galileo’, p. 102-10; Ernst 1991, p. 254; e per gli antesignani: G. Bezza, Liber Vivus. Anteceden-
ti astrologici della metafora galileiana del libro dell’universo, ‘B&C’, X/2 (2004, p. 481-7).
197
Alle perplessità di Schoppe a tal proposito, l’ottimista filosofo ribatte: “ac te puta in duo-
bus mensibus ex ore meo omnes mirabiliter auditurum, cum tibi mundum aperiam librum
Dei, non metaphysicum meum, quia iste est degenerans transcriptio ex illo” (Lettere, p. 136; v.
n. 33.1 [f.p.]).
306 LA CITTÀ DEL SOLE
“La ‘scienza’ approda a una formula magica, non a una formula matemati-
ca”.198
198
Ma si veda ultimamente Hagengruber, p. 78-82, che rivaluta le posizioni di C. rispetto a
Galilei proprio a proposito della presunta certezza della matematica.
199
Anche perché, come nota Lerner 2001, p. 221, l’asserzione su cit. non è di Aristotele, ma
del commento di Tommaso al De anima.
COMMENTO AL TESTO 307
32.35: stratagematum
L’elenco ritorna, ancora approssimato, a 62.22 e, più dettagliato, a 98.12, dove,
inoltre, anziché la perifrasi, conia un nome specifico (ad es. il ‘magister strata-
gematum’ è lo ‘Stratagemarius’). A proposito di quest’ultima funzione (e cari-
ca), il vocabolo ‘stratagema’ (e il corrispondente italiano: “delle stratagemme”
[T.74.42]) è formalmente ‘spurio’. Forcellini infatti raccomanda di scrivere
‘strategema, -tis’, con il genitivo plurale alla greca ‘-ton’; invece in Civitas, oltre
alla costante grafia ‘strata-’, si ha una coniugazione anomala: delle sei occor-
renze, tre sono genitivi plurali in ‘-tum’ (32.35, 62.25, 84.34), due ablativi plu-
rali in ‘-tis’ (68.26, 74.35), e un accusativo singolare in ‘-ta’ (68.34). Dal punto
di vista contenutistico, Frontino nell’introduzione al suo Strategematon dice che
il complesso di azioni ordinate dal capitano “provide, utiliter, magnifice, con-
stanter” costituiscono il genere delle “strategikà” (compresa la disciplina, la
giustizia ecc.), le cui singole specie, cioè le singole mosse, astuzie, espedienti –
la tattica insomma –, si chiamano “‘strategèmata’”; e Civitas rispecchia fedel-
mente questa accezione, così definita dal DELI (ed. 1988): “accorgimento astu-
to per sorprendere e sopraffare il nemico”; il lemma risale al 1587 (A. Lupici-
308 LA CITTÀ DEL SOLE
1. Mezzi di produzione
“Boni communio signum est civitatis bene institutae. Boni proprietas signum
est reipublicae male institutae”: il primo è uno stato ‘secondo natura’, il se-
condo ‘violento’. Questo aforisma (Afor., 4 [p. 90]) non si ritrova più nella re-
dazione latina, ma riappare in Politica (I, 5: “Comunità e dominio sono mag-
giormente conformi a natura là dove il bene è comune a tutti; violento, dove
a pochi, o ad uno, o a nessuno. Il che suole accadere soprattutto dove gli uo-
mini assumono incarichi per i quali non sono adatti, e più per il bene di sé
che della comunità”). Ciò dà ancor più rilievo, per la sua carica eversiva, alla
collettivizzazione dei mezzi di produzione praticata dai Solari. Manca, è vero,
come rilevavano già Croce, p. 232 e Bobbio, p. 43, un’analisi socio-economi-
ca, ma – e mi sembra che nessuno l’abbia evidenziato – il nucleo moderno e
progressivo di CS sta tutto in quei due righi (T.56.34-5), che Civitas rende an-
cor più chiari ed efficaci: “rebus non serviunt sed res ipsis” (56.30). I Solari
non servono le cose, ma se ne servono – al contrario dell’occidentale Napoli
(54.38). Ecco la radice della polarizzazione ricco/povero e della conseguen-
te alienazione: esser strumentalizzati, asserviti alle cose, cioè esser schiavi del
possesso materiale. Basta questo rigo a rendere CS una pietra miliare della
storia della civiltà.
Tutto il male deriva dal ‘mio’ e ‘tuo’, perché miopemente si antepone la par-
te al tutto, causando, con la rovina dell’organismo sociale, anche quella del
COMMENTO AL TESTO 309
singolo membro (v. n. 86.1-2). Che poi questo stato di grazia sia, per C., l’an-
ticamera del Paradiso, e che sia un modello esportabile dalla vita conventua-
le,200 deve stupire solo chi dimentica che l’Au. era un domenicano della fine
del XVI sec., un frate-profeta e poeta: “Se fu nel mondo l’aurea età felice, /
ben essere potrà più ch’una volta, / ché si ravviva ogni cosa sepolta, / tor-
nando ‘l giro ov’ebbe la radice… Se, infatti, di ‘mio’ e ‘tuo’ sia ‘l mondo pri-
vo / nell’util, nel giocondo e nell’onesto, / cangiarsi in Paradiso il veggo e
scrivo” (52: ‘Sonetto terzo’); così annotato: “dopo la caduta dell’Anticristo
sarà in terra il secol d’oro, preludio del celeste regno… Nota con S. Crisosto-
mo e Platone che tutti i mali pendono dal ‘mio’ e ‘tuo’; e che come si viverà
in comune si prova ne’ Profetali; e v’è l’idea nella Città del Sole, fatta dall’Auto-
re”.201 In Quod rem. 4 arriva a proporre al Sofì di Persia, che, se si accorda con
i Cristiani, “totus mundus nobis, partim metu partim efficacia propalatae ve-
ritatis per duas sapientissimas nationes potentissimasque consentiet et reple-
bitur totus scientia Dei, et amorose secum nullibi dissidens conversabitur, et
omnia omnibus bona communia erunt, saeculum aureum resurget, et erit
una fides, una spes, una veritas, sicut et unus Deus, ad cuius beatam societa-
tem adspiramus” (p. 135).
La matrice del comunitarismo deriva dalla condanna della proprietà privata,
che C. ricavava da Platone (Leg. 875a: “l’interesse comune è quello che lega in-
ternamente gli stati, quello privato invece li lacera”; Resp. 462c, e nel Tim.) e
dai Padri della Chiesa.202 CS aggiunge sostanzialmente altri due modelli ‘cano-
nici’: il cenobio (assente in T.22.12, intuibile in 22.13-4, più chiaro in 56.31-2)
e la vita degli Apostoli (ossia le comunità protocristiane: 22.13, 56.32-3 e
84.28): il primo derivato dal secondo, come chiarisce Quaest. pol. IV: “Cristo in-
segnò un’organizzazione statuale stupenda priva di pecche, che a stento gli
Apostoli riuscirono a perseguire integralmente; in seguito passò dal popolo al
200
In altri termini: il suo comunitarismo (‘comunismo’ fu considerato anacronistico già da
Croce) sarebbe viziato di palingenesi millenaristica e, di converso, di idealizzazione del pro-
tocristianesimo, nonché di elitarismo intellettualistico (è una repubblica clerico-filosofica,
una ierocrazia).
201
Analoghi concetti nei sonetti 9, 10 e 20: ‘Contra il proprio amore…’, causa dell’egoismo e
dell’idolatria; ‘Parallelo del proprio e comune amore’: “Ma chi all’amor del comun Padre
ascende, / tutti gli uomini stima per fratelli”; commento: “All’incontro, l’amor universale ve-
ro, divino, stima più il mondo che la sua nazione, e più la patria che se stesso: tutti tiene per
fratelli, gode del ben d’altri, vi cessa la penosa invidia e gelosia; e così viene a goder d’ogni
bene come del proprio, a far bene a tutti ed esser poi signor di tutti per amore e innocenza,
non per forza… e così sarebbe stato nel secolo d’oro, se Adamo non peccava”; e l’ultimo so-
netto attacca: “O tu, ch’ami la parte più che ‘l tutto / e più te stesso che la spezie umana” (v.
n. 20.27, n. 50.7-9).
202
“Giovanni Crisostomo… cerca di inculcare in ogni omelia, specialmente quella su Lu-
ca, cap. 6, la massima: ‘Nessuno dica «proprio». Tutto ci viene da Dio: mio e tuo sono pa-
role menzognere’… E lo stesso Agostino nel trattato su Giovanni, 8…: ‘Se togli due pro-
nomi possessivi, cesserebbero le guerre, ci sarebbe una pace senza liti’” (Quaest. pol. IV II,
p. 105).
310 LA CITTÀ DEL SOLE
clero, poi ai soli monaci, e tra questi ora perdura, mentre presso gli altri solo
poche di quelle istituzioni resistono” (I, p. 101): in decrescendo, il retaggio di
Cristo è sopravvissuto solo in alcune comunità monacali – e, per le misteriose
vie della natura che non sono in antitesi con quelle della vera religione (anzi,
“sublatis abusionibus” [134.12], si riconcilieranno), in una comunità posta agli
antipodi. Questo modello del comunismo apostolico era già stato adottato dal
movimento evangelistico dei circoli erasmiani, e aveva avuto almeno due im-
portanti espressioni: una ‘pratica’ (More) e una teorica: l’Institution du prince
(Paris, 1547, cap. 22) di Guillaume Budé, il quale però aveva già espresso, nel-
la lettera premessa proprio a More, l’avversione per il diritto ‘positivo’ che san-
cisce il primato dell’avere sull’essere, e il richiamo alla “carità e un comunismo
pitagorico” contro decreti e decretali (sbeffeggiati anche da Rabelais), quando
bastano tre princìpi naturali, “capisaldi della legge utopiana”, e cioè: “l’ugua-
glianza fra i cittadini nel bene e nel male; un amore costante e battagliero per
la pace e la tranquillità; il disprezzo per l’oro e l’argento”, per veder subito
“crollare la superbia, l’avidità, le dispute dissennate… vedresti l’immane cater-
va dei libri giuridici… venir abbandonata ai tarli… Se l’Iddio ottimo e massimo
avesse mostrato la stessa benevolenza [usata per Utopia] verso quelle regioni,
che dal suo santissimo nome derivano e abbracciano la denominazione di cri-
stiane, certo la sete di lucro, che corrompe e rovina tante menti per ogni altro
rispetto eminenti ed acute, se ne sarebbe fuggita una volta per tutte e la satur-
nia età dell’oro potrebbe ritornare” (p. 83-4; per la lettera di Budé v. n. 104
[glossa] § 4, nota).
Tuttavia la proposta comunitaristica di C. non poggia solo sull’appiattimento a
questi modelli; per quanto debole, vi è un’argomentazione sufficientemente
delineata (20.24-36): dalla proprietà privata nasce l’‘amor proprio’, che, a sua
volta, è ‘causa di tutti i mali’ (Quaest. pol. IV I, p. 101-2: “amor proprius omnium
malorum causa est”), sia perché fonte di liti,203 sia principalmente perché ge-
nera la ricchezza e la povertà, le quali sono la fonte di tutti i vizi e i crimini (ad
es. la ricchezza dell’ozio, la povertà del furto).204
Questa tesi ha la sua base etica anzitutto in Platone (“alcuni sono poverissimi,
altri ricchissimi (estremi sommamente odiati da Platone)” recitava Mon. Sp.1,
p. 47); ma poggia anche sull’‘aurea mediocritas’ aristotelica: la ragione sta
nel mezzo, ma chi è troppo ricco o troppo povero difficilmente dà ascolto al-
la ragione: “siccome si è d’accordo che la misura e le medietà è l’ottimo, è evi-
dente che anche dei beni di fortuna il possesso moderato è il migliore di tut-
ti, perché rende facilissimo l’obbedire alla ragione, mentre chi è eccessiva-
203
La fedeltà, la proprietà, l’eredità (20.29 e 22.6) come perenne fonte di conflittualità so-
ciale sono deplorate dalla Bibbia (cui rinvia in Quaest. pol. IV I, p. 101) e da Platone, Resp.
464a-e, ed è un motivo ripreso anche da Roseo, Instituzione, pp. 44 e 55.
204
Sui guasti della proprietà privata e viceversa sulla beatitudine della vita comune degli Apo-
stoli ci torna ancora a 56.21-33, e spesso in altre opere, ad es. Atheismus, p. 117-8, Afor., 41 (p.
103).
COMMENTO AL TESTO 311
205
Come apparirebbe dalle interpretazioni di Pirovano: “le virtù sociali dei Solari non posso-
no essere dimostrate: la città del Sole è opera di fantasia” (p. 18); o di Bolzoni 1994: “si met-
te da parte la logica, la disputa: la città utopica è autoesplicativa, essa è, immediatamente,
persuasiva” (p. 79).
206
Per stimolare l’emulazione: 26.38, 36.30-4; cfr Quaest. pol. IV II, p. 106 circa la gerarchia
meritocratica, coltivata fin dall’infanzia.
COMMENTO AL TESTO 313
ria naturalità), è ovvio che l’adotterà in ossequio appunto al ‘De Tertio prae-
cepto naturae’207 dato ad Adamo ed Eva, che tratta “de diligendo Deo et
proximo suo, quo continentur omnia praecepta quae pertinent ad ius natu-
rale. Dicitur autem ius naturale quicquid naturalis ratio faciendum esse dic-
tat, sine omni vel magna deliberatione, ut Deum esse diligendum et proxi-
mo non esse nocendum. Ad hoc etiam pertinet secundum primum statum
omnia esse communia”. A questo punto l’‘Auctor’ fa un lungo inciso circa i
tre tipi di leggi naturali: a) i precetti [= praecepta] vanno sempre e comun-
que osservati in positivo (es.: ‘onora il padre’); b) i divieti [= prohibitiones],
in negativo, sono sempre e comunque impositivi (es.: ‘non uccidere’); c) e
poi ci sono le “demonstrationes”, la cui applicazione varia caso per caso (es.:
da una violenza ci si può difendere e, secondo Cicerone e Agostino, mode-
ratamente anche vendicarsi; oppure si può reagire come insegna Cristo,
porgendo l’altra guancia): “similiter malos punire est de iure naturali, puni-
re vero sic vel sic non est de iure naturali, sed iure positivo. Omnia ergo esse
communia sub demonstratione cadit, quia non fuit praeceptum iuris natu-
ralis simpliciter, sed tantum secundum quid, fuit enim praeceptum in statu
innocentiae sive naturae bene dispositae. Sed in statu cupiditatis et naturae
corruptae non est praeceptum, neque debet esse, quia si sic esset respublica
dissolveretur et humanum genus se mutua caede perimeret. Omnia tamen
tempore necessitatis extremae sunt communicanda, quia naturalis ratio dic-
tat quod magis diligenda est salus proximorum, quam ipsa temporalia… Na-
turalis enim ratio dictat quod omnia deberent esse communia, at appetit et
amplectitur naturali desiderio statum illum futurae beatitudinis, in quo
erunt omnia communia” (SN XXX LVIII). Dunque il pensiero cristiano tar-
domedievale, com’è espresso da Beauvais, circa il ‘comunismo’, è così arti-
colabile:
• la comunanza dei beni era un precetto naturale, quando la natura era in-
corrotta;
• adesso che la natura è corrotta, è un principio discrezionale;
• alle volte il meglio è nemico del bene (come recita la glossa: “Bono bo-
num est contrarium”): nella società attuale la comunanza dei beni signifi-
cherebbe l’autorizzazione a rubare e rapinare, e quindi la dissoluzione
della società, per cui, dopo la corruzione, il nuovo principio naturale è la
proprietà privata;
• pertanto la comunanza dei beni viene proiettata nel futuro remoto, quan-
do si ritornerà definitivamente alla purezza originaria.
3) La coeva letteratura utopistica: non solo More (59 e 105) e Doni, ma anche
un moderato come Zuccolo ricorda che “in una repubblica sono egualmen-
te pericolose l’eccessiva povertà e le soverchie ricchezze” (Città felice, p. 83 –
207
Il primo, “ad sustentationem naturae”: l’autosopravvivenza; il secondo, “crescite et multi-
plicamini”: la generazione.
314 LA CITTÀ DEL SOLE
ritto delle genti, dedotto dal diritto naturale, che tutte le nazioni concorde-
mente osservano” (Theol. X [III, p. 35]).208 Dunque: secondo il diritto “primae-
vo, nihil esset particulare et proprium cuique… Partitio est de iure gentium,
quod ab iniquitate suscepit occasionem, teste S. Clemente etc.” (Mon. Messiae I,
p. 6); dal diritto naturale discende in linea retta lo ‘jus gentium’ universale,
mentre le sue concrete e specifiche applicazioni in ogni singola nazione com-
pongono il diritto civile (Theol. X [III, p. 37]). In conclusione: l’indivisione dei
beni e quindi il loro uso appartiene al diritto naturale, e perciò è una funzione
anteriore e universale rispetto alla proprietà che appartiene al diritto positivo:
“più naturale è il dominio e la comunità, dove il bene è più comune a tutti. Vio-
lento è più dove è manco comune” (Afor.).
Le servitù interiori sono determinate da quelle esteriori: libero dal bisogno,
dal desiderio, dalle passioni, l’uomo è ‘naturalmente’ buono; vivere secondo
natura è già virtù, e il modello (o il mito) di questo stato naturale era ieri il pro-
to-cristianesimo, ed è oggi la vita claustrale. E la virtù consiste nel porre il desi-
derio a servizio della ragione, che esige quanto predica la massima di 132.33:
non fare agli altri quel che non vuoi sia fatto a te. In questo mondo idilliaco,
estirpati l’egoismo e la proprietà privata, è tolta la possibilità di peccare: non
esiste più l’amor di sé né l’amor di concupiscenza – non esiste, quasi più, il li-
bero arbitrio (v. n. 104 [glossa] § 4, punto 2).
2. Mezzi di riproduzione
I rapporti sessuali, in attesa di trovare un sistema sociale migliore (60.13), sono
regolamentati nel modo seguente: esiste un doppio regime circa la comunan-
za delle donne: nella Città esse sono poste in comune sia per quanto riguarda i
servizi che per le prestazioni sessuali (58.7); nelle province, i cui abitanti sono
filosoficamente immaturi (60.12) – probabilmente perché non hanno ancora
metabolizzato la legge che il tutto precede la parte –, l’accomunamento ri-
guarda solo i servizi (non il talamo [60.8-11] – per cui si deve presumere che lì
vigerà una qualche forma di coniugalità).
Il regime sessuale solare si basa su due presupposti:
• evitare l’amor proprio, che nasce anche dal possesso di una donna e quindi
di figli propri; e, più in generale, cessazione dei “vitia ex abusu amoris, ut
adulteria, fornicationes, sodomias, priapismos, suffocationes uteri [= abor-
ti], zelotypias [= gelosie], furores, etc.” (Quaest. pol. IV I, p. 101-2);
• eugenetica: è assurdo che gli uomini si preoccupino di migliorare le razze
animali, e trascurino la propria; una nazione è felice se i suoi cittadini sono
208
In Moralis XV, p. 59-62 e Politica V, 4-6, invece, vi è una tripartizione: prima viene lo “jus di-
vinum”, costituito dalle leggi divine in vista del sommo bene; poi il secondo, rivolto a fini na-
turali, è retto dal cielo, gli elementi naturali ecc. (il Sole “iuri naturali” sorge e tramonta per
illuminare e generare tutte le cose); infine il diritto umano che è duplice: lo “ius gentium”
comune a tutti gli uomini istituisce per il vivere sociale la proprietà, i matrimoni, i tribunali;
lo “ius civile, quod sibi omnis Civitas vel Natio moribus et usibus suis congruenter statuit ex
arbitrio sapientum”.
316 LA CITTÀ DEL SOLE
209
Non la sessualità (44.15-19) né l’amore (52.23): degli amori e amorazzi privati non inte-
ressa nulla alla collettività, salvo minaccino la specie – come l’omosessualità – o interferisca-
no nel controllo delle nascite.
COMMENTO AL TESTO 317
non sarebbe come una goccia di vino dolce in molta acqua, ma come una
fiammella in molta stoppa: l’amore infatti è una primalità e di sua natura dif-
fusiva come il fuoco” (Quaest. pol. IV III, p. 110).210
3. Il problema davvero fondamentale, per questo tipo di società promiscue, è
però l’incesto. Visto che la “certitudo est communitatis” (50.22), ovvero es-
sendo tutti figli della Città e non di una famiglia, come evitare che si verifi-
chino unioni incestuose? Se può esser ammissibile che i Solari non conosca-
no “stupra… adulteria” (24.33-4),211 invece è un po’ troppo sbrigativo soste-
nere ‘sic et simpliciter’ che ignorino pure gli “incesta”. Anche in Quaest. pol.
IV si (auto)obietta: dalla ‘scandalosa’ comunanza delle donne, “nascerebbe-
ro adulteri, fornicazioni e incesti con sorelle, madri e figlie, e gelosie tra le
donne, e contese [fra gli uomini] per quella che si vorrebbe possedere”.
Nella risposta, passati in rassegna i delitti contro la persona (“caedes, fur-
tum, rapina, fornicatio, adulterium, sodomia etc.”), esclude che essi possano
essere ascritti a tale comunità: “sed mulierum societas, neque personas de-
struit, neque generationem impedit: ergo non est contra naturalem ordi-
nem” (III, p. 108). Resta da analizzare l’incesto: “Con S. Tommaso e Gaetano
abbiamo detto che vi è incesto contro natura solo con la madre (e lo abbia-
mo evitato nella Città del Sole); con le sorelle e con altri l’incesto è contro la
legge: dove non viga una tale legge, non vi è alcun incesto” (ib., p. 109).
Dunque C. riconosce un solo tipo di incesto – fra madre e figlio (meno gra-
ve fra padre e figlia), unico tabù naturale; tra sorella e fratello invece è con-
venzione sociale. Però anche in Quaest. pol. IV, come in 24.34, l’Au. si limita
ad asserire che esso non si verifica nella Città, senza dirci come ciò sia possi-
bile. Un microsegnale intratestuale che ci potrebbe indirettamente fornire
qualche lume è un’altra apparentemente gratuita variazione numerica: in
T.24.17 si fissa a quindici anni il salto generazionale (“tutti li giovani s’ap-
210
In effetti la metafora del fuoco risale alla lettera di Alessandro Magno a Didimo, in cui l’e-
sorta a svelargli il segreto della loro felicità, non inficiata dal fatto che una tale estesa com-
partecipazione significhi depauperamento: “sicut ex una face, si lumina plura succenderis,
nullum damnum principali materiae generabit” (SH IV LXVII); la teoria – sociale – dell’amo-
re come quantità ristretta non moltiplicabile pena il suo decadimento, era stata rilanciata re-
centemente da un pensatore con cui proprio nelle Quaest. pol. si era confrontato: per Jean
Bodin (Les six livres de la Republique, Paris, Du Puys, 1583 [tr. it., Torino, 1964], I, 2) l’amore
terreno “è inteso in modo simile alla proprietà, come un rapporto esclusivo. Infatti ‘quanto
più esso si comunica, tanto più perde di vigore; come i grandi fiumi, capaci di sostenere gros-
si carichi, una volta divisi in più rami, perdono tale capacità, così l’amore disperso fra più
persone e cose perde la sua forza e la sua virtù’” (Conti Odorisio, p. 707).
211
Infatti, come spiega in Quaest. pol. IV, “vi può esser adulterio contro natura o contro la leg-
ge; è contro natura quando vi è unione fra animali di specie diversa…, è illegale quando uno
possiede la donna d’altri, stante una legge contraria. Ma nella nostra Città non c’è questa leg-
ge, ma vi sono pubblici generatori più utili a tale funzione: non vi è dunque adulterio, quan-
do non vi sono bastardi né connubi illegali”, e poiché è lo stato a regolare gli accoppiamen-
ti, “sarebbe un insulto allo stato [e non verso un’altra persona], se lo facesse contro la legge”
(III, p. 109).
318 LA CITTÀ DEL SOLE
pellano frati, e quelli che sono quindeci anni più di loro, padri, e quindeci
meno, figli”); a 22.16 il gap sale a ventidue anni. A differenza di altri casi (v.
n. 10.6-7), forse stavolta c’è un preciso motivo. Il sistema di appellativi semi-
conventuali (‘padri’, ‘fratelli’) fra le fasce d’età dei Solari non risponde solo
a un criterio ‘affettivo’ e di rispetto reciproco fra le generazioni, volto a sur-
rogare in regime comunitario i sentimenti familiari, ma ha un’altra funzio-
ne, ben più cogente. È Platone ad avergli suggerito questa sorta di ‘parente-
la allargata’: “Quei figliuoli che siano nati fra il decimo e il settimo mese dal
giorno in cui uno [guardiano] di loro si faccia sposo, tutti questi egli dirà fi-
gli se maschi, figlie se femmine, e quelli lo diranno padre… E così non si
congiungeranno fra loro come or ora dicevamo” (Resp. V, 461d-e). Anche i
Solari, oltre ai controlli statali, si servono, per la regolamentazione delle
unioni sessuali, dell’escamotage della barriera generazionale, la cui princi-
pale funzione è appunto quella eugenetica: poiché le unioni sono tenden-
zialmente fra quasi coetanei (40.13-8 e 40.34), s’annulla il rischio d’incesto
‘contro natura’ – restando irrilevante il rischio d’incesto tra fratelli (la ‘con-
fraternitas’ [24.20], su cui vigilano gli ufficiali, è altra cosa – è la solidarietà
sociale). Ed ora possiamo tentare di spiegare l’elevazione da quindici a ven-
tidue anni del divario generazionale: siccome il maschio non diventa pro-
creatore prima dei ventun anni (40.16 e T.40.20), C. ha voluto ritoccare a
ventuno più circa un anno di gestazione la barriera intergenerazionale; un
maschio non può quindi unirsi con una donna più grande di lui di ventidue
anni, perché sarebbe una sua ‘madre’ – reale o potenziale: cioè sotto quel-
l’appellativo potrebbe celarsi un legame non fittizio, ma di reale consangui-
neità, e dunque potrebbe verificarsi un incesto inconsapevole.
per un’altra (74.29-34); ciò tuttavia non esime i Solari dall’addestrarsi in tutte
le attività (26.14-5, 34.8) – il che significa anche andare contro quella specializ-
zazione, che tutti (da Platone a Doni) raccomandano. Non basta: la seconda
divaricazione consiste in un tentativo – solo un tentativo, sconfessato com’è
dalla pratica solare stessa, e dall’irruzione, che nessuna alterità utopistica può
arginare, delle contraddizioni della realtà in cui vive l’Au. (v. infra punti 2 e 3)
– di riqualificazione del lavoro manuale, rovesciando la domanda retorica di
Platone: “credi tu che i migliori uomini che abbiamo creato siano i guardiani
che hanno ricevuto l’educazione già detta, o i calzolai istruiti nell’arte di fare le
scarpe?” (Resp. 456d). Ad esser elogiate e a primeggiare sono infatti le arti ma-
nuali, che tutti imparano (28.1) e praticano (56.9). Dunque chi più e meglio
fa, più vale: è lui il vero ‘nobile’, nel senso proprio di colui che si eleva sulla me-
dia (28.5-7), tanto da esser chiamato ‘re’ (84.5) ed esser avviato alle cariche su-
periori (28.15-20). Non solo: proprio le arti più umili e faticose, ma primarie,
sono ‘al primo grado di nobiltà’, anzi quanto più sono onerose tanto più sono
onorate (78.13-4).212
In sintesi: poiché sono tutti sostanzialmente uguali, sia da un punto di vista ‘na-
turale’ (sesso e talenti innati), sia dal punto di vista sociale (per assenza di cen-
so e denaro), tutti possono e debbono svolgere tutte le mansioni, con queste
precisazioni:
• i compiti meno faticosi spettano al sesso debole (34.10; v. n. 34.9-10);
• le attività primarie spettano a tutti indistintamente; ognuno poi, seguendo la
sua inclinazione ‘naturale’ (74.32-4), sarà più versato, e quindi si applicherà
maggiormente all’uno anziché all’altro lavoro.
La società, dal canto suo, agisce con due leve: asseconda l’inclinazione indivi-
duale; esalta le attività manuali.
Ne consegue che nessuno parte avvantaggiato (socialmente o naturalmente);
ognuno svolge, oltre alle corvées obbligatorie (es. ai giovani servire a tavola
[34.28]), il lavoro che più gli piace, e non il meno faticoso o il più onorifico
(naturalmente non esistono lavori più remunerativi), in quanto l’unico rico-
noscimento sociale non riguarda il tipo, ma la qualità del lavoro (e di conse-
guenza le gerarchie non si basano sulla divisione del lavoro, ma sulla capacità e
bravura nell’eseguirlo – e, semmai, al primo posto vengono le abilità manuali).
Il modello offerto da C., a scorno dei superbi, è quello menenioagrippiano:
ogni orifizio corporeo (54.28: “oculo” o “culo” che sia) svolge un compito indi-
spensabile per la salute dell’intero organismo, e non è intercambiabile: “L’otti-
ma repubblica è quella dove ciascuno è eletto a fare quello officio al quale è
nato, perché allora regge la ragione”, e non il caso (Afor., n° 28 [p. 99]); ed in
partic. non succederà di trovare l’uomo sbagliato al posto sbagliato, che causa
212
“Non tutte le attività sono arti: sed illa tantum, quae aliquam formam in materia, quam
tractat, introducit: omnis enim ars natura est estrinseca, natura vero ars intrinseca” (Quaest.
oec. III I, p. 183): l’arte è quella che plasma, trasforma la materia (v. infra nota 214).
COMMENTO AL TESTO 321
tanti più danni quanto più in alto sta: un (nato per fare il) calzolaio che fa il re
o il sapiente è il colmo della nullità e rovinosità (130.3-6; Afor., n° 29).
Questo modello di una città ideale è però a sua volta molto idealizzato. La ‘pra-
tica’ stessa della Città del Sole si preoccupa di contraddirlo a ogni pié sospinto:
1. l’uguaglianza fra i sessi: il fatto che, pochi righi dopo aver nobilitato le atti-
vità più faticose (78.13), si riservino alle donne le arti meno onerose
(78.20), può spiegare, in parte, la ragione della perdurante disuguaglianza
fra i sessi: al sesso debole compiti meno impegnativi e dinamici (34.10); mal-
grado non siano discriminate intellettualmente, ciò non basta ad aprire una
crepa nell’uguaglianza universale? È solo un caso che nel pantheon murale
non sia rappresentata (o almeno citata) neanche una donna? È credibile
che una donna possa diventare Hoh, dopo che l’anti-pantheon femminile di
150.12sg ha mostrato come essa sia particolarmente inadatta al comando,
quando nefaste congiunzioni astrali ce l’hanno portata? La sua sede natura-
le è la cucina (34.27), oppure un ‘cubiculum’ (42.19), in cui, secondo tabel-
le medico-astrologiche stabilite da maschi (siano essi fisici, protomedici, sa-
cerdoti e/o astrologi [42.26, 108.9]), sfornare figli alla patria o fornire ‘me-
dicine’ a giovinotti incontinenti (40.18-25 e 44.16) e sapientoni impotenti
(108.16-8), o infine il puerperio, dove deve passarci due anni dopo ogni par-
to (46.30) – per non parlare della minaccia della pena capitale se osa truc-
carsi (52.9). Quindi è già molto se ha diritto di voto e (solo per?) un Consi-
glio delle matrone (46.18), da cui sono escluse le sterili – appunto a sottoli-
neare che la primaria funzione e dignità femminile è quella riproduttiva.
Per fugare dubbi residui, lasciamo all’Au. la parola, specialmente perché
adoperata a illustrazione di Civitas: “Asserisco che ci debba esser comunanza
nelle funzioni, salvo che nel potere politico: le donne non possono occupa-
re le magistrature, né debbono insegnare agli uomini, ma solo alle altre
donne e in relazione [“in ministerio”] della generazione” (Quaest. pol. IV III,
p. 108 – fanciulli e fanciulle hanno infatti maestri e maestre loro [46.32-3]).
Non solo, dunque, non ci sarà mai una Hoh, ma neppure una semplice don-
na-‘magistrato’, perché una donna né può comandare né può insegnare agli
uomini, ma solo alle donne, e soltanto limitatamente a problemi inerenti la
riproduzione. Questa teoria, che sarebbe anacronismo e scorrettezza bollare
come misogina, poggia su una base fisiologica, di tradizione classica, così
sintetizzata da Della Porta: “Platone dice che la femina in tutti i paragoni al-
l’uomo sia più imbecille [= debole] et imperfetta, il che Aristotele e Galeno
confermano, perché dicono avvenir per la freddezza, per essere il calore il
primo istromento della natura, e dare a poco calore poca perfezion d’opra”
(Fisonomia I XXVI, p. 161); teoria, da C. integralmente (integralisticamente)
recepita: l’Artefice “tutti li partìo in maschio et in femina, quello più caldo
et forte et atto ad agere e defendere et resistere, et questa debole a compati-
re et nutrire la molle prole; e ‘l maschio assembrò al sole et la femina alla
terra, perché assomigliasse la parte al tutto et l’effetto alla causa” (Epilogo, p.
339); per giunta “la femmina a caso nasce, intendendo sempre la natura fa-
re il più perfetto, ch’è il maschio” (p. 61; la femmina è un maschio mancato,
per difetto di calore interno), quindi “naturalmente [= secondo natura] do-
322 LA CITTÀ DEL SOLE
213
Circa “il difficile rapporto del C. con l’universo femminile” cfr G. Bock, Thomas C. Politi-
sches Interesse und Philosophische Spekulation, Tübingen, 1974, p. 133sg; L. Bolzoni, T. C. e le don-
ne: fascino e negazione della differenza, ‘Annali d’italianistica’, 7, 1989 (p. 195-216); M. Isnardi
Parente, T. C. e la repubblica di Platone, ‘Archivio storico per la Calabria e la Lucania’, XLVI,
1999 (p. 93-111); Fournel; più in generale sul posto della donna in testi utopistici: C. Cohen-
Safir, Cartographie du féminin dans l’utopie. De l’Europe à l’Amérique, Paris, L’Harmattan, 2000.
214
Sebbene nella versione di Città, che legge Rossi, ci sia anche scritto: “Le speculative son di
tutti e chi più è eccellente si fa lettore; e questo è più onorato che nelle meccaniche, e si fa
sacerdote” (ed. Bobbio, p. 84) – periodo assente in T. e in Civitas: v. 78.25 in ‘Apparato delle
varianti di α’.
215
Lo notava già Amerio, sulla scorta di un testo campan. ancora inedito (Theol. IX II, IV): “l’i-
dentica dignità morale del lavoro non importa [=comporta] tuttavia identica dignità pratica
di tutte le arti, e il C. riconosce arti vili e arti nobili, secondo che operino più o meno profon-
damente nella materia e abbiano un fine più o meno immediatamente connesso coi fini mo-
rali dell’uomo. Per il primo rispetto è più nobile la scultura che la molitoria, per il secondo
più la medicina che la vestiaria”.
COMMENTO AL TESTO 323
ve il buon vecchio modulo tripartito torna a farla da padrone: quelli che lavo-
rano, in basso (artigiani), quelli che pensano, in alto (tra affreschi “nobilio-
res”) e quelli che pregano, al centro. E infine, inequivocabilmente, il vertice
del cursus honorum è caratterizzato dal primato dell’intelligentija: del resto da
un nucleo storico di ‘bramani pitagorici’, che non estendono il comunismo
sessuale alle città satelliti, filosoficamente ‘imperfette’, il minimo che ci si possa
aspettare è che per diventare Principe-Sacerdote bisogna ‘eccellere in metafisi-
ca e teologia’ (28.38). Tutt’al più si può invocare un duplice registro: quando
C. esalta il lavoro manuale, ha in mente un codice sociale di cui capovolge i va-
lori: il nobile ‘meccanico’ è il vero “rex” rispetto a quel saprofita di un rentier,
la cui unica occupazione è oziare; il secondo codice, tassonomico, è basato in-
vece sulla progressiva complessità dell’astrazione; e, convenendo con la con-
clusione di Rossi,216 vediamo delinearsi un C. contraddittorio, che ribalta la
classista divisione del lavoro con una rivalutazione della tecnica, dei cui ritrova-
ti anche futuribili CS è piena; invoca la pari opportunità, se non proprio ugua-
glianza, fra gli uomini, con coraggiose aperture sociali (voto, istruzione) alla
donna; e poi, a proposito di quest’ultimo punto, ci si trova di fronte ad affer-
mazioni (o pratiche) di segno totalmente opposto, e all’interno della stessa CS.
3. All’uguaglianza fra gli uomini, infatti, C. oppone tre forme concrete di subor-
dinazione (e quindi disuguaglianza): per natura (il maschio e la femmina),
per colpa (il giudice e il reo), per sorte (il soldato e lo schiavo [Aphor. II, 11]).
I Solari non tengono prigionieri, salvo i nemici (100.12), ma in compenso
commerciano (80.3) quegli schiavi di cui prima si era negata l’esistenza
(54.34), o li impiegano nei lavori pesanti (v. n. 78.36-80.2 – il che già la dice
lunga circa la tanto sbandierata primazia delle attività faticose); ma c’è di più:
la loro tolleranza si arresta dinanzi ai nemici, una volta della ragione (T.64.22)
ora della religione (64.19), che sono indegni di esser annoverati nel genere
umano, e quindi vanno sterminati: “anche la guerra può talvolta essere effetto
di carità e identificarsi con la misericordia, come quando un principe attacca
militarmente popoli barbari viventi a guisa di bestie e li riduce poi a un vivere
umano: questo fece il Re di Spagna con le genti delle Indie Occidentali; in
questa guerra si manifesta anche la giustizia perché si difende il genere uma-
no dall’antropofagia e dalla sodomia, e si distolgono le anime dal culto del de-
monio” (Theol. XII, 175). In Rhet. VII III affronta un caso di argomentazione
“dalla causa finale: ogni bene è conveniente e lecito; che gli Spagnuoli spa-
droneggino sugli Americani è bene, dunque è lecito. Si dimostra che è bene
prima di tutto [a partire] dal bene in sé, che è Dio a cui gli Americani sono ne-
mici (questo argomento ha forza nel senato spagnolo); poi dall’onesto, poi-
216
“C. – pur tanto profondamente legato al clima della magia e dell’astrologia – avvertì come
pochi altri il carattere rivoluzionario delle grandi scoperte della tecnica e dei grandi viaggi di
esplorazione… Nonostante l’avida curiosità verso il rinnovamento in atto nella scienza e ver-
so i nuovi ritrovati della tecnica, C. – come ha di recente ribadito il Corsano – rimase ‘so-
stanzialmente estraneo al grande rinnovamento metodologico e produttivo dell’età sua’ [p.
239]” (Rossi 1971, p. 105).
324 LA CITTÀ DEL SOLE
217
Uno dei requisiti per cui un animale possa dirsi perfetto è l’abilità imitativa, che può esser
di due tipi: “le scimmie fanno quello che vedono e ricordano quello che odono; il ‘pigmeus’,
invece, pur parlando, è irrationabile animal; per quanto concerne le virtù animali, il pigmeo è
dopo l’uomo l’animale più perfetto: et videtur quod inter omnia animalia plus confert me-
morias suas et plus percipit de signis auditus, ita quod videtur aliquid habere imitans ratio-
nem, sed ratione caret”; i pigmei sono in certo modo paragonabili ai ‘moriones’ (= pazzi),
con la differenza che il folle ha la privazione non della ragione ma dell’uso di ragione. E fi-
nalmente non ha civiltà né leggi, ma segue “naturae impetum sicut et alia bruta animalia, sed
erectus incedit… et ideo semper silvestris manet nullam prorsus civitatem custodiens… In
base a quanto detto dunque il pigmeo è quasi a metà strada fra l’uomo avente un intelletto
divino e gli altri animali, nei quali non brilla neanche una scintilla della luce divina” (Alber-
tus, De animal., l, 21, tr.1, c.2, 11-2 [t. II, p. 1328-9]).
218
S. Cro, T.C. e i prodromi della civiltà moderna, Hamilton, 1979, p. 10sg; e da ultimo, per Las
Casas, Todorov (p.348-53).
219
Cfr per quest’aspetto Ernst 2002, p. 237-40 e Ernst 1991, p. 70-2, dove c’è anche una bibl.
sul rapporto C./Nuovo Mondo, fra cui sottolineerei Benzoni, 2-6v; per il tema del comuni-
smo campan., cfr Solari 1941, p. 193-7; R. Crahay, T. C. ou le socialisme dans la Cité de Dieu, in
‘Problèmes d’histoire du christianisme’, III, 1972-3 (p. 51-71); C. Quarta, Sul comunismo della
Città del Sole, ‘Quaderno filosofico’, I, 1977 (p. 7-64).
COMMENTO AL TESTO 325
34.11: ab masculis,
L’unico altro caso di “ab” seguito da consonante è a 48.30.
34.16: pomerium
“‘Pomerium’, parola sincopata, che significa ‘dietro o dopo le mura’” (Plutar-
co, Romulus 11, 4); “è lo spazio intorno alla Città fuori e dentro le mura, dove
non si può fabbricare” (Maffei, I, p. 368).
34.24: Musica
È eseguita quasi esclusivamente da donne e bambini (salvo trombe e tamburi,
che “inducono a movimenti veloci adatti a coloro che combattono, affinché si
lancino nella mischia”) in quattro circostanze: in mensa nei giorni festivi
(36.35), ma anche dopo pranzo (108.29); nella Città in occasione di giostre
220
La stessa alternanza si pratica nella repubblica di Platone (Resp. 416d, 457c) e in More, 83
(lo scambio di case avviene ogni dieci anni per sorteggio), nonché di fatto nei conventi.
326 LA CITTÀ DEL SOLE
34.32: promptuaria
“‘Promptuarium’ dictum eo quod inde necessaria victui promuntur, id est pro-
feruntur” (Isidoro, XV).
34.36: verberandi
La sferza è caldeggiata da Platone, Resp. 465a; mentre coatta solidarietà e reci-
proco servizio fra giovani (36.9) sono mutuati da More, 104.
36.15: legit
La lettura durante il pranzo comune non era esclusivo appannaggio conventua-
le; era praticato ad es. nella ‘Casa Zoiosa’ di Vittorino da Feltre, secondo questo
principio dietologico, come narra il Prendilacqua: “per non dar modo durante la
cena che venisse sollecitata la gola, era solito tenere degli scolari a leggere, così
da attirare l’animo dei commensali inducendoli a dilettarsi d’ascoltare. E sce-
glieva per un ufficio tanto delicato solo ragazzi di grande intelligenza e memoria,
con voci piacevoli e argute, avendo gran cura, anche sotto la guida di musicisti,
che pronunciassero bene, con esattezza e chiarezza; sì che quel dolce e armonio-
so concento distogliesse, se non dal cibo, almeno dai futili scherzi, specialmente
quando si cantavano le valorose gesta degli eroi, o si narravano storie” (p. 631); e
Signorini pensa “a Pitagora dieteta e musico come al possibile paradigma peda-
gogico” (p. 132), mediato dal boeziano De institutione musicae. Anche a Sforzinda
nel convitto dei ragazzi poveri, allevati in comunità fino a vent’anni, “mentre che
si mangerà, che faccino leggere continuo uno di quegli putti”; e dopo cenato,
“alla musica chi c’è adatto” (Filarete, p. 513-4).
36.26: Medicorum
È addirittura un Protomedico (88.32) a presiedere alla cucina, perché “la me-
dicina è architettonica rispetto alla coquinaria e alla speziaria” (Poetica III, p.
319); secondo la tradizione della scuola medica salernitana, infatti, gli alimen-
ti sono i primi farmaci. Lettere, p. 264 e Poetica X, p. 334 esplicitano la fonte: il
poeta adulatore, “non medico, ma cucinaro, che fa le cose al gusto solamente,
sarà, come disse Platone dell’oratore adulante”; infatti in Gorg. 463-6, Socrate
pone tra “le parti dell’adulazione” anche “l’arte della cucina”, perché “sotto la
medicina scivolò la culinaria, che simula di sapere quali siano i migliori cibi
per il corpo, onde se un medico e un cuoco dovessero scendere in gara”, il me-
dico risulterebbe senz’altro perdente221 – passo, questo, cui accenna anche Fi-
cino nell’‘Argumentum’ al Phaed. di Platone: “assomiglia uno cattivo oratore a
221
Cfr anche Poët. II III, p. 935-7, opera, questa, che si chiude con l’esortazione: “il poeta sia
cuoco quanto al verso, medico nel concetto” (p. 1217).
328 LA CITTÀ DEL SOLE
cuochi adulatori, come anchora fece nel Gorgia, e il buono a un medico” (I, p.
307, trad. di Figliucci).
38.5: Alba
Tutti i Solari indossano prevalentemente (v. n. 54.15-8) non solo biancheria,
ma anche capi di vestiario (38.27) bianchi, per la sommatoria di queste ragio-
ni:
– anzitutto Scritturali: Ec. 9, 8 (nella citaz. di Damasceno, Parall. II, 98E): “in
omni tempore sint vestimenta tua alba”, come bianche erano le vesti del Cri-
sto risorto, “ad eundem modum facies quidem ut sol splendet, vestimenta
autem eius lucis instar alba fiunt” (De Dom. transfig., 363I); “il bianco, che del
nero è ognor più bello” (29, Madr. 3, 9), è simbolo della luce e “la luce è si-
mile al Senno, secondo Salomone” (24, Madr. 1, Esp.);
– fisiche: “è il primo colore, che per sé si vede e fa vedere gli altri enti”, men-
tre tutti gli altri colori sono luce impura (24, Madr. 1, 10-4 ed Esp.); cioè il
bianco è anche il parametro cromatico basale: “nel genere dei colori misura
è la bianchezza e i colori si misurano dall’approssimazione o dilungamento
da essa” (Theol. I [I, p. 73]);
– sociali: “oggi tutti amano il nero, proprio della terra, e della materia e del-
l’inferno, di lutto e d’ignoranza segno” (54, Esp.): il bianco Solare è anche
una reazione alla moda vigente, che invece predilige il colore dell’ombra (=
freddo), della morte, del nulla; la scelta del bianco era dettata cioè anche
dall’avversione agli Spagnoli che amavano vestire di nero (Firpo 1954, p.
1330): “Taccia il popol moresco, che non vuole / udir il suon delle divine tu-
be. / L’alba colomba scaccia i corbi neri” (55, 12-4; v. nn. 54.18/20); e insie-
me è antesignano di quello che sarà il colore futuro, come appunto andia-
mo a vedere:
– è colore ‘apocalittico’, che preannunzia insieme la ‘renovatio’ e l’ordine do-
menicano biancovestito: nella celebre risposta del finto folle agli aguzzini
“diece cavalli bianchi” era adombrata la profezia di Zaccaria, dove “la qua-
driga dei cavalli bianchi è mandata a restaurare Gerusalemme, e bianco è il
primo cavallo vittorioso, che appare quando Cristo dischiude il primo segre-
to di questo nuovo Stato, e bianchi sono i vegliardi [Zc. 6, 3; Apoc. 6, 2, ecc.];
COMMENTO AL TESTO 329
222
Nonché il sonetto 55, 5-8: “E finir di Giovanni il lungo pianto / avendo il gran Leon giu-
deo gli onori / d’aprir il fatal libro, uscendo fuori / il bianco corridor del primo canto”, cioè
l’“equus albus” di Apoc. 6, 2, su cui torna spesso Theol. XXV: ad es. a p. 141 dice che nel giu-
dizio universale Dio vuol “munire il principio potestativo dell’uomo mediante le vesti bian-
che”, affinché non appaiano le sue vergogne come fu con Adamo.
330 LA CITTÀ DEL SOLE
pere) e nei paramenti sacri (per lo stato religioso); a Doni invece l’accomuna
la distinzione per fascia d’età: i bambini hanno vesti varie.
38.14: semicothurnis
Traduce il “bolzacchino” (T.38.14), o, secondo l’unica grafia attestata dal
GDLI, ‘borzacchino’, cioè uno stivaletto che arriva a mezza gamba.
38.35: fontes,
Platone, Leg. 761b, 763d, 779c; Aristotele, Pol. 1330b; Vitruvio, VIII, 2, 1-4 e 6,
1; Columella, De re rust. I V, 2; Alberti, X V-XI; e, in particolar modo: More, 81;
Rabelais, I, 53 (per le grondaie) e I, 55 (per fontane e piscine).
40.9: horologia
La quattrocentesca Sforzinda di Filarete è sì costellata di banderuole, ma ha
pochi orologi. La proliferazione di sistemi di misurazione del tempo, oltre ad
esser funzionale alla vita conventuale dei Solari scandita dagli appuntamenti
collettivi (dalla refezione comune alla vigilanza, dalla preghiera con turnazio-
ne oraria permanente all’ingranaggio scolastico), trova una motivazione sup-
plementare in un secolo, che non a caso aveva riformato il calendario (v. n.
223
C. potrebbe averlo letto anche nella raccolta di Sansovino, Del governo dei regni e delle repub-
bliche così antiche come moderne, Venezia, 1578 (cit. da Ernst 1997a, p. 57).
332 LA CITTÀ DEL SOLE
114.1-5). Posti fra gli esempi ‘Della possanza dell’uomo’ (Poesie, 43-5: “Dà al ra-
me lingua, perc’ha divina alma”), i primi “horologia sonnantia sponte” (Art.
proph., p. 283), cioè che battono le ore, risalgono alla fine del XIV sec. Ma la lo-
ro costruzione ebbe notevole sviluppo, prima in seguito alle esplorazioni geo-
grafiche (il rilevamento della longitudine richiede la conoscenza dell’ora in un
meridiano-base), e poi alle osservazioni astronomiche, e fu proprio l’astrono-
mo Galilei a scoprire l’isocronismo del pendolo (cfr Rossi 1971, p. 43-4; Storia
della tecnologia III; Sobel, p. 33-5). Questi orologi però non avevano per nulla
soppiantato le meridiane (“l’orologio significa lo spazio del moto solare” [Tito-
li, p. 291]), su cui ancora a fine Seicento uscivano importanti trattati e realizza-
zioni pratiche. Carlo Carafa, “appassionato di astronomia e matematica”, non-
ché vicerè di Sicilia (Guidoni Marino, p. 422-4), pubblica un Exemplar horologjo-
rum solarjum civilium (Mazzarino, 1692). ‘Il Giornale dei Letterati’ di Parma, re-
censendo qualche anno prima una sua opera, scriveva che Carafa simboleggia-
va “il Principe nell’orologio solare, che diretto dal Sole, dirige le operationi de
mortali, e così il Principe ben regolato da Dio, ben regola i popoli”. Un ultimo
dettaglio: è lui l’ispiratore della pianta di Grammichele, una ragnatela radio-
centrica ottagonale, con un’enorme meridiana orizzontale, posta proprio al
centro della piazza sempre ottagonale, la quale fungeva appunto da catino del-
lo gnomone (per questa peculiarità si è fatto inutilmente il nome dell’utopia
campan. [Guidoni Marino, p. 424-5]). Un’altra struttura poligonale (esagona-
le), l’anti-abbazia di Thélème, abolisce gli orologi: “Siccome negli Ordini di
questo mondo tutto è… regolato ora per ora, fu decretato che in quel conven-
to non vi sarebbe né orologio né quadrante di sorta, ma che si assolverebbe ad
ogni opera secondo le occasioni e opportunità; perché (diceva Gargantua) il
più fiero perditempo che lui conoscesse era quello di stare a contare le ore” (I,
149).
no alli vent’uno anno [sic] non è ben cotto perfettamente il seme del maschio,
grosso et viscoso, che si possa in ossa et nervi ben distendere et addensare: on-
de quel de giovani è simile al donnesco, acquedoso et liquido, perché il calore
non è tanto che faccia svaporare il sottile et rendere costante et saldo il rima-
nente” [Epilogo, p. 445]; ma l’ideale sarebbe dopo i ventisette anni (42.2; Oecon.
II XIII, p. 193). Questa teoria, che C. attribuisce a “Platone e Aristotele” (Mon.
Fr. VII, p. 462), richiamandosi rispettivamente a Leg. 772a e Pol. 1335a, è una-
nimamente condivisa: da Savonarola, I, 6 a Telesio, III, 33: “il feto non si forma
affatto, se il seme è o così liquido e rilasciato, come quello dei fanciulli, da of-
frire allo spirito che in esso si genera una via d’uscita, oppure… così denso, co-
me il seme dei vecchi, da non potersi sciogliere in fluidi” (p. 589). Invece la
donna, che ha vita più breve, è in grado di prolificare prima del maschio, e
cioè dopo i diciotto anni, corrispondente a un ciclo lunare completo (Epilogo,
p. 445; Medicina, p. 56).224 Naturalmente procreazione e sessualità viaggiano di-
stintamente, come distinti sono i codici erotici: nel maschio l’astensione dal
coito fino a ventuno/ventisette anni viene premiata (42.2); nella femmina vie-
ne imposta (40.13).
Nella restante bibliogr. presumibilmente nota a C. la fascia di oscillazione del-
l’età procreativa era piuttosto estesa: Giamblico [Theodoreto, p. 179] e Ocel-
lus, p. 54: non prima dei vent’anni maschio e femmina; Albertus, De animal. l.
9, tr.1, c.1, 16-27 ‘De principio generationis hominis quod est sperma maturum
circa vicesimum primum annum generantium’; l. 18, tr.2, c.9, 94: “puer et se-
nex propter humorem et cruditatem frequentius generant feminas”; Savonaro-
la, I, 6: “le femene al decimo suo octavo anno e in li maschi almeno il vigesi-
moprimo”; More, 176: diciotto lei e almeno ventidue lui; Patrizi, p. 107: uomo
trentacinque-quarantanove anni, donna diciotto-quaranta (consigliabili da un
punto di vista medico); Figliucci: limitare le unioni sessuali a precise fasce
d’età.
40.17: complexionis.
Il peculiare aspetto e struttura fisica di un organismo. In questo caso sono chia-
mati in causa i linfatici, dalla carnagione chiara (‘nivea’), segno di sangue im-
perfettamente elaborato. Il ‘temperamento’, ovvero la particolare mescolanza
e interazione fra le qualità elementari (= caldo, freddo, umido, secco) e gli ele-
menti (= fuoco, aria, acqua, terra), donde i quattro umori (= sangue, collera o
fiele, melancolia e flemma), genera una delle cinque principali ‘complessioni’
– le quattro derivanti dal prevalere di uno degli elementi, più una risultante
dalla loro perfetta contemperanza (SN XXXI LXVII-LXVIII e SD XIII VIII). I tem-
peramenti variano poi con il sesso, l’età e principalmente sono soggetti alle in-
fluenze astrali (con quel che qui segue da 42.26 in poi).225
224
In Quaest. pol. III, p. 9 e Quaest. pol. IV, p. 109 polemizza con i trentasette anni fissati da Ari-
stotele, reputandoli eccessivi specie per le regioni più calde.
225
Ad es. Filarete, p. 36: la vita di un individuo, come di un edificio, “molto proccede per la
334 LA CITTÀ DEL SOLE
compressione [= complessione] cioè d’essere nato sotto migliore pianeto o miglior punto”.
Per la teoria degli umori campan. basata sulla fisica dualistica telesiana, e non tetradica clas-
sica, v. n.88.39-40.
226
Si noti l’adiacenza fra la pena ai sodomiti Solari (40.28sg) e il divieto di pratiche sessuali
non- o addirittura anti-concezionali.
COMMENTO AL TESTO 335
cumque autem modo tale factum exerceatur, praeterquam inter hominem, sci-
licet marem et foeminam, ordinate et in vase debito, vitium contra naturam et
sodomiticum iudicatur” (Tommaso, 3SCG, 122 ad 5). “La natura volendo eter-
narci in qualche modo, ci donò quello stimolo di far figli e di gettar il seme in
un vaso dove si ammassasse e componesse un altro noi”, ma l’“amore” è ben al-
tro “ch’una foia di gittar il seme dovunque cada” (Lettere, p. 121).
Proprio in quanto espressione tecnica è suscettibile di riusi straniati, come in
Ferrante Pallavicino, la cui Retorica delle puttane [1642], così definisce la sined-
doche: “il tutto per la parte o la parte quasi il tutto, secondo l’aggradimento di
chi offre offrendo il genere per la specie, o il cambio di queste in quello nel va-
so proprio del sesso, o in quello commune della specie, conforme il gusto del
omo” (p. 60).
40.21: matronae
“‘Matrona’ si chiama la donna che ha contratto matrimonio, finché rimane in
tale stato, anche se non ha messo al mondo figli, e così viene detta dal vocabo-
lo ‘madre’, non essendolo ancora, ma avendo la speranza e la promessa di di-
venirlo presto” (Gellio, XVIII, 6). A volte è in sistema oppositivo con ‘mere-
trix’, come in Giovanni Crisostomo, Super Matth.: circa la moglie da scegliere,
“noli quaerere divitem… noli quaerere speciem [= l’aspetto fisico], quia mere-
trices quidem placent in specie, moribus autem matronae” (in SN XXX XXX-
VII). In CS l’opposizione è con ‘foemina communis’ (v. n. 44.18), e quindi, nel
contesto a-familiare della società solare, ‘matrona’ sta per donna di nobili co-
stumi destinata alla riproduzione.
40.22: veneris
‘Venere’ (replicata a 42.10 e 44.17) è un’antonomasia classica (Crisostomo, In
Caput III Epist. ad Romanos, Sermo VI [IV, 62A]: i Greci “concupiscentiam vo-
cant Venerem”); ma se si tiene conto della teoria delle età della vita (v. n. 36.3-
4), è sottintendibile anche un’allusione al pianeta che governa l’adolescenza,
da quattordici “usque ad annum 22”, quando Venere “ad coitum stimulat, inci-
tat insania miseraque cupidine versari in errore et caecitate” (Astrol., p. 194), fa
fiorire “il sangue nel seme… e aggiunge l’appetito di generare un simile, co-
nosciuta la propria mortalità” (Compendio LII, 13).
40.33: in capitalem
In Quaest. pol. IV scrive che nella Città ha “eliminato i vizi che derivano dagli
abusi della sessualità, come… le sodomie” (p. 101). Distrazione, oppure C. si il-
ludeva che le pene, magari debitamente inasprite (fino all’ultima red. italiana,
infatti, non c’era condanna capitale: v. 40.39 in ‘Apparato delle varianti di α’),
insieme alla relativa libertà sessuale vigente – fatta salva la procreazione rigida-
mente programmata –, avrebbe eliminato il ‘vizio contronatura’? O forse la so-
domia, come pratica non solo e tanto omosessuale ma antifecondativa (“Dio
predispone gli organi genitali dell’uomo per la generazione e invece l’uomo
non si procura la prole, ma il piacere sodomitico” [Theol. I (II, p. 159)]), era
una deriva probabile in una società dove appunto la procreazione era così
336 LA CITTÀ DEL SOLE
227
Metaph. XVI VII, III; Quaest. pol. IV, p. 29: “Si dixero bonum esse ambulare manibus et lyram
pedibus pulsare, nunquid non dicetis esse contra rationem?”.
228
Lerner 2001, p. 212 rinvia invece all’Homilia in Ps. CXX (PG LV, 344-7).
229
C. stesso si scagiona dall’accusa “che avesse fatto cosa di notte, la quale mi era impossibile,
perché non vedo troppo, e per non avere io stanza propria e stare in compagnia. Interrogate
chi stette con me, che se io peccai contra il prelato, essi pur peccaro” (Schoppe, p. 29; per que-
sto processo, cfr Firpo 1939, ora in I processi di T.C.; e i recenti ritrovamenti di L. Spruit, I pro-
cessi campanelliani tra Padova e Calabria: documenti inediti dall’archivio dell’Inquisizione romana,
‘B&C’, VI/1 [2000, p. 165-77]).
230
Firpo 1985: “Erano frequenti nei conventi del tempo, non meno che nelle carceri, i rap-
porti omosessuali” (p. 179); per Formichetti 1999 “è uno spaccato della vita carceraria e dei
338 LA CITTÀ DEL SOLE
comportamenti che vi si svolgono, anche con la corruzione dei secondini” (p. 115); Ernst
2002: tra le affermazioni eterodosse, emerse nelle deposizioni dei congiurati, riconoscibili
con molta probabilità come sue, vi è anche “la spregiudicatezza sessuale, che riecheggia an-
che possibili simpatie per la poligamia islamica, l’accettazione della sodomia, che in seguito
verrà duramente condannata nella CS” (p. 72); secondo Flamigni, questo dialogo tanto ri-
schioso quanto impraticabile, non può esser spiegato razionalmente: “per Pietro, ma soprat-
tutto per Tommaso, parlare d’amore era anche un modo di parlare d’altro. Era un modo per
chiedere aiuto e per offrirlo, per sentirsi meno soli, per salvare qualcosa dalle prove più se-
vere del carcere… E l’amore – sacro o carnale, che importa? – consolava C. nei giorni peg-
giori della sua prigionia” (p. 151).
231
Ocello ebbe grande fortuna presso i telesiani, come dimostra il ripetuto apprezzamento di
Persio 1575, ‘Praef.’ e n° 437.
232
In Mon. Sp. (XV, p. 134-8 e XXVII, p. 294) consiglia mescolanze di razze settentrionali e
meridionali, per il miglioramento della specie, oltre che per la stabilità politica del Regno
spagnolo (v. nn. sg e n. 132.6-13; cfr Fournel, p. 216-7, che rinvia anche a P. Darmon, Le mythe
de la procréation à l’âge baroque, Paris, Seuil, 1977, p. 142-55).
COMMENTO AL TESTO 339
233
Mon. Sp., p. 134sg; Oecon. II III, p. 192-3; Medicina, p. 71 e Quaest. oec. cit., negli ultimi due
casi rinviando proprio a quanto “docuimus in Civitas”.
234
Altri esempi di unioni psicosomaticamente incrociate per ‘far temperie’ a 46.1-5. Progres-
si decisivi in ambito embriologico non saranno registrati prima della metà del XVII sec. e la
ginecologia non è cambiata molto dal XIII sec.; tuttavia a partire dal 1550 si è prodotta un’in-
gente messe di trattati di ostetricia: “D’une part, ces traités mettent toujours plus l’accent sur
la complémentarité anatomique ‘nécessaire’ et finaliste des corps féminins et masculins, ima-
ge de la perfection harmonieuse de la nature, en conférant, sous l’influence de la pensée
galéniste, un rôle fonctionnel et actif aux femmes dans la génération (grâce à la semence fé-
minine). D’autre part, ils laissent une place importante aux circostances de l’acte sexuel, à
ses déterminations et conditionnements extérieurs, énumérables et donc contrôlables”
(Fournel, p. 214-5).
340 LA CITTÀ DEL SOLE
235
Precetti analoghi in Ficino, Vita sana XI, p. 32; Patrizi, p. 107; Zimara, p. 97; e Savonarola,
dopo aver ricordato i danni di una cattiva digestione dovuta al copulare a stomaco pieno, av-
verte: “O frontoso che, come vai a lecto la sera, tu apici cum la moglie la scaramuza, non ti
maravigliare se la matina la bocha ti saperà da ovi marzi e se ne la faza serai smerito e sotto li
occhi sbatuto. Guàrdate, guàrdate, e se pure gram voluntà te coglie, aricordate di dormire”
(p. 21).
COMMENTO AL TESTO 341
236
Giglioni (p. 38), che rinvia a D. Freedberg, Il potere delle immagini. Il mondo delle figure: rea-
zioni ed emozioni del pubblico, Torino, Einaudi, 1993.
237
Limitatamente a quelle attingibili da C.: Aristotele, De animal. hist. VII VI, 586; Aristotele,
Problemata X, 10; Plinio, Hist. nat. VII, 12; Plutarco, De Placitis V, 12; Agostino, De trinitate Dei
II, 2 e CD 12, 25 e 26; Scoto, III; pseudo-Galeno, De hist. phil. XIX XXXII, p. 327: “Saepe enim
imagines etiam et statuae sunt a mulieribus adamatae similisque earum proles in lucem edi-
ta”; Ficino [Niccoli], Amore; Savonarola (p. 13-4), dove tra l’altro, esorta le donne brutte in-
cinte a non guardarsi allo specchio; Aldrovandi, Monstrorum historia (a p. 327, Bartolomeo
342 LA CITTÀ DEL SOLE
sogna citare almeno: Tommaso, Quaest. disp. II, p. 543: “l’immaginazione è una
certa facoltà che risiede in un organo del corpo, grazie alla quale viene modifi-
cato, secondo la forma che è immaginata, lo spirito corporeo nel quale si
effonde la facoltà formativa, che nel seme produce il suo effetto; e perciò tal-
volta si attua nella prole qualche somiglianza dipendente dall’immaginazione
del genitore nell’atto stesso del coito, se quest’ultimo è potente”; Della Porta
spiega diffusamente e chiaramente il fenomeno: “È molto grande la forza del-
la imaginatione fissa, per modo che non la possiamo in tutto sapere. Quando
le donne son gravide, havendo desiderio d’una cosa, quella imaginatione alte-
ra gli spiriti interiori per modo che quella cosa desiderata et fissa nella imagi-
nativa si dipinge nel parto, il quale opera nelle carni tenerissime della creatura
e qui le sculpisce, così in perpetuo vi rimane quel segno… Plutarco in quel li-
bro del consenso de’ Filosofi, scrive che Empedocle fu di questa opinione che
la donna con la vista formava il figliuolo, percioché spesse volte le donne han-
no amate le imagini et le statue somiglianti alle quali hanno poi fatti li figliuo-
li… Gli uomini trovarono che nelle pareti delle stanze v’erano delle pitture le-
quali le donne guardavano fissamente, quando usavano con li mariti; delle
quali glie se imprimevano le imagini nella mente: e però si generavano i fi-
gliuoli a quelle somiglianti. Talché quel che è accastato [= accaduto?] ad altri,
giudico che si debba tenere a memoria, che giovarà assai e l’ho a molte perso-
ne detto, che tengano nelle lor camere figure belle, o sieno di scoltura, o pur
depinte, accioché le donne quando usano con li mariti, veggendo quelle belle
imagini, desiderino quella bellezza, e così faccino li figliuoli belli” (Magia, cap.
XXIII: ‘In che modo s’habbino a fare bei figliuoli’); Persio esorta le puerpere:
“principalmente con la fantasia forzinosi di contemplar oggetti nobili e degni,
sappiendo che in questo caso il proverbio si avveri: che l’immagination suol far
il caso” (pp. 90-1 e 97), cioè immaginarsi qualcosa, vuol dir spesso provocarla
(fortis imaginatio generat casum e con la sua proverbializzazione l’immaginazione
ha raggiunto il potere).238
L’immaginazione, per C., è uno dei ‘sensi non organici’ (memoria, compren-
sione, giudizio ecc.): “imaginatio est relictarum in memoria notionum per co-
niunctionem et divisionem et consimilationem nova ideatio” (Compendio XLII,
4). Attraverso questa facoltà non si crea nulla di nuovo (perché si limita a ri-
Ambrosini, l’allievo che curò l’edizione dell’opera, lasciata alla morte di Aldrovandi allo sta-
to di abbozzo [un ‘rudis fetus’ la chiama Ambrosini nel frontespizio], riporta la tassonomia
quadripartita delle epifanie teratologiche, adottata dal suo maestro: 1) mostri per eccesso e
per difetto; 2) i nati dall’accoppiamento di animali appartenenti a specie diverse; 3) quelli
causati dall’immaginazione e infine 4) quelli risultanti da cause extraterrestri [= “a causis
non sublunaribus”], ovvero celesti; a p. 445 si spiega cosa sia la ‘Vis imaginationis’, e come e
quanto “mulieres vehementius imaginantur”); Cardano, De rerum varietate; Telesio, e “la ver-
sione più aggiornata del galenismo”: i Physiologiae libri VII di J. Fernel.
238
Cfr ad es. Montaigne, L’immaginazione, p. 37, cit. da Griffero 2003, al quale si rinvia per
una esaustiva trattazione, in partic. al § 4.2 ‘Ex imaginatione natus: i (pessimi) dipinti dell’im-
maginazione materna’.
COMMENTO AL TESTO 343
239
In più occasioni accenna a questi fenomeni ‘immaginativi’: Phil. sens. II disp. ‘De princi-
piis generationis foetus’ (p. 215sg); Senso, pp. 272 e 305; Medicina, p. 73; Theol. XIV, p. 171-3;
Oecon. IV I; Physiol. XVII I; Quaest. Phys. XXXV II.
240
“Il fegato non è solo un laboratorio in cui si produce il sangue, ma è anche una sorta di
centrale di smistamento delle immagini: le più violente vengono addolcite, alcune sono trat-
tenute, altre respinte” (Giglioni, p. 44).
344 LA CITTÀ DEL SOLE
241
In Syntagma II VI, del resto, dichiara l’eccellenza di Tolomeo: “in astrologia Ptolemaeus
praecellit. Arabes copiosiores quidem sunt, sed magis superstitiosi”; altre sue fonti sono ap-
punto gli Arabi, Re Alfonso, Cardano, Tycho Brahe e gli scritti ermetici.
242
Circa Vergine in Ascendente (v. n. 44.1a), si tenga presente che Albumasar attribuiva a
questa configurazione la nascita di Cristo, confutata da Pico (I, p. 607), perché la Chiesa ha
stabilito che era nato a mezzanotte.
COMMENTO AL TESTO 345
trettanto vero che le sue evoluzioni durante il periodo di gestazione non ne al-
terano la primordiale natura, perché seguono lo schema fissato al concepi-
mento” (p. 418). Ma non per questo l’ostacolo veniva meno, e anzi diventava
un grimaldello per scardinare la fede negli astri: a coloro che “dicono che se si
riuscisse a scoprire l’ora del concepimento, se ne potrebbero trarre molti e più
ispirati responsi”, Agostino ripropone il caso emblematico dei gemelli di sesso
diverso, pur essendo stati manifestamente concepiti insieme (CD 5, 3 e 5, 5).
Perciò, alle soglie del Cinquecento, un altro irriducibile avversario dell’astrolo-
gia poteva constatare che “sull’inizio fatale dell’uomo, se pur ve n’è uno, sorge
un’incertezza grande e necessariamente inestricabile”, ed elenca una decina di
possibili ‘inizi fatali’, dal coito alla nascita, momento quest’ultimo “più facile a
determinarsi, [e] per questo [gli astrologi] lo considerarono il principale”,
malgrado Tolomeo “conceda più alla concezione che alla genitura, ancorché
abbia fatto molti tentativi per sostenere la tesi dell’importanza della genitura”
(Pico, II, p. 157-63). Anche Della Porta, che è un convinto avversario dell’a-
strologia (Celeste II IX, p. 24-6), concede quest’unico spiraglio per la pratica
astrologica: gli astri possono influire solo al momento in cui si mescolano gli
elementi (acqua, aria, terra, fuoco) dell’embrione, e dunque l’oroscopo, per
aver senso, andrebbe calcolato al momento del concepimento, non della na-
scita quando l’organismo composto è già formato: “E di qua si conosce quanto
sia vana e cattiva l’opinion degli Astrologi, che considerano la costellazione
dell’uscita del figlio dal ventre materno, a tempo ch’ella ha preso già i suoi co-
stumi dal temperamento dello Embrione. Che se si pigliassero il ponto del ca-
dimento del seme nella matrice, forse dal seme paterno, dal sangue mestruo di
che si ciba, e dalla costellazione prevalente in quel corpicello, direbbono qual-
che verità” (Fisonomia I XX, p. 135-6).
Il tardo C., invece, non considera più l’oroscopo genetliaco un ripiego rispetto
a quello del concepimento, ma l’unico valido, perché prima della nascita il fe-
to è solo un’appendice materna,243 e quindi bisogna calcolarlo solo quando il
neonato comincia a respirare (Astrol. IV II, p. 119: “debet horoscopus capi… a
tempore cum incipit respirare”). La coeva Civitas tuttavia non viene aggiornata
(anche 108.9 replica “l’ore della generazione” di T.108.7), anzi lo ribadisce a
86.24, passo assente in Città. Tuttavia forse non si tratta di una vera contraddi-
zione (fra teoria reale e pratica ideale), perché quel paragr. III ‘In generatio-
ne’ di Astrol., cit. all’inizio, consiglia di consultare le stelle non solo in occasio-
ne delle nozze, ma anche dell’amplesso, per giunta quasi con le stesse parole
(“Et si cupis filium sapientem elige Venerem et Mercurium orientale in bono
aspectu…”); però con questo monito: far in modo che questa configurazione
astrale si verifichi nove mesi dopo: “Cum vis coitu uti, et futuri nati scire, vel
cooperari fortunae, computa motus planetarum in 9 futuro mense” (p. 219). A
243
Dal punto di vista astrologico, non teologico: “Rationabiliter Astrologi ex nativitate iudi-
cium exordiuntur, quoniam non est per se homo qui prius erat pars matris, eius fato subiec-
tus; et in conceptione fuerat animal, non homo” (Physiol., in Epilogo, nota p. 441).
348 LA CITTÀ DEL SOLE
trambi gli oroscopi si capisce qual è l’accortezza da tenere: evitare che i Malefi-
ci in angolo siano in aspetto infausto con i Luminari; ovvero: di tutte le combi-
nazioni possibili, assolutamente non deve verificarsi che Saturno/Marte siano
in quadratura o opposizione con Sole/Luna.
zione per il ruolo o il tipo di lavoro (specie per l’effetto congiunto di Venere e
Mercurio [Astrol., p. 181]).
Altre distinzioni fra i pianeti prese in considerazione in Civitas: Saturno, Giove,
Marte maggiori, lenti, superiori; Mercurio, Venere: minori, veloci, inferiori –
attributi che riguardano rispettivamente la grandezza del pianeta, la durata
della rivoluzione e la posizione dell’orbita, se esterna o interna a quella solare.
244
Ogni autore ha un suo schema di domificazione, come si può vedere ad es. in Pico, che ne
elenca svariati (II, p. 317-9).
COMMENTO AL TESTO 351
44.1: aphetae
“Dignoscitur vita ab aphetico loco et a dominis illius” (Astrol., p. 128): quando,
oltre al caratteriale, si vuol fare un oroscopo previsionale sulla durata della vi-
ta, si guardano i luoghi afetici. Luoghi afetici (etimologicamente: ‘datori di vi-
ta’, “e che in latino si potrebbero dire dimissori… perché di lì come da un car-
cere il corso della vita trae inizio” [Pico, I, p. 149]; aneretici, all’opposto, i ‘da-
tori di morte’) sono quelli che ospitano il pianeta che presiede all’impulso del-
la vita (Astrol., p. 128; da: Tolomeo, Tetrab., p. 219). Essi sono cinque, in questo
ordine d’importanza: Medium Coeli, Ascendente, le case 11, 7 e 9. In pratica:
la prima casa 5° sopra e 25° sotto Ascendente (secondo la domificazione qui
adottata [v. n. 42.1]); l’arco posto a 60° dal precedente nel senso del moto
diurno (11a casa); quello a 90° (contenente il Medium Coeli); quello a 120° (9a
casa) e infine quello in opposizione a 180° (7a casa con Discendente). L’influs-
so più forte spetta al Medium Coeli.
Anche gli afeti (“o distributori, che da tali luoghi, come da carceri, col loro sof-
fio – per così dire – largiscono l’impeto di vita” [Pico, ib.]) sono cinque: i due
luminari (= Sole e Luna [42.31]), l’oroscopo (= Ascendente), la Fortuna (uno
dei punti sensitivi: v. n. 44.2-6), il luogo del plenilunio o del novilunio imme-
diatamente precedente e i loro rispettivi signori:245 ad es., per la teoria tole-
245
Cioè i cinque pianeti che “in quei cinque luoghi hanno diritto e autorità”, secondo la dot-
trina di “Haly Abenragel [= Albohazen, De iudiciis astrorum IV, 3], oracolo degli astrologi di
questa età” (Pico, I, p. 147).
COMMENTO AL TESTO 353
44.1a: Virginem
Vergine (prediletto dai Solari nella nascita degli individui e nella fondazione
delle città [86.21]), segno zodiacale dell’Au. nato il 5 settembre (Astrol., p.
246
Nallino stesso deve confessare: “Doctrina directionis, usum astrologicum quod attinet,
summopere obscura et intricata est” (cit. da Garin 1952, p. 550). Tolomeo la calcola sempre
dal Sole verso la Luna (Tetrab. III, 12); altri seguono vari metodi, esposti da Pico (II, p. 145).
354 LA CITTÀ DEL SOLE
170), fa ottimi matematici, astronomi, adatti agli studi dotti e ingegnosi (Astrol.
II III: ‘De moribus gentium ex signorum dominantium natura’).
I segni sono compresi in una fascia di dodici costellazioni, determinata dal pia-
no dell’eclittica, cioè il percorso annuale del Sole secondo il sistema geocentri-
co; partendo da Ariete, vi sono dodici archi di circonferenza di 30° (il tragitto
mensile del Sole), che si costruiscono così: semplificata la sfera celeste a cer-
chio, la si divide in due (un semicerchio visibile e l’altro invisibile) attraverso
un asse orizzontale, che è il piano dell’orizzonte di quel certo luogo (per la
Città del Sole esso coincide con il piano dell’equatore [2.10]) ad una certa ora:
ai suoi estremi ci sono a sinistra, contrariamente alla convenzione geografica,
Ascendente=Est e all’estremità opposta Discendente=Ovest; il piano orizzonta-
le è intersecato da un asse verticale mediano, determinato dal meridiano del
luogo, il cui estremo superiore è Medium Coeli = ‘quel che culmina allo Zenit’,
e l’estremo inferiore della verticale dell’osservatore è Imum Coeli = ‘quel che
non si vede al Nadir’.247 I segni si distinguono, secondo diversi aspetti della lo-
ro natura, in:
– “communi” (Senso, p. 322), “id est medietas eorum erit unius temporis et
medietas alterius” (SN XV XL): Gemelli, Vergine, Sagittario, Pesci (ad es.
quando il Sole è in Gemelli, per metà tempo è primavera e per metà estate);
– fissi (86.3) o cardinali (110.16): Toro, Leone, Scorpione, Acquario (auspica-
bili nelle fondazioni perché definiti anche ‘solidi’), detti così perché la sta-
gione è costante (il Sole in Toro cade in pieno ed esclusivo periodo prima-
verile);
– mobili: Ariete, Cancro, Bilancia, Capricorno si dicono mobili, perché quan-
do vi entra il Sole, cambia la stagione (ad es. il Sole in Ariete indica il pas-
saggio dall’inverno alla primavera);
– maschili: Ariete, Gemelli, Leone, Bilancia, Sagittario, Acquario; e femminili
(150.5): Toro, Cancro (138.12), Vergine, Scorpione, Capricorno, Pesci;
– infine, in base agli elementi, segni di terra: Toro, Vergine, Capricorno; di
fuoco: Ariete, Leone, Sagittario; di aria: Gemelli, Bilancia, Acquario; e di ac-
qua: Cancro (138.14), Scorpione, Pesci.
Inoltre in cielo sono convenzionalmente distinte altre trentasei costellazioni
(44.11), esterne alla cintura zodiacale: ventuno boreali, quindici australi
(Astrol., p. 20-1).
44.1b: horoscopo
In generale: tema di natività o schema che riproduce graficamente una situa-
zione celeste spazio-temporalmente determinata, all’atto della nascita di un in-
dividuo (Astrol. IV I, II: ‘De horoscopo’); in partic., come in questo caso, indica
l’Ascendente, e quindi il segno zodiacale intercettato dall’orizzonte (Astrol., p.
247
Il meridiano comprende, ma non coincide con Nadir e Zenit, salvo all’equatore, al con-
trario di quanto pensa C.: “prima quarta incipit ab angulo orientali horizontis usque ad ze-
nith, seu medium coeli” (Astrol., p. 31).
COMMENTO AL TESTO 355
248
Ma il più completo sistema di corrispondenze è in Medicina V III, I e sg: ‘Ex rerum generi-
bus unicuique sideri attributarum et homines eisdem correspondentium, itidem philo-
sophandum esse Medico…: et primo quae stellae, qui homines, quae partes hominis, quae
animalia, quae plantae, quae mineralia, qui lapides, qui colores, odores, sapores, qui come-
tae et eclipses et aëris constitutiones tribuantur’ a partire da Saturno; interesse speciale rive-
ste il cap. ‘De Solarium ordinibus’ (V V, II): i tratti dei ‘solari’, cioè di quelli dotati della natu-
ra del Sole, sono: “animo ampli, magnanimi, reges secundum naturam, qui plus amant to-
tum quam partem, benefici sunt toti genere humano, religiosi, liberales, ambitiosi, cunctis
scientiis delectantur; omnia movent grandia negocia… Sunt corpore grandiusculo, bene
commensurato, capillitio pulchri saepeque flavi, qualis David in S. Scriptura describitur; na-
so simi, oculis acutis et mediocribus, interdum glaucis, claris, spissa barba, iunctis superciliis,
splendidi colore, albo, roseoque”.
356 LA CITTÀ DEL SOLE
presente: ora, se la perfezione delle parti non ripugna a quella del tutto, ma
anzi col tutto anche le parti vengono meno” (III XXI [I, p. 371]), non può es-
serci un astro dominante che alteri questo bilanciato equilibrio di influssi, per-
ché le stelle in sé, e quindi i loro influssi, sono sempre benigne, e obbediscono
a un principio di armonia generale, che può esser alterato solo dalla materia
inferiore o dalla nostra volontà. Insomma, la stella non rafforza (o indebolisce)
un elemento a scapito degli altri, perché ciò squilibrerebbe l’armonia del tut-
to. Il che implica che è generalmente ammesso – anche dai detrattori dell’a-
strologia – che il cielo, “sommo fra tutti i corpi”, è un sistema armonico, la cui
regolarità è la risultante di una complessa geometria di rapporti e influssi fra le
sue parti; e quindi ogni singolo evento è da iscrivere all’interno di questa tra-
matura, fitta e invisibile che avvolge il mondo e i suoi abitanti.
Fatta questa premessa, passiamo al problema interpretativo del passo in que-
stione: “e quibus radix vis vitalis et fortunae ab harmonia totius et partium uni-
versi pendet”; a livello grammaticale, il latino compatta la frase di Città (ms L.)
in una sola proposizione, che, per il verbo alla terza singolare (= “pendet”), ac-
cetta quest’unica lettura: proprio dagli angoli dipende la radice della virtù vita-
le e della fortuna, relazione particolare dell’universale armonia cosmica (raro,
ma attestato – “scritt. giurid. II-III sec.” [Calonghi] –, l’uso del genitivo ‘vis’).
Questa è la parafrasi. Adesso tentiamo un’interpretazione: gli influssi angolari
[celesti] segnano così profondamente da marchiare una vita e un destino
[umano], a causa del rapporto micro/macrocosmo; quindi non c’è da stupirsi
che corpi celesti (così lontani, così eterogenei da noi) posti in certe posizioni
‘cruciali’ abbiano degli effetti così ‘vitali’ sugli uomini, per giunta embrionali:
ciò dipende dal fatto che nell’universo ‘tout se tient’, e che la ‘particella’ uomo
non è altro che il frutto della totalità del sistema di corrispondenze universali.
I quattro assi celesti (Ascendente, Discendente, Imum Coeli, Medium Coeli)
sono proprio le coordinate che scrivono e in cui si iscrive il tracciato vitale di
ogni individuo: l’afeta e la Parte della Fortuna, che determinano durata e qua-
lità della vita.
Ora dovrebbe esser chiara anche la ragione del (reiterato) intervento ‘comple-
tivo’: può sembrare curioso che C. abbia scomodato il macrocosmo (= l’armo-
nia universale), quando sta enfatizzando una sua parte (= gli angoli). Ma l’ha
scomodato per dire che tutto il cielo ha sì effetto su tutto e tutti, però non allo
stesso modo: il Sole, ad es., che è la causa universalissima, illumina ugualmen-
te tutta la Terra, ma in un emisfero è estate, in un altro inverno ecc. “Effectus
generalis a coelo nullus potest in toto mundi inferiori simul unus et idem acci-
dere, nisi totum coelum simul et ubique suarum partium agat idem” (Astrol., p.
55). Il cielo produce gli stessi effetti solo lì dove agisce nella sua totalità e nelle
sue stesse parti allo stesso modo. Quell’“ab harmonia totius et partium univer-
si” implica dunque che, premessa o fatta salva la teoria ‘sistemica’ delle cause
astrologiche, per cui bisogna considerare la rete complessiva di rapporti e cor-
rispondenze, vi sono poi alcuni nodi di questa rete particolarmente sensibili,
come gli angoli, i quali comunque sono sempre subordinati alla potenza del
tutto, e quindi non sono le uniche, assolute e ovunque uguali cause determi-
nanti il destino individuale: “La purità natia dunque si tira / dall’armonia del
COMMENTO AL TESTO 357
mondo e d’ogni corda, / che vario suon disserra, / tesa in cielo ed in terra; / e
chi sa ingenerarla, a lor s’accorda, / dove, onorato, Dio sua grazia aspira”, così
parafrasato da Giancotti: “E chi cerca e sa contribuire a produrla, in tanto rie-
sce a tale effetto, in quanto si pone in accordo con l’armonia del mondo, là do-
ve Dio, onorato da tale ricerca, ispira la sua grazia”; e così autocommentato dal-
l’Au.: “Assai difficile è a dire come dall’armonia del cielo e della terra e delli se-
condi enti co’ primi avviene la purità dello spirito sensitivo, e come si può far
generazione perfetta sotto certi luoghi e stelle e tempi, secondo che l’autore
scrive nella Città del Sole. E che Dio, onorato in cercar la sua grazia per ragion
naturale da lui seminata, infonde il suo aiuto, ed unisce l’anima immortale a
spirito puro, e fa uomini divini” (25, Madr. 5, 1-6 ed Esp.; a quest’importante
passo di CS rinviano altresì: Metaph. XVII II, I [III, p. 317]; Art. proph., p. 93 e
Theol. IV I, p. 13).
L’idea di un’interdipendenza e di una corrispondenza universale è talmente
radicata in ambito neoplatonico, che anche un avversario dichiarato dell’astro-
logia, come Pico, la condivide (replicandola sovente: I, p. 371-3; II, p. 211-5);
ed anzi direi che se non è l’ispiratore diretto, il passo che segue (II, p. 461-3) è
un ottimo riscontro e commento delle contorte e sibilline parole campan. (e
può quindi giustificarne la lunghezza): Pico attacca lo statuto scientifico dell’a-
strologia, dicendo che essa non è una scienza sperimentale, perché non si veri-
fica mai “un totale ed assoluto ripetersi di tutta la situazione celeste”; gli astro-
logi però controbattono che ci si può contentare di rilevare anche solo mede-
sime situazioni particolari “e quando ciò sia accaduto più volte, l’osservazione
ripetuta darà l’esperimento”. Difesa debole e incoerente, “sia perché la mede-
sima situazione particolare opera in modo diverso se si trova in un diverso in-
sieme; sia perché la sostanza di tutto il pronostico non dipende tanto dalle par-
ti quanto dal tutto, ossia dall’armonia di tutte le parti insieme, che opera qual-
cosa di peculiare e di proprio, che non farà alcuna delle parti per sé presa e
neppure tutte insieme, dal momento che una cosa sono tutte le parti, e un’al-
tra quel che risulta dalla proporzionata combinazione di tutte. Sarà dunque
imperfetta tale osservazione con cui raccolgono i loro esperimenti. Sarà infatti
imperfetta in quanto in nessun modo può considerare la totalità, e fallace in
quanto non considera sempre nello stesso modo la medesima parte. E su que-
sta ragione nessun altro insiste con tanta forza d’argomenti quanto gli astrolo-
gi, i quali affermano che tutto avviene secondo le combinazioni stellari, e non
secondo le virtù proprie di ciascun astro, ma dal complesso, insieme unito, di
tutte, onde la determinazione del fato scaturisce da tale fusione” (v. n. 108.7-8).
L’altra teoria sottesa è quella enunciata in Antiven.: “li medesimi influssi e au-
spici operano nello crescimento e corso delle cose, che furono nella funda-
zione” (p. 145), e sintetizzata dal termine “radix”, che ricorre spesso in
Astrol., alludendo al tema natale, cioè all’origine dell’esistenza: “omnes con-
figurationes significantes aliquid boni, vel mali in radice, ut epilepsiam, di-
gnitatem etc.”, cioè tutte le figure astrali significative per il destino indivi-
duale, si ritrovano anche in successivi momenti dell’esistenza, ma “non ta-
men efficaciter operantur, nisi in radice praecesserint: tunc enim validus ef-
fectus erit” (p. 209); “in radice”, cioè ‘all’origine’, che, per i Solari, è il con-
358 LA CITTÀ DEL SOLE
249
Topico in ambito astrologico, secondo la testimonianza di Pico: i pianeti “diffondono a
guisa di profumo le qualità dello Zodiaco, in cui sono dispersi i semi delle cose” (II, p. 41).
COMMENTO AL TESTO 359
hoc nullus planeta inferior agere potest in haec terrena, nisi per virtutem sui
superioris, nisi superior agere potest in haec terrena, nisi mediante suo infe-
riori” (l’interdipendenza universale era dunque spiegata con l’ingranaggio
delle sfere celesti: la sfera superiore muove l’inferiore; e così il pianeta che sta
sopra attiva quello inferiore, e anzi senza questi pianeti intermedi i pianeti su-
periori non potrebbero agire sulle cose terrestri). Secondo Persio, il modo
d’essere del nostro spirito non dipende tanto da “un pianeta che ad un altro,
ma a tutto il cielo noi sottometterci, da cui siamo per ricevere i beni celesti,
cioè lo spirito depurato” (p. 37). Cruciale ne è pertanto l’atto di nascita, come
ribadisce il Nostro: “Considerabis caeli in tua genesi constitutionem et aphe-
tas, ut intelligas quibus iuvatur quibusque tua laeditur temperies… Progressus
et fines rerum in principiis latent, sicut calefactio in calefaciente: principia au-
tem ex tota rerum serie et universitate; non enim agunt particulares causae,
nisi cum universalibus, cum quibus faeliciter et sine quibus infaeliciter proce-
dit effectus. Igitur caeli et mundi constitutionem in exordiis rerum, actionum
et morborum spectes, oportet” (Medicina, p. 58): importanza delle ‘origini’ (a
tutti i livelli: soggetti, azioni, malattie); la genesi, l’embrione delle cose è l’ul-
timo anello di una concatenazione totale e universale di cause, perché le cau-
se particolari non agiscono senza le universali – e gli influssi astrali rientrano
in quest’ultima categoria –: per cui se le cause universali saranno propizie, es-
se si riverbereranno anche nell’incipit. Donde l’importanza dell’osservazione
degli astri ad ogni genesi, perché l’atto d’inizio contiene ‘in nuce’ lo sviluppo
di ogni cosa.
44.3: in angulo,
Una volta fissato l’oroscopo, cioè quel punto dello zodiaco (ovvero dell’eclitti-
ca) che sorge all’orizzonte (detto perciò anche ‘oriens’, o Ascendente), nell’i-
stante determinato (es. della nascita), si determinano anche gli altri tre angoli
o cardini del quadrante in cui si legge il pronostico: ‘occidens’ o Discendente
è quello opposto, mentre il “Medium Coeli” è l’intersezione del piano zodiaca-
le con il meridiano superiore e l’“Imum Coeli” l’intersezione con il meridiano
inferiore.
Ai quattro punti cardinali celesti e perciò detti anche ‘cardini’,250 le forze astra-
li sono potentissime (Astrol., p. 32).
44.7: satellitium,
C. chiama “satellizio” (T.44.9, derivato da Tolomeo, Tetrab. IV, 3) un aspetto fa-
vorevole determinato da una concentrazione di più pianeti, che può verificarsi
anche in due segni contigui (es. a 86.5-6: quello di Giove in Leone con Mercu-
rio e Venere in Cancro), purché entro uno scarto angolare di circa 10° (Astrol.
250
Ascendente = Est; Discendente = Ovest; Imum Coeli e Medium Coeli sono le opposte cul-
minazioni del meridiano del luogo con l’eclittica, che solo all’equatore corrispondono ri-
spettivamente al Nadir e allo Zenit (invece per C. sono, erroneamente, sempre tali).
360 LA CITTÀ DEL SOLE
IV II, I: ‘De parentibus nati’). Gli effetti dipendono dalle caratteristiche dei pia-
neti coinvolti: può aver rilevanza l’ubicazione nel grafico oroscopico, perché
influenzano particolarmente gli effetti di una casa.
Della concentrazione planetaria terrà altresì conto per la fondazione (86.7),
ma non per la legislazione della città.251
La definizione di ‘satellizio’ data da Amerio (“influsso astrologico proveniente
dalla disposizione dei satelliti sotto un pianeta principale”), basata su Astrol. IV
XIV, II, p. 173sg, e passata in GDLI (che riporta l’attestazione di Città) non è va-
lida, perché i primi satelliti (di Giove) furono scoperti solo nel 1609 da Galilei,
ed inoltre erano chiamati ‘pianeti’252 e “astra” da C. (“astrorum mediceorum”
[Lettere, p. 161]); infine in 86.7 a ‘far satellizio’, appunto in occasione di fonda-
zione di città, sono Mercurio e Venere. E del resto in Astrol. si dice espressa-
mente che dei quattro satelliti di Giove e dei due di Saturno, scoperti col tele-
scopio, poiché agiscono di conserto al loro pianeta, “non est de ipsis doctrina
in Astrologia nostra” (I, p. 12).
44.9: princeps
Ogni pianeta percorre l’intera fascia dei segni in un periodo che varia dai 27
giorni della Luna ai circa 30 anni di Saturno. Per una rete complicata di analo-
gie e corrispondenze, essenzialmente e tradizionalmente basata
sull’affinità/eterogeneità dei quattro elementi naturali (acqua, aria, terra, fuo-
co), ogni pianeta esercita una propria potestà (o signoria, o principato – “prin-
ceps”) in un determinato segno; o, viceversa, in un cert’altro segno non è in
grado di esercitarla a pieno o affatto. Tali “potestà” (156.1) sono i gradi e i tipi
di dignità o dignificazione che un pianeta raggiunge in un certo segno. Esse so-
no sette, cioè in ordine d’importanza: “Domus, ubi sunt tanquam in sua domo;
Trigonus ubi tanquam in familiaribus; Exaltatio, ubi tanquam in regno”, e poi:
Terminus, Carpentum, Persona, Gaudium (Astrol., p. 33). Le principali, e men-
zionate in Civitas, sono le prime tre, e la prima e la terza costituiscono una dop-
pia coppia oppositiva:
• esaltazione: un pianeta è definito in esaltazione, quando sprigiona il suo po-
tenziale massimo in un certo grado del segno zodiacale che lo esalta, per-
ché, secondo Albumasar, è in quel grado che i pianeti furono formati, e dà
luogo a grandi mutazioni: Sole nel 19° di Ariete, Luna nel 3° del Toro, Sa-
turno nel 21° della Bilancia, Giove nel 15° di Cancro (152.19-22), Marte nel
28° di Capricorno, Venere nel 27° dei Pesci e Mercurio infine è in esaltazio-
251
Ne tratta Astrol. (p. 221), in cui curiosamente tale concentrazione è contemplata proprio
per il tema natale: cfr IV, p. 121 e VII, p. 14, con esplicito rinvio alle pratiche astrali prenata-
li dei Solari: si esorta la coppia “alla fecondazione quando i Luminari sono angolari con ag-
gregati pianeti benefici… secondo quanto trattato in Civitas Solis”.
252
A partire dal frontespizio del Sidereus, Venetiis, Th. Baglionum: “…in QVATVOR PLANE-
TIS circa IOVIS Stellam…”.
COMMENTO AL TESTO 361
ne nel 15° di Vergine (SN XV XL);253 per contro è definito ‘caduta’ il segno
opposto al segno dell’esaltazione (Mercurio in Pesci), in cui l’influsso del
pianeta si affievolisce;
• domicilio: da non confondere con la Casa come ‘locus’ celeste, il domicilio
è il rapporto fra la Casa e il pianeta che vi può godere come padrone (= do-
minus); è il segno che il pianeta controlla e nel quale si trova nel suo am-
biente favorevole, perché lì si trovava al momento della creazione del mon-
do: Cancro è domicilio della Luna, Leone del Sole; gli altri pianeti ne hanno
due, uno diurno, primario, in cui è stato creato e l’altro secondario, nottur-
no: Mercurio Vergine e Gemelli, Venere Bilancia e Toro, Marte Scorpione e
Ariete, Giove Sagittario e Pesci, Saturno Capricorno e Acquario; esilio è il se-
gno opposto al domicilio, dove l’attività del pianeta è ostacolata (per Mer-
curio: Sagittario e Pesci);
• triplicità è la terza, per ordine e importanza (Astrol., p. 39-40), delle ‘dignità’
dei pianeti; detta anche Trigono (sostantivo), non va però confusa con l’o-
monimo aspetto (aggettivo), anche se si chiama così proprio per la distanza
angolare, ma non dei pianeti, bensì dei segni: esso è infatti ognuno dei quat-
tro triangoli equilateri inscritti nel cerchio zodiacale, i cui vertici toccano i
tre segni collocati a 120°, uno cardinale, uno mobile e uno fisso:
1. Ariete(-Leone-Sagittario): igneo (segni del fuoco), maschile, diurno, in
cui dominano il Sole di giorno e Giove di notte;
2. Toro(-Vergine-Capricorno): terrestre, freddo, secco, in cui dominano Ve-
nere e la Luna;
3. Gemelli(-Bilancia-Acquario): aereo, maschile, diurno, dominato da Satur-
no e Mercurio;
4. Cancro(-Pesci-Scorpione): acquatico, femminile, notturno, posto sotto
l’egida principale di Marte, che la spartisce di giorno col Sole e di notte
con la Luna (Astrol., p. 39-40; il Liber Hermetis XXXV, 23 pone invece Ve-
nere di giorno, Marte di notte).
In quest’ordine ogni duecento anni un trigono succede all’altro, e con il mu-
tare della natura dei segni (fuoco, terra…) in cui avvengono le grandi con-
giunzioni, si determinano le sorti delle nazioni, religioni ecc., perché ogni tri-
gono ha maggiore influenza su certe regioni, forme di governo, religioni ecc.:
ad es., quando i pianeti maggiori sono congiunti in un segno del trigono di
fuoco, viene nel mondo la pace per il dominio di Giove e del Sole (l’impero ro-
mano, con Giulio Cesare; la legge di Cristo e la monarchia sacerdotale [Astrol.,
p. 66; v. n. 160.1-2, § 2.2.2]).
In generale si può dire che quando un pianeta è dignificato, cioè assolve una
253
Astrol., p. 38; Astrol., p. 156: “in Virgine enim vis Mercurii geminatur”. Non bisogna
confondere l’esaltazione con l’apogeo del pianeta, come fa Plinio, II, 16 e 63-8, e, seppur
problematicamente, C. stesso (frutto di tale confusione potrebbe essere, ad es., quella strana
‘simpatia apsidale’ di 120.36sg [v. n. 122.1]), che ipotizza un legame fra l’‘altitudo’ astrologi-
ca e quella astronomica, perché l’apogeo riguarda la distanza dalla Terra o dal Sole, mentre
l’esaltazione è una relazione con lo Zodiaco.
362 LA CITTÀ DEL SOLE
delle sette condizioni di signoria di un segno, è anche signore della casa corri-
spondente (nel nostro caso: se una casa ha la cuspide in Scorpione, che è il do-
micilio di Marte, signore di quella casa sarà Marte); esistono due tipi di pianeti
dominanti: quello che presiede alla genitura, più dignificato perché angolare,
in casa propria, meglio collegato col Sole (in questo caso [42.28] la dominanza
del tema natale è ripartita fra Mercurio e Venere, pianeti assistiti, e quindi am-
plificati, da Giove); altro pianeta, invece, è quello che domina sulla durata del-
la vita (44.1: afeta): per le nascite diurne il Sole, per le notturne la Luna.
254
Ad es. in SN XV L ‘Reprobatio fatalis constellationis’: “bisogna guardarsi dal cadere nel-
l’errore degli oroscopi genetliaci, ed evitare di attribuire vanamente necessitati fatalium con-
stellationum quanto è di pertinenza invece del libero arbitrio”.
COMMENTO AL TESTO 363
dei Solari (v. n. 42.28-44.1); invece così potrebbe voler dire che quella figura ce-
leste è solo una delle tante ‘costellazioni’ oroscopiche propizie alla procreazione.
mente in quelli che hanno il seme di più cattivo succo e più copioso, e che
oziosamente vivono”, come accade ai sapienti costretti a vita sedentaria, per cui
devono “fuggir quelle infirmità che sogliono alle volte dal ritener nel corpo
quel seme avvenire”, o ricorrendo al coito, oppure, secondo Arnaldo da Villa-
nova, “se ben l’atto venereo è utile alla sanità, non per questo è necessario.
Molto giova a questo il vomito et il cavarsi il sangue; ché queste cose diminui-
scono la copia del seme” (Fisonomia VI VII, p. 961-2).
44.18: vilium,
‘Vilis’ è peggiorativo del ‘communis’ nell’accezione negativa utilizzata a 12.35,
dove si distinguono le pietre preziose e quelle “communium”; o, più pertinen-
temente, a 46.17, dove la ‘foemina communis’ (nel latino classico: la ‘mere-
trix’) è in opposizione a ‘matrona’, perché non è assegnata a un generatore
specifico, ma posta a servizio sessuale non riproduttivo della collettività: dato il
regime comunitaristico, infatti, ‘donna comune’ va qui inteso nel senso di ‘po-
tenzialmente a disposizione di tutti’, e non di ‘cosa della quale tutti sono com-
proprietari’. Le donne inidonee alla generazione, dunque, per costituzione,
perché infeconde o, peggio, autosterilizzatesi, non più riservate al procreatore
loro assegnato dallo stato, sono liberamente disponibili per la collettività (v.
40.19, 46.17 e 54.4), come suggerito da Platone, Resp. 461c. In Oecon. consiglia
alla signora di servirsi di una “faeminam vilem emptitiam, quae vilia servitia
tractet. Item unam, vel duas ancillas nobiliores, aut plures, pro familiae magni-
tudine et nobilitate” (II v, p. 195).
255
L’anima/nocchiero è in Pico, I, p. 337; invece la natura solare dello spirito risale almeno
a Ippocrate, Carni II, 1-2: “Ciò che chiamiamo caldo è, a mio avviso, immortale, ha l’intelli-
genza del tutto, vede, intende, conosce tutto, il presente come l’avvenire”.
366 LA CITTÀ DEL SOLE
256
È l’aristotelismo arabo ad aver elaborato la teoria dell’incompatibilità di una doppia at-
tenzione (non si possono pensare due cose diverse contemporaneamente), sulla base ap-
punto del principio: “una virtus intensa retrahit aliam a sua operatione”; poiché “substantia
animae habet duas actiones”: una relativa al corpo, chiamata “pratica”, e una riflessiva, chia-
mata “apprehensio per intellectum”, due funzioni tra loro incompatibili e allora “cum occu-
pata fuerit circa unam retrahetur ab alia”; e poiché “sapientes multum intendunt imagina-
tioni et rationi et multum profundant suas cogitationes et meditationes, unde in eis ut pluri-
mum debilitatur virtus naturalis, et ideo frequenter sperma eorum est indigestum et malum,
et propter hoc producuntur filii mali, quia qui bonus est in studio, pravus est in foro et in ge-
neratione vel venereo actu” (Avicenna, De an. p.1 c.4-5, p.5 c.2; teoria ripresa da Albertus,
Quaest. de animal. XVIII, 4, XII, p. 299: ‘Quare sapientes et philosophi ut plurimum generant
filios fatuos’).
368 LA CITTÀ DEL SOLE
tanto dagli organi genitali e quindi la prole ha ingegno grossolano” (II, p. 28).
Tale interpretazione, in effetti, è in linea con il peripatetismo occidentale: in-
fatti il Problema XXIX posto da Aristotele (‘come mai gli sciocchi [= “stolidi”]
fanno figli assennati e forti?’), è risolto così da Alessandro d’Afrodisia nel suo
comm.: “Gli stupidi, totalmente soggiogati dalla voluttà, durante la copula,
hanno lo spirito tutto immerso nel corpo: perciò il loro seme caricatosi di mol-
tissima forza, sia razionale che naturale, fa nascere individui molto savi”; il con-
trario accade “prudentioribus atque iis praesertim qui sunt eruditi”.
Che i geni partorissero folli è una idea diffusissima nei trattati di medicina cin-
quecenteschi (Fournel, p. 215: essi “admettent souvent que les hommes plus
‘spirituels’ sont moins aptes à engendrer”), non solo per l’influsso di Aristotele
(Rhet. II, 1390b) e della medicina peripatetica (ad es. Zimara, p. 216-7), ma per-
ché anche la scuola concorrenziale di pensiero l’aveva recepita:257 per Ficino
“ad un che contempli o ad un curioso non è cosa più pestifera che l’atto vene-
reo; e all’incontro da chi questo atto frequenta, non è cosa più aliena che e ‘l
pensiero e la contemplatione. Et in questo numero di contemplatione poniamo
il fisico, il religioso e chiunque è nei suoi negocij molto cogitabondo e da gravi
cure oppresso”, in quanto il coito è superiore alle “forze dell’huomo, perché di
un subito evacua e cava gli spiriti fuora e sempre i più sottili; debilita il cervello,
destrugge lo stomaco e i più nobili membri, che sono dintorno al cuore: e in-
somma non è male che sia più contrario e più nemico dell’ingegno che questo.
Onde Ippocrate non per altro giudicò il coito molto simile al mal caduco” (Vita
sana VII,16; cfr anche Th. Pl. XIII II, p. 286-7). Savonarola esorta il sapiente: “Se
desideri prole forte e robusta, non impregnare… quando per il studiare se ri-
truoa l’huomo de spiriti molto resoluto… Sì che i fioli che se engenerano per
quelli di spiriti resoluti, come per exercitio, studio et cetera, suono comuna-
mente meschini e debele. O frontoxo doctore molto studioso, hebi a mente che
Aristotile dice che i fioli che nasseno de huomo litterato, zioé che molto se exer-
cita cerca le lettere, suono comunamente meschini e alquante fiate pazi, cussì
ritrovandese il spirito gignitivo [= spirito vitale+naturale+animale] quanto in la
vertù animale [che deriva dal cervello] per il gram studio molto debele: che cer-
to è pur vero che Venus cum Palade non se convene” (p. 20).258
Per quanto poi riguarda le fonti della teoria degli spiriti animali, esse sono ci-
tate in Theol. III: “Questa è la dottrina di Ippocrate nel lib. VI dell’Epidauro [de
Epidemiis], di Telesio, di Plutarco, di Varrone, di Democrito e di Empedocle.
Aggiungo Aristotele, che nel libro della Generazione degli animali dice: ‘nell’u-
more risiede lo spirito, e nello spirito il calore’, sicché tutti gli enti sono in cer-
to modo pieni di anima” (p. 181). Altro riferimento certo, oltre al De Vita coeli-
257
Come il telesiano Persio nel suo Trattato; del resto pure Platone sosteneva che “il valore
quando si produce per molte generazioni di figli… alla fine fiorisce d’ogni specie di follia”
(Polit. 310d).
258
Adagio ripetuto spesso da C. (Mon. Sp., p. 318; Disc. univ. XI [p. 1140]): “quia Minerva mi-
nuit nervos”: Minerva snerva.
COMMENTO AL TESTO 369
tus comparanda di Ficino, è il I De semine di Galeno (IV, p. 512-93 [p. 328-41 del-
l’ediz. veneziana]). Comunque la terminologia è prevalentemente telesiana, a
sua volta di matrice avicenniana259 e paolina, perché si basa sull’opposizione
‘psyché’/’pneuma’ = spirito/anima.260
259
Avicenna, IV VIII su cit. e Opera in re medica II, 325a: lo spirito, corpo sottile generato dal
cuore, funge da mediatore fra anima e corpo; teoria famosissima, che si ritrova anche in Pi-
co: lo spirito umano, contenuto nel seme, è “vapore sanguigno tenue, chiaro, mobile perfet-
tamente rispondente al cielo, come scrivono Aristotile e Avicenna” (I, pp. 207-9, 219).
260
Impossibile fornire qui una bibliogr., anche solo sommaria, su uno dei nodi cruciali della
riflessione scientifica, umanistica e religiosa occidentale; capitale, comunque, su quest’argo-
mento resta: Spiritus. IV Colloquio internazionale del Lessico Intellettuale Europeo, a c. M. Fattori e
M. Bianchi, Roma, Ateneo, 1984; e il recentissimo Per una storia del concetto di mente, a c. di E.
Canone, Firenze, Olschki, 2005; confrontando la teoria ficiniana degli spiriti e quella, insod-
disfacente, di C., Walker scrive: “la teoria di C., parlando in senso stretto, non spiega assolu-
tamente niente… È inutile spiegare l’udito dell’uomo, presupponendo dentro di lui un va-
pore che sente” (p. 261-2); accenni ‘divulgativi’ e generali sulla teoria rinascimentale dello
pneuma, ‘veicolo dell’anima’, in Couliano, pp. 17-8, 43 e M. Foucault, Histoire de la sexualité,
Paris, Gallimard, III vol. Invece discreti spunti sui rapporti fra C. e la medicina li offriva già 60
anni fa Janni (I, p. 18-21; II, p. 22-35), recentemente aggiornati da M. Mönnich, T. C.: Sein
Beitrag zur Medizin und Pharmazie in der Renaissance, Stuttgart, 1990; M.-D. Couzinet, Notes pour
les ‘Medicinalia’ de T. C., in: ‘Nuncius’, XIII, 1998 (p. 39-67).
370 LA CITTÀ DEL SOLE
dimanderai quanto tempo lactare debe il fanzuolo, dico che ‘l tempo naturale
è, come dice Avicenna, anni dui, spetialiter nei maschi – il perché la latitudine
di vita di quelli è più longa che in le femine – e le fanzuole hanno a lactare per
fina a mexi dexedoto in vinti. Ma questi termini non se guardano, che la briga-
ta [= la gente] o per spexa o per altra caxuone [= causa] quelli abreviano. An-
cuora suono alquanti medici che quelli abreviano, ancuora suono alquanti più
prolungano assai, ma questa è pur pratica comuna” (p. 154); Guevara, II XXVII
(‘Come alla presentia del Magno Alessandro fu disputata una tale questione:
quanto tempo doveano lattare i fanciulli’); More, 112; Doni, p. 73; Brucioli, V,
19r [‘Dello instruire i figliuoli’]: col latte si succhiano i costumi.261
Le stesse pratiche, eugenetiche e educative, le aveva suggerite ai reali di Spa-
gna: “la regina pregna si deve esercitar moderatamente in qualche esercizio
per fortificar la prole. Il figlio nato deve allevarsi di latte di donna generosa,
forte e savia, e più in man d’uomini che di donne, perché i costumi si beeno
col latte, e dopo per farli spasso mirar le figure matematiche… la descrizione
de suoi regni, e veder cavalli e armi, e non giochi donneschi… Deve aver mae-
stri religiosi, vescovi e capitani invecchiati in guerra, e belli parlatori, acciò im-
parino la lingua e la legge parlando, e non col fastidio della gramatica” (Mon.
Sp.1, p. 32 e Mon. Sp. IX, p. 72).
261
E così anche C.: “se la madre è in salute, lo allatti; altrimenti lo affidi a una generosa balia,
infatti, come dice Crisippo, con il latte si bevono anche i costumi” (Oecon. IV I, p. 203).
262
Ad es. per Doni i “mostri” vanno soppressi alla nascita (p. 74-5); tali pratiche epurative so-
no invece espressamente condannate da C., perché “Dio non tollererebbe che accadano que-
ste cose invano” (Astrol., p. 126 ‘De monstris’).
263
Già nell’alto Medio Evo Rabano Mauro spiegava che “vici et castella et pagi sunt, quae nul-
la dignitate civitatis honorantur, sed vulgari hominum conventu incoluntur” (De Universo XIV
I [PL CXI, 383]).
372 LA CITTÀ DEL SOLE
cui il padre, persa ogni speranza, “per non aver sempre davanti la cagione del
suo dolore, gli comandò che alla villa n’andasse, e quivi co’ suoi lavoratori vi di-
morasse; la qual cosa a Cimone fu carissima, per ciò che i costumi e l’usanza
degli uomini grossi gli eran più a grado che le cittadine” (v. n. 62.13-7).
“Rus seu villa… Aedificabis in villa domicilium” (Oecon. II IV, p. 194), ‘villa’ è la te-
nuta di campagna, dove consiglia di mandare ad abitarvi i servi “fideles… ingenio
exiguos, robore validos” (IV II, p. 205); tuttavia per “villa propriamente s’intende
la casa fuori della città” (Magini, 2v). In CS le fattorie non sono soltanto unità pro-
duttive (62.15), come in More, ma anche residenze amene (90.28).
264
Alla necessità di assecondare l’innata vocazione per il bene collettivo Politica dedica i §§
IV, 9-10 e XI, 11.
265
Cfr M. Migliori, Arte politica e metretica assoluta. Commentario storico-filosofico al ‘Politico’ di Pla-
tone, Milano, Vita e Pensiero, 1996.
COMMENTO AL TESTO 373
266
Cfr anche Rhet. XII III, p. 885; e particolarmente Metaph. I I, 14 e IX, 4.
267
La Grammatica si chiude con un’‘Appendice sull’istituzione di una lingua filosofica’, che
contiene un decalogo di stampo mimologico: “1°) assegnare i nomi secondo la natura e la
proprietà delle cose” (p. 713).
374 LA CITTÀ DEL SOLE
ogni membro della republica e aiuta gl’altri membri con scambievole offi-
cio”; essi sono di tipo ‘inalterabile’ e ‘onesto’, in quanto sono “quei che con-
vengon a ciascuno nell’operatione et esercizio ordinario per il ben comune,
come teologo, fisiologo, matematico… e tutti i nomi dell’arti e delle scien-
ze… immutabili, perché portan immutabile professione, come ne’ membri
del corpo… perché l’arti son corrispondenti alle nature, e tutte han parti-
cella d’onore” (Titoli, p. 296-7; v. 54.26-33);
• ad alcuni dei Solari, poi, viene ascritto al nome ‘onesto’ dell’incarico rico-
perto, anche un titolo ‘laudativo’ (= “aggiunta d’ornamento” ai titoli pre-
detti, “come i passamani alle vesti, che non servono se non per farle ri-
guardevoli”); tale titolo di merito può sommarsi ad un titolo glorioso nel
caso in cui si siano distinti in imprese civili (professionali, artistiche:
48.20) o militari (48.21; 70.13): “alle volte è delli gesti onorati, come a Sci-
pion si diede l’Africano… Ad alcuni, senza nominare impresa particolare,
si dà più vocabolo glorioso, come il Magno a Alessandro… Esser magno
conviene a tutte cose grandi nel suo genere, etiam pignato grande e cane
grande si dice, ma senza articolo, ma il Grande, il Filosofo con l’articolo
usato da Greci e da volgari, ma non da latini, come san Crisostomo avverti-
sce [In caput Geneseos V, Hom. XXI (I, 152A-C) si occupa di un’onomastica
appropriata], è assai più che Massimo di Valerio e di Quinto Fabio, e ha
più forza di sostantivo che d’adiettivo”; l’attribuzione dei titoli ‘giusti’ deve
esser fatto “non per gonfiar la superbia umana”, ma per apportare un tri-
plice beneficio allo stato: “de parte del populo, perché vedendo tanto ri-
spetto portato a gl’offiziali e sapienti, lor obbedisca con verità e amore;
l’altra de parte dell’onorato, perché ‘virtus laudata crescit’… L’altra è da
parte degl’onoranti, perché da quelli riceven il benefizio, o della profes-
sione, o dell’arte, o del reggimento con più coraggio o alacrità… Di più,
tutti li cittadini, vedendo onorarsi la virtù ne’ personaggi, si sforzano per la
virtù della emolazione farsi virtuosi e degni di pervenire a quel grado”; ma
naturalmente allo stato torna utile dare i titoli “anche di vituperio, perché
il titulato s’ammendi, e li titulanti si guardino d’incapparci… così l’Ingra-
to, il Crudele…” (Titoli, p. 293-6);
• infine (48.26-9; 70.13), l’imposizione del nome non si basa solo sulla deriva-
zione dalle “proprietà” degli enti: “imporre il nome a una cosa è titolo e se-
gno di dominio; chi infatti prende degli schiavi, impone loro il nome come
padrone” (Theol. IV [II, p. 163]); e chi ha vinto, assume il nome dello scon-
fitto (/conquistato) per lo stesso, simmetrico, gesto di signoria: “Se Vasco
della Gama fosse stato di natione così gloriosa come erano i Romani, forse
che haverebbe accresciuto al cognome della sua famiglia, ancora che fosse
tanto nobile come è, il cognome dell’India: poi che sappiamo essere più glo-
riosa cosa per le insegne dell’honore l’acquistato che lo hereditato, e che
Scipione più si gloriava del fatto che gli diede per cognome Africano, che
del cognome di Cornelio, ch’era della sua famiglia” (Barros, I, 82r); sui no-
mi derivati da imprese militari si diffonde Poët. VIII IX: “Orlando porta le in-
segne quadripartite del vinto Altomonte… Queste cose hanno significato
perché i vincitori sono ornati dai vinti” (p. 1115).
COMMENTO AL TESTO 375
50.3: zelotypia
“La gelosia è figlia del timore e dell’amore, quando temiamo che ciò che noi
amiamo sia dato ad altri e che quindi ci manchi. Ma se il bene amato non scar-
seggia, non c’è gelosia: infatti non la proviamo se altri ama Iddio, che anche
noi amiamo” (Rhet. V, p. 769-71); “i magistrati sono privi di ambizione, e ven-
gono così a cadere tutte le malvagità legate alla successione, all’elezione e al ca-
so, come dicevamo negli Aforismi” (Quaest. pol. IV I, p. 101). Il miglior esempio
di assenza di gelosia fra i Solari, è 54.4-5: l’amante, cui, per ragioni eugeneti-
che, fosse vietato accoppiarsi con la sua amata, ‘attende con ansia’ che lei sia
messa incinta da un altro, in modo che così possa cadere il divieto.268 Invece
l’invidia delle cariche è spenta dalla consapevolezza del maggior valore di chi è
loro preposto (84.4). La stessa cosa si verifica in altre utopie coeve: Doni, p. 75-
6; Patrizi, p. 98 (per beni e cariche pubbliche, non vigendo lì la comunione
delle donne). Sull’assenza di invidia nei Bramini, cfr la pseudo-lettera di Dan-
dami (v. n. 56.30-3).
268
Ancora, circa la “gelosia”: Quaest. pol. IV III, pp. 108 e 111; Physiol. XVIII, 1.
COMMENTO AL TESTO 377
pronunziati: Platone, Leg. 773b; Plutarco, Lyc. 15, 14; Giamblico, Vita, 213
[Theodoreto, p. 180-1]; Ocellus, p. 49-53. “Religiose” e “sacrosancta religio-
ne” (50.21) alludono entrambi all’‘impegno’ assunto, nel primo caso come
scrupolo, nel secondo come vincolo: “Il termine ‘religione’ sembrerebbe de-
signare in modo più specifico non qualsiasi culto, ma il culto di Dio… tutta-
via nell’uso corrente del latino… si dice che bisogna avere la ‘religione’ della
famiglia, dell’amicizia e degli altri rapporti umani” (Agostino, CD 10, 1, 393).
L’insistenza su questo termine, al di là del contesto generico (i magistrati so-
no anche sacerdoti, ‘conventualità’ della Città ecc.) e specifico (riti religiosi
dei due generatori: di preghiera [42.19] e di purificazione [44.12]), serve an-
che a evitare censure su una pratica così ‘libera’ da esser facilmente equivo-
cabile come libertina.
269
‘Certitudo’ è usato in accezione medico-giuridica: “naturaliter est in maribus in specie hu-
mana sollicitudo de certitudine prolis, quia eis imminet educatio prolis; haec autem certitu-
do tolleretur si esset vagus concubitus” (SM III II, IX); più le madri che i padri amano i figli,
“propter maiorem certitudinem, quam habent de ipsis” (Zimara, p. 164).
270
Come in Oecon.: “certitudo prolis ex una uxore, nulli cognita nisi viro” (III IV, p. 200).
378 LA CITTÀ DEL SOLE
na può sembrare spropositata).271 Inoltre lo stesso Urbano VIII nei suoi Poëma-
ta inserì un carme contro le donne che si truccano per farsi belle (Spini, p. 59-
60). Della Porta, invece, mentre nella Fisonomia condanna gli uomini, che
“consumano miserabilmente la vita nel colto [= culto] del suo corpo, non sa-
pendo eglino che cosa abbino, che sia assai più preziosa del corpo” (VI XII, p.
766), nella Magia mette in guardia circa la nocività di certe sostanze impiegate
per ‘gli ornamenti delle donne’ (II XV).272
271
Svariati i luoghi in Crisostomo ‘Contra muliebre ornandi studium’: Comm. in Epist. Pauli
ad Coloss. IV, Hom. X (IV, 1301sg); Ad Timotheum I, Hom. IV (IV, 1453sg) e Hom. IX (IV,
1472sg); Ad Hebr. XII, Hom. XXX (IV, 1847-9), dove si esplicita il nesso fra il fisico e il mora-
le: ‘mulierum mollities’ non deriva soltanto dalla debolezza propria del loro sesso, “sed etiam
ex conversatione et educatione: quod enim sub umbraculis degunt, quod oleo unguntur,
quod assidue unguentibus abundantibus et aromatis perfunduntur, et iacent in strangulis de-
licatis”, per cui “corpore namque molli reddito et delicato, necesse est animam participare
ex corporis morbo”.
272
Erano specialmente i medici ad esortare laicamente alla cautela, come fa Fioravanti nel
‘Ragionamento sopra i belletti che usano le donne per farsi belle’: è stato “Giovanni Mari-
nelli dottore ne le arti e medicina modenese a insegnare nel libro Gli ornamenti delle donne i
segreti per farsi belle; ma molte volte invece si fanno bruttissime, per non conoscere la natu-
ra dei materiali, e quindi insegna ad evitare le cose nocive” (III XXVIII, 305v).
COMMENTO AL TESTO 381
bene della persona che si ama, e l’amor di concupiscenza, che invece ha per og-
getto la persona. Mentre infatti per Agostino “la concupiscenza ha molti ogget-
ti, tuttavia la parola ‘concupiscenza’ pronunciata senza aggiunta del suo ogget-
to di solito non evoca alla mente se non quella che eccita le parti indecenti del
corpo” (CD 14, 16, 611); invece per Tommaso: “est enim amor concupiscentiae
quo dicimur amare illud quo volumus uti et frui, sicut vinum…; amor autem
amicitiae est quo dicimur amare amicum, cui volumus bonum” (Quaest. quodlib.
1, 4, 3). Ed è in quest’ultima accezione che C. lo usa altrove: “Ciascun ente ama
il proprio essere come sommo bene, e sebbene altri enti siano migliori, tuttavia
non li ama come buoni per sé, ma soltanto come utili, e sé stesso ama di amore
di amicizia, come dicono i teologi, mentre le cose utili ama con amore di con-
cupiscenza” (Theol. I [II, p. 103]); ed è falso l’assunto che “non esista amor di
amicizia [“in teologia chiamato carità”], che non sia fondato nell’amore di con-
cupiscenza”, come provano quelle donne della città indiana di Narsinga che si
uccidono alla morte dei mariti (Theol. IV [II, p. 103]). Nel mondo di Doni il
problema proprio non si pone, in quanto mettendo in comune le donne, l’a-
more non esiste più, perché esso nasce solo da privazione (p. 76).
273
Il cronista sottolinea anche “le affinità di vesti e usi” con i Turchi (Ernst 2002, p. 70): Feli-
382 LA CITTÀ DEL SOLE
tinente la qualità del tessuto, lana e seta: si tratta di vesti diverse, destinate
presumibilmente a stagioni diverse (38.20).
II) Circa il cromatismo del vestiario, vi possono essere varie ipotesi:
– una parzialmente plausibile è che intenda richiamarsi a dei costumi indi-
geni antichi e mitici: i Solari di Diodoro, II XIII [I, p. 120] “fanno le vesti
di colore di porpora”; oppure recenti e reali: in “Cananor, città grandissi-
ma dell’India”, la casta guerriera dei Nairi (“Naeri”), “zoé gentilomini”,
normalmente vanno “nudi e scalci con un panno intorno senza niente in
testa, reservato quando vanno alla battaglia portano un cappellino intor-
no alla testa de colore rosso” (Varthema, p. 117);274 “Cicerone dice nel li-
bro delle leggi che il color bianco è molto grato a Dio, e che le vesti colo-
rate non debbano servire se non agli uomini di guerra” (Guevara, IV
XXXI);
– nel Furioso Astolfo sale nel palazzo collocato su uno spiazzo della monta-
gna del Paradiso Terrestre: “Nel lucente vestibulo di quella / felice casa
un vecchio al duca occorre, / che ‘l manto ha rosso, e bianca la gonnella,
/ che l’un può al latte, e l’altro al minio opporre” (XXXIV, 54): il venera-
bile è S. Giovanni, l’autore dell’Apocalisse. Questo passo è ben presente a
C., perché lo menziona in Poët. VIII IX: “Dotta quella [favola] dell’Ariosto,
che narra del viaggio di Astolfo nella Luna per riprendere il senno di Or-
lando: infatti rivela i princìpi di Pitagora e ciò che i Padri immaginano del
Paradiso terrestre, e contiene stupendi significati” (p. 1101). Quali signi-
ficati? Forse la simbologia cromatica può aiutare a sciogliere alcuni inter-
rogativi. Bisogna premettere che C. conosceva due scale cromatiche: a)
una fisica prodotta “dalla luce e dalla tenebra” (Epilogo, p. 231), estremi
della gamma ‘termica’ (dal caldo al freddo: “La luce è l’aspetto vivo del
calore… Il contrario della luce è la tenebra, aspetto della materia ovvero
colore positivo e non privativo” [Compendio XL, 11 e 16]), il cui diverso
dosaggio produce la scala cromatica (“il colore è una luce morta o tinta
dalla opacità e dalle tenebre della materia” [ib., 12]; “dalla mescolanza di
questi [= luce e tenebra] nascono i colori intermedi” [ib., 16]): “il colore
più vicino alla luce è il bianco… Al bianco più opaco segue il bianco avo-
rio, poi il pallido, poi l’arancione, poi il giallo, poi il verde, poi il color
porpora, il celeste, il grigio e lo scuro; a questo punto, se la luce è ancor
ce Gagliardo depone che “C. avea stabilito alli congiurati nova sorta di vestiti; cioè una taba-
nella bianca fino alle ginocchia, con maniche lunghe e un capolecchio, legato a modo di tur-
bante turco” (Palermo, p. 422). A tacere, poi, di eventuali valenze sacro/profano, non in-
congrue in una Città sacerdotale: i sacerdoti ebrei, prima di passare dal perimetro sacro al
cortile esterno del tempio, devono deporre “nelle camere le loro vesti liturgiche usate nel
servizio divino perché tali vesti sono sante, e rivestiranno altri abiti, per avvicinarsi ai luoghi
destinati al popolo” (Ez. 42, 14).
274
A proposito dei Nairi (v. n. 62.30-3.), Botero aveva narrato che “un prencipe di questi pae-
si (avea forse qualche pratica della Republica di Platone) v’introdusse la comunità delle don-
ne” (p. 308).
COMMENTO AL TESTO 383
più velata, non appare più a noi la luce ma le tenebre” (ib., 13) – in que-
sta gamma fisica, il rosso [= “purpureus”] occupa proprio il grado inter-
medio tra bianco e nero; b) ed una scala ‘filogenetica’, basata su una teo-
logia della storia come eterno ritorno: “che il primo colore fu il candido
celeste, si vede nelle istorie di Roma; poi rosso nella bellica crudeltà; poi
vario nelle sedizioni; poi venne il bianco a tempo di Giesù Dio, e tutti bat-
tezzati prendevano la veste bianca, e da quella per vari colori siamo ora ar-
rivati al nero. Dunque torneremo al bianco, secondo la ruota fatale” (Poe-
sie, 54, Esp.). Il bianco giace così in un duplice sistema oppositivo: da un
lato (fisico-politico) con il suo estremo di gamma, il nero (colore di moda
spagnola: v. n. 54.19-20) e dall’altro (teologico-storico) con il rosso, l’in-
termedio della serie. Il potere della porpora, impuro (24, Madr. 3, 7: “Ma
l’impuro infelice, / qual rossor rosse scorge / le cose, e non come enno”
[= sono]) e bellicosamente crudele, sarà destinato a ritornare al bianco:
“purpureae vestes, quae mutabuntur in albas, / …si quis bene mystica
sentit” (169 [‘Ecloga’], 220-1); la “mistica significazione” che deve esser
ben ‘interpretata’ è che “il Pontefice e i Cardinali useranno vesti bianche,
come gli angeli nella risurrezione; ora, invece, usano le rosse, perché sia-
mo ancora nella passione” (ib., Esp., 218), come appunto spiegava l’‘Ap-
pendix de colore vestium’ di Art. proph. (p. 150: “i cardinali e i principi in-
dosseranno a quel tempo [del rinnovamento, cui si ritornerà circolar-
mente, allo squillo della settima tromba del giudizio], non più vesti rosse,
ma bianche”).
In sintesi: C. non aveva dimenticato (e come poteva, nel 1602?) le istruzioni ai
congiurati, che rispondevano al modello moreano: sotto vestitevi come volete
(ovvero, come è più pratico, nel caso di More; come è più consono al vostro
‘gusto’ e censo, nel caso dei congiurati), ma sopra vestiamo tutti la stessa
uniforme bianca della risurrezione (= rivoluzione).
Il colore rosso poteva averglielo suggerito una delle tante fonti citate (da Dio-
doro a Giamblico [Theodoreto, p. 140: ‘vestis fulva testatur aequalitatem et ju-
stitiam animi’], dai libri profetici a Varthema), e così ha istituito questo doppio
registro cromatico, che rispecchia quel che doveva essere un suo vissuto cultu-
rale (More) e reale (rivolta): quando prevale la praticità (il lavoro fuori città) o
di notte (in assenza di attività pubbliche), si abbandona l’uniforme solare – per
indossare un’altra uniforme, è vero, ma questo potrebbe dipendere dalla par-
ticolare contingenza che i Solari hanno un guardaroba unificato. La Città Fu-
tura e Pre-Storica (cioè pre-cristiana) insieme, non può che possedere entram-
be le connotazioni cromatiche del profetismo apocalittico: il rosso della “pas-
sione”, e cioè dell’avvento, nella cui auroralità è immerso tutto il mondo,275
sarà cancellato dalla seconda Resurrezione (quella ‘rinascita’ realizzata all’in-
275
In un’altra pseudo-visione C. scrive: “Ed ecco vidi molte donne oneste in abito rosso e bi-
gio, che consolavano Rachel, che piange sul Vaticano” (Antiven., p. 52; per i colori in C., cfr
Casubolo).
384 LA CITTÀ DEL SOLE
terno delle mura Solari), quando, per continuare con l’‘Ecloga’, “si aduneran-
no i sovrani e le schiere dei popoli in una città, che chiameranno Eliaca”, il cui
‘candido’ stendardo spazzerà via tutti gli altri ‘tetri’ colori (‘Ecloga’, 236sg).
276
E nelle sue fonti, o almeno quelle più prossime – era presente in Macrobio, per intendere
l’ultimo gradino di una gerarchia: la medicina “è l’infima feccia [= extrema faex] della fisica”
(Saturn. VII, 15, 15).
277
“Lux est facies caloris vivida… Luci contraria est tenebra, materiei vultus” (Compendio XL,
11 e 16; cfr: Phil. realis, p. 6; Quaest. phys. pp. 31, 453; Quod rem. 3, p. 108; Metaph. II V, IX [II,
p. 301]; Art. proph., p. 150).
COMMENTO AL TESTO 385
278
Altri esempi di metaforizzazione delle membra in: Lettere, p. 72, Quaest. oec., p. 172, Anti-
ven. (unitamente all’invettiva salace): “Il diavolo ha cacato in bocca vostra [= clero venezia-
no]; non potete parlar parole di Dio, né de’ profeti suoi” (p. 52).
386 LA CITTÀ DEL SOLE
un umore che il corpo rigetta, eppure senza di essa l’alimento non viene assi-
milato nel corpo” (Theol. I [II, p. 191]).
Fonte presumibile (cit. in Oecon. I, p. 190, e Quaest. pol. III, ‘in 3’) è S. Paolo,
1Cor. 12, 14-26: “Nam et corpus non est unum membrum, sed multa. Si dixe-
rit pes, quia non sum oculus, non sum de corpore… Si totum corpus oculus,
ubi auditus… Quod si essent omnia unum membrum, ubi corpus? Non po-
test autem oculus dicere manui: Opera tua non indigeo; aut iterum caput pe-
dibus: Non estis mihi necessarii… Sed multo magis quae videntur membra
corporis infirmiora esse necessariora sunt, et quae putamus ignobiliora mem-
bra esse corporis, his honorem abundantiorem circumdamus…” (cfr anche
Rom. 12, 4-8); passo così commentato da Quaest. pol. III: “Piedi sono i conta-
dini, mani gli operai, testa i governanti, occhi i consiglieri, tutti però membra
appartenenti a un unico corpo.279 Né basta a dissociarli dal corpo il fatto che
non esercitino le altre funzioni, altrimenti un corpo sarebbe costituito da un
membro solo. Quando Aristotele afferma [Pol. 1253b 22] che costoro [= i
contadini] non sono idonei alla virtù e alla vita beata, mente per la gola… so-
lo perché essi non si danno pensiero della sua logica. Forse che la mano o il
piede sono contrari alla virtù?”.280 L’armonia delle membra sociali sarà varia-
mente ripresa in ambito cristiano (frequenti accenni negli At., cit. da C. stes-
so: v. n. 86.1-2): nella Città di Dio “ognuno non vorrà essere ciò che non gli è
stato dato di essere, eppure sarà legato dal vincolo della più serena concordia
a colui che ricevette di più: come anche nel corpo l’occhio non vuol essere
ciò che è il dito, poiché sia l’uno che l’altro sono membra comprese nella
tranquilla struttura del corpo intero” (Agostino, CD 22, 30, p. 1154). Ancor
più calzante il passo tomistico: “per il tutto è meglio che tra le sue parti ci sia
varietà, senza la quale non può esserci l’ordine e la perfezione di tutto l’esse-
re… Ciò è evidente nell’esempio del corpo umano: poiché il piede sarebbe
una parte più nobile, qualora avesse la bellezza e la virtù dell’occhio; però il
corpo nella sua totalità sarebbe più imperfetto, se gli venisse a mancare la
funzione del piede” (3SCG, 94; per le fonti classiche e in partic. l’apologo di
Menenio Agrippa v. n. 86.1-2; per la dialettica tutto/parte inoltre v. n. 50.7-9,
n. 100.23).
279
In Politica VI, 7 un elenco più dettagliato: “…per occhi, i sapienti investigatori delle scien-
ze; per orecchie, spie e mercanti… vi sono anche gli addetti alla pulizia della città per ano”.
280
Commenta Ernst 2002: “Alle dottrine di Aristotele che dall’eccellenza naturale di alcuni
uomini e dall’inferiorità di altri deriva il diritto naturale di alcuni di comandare su altri, C.
contrappone il modello organicistico esposto in un celebre passo dell’Epistola ai Corinzi, se-
condo il quale ogni membro del corpo esercita una funzione di pari dignità e tutti insieme
contribuiscono all’unità e al buon funzionamento dell’intero organismo. In questa prospet-
tiva non sono degni di essere qualificati come cittadini non coloro che esercitano funzioni
volgarmente considerate vili e spregevoli, bensì i parassiti e quanti non collaborano al benes-
sere del tutto, poiché vivono nell’ozio e si dedicano ai piaceri futili o dannosi” (p. 198-9).
COMMENTO AL TESTO 387
281
Basilio, Hexam. 176A; Ambrogio, V XV, 52: “da principio gli uomini avevano cominciato ad
attuare un’organizzazione politica ricevuta dalla natura sull’esempio degli uccelli, in modo
cioè che la fatica fosse comune, comune la dignità, ciascuno imparasse a dividersi a turno le
responsabilità, venissero ripartiti obbedienza e comando, nessuno fosse escluso dalle cari-
che, nessuno esente dalla fatica”.
282
II V, p. 195: il padrone deve badare che “ne superfluat servorum numerus, et ubi unus uni
functioni servitioque sufficit, duo non applicentur; nam et deterius functiones promove-
bunt”; il principio è aristotelico: “molti servi talora eseguono gli ordini peggio che pochi”
(Pol. 1262b 35).
388 LA CITTÀ DEL SOLE
283
Doc. Gall., una delle più lunghe filippiche antispagnole, esordisce: “Quid de regno mise-
rabili Neapolitanorum et Siculorum dicam, ubi ius et fas est id, quod avaritia et superbia hi-
spanica vult?” (p. 3-4); ma già nella Mon. Sp. erano segnalate le gravi carenze del Vicereame,
quali l’usura (XVI, p. 164) e principalmente il divario fra ricchi e poveri (XVI, p. 160; XVII,
p. 172-4).
284
Secondo un autore coevo, G.C. Capaccio (Il Forastiero, Napoli, 1634), la città ospita circa
400.000 abitanti (Leone, p. 9).
285
È anche più facilmente spiegabile lo scambio “settanta mila” (T.54.39-40) → “tante mi-
gliara”.
COMMENTO AL TESTO 389
mila tumoli [di grano] il giorno, viene a guadagnare più che centomila ducati
l’anno”; poiché il tumolo (= 40 Kg) corrisponde, secondo C. (Afor. n° 56, p.
108), al fabbisogno medio individuale mensile, vuol dire che la città fa circa
90.000 abitanti (= 3000x30). Allora la correzione a “trecentomila” può essere
stata un’iniziativa del copista di L., mentre sull’esemplare che C. traduceva in
latino restava quel “settantamila”, che si approssima di più alla cifra su derivata.
Comunque, fonte più prossima dell’intero passo, di cui la situazione parteno-
pea è un esempio prossimo spazio-temporalmente, è More, 95. Suggestiva la
‘boutade’ di Nigro: “Fondata sul lavoro collettivizzato e sulla comunione dei
beni, la città campanelliana si pone come modello ‘totale’. E nella sua astrazio-
ne, e nell’organizzazione razionale, ingloba un’analisi in negativo della realtà
napoletana. La forma metaforica dell’utopia solare trova infatti puntello reto-
rico nel ‘ma’ avversativo,286 e di correzione, che di ‘una Napoli’ fa ‘un’altra Na-
poli’” (p. 1153).
56.5: adulatione,
La sottomissione ha effetti negativi sia in alto che in basso: nei subordinati, ge-
nera l’adulazione (una delle cause dell’umana calamità: 112.4); nei superiori,
coltiva il loro “amor proprio”, che “ci fa schifar la fatica, e però divegniamo ina-
bili. E poi, perché ci amiamo troppo, vedendo che le virtù sono quelle che con-
servano l’uomo, ci fingiamo almeno virtuosi”, finzione penosa; “ma questa pe-
na è coverta d’onori falsi, d’adulazione e da ricchezze, ne’ prìncipi più che in
altri” (Poesie, 10, Esp.; v. n. 131.1 [f.p.]). Fonti: Platone, Resp. 465c; Leg. 729a.
286
Allude all’attacco di Città: “Ma noi non così, perché in Napoli…”; vieppiù sottolineato da
un’esclamazione in Civitas (54.36): “At nos, heu, non ita…”.
390 LA CITTÀ DEL SOLE
56.23: exules,
Traduce il “forasciti” di T.56.24, cioè “quei cittadini che per sfuggire alle san-
zioni, talora eccessive, in cui erano incorsi per qualche reato commesso” (Fir-
po), si davano alla macchia; questi “banditi” erano numerosi soprattutto in Ca-
labria: “oltre alle lotte intestine nelle città, esistono nelle campagne vere e pro-
prie bande di delinquenti composte di alcune centinaia di affiliati. Il fenome-
no si genera per la completa assenza dello Stato; i conflitti giurisdizionali fan-
no aumentare i delitti e, di conseguenza, il numero dei fuoriusciti che vanno a
ingrossare le fila dei banditi” (Formichetti 1999, p. 57).
287
Innumerabili, e perciò qui tralasciate, le testimonianze antiche concordi; segnaliamo solo
che già Erodoto, parlando dei Lidi, scriveva: “inventarono i dadi, gli astragali, la palla e altri
giochi, escluso gli scacchi” (I, 7).
COMMENTO AL TESTO 391
288
Politica [1623], p. 73n; nell’ed. parigina del 1637 C. ammette invece apertamente la pro-
prietà privata: “noi usiamo in comune il sole e la terra, possediamo però un giardino, perché
diventa di proprietà per qualche diritto” (Politica II, 12; per tutta la questione v. n. 32 [glos-
sa], § 1).
392 LA CITTÀ DEL SOLE
che “i denari erano in poco conto appresso di me, io gli tenevo per famigli ed
egli per padroni” (p. 112).
Al di là del modo di produzione, il messaggio capitale di quest’operetta, che
avrà pure le sue ascendenze nel pauperismo protocristiano e confusi obbiettivi
palingenetici, riguarda il processo di accumulazione precapitalista, la cui nega-
zione, proprio negli anni dell’avvento dell’etica protestante, si sarebbe potuta
porre come l’alternativa sociale controriformista cristiana – ‘tolti gli abusi’ –,
sottolineando della ricchezza “il valore d’uso, il soddisfacimento dei bisogni,
opposto allo scambio e al desiderio di accumulazione” (Sapegno, p. 1007). In-
vece come riflesso dell’ideologia controriformista resta solo “l’assenza di ogni
dimensione politica”, sostituita con la moralità e razionalità del progetto, il
predominio della Chiesa, e segnando così “per l’Italia l’emarginazione dal
pensiero politico europeo, che proprio in quel volgere di anni si poneva il pro-
blema della sovranità dello stato, della sua natura e legittimità” (Sapegno, p.
1008). Discordo con quest’ultima tesi, perché C. ha una teoria politica cristia-
na da proporre: lo stato di natura non è un eden pre-storico, ma è quello dove
cercare di fondare quel diritto naturale, anteriore a quello positivo e con quel-
lo in permanente dialettica, almeno fino a quando il Messia non ha completa-
to/ aggiornato i comandamenti veterotestamentari (v.n. 60.4-7).
In T.56.34: “servire in” è costrutto intransitivo (R., L.: “servire alle”); “se bene”
è da intendersi avversativamente “sì bene”, cioè ‘bensì’ (R., L.: “ma”), analoga-
mente a T.56.12 (“se ben”). L’espressione ritorna frequentemente nelle Lettere:
i prìncipi obbediscono al Papa “per servirsi di lui, non per servire a lui” (p. 44);
“noi ci servimo di Cristo e non servimo a Cristo” (p. 54) ecc.; ma anche nelle
opere (es.: Ateismo I, 7: “questi si pensano servire a Dio, mentre si serveno di
Dio” [in Ernst 1997c, p. 621]; Poesie, 75, Madr. 5, 8: “e chi di Dio si serve e a Dio
non serve”).
289
Più correttamente, credo, bisognerebbe dire: i Solari sono l’avanguardia dell’umanità, so-
no l’uomo futuro, quello che passa dall’Avvento al Trionfo.
394 LA CITTÀ DEL SOLE
290
In Art. proph., p. 83-4 ripropone negli stessi termini l’intera questione e schiera di ‘aucto-
ritates’.
291
Les six livres de la Republique, Paris, Du Puys, 1583 (tr. it., Torino, 1964).
292
Come Bobbio stesso aveva correttamente indicato nella sua nota a Civitas, la quale però
deve contenere un refuso da inversione nell’indicazione “can. 2 XCII q.1”.
COMMENTO AL TESTO 395
conta che gli Apostoli hanno vissuto e predicato che tutto era comune, anche le
donne. La stessa cosa insegnano tutti i Padri, a proposito del primo cap. della Ge-
nesi, dove Dio non distribuì nulla, ma lasciò tutto in comune agli uomini, affinché
crescessero, si moltiplicassero e popolassero la terra” (Quaest. pol. IV II, p. 104).
58.1: obsequium
Anche italianizzato: il re “quasi pastore le sue pecorelle difende con armi e leg-
gi… li [sic] pasce e con amorosi obsequii gli osserva” (Mon. Sp.1, p. 36). Invece
i sinonimi latini sono ‘ministerium’, a proposito dei ‘servizi’ dei domestici, ad
es. in Moralis: “Sunt enim qui volunt… servos plures quam ministerio” (IV I, p.
23); oppure in Atheismus, in un contesto identico (v. n. 61.3 [f.p.]), C. usa ‘offi-
cium’ in luogo di ‘obsequium’: “exceptis mulieribus: quae tamen in officiis
communes erant, non autem in coitu” (XIII, p. 117).
In SH IV, LXVII viceversa si avverte più chiaramente la divaricazione verticale fra
coloro che dovrebbero essere naturalmente uguali, proprio rimarcando la pe-
santezza dell’‘obsequium’: “saevitia est in obsequium cogere quos nobis fratris
eadem natura progenuit”; è da negriero costringere i propri fratelli a mansioni
dure/infime. Nello pseudo-Ambrogio ritroviamo l’‘obsequium’ nel significato
di ‘dovere coniugale’ in riferimento alle usanze sessuali braminiche: “Si autem
acciderit ut quispiam sterilem sortiatur uxorem, usque ad quinque annos ma-
ritus ipsius ad eam transit, et ei maritale praestat obsequium. Quae si gravida
per tempus illud non fuerit, mox ab eadem penitus separatur” (PL XVII,
1135). Barri, p. 316, riprendendo Giustino (SH III XXIV) a proposito delle usan-
ze pitagoriche a Crotone, riferiva che Pitagora insegnava alle matrone “pudici-
tiam et obsequia in viros”. E infine Telesio inserisce il vocabolo in una serie
che, credo, più che sinonimica, è una gamma semantica compresa fra l’ono-
ranza e la sudditanza: “et quos honorare quosque observare et quibus obsequi
et parere et subditum etiam aequum est…, libenter et honores et obsequia et
ministerium etiam, ubi oportet…” (“a coloro che è giusto onorare e servire ed
a cui si devono giustamente tributare ossequi ed ubbidire ed anche assogget-
tarsi, devono essere dovuti gli onori e gli ossequi e anche il servizio, quando è
necessario”: IX, 22 [III, p. 416.1-4]).
può capitare che uno poi da qualche indizio si accorga di essersi congiunto
con la madre”. Anche questa è un’unione eretica, contronatura e addirittura
peggiore di quella delle bestie, mossa com’è da sola libidine e non da esigenze
riproduttive. “Finalmente il terzo modo è quello da noi descritto in una società
come se fosse allo stato di natura; ovvero: non possono diventare generatori se
non i più forti e i migliori, e – secondo il giudizio di medici e matrone –, solo
nel momento astrologicamente propizio al concepimento, con riverenza e pre-
ghiera alla divinità” (Quaest. pol. IV III, p. 109).293
Se in CS la posizione di C. sull’accomunamento delle donne è dubbiosa e oscil-
lante (perfezione dei Solari e imperfezione dei confederati; diritto di natura e
Rivelazione; costante ricerca di regole socio-sessuali più idonee), in Quaest. pol.
IV la sua teoria è netta e chiara: concordemente alla ‘glossa’, comunanza delle
donne nel ‘servizio’. Il che significa: le donne prestano i loro servigi indistinta-
mente alla comunità, salvo tre casi: a) lavori pesanti; b) servizio militare di pri-
ma linea; c) compiti politico-direzionali e di docenza ai maschi. Ma il loro ‘ser-
vizio’ peculiare allo stato è “ministerium generationis”: la riproduzione della
specie è la speciale ‘funzione femminile’, scientificamente regolamentata. Col-
lettivizzando lo stato, si salva sia la legge naturale (un’accurata selezione), sia
quella rivelata (la glossa). Salvo le perplessità, come si è detto (v. n. 40.20 e n.
50.22-3), circa il precetto cristiano dell’astinenza con le sterili, anche in uno
scritto altamente responsabilizzante, quale è Metaph., la procreazione resta
l’imperativo prioritario: a proposito della poligamia degli antichi, chiarisce che
“quando gli uomini erano pochi e avevano bisogno di propagarsi, vi era la leg-
ge che permetteva le mogli; ora invece sarebbe enormità, quando fosse per la
libidine, e non per avere la prole” (XVI VII, I [III, p. 249]).294
Questa insistenza sul tema dipende anche dalla necessità di fugare i sospetti di li-
bertinaggio che erano circolati subito nelle deposizioni dei congiurati, come ad
es. in quella di Felice Gagliardo, che dichiarava addirittura “che volevano liberare
tutte le monache delli monasteri e volevano fare il ‘crescite’ [‘e moltiplicatevi’]”;
infatti tra i capi principali d’imputazione dell’allegazione fiscale contro C., si leg-
ge: “concitavit enim fere totam provinciam, conspirando contra statum invictissi-
mi Regis, ad finem ut vitam luxuriosam et liberam viveret; et, quod pejus est, ut
gravissimum haeresis crimen in Regno seminaret” (Palermo, pp. 422 e 427).
293
Come appunto accadeva, secondo Eusebio, nella Repubblica platonica: ivi le donne sono
comuni come potrebbe chiamarsi comune l’erario statale, e non “quasi libidinis ac flagitii li-
beram cuivis potestatem faciat” (708D-709E), in quanto solo il Magistrato decide a chi debba
essere assegnata.
294
Si rinvia al saggio di Amerio sulle teorie genetiche e matrimoniali del C. cit. in nota 142.
COMMENTO AL TESTO 397
V (PL XLII, 26): “Nicolaiti, dal nome di uno dei sette diaconi ordinati dagli
Apostoli [At. 6, 5]. Questo Nicola, accusato di esser geloso della sua bellissima
moglie, per espiare il peccato, permise a chi l’avesse voluto, di servirsi della
moglie. Ciò che egli fece fu adottato da altri, e si formò una turpissima setta,
che praticava l’amore comune”.
295
I Solari assoggettano (20.18, 74.19), gli utopiani colonizzano (More, 103): sono colonie
quelle “dalle maggiori città edificate in questa guisa che loro mandano coloni ad habitarle”
(Magini).
398 LA CITTÀ DEL SOLE
ho istituito un tale modo di vivere solo per gli abitanti della capitale; i villaggi
poi lo imiteranno – in parte, o addirittura in tutto se se ne fondassero parecchi
in una provincia” (Quaest. pol. IV I, p. 103).
296
La malleabilità dei selvaggi, facilmente assoggettabili quindi a un qualsiasi modello ideo-
logico eteronomo, era già chiara a Vasco de Quiroga: “Questa gente è come ‘molle cera’, è
una ‘tabula rasa’ su cui nulla è stato impresso, materia ben disposta e pronta a ricevere ciò
che con essa si voglia sperimentare” (cit. da Maravall, p. 640). Inoltre nella quartina premes-
sa da Gilles in lingua utopiana, si diceva: “Offro volentieri quello che mi appartiene, ma non
mi pesa accettare suggerimenti migliori”; annotava Firpo 1979: “Dichiarazione prudenziale:
gli Utopiani vivono secondo il lume naturale, ma sono pronti ad accogliere le regole di vita
imposte dalla Rivelazione e dall’ortodossia cattolica” (p. 64).
297
“È eresia rifiutare la divisione dei beni, come attesta S. Agostino contro coloro i quali ave-
vano in comune donne e beni e sostenevano che così bisognava vivere secondo gli Apostoli.
Parimenti Soto… scrive che nel Concilio di Costanza fu condannato Giovanni Hus che ri-
provava la proprietà privata. E Cristo dice: ‘Date a Cesare quel che è di Cesare’” (II, p. 104).
COMMENTO AL TESTO 399
munità, praticata dagli Apostoli e dai monaci, che la divisione [dei beni]… E lo
stesso Soto sostiene che la divisione [della proprietà] fu introdotta per la tra-
scuratezza [mostrata] per le cose comuni e per la brama per quelle proprie, e
[dunque spunta] da una radice maligna; quindi la divisione non è buona in sé,
ma soltanto permessa, non certo voluta in ossequio alla [legge di] natura. Or-
dunque, come osa chiamare eretici quelli che seguono la [legge di] natura, e
lodare quelli che, con Aristotele, vanno predicando quel che è stato concesso
solo in seguito a una corruzione?” (II, p. 107). Anzi poco sopra C. aveva esalta-
to – per quanto poteva farlo un domenicano del XVII sec. – il modello di vita
di una setta scismatica, gli Anabattisti “in communi viventes”; peccato che non
condividano “dogmata fidei recta”, altrimenti ne avrebbero beneficiato ancora
di più e “sarebbero un esempio della verità di questo” modello comunistico
(Quaest. pol. IV I, p. 103). Un po’ più morbida, per l’introduzione di un fonda-
mentale distinguo (Soto ha forse ragione per la vita presente, non per quella
futura), la polemica antisotiana in Atheismus X XIII, dove appunto ribadisce la
superiorità della vita in comune.
Per quanto poi riguarda la frase di Lc. 20, 25: “Reddite quae Caesaris Caesari” è
interpretata da C. nel senso che nulla è di Cesare e quindi nulla bisogna dargli,
perché tutto appartiene a Dio, e a Cesare tocca solo il compito di dispensarlo
(Quaest. pol. IV II, p. 107). Tema che è appunto ripreso in Mon. Messiae: “Per-
placet Deo, ut bona dentur, hoc est communia fiant in Ecclesia. Ad hoc enim
respexerunt Apostoli, et ita fiet tantum ut revertantur omnia ad communita-
tem, sicut fuit in lege naturae” (XV, p. 75); e dopo un’ampia citaz. senechia-
na,298 precisa: “quod usus est tuus et dominium meum… vel melius: dare Ec-
clesiae est ponere in communi quod erat proprium. Et valet viri Beati Augusti-
ni distinctio, quod amministratio est principum, et proprietas, iurisdictio et po-
testas est Vicarii Christi” (XVI, p. 76-7).299
Infine, per quanto riguarda S. Tommaso, sempre in Quaest. pol. IV chiarisce
che si sta riferendo a ST II-II, 66, 2, in cui l’Aquinate riporta il passo agostinia-
no per sostenere proprio l’opposto, e cioè l’eresia dei cosiddetti ‘apostolici’ se-
condo i quali tutti coloro che non mettono in comune i beni saranno dannati,
concludendo: “perciò è erroneo affermare che non è lecito all’uomo possede-
re in proprio” (II, p. 107); e inoltre nel De regim. principum IV, 4 pseudo-tomisti-
co la proprietà indivisa delle donne è considerata “più bestiale che umana”,
meravigliandosi che una tal dottrina sia stata predicata da filosofi come Socra-
298
“Lib. 7 de Benef. c. 4” e 5, circa la possibilità di donare qualcosa, ad es., a un re, visto che
“iure civili omnia Regis sunt”.
299
Entrambi i passi cit. sono assenti da Mon. del Messia (per il secondo v. n. 24.2-3), dove Soto
era criticato per un’altra sua tesi anti-unitaria, ricavata “stoltamente” da Aristotele, e cioè che
“il dominio di tutto il mondo in uno è contro natura e impossibile” (p. 64): con la Sua venu-
ta, Cristo “ha promulgato i precetti di una legge [basata]… sull’amore di Dio e del prossimo,
che abolisce ogni particolarità e separatezza, una legge comune e universale in cui possono
confluire tutte le genti” (Ernst 2002, p. 146).
400 LA CITTÀ DEL SOLE
300
Su Soto e il comunitarismo, ritorna anche in Antiven., chiamandolo “adulatore del secolo”
e perciò destinato al “fuoco” (pp. 56 e 63); e ancora Theol. (II, p. 165) e Art. proph. (p. 84);
per un suo ritratto critico cfr S. Di Liso, Domingo de Soto. Dalla logica alla scienza, Bari, Levante,
2000.
301
Schoppius: Struvius la riporta, traendola da un ms di Atheismus posseduto dalla ‘Bibliotheca
Salana’ da lui ritenuto l’autografo originario, a cui fa seguire un sommario confronto fra ms
e edizione parigina.
302
Cfr Ernst 1996b, p. 22; e, per il titolo: Lettere [1609]: “Recognoscimento filosofico della vera uni-
versale religione contro l’anticristianesimo, macchiavellesimo, al qual libro Gaspar Scioppio, che lo
tiene, pose titolo l’Ateismo trionfato” (p. 162), cioè ‘debellato’, come lo tradurrà l’Amabile;
nell’Index librorum campan. (risalente al 1607, secondo Ernst 1999a, p. 494) il titolo dell’ori-
ginaria versione italiana è: Riconoscimento filosofico della religione cattolica contro l’anticristianesmo
Macchiavellesco; nel Syntagma scrive che nel 1608 a Schoppe “diedi anche l’Ateismo trionfato:
anzi è stato lui a suggerire questo titolo per il libro che io preferisco chiamare Riconoscimento
della religione secondo tutte le scienze contro l’anticristianesimo macchiavellistico” (I III).
303
Per storia e significato del testo cfr: Ernst 1991, p. 73-104; Ernst 1996b e 1997e, dove si an-
nuncia anche la scoperta del ms italiano, che è stato testè pubblicato (v. Bibliografia); For-
michetti 1999: “la titolazione così perentoria data dallo studioso tedesco, non faceva risaltare
la ricerca della verità e privilegiava il possesso della verità” (p. 162); in generale sulle modifi-
cazioni arbitrarie dei titoli campan. cfr L. Firpo, C. e la fortuna dei titoli, ‘Belfagor’ (1946).
COMMENTO AL TESTO 401
304
Risposte…, in: Opusc. ined., p. 51-2. Nel processo romano del 1595 fu anche accusato di es-
ser lui l’autore di questo anonimo libello in cui si sosteneva che Mosè, Cristo e Maometto
erano degli impostori, “e quello fu stampato trenta anni prima che io nascessi” (Schoppe, p.
29); in Politici (p. 150-2) sostiene di aver scritto Atheismus anche per stroncare i complotti dei
“macchiavellisti” che l’accusavano falsamente di esser l’autore dell’empio libercolo, che lui
ritiene invece sorto in ambiente tedesco: “si era addirittura dato come autore un certo Otto-
ne, segretario di Federico II Hohenstaufen” (Formichetti 1999, p. 31 – per tutta la questione
cfr Ernst 1991, p. 105-33; Ernst 1996b, p. 29 e v. nota 412).
402 LA CITTÀ DEL SOLE
to, e come disse Aristotile, sequitato dal Machiavello, l’odio e il disprezzo sem-
pre portano ruina allo stato” (Papatus, p. 150).305
305
V. n. 76.15-8 e n. 116.19; sulla lettura forzatamente ‘averroista’ di Machiavelli da parte di
C., cfr Caye, p. 340sg; sul rapporto C./Machiavelli sul piano politico e religioso, a partire da
Mon. Sp., cfr Ernst 2002, p. 55sg.
COMMENTO AL TESTO 403
306
Aristotele non cita mai le Amazzoni; invece, a proposito delle bestie: “È assurdo poi trarre
esempi dagli animali per dimostrare che le donne devono avere le stesse occupazioni degli
uomini, dal momento che gli animali non hanno casa da amministrare” (Pol. 1264b 5; anco-
ra in Pol. 1269 esamina molto criticamente le società militari di Spartani e Cretesi).
307
Tuttavia, C. sconsiglia accoppiamenti fra deformi, salvo che si voglia ottenerne dei servito-
ri: “Nec committenda esset deformibus generatio, nisi ut servos procrearent” (Quaest. oec. II
I, p. 175).
404 LA CITTÀ DEL SOLE
62 (glossa): De re bellica
L’‘arte della guerra’ (per la quale qui si ispira a: Platone, Resp. 403e-404a; Leg.
804c-806c, 813d-814b; Machiavelli, in part. III; More, 196-223), inaugura la
trattazione delle arti disposte gerarchicamente: all’arte bellica seguono le altre
due attività ‘primarie’ comuni a tutti (78.8), agricoltura e pastorizia; quindi i
‘servizi’, come la nautica e la mercatura; dalle arti che servono a procacciarsi la
sussistenza, si passa a quelle che mantengono in vita (secondo una scansione
mutuata dalla scienza politica: es. Aphor. XI, 6: “Qui acquirit dominia… Qui
conservat…”): la culinaria (non la gastronomia, ma la dietologia – branca con-
trollata dalla medicina), quindi le scienze e infine il culto e la scienza delle co-
se celesti (religione, fisica e metafisica). L’importanza dell’arte militare nel
pensiero del C., che confessava al Naudé che la congiura era fallita anche per
la mancanza di armati, era stata già colta da De Mattei 1927, pp. 135-47 e da
Firpo 1947, pp. 81-94.
308
Agli occhi dei missionari in partenza per l’Impero di mezzo, “la Cina è la realizzazione di
quella ‘repubblica dei filosofi’ che Platone ha solo potuto pensare” (Lacouture, p. 297 – la
realtà sarà meno esaltante, come Ricci avrà modo di testimoniare già nella seconda edizione,
più critica, del suo Trattato delle meraviglie della Cina, 1584).
309
Sorprendentemente De Mattei 1984, a proposito di questo passo, commenta: “a differen-
za della CS, ove, attese le diligenze eugenetiche, non si prevedono se non organismi sani, in
Evandria la minoranza [minorazione?] fisica non sembra affatto scongiurata” (p. 289 - ma
minorato, oltre che nascere, si può diventare…).
COMMENTO AL TESTO 405
310
Altri cenni in Minieri Riccio, p. 167; Falcone, II, p. 115; Accattatis: “ci restano di lui un ma-
drigale nella Raccolta del Monti, e un sonetto tra le rime dell’Ardoino” (II, p. 373); Bolzoni
1992, p. 221-6 e Bolzoni 1995, p. 173-4.
406 LA CITTÀ DEL SOLE
64.13: animorum
È l’unico caso di ‘animus’; tutte le altre occorrenze sono del femminile ‘anima’
(poco sotto, r. 17: “animarum”); in questo caso non credo siano in causa acce-
zioni diverse, perché i paralleli passi di Città (T.64.13 e 18) sono entrambi al
femminile.
Con Agostino e Paolo (1Cor. 14, 14), C. crede che “l’huomo costa di mente, spi-
rito et carne” (Epilogo, p. 427f). L’anima (= ‘mens’: 142.40) è quel che distin-
gue l’uomo dagli altri esseri animati, sebbene essa “non abbia nessuna opera-
zione propria che non sia comune allo spirito corporeo” (Metaph. XIV IV, II [III,
p. 119]). In CS non è enunciata una pneumologia; sappiamo solo che i Solari
credono ad un’anima immortale (124.21), eccezionalmente trasmigrante
(64.16-7) e, se macchiata, emendabile (104.27, qui chiaramente sinonimo del
‘conscientia’ di tre righi prima); e una tale credenza da parte di un popolo pre-
cristiano si giustifica col fatto che tantissimi pensatori antichi, “gli stoici, i pla-
tonici, i pitagorici e gli esseni, filosofi santissimi e dottissimi… sostengono
che… esistono i superi e gl’inferi, e la pena e il premio dopo la morte… Dimo-
strano o la resurrezione futura o la trasmigrazione in meglio o in peggio, per-
ché si riveli la giustizia di Dio” (Metaph. XIV IV, II [III, p. 113-5]).
Si è già detto come l’uomo sia abitato da due entità quintessenziate, gli spiriti
animali (v. n. 44.23 – da non confondere con gli “spiritibus” di 64.14, che sono
i demoni) comuni a tutti i viventi, chiamati anche ‘anima sensitiva’: “anima est
spiritus corporeus tenuis, lucidus, mobilis, calidus, potentiae, sapientiae et
amoris particeps… Nell’uomo non è presente solo l’anima sensitiva, comune
anche ai bruti, bensì la filosofia cristiana asserisce [esserci] anche un’anima in-
tellettiva o razionale, chiamata propriamente mente [= “mens”], non derivante
dagli elementi, ma immessa da Dio per creazione” (Compendio LIX, 1 e LX, 1)
e non, origenianamente, per punizione e riscatto della caduta, bensì per lotta-
re contro le tenebre del mondo, rendersi degna del Suo creatore e “acquistare
la beatitudine a se medesima e al corpo” (Theol. IV [II, pp. 143 e 147]).
La sede dell’anima intellettiva “non è il cuore né il fegato né la testa, ma lo spi-
rito” (Compendio LXI, 1), attraverso il quale, essa “muove il corpo e si ritira o
sporge negli organi e riposa e vigila ed entra ed esce, come cosa che ha esi-
stenza propria, perché è appunto uno spirito tenue, contenuto nei nervi, e
avente sede nel cerebro”; e “distrutto il quale [spirito] essa se ne va” (Epilogo, p.
490). Anche l’anima è un’epifania del ‘senso delle cose’, come sosteneva già in
Senso, cioè partecipa a un livello superiore di quella spinta vitale infusa da Dio
nella materia all’atto della creazione. ‘Creare il mondo a Sua immagine e so-
miglianza’ è interpretato da C. in base alla tripartizione metafisica basilare: la
Trinitaria Potenza, Sapienza e Amore ha consustanziato gli enti di queste sue
primalità, rendendoli tutti dotati di senso, cioè di un certo grado e purezza di
COMMENTO AL TESTO 407
calore: gli uomini di senso razionale, gli animali e le piante di senso naturale e
il mondo inanimato di senso materiale. Con l’importante postilla (in Theol. III,
pp. 165 e 167), a confutazione di ipotesi materialistiche alla Galeno, che “come
la luce nell’aria, la quale non dipende dall’aria ma dal Sole, allo stesso modo
l’anima dipende da Dio, non dal corpo”. L’anima razionale infatti è costituita
dalle Primalità allo stato puro, e perciò lei, e solo lei, è stata creata da Dio a Sua
immagine, immortale, incorporea, e infusa nel feto dopo trenta giorni dal con-
cepimento, se maschio; sessanta, se femmina (Epilogo, p. 425).311 Suo compito
principale nell’organismo è orchestrare armonicamente il complesso degli spi-
riti animali: Dio “infonde l’anima immortale, la qual debba perfettionare tutto
l’artificio et le sue operationi. Et insiememente ella si fa forma di tutto l’huo-
mo” (Epilogo, p. 418). Metaph. specifica che la sostanza dell’anima è la quintes-
senza di quella dello spirito o del cielo, che è pure spirito tenue, caldo e sensi-
tivo.312 Telesio aveva inoltre detto che, mentre negli animali l’‘anima’ è lo spi-
rito che deriva dal seme, nell’uomo, non solo per quanto si deduce dalla Scrit-
tura, ma anche per la sua aspirazione all’infinito, è stata infusa da Dio un’ani-
ma incorporea immortale, che è “la forma dello spirito” (II, 25).313
311
C., quindi, a differenza di Basilio e Gregorio di Nissa, condivide l’ipotesi scolastica dell’a-
nimazione mediata, e non immediata (Doni, Mondi, p. 100 si prende gioco di tutta la que-
stione).
312
VI VII, III (II, p. 111); e in partic. cfr il XIV libro, interamente dedicato a ‘De anima uma-
na’.
313
Della coppia ‘mens/spiritus’, relativamente ad Atheismus, se n’è occupata Ernst 1991, p.
141-6 (v. n. 142.36-144.3); Ernst 2002 tratta a fondo la pertinente polemica fra i telesiani, Per-
sio e C., e gli aristotelico-galenici, “fautori di una tripartizione di principi e di facoltà incor-
poree che avevano le rispettive sedi nel fegato, nel cuore e nel cervello” – in partic. il medico
veronese Andrea Chiocco, contro cui durante il soggiorno padovano aveva scritto un’Apolo-
gia pro Telesio perduta, ma sintetizzata in Senso II IX, “dove sostiene, al pari di Telesio, l’unità e
la corporeità dello spirito animale, e la sua sede nel cervello, da dove, tramite i sottilissimi ca-
nali nervosi, si diffonde in tutto l’organismo per adempiere alle sue molteplici funzioni vita-
li, motrici e conoscitive… L’uomo non solo è fornito di uno ‘spiritus’ di gran lunga più raffi-
nato e puro di quello animale, capace di muoversi con agilità entro celle cerebrali più spa-
ziose, ciò che gli consente di elaborare catene argomentative estremamente più complesse.
L’autentica, radicale differenza dell’uomo consiste nel fatto che egli è dotato, oltre che dello
‘spiritus’ che lo collega a tutti gli altri esseri naturali, anche di una mens di origine divina, che
costituisce e fonda la sua dimensione specifica. Gli indizi a favore di questa mens, e di conse-
guenza dell’eccellenza e della divinità dell’uomo, sono molteplici, ma fondamentalmente si
ricollegano a quel principio enunciato fino dall’inizio del libro [= Senso], che ‘nessun effetto
potersi dalla sua causa elevare’. L’uomo non esaurisce tutte le sue capacità all’interno del
mondo naturale… La sua capacità di protendersi con il pensiero e il desiderio verso l’infini-
to (‘quando l’uomo va cogitando, pensa sopra il sole, e poi più sopra, e poi fuor del cielo e
poi più mondi infinitamente’) prova che non è figlio solo del sole e della terra, bensì di una
causa infinita… La connessione dell’uomo con un mondo sopra-naturale viene confermata
dalla sua capacità di andare oltre i limiti immediati dell’autoconservazione naturale… e so-
prattutto l’uomo è libero nel suo volere, può resistere alle coazioni esterne, può valutare e
soppesare gli oggetti delle sue scelte…” (pp. 26 e 111-5; ancora valido lo studio di G. S. Feli-
ci, La mente nella filosofia di T.C., ‘Rendiconti della R. Acc. dei Lincei’, 1894).
408 LA CITTÀ DEL SOLE
314
E in nota vi è una ricca bibliogr. sulle due sette, a partire da Porfirio, De abstinentia; per
una bibliogr. sommaria sui Gimnosofisti cfr anche Firpo 1979, p. 66.
315
Cioè ‘sapienti nudi’, secondo il nome dato dai Greci a quegli asceti indiani, i fachiri, che
praticano lo Yoga e vivono nelle selve: Ficino, Relig., p. 6; Persio, p. 67; Maffei, I, pp. 79-80 e
181, dove dice che “massimamente i Giogue vengono per divozione a visitarlo [= il monte di
Adamo a Ceylon] di paesi lontani più di mille leghe”.
COMMENTO AL TESTO 409
7) narra che gli abitanti dell’isola indiana di Pancaia erano seguaci di Giove
Trifilo; testimonianze analoghe in Erodoto, III e Arriano, Alex., VI e De reb. In-
dic. Infatti, secondo una tradizione prevalente, facente capo al romanzo di
Alessandro, e testimoniata da Plutarco, Alex., 64 e Lyc., 4, 8; Cicerone, Tusc. V,
27, 77; quindi, attraverso la patristica, con Girolamo, Ep. ad Paulinum (PL
XXII, 541), Damasceno, Romanzo di Barlaam e Josafat (PL LXXIII, 443), Filo-
strato, Apollonius, pseudo-Ambrogio, De moribus Brachmanorum (PL XVII, 1131-
46), Palladio, II, 15, 17, 27, 30, 42; e ancora Clemente Alessandrino, Origene,
Tertulliano, Agostino,316 fino a Beauvais, SH IV LXVI-LXXI, i ‘gimnosofisti’ erano
reputati dai Padri della Chiesa i depositari di una sapienza naturale e di una
morale affine a quella cristiana, ritrovandone tracce anche in testi come la Let-
tera del prete Gianni317 o l’Intelligenza.318 Finalmente i viaggiatori moderni, come
Niccolò de’ Conti o Odoardo Barbosa (Ramusio, II, pp. 812 e 633), descrivono
i loro costumi, pur con notevoli abbagli (la Trimurti scambiata per la Trinità: v.
n. 126.17-8); Varthema dedica un capitolo apposito ai “Bramini, zoè sacerdoti
de Calicut”, investiti dal re dello jus primae noctis con la regina (p. 126-7); il
Botero già citato che ha desunto tutto da Maffei, I, p. 80; e infine Persio: Apol-
lonio, discepolo di Pitagora, “pervenne ai Brachmani, per ascoltare il grande
Hiarca… il quale discorreva con pochi disciepoli delle cose della natura, de’
moti delle stelle, e d’altre cose celesti” (p. 67).
Quest’ultima testimonianza, per giunta di un telesiano, prova che a fine ‘500
era consolidata la credenza nell’esistenza di rapporti culturali fra pitagorici e
bramini, e non solo in generici scambi e corrispondenze fra induismo e pa-
ganesimo, corrispondenze su cui più insisteva la tradizione classico-cristiana.
Strabone (che è forse una delle fonti principali, da cui C. aveva tratto l’inte-
laiatura ‘antropologica’, cioè degli ‘usi e costumi’ dei suoi “Bragmani” – se
ne riparlerà più avanti) aveva colto, tra i primi, alcune affinità di pensiero: “I
Bracmani sono havuti in buon conto, percioché più s’accordano con l’ope-
nioni de i Greci”; e dopo aver paragonato la loro teoria dell’anima a quella
platonica, il bramino Mandani “gli domandò se tra i greci si parlava di questa
maniera. Et rispondendogli Onesicrito che Pitagora similmente diceva di
queste cose, et comandava che non si mangiasse di cosa animata” (XV [II, p.
205-12]). La Patristica (escluso forse solo S. Girolamo) poi non nascondeva
un debole per i Bramini, proprio per le affinità con quella parte del pensiero
pagano che sentiva più prossimo a quello cristiano; e così Agostino, affian-
candoli appunto a quei pensatori pagani che con la sola ragione più si erano
approssimati ai dogmi della Rivelazione, implicitamente li apparentava: “Si
chiamino questi filosofi platonici… o siano pure gli italici, grazie a Pitagora e
316
Cfr B. Breloer e F. Bömer, Fontes historiae religionum Indicarum, Bonn 1989, 105sg.
317
“Bragmani infiniti sunt et simplices homines, puram vitam ducentes. Nolunt plus habere
quam racio naturae exigit” (p. 80).
318
“È gente che non pregia argent’od oro… nul compera o vende; / dilettansi nel ciel
senz’altro adoro” (str. 227).
410 LA CITTÀ DEL SOLE
319
Sacerdoti-sapienti sono gli Esseni fra gli Ebrei, i “Brachmani” in India, “la medesima con-
suetudine fu in Grecia… sotto Pitagora” (Relig., p. 6).
320
Ottone Van Heurne, Antiquitatum philosophiae barbaricae libri duo, Leida, 1600.
321
O Gujarat (Magini, II, 184v), cioè la regione intorno al golfo di Cambay, a metà Cinque-
cento invasa dai “Mogori” che vi distrussero Campanel (v. n. 4.59).
COMMENTO AL TESTO 411
Una volta provato che i “Bragmani pitagorici” non sono il parto della fantasia
campan., c’è da chiedersi: perché proprio loro? Domanda complessa, da
scindere in tre distinte sottodomande (e risposte):
a) perché far recitare a una setta reale, per quanto esotica, il ruolo di protago-
nista della sua utopia? In generale: la curiosa associazione di esotismo e clas-
sicismo si spiega anzitutto in base alle coordinate mentali con cui il Vecchio
aveva inquadrato il Nuovo Mondo: i popoli nuovi erano assimilati a ‘idolatri’
o ‘gentili’, “in quanto il paganesimo era la categoria dell’alterità più capace
e priva di ambiguità… Questi popoli al di fuori della Cristianità erano ‘simi-
li’ a quelli vissuti prima del cristianesimo” (Leed 1992, p. 193); in partic.:
agli occhi di C. i Bramini hanno le caratteristiche ‘antropologiche’ ideali
per recitare il ruolo di comunità ‘naturalmente’ proto-cristiana (o post-cri-
stiana…). Leggendo Strabone (XV [II, p. 205-12]), la lista di affinità con
(usi e costumi di) CS è sterminata: educazione con maestri sempre più ele-
vati; vegetariani (i Solari lo erano stati [88.5-6]); sputare come segno di vita
viziosa (90.21); poligamia, ma i sapienti si astengono; ‘per chi ha filosofato’,
la morte è la rinascita alla vera vita; l’astronomia: geocentrismo in un uni-
verso perituro; la fisica si basa su cinque elementi (oltre ai quattro, vi è una
sorta di quintessenza come sostanza delle stelle), ma la cosmogenesi diver-
ge; la metafisica prevede un Dio che pervade la natura; affinità con la nu-
merologia dei Pitagorici, a cui muovono l’unico rilievo di anteporre la legge
alla natura; cremazione (o rogo agevolato da sostanze infiammabili); comu-
nità di beni (ristretta al clan); distruzione del superfluo per avversione all’o-
zio; vestono di bianco e calzano una ‘cuffia’. In base al principio campan.
che si può travestire la verità, ma non è lecito sconvolgerla neanche nelle
finzioni letterarie (Poët. IV X, p. 997), è probabile che lui abbia scelto questa
popolazione proprio perché le loro usanze rispecchiavano meglio il suo mo-
dello di società naturale razionale e la specificazione ‘pitagorici’ serve ancor
più ad attestarne la quasi-cristianità (come ha detto nella nota incipitaria e
ribadirà estesamente a 134.5-9): “Universa ergo Christi lex minime impossi-
bilis, et maxime secundum naturam comperitur, quam perficit, et exaltat.
Cui et boni stoici, et socratici, et pythagorici [sott. mia], quin etiam platoni-
ci, et omnes veri philosophi ita consensere, ut doctissimis patribus videantur
propemodum christiani” (Atheismus, p. 85).
b) In secondo luogo, sulla pista dei Bramini può averlo istradato un’altra delle
fonti cardinali di questo dialoghetto: dal paratesto e dal testo di More pote-
va infatti ricavare due convergenti ispirazioni: per quanto riguarda il testo,
gli “influssi induisti… nelle preghiere e negli addobbi sacerdotali”,322 a sua
volta ricavati dal trattatello dello pseudo-Palladio; per quanto riguarda
l’‘epistolario’ che precede il testo: 1) nella quartina in lingua e alfabeto uto-
piani coniati da Gilles si legge per due volte “gymnosophaon”, “gymno-
sophon”, che significa ‘filosofia’ e ‘filosofica’, ma richiama più propriamen-
322
Firpo 1979 (p. 65-6) rinvia all’art. di J. Derrett, T. More and Joseph the Indian (1930).
412 LA CITTÀ DEL SOLE
323
“Morendo le cose, rinascon altre secondo l’idea che, con li strumenti universali di Dio, Fa-
to, Armonia e Necessità, si imprime sempre in ogni materia; talché si è trasmutazione e non
morte. Si finirà il mondo e sue trasmutazioni, quando ogni cosa sarà fatta ogni cosa; e co-
minciò quando da nulla cosa ancora era stata fatta nulla cosa. Vedi la Metafisica” e cfr anche i
rinvii di Giancotti, p. 28 in Poesie, 3, Esp. 21 e 24. Anzi, Firpo, commentando l’Esp. degli ulti-
mi versi di questa poesia – “tutte le cose sono immortali in idea, ed universalità e per succes-
sione. L’anime non muoiono, ma cambiano paese, od al Cielo ovvero all’Inferno” –, scrive:
“Questa è l’interpretazione ortodossa apposta nel 1613; ma i versi scritti dieci anni prima ave-
vano forse un senso pitagorico (con reminiscenze bruniane?), alludendo alla metempsicosi”
(per la sorte delle anime nell’aldilà v. n. 124.21-7).
COMMENTO AL TESTO 413
324
Stessa condanna in Metaph. XIV IV, II; Quod rem. 2, p. 231; Quod rem. 3, pp. 65 e 105-6; è ipo-
tizzabile inoltre che l’esplicita presa di distanza contro la trasmigrazione delle anime serva a
marcare la divergenza dalla dottrina professata, seppur contraddittoriamente, da Bruno nel-
la Cabala del cavallo Pegaseo.
325
Quod rem. 4, 1; Disc. univ. V (p. 1127); v. n.104 (glossa) §4, punto 1, per la duplice opposta
deduzione evincibile da Atheismus (p. 190), e il postulato che i mezzi della salvezza non man-
cavano anche prima dell’Avvento, tranne che per i ribelli alla ragione stessa: “Nunquam
enim Christus defuit ante incarnationem, nec deest ulli homini in his, qui sunt necessaria ad
salutem, nisi sint rebelles luminum” (p. 85).
414 LA CITTÀ DEL SOLE
326
Ad es. I, 7: “in bello iusto contra eos tantum, qui dignos se fecerunt, ut subiicerentur per
vim servituti, sicut bestiales”; ma in partic. XVII, p. 84sg, con la scusa che sono ‘antropofagi,
sodomitici e idolatri’.
327
Per tante ragioni è lecito che “gli Spagnoli spadroneggino sugli Americani”, in partic. per-
ché “è un’opera buona ricondurre i selvaggi alla dignità umana anche con la forza, come
quando si riducono alla ragione i pazzi” (p. 801).
COMMENTO AL TESTO 415
quali lo sono per entrambi i motivi (Mon. Messiae I, 7-8), escludendo quindi
Pirro (18.9), che aveva conquistato il regno con la sola forza e perciò l’ha subi-
to perduto (Mon. Messiae I, 9).
64.37: in venatione
Senofonte, Cyrop. I, 2, 9-11 ecc.; Platone, Leg. 824a; Plutarco, Lyc., 24, 4; vice-
versa (condanna) Porfirio, Vita, 7; More, 152-3 (la definisce “bassa macelle-
ria”); Giamblico, Vita [Theodoreto], XXI, p. 100 (i Pitagorici non cacciavano).
Nei due luoghi testuali successivi in cui ricorre (76.10 e 84.12), la caccia è pri-
ma affiancata ai ‘ludi’ paramilitari e poi all’agricoltura, alla stregua di una del-
le sette arti meccaniche, com’era appunto considerata in epoca premoderna
(cfr ad es. SH I LIII e v. n. 62 [glossa]).
68.6: armamentariis
“‘Armarium’ locus est ubi quarumque artium instrumenta ponuntur. ‘Armen-
tarium’ vero, ubi tantum tela armorum” (Isidoro, XV). A differenza di altri uto-
pisti coevi (es.: Agostini, p. 150), Doni sceglie il pacifismo radicale (“non v’era
arme da offendere o da difendere”).
68.9: ministris
T.68.12: “archebugi”; tutti i mss di Città e le due edizioni di Civitas riportano in
effetti “artiglieri”; ma Firpo 1948 motiva così la scelta della lezione di T., mal-
grado sia l’unica e la più antica: “appare inverosimile che i serventi dei pezzi re-
stino in permanenza al posto di combattimento anche in tempo di pace” (p.
252).
Poco sotto – 68.11: “quae cannones vocantur” –, la precisazione (rispetto a
T.68.13) dipende dal fatto che ‘cannon, -is’ è un neologismo per il latino,329
mentre in italiano è attestato a partire almeno da Machiavelli (prima testimo-
nianza del GDLI). Tale precisazione manca per “bombarda” (usato molto più
spesso: 4.17, 18.22), perché ritenuto nome appropriato: “I nomi debbono sca-
turire dalle stesse cose cui vengono imposti, come ‘bombarda’ dall’ardente
rimbombo di tale strumento” (Gramm. III IV, p. 707), che “dà l’idea dello scop-
pio” (Poët. IV IV, p. 977; Salmodia 86, 47-8: il tuono “come bombarde, / rim-
bomba ed arde”); infatti C. consiglia di evitare neologismi, a meno che non sia-
no indicate con esse cose nuove, come la “bombarda” o l’“archibugio” (Rhet.
XII III, pp. 883 e 893).
328
Crisostomo, De fide et lege naturae (III, 903AB); De creatione hominis (V, 116-7) – v. 64.28-31,
n. 104 (glossa) § 4, n. 134.5-14.
329
“Li stromenti da gettar arme di tratto, che Cesare chiama ‘tormenta’, servivano all’hora
come oggi a noi l’artiglierie” (Brancaccio, p. 50 [glossa]).
418 LA CITTÀ DEL SOLE
che se da una circonferenza voi tirate linee in fuora, per strette che le pongate
nel circolo onde nascono, si trovaran sì larghe quando saran tirate in fuora,
quanto è la lunghezza di due terzi di picca… che non solo fra due picche potrà
entrar facilmente un cavallo senza poter esser offeso, ma dui anco insieme” (p.
102-3). Per Brancaccio L., l’usanza di molti carriaggi in combattimento era con-
troproducente (per quanto si dirà a n. 68.35-70.7), e, pur non disconoscendone
l’utilità, proponeva almeno di limitarne il numero: “e ancor che i carri, che s’u-
sano in questo paese, siano utili, e quasi necessarii, per guarnire i fianchi dell’e-
sercito, come anche per tenervi sopra monizione e vettovaglie, contuttociò non
dovrebber passare il numero di 150 per fianco in una fila” (p. 144).
mente con loro, anzi continuamente cavalcano a torno qua e là saettando, e al-
le volte fingono di fuggire, e fuggendo saettano da dietro li nemici che segui-
tano, sempre uccidendo cavalli e uomini come se combattessero faccia a faccia;
e a questo modo i nemici credendo aver avuto vittoria, si trovano aver perso, e
allora i Tartari, vedendo avergli fatto danno, ritornano di nuovo contra di loro,
e quelli virilmente combattendo conquistano e prendono” (Ramusio, III, p.
140). Anche i Nairi, secondo Maffei, “confidano assai nella fuga… Con ugual
celerità e seguitano e si partono… ed ora con veloce corso assaltano il nemico,
ora facendosi indietro, quando il bisogno lo richiede, subito si ritirano, e fatta
una testudine o palvesata si cuoprono di maniera tutti sotto lo scudo, che non
vi resta alcun luogo di ferirgli” (p. 81-3).
330
Esempio replicato in Poetica XVII, prendendo spunto dall’esempio di Ascanio ed Enea,
“acciò s’impari a mandare in guerra i figliuoli per farli venire gran capitani, come fu Anniba-
le appresso il padre Amilcare; e i Veneziani saviamente mandano i fanciulli con le galere per
imparare l’arte paterna della milizia navale” (p. 370; cfr anche Mon. Sp. XV, p. 144).
COMMENTO AL TESTO 421
che dia maggiore storpio a’ nostri esserciti che il molto bagaglio, che si condu-
cono appresso, com’anco la moltitudine di servitori, donne ed altre gente inu-
tili… non permettendo se non alcune donne per li servitii necessarii dell’eser-
cito” (p. 129-31).
scorde con la precedente. È strano che l’Au. non se ne sia accorto nelle succes-
sive revisioni testuali – salvo che quell’“omnem” vada preso non alla lettera, ma
sia idealmente attenuato da un ‘quasi’.
In seguito all’evoluzione della cavalleria dovuta all’introduzione delle armi
da fuoco, “anche l’uomo d’arme sentirà il bisogno di alleggerirsi, d’abban-
donare la lunga lancia divenuta troppo pesante e ingombrante, sostituendo-
la con due o più lunghe pistole all’arcione, e di porsi in linea coi suoi pisto-
lieri. Ma il prevalere di questa cavalleria si farà manifesto solo nella seconda
metà del sec. XVI, a partire dalla battaglia di San Quintino (1557)” (Pieri, p.
255; infatti la cavalleria utopiana è ancora priva di armi da fuoco [More,
220]). La pistola a ruota per i cavalieri, impugnata con una sola mano pur es-
sendo di notevoli dimensioni, fu il primo passo di un congegno da sparo
completamente meccanico: invenzione italiana risalente all’incirca al 1520,
era dotata di una canna di metallo particolarmente resistente per non incri-
narsi allo scoppio e di diametro costante; i primi esemplari a canna rigata ri-
salgono al 1525, impiegati a scopi militari solo nel 1631 in Germania da squa-
droni di cavalleria (St. della Tecnol. III, pp. 361 e 364): nessun cenno a canne
coniche. Brancaccio dice che tutte le cavallerie europee “portano general-
mente lancie, dal Thedesco e Boemo in fuora, che portano dui archibugietti
corti allo arcione del cavallo, de’ quali si servono in ogni occasione, che por-
tavano essi ancora gli anni a dietro, partendosi allhora la milizia de’ lor ca-
valli la metà in lancie con grave armatura e gran Cavalli, e la metà in archi-
bugietti ch’essi chiamavano, come fanno ancor oggi, Raitri e noi Ferraruoli”
(p. 177). Tuttavia, anche ammesso che non siano davvero esistite armi di que-
sto genere, non è accoglibile l’interpretazione di Amerio (“di piccolo cali-
bro”), perché il testo specifica solo che sono più strette “in orificio”. Pertan-
to potrebbe trattarsi di un’altra delle ‘invenzioni’ campan. (prive però di una
tecnologia matura per realizzarle) che si ispira agli strumenti quotidiani (co-
me le navi senza vele, i cui ‘motori’ si basano sul ventaglio o il filatoio [160.5-
19]); in questo caso il modello è la cerbottana, che sfrutta l’effetto Venturi
restringendo il tubo alla bocca d’uscita.
è “armata di spade o picche” (II, p. 510; e cfr anche II, p. 485-93). Brancaccio
ricorda che, come nelle legioni romane vi erano “gli armati alla leggiera e gli
armati più gravemente, quelli per scaramucciare e attaccare alle volte un fatto
d’arme, e questi per serrare e dar dentro”, così oggi “le nostre cavallerie d’or-
dinanza sono partite generalmente in due qualità di soldati, l’una è d’uomini
d’arme, e l’altra di cavai leggieri; quei di grave e questi di leggiera armatura;
quei con gran cavalli e spesse volte barde, questi con mediocre e senza barde…
L’uomo d’arme [è] tenuto con ragione vera base e fondamento della guerra
fra le milizie cristiane” (pp. 19 e 179).
72.9: Tartaros
Tra il ‘95 e il ‘96, rinchiuso nel convento di S. Sabina, C. dedica il perduto Trat-
tato dell’arte cavaglieresca a Mario Del Tufo, presso i cui allevamenti pugliesi di
purosangue era stato ospite sei o sette anni prima; nel Trattato “è probabile che
si descrivesse l’artificio per il quale i soldati a cavallo potevano essere in grado
di adoperare «ambo le mani senza tener la briglia, e guidar bene il cavallo per
ogni verso meglio ch’i tartari»” (Formichetti 1999, p. 35).
Tutti i viaggiatori sono meravigliati della straordinaria abilità equestre dei Tar-
tari; a partire da Marco Polo: in battaglia “hanno li lor cavalli così ammaestrati
a voltarsi che ad un signo si voltan in ogni parte che vogliono, e in questo mo-
do hanno vinto molte battaglie”; Sigismondo di Herberstein: “Hanno le selle e
le staffe di legno… Nel cavalcare servano questo costume, che, contratti e riti-
rati in su li piedi, siedono nella sella, accioché più facilmente in l’uno e l’altro
lato si possano rivoltare; e se per sorta qualche cosa fosse caduta, e che biso-
gnasse torla su di terra, fermatisi nelle staffe senza fatica veruna la tolgono su,
nella qual cosa sono così esercitati che eziandio correndo velocemente li caval-
li fanno quel medesimo… Hanno li freni leggierissimi, e certi flagelli… in luo-
go de’ speroni usano” (Ramusio, III, p. 836); solo un accenno nella pur ricca
trattazione di Mandeville, CLVII: “elli sono tutti boni arcieri e così bene corre-
no le femine come li homini” a cavallo. Parlando della Grande Muraglia “dalla
banda de’ Tartari” e dell’esercito cinese, Maffei dice che i cavalieri “entrano in
battaglia molto ben guerniti e armati, e portano quattro spade che pendono
dall’arcione della sella, e combattono con due spade per volta con molta de-
strezza”.331 Comunque Botero riferisce che “sono i Tartari bonissimi a cavallo,
destrissimi nell’essercizio dell’arco”, che è “la loro arma principale… Nelle bat-
taglie non vengono alle strette co’ nemici, ma li combattono or di fronte or di
lato, con una perpetua tempesta di saette, alla guisa dei Parthi” (II II, p. 58-60 –
e anche l’uso dell’arco richiede entrambe le mani libere).
331
I, p. 389 – il che implica che le briglie non sono governate a mano: C. potrebbe aver asso-
ciato Cinesi e Tartari? In Lettere1 Cina e “Tartaria” sono adiacenti: “Far che le carra caminino
per terra… meglio che non s’usa nella China. Probabile. Far che li soldati a cavallo adoprino
ambe le mani senza tener briglia con quella, e guidar bene il cavallo per ogni verso, meglio
che non s’usa in Tartaria. Probabile” (p. 24).
424 LA CITTÀ DEL SOLE
72.14: hastis,
Brancaccio invece toglierebbe “via tutte le picche (in quanto alla campagna [=
battaglia campale]) e mi servirei talmente dell’archibugio con alcune poche
arme per tutti i fronti in luogo di picche”, malgrado siano considerate “il nervo
della guerra” (p. 106); e bisogna imparare a servirsi dell’“archibugio, per esser
la più fiera e tremenda arma (portabil, dico, e trattabile per man d’un uomo)
di quante se ne hanno inventate dalla creazion del mondo in qua; però quanto
ella è furiosa e orribile stando nel suo forte come è a dire alberi, siepi… e simi-
li altri siti malagevoli per i cavalli, altrettanto è debole e di poco momento in
campagna rasa” (p. 109 – l’archibugio non era dunque arma da cavalleria).
capitale chi mancava nelle guardie, chi abbandonava il luogo che gli era dato a
combattere… se alcuno avesse per timore gittato via l’armi”; una di queste puni-
zioni consisteva in questo: dopo aver ricevuto dal console una leggera frustata, “al
reo era lecito fuggire e a tutti i soldati ammazzarlo: in modo che subito ciascuno
gli traeva sassi o dardi, o con altre armi lo percoteva… e radissimi ne campava-
no… Vedesi questo modo essere quasi osservato da’ Svizzeri, i quali fanno i con-
dannati ammazzare popularmente dagli altri soldati. Il che è bene considerato e
ottimamente fatto; perché, a volere che uno non sia difensore d’uno reo, il mag-
giore remedio che si truovi è farlo punitore di quello: perché con altro rispetto lo
favorisce e con altro disiderio brama la punizione sua quando egli ne è esecutore
che quando la esecuzione perviene ad uno altro”, col doppio vantaggio di “levare
i tumulti e far osservare la giustizia” (VI, p. 582-3; cfr anche Principe VII, l’episodio
di Ramiro de Lorqua, spesso menzionato da C.).
74.14: bestiis
‘Bestia’ sarà usato in seguito (80.36 e 82.16) nel significato di animale domesti-
co, mentre per ‘bestia feroce’ utilizzerà ‘fera’ (84.12); Isidoro avvertiva invece
che “‘Bestiarum’ vocabulum proprie convenit leonibus, pardis… ac caeteris
quae vel ore vel unguibus saeviunt, exceptis serpentibus… Ferae vero sunt ap-
pellatae eo quod desiderio suo ferantur naturali utentes libertate. Libere enim
huc illuc vagantur et quo animus duxerit eo feruntur” (in SN XIX I).
74.35: de stratagematis
Solo da T.74.42 (“delle stratagemme e altri”) si evince che originariamente sot-
tintendeva quei “magistri” in stratagemmi (62.25), soggetti allo “Stratagema-
rius” (98.12; v. n. 32.35).
“Chi occupa un altro regno deve eliminare i capi, mutare le leggi, abbattere le
rocche, estinguere la stirpe regale, e tutto quel che va fatto agli abitanti va fatto
‘subito ac simul, in eodem die victoriae, manibus et nomine militum et du-
cum’; invece i benefici vanno fatti lentamente, dopo la vittoria, a nome proprio
e con le proprie mani” (Aphor. e Politica XI, 8, che traduce l’Afor. 100; Mon. Sp.
XXVII, p. 292): effettivamente questo aforisma rende molto più scoperta la
subdola machiavelleria (v. n. 60.23-4, n. 74.8-10), che intuiva già Donno: “No-
nostante egli detestasse le idee politiche di Machiavelli, C. sembra riecheggiar-
ne una massima: ‘qualsiasi ingiuria un vincitore debba infliggere sul nemico
dovrebbe esser inflitta in un colpo solo se possibile’ (Il Principe, cap. 8)”. La
stessa rapidità, del resto, si ha nella conduzione processuale (v. 100.13-22).
76.26: verbis,
‘Verbum’ sta qui per alterco, diverbio; secondo Aristotele, le “risse di parole”
(insieme a oltraggi e omicidi) sono difficilmente evitabili “per chi organizza
una comunità di tal sorta” (Pol. 1262a 25 – alludendo alla Resp. platonica; nelle
Leg. 866e si trova invece quasi alla lettera l’espressione campan.).
76.32: iustum
‘Iustum’ è termine tecnico:332 per dirimere una controversia legale, e quindi
‘far giustizia’, i Solari ricorrono di norma al codice, a volte a prove di valore in
battaglia, mai a duelli (più chiaro il “però” [= perciò] di T.76.39, che il “ve-
rumtamen”). Non bisogna ricorrere ai duelli “neppure per vincere liti giuste
[= ad lites iustas evincendas] giacché si tenterebbe Dio, mentre per dirimerle si
hanno i tribunali. Anche se non si avessero i tribunali, non si può sfidare a
duello, come è illecito al privato indire guerra: questo è funzione della comu-
nità e d’altronde il singolo è per lo più giudice ingiusto in causa propria”
(Theol. X [IV, p. 173]).
332
“Ius generale nomen est, lex autem iuris est species. Ius autem dictum, quia iustum” (Isi-
doro, V III); “constat autem quod iustum est obiectum iustitiae”, “ius sive iustum”, e che ‘se-
condo la definizione dei giurisperiti’, “est constans et perpetua voluntas ius suum unicuique
tribuens” (SM I III, XLVII); così anche C.: “Iustitia est generalis virtus: et omne opus virtutis di-
citur iustum, id est aequale [= equo]… Duplex autem iustum: aliud naturale, quod natura
dictat propter melius, eiusque transgressio est naturaliter culpabilis; aliud civile” (Quaest. oec.
II IV, p. 176).
COMMENTO AL TESTO 427
76.33: monomachiam
Propriamente il pugilato (Tommaso, ST II-II, 95, 8: “pugna pugilum quae mo-
nomachia dicitur”; SD VIII CII ‘De duelli prohibitione’: “Ex Summa de casibus:
Duellum est singularis pugna inter aliquos ad probationem veritatis; ita videli-
cet, ut qui vicerit probasse intelligatur. Et dicitur duellum, quasi duorum bel-
lum. Dicitur etiam vulgo in plerisque partibus iudicium, eo quod ibi Dei iudi-
cium expectatur. Dicitur etiam monomachia, quasi unica vel singularis pu-
gna”); il duello, tollerato solo per legittima difesa oppure per mandato comu-
nitario, come con gli Orazi e i Curiazi (Moralis V XII, p. 30: ‘De duello’), o al
massimo per la superiore salute pubblica (Theol. IX V, II: “per calmare le ire e
risparmiare la vita dei cittadini”), è condannato da Tommaso, se vi si ricorre
attendendosi una manifestazione della volontà divina (“si compie un atto per
arguire dal suo risultato qualche cosa di occulto”), rientrando in uno dei casi
vietati di ricorso ai sorteggi (“il combattimento privato… e le ordalie, si ridu-
cono a dei sorteggi: poiché con essi si indagano le cose occulte”), che rischia-
no di diventare sortilegi (v. n. 96.19-20). Tuttavia vi è quantomeno un distin-
guo, che sfuma nella tolleranza, per quanto riguarda i duelli, perché “qui ci si
avvicina di più al concetto ordinario del sorteggio in quanto non ci si aspetta
un effetto miracoloso”; ma certamente “Dio non entra con la sua provvidenza
nelle cose vane e peccaminose se non servendosi dei diavoli e perciò le sorti
affidate alla fortuna sono pericolose, perché generalmente il diavolo vi eserci-
ta il proprio potere”. Come si è visto (v. n. 76.32) anche C. lo condanna: più
recentemente il Concilio di Trento ha comminato la scomunica “contro i
prìncipi che concedono i duelli… ingiusti e non necessari, non ordinati a un
effetto che sia migliore e più ragionevole della guerra… Antonio della Miran-
dola, schiavo di Aristotele, nel libro sulla abolizione del duello sostiene che il
duello è lecito per diritto di natura, ma è vietato per diritto divino. Egli parla
così per favorire Aristotele, come se la natura razionale invece dei tribunali
avesse istituito i duelli che sono propri della natura brutale” (Theol. X [IV, pp.
163-5, 173-5]).333 In uno stato comunistico, poi, a maggior ragione non posso-
no e non debbono esistere questioni private, e, se dovessero insorgere, biso-
gna stemperarle, rivolgendo all’‘hostis’ quell’ira concepita contro l’‘inimicus’
(sebbene, secondo Amerio, è soluzione astratta e ingiusta “mutar ‘hostis’ in
‘inimicus’”). “Non è lecito duellare per fare ostentazione di forza, come fece
Golia, e neppure soltanto per non sembrar vile se non si raccoglie la provoca-
zione: questo infatti è il giudizio degli uomini volgari e non dei sapienti, e
inoltre si può mostrare la propria nobiltà combattendo in una guerra giusta”
(Theol. X [IV, p. 171]).
333
Allude al De eversione singularis certaminis, Basileae, 1562 (intit. anche: Disputationes… de
Monomachia (quam singulare certamen Latini, recentiores Duellum vocant)), di Antonio Bernardi
[1503-65] nato a Mirandola e diventato vescovo di Caserta, cit. anche in Politici, p. 127 e in
Apologia III, p. 24 (cfr su di lui nota di Lerner 2001, p. 225-6).
428 LA CITTÀ DEL SOLE
78.22: piscinae
“Solium balnei” oppure “Locus in quo piscatur, Stagnum” (Du Cange); la Cru-
sca accoglie ‘pescina’ o ‘peschiera’ quali traduzioni del lat. ‘piscina’: “ricetto
d’acqua per tenervi dentro de’ pesci”; invece Agostino esclude categoricamen-
te la presenza di pesci: “Piscina dicitur in balneis, in qua piscium nihil sit, cum
nihil piscibus simile habeat: videtur tamen a piscibus dicta propter aquam, ubi
piscibus vita est” (Dialect., cap. 5, cit. da Du Cange); SN V L (‘De piscinis et bal-
neis’) intende, sulla scorta di Palladio, stagni artificiali da ricavare “circa vil-
lam”: “pecoribus vel avibus aquaticis usui fit”, oppure dove “madefaciat virgas
et coria, lupinos, et si qua rusticitas infundere consuevit”. Dato il contesto (cioè
il legame causale [= hanc ob rem] con la proposizione precedente sul nuoto
obbligatorio), è quest’ultima l’accezione prevalente (anche se non è da esclu-
dere che le piscine, essendo all’aperto, avessero anche la funzione di peschiera
o di stagni artificiali per l’abbeveramento).
nata dal veleno della potenza marittima” (Bertelli, p. 306); ma anche in Re-
sp. 371c, 525d; in Aristotele, Pol. 1256b (una volta tanto citato laudativa-
mente da C.); in Cicerone, De off. I; in Plutarco, Lyc. 9, 5, e risuona anche tra
i Padri della Chiesa (come Ambrogio, IV IV, 19 e Agostino, Quaest. vet. et no-
vi Test.), rimbalzando nel pensiero medievale: SD XI CII ‘De Mercatura’
(“Mercatura, si tenuis est, sordida putanda est”). Vincoli al commercio li im-
pongono anche gli utopisti moderni: More, 121-2 e 171 (nessun freno alle
esportazioni, ma limitazioni per le importazioni); e Agostini, p. 156 (drasti-
ca riduzione).
pataccari (Plutarco, Lyc. 9, 5 e 27, 6-9). Ma anche nazioni moderne, come la Ci-
na (v. 84.30), sempre per timore di veder corrotti i costumi, vietavano l’accesso
ai forestieri, “se non sono Ambasciatori. Per mare consentono che gli stranieri
surgano nelle loro isole, ove i naturali usano a vendere e a comprare” (Botero,
I II, p. 125); e nelle mappe cinquecentesche di Ceylon era ancora riportato un
“Solis portus” di tolemaica memoria.
334
Aristotele (Pol. 1327a 38-39) aveva suggerito di autorizzare alcuni cittadini a intrattenere
rapporti con gli stranieri.
335
Ad es. 1Re 25, 41; in Gen. 18, 4 e 19, 2 il primo gesto di ospitalità è offrire l’acqua perché
gli ospiti si lavino, da soli, i piedi (passi questi ultimi commendati da Damasceno, Parall. III
XCIX).
432 LA CITTÀ DEL SOLE
inquit, hospitio suscepit, si sanctorum pedes lavit… Noli hos prosequi copia re-
rum affluentes, sed afflictos incognitos, et qui a multis ignorantur. Qui fecerit,
inquit [Cristo], uni ex his minime, mihi fecit” (Crisostomo, In I Epist. Pauli ad
Timotheum V, Hom. XIV [IV, 1507-8]).
336
L’orologio cosmico nella visione di Ezechiele; in una lettera a Galileo lo esorterà a scopri-
re “li teatri e scene nelle quali rappresenta il Senno eterno tanti gran giochi di rote sopra
ruote” (Lettere, p. 177).
337
C. l’aveva appresa da Magini (II, p. 191) o Botero (I II, p. 125), entrambi indicanti in Bar-
ros (I II, p. 125) la loro fonte; o più probabilmente da Maffei: “cocchi e carrette parte [sono]
tirate da cavalli, parte ancora, dove le campagne sono così piane che lo permettano, vanno a
vela. E di vero i cocchieri non sono meno destri e intendenti, che i marinari a governare il ti-
mone e a voltare le vele con allentare o ritirare la fune di esse, secondo che richiede il biso-
gno per prendere i venti” (I, p. 376), e subito dopo segue l’accenno alla concimazione, come
qui a rigo 39.
COMMENTO AL TESTO 433
338
Lodata da Plinio, Nat. hist. 17, 50; Virgilio, Georg. II, 347; Columella, De re rust., cit. da C.
stesso in Quaest. pol. III, p. 99; anzi Agostino, CD 18, 15, ricorda che il suo presunto scoprito-
re “Sterce” o “Stercuzio” era un antenato dei Romani.
339
La caducità dei frutti e di chi se ne ciba dipende anche dal fatto che concimare è un ‘truc-
care la terra’, e quindi ‘rammollirla’, anziché ‘esercitarla’ (Medicina, p. 44; v. n. 52.4-8).
434 LA CITTÀ DEL SOLE
82.23: in atrio
Spesso si chiama “vestibulum” sia “partem domus primorem, quam vulgus
‘atrium’ vocat”, sia la prima stanza della casa, che comunemente viene detta
‘atrio’ (Gellio, XVI, 5 e Macrobio, Saturn. VI, 8, 15-6); invece il ‘vestibolo’ è un
grande spazio libero posto fra l’ingresso della casa e la strada. Ma in questo ca-
so (come già a 40.9) bisogna rovesciare il valore semantico dei termini e inten-
dere ‘atrio’ come ‘vestibolo’, cioè lo spiazzo antistante le stalle.
340
Per storia e bibliogr. sul tema cfr Badaloni 1969, Angelini, Barberis e Angelini 1994; Ernst
2002 annota che “alla consuetudine” con gli allevamenti di cavalli di Mario Del Tufo si deve
“l’osservazione della Città del Sole che gli uomini prestano la più grande attenzione per la ri-
produzione di cani e cavalli, trascurando quella degli uomini” (p. 259).
436 LA CITTÀ DEL SOLE
tico caseario (ripreso a 88.3-4) era in Botero: “latte, butiri, cascio” (I III, p. 187);
i ‘latticinii’ sono genericamente i derivati del latte, come in Savonarola: “Dil
lacte e di lactecinii, come formagio, povine [= caciotte] e zunchata e buthiero”
(p. 79).
84.5: rex:
È lo stesso che dirige canti e balli dopo mangiato (108.34; v. anche n. 28.3-14,
n. 28.24-30.5, n. 28 [glossa], n. 78.13-4, n. 131.1 [f.p.]).
“Chiunque perviene al regno per virtù, domina non per il proprio interesse,
ma per quello dei sudditi. Questi si dicono re, perché antepongono il pubblico
al bene privato” (Politica III, 11); sonetto 17: ‘Non è re chi ha regno, ma chi sa
reggere’: si chiama infatti ‘re’ “a regendo, non a dominando” (Oecon. III I, p.
197), “poiché molti rappresentano e fanno officio di re, che nel dentro è servo
d’ogni vizio e degno d’esser comandato da chi egli governa” e viceversa ci sono
dei carcerati, “che son più liberi che li propri carceranti” (Politici, p. 107). “E
non è forse dotato ogni membro di una sua particella di virtù, che gli consente
di esercitare la propria funzione? Per questo Salomone giudica che ciascuno
sia re nella propria professione” (Quaest. pol. III, p. 384); ecco, dunque, la fon-
te (Ecli. 38, 35: “unusquisque in arte sua sapiens est”), parafrasata anche in
Mon. del Messia (p. 51); Oecon., p. 197 (e Politica XI, 2): “‘omnis artifex, quia sa-
piens in arte sua, rex est’: infatti il medico comanda al re [in senso dinastico,
stavolta] malato; e il marinaio, quando c’è tempesta, ordina a sacerdoti, con-
dottieri e principi: «Tu siedi qui, tu stai lì ecc.»” (gli esempi del medico e del
nocchiero sono di Diogene, VI, 30). “Et cavete [dice Dio agli uomini] ne quan-
do qui Agricola est a natura, fiat a vobis Rex nec Artifex etc. Omnia enim tur-
babuntur: tunc enim non sapientia, sed fortuna gubernabit” (Moralis XV, p.
61); “nella società tutti i danni derivano da questo abuso, giacché principi e sa-
cerdoti vengono fatti per lo più col favore dei potenti o del sangue o dell’in-
ganno, mentre quando i principi vengono eletti secondo la natura si ha un pe-
riodo aureo, che poi con la negligenza delle cose divine si cambia in argenteo,
in bronzeo, in ferreo e in argilloso” (Metaph. XVI VII, III [III, p. 259]), che è
l’età attuale, in cui contro i “Re per natura” si vedono levarsi “questi Re di for-
tuna, vestiti, come in comedia, di maschera reale” (Epilogo, p. 553).341
341
Dove riporta pure un aneddoto: a uno che “si gloriava per nobiltà di sangue e sprezzava
un amico virtuoso”, C. disse: “gli alberi da frutti e non da radici si stimano”; battuta replicata
in Ateismo II (in Ernst 1997c, p. 622, che rinvia a Mt. [7, 16-20; 12, 33] e agli Adagia erasmia-
ni). Per il tema dello ‘smascheramento’ delle ‘finzioni’ mondane, v. n. 131.1 (f.p.), n. 128
(glossa) e cfr anche Atheismus VIII; Politici, p. 133; Quod rem. 3, 2; Poetica IX e XXI (pp. 331 e
405) e Poët. VIII XI (p. 1169).
COMMENTO AL TESTO 437
si trovano in Lettere, pp. 28, 160, 174, 411 e nell’‘Ecloga’, dove s’immagina i
superbi pini e abeti della Sila, battenti bandiera francese “solcare i mari con
le prore, / senza vento e senza rematori”, annotando: “Arcanum navigandi si-
ne vento et remigio aperitur in Civitate Solis ab autore” (169, 199-200; v. n.
160.3-4).
342
V. n. 104 (glossa) § 4, per il rapporto di questa frase con la successiva – ammirazione e at-
tesa del cristianesimo –, e per l’apparente contraddizione con 134.12-3.
438 LA CITTÀ DEL SOLE
[Carlo V] con gli elementi essenziali di questa linea umanistica, fare dell’im-
pero uno specchio delle virtù del villaggio; riuscire, per così dire, a trasfor-
mare in un immenso villaggio, – dal punto di vista morale e politico – quella
che era la grande repubblica cristiana, che per essere sempre più grande era
sempre meno cristiana” (Maravall, p. 633-5).
343
Mon. Sp. XXIX, p. 314-6. Sulle prime conoscenze europee dell’Estremo Oriente, cfr Broc,
p. 99-100.
344
“Le granate furono inventate nel 1536, e i petardi, costituiti da un involucro di metallo
rempito di polvere di cannone o materiali incendiari, furono utilizzati la prima volta nelle
Fiandre” (Ernst 1997, p. 397).
345
Gli abitanti della città indiana di Bisinagar del reame di Narsinga “sono grandissimi mae-
stri de far foghi artificiali”, per spaventare gli elefanti in battaglia (Varthema, p. 119).
COMMENTO AL TESTO 439
346
Poesie: 20, 1sg (“O tu, ch’ami la parte più che ‘l tutto / e più te stesso che la spezie uma-
na”); 30, Madr. 8, 15 (“ché noi siam parti per lo tutto fatte”); Lettere, p. 117 (a Pflug: “io bre-
vemente ti mostrai ch’era stolto pensiero onorar più la parte ch’il tutto”); Astrol. VII, p. 7; Epi-
logo, p. 423; Pöe VI v; Theol. I (I, p. 69); Papatus, p. 139: “il tutto in quanto tutto non deve sot-
tostare alla parte in quanto parte”.
347
“Quella bella parabola del ventre e delle membra” di Menenio Agrippa (Livio, II, 32) è
esposta in Poetica VI, p. 326, e spesso cit. (es.: Antiven., pp. 28 e 107; Mon. del Messia, p. 54-5;
Rhet., p. 837; Poët. IV IV; la Politica esordisce con la figura del ‘corpo sociale’: “La Prima Men-
te… congiunse gli uomini quasi in un unico corpo, nel quale alcuni facessero da guida, altri
fossero guidati…” (I, 1).
440 LA CITTÀ DEL SOLE
(663-4: uomo parte della società, e “prius est parte totum, non pars toto”); fino
a Ficino, Teol. II XIII (I, p. 215).
E così viene assunta
C) sia dalla filosofia cinquecentesca: la società raccoglie tutti i suoi membri in
un unico organismo, “come in un unico animale composto di molte e diverse
parti”, affinché “potesse sempre con le altre portare aiuto ad una qualsiasi di
esse che fosse affaticata… quasi allo stesso modo con cui le singole parti degli
animali promuovono la salute delle altre e comunicano ad esse tutte la propria
fatica e la propria opera” (Telesio, IX, 12 [III, p. 383-5], e la sua scuola: “Scias
itaque omnino partem propter totum, non autem totum propter partem esse
factum. Recte ergo hoc animadvertit Pletho Constantinopolitanus in Aristote-
lem” [Persio 1575, n°193]);
D) sia dal pensiero politico coevo: “i sudditi uniti col re sono considerati come
un tutto et un corpo del quale eglino sono particelle e ‘l re è capo; e però co-
me il tutto è per natura primo delle parti nella guisa che… le parti sono indi-
rizzate ad esso, e non per contrario. Così le parti debbono pigliare la regola
nelle operationi loro dal tutto, in modo che siano corrispondenti alla conser-
vatione & alla forma sua” (Albergati, La Republica regia, cit. da Zucchini, p.
301); o nel semiutopistico Belluzzi, ovvero la Città felice dello Zuccolo.
348
‘De regnis et civitatibus et republica’ (così anche Medicina, p. 58).
COMMENTO AL TESTO 441
Secondo Donno, i Solari “avranno dovuto attendere a lungo per trovarsi una
simile volta celeste. Shumaker suggerisce che C. poteva aver pensato ad una
sfera armillare sopra la quale i Solari ordinavano i corpi celesti nel modo che
essi giudicavano favorevole per la città”, utilizzando magari proprio i globi
celesti e terrestri posti poi sull’altare. E in effetti, se si bada all’incipit del cap.
cit. di Astrol., si tenderebbe ad avallare quest’ipotesi della liturgia astrologica:
come potevano infatti i Solari ‘porre’ i segni zodiacali, se non su una sfera ar-
millare? O vuol forse intendere che prima della fondazione disegnarono lo
schema oroscopico ottimale, e poi attesero il momento in cui la mappa cele-
ste fosse coincisa con quella tracciata?
Le procedure di fondazione della città erano dettate da un rigido protocollo
rituale: “la scelta del sito, quella del momento propizio, operate dall’‘ecista’
dopo aver sentito l’oracolo, l’orientazione, il tracciato del solco primigenio,
la localizzazione del ‘mundus’ nel centro della fondazione quadripartita, la
disposizione degli edifici pubblici attraverso l’‘aruspicina’” (Finotto, p. 133);
Assunto (p. 17-8), citando da Fustel de Coulanges (La cité antique, 1849),349 ri-
cordava gli autori classici che trattano i riti di fondazione della città: Erodoto,
V, 42; Tucidide, V, 16; Pausania, Descr. della Grecia XXVII, 7; Ovidio, Fasti IV,
827. Se Cicerone (De div. I, 98-9) ironizza sui pronostici fatti in occasione del-
la fondazione delle città, Vitruvio invece li prende molto sul serio (I I, p. 16);
la stessa disparità di pareri si replica nel Quattrocento: Alberti (II XIII e IV III)
segue l’esempio di Cicerone, mentre Filarete quello di Vitruvio: “Quando la
[= Sforzinda] fonderemo, allora ti dirò sotto che clima, e pianeto, e punto, e
ora” (II, p. 55), e infatti a p. 101-2 vi si diffonderà ampiamente (coincide la
scelta di un Luminare – in CS la Luna, lì il Sole – nel Toro, “segno fisso ter-
reo”). Dell’origine mitica di Fiesole, Giovanni Villani sottolinea proprio la va-
lenza astrologica: Atalante, su consiglio di Apollo suo maestro e astrologo,
cercò “in Italia per astronomia… per lo più sano e meglio asituato luogo che
eleggere si potesse per lui… e la detta città fu fondata sotto ascendente di tal
segno, e pianeta, che dà allegrezza e fortezza a tutti gli abitanti, più che in al-
tra parte d’Europia” (I VII, p. 12-3). J. R. Christianson racconta la storia di
Hven, un’isola fra Danimarca e Svezia, dove sarebbe nato “un giardino degli
dei, abitato da semidei che potevano penetrare tutti i segreti dei cieli e della
terra, muoversi attraverso le sfere e ricreare l’età dell’Oro”: sta parlando del-
la futura sede di Uraniborg, il Castello di Urania, dedicato alla Musa dell’a-
stronomia, di cui il suo fondatore e signore, Tycho Brahe, così descrive la ce-
rimonia di fondazione: la pietra angolare fu posta “l’otto agosto [1576] al
mattino, quando il Sole che si levava con Giove era nel Leone e la Luna era
nei cieli occidentali in Acquario” (On Tycho’s Island, Cambridge University
Press, 2000).
349
Ma cfr il riedito J. Rykwert, L’idea di città. L’antropologia della forma urbana nel mondo antico,
Milano, Adelphi, 2002 [1963I].
442 LA CITTÀ DEL SOLE
86.8: in quinta,
Sottint. ‘domo’ come in T.86.13 (dove però Marte era nella nona in Ariete),
esplicitata a 86.12.
86.14: Fortuna
Il punto di Fortuna è uno degli elementi oroscopici che non ha rapporto di-
retto con dati astronomici; lo si ottiene attraverso questo calcolo: la distanza in
gradi fra Sole e Luna va riportata sulla circonferenza a partire dall’Ascendente;
il punto raggiunto con quest’operazione è un punto virtuale detto “locus” o
“pars fortunae” o “Demone della nascita”, perché “produce il carattere di tutta
la vita” (Ficino, Sole V, p. 978-9), o punto di Fortuna,350 che significa ricchezza,
in otto combinazioni astrali favorevoli, la settima delle quali è la congiunzione
di Giove e Venere “vel cum capite Draconis, vel aliqua fixa benigna” (Astrol., p.
171; per le stelle fisse v. 44.11). C. mostra di seguire privilegiatamente il meto-
do tolemaico; altri astrologi invece differenziano la nascita diurna da quella
notturna con il calcolo Sole-Luna o Luna-Sole.
86.18: absidis,
Oltre la qualità, si valuta anche la quantità dell’influsso di un pianeta, che di-
pende da tre principali fattori: a) la sua amplificazione o depressione deriva
dalla posizione nel grafico oroscopico: se si trova in un segno, che ne è il do-
micilio o ancor più l’esaltazione, emette il massimo della sua potenza, e vice-
versa negli altri due casi (rispettivamente: esilio e caduta [v. n. 44.9]); b) al-
trettanto massima è la sua influenza in una delle quattro case angolari (v. n.
42.29); c) e infine la posizione del pianeta nella sua orbita completa: apsidi so-
no appunto l’apogeo e perigeo dei pianeti, come chiarisce Astrol.: i pianeti “in
quibusdam partibus elevantur, in quibusdam oppositis deprimuntur, et fiunt
nobis viciniores: dum sunt in parte superiori dicuntur esse in apogaeo, vel in
abside superiori; dum sunt in opposito dicuntur esse in perigaeo, vel in abside
inferiori. Mutantur autem absidum situs post saecula multa paulatim, ut Co-
pernicus observavit” (p. 16-7), e cioè sarebbero anticipati già di 34° (‘Ecloga’,
16).351 Di apsidi, dunque, ce ne sono due, ma l’apside per antonomasia è l’a-
pogeo, dove “sormontano i pianeti” (Disc. Cometa, p. 69) ed amano indugiare,
sia per la prossimità al Sole, sia per simpatia con le regioni superiori del cielo
(118.22-122.4; v. n. 114 [glossa] § 2.3); e infatti ragione di quest’indugio è che
“i pianeti sono più puri, più felici e migliori in apogeo, poiché sono più vicini
alle stelle” (Astrol., p. 17), e quindi anche le loro virtù astrologiche sono esal-
tate.
350
“Il punto di Fortuna viene calcolato sempre… sulla distanza angolare dal Sole alla Luna”
(Tolomeo, Tetrab. III, 11; e Feraboli spiega: “è il punto d’intersezione del raggio d’azione dei
due luminari” (p. 434).
351
Secondo Lettere [1628], p. 219 di “quasi trentasei gradi” (v. n. 131.3 [f.p.]).
COMMENTO AL TESTO 443
352
Anche Fiorato qui fraintende: “mais s’il est ‘jovial’, leur science n’étant pas indigente, ils
se soucient peu d’attendre Mercure…”.
353
Cfr anche Lettere, pp. 228 e 383; Disc. univ. IX (p. 1135); Senso, p. 152; Theol. I (I, p. 319):
“in Dio si dà una scienza che non nasce dall’inopia delle cose, che egli non abbia in sé e deb-
ba intuire fuori di sé come noi, ma nascente dalla copia”.
444 LA CITTÀ DEL SOLE
ne della lunga discettazione (da 140.1 a 150.4 – anch’essa introdotta qui per la
prima volta) su libero arbitrio e astrologia, disciplina quest’ultima di cui ap-
punto distingue l’uso dall’abuso (142.27-36 e 154.16-7).
354
La culinaria è una branca della medicina, come illustra Medicina, un cui cap. (II III) è
espressamente dietologico: ‘De alimentis eiusdem secundum substantiam’; e com’è intuibile
già da 36.26, dove si dice che i cuochi sono diretti da un Medico o dal Fisiologo (88.22); una
scienza da imparare con l’esperienza, in mancanza della scuola Solare: il cuoco deve cono-
scere la scienza della cucina “et si non ex scholis, quemadmodum ex civitate Solis faciendum
praecipimus, tamen ex usu et doctrina communi addiscit” (Quaest. oec. III I, p. 181).
COMMENTO AL TESTO 445
355
Cfr Ovidio, Metam. XV, 75-142 e 455-78, in cui Pitagora esorta a una dieta vegetariana e
condanna l’uccisione di animali utili come il bue; Symbola Pythagorae: “Ab animalibus abstine”
(Ficino, p. 1979); Diogene, VIII, 13; Porfirio, Vita, 39; Giamblico, Vita, pp. 107-8, 150; Palla-
dio, II, 24, 45-6.
356
Theodoreto XXIV, p. 105: ‘Ab quibusnam cibis Pythagoras in universum abstinuit et ab qui-
bus suos abstinere hortabatur…’, ad es. vietati i cibi “quibus corpus inflatur et venter turba-
tur”, inoltre “nequis quicquam unquam, quod vitam habuisset, ederet, nec vinum omnino bi-
beret, neque diis animalia immolaret” (e ancora XXXI, p. 177-9).
357
Tra le “molte superstizioni” che C. ha appreso sui Bramini, c’è anche “non occidere ani-
malia, maxima facere vaccas, in quas putant migrasse Maiorum animas” (Atheismus X IX, p.
131; cfr anche Theol. XI, p. 173).
446 LA CITTÀ DEL SOLE
“li Guzerati… non mangiano cosa che abia sangue né amazano cosa alcuna vi-
vente” – setta molto prossima al cristianesimo, tanto che “se avessero el batti-
smo tutti sariano salvi alle opere che fanno” (Varthema, p. 108); “queste genti
mangiano due volte al giorno: non mangiano pane né beveno vino, né man-
giano carne né pesce, se non riso, butiro, latte, zuccaro o frutti” (Pedro Alvarez
in: Ramusio, I, p. 643);358 Botero, a proposito delle idolatrie dei Narsingani:
“Non è lor lecito né amazzare, né veder amazzare cosa viva… Tengono le can-
dele accese dentro lanterne, affinché le farfalle non vi muoiano attorno” (III II,
p. 104); i malabaresi “non usano pane, né per legge mangiano carni, né bevo-
no vino. Le cose che mangiano sono oriza, orzo, butiro, latte, pesci, zucchero,
aromati, pomi e altri frutti” (Magini, II, p. 187).
88.8: sensum
‘Senso’ è sia ‘sensibilità’ (a conservazione dell’organismo) che ‘sensazione’: la
percezione “non avviene per ‘informazione’; vale a dire per accoglimento di
forme esterne – il ‘senziante’ si farebbe sole e terra, sentendo sole e terra –, ma
per ‘immutazione’, per le alterazioni percepite dallo spirito (“il senso esser
percipimento della passione”), alterazioni che, sebbene parziali, sono in grado
di fargli giudicare le qualità dell’oggetto esterno” (Ernst 2002, p. 46).
Confutando Aristotele che “nega il senso delle piante: e gli dà la vegetazione
che non si può fare senza senso di fatto, come Pitagora mostrò” (Epilogo, p.
318d; Senso, p. 213), C. si rifà presumibilmente ad Aristotele stesso, che nel De
plantis, 815a riferiva che i Pitagorici attribuivano alle piante un “sensum stupi-
dum” (= incosciente); ripreso da Lattanzio: “Pythagoras quoque unum Deum
confitetur dicens, incorporalem esse mentem, quae per omnem rerum natu-
ram diffusa et intenta, vitalem sensum cunctis animantibus tribuat” (Liber de ira
Dei XI [PL VII, 113]; id. in Div. Inst. I V [PL VI, 134]); e da Pico, Heptaplus I VI,
p. 219. Inoltre in Quod rem. (cit. in originale da Bobbio), C. esponeva a una set-
ta indiana questo stesso concetto: “Se non vi cibate degli animali, dovete aste-
nervi anche dalle piante: infatti le piante sono animate dal loro spirito sen-
ziente vegetale” (cfr anche Poesie, 25, Madr. 1, 8-10). “Qualcuno s’ingegna a
estendere il precetto [‘non ucciderai’] anche alle fiere e agli animali domesti-
ci, per cui sarebbe illecita anche la loro uccisione. E perché non anche gli er-
baggi e ogni vegetale conficcato nel terreno e nutrito dalle radici?” (CD 1, 20,
33); a differenza di C., però Agostino, crede che l’imperativo non vale per le
piante perché “mancano affatto di sensibilità”.
358
Il fiorentino Andrea Corsali [1526]: in Cambaia “non si cibano di cosa alcuna che tenga
sangue, né fra essi loro consentono che si noccia ad alcuna cosa animata, come il nostro Leo-
nardo da Vinci: vivono di risi, latte e altri cibi inanimati” (Ramusio, II, p. 31), e così Barbosa
(Ramusio, II, p. 579; per altra affinità v. n. 158.15-6).
COMMENTO AL TESTO 447
21]) per un assioma scontatissimo:359 “Le cose più imperfette sono fatte per le
più perfette: onde le piante per li animali, l’animali per l’huomo, l’huomo per
gli angeli” (Epilogo, p. 324a; analogamente pp. 310, 320 e 553); ‘Salmodia’ 86,
131 Esp.: “l’erbe, le quali son fatte per gli animali, e questi per gli uomini, e
l’uomo per gli angeli, e questi per Dio”.
Fonti: Aristotele (Pol. 1256b 15: “le piante sono fatte per gli animali e gli ani-
mali per l’uomo”) e Tommaso, che, in base alle “parole della Genesi [1, 26-30]:
‘Facciamo l’uomo… e presieda ai pesci del mare… Ecco che io vi ho dato tutte
le erbe… perché siano di cibo a voi e a tutti gli animali della terra’”, sostiene
che “è lecito uccidere le bestie… perché l’ordine naturale le pone al servizio
dell’uomo, come l’imperfetto è in funzione di ciò che è perfetto” (ST II-II, 64,
2 e 66, 1; v. anche n. 12 [glossa] § 2).
359
Ad es. per Della Porta Dio creò secondo i gradi “gli elementi, che le cose inferiori servis-
sero le superiori, per una legge fatale” (Magia I IV, 6r).
448 LA CITTÀ DEL SOLE
360
Concordano: Theol. XXVII, 2, art. 4; Apologia, p. 17; Art. proph., p. 88-9; Mon. Messiae III,
p. 15.
361
Compendio LII, 18, cit. a n. 36.3-4; cfr Lerner 2001, p. 207.
362
Plinio, VI, 24, 91 e [Domenichi] VII II, p. 187 – Agostino, CD 15, 10 reputa attendibili que-
ste affermazioni pliniane.
363
Cfr Desantis, p. 52; e ancora Solino, Marziano Capella, Fozio.
364
Cit. da Romeo, p. 171; l’espressione è presente anche in Galeno: “Unde non solum usque
ad ducentos vel trecentos annos…” (V, 133).
COMMENTO AL TESTO 449
88.32: Protomedico,
L’enfasi nell’assegnare a un ‘Protomedico’ una mansione apparentemente di
non così grave momento – stabilire il menu (“tassata” di T.88.42 è un latinismo
365
Cfr svariati loci commentati da Crisostomo, ad es. I, 233AB o Damasceno, Parall. III XII.
450 LA CITTÀ DEL SOLE
che sta appunto per ‘determinata’) – deriva dal fatto che l’Au. intende con
questo evidenziare che l’alimentazione non è soggetta alle esigenze della gola,
ma alle regole della dieta. Un riscontro lo si aveva a 40.26-7 dove pure era in
causa un “magnus… doctor” a disciplinare gli sfoghi sessuali, onde evitare an-
che in quel caso sospetti di sfrenatezze.
366
Così anche Compendio: “c’è un solo sangue e altre innumerevoli secrezioni” (XIII, p. 10).
COMMENTO AL TESTO 451
gue scuro e pesante, residuo dell’ardore e della cottura, la bile nera viene
raccolta nella milza come in un vaso per le impurità e serve come stimolo al-
la fame e quando necessario al timore. Se in modica quantità, può giovare al-
la contemplazione, ma non certo per il fatto che essa sia ‘sapiente e profe-
tante e meditante’ o causa diretta di queste attività, come ritengono erronea-
mente Aristotele e Galeno, vedendo che gli atrabiliosi sono atti alla sapienza
e alla profezia. Tale spiegazione fisiologica non è fondata: come infatti po-
trebbe una cosa insensata, si chiede C., originare la sapienza? È vero invece
che la presenza di questo umore è un segno dell’intenso calore dello spirito,
ciò che lo rende estremamente sottile e quindi particolarmente atto a riceve-
re l’impressione delle passioni. È dunque la sottigliezza dello spirito che ren-
de atti alla profezia, e non le sue fuliggini, che quando abbondano lo oscura-
no e lo atterriscono, ne interrompono il discorso e ne turbano le nozioni…
Di qui il delirio malinconico caratterizzato da costante tristezza, paura, avver-
sione per i rapporti umani, immaginazione turbata e desiderio di morte, che
può veramente sopravvenire quando l’oscurità invade completamente lo spi-
rito. Nei casi gravi i rimedi sono estremamente difficili… Sulla base di questa
concezione della bile nera, C. critica aspramente quanto afferma Aristotele
nei Problemata, che attribuisce proprio a questo umore l’ispirazione poetica e
le profezie delle Sibille, istituendo un’analogia con gli effetti indotti dal vino,
che C. ritiene superficiale e falsa… Ancora una volta apprezza di più le posi-
zioni di Ficino che non si limita a collegare bile nera e profezia, ma spiega le
modeste proporzioni in cui l’umore melanconico debba essere presente nel
sangue, per non danneggiarlo, e correttamente tiene conto dello spirito e
delle sue caratteristiche, che Aristotele ignora, attribuendo al vino e all’atra-
bile quello che è da attribuire alla sottigliezza dello spirito… L’atrabile, se-
gno e faex della tenuità, e non sua causa, non giova alla scienza se non perché
lo spirito, spaventato dalla nerezza, si ritira all’interno a contemplare… I ri-
medi contro i danni della saturninità saranno… soprattutto respirare l’aria
serena e aperta, passeggiare in giardini verdi pieni di fiori, ascoltare la musi-
ca, dedicarsi a cose liete e a giochi, ricorrere a tutto ciò che è della natura di
Venere e di Giove, nutrirsi di cibi bianchi, dolci, molli, contrari alla bile nera,
amara e secca” (Ernst 2002, p. 185-91).
sto accade, quando cioè si genera molto spirito buono, le malattie vengono
superate” (V, 29 [p. 379]; concetti ripresi da C., tra l’altro, in Physiol. IX IV, p.
78-9).
La teoria (e terapia) degli odori risale ad Aristotele, che nel De sensu et sensib.
distingue due tipi di odori dilettevoli: ‘per altro’ (l’odore dei cibi) e ‘per sé’,
come quello dei fiori e “quod confert ad sanitatem… Cum enim odor fit
quaedam evaporatio, pertingit ad locum cerebri, ad quam pertingere non
potest substantia cibi”. Poiché la vita è legata agli spiriti, e gli odori sono fatti
di sostanze simili ad essi, si capisce la loro importanza terapeutica, che, riba-
dita da Gregorio Nisseno ad Alberto Magno (raccolti in SN IV CVIII), resta in
auge in tutta la modernità. In partic. Ficino, Vita sana VIII, 23, 25 (antidoto
ideale alla malinconia) e II XVIII (‘A che guisa s’habbia a nutrire lo spirito e a
conservare la vita per mezzo degli odori’), ritiene che “in alcune regioni cal-
de e piene tutte di molti odori”, costituzioni delicate si nutrano “quasi de-
gl’odori soli”; e Persio chiarisce fonte ed esatto significato di questa apparen-
te ‘meraviglia’: come insegna Aristotele, “‘l’anima si pasce nell’odorare, e il
soavissimo odore è il suo cibo’”; gli odori creati “dallo spirito universale del
mondo” sono simili al nostro spirito e infatti Venere penetra con gli odori, e
“accostandosi al nostro spirito, lo moltiplica anchor ella, e fa nascerne di
nuovo”, donde si capisce quello “che volle dir Plinio di certi popoli che vi-
veano d’odore. E non saria troppo disdicevole a credere che per l’abbondan-
za degli odori e tempratura d’aria la maggior parte de’ Napoletani, e di que’
di tutto il regno, come ho letto appresso alcuni scrittori, siino così vivi di spi-
rito, il quale destato da gli odori propii di Venere, gli doni aguto ingegno, on-
de amino ferventemente le loro amorose” (p. 100-8).
Per quanto concerne specificamente le pratiche mattutine, Medicina dedica
un capitolo (II III, III Append.) all’igiene orale: “Alzandoti la mattina, spazzo-
lerai i denti lavandoti” e inoltre “dentium corroboratione et constrictio per
salviam, myrtum… et huiusmodi extra confricata et ore detenta” (p. 312);
pratiche del resto ben note: Ficino, ad es., consiglia agli anziani di tenere
“del continovo in bocca la salvia, ch’è tanto ai denti e ai nervi amica” (Vita sa-
na II XVII, p. 112; cfr anche VIII, p. 23). Come, ovviamente, notissime, fin dal-
l’antichità sono le qualità confortative di queste piante: l’incenso “confert ra-
tioni et confortat ipsum [= capo]” (Avicenna, Canon II II [I, 152H-153AB]);
SN XIII CXI: “Intellectum acuit… memoriam quoque corroborat. Item masti-
catum cum origano staphysagria, dissolvit phlegma a capite extrahendo et
linguae gravedinem alleviat”; Ficino: “spesso masticare dell’incenso, perché
meravigliosamente giova al catarro, a tutti i sentimenti e alla memoria” (Vita
sana XIV, p. 35-6); la menta: “fricat cum illo asperitas linguae et removetur…
confortat stomachum et calefacit ipsum, et digerit, et prohibet vomitum
phlegmaticum” (Avicenna, ib. – nessuna allusione alla sua proprietà di profu-
mare l’alito); SN X XCIII: “Platearius: contra faetorem oris ex putredine gingi-
varum et dentium abluitur os ex aceto decoctionis eius, et post ex pulverae
mentae siccae fricetur… Constantinus, in libro graduum: os odoriferum red-
dit, lingua cum frondibus fricata omnem amittit asperitatem”; Savonarola
consiglia alle donne incinte “la matina quando levano… giova molto il masti-
COMMENTO AL TESTO 453
care di la menta” per farsi venire l’appetito (p. 89 - come già diceva Plinio,
XX); Ficino: “Amo molto la menta fresca salutifera per la mente e sicurissima
per lo spirito” (Amore II XIX, p. 119 - la paronomasia è molto eloquente); il fi-
nocchio: SN IX XCIX ‘De maraco et maratro’: sulla scorta di Dioscoride, non
menziona alcuna qualità dentifricia del finocchio, ma, al più, “confortat sto-
machum, oppilationem aperit et hepatis et vesicae et renum”; Ficino lo para-
gona al vino per la velocità ed efficacia di effetto nel ritemprare gli spiriti; il
prezzemolo: SN X CXIV: ‘De petroselino’ Isidoro decanta l’“odore aromati-
co”; anche se nessuno degli autori citati (e sono sei, da Plinio a Isaac) accen-
na a usi deodoranti, tutti concordano sulle sue qualità diuretiche e in genere
espulsive (compresi eventuali feti morti).
‘De inflatione ventriculi’; XII, VIII: ‘De triplici cruditate ventriculi’; VII ‘De fe-
bribus’. Contro i medici che li ritenevano morbi differenti, C. sostiene l’unità
della causa, cioè una flussione d’umore che procede dall’alto in basso (Janni,
II, p. 31-2; v. n. sg).
Il tratto saliente della medicina Solare sarà satirizzato nell’Erewhon [1872] di
Samuel Butler: gli abitanti di Erewhon considerano la malattia un delitto e il
delitto una malattia. La medicalizzazione pervade infatti tutte le principali
attività dei Solari: non solo, com’è ovvio, la cura delle malattie, ma anche
l’abbigliamento, l’alimentazione, l’igiene e naturalmente la sessualità; e in
più pervade l’etica e quindi la giustizia, che commina pene che sono ‘vere e
proprie medicine’ (104.15), per sanare o tagliare (‘resecare’ [100.36])
membra infette del corpo sociale, le quali membra resecande, ovvero i con-
dannati a morte, prima dell’esecuzione si conciliano con i loro accusatori
“tanquam medicis suae aegritudinis”. Addirittura la stessa musica può diven-
tare un mezzo terapeutico, direttamente (92.1, 146.18) o indirettamente: il
pranzo è accompagnato da canti e musiche, oltre che per allietare la convi-
vialità (36.36), anche probabilmente per agevolare la digestione: “poiché
nel canto c’è ritmo, il ritmo corrisponde ad un ordine, e l’ordine è in tutte
le manifestazioni della natura; infatti quando beviamo, ci nutriamo, lavoria-
mo con ordine, si mantengono e si accrescono le forze naturali, mentre un
disordinato regime di vita fa degenerare la natura e ne altera l’ordine” (Poët.
II I, p. 917).
Tale medicalizzazione spinta è una delle facce del poliedro razionale della
Città; e risponde al principio: ‘più sani, più buoni’; non è dunque ‘buoni-
smo’ di maniera, ma scientifico: ottenere/mantenere spiriti animali più puri
significa creare una società di sapienti e quindi di virtuosi (come si può de-
durre da 96.25-6 e dalla teoria generale di 132.6sg). Infatti, per C., se la fisio-
logia è alla base dell’etica (i ‘caratteri’ sono certe predisposizioni innate de-
gli spiriti animali), allora l’ozio non solo è una patologia della virtù contraria
(= l’Esercizio), ma è il padre di tutti i mali, “imperocché la maggior parte di
loro hanno origine dall’inflatione, dalla distillatione, dalla crudità, dalla
ostruzzione, dall’infiammazione e dalla putredine” (Epilogo, p. 528).
Se i fondamenti fisiologici della scienza medica sono enunciati principal-
mente in Medicina, vi sono però tracce più o meno cospicue anche in altre
opere: ad es. una sobria ma efficace sintesi è contenuta in una lettera a Sera-
fino Rinaldi (Lettere, p. 112-7); in Poët. II (p. 926-8) è esposta la teoria degli
spiriti; in Theol. IV (II, p. 153) si parla dell’assenza di malattie nello stato d’in-
nocenza prima del peccato originale; e ancora: Senso II XXX, Epilogo, Compen-
dio, Metaph., Physiol., Quaest. phys. La sua cultura medica fu molto precoce, ri-
salendo al noviziato in S. Giorgio Morgeto (1583-6): insoddisfatto delle lettu-
re aristoteliche, “decisi di leggere io stesso tutti i libri di… Galeno”; letture
che proseguono quand’era confinato ad Altomonte (1589), dietro sollecita-
zione dei medici G. Francesco Branca e Plinio Rolliano; le sue fonti sono Ip-
pocrate, considerato “il migliore degli antichi” e “la guida in medicina”, Ga-
leno (scadente nella teoria, “mirabile nelle dissezioni”), Celso, Avicenna, che
COMMENTO AL TESTO 455
367
Syntagma I I; II V; IV VII; su questi ultimi tre, cfr rinvii bio-bibliogr. di Ernst 1999, p. 396.
456 LA CITTÀ DEL SOLE
368
“Paucae fuligines efficiunt febrim diariam; multae hecticam” (Physiol. [1623 e 1637], in
Epilogo, p. 442n).
369
Ma anche in Senso è spiegato il nesso fra pigrizia e iperproduzione di fluidi (p. 252).
COMMENTO AL TESTO 457
vor d’esso spirito che s’accende et si move più velocemente et più spessamente
del solito contra il vapore et humor molesto” (Epilogo, p. 381; cfr anche Phys. IX
IV, p. 79). Ve ne sono di tre tipi, in base agli organi coinvolti:
1) “L’una si fa nelli spiriti”, ad es. “per tristitia et dispiacere, quando egli [= lo
spirito] si ritira e tralascia gli uffici del corpo et non scaccia le fuligini et si fa
crudità, dal che vedendosi oppresso fa far febre più che diaria” (Epilogo, p.
533 – questo spiega il ricorso all’‘allegria’ terapeutica [92.1]): è una febbre
effimera, ma violenta.
2) Se invece sono colpiti gli umori, si hanno due sottospecie di febbri: a) febbri
continue, se è interessato l’umore interno ai vasi, specie quelli prossimi al
cuore: gli spiriti animali, nel loro incessante movimento, lo riscaldano “fin-
ché non l’haverà stravasato”, cioè non ha espulso o volatilizzato l’umore pu-
trefatto intravenoso, e questo riscaldamento è appunto la febbre; b) “se poi
si fanno putredini fuori da i vasi… si fanno diverse sorti di febri, cioè quoti-
diana, terzana, quartana, quintana, sextana, ottana ecc. Imperocché quando
l’humore è grossetto et flemmatico, accendendosi lo spirito per scacciarlo lo
manda fuora consumato, ma non così totalmente che non resti reliquia di
lui… Quando l’humore è più sottile sì che tutto traspira nella prima accen-
sione et non resta attaccato nelli meati, si fa terzana… Le quartane poi si
fanno d’humor più grosso, et però tarda più a riaccendersi, et nuocono
manco, e per lo più di malinconia si nutriscono”. La terzana, quartana (di
cui ha sofferto quand’aveva quattordici anni: Syntagma I I) ecc. sono dunque
febbri che variano in base al tipo di umore (più o meno ‘grosso’ o fluido)
che è stato colpito.370
3) Infine le putrefazioni delle parti solide o carnose dell’organismo cagionano
le febbri etiche: a causa di mancanza di sangue, che nutre gli spiriti e irriga
il corpo, si è “disseccata l’humidità et essalato il calore”, e sono rimaste solo
“le parti salde aride con poco caldo in copia, ma molto in forza perché acu-
to e adurente” (Epilogo, p. 533-40).
È al soggiorno padovano, quando frequentava il “teatro anatomico” di Girola-
mo Fabrizi d’Acquapendente, che risale la felice intuizione che la febbre non è
una malattia, ma un rimedio (Formichetti 1999, p. 25); poi al repertorio di feb-
bri è dedicato l’intero VII libro di Medicina, perché per C., contrariamente alla
credenza corrente degli antichi (“dixerunt veteres febrem esse calorem nati-
vum conversum in igneum” [p. 595]: v. Galeno infra) e dei moderni medici,
che le ritengono “esse morbum per se”, considera le febbri “bellum contra
morbum, potestativa vi spiritus initum” (p. 598), una reazione degli spiriti vita-
li a un’ipersecrezione umorale (“fervore dello spirito sono contra l’umor pravo
tra vasi aggregato o a canto a loro” [Senso, p. 262]), e dunque un rimedio: ‘Fe-
brem non esse morbum, sed remedium et fieri brevem, longam, continuam,
remittentem et intermittentem…’. Così titola un paragr. di Medicina (VII II, I),
370
Circa la tipologia di febbri qui menzionate cfr Medicina: per le terzane, p. 673; quartane:
p. 675; quintane, settane, nonane: p. 680.
458 LA CITTÀ DEL SOLE
dove si dice appunto che le febbri consistono in realtà in una “spontanea, ex-
traordinaria spiritus agitatio, inflammatioque ad pugnam contra irritantem
morbificam causam: quam sic calefecit, agitat, digeritque, reddiditque espul-
sioni aptam, vel extinctioni, vel meliorationi”. La cura prevista invece da C.
per queste febbri “è l’humettar le parti et aprir la cute con bagni dolci, tepi-
di et nutrire il corpo con latte, principio dell’humidità radicale, et con lento
essercitio avvivare li spiriti” (Epilogo, p. 540); e in partic. per la febbre etica
“bisogna mutar tutto il temperamento, volendo sanarla. Onde è necessario
pensar molto a gli odori et all’aria” (Epilogo, p. 383).371
371
In Medicina ricorda di aver patito di febbre etica in due occasioni: una volta quand’era
ospite di Del Tufo, e un’altra molto più grave nel 1606, quando “gli sembrava di bruciare co-
me un tizzone ardente… ed aveva cominciato a stare un po’ meglio dopo un mese grazie a
un’alimentazione idonea a base di latte” (Ernst 1999a, p. 490; v. n. 94.11-4).
372
Precetto, questo, ben noto alla medicina antica: “Omnes exercitationes et carnium et adi-
pis et succorum abundantiam minuunt” (Galeno, De humoribus e In Hippocr. epid. l. VI comm.
III, XVIIB II, 8).
COMMENTO AL TESTO 459
sce Politica: “Ogni uomo servendosi di se stesso o delle altre cose contro il fi-
ne stabilito da Dio pecca ed è tenuto a renderne conto almeno a Dio, o a pa-
gare le pene prestabilite. La natura ammonisce di ciò quando premia con la
salute i sobri, punisce con la gotta gli ubriachi” (II, 16). Era opinione corren-
te anche nel ‘500 che la gotta attecchisse presso i signori, “percioché sono
avezzi a ber vino e a mangiar polli e delicate vivande” (Ramusio, I, p. 61); Zi-
mara articola dettagliatamente le cause di questa malattia della nobiltà: a) as-
sumono cibi diversi contemporaneamente (cosa che è sommamente vietata
dai medici);373 b) passano troppo tempo a tavola; c) e ancora eccedono: nel
bere vino assoluto, d) nell’oziare, e) nei piaceri venerei che abbattono la
virtù digestiva, per cui “crudi et mali humores oriuntur per articulos decer-
nentes” (p. 187).
90.26: Hecticas
La medicina scolastica è dominata, anche se non egemonizzata, dalle teorie pe-
373
Una dotta e articolata discussione in proposito l’aveva imbastita Plutarco nelle Quaestiones
conviviales (4, 1, 661a) e viene ripresa da Macrobio: “chiedo se sia più semplice digerire il ci-
bo semplice o quello composto”; dopo la tesi di Disario a favore del cibo semplice, parla Eu-
statio che espone “tutti gli argomenti a favore della varietà del cibo” (Saturn. VII, 4, 3sg).
374
“Ogni quindici giorni vuol un argomento [= un clistere], e ogni mese recie [= vomita]
(per mantenere lo stomaco netto) una volta” (Doni, Mondi, p. 315).
460 LA CITTÀ DEL SOLE
375
Dei Problemata medica aristotelici uscirono svariate edizioni dal 1497 al 1597. Cfr ed. crit. a
c. di Marenghi, che però non menziona la versione di Zimara, da noi anche consultata, per-
ché, essendo quasi un centone in pillole del sapere medico dell’antichità (Aristotele, Ales-
sandro di Afrodisia e in minimissima parte Plutarco), costituisce una sorta di ‘saggio’ della sa-
pienza o meglio di ‘idées reçues’ mediche cinquecentesche. Fa eccezione a questa schiac-
ciante egemonia peripatetica Paracelso, per le cui teorie astrologiche e corrispondenziali cfr
Bianchi, p. XXXVI-XXXIV; circa i giudizi contraddittori di C. su di lui (“Paracelso ha fatto
qualcosa nelle distillazioni e nelle medicine chimiche; nelle questioni teoriche spesso dice
sciocchezze e accoglie come ragioni delle non ragioni” [Syntagma II V]), cfr Lerner 2001, pp.
LXXVI e 185, e Lerner, ‘C. e Paracelse’, in: J.-C. Margolin et S. Matton (a c.), Alchimie et phi-
losophie à la Renaissance, Paris, 1993 (p. 379-93).
COMMENTO AL TESTO 461
idcirco ejusmodi febres omnes diariae, quia solvi, quod ex ipsis est, uno die
sunt aptae, conputata nimirum cum hoc una et nocte” (Meth. med. [X, p.
666]); le febbri ‘hecticae’: a differenza delle precedenti, “quaedam enim ex
iis putredine humorum accenduntur; aliae vero partes ipsas animalis solidas
occuparunt, atque appellant eas hecticas febres, vel quia stabiles sunt ac solu-
tu difficiles, quemadmodum habitus, vel quia ipsum corporis habitum occu-
parunt” (De febr. diff. I [VII, p. 305]).
92.1a: sonis
La musica terapeutica ritorna anche a 146.18, per scongiurare avversi segni
stellari. L’allegria è una premessa terapeutica, legata com’è alla teoria degli spi-
riti (v. n. 44.23): infatti essendo di natura mobilissima, gli spiriti godono della
dilatazione e soffrono della costrizione, “quasi enim fugit a moestibilibus”
(Quaest. phys. XXXVIII IV, p. 393), come già sosteneva Telesio: “Chiaramente
infatti sentiamo che lo spirito da certi suoni viene esilarato e diffuso, mentre da
altri viene rattristato ed anche spinto alle lacrime, che cioè lo spirito dai suoni
viene agitato con quei moti con cui viene agitato quando è lieto e quando è tri-
ste” (VII, 36 [III, p. 149]).
Sugli effetti fisiologici della musica, si era già dilungato in Poetica e in Poët. (II
VI, p. 949: “la musica giova allo spirito, ventilandolo e dilatandolo”); di quelli
squisitamente terapeutici trattano Theol. X (IV, p. 77-81) e Medicina (II IV, II ‘De
Musica’ e VI I, III ‘Remedium contra morbos a sonis’): “il suono diletta lo spiri-
to, se non è né troppo acuto né troppo grave… piacciono i suoni medi e con-
sonanti, cioè ad sui mensuram editi”, e ogni tono ha un suo effetto sugli spiriti
vitali, che un medico deve dunque prendere in considerazione, “ut medicina-
les sint… Cum distortis curvatisque motibus afficeris [se si è afflitti da moti di-
sarmonici – spirituali e/o corporei]… adhibe Musicam, quae sedet motus ho-
sce… Sit tibi musica pro invitatione ad opera et omissiones utiles, non autem
462 LA CITTÀ DEL SOLE
pro exercitio” (p. 60-1).376 In Senso parla della virtù magica dei suoni: “può un
suono togliere l’affetto malo, movendo lo spirito d’altro modo che soleva. Così
Pitagora sanò li furiosi con moti dolci… [Come] quando si suona la gagliarda,
non si può ballare la spagnoletta, perché il suono muove lo spirito d’una fog-
gia, né lo lascia che possa il corpo egli muovere d’un’altra; e così si sana la fu-
ria col contrario suono, correndo gli spiriti alla testa per godere il suono” (p.
292-3). Nelle malattie in cui gli spiriti agitano disordinatamente il corpo, ritmi
musicali contrastanti (dolci per i furiosi) obbligano tali spiriti animali a ricom-
porsi, così come un certo ritmo musicale obbliga a danzare un determinato
ballo e non altri.
Sulle qualità esoterico-terapeutiche della musica: Porfirio, Vita, 30, 32; Giam-
blico, Vita, pp. 111, 224 (Theodoreto, p. 148: Pitagora “musicen magnopere
conducere iudicabat parandae sanitati, si quis justis et consentaneis modis uta-
tur”); Gellio: “Secondo i medici che curano con la musica, [i vasi sanguigni]
pulsano con un ritmo settenario che essi definiscono l’accordo di quarta”; e da
Teofrasto aveva appreso come “i dolori [sciatici] possano essere leniti suonan-
do un’aria dolce sul flauto”, donde il precetto galenico che il medico debba co-
noscere la musica per la sua professione (III, 10).
376
I rimedi contro le turbe psicofisiche suggeriti in Medicina VI sono di matrice neoplatoni-
ca: “quanto credete che siano per giovare i canti, che già aerei sono, allo spirito del tutto ae-
reo, i canti armonici allo spirito armonico, i canti già caldi e vivi allo spirito vivo, i canti pieni
di sentimento e nati di ragione allo spirito sensitivo e rationale?… Mentre dunque tempera-
te le corde e il suon della lira e i toni della voce, crediate che si contemperi medesimamente
il vostro spirito dentro” (Ficino, II xv, p. 105).
COMMENTO AL TESTO 463
che alle soglie del ‘500, come provano i ‘Rimedi contro la malinconia’ propo-
sti da Ficino: “Vogliono Mercurio [Trismegisto], Pitagora e Platone che si deb-
ba uno animo dissonante e afflitto rasserenare e riporre su con una acconcia e
soave musica di stromenti e di voci” (Vita sana X e XVIII, p. 29).
La causa di tale alto tasso di epilettici deriva dalla superiorità della razza Solare,
come lascia intendere poi l’Ospitaliero (sulla scia del XXX Probl. aristotelico);
ma anche da ragioni fisio-ambientali, come chiarisce Della Porta: “Quelli che
abitano sotto l’Equinoziale” a causa dell’eccesso di calore sono divenuti malin-
conici (Fisonomia VI XI, p. 975). Ciò può dipendere sia da fattori astronomici
(l’avvicinamento progressivo del Sole, che ha reso torridi specie i tropici, ma
toccando “ex parte” anche l’equatore [v. n. 160.1-2, § 1.1, punto 4]); sia astro-
logici: Mercurio e Luna, se sono lesi da un astro malefico in angolo, causano
l’epilessia (Astrol., p. 155), specie se Mercurio si trova in Vergine (e questa con-
figurazione siderale è ricercata dai Solari nella generazione – perciò s’insiste
sull’accortezza di non avere malefiche in angolo: 44.3); e anzi questo male più
che altri è debitore degli astri (Astrol., p. 157).
Physiol. XIV, 8 e specialmente Medicina, p. 343-6 forniscono la patognomica e la te-
rapia del morbo sacro. Secondo la teoria classica è la malinconia a causare la ‘ma-
nia’, sia nel senso di follia che di mantica. Ad es. Della Porta distingue due tipi di
bile nera: “l’una è feccia del sangue, che è fredda e secca e di grossa sostanza, la
qual fa gli uomini ignoranti, attoniti e stupefatti; l’altra si chiama atrabile, o còle-
ra adusta, e questa è quella che fa gli uomini savii e dottissimi; e questa è ancora di
varii temperamenti… Aristotele disse che la malinconia fredda e secca era bona
per l’intelletto, la calda per il temperamento dell’imaginativa” (Fisonomia VI I, p.
933-4); e quest’ultimo tipo genera due forme di predizione: quella per malinco-
nia (di cui parla Aristotele), e quella per sincope, “cioè credendo l’uomo come
morto”, di cui “si scrive esserne stato Ercole intendentissimo” (I I, p. 29-30 – Erco-
le è infatti qui menzionato a 94.8). Invece secondo C., non è la malinconia a ge-
nerare dei folli geniali, ma la qualità dello spirito animale: “La malinconia ch’è
feccia nera di sangue arso, non è causa di sagacità e d’antivedere, come molti [in
partic. forse sta pensando al ficiniano De vita coelitus comparanda] si sforzano mo-
strare; il tetro e negro umore misto col sangue, genera spiriti orribili e se non si
purga il sangue, fa licantropia e paure e pensieri brutti… [La malinconia] è segno
di spiriti sagaci, ma non causa; causa è la sottilità e passibilità delli spiriti” (Senso III
X, p. 193-4). I melancolici, dunque, hanno gli spiriti più sottili degli altri uomini,
donde la loro sagacia e insieme la scarsità di memoria (per l’estrema volatilità del-
le ‘impressioni’), e la loro ipersensibilità fino a qualità profetiche, “quoniam pas-
siones futurarum rerum praehabent in causis… sicuti aves ex aëris passione plu-
viam”; qualità di cui l’Au. stesso si sente dotato: “guàrdati ch’io vedo ed antevedo
assai di lontano; e li guai miei mi fecero più acuto” (così ammonisce epistolar-
mente Pflug). Essendo ‘spiriti puri’, privi cioè di qualsiasi fuligginosità che li ot-
tunda, sono adatti “philosophiae et poëticae”. Tale sottigliezza e lucidità può di-
ventare anche la causa per nulla rara della loro sventura: infatti i residui di scarto
del sangue ‘adusto’, sia gassosi (i vapori dalla cui condensazione o ‘distillazione’
derivano gli umori), sia precipitati solidi (come l’atrabile), nuocciono enorme-
mente agli spiriti, intorbidandoli e, con l’ostruire i condotti cerebrali, imprigio-
nandoli e inducendoli così a confliggere tra loro: “Spiritus enim eos excutere vo-
464 LA CITTÀ DEL SOLE
lens, in caput confluit et conflictatur, proptereaque fiunt motus illi varii distorti et
tremores” (Medicina, p. 360). Particolarmente “le persone letterate” devono avere
grandissima cura degli spiriti animali, con lo sfuggire la Scilla dell’atra bile e la Ca-
riddi della pituita “che i Greci chiamano Flemma, e noi catarro… [e che] spesse
volte impedisce e soffoca l’ingegno” (Ficino, Vita sana III, 5).
Per quanto riguarda la terapia, invece, sono minime le divergenze con quella
tradizionale basata sull’irrobustimento degli spiriti animali. Sempre Della Por-
ta consiglia per la malinconia atrabiliare, l’anti-melanconico per eccellenza: “il
buon vino non solo giova alla umana natura, ma fa chiaro e purgato l’oscuro e
torbido ingegno, e scaccia quei caliginosi fumi che vanno al core, al cervello”
(Fisonomia VI I, p. 937); invece per l’epilettico: “Se sarà il cervello solamente of-
feso… con continui bagni, boni cibi et umidi, e così farlo stare sempre in alle-
grezza, si guarirà, se la malattia sarà nel principio. Ma se avrà pigliato forza, bi-
sogna usar rimedii più gagliardi… e quando va a dormire aceto fortissimo… Li
ungerai il capo di olio o di aceto rosato… Bagnalo spesso con bagni di acqua
dolce o di sero di latte per tre giorni” (VI IV, p. 948). Secondo C., per disostrui-
re le occlusioni dei “ventricoli” (= le circonvoluzioni cerebrali) causate dall’u-
more “malinconico e pituitoso [che] fa epilepsia”, bisogna ricorrere ai seguen-
ti rimedi: “l’essercitio et la rettificazione della testa e cibi e poti [= bevande]
sottili” (Epilogo, p. 531-2). Infatti gli spiriti, che sono lucidi, sottili e mobili, ven-
gono offuscati e bloccati dall’umore nero, che, travasato dalla milza, sua sede
naturale, circola nel sangue; per cui rischiano anche di esser posseduti dai de-
moni, che trovano in quelle fuliggini il loro humus ideale. Quando i malinco-
nici sono molto caldi, il loro calore interno riesce a cuocere quest’eccesso di bi-
le e quindi caliginosità del sangue, producendo una gran quantità di spiriti sot-
tili, che sono appunto la ragione della loro sagacità: come quando si accende la
legna, che inizialmente fa molto fumo, ma che poi, per l’aumento di calore, si
purifica, fino a diventare invisibile. Se invece gli spiriti non hanno calore suffi-
ciente a cuocere l’atrabile stravasata nel sangue, bisogna aiutarli, irrobustendo-
li. Gli spiriti si nutrono di odori,377 e dunque, oltre a un’adeguata alimentazio-
ne, occorrono buoni “odori” (T.94.14), che li ritemprano, per affinità di ‘stato
fisico’ (quintessenza volatile), come si deduce ‘e contrario’ da Diodoro: gli abi-
tatori di selve molto odorifere sono tanto indeboliti e smorti da questo eccesso
di buon odore che “fanno le suffumigationi con Asfalto e con Barba di Becco,
acciò questo cattivo odore venga a tor via in parte di quel buono”(III III [I, p.
156]).378
377
“Che lo spirito vitale sia alimentato dall’aria e dall’odore è cosa indubitabile” (Quaest.
phys., p. 449).
378
Sulla ‘malinconia’ si rinvia ai molti e autorevoli saggi: da Klibansky a Starobinski, da L.
Pinkus, Epilessia: la malattia sacra, Roma, 1992 a E. Borgna, Malinconia, Milano, 1992.
COMMENTO AL TESTO 465
celebre Probl. XXX I di Aristotele, dove per la prima volta viene posta l’equa-
zione ‘scientifica’ genialità=follia, e dove appunto è fatta una carrellata di di-
scipline ‘a rischio’: “Cur viros, qui claruerunt vel in studiis philosophiae, vel in
republica administranda, vel in carmine pangendo, vel in artibus exercendis,
melancholicos omnes fuisse videmus”, come fra gli antichi Ercole e “inter re-
centiores vero Empedoclem, Platonem, Socratem” e infine un poeta siracusa-
no, Maraco. Questo identico elenco lo si ritrova anche in altre opere campan.:
“Vero è che molti patiscono passion naturale di malinconia, come Socrate, Cal-
limaco, Scoto, Ercole e Macometto e spesso cadevano smorti d’epilessia, ascen-
dendo il vapor nero in testa, benché fossero acuti e ingegnosi nella sanità”
(Senso, p. 202); sulle ‘morti apparenti’ ritorna a p. 232, citando Scoto e “Maco-
ne”, aggiungendo in Sensu: “et Enarco”, che potrebbe esser un’altra deforma-
zione (su cui torneremo a proposito di Callimaco) del “Maraco” aristotelico.
Passiamo adesso ad esaminare le fonti da cui C. ha potuto desumere la malin-
conicità di ognuno di questi personaggi:
• ERCOLE: nel suo commento ad Aristotele, Pietro d’Abano, sulla scorta di Ga-
leno, attribuisce a costui l’origine dell’appellativo ‘morbo sacro’: “Nam vi-
sum est quod hic fuerit nature melancolice factus, unde morbos epilenticos
[sic] ab eo denominabant morbum sacrum eo quod heros fuerit sacer. Po-
test etiam dici sacer morbus eo quod in sacro et divino contingat membro
puta capite”.379
• DUNS SCOTO: C. stesso rinvia a “quello che dicono le istorie communemente”, e cioè
che fu scambiato per morto, dopo una di queste crisi, e seppellito; e, tornato “in sé e
gridando, non fu inteso e morse [= morì] rabiosamente”.380
• SOCRATE: Aristotele, Probl. XXX I.
• MAOMETTO: anche in questo caso C. indica la fonte: in Opusc. ined., p. 47-8 e
Quod rem. 4, p. 86: “Et dicit Ioannes de Mendeville quod erat epilepticus”; la
moglie di Maometto “poi ch’ebbe cognosciuto che Machometo cadeva del
morbo caduto ella si dolse assai averlo preso per marito e Machometo tosto
se sepe reparare e detti ad intendere che ogni volta che cadeva, l’angiolo
Gabriele gli veniva a parlare e per lo grande splendore de l’angelo el quale
non potendo la sua vista sostenire gli convenia cadere”.381
• CALLIMACO: come si è visto, C. l’attribuisce ad Aristotele; ma né nei Proble-
mata né nella restante opera di Aristotele è mai citato un Callimaco (il poe-
ta di Cirene, poi, è nato una dozzina di anni dopo la morte dello Stagirita).
Invece, in Probl. XXX I, si parla di “Maracus civis Syracusanus, poëta etiam
praestantior erat, dum mente alienaretur [= Maraco, cittadino Siracusano,
era poeta ancor più bravo ogni qualvolta usciva di senno]”; i melanconici,
379
Della melanconicità di Ercole accenna anche Della Porta: v. n. 94.6.
380
Cfr Theol. XIV, p. 228; Firpo e Firpo 1951, p. 47-8; Firpo 1982a, p. 389; Ernst 1991, p. 86;
Ernst 1996, p. 78.
381
Mandeville, CXIX (Amerio in nota, però, rinvia al Possevino, Biblioth. selecta II, p. 424); cfr
anche Barros, II, p. 218; Botero, III II, p. 112; Dionigi il Certosino (Contra Alchoranum, Colo-
niae, 1533): v. n. 18.3.
466 LA CITTÀ DEL SOLE
382
Quella curata da Teodoro di Gaza (Firpo 1954, p. 1414); recentemente De Vinci ha esa-
minato le edizioni di Aristotele presenti nella biblioteca del Convento di Nicastro, tra cui
l’ed. dell’Opera stampata a Lione nel 1549, con postille e sottolineature forse ascrivibili al gio-
vanissimo C.
COMMENTO AL TESTO 467
94.15: macim,
Questa definizione (spezia costituita dall’involucro carnoso della noce moscata
separato dal seme) è diventata quella corrente (Treccani; GDLI; GDU) solo da
circa mezzo secolo. Lo Zingarelli del 1932 infatti riporta: “Arillo carnoso della
noce moscata, o seme della noce moscata usato per lo più come condimento o
in profumeria”. E, pur non essendo univoca, era probabilmente in quest’acce-
zione che lo conosceva C. Infatti esso, già noto ai Romani (“maccis” in Tito
‘Maccio’ Plauto, Pseudolus 832; “matir” o “macir” in Plinio, XII; “machir” in Dio-
scoride [SN XIII LXXIV]), nel latino tardomedievale diventato ‘macis’ (Du Can-
ge, che lo considera ‘vox indica’ e lo definisce “Flos nucis aromaticae”, fornisce
come prima attestazione un documento del 1236; mentre la prima attestazione
italiana di ‘macis’ risale al 1390 [GDU]), è, secondo tali autori, un albero “cortex
rubens” o “corium ligni” rossastro proveniente dall’India; per il Thesaurus è in-
vece “resina arboris” rossa; Avicenna, Canon, 144 (II, p. 456) riporta il parere del
“filius Masauiae” o “Mesangae”, secondo il quale è la “cortex nucis muscatae”,
condiviso dal medievale De rerum nat. (in SN XIV LIIII). Invece è Platearius che,
confutando la definizione di “flos muscatae” fornisce la prima (a me nota) defi-
nizione affine a quella oggi corrente: “sunt cortices quidam, qui reperiuntur cir-
ca nuces muscatas” (SN cit.). Questa definizione passa a Mandeville, CXXXVIII,
e perciò è senz’altro nota anche a C.: nell’isola di Giava “la noce moscata pro-
duce il macis [= “el maci”]: proprio come una nocciola ha all’esterno una buc-
cia, nella quale rimane chiusa finché non è matura e poi ne cade fuori, così la
noce moscata ha il macis” (1982, p. 129). Era una spezia molto preziosa, perché
Savonarola lo mette nelle ricette per stuzzicare l’appetito alle gravide ricche,
mentre “per le poverete… tenere in buoca la noce moscata” (p. 89). Ficino, Vi-
ta sana XI, 30 e II IX, 83 suggerisce tra “le cose cordiali… la mace”. C. ne consi-
glia l’uso con altri “aromi” a scopo generalmente terapeutico: antiveleno, con-
tro le malattie veneree e la peste (Senso, p. 249; Lettere, p. 115).
Oltre Mandeville, numerosi sono i resocontisti e viaggiatori che trattano del
macis: Barros, I, 175v; Maffei, che descrive dettagliatamente la pianta “molto si-
mile al pero e il frutto in qualche parte s’assomiglia alla pesca” (I, 327); Varthe-
ma dedica un cap. all’isola Bandan dell’arcipelago di Sumatra, ‘dove nascono
noce moscata e macis’ (p. 169-70: prima attestazione segnalata dal GDLI); in
partic. Gastaldi in Tolomeo, Geogr. (Munster), a commento della nuova tavola
sull’Indocina, dice che a Sumatra (per lui Taprobana) si producono “grandis-
sima quantità de garofali e canella, noci, macis e ogni sorte di speciarie”. Dun-
que i Solari fanno molto uso di aromi, forse anche perché abitano a Taproba-
na, celebre per le sue spezie.
COMMENTO AL TESTO 469
383
Anche se in effetti contro le bevande fredde tuona quasi concordemente tutta la medici-
na occidentale (qualcuno si pronuncia a favore, ma limitatamente al periodo estivo: SD XII
IV): da Galeno a Gellio, da Macrobio ad Avicenna, da Ficino a Zimara, da Della Porta a Per-
sio, appunto (su quest’ultimo cfr L. Artese, A. Persio e la diffusione…, in: ‘Accademia toscana
di Scienze e lettere La Colombaria’[Firenze, Olschki, 1981, pp. 85-116]).
470 LA CITTÀ DEL SOLE
viorque potus frigefactus nive, quam calefactus igne, in corpore sano secun-
dum naturam temperato’), dove prende partito per le bevande calde, perché,
come diceva già in Epilogo, i Giapponesi così “smorzano la sete e viveno meglio”
(p. 366). Oltre che da fonti orali, aveva attinto anche da Persio 1593: “potrei
addurre l’essempio d’alcune nationi, le quali hoggi dì usano bever caldo, e ba-
sta per hora raccordarne [=ricordarne] una, laquale è grande e potente, cioè
quella de’ Giapponesi, de’ quali in particolar posso dir questo, che trovandomi
in Padova gli anni passati, sotto Papa Gregorio XIII di felice memoria, a cui
vennero a baciare i piedi come ognun sa que’ tre giovani Principi di detta na-
tione, vidi io che beveano nelle lor mense acqua calda; e Giovan Pietro Maffei
Gesuita nel VI Libro dell’Historie che scrive dell’Indie, dice di que’ della Chi-
na e de Giapponesi queste parole: ‘[un certo liquore] admodum salutaris no-
mine China calidus hauritur, ut apud Iaponios’ [I, p. 362: in luogo del vino be-
vono “un liquore molto sano, chiamato Chia, e lo beono caldo, come usano an-
che i Giapponesi… e vivono lunga vita quasi senza dolore e infirmità di veruna
sorte”]: di quei si può vedere che il bever caldo non è punto contra natura, né
contra l’uso di tutte le genti, ma salutevole e usato dagli antichi e da moderni”
(V, 24b e XIV, 53b).
384
Bucol. II, 11: “per i mietitori stremati dalla rovente calura/ pesta l’aglio e il sermollino, er-
be dall’acuta fragranza”.
COMMENTO AL TESTO 471
ga vita vivevano per la fisica e Astrologia che bene intendevano. Or veder po-
trai che il Mago può allungare la vita con dette arti e con purgare a tempo le
feccie del sangue, delli spiriti e della carne, dentro purgando leggermente e di
fuori sudando e ungendo con olii preziosi, e di dentro vini e aromati blandi, in
modo che muti tutto il temperamento, secondo il secreto che qui non posso
scrivere”. Ne riparla in Theol. IV (II, p. 157): “È infatti manifesto che anche i
cervi ringiovaniscono, e ringiovaniscono le aquile, cibandosi di serpenti, e io
stesso posseggo un rimedio da prendere ogni sette anni e che conserva la vita
giovanile. Se poi questo mio rimedio fallirà, non però falliva quel frutto divi-
no”, cioè “il legno della vita” nell’Eden: “Quoniam quidem rarissimi ex ferro
aut ex aëre aurum faciunt, et hi quodam casu, nam repetere non noverunt; si-
militer rarissimi iuvenescunt aut non magis senescunt tandem”. Insomma, eli-
sir di lunga vita e pietra filosofale esistono, ma sono casi eccezionali; tuttavia a
Schoppe, C. confida di conoscere l’arcano della ‘rigenerazione’: “Habeo etiam
arcana naturae multa et medicinam admirabilem cui et fides hominum addit
vires. Ideo saepe desparates infirmitates curavi” (Lettere, p. 95). Forse C. aveva
rielaborato la teoria della rigenerazione degli spiriti del cervello, come la de-
scrive Telesio, riprendendo un’osservazione di Galeno circa il naturale, pro-
gressivo affievolimento dello spirito, a cui esso tenta di reagire attivando (cioè
muovendo più frequentemente, aumentandone le pulsazioni) l’arteria e il re-
ticolo vascolare cerebrale, “affinché da essa [arteria] si innalzi un’evaporazio-
ne più abbondante, da cui si sente rifare”; insomma lo spirito ripristina la sua
quantità vitale agitando il sistema di vasi del cervello, i cui vapori appunto si
trasformano in nuovo spirito (VI, 14 [II, p. 535-7]). Oppure, come ritiene Bob-
bio, si tratta di una panacea orientale presunta: “raccontava infatti in Medicina
[p. 66] di un certo medico arabo, che a settant’anni dimostrandone quaranta,
attribuiva la sua eterna giovinezza a un farmaco, la cui applicazione doveva es-
sere fatta ogni sette anni”.385 Ma la ricetta cui qui si allude (‘Pharmaca ad iu-
ventam’ dice la glossa, precisando altresì che “in iecore non in pulmone reti-
nenda iuventus”) prevede anzitutto determinate condizioni astrologiche (Sole
in Ariete ecc.), e poi una serie di erbe e radici, da mettere in un vaso a sua vol-
ta da conservare al caldo per novanta giorni, fino a che il Sole non entri in Can-
cro, e quindi da lasciar posare per sessanta giorni al sereno; la pozione va as-
sunta per quaranta giorni; “postquae lentum exercitium et hilare comede car-
nes salubrium animalium iuvenum, et pullorum, vitulorum…”, bere vino e un-
gere il corpo con un unguento (di cui pure si fornisce l’elaborata ricetta), che
va spalmato per nove giorni; “in decimo totum similiter ablues aqua vitae [soli-
ta potenza del significante]. Idem potest post septennium repetere, ac deince-
ps in caeteris septenariis, ut caro, et iecur rejuvenescant absque ullo periculo”
385
‘De retardando insigniter senio, et de reiuvenescentia’: “Dubitavimus enim in libro de
sensu rerum, an iuvenis queat se in iuventute servare, ut Arabs quidam Medicus, 70 annos na-
tus, vix 40 ex habitu corporis referens; iactabat se pharmaco in iuventa servatum; quod post
septem quosque annos sibi applicabat. Audivi, non vidi” (II V, I).
472 LA CITTÀ DEL SOLE
(p. 67-8), cioè uno dei segreti della giovinezza è mantener tenero il fegato. Ma
il motivo vero per cui la ricetta resta segreta è che sotto sotto potrebbe esserci
lo zampino del diavolo: “Può il diavolo anche prolungare la vita umana, rinno-
vando l’umore radicale, conservando e aumentando il calore innato, e può rin-
giovanire i vecchi, come avviene alle aquile e ai cervi. Un vecchio di Taranto
centenario, nel 1531, ritornò a giovinezza. E similmente un altro di Riva in Ca-
stiglia nella Spagna, narrato da Torquemada, una monaca di Sagunto, e un in-
diano, di cui narra nella Storia Lusitana Fernando Castaneda. Inoltre il Carda-
no e il Langio affermano che esiste nell’isola Brongia una fontana, la cui ac-
qua, più preziosa del vino, restituisce la giovinezza, e alcuni che ne bevvero, vis-
sero fino a 349 anni, ma infine morirono, poiché l’azione delle cose esterne e
la debolezza delle parti, come prova Galeno, non permettono di prorogare al-
l’infinito la vita” (Theol. XIV, p. 227).
Lasciando perdere le fontane, che ci porterebbero troppo lontano, segreti di
eterna giovinezza o almeno di prolungar la vita oltre il secolo, che potrebbero
in qualche modo (anche mediato)386 aver ispirato la formula campan., sono in
Pico (il ‘myrabolanus’ avrebbe proprietà longevizzanti [II, p. 449-51]), e in Fi-
cino, che dice a sua volta di rifarsi a un’antichissima regola caldaica: “È una re-
gola de Caldei da non farne per aventura poco conto, per ricuperare la gio-
ventù cioè che a poco a poco si purghino gli humori stranieri, che si trovino già
incorporati in noi; gli interiori per mezzo di convenienti medicine, gli esterio-
ri con fregagioni e bagni, e con provocargli sudore, rifacendo in questo mezzo
a poco a poco il corpo con cibi sani, e sustantievoli” (Vita Sana II XVII, p. 109).
386
Penso a quell’ebreo negromante, Abraham, che aveva conosciuto nell’88 a Cosenza, la cui
frequentazione gli aveva causato l’allontanamento nell’isolato Altomonte, e che l’anno dopo
forse l’avrebbe accompagnato a Napoli, “quasi a voler consegnare gli ultimi segreti di quella
passione per le scienze occulte…, la sua ‘recondita filosofia’, prima di sparire giustiziato co-
me eretico, non si sa se a Napoli o a Roma” (Formichetti 1999, p. 12).
COMMENTO AL TESTO 473
96.6: tredecim,
T.96.8: “che fan 40”, ridotti qui a tredici, ma sempre ordinati su moduli trian-
golari pitagorizzanti:
¤
Pon Sin Mor
111 111 111
111 111 111 111 111 111 111 111 111
HOH
Pon Sin Mor
111 111 111
Questa riduzione può esser dipesa da varie cause: lacuna accidentale, semplifi-
cazione, sparizione dei quaranta sacerdoti divenuti erroneamente (v. n. 10.6-7)
quarantanove; e, anzi, per quanto ivi detto, quest’organigramma doveva esser
del tutto abolito, anche per la palese contraddizione con la lista stilata poco ol-
tre (98.3-17), assolutamente incongrua a questo modello, e con la profluvie di
altre cariche – ad es. ufficiali delle Virtù (24.24). Ma non è da escludere, da
parte di uno come C. così attento all’aritmologia, che il 13, formato da 1+12,
possa rinviare a un altro modello su cui si possono formulare almeno due ipo-
tesi:
• è un modello sacro, anzi il Modello: Cristo e i 12 Apostoli; modulo che ha
senz’altro ispirato altri organigrammi utopistici: da quello del capostipite in-
glese (anche a Utopia il numero di sacerdoti per ogni città è 13, cioè 12+1 [il
sommo sacerdote], che ricalcherebbe, secondo Firpo 1979, p. 296, il “con-
sesso dei 12 Apostoli presieduto dal Cristo”), a quello di Agostini, p. 146: “un
Principe da dodici consiglieri regolato” (v. n. 106.41-4); quest’ipotesi po-
trebbe esser suffragabile da Metaph. XVI I, IV: a proposito delle idee archeti-
pe tradotte in pratica da Mosè (le sette lampade, le vesti sacerdotali), vi è an-
che la struttura sociale: “egli poi costituisce la società con dodici prìncipi, in-
segnando che, quando l’Altissimo divideva le genti e il mondo, lo fece se-
condo il numero dei figli di Israele, cioè duodenario; un altro testo ha: ‘se-
condo il numero degli angeli di Dio’ (che sarebbero, secondo Trismegisto,
Giamblico ecc…) i principi governatori del mondo inferiore, i dodici segni
dello zodiaco… Sotto questi vi sono innumerevoli ministri… perché tu veda
che il mondo corporeo è simile a quello mentale [o archetipale], da cui vie-
ne governato; e la società e il governo debbono essere costituiti ad imitazio-
ne di esso” (III, p. 195). Naturalmente il modello duodenario non è solo
ebraico: anche in Platone sono 12 gli “interpreti” dell’oracolo di Delfi (Leg.
759d-e), perché riflettono la divisione in 12 parti della città e della regione
(745b-c); e a questo modulo, anche se non a questo numero, si ispira pure il
474 LA CITTÀ DEL SOLE
‘mondo’ di Doni, in cui ogni sacerdote alloggiato nel tempio centrale so-
vraintende a una delle 100 strade della città.
• Il secondo modello è quello schema ternario e piramidale pitagorico (la ‘te-
tractis’), che spesso si trova replicato in Ficino: il Sole è un perfetto emble-
ma della Trinità, intorno alla quale vi sono “tre gerarchie di angeli, ognuna
delle quali contiene tre ordini…” (Sole XII, p. 1001).387 Infatti anche ai
Triumviri fanno capo tre ordini di magistrature, così come prevede la tasso-
nomia delle arti stilata nell’Etica, che appunto si basa sulle primalità: “Aliae
Artes ex Potestativo eius proximius derivantur, eidemque deserviunt; aliae
ab appetitivo; aliae cognoscitivo. Potestativo est Militaris Ars… Cognoscitivi
et Manifestativi sunt Scriptura imitans mundum ex paucis elementis omnes
ideas divinas exprimentem, ipsumque Deum scriptorem”: è la parafrasi di
Sapienza, che si occupa della cultura dei Solari, sintetizzando tutto o in ‘bre-
vi definizioni’ murali o in un unico libro; “Appetitivi Artes sunt Agricultu-
ra… Coquinaria, Pastoralis, Medicina, Vestiaria…” (Moralis III V, p. 21).
387
Gerarchie derivate da Dionigi Areopagita e dettagliate in Relig. XIV, p. 73-4, con tutti i
compiti assegnati ad ogni ordine angelico.
388
Cfr anche 1Cron. 28, 1; nella Bibbia volgare (in GDLI): Mosè elesse “prìncipi del popolo,
tribuni e centurioni e quinquagenari e decani”.
COMMENTO AL TESTO 475
98.1: architectus,
La terminologia è aristotelica, la tassonomia è platonica (Resp. X, 601),389 ma è
correntemente (Senso) utilizzata in ambiente telesiano: “quae [= la disciplina]
cum omnibus inferioribus artibus et scientiis, quae ad conservandam societa-
tem hanc pertinent, imperet, recte ab Aristotele Architectonica vocatur” (Per-
sio 1575, n° 470-1). C. considera l’‘architettonica’ prima tra le arti regolative
della nostra vita, perché: a) è volta al bene pubblico, b) “sa indrizzare l’altre ar-
ti al fine” (Poetica III, p. 319); c) è “la risultante della logica del conoscitivo, del-
la morale del volitivo e della matematica del potestativo” (Metaph. V I, V [I, p.
363]). Ma naturalmente Hoh è un ‘architetto’ essenzialmente in quanto Meta-
fisico: infatti “la principale delle scienze è la metafisica, la quale prova i princi-
pii loro [= delle altre scienze] e da questi assurge alle cose divine” (Theol. I [II,
p. 19]), e perciò sarà trattata a coronamento finale di CS (v. 126.2).
389
Cui C. dichiara di ispirarsi per la gerarchia delle arti e scienze: al primo posto stanno quel-
le che riguardano la felicità pubblica “e si dice architettonica, come la legislatura di Licurgo
e di Solone e, più divinamente, quella di Mosè” (Poetica III, p. 319).
390
Ernst 1997a, p. 98 adotta “modo”, ma non lo segnala nelle varianti; in Tornitore (p. 197),
avevo proposto “mondo”, seppur dubitativamente, e perciò ho preferito mantenere la lezio-
ne di T.
476 LA CITTÀ DEL SOLE
il regno di Narsinga “abondantissimo è di tutte le cose per modo che in lui non
si desidera niente che appartenga all’uso humano” (Magini, II, p. 187-8).
98.4: Medicus,
L’elenco parallelo di 10.41-4 non comprende “Oeconomicus” (colui che si oc-
cupa del governo della casa), “Astronomus”, “Musicus”, “Prospectivus”, “Pic-
tor”, “Sculptor”; invece qui non è menzionato l’“Historiographus” di 10.42. La
compresenza del “Medicus” sia sotto Sapienza (98.4) che sotto Amore (98.9) si
chiarisce ricorrendo appunto a questo primo catalogo di magistrature, dove
“Medicus” e “Physiologus” (10.43-4) sono subordinati a Sapienza (presumibil-
mente sarà uno di loro ad eseguire l’anatomia sui cadaveri dei giustiziati
[132.22-4]); invece ad Amore, che sovrintende a ciò che riguarda l’autoconser-
vazione, individuale ed essenzialmente della specie, spetta la “medicina phar-
macopolae” (18.35) = (letteralmente) ‘medicina del farmacista’:391 così inter-
preto con Crahay, indotto dalla triplice coppia di soggetto+specificazione
(“educatio natorum, m. ph., satio et collectio frugum et fructuum” [18.34-6]) e
dal fatto che il “medicine speciarie”392 evidenzia chiaramente che l’Au. sta pen-
sando a un ‘medico speziale’ (o farmacista), lui che con una punta di nostalgia
ricorda come “il medico [= medicus], specie al tempo di Galeno, si preparava i
medicamenti – non come ora, che li provvede il farmacista [= pharmacopola]”
(Poët. IV V, p. 985). In pratica, il Medico soggetto a Sapienza si occupa di medi-
cina, il Medico soggetto ad Amore di medicine, cioè di preparati galenici.
391
V. Quaest. oec. III I, p. 183 cit. in n. 10.38; invece “pharmacopia” (34.20) = ‘farmacia’, nel
senso di arte della preparazione di medicinali.
392
T.18.29-30: anche qui da scrivere senza virgola – e forse con accento sulla ‘à’ –, e non, co-
me fanno tutti, “medicine, spezierie”, altrimenti avrebbe dovuto replicare la preposizione ar-
ticolata, come fa per i sostantivi adiacenti.
COMMENTO AL TESTO 477
quartiere, da un solo ottimo esperto nella stessa arte insieme a quelli che devo-
no essere giudicati, come è costume degli Svizzeri e dei Grigioni. Le criminali,
invece, da due magistrati comuni per ogni città, eletti dal popolo a tempo de-
terminato” (Politica XV, 3).
100.6: rixa
“Decima filia irae est rixa”, e mentre la contesa o contenzioso è una controver-
sia verbale, “rixa importat quandam contradictionem in factis” (SM III XI, V).
Tommaso, ST II-II, 41, 1: “la rissa è la fattispecie di una guerra privata tra sin-
gole persone, non per l’intervento guidato da un’autorità pubblica, ma piutto-
sto per un impulso disordinato della volontà”; la sua gravità deriva da un du-
plice peccato: sociale, perché solo lo stato può usare la forza; ed etico, perché
si è soggiaciuti all’ira (41, 2).
“Se qualcuno in una rissa e in modo involontario ha fatto perdere un occhio,
non sembra che gli si debba togliere la vita, e forse neppure un occhio. Invece
a chi ha mutilato un uomo con dolo e con volontà piena sembra doversi to-
gliere la vita perché ha dato indizio di estrema malvagità e di incorreggibilità”
(Theol. X [III, p. 161]; v. n. 40.33). La distinzione fra omicidio volontario e pre-
meditato è contemplato in Deut. 4, 42 e 19, 11; e in Platone, Leg. 867c-d per la
difficoltà di legiferare in proposito: omicidi volontari possono essere meno
gravi di delitti colposi ma efferati. E modernamente, in ambito cattolico, ritor-
nano sull’opposizione ‘casu/voluntate’ Roberto Bellarmino, De controv. e Pos-
sevino XII, 10.
100.10: gratiam
Afor., 15: “la somma potestà è la potestà della spada, cioè della morte e della vi-
ta, che risiede in colui cui spetta l’ultimo appello della morte e della vita” (v.
10.22-3: le deliberazioni di Hoh troncano qualsiasi tipo di controversia). Don-
478 LA CITTÀ DEL SOLE
no: “Il Metafisico può ridurre la sentenza ma non può alterare il verdetto”. Il
Re “per farsi amabilissimo deve statuir un tribunal di grazia sopra tutti gl’altri,
al quale posseno i condennati a morte appellarsi ad gratiam regis, e spesso per-
donarli, e mandarli a combatter o a remigar contra i nemici” (Mon. Sp.1, p. 34
- ripreso in Mon. Sp. IX, p. 80 e XIII, p. 114); ma – continua Arbitrii, p. 208, do-
ve si replica all’incirca la stessa proposta – a questa grazia non devono accede-
re “gli eretici e pubblici rebelli ed enormi” assassini (come appunto si regolano
i Solari [100.39sg]).393 Inoltre l’attesa della grazia, come della sentenza, è mol-
to breve: “tertio die” (100.19); e ciò in base al principio che “allungare la lite…
è spezie di vittoria a chi mantiene il torto” (Lettere1, p. 24); con analoga celerità
i Solari puniscono i loro nemici, sia prima (66.24-8) che dopo la guerra (76.15-
8).
393
E come suggeriva Botero: “il far grazia appartiene veramente al prencipe, perché, essendo
i giudici tenuti a proceder legittimamente, egli solo può moderare il rigore e temperare con
l’equità l’asprezza delle leggi; ma non deve però usar grazia a chi si sia, con pregiudizio della
giustizia e della repubblica” (Ragion I XVIII).
394
Per la metafora cfr Rigotti, p. 75; Rigotti 1992, p. 54.
COMMENTO AL TESTO 479
395
Così scrive, perorando la sua causa e la sua vita: “non son membro fracido e resecando dal
corpo della republica” (Lettere, pp. 25, 55, 157; e v. n. 100.23 e n. 104.14-5).
COMMENTO AL TESTO 481
396
Ancora vi ritorna in Mon. Sp. XI, p. 102; Syntagma IV VIII: ‘De legistis’; Quod rem. 4, 2; cfr L.
Sartorello, ‘Indiget communitas lege semper’. Teologia e politica in T. C., ‘B&C’ X/2 (2004, p. 333-
46).
482 LA CITTÀ DEL SOLE
102.36: in columnis;
Potrebbe imitare l’usanza pitagorica di incidere i precetti ‘in lettere di bronzo
esposte al pubblico’, “in quibus omnia breviter eius [= di Pitagora] dogmata
continentur” (SH III XXV); o forse s’ispira a passi salomonici,397 direttamente o
attraverso esegesi, come quelle di Giuseppe Flavio o Pietro Comestore: nel
tempio di Salomone “stabant columnae aequis intervallis dispositae, populum
extra stantem ad legem sanctimoniae praemonentes, aliae litteris hebraeis,
aliae graecis, aliae latinis” (SH II LXXX). Per Camillo le sette colonne della Sa-
pienza, “significanti stabilissima eternità”, sono “le sette misure della fabrica
del celeste e dell’inferiore, nelle quali sono comprese le idee di tutte le cose al
celeste e all’inferiore appartenenti” (p. 51). Non sono tuttavia da escludere in-
fluenze eteroclite: “Dogmata huius libri sunt… et ex columnis Mercurii in
Aegypto. Columnae Mercurii plenae doctrinis” (Giamblico, Misteri [Ficino], p.
5).398
397
In partic., Prov. 9, 1: “La Sapienza s’è costruita la casa, v’ha drizzato le sue sette colonne”;
1Re 7, 15 e 21 e 31: “Fuse due colonne di bronzo…, Salomone [le] fece poi innalzare davan-
ti al vestibolo del Tempio” con capitelli, fregi e rilievi in bronzo; “Se qualcuno avrà peccato
contro il suo prossimo… tu ascolta dal cielo e fa giustizia: giudica i tuoi servi, in modo che
l’empio sia condannato… mentre l’innocente venga riconosciuto senza colpa”.
398
I dogmi dei sacerdoti egizi “si trovano… sulle colonne dedicate a Mercurio. Pitagora e Pla-
tone si iniziarono alla filosofia studiando sulle colonne di Mercurio, in Egitto; le colonne di
Mercurio infatti sono piene di sapienza” (Boffino).
399
Il titolo del su cit. sonetto 15 suona appunto come monito alle società reali che invece
hanno addirittura sovvertito il modello: ‘Che gli uomini seguono più il caso che la ragione
nel governo politico, e poco imitan la natura’.
COMMENTO AL TESTO 483
400
A partire, quantomeno da Pitagora, che “spiegava l’origine dell’immenso mondo e le cau-
se delle cose, et quid natura, docebat, quid deus” (Ovidio, Metam. XV, 67-9); cioè i pitagorici
usavano aforismi che “rispondono alla domanda ‘che cosa è?’ (Giamblico, Vita, p. 82); per
passare poi nel cristianesimo, anche nella forma della ‘disputatio’: “Sciendum est enim… in
omni disputatione quaeri ut quid verum falsumve fit… In Evangelio quidem et Deus, et An-
gelus, et homo, et terra, et aqua, et ignis, et aër, et Sol, et Luna, et stellae… et omnia denique
bona atque mala descripta sunt” (Damasceno, De imagin. III, 517G).
401
Tuttavia Walker sostiene che C. non conobbe il De vita coelitus comparanda ficiniano ante-
riormente al 1626 (p. 239-40); ma Ficino anche in Teol. III I (I, p. 219) parla della salita e di-
scesa per i cinque gradi dell’Essere, gradi che in Epist. II, 166v pone proprio in forma di que-
stione (‘Quid coelum, anima, angelus, Deus’), fornendo per ognuno definizioni molto strin-
gate, come ad es.: “diciamo il Cielo essere una certa luce sanza materia, e in un certo modo
corporale. L’anima una certa luce senza quantità grande; l’angelo una luce sanza moto velo-
cissima”.
402
L’Ars lulliana è divisa in tredici categorie, l’ultima delle quali è costituita dalle ‘Quaestio-
nes’, articolantesi poi in ‘Homo quid sit’, e così ‘Deus’, ‘Angelus’ ecc.
484 LA CITTÀ DEL SOLE
Tempio, se non m’inganno” (p. 197 – cioè la scalinata circolare d’accesso che
lo circonda), qui si tratta del tribunale giudicante, la cui localizzazione in uno
spazio sacro è tipico di tutte le tradizioni classiche, pagane,403 ed ebraiche: non
solo la reggia di Salomone (1Re 7, 6-7: “fece il vestibolo delle colonne… coper-
te da una tettoia. Costruì pure il portico del trono, dove giudicava le cause”),
ma anche uno degli atri del Tempio, a detta di Comestore, era circondato da
portici in cui risiedeva una ‘cattedra’ giudicante (v. n. 8.24 e n. 102.36). Infine
Alberti (VII I-III) sottolinea il nesso inscindibile fra basilica e tribunale: “a suo
parere la basilica, sede, in antico, dell’amministrazione della giustizia, è in
stretta relazione con il tempio. La giustizia è dono di Dio: l’uomo impetra la
giustizia divina attraverso la pietà, ed esercita la giustizia umana per mezzo del-
la legge e del diritto. Tempio e basilica pertanto, in quanto sedi della giustizia
divina e umana, sono intimamente connessi” (Wittkower, p. 12).
403
“Vicino ai templi la sede delle magistrature e i tribunali dove si riceveranno e si daranno
le sentenze ai cittadini, come in luoghi più che mai sacri, sia per la loro funzione che è atti-
nente a cose sante, sia perché sedi degli dèi preposti a quest’ultima, e fra questi soprattutto
quei tribunali in cui si giudicheranno… i delitti che si pagano con la morte” (Platone, Leg.
778d-779a).
404
Infatti Ambrogio, VI VIII, 50 parla del confessore come medico; Damasceno, De imagin.,
516r, addirittura di ‘Similitudo Dei et medici’.
COMMENTO AL TESTO 485
405
Desantis annota a questa frase di Palladio: “la loro ‘sapienza’ o ‘scienza delle cose sacre’
(gnosis) non aveva piena chiarezza teologica e godeva solo parzialmente del carisma di di-
scernere le ‘ragioni della Provvidenza’. La terminologia usata è di marca evagriana” (p. 56n):
ciò potrebbe, seppur in minimissima parte, giustificare come mai i Solari, così ben informati
delle cose del cristianesimo, non si siano convertiti; un’altra giustificazione è, secondo Di Na-
poli che “CS era vista da C. come un ‘cathechismus Gentilium ad fidem christianam’”, con
quella società precristiana ideale che non ha “ancora avuto modo di pesare ‘le ragioni vive
del cristianesimo’”, e perciò colloca sullo stesso piano tutti i fondatori di religioni in una po-
sizione di parità nel sesto girone: “funzione della ragione non è razionalizzare l’eventuale da-
to rivelato, riducendo il mistero ai limiti della ragione, ma indagare e cogliere l’autenticità
della legazia divina del fondatore di una religione storica” (p. 27); perciò occorrono missio-
nari dottrinalmente ferrati. Comunque sia, il non-cristianesimo dei Solari non voleva essere
una concezione della religione naturale come sostitutiva del cristianesimo storico, bensì co-
me ad esso dispositiva.
486 LA CITTÀ DEL SOLE
sormontare”. Per passare dalla conoscenza ‘storica’ alla fede ‘religiosa’, oc-
correrebbero i miracoli: “come dice S. Bernardo, non si esige l’obbedienza
alla legge da chi non abbia udito prima la legge, e non soltanto l’abbia udi-
ta, ma ne abbia anche ricevuto le prove attraverso miracoli e dimostrazioni
vere della sua origine divina” (Theol. I [II, 271]; v. n. 134.5-14). Nondimeno
c’è da chiedersi: è credibile che una popolazione non solo così ferrata in sto-
ria del cristianesimo, ma che addirittura si basa sui ‘nostri profeti’ (136.5)
per i suoi pronostici, debba attendere i missionari che, con il racconto dei
miracoli, gli insufflino la fede? I Solari non sono dei traviati o dei selvaggi da
civilizzare e redimere, ma sono fior di filosofi. Beninteso, anche fior di filo-
sofi possono avere crisi religiose; però esse riguardano la sfera individuale,
mentre qui è in causa una conversione generale. Perciò o quella frase ha un
mero valore propiziatorio;406 oppure C. doveva pensare a delle ragioni ‘ob-
biettive’, in assenza di ostacoli psicologici (i Solari “son dolcissimi”, cioè, co-
me giustamente annota Firpo: “non sono ostinati”), le quali potrebbero
spiegare cosa mancava a dei filosofi ben informati e entusiasti (84.25-7) per
convertirsi – la Grazia: “non si può volar senza l’ali della grazia di Dio, né la
grazia si può meritar se non per grazia” (Poesie 73, Madr. 5, Esp.).407
406
Come pensa Bobbio: essa bastava a sottrarre “tutta l’operetta in blocco all’accusa di eresia,
senza dover modificare in nulla e tanto meno eliminare le affermazioni pericolose e senza
quindi venir meno alle proprie idee recondite” (p. 17); essendo impossibile sentenziare sul-
le idee recondite di C., non resta che attenersi ai fatti e ai testi. Amerio 1966 scrive che la do-
manda-chiave della biografia campan. è: “Perché mai egli rimase nella Chiesa? Non (come
stimò l’Amabile) affinché, portando perpetuamente maschera, egli potesse, mascherato,
operare la distruzione della Chiesa” (p. 164), ma perché era persuaso che “uno dei vincoli
più potenti che trattengono me e (credo) anche altri nella Chiesa di Dio è il fatto che il Cri-
stianesimo approva gli studi delle scienze” (Apologia, p. 26); dunque “egli è rimasto nella
Chiesa perché nella Chiesa, espansione storica del Verbo teandrico, egli ravvisava più ancora
che la società della salvezza, la società della ragione” (Amerio 1966, p. 165).
407
Riterrei debole, anche se non del tutto destituita di fondamento, l’ipotesi che l’incompiu-
ta cristianizzazione dei Solari sia dipesa dal mancato incontro con la parola ispirata e ‘viva’
dei missionari, almeno di certi missionari, come l’ordine clerico-militare che proponeva di
istituire per il re di Spagna (v. n. 2.e punto D), o meglio ancora come “il collegio Barberino
de propaganda fide, fondato nel libro del Reminiscentur [= Quod rem.]”, proposto nel 1630 al car-
dinale Barberini, per preparare “tanti scolari armati di dottrina, profezia, testimonianze e de-
siderio di martirio e notizia di tutte sètte e nazioni per buona istoria e geografia, affin di su-
scitar la fede quasi smorta tra cristiani e moltiplicarla dove non è” (Lettere, p. 228). A favore di
questa seconda ipotesi posso addurre soltanto un passo molto tardo, e per giunta in tradu-
zione, che però mostra in maniera sufficientemente netta come il termine ‘vivo’ possieda
una valenza specificamente connessa al grado di religiosità: “La conoscenza della verità di
una proposizione, per quanto essa influisca sulla volontà e sull’operare nostro, è detta cono-
scenza viva. Non si denomina così qualunque conoscenza che influisce sulla volontà; molti
possiedono la conoscenza della religione cristiana, che pure li induce a farsi beffe di questa;
anche i Turchi hanno una conoscenza di essa, e ne sono indotti a perseguitarla. A entrambi
non sarà da alcuno riconosciuta una conoscenza viva, quantunque la loro conoscenza influi-
sca sulla loro volontà. Ma colui che venera la religione cristiana per la sua verità, e la difende
COMMENTO AL TESTO 487
B)La frase è inserita solo e soltanto in L.; scompare nella prima traduzione la-
tina (= Fr.; perché il ms su cui fu esemplata la traduz. non fu L., o perché
l’Au. non la considerava così capitale?) e una sua pallida parafrasi riappare
nella parigina (60.25: “Vigor Evangelii non potest totus naturaliter nosci”);
la versione definitiva e autoriale è doppiamente marginale: anzitutto for-
malmente, in quanto appunto è una ‘nota a margine’ e non nel corpo del
testo;
C)in secondo luogo, contenutisticamente: questa postilla riguarda un aspetto
molto peculiare dell’organizzazione sociale dei Solari: la comunanza delle
donne; vi è una discrepanza macroscopica fra il loro regime comunitaristi-
co e il matrimonio, uno dei sette Sacramenti; in questo caso ragione e fede
collidono e, principalmente, l’Au. stesso non sa bene se propendere per la
natura o la Rivelazione, come vedremo (v. n. 134.5-14, n. 148.12-3). Dun-
que: l’altalenante presenza di quella frase e il suo riferirsi ad un solo aspet-
to, che non coinvolge tutta la visione religiosa del mondo, non sono requi-
siti ottimali per fondare ipotesi attendibili sul rapporto fra i Solari e il cri-
stianesimo.
D) Ancora: se la Città è in ‘dolce’ attesa del Verbo divino, come mai si procla-
ma che il mondo finirà con l’adottare costumi solari (84.23)? È la Città che
si cristianizzerà o il mondo che si ‘solarizzerà’?
E)Infine: dopo aver appena sostenuto, in apparente spregio alla coerenza con
quanto detto al punto precedente, che il cristianesimo dominerà su tutta la
terra, a 134.19 scrive che “questi filosofi” diventeranno nientemeno che “te-
stes veritatis, electi a Deo”. Premesso che vi sono due categorie di non cre-
denti o miscredenti: coloro i quali non hanno mai sentito parlare di religio-
ne cristiana, e li chiamerò ‘ignari’; e coloro i quali, pur avendone conoscen-
za, non vi aderiscono volontariamente, e sono quindi ‘infedeli’; premesso
ciò, i Solari appartengono al secondo gruppo, e quindi è ancor più singola-
re che Dio abbia eletto un popolo che, pur non brillando per fede, dovreb-
be esser il campione della verità – e di quale verità, poi?
In sintesi: è davvero la mancata conoscenza delle ‘ragioni vive’ a impedire o ri-
tardare la conversione dei Solari? Oppure nella società ideale di C. non c’è più
posto per la religione cristiana?
Queste domande fanno tutte capo a una matrice problematica comune: il cristia-
nesimo per l’Au. di CS. Problema spinosissimo, reso ancor più acuto dalle vicende
biografiche (la ‘conversione’ di Sant’Elmo intorno al 1606), nonché da un testo,
come CS, a volte laconico e a volte eccessivo, rischiando confusione e addirittura
e diffonde, costui ha di questa una conoscenza viva… Il più alto grado della conoscenza viva
si incontra nelle verità rivelate quand’esse portan con sé la conversione dell’uomo” (J. M.
Chladenius, Einleitung zur richtigen Auslegung vernünfftiger Reden und Schrifften [= Guida alla
giusta interpretazione di scritti e discorsi razionali], Lipsia, 1742, § 474 e 486; in: P. Szondi,
Introduzione all’ermeneutica letteraria, Torino, 1975, p. 51; Chladenius pubblicò opere di filoso-
fia e teologia, perciò è sospettabile un uso ‘tecnico’ del termine, anteriore evidentemente di
oltre un secolo e mezzo).
488 LA CITTÀ DEL SOLE
408
Utili a delucidare questo punto sono: Firpo 1957; Di Napoli, pp. 41 e 160 e da ultimo
Ernst 1991, p. 26-7.
COMMENTO AL TESTO 489
409
Amerio 1966 con chiarezza ne sintetizza i tratti salienti: “egli venne dal sensismo alla teo-
ria della mente, superò il naturalismo nell’ontologia primalitativa e trovò nella dottrina del
Cristo Prima Ragione il punto d’unione della filosofia colla dogmatica” (p. 167); invece una
pagina emblematica del sentimento di vera contrizione, a mio avviso, è l’incipit di Quod rem.
2, 1 (p. 1195).
410
Sottoscrivo invece pienamente la posizione che Ernst 2002 così sintetizza: “Nonostante le
indubbie affinità fra il tentativo calabrese e la successiva utopia, nelle pagine della CS sono
del tutto assenti le spregiudicate dottrine eterodosse. Nel dialogo campanelliano prevale in-
vece un casto naturalismo, decantato da ogni tono polemico o aggressivo. Anche se nel cor-
so degli anni il testo sarà sottoposto a un processo di attenuazione, fin dalla sua prima stesu-
ra non presenta nulla che non venga poi ripreso e spiegato dall’Au. in tempi successivi… Il
problema più delicato riguarda il rapporto fra cristianesimo e religione naturale. A questo
proposito, C. non esita ad affermare che non c’è contrasto fra i due livelli: il cristianesimo,
espressione della razionalità divina, non può che coincidere con la religione naturale, e l’ag-
giunta dei dogmi e dei sacramenti non ha il fine di distruggere la natura, bensì di perfezio-
narla. E questo è senza dubbio uno dei passaggi più sottili, difficili e allusivi del pensiero cam-
panelliano: il presentare il cristianesimo come l’espressione più alta e compiuta della razio-
nalità e della religione naturale, è, in verità, più che la costatazione di una realtà esistente,
un’implicita esortazione e indicazione della via da percorrere, di un compito da realizzare”
(p. 95).
490 LA CITTÀ DEL SOLE
Disc. univ. V, Metaph. XVI, Apologeticum (e le Poesie, come ad es. 3 [‘Fede natura-
le del vero sapiente’]), è così condensabile:
1. ‘Religione’ è il legame tra finito e infinito: “Religio est divina virtus, iustitia-
rum apex, religans homines Deo ita, ut nihil, quod Deo non placeat ope-
rentur, illique serviant ac iuxta eius praecepta vivant” (Quod rem. 4, p. 139);
2. Dio è il supremo Legislatore, Colui che, non solo ha creato, ma ha anche
marchiato il mondo secondo la Sua legge: crearlo a Sua immagine significa
emanarvi le doti primalitative (Potenza, Sapienza, Amore).
3. La Legge di Dio è la Ragione: è la Sapienza procedente dalla Potenza la qua-
le dunque regna su tutto e impregna di sé il tutto (parafrasando Hegel: ‘tut-
to ciò che è reale è Razionale’); è legge di natura, in tutte le sue manifesta-
zioni, fino al vertice umano. Corollari:
a) la legge di natura è inviolabile in assoluto (“Naturam voco ius, super po-
tentia, sapientia et amore bono iunctis” [Mon. Messiae, p. 8]); solo Dio
può trasgredirla, non come Sapienza (= Legislatore), ma come Potenza
(= Signore); gerarchicamente, dunque, secondo l’ordine di processione
delle Primalità, viene prima la Potenza, poi la Sua legge naturale, quindi
le leggi positive, a partire da quelle direttamente comunicate da Dio agli
uomini;
b) l’uomo è un animale razionale, in cui cioè la razionalità, patrimonio na-
turale universale, si estrinseca al massimo grado diventandone la diffe-
renza specificatrice: “infatti la ragione prima di Dio è Dio, in virtù della
quale siamo tutti razionali per principio naturale” (Astrol. VII II, 3 [trad.
Ernst]);
c) oltre la ragione, l’altro tratto di esclusiva pertinenza umana è una tensio-
ne o nostalgia dell’Infinito (richiamandosi alla Teologia platonica di Fici-
no), indizio di una ‘Mens’ (o anima) che aspira a ricongiungersi con la
sua origine: l’anima conosce Dio per “una innata tendenza seminale”,
non per una conoscenza illata: ‘Homo Sapiens’ e ‘Homo Sacer’ sono i
fondamenti della ‘religio abdita’.
4. Il primo uomo infranse tale legge naturale, anteponendo un bene minore a
uno maggiore, la parte egocentrica al tutto; di conseguenza si ebbe la corru-
zione della natura umana, che poté così anche tralignare dalla spontanea
aderenza alla legge naturale (per il peccato di Adamo, oggetto di una do-
manda ‘ad hoc’ dell’Ospitaliero, ma tangente a questo asse argomentativo:
v. n. 128 [glossa]).
5. Tra le forme di deviazione vi è anche la creazione di false religioni, causate
da ragioni:
• intrinseche alla natura umana: “tutto ciò che è potente o grande o bene
per noi, perché rappresenta una particella della divinità, crediamo che
sia Dio, per questo la religione posta da noi è imperfetta e talora falsa,
laddove quella innata è perfetta e vera” (Metaph. [III, p. 217]);
• ragioni estrinseche: falsi e cattivi profeti ingannano i creduli seguaci, fa-
cendosi passare per emissari della Divinità (come Maometto).
6. Tale tralignamento può condurre a forme di religioni positive molto lonta-
ne, addirittura antitetiche alla legge naturale (idolatriche): “La conoscenza
COMMENTO AL TESTO 491
411
La legge naturale partecipa della Legge “con la quale Dio guida tutte le sue creature a de-
terminati fini… la quale essendo oscurata, fu dichiarata poi a Mosè da Dio stesso e poi mi-
gliorata dall’istessa sapienza fatta huomo nel Vangelio” (Mon. del Messia, p. 51-2).
492 LA CITTÀ DEL SOLE
412
Da Boccaccio, Decam. I, 2 all’anonimo autore del De tribus impostoribus, ascritto anche a C.,
che si scagionò dall’accusa dimostrando che esso circolava già 30 anni prima della sua nasci-
ta (v. n. 60.23-4); oggi, però, questa “vera e propria bibbia del libertinismo” la si ritiene un
“fantomatico testo” mai esistito (Muresu, p. 915; Popkin, in: Berti). Secondo Muresu, C. (con
Bruno) fu uno dei rappresentanti italiani del ‘libertinismo’: a leggere almeno gli atti del pro-
cesso, “C. avrebbe sostenuto la teoria della religione come impostura, praticato la magia,
espresso opinioni democritee… identificato la natura con Dio, disconosciuto i miracoli di
Cristo, negato l’immortalità dell’anima individuale e l’esistenza dell’inferno, contestato i
dogmi dell’incarnazione, della transustanziazione e della Trinità, equiparato gli uomini agli
esseri bruti, sostenuto posizioni relativistiche riguardo a culti e cerimonie religiose, inveito
contro papi, re e cardinali, affermato la piena liceità dell’amore carnale” (p. 914-5). Ma in
partic. fu la fortuna e l’uso, per quanto capzioso e spregiudicato, dell’Atheismus da parte de-
gli ambienti libertini a far propendere per una risposta affermativa alla domanda posta in ti-
tolo da Ernst (Campanella libertino? in: Ricerche sulla letteratura libertina, p. 231-41; cfr, oltre ai
documenti ritrovati recentemente da Spruit, anche Baldini-Spruit).
COMMENTO AL TESTO 493
413
“In conclusione il comunitarismo sessuale non va contro la legge di natura, specie nella
particolare forma in cui l’ho posto, ma anzi è assolutamente conforme ad essa. Perciò non è
eresia professarla nello stato di natura, ma soltanto a seguito di una legge di Dio o del diritto
ecclesiastico positivo, come non è peccato [ad es.] per il diritto naturale mangiare carne tut-
ti i giorni” (Quaest. pol. IV III, p. 109). S. Tommaso (4Sent. 33, 1) enunciava il triplice fine del
matrimonio: 1) la prole; 2) la convivenza pacifica; 3) simbolizzare l’unione di Cristo e della
Chiesa; osservando che “il primo fine conviene all’uomo in quanto è animale; il secondo in
quanto è uomo; e il terzo in quanto è cristiano”; e concludendo che “la poligamia non toglie
il primo fine; nemmeno il secondo, ma lo rende più difficile da conseguire; e infine annien-
ta del tutto il terzo”. Un ordinamento sessuale come quello Solare andrebbe quindi “soltan-
to contro la legge positiva evangelica, come pensano Durando, l’Abulense e altri dottissimi
teologi” (Quaest. pol. IV III), e non contro la legge naturale.
COMMENTO AL TESTO 495
414
Come già in T.56.35-7: “E molto laudano in questo [= la messa in comune dei beni mate-
riali] le religioni [= gli ordini religiosi: cfr Disc. univ. VI (p. 1131n)] della cristianità e la vita
dell’Apostoli”.
415
Il problema della salvezza dei ‘selvaggi’ è il nodo cruciale che ha portato la Chiesa a rifiu-
tare la dottrina dell’esistenza degli Antipodi: il dubbio, già dantesco (Par. XIX, 58), viene ri-
proposto da Rinaldo al diavolo Astarotte nel Morgante XXV, 232, ma con soluzione positiva: la
salvezza attende “le genti che non hanno conosciuto la parola di Cristo, ma praticano la loro
religione con fede profonda e purezza di cuore” (Zatti, p. 157-8, dove, oltre al passo pulcia-
no, si discutono passi analoghi del XV del Furioso e della Liberata).
416
Cfr Ernst 1991, p. 81-5, Frajese, p. 29-30, Angiuli e ultimamente Ernst 2004, per le traver-
sie subite da Atheismus, accusato di pelagianesimo – probabilmente derivatogli da Francesco
Pucci, il cui progetto di una repubblica cristiana ebbe notevole influenza sul C. (per l’incon-
tro con C., cfr L. Firpo, Processo e morte di F. Pucci, in ‘Rivista di Filosofia’, XL, 1949, p. 371-93;
Ernst 2002, p. 31sg e p. 263, in cui fornisce una bibliogr. aggiornata di e su Pucci) –; ecco l’ac-
cusa mossagli da padre Riccardi: “facendo tutti cristiani, l’autore abolisce Cristo e il Vangelo,
in quanto ognuno può conseguire la legge in ogni setta, purché viva in modo conforme alla
legge di natura”, e, come dicevano i commissari più maliziosi, così è assicurata “la salvezza
[anche] ai Turchi”.
496 LA CITTÀ DEL SOLE
417
Sia i pagani moderni che quelli antichi, vissuti prima dell’avvento di Cristo, “si secundum
legem naturae vixerunt, salvos esse” (Apologeticum, p. 581); invece, concordemente ad Agosti-
no, coloro “i quali, pur avendo conosciuto la verità, non la onorarono”, meritano “di non ri-
cevere la fede soprannaturale” (Apologia III, p. 25; Theol. I [I, p. 31]); per non parlare dei
bambini morti non battezzati, che, comunque e dovunque siano vissuti, non subiranno alcu-
na pena eterna (Atheismus, p. 87; Lettere, p. 358: “i fanciulli non batizati perdeno solo la beati-
tudine sopranaturale, non la naturale in Dio, come prova san Tomaso”).
418
Così nella cit. lettera al Querenghi: il marinaio è Colombo, esplicitamente citato in un
passo analogo nel Proemio di Metaph. I; e mi pare superfluo ricordare che un marinaio ge-
novese è il protagonista di CS.
COMMENTO AL TESTO 497
mente nel Quod rem.):419 le sterminate masse di ‘ignari’, che la Scoperta scara-
ventava sulla coscienza degli Occidentali, rischiava di aprire pericolose crepe
nell’edificio teologico, in cui si insinuavano gli eretici con i loro devastanti que-
siti: perché Dio ha permesso che per millenni gli abitanti dell’altro emisfero
fossero tenuti all’oscuro della Sua venuta? Non si tratta solo di estendere i mar-
gini di salvezza, come si vede, ma anche di fugare l’inquietante sospetto che le
forze del male fossero di gran lunga più potenti di quelle divine, visto l’esiguo
numero di eletti rispetto alle legioni di dannati: “Pare inconveniente che sen-
do il mondo grande quanto un corpo umano (a comparazion ragionando), e ‘l
Cristianesmo quanto un dito, che Dio voglia salvar solo un dito dell’opere sue,
e ‘l resto perdere… E come [Dio] non providde a quei del mondo novo di sa-
lute, e a tanta gente prima che ei nascesse in 3000 e più anni… Di più, se vi era
l’altro emisfero del mondo novo, come Mosè parlando de la moltiplicazione
de le genti non fece menzione di esso? E che providenza hebe Dio di loro mai,
se li lasciò in tanti errori?” (Ateismo II, 3-4 [in Ernst 1997c, p. 624-5]).
L’urgenza e la gravità di questi problemi era vissuta in primo luogo dai missio-
nari, i quali, per giunta, entrati a contatto con popoli e, in specie, religioni evo-
lute, avevano dovuto, fin da subito, elaborare un’armatura concettuale che
permettesse al cristianesimo di competere con quelle altrettanto complesse e
assestate ideologie. Ed infatti è proprio un missionario, e un santo (non so-
spettabile quindi di eterodossie), Francesco Saverio, a testimoniare circa mez-
zo secolo prima che si procedeva per ‘esperimenti’ analoghi: “dimostrammo
loro [= ai Giapponesi] che la Legge di Dio è la prima fra tutte, dicendo questo:
prima che le leggi della Cina arrivassero in Giappone, i Giapponesi sapevano
che uccidere, rubare, dire falsa testimonianza e agire contro i dieci comanda-
menti era male; provavano già dei rimorsi di coscienza come segno del male
commesso, poiché fuggire il male e fare il bene erano cose scritte nel cuore de-
gli uomini. Così, la gente conosceva già i comandamenti di Dio senza che nes-
sun altro glieli avesse insegnati, se non il Creatore di tutti i popoli. Se avevano
dubbi in proposito, potevano fare questo esperimento: prendere un uomo cre-
sciuto nei boschi, ignorante di ogni legge… Dovevano quindi chiedere a que-
st’uomo cresciuto lontano dalla civiltà, se uccidere, rubare… era un peccato.
419
In Quod rem., come osserva Amerio 1955, “si riflette in modo perspicuo l’idea della missio-
ne, germogliata attivamente nei secoli XVI e XVII in seno alla Cristianità, dopo che le sco-
perte geografiche ebbero svelati interi mondi viventi in religioni non cristiane e imposto il
problema della loro salvezza” (p. 5); invece per Ebrei e Maomettani non c’è scampo: “scitote
omnem infidelem contrarie [= che avversa esplicitamente il Cristianesimo] damnari… Infi-
deles autem privative [= privi della Rivelazione], sed mitius, ut qui cognoscunt Christi verita-
tem et propter alios respectus non fiunt Christiani, etiam si moraliter bene vivunt. Negative
vero, ut qui praedicationem de Christo non audivit et ignorantia invista laborat, excusatur a
peccato infidelitatis, nec damnamus propter illam, sed propter legis naturalis violationem,
quae est a Christo auctore naturae, quam qui observat rationaliter vivendo, Christianus est
vel implicite in animi praeparatione” (Quod rem. 4, 61-2 – si noti la distinzione fra chi sa, ma
non crede, come i Solari, e chi ignora del tutto, ma segue le leggi di natura che sono auto-
maticamente morali).
498 LA CITTÀ DEL SOLE
420
“Proponendo l’esempio di questa città, da un lato insegno ai pagani a vivere in modo ret-
to, se non vogliono che Dio non si curi di loro; dall’altro persuado i cristiani che la vita di Cri-
sto è conforme a natura: la stessa cosa ha fatto S. Clemente Romano richiamandosi alla re-
pubblica socratica, e così Crisostomo e Ambrogio” (Quaest. pol. IV I, p. 107).
COMMENTO AL TESTO 499
421
Cfr Disp. in Bullas XI, 11 (p. 1142) e nota di Amerio. Budé nella lettera premessa a More,
era stato chiarissimo in proposito: “se volessimo mettere a raffronto il diritto con la norma
della verità e col precetto della semplicità evangelica, nessuno sarebbe tanto ottuso da non
capire… la divergenza tra ciò che è legale secondo i decreti pontifici e ciò che è veramente
lecito… fra i precetti di Cristo, instauratore delle regole dell’umana condotta e i comporta-
COMMENTO AL TESTO 501
ni’), che esordisce sintomaticamente: “Perché, o creature di Cristo, noi che sia-
mo più vicini a Dio nella cognizione che tutti gli altri terrestri, nell’amore e
nell’azione ci troviamo ad esserne i più lontani?”; e 4, 2 (‘Quali rimedi si do-
vrebbero trattare in tutto il clero cristiano utilissimi per fare un gregge e un pa-
store mediante la reminiscenza’): molti di questi ‘rimedi’, fondati sulla ‘remi-
niscenza’ (ricordo della purezza originaria), sono correntemente usati dai So-
lari (primato della sapienza sul blasone, disprezzo della ricchezza ecc.).
Ma essenzialmente la tabe che aveva corroso le fondamenta del cristianesimo
era il machiavellismo (v. n. 60.23-4). In un’altra lettera di quegli anni cruciali
per la sua tormentata biografia interiore (8 luglio 1607) scriveva a Monsignor
Querenghi: “fatta essamina di tutte le sètte e religioni che fûro e sono nel
mondo, ho, come spero, assicurato più me stesso e tutti gli uomini delle verità
cristiane e della testimonianza apostolica, e vendicato il cristianesimo e libera-
to quasi dal machiavellismo e dall’infiniti dubbi che pungeno il cuore umano
in questi secoli oscuri… tanto ch’al Boccaccio par che non si possa discerner
per sillogismo qual sia più vera legge tra la cristiana e la macometana e l’e-
braica” (Lettere, p. 134-5): l’allusione a Decam. I, 2 è molto significativa, perché
la morale di quella favola è che il giudeo, che, per convertirsi, era voluto an-
dare a Roma a constatare di persona “i modi e i costumi” del Vicario di Cristo
e della sua corte, e che aveva visto nefandezze di ogni genere, paradossalmen-
te proprio per questo si converte: se, malgrado quel che ha visto, la religione
cristiana continua a espandersi, “meritamente mi par discerner lo Spirito San-
to esser d’essa, sì come di vera e santa più che alcuna altra, fondamento e so-
stegno”.
Perciò l’apparente aporia su evidenziata si può risolvere così: quando in un
non lontano e luminoso futuro, i Solari si cristianizzeranno e i cristiani si sola-
rizzeranno, il prodotto di questa fusione (complementare) sarà una terza via
che oggi non c’è; ma c’è stata un tempo e ora, a costo di dolorose potature di
privilegi e preconcetti, va ripristinata. Ritornare alle origini significa sì restau-
rare i costumi dei primi cristiani, che rivivono solo in alcune comunità conven-
tuali, ma essenzialmente temprare il cristianesimo alla fiamma della religione
naturale, che non è per nulla in disaccordo con i principi cristiani, anzi li fon-
da e ne testimonia la veridicità. Infatti, come già scriveva a Paolo V il 13 agosto
1606: “la pura legge della natura è quella di Cristo, a cui solo li sacramenti son
aggiunti per aiutar la natura a ben operare con la grazia di chi l’ha dati, e che
son pur simboli naturali e credibili” (Lettere, p. 15).
menti dei suoi discepoli da un lato, e dall’altro le sentenze e le norme di quanti ritengono
che la meta e il colmo della felicità debbano essere i cumuli di ricchezze di Creso e di Mida…
Cristo instauratore e regolatore del possesso, che aveva lasciato fra i suoi seguaci la carità e
un comunismo pitagorico [ha] abrogato, almeno tra i suoi fedeli, i cavillosi volumi dell’inte-
ro diritto civile e di quello canonico”, mentre Utopia “per una miracolosa ventura (se così
dobbiamo credere) ha adottato in pubblico e in privato i costumi e la genuina sapienza cri-
stiana”, e annota Firpo 1979 che quella ‘miracolosa ventura’ altro non è che “la naturale vo-
cazione cristiana, implicita nella mente umana non degradata” (p. 81).
502 LA CITTÀ DEL SOLE
L’esperimento può dirsi così riuscito: con l’ausilio della sola ragione l’uomo
approda a una religione che non è altro che cristianesimo allo stato nascente.
E appena la religione cristiana sarà restituita alla purezza evangelica, facilmen-
te tutti i popoli della terra non avranno difficoltà a riconoscere in essa quella
‘religio indita’ (o naturale) a cui ognuno di loro, dietro le svariate epifanie pe-
culiari e parziali delle “sètte” (‘religio addita’ o storica), tende inconsapevol-
mente. Di questa “verità”, dunque, sono testimoni, ignari e indiretti, i filosofi
solari: dell’aurorale ‘cristianità’ di ogni popolo che vive secondo ragione, ovve-
ro secondo natura.422 Questo dice C. in CS, a suffragio di quella che considera
una delle principali sue missioni sociali, l’ecumenismo (la cui attuazione prati-
ca è affidata a Quod rem.): convincere della naturalità e insieme ineluttabilità
della chiamata a raccolta di tutte le genti sotto l’unico Pastore romano; nella
fattispecie: ricucire le lacerazioni delle religioni. Le sue scritture, compresa CS,
sono volte a dimostrare che l’intersezione comune a tutti gli uomini, indipen-
dentemente dalle differenze epifaniche, è la ragione naturale e che essa ragio-
ne è lo spirito del cristianesimo. Tutte le religioni (cristianesimo incluso) han-
no tralignato da questa radice divina e, essendo ormai giunti al penultimo atto
rappresentato in questo gran teatro del mondo, è ora che gli uomini si ‘conci-
lino’, per iniziativa papale o per intervento di un Eroe dalla capacità e lungi-
miranza planetaria. Pur con qualche sfumatura, è da sottoscrivere quanto a tal
proposito diceva Walker: “per realizzare il suo progetto millenarista era neces-
sario che egli riuscisse ad usare il potere della Chiesa e perciò che restasse nel
suo ambito; ma vi sono pochi dubbi sul fatto che la religione a cui si accingeva
a convertire il mondo era ben lungi dall’esser ortodossa… Con i suoi scritti re-
ligiosi sperava di trasformare il cattolicesimo e di convertire e unire tutte le re-
ligioni e le nazioni del mondo” (p. 247). C. cercava un’intersezione fra le reli-
gioni storiche, che aveva sia un aspetto di ricerca di una radice comune con le
altre fedi positive (il sostrato naturale, come terreno di dialogo), sia di riforma
del cattolicesimo. Tale programma forse originariamente era tinteggiato di
‘naturalismo’, ma, almeno a partire dal 1607, si proponeva di risalire alla radi-
ce evangelica anche del cristianesimo, prosciugandolo della proliferazione di
422
Nello svolgimento del pensiero metafisico e religioso di C., vi è una costante: la presup-
posizione di una religione innata (razionale-naturale) a fondamento della religione rivelata;
mentre fino alla ‘conversione’ questa religione rivelata non era altro che una epifania della
prima (se non addirittura una sua deformazione e corruzione nelle religioni storiche), dopo
la conversione la religione rivelata diventa la guida, che porta alla luce e sistematizza le in-
tuizioni religiose innate. E allora Cristo, come incarnazione della Ragione più alta, e in quan-
to tale, cioè in quanto Sofia, nota a tutti gli uomini indistintamente, deve diventare (Quod
rem.) la loro Luce soprannaturale. Ciò significa che i Solari (come i pagani, gli ebrei, i mus-
sulmani) – sia quelli del 1602 che quelli del 1636 – sono ancora fermi al primo stadio, cioè a
una conoscenza razionale di Cristo (e del cristianesimo), e compito del cattolicesimo mili-
tante (e se del caso, militare), è farli passare al secondo stadio, perché solo la Rivelazione, al
di là dei sacramenti, dà una risposta sistematica a quel mero afflato di infinito, che caratte-
rizza l’‘homo sacer’ (cfr Asor Rosa, p. 229-31).
COMMENTO AL TESTO 503
privilegi, oltre che di un mare di glosse, pandette e canoni superati, che lo sta-
vano vieppiù soffocando e restringendo alla sola Italia e Spagna (154.7).
“Un’unione intima fra ragione e fede è possibile; quello che ha potuto fare un
popolo pagano, perché un popolo cristiano non potrebbe realizzarlo ancora
meglio? In altre parole la Chiesa non si oppone alla legge naturale, ma la tra-
scende. Né comunista, né ateo, né deista, C. forse è più un conciliatore… in-
compreso che un eterodosso” (Trousson, p. 58).
A complemento di quanto sopra (che non è poco, perché – come rileva Ernst
1991, p. 104 –, in piena Controriforma C. proclama con S. Giustino che “la re-
ligione è seminata in tutto il genere umano, mentre gli altri pensano che sia
piantata soltanto nei loro giardini privati” [Syntagma IV IX]), bisogna tener pre-
sente anche questi altri elementi, per aver una visione non unilaterale del pen-
siero religioso, quale emerge da CS:
1. i nemici della ragione – o della religione, tanto pari sono – vanno persegui-
ti: perché essi non rifiutano solo una certa fede ‘positiva’, ma essenzialmen-
te rifiutano di essere uomini, si rivoltano contro la specie, perdendo auto-
maticamente qualsiasi diritto di ‘umanità’; e in tal caso da bruti vanno trat-
tati e, se pericolosi, eliminati.423 Sedersi intorno al tavolo di un Conclave
universale non significa dialogare; nessuna apertura al ‘diverso’, alle ragioni
dell’altro, alle altre ragioni; tutto ciò che non rientra nei canoni occidentali
della ragione è automaticamente liquidato come sub-umano, e trattato di
423
Ficino stesso, che era ancor più tollerante, su questo punto è inflessibile: Dio permette “in
diversi luoghi e tempi osservarsi vari modi d’adoratione, che forse questa varietà nell’univer-
so per ordine divino partorisce mirabile ornamento. Uno re grande tiene più cura d’essere
in vero honorato, che d’essere con tali o tali gesti honorato… benché più accetta [= gradita]
una cosa che un’altra gli fusse… ma estermina e forte tormenta quegli che sono ingrati e vo-
lontariamente impii, e da Dio al tutto ribelli… Adunque se alcuno si truova al tutto da ogni
religione alieno, essendo costui alienato dalla natura della spetie humana, seguita che egli è
da principio huomo monstruoso” (Relig., p. 11-2). C., invece, assume un atteggiamento am-
biguo, frutto di un’inferenza contraddittoria: “In Atheismus C. definiva le linee teoriche della
religione naturale attribuita ai Solari. All’obiezione degli atei e dei machiavellisti che dalla
constatazione della diversità delle religioni deducevano l’equivalenza di ognuna di esse, C.
opponeva una dottrina della naturalità della religione e dell’esistenza di una religione natu-
rale. Tutti i popoli concordano nella religione naturale, ma differiscono in quella sopranna-
turale… Da tale teoria potevano essere dedotte due conseguenze opposte che C. deduceva
entrambe allo stesso tempo:” se si fa la religione naturale regola della religione cristiana, si
perviene “ad una equivalenza sostanziale di tutte le religioni e ad una larga tolleranza”
(com’è testimoniabile, ad es., da questo passo di Metaph. XVI VII, III [III, p. 261]: “ogni uomo
possiede il lume della legge eterna, cioè la legge naturale… Chi si serve della legge naturale,
si salva per i beni naturali di Dio… Se Egli diede agli altri una legge particolare e scritta, aven-
do essi disimparato a leggere il codice della natura, non per questo Egli ha lasciato qualcuno
senza un aiuto e una legge veramente sufficiente, mediante la quale molti fra tutti i popoli si
salvano, e tutti lo possono”); se viceversa la religione cristiana si assume come criterio della
religione naturale, allora il cristianesimo diventa “misura del grado di razionalità presente
nelle altre leggi e si deduce un’assoluta intolleranza” (Frajese, p. 28; e cfr Frajese 1998, p.
337-42).
504 LA CITTÀ DEL SOLE
424
Perciò non ritengo che possa trattarsi di refuso la duplice omissione di “deinde sua publi-
ce confitetur”, come forse hanno pensato Bobbio e Crahay, p. 182, che hanno mantenuto la
versione Fr. – curiosamente però in nota Crahay (o il curatore Jodogne?) riconosce la volon-
tarietà: “ces corrections tendent sans doute à dissiper l’idée que le chef suprême pourrait
n’être pas impeccable” (v. qui la ‘Nota al testo latino’).
COMMENTO AL TESTO 505
luto’ fra la Città e dio, per cui non può esser parte in causa; o dal fatto che è
privilegiata la funzione di controllo sociale (come conferma Atheismus, p. 12);
o, infine, per autocensura di una pratica eterodossa: la confessione pubblica fu
vietata da S. Leone Papa nell’Epist. 80, c. 2 “Ad Episcopos Campaniae”, e ciò af-
finché il fedele non si allontani dal sacramento, per vergogna, o per timore
che le sue colpe arrivino alle orecchie dei nemici (cit. in Baronio, Annales I,
421). Per questa pratica confessionale, C. poteva essersi ispirato a Lev. 16, 20-4:
Aronne “confessi su di lui [= un capro espiatorio] tutte le colpe dei figli di
Israele… e faccia l’espiazione per sé e per il popolo una volta all’anno”; e an-
che More, 70 e 252 parla di una confessione generale annuale; Botero: “L’Inga
confessava i suoi peccati non a’ sacerdoti, ma al Sole” (IV I, p. 10), pratica che
C. discute diffusamente in Quod rem. 2, p. 265sg e in Atheismus II, p. 175, “dove
si mostra più incuriosito che scandalizzato quando sottolinea l’analogia che in-
tercorre fra i sacramenti cristiani e le rozze cerimonie degli indigeni america-
ni, che possiedono forme umbratili di confessione e di eucarestia” (Ernst 1991,
p. 103).
Questa idea della confessione segreta (unita forse all’idea del ‘libro d’oro’
[10.13-4] e/o ‘degli eroi’ [112.8]) gli suggerirà una versione laica ad ‘istru-
mentum regni’: per evitare discriminazioni o scontenti nei nobili, consiglia al
sovrano: “ordinerai che due volte all’anno, nelle singole città, tutti coloro che
avranno escogitato qualcosa per il bene del regno, [lo] rivelino davanti al ve-
scovo e ai maggiorenti, e lo mettano per iscritto. Poi tutti gli scritti, se gli auto-
ri non vogliono recarvisi [personalmente], si esibiscano ai senatori della città
regia; un senatore o il parlamento, darà al re, tramite un cancelliere, una sin-
tesi [redatta] dal consiglio segreto; allora il re abbonderà di consigli, trarrà a sé
tutta la prudenza e l’amore dei sudditi, e attraverso ciò penetrerà i segreti degli
animi, e comprenderà i delitti e le necessità del regno e dei suoi, e nello stesso
tempo dalle cospirazioni meditate contro lo stato inviterà a pensare a vantag-
gio dello stato” (Politica XIII, 18).
uno degli arredi del tempio di Salomone, il carrello portabacini, che “si move-
va su quattro ruote di bronzo… Ai quattro angoli del carrello vi erano quattro
montanti” (1Re 7, 27-34). Invece, per la funzione sacrificale, non è ben chiaro
se C. si ispirasse liberamente a riti o eventi analoghi; o se invece avesse in men-
te una cerimonia ben precisa: Macrobio, Saturn. III, 13, 8 cita Sallustio, Hist. 2,
70, che racconta che durante un sontuoso banchetto offerto a Quinto Metello
tornato vincitore dalla Spagna, “veniva calata dal soffitto mediante funi una sta-
tua della Vittoria che gli metteva in testa una corona” – questo solo per dire
che fin dall’antichità era nota questa pratica dell’‘ascensione’ (e il suo simme-
trico). I disegni di Bartoli all’ed. di Alberti (VI VIII, p. 176-8 [p. 484-5 ed. Porto-
ghesi], dove tratta di sistemi di carrucole per sollevare pesi nelle costruzioni),
illustrano figure di statue di angeli che, per il loro contenuto sacro, potevano
suggerire l’idea di sollevare qualcuno in alto su un tempio (anche se l’intento
era prettamente tecnico). Un’altra celebre, ma spirituale ascensione è quella
narrata in At. 10, 10-16: S. Pietro “fu rapito fuori dai sensi, e vide dal cielo aper-
to scendere qualcosa come un’ampia tela che per le quattro cocche, veniva ca-
lata sulla terra, e dove erano tutti i quadrupedi e i rettili della terra e gli uccelli
del cielo. E una voce gli disse: ‘Pietro, alzati, uccidi, e mangia’. Ma Pietro ri-
spose: ‘No, o Signore, perché io non ho mai mangiato niente di profano e di
immondo’… Questo accadde per tre volte, poi subito quella tela fu ritirata in
cielo”. Crahay invece annota assennatamente che il rito solare si richiama per
molti versi a quello cristiano (l’invocazione a Dio, l’astinenza e la preghiera, la
volontarietà del sacrificio, la morte simbolica della vittima e sua ‘rinascita’ sa-
cerdotale ecc.) e “cette symbolique de l’élévation est également présent dans la
liturgie de la messe” (l’ostensione [p. 185]); ed in effetti anche in More, 254 è
presente l’idea, seppur solo mistica, dell’‘innalzamento’.
Ma C. poteva pensare ad una funzione, che prevedeva un’ascensione reale nel
cielo della chiesa; nel Duomo di Milano, ad es., vi è un meccanismo in forma di
nuvola per l’elevazione della reliquia detta del Santo Chiodo; essa fu collocata
il 20 marzo 1461 sulla sommità della volta absidale del Duomo, però la sua de-
vozione si affievolì forse proprio per la troppo elevata collocazione. Ma duran-
te la peste del 1576, S. Carlo Borromeo l’espose sull’altare, “ordinando una
‘stazione’ di quaranta ore, con predica a ogni ora sui misteri della Passione, e
disponendo dei turni di adorazione con avvicendamento di fedeli in modo che
la preghiera fosse ininterrotta”; e da quell’epoca “stabilì che ogni anno, al 3
maggio, festa dell’Invenzione (cioè del ritrovamento) della Croce, il Santo
Chiodo fosse solennemente recato in processione dal Duomo”. Il rito consiste-
va nel fatto che alcuni sacerdoti “ascendevano con la ‘nivola’ fino alla nicchia,
dalla quale estraevano il Chiodo montandolo su una croce di legno dorato… e
la mostravano subito al popolo, in mezzo a torcieri accesi. Poi, durante il canto
di Terza e Sesta, la nivola calava al piano del presbiterio ove il Chiodo era subi-
to incensato dall’arcivescovo” (Ruggeri, 3200-1). Alla fine della cerimonia del-
le quaranta ore (il 5 maggio, dunque), il chiodo veniva riposto in alto nella sua
nicchia attraverso la stessa ‘nivola’ (ideata da Leonardo, secondo Amoretti), il
cui disegno si può vedere nella Tav. XLVI in Zuccari (p. 104): vi sono quattro
funi che tirano su un meccanismo a forma di nube con panneggi. Infine, l’ele-
COMMENTO AL TESTO 507
vazione della vittima potrebbe ispirarsi non a una cerimonia sacra, ma a un ri-
to profano: a Napoli la messa alla berlina di un malfattore consisteva nell’issar-
lo “per le braccia a circa dieci metri da terra con una grossa carrucola” (Leone,
p. 51).
425
La Città è la prefigurazione del millennio aureo e dunque è nei testi profetali che si ritro-
vano i suoi principi ispiratori: anche in Ez. 8, 16 si parla di “quasi viginti quinque viri”, che
“adorabant ad ortum solis” nel Tempio di Salomone.
COMMENTO AL TESTO 509
pocalisse: ‘in stolis albis’ ventiquattro seniori e gli compagni dell’esercito del
Verbo di Dio”; e in 1Cron. 24, 1-19 si descrive come i figli di Aronne furono
divisi in 24 classi “per prestare il loro servizio nel Tempio del Signore”.426
Inoltre, sempre nel libro di Ezechiele, si allude a un duplice ordine clericale:
a proposito del Tempio della Gerusalemme promessa, il profeta dice che vi
saranno due ordini di sacerdoti, quelli “incaricati del servizio del Tempio” e
quelli “addetti al servizio dell’altare”, occupanti ognuno due distinte camere
(40, 44-6).
Tali ordinamenti e ritualità erano per giunta testimoniate anche da civiltà ex-
traeuropee: circa il duplice ordine clericale, Botero, IV I ‘De sacerdoti e reli-
giosi’ (messicani): come i sacerdoti solari “il loro perpetuo essercitio era l’in-
censare agl’idoli, il che facevano al levare e al tramontare del sole, e a mezodì
e a mezanotte”; poi vi era “un convento di giovani di 18 in 20 anni, che si
chiamavano Religiosi: questi portavano certe chieriche simili a quelle dei fra-
ti… Servivano alla Guaca [= il Tempio] e ai Sacerdoti”; circa i quattro mo-
menti della giornata in cui pregano: i religiosi buddisti “si levano a mezza-
notte a far orazione, il che fanno cantando per spazio di mezza ora, e ritor-
nano a dormire insino all’aurora; allora si levano di nuovo a dire l’altre ora-
zioni; il simile fanno quando si leva il sole e a mezzogiorno e all’ora della se-
ra, nella qual ora fanno un segno che tutto il popolo s’inginocchia e leva le
mani al cielo, come facciamo noi” (dalle lettere dei missionari in Giappone,
in: Ramusio, II, p. 1012).
426
Sisto, II, 58 riporta le principali esegesi sui ‘24 seniori’, tra cui quella di Ruperto – rappre-
senterebbero i 12 giudici “priores” e i 12 “posteriores”, ovvero gli apostoli – e di Galfrido: i 24
patriarchi.
510 LA CITTÀ DEL SOLE
427
Garin 1952 (p. 548) riporta un passo di Messahallach (o Messahala), De ratione…, che in-
segna come prevedere astrologicamente i mutamenti meteorologici.
COMMENTO AL TESTO 511
posizione Felice Gagliardo dichiara infatti che la divisa dei congiurati prevede-
va anche “un capolecchio, legato a modo di turbante di turco” (Palermo,
p. 422).
Il copricapo corrente dei Solari, frutto di una duplice esigenza – sociale: parità
fra cittadini che non hanno più necessità di scappellarsi; igienica: areazione
della testa (“biretrum eo utilius quam levius” [Medicina, p. 65]) –, è dunque
uno zucchetto, sormontato da un cappuccio. A questa uniforme sono previste
tre eccezioni, due funzionali e una semiotica: a) una ‘paglia’ per ripararsi nei
lavori agresti; b) in ambito domestico, una specie di cuffia (a rete, o doppia re-
te, ovvero berretta) degli stessi colori adottati nel vestiario, bianco (di giorno)
o rosso (di notte o fuori città); c) simbolo gerarchico nel copricapo delle ma-
gistrature.
110.19: festum
Tra i vari festeggiamenti del capodanno cinese, vi sono recite di “commedie e
tragedie con grande spesa fatte, o di favole finte di nuovo, o d’azioni prese dal-
le antiche Istorie” (Maffei, I, p. 371; v. n. 94.32).
contrafatto la virtù, e ornato i vizi con la veste di quelle. E grida lor contro, che
tornino al prisco poetare”. Capitale, infatti, per capire quale sia la missione
educativa del poeta, è Poetica VI: “il poeta deve essere istromento del legislato-
re e aiutarlo a drizzare il mondo a ben vivere mediante il diletto del sacro poe-
ma” (p. 325); il poeta con i poemi e il legislatore con le leggi hanno lo stesso
compito di rendere i cittadini buoni e felici (Poët. IV V, p. 985); di converso il
poeta mendace, che così corrompe i buoni costumi, non “è degno di essere ac-
cettato da nessuna repubblica, se non tirannesca, dove si comprano le bugie
per fare ignorante il popolo” (Poetica III, p. 320); infatti “se ai poeti è lecito ca-
lunniare i buoni, lodare i malvagi, falsare la storia… la virtù e la verità saranno
oppresse, l’ignoranza, i delitti, l’empietà favoriti, infine l’ateismo si diffonderà
ovunque”; perciò “se la potenza del poeta è così grande, le si deve porre un fre-
no”; la delicatezza della sua missione impone una censura sociale, e quindi “fa
bene Platone a escludere Omero dalla sua Repubblica” (Poët. IV X [p. 999] e VI
V); anzi “li poeti bugiardi e lascivi si devono estinguere a fatto” (Disc. univ. XI,
p. 1044; Poetica XIII, p. 351). Proprio come diceva Agostino, CD 1, 4; 7, 18; 7, 26
e in partic. a 2, 14: “Si deve piuttosto dare la palma al greco Platone che, figu-
rando con la ragione uno Stato ideale, ritenne che i poeti si devono cacciare
dalla città come nemici della verità” (allude a vari passi di Leg. e Resp., ad es.
377d-e). Così anche Doni, p. 79.
428
Così Schilling, commentando Plinio 7, 47, 152 a proposito del pugile Eutimo, cui, “su or-
dine dell’oracolo di Delfi, fu tributato un culto quand’era vivo e vegeto”.
COMMENTO AL TESTO 513
l’erigergli due statue. Perciò Agostino ammonisce sul pericolo idolatrico delle
immagini: in epoche più recenti, pur smettendo di venerare come divinità de-
funti illustri, “non si cessò per questo di venerare e stimare come dèi quelli che
erano stati stabiliti come tali dagli antichi. Anzi facendone le immagini, si ac-
crebbe la seduzione di una vana ed empia superstizione” (CD 18, 24, p. 839);
ed infatti è solo nel Rinascimento che si ritorna a erigere statue secondo l’uso
antico, fin lì osteggiato per ragioni morali.429
Al culto degli eroi dedicano pagine sia Platone, Resp. 540b, e Leg. 942c, dove
parla proprio di un libro degli eroi per “virtù militari” (aveva già precisato
[802a] che per onorarli era meglio aspettare “che ognuno abbia percorso fino
in fondo la sua vita e vi abbia collocato una fine degna di nota”); e sia More,
186 (ma non specificando se solo dopo morti).
112.12: cremantur,
La cremazione, vietata dalla Chiesa, è praticata sia per ragioni igieniche430 sia
per la duplice ascendenza culturale dei Solari: non c’è relazione di viaggio dal-
l’India che non menzioni il rituale di cremazione, accompagnata spesso dalla
pratica induista del ‘sati’, l’autodafé della vedova;431 il Pitagora di Ovidio esor-
tava a non temere la morte, perché “quando il vostro corpo sarà stato divorato
dal fuoco o decomposto dal passare del tempo, non soffrirà nessun male” (Me-
tam. XV, 156-7); tuttavia Giamblico, Vita [Theodoreto] narra che i pitagorici
vietavano la cremazione per lo stesso motivo per cui la praticavano i Solari:
compartecipazione di qualcosa del divino (p. 141).432 In More, 233 sono sot-
terrati quelli che muoiono disperati, e cremati quelli che muoiono in letizia.
Doni: “La creatura elementale, come da più ampia e più perfetta, comincia dal
fuoco. Il fuoco, simbolo del caritativo amore, sempre ascende… Ogni minima
scintilla del mio fuoco… al fine mio, che è il Cielo Essenziale, per naturale in-
stinto come a sua spera ritorna” (Mondi, p. 196-7).
In effetti anche nella Città non tutti i cadaveri vengono bruciati (infatti quelli
dei giustiziati sono anatomizzati: 132.23): fanno eccezione alcuni condannati a
morte, per la cui esecuzione il testo menziona quattro forme (la prima facente
capo a sentenze di tribunali militari; le ultime tre dei civili, includendo anche
la legge del taglione [100.4]): è divorato dalle belve (74.14); muore per mano
429
Cfr Crahay (p. 189) per il caso di papa Giulio II a Bologna nel XVI sec.
430
Una delle cause della peste è quando “post bellum multa remanent cadavera” (Physiol. IX
IV, p. 79), tema ampiamente trattato in Medicina VI II.
431
Ad es. Mandeville, CLXXIV: in un’isola del regno del Prete Gianni i morti “li gittano in
uno gran foco ardente, e quelle che amano li loro mariti… si gittano nel focho cum loro e li
fioli e dicono che lo focho li purgarà da ogni immonditia e de ogni vitio e puro e netto se ne
andarà ne l’altro mondo”.
432
Pitagora “mortuorum corpora ad magorum imitationem exuri non sinebat, utpote qui no-
luerit quemquam de mortalibus divinos honores consequi” (e così Giamblico, Misteri V XII, p.
214 – per Sodano, p. 332-3 la teoria dell’incinerazione come elevazione a fuoco mistico è cal-
daico-egizia).
514 LA CITTÀ DEL SOLE
dei concittadini o viene lapidato (100.25); infine sceglie di che morte morire, e
la scelta cade sempre sul rogo (100.28-31).
112.15: idololatriae
Prima delle cinque forme di superstizione, “si commette o lodando o sacrifi-
cando a creature o invocandole come se fossero divinità… [Idolatri] erano
quelli che stimavano e adoravano come dèi Giove e Mercurio ed Ercole, che fu-
rono semplici uomini” (Theol. X [IV, p. 133-5]). Agli Ebrei che accusano i Cri-
stiani di esser idolatri, C. ribatte: “Neque marmora et picturas adoramus latria,
sed Deum. Sanctos eius in figuris adoramus dulia… Multas adorationes in
Scriptura habemus… Figuras autem pingi posse testatur Moyses sculpens in ar-
ca testamenti Cherubinos… Deus vobis propensis idolatriae prohibuit pictu-
ras… Christiani autem satis eruditi sunt, et quod repraesentant picturae, ado-
rant, non picturas” (Quod rem. 3, p. 126).
Nella disputa iconoclastica la chiesa di Roma si era attenuta alla deliberazione
conciliare nicena del 787: “si può tributare alle immagini un affettuoso saluto
ed una venerazione fatta di onori: non l’autentica venerazione della nostra fe-
de, che è dovuta soltanto alla divina natura”. Ma la questione era rimasta aper-
ta, per l’implicita pericolosità delle immagini, che in sé non erano un idolo,
ma potevano diventarlo se usate scorrettamente; pertanto le si potevano utiliz-
zare nelle chiese, quale sussidio visivo per gli analfabeti, come suggeriva Gre-
gorio Magno, con l’implicito sottinteso che “se non si è analfabeti, sarebbe me-
glio trarre le proprie occasioni di meditazione dalle scritture e non dalle pittu-
re” (Eco 2004).
cia voltata al cielo, dicendo alcuni salmi”, li concludessi non con un “gloria
patri, et filio et spiritui sancto… perché né esso [= C.] né io credevamo al spi-
rito santo et al figlio”, ma con: “io te prego et supplico, per lo fato, armonia et
necessità, per la potentia, sapientia et amore, et per te medemo, et per il cie-
lo, e per la terra, et per le stelle erranti e fisse”.433 Dopo la parentesi eretica
con Gagliardo, in assoluta ortodossia C. respinge ogni mistica del luogo di
culto: “aliam haeresim superstitiosam” reputa un passo del Talmud da lui ri-
portato: “‘si quis oraverit ad meridiem conversa facie, sapientiam conseque-
tur, ad septentrionem vero divitias’. Mirabile arcanum: ergo ne locus corpo-
rum dat gratias et situs, an Deus super omnia, quem nec coelum et coelum
coeli capere possunt” (Quod rem. 3, p. 106). Anche circa il numero delle pre-
ghiere diarie, trancia netto: “frivola est quaestio, nam et David… in Ps. 54 ait:
‘Vespere et mane et meridie annunciabo laudem Domini’; sed neque nume-
rus commendat nos Deo, sed devotio et praecepti observatio… neque enim
in numero virtus, sed mysterium inest” (Quod rem. 4, p. 120).
Circa la lunghezza, a 112.26 e 30, implicitamente ma chiaramente, si dice che
l’orazione privata è breve, e deve esserlo “per due cause…: primo, per non
mostrar diffidenza appresso la divinità… secondo, per non trattare la divinità
ignorante, che non sappia intender quello che si dice con l’intimo del cuo-
re”, come suggerisce lo stesso “Cristo: ‘Cum oraveritis, nolite multum loqui’
[Mt. 6, 7]” (Poetica XX, p. 392-3; è in quel passo di Mt. che Cristo insegna il
‘Pater’).
Per il contenuto, sembra di ravvisare nella raccomandazione paolina il mo-
dello di riferimento: “orationes… gratiarum actiones pro omnibus homini-
bus… ut quietam et tranquillam vitam agamus in omni pietate et castitate.
Hoc enim bonum est coram Deo, il quale vuole che tutti gli uomini siano sal-
vi e giungano alla conoscenza della verità” (1Tim. 2, 1-4; per il destinatario, il
Sole, v. n. 2.a e n. 118.1-3).
Circa la formula clausolare: “Dico che questo Stato e il secolo aureo è nei de-
sideri di tutti, ed è chiesto a Dio, quando si prega che sia fatta la sua volontà
così in cielo come in terra” (Quaest. pol. IV I, p. 103); Lettere1: il mondo “s’ha
da unire tutto sotto una monarchia de una legge vera in una greggia e un pa-
store, con quella felicità che i poeti cantano del secolo aureo… e li sancti di-
ranno orando ‘ut fiat voluntas Dei in terra sicut in coelo fit’, e tutte le nazioni
aspettano” (p. 58). L’explicit della preghiera dei Solari, oltre che formula bi-
blica ricorrente,434 è parafrasi del versetto del Pater, ad indicare appunto l’at-
tesa ecumenica di tutti i popoli del regno celeste – e proprio al Pater il Geno-
vese aveva paragonato “l’orazione brevissima a levante” che i Solari elevano
ogni mattina (T.90.6-8; v. n. 90.6-7).
433
Amabile, Congiura III, p. 587-8; C. ricorda questo “scelerato” in varie Lettere (pp. 30, 36, 39)
senza però mai nominarlo, e senza mai accennare a questa preghiera ‘solare’.
434
Ad es. Ecli. 39, 5-6: “Di buon mattino, con tutto il cuore, si rivolge al Signore che l’ha crea-
to, e dinanzi all’Altissimo fa la sua preghiera… Se lo vorrà il grande Iddio…”.
516 LA CITTÀ DEL SOLE
435
È opportuno integrare un “et” fra “temporibus” e “civilibus”. Questo paragr. ha molte affi-
nità con Ficino, Sole IV ‘Conditiones planetarum ad Solem’.
436
Ad es. da Bobbio: “le ultime pagine… sono una vera e propria appendice, in cui l’autore
si sfoga a dire cose di nessun conto… o del tutto estranee al contenuto della narrazione”
(p. 13).
518 LA CITTÀ DEL SOLE
437
In un testo a lui noto di H. Wolf, compreso nelle Ephemeridum di Leowicz (v. n. 130.25), C.
poteva leggere: “Egli ha istoriato il cielo con una mirabile scrittura, e se noi fossimo capaci di
leggerla perfettamente saremmo perfettamente sapienti” (cit. e tr. di Ernst 1991, p. 258-9). Il
desiderio di conoscenza è innato nell’uomo, e in partic. della conoscenza di Dio; ma Dio è
inattingibile in sé, per cui l’uomo deve risalire dagli effetti – la natura – alla causa; e, come
Profeti e Padri ripetono, il mondo è un libro; poiché di tutto il creato sono le cose più mira-
bili a rappresentare Dio, allora lo studio del cielo è la scienza suprema, e del resto l’uomo, a
differenza degli animali, fu dotato di un volto eretto verso l’alto (Apologia III, p. 15-7).
438
Per il tentativo disperato che fece quest’uomo di salvare una delle ultime ‘weltanschauun-
gen’, termine quanto mai usurato, ma qui quantomai appropriato per indicare le ‘opere-
mondo’, i pensieri totali e globali; e nello stesso tempo, per non chiudere gli occhi alla realtà
che il telescopio squadernava - proprio lui che per primo, come sappiamo, esortava a tener
conto più del Libro vivo della Natura che di quelli morti della cultura.
COMMENTO AL TESTO 519
giorni del marzo 1611; ma quest’opera non vide mai la luce, perché gli fu se-
questrata in una perquisizione del maggio di quell’anno.439 Tuttavia le sue teo-
rie, sostanzialmente geoeliocentriche, anche nelle ‘eclettiche’ formulazioni
più tarde, improntate sempre all’esigenza primaria di salvare il suo sistema fisi-
co dai nuovi dati sperimentali, si sono tramandate (e aggrovigliate) nelle ope-
re principali. Malgrado questa grave lacuna e la frammentarietà e contraddit-
torietà delle sue congetture, cercherò di tracciare ‘brevi cenni sull’universo’
delle cosmologie campan. Il plurale è giustificato dalle due redazioni di CS, ov-
viamente. Ma a guardarle bene esse divergono, nella sostanza, solo per l’ag-
giunta di alcune righe (122.17-22), per di più dubitative, scritte forse non solo
per compiacere il suo primo curatore, l’Adami (Bobbio, p. 22),440 ma anche
per una personale intima convinzione (v. infra [§ 3, punto 2] il passo di Syntag-
ma II II e v. n. 122.17-22).
Ciò nonostante si può tracciare un profilo di massima: essendo la sua astrono-
mia una derivata della sua fisica, non poteva che essere geocentrica, pur non
essendo aristotelico-tolemaica; per l’esattezza essa è una ‘variante’ del geoelio-
centrismo, risalente ad Eraclide Pontico (allievo di Platone), rilanciata da Mar-
ziano Capella (V sec. [Lerner 1992, p. 92]) e, a fine XVI sec., ripresa da Ursus
(Fundamentum astronomicum, Strasburg, 1588) e principalmente da Tycho: in
sostanza “la Terra veniva di nuovo posta al centro del mondo, ma i cinque pia-
neti giravano attorno al Sole che a sua volta ruotava intorno alla Terra” (Koe-
stler, p. 293).441 Su quest’asse dominante, che sarà il filo celeste del suo pensie-
ro, si innesta una diramazione o meglio un’alternativa, a cui avrà potuto co-
minciare a riflettere nei primi mesi del 1611: l’eliocentrismo copernicano.
Non sappiamo, a causa della grossa lacuna di L. (v. 116.18 in ‘Apparato delle
varianti di α’), se per la redazione italiana avesse apportato sensibili modifiche;
439
Syntagma I III: ivi C. stesso si premura di assicurare che “haberi tamen potest positionis no-
strae sensus ex Physiologia et Metaphysica” (in partic. III XI-XIII; VII I, VII); a cui si può aggiun-
gere: Senso, pp. 31-4 e 168-75; il I Libro dell’Epilogo; Compendio IX-XII; Phil. realis I, p. 17-30;
Art. proph. V-VI e partic. XVII; Theol. III III-VII; Theol. XXV; Astrol., p. 18; Apologia; Quaest. phys.
XI, p. 105-25; Lettere, Memoriali (es. pp. 23, 64-5, 218-25, Disc. Cometa), tra cui spiccano quel-
lo a Galileo e a Urbano VIII (p. 218-25); Comment., p. 734-6; e naturalmente CS. Questa è una
mera bibliografia di riferimento, che si è voluta richiamare solo inizialmente e limitatamente
a questo excursus sull’astronomia campan., onde evitare aggravi o divagazioni in una materia
ardua; per le stesse ragioni – cercar di enucleare con sinteticità e chiarezza il pensiero del Fi-
losofo – è ridotto all’indispensabile ogni riferimento extra-autoriale.
440
Firpo 1968 accenna agli incontri Adami/Galilei a Firenze nel 1613 (p. 32).
441
Al saggio di Koestler si rinvia per una storia più dettagliata di questo modello cosmologi-
co, la cui paternità fu rivendicata da ognuno dei tre Autori su menzionati (per C. v. infra §
3), e il cui principale vantaggio fu quello di “offrire un compromesso fra il sistema di Co-
pernico e il sistema tradizionale. Si raccomandava a tutti coloro che esitavano a contraddire
la scienza ufficiale e al tempo stesso volevano ‘salvare i fenomeni’: era destinata ad avere un
grande ruolo nel caso Galileo. In effetti il sistema di Tycho fu ancora scoperto da un terzo
astronomo Eliseo Roeslin: è quel che succede spesso con le invenzioni che ‘sono nell’aria’”
(p. 293-4).
520 LA CITTÀ DEL SOLE
442
Il mondo è “quasi infinito” (Atheismus, p. 80); anche Galileo ammette “un mondo solo e
questo in un unico cielo pressocché infinito” (Apologia IV, p. 50); per Copernico lo spazio fra
Saturno e le fisse è “simile all’infinito”; a fine ‘500, il cosmo veniva considerato immenso, ma
finito, anche se immaginato sempre più cavo, in cui cioè il vuoto era nettamente superiore al
pieno (v. n. 125.4 [f.p.]); ma “è solo verso la fine della prima metà del secolo successivo che
la palla del mondo esploderà, e che l’universo perderà ogni limite immaginato dall’uomo”
(Lerner 1992, p. 59-72).
COMMENTO AL TESTO 521
443
“Dio, in primo luogo, fece il luogo, nel quale collocò la causa materiale. Nella materia fe-
ce le cause attive, il caldo e il freddo, le quali, volendo occupare ognuna la materia, se la so-
no suddivisa nei due elementi. Il caldo, in quanto più potente, occupò la maggior parte del-
la materia, attenuandola e spargendola ovunque, e trasformandola in ciò che noi chiamiamo
cielo. Il freddo, invece, circondato per ogni dove dal caldo, contenne al centro la restante
materia, condensandola in ciò che chiamiamo terra, e questa è la forma della loro genera-
zione… Il caldo e il freddo sono potestà attive, pertanto diffusive e moltiplicative di se stesse”
(Compendio II, 7 e VII, 6).
444
Il moto come operazione del calore è teoria che risale quanto meno al platonismo, come
si può evincere da questa sintesi plotiniana fatta da Macrobio: “la perpetuità di questa so-
stanza [celeste] è inerente al suo movimento; perché non si può concepirla sempre esistente
senza concepirla sempre in movimento, e reciprocamente. Così, il corpo celeste che essa ha
formato e a cui si è associata, immortale come lei, è mobile come lei e non si arresta mai…
Questo movimento del cielo è necessariamente un movimento di rotazione; perché, siccome
la sua mobilità non ha sosta, e visto che non esiste nello spazio alcun punto fuori di lui verso
il quale possa dirigersi, deve ritornare incessantemente su se stesso… Terminiamo qui questo
estratto degli scritti di Plotino sulla rotazione misteriosa delle sostanze celesti” (Somnium I
XVII).
522 LA CITTÀ DEL SOLE
445
Fra il 1570 e il 1600, “le sfere planetarie che popolavano il cielo spariranno, almeno per
gli autori illuminati”; contro di esse vi erano due argomentazioni: a) la luce dovrebbe subire
una rifrazione passando attraverso un cielo cristallino convesso; b) le comete devono potersi
muovere in un mezzo privo di resistenza. In partic. è Roberto Bellarmino a discostarsi dalla
teoria aristotelica, in sintonia alla lettera biblica, teorizzando un cielo elementare (e non in-
corruttibile): per lui (come per Patrizi o Pontano), “gli astri si muovono da sé come uccelli
nell’aria” (Lerner 1992, p. 74-80).
446
Oltre al modello di tattica militare, descritta a 68.14-8, potrebbe aver influito anche l’age-
vole e topica suggestione di quello della ruota, il cui centro è il luogo in cui la velocità ango-
lare tende a zero.
447
“Il cielo e la terra sono contrari per quattro motivi: il cielo è infatti caldo, lucido, tenue e
mobile; la terra, invece, è fredda, scura, densa e immobile… Ogni contrarietà fisica dipende
dal caldo e dal freddo. Il calore infatti produce la rarefazione, l’umidità, la luce e il moto; il
freddo, invece, la densità, la secchezza, la durezza, il buio e l’immobilità” (Compendio II, 8 e
VII, 4).
COMMENTO AL TESTO 523
gio cosmico cominciò a battere il tempo residuo della sua morte. Il Sole quel
giorno sorse sull’emisfero australe, perché in quel settore del cielo vi erano
meno astri, e vi si soffermò a lungo, come si può notare dalla prevalenza di
oceani, dovuta appunto al fatto che lì il Sole ha liquefatto quasi tutte le terre.
Adesso invece il Sole indugia più sul nostro emisfero, per recuperare il tempo
perduto originariamente. Dall’interazione fra il calore celeste, notevolmente
rafforzato dall’apporto solare, e l’algida materia terrestre si è formata la scala
degli esseri (v. n. 12 [glossa] § 2), secondo un progetto divino e non certo di
quelle cieche forze impegnate solo in un conflitto permanente, anche se fino
ad ora equilibrato (v. n. 124.11-8). Al centro del cosmo vi è la madre Terra (e
scavandola in profondità essa risulta sempre più fredda, oscura e compatta),
un immenso utero perpetuamente fecondato dal padre Sole, e che partorisce
l’interminabile gamma degli enti dei tre regni naturali: l’acqua che si raccoglie
nelle concavità marine e che raffinandosi e innalzandosi diventa fluido aereo,
la parte più spessa del cielo (o più rarefatta dell’acqua); sopra l’atmosfera vi è
l’etere igneo, solcato dagli astri; il calore solare, infatti, impregnando la mate-
ria terrestre, in base alla quantità dell’una e alla sottigliezza e purezza dell’al-
tro, produce per trasmutazione i liquidi (come il mare), le pietre e i metalli, le
piante, il cui corpo vegetale racchiude un fluido calorico mobile, ma non al-
trettanto puro e dinamico come quello degli animali che appunto sono dotati
anche di locomozione e di sensibilità (grazie agli spiriti animali, che non sono
altro che fluido calorico puro [v. n. 44.23]). E in questo gran teatro della natu-
ra Dio ha collocato l’uomo a recitare la sua parte da protagonista (è l’unico en-
te dotato di scintilla ultraterrena) nella commedia e tragedia del creato: “il Pri-
mo Senno ordina la comedia universale con tante maschere di corpi” (Poesie,
77, Madr. 5, Esp.).
2. Cosmologia
2.1. Statica
Questo sistema del mondo è triplicemente bipolare: strutturalmente
(caldo/freddo), spazialmente (centro/periferia) e dinamicamente (immobi-
le/ruotante). Il vortice igneo etereo in cui sono immersi gli astri, anch’essi gru-
mi di fuoco, è una sfera incardinata nello spazio. Cosa ci sia fuori della sfera ce-
leste, da un lato è dubbio (di certo non c’è il nulla; forse altri mondi?), e dal-
l’altro è di pertinenza di altre scienze che oltrepassano la fisica. Possiamo inve-
ce azzardare delle ipotesi su cosa ci sia dentro la sfera. Essa è ignea, come si di-
ceva, e quindi isotropa, perché non è concepibile che una sostanza così sottile
e omogenea possa stratificarsi in sfere dentro sfere, “come una cipolla” (Quae-
st. phys., p. 125). Tutt’al più si può parlare di regioni celesti. Ma scendiamo nel
dettaglio. In questa sfera albergano dunque tre entità principali:
1. il continuum celeste igneo etereo (ovvero il cielo)
2. gli astri, agglutinazione di fluido calorico
3. la Terra, un sistema di elementi composti.
Tra i primi due non vi è una differenza qualitativa o sostanziale (oggi diremmo:
chimica), ma solo quantitativa (= fisica) fra stati della materia (raro/denso);
ovvero: è la stessa materia ignea a diversa densità. Gli astri a loro volta sono cor-
pi a diverso grado di calore e luminosità, proporzionale alla grandezza e alla
524 LA CITTÀ DEL SOLE
distanza (dalla Terra), e dotati di moti differenti (anche per questo si posso-
no distinguere, ma solo in teoria, delle regioni celesti).
2.2. Dinamica
Simplicio obiettava che se il cielo fosse tutto igneo, gli astri non potrebbero
permanere sempre allo stesso posto, ma si muoverebbero al suo interno “co-
me pesci nel mare” (Quaest. phys. X I, p. 76); C. rovescia quest’obiezione in
una suggestione: molto più rapidamente, ma altrettanto liberamente degli
uccelli nell’aria si muovono gli astri, non essendo confitti nella sfera eterea,
secondo la dottrina aristotelico-tolemaica, “come i nodi del legno nelle tavo-
le”.448 Dentro questa palla ignea gli astri ruotano liberamente e autonoma-
mente. È proprio la differenza di densità di calore, infatti, a impedire che i
corpi celesti si muovano solidalmente al mezzo in cui sono immersi, perché
viaggiano a velocità diversa (maggiore il denso del raro). Il fatto che le stelle
ruotino liberamente e autonomamente non significa che:
• si muovano a casaccio: a differenza di pesci e uccelli, non sono spinti dal
bisogno o da passioni;
• cadano, perché non esiste un alto/basso (essendo il cosmo sferico), e per-
ché ogni corpo tende al luogo che è il centro del suo sistema;
• siano spinti dagli angeli, ivi dimoranti; tuttavia c’è una Regìa superiore che
orchestra l’intero complesso:449 il cosmo è un macro-corpo, regolato da Fa-
to, Necessità e Armonia (i tre mediatori fra le Primalità divine e la realtà
naturale), per cui ogni ente dell’universo sta al suo posto come le membra
di un organismo: siamo al crocevia fra teologia trinitaria, teoria classica dei
‘luoghi naturali’ e la moderna attrazione gravitazionale. Infatti, esplicita-
mente esclusa la gravità universale (Theol. III, p. 151), i moti naturali sono
considerati come il tendere di un qualsiasi corpo al centro del suo sistema,
il quale diventa così il suo luogo naturale (e non in assoluto, come, per
Aristotele, ad es., l’‘alto’ per il fuoco): si ha gravità sia quando un pezzo di
legno posto sott’acqua tende a portarsi in superficie, sia quando posto in
aria tende a cadere per terra.450 In natura non esiste un sopra e un sotto,
ma soltanto un centro, dato a ogni aggregato di elementi per la sua con-
servazione affinché le parti tendano a saldarsi organicamente ed assicuri-
448
Sulla metafora del nodo cfr M.-P. Lerner, ‘Sicut nodus in tabula’: de la rotation propre du soleil
au XVIe, in: ‘Journal for the History of Astronomy’, 1980.
449
Come sosteneva anche Tycho: “la macchina del cielo non è un corpo duro e impenetrabi-
le riempito di diversi orbi realmente esistenti, come ciò è stato creduto fino ad oggi dalla
maggioranza degli autori, ma questo corpo del cielo, perfettamente fluido e semplice, è
aperto da ogni verso e non offre il minimo ostacolo alle libere circolazioni dei pianeti che si
compiono senza l’aiuto o l’avanzamento di sfere reali, ma sono governati da una scienza in-
fusa di origine divina” (De mundi aetherei recentioribus phaenomenis, VIII, cit. e tr. Lerner 1992,
p. 93-4).
450
La meccanica celeste si basa sul principio che non esistono ‘gravi’ (e dunque gravità), ma
ogni corpo è come se “in medio aëris esset”, e dunque “nec a centro nec ad centrum mobilia,
sed circa centrum” (Quod rem. 4, p. 125): perciò gli astri non si avvicinano alla Terra.
COMMENTO AL TESTO 525
no così al tutto unità e durata: il mio cuore non va ad occupare il posto del
tuo (i corpi collocati al loro posto non gravitano più, e la gravità è la spin-
ta verso il centro: “gravitas est erga centrum, non ad alteram partem”); tut-
te le cose si stabiliscono sul loro proprio centro e lì si mantengono e go-
dono dell’affinità che accomuna le loro parti. Gli enti lunari tendono al
centro della Luna, quelli di Mercurio al centro di Mercurio e fuori della
loro sfera non avvertono alcunché che possa dare loro condizione miglio-
re (Apologia III, p. 29 e IV, p. 51).451
Le forze che governano i moti astrali sono:
1) il calore: si è accennato che il fuoco è per essenza mobile, cioè o si muove
o non è; la stasi è connaturata al freddo, come il moto al calore, secondo la
legge fondamentale della fisica (telesiana); dunque il motore primordiale
di ogni ente, celeste o terrestre che sia, è la sua parte ignea, e quanto mag-
giore essa è, tanto più aumenta la dinamicità del corpo che l’ospita; su sca-
la cosmica, poi, il moto della sostanza ignea eterea è circolare, a) per asse-
diare d’ogni parte il freddo; b) per mancanza di alternative: non potendo
né salire né scendere, al calore non restò altro moto che quello di rotazio-
ne;
2) la ‘sympathia’: definire questo termine creò problemi anche a Della Porta
(Magia I, 9, 13r-v); essa ha due valenze: fisica: attrazione del simile verso il
simile (il calore cerca il calore e fugge il freddo); metafisica: corrispon-
denza, richiamo, attrazione verso enti soprannaturali (120.36-122.4; v. in-
fra § 2.3);
3) la luce: la virtù luminosa del Sole è la principale fonte energetica dei corpi
celesti, un impulso che li ricarica di energia dinamica.452
451
Anzitutto è Dio a dare al mondo “essentiam et situm et ordinem”, e così la Terra è sospesa
in mezzo al cielo, come il tuorlo nel bianco dell’uovo, tanto che se la si traforasse da parte a
parte e si gettasse nel foro diametrale un sasso, “cum venerit ad medium, quiescat et non
transibit ad aliam telluris partem, quoniam ascenderet a centro et non descenderet”, perché
ogni corpo tende all’“unitionem” (Quod rem. 4, p. 30-4). La sospensione della Terra nello spa-
zio è spiegata, secondo la fisica telesiana, “ab inimicitia caeli, quod undique refugit et coit in
globum” (Metaph. III XVI, XVI, III). De centro gravitatis solidorum se n’era da poco e a lungo oc-
cupato, da un punto di vista matematico, il Commandino, ma senza compiere alcun sostan-
ziale passo avanti rispetto alla teoria aristotelica dei luoghi naturali, com’è sintetizzata da Ma-
crobio: “‘La terra è immobile’: infatti è centro, e in ogni corpo sferico il punto centrale è fis-
so. Ed è necessario che sia così, perché è intorno a questo punto che si muove la sfera. ‘La
terra è in basso’: in una sfera la parte più lontana dalle estremità ne è anche la parte più bas-
sa; se dunque la terra è la sfera più bassa, ne segue che Cicerone fa, con ragione, gravitare
tutti gli altri corpi verso di lei, perché tutti i gravi tendono naturalmente a scendere. È a que-
sta proprietà dei gravi che il nostro globo deve la sua formazione” (Somnium I XXII); e in età
medievale SN VI VI così spiega ‘Qualiter terrae globus in medio aëris sit libratus’ e, nel VII, ri-
porta una lettera di Adelardo che proporrà proprio l’es. fatto poi da C.: ‘Quorsum iniectus
lapis erit casurus si perforatus sit ei terra globus’: “in medio vero loco quiescet”.
452
“A quo [= Sole] etiam per radiorum impetum moveri puto omnes, nedum illustrari” (Me-
dicina, p. 271); Apologia IV, p. 42 appoggia quest’ipotesi a Plinio, II IV, 4: il Sole “fa muovere i
pianeti lungo le loro orbite con la sua luce”; ma senz’altro tiene conto degli Arabi, come ave-
526 LA CITTÀ DEL SOLE
va fatto anche Ficino: “quando i pianeti guardano in faccia il Sole e la Luna, quasi rivolgen-
do a loro un saluto, nuovamente ottengono un rinnovato vigore, chiamato dagli Arabi ‘al-
mugea’” (Sole VIII, p. 989).
453
“Ex imagine mundi: Omnes autem planetae 532 annis circulos suos peragunt, et eosdem
ut prius repetunt” (SN XV XXV).
COMMENTO AL TESTO 527
454
“Il Sole infatti si muove circolarmente su se stesso, come si evince dal movimento delle nu-
bi intorno ad esso” (Compendio X, 8; Apologia IV, p. 43).
455
“Il Sole girando intorno alla Terra produce il giorno; l’ombra della Terra causa la notte”
(Compendio XII, 2).
456
“Il mio conterraneo Timeo da Locri, discepolo di Pitagora, dimostrò matematicamente il
moto diurno della Terra; Filolao da Crotone quello annuo; Copernico vi ha aggiunto quello
di librazione (come ho mostrato nelle mie Quaest. phys.)” (Apologia V, p. 56); non ci si lasci in-
gannare: C. riferisce, senza condividerle, teorie geodinamiche, sull’onda evidentemente del-
la difesa d’ufficio della causa galileiana.
457
“Che nemmeno Tolomeo sia pervenuto alla verità, lo dimostrano i nuovi fenomeni, dei
quali non è possibile dare spiegazione mediante le sue asserzioni, né eliminare le discordan-
ze tra le apparenze celesti” (Apologia III, p. 19).
528 LA CITTÀ DEL SOLE
I moti dei pianeti non sono circolari uniformi per due ordini congruenti
di ragioni: a) posizione rispetto a Terra e Sole: in perigeo accelera e ac-
corcia l’orbita, schiacciandola molto per effettuare il transito presso il
corpo freddo il più rapidamente possibile (viceversa quand’è in prossi-
mità del Sole, da cui riceve un impulso luminoso corroborante); b) posi-
zione rispetto alle stelle fisse: quando si accosta ad esse (cioè è in apo-
geo), il pianeta rallenta per una misteriosa simpatia con la zona più alta,
e quindi più pura e nobile, del cielo; anzi è probabile che intrecci segrete
corrispondenze con enti soprannaturali (ricordiamo che le stelle, se non
sono mosse, sono però abitate dagli angeli [v. supra § 2.2. punto 2 e n.
118.16-21]).
• Lunari: la Luna si allontana dalla Terra nei diametri (0° e 180°), e si avvicina
nelle quadrature (90° e 270°); cioè, a differenza dei pianeti, la Luna è in
apogeo non solo quando è in congiunzione, ma anche quando è in opposi-
zione col Sole; questa peculiarità di innalzarsi anche alla massima distanza
dal Sole è dovuta a due cause: a) avendo poca luce propria, basta che ne sia
investita da un fascio diretto, per rimbalzare in su; b) la Luna è già troppo vi-
cina alla Terra, per potervisi accostare ulteriormente senza rischiare di esse-
re danneggiata dal gelo terrestre.
3. Modello cosmologico
La struttura del sistema dell’universo, fondato su corpi e leggi fisiche finora de-
scritte, è il seguente (v. fig. 10): questo schema si trova in una nota della Physiol.
(III V, p. 18), contenuto nello stesso tomo della Phil. realis dove si trova pure la
presente ed. di Civitas. Esso rappresenta due ipotesi cosmologiche come furo-
no descritte in Theol. III, p. 159; le due ipotesi non sono equivalenti, nel senso
che una delle due è accettata con riserva, subordinata alla prima e in attesa di
ulteriori riscontri (ed è ovviamente quella tratteggiata).
Il modello cosmologico principale è quello geoeliocentrico, o meglio geoelio-
statico, perché è bicentrato:
1° centro: Amore – il Sole intorno a cui girano i pianeti, tutti (comprese le stel-
le fisse) di natura ignea;
2° centro: Odio – la Terra: il sistema Sole+pianeti a sua volta le gira intorno per
distruggerla.
“Tutti i pianeti si muovono con il Sole intorno alla Terra centro dell’odio per
incendiare la Terra, e in questa guerra il Sole è condottiero. Nello stesso tempo
tutti i pianeti si muovono intorno al Sole, centro dell’amore, dal quale attingo-
no la virtù” (Compendio X, 6). Tale modello è identico a quello proposto da Ty-
cho:458
458
Tranne i satelliti: “gli astronomi assegnano quattro lune a Giove e due a Saturno, che ruo-
tano, come fanno Mercurio e Venere attorno al Sole” (Apologia IV, p. 41); quest’ultimo pun-
to era postulato anche dall’astronomia classica: “Mercurio e Venere ruotano attorno al Sole,
di cui sono satelliti assidui” (Macrobio, Somnium II IV).
COMMENTO AL TESTO 529
“La teoria che faceva del Sole il centro dei movimenti circolari di Mercurio e di
Venere, risale a Eraclide Pontico (IV sec. a. Cr.)… Anche Macrobio (In somn.
Scip. I, 19) espone minutamente l’ipotesi di Eraclide, e da tali fonti platoniche
la teoria passò… a Guglielmo di Conches [= Thierry de Chartres]” (Garin
1946, p. 658), e a Pico, III IX, p. 236 (cfr P. Duhem, Système du monde III, p. 3).
L’obiezione più valida, all’epoca, contro questo modello è che la ‘nova’ di Cas-
siopea, sorta da vapori,459 e la natura montuosa della Luna (vista al telescopio)
dimostrano che l’universo è composto dai quattro elementi, come già sostene-
va Thierry de Chartres (in SN XV XVII: “Corpora stellarum ex quatuor elemen-
tis facta esse potest probari ratione”), e non dal solo fuoco (come riteneva Pla-
tone: “Platonis opinio est omne corpus… ignem esse a lunari circulo sursum”
[SN XV XIX]) o da un quinto elemento (come Aristotele e Albumasar sosten-
gono: “Stellae sunt ex natura corporis quinti, quia positae sunt in eo fixae” [SN
XV XVIII]), e che i pianeti non sono ignei; anzi, addirittura, le macchie fanno
pensare che neanche il Sole sia tutto purissimo fuoco; e poi il fatto che anche
altri pianeti siano dotati di satelliti, significa che esistono corpi celesti che non
hanno la Terra come loro centro: quattro lune a Giove e due a Saturno (Apolo-
gia IV, p. 41).
Il secondo modello è a un solo centro (eliocentrico), quello dell’Amore: tutti i
pianeti sono corpi misti, composti di elementi, come la Terra, i quali, attratti
dalla luce del Sole, gli girano intorno, come falene, finché non ne saranno di-
strutti. Per preservare la fisica telesiana, bisogna far intervenire la metafisica:
cioè se la dinamicità connaturata al fuoco si mantiene (fisicamente) attraverso
il moto circumassiale del Sole, per giustificare la mobilità, incompatibile con la
fredda Terra (e con i pianeti, se ritenuti anch’essi corpi elementati), bisogna ri-
correre a quegli angeli, di cui era stato precedentemente (Epilogo, p. 223) ne-
gato un intervento diretto: “se i pianeti sono fuoco, il calore produce il moto,
ma sono gli angeli governanti quelli che danno regola e senso al movimento.
Se poi i pianeti non sono ignei, sebbene siano mossi dal Sole, ma sistemi [= ag-
gregati dei quattro elementi], è però un angelo quello che dà regola e finalità
459
“La straordinaria importanza” della scoperta fatta da Tycho l’11 novembre 1572 della nuo-
va stella in Cassiopea “veniva dal fatto che era in contraddizione con la dottrina (di Aristote-
le, di Platone e del cristianesimo), la fondamentale dottrina secondo cui ogni cambiamento,
ogni generazione, ogni corruzione erano confinati nelle immediate vicinanze della Terra,
nel mondo sublunare, mentre lassù l’ottava sfera, quella delle stelle fisse, rimaneva immobi-
le fin dalla creazione… Ciò che distingue una stella da un pianeta, da una cometa o da una
meteora è il fatto che è fissa” e Tycho con i suoi formidabili strumenti dimostrò che lo era:
“L’Europa fu sconvolta dalle interpretazioni a un tempo cosmologiche e astrologiche dell’e-
vento”, e, nel tentativo di salvare l’immutabilità dell’ottavo cielo, si fece ricorso a svariate ipo-
tesi ‘ad hoc’: si trattava di una cometa priva di coda dotata di movimento lentissimo; era una
cometa formata dai vapori del peccato e illuminata dall’ira divina… “Tycho deplorò la cecità
di questi spettatori del cielo: ‘O coecos coeli spectatores…’ Cinque anni dopo, Tycho Brahe
dava il colpo di grazia alla cosmologia aristotelica dimostrando che la grande cometa del
1577 non era un fenomeno sublunare e che la sua distanza dalla Terra doveva essere ‘alme-
no sei volte’ quella della Luna” (Koestler, p. 285-7).
532 LA CITTÀ DEL SOLE
460
Vi ha dedicato un intero paragr. Quaest. phys. X IV dall’eloquente titolo: ‘Utrum posito et
non concesso, sicut novus Sacer Index movet, quod verae sint conclusiones Pythagoricorum,
et quas tandem Copernicus, et Galilaeus ex suis observationibus tradiderunt: permaneat
adhuc nostra philosophia, an corrigenda, et in quibus et qua ratione’.
461
L’elenco e commento di essi in Apologia I e II. “Il 24 febbraio 1616 i consultori del Sant’Uf-
fizio con voto unanime, dichiararono che la tesi dell’immobilità del Sole al centro delle or-
bite planetarie era ‘assurda e falsa in filosofia e formalmente eretica’, in quanto contrastava
espressamente col senso letterale di molti passi della Scrittura; la tesi complementare, che la
Terra giri sul proprio asse e attorno al Sole, fu giudicata altrettanto” eretica (Firpo 1968, p.
18; cfr Paolo Ponzio, Copernicanesimo e teologia. Scrittura e natura in C., Galilei e Foscarini, Bari,
Levante, 1998).
COMMENTO AL TESTO 533
lileo… per mirabilia instrumenta stellas, olim occultas, nunc manifestat, do-
cetque, planetas persimiles lunae esse, & accipere a suo sole lucem, & alios
rotari circa alios, & in coelo mutationes elementorum fieri, & vapores ac nu-
bes in stellarum ambitu, multaque systemata inveniri”, e non c’è alcun cano-
ne della Chiesa – prosegue – che neghi l’esistenza di altri mondi (p. 50). Si
pongono due questioni: a) una relativa all’eliocentrismo: non necessaria-
mente il fatto che il Sole sia il centro della regione ‘inferiore’ (rispetto a
quella ‘superiore’ delle stelle fisse), implica che esso debba essere anche im-
mobile: basta ricorrere ad un modello geoeliostatico (alla Tycho Brahe); e
che il Sole si muova spiraliformemente (frutto della combinazione di due
moti, uno verticale verso e uno circolare intorno alla Terra), lo aveva detto a
T.114.6-7 (il Sole “facendo più stretti circoli”) e replicato a 114.7 (“pera-
grando circulos angustiores”); b) l’altra questione riguarda la ‘misura’ del-
l’universo: l’aggiunta di 122.17sg dice chiaramente che gli eventuali altri si-
stemi planetari sono interni alla sfera cosmica (perché avrebbero per centro
una delle stelle fisse); ma poco oltre i Solari manifestano un altro dubbio:
“se ci siano altri mondi fuor di questo, ma stimano pazzia il dire che non ci
sia niente, perché il niente né dentro né fuori del mondo è” (T.124.37-42,
tradotto quasi alla lettera a 124.28-31); se per “mondi” si intende ‘cosmi’
esterni alla sfera delimitata dalle stelle fisse, questo passo sarebbe in con-
traddizione con la sua teoria che l’universo è appunto unico e finito (per C.
non esistono né universi paralleli, né un universo infinito e immenso, né fi-
nito e immerso nel nulla);462 ‘uni-verso’, dunque, tutt’al più suddivisibile in
regioni: “Io invero mi accordo col Crisostomo che dice esservi un unico cie-
lo: poiché infatti tutto il cielo risulta di materia tenue, diremo che esistono
non più cieli, ma più regioni di un unico cielo, cominciando dalla sfera stel-
lata fino a noi” (Theol. III VII, II). Invece se per ‘mondi’ si intende sistemi pla-
netari, saremmo in presenza di una ripetizione con quanto già dichiarato a
p. 122, sfuggita, o più probabilmente lasciata apposta per escludere appun-
to anche l’ipotesi di una sfera immersa nel nulla.
In conclusione: I) ‘mondo’ sta per sistema planetario formato ognuno da
una delle stelle fisse, interna dunque all’unica sfera celeste esistente, con an-
nesso corredo di pianeti e satelliti; II) la questione di altri ‘sistemi elementa-
ti’, cioè relativa all’esistenza di pianeti composti dai quattro elementi anzi-
ché di solo fuoco etereo, fu resa possibile e attuale dal fatto che l’universo
galileiano può esser finito e a-centrato insieme, e quindi può essere esporta-
to, come microstrutturalmente dimostrano i Medicei, anche in altre regioni
dello spazio: se intorno al Sole gravitano dei pianeti, e intorno ad essi dei sa-
telliti, e se le stelle fisse sono dei Soli, allora anch’esse potrebbero avere un
462
Metaph. (III e XI XVIII [v. n. 118.16-21]) esclude che vi siano altri mondi fuori del nostro.
Questa suggestione bruniana (Cena delle ceneri, p. 110-1), tuttavia, sembra esser stata accolta
altrove da C. – ad es. in Physiol. VII VII, o in Compendio X, 3: “Nec propterea mundus est fini-
tus, quoniam possunt alia systemata esse extra gyrum coeli nostri”.
534 LA CITTÀ DEL SOLE
463
“Pythagoras… posuit singulas stellas esse systemata, composita ex terra, aqua et aëre et cir-
culo nebuloso, ex quibus lux solis reflexa facit eas videri lucentes… Hanc philosophiam auxit
Philolaus Crotoniata”, mentre Copernico, pur seguendo l’eliocentrismo, “de his tacet” (Quod
rem. 4, p. 42).
COMMENTO AL TESTO 535
paragrafo, ho udito che a Roma, otto giorni prima che pervenisse al cardinal
Bonifacio Caetani la mia disputa su questa materia [= Apologia], è stata con-
dannata la teoria del moto quotidiano della Terra perché contrario alle Sa-
cre Scritture. Dunque è stata accettata la nostra Fisica [= “Physiologiam”] e
non quella copernicana, né quella bruniana, e io mi attengo al dettato dei
Padri, come ho scritto altre volte prima, nec mutor” (p. 106). Cinque anni
dopo il 1616, Galilei irrimediabilmente compromesso, lui ‘non cambia’ opi-
nione, il che starebbe a dire che ritorna alla posizione geoeliostatica origi-
naria in accordo totale con Telesio e i “Padri”: “Il Sole girando intorno alla
Terra produce il giorno; l’ombra della Terra causa la notte” (Compendio XII,
2). In realtà quel quasi invisibile tratteggio dello schema della fig. 10 lascia
intendere che, ancora all’epoca della Civitas parigina, il modello alternativo
è rimasto comunque su uno sfondo ipotetico (tralasciando il non lieve peso
censorio, dopo l’abiura del ‘33), per cui si potrebbe ipotizzare una dissimu-
lazione per forza maggiore (v. n. 122.17-22). I Solari della ‘seconda genera-
zione’, continuano così a restare in bilico fra un modello a linea continua ed
uno a linea tratteggiata, fra Tycho e Galileo: “Quando una proposizione ti
apparirà impossibile, ad es., che il Sole stia fermo al centro e la Terra ruoti,
non volerla subito ritenere e diffondere come impossibile; ma trattieni il tuo
consenso, finché, ricercate da ogni parte le cause, avrai scoperto la verità”
(Syntagma II II), appunto.464
3) In effetti tutte queste ‘querelles’ sulla natura dell’Universo sono tanto capi-
tali quanto inutili. L’impianto astronomico, come si è già potuto constatare
dai cenni sparsi, è variamente legato attraverso mille fili al soprannaturale:
astri abitati (Senso, p. 173) o mossi da Spiriti, specie se questi astri non sono
ignei, la recondita regia delle tre Influenze Magne, la ‘simpatia’ con enti ce-
lestiali, ecc. Se a tutto ciò si somma quanto si diceva inizialmente circa il co-
smo come Libro di cui il Creatore, privilegiatamente ed espressamente (Mt.
24, 29), si serve per dialogare con le Sue creature, allora emergerà chiara la
strumentalità delle teorie cosmologiche. Non bisogna leggere il Libro del
Mondo per tentare di ricavarne la grammatica (vana arroganza!), ma solo
per capirlo, cioè per interpretare correttamente dai segni celesti la volontà
del Creatore – o meglio Crematore prossimo venturo.465 Il resto sono vuoti
ghirigori di orbitali ed emicicli, grotteschi arabeschi. “Il cielo non si muove
secondo le nostre misure, sempre falsificate, ma secondo quelle della divina
provvidenza… sed in Dei mensura occulta, et per revelationem discenda”
464
Cfr per ‘Astrologia e profezia in C. e Galilei’, Ernst 1991, p. 237-54; per i modelli cosmo-
logici tardocinquecenteschi, Lerner 1992, che riporta gli originali schemi aristotelico-tole-
maici (di Apianus), di Copernico, Keplero e Tycho (per quest’ultimo v. fig. 11).
465
Geremia si lamenta che la tortora, la rondine, la cicogna sanno quand’è giunto il loro
tempo, e invece “populus meus non cognovit iudicium Domini”; perciò bisogna imparare a
leggere nelle profetiche stelle, lettere divine, non solo gli eventi naturali, ma anche “iudi-
cium Domini”; dobbiamo quindi abbracciare l’astronomia/-logia come la scala per la profe-
zia (Astrol., p. 213).
536 LA CITTÀ DEL SOLE
(Astrol., p. 55). È vero che Dio ha creato il mondo in numero, peso e misura;
certo non con un colpo di dadi, ma neppure con quelle presunte leggi ma-
tematiche umane – solo Lui conosce le vere regole e finalità del suo Grande
Gioco. Allora la funzione prioritaria dell’astronomia consiste nell’imparare
a leggere l’orologio cosmico, onde pre-determinare l’ora in cui si arresterà,
come Cristo, da ultimo, ha chiaramente detto: “Vi saranno dei segni nel So-
le, nella Luna e nelle stelle” (Lc. 22, 25). Invece oggi tutti, ‘stoltamente’ (co-
me le vergini evangeliche), si ostinano ad ignorare, o peggio, come i peripa-
tetici e i machiavellisti, a irridere chi vuol smascherare “la tacita congiura di
scienziati nel nostro secolo fatta ad oscurar la verità evangelica” (Lettere, p.
218; Apologia III, p. 17), come quel Copernico, che sta a baloccarsi con le sue
fave e favolette, facendo i conti senza l’Oste, cioè senz’esser capace di ad-
durre uno straccio di prova reale per quelle irregolarità orbitali da poco in-
sorte, dicendo che sono sempre esistite o trovando fittizie spiegazioni ad
hoc; o come quel Galilei che sostiene, seppur dubitativamente, che il Sole è
ingrossato “mangiando vapori” (Lettere, p. 219; Theol. XXV, p. 175), ma come
dimostrato nell’Astronomia, “quod promittunt ex fictis causis eliciunt”, per
cui “bene prophetavit Apostolus, quod dies Domini superveniet his tam-
quam fur” (Art. proph., p. 71).466 L’astronomia, le nuove scoperte e osserva-
zioni, da Copernico a Tycho, da Cardano a Galilei, vengono sussunte e as-
servite al suo più vasto disegno profetico: comparare i loro dati con quelli
degli antichi, non per saggiare le ipotesi cosmologiche, ma per dedurre
eventuali anomalie che indichino il destino del mondo e quindi i disegni di-
vini. Questi scienziati hanno avuto il merito di farci vedere cieli nuovi e ter-
re nuove, ma hanno creduto di poter rivoluzionare il mondo, mentre invece
è il nostro modo di vivere, individuale e sociale, che bisogna radicalmente
rinnovare, perché quelli sono segnali forieri dell’approssimarsi del Giorno
del Giudizio. E di contro gli astronomi hanno avuto il demerito di coalizzar-
si con i peripatetici (ma è un’altra astuzia della Provvidenza, che in tal modo
vuole “che si verifichi la profezia che ‘il giorno del Signore arriverà come un
ladro’”), e “per spiegare le esorbitanze fuori delle profezie, essi adducono le
non-cause come cause, cioè nuovi circelli, nuove sfere, il moto della Terra,
un superfluo accrescimento del Sole ad opera dei vapori [palese l’allusione
a Galileo], e molte altre teorie che sono sfatate da loro stessi. Altri [= Coper-
nico] dicono che il Sole tornerà al suo luogo dopo 1717 anni, e che in un
numero doppio di anni ritorneranno l’obliquità e gli equinozi: ma l’espe-
rienza insegna invece il contrario giacché si trova che il Sole ebbe sempre un
moto di discesa verso la Terra. E non perché Copernico immagina il circello
dell’eccentrotete, si verificherà davvero la reversione. Perciò nei nostri libri
466
Capitale, e chiarificatrice anche delle vere intenzioni del capitolo astronomico di CS, resta
la lettera a Urbano VIII appena menzionata, e di cui completiamo la citaz.: Dio “per mante-
nerci in vigilanza sopra i suoi giudìci, sovente muta i movimenti e sito de corpi lucenti, come
appar dall’anomalie scritte da tutti gli astronomi”.
COMMENTO AL TESTO 537
467
Damasceno, Orth. fidei II, 205A ricordava il calendario ebraico con il mese intercalare:
l’anno lunare è di 354 giorni, per cui ogni tre anni solari debbono introdurre un 13° mese;
Pletone proponeva lo stesso computo del tempo: “Si seguirà per i mesi e per gli anni l’ordine
indicato dalla natura, cioè si faranno i mesi lunari e gli anni solari” (p. 59).
468
Gregorio XIII aveva riformato nel 1582, cioè appena vent’anni prima, il calendario giulia-
no, intercalando “dieci giornate all’anno civile, per accordarlo con la retrocessione dell’an-
no astronomico” (Disc. Cometa, p. 70); ed anch’essa è altra testimonianza che l’universo non
è immobile, e quindi eterno (Lettere1, p. 58).
538 LA CITTÀ DEL SOLE
469
Maffei decanta il calendario lunare dei Cinesi (I, p. 371); Celio ricorda che gli Indiani “lu-
nae cursu tempora metiuntur” (XVIII XXXI, p. 716).
470
“Come avvenne a Roma sotto Giunio Bruto e Giulio Cesare, e più tardi sotto il Papa Gre-
gorio XIII” (Theol. XXV, p. 59).
471
Ad es. l’ingrandimento del disco solare dipende dal suo avvicinamento alla Terra, “e non
perché il sole ingrossò mangiando vapori, secondo dubitosamente pensa il Galileo”; o gli ag-
giustamenti ‘ad hoc’ quali l’eliocentrismo o “l’ecentrici ed epicicli” (T.118.20).
COMMENTO AL TESTO 539
Sermone: “ti ricordi spesso di quel giorno ultimo, nel quale i cieli saran distrutti
dal fuoco…”) e moderne sulla prossima apocalisse ignea; contro costoro, dun-
que, e i danni sociali che arrecano (ateismo, tirannia ecc.), “il cane fidelissimo
contra tutte mali bestie mal conosciuto” lancia a Urbano VIII un monito e una
campanella d’allarme (disegnata a mo’ di firma [v. n. 116.7-11]), scrivendogli
che “la tacita congiura di scienziati del nostro secolo fatta ad oscurar la verità
evangelica” è stata da lui smascherata in un trattatello posto in appendice alla
sua Astronomia [1604], il De symptomatis mundi per ignem perituri (o interituri [Let-
tere, p. 219]), anch’esso andato perduto (Firpo 1940, p. 184; C. ne accenna
spesso: es. Art. proph., pp. 46 e 54).
La ‘fine del mondo’ (116.10) avverrà dunque per fuoco, come ribadisce 134.24
e implicitamente 156.7-11 (v. n. 156.6-158.5), e questo segnerà la fine della
contesa originaria fra Caldo e Freddo (sono i principi della fisica telesiana), in
quanto il moto spiraliforme di Sole e pianeti ha la Terra come suo centro e ber-
saglio, avvicinandosi in media di 1/6 di secondo di grado all’anno (però “que-
sta discesa farsi irregularmente” [Disc. Cometa, p. 69]); e perciò la fascia inter-
tropicale si restringe, mutano le eclissi, equinozi e solstizi sono anticipati di cin-
quanta secondi all’anno e gli apogei dei pianeti cambiano di posto (Physiol. III
V, p. 14), arretrando di “quasi trentasei gradi” (Lettere [1628], p. 219).472 La ne-
cessità di continuare a indagare sulla data fatidica della “fin delle cose”
(T.116.13) dipende, oltre che dall’incertezza sull’età del mondo, anche dalla
variabilità delle anomalie, parametri indispensabili per dedurre il tempo resi-
duo dell’Universo: ad es., il C. del 1599 calcolava che “dai tempi di Tolomeo ai
nostri il Sole si è avvicinato di circa settantamila stadi” alla Terra (Supplizio, p.
87); mentre in Metaph. XI III, II dice che dalla venuta di Cristo fino a noi la di-
stanza si è ridotta “11.000 milliaribus” (= miglia); invece altrove parla quasi
sempre di 110.000 miglia,473 per una media, che non è affatto costante, di “10
terzi di grado” all’anno (Physiol. III V, p. 14 – un grado è 60x60x60 = 216.000
terzi). Al di là delle misure, occorre ribadire che questo ‘dato’, prima che astro-
nomico, voleva esser profetico, e che probabilmente gli fu comunicato da
Francesco Pucci nelle galere romane: secondo Pucci fra i segnali sibillini del
compimento delle profezie vi è anche il fatto che “il sole si avvicina alla terra”
(Cantimori 1949, p. 381). “Questa interpretazione apocalittica è comune agli
intellettuali di tutta Europa, compresi gli scienziati. L’umanista e giurista olan-
dese Ugo Grozio crede di aver trovato la giustificazione scientifica del progres-
sivo e inesorabile avvicinarsi della Terra al Sole; partendo proprio dalle teorie
copernicane ricorda infatti che «il mondo non è più sorretto da quelle forze
472
Per tali anomalie cosmiche e annesse note di rinvio v. nn. preced.
473
Disc. univ. V (p. 1127) e XXIII (p. 1161): “più che centomila miglia”; ma da Mon. Sp., p. 20
a Lettere, pp. 23 e 219, da Lettere1, p. 122 a Disc. Cometa, p. 69 (“cento e diece mila migliaia”),
da Art. proph., p. 67-8 a Quod rem. 3, p. 84, fino all’ultima opera, l’‘Ecloga’ (169, 9): “myria-
dem undecimam millenorum (aspice!) passuum”, cioè: 10.000x11.000=110.000.000 passi, ov-
vero 110.000 miglia, non “undicimila”, come traducono Firpo e Giancotti.
540 LA CITTÀ DEL SOLE
che lo avevano sostenuto prima» e che «il suo tramonto è atteso dalla prova
delle cose che vanno declinando». Si tratta di previsioni della durata del mon-
do elaborate dai maghi caldei e che Callistene, impegnato nella spedizione in
Oriente di Alessandro Magno, aveva trasmesso al suocero Aristotele: da lui poi
erano entrate nella grande tradizione culturale occidentale riprese da Ovidio e
Lucano” (Formichetti 1999, p. 55).
474
E inoltre Apologia II, 3; Gentilismo 21, 2; Disc. univ. IX e XI.
475
È significativo, del resto, che la perduta Astronomia fosse inserita in un elenco del 1609 col
titolo De motibus astrorum libri 4 contra physiologos et astronomos (Lettere, p. 162).
476
E non il copernicano, come, ad es., sembrava al Magini, riportato e condiviso da Ernst
(1977, p. XXXIX; 2002, p. 80), basandosi su un’affermazione di Art. proph., p. 264 – “Coper-
nicum super omnes acceptissimum pronunciavi” –, che riguarda solo il computo dell’età del
mondo; per un C. inclinante “apertamente alle idee copernicane”, si pronuncia anche Vaso-
li, p. 347-50, che nelle pp. preced. ha ricostruito i rapporti fra Copernico e la cultura italiana
coeva.
477
Neppure quando scrisse l’Apologia, qualche anno dopo, si batteva per l’eliocentrismo – in-
fatti a p. 29 scriveva che la Terra “nunc pensilis apparet in medio mundi” (cfr però Lerner
2001, p. 234) –, ma si batteva “in ultima analisi, per la libertà di ragione” (ib., p. 19).
COMMENTO AL TESTO 541
occupa il centro, e che le sfere delle fisse, che si estendono intorno allo stesso
centro dov’è il Sole, abbiano una grandezza tale che il rapporto del cerchio, sul
quale la Terra girerebbe, alla distanza delle stelle fisse è paragonabile al rap-
porto del centro della sfera con la sua superficie” (I, p. 135).
Per C. citare questi autori italici (menzionati ancora insieme in Comment., p.
735) è anzitutto un gesto di patriottismo culturale (“in quanto filosofo natu-
ralmente amo l’Italia, patria mia, e il suo splendore” [Schoppius, p. 80; e Lette-
re, p. 56]), contro le presunte scoperte di scienziati stranieri venute dopo
(identico sciovinismo per Colombo: v. n. 134.16-7): “Philolao Crotoniatae
etiam nostrati” (così anche Art. proph., p. 53: “conterraneo nostro”) spiega
con il solo moto della Terra una serie di presunte anomalie astrali, così come
“Aristarchi Samij” fu maestro ideale di un altro maestro italiano reale (= Do-
menico Maria Novara) di Copernico.478 Theol. III ne riporta compiutamente
la teoria: “Filolao di Crotone poi ammaestrato da Pitagora, vuole che il cielo
stellato sia stato chiamato firmamento perché è assolutamente immobile, e
non è vero che le stelle fisse si muovano da occidente a oriente insieme con
tutto il cielo in 24 ore. Se così fosse, esse percorrerebbero in un batter di ci-
glia quasi diecimila miglia, la quale cosa è impossibile. E perciò egli pensò
che la Terra si muova da occidente a oriente in 24 ore circolarmente e che le
stelle fisse e i pianeti sembrino perciò muoversi in senso inverso nello stesso
tempo” (p. 147). C., riprendendola da Tycho, aveva attaccato questa teoria in
Physiol., obbiettando che se il fuoco della polvere pirica si accende istanta-
neamente, un cielo fatto quasi di sola luce può benissimo compiere quel per-
corso in 24 ore: “ma dopo che fu scoperta nel cielo stellato una nuova stella
[in Cassiopea: v. n. 136.23], ed ebbi considerato la varietà di colore delle stel-
le fisse, la quale è indizio di opacità [e quindi di materialità], cominciai ad
abbandonare questa teoria… In tutte queste questioni sono ancora esitante”
(Theol. III, p. 147), esattamente come i Solari (122.18). Invece proprio questa
argomentazione aveva convinto astronomi come Keplero ad abbracciare l’e-
liocentrismo (Lerner 1992, p. 61).
478
Quaest. phys. XI I, p. 106; Lettere, pp. 93 e 177; Apologia IV, 40; Comment., p. 581; Poët. VII II,
p. 1037, così annotato da Firpo: “nell’additare in Timeo di Locri e Filolao da Crotone, disce-
poli di Pitagora, due precursori di Copernico, non nasconde il suo orgoglio per la comune
patria calabrese” (p. 1425).
COMMENTO AL TESTO 543
descrizioni o spiegazioni, ma finzioni della realtà.479 È però Lerner 1992 (p. 11-
26) ad aver chiarito la ragione storica profonda, più della matrice esoterica,
che è sottesa a questa frase: anzitutto quel che i Solari ammirano in Tolomeo è
il geocentrismo, e in Copernico la scoperta delle anomalie; invece la polemica
contro le “ipotesi” dell’astronomia (cioè le costruzioni di circoli per salvare i
moti planetari) implica una distinzione di ambiti di competenza: “all’astrono-
mo non spetta riconoscere che cosa è per natura in stasi e quali siano i corpi
mobili; egli invece introduce ipotesi, per le quali alcuni corpi sono fermi, altri
in moto, e poi indaga con quali ipotesi i fenomeni celesti si accordano. Ma de-
ve riprendere dal fisico i principi, cioè che i movimenti degli astri sono sempli-
ci, uniformi e regolari”. Alla luce di questa gerarchia professionale si capisce
perché C. bacchetti le presunzioni degli astronomi o ‘matematici’, i quali sono
dei misuratori di fenomeni celesti, su cui possono avanzare delle ipotesi, ma ta-
li ipotesi devono poggiare sulle e insieme devono esser corroborate dalle teo-
rie di filosofi naturali e teologi: “Manifestum est quod caeli non nostra mensu-
ra et naturae semper eiusdem numeris, sed Dei arbitrio, prout opus est ad re-
rum gubernatum, moventur” (Quod rem. 4, p. 135); nella prima celebre lettera
a Galileo, che faceva seguito al Sidereus, tronca la discussione sui mondi abitati,
scrivendo: “questo è problema metafisico e l’ho già discusso ampiamente: da te
invece aspettiamo la soluzione dei problemi matematici” (Lettere, p. 165). Inve-
ce Galileo “rifiutava la distinzione aristotelica tra fisica e matematica, che di fat-
to collocava questa su un piano inferiore a quella. Per lui matematica ed espe-
rienze conducevano alla verità attraverso un continuo scambio fra loro”; la sua
rivoluzione scientifica consiste essenzialmente nella “‘riduzione di un caos di
fatti in un sistema matematico semplice e armonico’ [W.R. Shea]. In questa lu-
ce la riduzione della dottrina copernicana a mera ipotesi matematica senza
corrispondenza nella realtà non era più un avveduto espediente: era una scioc-
chezza ridicola” (Spini, p. 46-7). Viceversa per C. “le proposizioni matematiche
non esprimono un ente o un processo reale, ma solo misurano le grandezze in
gioco. E non importa se si pongano così o altrimenti, come non importa se si
adoperi un palmo o un cubito per misurare un panno. Copernico che muove
la Terra fa lo stesso calcolo di Tolomeo che muove il Sole: ‘astronomus ponit
tot sphaeras quot motus varietates videt, non tamen ita esse dicit, si sobrius est’ [Me-
taph. I I, IX]. Per tale degradazione delle matematiche, opposta alla dignifica-
zione fattane da Aristotele e Galileo, le nuove scoperte astronomiche restano
suscettive di questo o quello schematismo matematico, ma per il C. il loro si-
gnificato oltrepassa la fisica. Esse sono il simbolo profetale del destino escato-
logico dell’universo, poiché nell’imminenza del secolo aureo, come già avven-
ne nell’imminenza dell’Incarnazione, Dio muove il cielo e la terra in modi
479
Ancora nel Dialogo (Op. VII, p. 44), Galileo, con l’ipotesi di un intervento diretto di Dio
nella cosmodinamica planetaria posteriore alla Creazione, sottintendeva una possibilità illi-
mitata di interventi divini.
544 LA CITTÀ DEL SOLE
nuovi ad nutum per significare i segni dei tempi” (Amerio 1966, p. 166-7; cfr an-
che R. Amerio, Galileo e C., Milano, 1942, p. 314-9).
Tuttavia Hagengruber (p. 84-5) invita a riflettere sulla critica epistemologica
che C. muove alla nuova scienza, la quale, fidando assiomaticamente sulla cer-
tezza della matematica, lascia insoluto il rapporto fra ente reale e ente raziona-
le, fondato, secondo C., su una relazione di similitudine. A mio avviso, C. è
semplicemente ancorato alla posizione platonica, com’è espressa in Resp.
533bc, di cui riecheggia il finale: le ‘arti’ sussidiarie che “colgono parzialmente
ciò che è (intendo la geometria e le discipline affini), vediamo che nello studio
dell’essere procedono come sognando e non riescono a scorgerlo con perfetta
lucidità finché lasciano immobili le ipotesi di cui si servono, essendo incapaci
di renderne ragione” (sull’atteggiamento ‘ambivalente’ di C. verso la matema-
tica v. n. 26.28).
Alle volte bisogna onorare qualcosa “non per quel che è, ma per quel che rap-
presenta, come s’onora una petruccia o una fava per scudo, quando si gioca
alle carte, e si metton le fave per conto de scudi” (Titoli, p. 293). In Gentilismo
(p. 73) ritorna quest’immagine della circolazione di moneta falsa preferita a
quella vera (nello specifico: l’aristotelismo contro la veritiera filosofia dei no-
vatori); in Metaph. [Ponzio] I IX, XI (p. 465): “Gli astronomi seguono in cielo i
fenomeni apparenti e fissano cause ipotetiche poiché misurano i movimenti
dal nostro punto di vista; per noi il numero dieci indica la stessa quantità nel-
le fave e nelle pietre [= “nobis autem idem est numerus denarius in fabis et in
lapidibus”]. Così accade per quanto riguarda l’epiciclo, l’eccentrico e il moto
della terra e del sole”; o quando utilizziamo vocaboli come ‘tempo’, ‘eternità’
in cospetto del divino: “come coloro che giocano ai dadi adoperano invece
del denaro festuche e lapilli… così che se alcuno volesse adoperarli come co-
se reali anziché come segni, sarebbe ridicolo. E dunque non è da stupire, se
questi vocaboli non significano poi le cose, che vorremmo significare” (Theol.
I [II, p. 353]). Invece in Metaph. XI XV, IV (III, p. 36), sembra che sotto la pa-
rola ‘calculum’ si nasconda un gioco di parole: “Quapropter videtur Coperni-
cus ad calculum respexisse, non ad naturas rerum” (= Pertanto pare che Co-
pernico abbia badato ai calcoli/pietruzze e non alle nature/valori delle cose):
‘calculus’ come pietruzza e insieme come ‘conto’, ma in senso spregiativo: di
chi cioè è più preoccupato che i suoi conticini tornino, anziché dei fatti (è la
stessa accusa che muove ai vuoti sillogismi aristotelici a 116.19). Infatti, ricor-
dava anche Firpo, “il pio Copernico”, per salvarsi da censure ecclesiastiche, so-
steneva che il suo eliocentrismo fosse “una mera ipotesi matematica”, e non
un modello cosmologico. “Ergo errat per fallaciam petitionis principii, et po-
nendo non causas pro causis, sicut Mathematici omnes ponentes Epicyclos et
excentricos, et motum in Terra ad salvanda phenomena” (Physiol. III V, p. 15
glossa Z).480 Ciò vuol dire che C. considera l’eliocentrismo uno degli espe-
480
A commento e integrazione di questa glossa cfr Theol. XXV, p. 185-7; Disc. Cometa, p. 77;
Lettere, pp. 220 e 351: “questi scienziati fanno il conto senza l’oste e peccano di petizion di
COMMENTO AL TESTO 545
principio e rendono non cause per cause”, e cioè “Copernicus solem stare, alii novas sphae-
ras et circellos statuere” (così Lettere1, pp. 57-8 e 123).
546 LA CITTÀ DEL SOLE
481
Nel tardo Syntagma, infatti, criticava Vecchietti, autore di un De anno primitivo ab exordio
mundi, che “volle correggere il numero degli anni in base alle eclissi e ai cicli lunari che si ri-
trovano nelle storie dei più antichi autori; ma poiché prima di Erodoto e di Giustino non ab-
biamo nulla di ciò, non ha potuto ben raccogliere e correggere gli anni precedenti ai tempi
di Nino. Aggiungi che le cronologie sono tanto diverse fra Ebrei, Greci e Latini, e anche fra
i singoli autori, che alcune oltrepassano molti cicli, altre ne sono oltrepassate, e mancano del
tutto delle ipotesi su cui stabilire saldi fondamenti. Inoltre presuppone il corso degli astri
sempre identico, mentre i fenomeni più recenti, ma anche quelli antichi, mostrano che è
molto variabile nelle anticipazioni dei tropici, degli apogei, delle eclissi…” (IV IV); tuttavia le
‘Tabulae maiores’ della cronologia di Vecchietti, che computa 5549 anni trascorsi dalla Crea-
zione al 1600, si arrestano appunto al 6000, che corrisponde al 2051 dalla Natività.
482
Ad es. la composizione del Compendio, in base a IV XI (5582 anni) e ad Art. proph., p. 262
(nel 1603 gli anni erano 5565), “risalirebbe al 1620” (Ponzio 1999, p. 11); ma riferito alla
Theol. XXV, da Ponzio stesso citata, slitterebbe al 1622.
COMMENTO AL TESTO 547
ta del mondo sia di 7000 anni (seimila quasi trascorsi e mille in cui ritornerà
l’età aurea), portando di conseguenza ad escludere i calcoli dei passati
astronomi, “non avendo tutti la medesima misura, e non essendo segnati di-
stintamente dal senario e dal settenario” (Theol. XXV, p. 33). Sisto ricorda
infatti che Girolamo nell’Epistola a Cipriano “deducit omnem praesentis
saeculi durationem ab orbe condito usque ad diem iudicii, sex millium an-
norum spacio concludi… et postea venire septenarium numerum et octona-
rium, in quo verus exercetur sabbatismus”; inoltre, tra i Padri che la pensa-
vano in quel modo, menziona Lattanzio (Inst. VII VII), secondo cui “apud
Ethnicos autem eadem prodidisse Hydaspen, Mercurium Trismegistum, ac
Sibyllas” (V, p. 399-400); mentre secondo Beda sarebbero trascorsi 5199 an-
ni, “quem etiam usualiter tenet Ecclesia” (SH VI LXXXVIII); Crisostomo, In ca-
put III Ad Cor., Hom. IX (IV, 390D): “Pensa quanto tempo il genere umano è
nel peccato originale: quinque milia annorum et amplius praeterierunt, ne-
que mors adhuc soluta est”.483
483
V. n. 122.10-4, n. 136.10 e cfr L. Bianchi, L’inizio dei tempi. Antichità e novità del mondo da Bo-
naventura a Newton, Firenze, 1987.
548 LA CITTÀ DEL SOLE
volte nelle carte processuali e non.484 L’afflato millenaristico, che gli fa vedere
segni e presagi ovunque, costituirà da un lato il cruccio principale di C., per es-
ser deriso e perseguitato da quelli “che vanno affermando trattarsi di cose na-
turali e deridono quelli che stanno alle vedette” (Supplizio, p. 161); e dall’altro,
per quanto profondamente e sinceramente sentito, è un alibi oggettivo per la
sua causa processuale, in quanto lui si è limitato a lanciare un allarme, e al po-
sto dei ladri, hanno imprigionato il cane da guardia – così ama spesso ripetere.
Giocando infatti sul nome del suo ordine (Domenicani = “Domini canes”), si
firmerà “sentinella” o “spia delle opere dell’Altissimo” (Lettere, da 15 a 82 [v. n.
114.5-6]). Una sentinella che deve anzitutto neutralizzare con trecento pagine
di Art. proph. ‘aristotelici e macchiavellisti’ che svalutano i segni celesti, per far-
ci sorprendere “come i figli delle tenebre” (Apologia, p. 17; Disc. Cometa, p. 67-8
e cfr Ernst-Salvetti, p. 61-2); e poi esporre in dettaglio ‘La profezia di Cristo’
(Theol. XXV IV, V: ‘Notantur quae signa adsunt in sole et luna et stellis’), per
evitare quanto minacciato nella stessa Apoc. 3, 3 a chi non vigila; e infine per
convertire popoli vecchi e nuovi: “perché tutte nazioni concordando che ci so-
no queste esorbitanze e nessuna sapendo rendere la ragione se non Cristo Dio
nostro che le predisse, perché l’avea da fare, son forzati a venire alla nostra fe-
de; massime quelli del regno di Fez e di Persia e del Cataio e Chinesi che filo-
sofano ogge sopra queste dissorbitanze e non san trovarne la ragione, se non
vengono ad impararla dalla scola di Cristo” (Lettere, p. 222).
Questi stessi accenti e referenti si ritrovano, strepitosamente, nella seconda
metà del Seicento, presso un altro scienziato, Isaac Newton: “Perciò è tuo do-
vere imparare i segni dei tempi, perché tu possa sapere come vigilare, ed esse-
re in grado di distinguere quali tempi stanno giungendo sulla terra dalle cose
che sono già passate… Ma se, ignorando i segni… il tuo Signore verrà in un
giorno in cui non l’aspetti e in un’ora che non sai… Perciò non scandalizzarti
del biasimo del mondo, ma consideralo piuttosto come un segno della vera
Chiesa” (Trattato sull’Apocalisse).485
484
Lettere; Supplizio; Schoppius: “Ora infine [cioè dopo la fallita sollevazione del ‘99] mi consi-
derano ribelle ed eretico, poiché predico i segni nel sole e nella luna e nelle stelle contro Ari-
stotele che considera eterno il mondo e contro tutti gli altri che gli attribuiscono età spropo-
sitate… et abstuli violentiam coelo, et eccentricos et epiciclos, et ostendi symptomata mundi
per ignem perituri” (p. 76-7).
485
Scritto fra il 1660 e il 1680 (a c. M. Mamiani, Torino, 1994, pp. 7-11). Per le matrici tardo-
rinascimentali del millenarismo, a partire dal De orbis concordia di Postel [1543], cfr Pittaluga,
p. 66; e più recentemente e distesamente: M. Miegge, Il sogno del re di Babilonia, Milano, 1995,
che arriva appunto fino a Newton; Millenarianism and Messianism in Early Modern European
Culture, Dordrecht-Boston-London, Kluwer Academic Publ., 2001 (il sogno della ‘renovatio’
suggerita dalle “esorbitanze” celesti ritorna a 136.25 e 158.5: v. n. 160.1-2).
COMMENTO AL TESTO 549
486
Riportate in: Art. proph., p. 44, Metaph. III, Theol. III, Theol. XXV, p. 53 e in partic. Quaest.
phys. II II, p. 7-11.
487
Queste ultime due cit. insieme da Aristotele in Phys. (187-9) e De Coelo; altre fonti possono
essere quelle patristiche come Damasceno, Orthod. fidei 176GH (“sicut enim finita est molis,
ita et suapte natura finitae durationis”); Ambrogio, I, 1; Agostino, CD 12, 12 e 18, 41; e, re-
centemente, per limitarsi agli utopisti, Doni, Mondi, p. 58-9, plagio di Agrippa, Vanità delle
scienze, 68r.
550 LA CITTÀ DEL SOLE
caotico per un tempo infinito? E perché proprio in quel dato istante Dio avreb-
be dovuto decidere di trasformarlo in Cosmo?488 Allora “ex nihilo facta esse
omnia oportet… Ergo totum ens ex toto non ente simpliciter”; questo non-en-
te, questo “commune niente da cui le cose nacquero” (Senso, p. 5), non essen-
do sostanziale, vanifica l’obiezione secondo cui un agente immateriale non
può produrre materia. Infatti il nulla che è qui in causa, è di natura formale:
qualunque cosa si fa da ciò che prima non era, come il fuoco dal legno (il le-
gno era non-fuoco eppure è diventato fuoco).
Possiamo così riassumere le dottrine cosmogenetiche in un unico prospetto (una
sintesi poetica nella ‘Salmodia’ 84; prosastica in Compendio): l’universo è sorto
• per la casuale combinazione di atomi: Democrito e gli Epicurei (ma il primo
credeva nell’esistenza di un mondo solo, gli altri in infiniti);
• dai frammenti di precedenti universi collassati, ma ricombinati “per provi-
dentiam et necessitatem” (e non: a caso): Empedocle;
• perché una mente originaria avrebbe plasmato il cosmo a partire da uno sta-
to caotico degli elementi (Anassagora, Ovidio);
• da un solo elemento variamente riplasmatosi (Diogene, Talete, Eraclito);
• dal nulla formale: “Religio christiana ex nihilo mundum producit” (Tom-
maso, 2SCG, 38);
• il mondo è eterno, dunque non ha avuto alcuna origine (Aristotele [v. n.
116.19] e Ocello).
Pur restando cautamente incerti, i Solari di sicuro escludono la prima e l’ulti-
ma ipotesi (non creazioniste), che rendono superflua una Mente ordinatrice,
con tutte le pericolose potenziali deviazioni; infatti è la sua matrice materialista
la principale difficoltà ad accettare l’esistenza di altri mondi (124.27): fu infat-
ti uno degli atomisti, Democrito, il primo che “plures posuit mundos”, perché
gli atomi dispersi nel caos possono crearne un’infinità in eterno. Secondo C.,
l’eternità del mondo era sostenuta, prima che da Aristotele (Lettere, p. 41), an-
che da Platone (Supplizio, p. 89) e da Ocello (Astrol., p. 45); invece lui reputa ‘Il
mondo essere animale mortale’ (Senso I XIII), che, come ha avuto un inizio co-
sì avrà una fine (ignea). Ammettere l’eternità del mondo, come fa Ocellus,489
seguito in ciò dagli altri filosofi, significherebbe che il cosmo è sorto “casu quo-
dam… ex atomorum iactatione”, cosa altrettanto probabile quanto che da una
casuale mescolanza di lettere possa scaturire un’Eneide (Quaest. phys. II II, p. 7-
11). Poiché però le stelle “furon riputate immobili dalli Caldei” e da tutti gli
antichi, “Aristotele nel I De coelo, dall’osservazioni di Caldei, si mosse a metter il
mondo immortale” (Disc. Cometa, p. 70-1). Infatti lì (I, 270b) Aristotele discute
dettagliatamente le cosmogonie precedenti, concludendo che “il cielo nella
488
“Item cur nunc, et non prius? Et cur Deus otiosus? Et Chaos otiosum?” (Quaest. phys., 8 e
Metaph. VII V, IV [II, p. 279] – sono le obiezioni di Origene, riprese da Girolamo nell’Epist. ad
Avito, a cui aveva risposto Agostino, Conf. XI, 12: il mondo è nato insieme con il tempo [Si-
sto, V, p. 405]).
489
“Universum quidem ut ego arbitror, nec interiturum unquam est, nec ullum aliquando
habuit ortum” (p. 7 – al tempo di C., Ocello era ritenuto contemporaneo di Pitagora).
COMMENTO AL TESTO 551
sua totalità non è generato, e non s’ammette che possa corrompersi, ma è uno
ed eterno” (II, 283b 25sg) – eterno, perché etereo. Per C., invece, il cielo è fat-
to di fuoco, e dunque, in quanto materia, è finito spazio-temporalmente (è sta-
to creato e perirà; per quanto immenso, è circoscritto): “è falso dire che il cie-
lo è incorruttibile perché conserva sempre il medesimo sito e movimento, poi-
ché anche se noi non vediamo le sue corruzioni interne, tuttavia le comete pro-
dotte nel cielo insegnano questo, e la medesima cosa ci attestano la mutazione
dei tropici, dei solstizi, degli apogei e delle obliquità. Il cielo è di materia fini-
ta, altrimenti non giungerebbe a termine il moto della sua circonferenza che si
conclude in 24 ore” (Compendio IX, 14; X, 2; contro l’eternità del mondo cfr an-
che Quaest. phys. II II).
Prende le distanze pure da Eraclito ed Empedocle, in quanto ritengono che
molte volte l’universo fu creato e distrutto, con il rischio di una catena indefi-
nita.
E respinge infine anche la dottrina del cosmo nato dal caos in Metaph. XIII I, II
(III, p. 73), perché tutti gli enti hanno avuto origine da un primo ente: la ma-
teria; tuttavia a quest’idea aderiva ancora negli anni di composizione di Città
quando già manifestava dubbi (T.116.16), come dimostra una canzone compo-
sta nell’intorno 1603-7 (28, ‘Madr 2’, 1sg): “Il perfetto animal, ch’or mondo è,
pria / era confusion, quasi un grand’uovo, / in cui la Monotriade alma paren-
te, / covando, espresse il gran sembiante nuovo”; Esp.: “Mostra che il caos ha
preceduto, almeno d’origine, se non di tempo, e che Dio Monotriade lo ridus-
se ad ordine e fece il mondo”. È ipotizzabile che inizialmente tendesse ad iden-
tificare materia originaria e caos, come dimostrerebbe Phil. sens.: il caos è uno
dei modi con cui è chiamato l’ammasso originario e transitorio della creazio-
ne, la materia amorfa bruta non ancora forgiata dalle forme, e in partic. dai
due principi del caldo e del freddo: “Itaque chaos hoc principium cum formis
confusum appellatum est, abyssus, tenebra et infinitum ab Anaxagora, Platone,
Trismegisto, Pythagora, Moyse Hebraeo etc… Anaxagoras Clazomenius posuit
chaos omnium rerum principium materiale, in quo omnia latitabant; dehinc
intellectum immixtum omnia separasse ac mundum ordinasse pronunciat
[pseudo-Galeno, De philos. hist. XIX, p. 250 ‘De Deo’]. Cui sententiae se sub-
scribunt omnes fere poetae theologizantes, ut Hesiodus, Musaeus et Orpheus;
Ovidius etiam in Metamorphoseon primo dicens: ‘Ante mare et terras… Unus
erat toto naturae vultus in orbe,/ Quem dixere chaos’ [I, 5-8]” (pp. 26 e 285);
e recentemente: Pico nelle Conclusiones; Doni, Mondi;490 Ficino, Amore, in cui fa
una carrellata bibliografica: da Mercurio Trismegisto,491 a Parmenide, a Plato-
ne: “Chaos Platonici informem mundum vocant”, che è tripartito (gli angeli,
490
“Chi rimirassi il chaos, quella materia confusa che creò il magno Iddio, nella quale era il
cielo e la terra, gli Angeli, le anime e tutto insieme, e di quella ne fece tre parti…” (p. 62 -
passo probabilmente derivato dall’Idea di Camillo, secondo la curatrice).
491
“Chaos ante mundum posuit, et ante Saturnum, Iovem, caeterosque deos” (v. 130.17); se-
guito da Orfeo nelle Argonautiche (In Conv. I II [Op., p. 1321]).
552 LA CITTÀ DEL SOLE
492
“L’autore della natura può fare ogni cosa da ogni cosa, e anche dal nulla” (Theol. IV [II, p.
141]); “Il mondo è stato fatto da Dio mediante un atto di creazione. Creare è produrre da
nessuna materia e dal nulla, e questo lo fa solo Dio. Generare è produrre da una qualche ma-
teria anche di entità esigua, e questo lo fa la natura. Fare è produrre da molta materia, e que-
sto è proprio dell’arte” (Compendio III, 3-4).
COMMENTO AL TESTO 553
odioso [agli altri], e i prelati della santa chiesa mi odiarono per causa sua, a me
che per primo ho mostrato mundi symptomata per ignem perituri [titolo di
una Appendice dell’Astronomia, entrambe perdute, circa l’apocalisse ignea immi-
nente] contro lui stesso e contro Tolomeo” (p. 66). Ma C. sapeva da tempo (lui
che “scrisse contra Aristotele di 18 anni” [cit. da Formichetti 1999, p. 9]) che
l’antiaristotelismo all’epoca non pagava: nella Lettera, p. 7 (13 agosto 1593) si
giustificava con Ferdinando I, da cui sperava vanamente una cattedra nell’ate-
neo pisano: “ché saper me più dell’aristotelica le platoniche, da’ suoi avi ama-
te, e le pitagoriche e altre moderne, non deve diminuirmi grazia o favore appo
lei”; anzi come chiarirà quarantacinque anni dopo a Ferdinando II: “io ed ogni
ingegno egregio portamo grande obligo ai prìncipi medicei, che facendo com-
parir i libri platonici in Italia, fur cagione di levarci dalle spalle il giogo di Ari-
stotele” (Lettere, p. 388); cita spesso (indirettamente, come ad es. in Apologia, p.
25) un’invettiva antiaristotelica tratta da un capitolo dei censurati Paradossi di
Ortensio Lando (Lyon, 1543), intitolato: ‘Che Aristotele fosse non solo un
ignorante, ma anche lo più malvagio uomo di quella età’; ma omette sempre la
fonte per “ragioni prudenziali”.493
Dunque l’uso di un verbo così marcato (‘odiare’) potrebbe essere spiegabile
anche con le sole ragioni biografiche; ma esse sono nettamente minoritarie ri-
spetto a quelle ideologiche: proprio al fatto che Aristotele sia l’‘auctoritas’ vi-
gente nel pensiero ecclesiastico del tempo (e domenicano segnatamente, per
l’influsso tomistico), C. attribuisce tutti i mali della società e specialmente del-
la Chiesa. Dopo aver ricostruito le storia della fortuna moderna di Aristotele,494
risultano più chiare le ragioni della sua avversione, variamente espresse495 e ar-
ticolate da Disp. in prol. in 14 punti: i punti qualificanti sono 1°, 8°-11° (“Dio
non è creatore del mondo e il mondo è eterno”, e non esiste aldilà, immorta-
lità dell’anima individuale, ecc.); 2° e 5° (non esiste divina provvidenza, e quin-
di il mondo è in preda a caso e fortuna); ed essenzialmente il 7° (“la religione
è arte di regnare e di tenere i popoli nel dovere e nell’obbedienza”), perché
quello è la radice di tutti i futuri mali politici riassumibili in ‘machiavellismo’
(v. n. 60.23-4): “partorì i Ghibellini, i Machiavellisti, i libertini e i nuovi eretici.
Noi insorgiamo contro questo nuovo idolo” (p. 74), per colpa del quale il mon-
493
Ernst 1996c, p. 128; Ernst 2002, p. 173-4; Lerner 2002, p. 227 con bibliogr. su Lando o
Landi, i cui Paradossi hanno avuto un’ed. moderna a c. di A. Corsano, Roma, 2000.
494
Distrutta dai barbari la cultura classica, Alberto Magno, dovendo rifondare le scuole, non
poté che ricorrere agli Arabi, tramite i quali lo Stagirita è stato reintrodotto in Occidente e
poi dagli Scolastici rilanciato; e così la civiltà cristiana ha perso tutto il retaggio non solo filo-
sofico – ad es. il platonismo –, ma principalmente patristico, trovandosi per giunta contami-
nata da germi pericolosi: bisogna pertanto far piazza pulita di tutte le filosofie pagane, e ri-
tornare ai due libri divini, Natura e Scrittura (Lettere, p. 149-50), specialmente adesso che le
nuove scoperte – di mare, cielo e terra – mostrano tutte le lacune e le pecche di quella dot-
trina (Theol. I [I, p. 7]).
495
Qui v. 62.2-3 e n. 30.26-31; cfr anche Mon. Sp. X, p. 96; Gentilismo, pp. 25-8, 40-3; Apologia,
p. 32-3; Politici, p. 127-9.
554 LA CITTÀ DEL SOLE
496
Da un passo di Atheismus: “Narratque ejus [=Aristotele] ex doctrina ortum esse in Italia
Macchiavellismum contra Dei providentiam, et contra animorum immortalitatem et religio-
nis veracitatem” (II, §3), si evince che “ces quatre points fondamentaux, à savoir la négation
de la providence de Dieu, qui implique un monde que le principe peut mouvoir mais ne
peut ni connaître ni diriger dans la singularité de ses choses ni changer en son ordre, deuxiè-
mement l’Eternité du monde qui découle de cette première immutabilité, ensuite l’immor-
talité de l’âme, enfin la négation de la réligion… définissent pour C. l’aristotélisme. Cette in-
terprétation de l’aristotélisme… se réfère à la lecture averroïste d’Aristote que l’humanisme
de la Renaissance a adoptée de façon privilégiée, en particulier grâce à l’enseignement at au
rayonnement intellectuel de l’Université de Padoue à travers toute l’Europe. Pour C., Ma-
chiavel tire les conséquences politiques et pratiques de la conception averroïste du monde”
(Caye, p. 341-2; cfr anche Frajese 1998 per l’attribuzione in Atheismus ai ‘machiavellisti’ delle
tesi ereticali da C. abbracciate fino alla conversione).
497
Melchiorre Canusiano [1509-60], De locis theologicis, Salamanca, 1536 (in realtà: libro IX,
cap. 9; su questo teologo del Concilio di Trento cfr Lerner 2001, p. LXIX).
498
Ciò non toglie che C. non sappia riconoscergli i meriti: “Aristotele giustamente è da tutti
considerato genio di natura: infatti le sue conoscenze sono più ampie e profonde di quelle di
chiunque altro dopo di lui; ma poiché, come ha detto benissimo Orazio, ‘non c’è nulla che
sia perfetto in ogni parte’, anche in lui si possono ritrovare néi, appannaggio della condizio-
ne umana” (Syntagma IV I).
499
Bersaglio costante della commedia cinquecentesca: da Il Pedante di Belo al Candelaio di
Bruno; Doni, Mondi, p. 33: “fece congregare una turba di pedanti, idest una mandria di quel-
li animali selvatichi che… dan consiglio, tengon conti e vanno dietro a’ fanciulli”; e, di con-
verso, a p. 211: “O che cattivo loico!”.
COMMENTO AL TESTO 555
500
“Ratio peripatetica est logicalis” e “Aristoteles philosophatur nimis logice” (Theol. III, pp.
92 e 94); “Aristotele in 11 libri non ci ha offerto una metafisica, bensì una logica” (Metaph.,
‘Proemio’, p. 75).
501
Anche Art. proph., p. 261; Mon. Sp.: “Aristotele come ignaro di cose grandi e savio di logica
e minutezze le [= anomalie] neghi” (p. 20); ma principalmente Theol. I: “Manifesto è infatti
che la metafisica di Aristotele non è che una logica vana, come riconoscono gli Scotisti, e che
non apre nessuna verità divina” (I, p. 9).
556 LA CITTÀ DEL SOLE
502
Per gli sterminati richiami del culto solare in area moderna, invece, cfr almeno AAVV
1965, con le osservazioni di Zambelli.
503
Per il Sole nella magia di Ficino, fondata su Asclepius, p. 29, che lo proclama “secondo dio,
che governa tutte le cose”, cfr Yates 1972, p. 140-2; Yates 1981, pp. 84sg, 164-77.
COMMENTO AL TESTO 557
118.2: statuas
Il giovane C. utilizzava lo stesso modello cardiaco di Persio,504 che è simbolo di
luogo centrale e insieme vitale – com’è appunto il tempio e l’altare -–, collega-
to all’altro grande topos del mondo=organismo vivente (v. n. 124.9-10): “Et
profecto si unum sit animal coelum et sol sit cor, ut Ptolemaeus et Albertus,
Averroem dicere oportet Deumque in sole esse” (Phil. sens., p. 414). Al model-
lo biologico (mondo:animale=Sole:cuore), all’epoca di Città probabilmente, si
affiancò il modello architettonico (Sole-statua), che diventerà la figura topica
nelle sue opere successive, a partire dal sottotitolo di Senso: ‘Parte mirabile
d’occulta filosofia dove si mostra il mondo esser statua di Dio viva e bene co-
noscente…’; nella ‘Salmodia’ 84, 13-4 è “il mondo, statua altèra e degna / di
lui che sempre regna – e gran trofeo”; e in Compendio III, 2 precisa: “Nella no-
stra filosofia naturale chiamiamo il mondo ‘statua di Dio’, poiché rappresenta
perfettamente la potenza, la sapienza, la bontà e l’essere di Dio, ed è da esso, e
non dai libri degli uomini, che attingiamo le scienze”.
La fonte primitiva dichiarata è origeniana: “Sol nobilissimum corpus Mundi est
et vocatur… Origeni statua Dei… cum simillimus Dei sit” (Quaest. phys. XI I, p.
106). Ma la fonte prossima e prioritaria505 è Ficino, che s’ispira a sua volta al De
divinis nominibus dello pseudo-Dionigi: ‘Sol statua Dei. Comparatio Solis ad
Deum’:506 Platone “pensò anche che il Sole fosse la statua visibile di Dio posta
da Dio medesimo in questo tempio del mondo perché da ogni parte tutti la
ammirassero sopra tutto” (Sole XIII). E infatti la metafora è diffusa in Platone
(Epin. 984a; Resp. 508b-c) e neoplatonici (Giamblico, Misteri, 57 [I, LIV]; Proclo,
‘Inno al Sole’: “Or degli Iddii o ottimo / di fuoco incoronato, inclito Nume, /
simulacro del padre universale” [tr. di A. M. Salvini]). Yates 1972: “figure delle
stelle come ‘statue’ infuse di magia” (p. 277) era immagine anche di Bruno
(del De imaginum, cit.), che scrisse un Lampas triginta statuarum (circa 1587, co-
piato da un suo discepolo a Padova nel 1591 – lo stesso anno in cui vi soggior-
nava C.).507
Nel mondo-statua, si saldano tre temi: il mondo come specchio di Dio; quello
dell’Artefice che glorifica se stesso con la sua opera, ovvero un autoritratto tri-
dimensionale materiale, fabbricandosi “cioè alcune statue et imagini rappre-
sentative di tanto suo bene, nelle quali noi l’andiamo contemplando et ammi-
rando et laudando” (Epilogo, p. 187);508 e infine il tema della immutabilità
(‘nihil novi sub sole’): “Iob [37, 18] dice esser fuso come solido rame il cielo,
504
V. n. prec.; ma esso risale a Macrobio: “Il suo nome di intelligenza del mondo risponde a
quello di cuore del cielo che gli hanno dato i fisici” (Somnium I XX).
505
Perché anche per questa figura si può invocare il Somnium di Macrobio: v. n. sg.
506
Ficino, Sole IX, p. 991: questo passo, ispirandosi al Salmo 18, 5 – “Dio diede nei cieli un pa-
diglione al Sole” –, è un commento del VI libro della Resp. platonica.
507
In Favaro vi è un accenno alla compresenza a Padova di C., Bruno e Galilei (p. 9).
508
Il Dio-Artefice, Fabbro o Architetto [v. n. 116.5] è, insieme al Dio-Orologiaio [v. n. 156.10-
1], una delle topiche metaforizzazioni.
558 LA CITTÀ DEL SOLE
non perché sia duro, ma sta d’un modo come statua, non mutando sito, ma
sempre nel medesimo luogo e ordine” (Senso III, 1; ripreso anche da Theol. III,
p. 161 e XXV, p. 74, e in varie poesie, ad es., oltre alla cit. (in incipit della n.
prec.) 3, 89, anche 6, 1-4: “Il mondo è… vivo tempio / dove… di statue vive [il
Senno Eterno] ornò l’imo e ‘l superno”).
509
Tra i vari luoghi, Eb. 8, 2 è citato proprio da C. in Apologia: “Nam dicit Apostolus Heb. 8 lo-
quens de coelo, quod sit tabernaculum sacerdotis Christi” (p. 36).
510
“Nel teatro del mondo ammascherate / l’alme da’ corpi…” (Poesie, 14, 1; cfr nota introd.
di Giancotti, p. 65-6 per fonti e raffronti con altri passi campan.).
COMMENTO AL TESTO 559
Nuovo Mondo, che, pur fascinati ‘naturalmente’ dal Sole, hanno pervertito la
loro venerazione in adorazione (= idolatria), siano essi i pur evoluti Cinesi e
Giapponesi (Maffei, I, p. 396 e III, p. 74 [cit. in n. 118.6-9]) o gli Amerindi
(Benzoni, 76v e 166v [quest’ultimo passo è riportato in n. 109.6]). Pure l’Occi-
dente non si esime da culti eliolatrici. Come prova l’etimologia stessa del nome
di Dio (seguendo Giovanni Damasceno, C. fa derivare ‘theos’ da ‘aìthein’= ar-
dere), “gli antichi da principio pensarono che il sole ardentissimo e il cielo
stesso fossero Dio e così il nome passò dal significare un effetto magno di Dio a
significare Dio stesso” (Theol. I [I, p. 181]). Una fonte cit. dall’Au. stesso è Sa-
lomone (Sap., 8), che “accusa i Gentili di adorare il cielo e le stelle e di non
aver pensato di argomentare da quelli a un nume infinitamente più alto e più
buono e più pieno” (Theol. I [I, p. 161]); un’altra fonte, esplicitata in Senso, p.
234, è l’Epinom. (984), dove “Platone dice che li filosofi non credono se non un
Dio, ma se altri adorar si devono, meglio è le stelle adorare che gli uomini mor-
ti”: meglio onorare un astro che idolatrare una creatura.
Il cristianesimo rinforzò l’interdizione dei culti solari, già presente nel Deut. 4,
19 (“Ne videns Solem, et Lunam et omnes Stellas et omnem ornatum Coeli, er-
rore deceptus adores ea”): Gc. 1, 17, Rom. 1, 25 (non bisogna servire alle crea-
ture, ma al Creatore), com’è variamente sottolineato dai Padri: Eusebio, 704B-
D, commentando il Tim. platonico; Crisostomo, Comment. ad Ephesios IV, Sermo
XII (IV, 1031-2); Agostino, Lett. LV, 11 (PL XXXIII, 210): “non adoramus… nec
solem nec lunam”, sebbene siano spesso usati come figure simboliche per rap-
presentare e far comprendere misteri sacri.
re” (Theol. XVII, p. 21). La schiavitù può esser una punizione divina per i pec-
cati in genere (“Quando l’uomo s’imbestia per sue malvagità, spesso Dio facit
hominem dominum hominis ad punitionem eius” [Mon. Messiae I, 6]), ma è
specificamente la pena per contrappasso nel caso d’idolatria: “diventiamo ser-
vi di colui cui prestiamo culto, e chi pecca, dice il Signore, è servo del peccato”
(Comment., p. 793); invece “ribellandosi da Dio, ch’è la prima Sapienza, tutte le
cose sottoposte a lei [ragione] si ribelleriano da lui [uomo] per la pena della
pariglia naturalissima in tutti i dominii e azioni umane” (Mon. Sp.1, p. 32 e
Mon. Sp., p. 70).511
In Rom. 1, 23-26, S. Paolo dice che Dio ha abbandonato i pagani alle loro “tur-
pi passioni”, perché “hanno adorato e servito le creature, anziché il Creatore…
ricevendo in se stessi la mercede meritata dal loro pervertimento”; versetto
comm. da Damasceno, De imag., 516v; Ambrogio, I VI, 24: “A noi basta per la sal-
vezza… ut serviamus creatori potius quam creaturae”; Agostino, CD 4, 29 e 8,
23: “l’uomo merita di perdere il suo Creatore quando prepone a se stesso le
sue creature”, compiangendo l’infelicità somma “dell’uomo dominato dalle
sue stesse invenzioni” idolatriche.
Esempi coevi di idolatri/schiavi glieli offriva la letteratura di viaggio: Benzoni
narra che i Peruviani idolatrano il Sole e gli impetrano la grazia, “e così al pre-
sente quando gli Spagnuoli li trattano male, gli adorano come il Sole, pregan-
doli che siano misericordiosi” (166v); Maffei: “O sventurati Giapponesi che
adorate come Dio quelle stesse cose, che Iddio ha fatte per vostro servizio!”,
cioè “il Sole e la Luna, le quali cose a quelli che conoscono Gesù… sono serve
e ministre” (III, 5).
511
Cfr anche: Politici, p. 137; Atheismus IV XXXIX; Mon. Messiae XVII, p. 78; concetto replicato
spesso in Antiven. (pp. 8, 30, 76-8, 115): “dovunque entra opinione, che nega Dio, o la provi-
denza, o la immortalità dell’anima, o l’altro secolo, o il libero arbitrio, è forza – come io mo-
strai nella Politica [= Aphor., 116-9] – che in quel paese si faccia mutazione e che di più peg-
giori, perché tali opinioni sfrenano le conscienze e fan li prìncipi tiranni per conseguenza e
li popoli sediziosi… Quanti paesi apostatano dalla religione nativa sempre diventano schiavi
di tiranni – dicit Dominus – perché imparino che differenza è tra il servire a Dio e servire agli
uomini”.
COMMENTO AL TESTO 561
anche di Pitagora; e ‘nvero senza tal fine non par che di lei si possa dire cosa
probabile” (‘Salmodia’ 85, 51-6, Esp.). Ancor più chiaramente Metaph. ci fa ca-
pire quali sono le origini e i bersagli polemici sottesi a questa credenza dei So-
lari: “Se tutti gli astri sono riflessioni di luce, e soltanto il Sole brilla di luce pro-
pria, ciò induce il forte sospetto che essi siano costituiti da cose diverse dal so-
lo fuoco, e che siano sistemi e mondi, come mi disse Stigliola, e altrimenti il
Nolano, e i Pitagorici, in passato, che gli sembrava irrazionale che corpi tanto
più grandi della Terra… siano soltanto fuoco ozioso, e non piuttosto tutti gli
elementi e piante e animali e uomini, come riteneva il nostro conterraneo Fi-
lolao. Ma a me risulta agevole eludere questa argomentazione: anzi mi chiedo
con stupore per quale ragione Dio abbia fatto nel nostro sistema la terra, le ac-
que, gli animali sottoposti a mali perpetui, esposti alla generazione e alla mor-
te: per cui ritengo che le stelle siano piuttosto gli insiemi delle cose immortali
e le sedi degli angeli che conoscono e lodano Dio. Nel nostro sistema infatti
dominano l’ignoranza e l’infelicità e l’inganno, si bestemmia Dio, non gli si
presta fede né lo si riconosce. Pertanto se Dio avesse fatto altri sistemi infelici
di questo genere più che la sua bontà, sembrerebbe avere mostrato la sua ira”
(III, p. 52). Come si vede, C. polemizza proprio con i ‘neo-pitagorici’, ovvero
con i copernicani napoletani prima, e i galileiani poi, a cui, poco oltre, però,
concede l’ipotesi dell’esistenza di altri sistemi planetari, di cui le stelle sareb-
bero i centri (122.18-22 e 124.27-8).
Invece, sicuramente le stelle sono abitate dalle anime dei beati: una volta ab-
bandonato il corpo “questo opaco antro (così pinge Platone il corpo e lo stato
nostro)… lo spirito nostro aereo si farà aria e cielo, e così si fa continuamente
esalando, né torna a noi più, ché gli piace meglio la libertà, e si fa una cosa con
l’aria. Ma l’immortale mente [= anima] non resta aria, ma sale fin alle stelle, se
dall’infezione del corpo non è macolata, e quivi si deifica e glorifica”. Infatti “il
moto dell’anima esser circolare Averroè pur disse, ben che il corpo glie lo fac-
cia variare; dunque è celeste”, cioè è coessenziale alla materia delle stelle (“non
senza ragione filosofi dicono che l’anima sia parte di etere” – v. n. 64.13, n.
64.16-8, n. 142.36-144.3). E dunque nella loro sede siderea possono accedere
alle visione beatifica, grazie alla duplice circostanza che, come detto, non sono
più serrate dal nostro corpo opaco e che, trovandosi oltre la regione aerea,
non sono obnubilate dai vapori sollevati dalla perpetua guerra tra calore e ter-
ra; e così “l’anime beate, stando dentro a case sì vive e lucenti magioni, tutte
cose naturali e idee divine mirano, e han poi il lume più glorioso che l’alza al-
la visione sopranaturale beatifica”; ma già la visione stessa del cielo, che ora ci
è impedita dal nostro ingombrante apparato sensoriale e dalla cappa di nuvole
più o meno dense, sarà uno spettacolo straordinario, perché “è verissimo che
Dio in cielo fa gran mostra di sé” (Senso, p. 171-5).
sviluppa lungo l’asse verticale (“abbassano”); la Luna invece, poiché non altera
la traiettoria della sua orbita, non sembra retrocedere, ma, al più, ritardare;
donde l’inutilità di ricorrere ai macchinosi epicicli’.
Però questo stato caotico di T., trascinatosi in parte anche in R. (v. 120.4 in ‘Ap-
parato delle varianti di α’), deve aver condizionato anche la traduzione, dove
permangono questi andirivieni testuali, in partic. per quanto riguarda il caso
della Luna (120.15: “Lunam vero…”; 120.24: “Lunam tamen…”), pur essendo
mutati alcuni parametri del modello descrittivo. Fra T. e le successive redazioni
vi è infatti, tra l’altro, una differenza molto significativa: secondo T., il compor-
tamento orbitale dei pianeti è analogo a quello che rispetterà (a partire da R.)
la Luna, e cioè le loro orbite vanno tracciate in funzione della distanza angola-
re col Sole: a 0° e a 180° i pianeti sono in apogeo, a 90° e 270° sono in perigeo;
invece la Luna non varia la velocità (e, presumibilmente, la traiettoria), per cui
la sua orbita è assimilabile a una circonferenza percorsa con moto uniforme
quasi sincrono a quello del cielo e quindi non soggetto al fenomeno apparen-
te della retrogradazione.
118.23: Copernicianos.
Pur nella generale oscillazione grafica, in Phil. realis vi è indifferenza fra ‘Ptole-
maicus’ o ‘Ptolomaicus’, mentre vi è una netta predominanza di ‘Coperni-
caeus’ (“motu Coperniciano” solo in Quaest. phys., p. 126).
512
“Secondo Aristotele, gli intelletti muovono in senso contrario a Dio da occidente a levan-
te, mentre Dio muove [le sfere] da levante a occidente” (Theol. I [I, p. 101]).
564 LA CITTÀ DEL SOLE
Ciò non esclude che gli angeli possano, forse, muovere le stelle, ma “ut mo-
deratores motuum potius quam ut motores” (Sensu, p. 173n). Cioè “in quan-
to si muovono intrinsecamente, le stelle si muovono naturalmente, in quanto
si muovono secondo un determinato disegno, esse son mosse (credo) intel-
lettualmente da cause esterne” (Theol. I [I, p. 103]).513
La teoria delle Intelligenze sideree, ben sintetizzata da Isidoro (Etym., De Nat.
Rer., XXVII [PL LXXXIII, 1000]: ‘Utrum sidera animam habeant’), risale in ef-
fetti a Platone (Leg. 898c; Tim. 36e, 41ab), passa poi ad Aristotele e peripatetici
(in partic. Alessandro di Afrodisia), è discussa da Agostino (CD 4, 11; 7, 15 e,
dubitativamente, 13, 17, 558; e Gen. ad litt. II), ereditata dal tomismo,514 per ap-
prodare alla Theologia platonica di Ficino.515
513
La cautela – “credo” – è forse dettata dal fatto che l’anima motrice cui sta pensando è
quella origeniana (cfr Firpo 1968, p. 12 e Theol. V, dov’è diffusamente discusso “se gli angeli
muovano le stelle”).
514
Sisto, riportando la tesi di Basilio (contraria) e di Damasceno (favorevole), sembra aderire al-
la soluzione tomistica (ST I, q. 70): “Sidera ceteraque coelestia corpora esse animata, sive ani-
malia, bifariam intelligi potest”: o come anima ‘informante’ [= che dà forma al corpo], o “anima
assistente, quae corpori uniatur, non tamquam forma, sed tamquam movens mobili”.
515
In generale, per il tema delle intelligenze demiurgiche e mediatrici nella speculazione teolo-
gico-astrologica precedente, cfr Gregory 1996, p. 9sg, e, specificamente per C., Walker, p. 256-7.
COMMENTO AL TESTO 565
prossima all’astro che al nostro pianeta), i suoi apsidi sono in funzione dell’a-
spetto col Sole: a 0° e 180° = apogeo; a 90° e 270° = perigeo (Astrol., p. 18).
Ficino: “I pianeti superiori, quando il Sole si avvicina ad essi, ascendono; quan-
do invece si allontana, discendono. Congiunti col Sole, sono sommi nell’epici-
clo; in opposizione sono infimi; nella quadratura sono medi per altitudine. La
Luna nell’un caso e nell’altro raggiunge il punto più alto del deferente; nella
quadratura invece discende… Se essa procede in alto anche quando è in op-
posizione al Sole, non dobbiamo meravigliarci. Che cosa è infatti la luce della
Luna se non la luce stessa del Sole ripercossa dallo specchio lunare? Luce che
nel plenilunio si riflette faccia a faccia nel Sole? Del resto si vede scendere an-
che la Luna nella quadratura, perché allora guarda torva il proprio signore”
(Sole IV, p. 977-9).
122.1: sympathiam
Sympathia, come corrispondenza tra enti naturali e forze celesti, “manifeste e
secrete, da le basse alle alte” – per dirla con Doni, Mondi, p. 177 –, è un capo-
saldo del ficinianesimo ricavato dal De sacrificio et magia di Proclo.
“Qualità occulte, influssi, attrazione hanno a che fare con il mondo delle sim-
patie e antipatie, con l’idea che il mondo sia rappresentabile come un organi-
smo vivente e sia retto da principi simili a quelli che servono a interpretare e
spiegare le azioni umane. Il quadro del mondo tracciato dal meccanicismo si
oppone con forza al quadro antropomorfico del mondo che è caratteristico
del mondo magico e della tradizione ermetica, così fiorente nella cultura del
Rinascimento che Galilei ha alle spalle” (Rossi 1994), e che C. invece incarna
alla perfezione.516
Nello stesso equivoco di identificare apogei ed esaltazioni sono incorsi, secon-
do Pico, certi astrologi leggendo un passo di Plinio: “‘C’è un’altra ragione del-
le sublimità [= esaltazioni], perché hanno le absidi altissime dal loro centro in
quei segni…’ Di qui si può inferire che, o una volta fu così, o così pensavano
516
Oltre alla teoria dei moti ‘simpatetici’ dei pianeti e, più in generale, degli influssi astrali,
che regolano la vita dei Solari, con ampia discettazione sulla sua ortodossia a 140.1-158.34, vi
è la teoria del mondo animale/animato (124.9), della lotta fra Terra e Sole ovvero Freddo e
Caldo (134.24), ecc. (v. anche n. 14.12-6).
566 LA CITTÀ DEL SOLE
quelli che si dedicavano alla scienza degli astri, che le stelle poste nelle parti ri-
cordate si muovevano nel luogo più alto dal centro delle loro absidi, onde quei
gradi o parti si chiamavano anche altitudini. Ma con ciò fu data occasione ai
genetliaci [= astrologi] a che, conservato il nome di altitudine, come se l’altitu-
dine non fosse un luogo, se ne servissero quasi indicasse la natura e la potenza”
(II, p. 99). Insomma, secondo Pico, gli astrologi moderni chiamano esaltazioni
(conferendo loro un potere) quelle che per gli antichi astronomi erano apsidi
(che sono dei semplici luoghi di massima distanza dal centro). “Riassumendo:
‘exaltatio seu altitudo planetae apud astrologos non intelligitur de situ locali
seu distantia a terra vel ab alio puncto quali imaginatione deceptus est Plinius
[II, 16], sed de parte signiferi, quam cum stellae adeptae fuerint, maximam
mutationem in aëre atque reliquis rebus inferioribus ostendunt’ (Nabod, in Al-
chab., p. 38)” (Garin 1952, p. 544).
122.5: plaga
‘Plaga’ è propriamente una delle cinque fasce in cui la Terra risulta divisa dai
due Tropici e dai due Circoli polari, dette zone astronomiche (da non confon-
dere con le climatiche: v. n. 10.13). Primavera ed estate durano 186 giorni nel-
l’emisfero boreale contro i 179 dell’australe.
517
“Il Sole si muove velocissimamente di due moti, così da non poter agire sulla medesima
parte in modo costante; la terra, invece, si difende con il freddo e con la densità” (Compendio
IX, 12).
518
“Sotto la zona Torrida v’è molto più mare che terra; come nella zona nostra molto più ter-
ra che mare” (I IV, p. 198).
519
Il passaggio da “settembre” di T.122.11 ad “autumno nostro” non è una perdita di specifi-
cità; al contrario: poiché quell’espressione allude proprio all’equinozio autunnale, è precisa-
to addirittura il giorno dell’inizio del mondo.
COMMENTO AL TESTO 569
compone di tutti e quattro gli elementi, ogni stella di certo è un mondo… Non
si dica poi di rigurgiti eretici, laddove si reputa che Cristo sia morto anche su
altre stelle per la salvezza di quegli uomini”; di contro, “le macchie solari e le
nuove stelle del cielo sidereo e le comete al di là della luna indicano chiara-
mente che gli astri sono mondi” (pp. 8 e 11). Dunque: su un fronte Maometto
e l’evidenza del telescopio; sull’altro Aristotele e l’autorità Scritturale: “Se Ari-
stotele aveva dedotto l’eternità del mondo dalla fissità delle figure celesti e dal-
la regolarità dei moti astrali, i nuovi fenomeni smentiscono nel modo più evi-
dente l’inalterabilità e la perpetuità di tale ordine e del mondo stesso. I cardini
della ‘machina mundi’ in verità si spostano: le costellazioni non sono fisse co-
me si riteneva, e non lo sono gli apogei dei pianeti; l’obliquità solare va re-
stringendosi e il Sole si avvicina inesorabilmente alla Terra, che finirà per esse-
re incendiata, risultando vani tutti gli espedienti matematici cui ricorrono gli
astronomi, e lo stesso Copernico [114.18], per regolarizzare i moti e gli sposta-
menti nello spazio degli astri” (Ernst 2002, p. 183). Perciò il cosmo campan.
collassa, e il Filosofo resterà sospeso in (cauta?) attesa di nuove scoperte gali-
leiane e di nuovi orientamenti della Chiesa: “At siqui contendantur alia corpo-
ra esse extra caelum nostrum, et aquas et terras, id non negem, dum tamen sa-
cris literis aut revelationibus comprobetur” (Quaest. phys. X I, p. 91); “sia che
nel centro dell’universo si trovi la Terra, sia che si trovi il Sole, tutte le stelle
ruotano con un’arte mirabile”, per forgiare con l’elemento terrestre tutti gli
enti e fenomeni fisici (Theol. I [I, p. 69]); in Syntagma II II esortava il Naudé a
non scartare ogni proposizione che sembra impossibile, “ut quod Sol stet in
centrum et Tellus rotetur”, ma bisogna sospendere il giudizio, “donec undique
conquisitis rationibus veritatem erueris” (cit. ‘in extenso’, v. supra n. 114 [glos-
sa], §3, punto 2).
Pertanto questo periodo (122.17-22), anche se è stato giustapposto, più che ag-
giunto, per compiacere Adami e per mostrare che i Solari erano aggiornati sul-
le ultime scoperte scientifiche,520 testimonia, dietro il ‘vigile’ (“invigilant”) at-
tendismo, 1) una ‘impasse’: l’incapacità di C. di adeguare (o abbandonare) il
suo paradigma scientifico alle evidenze telescopiche (strumento noto anche ai
Solari: 138.8); 2) un eccesso di prudenza: forse l’anziano filosofo esiliato era
stanco e frustrato dalle vane battaglie dell’Apologia, memore della sorte di Gali-
lei e più ancora del malumore di Urbano VIII per il suo Comment.,521 in cui ave-
va dovuto interpolare tutta la sua ‘gioia’ per la messa al bando dell’eliocentri-
smo e ripudiare esplicitamente la sua Apologia: “Non pensi Vostra Beatitudine
ch’io sia con Copernico già che si vede che io scrissi quattro libri [= la perduta
520
Come vuole Bobbio, p. 22; in effetti una glossa di Quaest. phys. X IV spiega: “Additus est hic
art. ad instantiam Rodulfi Binae et Tobiae Adami, post congressum ipsorum cum Galilaeo:
ad quem direxit Auctor pro novis observationibus” (p. 100).
521
Nel 1620, ancora cardinale, Maffeo Barberini aveva dedicato in segno di grande stima a
Galilei l’ode latina Adulatio perniciosa, poi raccolta nei Poemata, e anch’essa quindi commen-
tata da C. nella sez. III, senza però condannare esplicitamente la dottrina di Copernico, cosa
che indispettì parecchio il Papa (Spini, p. 52-4).
COMMENTO AL TESTO 571
ciosa con orecchie fidate; ma ciò non toglie che permanga una divergenza sui
fondamenti primi, non di matrice aristotelico-tolemaica, ma trascendentali, co-
me s’intuisce dalla frase finale: la scoperta di Nuovi mondi, celesti e terrestri, è
ancora una volta interpretato da C. come un segnale escatologico dell’avvento
del Mondo nuovo (2Pt. 3, 13: “novos caelos et novam terram expectamus, in
quibus iustitia habitat”).
522
Ai Pitagorici, però, si attribuiva correntemente anche la postulazione delle due forze ter-
miche contrarie: ad es., per il pitagorico Ocellus sono gli opposti termici a render possibile le
mutazioni nella materia, e precisamente: caldo e freddo sono la causa efficiente, secco e umi-
do la materia ‘passibile’ (p. 26); e questa teoria, variamente testimoniata in età presocratica
(Archelao, maestro di Socrate, “sosteneva che due sono le cause del divenire, il caldo e il
freddo” [Diogene, II, 16-7]), è certamente diffusa anche in età moderna: un Alberti, che non
era filosofo di professione, ricordava che “tra i princìpi fondamentali che governano l’uni-
verso, i due che, soprattutto secondo il parere della scuola pitagorica, sono detti maschili, so-
no il caldo e il freddo: la natura e l’azione del caldo consistono nel penetrare, nel dissolvere,
nel rompere, nel portar via i liquidi per cibarsene; mentre è proprio del freddo comprimere,
restringere, indurire e dar forma” (X VI, p. 908).
COMMENTO AL TESTO 573
523
‘Fede naturale…’, 3, 1-3 e 16-8 e cfr la ‘Salmodia’ 86; per la fisica v. anche n. 114 (glossa)
§ 1. e 1.1; per la metafisica primalitativa v. n. 126.18-128.2; sulla filosofia naturale di C. cfr P.
Ponzio, T. C. Filosofia della natura e teoria della scienza, Bari, Levante, 2002.
524
“L’ente misto non si risolve ultimamente nei quattro elementi, ma nel fuoco e nella ter-
ra… Non sono quattro neanche gli umori negli animali corrispondenti ai quattro elementi:
ma c’è un solo sangue e altre innumerevoli secrezioni. Né le stagioni dell’anno sono quattro,
ma due, l’estate e l’inverno, così come la notte e il giorno sono le due parti del giorno; il mat-
tino e il vespro, la primavera e l’autunno sono termini intermedi del tempo” (Compendio
XIII, 9-10).
525
“Il Crisostomo nell’Omelia 18 sull’Epistola agli Efesini chiama il cielo marito della terra,
giacché la feconda col proprio calore ed essa poi partorisce tutti gli enti secondi, umori, mi-
nerali, pietre, animali ecc.” (Theol. III, p. 109).
574 LA CITTÀ DEL SOLE
era, secondo lui, già iscritta nel Genesi: il primo giorno “viene creato il cielo, che
è maschio, e la terra, che è femmina, e la terra è ancora informe, e lo Spirito
del Signore si libra sopra le acque conferendole la virtù generativa. E in queste
due cose, da cui lo Spirito che è amore trae tutto, si celano tutti gli enti del
mondo, come negli elementi si celano tutti gli elementi elementati” (Theol.
XXV, p. 75).
Ma i referenti magico-astrologici più prossimi e pressanti sono Pico, che nelle
Conclusiones, “difendendo la magia naturale, parlerà di nozze: le nozze del cie-
lo con la terra (‘magicam operari non est aliud quam maritare mundum’)”
(Garin 1976, p. 48); e soprattutto Ficino, in cui l’immagine ricorre con altret-
tanta frequenza che in C., e che, con quest’esempio, dimostra contempora-
neamente quanto essa sia diffusa, e insieme distorta: “Coelum terrae maritus
non tangit (ut communis est opinio), terra cum uxore non coit, sed solis side-
rum suorum, quasi oculorum, radiis undique lustrat uxorem, lustrando foe-
cundat procreatque viventia” (Apologia [1489I] in App. al De vita coel. comp.
[Opera, p. 574]).
124.3: Tellurem
‘Tellus’ è il lemma meno frequente (6 occorrenze, di cui 3 volutamente ravvi-
cinate: 8.27; 28.29; 82.6; e 122.21, 124.3 e 6), rispetto a ‘terra’, ‘orbis’ e ‘mun-
dus’; in totale una cinquantina di casi, che devono spartirsi un campo semanti-
co articolato in almeno cinque dominii: uno dei due elementi; il suolo fertile;
il Pianeta nella sua globalità; la superficie terrestre; quanto vi è sopra questa su-
perficie.
“Quando tutte le cose furono agitate nel caos [originario], la maggior parte
del calore s’innalzò verso la circonferenza esterna… La seconda parte della
materia, collocata in basso, si chiama terra, elemento freddo, secco e pieno di
moti” (Ippocrate, Carni II, 1-2); “Terra est corpus simplex, cuius locus naturalis
in medio totius universi consistit”, la cui natura è fredda e secca, e per la sua ro-
tondità anche “orbis dicta est” (Avicenna, Canon I); infine, mentre per Alberto
Magno “aliter sumitur terra videlicet pro informi materia”, invece Isidoro di-
stingue: “‘terra’ dicitur a superiore parte quae colitur; ‘humus’ ab inferiore, vel
humida, terra, ut sub mari; ‘tellus’ autem, quia fructus eius tollimus” (in: SN VI
I-II, VIII). ‘Tellus’, dunque, satura principalmente la valenza ‘fertilità’, valenza
attribuitale anche da C., il quale, dovendo tradurre il passo di Epilogo (“…che
la terra sia madre…” [p. 245 – v. n. prec.]), ricorre a “Tellus” – con tanto di
maiuscola, che la rende ancor più prosopopeica Madreterra.
526
Mare-fegato irrigatore in Beda (SD XV XXXII) e in SN V IIII; mare-polmone in Leonardo
(cod. A, fol. 55v).
527
‘Salmodia’ 86, 37-44; Theol. III, p. 107: “lo spirito è il cielo, il corpo la terra, il sangue poi è
il legame tra lo spirito animale e il corpo, come il mare è il legame tra il cielo e la terra ed è
l’alimento di entrambi”.
576 LA CITTÀ DEL SOLE
tuttavia si deve affermare che essa è fatta di terra dal sole”. Quest’ipotesi del
mare come liquefazione della terra era stata confutata da Imperato: volendone
spiegare la salinità, dice: “Altri dicono che la terra scaldata dal sole sudando
causi il mare; e che perciò sia salso: percioché la salsedine è propria del sudo-
re; et altri che la terra dia la salsezza all’acqua…, colando l’acqua per essa” (VII
V, p. 177); secondo lui invece, in base al principio che il simile nasce dal simile,
il mare non può essersi formato “dal bruciamento della terra”, ma l’esalazione
secca e vaporosa della terra ha formato le nubi, e “quel che con l’acqua vien
giù forma la salsezza” (VII XII, p. 182-3).
528
Cicerone, Plutarco, Galeno, Diogene; in partic. Ovidio, da lui stesso evocato, in Metam.
XV, 342 fa dire a Pitagora: “est animal tellus et vivit”.
529
Alessandro d’Afrodisia, De Mixtione, 216, 16; Diogene, VII, 142-3, l’attribuisce a Crisippo,
della Provvidenza I.
COMMENTO AL TESTO 577
la lingua semi-figurale del Timeo platonico,530 che ebbe grande risonanza pro-
prio in ambito gnostico, ermetico e neoplatonico; Plotino parafrasa le parole
del Timeo, ma caricandole anche di valenze astrologiche: “Tutto avviene nell’u-
niverso come in un animale, in cui si può, in grazia dell’unità del principio, co-
noscere l’una parte dall’altra… Tutte le cose dipendono l’una dall’altra; com’è
stato ben detto, tutto cospira” (Enn. II, 3, 7); “Rammentiamo la nostra tesi: il
mondo è un animale unico; perciò… non esiste il caso ma un’armonia e un or-
dine unico” (Enn., IV 4 [28], 32 e 35); passo questo, che Giamblico riprenderà
spesso nei Misteri (V, 66: “Mundus unum animal”, noi viviamo “quasi in uno
corpore animalis”; 102, 207), e Ficino commenterà, ricavandone esattamente
la stessa morale dei Solari (v. n. 124.11-20). Anche Agostino tratta distesamen-
te e criticamente la dottrina (porfiriana, in partic.) dell’‘anima mundi’: CD 13,
17-8, con esplicito richiamo (e confutazione) del Timeo (“Secondo Platone…
questo mondo è un essere vivente, grandissimo, felicissimo ed eterno”). E così
lo si ritrova in Ficino, Teol. IV I: “la terra fa crescere anche pietre, a mo’ quasi di
denti… E chi potrebbe sostenere che manchi di vita il grembo di questa donna
che tanti feti spontaneamente procrea e alimenta, che da sé stesso si sostiene,
sul cui dorso spuntano e denti e vello [= la vegetazione]?” (sono le stesse figu-
re usate da C.). SN III XXIV-XXVI riporta le tesi a favore,531 quelle contrarie (lo
stesso Aristotele, nel De anima prova che nessun corpo semplice può esser ani-
mato), e infine suggerisce quale posizione, in linea con l’ortodossia cattolica, si
debba assumere circa questa questione: “cum sacris doctoribus confitemur
coelos animas non habere nec esse animalia”, se si prende ‘anima’ nell’acce-
zione propria; i Padri cristiani, cercando di evitare “caelos animalia dicere”,
tuttavia concedono che alcune intelligenze, ovvero Angeli, “movent caelum et
sydera nutu Dei” (v. n. 118.16-21). La Chiesa infatti non si lasciò sedurre dal-
l’archetipo macrocosmico, per gli evidenti rischi magico-naturalistici: un opu-
scolo di Telesio che s’intitolava Quod animal universum, fu posto all’Indice nel
1596 da Clemente VIII (Firpo 1954, p. 1327). Per cui al tardo Cinquecento
non restava che ironizzarci su: pare che “anche in quell’alta antichità fosse sta-
to creduto animale il Mondo, ma con curioso piacere mi certificai della loro
confusione” (Scilla, p. 34); “Io neanche so se questo animalaccio del Mondo
(al parere di alcuni, che tale lo stimano, e gli hanno osservato sino il moto del-
le budella)…” (Scilla, p. 129); e Doni, Mondi, p. 19: “mondo primo animale e
mondo l’uomo secondo animale”.
530
“Questo mondo è veramente un animale animato e intelligente generato dalla provviden-
za di dio… del quale sono parti gli altri animali considerati singolarmente e nei loro generi.
Perché quello ha dentro di sé compresi tutti gli animali intelligibili, come questo mondo
contiene noi e tutti gli altri animali visibili” (30b-d; 39e).
531
Aristotele, De coel. II e i suoi comment., Rabano, Avicenna, de Naturalib. 5: “caelum habet
animam et phantasiam, cui obedit universa materia mundi, sicut corpus animalis obedit ani-
mae ipsius”.
578 LA CITTÀ DEL SOLE
532
Poesie, 4, 3-4; 64, 5: “marmeggio” (Esp.: “Marmeggi sono i vermi nati dentro il cacio, che si
pensano non ci esser altra vita né paese che ‘l lor cacio”); Epilogo, p. 95; Schoppe, 23 (ed i rin-
vii di Ernst 1996b, p. 23); Politici, 106 (ed Ernst 1996c, p. 106n); Metaph. VII I, VII (II, p. 265);
Lettere, p. 100; Theol. I (I, pp. 61, 109…); Theol. XVII, pp. 23…
533
Secondo Menocchio, originariamente “tutto era un caos, cioè terra, aria, acqua et foco in-
sieme; e quel volume andando così fece una massa, apunto come si fa il formazo nel latte, et
in quel diventorno vermi, et quelli furno angeli (…) fece poi Adamo et Eva, et il populo in
gran moltitudine per impir quelle sedie delli angeli scacciati” (Ginzburg, p. 71; cfr anche Do-
menico Scandella detto Menocchio, a c. di A. Del Col, Pordenone, Bibl. dell’Immagine, 1990; e
Lerner 2001, p. 170-1, per la bibliogr. sul tema cosmogonico).
COMMENTO AL TESTO 579
il padre da cui tutto proviene, mentre noi viviamo per lui [1Cor. 8, 6]” (Sole
VII, p. 989).
534
Analogamente gli Utopiani credono nell’esistenza dell’anima immortale e dell’aldilà
(More, 140 e 230).
535
Così anche Theol. I (I, pp. 5 e 11, da cui si evince che C. non crede che l’inferno stia sot-
toterra o il Paradiso “nelle isole fortunate, oppure in Arabia o nei monti della luna, come si
legge nelle vite dei Padri, oppure nelle isole sotto l’equatore come vuole Durando”) e Quod
rem. 4, p. 30.
COMMENTO AL TESTO 581
536
Agostino, CD 21, 25, 1068: le anime “se non saranno mai in possesso del regno dei cieli, sa-
ranno inchiodate al supplizio eterno; non esiste un luogo mediano” (ma sul tema cfr La nais-
sance du Purgatoire di J. Le Goff [Torino, 1982]).
582 LA CITTÀ DEL SOLE
so capire i motivi dell’incertezza dei Solari.537 Per comprendere tali motivi, bi-
sogna tener conto che l’ipotesi di altri cosmi era minoritaria, e per giunta tale
minoranza era quanto mai squalificata sia agli occhi di C. che della Chiesa.
L’ipotesi di una pluralità di mondi, che C. fa risalire a Metrodoro e Lucrezio
(Theol. XVI, p. 37), e che era stata a volte impiegata strumentalmente per pro-
vare l’infinita potenzialità divina,538 viene rilanciata dal De l’infinito, universo e
mondi (1583-4) bruniano (e da lui “appresa durante i giovanili colloqui col Bru-
no nel carcere romano” [Firpo 1968, p. 12; anche Ernst 2002, p. 31]). Tale ipo-
tesi è condivisa, pur con qualche cautela, dal C. di Senso, p. 32: “Io certo non
credo che Dio abbia finita la sua possanza in questa picciola palla… ma stimo
altre cose poter essere fuori, e Dio infiniti mondi poter fare di varie forme. Ma
se ci sieno non si può sapere, se Dio non lo rivela”. Successivamente le cautele
aumentano (Metaph. XVIII VII, I-IV: quel che è fuori del mondo esula dalle com-
petenze delle scienze umane), sia perché nelle “Scritture di un solo mondo im-
mobile si parla” (Apologia, p. 11), in quanto, avendo Dio fatto il mondo a Sua
immagine, ed essendo Dio unico, non può averne creato né due né infiniti, ma
per forza uno solo (come poteva suggerirgli il Timeo platonico); e sia perché
ammettere un infinito corporeo avrebbe comportato gravi conseguenze fisiche
e metafisiche: “possono, volendo Dio, esserci più mondi, ma non più Dei… Co-
me un tempo pensavamo che i pianeti fossero sette, mentre ora si trovano in
numero più grande, così può darsi che Dio abbia creati altri mondi a noi igno-
ti, tutti però sotto un unico governo contenente tutte le sfere, così che tutto l’u-
niverso sia ordinato a un unico Dio” (Theol. I [I, pp. 119 e 275]).
L’altro quesito teologico, tanto cruciale quanto insolubile, è il seguente: per-
ché Dio ha creato proprio questo universo, “quando molte altre cose e innu-
merevoli mondi sono possibili: perché dunque invidia egli loro l’essere? Noi
tutti rimettiamo al divino beneplacito la soluzione del problema. Ma siccome
Dio non agisce mai irrazionalmente, egli deve aver fatto queste cose, e non le
altre possibili, o per sé o per altri. Se per altri, egli è soggetto ad altri, se per sé
egli è bisognoso. S. Tommaso dice che creò, perché era conveniente. Ma per-
ché non è conveniente creare altri mondi?” C. risponde con un’altra doman-
da, da cui si evince che egli tenderebbe a credere nell’esistenza di altri mondi,
indotto anche dalle recenti scoperte di Galileo, e in un universo indefinito, an-
che se non infinito: “come sai tu che non esistano altri mondi, contenuti entro
un’unica immensa sfera, e secoli innumerevoli oltre i nostri sistemi? Io per me
credo col Crisostomo e con Origene che sopra i cieli stellati esistono innume-
revoli enti e nelle stelle molteplici mondi a noi ignoti, come le recenti osserva-
zioni vanno mostrando. Ma coloro che vogliono restringere Dio al solo mondo
nostro non sanno quel che dicono. Io ritengo che, se conviene che Dio faccia
537
Malgrado il dettato di 124.27-8 sembri coincidere con quello di T.124.36-8, è probabile
che l’incertezza del C. di Città sia di natura diversa da quella del C. di Civitas.
538
Ad es. da Crisostomo, In Epist. ad Cor., Hom. XVII (IV, 453): “Deo facile est innumeros
mundos facere”.
COMMENTO AL TESTO 583
qualcosa che non sia Dio, conviene che esso sia non inferiore a quel che la no-
stra immaginazione concepisce, e che, sebbene finito, sia tuttavia simile all’in-
finito” (Theol. I [II, pp. 75 e 77]). Per la somma di queste ragioni (ed altre di
opportunità, che potrebbero essergli state dettate dal ricordo dei destini varia-
mente tragici di Bruno e Galilei), la sua posizione diventa meno radicale: dalla
pluralità infinita dei mondi passa ad un mondo “quasi infinito” (Atheismus, p.
80) e finalmente a un solo cosmo grandissimo composto di vari ‘sottomondi’,
come si è appena visto: poiché “nei canoni ecclesiastici in nessun caso si trova
un decreto il quale affermi che non ci sono più mondi”, allora “ammettere più
mondi piccoli in uno solo e massimo, ordinati da Dio, non è per nulla contra-
rio alla Scrittura, bensì solo ad Aristotele” (Apologia, p. 51), o piuttosto all’ateo
Democrito e alla teoria atomistica di un’infinità di mondi sparsi a caso in uno
spazio infinito. Del resto dalla Chiesa “nostra Physiol. acceptatur, et non coper-
nicea, neque Nolana”.539
C. dunque si ripiega su una struttura chiusa del nostro universo, opta cioè per
una pluralità di sistemi coordinati in un tutto unitario, lasciando impregiudi-
cata la situazione dell’extra-mondo diventata irrinviabile, dopo che l’eliocen-
trismo aveva fatto passare gli uomini da una visione di un cosmo chiuso a quel-
la di un universo infinito: “se il mondo geocentrico medievale era una sfera di
circa 40000 raggi terrestri di diametro” fino al cielo delle stelle fisse (di dimen-
sioni ignote), “si doveva accettare l’idea che il mondo eliocentrico fosse quasi
infinito”; per Copernico lo spazio fra Saturno e le fisse è “simile all’infinito”; il
cosmo era insomma immenso, ma finito, immaginato sempre più cavo, in cui
cioè il vuoto era nettamente superiore al pieno, ma “è solo verso la fine della
prima metà del secolo successivo che la palla del mondo esploderà, e che l’u-
niverso perderà ogni limite immaginato dall’uomo”.540
539
Una delle rarissime volte in cui è citato Bruno; un’altra è nel Comment. all’‘Adulatio per-
niciosa’ sez. VIII (Spini, p. 53).
540
Lerner 1992, p. 59-72, che rinvia per la questione delle dimensioni del mondo dall’anti-
chità al sec. XVII ad A. Van Helden, Measuring the Universe, Chicago-London, 1984; v. n.sg.
584 LA CITTÀ DEL SOLE
non il nulla; forse vi è spazio ‘puro’: lo spazio sì potrebbe essere infinito, pur-
ché incorporeo, cioè a patto che non sia considerato un ente fisico. La conce-
zione campan. dello spazio come sostanza priva di accidenti è debitrice di Te-
lesio (Schuhmann, p. 141-67): lo spazio “è la base intrinseca che penetra tutte
le cose, essendone insieme penetrata, e che circonda tutte le cose, a niuna es-
sendo contraria”; invece “circa l’infinità e l’eternità dello spazio io sono ancora
in dubbio” (Theol. I [I, p. 89]), e il dubbio non deriva da ragioni teologiche:
“De infinitate spatii et aeternitate dubito adhuc… At vero neque si sit infinitum
(quod non affirmo) erit Deus, sicuti neque linea infinita est Deus: requiritur
enim totalitas entitatis ad infinitum simpliciter, cuiusmodi Deum ponimus,
istae autem secundum quid infinitates” (Theol. I III, p. 88). Dio è in tutto e per
tutto infinito, una retta invece è infinita soltanto in base a un aspetto – la di-
mensione –, e dunque uno spazio infinito non intaccherebbe l’infinità “simpli-
citer” e ‘totaliter’ divina, in quanto non “è infinita la sua entità e non ci posso-
no essere due entità così… perché un infinito non può esser creato, dato che
la sua generazione non si sarebbe potuta compiere mai” (Theol. I [I, p. 217]).
Tuttavia C. sembra propendere per uno spazio finito, per quanto sterminato,
in base alle seguenti ragioni:
1. basta vedere l’aggettivazione che accompagna ‘spazio’ nelle Poesie: 3, 11:
“smisurato”; 28, Madr. 5, 5: “tondo”; 76, Madr. 3, 1: “gran”; 31, Madr. 1, 9:
“immenso”,541 e ‘immenso’ è proprio l’attributo più utilizzato (57, 1; 81, Ma-
dr. 5, 12: “immenso vase”); invece non usa mai ‘infinito’;542
2. il cosmo non può essere infinito per ragioni sia fisiche che metafisiche:
• il motivo fisico è che il cielo, per quanto igneo, non potrebbe percorrere
in ventiquattr’ore uno spazio infinito, “idcirco mundum infinitum haud
esse puto” (Quaest. phys. XI I, p. 112). Gli argomenti a favore della finitez-
za dell’universo addotti invece dai Peripatetici “sono ridicoli”;543 le princi-
pali correnti cosmologiche contemporanee infatti li confuterebbero subi-
to: “coloro che ammettono infiniti mondi, suppongono che si muovano
quale in un luogo e quale in un altro, e non pretendono che tutto il cielo
541
Madrigale, quest’ultimo, la cui Esp., in un contesto molto affine a quello di CS, esplicita
l’obbiettivo polemico sotteso alla recisa presa di posizione anti-infinitistica dei Solari: “L’Es-
ser universale… perch’è infinito, non può dentro né fuor di lui stare il Niente. Dunque, nul-
la cosa s’annichila per morte, ma si trasmuta solo. Poi mostra che la base dell’esser creato sia
lo spazio universale, tenuto da certi Arabi [sott. mia] per Dio, e ‘l quale, secondo noi, è in
Dio”; infatti – chiariva l’Esp. di 3, 11 –, “come gli enti sono nello spazio, base dell’essere, così
questa [= la spazialità è] in Dio”; e, ancor meglio, Esp. di 31, Madr. 2: “Dio, simile allo spazio,
che penetra tutte le cose, e ‘n lui sono internamente tutte. Ma Dio, non come luogo, né co-
me locato contiene le cose, o è nelle cose, ma in certa maniera eminentissima, dalla quale il
luogo prende l’esser luogo, e la materia l’esser materia, e gli composti l’idea della composta
loro”.
542
Al più, altrove, “quasi infinito”: v. n. 114 (glossa) § 1.1.
543
Il primo dei quali è che il moto circolare quotidiano degli astri “non giungerebbe mai a
compimento” (Theol. I [I, p. 217]).
COMMENTO AL TESTO 585
544
Allusione a Galileo, la cui teoria, si badi, accolta anch’essa dubitativamente dai Solari
(122.17sg), è qui – e a Theol. I (II, p. 191) – ben distinta dal copernicanesimo; nonché
dall’“ipotesi di Democrito ed Empedocle di più mondi fatti e rifatti” in successione tempora-
le infinita (Theol. I [I, p. 213]).
545
A differenza di Bruno, che nella Cena delle ceneri, p. 110-1 postula un cosmo infinito, per
C., appoggiandosi sull’autorità dei Padri (Basilio, Crisostomo, ecc.), l’universo è finito (o gli
universi sono finiti), perché “l’infinito è unico: non si possono dare più infiniti” (Quod rem. 4,
p. 122); se, ad es., il fuoco fosse infinito, “non ci saria la terra, sua nemica” (Senso, p. 32), per-
ché il fuoco, in quanto infinito, non può che occupare tutto, altrimenti verrebbe a cessare la
sua infinità; “sic ergo est in spiritualibus: si Deus infinitus, non datur aliud esse infinitum,
nam finiretur ab illo” (Quod rem. 4, p. 122), cioè ad un infinito “mancheria l’entità dell’altro,
e saria finito da quello” (Politici, p. 114).
586 LA CITTÀ DEL SOLE
l’essere; ma neanche “prima della costituzione del mondo vi era il nulla assolu-
to, ma soltanto il nonessere del mondo in questa esistenza, poiché in Dio il
mondo era vita. E anche se Dio annientasse il mondo, non si troverebbe il nul-
la assoluto, ma il nonessere di una determinata entità” (Theol. I [I, pp. 285, 303
e 325; II, pp. 43, 55-7, 87]; per le due tipologie del ‘nulla’ v. n. sg).
546
Si ha ‘mutatio’ passando dal nulla all’essere, mentre si ha ‘generatio’ passando da un cer-
to nonessere ad un certo essere, come appunto fiore→frutto (Metaph. II VIII [I, p. 305]), che
COMMENTO AL TESTO 587
se l’uomo fosse tutte queste cose, non sarebbe uomo assolutamente uno, ma sa-
rebbe multipla congerie di tutte le cose… Onde risulta che Dio per limitare le
nature in vista della bellezza dell’universo si serve del nulla e questo nulla costi-
tuisce il nonente negativo dei logici” (Theol. I [II, p. 125]). Una cosa dunque è la
negazione dell’essere, ed altra è l’essere della negazione. Vi sono infatti due tipi
di negazione: la negazione negante, per cui l’uomo non può esser anche non-uo-
mo; e la negazione infinitante, per cui il non-uomo non è puro nulla, giacché
non-uomo può esser predicato di infinite cose. Come ben dice Bobbio: “il niente
non è alcunché di positivo, ma è… alcunché di negativo”, ed è necessario alla di-
stinzione delle cose: “Ogni ente finito, in quanto ente, risulta costituito e struttu-
rato di queste stesse primalità che lo essenziano secondo modalità e proporzioni
differenziate. In quanto poi distinto e limitato, ogni ente risulta composto da gra-
di finiti di entità e grandi infiniti di non entità. Il niente non esiste né in Dio né
fuori di Lui, ma Egli se ne serve per costruire la finitezza e la distinzione degli en-
ti” (Ernst 2002, p. 134).
Il tema del nulla è approfondito sistematicamente in Theol. I (I, p. 123-37) e
Metaph. VI I-III (II, p. 5-57), chiarendo la distinzione fra l’Essere di Dio assolu-
to,547 ingenerato e quindi privo di nonessere; e l’essere degli enti inferiori (pie-
tre, uomo, ecc.), che è costituito di essere finito più infinito nonessere, in
quanto creati, e cioè in quanto prima non erano o erano altro. In sintesi: “ogni
realtà, fuori di Dio, è finita per il fatto che è e non è qualche cosa. Quel limite
tra l’essere e il nonessere quantifica l’essenza” (Metaph. II XV, III [I, p. 339-41]);
ovvero: come “argomenta Parmenide in Platone”, tutte le cose “in quanto so-
no, sono uno; in quanto non sono, sono più” (Theol. I [I, p. 77-9]).
La distinzione tra due forme di nulla è telesiana; Telesio, citando Aristotele,
Phys. I, 71sg (187a, 191b), precisa: “In due modi si può intendere che dal non
ente si produce qualcosa; cioè o per sé stesso e in quanto esso esiste come non
ente, o per accidente e in quanto in esso si trova la privazione… Nel primo mo-
do certamente è impossibile che qualcosa si produca dal non ente, mentre nel
secondo modo è possibile” (III, 5 [p. 421-3]). Ma la distinzione tra ‘ciò che è’ e
‘ciò che è e insieme non è’ si considera uno dei fondamenti, se non il fonda-
mento del platonismo.548 Questa dicotomia fu cristianizzata da Agostino,549 e
è la radice del divenire, e quindi del tempo: se non esistesse il nulla le cose non potrebbero
mutarsi, perché divenire non significa altro che essere dopo quel che non si era prima.
547
“Egli è tutto”, salvo la particolarizzazione e il nulla: “Dio differisce dalle cose non in quan-
to sono enti, ma in quanto sono nonenti, cioè in quanto una cosa è questa cosa in guisa da
non essere quell’altra” (Theol. I [I, p. 123]).
548
Soph. 241b-2b; Phaed. 78b; Resp. VI-VII; Tim. 27d-9e: “Prima di tutto si devono distinguere que-
ste cose:… quello che sempre è e non ha nascimento… e quello che nasce sempre e mai non è”.
549
Ad es. CD 12, 2, 499: “l’unica natura opposta a Quella esistente in sommo grado, che fa esi-
stere tutto ciò che esiste, è quella inesistente. L’inesistente è di certo l’opposto dell’esistente;
perciò nulla che esista si oppone a Dio, esistenza somma e autore di ogni e qualsiasi esisten-
te”; 14, 11 e 13: “tutta la materia terrestre deriva assolutamente dal nulla, come dal nulla fu
creata l’anima che Dio diede al corpo quando l’uomo fu creato”.
588 LA CITTÀ DEL SOLE
550
2Sent. 25, 1: “ex ente autem et nihilo constat omne finitum ens”; 2SCG, 30: “più una cosa
dista da colui che è l’essere per se stesso, ossia da Dio, più si avvicina al nonessere… Le cose
già esistenti sono vicine al nonessere per la loro potenza a non essere”; tale potenzialità deri-
va dal loro essere materia, che è “un ente in potenza, e ciò che è in potenza ad essere lo è pu-
re a non essere”, perché nelle cose in cui “la forma non esaurisce tutte le potenzialità della
materia, rimane in quest’ultima la potenzialità di altre forme”.
551
La quaestio de nihilo sarà variamente dibattuta in tutto il XVII sec. per la sua rigogliosa po-
livalenza: dall’atomismo al vuoto (per C. ‘natura horret vacuum’: “Il luogo ama così tanto il
locato da non voler stare senza di esso: pertanto in natura non si dà il vuoto” [Compendio V,
10; e cfr Quaest. phys. VI II]), dalle riflessioni sullo spazio a quelle sullo zero; non mancarono
concettuose esercitazioni barocche, che videro coinvolte più o meno direttamente amici e
corrispondenti di C. (come Gaffarel e Naudé), e per le quali cfr l’esemplare Introduzione e
antologia curata da Ossola.
552
Più diffusamente lo fa in: Epilogo, p. 248-9; Politici V; Metaph. II VI, III, art. 1-8; Theol. I (I, p.
37; II, pp. 43, 125-7).
553
Epilogo, p. 248-9; Theol. I (I, p. 81); Quaest. phys.: se la ‘generatio’ implica la ‘corruptio’,
“nullum esse malum ens in mundo essentialiter, sed respective”, e gli stessi mostri e scherzi
della natura sono “respectu causarum particularium, non universalis, cui nihil est impraeme-
ditatum” (II II, p. 11) – teoria quest’ultima presente già in Pico: “Che altro sono i mostri se
COMMENTO AL TESTO 589
Il punto qualificante dei tre (il male non esiste in quanto essenza), senza di-
sconoscere, come si vedrà anche successivamente, i debiti con l’Aquinate (ad
es. 3SCG, 7: “Il male non ha altro essere che come privazione del bene”), è di
derivazione eminentemente agostiniana; il problema del male pervade ossessi-
vamente quasi tutte le opere di Agostino: tutto ciò che è, partecipa, anche in
misura minima, del Creatore, e dunque è necessariamente un bene; il male
non è una sostanza, ma una privazione, che corrompe; il male non consiste
nell’amare le cose cattive che non esistono, ma nell’amare male le cose buone:
così l’avarizia non è un vizio dell’oro, ma dell’uomo che ama disordinatamen-
te l’oro, abbandonando la rettitudine;554 il male morale dunque, ovvero il pec-
cato, non ha una causa efficiente (tutte le cause efficienti implicano un essere,
e qualunque essere, in quanto emanazione dell’Essere, è buono, e dal bene
non può scaturire il male), ma una causa deficiente; come dice in CD 12, 7: cer-
care una causa del male è come voler vedere le tenebre o ascoltare il silenzio. Il
male in sé non esiste, è “privatio boni”, eppure, come il silenzio e le tenebre, è
percepibile ma non come forma, bensì come privazione della forma. E il latino
della conclusione del passo cit. restituisce meglio l’aderenza della lettera cam-
pan. al dettato agostiniano: gli enti, in quanto hanno l’essere, “nulla ex parte
posse deficere, et ea posse deficere, quae ex nihilo facta sunt. Quae tamen
quanto magis sunt et bona faciunt… causas habent efficientes; in quantum au-
tem deficiunt et ex hoc mala faciunt, causas habent deficientes”. Cioè: la diffi-
coltà di comprendere la ‘deficienza’ del male è la stessa di comprendere la
creazione dal nulla: in quanto creata dal nulla la volontà è defettibile, il nulla
le imprime il suo marchio negativo, per cui essa può volere o non volere.
non i peccati della natura? Nessun filosofo mai li attribuì alla causa efficiente… ma tutti li ri-
feriscono alla materia… mal plasmabile e ribelle all’artefice” (I, p. 375).
554
Per Tommaso il male è un’inversione di gerarchie: ci facciamo guidare dal senso, “perché
le cose sensibili per noi sono più conosciute”, privandoci spesso dei beni d’ordine superiore;
ad es. chi mira al bene particolare del gusto del vino, comunque rinuncia – ecco il ‘deficit’ –
al “bene di ordine razionale” della lucidità (3SCG, 6 e 7).
555
Così Theol. I (I, p. 25: “Io penso pure che la notizia della santissima Trinità sia in sé stessa,
590 LA CITTÀ DEL SOLE
Tale ‘naturalità’ del dogma però non è per nulla scontata - donde l’eventuale
‘stupore’, cui accenna il Genovese). Infatti ad un Agostino (al cui De Trinitate ri-
sale il concetto primario della costituzione trinitaria dell’ente), che nell’adora-
zione della ternarietà dei pitagorici e in alcuni passi platonici (nel Convito, nel-
la lettera a Corisco ecc.) vi vede un’aurorale intuizione del culto trinitario, e ad
un Damasceno che dice che alcuni filosofi provarono “divinam onnipotentis
Trinitatis fidem” per quanto “exiliter et perobscure” (De fidel. defunctis, 352I), si
oppone Tommaso, il quale “giudica non potersi in nessun modo naturale co-
noscere la Trinità”, perché non è riflessa nelle creature. Ma Tommaso, osserva
sempre C. – “non aveva letto né i Platonici né Trismegisto, non ancora al suo
tempo voltati in latino”, per cui “non è da stupire che dia di questi testi delle in-
terpretazioni non convenienti”; infatti “Trismegisto parla… di Dio trino crea-
tore del mondo… Parimenti insegna che Dio generò col Verbo una terza Men-
te [= mentem], che è insieme Dio, Spirito e Nume” (Theol. II, p. 12-4; Yates
1981, p. 408-9).
“Spesso si suole attribuire al Padre la potenza, al Figlio la sapienza e allo Spiri-
to la bontà”, scriveva Pier Lombardo (in: SN I X); e infatti, oltre che nelle fonti
patristiche su cit. da C., lo si ritrova nel Psalterium gioachimita (235b-c; cit. in
Gioacchino, p. 274n): “Pater dictus est potentia, quia faciens iudicium de pec-
catoribus, semper se ostendit invictum; Filius dictus est Sapientia, quia noluit
potentia vincere, sed humilitate. Spiritus sanctus dictus est amor, quia qui ple-
ne amat aliquem, dat ei quem diligit et se et omnia sua”.
A complemento delle fonti dottrinali, i resoconti di viaggio. I primi viaggiatori
moderni in India erano rimasti colpiti dalle affinità (del tutto apparenti) con
la Trimurti induista: Odoardo Barbosa (v. n. 64.16): “Hanno questi Bramini
imagini che figurano la santa Trinità; onoran molto il numero trinario”, am-
mettono “che la sua deità è tre in una sola persona” (Ramusio, II, pp. 579 e
632); Barros già intuisce che la somiglianza è ingannevole: i Bramini del regno
di Calicut “nella religione che havevano della trinità di tre persone e un solo
Dio, che appresso i Christiani era il fondamento di tutta la lor fede, si confor-
mavano con essi, ma per altra via molto differente” (I, 77v); Botero non coglie
più alcuna affinità con gli Indiani (III II, p. 105: i Bramini “adorano un certo
Parabramma e i tre suoi figliuoli”), quanto con gli Amerindi: i Peruviani “con-
trafacevano ancora il misterio della Santissima Trinità, perché adoravano tre
statue del Sole, e le chiamavano l’una il Padre Sole, l’altra il Figliuol Sole e la
terza il Fratel Sole” (IV I, p. 10); e C. in Quod rem. 2, p. 265 ricorda proprio que-
sta credenza monotriadica sudamericana, che gli sarà rimasta impressa, per al-
meno due motivi: a) anzitutto perché essa appartiene a un retaggio consolida-
to e autorizzato;556 b) e poi, perché tale retaggio era stato accolto anche in am-
non per noi, più chiara nella natura, segnatamente intellettuale, che nella Sacra Scrittura”) e
Lettere, p. 186.
556
Damasceno, De imagin. 519r: “Videmus praeterea imagines in rebus procreatis, quae nobis
obscuras rerum divinarum significationes praebent. Ut cum dicimus Sanctam omnique prin-
COMMENTO AL TESTO 591
bito telesiano: a chiusura del suo Trattato, come si è detto (v. n. 118.1-3), Persio
eleva una preghiera al sole, visto in forma trinitaria: “O sole tu se’ la vera e fe-
dele imagine di Dio, peroché la tua possanza, o sole, e il tuo infocato e vita, ras-
sembra il possente e vivificante padre: la tua luce che dallo ‘nfocato si genera,
e quasi vien partorita, rappresenta il lucente figliuolo; e quell’ardore che indi
procede e spira, all’ardente spirito s’assomiglia, e è del vivo, possente, lucido e
ardente sole fattura e imagine” (p. 123-9).
cipio superiorem Trinitatem, per Solem, et lucem et radium declarari”; Pico, I, p. 387: la lu-
ce delle stelle “ci indica l’occulto mistero della divinità, raffigurando la potestà nel movi-
mento, la sapienza nella luce, nel caldo l’amore, con cui tutto è mosso” da Dio; Ficino, Sole,
XII ‘Similitudo Solis ad Trinitatem divinam…’: “nulla si trova nel mondo che più del Sole ras-
somigli alla divina Trinità… La fecondità indica il Padre, la luce simile all’intelligenza rap-
presenta il Figlio concepito secondo intelligenza, il calore lo Spirito d’amore”, trinitarietà
questa, che Camillo (p. 66) attribuiva proprio ai pitagorici.
557
Cfr anche II VI, V-XV; Quod rem. 3, p. 33; Theol. I, cap. 8-13, dove sono analizzate le singole
figure primalitative, a partire dalla potenza, che è condizione indispensabile per l’esistenza
(I, p. 261), cui, aggiungendo le “ragioni formali” si ottiene che “in quanto l’essere si riferisce
alla potenza si chiama ente, in quanto si riferisce alla sapienza si chiama vero, in quanto si ri-
ferisce all’amore si chiama bene” (II, p. 105).
558
L’argomento è svolto con analoga profondità e acribia in Theol. IV (II, p. 117) e partico-
larmente in Theol. II (I, I-VI), dettato da necessità polemiche contro i greco-ortodossi, che so-
stengono che lo Spirito santo procede solo dal Padre (Lettere, p. 183).
592 LA CITTÀ DEL SOLE
mismo (lo dichiara del resto in Theol. II I, p. 55: “il nostro sistema concorda an-
che con gli Scolastici”): la distinzione fra ‘processio’ e ‘generatio’ era posta già
da Damasceno, Orth. fidei I, sebbene “quis huius differentiae modus sit, prorsus
nos fugit” (179H); nella teologia trinitaria di Tommaso, con “processio” s’in-
tende l’origine di una persona da un’altra; la processione è immanente (‘ad in-
tra’, come quando ad es. l’intelletto genera un’idea), cioè il soggetto che pro-
cede rimane immanente al proprio principio; ST I, 27, 3: “In Dio ci sono due
processioni”, una appartenente all’intelletto, l’altra alla volontà: “Secondo l’a-
zione dell’intelletto si ha la processione del verbo. Secondo poi l’operazione
della volontà si ha… l’amore… Sebbene in Dio la volontà non differisca dal-
l’intelletto, tuttavia la volontà e l’intelletto richiedono che le processioni ab-
biano tra loro un ordine. Infatti non si dà processione d’amore se non in rap-
porto a quello del verbo [mentale]: perché la volontà non può amare se non
ciò che è appreso dall’intelletto”.
559
Quest’esempio è variamente replicato in Theol. I (ad es.: II, p. 179), dove s’insiste pure sul
fatto che il male in sé non esiste, ma, come per il nulla da cui deriva, è evincibile solo dall’i-
dea di bene (II, p. 43).
COMMENTO AL TESTO 593
si) che il dialogo tra i due si svolga in una città portuale – Genova, Napoli? (v.
n. 54.36-56.9).
560
Quest’ultimo periodo coincide quasi con le parole dell’Ospitaliero a 134.5-14.
594 LA CITTÀ DEL SOLE
561
C. stesso sintetizza l’argomentazione dei riformati che tendono così a dimostrare che Dio
ci ha già predestinati: Dio “afferma di volere che tutti si salvino, e tuttavia vuole che i bambi-
ni morti senza battesimo si dannino… e così [pure] tutti quelli che nelle Americhe lasciò
senza rivelazione” (Theol. I [II, p. 91]).
562
Cfr Ernst 1991, p. 102; e, in generale, su questa tolleranza pelagianizzante di C., cfr R.
Amerio, Introduzione alla teologia di T.C., p. 23sg.
COMMENTO AL TESTO 595
dico parimenti che potevano salvarsi con la legge naturale e la grazia suffi-
ciente, e che molti si salvarono effettivamente, i quali poi condanneranno
noi nel giorno del giudizio, come Dante dice degli Etiopi e del troiano Ri-
feo, mentre scioglie questa questione” (Theol. I [II, pp. 91-5, 223, 269-73]; cfr
anche Avvertenze, p. 462). Ed è proprio per parare questa grave accusa che,
come L. aveva aggiunto la celebre frase delle “ragioni vive del Cristianesmo”
(v. 60.11 in ‘Apparato delle varianti di α’), anche Civitas aggiunge una glos-
sa a 60.25 di tenore analogo. Ma essenzialmente C. copre di sottintesi pro-
prio le pagine che stiamo scorrendo: quale destino ultraterreno attende una
popolazione ideale, ma ignara della Rivelazione, come i Solari?
2. Nel prosieguo del testo si dice che la malvagità del mondo fa ritenere che es-
so sia un caos,563 da una cui costola discendono i ‘machiavellisti’; invece i So-
lari, che leggono il Libro della Natura, il primo Libro composto direttamen-
te da Dio, dalla sua armonia hanno dedotto quelli che sono i tre imperativi
fondamentali di una religione naturale: gnoseologico (uomo/natura), etico
(uomo/altri uomini: rispettare il prossimo), teologico (uomo/Dio: onorare
il Creatore): “a chi osserva la legge di natura, ignorando quella della grazia,
non si nega il Paradiso” (Poesie, 3, 60, Esp.); la grazia è appunto un dono, per
cui noi siamo razionali per natura “e per dono cristiani… Perciò i Padri ri-
tengono cristiani tutti coloro i quali vivono razionalmente, anche se nulla
abbiano udito della Ragione incarnata; anzi, dice Cristo, chi non è contro di
noi è per noi” (Metaph. XVI IX, App. [III, p. 297]). Allora i Solari sono un po-
polo scelto da Dio (134.20) a testimoniare che la ragione è un requisito suf-
ficiente per la salvezza; oltre che, e principalmente, a insegnare altre due co-
se: costruendo solo con la ragione una visione del mondo, la religione coin-
ciderà quasi con il cristianesimo; in secondo luogo, se tutte le religioni sono
germogli (o tralignamenti) dall’unico tronco della religione naturale, allo-
ra, riducendo tutto alla religione naturale, quindi al cristianesimo, non sarà
difficile (come non lo è per i Solari, che, per convertirsi, aspettano solo che
i cristiani restaurino l’originaria vita apostolica), riunificare tutto il mondo
sotto un’unica Legge.
Questa posizione Theol. XVI (l’intero tomo è dedicato alla trattazione del pec-
cato originale) la chiarisce partendo dall’eresia pelagiana, da cui sono fioriti
tre tronconi eterodossi: da Abelardo agli Anabattisti (negazione dell’eredita-
rietà del peccato originale); da Erasmo a Zwingli (“si contraggono da Adamo le
pene, non però la colpa”); e il terzo è il calvinismo (se i genitori sono battezza-
ti, i figli non possono nascere nel peccato); a questo tentativo di liquidazione o
quanto meno di ridimensionamento in senso erasmiano del peccato originale,
563
O sia retto da leggi casuali, come vorrebbero “li Epicurei e Democratici [= Democritei]”
(Politici III, p. 109 – buona parafrasi, con esplicita valenza profetale, di questo passo è ap-
punto il capit. di quest’opera intitolato: ‘I scompigli e disordini del governo umano esser da
tutti confessati e la cagion cercata, ma solo nel Cristianesimo esser nota, e questo esser argo-
mento d’un altro secolo ottimo, successivo a questo disordinato’).
596 LA CITTÀ DEL SOLE
564
Ma non per molto ancora, come ammonisce Rom. 1, 9sg, spesso citato nelle Lettere, veden-
dovi ritratta la sua condizione e la speranza del suo riscatto: “Si manifestò infatti dal cielo la
collera di Dio contro ogni empietà e ogni ingiustizia degli uomini, che tengono ingiusta-
mente imprigionata la verità”.
COMMENTO AL TESTO 597
alla catastrofe del ‘99, in cui l’opposizione ‘buoni/malvagi’ non è altro che la
duplicazione, resa estrema e generica (come nel sonetto 13: ‘Senno senza for-
za… forza de’ pazzi’), di quella ‘profeti’/’politici’: “A Napoli avevo scritto un
Trattato [perduto] su ‘Perché coloro forniti di sapienza e virtù illustre, benefat-
tori del genere umano, nei periodi critici dei tempi incorrono in una morte
violenta sotto il pretesto di lesa maestà divina e umana, ma poi tornano a vive-
re nel culto e nella gloria’” (Syntagma II IV).565
565
“Quando la società è dominata dalla follia e dall’inversione dei valori, i profeti, scomodi
portatori di un messaggio di verità, non possono che venire perseguitati e talora messi a mor-
te. La distorsione del loro messaggio e la persecuzione sono opera dei ‘politici’, che irridono
la profezia e tacciano di ribellione i sapienti, in quanto… dominati dall’esclusiva logica del
potere, ritengono che ogni iniziativa umana sia dettata da personali ambizioni di dominio”
(Ernst 2002, p. 77-8).
566
Segnatamente Tim. 28a, 41a-4a; Leg. 713d-e, passo a cui si rifà in Mon. Messiae I: nell’età di
Saturno, il dio “prepose a noi quella stirpe che era migliore di noi, i dèmoni; essi di noi pre-
sero cura senza molta fatica per loro e senza peso per noi e ci portarono la pace… Per tutti
gli stati cui non conduce un dio ma un mortale non c’è scampo ai mali e alla faticosa pena”.
598 LA CITTÀ DEL SOLE
567
Politici, V; nel cap. succ., Ernst 1996c, p. 122n fa notare però che “secondo C., anche Pla-
tone ammette un ordine provvidenziale del mondo umano, in polemica con quanti riteneva-
no che il filosofo delegasse la cura del mondo inferiore agli astri e ai demoni”, rinviando a
Metaph. II IX, X, 2 e Atheismus V, 44.
568
Condividendo, si direbbe, la posizione di Pico: è una ‘favola’ “sostener che Giove presiede
ora alle cose terrene, e negli anni precedenti vi presiedette Saturno [si corregge il “Mercu-
rio” del testo, evidente lapsus], a cui Giove segue secondo l’ordine delle sfere” (II, p. 197).
569
Secondo Firmico, infatti, per gli astrologi egizi a Saturno toccava l’epoca “selvaggia e ter-
rificante” dell’origine del mondo; “dopo Saturno, è Giove ad esser diventato signore dei tem-
pi, affinché, superata la fase agreste e primitiva, un genere di vita più civilizzata fosse propo-
sta a un’umanità dai costumi purificati” (III, 12-4).
COMMENTO AL TESTO 599
570
De la Politica, Venezia, Somascho, 1583, in: Curcio 1944, p. 208-9 – il quale Curcio ha trac-
ciato alle p. 197-200, una breve ma densa storia del mito dell’età aurea; mentre Frajese, p. 18-
600 LA CITTÀ DEL SOLE
23 l’ha percorsa negli scritti e testimonianze di C. anteriori a Mon. del Messia (1606), che lo
fanno coincidere con il regno sacerdotale (v. n. 10.18-9).
571
In caput Matthaei XVIII, Hom. LXII: “millies infinite designat, plerunque multa indefinite
atque indistincte denotatur” (II, 515A).
572
Fra Silvestro aveva sentito dire che “nell’anno 1600 si doveano vedere gran cose e revolu-
tioni di Stati”; a Pizzoni avrebbe confidato che Brigida, Caterina, Gioacchino e Savonarola
“hanno prophetato che nell’anno seicento [sic] dovevano essere gran romori rebellioni e
sollevationi di populi e mutationi di stato” (Amabile, Congiura III, pp. 143 e 200 - per altre te-
stimonianze v. n. 136.14-25, n. 144.27-146.2 e n. 156.13-158.5).
573
C. insiste molto “nel distinguere profezia e iniziativa politica, ed è molto attento a respin-
gere ogni sospetto di aver voluto aspirare a esercitare un personale potere politico. La stessa
accusa che aveva colpito Savonarola, e traspariva dal famoso giudizio di Machiavelli sui pro-
COMMENTO AL TESTO 601
feti disarmati” (Ernst 2002, p. 82-3 sul giudizio reticente, ma senz’altro positivo, per il suo
sfortunato confratello, di cui non manca di citare l’Oracolo della renovatione della Chiesa).
574
Cfr Bobbio per altri luoghi testuali, cui si può aggiungere Afor. 20 e 97; Politica III, 13; Mon.
Sp.1, p. 24; Mon. Sp. XII, p. 110.
602 LA CITTÀ DEL SOLE
575
“Quel che noi diciamo congiunzione in greco si dice ‘synodos’, espressione che in senso
assoluto si intende sempre a proposito dell’incontro del Sole e della Luna, quando non si ag-
giunga esplicitamente di quale altra congiunzione si tratti”, ma è stato frainteso dai posteri
che l’hanno adoperato per tutti i pianeti (Pico, I, p. 555 - lo stesso dice Pontano [cit. da Ga-
rin 1946, p. 636]).
576
Le sue opere principali, il De magnis coniunctionibus et annorum revolutionibus ac eorum pro-
fectionibus e l’Introductorium maius in astronomiam furono pubblicate molto precocemente nel
1489 ad Augusta e pochi lustri dopo a Venezia.
COMMENTO AL TESTO 603
577
Ernst 1991, pp. 32-3, 206, 242 e 259; cfr G. Cardano, Come si interpretano gli oroscopi, trad. a
c. di O. Pompeo Faracovi e T. Delia, Ist. Edit. e Poligr. Internaz., Pisa-Roma, 2005.
578
Allude a Tim. 41c-d e Polit. 269c; per [pseudo-]Seneca: Octavia, 378; per la profezia evan-
gelica v. n. 114.5-6, n. 114 (glossa) § 2.3, n. 156.6-158.5 e n. 160.1-2 § 1.
604 LA CITTÀ DEL SOLE
perché e con quali finalità Dio, infinitamente buono, abbia permesso un gua-
sto così grande, da cui sarebbe conseguita la dannazione della stragrande mag-
gioranza dei propri figli. C., come di consueto, respinge la dottrina che acco-
muna Maometto e i fautori della Riforma, secondo la quale Dio è causa dei ma-
li e dei beni, al fine di poterci punire e manifestare la propria giustizia. A suo
parere a nessun titolo Dio può volere né causare il peccato, che ha origine, in-
vece, dal fatto che l’uomo è limitato, defettibile e libero. Ma anche le argo-
mentazioni più sottili di dottori illustri quali Agostino, Crisostomo, Ambrogio,
che vengono analizzate e discusse minutamente, non riescono a risolvere il no-
do di fondo: ‘tuttavia non è ancora chiarito da questi santi dottori perché, se il
mondo sarebbe stato migliore senza reprobi e dannati e pene infernali e cala-
mità della presente vita, Dio permise il peccato dal quale il mondo è stato così
deteriorato’. La questione è tanto più grave in quanto la rovina eterna di tanti
uomini è irrimediabile anche in seguito all’incarnazione stessa di Cristo: colo-
ro che saranno condannati al supplizio eterno, sono infatti assai più numerosi
di quelli che godranno della beatitudine. Qui la tentazione di aderire all’auda-
ce soluzione di una salvezza progressiva e universale, proposta da Origene, ‘il
quale insegna che i dannati ritornando in questo mondo più e più volte, lungo
un altro giro di secoli, si procacceranno i meriti per salire alla gloria e che da
ultimo, dopo tanti mali, tutti, uomini e diavoli saranno salvati’ (Theol. XVI, p.
69)” (p. 162).
579
Invece tradizionalmente – es. SN II XCVI ‘De malo duplici, scilicet culpae et poenae’; SM
III XIV, III – ‘l’anima eredita la colpa, la carne la pena’.
COMMENTO AL TESTO 605
malo poenae… secondo il detto di Dionigi: ‘Il male non è esser puniti, ma il di-
ventare degni di punizione’”.580
Per quanto riguarda invece la necessità di un’accorta politica matrimoniale e
educativa,581 il referente ideale è il platonico Polit. 310-1: “solo in coloro che fin
da principio nati di nobile indole sono stati allevati secondo la loro natura, so-
lo in essi quel legame si può ingenerare mediante l’aiuto delle leggi”, e quindi
bisogna combattere “la caccia alla ricchezza e alla potenza” nei legami coniu-
gali, e perseguire invece ‘legami corretti’ fatti “in funzione della procreazione
dei figli”, ‘tessendo’ insieme i temperamenti ‘valorosi’ con quelli ‘decorosi’,
per realizzare in questo modo ‘concordia e amicizia’ nello stato, come presup-
posto fondamentale per la felicità dei cittadini (v. n. 48.11-3).
580
ST I, 48, 6: ‘Utrum habeat plus de ratione mali poena quam culpa’; mentre in I-II, 81, 1-3
e 82, e 4SCG, 50-2 confuta le possibili obiezioni contro la trasmissibilità del peccato originale
(su questo tema cfr C. Tugnoli, La magnifica ossessione, B. Mondadori, Milano, 2005).
581
Ampiamente trattata a 40.13-46.14, e che si basa su tre presupposti e pratiche: a) scelta di
partner idonei psicofisicamente; b) scelta di luogo e tempo opportuno; c) educazione ‘pub-
blica’, come ben sintetizzato in Politica IV, 12 e 13: “La corruzione domina ancor maggior-
mente, a causa di una generazione fortuita, senza rispetto del tempo, del luogo e delle atti-
tudini al congiungimento, e a causa di una cattiva educazione, affidata a genitori ignoranti e
senza un pubblico precettore, o reggitore” (v. n. 18.39).
606 LA CITTÀ DEL SOLE
582
Per la polemica, in CS solo implicita, con il corto e illusorio respiro della politica machia-
vellica, cfr Ateismo I, 5: la causa principale dei mali presenti sono proprio i germi d’incredu-
lità sparsi dai “macchiavellisti”, secondo i quali la religione sarebbe “arte di vivere trovata da
gente astuta, e che in vero non ci sia Dio, o che non mira alle cose umane, o che parte del
mondo si regge a caso, parte a ragione, e che ognuno deve esaltar se stesso quanto può a drit-
to o a torto, come avvien tra bruti, che li lupi mangian le pecore”; e purtroppo “questa sen-
tenza… camina assai tra prencipi e cortegiani e governatori e giudici iniqui. E sta fondata su
l’amor proprio, onde è difficilissimo a levarla” (cfr Ernst 1991, pp. 60-1 e 95-104).
583
Ad es. Rom. 1, 20: “le sue invisibili perfezioni, come la sua eterna potenza e la sua divinità,
appariscono chiare dal mondo creato, quando si considerino nelle sue opere”.
COMMENTO AL TESTO 607
5, 11: la “Provvidenza” divina “non soltanto il cielo e la terra, non soltanto l’an-
gelo e l’uomo non lasciò senza una rispondenza fra le loro parti… ma anche
gli organi più interni del più piccolo e più vile animale, il fiorellino di un’erba
o la foglia di un albero”. In forma di corrispondenza micro-/macrocosmica in
Paracelso, Paragrano II, p. 99: “come il cielo è in sé, così è l’uomo nella sua ana-
tomia. Da ciò procede l’anatomia umana”.
La dissezione dei corpi, ritenuta profanatoria alla luce di considerazioni etico-
religiose,584 fu proibita e surrogata da quella degli animali, fino alla ripresa de-
gli esperimenti avviati in pieno Rinascimento, per opera di scienziati come
Leonardo, Iacopo Berengario, Gabriele Falloppio, Bartolomeo Eustachi, An-
dreas Vesalio e il suo celebre De humani corporis fabrica libri septem (Basilea,
1543).585 C., non solo era al corrente (secondo Ernst 1995, p. 89) del “sodalizio
di Della Porta con il boia napoletano” per poter studiare la ‘chirofisionomia’
degli impiccati, ma aveva sezionato occhi di bue per questioni di rifrazione ot-
tica (Quaest. phys. XLVIII II, p. 459) e forse aveva anche assistito alla dissezione
di cadaveri nel ‘Teatro’ padovano;586 pertanto non si comprende perché, se-
condo Crahay, la dissezione dei cadaveri da parte dei Solari “garde une conno-
tation négative” (p. 211).
584
“Con solerzia crudele alcuni medici, anatomisti li chiamano, hanno sezionato corpi di
morti o anche di gente che periva sotto le mani di chi li stava sezionando ed esaminando”
(Agostino, CD 22, 24).
585
Frequentemente citato da C. – ad es. Syntagma IV VII; cfr Lerner 2001, p. LXXVI; D. Lau-
renza, La ricerca dell’armonia. Rappresentazioni anatomiche nel Rinascimento, Firenze, Olschki,
2003.
586
Nel Syntagma I II ricorda “un Apologetico sull’origine delle vene, dei nervi e delle arterie e sulla pul-
sazione” (perduto), scritto a Padova nel 1593 in difesa di un opuscolo telesiano criticato dal
medico veronese Andrea Chiocco.
608 LA CITTÀ DEL SOLE
so” e che Crahay (p. 213) attribuisce ad un poema didascalico cristiano del V
sec. (Commonitorium I, 197-8 di Orienzio in: PL LXI, 982: ‘Nec facias aliis quid-
quid fieri tibi non vis, Idque aliis facias quod tibi vis fieri’”), è invece apposita-
mente diviso in due parti, perché, secondo C., la prima regola, esposta nel-
l’Antico Testamento (Tb. 4, 15: “Quod ab alio oderis fieri tibi, vide ne tu ali-
quando alteri facias”), appartiene alla legge di natura; mentre la seconda,
enunciata da Cristo (Mt. 7, 12; Lc. 6, 31), appartiene alla Legge divina: “At na-
tura docet: quod tibi non vis, alteri ne feceris. Et Christus addit: ‘quaecumque
vultis ut faciant vobis homines, et vos facite illis’” (Quod rem. 4, 141). Questo
precetto gli è molto caro, come confida a Galileo (Lettere, p. 178), perché per la
felicità universale basterebbe quest’unica legge ‘Ama Dio e il prossimo tuo co-
me te stesso’, in quanto in essa si compendia e si contempla tutto.587
La ‘naturalità’ di questo precetto era già stata riconosciuta da Crisostomo, In
Epist. ad Cor. VIII, Hom. XVIII (IV, 805BC: “‘Nam quaecunque volueritis…’ Vi-
disti quomodo ostendit naturae legem esse et non egere nos externis legibus et
doctoribus: quae enim volumus pati vel non pati a proximis, ea ipsa impere-
mus nobis et sic legem nobis ponamus”); e sancito nel Decretum di Graziano:
“In prima parte dist. 1: Ius naturae est quod in lege et in Evangelio continetur:
quo quisque iubetur alii facere quod sibi velit fieri” (in SD VII XLI); e ripreso,
tra gli altri (ad es. Tommaso, ST I-II, 94, 4), da Telesio: alla base della virtù del-
la Giustizia, “non solo Dio ottimo massimo… ma anche la natura stessa… am-
moniscono che ognuno deve fare agli altri quello che vuole che dagli altri gli
venga fatto” (IX, 12 [III, 387]). Invece secondo SN XXX XXXII, va tenuta di-
stinta la “negativa” di pertinenza “de naturali iure”, dall’“affirmativa”, evangeli-
ca.588 A confermare poi l’universalità di quest’aureo precetto contribuiva il suo
asserito rinvenimento in tempi e spazi lontani; per limitarci all’Oriente: è la
nona proposizione di saggezza del Sindbad (p. 106); Mandeville racconta che i
Bramini isolani “non hanno alcun peccato, e fanno ad altrui quelo che e’ vo-
gliono sia fatto a loro, e egliono adempiono tutti e dieci comandamenti” (II, p.
179); Varthema, a proposito dei Guzerati della città indiana di Combeia, scrive:
“se avessero el battismo tutti sariano salvi alle opere che fanno, perché ad altri
non fanno quello che non vorriano fussi fatto alloro” (p. 108).
La massima, in varie formulazioni aforistiche, ebbe notevole fortuna nel corso
del Cinquecento: la si ritrova addirittura nello stemma nella pagina del titolo
di Giamblico, Misteri [Ficino] dell’editore Tournes di Lione, dove all’interno di
una specie di ‘8’ formato da due serpenti che cercano di mangiarsi reciproca-
mente, si legge il motto: “Quod tibi fieri non vis alteri ne feceris”, un motto che
587
“In qua explicatur lex, et ratio legis totius simul, et omnis” (Atheismus, p. 116); Quaest. oec.
III I, p. 187-8; il Dialogo politico contro Luterani contiene oltre alla traduzione prosastica (p. 82),
anche per due volte (p. 65 e 69) la forma poetica endecasillabica: “Quel che per te non vòi,
non far ad altri” (cfr Giancotti, p. 670, dove cita alcune remote ricorrenze di questo precetto:
Isocrate, Girolamo, Agostino, Elio Lampridio).
588
Sulle implicazioni e riflessioni dei vari Agostino (ad es. CD, 14, 8), Tommaso e Alberto Ma-
gno su questa ‘regola aurea’, cfr s.v. Petit Dictionnaire d’Ethique, Paris, Editions du Cerf, 1994.
COMMENTO AL TESTO 609
è, quasi alla lettera, la morale della ‘favola’ di Doni, p. 74 (Doni, Mondi, p. 69n
lo considera addirittura il principio fondamentale del mondo utopico), ed in-
sieme il rovescio dell’unica ‘regola’ vigente in un’altra città-convento, Thélè-
me: “Fa’ quello che vuoi” (I, 57).
589
Queste mancate prove potrebbero in parte spiegare la non ancora avvenuta conversione
dei Solari, che pur conoscono ed effigiano Cristo (18.5).
590
E altrove, testimoniando un personale travaglio: “Arrivai al vero della nostra legge, che in
lei sta solo la purità della legge naturale, e solo vi son aggionti li sacramenti per aiutare ad as-
sicurar la legge della natura” (Lettere, pp. 15 e 30); dalle deposizioni nei processi del ‘99 ri-
sulta una critica campan. “razionalisticamente assai spregiudicata degli aspetti soprannatura-
li e sacramentali del cristianesimo… i sacramenti ‘non sono stati ordinati da Cristo’, ma sono
stati introdotti per ragion di stato, e cioè per indurre paura e obbedienza nei popoli” (Ernst
2002, p. 71).
COMMENTO AL TESTO 611
a) “tutti i buoni filosofi sono quasi cristiani” (v. 2.29, 134.19), donde si ricava che
“Cristo, come prima ragione, fosse operante anche prima dell’incarnazione”; b) il
cristianesimo è la pietra di paragone della razionalità delle altre religioni, c) ed è
“il fine e la tendenza implicita in ogni legge religiosa cui ognuna giungerà nel
millennio felice dove tutti gli uomini saranno resi vivi dalla legge cristiana… in-
terpretata da C. come una costituzione comunitarista, priva di proprietà privata
e di potere politico, secondo la regola dei tempi apostolici e degli ordini mendi-
canti nei quali vige la comunità dei beni” (p. 340-1); e infine “C. pensa i sacra-
menti come il suggello di operazioni naturali… conformi alla ragione naturale e
ai costumi di tutte le nazioni”, pertanto i popoli che “osservano i precetti della
legge naturale si salvano nella propria religione, perché la legge naturale è il Cri-
sto stesso, somma ragione, e, attraverso di esso, in ogni legge religiosa opera la
sua grazia” (p. 341-2). Alla base di queste teorie ci sono i colloqui avuti nel carce-
re del Sant’Uffizio con Francesco Pucci: “Pucci esercitò su C. un influsso profon-
do e di lunga durata, sia per quanto riguarda punti dottrinali e specifici, come il
ruolo dei Sacramenti istituiti per ampliare e non per restringere la via della sal-
vezza; l’estensione della salvezza anche ai bambini morti senza battesimo; l’opera
universalmente redentrice del Cristo; sia per le aspettative di un imminente radi-
cale rinnovamento”; ma dopo la conversione affiora con chiarezza la superiorità
del cristianesimo, riconosciuta dai Solari, rispetto alle altre religioni, com’è testi-
moniato in Atheismus IX: “Il cristianesimo non è una sètta fra le sètte, ma, in
quanto esplicazione del Verbo, coincide con la religione naturale integrata e per-
fezionata da credenze soprannaturali, dogmi e aspetti cerimoniali che a loro vol-
ta non risultano alieni dalla razionalità e dalla naturalità. Le altre religioni, inve-
ce, monoteistiche o pagane, manifestano una evidente inferiorità dal punto di vi-
sta sia dei principi etici, che dagli aspetti sacramentali e dei misteri soprannatu-
rali. La religione cristiana sia per la semplicità e l’universalità del suo messaggio
morale; sia in quanto il suo apparato cerimoniale non è contro la natura, ma la
completa e la perfeziona, risulta la più conforme a natura, e di conseguenza la
più universalizzabile” (Ernst 2002, pp. 32 e 124-5; v. n. 2.19, n. 66.29, n. 84.23-5,
n. 104 [glossa] e n. 148.12-3).
591
Vi è “una somiglianza formale evidentissima tra la concezione politica del C. e l’effettiva
struttura universalistica, federativa e missionaria della Monarchia spagnola” (p. 320).
612 LA CITTÀ DEL SOLE
di farsi cristiano, perché tengono nelli suoi libri scritto che tutta la legge deve es-
ser una, e che aspettano un’altra più perfetta della sua” (Ramusio, II, p. 1016).
592
Ancora: Ethica; Mon. Sp. II, p. 12; Poesie, 36, Madr. 2, 1; Mon. Fr., p. 418; Art. proph. VIII (v.
n. 136.13 sull’‘unum ovile’; v. n. sg e n. 160.1-2 § 2.1 sul ruolo ‘provvidenziale’ della Spagna).
COMMENTO AL TESTO 613
593
Non certo il XVI sec. (v. n. 2.f), come crede Crahay (p. 215), interpretando tutto il passo
che segue (136.4-7) come un pronostico Solare, “suivant une pratique commune à beaucoup
de prédictions, celle-ci utilise, en guise de confirmation, des événements déjà réalisés” (= le
tre scoperte); come in 116.12, ‘saeculum’ significa (età millenarie del) mondo.
614 LA CITTÀ DEL SOLE
594
Ad es.: Poesie 64, 1: “Ben seimila anni in tutto ‘l mondo io vissi”; e così 75, Madr. 3, 16
(Giancotti rinvia a Metaph. III XI, III, II).
COMMENTO AL TESTO 615
pero “è certo che sia subito per cadere e spezzarsi” (pp. 386, 462-4; cfr anche
Senso, p. 318-9; ‘Ecloga’, 169, 77).
Le fonti sono: principalmente (per l’identica forma retorica impiegata), Per-
sio, che, tra le meraviglie dell’ingegno umano e la superiorità dei moderni, an-
novera l’“uso della calamita… non diciam [poi] della bombarda, non della
stampa” (p. 10); e Botero: l’Europa supera gli altri continenti anche per meri-
to “della nobilissima arte della Stampa e dell’inestimabile invenzione dell’Arti-
gliaria” e “l’uso della calamita, ritrovato nella costa d’Amalfi” (I I).
C., generalmente ritenuto un paladino del moderno (es. Rossi 1971, p. 69-70;
Firpo 1970, p. 382-3), pur non disprezzandolo affatto, lo interpretava però pre-
valentemente in chiave escatologica, considerandolo non tanto il segno del
progresso della Ragione, quanto della fine della Storia – concordando con Co-
lombo, forse per la stessa matrice gioachimita, il quale sognava che “la reden-
zione degli ultimi popoli e la liberazione della Città Santa di Gerusalemme che
deve presto succedervi sono segno certissimo della prossima fine dei tempi”
(Moretti [p. 13], che cita dal Libro de las profecias: “avvengono grandi cose nel
mondo, ed è il segno che Nostro Signore affretta la fine dei tempi: me lo dice
la predicazione del Vangelo in tante nuove terre in così poco tempo” [p. 124]).
595
Johannes Viterbensis, noto anche come Annius o Nannius o Giovanni Nanni, menzionato
nel Syntagma, era un domenicano che, avventuratosi in un’interpretazione dell’Apocalisse e
dei cicli (millenari!) astrologici, profetizzò la sconfitta dei Turchi, per intervento divino, “po-
st cuius occisum intrabit ad fidem plenitudo gentium et omnis Israel salvus fiet: eritque om-
nis mundus unus ovile et unus pastor” (cap. XX), e poi verrà “celum novum et terra nova sub
forma civitatis Sanctae Jerusalem”, cioè un ‘nuovo stato’ di cose rispettivamente della chiesa
e dei laici, i cui “mores ben instituti ad sancte vivendum et reducendum fere ad mores qui
fuissent in statu innocentiae” (cap. XXI-XXII; cfr anche Vasoli, pp. 26-7 e 66-8 e, per la persi-
stenza del tema in Nesi, cfr Toussaint).
616 LA CITTÀ DEL SOLE
più tardi Discorsi universali” (Ernst 2002, p. 27), in cui la metafora biblica è nel
titolo e, di converso, in Quod rem. 3 è nell’explicit; e poi: Lettere, pp. 25-6, 29, 74,
95; Lettere1, pp. 23, 58, 61; Supplizio, p. 137; Atheismus VIII; Disc. Cometa, p. 78;
Politici, p. 147; Theol. IV (II, p. 163) e Theol. XXV, p. 139; e infine, in Art. proph.
VIII, oltre a ricordare i passi delle Revelationes di S. Brigida sulla riunificazione
delle genti sotto un’unica fede e la comparsa di un riformatore universale, a p.
116 cita, a memoria, l’inno a Carlo V nel Furioso (XV, 26 – lo stesso canto in cui
Ariosto nomina Taprobana): “sotto questo imperatore / solo una greggia fia,
solo un pastore”; fino al De Regno Dei Consideratio (in Phil. real. IV): “Cum domi-
nabitur unus Dei Vicarius, et erit unum ovile et unus Pastor, cessabunt bella…
et conflabunt gladios suos in falces. Item cessabunt schismata… Cessabit enim
fames quoniam non potest in omni climate simul fieri sterilitas… Cessabit et
pestis per transmigrationem ex locis corruptis ad incorruptis et per communi-
cationem scientiarum et medicinalium remediorum. Et haec omnia praedixit
Isaias et Prophetae alii palam omnes, a quibus poetae acceperunt saeculum au-
reum” (p. 213), passo così commentato da Guerrini 2002, cui si rinvia anche
per l’ottima aggiornata bibliogr. sulla teocrazia universale in C.: “In queste pa-
gine campanelliane vive un’ispirazione fantastica straordinaria, per certi aspet-
ti analoga a quella che infonde colore ed espressione al quadro idealizzato del-
la città solare” (p. 396; per il nesso invenzioni/ecumenicità v. n. 139.1 [f.p.]).
gli ‘abusi’ (134.12) della Chiesa, restituendola alla purezza evangelica (22.13-
4, 84.28), alla ‘nationi sanctae’, che sostituisce il “Cristiani” usato a partire dal
ms T. fino all’ed. Fr., perché, come ottimamente scrive Crahay (p. 217n), “con-
vient aussi bien aux Solariens, une fois ouverts à la Révélation, qu’aux chré-
tiens, une fois débarrassés des abus” (S. Pietro così apostrofa i primi cristiani:
“Voi però siete stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione sacra, popolo tratto in
salvo, affinché annunziate le meraviglie” di Cristo [1Pt. 2, 9]).
Quindi Art. proph. è l’indispensabile lettura propedeutica e complementare di
CS; è anzi il piedistallo su cui poggia ed insieme il motore che ha prodotto la
sontuosa costruzione ideale (negli intenti del Congiurato però doveva essere
reale): i segni della Terra e del cielo indicano, con l’approssimarsi della fine,
l’ineluttabile avvento dell’Eden, preceduto da un effimero trionfo dell’Anticri-
sto utile solo per igiene del mondo – paradiso terrestre, che, quando s’instau-
rerà, avrà le caratteristiche della Città del Sole, la quale vivrà ormai solo in at-
tesa della Città di Dio (v. ‘Introduzione’ e n. 160.1-2).
596
Il Tycho Brahe di J.L.E. Dreyer (Edinburg, 1890) è stata per quasi un secolo l’opera di base
618 LA CITTÀ DEL SOLE
ai primi di novembre del 1572, situato nel seggio di Cassiopea, long. 53° e latit.
62°.597 Dapprima fu una stella gioviale (superiore alla prima magnitudo), poi
sempre più piccola fino a sparire 18 mesi dopo. È un segnale celeste inequivo-
cabile, sia per ragioni astronomiche598 che onomastiche (“Cassiopea, regina
etiopissa, moglie di Moisè gentile, tipo di santa Chiesa moglie di Cristo dal gen-
tilismo raccolta” [Disc. Cometa, p. 70]); e quindi è lecito attendersi “totius mun-
di mutationem”, perché “stellae novae aliquid maximi plusquam cometae indi-
cant, et super omnia”. A tale stella C. ascrisse enorme importanza, sia teorica
(ritenendo che essa si sia formata dai vapori, ne deduceva che il cosmo è ‘ele-
mentato’, a confutazione della teoria aristotelica che l’universo sia etereo, e
quindi eterno e immutabile [Theol. III, p. 189; Apologia IV, p. 49]), che positiva-
mente profetica: “Cristo mostrò segno universale per advertirci nell’anno 1572
con la nuova stella, non data agli angioli né alle bestie per segno, ma agli uo-
mini, né fatta a caso e senza fine [= scopo] da l’Autor de la natura, che né una
ogna senza fine [= unghia senza scopo] produsse: quanto più sì gran mole di
consistenza” (Lettere1, p. 58); “secondo alcuni astrologi in questo tempo
[(1620) i Turchi] si divideranno in due fazioni, il che conferma la stella nova
dell’anno 1572” (Supplizio, p. 261); per Theol. XXV, p. 157 essa è il sicuro prean-
nunzio del “saeculum aureum” del settimo millennio; per Mon. Fr., pp. 400 e
472, dopo la ‘nova’ di Cassiopea “e l’altra nova nel Cigno nel 1603… le cose di
Spagna andaro sempre in peggio”, perché “la ribellion d’Olanda contra Spa-
gna andò innanzi”; la stella è sorta “in meridiano et polo Moschoviae, mirificas
abs te [= ‘granduca de’ Moscoviti’] novitates portendens”, cioè che si converta
e “in Tartaros dissemines. Neque enim nova stella casu quodam fulsit sed divi-
no opificio” (Lettere [1617-8], p. 188). L’ultima volta in cui ne accenna, mo-
strando una navigata disinvoltura nel maneggiare segnali celesti, la nuova stel-
la diventa annunciatrice della nascita del Delfino: “un tale eroe io rivelo per
noi nascente, che finalmente reca segni certi e fatali del suo avvento, io, inda-
gatore di fati a tutto il mondo ben noto, già da tempo posto sull’avviso dalle
nuove stelle apparse in Cassiopea e nel Cigno” (‘Ecloga’, 169, 20-3 [per questo
passo, opto per la traduzione di Firpo, in SL, p. 287-9]). Anche questa valenza
astrologica deriva da Tycho: secondo Brahe la ‘novità’ della stella (un cui uni-
per la sua biografia, stilata dal curatore dei suoi Opera omnia; oggi bisogna consultare V. E.
Thoren, The Lord of Uraniborg. A Biography of Tycho Brahe, Cambridge, 1990; un’ottima sintesi
complessiva è nel pur datato Koestler, p. 280-330, alcuni dei cui passi più pertinenti sono cit.
in n. 114 (glossa) § 3 nota; per il giudizio di C. su di lui v. n. 144.26-7.
597
E brillerà fino al marzo 1574, dando “luogo a una letteratura molto abbondante in tutta
Europa: almeno 50 trattati”, molti dei quali noti e discussi da Brahe nei suoi Progymnasmata
(per tale disamina cfr Lerner 1992, p. 73-104), libro che C. ebbe da Persio nel 1611 e lesse in
20 giorni (Art. proph., p. 300); uno di tali trattati è appunto il De nova stella del 1573.
598
“Perché non era cometa né sublunare né tra le sfere dei pianeti, ma proprio nell’ottavo
cielo, nel segno di Cassiopea, antevista dalla Sibilla Tiburtina e Babilonica” (Disc. Cometa, p.
80 - Ernst 2002, p. 80: “C. trascrive dai Progymnasmata di Tycho Brahe la profezia della Sibilla
Tiburtina, che acquista un particolare rilievo dopo la comparsa della stella nuova del 1572”).
COMMENTO AL TESTO 619
co precedente sarebbe stato osservato circa 1700 anni prima da Ipparco [Pli-
nio, II]) le dà un carattere e una significazione trascendente.599
599
Sulle dispute fisico-cosmologiche e la ripresa di profezie causate dall’osservazione di que-
sta stella e poi di una cometa apparsa tra il 10 novembre 1577 e il 7 gennaio 1578, cfr (oltre
ai cit. Lerner e Koestler) Vasoli, p. 361-9 e Paolo Ponzio, La disputa delle comete nelle Quaestio-
nes physiologicae di T. C., ‘B&C’ II (1996, p. 195-213).
600
Replicato in Lettere: “scrivo contra gli altri… per sveller le spine, volendo seminare… ben-
ché questa metafora sia di san Pietro rispondente a Simon mago appo san Clemente roma-
no” (p. 323).
620 LA CITTÀ DEL SOLE
601
Due o tre anni dopo lo chiama: “telescopius Galilaei” (Theol. I [I, p. 198]), “quale a te in-
ventum est”, con cui pretenderebbe che s’indagasse tra l’altro “de republica quam vivunt in
astris habitatores, sive beati sive quales nos” (Lettere, p. 163-9).
COMMENTO AL TESTO 621
602
Contrari anche Ambrogio: “noi che udiamo i tuoni provocati dall’urto delle nubi, non
udiremmo la rotazione di così immense sfere…?” (II II, 6-7); e Beauvais: SN XV XXXII ‘Falsa
opinio de concentu coeli’.
603
E anche: Physiol. XI VI, p. 86; Quaest. phys. XLIX I, p. 474-5; Poesie, 25, Madr. 5, e 85, 3-20;
Moralis III V, p. 21; Theol. XIV.
604
Cosa che aveva appreso da Telesio: la sfera dell’aria è in perenne seppur impercettibile
movimento, come prova “il suono, che vien percepito meglio quando si mette la mano od un
corno all’orecchio” (I, 7; VII, 34).
622 LA CITTÀ DEL SOLE
‘hem’”; quelle dei sentimenti (I XI, IV) si rendono con “‘ah, ah’” (interiezione
triplicata ib. I III, II: “uno che ride esclama ‘ah, ah, ah’” (v. n. 16.19).
140.1: causam
“Causa est id ad quam sequitur effectus, et sine qua effectus sequi non potest”
(Quaest. phys. III I, p. 13); “causa è ciò da cui qualcosa è fatto… L’occasione è il
motivo della causa, per causare, e ciò da cui le cause hanno di causare così e
non altrimenti”, ad es. la vicinanza della stoppa al fuoco perché questa s’incen-
di; “la prima causa invece non ha bisogno di occasione… e neppure di applica-
zione, perché è dovunque, ed è causa previa e intima a tutto… ed è per sé. Ef-
fetto si dice ciò che è prodotto fuori della causa” (Metaph. II II, I [I, p. 219]). Da
Dio “causa remotissima”, “causa causarum”, derivano le altre cause via via più
prossime: il cielo, i principi primi contrari, gli enti (Quaest. phys. III I, p. 13-15;
per la loro tassonomia v. n. 142.1-4).
cit.): “poiché la causa prima influisce sull’effetto di più della causa seconda, al-
lora quanto di perfetto vi è nell’effetto va ricondotto alla causa prima, quanto
vi è di difetto alla causa seconda, quae non ita efficaciter operatur sicut causa
prima” (q. 3, art. 8). Perciò “è più biastemma dire che Dio ci fa fare il peccato,
che dire il peccato non è peccato, ché questa scusa Dio, che ci lo fa fare, e la
prima lo fa tiranno e traditore, che ne dice: – Fate bene –, e ne comanda quel
che non potemo, ed egli poi ci fa fare il male per sua malignità e spasso” (Anti-
ven., p. 80). “Ogni causa contingente modifica l’effetto della necessaria, per-
ché l’effetto deriva dalla causa più potente, ma l’ecceità dell’effetto dalla causa
più prossima. Dunque l’albero fiorisce per ragioni contingenti in primavera,
malgrado il Sole in quel periodo lo riscaldi in modo necessario per la fioritura
e non possa esser impedito, e invece la fioritura può esser impedita” da un
qualsiasi fattore contingente (Theol. I [II, p. 21]).605 Quanto sopra significa che
nella catena (sequenziale e gerarchica) causale, l’effetto finale della causa pri-
ma e più potente (= necessaria) può esser modificato dall’interferenza di una
causa meno potente (= contingente), ma più prossima all’effetto.
‘Pietro’ è nome proprio correntemente utilizzato anche da C., per indicare ge-
nericamente ‘un uomo’ (Gramm. III II, p. 689: “Si chiaman proprii i nomi degli
individui… come ‘Pietro’ uomo”), e non tanto in omaggio a un suo confratel-
lo, Pietro Presterà (come pur parrebbe da un ‘exemplum’ di Poët. IX V: “‘vel
Petrus est clericus, vel est monachus’”), ma principalmente per l’analogo uso
che ne fa Tommaso, ad es. in 2Sent., dist. 38, q.2, a.1, ad 2: “Aeque enim neces-
sarium, vel contingens est, me dicere Solem oriturum, vel Petrum nasciturum”,
e diventato usuale (es. Doni, Mondi, p. 360).
605
Immagine e argomentazione analoghe qui a 142.1-6 e v. n. sg. A coloro che ipotizzano una
medesima causa incorporea sia per i fenomeni celesti che per gli avvenimenti umani, Pico
obietta: “come potrà evitare la difficoltà che siano compiute dalle menti divine quelle opere
che gli uomini non fanno senza colpa, come lo spingere l’uno all’omicidio, l’altro all’adulte-
rio, l’altro al furto? E tralascio che ad ogni filosofia ripugna che le cose corporee siano de-
terminate da cause incorporee senza un intermediario corporeo”.
624 LA CITTÀ DEL SOLE
re gli effetti, ma fosse Dio a compiere ogni cosa immediatamente, sarebbe inu-
tile che Egli si servisse di altre cose per produrre degli effetti”; ma sarebbe in-
compatibile con la Sua sapienza creare un mondo di cose inutili.
La stilettata anti-maomettana è solo la punta di una più vasta polemica relativa
al problema del male nel mondo, da un lato contro coloro che negano la Prov-
videnza e dall’altro contro quelli che negano il libero arbitrio (v. n. 142.28): al-
cuni “dissero che Dio ci è, ma non ha provvidenza nelle cose nostre… o perché
non puole [sic], come dice Aristotele… o perché non sa a tutto sovvenire, co-
me dice Plinio… onde spesso erra e fa mostri… o perché sa e può, ma non vuo-
le, il che avviene o, come dicono li Stoici, perché non ha voluto toccar la libertà
umana… o non vuole, come dice Lutero e Calvino con Maometto, perché è Si-
gnore e fa tutto a suo capriccio… perché nascemo giudicati, non giudicandi”
(Politici, p. 112), il che, oltre che empio, è “contro ogni civiltà, come che i ma-
gistrati castighino negli uomini non il loro peccato, ma il difetto di Dio” (Disc.
Paesi B., p. 85).
Gli ultimi anni della sua vita videro C. impegnato in una battaglia volta a libe-
rare San Tommaso non solo dalle grinfie di eretici ed ateisti, ma anche da teo-
logi “sconscenziatissimi”; perciò si mise a compilare un centone tomistico (De
Praedestinatione [in Atheismus, Paris, 1636, pp. 64-326]), da cui doveva risultare
che, al contrario di quel che si diceva, era proprio l’Aquinate a fornire le armi
intellettuali più affinate contro la predestinazione, che era la causa principale
della ‘rovina di questo secolo’. L’argomentazione ricorrente dei fautori del
‘servo arbitrio’ era “o Dio è o non c’è. Se non ci è, viviamo, regniamo, facciam
quel che ci piace per forza, per sofismi, per ippocrisia. S’Egli è, o ci ha prede-
stinati o reprobati ‘ab aeterno’, come dicono li pseudotomisti ‘de mente’ di
San Tomaso, e ci spinge ‘in tempore’ ad ogni atto pio e peccaminoso in modo
che non potemo far se non quel a che Dio ci move… E contra questo argo-
mento io combatto” (Lettere, pp. 260 e 310).
140.13: operationem
“Sebbene la parola ‘operazione’ indichi originariamente un atto che trapassa
in un’opera e agisce all’esterno, tuttavia teologi e metafisici sogliono assumer-
la a significare un atto immanente che non si esplica al fine di acquisire un og-
getto esterno, o di perderlo, o di operare alcunché (ciò infatti riguarda l’azio-
ne), ma per manifestare e conservare la propria entità; per questo il suo nome
appropriato è ‘atto’ e il suo verbo è attuare”, e un esempio di ‘attuazione’ può
essere ‘io amo d’amore’ (Gramm. II II, p. 619). Il concetto è sviluppato in Phys.
IV I ‘De Operatione’; in Metaph. (I II, X [I, p. 277]; II X, I-VI [I, p. 321-31] e VI V,
I [II, p. 65]); e in Theol. I (I, p. 261): “l’operazione è l’attualità interna della co-
sa, mediante la quale essa ci conserva nell’essere e persevera ad essere… e l’o-
perazione [a differenza dell’azione] non finisce, perché finirebbe l’essere”:
operatio, pertanto, “è attività intrinsecamente legata alla costituzione dell’ente,
per la quale l’ente si conserva in se stesso; l’actio invece, intesa come manifesta-
zione ‘ad extra’, consiste nella relazione dell’ente coll’oggetto delle sue azioni,
che non conserva l’agente in se stesso, ma nell’ente che patisce l’azione” (Ac-
cietto-Gualtieri, p. 15-6); e infine la ‘passione’, “ricevimento della sembianza
COMMENTO AL TESTO 625
d’altri” (Epilogo, p. 226), è di due tipi: naturale, “come quando la terra che pa-
tisce dal sole diventa calda; o artificiale, come, con un illuminante paragone, il
libro che l’Autore sta scrivendo è simile non alla penna con cui scrive, che è un
semplice ‘agente istrumentale’, bensì all’idea e alla sapienza che lui, T. C.,
agente principale, ha nella propria mente” (Ernst 2002, p. 45).
‘Operatio’ è termine filosofico: Ambrogio rende con “operatorius” il ‘poie-
tikòs’ di Filone, intendendo il terzo principio attivo, insieme a materia e forma
(I, 1, cfr nota 5); “il termine ha nel Medioevo il significato di attività in genera-
le, ed è usato come traduzione del greco ‘energeia’ che vale attualità o attività.
Questo è il senso in cui adopera la parola S. Tommaso (ST II I, q. 3, a. 2), per il
quale vale il principio che ‘il modo di operare di ciascuna cosa segue il suo mo-
do d’essere’” (Accietto-Gualtieri, p. 15) e in 3SCG, 69 la definisce “essere in at-
to”; Telesio, come azione propria solo a quell’ente (ad es. II, 18 [p. 313]: “Il
moto è un’operazione propria del caldo, prodotta solo da lui e non da qualche
altra natura”). In questo contesto l’Ospitaliero confuta i Maomettani che riten-
gono che quando vi è una relazione di causa-effetto stretta (es. fuoco/calore),
per cui si può considerare il calore un’operazione del fuoco, allora è Dio ad
agire, e non una causa seconda; egli obietta che la causa universale agisce in
quanto causa prima, e non per il contatto, che è requisito indispensabile di tut-
te le cause derivate.
140.14: attingentia
Parola non registrata dai principali lessici (Thesaurus, Forcellini, Du Cange…),
né da altri minori (es. Blaise, Dict. lat.-fr. des auteurs chrétiens) e neanche nell’In-
dex tomistico; è possibile che sia stata coniata da C., che è incline ai neologismi,
per caso (es. T.132.2: “intravariano”) e per necessità: “il C., che non era sicuro
del proprio latino e riconosceva di creare di proposito neologismi, onde elu-
dere l’indisponibilità della lingua latina per i concetti astratti” (Di Napoli, p.
6), si rivolge a Schoppe per farsi correggere “vocabula quae de industria con-
fingo” (Lettere, p. 144). Coniato in analogia a un sostantivo composto derivato
da ‘tango’ (es.: ‘contingentia’), ‘attingentia-ae’ (quattro righi sotto vi è il geni-
tivo in ‘-ae’; lo si ritrova anche in Metaph. [II, p. 360]: “non immediatione at-
tingentiae, sed principii”) si può tradurre con ‘contatto’.
In Quaest. phys. si chiede se agente e paziente ‘debeant se mutuo tangere’, con-
tro l’opinione corrente (l’amore, come gli astri e lo stesso Dio, agiscono anche
a distanza, senza contatto diretto); forte dell’autorità di Tommaso, “probat
quod Deus agit omnia in omnibus immediatione suppositi et virtutis per se-
cundas causas”: affinché vi possa essere azione, occorre che agente e paziente
stiano insieme, cioè si tocchino; gli enti corporei si toccano fisicamente, gli in-
corporei immaterialmente, e così anche nei casi misti: pure Dio “tangit tactu
virtuosissimo, eminentissimo; Angeli vero eminenti” (XVI VI, p. 139).
L’imprescindibilità del “contatto” fra agente e paziente è in Aristotele: “Le co-
se che non si toccano reciprocamente non hanno la possibilità, in senso pro-
prio, di agire e di patire… Possono essere in contatto reciproco soltanto quelle
cose che, avendo una determinata grandezza e occupando una posizione, ven-
gono a coincidere alle proprie estremità” (De gener. et corr. I, 6, 322b-323a).
626 LA CITTÀ DEL SOLE
prevalenti
particolari
(Dio=)CAUSA PRIMA→ cause seconde: universali aleatorie
libere
Al terribile ‘aut aut’ posto da Simon Mago in S. Clemente (“o avviene tutto ciò
che Dio vuole e come egli vuole, oppure no: se sì egli vuole il peccato, se no,
egli è impotente”), C. obietta che “Dio non vuole il peccato, ma vuole che noi
siamo liberi per meritare, potendo trasgredire e non trasgredendo”, essendo il
peccato partecipazione del nulla (incompatibile con Dio); ma lo permette,
“perché egli permette la libertà e ordina i peccati a un altro fine” (Theol. I [II,
p. 97]), cioè il male è largito a fin di bene, “poiché come insegna il Crisostomo
nel libro della Provvidenza nel V tomo, la cecità, la claudicazione e le malattie
avvengono negli uomini in quel membro, pel quale avrebbe peccato, e Dio
prevedendo il peccato infligge per misericordia l’impotenza” (Theol. I [II, p.
127]).
Segreti ben noti a Della Porta (Magia II I: ‘I fiori e i frutti, come s’habbiano a
far nascere primaticci e tardiuoli’); orizzonte figurale (= alterazione del pro-
cesso vegetale) e argomentazione (= causa universale → cause seconde parti-
colari) sono invece tomistici: “in floritione arboris cujus causa remota est mo-
tus solis, proxima autem virtus generativa plantae. Floritio autem potest impe-
diri per impedimentum virtutis generativae, quamvis motus solis invariabilis sit.
Similiter scientia Dei est invariabilis causa omnium; sed effectus producuntur
ab ipso per operationes secundarum causarum” (1Sent., dist. 38, q. 1, a. 5; per
il tipo di argomentazione sottesa v. n. 140.4-9).
606
I testi delle due Bolle si trovano nel Magnum Bullarium Romanum II, 515-7 e V, p. 173sg: cfr
Walker, p. 240-1; Ernst 1991, pp. 217, 255-79; v. n. 136.14-25.
630 LA CITTÀ DEL SOLE
607
Non è Isaia, bensì Ger. 10, 2: “a signis caeli nolite metuere, quae gentes timent” [= non te-
mete i segni del cielo che spaventano i pagani], versetto spesso cit. da Tommaso (es.: 3SCG,
85); e quel “divinae prudentiae” sarà la ‘provvidenza’, a cui si ‘oppone’ chi pensa di poter in-
terferire con i Disegni Celesti e non chi vi si ‘sottomette’, e dunque li agevola.
608
Così Filippo III aveva soprannominato il Maestro del Sacro Palazzo, il genovese padre do-
menicano Niccolò Riccardi, “non si sa se per la notevole eloquenza o per la straordinaria
obesità” (Formichetti 1999, p. 221); “Acre e subdolo avversario di C., lo osteggiò a Roma in
mille modi e non cessò di perseguitarlo nell’esilio di Francia”, così Firpo 1951, p. 11n; ma il
giudizio della critica recente su Padre Mostro è più sfumato: v. n. 144.27-146.2 e n. 154.9-10.
609
In Lettere è più esplicito: “Non ci è cosa che osta [alla ristampa di Atheismus], se non dui
versi che spiaceno a Nostro Signore [= Urbano VIII], pensando che fossero contro la sua bul-
la; perché quelli altri ch’il Mostro notò contro la bulla, sono notati falsamente, come sa Fa-
villa e ‘l padre maestro Marino” (p. 310).
610
Come testimoniano le Lettere, pp. 234, 250, 258… o la trappola tesagli l’anno prima, sem-
pre dal solito Riccardi, pubblicando a sua insaputa il VII di Astrol. e facendolo pervenire al
papa (Syntagma I IV).
COMMENTO AL TESTO 631
Dopo essersi inchinato all’autorità papale (“nam Papa omnia potest pro verita-
te, et nihil contra veritatem”), adduce tre ordini di contro-argomentazioni: al-
tre Autorità, la ‘Ratio’ e l’‘Experientia’ (così le glosse a p. 236-7). Per quest’ul-
tima s’avverte anche un sussulto di orgoglio: “quoniam ipse expertus sum in
cunctis hisce signis plurima, et fallacias demonum detexi. Nec loquor, ut stulti
et femellae solent, decepti immaginatione, sed sensata experientia, et vere,
quidquid Athei indocti et ad pauca respicientes obloquantur”. Le Autorità
principali sono la Bibbia (ad es. il “IESU CHRISTI ORACULUM” [116.7] nella
sua maiuscola rilevanza) e Tommaso (v. n. 42.38-40, n. 140.2, n. 144.12-5). La
‘Ratio’ richiede appunto una più distesa trattazione.
Nel rivendicare, pur entro certi limiti, la liceità dell’astrologia, C. non poteva
che rifarsi a Damasceno (Orth. Fidei II, 204F: “sidera [non] causam esse, verum
signa potius”, che non sfiorano la parte razionale dell’uomo soggetta al libero
arbitrio), e principalmente a Tommaso – e non solo perché Santo e domenica-
no, e autore di almeno due Opusc. (IX e XXII) e di 3SCG, 82-6 e 104-6, ma an-
che per i favorevoli commenti di De Vio. Lunga sarebbe invece la lista degli op-
positori illustri (in parte ricordati proprio dal commentatore di Damasceno:
De Billy, 206HI): da Ambrogio, IV IV, 13-7 (tra le varie fasi della nascita e la re-
gistrazione dell’oroscopo scorre un lasso di tempo sufficiente a falsarlo) ad
Agostino: Lett. LV, 13-5 (PL XXXIII, 210-2), De Gen. ad litt. 2, 17, 35 (PL XXXIV,
278), CD 4, 30 (che esordisce: “Cicerone, pur essendo augure, schernisce le di-
vinazioni…”), 5, 4 (la celebre questione della diversa costituzione e sorte dei
gemelli Esaù e Giacobbe in Gen. 25, 25) e particolarmente ‘De fato’ in Quaest.
ex utroque (PL XXXV, 2347-59); da Pico, Disputationes allo stesso More, 235.
L’azione (= le cause) che esercita il cielo (= gli astri) sulla terra, come si sa
(142.1; v. n. 142.1-4), può essere di tre tipi:
1. universale: il problema della liceità delle previsioni qui non si pone, perché
si tratta di cause certe; altrimenti sarebbe anche vietato prevedere che do-
mani sorgerà il Sole;
2. contingente: analogamente dicasi per questi eventi che oggi diremmo alta-
mente (im/)probabili, per cui il ‘pronostico congetturale’ è lecito in medi-
cina, agricoltura e per la navigazione (v. 144.14, teste Tommaso, Opusc., De
judiciis astrorum [THOM III, 594]);
3. libera: queste sono le cause che fanno problema, perché implicano la vo-
lontà umana, la quale è una funzione della ‘mens’ (= l’anima). Secondo
Tommaso (3SCG, 85) l’uomo è composto da corpo, spiriti e anima (C. inve-
ce si approssima di più al dualismo ‘res cogitans’ [= corpo+spiriti] e ‘res ex-
tensa’ [= anima]); ebbene, gli astri hanno un’influenza:
• sul corpo: “directe et per se”, cioè lo plasmano (ad es. il sole ci scalda);
• sugli spiriti, cioè le facoltà inferiori: “directe sed per accidens”, renden-
doci proclivi a certe passioni: “vediamo infatti che i frigidi sono di costu-
mi pigri e ottusi, i caldi iracondi, i malinconici cogitabondi; perciò il cielo
e le medicine mutando le qualità generano le passioni” (Rhet. IV IV, p.
761);
• sull’anima “indirecte et per accidens”: anzitutto, in quanto nessun corpo
materiale può lasciar tracce ‘dirette’ su un ente spirituale (come un sigil-
632 LA CITTÀ DEL SOLE
611
Ad es.: c’è una causa se un uomo è bianco, nero ecc.; c’è sempre una causa se è musicista,
marinaio ecc.; ma non c’è nessuna causa del fatto che sia un musicista bianco, “perché tale
aggregazione per natura non costituisce né un ente né un’unità”, ma un composto acciden-
tale.
612
Sul noto aforisma del Centiloquium cfr Gregory, p. 313sg, e Gregory 1996, p. 17.
613
Come si diceva all’inizio, è qui adombrato il motivo profondo, che in un papa, come Ur-
bano VIII incline alla superstizione, fece scattare l’interdetto, e cioè un uso a dir poco spre-
giudicato (v. n.144.27-146.2) dell’astrologia giudiziaria; un accenno già più esplicito in un
passo parallelo di Quaest. phys. XXVIII I, p. 259: i pontefici condannano “chi se ne serve per
COMMENTO AL TESTO 633
142.28: liberarbitrii
Il ‘libero arbitrio’ in cui credono i Solari di T.158.13 è solo lessicalmente ugua-
le a quello di cui si parla qui; Amerio 1969 ha appunto mostrato l’evoluzione
del credo campan. su tale questione: C. nasce molinista,615 in seguito diventa
un tomista rigoroso,616 e nell’ultimo decennio della sua vita, quando la rifles-
sione sul tema assorbirà quasi tutte le sue energie (il che spiega anche l’esten-
sione di questa aggiunta di P.), ritorna molinista, seppur con qualche lieve di-
stinguo. Schematicamente la posizione di Molina e S. Tommaso su grazia e pre-
destinazione è la seguente:
TOMMASO: premesso che “si parla di libero arbitrio rispetto a quelle cose che
uno vuole non per necessità, ma spontaneamente” (1SCG, 88), Dio produce
ogni specie di causa, comprese le cause libere, perciò la volontà umana è dono
divino; il peccato originale ha dannato l’intera razza umana, per cui l’onni-
scienza divina ha trascelto apriori chi si doveva salvare, con un criterio inson-
dabile per la nostra debole ragione, ma comunque non ingiusto, perché, con il
Peccato appunto, il destino dell’uomo era segnato.
MOLINA: il libero arbitrio, in quanto decisione autonoma dell’uomo, prescinde
dalla catena causale divina; Dio chiama tutti alla salvezza, e lascia ognuno libe-
ro di aderire o meno alla sua chiamata.
617
Forse potrebbero esserci echi platonico-agostiniani in questa teoria della predestinazione:
se il male è corruzione della vita felice, senz’altra causa che il nulla, esso non può essere co-
nosciuto se non in quanto ente sconosciuto; quindi Dio non prevede e dunque non prede-
stina nessun male, perché il niente, non potendo appunto esser conosciuto, non può esser
predestinato; e infine, essendo Dio fuori del tempo, non ha senso parlare di eventi futuri da
Lui pre-conosciuti e predestinati (queste tesi furono sostenute nel De praedestinatione liber di
Giovanni Scoto Eriugena: cfr l’ed. crit. a c. di E. S. N. Mainoldi, Firenze, Ed. del Galluzzo,
2003).
COMMENTO AL TESTO 635
to cioè “ad volendum et operandum” (Quaest. Eth. II I, p. 27), e che pertanto di-
venta soggetto etico. Perciò, all’obiezione topica che all’onniscienza di Dio non
sfugge nulla, e dunque, qualunque sia la nostra scelta, Egli la conosce già in anti-
cipo, per cui: a) non siamo davvero liberi; b) Dio è sommamente ingiusto, sa-
pendo e perciò predestinando chi alla salvezza e chi alla perdizione eterna; a ta-
le obiezione, dunque, C. risponde così: A) Dio non ci costringe servilmente, “sed
paternaliter, idest ad imaginem patris; nam homo blasphemat Deum et aliquan-
do odit” (Quaest. Eth. II I, p. 24; v. n. 158.9-34); B) il libero arbitrio si configura co-
me autonoma elezione del bene, e spesso la scelta del male deriva da un’errata o
precipitosa valutazione del vero bene (“perché con meno fatiga l’acquista et più
presto” [Epilogo, p. 513]). Perciò fare il male non deriva dal libero arbitrio, che è
un Suo dono, ma, come sappiamo, deriva dal Nulla, che non appartiene a Dio:
“unde radix peccati remota est Nihilum ex quo nati sumus” (Quaest. Eth. II I, p.
29-30). “Dunque agli atti fisici Dio muove l’anima e tutte le cose fisicamente; agli
atti volontari Dio muove metafisicamente e liberamente così che l’operazione di
Dio nell’anima e coll’anima aumenta piuttosto che togliere la libertà. Dunque la
volontà può anche contraddire a Dio, ma questa possibilità è un difetto ed ema-
na dall’impotenza che Dio non sopprime. Perciò S. Anselmo insegna giustamen-
te che la potenza di peccare non è parte del libero arbitrio e non viene data da
Dio (ché sarebbe qualcosa che egli non ha, ed è a lui opposta), ma deriva dalla
partecipazione del nulla” (Theol. I [II, p. 211]). Negare la libertà è un sofisma pu-
ramente verbale analogo al paradosso di Zenone, che negava il moto, “et Alvis
ait: ‘Tu dici motum non dari labia movendo’. Sic nemo potest neque libertatem
negare nisi libertate” (Quaest. Eth. II I, p. 26; idem Theol. I [II, p. 205]). E per
giunta negare il libero arbitrio ha conseguenze nefaste per la società: “fa li prìn-
cipi tiranni e traditori, imitatori d’un tal Dio, e di più fa li popoli sediziosi, per-
ché, sapendo essi, che Dio li fa far male, dicono che non ponno osservare la leg-
ge, ma che peccano per fato e fanno ogni poltroneria escusandosi con Dio: e se
non in pubblico, per paura, in segreto almeno: o negano Dio” (Disc. Princ., p.
140).618
618
Così anche Cons. aph., p. 139; su libero arbitrio e predestinazione cfr anche Theol. XVIII (I,
p. 101sg); Theol. I (II, p. 11-21); e R. Amerio, Introduzione alla teologia di T.C., Torino, 1948, p.
13.
636 LA CITTÀ DEL SOLE
619
Cioè la stessa casistica di 66.10-3, che è rinvenibile altresì in Poët. VIII IX, 6; Theol. XI, p.
COMMENTO AL TESTO 637
Se per Agostino le guerre giuste sono semplicemente quelle “non empie né ini-
que” (CD 4, 15), in effetti la loro ‘giustizia’ (14, 10) era soggetta a una detta-
gliata casistica, come si evince dalla Summa de casibus: “Nota quod quinque exi-
guntur ad hoc ut bellum sit iustum, scilicet persona, res, causa, animus et auc-
toritas” (in: SD VII XXVIII).
173; Disc. univ. aggiunge: “contra li fautori d’eretici e d’infideli” (XII, p. 1144); e Mon. Mes-
siae: “quando iniuria afficiuntur ipsi, magis autem si populus, possunt bellum inferre” (XVII,
p. 81).
620
Ad es. Astrol. VII I, 1, 3; 2, 1 e 6; Mon. Messiae XIII, cit. in n. 140.2; Disc. Cometa, p. 66 cit. in
n. 142.25-144.11; Titoli: “Ci sono anche in cielo i segni di venti e pioggie, e delle qualità cor-
porali dell’uomo nascente, come prova san Tommaso nel 3 Contra Gent. e Tolomeo nel 3
Quatripar., et altri, e tutti questi son segni naturali” (p. 290).
621
Sul tema ritorna svariate volte: I, pp. 285, 299-305, 323, 337 e III XIX è intitolato ‘Perché i
marinai, i medici, i contadini, predicano il vero più spesso degli astrologi’.
638 LA CITTÀ DEL SOLE
622
“Accipere conjecturam ab avibus, vel avium motibus, vel aliorum animalium, non est pec-
catum” (in Isaiam 2, 2, 86 – questo testo, forse ignorato da C., perché appartiene all’ediz.
Leonina, ha però il vantaggio di esprimere concisamente quello che Tommaso trattava diste-
samente nel De sortibus, 5).
623
Sempre, e solo, i primi tre nominativi, “et alii”, ‘tentati dagli astri’, in Quaest. phys. XXIX
IX, p. 240.
COMMENTO AL TESTO 639
624
Subito prima aveva parlato del “re di Suecia” (v. n. sg); l’episodio è tradotto da Art. proph.
XVII, p. 270 e Disp. in Bullas, p. 268; un cenno in Mon. Sp. I, p. 6.
625
Insieme ad Agatocle è nominato anche in Poetica, XVII, p. 373, e prima ancora nel perdu-
to Del governo ecclesiastico.
640 LA CITTÀ DEL SOLE
SH III LXII, che pure riporta l’aneddoto senechiano, Archelao “et vestem lugu-
brem induerit, putans mundum defecisse”).
626
Cfr anche Disp. in Bullas, p. 268; ‘Ecloga’, 169, 120-3: “E quella città meravigliosa, che
prende il nome dal Sole e che invano ambisce edificare il re di Svezia…”, così annotata da C.:
“Il re di Svezia, ingannato dalle lucubrazioni astrologiche di Ticone, si credette chiamato ad
erigere la Città del Sole, da me descritta in un mirabile libretto”.
627
Il plurale “pontifices nostros” può esser segnale di genericità/maestà [= il papato], oppu-
re di molteplicità di Papi coinvolti, alcuni dei quali certamente recenti (da Sisto V a Urbano
VIII).
628
Si tratta di un rifacimento ‘post eventum’ dell’ignoto originale del 1480, intitolato Prono-
stico divino fatto dello anno 1480 al sereniss. Re d’Ungheria delle cose che succederanno fra i Turchi et i
Cristiani, et della Revolutione delli Stati d’Italia, indirizzato appunto al re Mattia Corvino e ripe-
tutamente tradotto e ristampato nel Cinquecento.
COMMENTO AL TESTO 641
629
Bologna, Nani, circa 1493; Firpo 1954 dice del Pronostico che “se ne possiede una stampa
s.l. con la data del 1480, ma impressa invece ‘post eventum’ nel 1536”; cfr anche Vasoli 1977,
p. 21-5 per la bibl. sul profetismo millenaristico tardoquattrocentesco.
630
“Saranno i segni del Sole e della Luna, quando si creerà l’uomo forte sopra tutti i Princi-
pi” (XXIX); “Et si rinoverà il volto della Chiesa, in questo tempo sarà conculcato l’Antichristo.
Et sarà nell’universo la fede, e la pace dell’Altissimo” (XXX).
642 LA CITTÀ DEL SOLE
631
Morto Clemente VIII il 3.4.1605, il pontificato di Leone XI durerà 17 giorni; e nel settem-
bre del 1606 C. scrive al nuovo Papa, Paolo V: “Seppi ancora ch’al clero soprastà gran pro-
cella di sangue e sarà ruina nel papato, e poi surgerà un papa divino ed altri spiriti buoni e
ch’averan lo spirito santo manifesto come gli apostoli, e convocheranno il mondo tutto ad
una legge, e li turchi e settentrionali correranno alla fede vera; ed assai altre cose di ciò e del-
l’Anticristo”; tali ferali pronostici, oltre che da congiunzioni astrali, gli provenivano da prati-
che rivelatesi diaboliche, come avrà il candore di confessare allo stesso Papa: “or son tre an-
ni, avendo interrogato il demonio che si facea angelo e dio, e compariva ad una persona da
me instrutta a pigliar l’influsso divino [= Felice Gagliardo: v. n. 112.20-30]… di Roma disse
ch’al 1607 il pontefice perderà gran parte d’autorità, e che alli 1625 sarà scisma di due pon-
tifici, e si struggeranno l’un l’altro ed abbasseranno il papato assai. Poi sarà fatto un papa da
gente meschina e povera e poca, fuor di Roma, fiacco e di valor languido, e questo poi in bre-
ve sarà spento: e qui finirà tutta la pontifical dignità e ‘l senato di cardinal sarà annichilato”
(Lettere, p. 39).
632
E indirettamente contro di lui? Può darsi che l’amicizia e i favori del Papa per C. avessero
suscitato invidie e gelosie, sufficienti a renderlo un personaggio scomodo alla Curia; a pre-
scindere dal suo passato, forse C. sapeva troppo, e non si tratta solo di erudizione come par-
rebbe dalla lettera-denuncia del 1635 (v. infra); o forse scalpitava troppo: la prodigiosa asce-
sa da eretico conclamato alla soglia della porpora cardinalizia, per aver abbindolato Urbano
VIII con un Comment. sfrontatamente adulatorio e con pratiche magiche, aveva allertato i
due Niccolò, Ridolfi e Riccardi, che, in quanto ‘Domini canes’, “credettero opportuno met-
tere il Vicario di Cristo in guardia contro le trovate estrose di fra’ Tommaso” (Spini, p. 55).
Per gli anni romani di C., cfr: Amerio, Di un punto meno noto del periodo romano del C., in ‘Rivi-
sta di filosofia neoscolastica’, XXIV [1932]; M. Miele, Un opuscolo inedito ritenuto perduto di T.C.
Il De praecedentia religiosorum, in ‘Archivum Fratrum Praedicatorum’, 52, 1982 (p. 267-
323), per i suoi rapporti, che non furono sempre burrascosi, con il generale dell’ordine; For-
michetti, p. 17-8, e Formichetti 1993, p. 114-7 (ripresi e rifusi in Formichetti 1999, p. 218sg)
s’interroga se l’“insidiosus frater” cui allude Syntagma I IV sia il Ridolfi o il Riccardi – è que-
st’ultimo, secondo Ernst 2003, p. 32 –, ma dando per certa la mente organizzatrice: il “cardi-
nale nipote” Francesco Barberini.
COMMENTO AL TESTO 643
633
E ancora: Ernst 1996c, p. 138; Ernst 1997, p. 477; Ernst 1997a, p. 64-5; Ernst 1997b, p. 303-
11.
644 LA CITTÀ DEL SOLE
634
Ernst 2002, p. 214; cfr anche G. Ernst, Scienza, astrologia e politica nella Roma barocca. La bi-
blioteca di don Orazio Morandi, in: Bibliothecae selectae. Da Cusano a Leopardi, a c. di E. Canone, Fi-
renze, 1993 [p. 217-52]; B. Dooley, Morandi’s Last Prophecy and the End of Renaissance Politics,
Princeton U.P., 2002.
635
Ad es. in Mon. Fr.: “li Spagnoli dissero ch’il Papa si salvò da quelli influssi per aver usato
quel rimedio ch’il C. pose nel libro De fato siderali vitando… E si serveno di tossico e d’astro-
logia e d’incantesimi ancora, per far morire il Papa presente… come in Roma s’è scoperto, e
persequitaro con nova persecuzione il C.” (pp. 476 e 542); nell’epistolario vi sono altri ac-
cenni a “quel ch’han macchinato con gli astrologi contra la vita di Nostro Signore” (Lettere,
pp. 259, 267, entrambe, ingenuamente, al cardinale Francesco Barberini), e in Sensu (p.
217), la cui fugacità, par di capire, dipenderebbe sia dalla notorietà del fatto che dalla caute-
la: “Quae, mala ex prognosi, Romae accidère nemo ignorat”. Nessuno ignora, dunque, che
cosa è successo a Roma, per colpa di un cattivo pronostico. Ed è la gravità del sospetto (o del-
la calunnia) che induce alla cautela.
COMMENTO AL TESTO 645
636
Secondo Walker la predizione astrologica fu una montatura ordita per colpire la sua poli-
tica filofrancese (p. 240-6 – e così Yates 1981, p. 405); Ernst 1991 (p. 255-79) ricostruisce ‘Dal-
la Bolla «Coeli et terrae» alla «Inscrutabilis»’, e di converso Spini sostiene che la persecuzio-
ne per “colpa delle mene degli invidiosi” è una versione di parte “sicuramente non disinte-
ressata” e che “non regge gran che ad un esame critico” (p. 52-5), come quello di A. Eszer,
Niccolò Riccardi, ‘padre Mostro’ (1585-1639), ‘Angelicum’, LX, 1983 (p. 428-61), secondo il qua-
le C. sarebbe stato manipolato da due confratelli di Riccardi; su Ridolfi, infine, cfr M. Miele,
Un opuscolo… su cit.
637
“Che l’aceto, le acque distillate odorose e i profumi aromatici e i fuochi purifichino la ma-
646 LA CITTÀ DEL SOLE
faelicibus [sic]” (Apol. ad lib., p. 315: “con drappi tersi e candidi, per contrasta-
re l’oscurità dell’eclisse”); accendere due candele e cinque fiaccole, che funga-
no da sostituto dei Luminari e dei pianeti, così come la lucerna di notte sosti-
tuisce il Sole (v. n. 8.38-40, n. 148.21-3): tali fiammelle, in cui brucino essenze
aromatiche, vanno sospese in alto, disegnando invece a terra approssimativa-
mente il cerchio zodiacale; circondarsi di amici, che, grazie al loro oroscopo,
non siano colpiti da quell’eclisse, e con essi conversare lietamente di cose con-
trarie a quelle minacciate dall’evento astrale; farsi accompagnare da una “mu-
sicam iovialem et veneream”, sempre per fugare gl’influssi malefici; e infine
circondarsi di pietre, piante, colori, odori e sorseggiare liquori, le cui corri-
spondenze astrali siano contrarie all’eclisse. Queste procedure vanno eseguite
tre ore prima e tre ore dopo il sinodo planetario, “quando i luminari e pianeti
angolari patiscono… affinché quanto è negativo nell’aria esterna risulti positi-
vo entro la stanza grazie ai loro sostituti” (Apol. ad lib., p. 331).
Il significato e lo scopo di queste pratiche magiche, desunte dal De vita coelitus
comparanda ficiniano (Astrol. VII, p. 13 rinvia anche a Metaph. e Medicina per
quanto riguarda appunto ‘il modo di regolare la vita secondo gli influssi cele-
sti’), era di sostituire “il mondo celeste esterno che, per l’eclissi, si deteriora; i
cieli reali si sono guastati e dunque costruiamo noi stessi un altro piccolo, nor-
male, indisturbato cielo propizio”, operazione possibile, perché basata non più
sulla cosmologia aristotelica che prevedeva un cielo quintessenziale, bensì su
quella telesiana, in cui la sostanza dei cieli era costituita da fuoco o, addirittu-
ra, dopo le ultime osservazioni astronomiche, dai quattro elementi. E inoltre
quelle pratiche possono essere considerate “come un atto di culto, o almeno di
riverenza, indirizzato alle stelle viventi, identificate con gli Angeli”; in pratica,
“i riti magici di C. intendevano operare in due modi nello stesso tempo: in
quanto modello in miniatura dei cieli e in quanto cerimonia religiosa indiriz-
zata agli angeli dei pianeti e, anzitutto, al Sole-Angelo… Lo scopo principale
della sua magia era pertanto preventivo; nella stanza sigillata le torce e le can-
dele rappresentavano un normale, indisturbato mondo celeste, che doveva bi-
lanciare gli effetti della realtà esterna” (Walker, pp. 240-1, 255-9, 266). Se di
‘magia’ si deve parlare, comunque la ‘magia’ qui in causa è, secondo C., quella
“vera”; “la filosofia occulta” che “i Persiani chiamano magia” è di due tipi: “una
vera a cui ricorrono filosofi, re e principi, applicando le cose attive a quelle pas-
sive e le cose celesti a quelle terrestri; un’altra falsa, che ricorre ai demoni con
patto espresso o tacito”, qui assente (Apol. ad lib., p. 317).638
“È pressoché certo” che Urbano VIII, in occasione delle nefaste eclissi del 1626
e del 1628 quando alcuni astrologi cominciarono persistentemente a far circo-
lignità dell’aria, e dissolvano o tengano lontani i semi della pestilenza e degli influssi nocivi,
lo provano tutti i medici: soprattutto Marsilio Ficino… nel libretto Sulla peste [Consilio contro
la pestilenza], dove allega tutti i medici che concordano su questi punti” (Apol. ad lib., p. 317).
638
Per la ‘magia naturale’ v. n. 10.35-6, n. 28.24-30.5, n. 148.21-3; per la superstizione diabo-
lica v. n. 146.24-6.
COMMENTO AL TESTO 647
lare predizioni di una sua prossima morte (il papato è sotto l’egida del Sole),
avesse chiamato C. per attuare questi riti propiziatori;639 e dai rapporti diplo-
matici di quegli anni risulta che spesso il Papa e C. si chiudevano ermetica-
mente in una stanza, celebrando “riti notturni con candele accese” (Walker, p.
240). Perciò, una volta apparso l’inopinato De siderali fato vitando, “tutti poteva-
no leggervi quanto si vociferava già da tempo fosse accaduto nelle stanze del
Quirinale”, svelando le pratiche astrologiche di un Papa acerrimo persecutore
dell’astrologia.640 Tutta la questione (intrighi di curia, pratiche magico-astrolo-
giche, ecc.) è ancora piena di molte ombre, tanto che non è chiara nemmeno
la vicenda editoriale di Astrol.: secondo Grillo (Questioni campanelliane, Cosen-
za, 1961), la stampa del VII libro di Astrol. fu fatta a Roma da Brugiotti; Formi-
chetti 1999 ritiene che l’intera Astrol. fu stampata a Roma: “Per colpire C., Ri-
dolfi e Riccardi fanno in modo che il De siderali sia stampato ed anzi costituisca
l’ultimo libro di quell’opera astrologica che C. aveva inviato a Lione per la
stampa. Danno quindi incarico ad Andrea Brugiotti, stampatore della Reve-
renda Camera Apostolica, di mettere sotto i torchi tutta l’opera compreso il
trattatello che aveva suggellato l’amicizia tra C. e Urbano VIII. Così viene fatto:
nel frontespizio figura, però, lo stemma dello stampatore lionese [Prost] per
evitare sospetti, e il libro, fresco di stampa, è dato al papa” (p. 221). Tale ipote-
si a Ernst 2003 “non sembra sostenibile, e sarebbe suffragata da un solo passo
campanelliano, che allude a una stampa a Roma di notte: ma tali cenni sem-
brano volti, più che a sostenere una stampa nell’urbe, a denunciare le respon-
sabilità tutte romane dell’edizione dell’opuscolo, ad opera dei due domenica-
ni con la complicità dell’infido editore Brugiotti, che ebbero cura di far perve-
nire il testo a Lione, per farlo annettere ai libri astrologici una volta venuti a sa-
pere che erano in corso di stampa” (p. 33-4; sul testo degli Astrol. cfr anche
Guerrini).
Comunque sia, con quell’abile mossa ‘editoriale’ i due Niccolò (a capo del par-
tito filospagnolo della Curia) volevano forse sbarazzarsi di due presenze varia-
mente ingombranti: a) far cadere in disgrazia C. agli occhi del pontefice; b) ed
essenzialmente, falliti i tentativi di spaventarlo ‘a morte’ con le predizioni
astrologiche sventate da C., indebolire Urbano VIII, che non aveva mai celato
la sua avversione alla Spagna, minandone l’autorità e la credibilità col divulga-
re i suoi riti magici.
Ma C. subì anche in prima persona eventi, causati, secondo lui, dall’influsso
delle eclissi: nessun dubbio che comete, grandi congiunzioni ed eclissi che
639
Firpo 1940, p. 98; Yates 1981, p. 405; Ernst 1991, p. 272-3; Formichetti 1999, p. 218-20.
640
“Molto versato nell’astrologia la proibì agli altri”, annotava in quegli anni G. Gigli, Diario
romano (1608-70), Roma, 1958, p. 253, cit. da Ernst 1991, p. 218n; cfr anche Formichetti (p.
12-4), Formichetti 1993 (p. 115) e Formichetti 1999 (p. 223-30); grazie a quelle pratiche
magiche, “liberato dalla paura di morire, Urbano VIII… si convinse che C. non era eretico
affatto. Il processo si chiuse pertanto nel 1629 con un proscioglimento completo” (Spini, p.
54-5).
648 LA CITTÀ DEL SOLE
641
Flamigni, p. 249-50 descrive le pratiche magico-astrologiche per evitarla, ma invano; Yates
1981, p. 405 dice che furono le stesse che aveva adoperato per il papa; cfr O. Pompeo Fara-
covi, Sull’oroscopo di C., ‘B&C’ III/2 (1997, p. 245-63).
COMMENTO AL TESTO 649
642
In quest’ultimo periodo prende le distanze da Pitagora, con cui invece ha sempre solida-
rizzato: Mon. Sp., p. 16: “i filosofi più saggi cercaro Dio nella natura, come Pitagora nelli nu-
meri, che sono ragione di Dio seminata nel mondo”; Antiven, p. 126: “li Pitagorici nella forza
de’ numeri, misure di Dio”, si basano per i loro pronostici (comunque v. n. sg).
650 LA CITTÀ DEL SOLE
XXVIII, p. 134: il numero nella teologia, desunta dagli Orfici: “Orphea… dixisse
numeri substantiam aeternum prorsus esse principium totius coeli terraeque”,
e ‘radice degli dei’; ‘divinità del numero dispari’: nel costruire i templi, Pitago-
ra stabilì che si doveva entrare da destra e uscire da sinistra: “ac dextrum qui-
dem locum, initium eius, quod in numeris impar dicitur, et divinum” (p. 142);
e nella divinazione: “Faciebat autem per eosdem numeros etiam admirabilem
praenotionem, et cultum divinum, iuxta numeros quam maxime cognatum”
(p. 135-6). A Pitagora attinsero sia Platone che Aristotele; rifiorì in età romana
– nei Theologumena arithmetica confluirono sincreticamente stoicismo e pitago-
rismo –, Filone e Clemente Romano la cominciano a usare nell’esegesi biblica
prima di Origene ed Eusebio (519D: nelle 7 vocali ebraiche è occultato il te-
tragramma divino), e fu poi Agostino a consegnarla al Medioevo cristiano, con-
vivendo con le parallele speculazioni cabalistiche. Tale pratica sarà ripresa, in
Occidente, a partire almeno dal Medioevo: “Wickersheimer ha fatto notare la
presenza, in mss altomedievali, di sfere associate ai nomi di Petosiride e Pitago-
ra: si tratta appunto di oracoli che si voleva predicessero il corso di una malat-
tia per mezzo delle lettere dell’alfabeto (al giorno del mese in cui la malattia
era iniziata veniva aggiunto un secondo numero dedotto dalle lettere che com-
ponevano il nome del paziente)” (Saxl, p. 49-50): e su tutti questi aspetti Celio
riporta fedelmente la testimonianza degli antichi (s. vocibus: ‘pythag-’); e G. Po-
stel, anche lui alla ricerca dei segni celesti e terrestri che preannunciassero la
prossima palingenesi, a metà Cinquecento compose a Venezia il De admirandis
numerorum platonicorum secretis,643 fondendo la tradizione platonica del Timeo e
della Repubblica con la cabbala ebraica.
643
Des admirables secrets des nombres platoniciens, par. J.P. Brach, Paris, Vrin, 2001.
COMMENTO AL TESTO 651
644
V. n. 146.7-20, n. 148.21-3, n. 149.4 [f.p.], n. 148.30-1 e n. 150.3; cfr Ernst 1991, pp. 21 e
273; Ernst 1997b.
645
Donde l’importanza del numero sette: “Il momento di maggior pericolo nelle malattie si
ritiene si verifichi nei giorni multipli di sette, e soprattutto quei giorni più pericolosi degli al-
tri che i medici chiamano ‘krisìmoi’ cadono alla fine della prima, seconda e terza settimana”
dice Gellio, III, 10 sulla scorta di Varrone proprio a proposito “della potenza e influenza di
quel numero”. In Astrol. (p. 218) C. però scrive che i giorni critici vanno calcolati non in ba-
se ai numeri, ma agli aspetti (v. n. 42.31).
652 LA CITTÀ DEL SOLE
sua autorità non induca ad accogliere una superstizione… Del resto questo
processo di sette in sette noi lo osserviamo anche altrove nelle opere naturali,
dove non v’è sospetto alcuno di influssi lunari o solari, come anche nei periodi
delle malattie, quando – come scrive Avicenna – mentre le acute sogliono ter-
minare il settimo giorno, le croniche invece nel settimo mese… Io non appro-
vo quelli che danno a questi numeri un significato superstizioso, ma dico che il
corso della natura si compie in genere così, non a causa delle costellazioni con-
nesse a tali tempi, che non si trovano, ma per proprietà e condizioni nascoste
di quelle cose nelle quali ciò in genere si verifica” (III XVI [I, p. 323-49]).
148.15: Augustinus,
“A causa della perfezione del numero sei si narra nella Scrittura che queste
opere sono state condotte a perfezione in sei giorni che sono il medesimo gior-
no ripetuto sei volte… Mediante il sei è stata indicata la perfezione del creato.
Il numero sei è infatti il primo ad essere compiuto dalle proprie parti, cioè la
sesta, la terza parte e la metà, che sono l’uno, il due e il tre e che addizionati
danno il sei… E in esso [sei] Dio ha compiuto le sue opere… Della perfezione
646
Evocato in Comment., p. 764 e Theol. XII II ‘Numero dei doni e loro connessione e dignità
in confronto con le virtù…’: dei sette doni, quattro appartengono alla ragione, cioè sapien-
za, scienza, intelletto e consiglio, e tre alle potenze appetitive, cioè fortezza, pietà e timore.
654 LA CITTÀ DEL SOLE
del numero sette si possono dire molte cose… È sufficiente ricordare che il pri-
mo numero totalmente impari è il tre e che il primo totalmente pari è il quat-
tro e che dai due per somma risulta il sette. E per questo spesso si usa nel sen-
so di un tutto. Ad es. si ha: ‘Il giusto cadrà sette volte e si rialzerà’, cioè ogni vol-
ta che cadrà, non si perderà… Per questo motivo col medesimo numero si in-
dica talora lo Spirito Santo, di cui il Signore ha detto: ‘Vi insegnerà ogni ve-
rità’… Lì è il riposo di Dio [‘il settimo giorno si riposò’]… nel tutto, ossia nel-
la totale completezza, sta il riposo, mentre nelle parti vi è fatica” (CD 11, 30-1
[tr. Gentili]; per questi e altri ‘loci’ agostiniani cfr Carena, p. 1303).
148.16: Hilarius
Tractatus super Psalmos CXVIII XXI, 5 (PL IX, 637): “‘Septenarius numerus’. Ac
non ambiguum est, cur laudis hic numerus sit. Haec enim eadem, vel in die,
vel in puero, vel in terra, vel in anno atque annis, sub sanctificatione hujus nu-
meri continentur: cum usque ad illam quinquagesimae aeternam requiem,
quod est sabbata sabbatorum, septenus numerus expleatur… Multa autem de
numeri huius sanctificatione sunt cognita: ut ipsa dierum constitutio, ut ange-
lorum throno Dei adstantium electio, ut spiritualium potestatum et requie-
scientium gratiarum in Domino plenitudo. Certe judicia justiciae Dei hoc in
numero laudari a Propheta convenit, per quem et in quo earundem justifica-
tionum virtus et constitutio continetur”.
148.16a: Origenes
“Che nei numeri siano insiti virtù e misteri lo insegnano spesso anche i teologi,
come Origene, che ovunque, e in partic. nell’omelia 2 sulla Genesi, nell’omelia
16 sul Levitico, nella prima omelia e nelle seguenti sui Numeri, si sofferma sul-
l’utilità e i misteri dei numeri” (Aphor., p. 321). In effetti nei luoghi cit. da Apol.
ad lib., Origene parla della virtù di altri numeri presenti nella Bibbia (quali le
dimensioni dell’Arca, ecc.). Del sette e del sei insieme, invece, ne parla In li-
brum Iesu Nave, Hom. X (221B): “Septenarius numerus legem significat man-
datorum. Senarius vero numerus, mundi huius tenet figuram”; chi è sapiente
delle cose di questo mondo, non può non incorrere nel peccato: “cum vero ad
septenarium numerum, id est ad legis scientiam, veneris, tunc require liberta-
tem tuam, et redi ad nobilitatem paternam”, ossia divina; in Comment. in Matth.
XIV (PG XIII, 1194): “Senarius ergo numerus operosus videtur esse et laborio-
sus; septenarius autem cessationem et requiem continere”; e ancora In Exodum,
Hom. XI (PG XII, 365), solo relativamente al “septenarius namque numerus le-
gem significare solet, pro multis septenarii numeri sacramentis”.
148.18: septenario
Città di 7 miglia di diametro (4.3), con 7 gironi (4.5), intervallati da circa 70
passi (4.24), e al vertice un Tempio con 7 lampade (8.38): il secondo numero
più diffuso in CS (v. n. 4.7-9) è già carico di valenze astrali (7 pianeti); a cui si
aggiungono quelle aritmologiche: il 1600 è anno cruciale, perché composto da
700+900 (v. n. 130.22-3, n. 148.9-15 e n. 160.1-2 § 2.2.2 punto b).
Per C. il sette, che, ortodossamente, simbolizza l’universalità (Mon. Messiae XII,
COMMENTO AL TESTO 655
647
Anche Camillo pensa al sette, ma il passo virgiliano è un altro: “questo settenario è nume-
ro perfetto, percioché contiene l’uno e l’altro sesso, per esser fatto di pari e di dispari, onde
volendo dir Virgilio ‘perfettamente beati’, disse ‘Terque quaterque’” (p. 51).
648
Quod rem. 3 riporta un passo del Talmud: “‘nihil’ aiunt ‘debet numero pari comedi [= man-
giare], sed impari: hoc enim numero maxime delectatur Deus’. Hanc sententiam philo-
sophicam Pythagoreorum ipsi [= Farisei] superstitiose intelligunt. Profecto si virtus tanta est
in numero et non in numerato, tunc utilius erit comedere tres scorpiones quam duos tur-
dos”; se Dio allora si compiace del numero dispari, è perché “in Dio fonte delle cose vi è un
numero dispari produttore delle cose”, che è appunto il tre, in quanto C. vede nelle prima-
lità il riflesso [= “emanatio”] di Dio uno e trino (pp. 106 e 125).
COMMENTO AL TESTO 657
ogni cosa secondo il sacro settenario. Tanto più che Filone nel primo libro Sul-
l’opificio del mondo, e Gemma Frisio nel primo Sull’arte ciclognomica, e Fabio Pao-
lini nel settimo delle Settimane [Hebdomades] affermano che nel settenario viene
rappresentato Dio stesso: pertanto questo numero sarebbe un segno non per i
demoni, ma contro i demoni” (Apol. ad lib., p. 327). Sull’imitatività scimmiesca
del diavolo, anche Mon. Messiae: “Diabolus… ut sibi divinum cultum arripe-
ret… qualis debetur Deo… quoniam ipse aemulator honores Dei, sicut simia il-
lius” (XV, p. 74).
649
Cfr E. Canone, L’editto di proibizione delle opere di Bruno e C., ‘B&C’, I (1995, p. 43-61); J. M.
De Bujanda e E. Canone, L’editto di proibizione delle opere di Bruno e C. Un’analisi bibliografica,
‘B&C’, VIII/2 (2002, p. 451-79).
650
Con questa subdola macchinazione volevano impedirgli di esser nominato qualificatore
del S. Uffizio; C., preso in contropiede, nell’ottobre 1629 scrive Apol. ad lib. (v. n. 148.4) “e lo
sottopone ai censori ecclesiastici G. B. Marini e Francesco Tontoli, che lo approvano” (Firpo
1954, p. XCIII; Firpo 1947, p. 155-69; Ernst 1991, pp. 21 e 273; Ernst 1997b, p. 306; cfr Syn-
tagma II IV; e v. n. 146.7-20).
658 LA CITTÀ DEL SOLE
nostri” (Villani C., Scrittori e artisti pugliesi, antichi, moderni e contemporanei, 1904,
in DBIt). Esaminò e approvò anche Comment. nel 1629 (Amerio, p. 1005; Bol-
zoni 1977, p. 61; Spini, p. 54), custodendone copia del secondo volume, di cui
C. chiese ripetutamente e vanamente a Urbano VIII di rientrare in possesso
(Lettere, pp. 270 e 377).
651
In Apol. ad lib. sostiene però che, malgrado autorevoli avalli, “l’autore del libro astrologico
[= Astrol.] ha scritto di non aver il coraggio di approvarli [= gli amuleti]” (p. 331).
COMMENTO AL TESTO 659
Opusc. (il XXVIII, in: Pia., XVII, f.203; invece è di Alberto Magno), si sostiene
la legittimità dei talismani. Anche Ernst 2002 commenta questo passo dell’A-
pol. ad lib., ma con alcuni dettagli divergenti: “Oltre a un significato simbolico
e mistico, le sette torce che rappresentano i pianeti e i luminari acquisiscono
dagli astri anche una ‘vis physica’, e per sostenere questo punto C. non esita ad
affrontare la delicata questione delle immagini astrologiche. Riprendendo le
autorità cui già aveva fatto appello Ficino nelle pagine più discusse e proble-
matiche del De vita coelitus comparanda, lo Speculum astronomiae attribuito ad Al-
berto Magno e testi più sfumati e cauti di S. Tommaso, egli aggiunge un’abilis-
sima pagina del commento del Gaetano alla Summa tomista, in cui questi rie-
sce, con abilità ermeneutica molto sottile, a mostrare come talune affermazio-
ni dell’Aquinate apparentemente in contrasto risultino in verità conciliabili
(ed. Leonina, IX, p. 331-3), per concludere che le immagini astronomiche,
purché prive di caratteri (i soli elementi palesemente superstiziosi), non risul-
tano condannabili” (p. 213-4).
652
Firpo infatti annotava al “Monopotapa” di Città (T.150.12): “rectius Monomotapa”;
Crahay: “Monomotapa, che C. scrive per errore Monopotapa, è il nome, deformato dai Por-
toghesi, di un sovrano bantù” (p. 229), che ha dato il nome ai suoi stati; questo regno ereditò
nel XVI sec. la fama del Prete Gianni, per le miniere d’oro, e perché ritenuto essere l’antico
paese di Ofir da cui re Salomone faceva venire ogni ben di Dio (cfr Broc, p. 94-5).
660 LA CITTÀ DEL SOLE
mune su quello del singolo; per il resto sono “virago”, “masculeas” utilizzate co-
me mercenarie dal re del Monopotapa; sono uno dei popoli più incivili della
Terra, insieme ai Tartari, ed erano “Asiaticae olim, et nunc Africanae” (Astrol.,
p. 62-3). In realtà la loro collocazione geografica era molto dubbia: se per Stra-
bone II XI (14-5) sono caucasie, per Beroso, 21r sono ‘libiche’; Diodoro653 par-
la di un remoto insediamento di Amazzoni “in un paese verso Ponente ne gl’e-
stremi termini del mondo”, sconfitte da Ercole, “quando dirizzò la colonna
nella Libia”, e lì finirono. Poi parla però (III IV [I, p. 160-3]) di un altro rag-
gruppamento nel Ponto della Scizia, “vicino al fiume Thermodoonte”, che ave-
va esteso il suo dominio fino al fiume Tanai (= Don), anch’esse sbaragliate da
Ercole (per il mito greco delle Amazzoni cfr Graves, pp. 100sg, 131sg, 164sg).
Per il Medio Evo, alto (Giustino, Jacques de Vitry, il De natura rerum [in: SN
XXXI CXXIV e SH I XCVI]) e basso (Lettera del Prete Gianni, p. 77; Mandeville,
CXXI e CXXVI), le Amazzoni sono asiatiche, seppure in non univoca colloca-
zione: “alii, in Sauromatica Scithia habitarent… sive de longe antiquioribus in
Libya, inter quas fuere Gorgones” (Celio, IX XII, p. 327). I viaggiatori moderni
le ricollocano in Africa (Alvarez nell’Etiopia sud-occidentale “andando verso
mezzogiorno è un regno governato da femine che si potriano chiamare Ama-
zoni” [in Ramusio, II, p. 337]); altri nell’India orientale (regno di Cambaia
[Ramusio, II, p. 729]); Ortelius, che nella mappa del regno del Prete Gianni le
colloca in prossimità del lago Zaire, in Ortelius, Synonymia invece dice che “ho-
die adhuc tale genus apud Americanos ad flumen quod Hispani ab illis ‘Rio de
las Amazones’ vocant, degere scribunt qui regiones illas nuper inventas perlu-
strarunt” (s. v. ‘Amazones’).
653
II XI (I, p. 113), da cui C. aveva tratto l’aneddoto della regina delle Amazzoni che ebbe un
figlio da Alessandro Magno (Quod rem. 3, p. 15).
COMMENTO AL TESTO 661
Città (T.150.7) la si ritrova nella Magia di Della Porta: “se di virtù saranno più
gagliarde” (I XIIII: passo cit. in esteso in n. 12.41).
La legge Salica non è propria solo dell’Impero romano-cristiano, ma di Assiri,
Persiani, Ebrei, Egizi, Greci, Latini, “qui feminas ab imperio longe repulerunt.
Nec ita pridem Arragonii Petronillam, Castillii Isabellam, Mantuani Mathil-
dem, Neapolitani Ioannam utranque, Norvegi Margaretam, deinde Navarri et
Lotharingi ad feminas quoque summum imperium detulerunt”, e per ultimo
gli Inglesi, che prima sempre avevano aborrito la ginecocrazia, “nuper Mariam
eiusque sororem regnare permiserunt, in quo sane violantur non modo divi-
nae leges, quae feminas imperio virorum diserte subiecerunt, sed etiam ipsius
naturae, quae masculis imperandi, iudicandi, concionandi, belligerandi pote-
statem dedit, feminis ademit” (Bodin, p. 257; cfr anche Les six livres de la Répu-
blique, Paris, 1583, VI, p. 1002). Condivide l’avversione alla ginecocrazia, per in-
compatibilità naturale fra femminilità e politica (a prescindere da qualsiasi va-
lutazione morale e ideologica), anche G. Postel, La Loy Salique, livret de la pre-
mière humaine verité, Paris, 1552; e: Les très-merveilleuses victoires des femmes du nou-
veau-monde, Paris, Ruelle, 1553 (cfr Conti Odorisio 1990, p. 740-3).
654
“Ariostus vero utrumque [=“scientiam” e “imitationem”] complexus est, ut etiam Tassus,
licet minori longe genio ad imitationem, sed maiori ornatu ac eloquentia, quam supra caete-
ros adiunxit” (Syntagma IV II); e pure nella “fabula” Ariosto prevale (Poët. VIII IX, p. 1103).
662 LA CITTÀ DEL SOLE
152.13: Vossignoria.
Lo rivolgeva usualmente anche l’Au., ad es. in Mon. Sp.: “come V.S. dice” (p.
142) rivolgendosi a don Alonso Marthos de Gorostiola, giureconsulto spagno-
lo e reggente della Vicaria, cui l’opera è dedicata nel Proemio.
655
Che non ho mai trovato citato da C.; è possibile però, come suppone Ernst 1997a (p. 57n)
che l’abbia letto nella raccolta di F. Sansovino, Del governo dei regni e delle repubbliche così antiche
come moderne, Venezia, 1561.
COMMENTO AL TESTO 663
una ‘Minuta e diligente descrizione della città di Fez’, dedica un paragrafo sul-
le ‘Osterie’, “circa a dugento”, i cui proprietari “vanno vestiti d’abiti feminili e
ornano le lor persone a guisa di femine: si radono la barba e s’ingegnano d’i-
mitarle per insino nella favella. Che dico favella? Filano anco. Ciascuno di que-
sti infami uomini si tiene un concubino, e usa con esso lui non altrimenti che
la moglie usi col marito… e in dette osterie vi praticano di continovo tutti gli
uomini di pessima vita, chi per imbriacarsi, chi per sfogar la sua libidine con le
femine da prezzo, e chi per quell’altre vie illecite e vituperevoli”; e lo stesso ac-
cade a Tunisi (in: Ramusio, I, p. 168-9). Un’altra fonte potrebbe esser stata Ma-
gini, che però parla della Persia, non del Marocco: “I Persiani anco sono con-
tra l’antico lor costume molto dediti alla voluttà e alla lascivia… e se ben pren-
dono più mogli, nondimeno s’innamorano de’ fanciulli, come i Turchi, e a
questi nefandi piaceri hanno i proprii luoghi destinati, ne’ quali serbano essi
fanciulli a satietà della loro libidine” (II, 199v). Ma la pedofilia prezzolata forse
si praticava proprio nella medesima città in cui viveva C.: infatti ancora un se-
colo più tardi, lo stesso Sade inorridisce alle molteplici testimonianze di prosti-
tuzione infantile: “Una madre vi offrirà indifferentemente quello dei suoi figli
– il maschio o la femmina – che più stuzzicherà le vostre inclinazioni” (p. 215).
In tal caso saremmo in presenza di un altro es. di finto parlar d’altri (come nel
caso degli Spagnoli che spuntano dietro i Giapponesi di 54.20).
656
Come traduce Crahay; è invece preferibile una traduz. letterale, visto che ad es. in Lettere
scrive: “tutte le campagne trovai verdeggianti e fiorite sin a Parigi: segno di gran bella tem-
perie” (p. 262).
664 LA CITTÀ DEL SOLE
ti dagli uomini migliori o più felici. I miei Calabresi sarebbero altrimenti supe-
riori a tutte le altre nazioni per dominio e per virtù, dal momento che son su-
periori a tutte per la terra e per il clima, e vincono il resto d’Italia di quanto l’I-
talia vince gli altri paesi del mondo” (Theol. IV [II, p. 191]).
La teoria dei climi è di derivazione bodiniana (Methodus, République), forse me-
diata da Botero (accenni in Maffei, II, p. 203), e comunque sorretta da una ro-
busta tradizione classica: Platone, Leg. 707d, 747d-e (la qualità degli abitanti di-
pende dalla natura del luogo, donde oculatezza nella scelta del sito di fonda-
zione di città); Aristotele, Probl., XIV (‘Influenza del clima sul temperamento’:
i popoli che abitano regioni troppo fredde/calde sono incivili); Hist. anim.
606b; Pol. 1327b; Tolomeo, Tetrab., II libro; Galeno, Quod an. mores… IV VIII, p.
798sg e De temperam. I, p. 509sg; Palladio, II, 32; Beroaldo (‘De inventione litte-
rarum’) si chiede come mai solo pochissime nazioni conoscono le lettere alfa-
betiche, e così risponde: “causa esse creditur aeris videlicet subtilitas atque
temperies. Non enim temere dixit Heraclitus: ‘Aer siccior anima prudentior et
melior’” (per la corografia astrologica v. n. 108.9-10, n. 160.1-2 e cfr almeno Pi-
co, I, p. 289 e VII IV-V con annessa bibliogr. di Garin 1952, p. 548).
657
Di cui sta per parlare (v. n. 153.4 [f.p.]), ma che ha precedentemente trattato (136.10-9: v.
n. 137.1 [f.p.], n. 160.1-2 §§ 2.1 e 2.2.2).
658
La religione islamica, “quae sub trigono Martis coepit et Veneris et Lunae, plena est luxu-
riis et impudicitia et variabilitate” (Astrol., p. 229), secondo la topica associazione di Marte
con la bellicosità, Venere con la lussuria e della Luna con la volubilità.
COMMENTO AL TESTO 665
costituisce il cap. III di Astrol. VII, in cui esorta i re a coltivare la scienza e la tec-
nica, perché è nell’“ingegno dell’uomo” che riposa la soluzione “contro tutti i
mali”. Passando quindi a elencare le scoperte della “nostra età”: per la naviga-
zione, la bussola, “gloria di Flavio di Amalfi”; contro i ‘barbari’ riottosi, l’arti-
glieria; “contro la dimenticanza e l’ignoranza, la stampa. Si è di recente ag-
giunto il telescopio, per ascendere ai regni celesti e conoscere, grazie alla
scienza astrale dei mondi conosciuti, quelli extra-celesti finora ignoti… Ri-
splende una nuova scienza della natura, una nuova astronomia e si conosce or-
mai quella metà del mondo che era sconosciuta. Manca l’arte di volare, che si
conseguirebbe con facilità se si perfezionasse l’abilità dei funamboli”; auspica,
dopo il cannocchiale, come sappiamo (v. n. 139.2 [f.p.]), la scoperta di un “au-
ricolare organum”, perché “non c’è nulla che la ragione umana non possa vin-
cere. Ma le scuole sono occupate da sofisti incapaci di ritrovare cose nuove, e
pronti solo a perseguitare chi ricerca la verità” (trad. Ernst). Dunque, in un te-
sto dedicato all’astrologia, le scoperte tecnico-scientifiche sono ascritte al meri-
to della ragione umana; e così in questo passo di CS lo stesso concetto è soste-
nuto in forma negativa: il progresso scientifico non (solo) alle stelle è debitore,
perché il cielo inclina ma non obbliga.
dente in cui era incappato nel 1631 con Atheismus (cfr Firpo 1940, p. 101-2; Fir-
po 1951, p. 167-8; Firpo 1954, p. XCIV). Agli inizi del 1631, C., dopo mille tra-
versie, ottenne le autorizzazioni ecclesiastiche e riuscì a stamparlo. Ma quando
il libro era pronto per la diffusione, gli fu negato il ‘publicetur’, non certo dal
“sapientissimus Papa”, ma dalla ‘longa manus’ del confratello e rivale Padre
Mostro, con cui c’era una vecchia ruggine.659 Per evitare, dunque, la totale di-
struzione dell’opera, l’Autore fu costretto a emendarla in più punti, il princi-
pale dei quali, come dichiara C. stesso nell’‘Appendix’ ad Atheismus, è “il pro-
nostico astrologico della Chiesa” (p. 252; v. n. 142.25-144.11 e cfr Lettere, p. 234-
367 passim): una stessa configurazione astrale “indicavit Lutherum, Serifum et
Sophium, per religionem falsam seducentes orbem, et simul sanctum Ignatium
cum Iesuitis et Capucinis et Cortesium” (Atheismus [ed. 1631], fol. 146); questa
frase (quasi identica in Astrol., p. 68, e qui ripartita fra 154.11sg e 158.26sg) gli
viene contestata dalla censura perché “nimis in particulari asserit de constella-
tione indicante Lutherum, Iesuitas et Capuccinos” (Risposte alle censure dell’‘Atei-
smo triunfato’, in: Opusc. ined., p. 47-51), dove, richiamandosi ai noti passi di
Tommaso circa la già esaminata questione che gli astri ‘inclinano ma non co-
stringono’ (donde l’ampia parentesi sulle ‘cause’ di 142.1-146.2), ribadisce
due concetti: a) la stessa causa può produrre effetti diametralmente opposti
(come un medesimo fenomeno meteorologico è benedetto dai marinai e ma-
ledetto dai contadini); b) con i pagani bisogna utilizzare argomenti pagani,
per poterli meglio “convinci ex eorum principiis”. Invece in Art. proph., mal-
grado la precedente bolla di Sisto V, non lesina giudizi astrologici sul Papato e
il cristianesimo, ristretto alla sola Italia e Spagna, “ubi praevalet trigonus Chri-
stianismi; ma trovo che nel 1587 l’apogeo di Mercurio migrò dallo Scorpione
arabo in Sagittario spagnolo” (p. 278), donde la ‘revanche’ spagnola sull’isla-
mismo. Otto anni prima, cioè nel 1623, e scrivendo in quanto teologo e non
astrologo, interprete dei Profeti e non degli astri, aveva dedicato l’intero ulti-
mo capitolo di Theol. XXV a una ‘apocalittica’ profezia circa le sorti della Chie-
sa, elencando implacabilmente ben 19 profezie avverse: ‘Plurimae prophetiae
contra Romam et papatum quo pacto intelligendae sint in sexto sigillo com-
plendae [= che devono adempiersi]’; e indicando proprio l’anno preciso della
sua rovina: “l’Anticristo ucciderà la Chiesa… nel 1632, quando l’apside di Sa-
turno entra nel luogo dove si trovava il Sole alla nascita di Cristo” (p. 161; v. n.
160.1-2 § 1).
In sintesi, il “nec recitare volo” di Civitas è una implicita allusione alla censura
della pag. 146 dell’ed. 1631 dell’Atheismus, ovvero p. 209 dell’ed. 1636: in XIV
XXVII C. traccia una storia astrologica dei ‘legislatori’ divini, a dimostrare che le
stelle non sbagliavano: Mosè e Cristo sono nati sotto costellazioni benefiche, vi-
ceversa a partire da Maometto, sorto “sub trigono Martis” e in procinto di en-
trare in Scorpione, erano chiari gli indizi di “Prophetas falsos, impios, crude-
659
L’anno prima C., per vendicarsi delle continue persecuzioni, aveva scritto le Censure sopra
il libro di Padre Mostro (ora edite a c. di A. Terminelli [Roma, Ed. Confortane, 1998]).
COMMENTO AL TESTO 667
les, fabulosos, ponentes ius in armis… et sub eodem trigono fuit Lutherus et
Calvinus, et Serifus, et Sofius, et haeresis Anglicana”; donde sarebbe possibile
anche inferire, per via astrologica, la sorte della Chiesa nel prossimo futuro –
“Scripseram in hoc Astrologicum prognosticum pro Eccle. non discordans a
vatilinio [sic] S. Vincen. Brigid. Cath. Carthusiani: sed prudentia summi ponti-
ficis iussit deleri quamvis cum protestatione ne demus ansam Astrologiae, et se-
que horemus pretiosum a vili, ut patet in Disp. in Bullas. Nec propterea Deus
res non faciat, quia in stellis cernuntur. Sed magis certiore de sua reddimur
providentia, quo magis cernimus eum illius ordinem metitum esse in secundis
causis eius instrumentis et hoc ipse dixit S. Brigida: ‘Quod si homo siderum
motum consideraret, de providentia Dei nil dubitaret’” (Atheismus, p. 209): ap-
punto il passo censurato nel 1631.
660
La proliferazione universale delle eresie iniziata con Lutero in Occidente, e in Oriente
“quando il Seriffo in Africa e Sofio nella Persia introdussero novità ed eresie nel Corano”,
prepara l’avvento dell’ultimo spaventoso Anticristo, per cui è la prova che “siamo senza dub-
bio” alla fine del sesto millennio (Theol. XXV, p. 145-9).
668 LA CITTÀ DEL SOLE
661
Sulle sue vicende – condannato dopo morto dal Concilio di Costanza, le sue ossa furono
disseppellite e bruciate (1428) – e sulle sue teorie, cfr John Wyclif: logica, politica, teologia, a c.
di M. T. Fumagalli Beonio Brocchieri e S. Simonetta, Firenze, Ed. del Galluzzo, 2003.
COMMENTO AL TESTO 669
gni ridicola furbaria maestro, [è] opposto a San Giovanni Battista” (Lettere, p.
51). C. inaugurò precocemente la sua attività pubblicistica antiluterana: al
1595 risale il Dialogo politico contro luterani, calvinisti ed altri eretici,662 rifuso poi
(nel 1613) nell’Epistola antilutherana, a sua volta confluita in Quod rem. Ma il
nocciolo della sua avversione a Lutero è rintracciabile in Theol. XXV: Lutero è
l’anticristo della quinta età dell’Apocalisse (10, 11), peggiore di Maometto
(Supplizio, p. 159), venuto per aprire “il pozzo in cui erano sepolte tutte le ere-
sie, e le risveglia… Lutero infatti spalancò i monasteri; vietò e vituperò la vita
eremitica… abolì il celibato, la verginità e la penitenza; egli, monaco, prese in
moglie una monaca, per propagare con la parola e con i fatti la sua dottrina an-
ticristiana e antigiovannea; abrogò la messa e i sacramenti; sparse di menzogna
le Sacre Scritture e le storie per eliminare il Papato, che è il regno di Cristo;
mutò opinione e si contraddisse come una canna agitata dal vento; e vestì vesti
morbide, non di pelo di cammello, e abitò nelle case dei principi secolari, non
nel deserto come Giovanni” (p. 119).663
662
La voce protagonista del dialogo è proprio Giacomo di Gaeta, e “Lutero era la pentola che
bolle nella regione settentrionale, da cui si sparge nel mondo ogni male” – figura analoga a
T.158.24-5 (il distico latino, n° 92 delle Poesie, che è un’interpretazione della visione di Gere-
mia, 1, 13-4, è incluso nel Dialogo nonché nell’Apologia).
663
V. n. 158.27-8; e cfr G. Currà, Il falso profeta: Lutero negli scritti di T. C., Editoriale Progetto
2000, 1989.
670 LA CITTÀ DEL SOLE
dalle stelle; invece S. Paolo ci dice (Gal. 5, 19-20) che essa non è opera della ra-
gione, ma è ‘opera della carne’, dove le stelle agiscono ‘directe et per se’ (sem-
pre ferma restando, s’intende, la libertà individuale di resister loro); perciò ne-
gli individui ‘sensuali’, poco razionali, questa inclinazione siderale dei tre pia-
neti ‘pericolosi’ (il terzo è Venere, non Mercurio, come erroneamente trascri-
ve Crahay, p. 233) diventa coazione.
Non c’è contraddizione con le professioni di obbedienza dichiarate a 154.9-15:
mentre è vietato affermare che la religione cristiana si mantiene pura solo in
Italia e Spagna per gli influssi benefici di Sole e Giove, invece è lecito sostene-
re che il dilagare dell’eresia dipende dal fatto che, essendo un prodotto del
senso e non della ragione, le stelle avverse hanno potere d’influenzare la mas-
sa che è irrazionale; la legittimità poggia non solo sul pensiero di S. Tommaso,
ma anche sul fatto che ci si limita a descrivere un fenomeno naturale, e non s’i-
poteca il destino della religione al volere delle stelle.
664
Fallisi, p. 581-5 - cui si rimanda per l’intera questione, e da cui è stata tratta la traduz. di
Astrol. I VII, art. 3 riportata in n. 157.1.
COMMENTO AL TESTO 671
uno dei refrain che punteggiano l’intera opera di chi amava firmarsi ‘Squilla
del Signore’: “Stavamo tutti a vegghiare nella tenebrosa notte di questo seco-
lo… il sonno dell’ignoranza… ed io, sendomi detto che vigilassi, accesi un lu-
me, e me lo smorzarono, e mi flagellarono e serrarono nelle tenebre… Affac-
ciai per un pertugio fuori e mirai il cielo: vidi mutato tutto il suo volto, confusi
li luoghi delli celesti animali, li pianeti e ‘l sole calati in terra, mutati gli apogei
ed eccentricitati ed equinozi e solestizi; e questo si faceva irregolarmente, mo
più veloce, mo più tardo, secondo piace a Chi scende dalle stelle per avvisarci;
ho voluto ragguagliare il portinaro [= il Papa] e non fui inteso, mi dissero che
io era imbriaco e bugiardo; ed io, comandato dal Cielo a vigilar meglio, udii
stridi, lamenti, urli e pianti, e dissi: – Dove? Dove? – Vox in Roma audita est – mi
fu risposto…” (Antiven., pp. 41-3, 135-6; per le anomalie v. n. 114.1-5).
665
Equinozi e solstizi sono “tornati a dietro di 28 gradi in circa… e s’è diminuita di più la
quantità dell’anno” (Disc. Cometa, p. 70); l’equinozio è ciascuno dei due punti nei quali l’e-
clittica interseca l’equatore celeste, per cui in tutta la Terra il giorno è uguale alla notte; il
punto vernale (21 marzo), regolato all’epoca di Ipparco (ca. 130 a. Cr.), coincideva con 0° di
Ariete; oggi, per la precessione degli equinozi, il Sole entra in Ariete il 20 o 21 aprile, mentre
il 21 marzo entra in Pesci; analogamente dicasi per l’equinozio d’autunno.
666
Anche per la stessa posizione nell’esametro, come nota Giancotti, in Poesie, p. 656 (rin-
viando ad altre due occorrenze in Manilio e Lucano); in giovane età C. aveva composto una
Philosophia Pythagorica, carmine Lucretiano instaurata (cfr Lettere, p. 29), perduta.
672 LA CITTÀ DEL SOLE
667
Cfr G. Baroncini, Note sulla formazione del lessico della metafora ‘Machina mundi’, ‘Nuncius’, 4,
1989, pp. 3-30.
COMMENTO AL TESTO 673
ad Dei nutum, ut In prophetalibus evicimus” (in partic. Art. proph., p. 54): non so-
lo le anomalie cosmiche obbediscono alla volontà divina, ma la frase biblica
(cit. a 148.8) “Coeli enarrant gloriam Dei…” è interpretata ficinianamente
(Th. pl. XIII V [Op., p. 304]), e non galileianamente, e cioè: “Le anomalie inse-
gnano che la macchina cosmica si muove per volontà di Dio, non in base ai no-
stri calcoli” (Astrol., p. 75; Disc. Cometa, p. 76). Dio non gioca né a dadi né con
le tavole pitagoriche, o tolemaiche o copernicane. Il che implica retrospettiva-
mente quattro cose:
1) C., cancellando non solo quindici secoli di speculazioni fisiche e filosofiche
(in partic. Scolastiche), ma anche gli ultimi rivoluzionari lustri post-coperni-
cani, si ricongiunge alla prima patristica; la sua posizione rispecchia infatti
alla lettera quella di Ambrogio: “Non ha mostrato chiaramente Iddio che
tutto sussiste per la sua maestà, non per il numero, il peso, la misura? Non è
la creatura che si dà la legge, ma la riceve e ricevutala, la osserva”; la Terra è
immobile non “perché si trova al centro dell’universo, ma perché ve la co-
stringe la maestà di Dio con la legge della sua volontà… Quindi dobbiamo
intendere non la misura del centro… ma la misura della potenza, della giu-
stizia e della sapienza… Per la volontà di Dio la terra rimane immobile e…
conforme al volere di Dio, si muove e nutat [= ondeggia? obbedisce?]” (I VI);
2) si chiarisce meglio che cosa intenda dire a 116.20sg: i nostri principali mo-
delli cosmologici sono dei giochini puerili, rispetto al segreto disegno e go-
verno divino del mondo;
3) e che interpretazione dà della frase biblica cit. a 148.8: è vero che il Libro
della Natura e quello dei Profeti è intessuto di numeri; ma ciò non significa
che sia un linguaggio matematico: è la Sua “mensura”, e non è affatto detto
che essa sia la povera, svalutata moneta di conto che usiamo noi;
4) e infine che tutti questi segnali anomali che provengono dal cosmo non so-
lo sono la migliore testimonianza che il mondo non ha leggi sue, ma solo
Sue, cioè è Dio che lo regge e lo guida (in sostanza: non esistono leggi fisi-
che), ma significano e comportano anche grandi mutamenti sulla Terra.
Dunque quest’‘oscillante’ macchina dell’universo connota due cose: a) la sua
peribilità: è oscillante perché è vacillante; b) l’ubbidienza a Dio: l’oscillazione
‘su e giù’ è il movimento che la Grande Testa sferica del cosmo fa per dimo-
strare il suo perenne assenso al Suo, e solo al Suo Signore (e non ai meschini
‘calcoli’ umani). Per cogliere, oltre alla denotazione (= moto ciclico angolare a
escursione limitata), le due connotazioni sottese a questo verbo (vacillare, an-
nuire), basta rifarsi a Lettere, p. 220, in cui il contesto astronomico-profetale è
identico: le anomalie, elencate qui a partire da 156.7, sono segnali divini, pre-
sentiti dal profeta Aggeo (2, 6), quando “si cominciò questa mutazione insen-
sibilmente, consentendo e scommovendosi tutta la machina del mondo alla
novità e preparamento dell’umanazion del Verbo eterno suo autore” (v. n.
160.1-2 § 1.2, punto 1).
668
Ritenere, cioè, “congiunzion magna” un’inutile triplice ripetizione a distanza ravvicinatis-
sima, presente in tutta la tradiz. manoscritta da R. a L., e quindi anche nell’antigrafo della
traduzione, come dimostrerebbe appunto la sostituzione dell’ultima sua occorrenza con il
possessivo “eius”.
669
Sarebbe anche un palese errore, perché ogni congiunzione, in quanto distanza angolare
COMMENTO AL TESTO 675
congiunzion magna, che sarà l’anno 1603 a’ 24 di dicembre’ (56, 1-4: “i primi
erranti lumi, [= i pianeti maggiori Saturno e Giove] / … insieme in Sagittario
/ raccozzarsi, a mutar legge e costumi”). La grande congiunzione è però solo
un segnale generalissimo, una sorta di progetto di massima della prossima mu-
tazione epocale; ma chi è che poi concretamente lo porta a compimento, cioè
è la causa agente e specificatrice dei singoli eventi ‘rivoluzionari’, è un’altra se-
rie di fenomeni celesti: eclissi e comete.670 Per C., esistono due tipi di eventi
astrali: il primo è l’‘annuncio’ generico di qualcosa (di grande) che avverrà (=
il Progetto della Legge Divina); il secondo tipo, che segue a breve distanza dal
primo, determina (= spiega+causa) i micro-eventi promotori della ‘renovatio’
(= le Circolari applicative).671 La stessa cosa è accaduta dopo la comparsa nel
1572 della nuova stella in Cassiopea: in seguito infatti spuntarono “le due gran
comete nate nel 1618, che metteno in atto quel che la stella di Cassiopea, e l’al-
tra nova del Cigno nel 1603 [significarono], quando pur cominciarono le con-
giunzioni magne nel primo trigono a tornare” (Mon. Fr., pp. 400 e 474). Pro-
prio per l’impossibilità di determinare con sicurezza a quali fenomeni celesti
successivi alla grande congiunzione C. potesse pensare intorno al 1636 (eclissi,
comete…), l’integrazione della pur certa lacuna non può che esser ipotetica, e
quindi inaccoglibile nel testo.
tendente a zero della posizione reciproca di due pianeti, non può che verificarsi in un solo
segno, altrimenti cessa di esser congiunzione.
670
Premesso che “semper igitur fere observatum est eclipses ac cometes synodorum magna-
rum decreta specificare ac in actu ponere”; dopo la congiunzione del 1603, nel 1605 “tres
eclipses apparebunt in Ariete et Libra signis novarum legum et rituum et sacrorum, et inci-
piet haec omnia ex parte promulgari” (Art. proph., p. 292); “seguitano poi nell’anno 1605
due eclissi lunari in Libra e Ariete, segni mobili significanti mutamento di legge e nuove ro-
vine in cristianità, sollecitamenti, zizzanie, avarizie di prìncipi, carestie” ecc. (Antiven. III II, p.
141); le grandi congiunzioni, dunque, stabiliscono i lineamenti generali delle causalità, e le
eclissi e comete le applicazioni nel concreto e nel dettaglio.
671
Tale metafora non è che una libera parafrasi della seconda quartina del sonetto su cit.: “E
te, Mercurio, che l’impresa assumi / di promulgar, qual pronto segretario, / quel che poi leg-
gi nell’eterno armario / già statuirsi ne’ possenti numi”, in cui si allude all’apogeo di Mercu-
rio in Sagittario, che specifica le caratteristiche della nuova epoca, segnata dal cambio di tri-
gono delle grandi congiunzioni, come epoca di rinnovamento delle scienze.
676 LA CITTÀ DEL SOLE
re come in tempi assai ravvicinati, eppur sotto aspetti astrali analoghi, siano
nati personaggi quali Ignazio di Loyola, Lutero, Fernando Cortés, che risul-
tano per un verso accomunati dall’impulso al rinnovamento, per l’altro al-
quanto lontani per le diversità delle situazioni e dei contesti” (Ernst 2002, p.
177-8).672 Così già in Senso: “Libera è la volontà, ma non l’azioni esteriori, e
san Tommaso acutamente dice, in 3SCG, che gli Astrologi per lo più indovi-
nano, perché gli uomini vivono secondo il senso alterato delle stelle… Dun-
que le cose naturali ciò fanno e le stelle, senza pregiudizio del libero arbitrio,
poiché trovi un uomo sostenere quarant’ore di tormenti, più tosto che dire al
Giudice quel che cerca. Se questa violenza non può vincere la volontà, man-
co ponno le stelle [aggiunta lat.: suaviter moventia]” (p. 316). C. ha in men-
te forse anche il commento del Ferrariensis (Pia., t. VI, f. 335r) a 3SCG, 85:
“Occasiones eligendi ex corporibus caelestibus provenientes, sive interiores,
sive exteriores, non sunt causa necessaria electionis. Probatur quia experi-
mento hoc cognitum est, eo quod homo per rationem potest eis resistere, vel
obedire, quanvis plures sint qui tales naturales impetus prosequuntur, pauci
autem, sed soli sapientes, non sequantur”. In molte opere della maturità è
presente questo tema dell’enorme capacità di resistenza della volontà umana
di contro alla levità degli influssi astrali, con allusioni più o meno esplicite al-
la tortura subita nel 1601: Antiven., p. 131; Astrol., p. 3; Quaest. Eth. I, p. 8 e II
I, p. 28; Cons. aph., p. 141; Theol. I (II, p. 209); Metaph. IX V, VIII: ‘La volontà
umana non può venir necessitata in quanto volontà, salvo che essa voglia sce-
gliere il peggio come meglio’: “un certo uomo [= quidam vir], interrogato
per 40 ore in mezzo ai tormenti, non poté venir costretto (mirabile a dirsi!) a
dire ai giudici una sola parola; che se atroci e tanto lunghi tormenti non co-
stringono la volontà, neppure le stelle quindi o altra qualunque cosa possono
costringere l’uomo, se egli non vuole venir costretto” (II, p. 337; cfr anche
De Mattei 1969, p. 151). Non solo le stelle, non solo le torture, ma addirittu-
ra Dio stesso non può coartare la volontà umana; per cui è meglio “ricono-
scere che ignoriamo il nesso della provvidenza divina colla nostra libertà, co-
me suggerisce acutamente il Gaetano [= De Vio], che negare il senso e far
dell’uomo una bestia. Inoltre Dio stesso, il quale conosce questo nesso e le
modalità del suo operare con noi, proclama [es. Is. 65, 2] che noi siamo libe-
ri talmente da poter contraddire a Dio stesso” (Theol. I [II, p. 207]): quale mi-
glior prova della divinità dell’anima razionale, o ‘mens’, “che non cede a nes-
sun flagello o tormento dei tiranni e delle cause corporee, né si preoccupa
della morte del corpo fiduciosa nella divinità della propria natura”? (Compen-
dio LX, 5; v. n. 142.25-144.11 e n. 142.28).
672
Queste righe di T.158.12-30, cui in effetti rimanda la Ernst, in Civitas risultano, dopo il
lungo inserto latino ivi contenuto (138.14-150.4), un’ennesima ripetizione del principio del-
l’autonomia della volontà dagli influssi astrali, ravvivato solo dalla tragica esperienza auto-
biografica.
COMMENTO AL TESTO 677
673
La metafora può essergli stata suggerita anche da un passo di Botero: l’“empietà Luthera-
na… come da una sentina piena di puzza e di fetidezza uscì, e si dilatò in breve tempo il mor-
bo e la pestilenza per Alemagna” (III I, p. 9).
674
“Quando C. dovrà difendersi dall’accusa di essere stato offensivo e ingiurioso per l’allu-
sione, nell’Atheismus, alla nascita illegittima del Segretario, egli preciserà di avere avuto
l’informazione a Firenze, da una fonte sicura [“da buonissima parte”], vale a dire proprio da
Baccio Valori, il ‘cavaliere vecchio’ e bibliotecario di S. Lorenzo che l’aveva accompagnato
nella visita [alla Biblioteca Medicea]: ‘e quando mi mostrò li libri secreti dentro un camerino
dove nessuno può entrare, mi fe’ vedere li libri di Macchiavello scritti di propria mano e, par-
lando di lui, disse che era nobile, ma bastardo, e mi narrò la vita sua’ [Risposte, p. 53], notizia
confermata da Giovanni Battista Bracceschi, un anziano domenicano presente al colloquio”
(Ernst 2002, p. 22).
678 LA CITTÀ DEL SOLE
Per una parafrasi di tutto il passo in Atheismus v. n. 156.9-10; una variante sul te-
ma in Antiven., p. 58: “Anco dalle parole mie [= Crisostomo] gli eretici cavano
tanti sensi pravi: l’aromati, al sole posti, più odorano, li cadaveri più spuzzano:
ognuno cava fuor quel che ha nel cuore”; e proprio in Crisostomo, Comm. in
Epist. Pauli ad Hebr. VI, Hom. XI (IV, 1737C) poteva aver trovato l’espressione
analoga: i sacrifici dei martiri “odorem suavitatem habent maximum” (v. n.
48.8-11).
675
Cfr anche Antiven. (pp. 75, 119), dove attribuisce ad essi il merito del successo delle mis-
sioni estremorientali e “il grand’utile al cristianesimo” grazie alle loro scuole pubbliche, ma
nel contempo consiglia come “rimedio buono per Venezia… di non tenere Gesuini nello sta-
to, poiché sempre furon sospetti e mal visti in quella repubblica” (p. 117; per altri passi ana-
loghi cfr Bobbio, p. 113n).
COMMENTO AL TESTO 679
676
Calcolo desunto da Art. proph. (p. 262): 77° in 5565 anni (v. infra); da Theol. XVIII, p. 71 si
capisce con chiarezza che non esiste un dato costante: “secondo il calcolo di Ipparco in 100
anni l’equinozio anticipa di un grado… secondo Tolomeo l’anticipazione è di un grado ogni
70 anni… oppure poco più come vuole Albategnio. E siccome in quel tempo [= nascita di
Cristo] l’anomalia era nei suoi valori medi, come osserva Copernico, noi incliniamo al siste-
ma di Ipparco”.
680 LA CITTÀ DEL SOLE
677
“Cum mundi aetas sit incertissima” (Astrol., p. 75); “non si può assegnare al mondo una
durata determinata”, perché “tutti questi calcoli sono incerti tanto dal canto del moto degli
astri quanto dal canto dei numeri della Bibbia” (Theol. XXV, pp. 59 e 181).
678
Astrol., p. 74; Theol. XVIII (I, p. 11-3): “il mondo ha da durare sei millenni nei travagli e un
settimo millennio nella pace”; bisogna accogliere “la sentenza dei Rabbini che attribuiscono
alla vita del mondo seimila anni seguendo le parole di Elia profeta divinissimo, che molti ri-
gettano come apocrife” (Theol. XXV, p. 33).
679
Le precedenti cinque ere vanno da Adamo a Noè; da Noè ad Abramo e Giacobbe; da Gia-
cobbe ad Elia; da Elia alla distruzione di Gerusalemme sotto Vespasiano; da S. Giovanni a S.
Bernardo (Theol. XXV, pp. 75, 83, 89, 99, 109, 125).
680
La profezia apocalittica dei secoli avvenire, contenuta in Theol. XXVI (‘De Antichristo’), è
anticipata e sintetizzata da un capoverso di Theol. XXV: “Al sesto sigillo appaiono l’Anticristo
COMMENTO AL TESTO 681
e le Bestie anticristiane, e si vede sorgere la città del demonio che siede come la meretrice so-
pra la Bestia. Cristo, che è il Sole, si oscura, perché la fede degli uomini in lui viene oscurata
per opera dell’Anticristo, come la fede di Adamo fu oscurata dal demonio, e Eva, la Luna,
che è la Chiesa, è insanguinata per le stragi inflittele dagli Anticristi… Dal cielo della Chiesa
cadono le stelle, cioè i Dottori. Il Cielo, che è la Chiesa, si ritira nel Nuovo Mondo, oppure
nelle caverne, arrotolandosi come un libro che non si legge” (p. 131); finalmente ritornerà
Gesù, “per stabilire sulla terra nel settimo millennio [intorno al 2000] un regno che nell’ot-
tavo dovrà poi essere trasferito al cielo dei cieli. Infatti avremo forse un paradiso di delizie in
tutto l’orbe fino al momento in cui sarà distrutta la coda dell’Anticristo” (ib., p. 125).
682 LA CITTÀ DEL SOLE
681
“Adhuc modicum et movebo caelum et terram, et veniet desideratus cunctis gentibus”, ov-
vero il Messia (Agg. 2, 7-10, cit. in Lettere, p. 220). In Astrol. ritiene che è a partire da Ipparco
che “il Sole è incessantemente, seppur irregolarmente, sceso verso la Terra, tanto che l’equi-
nozio non avviene più nel primo grado dell’Ariete, ma nel secondo dei Pesci” (pp. 22, 29 e
69-70); nel successivo Theol. XXV invece: “solstizi ed equinozi anticiparono sempre dal tem-
po dell’astronomo Metone che visse nel 433 a. Cr.” (p. 57).
682
Gregorio XIII fece seguire al 4 ottobre 1582 il 15 ottobre (Art. proph., p. 69-70).
683
“Secondo il Werner del De motu octavae sphaerae, era necessario postulare un terzo cielo
anastro [= privo di astri] per spiegare una nuova variazione… nel ritmo della precessione”
(Lerner 1992, p. 55).
684
Da Aggeo “in qua s’avvicinò il sole a terra… le figure celesti permutate e altre varietà mi-
rabili, le quali non furo avanti, come Pico malamente contra li Caldei, de inerzia conden-
nandoli, asserisce” (Lettere1, p. 58).
COMMENTO AL TESTO 683
685
Si notino le dissimmetrie tra Astrol., p. 69 e 136.14-22; mentre concorda con T.154.21:
“l’abside di Giove era a 10° e 2’ della Vergine e ora è a 6°52’ della Bilancia”.
686
In L. essa è considerata il segnale del cambio di trigono (v. 136.16 in ‘Apparato delle va-
rianti di α’).
684 LA CITTÀ DEL SOLE
687
“Gli apogei, che per molti secoli sembrarono stabili, si sono ritirati [= recesserunt] di qua-
si 28 gradi” (ib., p. 131).
COMMENTO AL TESTO 685
688
“Extra tropicos usque ad 70 gradus priores” (Astrol., p. 78).
686 LA CITTÀ DEL SOLE
689
All’inizio dell’età moderna era “nozione generalmente accettata dai dotti che la ‘circola-
zione’ [“orbis maximus”] di ogni segno zodiacale dura per un periodo di mille anni e che, al
mutare del suo influsso, corrisponde la variazione della fortuna degli stati e delle ‘sectae’”
(Vasoli 1977, p. 46).
COMMENTO AL TESTO 687
690
Mai nominata la Francia, forse perché ritiene che dopo Carlo Magno abbia chiuso il suo
ciclo sullo scacchiere mondiale; escluse per motivi geografici e religiosi Svezia, Inghilterra e
Olanda.
688 LA CITTÀ DEL SOLE
no una brusca accelerazione, che culminò nel 600, con Maometto e Carlo Ma-
gno. Poi nuovo rallentamento, il che vuol dire che forse il prossimo scossone
delle fondamenta dell’universo non sarà solo un sinistro scricchiolio, ma quan-
do i segni cardinali raggiungeranno e invaderanno le sedi poste alle loro qua-
drature, il cosmo ritornerà caos.
Poiché mancano pochi secoli a quest’ora fatale691 e molte sono ancora le cose
che le profezie hanno preannunciato (ad es. l’avvento del più temibile fra gli
Anticristi), è lecito supporre che i cieli e la terra debbano portare traccia di
sconvolgimenti così clamorosi. La settima età, nella quale dovrebbe instaurarsi
il secolo aureo, “può esser incominciata col Concilio Tridentino, oppure l’anno
1603, quando, passati tutti i trigoni, le grandi congiunzioni tornarono al primo
punto in cui cominciarono la legge di Cristo e di Mosè” (Theol. XXV, p. 157).
Infatti, secondo gli astrologi, come Cardano, a partire dal 1583, oppure, secon-
do i profeti, come Serafino da Fermo, a partire dal 1600, o forse proprio dal
1572, quando apparve la nuova stella in Cassiopea, ci si sarebbe dovuto atten-
dere un monarca universale e una generale riforma delle leggi. Ma la data fati-
dica pare proprio il 1603, ‘annus mirabilis’ per più versi, a partire dal numero
stesso formato “di sette e nove centinaia, numeri fatali, e del tre, numero per-
fettissimo” (Poesie, 56, Esp.), anno in cui le grandi congiunzioni tornano dopo
800 anni nel I trigono, e proprio il 24 dicembre: “e tali segni io vedo in cielo e
in terra che stupirà il mondo tutto” (Lettere [1606], p. 21). Ma procediamo con
ordine. Distinguiamo anzitutto questi segnali divini, appunto in terrestri e ce-
lesti, e poi vediamo quale scenario lasciano scorgere.
2.2.1. Segnali terrestri
Alcuni segnali sono naturali, altri sono preternaturali; beninteso, anche la na-
tura è sempre “Dei instrumentum et ars”; ma i segnali naturali, anche se hanno
cause strumentali fisiche, sono pure segni divini, come l’arcobaleno, che è cau-
sato dai raggi del Sole contro le nubi, ma che tuttavia “est signum foederis in-
ter Deum et homines” (Art. proph., p. 258). Analogamente i seguenti fenomeni
sono indicati dal Vangelo come segni del giudizio universale: “sendo stato que-
sto anno grandi inondazioni in Roma e Lombardia e gran terremoti in Sicilia e
in Calabria, io predicai in Stilo, secondo l’Evangelio, che queste cose significa-
no mutamento nelle cose umane…” (Supplizio [1599], p. 54). Prima che dal
Vangelo, l’ispirazione può essergli venuta, ancora una volta, dal suo compagno
di cella del Sant’Uffizio romano, un nome ‘indicibile’, data la fine che aveva
fatto: Francesco Pucci infatti preconizzava un imminente radicale rinnovamen-
to (l’“aspettata nova redenzione”: Poesie, p. 477); sosteneva che “il tempo pro-
fetato è vicino: abbiamo avuto il regno della femmina, del quale parla l’oraco-
lo sibillino; la cometa del 1577 ha annunciato quel che sta per avvenire; il sole
691
“Poiché si adempia la profezia dell’Apocalisse si richiedono 40 anni oltre i 2000 che devo-
no passare dopo Cristo, e siccome ci troviamo ormai nel 1623… ci rimangono 417 anni”
(Theol. XXV, p. 63); a cui poi vanno aggiunti i 1000 anni, “come si ricava dal cap. 20 dell’A-
pocalisse”, che corrisponde al riposo di Dio e quindi della Chiesa, che vivrà un periodo aureo.
COMMENTO AL TESTO 689
si avvicina alla terra… Sisto V doveva essere l’ultimo pontefice della cristianità,
e la sua elezione fu accompagnata da sinistri auguri: il Tevere uscì dal suo letto
e inondò la città” (Cantimori 1949, p. 381).692
Il brusco avvicinamento del Sole è la causa di incendi, terremoti, inondazioni
ed epidemie: infatti, riscaldando fortemente la Terra, provoca un’intensa eva-
porazione anche nelle sue viscere, e questi vapori sono la causa di tutte e tre le
calamità (gli incendi sono causati direttamente): non potendo fuoriuscire,
squassano o dirompono la terra, donde le grandi piogge e conseguenti allaga-
menti (l’inondazione del Tevere fu talmente rovinosa che non si celebrò nean-
che la messa di Natale [Art. proph., p. 295-6]); e i vapori mefitici, a causa del-
l’eccessivamente rapido, e perciò imperfetto, processo di combustione, provo-
cano la peste. Infine la scoperta del Nuovo Mondo avvera un’altra profezia
evangelica, secondo cui il Mondo Nuovo (cioè rinnovato) si avrà solo quando
ci sarà ‘un solo gregge e un solo pastore’, cioè, come già detto, quando il Van-
gelo sarà predicato a tutti (Art. proph., p. 72).693
Di dubbia natura (preternaturale o naturale) è un’invasione inaudita di caval-
lette (Supplizio, p. 89); mentre decisamente preternaturali sono “visiones dirae
in aere” (Art. proph., p. 257), come quelle che precedettero la distruzione di
Gerusalemme: “a Stilo nel luglio del 1599 si vide una grande cometa e una sca-
la nell’aria che recava in cima un cipresso”; e i “prodigia” (Art. proph., p. 258)
della cugina Emilia, una popolana ignorante, che, morta da otto ore, risuscitò
e cominciò improvvisamente a disquisire di teologia e a profetizzare come una
sibilla (Supplizio, pp. 90, 163-73);694 e ancora lo scatenamento delle potenze in-
fernali: attraverso le pratiche negromantiche con il compagno di cella Felice
Gagliardo (v. n. 112.20-30, n. 144.27-146.2), furono evocati demoni spacciatisi
per angeli, che interpretarono falsamente i segni celesti, e fu proprio la cugina
Emilia a svelargli gl’inganni diabolici (Lettere, p. 37-40). Infine vi è un’altra se-
rie di profezie annunciate dall’Apoc. e da Gv. 2, 28, cioè l’avvento di un Anticri-
sto: non ci sono stati mai tanti eretici come in questi ultimi duecento anni, cioè
dopo Wyclif (154.13), il principale dei quali, nonché penultimo Anticristo, è
Lutero (Art. proph., p. 73-4).695
692
In SH XXXI CVII, sono elencati i sette segni forieri della fine del mondo, e in CXII si di-
chiara che essa avverrà per fuoco: il fuoco “faciem huius mundi comburet, peribuntque coe-
lum et terra, non secundum substantiam, sed secundum speciem, quae mutabitur in melio-
rem – coelum dico aereum non aethereum”.
693
“Fra Tommaso, mosso da profezie naturali e divine, disse che presto il mondo sarebbe sta-
to distrutto… Ora io vedo i segni… oltre l’intiepidirsi della carità e gli scismi, è stato infatti
predicato il Vangelo al Nuovo Mondo” (Supplizio, p. 85-7; questo tema è approfondito in
Mon. Messiae).
694
Anche in questo caso la congiuntura fisiologica – la cugina era affetta da mal caduco, causato
da una maligna configurazione astrale e dalla disposizione degli umori melanconici (Senso, p.
202-3) – viene sussunta a specchio e strumento a servizio di una Volontà trascendente.
695
La fonte sarebbe una profezia di Serafino da Fermo (Theol. XXV, pp. 161 e 169: v. n.
130.22-3 e § sg).
690 LA CITTÀ DEL SOLE
696
A Napoli nel ‘90 C. aveva fatto parte dell’‘Accademia degli Svegliati’, fondata da Giulio
Cortese, “letterato di cui sono state messe in luce le sorprendenti analogie e gli indubbi echi,
sia sul piano filosofico che politico, sul pensiero di C., che ne farà uno degli interlocutori nel
Dialogo contro Luterani” (Ernst 2002, p. 18, che rinvia a studi della Bolzoni e, più recentemen-
te, di W. Eamon, Natural magic and utopia in the Cinquecento: C., the Della Porta circle and the re-
volt of Calabria, ‘Memorie domenicane’, XXVI, 1995 [p. 369-402]; Formichetti 1999, p. 40-1;
M. Slawinski, La poetica di G. Cortese tra C. e Marino, ‘B&C’, VII, 2001 [p. 127-53]; Ernst 2003,
p. 9-10 sottolinea come in seguito alle conversazioni con questi tre ‘astrologi’, ma soprattutto
con Giovan Vincenzo Della Porta, C. passò dalla giovanile avversione anti-astrologica ad una
sua convinta accettazione).
697
L’800 è dato dal prodotto di 200x4: 200 è il numero di anni in cui Giove e Saturno si con-
giungono all’interno dello stesso trigono; 4 è il numero dei trigoni.
COMMENTO AL TESTO 691
b) “Il 1603 si compone di sette e nove centinaia, numeri fatali, e del tre, nume-
ro perfettissimo” (Poesie, 56, Esp.); il 1603 diventa numero doppiamente fa-
tidico: infatti è formato dal 1600 (che, ad es., fu l’anno del diluvio universa-
le: “Deus dixit ad Noe circa annos mundi 1600… ut aedificaret arcam”
[Quod rem. 3, 18]), composto a sua volta da 900 e 700 (il 7 e il 9 demarcano
cicli biologici e sociali cruciali), più 3, “numero perfettissimo”;
c) “Dall’anno 1603 a’ 24 di dicembre cominciano le congiunzioni magne nel
primo [trigono], ed è notorio fra gli astrologi, che ogni potestà sta per tor-
nare sotto un principe, come fu a tempo d’Augusto imperatore, nascendo
Giesù Cristo quando si facevano le dette congiunzioni magne nel primo tri-
gono, dove durarono duecento anni” (Antiven., p. 135); proprio la stessa
notte di dicembre di 1603 anni prima nasceva il Messia, e anche allora le
grandi congiunzioni erano appena ritornate al I trigono (e poi vi ritornaro-
no nell’800 d. Cr., quando la croce di Carlo Magno offuscò la mezzaluna);
dunque questo fatto strepitoso non può esser una mera coincidenza, specie
in presenza di altre coincidenze come ad es. la riforma del calendario nel
1582; “questa configurazione è la stessa che apparve alla nascita del Mes-
sia… e mai più si ripresentò da allora. Itaque magnam habet significationem
renovationis in lege sua” (Art. proph., p. 285);
d) per l’eccezionale concorso di pianeti: Giove e Saturno in Sagittario, insieme
a Mercurio in apogeo in posizione particolarmente dignificata (e per giunta
quel 24 dicembre 1603 era un mercoledì, giorno di Mercurio);
e) infine, per il successivo corredo di fenomeni astrali che fungono da specifi-
catori e attuatori dei decreti genericamente delineati dal quadro generale
della congiunzione di Saturno e Giove: ad essi (in partic. alle eclissi) allude-
va già nel passo di Supplizio prima cit.; nel 1604 “una gran cometa… la quale
io non ho potuto vedere per i guai miei”; nel 1605 “due eclissi lunari in Li-
bra e Ariete”, che sono segni equinoziali, cioè cardinali, posti a 180° sullo zo-
diaco, e perciò particolarmente potenti (v. n. 157.5 [f.p.]); “di più, quest’an-
no 1607 si fa un ecclisse [sic] in Pisces… Segue un’altra in Vergine” (Antiven.,
p. 136-43); e alla fine del 1618 tre fenomeni celesti, il principale dei quali fu
“una spettacolare cometa, con una coda che si estendeva per più di quaran-
ta gradi” (Ernst-Salvetti, p. 58), sulla quale C. scrisse immantinente un opu-
scolo a sfondo astrologico-profetale (= Disc. Cometa).
Se, dunque, gli influssi dei triangoli zodiacali sono ulteriormente potenziati,
non solo dal ritorno delle Grande Congiunzione, ma anche da altre configura-
zioni astrali ivi compresenti e sincroniche, allora questo è un segnale certo di
mutazioni sconvolgenti.
Che cosa annunciavano queste congiunture celesti? Quali conseguenze avreb-
bero avuto sulla terra? All’epoca della congiura, C. credeva di essere il novello
Noè (se non addirittura un Messia), traghettatore dei superstiti dell’immane
flagello prossimo venturo verso la nuova età dell’oro, che, una volta fatta puli-
zia generale del clero e dello stato corrotto, avrebbe regnato in tutto il mondo.
C. non avrà l’ardire (o la spudoratezza) di fare simili dichiarazioni per iscritto
(al massimo si possono tentare delle illazioni su certe strane reticenze: v. n.
136.14-25).
692 LA CITTÀ DEL SOLE
T.136.24: Ma entrando l’asside di Giove in Libra, pur segno di mutazione, sarà gran
monarchia nova e di leggi reforma.
R.(/T.): Ma entrando l’asside di Saturno in Capricorno e di Mercurio e di Marte
in Vergine presto che congiunzioni magne in primo trigono, sarà grande mo-
narchia nova e di leggi riforma e d’arti e profeti e rinovazione.
L.(/R.): Ma entrando l’asside di Saturno in Capricorno, e di Mercurio in Sagittario, e
di Marte in Vergine, e le congiunzioni magne tornando alla triplicità prima dopo
l’apparizion della stella nova in Cassiopea, sarà grande monarchia nova, e di leggi
riforma e d’arti, e profeti e rinovazione.
136.19(/L.): At cum mox intraverit Saturni absis in Capricornum, et Mercurii
in Sagittarium, et Martis in Virginem post primas synodos magnas et visionem
novae stellae in Cassiopea, monarchia nova insurget et reformatio legum, ar-
tium, et prophetae et renovatio.
698
E anche quando vi aveva fatto il suo ingresso, cioè era all’apice della sua potenza – a 1° in
Bilancia –, nel mondo impazzava Gengis Khan, che sarà pure ‘figlio del Sole’ (Atheismus), ma
era pure un flagello di Dio.
694 LA CITTÀ DEL SOLE
preso ad accelerare: “la mescolanza delle figure celesti, per la mutanza degli
equinozi ed obliquitati ed eccentricitati – il che tutto viene dalla calata conti-
nua che fa il Sole – trasferiscono le sedie degli imperi” (Antiven., p. 135).
Ma quel che varia profondamente e significativamente, in relazione al nostro
punto di vista, è l’interpretazione di questo mobile e articolato quadro astrale;
e, fatto ancor più importante, di tale variazione non c’è nessuna traccia nelle
successive revisioni di CS. Ciò significa che in CS è presente solo il teorema
astrologico (non la soluzione), e che tale teorema è giudicato dall’Au. sempre
valido, qualsivoglia soggetto concreto andrà poi ad applicarlo. Perciò, passan-
do da Città a Civitas non ci si accorge affatto che il destinatario ideale e reale di
quel pronostico nel frattempo è radicalmente mutato, almeno nelle intenzioni
di C.
Che cosa dunque si aspettava C. da quel quadro astrale fin qui sommariamen-
te ricostruito?
Dopo la pervicace e ansiosa interrogazione delle stelle, occorre infatti ritorna-
re sulla terra in cerca dell’Eletto: chi è il designato dal cielo (e quindi dal Cie-
lo), venuto a riportare il mondo dalle tempeste del ‘saeculum’ alla ‘pax chri-
stiana’, preludio di quella ultraterrena?
Non è escluso che C. inizialmente abbia condiviso, insieme al quadro orosco-
pico, anche quello anamnestico di Cardano. Cardano si aspettava l’avvento di
una “lex super omnes leges” (= legge delle leggi [Art. proph., p. 276]), dunque
un legislatore divino (e armato); fino al 1606 avanzato, C. probabilmente deve
averlo interpretato come un pronostico della sua stessa missione. Le testimo-
nianze non mancano: già Pietro Presterà, il suo compagno di cella, prima con-
ventuale e poi carceraria, confessava che non aveva mai sentito C. chiamarsi
Profeta o Messia, ma Monarca sì, perché, come gli aveva confidato lui stesso,
“tutti gli altri homini che di niente erano venuti a qualche dignità o imperio,
haveano havuti solamente tre pianeti ascendenti favorevoli, ma che esso [C.]
n’havea sette e che per questo aspettava la Monarchia del mondo”; ma anche
oltre quella data (1599), Schoppe, “parlando di lui nel marzo del 1607 scrive:
‘Gli amici dello Squilla dicono che non è prudente lasciarlo libero, perché è ar-
rivato a tal segno di follia da credersi il novello legislatore del mondo, eletto da
Dio, e non ha ritegno di posporre a sé Cristo medesimo, in quanto Cristo ha so-
lo cinque pianeti nell’oroscopo, mentre egli ne ha sei’” (Amabile, Congiura III,
p. 230). Ma poi C. scopre che Cardano ha sbagliato i calcoli: “nec bene mensus
est cursus absidis Iovis” (Art. proph., p. 276); e di conseguenza anche l’interpre-
tazione: ci sarà una riforma (“reformatio legum”: 136.24), e non una “nova lex
super omnes leges”, perché una legge che soppianta le precedenti leggi impli-
ca una ‘rivoluzione’ politica; “sed deceptus est”, perché il ricominciare da ca-
po, dal I trigono, e in un segno mobile come Sagittario, non significa l’appari-
zione di una legge ‘ex novo’, come ai tempi di Cristo e Mosè, ma appunto una
“reformatio legum”; e del resto la stessa rivoluzionaria legge di Cristo non è al-
tro che perfezionamento, “non eversio” di quella mosaica.
Ammesso pure che, convinto dai calcoli copernicani o spezzato dalla torturan-
te detenzione nell’“orrida fossa” di Sant’Elmo, abbia abdicato al ruolo di lea-
der della Grande Riforma, ciò non significa affatto che abbia rinunciato del
COMMENTO AL TESTO 695
699
Nel IV trigono, governato da Venere e Marte, le Grandi Congiunzioni avevano propiziato
sovranità femminili e popoli marziali (150.5-154.3).
COMMENTO AL TESTO 697
“questa generosa utopia è l’unione ecumenica delle genti in un solo ovile e sot-
to un solo pastore, che altri non può essere se non il pontefice romano, vicario
di Cristo in terra” (Firpo 1945, p. 11). Tale sogno rimonta alla prima giovinez-
za, e cioè alla Monarchia dei Cristiani e al Governo ecclesiastico, due trattati risa-
lenti al 1593 e non pervenutici (Syntagma I II; Ernst 2002, p. 28), e per la sua
realizzazione lotterà e scriverà fino alla morte (il De regno Dei è del 1636). Mal-
grado le apparenze (una Città-stato in un’isola…), CS è funzionale a questo
progetto: l’utopia sociale reagisce alla divisione della proprietà come l’utopia
politica reagisce alla divisione degli stati. L’artefice di quest’utopia non sarà
però un pugno di filosofi, profughi su un’isola, ma l’imperatore di mezzo mon-
do: il re di Spagna deve far “predicare la fine del mondo vicina e che sarà
‘unum ovile’ sotto il Papa, e che egli è posto come Ciro a congregarlo” (Mon.
Sp. [1598] VI, p. 52); nella congiunzione della vigilia di Natale del 1603, “in
meridiano Hispaniae, et in Sagittario, signo Hispaniae, ubi et Mercurius eo-
rum [gli altri pianeti in congiunzione] est praesens” entrò dallo Scorpione dei
Mauritani al Sagittario degli Iberici, indicando chiaramente che nascerà “ab
Hispania monarcham et prophetas et renovationem Ecclesiae”, sorgeranno
“imperi giusti e universali che arrecheranno la pace… e Marte, in buon aspet-
to, li [= alla Spagna] fornirà di una forza buona rivolta solo a giuste cause” (Art.
proph. [1603-6], pp. 183 e 269). “Ma di più la sua [= della Spagna] forza oggi si
vede nelle stelle, ché già cominciano a far l’effetti della congiunzione magna
fatta in Sagittario, segno di Spagnuoli, e per ducento anni sempre il mondo
corse ad una gran monarchia” (Disc. Princ. [1607], p. 133). E ancora nel 1618
scrive al Papa che “questo braccio [armato]… è il re di Spagna, come ognun
vede ed io dimostrai” (Lettere, p. 191).
È intorno al primo quarto di secolo che si verifica in C. un ripensamento circa
la leadership spagnola nel suo progetto universale. A tale ripensamento sarà
stato indotto senz’altro dall’affacciarsi sullo scacchiere mondiale di altre po-
tenze nordeuropee, dal contesto politico-sociale sempre più degradato e quin-
di dalla disillusione circa un’evoluzione positiva della politica spagnola; ma vi
sarà stato indotto anche da una nuova interpretazione del quadro oroscopico.
Il quale quadro di riferimento resta sempre lo stesso: infatti P. non presenta si-
gnificative variazioni nei passi di astrologia mondiale (come si è visto; e anche
v. n. 156.13-158.5). C., non so quanto convintamente, aveva sondato, in verità,
anche l’ipotesi veneziana: per distogliere Venezia da una paventata alleanza col
Turco, le ricorda “quel che gli astrologi dicono, che in questo tempo sarà un
monarca tanto grande, che ogni cosa reggerà a suo modo in Europa, per le
congiunzioni magne che sono tornate al primo trigono d’Ariete europeo, po-
tria per te nel Clavo [= il Timone] verificarsi” (Antiven. [1606], p. 92).700 Suc-
cessivamente (alla sua liberazione) forse ha anche accarezzato l’idea di coin-
700
Cfr G. Benzoni, C. e Venezia: qualche appunto, qualche spunto, ‘Filologia e critica’, XXV II-III,
maggio-dic. 2000 (p. 263-80).
COMMENTO AL TESTO 699
volgere direttamente il Papato quale leader, attraverso una crociata, il cui ner-
bo fosse costituito dai futuri allievi del collegio clerico-militare barberiniano da
lui sognato. Senz’altro invece ha scartato la designazione ticoniana, quell’ereti-
co di Gustavo Adolfo di Svezia, cui anche qui si accenna (144.26), proprio per
ricordarne la tragica fine nella battaglia di Lutzen del 1632; ma il fatto stesso
che lo menzioni, seppur per respingerlo, indica che quella investitura è quan-
to meno degna di attenzione (v. n. 144.26-7). Ma dopo il trasferimento a Roma
(1626), dove regnava un Papa certamente non filoispanico come Urbano VIII,
il suo interesse si va sempre più concentrando sull’unica altra potenza cattolica
europea. Se non ancora astrologicamente, certo la barra politica campan. co-
mincia a puntare sulla Francia, perché il colosso spagnolo da ormai troppo
tempo stava rivelando i suoi piedi di argilla. All’Oratio pro Rupella recepta (1628)
si fa risalire una delle prime testimonianze certe del suo avvicinamento alla
Francia (Ernst 2002, pp. 224-8 e 235-44). Mon. Fr. del 1635 sarà solo l’ultima
tappa,701 in cui razionalizzare e sistematizzare i motivi del rovesciamento del
paradigma predittivo, senza neppure dover cambiare di una virgola il quadro
oroscopico. Può sembrare stupefacente: ma lo stesso schema oroscopico, in cui
C. vedeva una Spagna panegemonica, adesso gli fa dire con ugual sicumera
che all’epoca di Carlo V [1520] “le Congiunzioni magne si faceano nel quarto
trigono che è di Cancro, Scorpione, Pesci, e poi l’anno 1603 le congiunzioni
magne tornaro nel trigono primo nemico del quarto… e le cose di Spagna an-
darono sempre peggio”, rinnegando, quindi, quanto sostenuto in Mon. Sp.: “si
può affirmar con non minor certezza che li Spagnoli stanno per ruinare, e che
la Monarchia di Cristo non sarà da essi in tutto il mondo stabilita ma d’altre
Nationi, alle quali essi fan preambolo”; perciò “esso C. apporta molte profezie,
che questo principe universale”, che dovrà “congiunger tutte le nazioni sotto
una greggia e un pastore… sarà del sangue di Pepino [= Pipino]” (Mon. Fr., pp.
388 e 468). Non sono dunque gli astri a ingannare, è l’astrologo che ha scam-
biato un semplice apripista per il vero campione del cristianesimo universale;
malgrado la Spagna sembrasse “rinforzata dal cielo”, le sue vicende “andarono
sempre in peggio: dunque le stelle a lor son contrarie”; e non solo le stelle di
quel cruciale 1603, anche “la obliquità poi del Zodiaco consente che li France-
si vincano” (Mon. Fr., p. 478: v. n. 132.1-2 per il restante passo)702. Il braccio se-
701
La penultima, considerando ‘Gli ultimi scritti politici di T. C.’, pubblicati da Firpo (in ‘Ri-
vista storica italiana’, LXIII, 1961 [p. 772-801]), e da Ernst (es. Papatus), e definiti da Ernst
2002 “la palinodia rispetto ai Discorsi ai principi d’Italia, esortati in gioventù ad assecondare il
progetto universalistico dell’impero spagnolo” (p. 242; cfr anche l’epistolario di quegli anni,
in partic. la lettera n° 32, oltre alla 33 indirizzata a Luigi XIII [Lettere1, p. 122-30]; nonché: F.
Yates, Considérations de Bruno et de C. sur la monarchie française, in: “L’art et la pensée de Léo-
nard de Vinci’, Paris-Alger, 1953-4; Lerner; F. Favino, T. C. antispagnolo in un dispaccio di F. Pic-
colini, ‘B&C’, III/2 [1997, p. 345-7], e il saggio di J.-L. Fournel, C. et la Monarchie de France: em-
pire universel et équilibre des puissances, in: T. C. e l’attesa del secolo aureo, Firenze, Olschki, 1998
[p. 5-38]).
702
Di questo capovolgimento di fronte l’unico segnale, per quanto fievole, in Civitas potreb-
700 LA CITTÀ DEL SOLE
colare della Chiesa Universale, che resta il soggetto principale della profezia
solariana (T.136.28: gli astri promettono “a’ cristiani… grand’utile”; 138.1: “na-
tioni sanctae emolumentum magnum”), deve perciò diventare la Francia, esor-
tando senza mezzi termini il Papa a ‘svellere’ la corona imperiale dalla Spagna
e ‘piantarla’ in Francia, dove nascerà “il monarca universale” (Mon. Fr., p. 376-
400; v. n. 132.1-2).
La sua pervicacia sarà premiata e pacificata, come lui stesso annuncerà (“trove-
ran pace allora le mie veridiche parole”): dopo un’attesa di 23 anni, la Francia
aveva il suo Delfino, “un tale eroe io rivelo per voi nascente, che finalmente re-
ca segni certi e fatali del suo avvento, io, indagatore di fati a tutto il mondo ben
noto”. È “nato di domenica, il 5 settembre 1638. Anch’io nacqui di domenica, il
5 settembre 1568”. Così canta il povero Battista, nato giusto settant’anni prima
in una patria che l’ha sempre e solo perseguitato; e nel suo ultimo canto, levato
al tanto atteso messia, tutti i segnali apocalittici, astrologici e astronomici di Art.
proph. e i progetti di CS (ah, se P. fosse stata pubblicata solo un anno dopo!), er-
roneamente riposti un tempo nell’impero asburgico, sulla scorta di una lunga
teoria di profeti medievali e indovini moderni, vengono interpretati come fo-
rieri dell’avvento non più di un ‘heresiarcha magnus’, ma di un “maximus he-
ros” sorto a “cunctos populos conflaret in unum / Christiadum”: “Quegli stru-
menti per conseguire l’impero universale, che un tempo, ignaro, allestivo pei re
di Casa d’Austria, e le superbe grandezze or riconosco che spettano” al futuro re
di Francia. “Redeunt Saturnia regna… Ecco riporta l’età dell’oro il nuovo ange-
lo che viene dall’eccelsa stella di Marte, il lume dei giusti della Chiesa, il loro di-
fensore e capitano, l’amante della Ragione espressa dall’eterno Nume… Ora
fuggo lontano dalla patria, ma non senza volere dei Numi. Mentre vaticinavo il
fatale vacillare delle mura del mondo, la Spagna atterrita (beata lei, se avesse
porto orecchio alle mie parole!) mi tormentò per sei lustri, ingannata da inde-
be essere un capovolgimento di forma verbale, dall’attivo ad un passivo privo d’agente: “li Spa-
gnuoli trovâro il resto del mondo... per unirlo tutto ad una legge” (T.134.16-21) diventa:
“...Hispanos novum orbem invenisse... ut omnes nationes in unam legem congregentur”
(134.15-7). Quando il mondo sarà diventato un solo “ovile” (136.14), il braccio armato lo con-
segnerà nelle mani dell’unico deputato ad esser pastore ecumenico, il papa. Questo preciso
compito del papa di prendere in consegna il Mondo Unito mi porta a dubitare che C., dopo
la Spagna e prima della Francia, avesse puntato sullo Stato della Chiesa, la cui croce sarebbe
dovuta tramutarsi in una spada imperialista (malgrado i suoi progetti di un ‘Collegio barberi-
niano’, dove si doveva forgiare la nuova milizia di Cristo), come credeva Blanchet, ripreso da
Walker, p. 240 (e dalla Yates 1981, p. 416-7): dopo esser stato rilasciato dagli Spagnoli, “le spe-
ranze escatologiche di C. erano ora largamente incentrate sul Papa, così come erano state una
volta incentrate sul re di Spagna, e lo sarebbero state in seguito sul re di Francia. Se avesse po-
tuto convincere il Papa del lento avvicinarsi del Sole e degli eventi che ciò preannunciava, dei
missionari preparati da C. sarebbero stati inviati da Roma per convertire il mondo intero ad
un cattolicesimo riformato, ‘naturale’, che avrebbe introdotto il ‘millennium’, cioé la Città del
Sole universale”; questo è apostolato, missione religiosa parallela ma distinta dalla Conquista,
che è appannaggio esclusivo di un potentato laico: perché la riunificazione è presupposto e
insieme segnale del ritorno di Cristo, il Signore del mondo che verrà a riportare nella sua Ge-
rusalemme celeste i cittadini buoni della Città terrestre.
COMMENTO AL TESTO 701
gni ministri (nulla ho fatto di male agli Spagnoli, a favore dei quali, ingannan-
domi, molto ho scritto…) e invano, ahimé, la discorde Italia piangeva il suo
rampollo”. Oltre che l’autobiografica (quasi un film mentale da morituro), l’al-
tra corda che vibra appassionatamente in quest’ultimo canto è l’ossessione pa-
lingenetica: quella stessa ‘renovatio’, che assilla i Solari (136.25, 158.5), trapun-
terà anche l’‘Ecloga’, il cui ‘eroe’, non foss’altro per il sincronismo anagrafico,
“rinnoverà il secolo”, così come l’Au. “rinnovò tutte le scienze secondo la natu-
ra e la scrittura”. ‘Ecce homo’, anzi “portentose puer” (26), nelle cui mani ben
più giovani e potenti, certo, ma ‘fatali’ come le sue, poter passare il testimone
pochi mesi prima di morire: “Ed ecco tu risplendi, speranza nostra, o fanciullo”
(35), e “quella città meravigliosa, che prende il nome dal Sole… proclamo dal
profondo del cuore che a te l’ho assegnata” (121-2):703 dopo tante illusioni e de-
lusioni, il cielo aveva finalmente mandato l’uomo della Provvidenza - non lui
(né Filippo, Urbano, Richelieu). Di lì a pochi mesi C. chiuderà gli occhi per
sempre nel convento parigino di Saint Jacques: un’eclisse, cui tentò di opporsi
con le note pratiche magiche, stavolta gli fu fatale (v. n. 146.7-20). Ma mi piace
immaginare che stavolta non s’impegnò molto per evitarla; e non lo fece (se
non lo fece), per due opposte ragioni, proprio lui che aveva superato ben altre
e più tremende congiunture e torture. Perché si era finalmente acquietato, una
volta che il principe solare e fatale, sempre auspicato, si era da ultimo incarna-
to; e dunque, esauditi i suoi voti, poteva anche riposare pacificato e soddisfatto
di non aver patito, ‘squillato’, ‘abbaiato’, insomma vissuto invano.704 Oppure, al
contrario, perché la sua profezia anche stavolta si era rivelata sbagliata, e il Del-
fino era un’altra sirena ingannevole: le stazioni della marcia trionfale dell’‘Eclo-
ga’ sono solo ‘poesia’, cioè ennesima cortese dissimulazione di un esule nei con-
fronti della Monarchia che l’aveva ospitato e spesato; l’amara realtà è invece
contenuta in un oroscopo in ‘prosa’, almeno così come lo ha trascritto un ano-
nimo, riportato, anche fotograficamente [doc. 9], da Lerner: “Erit puer ille [=
Luigi XIV] luxuriosus sicut Henricus quartus, et valde superbus. Regnabit diu,
sed dure, tamen feliciter. Desinet misere et in fine erit confusio magna in Reli-
gione et in Imperio”. Delle tante ‘mirabilia’ annunciate dall’‘Ecloga’, non re-
sterà altro che un nome (ironia o potenza della sorte?), il nome con cui l’Euro-
pa ricorderà questo Luigi: “Le Roi Soleil”.
703
Sorvoliamo sulla fugace profferta fatta poco tempo prima all’Eminenza grigia: “Civitas so-
lis, per me delineata ac per te [= Richelieu] aedificanda… splendescat semper” (Lettere, p.
374).
704
“Tre canzon, nate a un parto / da questa mia settimontana testa, / al suon dolente di pen-
sosa squilla, / ch’ostetrice sortilla, / ite al Signor… Né sia chi rieda a darmi altra novella /
dal Rettor delle sfere / che ‘l fin promesso dell’istoria bella / (sia stato falso o vero il mes-
saggere), / cantando: – Viva, viva Campanella! –” (75, Madr. 9, 1sg).
702 LA CITTÀ DEL SOLE
stanza era la traduzione di T.160.4-10), forse perché così sarebbe rimasto più
impresso nel lettore, o forse perché dovuto ad una decisione tardiva dell’Au. ri-
spetto allo stato di avanzamento della composizione tipografica del testo, per
cui non aveva più la possibilità di inserirlo lì (84.15) dove sarebbe stato più per-
tinente.
Circa poi la decisione di svelare tale segreto, dopo averne variamente accenna-
to in più occasioni (a partire proprio da T.84.20-3: v. n. 84.15-8), essa può esser
stata presa in seguito al fatto che C., ormai vecchio e libero, non aveva più bi-
sogno di barattarlo con la sua vita e la sua libertà – e forse anche per dimostra-
re che le sue promesse non erano ‘utopiche’. Infatti è almeno dal 1606 che
prometteva nei suoi memoriali di realizzare tutte le principali scoperte attri-
buite ai Solari – dalle mura dipinte ai nuovi tipi di finimenti, dai carri a vela al-
le navi senza vele –, “per levar la macchia che mi fu data nel Santo Officio”,
cioè il processo per eresia del 1600.705 Ma l’accoglienza riservata alle sue pro-
messe invenzioni, se e quando ci fu, dovette essere quantomeno diffidente, co-
me testimonia questa lettera dell’11 agosto 1606 di Deodato Gentile, vescovo
di Caserta, al Cardinale Arrigoni, commissario dell’Inquisizione romana,706 a
cui C. aveva consegnato “un foglio scritto di sua mano d’appellatione et di mol-
te pretensioni”: riferendosi dunque a questo documento, scrive che “e’ vorria
uscir da quelle carceri promettendo castelli in aria, e gran cose, sì bene non
manco io da questo istesso suo scritto andar subodorando alcuni vestigii di
quell’empietà ch’ho sempre gagliardamente suspicato non tenghi rinchiusa
nell’animo”.
Il primo sistema, alquanto ingenuo, consisterebbe nel soffiar aria alle vele con
una grossa ventola (‘flabello’ è un ampio ventaglio: “contro la mancanza di
vento costruiamo ventagli e flabelli” [Astrol. VII II, p. 2]); Telesio stesso l’avreb-
be sconsigliato, perché “se qualcuno spinge la nave dall’esterno appoggiando-
si all’albero o a qualsiasi sua altra parte, la muove con poca fatica; al contrario,
se costui che vuol far ciò si trovasse sulla stessa nave, non la smuoverebbe nean-
che se a spingere fosse lo stesso Tizio o a soffiare dalla stessa nave fosse Borea,
anche se questi potesse soffiare nel modo come lo dipingono i pittori quando
lo ritraggono nell’atto di soffiare. Poiché, sia che emetta il soffio leggermente
e sia che lo emetta così forte da produrre un vento enorme, non riuscirà mai a
smuoverla; perché certamente, affinché uno possa spingere e muovere un’al-
tra cosa, è necessario per primo che si appoggi a qualche sua parte, e di poi an-
che che questa parte stia ferma rispetto a qualcosa di esterno” (V, 18 [II, p.
319]); ma secondo C., ciò “è possibile, s’i molini col vento e li spiedi col fumo
si voltano… contra il giudizio di tutta l’antichità” (Lettere1, p. 62). Il secondo,
ingegnoso invece, si basa su tre principi in possesso della tecnologia del tempo,
e anzi alla portata anche di un profano come C.: a) il principio della ruota a pa-
705
Lettere, p. 28; Lettere1, pp. 24 (cit.: v. n. 72.9) e 62, dove però tali invenzioni non vengono
garantite per certe, ma solo come “probabili”.
706
Pubblicate da V. Frajese in ‘Studi storici’ XL [1999], ma qui riprese da Ernst 1999a, p. 488.
COMMENTO AL TESTO 703
* I nomi propri, di persona o di cosa, reale o immaginaria (esclusi: quelli Solari; ‘Dio’ e ‘Ter-
ra’), sono stati sussunti sotto il corrispondente nome italiano contemporaneo, per evitare
una proliferazione di doppioni; quelli compresi fra <> si riferiscono ad Autori impliciti; i ri-
ferimenti sono: pagina.rigo per Città; pagina.rigo per Civitas.
706 LA CITTÀ DEL SOLE
*
Secondo consuetudine non sono stati schedati i nomi di Dio e dell’Autore (= Campanella,
<campan->).
Fra parentesi quadre si riportano essenziali indicazioni biografiche dei soli ‘minori’ (desun-
te da IBB, DBIt e da dizionari enciclopedici generali - Treccani, prevalentemente -, e speciali-
stici, nonché da Internet), e/o eventuali loro menzioni nelle opere campan.; fra parentesi
tonde gli estremi anagrafici (esclusi gli autori novecenteschi), in cui non si indica il riferi-
mento convenzionale avanti/dopo Cristo, perché evincibile dall’ordine delle date; nei casi
invece di un riferimento al solo secolo [= ‘s.’] o della mancanza di un estremo biografico, so-
no specificati solo quelli avanti Cristo [=‘a.Cr.’], sottintendendo che gli altri appartengono
all’era volgare.
I nomi propri in corsivo si riferiscono a personaggi mitici o immaginari. Il n° di pag. posto fra
parentesi rinvia a menzioni dell’opera principale, da cui si ricava l’autore (vale solo per Dan-
te, Boccaccio, Rabelais). Sono state schedate anche le voci costituite dall’aggettivo derivato
dal cognome dell’autore, che è stato riportato congiuntamente al cognome principale rac-
chiuso fra <> (es.: Ovidio <ovidian->).
La ‘n’ sta per ‘nota’: ‘57 e n’, ad es., significa che l’occorrenza si trova sia nel testo che in no-
ta di p. 57; ‘57n’ l’occorrenza è solo in nota; invece la ‘n’ in esponente, che a volte si trova af-
fiancata all’ultima notazione di pag., indica il rinvio al corrispondente numero della nota
presente nella ‘Bibliografia’ di questo volume; quindi ‘57n’ rivia alla nota n° 57 della Biblio-
grafia.
710 LA CITTÀ DEL SOLE
trium conclusionum difese la sua or- 288, 295, 314, 326-7, 414, 417, 430-
todossia contro TORQUEMADA] 1, 473.
(?1400-55): 494n. AGOSTINO <agostinian->, Aurelio
ACCATTATIS, Luigi (1838-1916): 405n. [Santo] (354-430): 23, 25, 61, 109,
ACCETTO, Torquato [napoletano; il 117, 145, 149, 164, 166, 168, 171,
suo Della dissimulazione onesta 189, 223n, 248, 251n, 254, 256-62
(1641) è allineato con la morale (passim), 274-6 e n, 290, 300-1,
controriformista] (prima metà 309n, 311-3, 330, 336, 341n, 347,
XVII s.): 291n. 377, 380-1, 386, 394, 396, 398n-9,
ACCIETTO-GUALTIERI, Maria Giovanna: 406, 409, 413, 429-30, 433n-4, 446,
300, 549, 609, 624-5. 477, 478 e n, 480, 496 e n, 500, 507,
ACETI, Tommaso [cosentino, vescovo, 512, 518, 549n-50n, 552, 556, 558-
arcade] (1687-1749): 600. 60, 564, 566, 575, 577, 581n, 587-
Achille [eroe omerico]: 71. 90, 592, 597-8, 604, 606-9 e n, 614-
ACHITOFEL [nativo di Gilo, ministro di 5, 631, 634n, 637, 650, 652-5, 658,
re Davide, poi lo tradisce] (?-1033 679, 40n.
a.Cr.): 61. AGRICOLA, Georg [G. Bauer, detto A.;
ACOSTA, José de [missionario in Ame- cit. in Syntagma II II] (1490-1555):
rica Latina, autore di una Historia 239, 330.
natural y moral de las Indias, 1590] AGRIMI, Jole: 558.
(?1539-1600): 174n, 275, 376, 430,
AGRIPPA <menenioagrippian->, Mene-
659.
nio (V s. a.Cr.): 214, 320, 386,
ACQUAVIVA, Rodolfo [gesuita, missio-
439n.
nario e martire in India, fu beatifi-
AGRIPPA di Nettesheim, Heinrich Cor-
cato] (1550-83): 271.
nelius [cit. come falso mago in Syn-
ADAMI, Tobia (1581-1643): XI, XVIn,
225n, 240, 519 e n, 570 e n, 578, tagma II II] (1486-?1535): 209n,
677. 466, 549n.
Adamo [mitico progenitore]: 61, 210 Ahura Mazdah [divinità suprema del-
e n, 221, 232, 297n, 309n, 313, lo zoroastrismo, religione dell’Iran
329n, 337, 389, 393, 417, 444, 490, preislamico]: 202.
578n, 593-6, 603, 653, 680n-1n. AKBAR (1542-1605): 21, 270-1 e n, 516.
ADELARDO [Aethelhard] di Bath ALBATEGNIO [al-Battani, astron. ara-
(?1070-?1160): 525n. bo] (858-929): 679 e n.
ADELE di Blois [o di Champagne, regi- ALBERGATI, Fabio [letterato bologne-
na di Francia] (?-1206): 231n. se, legato pontificio; nei Discorsi po-
Adolfo = v. GUSTAVO A. litici (Roma, 1602) confuta la Répu-
Aegeria = v. Egeria blique di BODIN] (1538-?1606): 253,
Aemilianus = v. EMILIANO 276, 298, 440.
AGATOCLE [tiranno di Siracusa] (317- ALBERTI, Leon Battista (1404-74): XL-
289): 638, 639 e n. VIIIn, 41, 183-4, 188n-9, 191, 194,
AGAZZI, Alberto: 186, 210n. 196-7, 199 e n, 207-8, 238, 240, 253-
AGGEO [profeta ebreo] (VI s. a.Cr.): 4, 293, 330-1, 341, 381, 404, 419,
131, 157 [pseudo-A.], 545, 673, 681- 441, 484, 506, 572n, 599, 656.
2 e n. ALBERTO Magno [Albertus] (1193-
AGOSTINI, Ludovico (1536-1609): 196, 1280): 180 e n, 241, 247 e n, 248-9,
NOMI DI PERSONA PRESENTI NEGLI APPARATI 711
251n, 324n, 333, 341, 358, 367n, [Purg.]), 212, 218, (233 [purgato-
452, 553n, 557, 574, 608n, 658-9. riali]), 256, 319, 337, 366, 495n,
ALBOHAZEN [Haly Abenragel, astrol. 558, 566-7, 578, 595, 697.
originario della Tunisia, attivo in- ALKINDI [al-Kindi, iracheno, è consi-
torno al 1040]: 352n. derato il primo filos. musulmano,
ALBUMASAR [filos., medico e astrol. af- la cui op. più famosa in Occid. è
gano; il suo De magnis coniunctioni- Sull’intelletto] (801-?873): 602, 685.
bus fu tradotto in latino nel XII sec. ALMEIDA, Lorenzo de [figlio di Franci-
da Giovanni da Siviglia e più volte sco; portoghese, scopritore moder-
rist. fino al XV s.; è ora disponib. no di Ceylon] (?-1508): 179.
l’ed. crit. a c. di Yamamoto e Bur- ALSTED, Johann Heinrich [teol. prote-
nett (Leiden, 2000)] (?772-886): stante; nel Tractatus de mille annis
200, 344n, 360, 531, 600, 602, 621, apocalypticis (1626) sostiene che il
684-5. regno di CRISTO avrebbe avuto ini-
Alcina [person. dell’Orlando Furioso]: zio nel 1694] (1588-1638): 220n,
177. 225n.
ALDOBRANDINI, Tommaso [tradutt., Altaselva = v. GIOVANNI di A.
menzionato nel 1568-94]: 43n. Altomonte [person. dell’Orlando Furio-
ALDROVANDI, Ulisse [cit. in Syntagma II so]: 374.
II] (1522-1605): 242, 244, 249,
ALVAREZ, Pedro [esploratore] (1478-
341n.
?): 446, 660.
ALESSANDRO di Afrodisia [filos. peri-
Alvis [presunto interlocutore di ZE-
patetico, attivo tra il 198 e il 211]:
NONE di Elea]: 635.
368, 460 e n, 554, 564, 576n, 74n.
AMABILE, Luigi (1828-92): XIn, XII,
Alessandro di Tralles = v. TRALLIANO
252n, 263 e n, 338, 400n, 486n,
ALESSANDRO Magno (356-323): 171n,
212, 257, 263, 271, 303, 317n, 371, 515n, 600n, 602, 694.
374, 376, 379, 391-2, 409, 445, 481, Amazzoni: 63, 151, 163, 394, 402, 403 e
540, 660n, 671. n, 659, 660 e n.
ALESSANDRO POLIISTORE [erudito di AMBROGIO <ambrosian-; pseudo-A.>
Mileto, vissuto a Roma nel I s. [Sant’] (330-97): 15, 35, 171n, 175,
a.Cr.]: 410. 179, 188, 222, 233, 247-8, 250, 274,
ALESSANDRO V (Pietro di Candia, papa 303, 337, 376, 379, 387n, 391, 395,
nel 1409-10): 668. 397, 409, 430, 433, 445, 448-9, 453,
ALFONSO X il Saggio [re di Castiglia e 475, 479-80, 484n, 498n, 549n, 560,
di Leon; nel 1252 furono raccolte 566, 589, 604, 621n, 625, 631, 653,
dagli astronomi di corte le ‘tavole 655, 673, 28n.
alfonsine’] (1221-84): 344n, 537, AMBROSINI, Bartolomeo [medico, filo-
679, 62n. sofo] (?1588-1657): 249, 341-2n.
ALFRAGANO [o: Alfragani; Alfergani; AMELIO, Gianni: XII.
Al-Farghani; cit. in Syntagma II VI] AMERIO, Romano: XVIIn, XXIIn, 71,
(?-820): 208, 567. 171, 188, 196, 209n, 220 e n, 225n-
ALÌ [genero di Maometto] (?600-61): 6, 260, 262n, 271, 289, 294n, 306,
667. 322n, 334, 348, 360, 392, 396n,
ALIGHIERI, Dante <dantesc-> (1265- 400-1, 403, 422, 427, 430, 465n,
1321): 105, 178, 179 e n, 195, (203 486n, 488-9n, 497n, 500n, 508,
712 LA CITTÀ DEL SOLE
537, 544, 579, 594n, 605, 610, 633, Aquinate = v. TOMMASO d’Aquino
635n, 642n, 658, 667, 18n, 34n, 71n. ARATO [poeta greco di Soli in Cilicia,
AMIDA [su Amida/Buddha cfr Maffei, cit. in Disp. in Bullas (OA, p. 236)]
II, p. 262-3] (?565-486): 202, 255, (?320-dopo 240): 257, 466, 609.
491, 509. ARATO, Franco: 171n.
AMILCARE Barca [padre di ANNIBALE] ARBACE o ARBACTES [leggendario ge-
(270-28): 420n. nerale dei Medi, rivoltatosi contro
AMMIRATO, Scipione (1531-1601): SARDANAPALO, avrebbe espugnato
165n. Ninive nel 612 a.Cr.]: 639.
Ammone [divinità egizia]: 257. ARCHELAO [ateniese, maestro di SO-
AMORETTI, Carlo [agostiniano, biblio- CRATE] (V-IV s. a.Cr.): 572n.
tecario dell’Ambrosiana] (1741- ARCHELAO [re dei Macedoni dal 413
1816): 506. al 399, sospettato da ARISTOTELE di
ANASSAGORA <anassagore-> (499-428): soffrire di malinconia, a causa dei
549-50. suoi audaci interventi nei fatti di
ANDREÄ, Johann Valentin [amico di Sparta e Atene]: 639-40.
ADAMI; pastore luterano, moralista, ARCHIMEDE (287-212): 236, 541.
autore della Reipublicae Christiano- ARCHITA di Taranto [scienz. e filos. di
politanae Descriptio (1619)] (1586- scuola pitagor. della prima metà
1654): XII, XXIII, 225 e n, 237. del IV s. a.Cr.]: 541.
ANDREOTTI, Davide Loria (XIX s.): 51. ARDOINO, Giovan Battista [poeta co-
ANGELINI, Massimo: 435n. sentino del XVI s.]: 405n.
Anghiera = v. PIETRO Martire d’A. Ares: v. Marte
ANGIULI, Vito: 495n. ARETINO, Pietro (1492-1556): 661.
ANNA d’Austria [o d’ASBURGO, regina ARIOSTO, Ludovico (1474-1533): 71,
di Francia] (1601-66): 617. 177, 186, 382, 578, 616, 661 e n.
ANNIBALE (246-183): XLIVn, 63, 263, ARISTARCO (III s. a.Cr.): 115, 157, 238,
420 e n. 541-2, 681.
Annius = V. NANNI ARISTIDE, Elio [retore greco] (?129-
ANSELMO d’Aosta [filos e teol., Santo] 199): 190.
(1033-1109): 635. ARISTOFANE (?445-?385): XIV.
ANTONIO da Padova [Santo, france- ARISTONICO [fratellastro di Attalo III
scano, portoghese, autore di nu- di Pergamo; promotore di una ri-
merosi sermoni] (1195-1231): 305. volta antiromana fu sconfitto e poi
Antonio della Mirandola = v. BERNAR- ucciso] (?-128 a.Cr.): 165.
DI, A. ARISTOTELE <aristotelic-> (384-322):
ANZALDI, Antonino: 483. XIV, 21, 23, 25, 51, 61, 95, 105, 125,
APIANUS, Pietro [Peter, geogr. e 127, 141, 145, 180-4n (passim), 187-
astron.] (1495-52): 535n. 8, 190, 207, 210n, 213-4, 219n, 224,
Apollo [divin. pagana]: 253-4, 258-9, 226, 230, 242n, 249-50, 253, 260-1,
375, 441, 556. 266-8, 274n, 276-8 e n, 282-3n, 286,
APOLLODORO [filol. greco; la sua ope- 289, 293-4, 298, 301, 303-6 e n, 310-
ra Sugli Dei è ricca di notizie mito- 1, 316, 318, 321, 327, 330, 333 e n,
logiche] (?180-?115): 262. 338-41n, 352, 363, 368, 370-1, 377-
APOLLONIO di Perge (III s. a.Cr.): 119, 8, 384, 386-7 e n, 394, 399 e n, 402-
409-10. 3 e n, 407n, 414, 424, 426-31 e n,
NOMI DI PERSONA PRESENTI NEGLI APPARATI 713
ni, papa nel 1592-605]: 109, 275, CORONELLI, Vincenzo Maria (1650-
277, 577, 641, 642n. 1718): 220n.
Codro [mitico re di Atene]: 259, 401. CORSALI, Andrea [esploratore] (1480-
COHEN-SAFIR, Claude: 322n. 1540): 173, 175-6, 438, 446n, 667.
COHN, Norbert: 214. CORSANO, Antonio: 323n, 553n.
COLLO, Paolo: 174n. CORTÉS, Hernan [Cortese, Cortesius]
COLOMBO, Cristoforo (1451-1506): (1485-1547): 159, 178, 494, 512,
135, 159, 170 e n, 171, 173n-4n, 664, 666, 676.
178, 182, 314, 496n, 542, 611-2, CORTESE, Giovan Battista di Pizzoni
615, 664. [confratello e amico di C. a Nica-
COLONNA, Francesco (?1432-?1527): stro, promotore della congiura,
71, 194, 199n. morì in seguito alle torture nel car-
COLUMELLA, Lucio Giunio Moderato cere napoletano] (1564-1601):
[spagnolo del I s.; di lui ci resta il 600n.
più completo trattato antico di CORTESE, Giulio [sacerdote e astrol.
agricoltura, il De re rustica]: 330, napoletano] (?1530-1598): 690 e n.
433n, 679. Corvino: v. MATTIA C.
COMENIO [Komenskj, Jan Amos] COSIMO I de’ Medici (1519-74): 164-5.
(1592-1670): XII, 225 e n. COSTANTINO l’Africano [medico della
Comestore: v. PIETRO C. Scuola Salernitana, benedettino,
COMMANDINO, Federico [o Comandi- tradusse a Montecassino molte
no, medico e matem. urbinate] opere greche di medicina] (XI s.):
(1509-75): 525n, 541. 452, 470.
COMPARETTI, Domenico (1835-1927): COULIANO [CULIANU], Ioan Petru:
233. 230n, 269n.
CONTE, Gian Biagio: 15, 178, 327. COUZINET, Marie-Dominique: 369n.
CONTI ODORISIO, Ginevra: 317n, 661. CRAHAY, Roland: XLI e n, XLII-III,
CONTI, Niccolò dei [esploratore] (?- XLIVn-VIn, XLVII e n, XLVIII-L,
1469): 111, 173n, 247, 298, 409, 23, 73, 95, 99, 111, 123, 135, 139,
448, 458. 149, 172, 198, 200, 207, 209n,
CONTINI, Gianfranco: 567. 212n, 236, 251, 260n, 265, 324n,
COOKE, Brett: 327. 459, 476, 504n, 506, 513n, 516,
COPERNICO <copernican->, Niccolò 607-8, 613n, 617, 638, 658-9n,
[Nikolaj Kopernik] (1473-1543): 663n, 670.
87, 115, 117, 119, 131, 157, 294, CRANACH, Lucas il Vecchio (1472-
442, 519 e n, 520n, 526-7n, 532-44 1553): 599.
e n, 558, 561-3, 570 e n, 571, 583, CRASSO, Marco Licinio (?115-53): 613.
585 e n, 640, 673, 679 e n, 681-2, CRATES o CRATETE di Mallo [filos. stoi-
684-5, 693-4. co, capo della scuola di grammati-
CORIOLANO, Gaio Marcio (V s. a.Cr.): ca di Pergamo, trasferitosi a Roma
67. intorno al 168 a.Cr.]: 448.
CORISCO [di Scepsi nella Troade, di- CRESO [ultimo re della Lidia] (?560-
scepolo di PLATONE, che gli invia la ?546): 501n.
VI Epistola]: 590. CRISIPPO di Soli [secondo fondatore
Cornelio = v. AGRIPPA della sc. Stoica] (281-?204): 371n,
CORNELIUS, Paul: 239n. 576n.
NOMI DI PERSONA PRESENTI NEGLI APPARATI 721
610 e n, 611, 616, 618n-9, 625, 628- 339): 184, 256, 260, 262, 273, 325,
30, 633, 638, 641-51n (passim), 655, 338, 396n, 403, 507, 559, 650.
657n, 659, 661-2n, 665, 676 e n, EUSTACHI, Bartolomeo [o Eustachio;
677n, 690n-1, 698, 699 e n, 702n, anatomista] (?1500-74): 607.
5n, 12n, 15n. Eustatio: [uno degli interlocutori dei
ERODOTO (484-428): 191, 247, 251n, Saturn. di MACROBIO]: 459n.
259-60, 390n, 409, 431, 441, 448, EUTIMO di Locri [pugile greco, vinci-
546n. tore per tre volte a Olimpia dal 484
ESAÙ [figlio di Isacco e Rebecca, ca- al 474, ricevette un culto eroico]:
postipite degli Edomiti]: 631. 512n.
Esculapio [nome lat. del dio greco del- Eva [mitica progenitrice]: 313, 337,
la medicina Asclepio]: 479. 578n, 681n.
ESDRA o Ezra [profeta del V s. a.Cr.]: EVAGRIO <evagrian-> Pontico [scritt.
612, 680. greco crist. che influenzò la spiri-
ESIODO (VII s. a.Cr.): 71, 433-4, 551, tualità monastica orient.] (?346-
599. 399): 485n.
ESTIENNE, Henri [parigino; figlio di EVEMERO (IV s. a.Cr.): 254-5.
Robert, filol. e umanista, è il più EVOLI, Cesare d’ [capitano, matem.,
celebre degli stampatori degli letterato, filos.] (1532-98): 193.
Estienne] (1528-98): 257. EZECHIELE [profeta ebreo del VI s.
a.Cr.]: 189, 194, 203, 231, 426, 509,
ESZER, Ambrosius: 645n.
655.
Etalide [figlio di Ermes, dotato dal pa-
dre di straordinaria memoria]:
FABIO MASSIMO, Quinto [generale ro-
413.
mano detto il ‘Temporeggiatore’]
EUCLIDE (III s. a.Cr.): 236.
(?275-203): 374.
EUDES DE L’ETOILE [Eudo o Oddone FABRI DE PEIRESC, Nicholas-Claude
De Stella, nobile bretone divenuto [erudito cosmopolita, umanista e
predicatore itinerante in rotta con filosofo, ospitò C. a Aix nel novem-
la Chiesa che lo arrestò nel 1148 e bre 1634] (1580-1637): 169.
in quello stesso anno morì]: 214. FABRIZI o FABRICI[US], Girolamo di Ac-
EUDOSSO di Cnido [matem. e astron. quapendente [chirurgo e docente
greco, che ipotizzò un cosmo a sfe- a Padova] (?1533-1619): 457.
re omocentriche] (?400-?347): FABRY, Nathalie: XXIn.
526, 562. FAILLA, Pietro Giacomo [o Favilla, for-
Euforbo [eroe troiano, ucciso da Me- se calabrese, allievo di C. nel 1612,
nelao; reincarnazione di ETALIDE, rimastogli amico fino agli anni pa-
secondo una tradizione pitagorica rigini]: 630n.
riferita da DIOGENE Laerzio]: 413. FALCONE, Giuseppe (XIX s.): 405n.
EUGENIO III [discepolo di S. BERNAR- FALCONER, William Armistead: 38n.
DO, papa dal 1145 al 1153]: 292. FALLISI, Joe: 599, 670n.
EURILOCO [allievo del filos. Pirrone; FALLOPPIO, Gabriele [chirurgo e ana-
di un suo improvviso accesso d’ira tomista] (1523-42): 607.
accenna DIOGENE Laerzio (IX, 68)] FANTI, Sigismondo [poeta, filos., ma-
(IV-III s. a.Cr.): 466. tem., menzionato nel 1526]: 229n.
EUSEBIO vescovo di Cesarea (265- Faracovi = v. POMPEO F.
NOMI DI PERSONA PRESENTI NEGLI APPARATI 725
377, 383-4, 413, 415, 439, 445 e n, 498n, 507, 533, 538, 547, 553, 560,
449, 453, 462, 473, 478, 481-3n, 563, 573 e n, 582 e n, 585n, 598,
507, 513 e n, 516, 545, 556-7, 577, 600, 604, 608-9, 614, 628, 652, 655,
597, 608, 621, 637, 649, 48n, 50n. 678-9.
Giambulo = v. IAMBULO GIOVANNI DAMASCENO [Santo, padre
GIANCOTTI, Francesco: 87, 188, 239n, della Chiesa in lingua gr.] (675-
258n, 263n, 357, 412n, 539n, 558n, ?750): 103, 143, 207, 222n, 229,
608n, 614n, 633n, 671n. 274, 300, 328, 396, 409, 413, 431n,
GIANNANTONI, Pompeo: 29n. 449n, 483n-4n, 512, 537n, 545,
GIGLI, G. (XVII s.): 647n. 549n, 559-60, 564n, 566, 590 e n,
GIGLIONI, Guido: 341n, 343 e n. 592, 614, 631, 652.
GIL, Juan: 174n, 179n. GIOVANNI DI ALTASELVA [Jean de Haut-
GILLES, Pierre [naturalista francese] seille, monaco cistercense lorene-
(1490-1555): 161, 239, 271, 291n, se, che nel 1184-5 traduce il Dolo-
398n, 411, 437. pathos]: 233.
GILSON, Etienne: 300n. GIOVANNI DI DIO [João Ciudad Duar-
GINZBURG, Carlo: 578 e n. te; sac. portoghese, fondatore degli
GIOACCHINO <gioachimit-> da Fiore Ospedalieri; Santo] (1495-1550):
[cit. spesso da C. per i suoi scritti 167-8.
profetici] (1130-1201): XXIIn, GIOVANNI EVANGELISTA [San]: 186,
329, 415, 556, 590, 600n, 602, 615, 309n, 329n, 376, 382, 396, 614.
679-80. GIOVANNI GARBELLA da Vercelli [do-
GIOBBE [patriarca veterotestamenta- menicano, Maestro dell’O.P.] (ini-
rio, o forse solo mitico prototipo di zi XIII s.-1283): 627.
uomo giusto]: 256, 575. GIOVANNI LIDIO [Joannis Laurenti Ly-
GIOIA, Flavio [leggendario amalfitano di, bizantino del VI s., autore del
del XIII-XIV s. inventore della bus- Liber de Ostensis]: 301.
sola]: 665. GIOVANNI XXIII [Angelo Roncalli, pa-
GIOSUÈ [condottiero ebreo del XIII s. pa]: 400.
a.Cr.]: 149. GIOVANNINI, Girolamo [Gioannini da
GIOVANNA I e II d’Angiò (1326-82, re- Capugnano, domenicano] (?-
gina dal 1343; 1371-1435, regina di 1604): 641.
Napoli dal 1414): 661. Giove [suprema divinità dell’Olimpo
GIOVANNI [abate, beato; d’incerta pagano]: 131, 212, 241, 253-4, 255
identificaz.: incluso nella raccolta e n, 257-9, 409, 443, 489, 491, 514,
di pronostici sui Pontefici del GIO- 545, 551n, 598 e n, 599, 614.
VANNINI (De Summ. Pontificibus, a GIOVENALE, Decimo Giunio (?50-
Martino Quinto usque ad Antichri- ?140): 516.
stum, cc. 19r-24r)]: 641-2, 680. GIOVIO, Paolo (1483-1552): 249, 667,
GIOVANNI <giovanne-> BATTISTA [San] 31n, 51n.
(?7 a.Cr.-30 d.Cr.): 669, 680n. GIQATILLA Yosef ben Avraham [uno
GIOVANNI CRISOSTOMO [padre della dei protagon. della qabbalah spa-
Chiesa in lingua gr.; Santo] (?345- gnola; vissuto a Segovia, si occupò
407): 111, 185 e n, 260, 274, 286, del simbolismo dei nomi di Dio e
309 e n, 335, 337, 374, 379-80n, delle sephirot] (1246-?1325): 363.
397, 417n, 432, 449n, 466, 480, GIROLAMO [San] (?347-420): 123, 259,
NOMI DI PERSONA PRESENTI NEGLI APPARATI 729
408-9, 434, 444, 516, 547, 550n, GREGORIO NISSENO [Santo; padre del-
567-8, 574-5, 581, 608n-9, 655. la Chiesa di lingua gr.] (?335-95):
GIROLAMO da Praga [riformatore, dif- 407n, 452.
fusore delle tesi di WYCLIFF in Boe- GREGORIO XIII <gregorian-> (Ugo
mia, arso sul rogo insieme ad HUS] Boncompagni, papa nel 1572-
(?1365-1416): 668. 1585): 468n, 470, 538 e n, 682n,
GIUDA [progenitore del regno ebrai- 687.
co] (VI s. a.Cr.): 193. GREGORY, Tullio: 564n, 632n.
<giulian-> = v. CESARE GRIFFERO, Tonino: 341-2n, 363.
GIULIANO, Flavio Claudio, detto l’A- GRILLANDO, Paolo [giurista abruzzese,
postata [imperatore, nipote di Co- giudice a Roma, attivo nella prima
stantino] (331-63): 263, 443. metà del XVI s., cit. in Apol. ad lib.,
GIULIO II [Giuliano della Rovere, pa- p. 317]: 297n.
pa nel 1503-13]: 513n. GRILLO, Francesco: 647.
GIUSEPPE FLAVIO (?37-103): 203n, 470, GROS, Pierre: 72n.
482, 516, 567, 656. GROZIO, Ugo [Huig van Groot, uma-
GIUSTINO [Santo; scrittore greco, mar- nista e giurista olandese] (1583-
tire] (?100-165): 202, 259-60, 395, 1645): 539.
503, 546n, 573, 660. GUAINERIO, Antonio [medico e farma-
GOELZER, Henri: 149. cologo, poi docente a Pavia dove
Gog [bestia dell’Apocalisse]: 668.
morì intorno al 1440]: 466.
Golia [gigante filisteo sconfitto dal pa-
GUALTERUZZI <gualteruzzian->, Carlo
store Davide]: 427.
[letterato di Fano, esecutore testa-
GONZALES de Silveyra (XVI s.): 151.
mentario del BEMBO] (1500-77):
GORETTI, Paola: 53.
236.
Gorostiola = v. MARTOS DE G.
GOTHEIN, Eberhard: 678. Gualtieri = v. ACCIETTO G.
GUANZELLI, Giovanni Maria [da Brisi-
GRAN MOGOL [o Mogor: Zahir al-Din ghella, predicatore domenicano,
Muhammad, della dinastia Mo- vescovo di Polignano, mise all’Indi-
ghul discendente di TAMERLANO, ce i libri di BRUNO e C. (1603)]
regnante in India dal 1526]: 270, (?1557-1619): 657.
664. GUERRINI, Luigi: XIn, 239, 616, 647,
GRANGER, Frank: 72n. 4n.
GRASSI, Liliana: 325. GUEVARA, Antonio de (1480-1544):
GRAVES, Robert: 71, 660. 254, 262, 288, 371, 382, 437.
GRAZIANO [monaco camaldolese, Guglielmo di Conches = v. THIERRY DE
maestro a Bologna, autore del Con- CHARTRES
cordia discordantium canonum (o De- GUIDONI MARINO, Angela: 332.
cretum Gratiani) del 1140] (XII s.): GUIDORIZZI, Giulio: 262n.
58, 230, 394, 492, 608. GUNDEL, Wilhelm: 52n.
GREGORIO I Magno [Santo; papa] GUSTAVO II [G. Adolfo di Svezia]
(?540-604): 230, 514, 655. (1594-1632): 145, 170, 640, 699.
GREGORIO NAZIANZENO [Santo; padre GUZZO, Augusto: XXIIn.
della Chiesa di lingua gr.] (329-
90): 512. HAACK, Theodore [rectius HAAK, letter.
730 LA CITTÀ DEL SOLE
MOLINA, Luis de [teologo gesuita spa- 551, 567, 597, 666, 683, 688, 694,
gnolo] (1536-1600): 633 e n. 62n.
MOLLIA, Franco: 192, 196. Mosè Maimonide = v. MAIMONIDE
MOLZA, Camillo [conte di M., residen- Mostro (padre) = v. RICCARDI N.
te di Modena a Roma, letterato] (?- MOTTA, Uberto: 304n.
1631): 644. MUCCILLO, Maria: 622, 18n.
MOLZA, Francesco Maria [poeta mo- Muller = v. REGIOMONTANO
denese] (1489-1544): 661. MUNSTER, Sebastian [Sebastiano Mun-
MONET, Claude: 1n. stero, umanista ed erudito tedesco,
MONETI CODIGNOLA, Maria: 79. geografo] (1488-1552): 238, 468.
MÖNNICH, Michael W.: 369n. MURATORI, Ludovico Antonio (1672-
MONOMOTAPA [o Monopotapa, nome 1750): 308, 678.
di un sovrano africano del XVI s.]: MURESU, Gabriele: 492n.
151, 659 e n, 660, 51n. MUSEO [poeta greco del V s. autore
MONTAIGNE, Michel Eyquem de del poemetto Ero e Leandro]: 551.
(1533-92): 341n. MUSSO, Cornelio [predicatore, lette-
MONTI, Vincenzo (1754-1828): 405n. rato] (1511-74): 167.
MONTONERI, Luciano: 50n. MUSTACENO (ultimo sovrano mussul-
MORANDI, Orazio [abate di Santa mano persiano del XIV s.): 667.
Prassede] (?1570-1631): 644.
More = v. MORO NABOD, Valentin [prof. di matem. a
MORETTI, Gabriella: 615. Colonia, soggiornò a Padova; nel
MORINO, Alberto: 208. 1560 pubblicò l’Enarratio elemento-
MORLEY, Henry (XIX s.): XII. rum astrologiae, influenzato da Alca-
MORO <morean->, Tommaso [Tho- bizio e TOLOMEO] (1527-93): 566.
mas More; Santo] (1477-1535): NALLINO, Carlo Alfonso [studioso to-
XII, XIV, XV, XXIII, 23, 79, 89, rinese dell’Islam, tradutt. dall’ara-
133, 161, 169, 171 e n, 176-81, 184, bo in latino dell’Opus astronomicum
189, 194, 197, 207, 210n, 239, 264- di ALBATEGNIO] (1872-1938): 353n.
5, 269, 271, 275-6, 278, 291n-6 (pas- NANNI, Giovanni [ps. di Annius o
sim), 298, 303, 310, 313-4, 325-30 e Nannius, cit. da C. nei Processi (pp.
n, 333, 338, 363, 371-2, 376, 379, 130 e 200); domenicano, teologo e
381, 383, 385, 387, 389-91, 397n-8, orientalista viterbese, curò le Anti-
403-4, 411, 414-6, 419-20, 422, 426, quitatum variarum volumina XVII di
428, 430-1, 472, 481, 500n, 505-6, BEROSO, comprendenti frammenti
508, 513, 516, 538, 580n, 605, 631, e testi storici a suo dire antichissi-
56n. mi, ma in realtà frutto di abili falsi-
MORPURGO, Piero: 231n. ficazioni (ed. virtuale SNS, Pisa,
MOSÈ [marito della regina etiopica 2006)] (1432-1502): 615 e n, 32n.
CASSIOPEA]: 618. NAUDÉ <naudean->, Gabriel [erudito
MOSÈ <mosaic-> (XIII s. a.Cr.): 9, 103, e bibliofilo, bibliotecario del card.
113, 185, 202-3, 207, 210, 231n, F. BARBERINI nel 1631, quando fre-
237, 248, 250n, 253-255, 256 e n, quenta C. che gli detterà la perdu-
259, 260n-1, 263, 296, 308, 336, ta Vita Campanellae e il Syntagma]
369, 401 e n, 473, 474-5 e n, 480, (1600-53): XVn, 259, 268, 272, 404,
488, 491 e n, 492, 497, 514, 516, 570, 588n, 74n.
736 LA CITTÀ DEL SOLE
1612): 93, 163, 239, 254-5n, 260, gne, teol. domenicano, rettore del-
267n, 338n, 342, 244, 259, 368n-9, l’Università di Parigi] (?-1304):
380, 407n-8n, 409, 440, 445, 449, 352.
452, 458, 469 e n, 470, 475, 556-7, Pietro da Ravenna = v. TOMAI P.
573, 576, 591, 615, 618n, 663, 30n, PIETRO di Nocera [frate domenicano
60n. XVI-XVII s.]: 703.
PETOSIRIDE [ritenuto uno dei ‘prisci’ PIETRO di Tarantasia [savoiardo; si
astrol. babilonesi del VII s. a.Cr.; prodigò per la riunificazione delle
ma il Trattato di Nechepso e P. pare ri- Chiese separate; eletto papa nel
salga ad epoca alessandrina, cioè al 1276 (Innocenzo V), fu beatifica-
II s.]: 650. to] (1224-76): 627.
PETRARCA, Francesco (1304-74): 177. PIETRO MARTIRE d’Anghiera [politico
PETRONILLA [regina aragonese nel e geografo italiano, divenuto cap-
1137-1162]: 661. pellano di ISABELLA di Spagna,
PFISTER, Friedrich: 260n. narrò la storia delle scoperte di CO-
PFLUG, Christoph [nobile sassone, LOMBO] (1457-1526): 173n, 182,
scolaro a Siena, incontrò C. a Ca- 274, 314.
stel Nuovo nel 1603]: 270, 367, PIETRO SIMONE [apostolo]: 177, 188,
439n, 463, 489. 210, 256, 263, 270, 379, 506, 536,
PIAZZI, Alessandro: 260. 547, 552, 554, 617, 619 e n, 620,
Picatrix [v. 62n]: 242, 256, 297, 62n. 672.
PICCIRILLI, Luigi: 65n. PIGAFETTA, Antonio (?1480-?1534):
PICO, Giovanni P. della Mirandola 176.
(1463-94): XLVIIIn, 147, 165n, PIGNATELLI, Tommaso [al secolo Gio-
203n, 208-9n, 216, 250, 301, 343- vanni Francesco P.; domenicano,
4n, 347, 350 e n, 352-3 e n, 355, allievo di C. nel 1623-4, imprigio-
357-8n, 365n, 369n, 446, 472, 509- nato e giustiziato per sospetta con-
10, 531, 545, 551, 565-7, 574, 588n, giura antispagnola] (1605-34):
590n, 598n, 600, 602 e n, 614, 621, 630.
623n, 631, 637, 642, 651, 664, 682 e PINDARO (518-438): 466.
n. PINKUS, Lucio: 464n.
Piemontese = v. RUSCELLI PIO V [Antonio Ghislieri, papa nel
PIER LOMBARDO [teol. novarese, vesco- 1566-72; Santo]: 19n.
vo di Parigi, autore dei Libri quat- PIPINO I il Vecchio [capostipite della
tuor Sententiarum] (?1095-1160): dinastia carolingia] (?580-640):
590. 699.
PIERI, Piero: 422. PIROVANO, Luigia: 196, 312n, 476.
Pierre de la Ramée = v. RAMO PIRRO [re dell’Epiro] (318-272): 63,
PIETRO Comestore <comestorian-> 415.
(sec. XII): 109, 165n, 191n, 194n, PISSAVINO, Paolo: 291n.
197-8, 201, 203n, 256, 262, 434, PITAGORA <pitagoric-> (570-490): 19,
482, 484, 507, 516. 25, 59, 115, 125, 147, 149, 151,
PIETRO d’Abano [medico, docente di 179n, 204, 219, 241, 253, 255-6,
astrol. e medicina a Parigi e Pado- 259-64 e n (passim), 269, 271, 276n-
va] (1257-1315): 180n, 465-6, 30n. 7n, 290, 292, 294, 300-1, 310-1, 323,
PIETRO d’Alvernia [Pierre d’Auver- 327, 338, 358, 382, 384, 394-5, 406,
NOMI DI PERSONA PRESENTI NEGLI APPARATI 739
408-13 e n, 415, 444-6 e n, 453, 462- (204-270): 271, 413, 521n, 556,
3, 473-4, 478, 481-5 e n (pass.), 492, 577, 658, 665.
501n, 507, 513 e n, 527n, 532n, 534 PLUTARCO <plutarchian-> di Chero-
e n, 541, 542 e n, 550n-3, 561, 565, nea [elogiato con qualche riserva
572 e n, 576 e n, 579-80, 590-1n, in Syntagma IV IV] (?50-?120): XII,
597, 599-01, 621, 649 e n, 650-1, 29, 59, 202n, 211, 220n, 256, 259-
655, 656 e n, 673, 58n. 60n, 261, 264n, 268, 292, 312, 325,
PITTALUGA, Maria: 548n. 327-8, 338, 341n-2, 368, 376-7, 389,
Pizzoni = v. CORTESE 391, 403, 409, 415, 421, 424, 430-1,
PLASTINA, Sandra: 170n, 172, 185n. 439, 443, 459n-60n, 481, 541, 575-
PLATEARIUS, Matteo [Plateario, discen- 6n, 597, 639.
dente di Trotula de Ruggero, auto- Poggio = v. BRACCIOLINI
re del De medic. simplicibus, attivo Poimandres [o Pimandro, testo sapien-
nella Scuola Medica Salernitana ziale attribuito a Ermes Trismegisto]:
nella metà del XII s.]: 452, 468, 223, 248, 258 e n, 301, 71n.
470 POLIBIO di Megalopoli (II s. a.Cr.):
PLATONE <platonic-> (427-347): XIV, 419.
XV e n, XVIII, XXIII, 19, 21, 25, POLO, Marco (1254-1324): 208, 418,
59, 63, 81, 105, 109, 131, 133, 166- 423, 67n.
7, 169, 177, 182-4, 187-90, 195, 210 Polono = v. EGIDIO P.
e n, 214, 252-3, 257-78 e n (passim), POMPEO FARACOVI, Ornella: 603n,
281, 290-6, 298, 301-4, 308-11 e n, 648n.
314, 316, 318-22n, 325 e n, 326-8, Pompeo Festo = v. FESTO
330, 333, 338-40, 358, 363-4, 368n, Pompilio = v. NUMA
370-9 e n (pass.), 382n, 387, 389-91, PONTANO, Giovanni o Gioviano (1429-
394, 396n, 400, 402-4 e n, 409, 413- 1503): 522n, 602n.
5, 420-1, 424, 426, 429-31, 439, 443, PONZIO, Dionisio [nel 1586 conosce e
447, 449, 460, 463, 465, 467, 472-84 diventa amico di C. nel convento
e n, 496, 510, 512-3, 516-7, 521n, di Nicastro, di cui diventerà priore;
531 e n, 541, 544-5, 549-61 e n è uno dei capi della congiura; arre-
(pass.), 564, 569, 571-2, 576-7, 580, stato, evade rifugiandosi a Costan-
582, 587, 590, 593, 597-601 e n, tinopoli, dove si fa musulmano e
603, 605, 609, 621, 628, 634n, 650, muore ucciso in una rissa] (?1567-
664, 678, 684, 62n, 64n. 1604): XIV, 263n.
PLAUTO, Tito Maccio (?259-?184): PONZIO, Paolo [XX s.]: 532n, 544,
468. 546n, 573n, 619n, 12n.
Pletone = v. GEMISTO P. PONZIO, Pietro [fratello di DIONISIO,
PLINIO <plinian-> Secondo, Gaio, det- intimo amico e sodale di C., ne rac-
to il Vecchio (23-79): XLVIn, 15, coglie alcune poesie nel carcere,
147, 165n, 173-6, 178, 240-3, 247, da cui fu liberato nel 1603] (1569-
249, 252, 262, 268, 327, 341 e n, ?): XVII, 252n, 337-8n.
361 e n, 433n-4, 448 e n, 452-4, POPKIN, Richard H.: 253n, 492n.
468, 512n, 525n, 565-6, 619, 624, PORCIA [figlia di Catone] (I s. a.Cr.):
679. 59.
PLOTINO <plotinian-> [massimo rap- PORFIRIO <porfirian-> [filos. neoplato-
presentante del neoplatonismo] nico, discepolo a Roma di
740 LA CITTÀ DEL SOLE
nel 1588 il trattato Diverse e artificio- RICCI, Matteo [gesuita, fondatore del-
se machine] (1531-1600): 330. le missioni cattoliche in Cina]
RAMIRO [o Remigio] DE LORQUA (1552-1610): 270, 404 e n.
[maggiordomo e poi luogotenente RICHELIEU, Armand Jean du Plessis
del VALENTINO, fu da questi fatto duca di (1585-1642): 325, 701 e n.
squartare nella piazza di Cesena RIDOLFI, Niccolò [domenicano fio-
nel 1502: cfr Il Principe, cap. VII]: rentino, prima Maestro del Sacro
425. Palazzo e dal 1629 Generale del-
RAMO <ramist->, Pietro [Petrus Ra- l’Ordine] (1578-1650): 642n-4,
mus, Pierre de la Ramée; umanista, 645n, 647, 657.
proponeva una nuova logica antia- Rifeo [person. dell’Eneide]: 595.
ristotelica; fu ucciso nella notte di RIGOTTI, Francesca: 439, 478n, 480.
S. Bartolomeo] (1515-72): 225n. RINALDI, Serafino da Nocera [maestro
RAMUSIO <ramusian->, Giovanni Batti- domenicano, legato da costante
sta [umanista e geografo veneto] amicizia per C., che lo menziona in
(1485-1557): 111, 173n, 175-7, 247, varie lettere] (?-1626): 454.
298, 331, 376, 405, 409, 419, 423, RINALDI, Teresa: 11n.
438, 446 e n, 448-9, 458-9, 478, 509, RINALDIS, Maurizio de [nato a Guar-
590, 612, 660, 663, 667, 677. davalle; capo secolare dei congiu-
RATKE, Wolfgang [alchimista, pedago- rati, fu giustiziato a Napoli] (1572-
gista influenzò COMENIO] (1571-
1600): 263.
1635): 225n.
Rinaldo [person. del Morgante e del
RAZI [Abu Bakr Muhammad ibn
Furioso]: 495n, 661.
Zakaryyia al-Razi (o al-Rasi), med.,
ROBERTO BELLARMINO [teologo gesui-
filos., matem. e alchimista attivo a
ta, Santo] (1542-1621): 262, 296,
Baghdad] (?865-?923): 455.
REDI, Francesco (1626-98): 251n. 477, 522n.
REGIOMONTANO, Giovanni [ps. di Rodigino = v. CELIO R.
Johannes Muller, matem. e astron. Rodomonte [person. del Furioso]: 71.
tedesco, che curò la prima stampa ROESLIN, Eliseo [medico, professore,
dell’Almagesto] (1436-76): 679. astronomo; difese la priorità del
Reimers = v. URSUS modello geo-eliocentrico di BRAHE
RESTORO (Ristoro) d’Arezzo [mona- contro URSUS] (1544-1616): 519n.
co; scrisse la prima opera astron.- ROGERIUS [missionario gesuita] (XVI-
geograf. in volgare nel 1282]: 208, XVII s.): 469.
567, 637. ROGLIANO o ROLLIANO, Plinio [telesia-
Rhasi = v. RAZI no, medico di Rogiano] (1566-
RICCARDI, Niccolò [domenicano, 1640): 454.
Maestro del Sacro Palazzo, detto ROMBERCH, Johannes [Johann Host,
Padre Mostro] (1585-1639): 495n, domenicano di Romberg in West-
594, 630 e n, 642n-3, 645n, 647, falia, si formò in Italia, dove inse-
656-7, 661, 666. gnò teologia] (?1480-?1532): 224.
RICCARDO di San Vittore [teol. scozze- ROMEO, Giovanni: 263.
se, tra i maggiori esponenti del mi- ROMEO, Rosario: 314, 448n, 496.
sticismo medievale] (?1110-1173): ROMOALDO [o Romualdo, monaco be-
589, 655. nedettino, fondò l’eremo di Ca-
742 LA CITTÀ DEL SOLE
575, 577, 584, 587, 591, 607n-8, smo e dell’anima]: 527n, 549, 552 e
621n, 625, 636, 646, 681, 702. n.
TEOCRITO [poeta siracusano] (?310- TIMOCARI [astronomo alessandrino
?250): 434. del III sec. effettuò le prime misu-
TEODORO di Tarso [arcivesc. di Can- razioni sulla precessione degli
terbury, filos., teol. e canonista, ma equinozi]: 679.
non santo come scrive erroneam. TODOROV, Tzvetan: 324n.
C.] (?602-90): 563. TOLOMEO <tolemaic->, Claudio (II s.):
TEOFRASTO (372-287): 240, 462. 3, 45, 87, 115, 119, 121, 133, 137,
TERENZIO <terenzian->, Afro Publio 173-6 e n, 179-81 e n, 216, 238, 273,
[commediogr. latino] (?190-?159): 294, 343-4n, 345-7, 350, 352, 353 e
475. n, 359, 362, 431, 442 e n, 468, 510,
TERMINELLI, Antonino: 666n. 519, 524, 527 e n, 535n, 538-41,
TERTULLIANO, Quinto Settimo Fioren- 543, 553, 557, 562, 571-2, 600, 602,
te [padre della Chiesa] (?160- 632, 637n, 640, 662, 664, 673, 679 e
?220): 31, 59, 278, 291, 327, 394, n, 681-4.
409. TOLOMEO DA LUCCA [domenicano, au-
Testu = v. LE TESTU tore del De regimine principum at-
THEBIT Babylonio [Thabit Ibn Qur- trib. a S. TOMMASO] (?1236-1327):
rah, nato in Turchia, famoso per 61, 399, 403.
TOMAI o TOMASI, Pietro [giureconsul-
gli studi di meccanica, astron. e
to e poeta ravennate] (metà XV s.-
matemat.] (836-901): 537.
dopo 1508): 229.
Theo. = v. TEODORO
Tommaso [pseudo-] = v. TOLOMEO DA
THEODORETO, Iohannes Arcerius
LUCCA
(XVI s.): 219, 260-1, 274, 290,
TOMMASO <tomistic-> d’Aquino [San]
292n, 298, 312, 327, 333, 338, 340, (1225-74): XLVIIn, 105, 139, 143,
377, 383, 415, 445n, 453, 462, 478, 145, 149, 180 e n, 202, 221n, 252,
481, 507, 513, 649, 50n. 260, 272, 276, 283n, 290, 302n,
THIERRY de Chartres [Bernardo Silve- 306n, 311, 314, 317-9, 322, 325,
stre o Guglielmo di Conches, teol., 334-5, 338n, 342, 352, 381, 386,
docente, erudito] (?1110-?1150): 391, 397-400, 427, 439, 447, 475,
201, 340, 531, 671. 477-8, 480, 494n, 496n, 516, 550,
THOREN, Victor E.: 618n. 552-4, 559, 564n, 580, 582, 585,
Thoth [o Tot, o Theut, divinità egizia]: 588-92 e n, 594, 596-7, 604, 608 e n,
258 e n, 259. 622-38 e n, 649, 652-3, 655, 658-9,
TIBERIO, Claudio Nerone [imperatore 666, 670, 676, 74n.
romano] (14 a.Cr.-37 d.Cr.): 401, TOMMASO apostolo: 177.
639. TONTOLI, Francesco [frate somasco,
Ticon(e) = v. TYCHO revisore del S. Uffizio; insieme a
Tieste [gemello di Atreo, figlio di Pelo- padre Candido approva i Comm. e
pe e Ippodamia, contese col fratel- il Quod remin.; vescovo di Ischia dal
lo il regno di Micene]: 131. 1638 al 1663]: 657 e n.
TIMEO di Locri [presunto pitagorico, TORNITORE, Tonino: XIn, XXV e n,
modello dell’omon. dialogo pla- 209n, 434, 475, 27n.
ton., autore di Sulla natura del co- TORQUEMADA, Juan de [teol. domeni-
NOMI DI PERSONA PRESENTI NEGLI APPARATI 747
*
Le parentesi tonde poste ad alcune località stanno ad indicare che negli apparati sono pre-
senti solo occorrenze del derivato segnato a fianco; ad es.: ‘(Assiria) <assir->’ significa che ri-
corrono solo ‘assiro’, ‘assiri’ ecc. I nomi di luogo in corsivo sono località fittizie.
752 LA CITTÀ DEL SOLE
437-8n, 441, 479, 496, 508, 531n, GOA: 173 e n., 438, 677.
539, 554n, 615, 618n, 643, 662, GRAMMICHELE: 332.
671, 677, 679, 686, 696, 698-9, 701. GRANADA: 420.
EVANDRIA [l’utopistica repubblica di GRECIA <grec->: 218, 253, 255, 257,
Zuccolo]: 276, 391, 404 e n. 260 (Magna G.), 261-2, 274 (Ma-
gna G.), 307, 335, 374, 394, 408-10
FAITO [monte]: 469. e n, 412, 450, 464, 482, 546n, 559,
FATEHPUR: 516. 655, 661, 686.
FERRARA <ferrares->: 157, 640-1. (GRIGIONI) <grigion->: 477.
FEZ [o Fessa, città e regno]: 155, 273, GUJARAT: 410n.
331, 548, 662-3, 667.
FIANDRE: 438 e n. HAITI: 173n, 182.
FIESOLE: 441. Hierusalem = v. GERUSALEMME
FINLANDIA: 145, 640. HORMUZ: 179n.
FIRENZE <fiorentin->: XI e n, XXV, HUSINEC: 668.
191, 193, 446n, 519n, 612, 677n. HVEN [isola svedese]: 441.
FLORIDA: 179n.
FORTUNATE [Isole]: 173, 186, 580n. <indoeurope->: 214, 318.
FRANCIA <frances->: XII, XLVIIIn, Ierné = v. IRLANDA
153, 168, 194, 231n, 233n-4, 260, INDIA <indian->: 3, 85, 111, 164-5, 171-
395, 416, 437, 459, 461, 617, 630n, 7 e n (passim), 202, 213, 247-9, 270
643, 645n, 656, 669, 674, 677, 686, e n, 271, 273, 298, 381-2, 394, 405,
687 e n, 693, 699, 700 e n., 74n. 408-10 e n, 412-3, 415, 438n, 445-6,
FRANCOFORTE <francofortes->: XI-XII, 468, 470, 472, 513, 516, 538n, 550,
XLIV, 4n. 576, 590, 608, 660, 662, 664.
FRIULI: 273n. INDO [fiume]: 175, 270.
INDOCINA <indocines->: 85, 172, 468.
Gallia = v. FRANCIA INDONESIA <indonesian->: 173.
GANGE: 270. INGHILTERRA: XII, 153, 677, 687n.
GAOGA: 151. IPPONA: 25.
GARAN [deserto africano]: 151. IRLANDA: 173.
GENOVA: 135, 168, 170, 171 e n, 182, ISCHIA: 657.
388, 496n, 593, 630n. Isole Fortunate = V. FORTUNATE
GERICO: 192. ISRAELE: 113, 192-3, 369, 473, 505,
GERMANIA <tedesc->: 139, 249, 253, 507, 615n.
395, 400n-1n, 408, 422, 668, 677 e ITALIA <italian- (riferito solo alla na-
n, 681, 686-7. zion.)>: 5, 53, 109, 135, 173, 422,
GERUSALEMME: 109, 164, 167, 185-6, 492n, 540n, 542, 612, 74n.
189, 191, 194, 202, 233, 296, 328,
448, 453, 509, 615, 680n, 687, 689, JENA: 225n.
700n. JONIO: 183.
GIAPPONE <giappon-, nipponic->: 169,
172, 212, 255, 288, 384-5, 394, 412, KONARAK [città indiana]: 516.
469-470, 497, 509, 559-60, 611, 663, KOZHIKODE: 85.
687.
GIAVA: 468. (Lazio) <latin- (riferito solo alla na-
754 LA CITTÀ DEL SOLE
Opere di C.
* La bibliografia citata ‘in extenso’ negli apparati essendo, di solito, solo citata e non consul-
tata, non è qui riportata.
Le cit. e abbreviaz. dei libri biblici seguono, di norma, quelle indicate nella Sacra Bibbia [cur.
vari], ed. Paoline, 1960.
Salvo diversa indicazione, tutte le collocaz. delle Cinquecentine e delle ed. Sei-Settecente-
sche sono della Biblioteca Nazionale Braidense di Milano.
1
Edizioni successive: Aphorismes politiques, trad. de P. Caye et C. Monet; avant-propos et notes
de P. Caye, Caen, Centre de philosophie politique et juridique, 1993; Aforismi politici, a c. di A.
Cesaro, Napoli, Guida, 1997.
2
‘B&C’ = ‘Bruniana & Campanelliana’.
3
L’indicazione bibl. nelle mie Note di commento si riferisce a capit. e pag. dell’ediz. origi-
758 LA CITTÀ DEL SOLE
Arbitrii = Arbitrii sopra l’aumento delle entrate del Regno di Napoli [1608]: v. Disp. in
prol. (p. 167-216)
Art. proph. = Articuli prophetales [1603-6], ed. crit. a c. di G. Ernst, Firenze, La
Nuova Italia, 1977
Astrol. = Astrologicorum libri VII in quibus Astrologia omni superstitione Arabum
et Iudaeorum eliminata physiologice tractatur, secundum S. Scripturas et
doctrinam S. Thomae, et Alberti et summorum Theologorum; ita ut absque
suspicione mala in ecclesia Dei multa cum utilitate legi possunt, Lugduni,
Prost, 1630 [C XII 9,016]4
Ateismo = Ateismo trionfato, overo riconoscimento filosofico della religione universale
contro l’anticristianesimo macchiavellesco [1607], cap. I e II, a c. di G. Ernst, in:
‘Rivista di storia della filosofia’, LII, 1997 (p. 618-27)5
Atheismus = Atheismus triumphatus, seu reductio ad religionem per Scientiarum veri-
tates, Parisiis, Tussanum Dubray, 1636 (‘Index’ 4 pp. n.n. + 1-252)6 [G IV 34]
Avvertimenti = Alla Serenissima Repubblica di Venezia. Avvertimenti intorno ai dogmi e
opinioni teologiche, in particolare De praedestinatione et reprobatione, in quan-
to importano alla politica [1636], in: G. Ernst, Ancora sugli ultimi scritti politici di
C. II. Gli Avvertimenti a Venezia del 1636, ‘B&C’, V/2 (1999, p. 447-65: 452-
65)
Barb. = Memoriale al Card. F. Barberini, in: R. De Mattei, Un memoriale di T.C. al
Card. Francesco Barberini, Accademia dei Lincei, Rendiconti morali, 1976, s.
VIII, v. XXXI, fasc. 7-12 (p. 403-12)
Civitas = Civitas solis, vel De Reipublicae idea, in: Phil. realis (p. 145-69 [=P.])
Città = La Città del Sole
CS = La Città del Sole o indifferentemente Civitas Solis;
se invece ci si riferisce a un’ediz. particolare, vi sono 3 casi:
_ con T., R., L. s’intendono i mss Trentino (T. seguito da numero pagina.rigo),
Riccardiano e Lucchese;
– tre principali edizioni moderne, i cui curatori sono Bobbio, Firpo, Amerio
(e se ci si riferisce a loro note testuali, i nomi dei curatori non sono seguiti
dal numero di pagina);
– altre ed. consultate di Città, sono le seguenti, a c. di:
Edmondo Solmi, Modena, Tipo-Lit. ‘Della Provincia’, 1904
naria; invece per la traduz. ci si rifà alle ediz. moderne, riviste alla luce della nuova ediz. e
trad. di M.-P. Lerner, Apologia pro Galileo / Apologie de Galilée, Paris, Les Belles Lettres, 2001.
4
La prima edizione lionese [1629], riporta in frontespizio Astrologicorum libri VI, ma, a stam-
pa già ultimata, arrivò da Roma l’opuscolo De siderali fato vitando, che fu aggiunto al volume
con numerazione separata, e che portò le successive edizioni – Lione e Francoforte – a ritoc-
care il titolo in Astrologicorum libri VII; il De fato è stato pubblicato con traduz. in TC (p. 655-
86) e in OA (p. 64-133); cfr Guerrini.
5
Non si è potuto tener conto del ritrovamento del ms della red. italiana: L’Ateismo trionfato,
vol. I, ed. del testo inedito, a c. di G. Ernst; vol. II: riprod. anast. del ms Barb. Lat., Pisa, Edi-
zioni della Normale, 2004.
6
Prima ediz.: Roma, Zannetti, 1631.
BIBLIOGRAFIA 759
7
Traduz. anon., ma: G.B. Passerini, sul quale cfr L. Bulferetti, Socialismo risorgimentale, Torino,
1949 (p. 120-34).
760 LA CITTÀ DEL SOLE
La Città del Sole, introd. di L. Bolzoni, trad. a c. di C. Carena, Milano, Silvio Ber-
lusconi Ed., 1997
Comment. = Commentaria [alle poesie latine di Urbano VIII, I vol. (1627-8)], ed.
parz. in: Opere letterarie
Compendio = Compendio di filosofia della natura [1620 circa], a c. di G. Ernst e P.
Ponzio, Milano, Rusconi, 1999
Cons. aph. = Consultationes Aphoristicae [1635]: v. Opusc. ined. (p. 107-42)
Disc. Cometa = Discorso di Fra Tomaso Campanella sopra la cometa e trave apparsi di
novembre 1618 [1618], a c. di Ernst-Salvetti, ‘B&C’, II, 1/2, 1996 (p. 66-82)
Disc. Paesi B. = Discorso sui Paesi Bassi [1593-641]: v. Disc. Princ. (p. 65-88)
Disc. Princ. = Discorsi ai Principi d’Italia ed altri scritti filoispanici [1607], a c. di L.
Firpo, Torino, Chiantore, 1945 (p. 91-164)
Disc. univ. = Discorsi universali del Governo Ecclesiastico per far una gregge e un pasto-
re [1631], in: Opere (p. 1117-65)8
Discorso sul modo delle fortificazioni usate a’ nostri tempi [1592-3], a c. di L. Firpo,
‘Giornale critico della filosofia italiana’, XVIII, V-VI (sett.-dic. 1939, p. 477-
80)9
Disp. in Bullas = Disputatio contra murmurantes citra et ultra montes in Bullas S.S.
Pontificum Sixti V et Urb. VIII adversus Iudiciarios editas..., Parisiis, Tussanum
Dubray, 1636 (Append. di Atheismus, p. 255-73)10 [G IV 34]
Disp. in prol. = Disputatio in prologum instauratarum scientiarum, premessa a Phil.
realis (p. 9-38; e v. Gentilismo)
Doc. Gall. = Documenta ad Gallorum Nationem [1635]: v. Opusc. ined. (p. 55-105)
Epilogo = Epilogo magno [1595-1607], a c. di C. Ottaviano, Roma, R. Accademia
d’Italia, 1939
Gentilismo = De Gentilismo non retinendo [1609; 1a ed. Parigi, 1636; poi con ritoc-
chi: Instauratio magna scientiarum, Parigi, 1638], trad. di R. Amerio: Della ne-
cessità di una filosofia cristiana, Torino, SEI, 1953 (ediz. cui qui si fa riferimen-
to)
Gramm. = Grammaticalium libri tres, in SL (p. 434-713)
Hist. = Historiographia, in SL (p. 1221-55)
Lettere = Lettere [1591-1639], a c. di V. Spampanato, Bari, Laterza, 1927
Lettere1 = Lettere 1595-1638 non comprese nell’ediz. Spampanato, a c. di G.
Ernst, Pisa-Roma, Ist. Edit. e Poligr. Internaz., 2000
Ludovico = De Sancto Ludovico [dai Commentaria], a c. di C. Ferri, Roma, Bulzoni,
1990
Mathem. = Mathematica, a c. di A. Brissoni, Reggio Calabria, Gangemi, 1989
8
Tradotti col titolo De regno Dei chiudono la Phil. realis (p. 212-21) insieme al Pro conclavi ad-
monitio (p. 221-3).
9
Firpo 1947, concordando con De Mattei, propone “che esso venga espunto dalla bibliogra-
fia dello Stilese”; l’opera non è cit. nelle presenti Note di commento.
10
La Disputa sulle Bolle è anche tradotta in OA (p. 176-249).
BIBLIOGRAFIA 761
11
Nel 2000 è apparso il liber XIV, a c. di T. Rinaldi (Bari, Levante).
12
Biblioteca dell’Università Cattolica. Rist. anast. di quest’op. rarissima, a c. di L. Firpo, Tori-
no, Bottega d’Erasmo, 1973; poi in ediz. latino-francese: Monarchie du Messie, notes et introd.
par P. Ponzio, trad. par V. Bourdette, P.U.F., Paris, 2002; annessa come cap. XVIII e ultimo
della Mon. Messiae la trad. del Discorso…, la cui originaria versione italiana è in: G. Ernst, Mo-
narchia di Cristo e Nuovo Mondo. Il ‘Discorso delle ragioni che ha il Re Cattolico sopra il nuovo emisfe-
ro’ di T. C., in: Studi politici in onore di L. Firpo, a c. di S. Rota Ghibaudi e F. Barcia, Milano, An-
geli, 1990 (vol. II, p. 22-31).
13
Il titolo latino è quello presente nell’Elenco degli opuscoli che avrebbero dovuto costitui-
re il X vol. dell’Opera omnia.
762 LA CITTÀ DEL SOLE
14
Le poesie campan. sono citate di solito con il loro n° sequenziale.
15
Il titolo è curatoriale: è forse identificabile con il De technis aulicorum; ora in appendice a: G.
Ernst, Il carcere, il politico, il profeta, Pisa, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, 2002, p.
281-301.
16
La lettera occupa le pag. 47-91, cui Struvius aggiunge alcune pag. (92-6) per un confronto
tra il ms della ‘Bibliotheca Salana’, secondo lui autografo, dell’Atheismus e l’ed. Dubray
(1636).
BIBLIOGRAFIA 763
Sensu = De sensu rerum et magia libri 4… Tobias Adami recensuit, et nunc pri-
mum evulgavit, Francofurti, apud Egenolphum Emmelium, impensis Gode-
fridi Tampachij, 1620 [B.14.5696]; Parisiis, Apud Dionysium Bechet, 1637
[B.XIII.5557]17
SL = Tutte le opere di T. C. Scritti letterari, a c. di L. Firpo, Milano, Mondadori,
1954
Supplizio: v. Firpo 1985
Syntagma = De libris propriis et recta ratione studendi syntagma [Paris, 1642], a c. di
V. Spampanato, Bestetti e Tumminelli, Milano, 1927; in traduz.: Sintagma dei
propri libri e sul corretto modo di apprendere, in: TC (p. 381-407)
TC = Tommaso Campanella, testi a c. di G. Ernst, introd. di N. Badaloni, Roma,
Ist. Poligrafico e Zecca dello Stato, 1999
Theol. = Theologicorum libri XXX [1613-24], a c. di R. Amerio, Edizione naziona-
le dei classici del pensiero italiano, II serie (salvo Theologia I), Roma, 1949-18
Theol. I = Dio e la predestinazione, Firenze, Vallecchi, 1949-51, 2 vol.
Theol. II = De sancta Monotriade, 1958
Theol. III = Cosmologia, 1964
Theol. IV = De homine, 1960, 2 vol.
Theol. V = Le creature soprannaturali, 1970
Theol. VI = De conservatione et gubernatione rerum, ed. crit. con note e trad. ital. a
c. di M. Muccillo, 2000
Theol. VII = Della beatitudine, 1971
Theol. X = Delle virtù e dei vizi in particolare, 1976-84, 4 vol.
Theol. XI = De virtutibus supernaturalibus quibus ad beatitudinem homo regitur, a c.
di R. A. e O.M. Nobile Ventura, 1988 (insieme a Theol. XII)
Theol. XII = De donibus et fructibus Spiritus Sancti. De beatitudinis, 1988 (insieme a
Theol. XI)
Theol. XIV = Magia e Grazia [1616], 1957
Theol. XVI = Il peccato originale, 1960
Theol. XVII = De remediis malorum, 1975
Theol. XVIII= Cristologia, 1958, 2 vol.
Theol. XIX = Origine temporale di Cristo, 1972
Theol. XX = De ceremonialibus Iesu Christo observatis, testo crit. e note di M. Muc-
cillo, tr. di R. Amerio, 1993
Theol. XXIII= De dictis Christi, 1969
Theol. XXIV = I sacri segni, 6 vol., 1965-8
Theol. XXV = La profezia di Cristo, 1973
Theol. XXVI = De Antichristo, 1965
Theol. XXIX = [e XXX] Escatologia [1623], 1969
Titoli = De’ Titoli [1624], in: G. Ernst, Segni, virtù e onore nell’opuscolo De’ Titoli di
17
I rinvii a Sensu nelle Note di commento si limitano alle note di varianti presenti in Senso,
che è stato recentemente riedito a c. di F. W. Lupi, introd. di G. Abate, Soveria Mannelli, Rub-
bettino, 2003.
18
L’ediz. dei Theol., dopo la morte di R. Amerio, è affidata a M. Muccillo: v. Muccillo 1999.
764 LA CITTÀ DEL SOLE
T. C., ‘Filologia e critica’, XXV II-III, maggio-dicembre 2000 (p. 281-301: 288-
301)
19
Quest’ediz. è chiamata ‘Piana’, perché fu patrocinata da Pio V, ex frate domenicano.
20
SCG è preceduta dal n° del Libro e seguita dal n° del capit.; ad es. 3SCG, 69 significa: Libro
III, cap. 69.
21
Ci si limita a indicare, dopo la sigla specifica dello Speculum in causa, solo libro e capitolo
in numeri romani.
BIBLIOGRAFIA 765
22
Per le opere ripubblicate, le traduz. ital. sono tratte da: Opere di Sant’Agostino, ediz. lat.-ital.,
a c. della Cattedra Agostiniana, dir. A. Trapé, Roma, Città Nuova, 1965-. L’ed. ‘canonica’ plu-
riedita nel ‘500 è quella erasmiana (Basilea, Frobenius, 1506, 10 vol.); tuttavia è probabile
che C. avesse sottomano altre ediz., perché Erasmo scopre l’apocrificità del Liber de fide ad Pe-
trum, che è una fonte della teoria del male derivato dal nulla.
23
Nelle mie cit. da quest’opera, il primo n° indica il libro, il secondo il capitolo, il terzo,
quando occorre, la pagina.
24
Editio princeps: Firenze, 1485; segnalate 8 ediz. nel XVI sec. (Portoghesi, p. XLVIII).
766 LA CITTÀ DEL SOLE
25
Altra ed. consultata: De secretis mulierum, item De virtutibus herbarum, lapidum et animalium,
Amstelodami, apud Henricum et Theod. Boom, 1669 [25 14 C 24].
26
Rist. anast. con prefaz. di J. Céard, Torino-Parigi, Aragno-Les Belles Lettres, 2002.
27
Entrambe ristampate anastaticam. con pref. di N. Badaloni e introd. di T. Tornitore, Tori-
no-Parigi, Aragno-Les Belles Lettres, 2006, vol. 3+2+Indice.
28
Inclusa però come opera di S. Ambrogio in: Ambrosius, Opera, cura Felicis Card. de Mon-
talto, postea Sixti V, Romae, Baja, 1580, 2 t.
BIBLIOGRAFIA 767
29
Altra ed. utilizzata, specie per le opere non comprese nell’ed. di Giannantoni: Aristote-
les, Opera omnia graece et latine..., cur. F. Dübner..., Paris, Firmin-Didot, 1848-1874, 5 vol.+ 1
Indici.
768 LA CITTÀ DEL SOLE
30
Ediz. coeva consultata: Problemata Aristotelis..., cum dupl. transl. Th. Gaze, cum expos. Petri
Aponi [= Pietro d’Abano]..., Venetiis, ap. Bonetum Locatellum, 1501 [AB XIV 18]; la sua au-
tenticità era messa in dubbio nel Cinquecento (Persio 1593, 45v: “Aristotele ne rendesse an-
che la ragione ne suoi problemi, se pur esso ne fu l’Autore”). Ediz. recente consultata: Pro-
blèmes, texte ét. et tr. par P. Louis, Paris, Les Belles Lettres, 1991-4, 3 vol.
BIBLIOGRAFIA 769
31
Nel 1549 “io non volsi essere avaro, ricordandomi che nella penna e stile di questo dottis-
simo Giovio le mie fatiche rimanevano in edificio di perpetua memoria”, non essendo lui
portato per la scrittura, e quindi gli dettò le sue memorie, e nel 1552-63 apparvero le Décadas
de Asia (Barros, I, 170v).
32
Altre ediz. consultate: In fragmentum Berosi Babylonii, sacerdotis Beli ex Libro III rerum Chal-
daicarum (in append. a: Scaligero, Opus); Berosi Babylonii Antiquitatum Libri V, in: Fragmenta
vetustissimorum auctorum, Basileae, Io. Deb., 1530 [8.18.E 14]; I 5 libri di Antichità di Beroso
con lo commento di Gio. Annio [sic] di Viterbo, con l’aggiunta di altri autori…, Venezia, Co-
stantini, 1550 [AA VII 15].
770 LA CITTÀ DEL SOLE
Besson = Iacobi Bessonide, De absoluta ratione olea & aquas e medicamentis simpli-
cibus extrahendi liber, Tiguri, apud Andream Gessnerum, 1559 [B VIII 4,443]
Bianchi M.: v. Spiritus
Bianchi M. L.: v. Paracelso
Bibbia concordata = La Bibbia concordata, a c. della Soc. Biblica Italiana, Milano,
Mondadori, 1969II
Bibl. Patrum = Sacrae Bibliothecae Sanctorum Patrum..., ed. per Margarinum de la
Bigne, Lutetia Parisiis, [s. ed.], 1589II, 10 tomi
Biblia sacra, iuxta vulgatam versionem, rec. et instr. R. Weber Osb, Stuttgart, Wüt-
tembergische Bibelanstalt, 1975II, 2 vol.
Bidez = J. B., La Cité du Monde et la Cité du Soleil chez les Stoïciens, ‘Bull. de l’Acad.
Royale de Belgique’, Cl. de Lettres, V, 18° (1932, p. 244-94)
Biedermann = H. B., Knaurs Lexikon der Symbole, München, 1989 (Enciclopedia
dei simboli, Milano, Garzanti, 1991)
Blaise = A. B., Dictionnaire latin-français des auteurs chrétiens, Turnhout, Brepols,
1967
Blanchet = L. B., C., Paris, 1920
Bobbio: v. C., Città
Bobbio 1990 = Norberto B., Firpo in utopia, in: Utopismo del Rinascimento e l’età
nuova, Torino, Tallone (p. 63-91)
Bobbio 1997 = N.B., ‘Postfazione’, in: T.C., Città del sole, a c. di L. Firpo; nuova
ed. a c. di G. Ernst e L. Salvetti Firpo, Bari, Laterza (p. 105-9)
Bobbio1 = N.B., ‘Nota critica per il testo della Città del Sole’, bozza dattil.33
Bodin = Joannis [Jean] Bodini, Methodus ad facilem historiarum cognitionem, ac-
cur. denuo recusus, Lugduni, apud. I. Mareschallum, 1583 [AA VII 8: copia
expurgata a mano]
Boffino: v. Giamblico
Boll = F. B., C. Bezold, W. Gündel, Storia dell’astrologia, Roma-Bari, Laterza, 1985
Bolzoni 1977: v. C., Opere letterarie
Bolzoni 1986 = Lina B., Retorica, teatro, iconologia nell’arte della memoria del Della
Porta, in: Giovan Battista Della Porta nell’Europa del suo tempo, pref. di E. Garin,
Napoli, Guida
Bolzoni 1992 = L.B., Conoscenza e piacere. L’influenza di Telesio su teorie e pratiche let-
terarie fra Cinque e Seicento; in: Sirri e Torrini (p. 203-39)
Bolzoni 1993 = L.B., Le città utopiche del ’500 italiano: giochi di spazi e di saperi,
‘L’Asino d’oro’, 7, maggio 1993
Bolzoni 1995 = L.B., La stanza della memoria, Torino, Einaudi
Bonansea = B. M. B., Il concetto di ente e non-ente nella filosofia di T. C., in: AAVV
1969 (p. 27-58)
Bosio = G. B., Dell’istoria della sacra religione et ill.ma militia di S. Gio. Gierosolimita-
33
Il compianto prof. N. Bobbio mi aveva permesso di consultare il dattiloscritto della prefa-
zione che avrebbe dovuto accompagnare la nuova ed. einaudiana della Città del sole, edizione
che non vide più la luce perché nel frattempo Firpo aveva pubblicato la nuova edizione criti-
ca, in cui aveva tenuto conto del ms T., che era noto anche a Bobbio.
BIBLIOGRAFIA 771
no, nuova ed. aum., Roma, Facciotto, 1602-30, 3 vol. (Roma, Tipogr. Vatica-
na, 1594-1602I) [H XI 34 1-3]
Botero = Giovanni B., Le relationi universali, divise in 4 parti, nuovam. ristamp. e
corr., Venezia, Niccolò Polo e C., 1600-2 [26 19 F 33]34
Botero, Discorso = G.B., Relationi di Spagna... Discorso sopra il nome dell’isola Tapro-
bana, Venezia, Al. Vecchi, 1617 [OO V 30]35
Botero, Ragion = G.B., Della Ragion di Stato, a c. di L. Firpo, Torino, UTET, 1948
[Venezia, 1589I]
Brahe = Tycho Brahe Danus, Astronomiae instauratae progymnasmata (...) et praete-
rea de admiranda nova stella anno 1572 exorta..., Francofurti, Tampachium,
1607 [C XIII 9102]
Brancaccio = Giulio Cesare B., Il Brancatio della vera disciplina e arte militare. So-
pra i Comentari di Giulio Cesare da lui ridotti in compendio per comodità de’ soldati,
Venetia, Vittorio Baldini, 1582 [12.10.G.26]36
Brancaccio L. = Lelio B., I carichi militari, Anversa, Ioachimo Trognesio, 1610 [S
I 44]
Brissoni: v. C., Mathem.
Brissoni 1994 = Armando B., Galileo e C., Padova, Este
Broc = N. B., La géographie de la Renaissance 1420-1620, Paris, 1986 (La geografia
del Rinascimento, Modena, Panini, 1996)
Brucioli = Antonio B., Dialogi, Venezia, per B. de Zanetti, 1538 [in colophon:
Quarto et ultimo libro de philosophici Dialogi; tra essi: Dialogo della republica
(1526I; rist.: Napoli, 1983)] [25 15 O 1]
Bruers: v. C., Senso
Bruers 1941 = Antonio B., Scritti filosofici, Bologna, Zanichelli
Bruers 1942 = A. B., T.C. e l’arte del volo, in: ‘Le Vie dell’aria’, XV, 30 (26 luglio
1942)
Bruno = Opere di Bruno e Campanella, a c. di A. Guzzo, Milano-Napoli, Ricciardi,
195637
Buonamico = M. B., L’isola di Narsida, dai Trattati della servitù volontaria... [Na-
poli, Cacchij, 1572] in: Curcio 1944 (p. 177-194)
Busa = Roberto B., Index Thomisticus, in: THOM
Busa 1984 = R.B., De voce spiritus in operibus S. Thomae Aquinatis, in: Spiritus (p.
191-222)
34
La prima ed. apparve a Roma, dall’ed. Giorgio Ferrari nel 1591, mentre la prima ed. com-
pleta a Bergamo nel 1596; numerose ristampe.
35
La dedica e il ‘publicetur’ è del 1611; ma da Firpo 1945, ‘Introd.’, si sa che è del 1607.
36
È questo l’Autore menzionato da C. in Poëtica, non il successivo, come riteneva Firpo 1954;
della sua opera esiste anche un’ed. aldina del 1585: Disciplina & vera arte militare del Brancatio
libri VIII, ne’ quali… secondo i precetti di Cesare… si dimostra con quanta facilità… possa
ogni Principe difendersi [AO.XVIa.26].
37
Altra ed. consultata: Giordano Bruno e T. C., Scritti scelti, a c. di L. Firpo, Torino, UTET; per
la Cabala…si è consultato anche: La Cabale du cheval pegaseen, VI vol. Oeuvres Complètes, Paris,
Les Belles Lettres, 1994.
772 LA CITTÀ DEL SOLE
38
Altra ed. consultata: De senectute, De amicitia, De divinatione, by W.A. Falconer, The Loeb
Classical Library, London-Cambridge, 1952.
39
Il testo è stato raffrontato con: De legibus, texte ét. et tr. par G. De Plinval, Paris, Les Belles
Lettres, 1959.
BIBLIOGRAFIA 773
Cicerone, De rep. = M.T. C., Lo Stato, in: Opere politiche e filosofiche, tr. e c. di L. Fer-
rero, Torino, UTET, 1953, 2 vol.40
Clemente Alessandrino = Clemens Titus Flavius Alexandrinus, Opera quae ex-
tant, rec. et ill. per J. Potterum [J. Potter], cum comment. Gentiani Hervetii
Aurelii, Oxonii, E Theatro Sheldoniano, 1715 [1610I], 2 vol. [8.18.H 6-7]
Collo 1993 = Paolo C., L’utopia e la guerra, Ed. Cultura della Pace, S. Domenico
di Fiesole (FI)
Collo e Crovetto = P.C. e Pier Luigi C. (a c.), Nuovo Mondo. III Gli Italiani, Tori-
no, Einaudi, 1991
Colonna = Francesco C., Hypnerotomachia Poliphili [Venezia, 1499], ed. crit. e
comm. a c. di G. Pozzi e L. A. Ciapponi, Padova, Antenore, 1980II, 2 vol.
Comandino = Federici Commandini urbinatis, Liber de centro gravitatis solido-
rum, Bononiae, Al. Benacii, 1565 [C XI 8 855]
Comenio = J.A. C., Opere, a c. di M. Fattori, Torino, Utet, 1974
Comestore: v. SH
Comparetti = Domenico C., Researches respecting the Book of Sindibad, London,
Folk-Lore Soc. (Stock), 1882 (= Libro de los engannos et los asayamientos de las
mugeres)
Conti = Natalis Comitis, Mythologiae sive explicationis fabularum libri decem, in
quibus..., Patavii, apud P. Tozzium, 1616 [8 24 F 23]
Conti Odorisio = G. C.O., Famiglia e stato nella République di J. Bodin, in: Rota
Ghibaudi (IV, p. 699-757)
Cooke = B. C., La tavola rotonda di quercia: le utopie russe e l’importanza simbolica
del mangiare insieme, ‘Oz’, 1, 1994 (p. 91-104)
Copernico = Nicolai Copernici, De Revolutionibus orbium coelestium libri VI...,
Basileae, Ex Off. Henricpetrina, 1566 [26.22.K.7]
Cordano F., La geografia degli antichi, Bari, Laterza, 1992
Cornelius = P. C., Languages in Seventeenth- and Eighteenth-Century Imaginary Voy-
ages, Genève, Droz, 1965
Corsano = A. C., T. C., Bari, Laterza, 1961II
Costa = G. C., La leggenda dei secoli d’oro nella letteratura italiana, Bari, Laterza,
1972
Couliano = I.P. C., Eros et Magie à la Renaissance (1484), Paris, Flammarion, 1984
(Eros e magia nel Rinascimento, Milano, Il Saggiatore, 1987)
Crahay: v. C., La cité du soleil
Crahay 1973 = R. C., Pratique du latin et théorie du langage chez C., in: Acta Conven-
tus Neo-latini Lovaniensis. Proceeding of the first international Congress of Neo-Latin
Studies, Louvain-Münich, Leuven Univ. Press et W. Fink Verlag (p. 171-89)
Crahay 1985 = R. C., L’utopie réligieuse de C., in ‘Problèmes d’Histoire du Chris-
tianisme’, ed. par J. Marx (n° 15, p. 103-31)
40
Il testo è stato raffrontato con: De republica, libri sex quae manserunt, rec. K. Ziegler, Lipsiae
Teubner, 1955. C. non poté conoscere direttamente quest’opera, ma solo attraverso la me-
diazione di Agostino, CD (Firpo 1945, p. 230).
774 LA CITTÀ DEL SOLE
41
Nelle mie cit. il n° romano indica il tomo, l’arabo la colonna; Theol. I (I, p. 353): “tutti i li-
bri suoi, che io ho tutti studiati”.
42
Ed. utilizzata da C., secondo Firpo 1945 (p. 131n); la Vita SS. Barlaam et Iosaphat, è stata
controllata anche in: PL 73, 440sg e PG, 857-1240; la Vita è menzionata in Antiveneti, p. 131.
BIBLIOGRAFIA 775
Delumeau = J. D., Une histoire du Paradis. Le jardin des délices, Paris, Fayard, 1992
De Mas = Enrico De M., L’attesa del secolo aureo (1603-1625), Firenze, Olschki,
1982
De Mas 1989 = E. De M., Il mondo senza peccato e senza discordie di Cristianopoli,
in: Fortunati 1989 (p. 213-22)
De Mattei 1927 = Rodolfo De M., La politica di C., Anonima romana editoriale,
Roma
De Mattei 1929 = R. De M., Contenuto ed origini dell’utopia cittadina nel Seicento,
‘Rivista internaz. di filosofia del diritto’, 9 (p. 414-25); Contenuto ed origini del-
l’idea universalista nel Seicento, id., 10 (p. 391-401)
De Mattei 1934 = R. De M., Studi campanelliani, con l’agg. del testo ined. del Di-
scorso De Belgio subjugando e degli Antiveneti, Firenze, Sansoni
De Mattei 1938 = R. De M., Fonti, essenza e fortuna della ‘Città del Sole’, ‘Rivista in-
ternaz. di filosofia del diritto’, XVIII (lug-ott. 1938, p. 405-39)
De Mattei 1940 = R. De M., Sulla paternità campanelliana del Discorso sul modo
delle fortificazioni [con una risposta di Firpo], ‘Giornale critico della filoso-
fia italiana’, XXI, 5 (sett.-ott. 1940, p. 344-7 [Firpo: p. 347-50])
De Mattei 1953: v. C., Città
De Mattei 1968 = R. De M., Unione delle genti e ‘Senato comune’ in Roma nel pensie-
ro di T.C., ‘Cultura e Scuola’, VII/25 (genn.-marzo 1968, p. 25-35)
De Mattei 1969 = R. De M., Sulla Città del Sole di T.C., in: AAVV 1969 (p. 143-
58)
De Mattei 1982 e 1984 = R. De M., Il pensiero politico italiano nell’età della Contro-
riforma, Milano-Napoli, Ricciardi, 2 vol.
De Mauro: v. GDU
De Rosa: v. Firpo 1970
Derrett = J.D.M. D., T. More and Joseph the Indian [1930I], ora in: ‘Journal of the
Royal Asiatic Society’, April 1962 (p. 18-34)
Desantis: v. Palladio
De Seta = Cesare De S. e Jacques Le Goff (a c.), La città e le mura, Bari, Laterza,
1989
De Silvestris = Francesco De S., In libros S. Thomae de Aquino ‘contra gentes’ com-
mentaria egregia et fusissima [Parigi, 1552], in: Piana, vol. VI
De Varthema: v. Varthema
De Vinci = A. De V., Fra le letture del giovane T. C., Vibo Valentia, Qualecultura-Ja-
ca Book, 2002
De Vio: v. OOCC
Dictionnaire de la Bible, a c. di F. Vigouroux, Paris, Letouzey et Ané, 1895-1908, 5
vol.
Diez = L. D. del Corral, La città utopistica di C.: da Bisanzio alle Indie, in: Venezia e
l’Oriente fra tardo Medioevo e Rinascimento, a c. di A. Pertusi, Firenze, Sansoni,
1966 (p. 309-22)
Di Napoli: v. C., Metaph.
Di Napoli 1947 = G. Di N., T. C. filosofo della restaurazione cattolica, Padova, CE-
DAM
776 LA CITTÀ DEL SOLE
Eco = Umberto E., La ricerca della lingua perfetta, Bari, Laterza, 1993
Eco 1994 = U.E., Sei passeggiate nei boschi narrativi, Milano, Bompiani
Eco 2004 = U.E., Il ritorno degli idolatri, ‘L’Espresso’, 20.5.2004
Efrem Siro = Opera omnia S. Ephraim Syri Patris et Scriptoris Ecclesiae..., int. et
sch. Gerardo Vossio, Romae, Ex Typ. Iacobi Tornerii, 1589, 3 t. [F X 79]
Egidio Romano = Aegidii Romani [Colonna], De regimine Principum libri tres...,
Romae, Zanettus, 1607 [ZA 2 37]
Einaudi = Luigi E., Delle utopie: a proposito della Città del Sole, ‘Rivista di storia eco-
nomica’, VI, 1941 (p. 124-7)
Eliano = Claudio E., Storie varie (Poikìle historìa), a c. N. Wilson, tr. di C. Bevegni,
Milano, Adelphi, 1996
Ellero = M.P. E., L’ordine del labirinto. Per una lettura della Scelta d’alcune poesie
filosofiche di T.C., ‘Rivista di Letteratura Italiana’, 10,1-2 (1992, pp. 105-136)
Ephrem: v. Efrem
43
Per alcuni riscontri si è consultata l’ed. De vita et moribus philosophorum libri X, Gr. et Lat.,
Thoma Aldobrandino interprete, cum eius notis [e anche di I. Casaubon?], Romae, Zanet-
tus, 1594.
BIBLIOGRAFIA 777
44
Altra ed., mutila: Vinegia, Andrea Valvassore, 1551 [SS VII 14]; riedita in: Tre romanzetti, a
c. di L. Carrer, Venezia, Co’ tipi del Gondoliere, 1841 (p. 79-358).
778 LA CITTÀ DEL SOLE
45
Nella pag. del tit. si legge infatti: “Aurea carmina, quae Ph. ex mediis Pythagorae praeceptis
collegit”.
BIBLIOGRAFIA 779
Filone, Quis = Philo Alexandrinus, Quis rerum divinarum heres sit, intr., tr. et
notes par M. Harl, in: Les oeuvres de Philon d’Alexandre, Paris, Ed. du Cerf [vol.
XV], 1966
Finley = M.I. F., The Use and Abuse of History, 1971 (Uso e abuso della storia, Torino,
Einaudi, 1981)
Finoli: v. Averlino
Finotto = F. F., La città chiusa, Venezia, Marsilio, 1992
Fintoni = M. F., ‘Folle all’occhio mortal del basso mondo’. Menzogna e annichilazione
in T. C., ‘B&C’, IV/2 (1998, p. 301-12)
Fiorato: v. C., La Cité…
Fioravanti = Leonardo F., Dello specchio di scientia universale... libri Tre, Venetia,
Vincenzo Valgrisi, 1564 [QQ VIII 54]
Firmico = Giulio Firmico Materno, Mathesis, a c. di P. Monat, Paris, Les Belles
Lettres, 1992-, 2 vol. (l. I-V)
Firpo: v. C., Città in: Scritti scelti
Firpo 1939 = Luigi F., I primi processi campanelliani in una ricostruzione unitaria,
‘Giornale critico della filosofia italiana’, XX (p. 5-43)
Firpo 1939a = L.F., C. scrittore di cose militari e un inedito discorso giovanile, ‘Gior-
nale critico della filosofia italiana’, XVIII, V-VI (sett.-dic. 1939)
Firpo 1940 = L.F., Bibliografia degli scritti di T.C., Torino, Bona
Firpo 1941: v. C., Aforismi
Firpo 1945: v. C., Disc. Princ. (‘Introd.’, p. 7-61)
Firpo 1947 = L.F., Ricerche campanelliane, Firenze, Sansoni
Firpo 1948 = L.F., Per il testo critico della Città del Sole di T.C., ‘Giornale Storico
della Letteratura Italiana’, vol. 125/372 (1948, p. 245-55)
Firpo 1948a = L.F., Il pensiero politico del Rinascimento e della Controriforma, in: Que-
stioni di storia moderna, a c. di E. Rota, Milano, Marzorati (p. 345-408)
Firpo 1948b = L.F., L’utopia politica nella Controriforma, in: Quaderno di storia
ded. a ‘Contributi alla storia del Concilio di Trento’, Firenze, Vallecchi (p.
78-108)
Firpo 1949 = L.F., Il metodo nuovo (‘Praefatio’ alla Philosophia sensibus demon-
strata), ‘Rivista di filosofia’, XL (p. 182-205)
Firpo 1949a = L.F., Processo e morte di Francesco Pucci, ‘Rivista di filosofia’, XL, IV
(ott.-dic. 1949, p. 371-93)
Firpo 1950 = L.F., Filosofia italiana e Controriforma. III: La proibizione delle opere di
C., ‘Rivista di filosofia’, XLI, IV (ott.-dic. 1950, p. 390-401)
Firpo 1951: v. C., Opuscoli inediti
Firpo 1951a = L.F., Le censure all’Atheismus triumphatus, ‘Appunti campanelliani’
n° XXI, ‘Giornale critico della filosofia italiana’, XXX, 2, 1951
Firpo 1953 = L.F., Appunti campanelliani. XXIII: Un memoriale inedito dalla ‘fossa’,
‘Giornale critico della filosofia italiana’, XXXII, IV (ott.-dic. 1953, p. 474-87)
Firpo 1954: v. C., SL
Firpo 1954a = L.F., Appunti campanelliani. XXIV: Un memoriale inedito del 1614,
‘Giornale critico della filosofia italiana’, XXXIII, IV (ott.-dic. 1954, p. 518-
29)
780 LA CITTÀ DEL SOLE
Firpo 1954b = L.F., La città ideale del Filarete, in: Studi in mem. di G. Solari, Torino,
Ramella
Firpo 1955 = L.F., Cinquant’anni di studi sul C. (1901-50), ‘Rinascimento’, VI, 2
(dic. 1955, p. 209-348)
Firpo 1956 = L.F., C. nel sec. XIX, ‘Calabria nobilissima’, n° 18 e sg. (1952-6)
Firpo 1957 = L.F., Lo stato ideale della Controriforma. Ludovico Agostini, Bari, La-
terza
Firpo 1960 = L.F., Un decennio di studi sul C. (1951-60), ‘Studi secenteschi’, I
(1960, p. 125-62)
Firpo 1963 = L.F., Kaspar Stiblin, utopiste, in: Lemeere (p. 109-33)
Firpo 1965 = L.F., La Cité du Soleil, in: AAVV 1965, e poi, rivisto, riedito in: Firpo
1970
Firpo 1968: v. C., Apologia di Galileo (Prefaz.)
Firpo 1969 = L.F., Gli ‘Opuscoli’ del C., in: AAVV 1969 (p. 301-40)
Firpo 1970 = L.F., La Città ideale di C. e il culto del sole, in: Ricerche storiche ed econo-
miche in mem. di C. Barbagallo, a c. di L. De Rosa, Napoli, ESI, 1970, II t. (p.
379-89)
Firpo 1972: v. C., La Cité…
Firpo 1977 = L.F., Thomas More e la sua fortuna in Italia, ‘Il pensiero politico’ IX,
2-3 (p. 209-36)
Firpo 1979: v. More (‘Introduzione’, p. 5-42)
Firpo 1982 = L.F., Appunti sui caratteri dell’utopismo, in: Matteucci (p. 11-27)
Firpo 1982a = L.F., C. contro Aristotele in difesa della Città del Sole, ‘Il pensiero po-
litico’, II (p. 375-89)
Firpo 1985 = L.F., Il supplizio di T. C., Roma, Salerno46
Firpo 1986 = L.F., Per una definizione di ‘utopia’, in: Saccaro Del Buffa (p. 801-9)
Firpo 1987 = L’utopismo, in: Storia delle idee economiche e sociali, vol. III (‘L’Uma-
nesimo e il Rinascimento’), a c. di L. F., Torino, Utet (p. 811-88)
Firpo 1993 = L.F., Il processo di Giordano Bruno, a c. di Diego Quaglioni, Roma,
Salerno
Flamigni = A. F. e Rosella Mangaroni, Il caso C., Milano, Camunia, 1995
Focillon = Henri F., L’arte dell’Occidente, Torino, Einaudi, 1983
Foglia = Serena F. e G. Mirti, Gli ‘Astrologica nonnulla’ di Galileo, ‘Linguaggio
astrale’, XXII, 88 (Autunno 1992, p. 6-45)
Foglietta = U. F., Della Repubblica di Genova [1559], in: Curcio 1941 (p. 17-118)
Foriers = P. F., Les utopies et le droit, in: Lemeere (p. 234-61)
Formichetti = Gianfranco F., C. critico letterario. I Commentaria ai ‘Poemata’ di
Urbano VIII, Roma, Bulzoni, 1983
Formichetti 1985 = G.F., Il mago, il cosmo, il teatro degli astri, Roma, Bulzoni
Formichetti 1986 = G.F. & al., Manoscritti ed immagini di T.C. Orientamenti di ri-
cerca, in: Saccaro Del Buffa (p. 587-90)
46
Le traduz. e note riportate nelle Note di Comm. s’intendono sempre opera di Firpo; inte-
grato dal saggio del 1939 e dall’articolo del 1950 (La proibizione delle opere di C.), si trova ora
in: I processi di T. C., a c. di E. Canone, Roma, Salerno, 1998.
BIBLIOGRAFIA 781
Formichetti 1993 = G.F., Le furie del Papa astrologo, ‘Linguaggio astrale’, V, 1 n.s.
90 (primav. 1993, p. 114-7)
Formichetti 1999 = G.F., T. C. eretico e mago alla corte dei papi, Casale Monferrato,
Piemme
Forti = Carla F., La ‘guerra giusta’ nel Nuovo Mondo: ricezione italiana del dibattito
spagnolo, in: Prosperi (p. 257-86)
Fortunati = Vita F., La letteratura utopica inglese. Morfologia e grammatica di un ge-
nere letterario, Ravenna, Longo, 1979
Fortunati 1989 = V. F. e Giampaolo Zucchini (a c.), Paesi di Cuccagna e mondi al-
la rovescia, Firenze, Alinea, 1989
Fournel = J.-L. F., Le contrôle des mariages et des naissances dans la pensée politique de
C., ‘B&C’, VII/1 (2001, p. 209-20)
Fracastoro = Girolamo F., La sifilide o mal francese [1530], a c. di G. Lentini, Lan-
ciano, Carabba, 1930
Frajese: v. C., Mon. del Messia
Frajese 1998 = V. F., L’Atheismus triumphatus come romanzo filosofico di formazio-
ne, ‘B&C’ IV/2 (1998, p. 313-42)
Frajese 2002 = V. F., Profezia e machiavellismo. Il giovane C., Roma, Carocci
Franchini 1969 = Raffaello F., C. teorico della storiografia, in: AAVV 1969 (p. 341-
52)
Frobenius = L. F., Die atlantische Götterlehre, Jena, 1926 (I miti di Atlantide, Mila-
no, Xenia, 1993)
Frontino = Iuli Frontini, Strategematon libri IV, ed. Ch. Bennett, London-New
York, The Loeb Classical Libr., 1925
Frye = N.F., L’ostinata struttura, Milano, Rizzoli, 1975 (1970I)
Fulco = G. F., Il fascino del recluso e la Sirena carceriera: C., Ottavio Sammarco e Na-
poli in una scheggia di carteggio (dic. 1614), ‘B&C’, II (1996, p. 33-56)
47
Nelle citaz. il numero romano indica il tomo; Ottaviano (p. 361n) ipotizza che l’ed. usata
da C. sia stata: Omnia quae extant Opera, Venetiis, apud Iuntas, 1576.
782 LA CITTÀ DEL SOLE
Garin 1949 = E.G., A proposito di C., ‘Giornale critico della filosofia italiana’,
XXVIII (apr.-giu. 1949, p. 253-5)
Garin 1952a = E.G. (a c.), Prosatori latini del Quattrocento, Milano-Napoli, Ric-
ciardi
Garin 1957 = E.G., L’educazione in Europa (1400-1600), Bari, Laterza
Garin 1958 = E.G. (a c.), Il pensiero pedagogico dell’Umanesimo, Firenze, Giuntine-
Sansoni
Garin 1961 = E.G., La cultura filosofica del Rinascimento italiano, Milano, Bompia-
ni, 1994 (Firenze, 1961I)
Garin 1963 = E.G., La cité idéale de la Renaissance italienne, in: Lemeere (p. 13-37)
Garin 1970 = E.G., Dal Rinascimento all’Illuminismo, Pisa, Nistri-Lischi
Garin 1976 = E.G., Lo zodiaco della vita, Bari, Laterza
Garin 1984: v. Spiritus (‘Relazione introduttiva’)
Garin 1986: v. Bolzoni
Garin 1991 = Il filosofo e il mago, in: L’uomo del Rinascimento, a c. di E. G., Bari, La-
terza (p. 169-202)
Garzoni = Tommaso G., La Piazza universale delle professioni del mondo [1585], a c.
di P. Cherchi e B. Collina, Torino, Einaudi, 1996, 2 vol.
Gellio = Aulo Gellio, Notti attiche, intr. di C. M. Calcante, tr. e n. di L. Rusca, Mi-
lano, BUR, 1992, 2 vol.
Genette = Gerard G., Mimologiques. Voyage en Cratylie, Paris, Seuil, 1976
Genovesi = G. G., Motivi socio-pedagogici de La città del sole, ‘Sapienza’, XXII, 1-
2 (gen.-giu. 1969, p. 172-7)
Gentili: v. Agostino
Gesner = Konrad G., Historiae animalium libri V, Tiguri [Zurigo], apud C. Fro-
schoverum, 1551-87 (6 tomi) [26 13 I 12-17]
Gesner, Secretis = K.G., De secretis remediis liber aut potius thesaurus, Evonymo Gesne-
ro Philiatro authore… Accedi iam recens Iacobi Bessoni Galli De absoluta ratio-
ne olea et aquas e medicamentis simplicibus extrahendi liber, Tiguri, apud A. Ges-
snerum F., 1554 [B VIII 4,443]
Giamblico, Misteri = Giamblico, I misteri egiziani. Abammone, Lettera a Porfirio, a c.
di A. R. Sodano, Milano, Rusconi, 198448
Giamblico, Misteri [Ficino] = Iamblichus, De mysteriis Aegyptiorum, Chaldaeorum,
Assyriorum, trad. ed epistola dedic. al card. Giovanni de’ Medici di M. Ficino,
Lugduni, Tornaesium, 1570 [DIS E 10]49
Giamblico, Misteri [Scutellius] = Iamblichus, De mysteriis Aegyptiorum, int. Nico-
lao Scutellio, Romae, A. Bladi, 1556 [B XIX 6,442]
48
Sodano attribuisce quest’opera non a Giamblico, ma alla sua scuola, e ritiene il sacerdote
egizio Abammone il suo vero ispiratore; nella bibl. menziona l’ed. ficiniana lionese del 1552,
e in Introd. (p. 8) l’ed. manuziana del 1497; le citaz. in ital. di Giamblico, sui misteri degli
Egizi, dei Caldei, degli Assiri derivano da questa edizione.
49
È probabilmente una ristampa dell’ed. di Aldo Manuzio del 1497, accresciuta anche di al-
tri testi misteriosofici: Proclo, Mercurio Trismegisto etc.; essa è stata tradotta in italiano da A.
Boffino: I misteri... secondo la versione latina di M. Ficino, Milano, Sebastiani, [s.d. ma 1946],
“in molti luoghi emendata e confrontata con quella di Tournes, Lione, 1552”.
BIBLIOGRAFIA 783
50
Annota il compilatore del catalogo antico della Braidense: “Arcerii [Theodoreto] versio
male habetur a criticis”; pertanto, per la traduz., ho confrontato l’ed.: Iamblichus, Vita Pita-
gorica, a c. di L. Montoneri, Bari, Laterza, 1973.
51
Escluderei che sia fonte di CS, perché pur non credendo a Preteianni (XVIII, p. 303sg),
non accenna a nessun Monopotapa; e inoltre perché in Hist. (p. 1233), raccogliendo una dif-
fusa calunnia, C. lo giudica un bugiardo adulatore: “Scelleratamente il Giovio, spesso adula-
tore, osò scrivere che lo storico non deve aver paura di mentire, poiché di qui a cento anni le
menzogne non si conosceranno”.
784 LA CITTÀ DEL SOLE
Goretti = P. G., “Inhonesta consuetudo”: pianelle per piedi di legno, ‘B&C’, VI/1
(2000, p. 195-8)
Gorfunkel = A. G., Note sul problema dell’infinità nella Cosmologia di C., in: AAVV
1969 (p. 385-94)
Gothein = E. G., Lo stato cristiano-sociale dei Gesuiti nel Paraguay, Firenze, la Nuo-
va Italia, 1987 (1928I)
Grassi 1972: v. Averlino
Grassi = Liliana G., Sforzinda, Plusiapolis, Milano..., in: G. Bertoni (a c.), Le città
ideali della letteratura, vol. XI di ‘Studi di letteratura francese’ (1985, p. 26-
50)
Grasso = D. G., Il problema della salvezza degli infedeli e T.C., ‘Studia Missionalia’,
VI (1950-1, p. 221-36)
Graves = Robert G., Greek Myths, 1954 (Miti Greci, Milano, Longanesi, 1989)
Greenblatt = S.G., Meraviglia e possesso, Bologna, il Mulino, 1994
Gregory = Tullio G., Mundana sapientia. Forme di conoscenza nella cultura medieva-
le, Roma, Ed. di Storia e Letteratura, 1992
Gregory 1996 = T. G., ‘Natura’ e ‘Qualitas Planetarum’, ‘Micrologus’, Brepols, IV,
1996 (p. 1-23)
Griffero = T. G., Corpi spirituali, in: M. Ferraris e P. Kobau (a c.), L’altra estetica,
Torino, 2001
Griffero 2003 = T. G., Immagini attive. Breve storia dell’immaginazione transitiva, Fi-
renze, Le Monnier
Grillo = F. G., Motivi campanelliani: C. utopista, in: AAVV 1969 (p. 395-426)
Grillo 1977 = F. G., C. e Dante, Cosenza, Pellegrini
Groessing = Helmuth G., Giovanni Keplero e la scoperta di nuovi mondi, in: Pro-
speri (p. 309-25)
Grozio = U. G., Observata in Aphorismos Campanellae politicos [1652], in: Firpo
1941 (p. 227-45)
Gsteiger = M.G., ‘L’abrégé de l’univers’. Quelques aspects de la ville dans la littérature,
in: L’homme dans la ville. Publications de l’Univ. de Lausanne, Lausanne,
Payot, 1984 (p. 45-59)
Guerrini = L. G., Astrologicorum libri VII. Considerazioni linguistiche e ricognizio-
ni intorno alla tradizione del testo, ‘B&C’ VI/1 (2000, p. 199-209)
Guerrini 2000 = L. G., Nuovi manoscritti di scritture politiche campanelliane, ‘B&C’
VI/2 (2000, p. 547-52)
Guerrini 2002 = L. G., Osservazioni sul concetto di teocrazia universale nell’ultimo C.,
‘B&C’ VIII/2 (2002, p. 375-98)
Guevara = Antonio de G., Libro di Marco Aurelio con l’Horologio de’ Principi, Vene-
tia, appresso Fr. Portonaris, 1568 [26.22.H.15]
Guidoni = Enrico G., Introduzione a: Storia dell’arte italiana. Inchiesta sui centri mi-
nori, III, 1, Torino, Einaudi, 1980 (p. 18-23)
Guidoni Marino = A. G.M., Grammichele, in: Storia dell’arte italiana. Inchiesta sui
centri minori, III, 1, Torino, Einaudi, 1980 (p. 422-31)
Guzzo: v. Bruno
BIBLIOGRAFIA 785
Janni = E. J., T.C. e la medicina, ‘Il giardino di Esculapio’, XII, 3 e 4 (luglio e ott.
1939, pp. 5-27 e 7-38)
Jauss = Hans Robert J., Aesthetische Erfahrung und literarische Hermeneutik, Frank-
furt, 1982 (Esperienza estetica ed ermeneutica letteraria, Bologna, 1987, 2 vol.)
Jean = G. J., Voyages en Utopie, Paris, Découvertes Gallimard, 1994
Jode (Iodocus): v. Mercatore
Jodogne: v. C., Cité
Kruft = H.-W. K., Städte in Utopia, München, 1989 (Le città utopiche, Bari, Later-
za, 1990)
52
Il XXV cap. è edito da W. Hübner, Grade un Gradbezichte der Tierkzeiszeichen, I-II, Stuttgart
BIBLIOGRAFIA 787
Libro [Il] dei sette savi di Roma, tratto da un cod. del sec. 14, per c. di A. Cappel-
li, Bologna, Romagnoli, 1865 (facs.: Commiss. testi di lingua, 1968)
Livio = Tito L., Storia romana [= Historia romana], Libro XL, a c. di R. Fimiani, Mi-
lano, Signorelli, 1952
Louis: v. Aristotele, Hist. anim.
Luciano = L. di Samosata, Opera ex recogn. C. Jacobitz, Lipsiae, Teubneri,
1913-21, 3 voll.
Luciano = L. di S., Una storia vera, trad. di L. Settembrini, intr. di A. Savinio, Mi-
lano, Bompiani, 1994 (1944I)
Luciano, Dialoghi = L. di S., Dialoghi, a c. di A. Lami e F. Maltomini, Milano, Riz-
zoli, 1986
Lugli = A. L., Naturalia et mirabilia, Milano, Mazzotta, 1983
Lullo = Raymundus Lullius, Ars magna generalis et ultima, Lugduni, per J. Mare-
chal calc., Sim. Vincent bibliop., 1517 [TT XV 67]
und Leipzig, 1995. Si è mantenuto il titolo Liber Hermetis per praticità, anche se è ormai su-
perata l’ed. Gundel (Neue astrologische Texte der Hermes Trismegistos…, Munchen, Bay. Ak. der
Wissen., 1936), cui ancora si è attenuta una traduz. recente (Liber Hermetis, pref. di P. Dalla Vi-
gna, tr. e n. di G. Pellegrini, Milano, Mimesis, 1991).
53
La maggior parte delle citaz. sono tratte dall’Arte della guerra [1521] (I, p. 445-631).
54
L’autore è in realtà Jehan de Bourgogne morto nel 1373; altra ediz. consultata: I Viaggi di
Giovanni da Mandavilla, a c. di F. Zambrini, Bologna, Romagnoli, 1870, 2 vol.
788 LA CITTÀ DEL SOLE
55
Altra ed. consultata: Gerard Mercator’s, Map of the World (1569), reproduced... by The Ma-
ritiem Museum ‘Prins Hendrik’... with an Introduction by B. Van ‘T Hoff, Rotterdam’s-Gra-
venhage, 1961.
56
Nelle citaz. il numero che segue ‘More’ è quello del paragrafo; si è consultata anche l’ed. a
c. di T. Fiore, con pref. di M. Isnardi Parente (Bari, Laterza, 1993).
BIBLIOGRAFIA 789
Morpurgo = P. M., L’armonia della natura e l’ordine dei governi, ‘Micrologus’, Bre-
pols, IV, 1996 (p. 179-91)
Motzo = C. M. Dentice di Accadia, L’ecumenismo di C., in: AAVV 1969 (p. 449-72)
Muccillo 1999 = Maria M., La pubblicazione della Theologia di C., ‘B&C’ V/2
(1999, p. 547-50)
Muratore = Giorgio M., Città rinascimentale e trattatistica estremo-orientale, in: Mar-
coni
Muratore 1975 = G.M., La città rinascimentale, pref. di P. Portoghesi, Milano,
Mazzotta
Muratori = Ludovico Antonio M., Il Cristianesimo felice delle missioni dei Padri del-
la Compagnia di Gesù nel Paraguay, Venezia, G.B. Pasquali, 1752 (ed. a c. di P.
Collo, Palermo, Sellerio, 1985)
Muresu = G. M., Chierico e libertino, in: Letteratura italiana. V Le Questioni, a c. di
A. Asor Rosa, Torino, Einaudi, 1986
57
Una precedente traduz. it. (di Piero Bertolucci) fu pubblicata da Boringhieri nel 1958. Su
Naudé cfr. Lorenzo Bianchi, Rinascimento e libertinismo. Studi su G. N., Napoli, Bibliopolis,
1996; e l’Introduzione di D. Bosco alla naudeana Bibliografia politica, Roma, Bulzoni, 1997 (p.
13-68).
58
Altra ediz. consultata: De Universi natura, in: Opuscula mythologica, physica et ethica, gr. et lat.,
Amstelodami, H. Wetstenium, 1651 [B XIX 6,463]. All’antichissimo filosofo, coevo di Pitago-
ra, era attribuito un trattatello, De natura universi, oggi reputato (Treccani), per insufficienza
dei testimoni storici e per contenuto sincretistico, un’eclettica compilazione tardo-ellenistica
apocrifa. Dopo aver letto il De natura, C. dice che “aveva in animo di scrivere una filosofia pi-
tagorica in versi lucreziani” non pervenutaci (Syntagma I II).
790 LA CITTÀ DEL SOLE
interpr. gr. et lat...., editio tertia, [s.l.], Hier. Commelini, 1596 (Venetiis,
15591 [B XIII 5,489])
Ong = Walter Ong, Oralità e scrittura, Bologna, Mulino, 1986
Opuscula Mythologica = Opuscula Mythologica physica et ethica, graece et latine, cur.
Th. Gale, Amstelodami, Henricum Wetstenium, 1688 [8 18D 6]
Orapollo = O., I geroglifici [Venezia, Aldo Manuzio, 1505], a c. di M. A. Rigoni e
E. Zanco, Milano, BUR, 1996
Ordine = Nuccio O., Il genere dialogo tra latino e volgare, in: Manuale di Letteratura
Italiana, a c. F. Brioschi e C. Di Girolamo, Torino, Bollati Boringhieri, 1994
(t. II, p. 489-504)
Origene = Origenis Adamantii, Operum t. II..., Erasmo Roterodamo int., Lug-
duni, Iacobi Giunti [ma in colophon: Nicolai Parui et Hectoris Penet], 1536
[F IX 91 1-2]
Ortelius = Abrahamus O. [= Ortels], Theatrum orbis terrarum [15701], Antverpi-
ae, apud Chr. Plantinum, 1584
Ortelius, Synonymia = Abrahami Ortelii, Synonymia geographica, sive..., Antver-
piae, ex off. Chr. Plantini, 1578
Ossola = Carlo O., Elogio del nulla, pref. a: Le antiche memorie del nulla, a c. di C.
O. e L. Bisello, Roma, Ed. di Storia e Letteratura, 1997
Ottaviano: v. C., Epilogo
Ovidio = Publio Ovidio Nasone, Metamorphosis, texte ét et tr. par G. Lafaye, Pa-
ris, ‘Les Belles Lettres’, 1930, 3 vol.59
Pacioli = Luca P., Divina Proportione [1509] rist. anast., Venezia, 1964
Palermo = Francesco P. (a. c.), Documenti sulle novità tentate in Calabria nell’anno
1599, in ‘Archivio storico italiano’, t. IX, 1846 (p. 419-27)
Palladio = P. [pseudo-], Le genti dell’India e i Brahmani [De gentibus Indiae et brag-
manibus, 1569], a c. di Giovanni Desantis, Roma, Città Nuova ed., 1992
Pallavicino = Ferrante P., La Retorica delle puttane [1642], a c. di L. Coci, Parma,
Guanda, 1992
Paolino, Systema = Paolino da S. Bartolomeo, Systema brahmanicum liturgicum,
mythologicum, civile ex monumentis indicis..., Romae, apud A. Fulgonium, 1791
Paolino, Viaggio = P. da San Bartolomeo, Viaggio alle Indie Orientali, Roma, Ful-
goni, 1796
Paracelso = Ph. A. Th. B. von Hohenheim, Contro i falsi medici [1538], a c. di
M.L. Bianchi, Bari, Laterza, 1995
Paracelso, Paragrano = Ph. A. Th. B. von Hohenheim, Paragrano [1599], a c. di
F. Masini, Milano, SE, 1989
Patrizi = Francesco P. da Cherso, La Città felice [1553], in: Curcio 1941 (p. 119-
42) e Curcio 1944 (p. 91-112)
Pausania = P. il Periegeta, Descrittione della Grecia, Nella quale si contiene l’origi-
59
Altra ediz. consultata: Le metamorfosi, trad. di G. Faranda Villa, Milano, BUR, 1994, 2 vol.
BIBLIOGRAFIA 791
60
Rist. a c. di L. Artese, Ist. Editoriali e Poligrafici Internazionali, Pisa-Roma, 1999; in Ap-
pendice è pubblicata l’anastatica di Persio 1593.
61
“Scholam Salernitanam, quae medicinam carmine tradit” (C., Poëtica IV II).
62
Recentemente è stata pubblicata una nuova edizione: Picatrix. Un traité de magie médieval,
trad., intr. et n. par B. Bakhouche, F. Fauquier, B. Pérez-Jean, Turnhout, Brepols, 2003. È
un’opera di magia astrale anteriore all’anno Mille, fatta tradurre da Alfonso X, attribuita er-
roneamente a Ermete Trismegisto, ma che invece fu influenzata dal Corpus Hermeticum, tanto
che Ficino l’antepose alla traduzione delle opere platoniche, ritenendo l’autore addirittura
contemporaneo di Mosè. In essa si suggeriscono i modi di messa in corrispondenza con il
mondo superiore, veicolando gli influssi stellari per operazioni magiche, nonché come pro-
curarsi dei talismani. Circolò in forma manoscritta nel Rinascimento, e in partic. nel XVI sec.
63
Un passo di quest’op. è cit. da C. in Medicina (p. 111), probabilmente tratto dall’ed. del-
l’Opera del 1601.
792 LA CITTÀ DEL SOLE
Pissavino = P. P., Botero e Zuccolo: un raffronto metodologico, in: Baldini 1992 (p.
319-32)
Pittaluga = M. P., Il mito del Re Sole e C. ‘devin de la Royauté’, in: Il superuomo e i suoi
simboli nelle letterature moderne, a c. di E. Zolla, Firenze, La Nuova Italia, 1973
(III t., p. 59-78)
Platone = Opere complete, a c. di G. Giannantoni [tradutt. vari], Bari, Laterza,
1971, 9 vol.64
Pletone = Gemisto Pletone, Traité des lois [Nomon Suggraphes], par C. Alexandre
e A. Pellissier, Paris, F. Didot, 1858
Plinio = Plinius Senex, Naturalis historia, texte ét. et tr. par R. Schilling, Paris,
‘Les Belles Lettres’, 37 t. (VI, 1982; VII, 1977)
Plinio [Victorius] = C. Plinii Secundi, Historiae Mundi libri XXXVII..., exc.
Ioannes Niclaus Victorius, Lugduni, A. Vincentium, 1563 [DXVII 11081]
Plinio [Domenichi] = G. Plinio Secondo, Historia naturale, trad. per L. Dome-
nichi, Venetia, G.B. Uscio, 1589 (1561I) [DX 10,646]
Plinio [Conte] = Gaio Plinio Secondo, Storia naturale, a c. di G. B. Conte, Tori-
no, Einaudi, 1982-8, 5 vol.
Plotino = P., Ennéades, texte ét. e tr. par E. Bréhier, Paris, Les Belles Lettres,
1927
Plutarco = P., Oeuvres morales, t. V: Isis et Osiris, texte ét. et tr. par C. Froidefond,
Paris, Les Belles Lettres, 1988
Plutarco, Lyc. = P., Vitae. Lycurgus-Numa, texte ét. et tr. par R. Flacelière, Paris,
Les Belles Lettres, 195765
Poimandres: v. Trismegisto
Polemo: v. [pseudo-]Ambrogio
Polibio = Polibio di Megalopoli, Storie, intr. di N. Criniti, trad. di A. Vimercati, a
c. di N. Criniti e D. Golin, Milano, Rusconi, 1987
Polidoro = Virgilio Polidoro, Dialogi de prodigi, Lione, Giovanni di Tournes,
1554 [LP 79]66
Polo = Marco P., Milione, vers. toscana del Trecento, ed. crit. a c. di V. Bertoluc-
ci Pizzorusso, Milano, Adelphi, 1994 (1975I)67
Pompeo Faracovi = O. P.F., Utopia e civiltà (1500-1700), Torino, Loescher, 1981
Ponzio: v. C., Apologia
Ponzio 1994: v. C., Metaph.
Ponzio 1999: v. C., Compendio
Porfirio = Porhyrius, Vie de Pythagore. Lettre à Marcella, texte ét. et tr. par E. des
Places, avec un App. d’A.-Ph. Segonds, Paris, Les Belles Lettres, 1982
64
Altre ediz. consultate: Platonis Atheniensis, Opera quae ad nos extant omnia, per Marsilium
Ficinum Medicum Physicum latina lingua conscr., Basileae, Froben, 1561 [B XVII 6,119]; Il
Fedro, overo il dialogo Del Bello, trad. per Felice Figliucci, Roma, Priscianese, 1544 (ma 1564 in
colophon).
65
Altra ed. consultata: Le vite di Licurgo e di Numa, a c. di M. Manfredini e L. Piccirilli, Mon-
dadori-Valla, 1990.
66
Altra ed. consultata: Dialogi de prodigiis, Basileae, 1552.
67
C. menziona il viaggio di Polo in Antiven., p. 134.
BIBLIOGRAFIA 793
Portoghesi: v. Alberti
Possevino = Antonio P., Bibliotheca selecta, Roma, Tipografia Apostolica Vatica-
na, 1593 [XB 10 16]
Poulet = George P., Les métamorphoses du cercle, Paris, 1961 (Le metamorfosi del cer-
chio, Milano, Rizzoli, 1971)
Pozzi: v. Colonna
Prado: v. Villalpando e P.
Prendilacqua = F. P., Dialogo, in: Garin 1958 (p. 552-667)
Proclo = Proclus (et al.), Hymni, omnia ab A. M. Salvini in it. lingua transl., Pa-
dova, Seminari, 1747
Prosperi = Adriano P. e Wolfgang Reinhard (a c.), Il Nuovo Mondo nella coscienza
italiana e tedesca del Cinquecento, ‘Annali dell’Istituto storico italo-tedesco’, Bo-
logna, Il Mulino, 1992
Puppi = L. P., Verso Gerusalemme, Roma-Reggio Calabria, Casa del Libro, 1982
Roseo = Mambrino R., Elogio de’ Garamanti, da: Institutione del principe cristiano
[1560], in: Curcio 1944 (p. 43-56)
Rossi = Paolo R., intr. e note a: G. B. Vico, La scienza nuova, Milano, Rizzoli,
1963
Rossi 1971 = P.R., I filosofi e le macchine (1400-1700), Milano, Feltrinelli, ediz. ri-
veduta (1962I)
Rossi 1983 = P.R., Clavis Universalis, Bologna, Il Mulino (1960I)
Rossi 1994 = P.R., I ‘flussi’ della scoperta, ‘Sole-24 ore’, 14.8.1994
Rota Ghibaudi = S. R.G. e Franco Barcia (a c.), Studi politici in onore di Luigi Fir-
po, Milano, Angeli, 1990, 4 vol.
Rota Ghibaudi 1987 = S. R.G., L’utopia e l’utopismo, in: Il pensiero politico contem-
poraneo, a c. di S. R.G. e G.M. Bravo, Milano, Angeli, 1985-7 (III t., p. 313-
428)
Rowe = Colin R., The mathematics of the ideal villa and other essays, MIT, 1976
[1959I] (La matematica della villa ideale e altri scritti, a c. di Paolo Berdini, Bo-
logna, Zanichelli, 1990)
Ruggeri = F. R., s.v. ‘Santo Chiodo’ in: Dizionario della Chiesa Ambrosiana, Mila-
no, Nuove edizioni Duomo, 1992, t. V
Runte = H.R. R. (a c.), Li Ystoire de la male marastre. Version M of the Roman
des sept sages de Rome, crit. ed., Tubingen, Niemeyer, 1974
Saccaro Del Buffa = G. S.d.B. e A.O. Lewis (a c.), Utopie per gli anni Ottanta, Ro-
ma, Gangemi, 1986
Sackur = E. S., Sybillinische Texte und Forschungen, Halle, Niemeyer, 1898
Sade = D.-A.-F. de S., Voyage d’Italie, ét. par M. Lever, Paris, 1995 (Viaggio in Ita-
lia, Torino, 1996)
Saitta = G. S., Il pensiero italiano nell’Umanesimo e nel Rinascimento, Bologna, Zuf-
fi, 1949-51
Salsano = A. S., ‘Enciclopedia’, in: Enciclopedia Einaudi, Torino, 1977 (I vol., p.
3-67)
Sansovino: v. Beroso, Antichità
Santonastaso = G. S., C. riformatore politico e sociale, in: AAVV 1969 (p. 523-36)
Sapegno = M.S. Sapegno, Il trattato politico e utopico, in: Letteratura italiana. Le for-
me del testo. II La Prosa, a c. di A. Asor Rosa, Torino, Einaudi, 1984 (p. 949-
1009)
Sarpi = Paolo S., Istoria dell’Interdetto, a c. di M. D. Busnelli e G. Gambarin, Bari,
Laterza, 1940
Sarpi, Conc. = P. S., Istoria del Concilio Tridentino... [1619], a c. di C. Vivanti, Tori-
no, Einaudi, 1974, 2 vol.
Sasso = Luigi S., Il nome nella letteratura, Genova, Marietti, 1991
Saulnier = V.L. S., Mythologies pantagrueliques. L’utopie en France : Morus et Rabe-
lais, in: Lemeere (p. 137-62)
Savonarola G. = Girolamo S., Breviario savonaroliano, a c. di R. Sorgia, Firenze,
Ponte alle Grazie, 1997
Savonarola G. = G.S., La semplicità della vita cristiana, Ed. Ares, 1997
Savonarola = Michele S., Ad mulieres ferrarienses de regimine pregnantium et noviter
BIBLIOGRAFIA 795
68
Secondo il curatore fu scritto “nel sesto decennio del XV sec.”, e per la prima volta edito
sulla base di codici quattrocenteschi. Cfr A. Samaritani, M. S., riformatore cattolico nella corte
estense a metà sec. XV; G. Federici Vescovini, Pietro d’Abano e la medicina astrologica nello Specu-
lum physiognomiae di M.S., in: ‘Musagetes Festschrift für Wolfram Prinz’, Berlin, Gebr.
Mann, Verlag, 1991 (p. 167-78).
796 LA CITTÀ DEL SOLE
69
Firpo 1945, p. 233: “Fra le molte sue opere, il De iustitia et iure, compendio di lezioni uni-
versitarie, apparve postumo a Salamanca (1566) ed ebbe frequenti ristampe anche in Italia”.
BIBLIOGRAFIA 797
Stäuble = Antonio S., Le sirene eterne. Studi sull’eredità classica e biblica nella lettera-
tura italiana, Ravenna, Longo, 1996
Stobaeus = Johannes S., Anthologii libri duo priores qui inscribi solent Eclogae physi-
cae et ethicae, rec. Curt Wachsmuth; libri duo posteriores rec. Otto Hense, ed.
altera ex editione anni 1894, Berolini, apud Weidmannos, 1958, 5 vol.
Stobeo = G. S., Hippodamo, in: Opuscula Mythologica
Storia della tecnologia, a c. di Ch. Singer et al., Torino, Boringhieri, 1963, t. III (A
History of Technology, Oxford, 1957)
Strabone = La prima parte della Geografia... di greco tradotta in volgare italiano
da M. Alfonso Buonacciuoli Gentilhomo Ferrarese con due copiosissime ta-
vole..., libri X, Venezia, Fr. Senese, 1562; La seconda parte... libri VII, Ferrara,
Francesco Senese, 1565 [PP 3 22-3]70
Struvius: v. C., Schoppius
Tacito = Publio Cornelio T., Germania, texte ét. et tr. par J. Perret, Paris, Les
Belles Lettres, 1949
Telesio = Bernardino T., De rerum natura iuxta propria principia [De natura iuxta
propria principia, Romae, Bladii, 1565], testo e tr. a c. di L. De Franco, Cosen-
za, Casa del Libro / Firenze, La Nuova Italia, 1965-1976, 3 vol.
Tertulliano, Apolog. = Quinto Settimo Fiorente T., Apologeticum, in: PL I
Theodoreto: v. Giamblico, Vita
Thorndike = L. T., A History of magic and experimental Science, New York, Colum-
bia U. P., 1923-41 (t. V e VI)
Tico, Ticone, Tycho: v. Brahe
Timpanaro Cardini: v. Pitagorici
Todorov = Tzvetan T., Viaggiatori e indigeni, in: Garin 1993 (p. 331-57)
Tolomeo, Tetrab. = Claudio T., Le previsioni astrologiche, a c. di S. Feraboli, Mila-
no, Fondaz. Valla Mondadori, 1985
Tolomeo, Geogr. = C. T., Geografia cioè Descrittione universale della Terra, novam...
corr. da G.A. Magini..., dal lat. trad. da L. Cernoti, Venetia, fratelli Galignani,
1598 [8 19C 6]
Tolomeo (Munster), Geogr. = La Geografia di Claudio Ptolemeo Alessandrino,
con alcuni comenti e aggiunte fattevi da Sebastiano munstero [=Munster]
Alamano... con altre tav. di Iacopo Gastaldo..., rid. in volg. da Pietro Andrea
Mattiolo..., Venetia, G.B. Pedrezano, 1548 [8.19.D.15]
Tommaso d’Aquino: v. Piana, SCG, ST, THOM
Tommaso, Scritti = T. d’Aquino, Scritti politici, a c. di L. A. Perotto, Milano, Mas-
simo, 1985
Tommaso, Opusc. = T. d’A., Opuscoli filosofici, a c. di A. Lobato, Roma, Città Nuo-
va, 1989
Tornitore = T.T., Tre manoscritti inesplorati della ‘Città del Sole’, in: Omaggio a Fran-
co Croce, Roma, Bulzoni, 1997
70
Altra ed. consultata: Strabo Gnosius Amasinus, Geographicarum rerum libri XVII, gr. lat.... in-
terpr. Guarino Veronensi..., Basileae, Heinrich Petri, 1549.
798 LA CITTÀ DEL SOLE
Varrone = Marco Terenzio V., De lingua latina, texte ét. et tr. par Nisard, Paris,
Firmin-Didot, 1875
Varthema = L. De V., Itinerario, a c. di P. Giudici, Milano, Ist. editoriale italiano,
1956 [Roma, 1510]
Vasoli = Cesare V. (a c.), Magia e scienza nella civiltà umanistica, Bologna, Il Muli-
no, 1976
Vasoli 1977 = C.V., I miti e gli astri, Napoli, Guida
Vecchietti = Hieronymi Vecchietti fiorentini, De anno primitivo ab exordio mundi
ad annum Iulianum accomodato et de sacrorum temporum ratione libri octo, Au-
gustae Vindelicorum, per Andream Aperger, 1621 <anno questo che corri-
sponde “in numero dierum 2.035.400 a Creatione”> [AA XV 23]
Vegezio = Renato Flavio V., De re militari libri quatuor…, Parisiis, Chr. Wechel,
1535
Vercelloni = V. V., Atlante storico dell’idea europea della città ideale, Milano, Jaca
Book, 1994
Versins = Pierre V., Encyclopédie de l’Utopie, des voyages extraordinaires et de la scien-
ce fiction, Lausanne, L’Age de l’Homme, 1972
Villalpando e Prado = J. B. V. e J. P., In Ezechielem explanationes et Apparatus Urbis
ac Templi Hierosolymitani, Romae 1596-1604, 3 vol.
71
Secondo Amerio 1955 (p. 124n), i testi ermetici, come il Pimander ovvero Liber de potestate et
sapientia Dei, C. li leggeva nella trad. di Ficino (Venezia, 1493).
BIBLIOGRAFIA 799
Villani = Giovanni V., Nuova cronica, a c. di G. Porta, Parma, Ed. Guanda, 1990-
1, 3 vol.
Villari = R. V., La rivolta antispagnola a Napoli. Le origini (1585-1647), Bari, Later-
za, 1976 (1967I)
Virgilio = Publio V. Marone, Bucoliques, texte ét. et tr. par H. Goelzer, Paris, Les
Belles Lettres, 1925
Vitruvio = Lucio V. Pollione, I dieci libri dell’Architettura, trad. e comm. da Danie-
le Barbaro, Venetia, Appresso Fr. de’ Franceschi, 1567 (rist. anast. a c. di M.
Tafuri e M. Morresi, Milano, Il Polifilo, 1987)72
Vivanti = Corrado V., Gli umanisti e le scoperte geografiche, in: Prosperi (p. 327-50)
Vives = Augustinus Aurelius, De Civitate Dei libri XXII... Ludovici Vivis comm. il-
lustrata, s.l., J. Stoer, 1596, 2 vol. [F II 98/1-2]
Volli = Ugo V., Il linguaggio dell’astrologia, Milano, Bompiani, 1988
Waard: v. Mersenne
Waldbaum: v. C., Monarchie
Walker = D. P. W., Spiritual and Demonic Magic from Ficino to C., London, The
Warburg Institute, 195873
Widmar: v. C., Città 1963
Widmar 1964 = B. W. (a c.), Scrittori politici del ’500 e del ’600, Milano, Rizzoli
Wittkower = Rudolph W., Architectural Principles in the Age of Humanism, London,
1962 (Principi architettonici nell’età dell’Umanesimo, Torino, Einaudi, 1964)
Yates 1981 = Frances Y., Giordano Bruno and Hermetic Tradition, London, 1964
(Giordano Bruno e la tradizione ermetica, Bari, Laterza [1969I])
Yates 1972 = F. Y., The Art of Memory, London, 1966 (L’arte della memoria, Torino,
Einaudi)
Ystoire: v. Runte
72
Altre ed. consultate: De Architectura Libri Decem, traducti de latino..., da Cesare Cesariano,
Como, Gotardus de Ponte, 1521 [AB XV 26]; De architectura, ed. from the Harleian ms... by F.
Granger, London, The Loeb Classical lib., 1931-4, 2 vol.; De l’architecture, par P. Gros, Ph.
Fleury & al..., Paris, Les Belles Lettres, 1969- (8 vol.) ;
73
Il capit. ‘C. e la magia’ (da me consultato) in: Vasoli (p. 239-67); cfr la recente trad. it.: To-
rino, Nino Aragno ed., 2002.
74
Questo fisiologo peripatetico è inserito in un lungo elenco di filosofi italiani, che va dal-
800 LA CITTÀ DEL SOLE
Zoli = S. Z., L’immagine dell’Oriente nella cultura italiana da Marco Polo al Settecento,
in: Storia d’Italia. Annali, 5, Il paesaggio, a c. di C. De Seta, Torino, Einaudi,
1982
Zoppi Garampi = S. Z.G., T. C. Il progetto del sapere universale, Napoli, Vivarium,
1999
Zuccari = F. Z. e Giovanni De Castro, Il Duomo di Milano, present. di Carlo Fer-
rari da Passano, Roma, Editalia, 1992 (1863I)
Zucchini 1989 = G. Z., Utopia, distopia e Paese di Cuccagna in Ortensio Lando e Jo-
seph Hall, in: Fortunati 1989 (p. 153-62)
Zucchini = G. Z., Botero e Albergati: ragion di stato e utopia, in: Baldini 1992 (p.
287-302)
Zuccolo = Ludovico Z., La Republica di Evandria e altri dialoghi politici, pref. di
R. De Mattei, Roma, Colombo, 1944: Il porto o vero della Republica d’Evandria
([1625], p. 41-75)
Zuccolo, Città felice = L.Z., Il Belluzzi o vero della Città Felice, in: Zuccolo (p. 77-91)
Zuccolo, Aromatario = L.Z., L’Aromatario o vero della Republica d’Utopia, in: Zucco-
lo (p. 95-118)
Zuccolo, Guardino = L.Z., Il Guardino overo della eminenza della pastorale, in: Dialo-
ghi, Venezia, Ginammi, 1625
l’Aquinate a Bruno e C., con cui Naudé (De Augustino Nipho Iudicium, Parisiis, 1645) voleva
dimostrare che l’Italia era più versata della Francia in filosofia; C. lo considerava un epigono
di Averroé e di Alessandro di Afrodisia (Disp. in prol.).
INDICE DELLE ILLUSTRAZIONI
Fig. 1 XXVII
Fig. 2 XXVIII
Fig. 3 LI
Fig. 4 LII
Fig. 5 227
Fig. 6 228
Fig. 7 244
Fig. 8 246
Fig. 9 246
Fig. 10 529
Fig. 11 530
INDICE