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Tommaso Campanella

LA CITTÀ DEL SOLE


CIVITAS SOLIS
Tommaso Campanella

LA CITTÀ DEL SOLE


CIVITAS SOLIS
il manoscritto della prima redazione italiana (1602)
e
l’ultima edizione a stampa (1637)

con traduzione, apparati critici, note


a cura di Tonino Tornitore

Nino Aragno Editore


© 2008 Nino Aragno Editore

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sito internet. www.ninoaragnoeditore.it
ai miei indimenticabili Maestri
Michel David e Edoardo Sanguineti,
con immutato affetto
NOTA EDITORIALE

Rispetto all’impianto dell’edizione milanese del 1998, rimasto sostan-


zialmente invariato (complanarità di Città e Civitas con a fronte tradu-
zione di quest’ultima, lievemente ritoccata in alcuni punti; note a pie’
di pagina e a fondo testo), oltre alla necessaria revisione integrale degli
apparati di servizio, sono state eliminate le Appendici tematiche, rifuse
nelle Note di commento, e sono stati aggiunti, all’Indice dei nomi di
persone e di luoghi menzionati in CS, due nuovi indici: l’Indice dei no-
mi di persona e l’Indice dei luoghi, citati negli scritti di servizio (Intro-
duzione, Note).
Nella traduzione di Civitas, l’asterisco rinvia alle note dell’Autore, i
numeri in esponente alle note a pie’ di pagina del curatore (distingui-
bili anche per il corpo minore); e a fondo testo le Note di commento a
Civitas sono identificate attraverso il rinvio a pagina.rigo (eventualmen-
te seguita da una lettera alfabetica, nei rari casi in cui nello stesso rigo di
Civitas vi fossero più note), e sono accompagnate dagli estremi testuali
cui la singola nota si riferisce.
ABBREVIAZIONI

campan. campanelliano (/-a; /-i; /-e)


cfr confronta (rinvio a passi non presenti in questo testo)
complem. complementare (si riferisce alla nota a fondo testo, che integra quella a
fondo pagina facente capo alla stessa stringa testuale)
ed., ediz. edizione
es. esempio
f.p. [nota a] fondo pagina
ms manoscritto
mss manoscritti
n. nota
nn. note
p. pagina
partic. particolare (solo nell’espressione ‘in particolare’)
pp. pagine non sequenziali
prec. precedente
sg seguente (/-i)
v. vedi (rinvio a passi presenti in questo testo)

Au. Autore
C. Campanella Tommaso
Esp. Esposizione (le note di commento di C. alle sue poesie)
Fr. Civitas Solis, in: Realis philosophiae epilogisticae..., a Th. Adami nunc pri-
mum editae, Francofurti, Tampachii, 1623
L. ms Lucchese
P. Civitas Solis, vel De Reipublicae idea, in: Philosophia realis, Parisiis, Houssaye,
1637
R. ms Riccardiano
T. ms Trentino (qui edito)
T. pagina.rigo es. T. 12.24: rigo 24 della colonna del testo del ms Trentino di Città di p.
12; invece: 12.24 (senza T.) corrisponde a rigo 24 della colonna del testo
di Civitas di p. 12.

Per le abbreviazioni delle opere di C. e di altri autori v. BIBLIOGRAFIA


LA CITTÀ DEL SOLE
DI TOMMASO CAMPANELLA (1568-1639)*

La storia editoriale della Città del Sole

La prima stesura in italiano risale presumibilmente al 1602;1 la prima


pubblicazione, tradotta in latino dall’Autore, risale al 1623, quando Ci-
vitas Solis appariva come appendice del De Politica alle p. 415-64 della
Realis Philosophiae Epilogisticae pubblicata a Francoforte a c. di Tobia
Adami; l’ultima edizione, vivente l’Autore che l’aveva direttamente se-
guita e revisionata, risale al 1637, compresa nella Philosophia realis, pub-
blicata a Parigi, sempre in appendice alla Politica (p. 145-169).
Delle edizioni postume, degne di menzione sono:
– Civitas Solis Poëtica. Idea reipublicae philosophicae, Ultraiecti, Apud Ioan-
nem a Waesberge, 1643: è la prima edizione a sé stante dell’opera, in
compagnia del Mundus alter et idem di J. Hall e della Nova Atlantis ba-
coniana;
– Die Sonnenstadt oder Idee einer philosophischen Republik, Altenburg, 1789
è la prima traduzione (anonima) di Civitas, segnalata da Firpo come
ed. rarissima e da lui stesso mai rintracciata; Palumbo indica invece
un’ed. curata da Chr. G. Tröbst: Der Sonnenstadt des Dominikaners T.C.,

* Quanto segue è una rielaborazione dell’Introduzione all’edizione da me curata di: T. Cam-


panella, La Città del Sole / Civitas Solis, Unicopli, Milano, 1998. Continuo a ritenere che il sen-
so di questo dialoghetto riposi non solo e tanto nella delineazione di una società ‘naturale’
(cioè di quale organizzazione sociale sia in grado di dotarsi l’uomo privo sia di Rivelazione
sia di corruzione della Ragione, scintilla innata del Divino), ma riposi principalmente nel-
l’afflato profetico: l’Urbe solare è la prefigurazione di quel che sarà a breve l’Orbe terrestre.
Per una trattazione sintetica, ma chiara, esaustiva e aggiornata, della complessa e poliedrica
bio-bibliografia del filosofo calabrese, si rinvia, dopo le fondamentali ricerche di L. Amabile
nell’Ottocento e L. Firpo nella seconda metà del Novecento, a: J. M. Headley, T. C. and the
Transformation of the World, Princeton U. P., Princeton, 1997; G. Ernst, Tommaso Campanella,
Laterza, Roma-Bari, 2002: l’Autrice, uno dei massimi studiosi attuali del C., oltre ad aver cu-
rato e pubblicato svariate opere dello Stilese, dirige, insieme ad E. Canone, la rivista ‘Brunia-
na & Campanelliana’, che ha ospitato contributi testuali e critici fondamentali.
1
Per la recensione dei 17 mss fino ad allora noti, il tracciamento dello stemma dei codici e
l’apparato completo della variantistica cfr l’edizione della Città del Sole a c. di G. Ernst (La-
terza, Roma-Bari, 1997). Il numero dei testimoni conosciuti frattanto è salito a diciotto, per-
ché Guerrini 2000 ha rinvenuto nella Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze alle cc. 49r-85v
di un codice miscellaneo una copia della Città del O Sole di fra Thommaso Campanella, da una
cui prima esplorazione lo studioso conclude, “almeno ipoteticamente, che la nuova versione
dell’opera campanelliana potrebbe essere collocata in uno dei rami più alti della famiglia di
codici unificata sotto la sigla β, ma certamente non essere considerata il capostipite dell’inte-
ro raggruppamento” (p. 549).
XII LA CITTÀ DEL SOLE

in: Programm der Realschule zu Weimar…, Weimar, Druk der Hof =


Buckdruckerei, 1860;
– la prima traduzione italiana risale al 1836, eseguita da G.B. Passerini
sul testo del 1637 (Tip. Ruggia, Lugano), l’unica esistente (e varia-
mente ristampata nell’Ottocento) fino alla fine del secolo scorso,
quando fu pubblicata la traduzione di C. Carena (Milano, 1997) e, pa-
rallelamente e indipendentemente, quella a mia cura (Milano, 1998);
– La Cité du Soleil ou Idée d’une république philosophique è la prima tradu-
zione francese, effettuata dal fourierista Fr. Villegardelle (Levavas-
seur, Paris, 1840);
– in Inghilterra il testo dell’edizione parigina è tradotto (lacunosamen-
te e male) per la prima volta in una collettanea curata da Henry Mor-
ley per Routledge and Sons (London, 1885), col titolo Ideal Com-
monwealths, che raccoglie il Licurgo di Plutarco, le utopie inglesi mo-
derne (More, Bacone, Hall) e appunto City of the Sun;
– la prima traduzione spagnola (sempre del testo del 1637) risale al
1941: La Ciudad del Sol è compresa in Utopias del Renacimiento (con
More e Bacone), tradotta da A. Mateos (Mexico-Buenos Ayres, Fondo
de Cultura economica);
– la riscoperta dell’originaria redazione italiana della Città del Sole, mal-
grado i suoi mss circolassero fin da subito in Europa (e fossero letti
da personaggi come Valentin Andreä, Comenio, Bacone), risale alla
seconda metà dell’Ottocento, per merito di D’Ancona, Amabile e
Croce; quest’ultimo fu forse il primo a rendersi conto che non si trat-
tava di traduzioni di Civitas Solis; ma la prima edizione, molto poco
‘critica’, risale al 1904, a c. di E. Solmi (Tipogr. della Provincia di L.
Rossi, Modena); bisogna aspettare il 1941, con la fondamentale edi-
zione di N. Bobbio per l’Einaudi, per avere finalmente un testo criti-
camente attendibile sia della Città del Sole che dell’edizione parigina
della Civitas Solis con in nota le principali varianti rispetto alla Fran-
cofortese; qualche anno dopo L. Firpo ripubblicherà la sola Città, ar-
ricchita dal contributo del fondamentale ms Trentino, che è la reda-
zione più antica, sebbene, come tutti gli altri mss, non autografa; nel-
l’edizione da me curata, infatti, ho voluto tener conto proprio e solo
di questo ms per porlo a confronto con l’ultima stampa autoriale, on-
de far risaltare meglio continuità e differenze fra quello che era stato
il frutto della prima ispirazione, la redazione cioè temporalmente più
prossima alla congiura, cui per tanti aspetti essa è legata, e l’edizione
‘ne varietur’ di 35 anni dopo.
– Dalla Città del Sole è stato tratto anche un film di G. Amelio nel 1973,
che, ispirandosi all’opera omonima, svolge il tema del rapporto del-
l’intellettuale con il potere, rappresentato da uno stato comunistico e
teocratico.
INTRODUZIONE XIII

Senso dell’opera

I tre cardini su cui poggia la visione del mondo dei Solari, la loro ‘fi-
losofia di vita comunitaria’ (“si risolsero vivere alla filosofica in comu-
ne”), sono abbastanza chiari ed espliciti:
1) la legge naturale: non fare agli altri quel che non vuoi sia fatto a te
(132.33-5)2;
2) la legge sociale: il tutto ha priorità sulla parte (86.1-2), la collettività
viene prima dell’individuo;3
3) la legge economica: a) sradicare l’amor di sé, alias l’egocentrismo,
perché con la messa in comune dei mezzi di produzione e riprodu-
zione spariranno tutti i guai e guasti sociali (sia civili che penali:
20.24-36); b) non servire le cose, ma servirsene (56.30-1): la dialetti-
ca essere/avere è sì una costante del cristianesimo evangelico, ma è
anche una straordinaria anticipazione della teoria marxiana dell’a-
lienazione.
Inoltre, in quanto visione del mondo, CS è una sorta di enciclopedia
della scienza campanelliana in compendio e in vulgata; donde la scelta
della forma del dialogo, non filosofico (il Genovese ammette aperta-
mente: “Io non so disputare”), ma descrittivo (di teorie e pratiche di vi-
ta alternative), evenemenzialmente nullo, ma strategicamente molto ef-
ficace, sia per catturare il lettore (facendo recitare a un uomo di mare,
non di biblioteche, la summa della sua filosofia), sia per schivare il cen-
sore, come ripetutamente esorterà Galilei “che trattasse questo suo si-
stema in dialogo... per assicurarci da tutti ecc.” - anche se quello strata-
gemma non giovò molto allo scienziato.4
Meno perspicua risulta invece la motivazione che ha indotto C. a va-
gheggiare questa repubblica filosofica: per un’innata aspirazione uma-
na a fingere paradisi in terra? Per rifugiarsi almeno idealmente in un

2
I rinvii testuali si riferiscono rispettivamente a pagina e, separato dal punto, rigo (o righi)
della presente edizione: 132.33-5 significa dunque pag. 132, righi 33-5 di Civitas; invece i rin-
vii a Città sono preceduti da T. (=abbrev. di ms Trentino) e quindi pagina.rigo (in corsivo).
3
Trascurare questa premessa porta ad uno dei più classici travisamenti: CS sarebbe il prototi-
po dell’utopia prescrittiva, coercitiva, dominata da un potere onnipresente e onnipotente, in
contrasto con l’idea di utopia come libero gioco e anarchica cuccagna. Invece, sotto il profi-
lo ideologico, il trattatello campan., pur dettato da esigenze di giustizia sociale, è da un lato
il riflesso della persecuzione, operata in quegli anni dalla monarchia in direzione sempre più
assolutistica, contro tutti i particolarismi, e che infatti si traduce in un potere capillare dello
stato che tutto regola e dirige; e dall’altro è una prosecuzione dell’‘integralismo’ cattolico
medievale, con la sua perfetta congruenza e compattezza dei tre ordini sociali, incarnati dal-
le tre Primalità: Pon, Sin, Mor.
4
C., Lettere, a c. di V. Spampanato, Laterza, Bari, 1927 (lettere del 1.5 e 5.8.1632); per la for-
ma-dialogo cfr il bel saggio di Ordine.
XIV LA CITTÀ DEL SOLE

suo mondo sognato, dopo il tragico fallimento del tentativo di cambia-


re il mondo reale? Ma a che gioverebbe tratteggiare un ennesimo non-
luogo? È un’obiezione - la superfluità del genere utopistico - che si è po-
sto l’Autore stesso in apertura alla IV delle Quaestiones Politicae, proprio
a proposito dell’opportunità di allegare CS alla Politica: “Infatti ciò che
non è mai esistito, né mai esisterà, né si può sperare che esista, è impos-
sibile e vano; ma un tale modo di vivere in comunità e senza peccato è
impossibile e non si è mai visto né mai si vedrà: dunque è vano parlar-
ne”.5 È un’obiezione classica contro le utopie, nata con le utopie stesse,
da Aristofane a Luciano che irridevano la Repubblica platonica.6 C. si
difende adducendo gli esempi di More e di Platone, ma anche quelli
meno ovvi di Aristotele e di Cristo, tutti teorizzatori di stati più o meno
ideali: il fatto però che sia arduo metterli in pratica non significa che le
loro opere siano prive di valore - chi riuscirebbe mai a imitare la vita di
Cristo? E con questo si dovrebbe concludere che “i Vangeli furono scrit-
ti inutilmente?” (Quaest. pol. IV I, p. 101). Ma un puro predicare il dover
essere non basta; una pulsione asintotica è un tensore che può cataliz-
zare e orientare energie, valori... ma non basta ancora.

Proviamo allora ad elencare i possibili motivi che sono alla base del-
la stesura di CS:

1) Dopo tutte le calunnie rovesciategli addosso da delatori prezzolati


o traditori interessati (a salvare la propria pelle anche a scapito di quel-
la altrui), una volta raggiunta la certezza della salvezza attraverso l’eroi-
ca finzione della pazzia, il Filosofo rivela l’obbiettivo reale della congiu-
ra calabrese: altro che libertinismi, espropri, saccheggi! Il modello è il
cenobio: Città del Sole è anzitutto un grande convento armato. Firpo ri-
corda un “frammento di una lettera che C. scrive al suo luogotenente,
fra’ Dionisio Ponzio, un altro domenicano come lui, il ‘numero due’
del gruppo dirigente della congiura; a questo frate il Filosofo scrive: ‘lo-
quebaris quae minus intelligebas’, parlavi di cose che non avevi capito
affatto, cioè avevi snaturato e avvilito un sogno gigantesco, nobile, di ri-
generazione e di liberazione. Ecco allora che CS viene scritta come una

5
Le quattro Quaestiones politicae apparvero nell’edizione parigina della Philosophia Realis
(1637; p. 100-12); il testo e la traduzione della IV, dedicata a problematiche ‘Solari’, adesso la
si può leggere in appendice all’edizione di CS, a c. di G. Ernst (BUR, Milano, 1996, p. 97).
6
Più recentemente A. Brucioli diceva che bisogna sforzarsi di trovare “come doverrieno es-
sere fatte et instituite quelle città, che veramente si potessino chiamare Republiche, secondo
quelle, dico, che sono state o che possano essere, e non secondo quelle impossibili che d’al-
cuno sono state imaginate, più presto secondo le favole de’ Poeti” (Dialogi, Venezia, per B. de
Zanetti, 1538 [rist.: Napoli, 1983], VI, c. 26v).
INTRODUZIONE XV

fiera risposta, non senza una certa tendenza all’idealizzazione, e come


la rivendicazione di un ideale tradito”.7 Ma vi sono anche altre testimo-
nianze autobiografiche, che ci fanno intuire come CS sia potuta essere
originariamente (e indirettamente) anche una specie di resa dei conti
del capo verso i suoi ex-adepti; ad es. la coppia di sonetti dedicati ‘A cer-
ti amici uficiali e baroni, che, per troppo sapere, o di poco governo o di
fellonia l’inculpavano’: in pratica, C. era stato accusato di aver fatto fal-
lire la congiura per colpa della sua saccenza, o della fiducia nelle sue
qualità intellettuali, e poi, alla prova del fuoco, aveva mostrato scarse
doti di coraggio. Anche costoro, evidentemente, meritavano una rispo-
sta più articolata e infatti alla questione dedicherà un intero paragrafo
intitolato appunto “Num sapientes sint apti regno” (30.12). L’adiacenza
temporale alla fallita insurrezione del 1599 suggerisce dunque che CS
sia un memoriale, filosoficamente idealizzato, di difesa dagli attacchi
provenienti sia dal fronte degli ex-congiurati sia da quello del potere
imperiale e papale.
2) L’altra adiacenza temporale, quella con la stesura degli Aforismi po-
litici (1601), a cui CS sarà poi asservita come appendice, suggerisce
un’ulteriore ipotesi interpretativa: CS è un esperimento ‘in vitro’ di
quel che il trattato politico teorizzava. Dopo la rifondazione della scien-
za politica, su basi alternative a quella di Machiavelli (e di Sarpi), l’Au-
tore procede ad un’esemplificazione ‘pratica’, alternativa anch’essa (e
anzi “superiore”) a quelle di Platone e di More.8 Si consideri un uomo
allo stato di natura, cioè non condizionato né negativamente dalla cor-
ruzione della civiltà (come quella occidentale) né positivamente dalla
Rivelazione: quest’uomo, con l’ausilio della sola ragione, fonderebbe
una società ‘giusta’ analoga a quella dei Solari. Ciò comproverebbe va-
rie e importanti teorie: se a questa società, per esser definita cristiana,
mancano solo i Sacramenti, vuol dire che l’uomo naturale è ‘naturali-
ter’ cristiano; che la ragione, lungi dall’esser in contrasto o d’impaccio
per la fede, è la testimonianza più probante della scintilla del Divino in
noi; e che, insomma, fra la vita degli Apostoli e quella sorta di convento
armato che è la Città del Sole, l’unica differenza è l’autoconsapevolezza
fornita ai Cristiani dalla Rivelazione.9 La scelta del modello cenobitico

7
Per una definizione di ‘utopia’, in: Utopie per gli anni Ottanta, a c. di G. Saccaro Del Buffa e A. O.
Lewis, Gangemi, Roma, 1986, p. 809.
8
“Scripsi praeterea Aphorismos politicos… et politicam scientiam condidi… adiecique ideam
reipublicae quem voco Civitatem Solis, longe praestantiorem quam sit Platonica aut alia quae-
vis” (De libris propriis et recta ratione studendi Syntagma, a c. di G. Naudé, Paris, 1642, I III [re-
centemente riedito e tradotto, in: Tommaso Campanella, testi a c. di G. Ernst, introd. di N. Ba-
daloni, Ist. Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma, 1999, p. 361]).
9
Nella prima glossa dell’edizione parigina di CS C. annota che questo dialogo “contiene la
XVI LA CITTÀ DEL SOLE

non è banale riflesso autobiografico (quale struttura sociale ci si può


aspettare da chi fin da piccolo ha conosciuto quasi solo le mura del con-
vento?), ma rispecchia una precisa filosofia della storia: la comunità
perfetta è quella fondata da Cristo e dagli Apostoli; purtroppo, per la
congenita insufficienza (‘nullità’, direbbe C.) umana, quel modello è
ormai perduto, ma non inimitabile; anzi, è praticato tuttora nei con-
venti. Dunque non resta che esportarlo a livello laico, per poi universa-
lizzarlo: dall’urbe solare all’orbe mondiale.
3) Questo modello di società ‘naturale’ non si limita però solo a una
critica dell’esistente (come dovrebbe andare il mondo, a fronte di come
invece è – e quindi quanto si corrompa la società, quando si allontana
dalla purezza originaria razional-evangelica); CS, a differenza delle uto-
pie classiche e moderne, non è confinata nell’iperuranio delle idee bel-
le e impossibili né in un passato edenico irrecuperabile, ma vuol essere
la prefigurazione di quel che ineluttabilmente accadrà: i Solari “dicono
che il mondo si riducerà a vivere com’essi fanno” (T.84.28-30); donde
l’implicito monito ad assecondare questo processo storico-sociale ed in-
sieme escatologico, che conduce cioè alla fine della storia10.

La morale della favola bella narrata dal Genovese, come ogni morale
che si rispetti, è enunciata nel finale. O meglio: avrebbe dovuto esserlo.
Il finale infatti è tronco, interrotto com’è da una reiterata dichiarazione
d’impossibilità: Genovese: “Ma di quanto è per seguire presto nel mon-
do te ‘l dirò un’altra fiata […]”; Ospitaliero: “Di grazia non ti partire; se-
gui quello che mi prometti, adesso che è tempo, ché mi sarà di soma

dottrina pagana propedeutica [= “catechismum”] al buon governo e alla fede cristiana


schiettamente apostolica” (2.16-21), rinviando alla IV Quaest. pol.: i Solari “sono quasi come
catecumeni del Cristianesimo, come Cirillo dice nel Contro Giuliano che ai Gentili è stata da-
ta la filosofia quasi come introduzione [=catechismus] alla fede evangelica. Quindi noi, con
l’esempio di questa Città, insegniamo agl’infedeli a vivere rettamente, se non vogliono esser
abbandonati da Dio, e persuadiamo i Cristiani che la vita di Cristo [cioé il Vangelo] è in ar-
monia con [le leggi del]la natura, come fa S. Clemente Romano con la repubblica socratica”
(I, p. 101). Quindi: “la filosofia dei pagani è soltanto un catechismo, la nostra è una comple-
ta dottrina... Delle teorie dei pagani ci avvaliamo solo perché hanno mutuato la loro razio-
nalità dalla ragione prima, che è Cristo; e benché essi non credano nelle cose soprannatura-
li, non per questo in quelle naturali risultano non essere partecipi di Cristo” (Apologia pro Ga-
lileo [Francoforte, 16221], III, pp. 16, 20 e 25; l’ediz. più recente e attendibile è quella curata
da M.-P. Lerner, Les Belles Lettres, Paris, 2001).
10
Già Tobia Adami aveva riconosciuto che la superiorità di questo modello di repubblica
ideale rispetto a quelle passate consisteva nel suo ispirarsi al modello della natura: “In effetti
il rinvio alla natura, intesa come espressione dell’intrinseca arte divina, e la critica della so-
cietà esistente, infelice e ingiusta proprio perché si allontana da quel modello, o non lo imi-
ta in modo corretto, è la chiave di lettura più semplice e persuasiva dell’utopia campanellia-
na” (Ernst 2002, p. 90).
INTRODUZIONE XVII

grazia.”; Genovese: “Non posso, non posso”. Che cosa davvero ‘non
può’ dire il Genovese? Lasciamo da parte, infatti, l’escamotage dell’im-
prorogabile partenza; l’impossibilità vera del Genovese è dovuta all’i-
neffabilità del presagio; profezie come quelle non si possono enunciare
brevemente e, di più, impunemente. Infatti quel che il Genovese pro-
mette che dirà “un’altra fiata” sarà l’oggetto di un’opera di poco poste-
riore: gli Articuli prophetales, una cui prima anticipazione era già conte-
nuta in un trattatello (perduto), il Prognosticum astrologicum de his quae
mundo imminent usque ad finem stilato nel 1603, nonché “ampio sviluppo
della Secunda delineatio defensionum, nella quale C. per giustificare la pro-
pria azione in Calabria, alludeva agli autori, teologi, profeti sacri e pro-
fani, astrologi che avevano profetizzato una profonda riforma della
Chiesa” (Ernst, p. 386n del Syntagma). Le memorie difensive, non più
presentate da C. che nel frattempo era ricorso allo stratagemma della
pazzia per salvarsi, erano rimaste nelle mani degli amici, e “verranno
riordinate da un ignoto amanuense per mano di Vincenzo Ubaldini di
Stilo e da fra Pietro Ponzio che si occupa degli scritti d’ispirazione pro-
fetica” (Formichetti 1999, p. 115-6).
Si possono, a questo punto, fare le più disparate ipotesi: ad es. che il
nucleo dei futuri Art. proph. (identificabile nell’ultimo capitolo) avreb-
be dovuto costituire l’originario finale di CS e restituire le motivazioni
profonde dell’operato (la prassi!) di un frate dipinto nel processo come
un rivoluzionario, un traditore alleatosi con i Turchi, un eretico che vo-
leva farsi passare per novello Messia rivelatosi, dopo la cattura e la con-
danna, un vigliacco che non aveva saputo assumersi la responsabilità
del gesto velleitario costato tante vite e sofferenze ai suoi seguaci; ebbe-
ne, proprio nel cit. capitolo degli Art. proph. (il XVII), C. si presenta co-
me un profeta disarmato, come un redivivo Noè, che, nell’imminenza
della catastrofe presagita, traghetta i superstiti al riparo su una monta-
gna (il monte Consolino di Stilo?), non diversamente da come avevano
fatto i Veneziani, per salvarsi dalle invasioni barbariche, senza per que-
sto esser tacciati di ribellione all’Impero: “nulla osta a che io confessi di
aver voluto predicare questa desiderata repubblica, se fatalmente fosse
sopraggiunta la rovina per il regno e la provincia, raccogliendo i super-
stiti sui monti; non enim haeresim aut rebellionem confessus sum, sed
voluisse uti malo eventu in bonum” (Art. proph., p. 297):11 nel finale di
CS, come nel finale di Art. proph., il profeta voleva mostrare di essere sta-
to non un eretico eversore ma un eroico salvatore della patria.12

11
Articuli prophetales [1603-6], ed. crit. a c. di G. Ernst, La Nuova Italia, Firenze, 1976, p. 297.
12
È C. stesso ad ammettere le sue eterodossie, oltre che nei verbali dei processi, in svariati al-
tri luoghi, raccolti da Amerio (R. A., Un’altra confessione dell’incredulità giovanile del C., ‘Rivista
XVIII LA CITTÀ DEL SOLE

Ma questa è solo una faccia della medaglia; è la faccia di CS rivolta a


un passato col quale C. chiude i conti. E verso il passato un testardo or-
goglioso come lui sarebbe disposto ad accettare soltanto una critica: es-
sersi illuso di poter coinvolgere protagonisticamente le masse, con la
conseguenza di farsi travolgere da un libertinaggio avido e dissoluto e
aver fatto fallire il moto insurrezionale.13 Poiché la sua proposta di una
società comunitaristica non si basa né su un’analisi sociale (la disugua-
glianza) né su una economica (il plusvalore), ma etica (questo è il mo-
tivo fondamentale per cui i Solari sono ‘comunitaristi’ e non ‘comuni-
sti’), essa deve necessariamente far leva solo sull’élite dei ‘sapienti’. Gli
‘ottimati’ sono gli altruisti - “optimi autem viri qui totum parti antepo-
nunt” -, coloro cioé che hanno una visione corretta del vero bene, e per-
ciò antepongono la specie all’individuo, l’interesse collettivo al privato;
mentre i “mediocres”, per difetto di sapienza, non sanno elevarsi al di
sopra del ‘particulare’, del loro gretto e ristretto ‘io’. Quest’aristocrazia
non è composta né dai più forti né dai più capaci né, tanto meno, dai
più blasonati, ma dai più sapienti, secondo la platonica corrispondenza
‘sapere è valere’; ovvero dai (veri) filosofi, coloro i quali sono i deposi-
tari del (vero) bene, al cui esempio e al cui traino aggiogare il carro del-
le masse.14 Pertanto, a correzione dello sbaglio demagogico commesso

di filosofia neo-scolastica’, gennaio-febbraio 1953, p. 75-6); la sua principale eresia consisteva


nell’aver predicato una religione naturale; donde l’importanza retrospettiva attribuita alla
religione Solare, secondo il già enunciato principio che chi segue la legge di natura è ‘natu-
raliter’ cristiano, salvo i Sacramenti (T.134.7-16).
13
In un gruppo di sonetti scritti proprio nello stesso torno di tempo in cui attendeva alla ste-
sura di CS, polemizza con la plebaglia che patisce ogni insulto senza ribellarsi, ignara che
“Tutto è suo quanto sta fra cielo e terra,/... e se qualche persona/ di ciò l’avvisa, e’ l’uccide
ed atterra” (33, 12-4); ma, a scanso di fraintendimenti: C. non disprezzava i dannati della ter-
ra, proprio lui, figlio di un ciabattino semianalfabeta, giunto a stento all’autocoscienza poli-
tica, come ricordava Firpo: “Qui è la più profonda radice di questo libro: nella consapevolez-
za del millenario patire dei diseredati... che raggiunge la soglia della coscienza ed esige con
una sua perentoria rudezza l’instaurazione di una società giusta e solidale, libera dall’op-
pressione e dalla miseria” (La Città ideale di C. e il culto del sole, in: ‘Ricerche storiche ed eco-
nomiche in memoria di C. Barbagallo’, a c. di L. De Rosa, ESI, Napoli, 1970, II t., p. 382). È
però stata avanzata un’altra ipotesi altrettanto stimolante, che si fonda non sull’estrazione so-
ciale ma sulla formazione clericale del promotore della congiura: secondo la Yates si deve
“porre l’insurrezione calabrese del 1599 in rapporto con l’insofferente comportamento dei
domenicani napoletani che quattro anni prima, armi in pugno, resistettero nel convento di
San Domenico contro un gruppo di riformatori inviati da Roma per imporre loro una con-
dotta di vita più regolare... [e che quindi] le idee rivoluzionarie di Bruno e C. non fossero pe-
culiari di quei filosofi, ma avessero la loro radice in una certa mentalità generalmente diffu-
sa, nel Meridione, tra le fila dell’ordine. La rivolta calabrese può essere stata l’ebollizione fi-
nale di quelle forze che spinsero sia Bruno che C. ad intraprendere la loro pericolosa carrie-
ra” (F. Y., Giordano Bruno and Hermetic Tradition, London, 1964 [Giordano Bruno e la tradizione
ermetica, Laterza, Bari, 1969, p. 394]).
14
“Sciunt enim paucos esse viros, qui non nisi coacti servent iustitiam... Oportet ergo, quo-
INTRODUZIONE XIX

nella congiura, la Città del Sole sarà fondata e retta da un’aristocrazia


intellettuale, cioè sarà una ‘Repubblica di filosofi’.15
Poi c’è l’altra faccia, quella rivolta al futuro prossimo venturo: che
cosa sta “per seguire presto nel mondo” (T.160.1)? Qualcosa lo si intui-
sce già nel corso del dialogo; una delle affermazioni meno vaghe è a
T.136.26sg: dopo aver lasciato balenare grandi novità (T.136.4: “E se sa-
pessi che cossì [=cosa] dicono per astrologia e per li stessi profeti no-
stri...”) connesse all’avvento di una “gran monarchia nova e di leggi
reforma”, precisa: “ma prima si svelle e monda, poi s’edifica e pianta”.
La ricostruzione (o ‘renovatio’) non sarà dunque indolore, perché essa
avverrà sulle macerie del passato. Ma tutta la terribilità di quell’“evelli et
extirpari” (138.2) resta impregiudicato, perché sospeso dall’incomben-
te approssimarsi della partenza del Genovese (“ho da fare”). Vi è tutta-
via una serie di indizi (e null’altro) che incoraggiano a ipotizzare che
originariamente l’Autore forse voleva svelare gli arcani dei presagi pro-
prio nell’explicit di CS:

a) Un primo dato curioso: le ultime due battute del dialogo nel ms


Trentino sembrano di altra mano rispetto a quella che ha (tra)scritto il
testo fino a “… prima Ragione, sempre laudanda. Amen” (T.160.8-10; v.
fig. 2); fra le tante cause ipotizzabili, si potrebbe annoverare anche un
ripensamento repentino: o C. inizialmente aveva in mente di fermarsi
proprio lì (del resto, quale miglior congedo di quell’“Amen” di
T.160.10?); oppure l’“Amen” era semplicemente l’explicit della battuta,
non dell’intero dialogo, il quale avrebbe dovuto proseguire narrando
quel che presto sarebbe accaduto nel mondo; ma l’Autore cambia idea
e in luogo della profezia, confeziona un finale posticcio, la cui anodi-
nità16 è il segnale più chiaro dell’(auto)censura impostasi; una contro-
prova che si tratta di finale arrabattato (per rimediare a un ripensa-
mento dell’ultima ora, di qualunque genere esso sia stato), la fornisco-

niam omnes sumus mali ex amore proprio nimioque, viros bonos ita vivere, ut alii ex pudore
et honore et amore boni communis exacto, quem in eis inspiciunt, sic vivant, ut aliis sint
commodi, totumque corpus Reipublicae ita coalescat, ut omnia membra sint proficua conso-
nentque omnibus membris” (Quaestiones Oeconomicae III, I; in: Philosophia Realis, Parisiis, 1637,
p. 181).
15
L’altro caposaldo dell’eticità di questo stato poggia sulla sua ‘aurea medietas’: “abbiamo
sfuggito gli estremi, e ridotto tutto al giusto mezzo, dove sta la virtù, e perciò non è possibile
immaginare una repubblica più felice o più semplice” (Quaest. Pol. IV I, p. 102).
16
Genovese: “Non posso, non posso”: perché assolutamente non può? Perché urge la par-
tenza? O c’è qualche motivazione più grave e sostanziale legata al contenuto delle profezie?
L’insistenza dell’Ospitaliero e l’‘impotenza’ del Genovese non lasciano forse intendere che il
non detto è insieme più importante e più indicibile di quanto fin lì era stato detto?
XX LA CITTÀ DEL SOLE

no le successive redazioni del testo italiano, a partire dal ms Riccardia-


no (1604), dove l’ultima frase pronunciata dall’Ospitaliero si riduce a
un semplice “Aspetta, aspetta”, cancellando la reiterazione della richie-
sta di lumi sul futuro incombente. In sintesi: mentre nel Trentino forse
sorprendiamo l’Autore proprio nel momento in cui ha deciso di cam-
biare il finale, omettendo quella parte che diverrà il cit. Prognosticum
astrologicum, nelle redazioni successive, quando il Prognosticum non solo
è già stato scritto, ma addirittura sta per dilatarsi negli Art. proph., il fi-
nale si stabilizza nel brusco troncamento dettato da fretta di partire.
b) In alcuni mss deteriori (risalenti al 1607-9) compare un lungo sot-
totitolo: Dialogo di Republica nel quale si disegna l’idea di riforma della Repu-
blica cristiana, conforme alla promessa da Dio fatta alle Sante Caterina e Brigi-
da; oltre a cercare nelle due Sante un avallo autorevole, l’Autore inten-
de suggerire che il suo progetto di “riforma” è conforme ai disegni divi-
ni comunicati a Caterina e Brigida, che minacciano lacrime e sangue
per la Chiesa e specie le sue alte gerarchie, macchiatesi di vari “abusi”
(donde la rischiosità nel propalare tali ‘promesse’).17
c) Dopo la riuscita finzione della pazzia, C. era stato semplicemente
‘dimenticato’ in carcere; ma il prigioniero non voleva esser sepolto vivo;
e dunque da un lato cercava di destare interesse per il suo caso umano
(il suo principale obbiettivo era quello di farsi trasferire dai castelli na-
poletani alle carceri del Sant’Uffizio romano), e dall’altro di negoziare
la sua libertà dimostrando, nei Memoriali indirizzati ai Potenti, che non
solo era innocuo, ma addirittura che, una volta libero, avrebbe potuto
render loro, grazie alla sua scienza e pre-scienza, innumerevoli servigi:
“At etsi diabolus essem, inauditus mori contra Canones et Leges non
debeo: praesertim cum pollicear ecclesiae Dei tot tantaque beneficia
ipsique Regi”18. Tuttavia scrive anche di voler riservarsi di comunicare a
voce direttamente all’illustre destinatario “segreti d’importanza” priva-
ti, tecnico-scientifici, ma essenzialmente profetici, ricavati dai segni ce-
lesti e terrestri, sul futuro del mondo e della Chiesa in partic.; e questo

17
Illuminante il caso di un’altra sua opera, l’Atheismus triumphatus, che, pur avendo subìto
svariate censure (in partic. dovette espungere un passo “de Ecclesiae instauratione”), dopo
sei mesi (1631) viene ritirata dalla circolazione; nell’edizione successiva (apud Tussanum Du-
bray, Parisiis, 1636), tuttavia, non poté fare a meno di precisare: “Scripseram in hoc Astrolo-
gicum prognosticum pro Eccle. non discordans a vatilinio [sic] S. Vincen., Brigid., Cath.
Carthusiani: sed prudentia summi pontificis iussit deleri quamvis cum protestatione ne de-
mus ansam Astrologiae... et hoc ipse dixit S. Brigidae: ‘Quod si homo siderum motum consi-
deraret, de providentia Dei nil dubitaret’” (p. 209); la stessa autocensura su pronostici e pro-
fezie sul futuro del cristianesimo, che i Solari hanno riferito al Genovese (136.4sg), la ritro-
viamo a 154.9-11: “prognostica nec recitare volo quoniam sapientissimus Papa noster iustis
de causis vetuit”.
18
Ad Casparum Schoppium (giugno 1607; in: Lettere, p. 100-1).
INTRODUZIONE XXI

non solo nei Memoriali, ma anche in opere trattatistiche19 e addirittura


negli stessi Art. proph.: “Hic autem celo multa tempore suo et loco di-
cenda, quae adhuc sapientibus nationum clam fuerunt” (p. 181).

Vi sono dunque alcuni indizi che potrebbero far ipotizzare che al-
l’atto della prima stesura di CS l’Autore è tentato a narrare quanto sa-
rebbe accaduto “presto nel mondo” per sommi capi, forte della scusan-
te della fretta di partire dell’Ospitaliero. Per ragioni di opportunità ab-
bastanza ovvie (profetare, e per giunta predire sciagure alla Chiesa, era
molto rischioso nelle sue condizioni), decide di limitarsi a vaghe allu-
sioni e, tagliato il finale, rimandare ad “altra fiata’ – ed altre sedi meno
compromettenti. Il tempo di profetare non è ancora giunto: anche
un’altra opera scritta in questi anni cruciali (fine 1604), Il senso delle cose
e la magia, riserva l’ultimo capitolo all’astrologia, accennando breve-
mente alle questioni principali, ma, come in CS, omettendo qualsiasi
pronostico rinviato esplicitamente a un’altra opera in fieri: “di tutte
quest’arti farò un libro se Dio vorrà”: l’Astrologia, certo, ma pure Art.
proph. Ancora: nel sonetto 57, troncato anch’esso su una promessa di va-
ticinio, troviamo la possibile motivazione: dopo che si sarà verificata la
grande congiunzione astrale del 1603, “Ecco ceder le sètte empie e ne-
fande / al Primo Senno; e, s’io fuor di periglio sarò, predicherò cose
ammirande”. Ciò spiegherebbe, oltre a finali troncati e rabberciati alla
meglio, il fatto che anche nelle successive redazioni di Città (ed edizio-
ni di Civitas), il finale sia rimasto immutato: Art. proph. era diventato ad-
dirittura imbarazzante per il suo smaccato filo-ispanismo (con un Filip-
po III imperatore mondiale e C. il suo profeta); e il fatto che nel finale
della Civitas parigina abbia svelato un altro ‘segreto d’importanza’ (le
navi mosse non dal vento o dai remi, anch’esso spesso sbandierato nei
memoriali a fini ‘contrattuali’), ma di natura tecnico-nautica, compro-
verebbe che comunque l’explicit era originariamente la sede dello svela-
mento di un segreto; ma il vero segreto ancora una volta andava rinvia-
to ad altra sede, perché era stato recentemente e severamente rinnova-
to il divieto papale di effettuar pronostici specie riguardanti il papa e la
Chiesa, divieto su cui appunto si sofferma lungamente nella parte ag-
giunta dell’edizione parigina (142.25sg).

19
Ad es. nella Monarchia di Spagna: “Questo poi sarebbe facile facendo predicare la fine del
mondo vicina, e che sarà unum ovile sotto il Papa, e che egli è posto come Ciro a congregar-
lo... e altre cose che meglio a bocca che per scrittura dir voglio” (in: Monarchie d’Espagne et
Monarchie de France, éd. et ann. par G. Ernst, trad. par N. Fabry et S. Waldbaum, Presses Uni-
versitaires de France, Paris, 1997, p. 52).
XXII LA CITTÀ DEL SOLE

Ma cosa contiene di tanto terribile questa profezia? L’ultimo capito-


lo del XXV vol. della Theologia è dedicato proprio alle profezie sulla
Chiesa, la diciassettesima delle quali si rifà a una visione di Dionigi Car-
tusiano, secondo la quale Roma sarebbe stata conquistata dai Maomet-
tani, “e questa rovina sarebbe risultata a vantaggio e salute della Chiesa
per mondarla di gravissimi peccati”; commentandola, C. la considera
non solo avverabile, ma addirittura “dimostriamo che dalla setta di
Maometto ci verrà il soccorso... Può accadere che quando i Cristiani si
saranno indeboliti con mutue stragi, il re dei Turchi riesca a conquista-
re Roma”.20 Dopo che l’incombente Anticristo21 avrà fatto tabula rasa,
la Chiesa risorgerà dalle sue ceneri, riprenderà il vigore e la purezza
delle sue radici apostoliche e, una volta riunificato tutto il mondo sotto
un unico capo spirituale, finalmente ritornerà l’età aurea. In altri ter-
mini: la repubblica solare diverrà fatalmente una teocrazia mondiale
dopo l’ultimo colpo della coda diabolica dell’Anticristo, necessaria a
spazzar definitivamente le distorsioni e deviazioni dalla retta via traccia-
ta dal Vangelo. Come lascia intendere, direttamente (84.23-4) o indiret-
tamente (134.5-13), la Città non è un sogno della ragione, ma è la pre-
figurazione di un futuro più o meno prossimo: nel mondo, cauterizzato
dalle fiamme del Male, s’instaurerà un regime di vita comunitario ana-
logo a quello attribuito ai fantasmatici Solari (e a quello che volevano
attuare i congiurati calabresi). CS non è affatto, dunque, un afflato eti-
co asintotico, un ‘dover essere’ astratto; ma è la prefigurazione, la pro-
fezia, di quel che indubitabilmente sarà il mondo subito dopo la ‘Reno-
vatio’ e subito prima del Giudizio Universale, ovvero l’eden prossimo
venturo: nei Discorsi universali esordisce affermando che “non si è vista
ancora in terra republica senza ingiustizia”, ma che “si vederà il secol
d’oro cantato da’ poeti, l’ottima republica descritta da’ filosofi... quan-
do saranno evacuati tutti i principati mondani e regnarà per tutto il
mondo solo il vicario di Cristo... Sono preceduti li segni di questa futu-
ra republica felice, descritta da me altrove”.22
Perciò CS non è un’utopia. È un’appendice della Politica nel senso
che il suo avvento segna il superamento di ogni politica; ma se CS è

20
Theologicorum libri XXX, a c. di R. Amerio, Edizione nazionale dei classici del pensiero ita-
liano, II serie, Roma, 1949-, XXV, pp. 205 e 217.
21
Nell’aprile del 1607, infatti, C. scriveva alla Curia che, in base alle profezie, in partic. di
Gioacchino da Fiore, che prediceva la venuta dell’“Antichristus magnus” trent’anni dopo Lu-
tero, “iam praesens est, vel anno 1630 revelabitur, videlicet triginta annis post hoc centena-
rium: et hoc tempore luna convertetur in sanguinem et sol in tenebras... tunc apparebit An-
tichristus” (Lettere, p. 62).
22
Discorsi universali del Governo Ecclesiastico per far una gregge e un pastore [1631], in: Opere di G.
Bruno e T. C., a c. di A. Guzzo e R. Amerio, Ricciardi, Milano-Napoli, 1956, p. 1117.
INTRODUZIONE XXIII

un’appendice dalla Politica, a maggior ragione Art. proph. è un’appendi-


ce di CS (o meglio il corollario). L’‘equivoco’, diciamo così, di scambiar
per un testo utopistico quel che invece è una teoria dello stato e insie-
me uno scritto messianico, nacque quando CS era ancora in circolazio-
ne manoscritta, con la Christianopolis di Valentin Andreä, che vi si ispira;
e persistette nell’edizione del 1643, quando fu stampata insieme a scrit-
ti, quelli sì, utopistici. CS ha in comune con le utopie (di Platone, More,
Doni) solo la forma; ma, per quanto riguarda il contenuto, dal punto di
vista autoriale, CS “non introduce tanto in un’utopia quanto, semmai,
in un’eucronia: in un evento che, lungi dal non accadere in nessun luo-
go, trova giustificazione nelle profezie divine ed astrali, e si colloca in
un futuro giudicato imminente. Mentre il genere utopistico possiede
una caratterizzazione spaziale, la Città è garantita da una cornice profe-
tica”23.

23
V. Frajese, ‘Introduzione’ a: T.C., La Monarchia del Messia, Ed. di Storia e Letteratura, Ro-
ma, 1995, p. 24.
NOTA AL TESTO ITALIANO

Il testo italiano è quello riportato dal ms 1538 della Biblioteca Comu-


nale di Trento (=T.), scoperto da Firpo nel 1943 (Firpo 1947, pp. 291-2
e 296) e considerato unanimemente (Firpo 1948; Bobbio1, p. 7; Ernst
1997a, pp. 82 e 88; Tornitore, p. 183) copia della stesura più antica a noi
pervenuta della Città del Sole1, che risale presumibilmente al 1602.
Questo ms è stato confrontato con quello della Biblioteca Riccardia-
na di Firenze, ms 2505 (=R.) e col ms 2618 della Biblioteca Comunale di
Lucca (=L.). Quasi esclusivamente su questi due, e soprattutto su L., co-
pia dell’ultima stesura in italiano, si è basato Bobbio per la sua edizione
critica del 1941, risultando gli altri nove allora noti in posizioni basse
dello stemma da lui tracciato, e rivelandosi copie assai deteriori2 (ricor-
diamo che nessuno dei mss è autografo). Esauritasi presto l’edizione ei-
naudiana, e in seguito alla scoperta di T. segnalatagli da Firpo, Bobbio
ne progettò una riedizione, predisponendo una nuova Nota critica
(=Bobbio1), riedizione che, per gli eventi bellici, non poté esser realiz-
zata.
Firpo, per la sua edizione del 1949, accettò l’impostazione redaziona-
le di Bobbio, limitandosi a correggere alcune mende sulla base appun-
to di T. Questa edizione è stata da ultimo riproposta per la cura di Ger-
mana Ernst, la quale ha stilato anche l’apparato di varianti sugli attual-
mente noti 17 mss, collocati in uno schema, che, pur ridisegnando
quello tracciato da Bobbio e Firpo, vede confermati gli assunti fonda-
mentali avanzati mezzo secolo fa dai due studiosi torinesi; stemma, che
qui riportiamo in una versione semplificata, limitatamente alle finalità
di questa nostra edizione (lo stemma completo è in Ernst 1997a, p. 88):

1
In un primo momento fu scambiato per una traduzione di Civitas: al codice è stato “infine
aggiunto un elenco degli Hospedali di Venezia, ed una versione in italiano della De civitate So-
lis di T. Campanella” (Sorbelli, p. 36 - il primo a renderne pubblica l’esistenza).
2
Sono stati analizzati anche altri 9 mss, tre dei quali Bobbio e Firpo non avevano potuto stu-
diare, sia per difficoltà a reperirli (Londinese e Yelverton), sia perché all’epoca ignorati
(Kansas). È risultata confermata la loro posizione bassa nello stemma, come già avevano ipo-
tizzato gli studiosi torinesi, e dunque la loro irrilevanza in questa sede (cfr. Tornitore, p. 183;
Ernst 1997a ha collazionato altri due mss, segnalati da Kristeller a Costanza e ad Amsterdam,
appartenenti anch’essi però alla posteriore e deteriore famiglia β).
XXVI LA CITTÀ DEL SOLE

α T[1602]

α1

R[1603] α2 α3 L[1611]

β Civitas [1614]

(restanti mss)

È confermata dunque la basilarità della tradizione T.R.L., nonché la


priorità di T. sui restanti mss (che sono variamente articolati in maniera
complessa e, in qualche snodo, ancora problematica). Dalla prima reda-
zione di Città fu ricavata la copia T. (portata a Trento forse da Schoppe,
come già ipotizzava Firpo in una lettera a Bobbio [Bobbio 1997, p.
108]); poco tempo dopo l’Au. rielabora α (→α 1), e dall’archetipo α1 vie-
ne copiato prima R. e, con qualche altro ritocco, β, “capostipite del testo
vulgato” (Firpo 1948, p. 245; ivi sono indicate anche le date delle princi-
pali redazioni); circa un decennio dopo la prima stesura, in vista di una
pubblicazione dei suoi scritti, C. rivede la copia α1 rimasta in suo posses-
so (→α3) e su di essa viene esemplata prima L. e poi la traduzione.
Firpo insisteva sulla buona qualità di T. e sulla diligenza di trascrizio-
ne dell’amanuense; Bobbio notava anche la curiosa circostanza per cui
“R. e T. sono i soli mss della Città che non si trovino rilegati con altre
opere del C.” (Bobbio1, p. 7), ma stiano insieme a testi di tutt’altra na-
tura. In particolare, per quanto riguarda T., è opportuno riportare la
descrizione del codice, in cui era prima inserito, fatta da Firpo nel 1948,
anche perché oggi le trenta carte di Città sono rilegate autonomamen-
te. Scriveva dunque Firpo: “Trattasi di un codicetto cartaceo di 162 car-
te (mm 215 x 155) in legatura di cartone assai guasta, contenente una
copia di mano cinquecentesca d’una cronaca di Venezia dal 1297 al
1582 seguita da un elenco degli ‘Hospedali di Venezia’. Solo questa
scrittura è indicata a penna sul dorso del volume, ma in fondo ad esso
trovasi cucito un fascicoletto di 30 carte in formato minore (mm 200 X
125) numerate indipendentemente e contenenti una copia adespota
della Città del Sole, di mano nitida, in caratteri serrati, senza un a capo”3.

3
Ernst 1997a, p. 82 ne fornisce invece la descrizione più aggiornata (e accurata): “Il ms è per-
venuto alla Biblioteca [Comunale di Trento] in seguito al lascito del barone Antonio Mazzet-
ti (1781-1841)... In seguito al restauro cui è stato sottoposto nel 1980, è legato in piena per-
Fig. 1 - La carta 13r del ms Trentino (qui a T.60.9-62.37)
Fig. 2 - Ultima carta del ms Trentino
NOTA AL TESTO ITALIANO XXIX

Questa collocazione e il fatto che si trattasse di copia adespota, poteva-


no essere considerati un tentativo di celare un’opera del C., personag-
gio ancora troppo compromettente. Curioso è anche il fatto che le ulti-
me tre righe del ms forse erano originariamente assenti; sono infatti di
mano e inchiostro diversi, e l’operetta terminava con la parola Hosp, ab-
breviazione di Hospitalario, ma anche di Hospedali (invece, strana-
mente – a differenza di utopie coeve, come ad es. quella del Doni – in
CS non si allude mai a ospedali).
I ritocchi apportati alle successive redazioni italiane sono di natura
stilistica o chiarificativi del contesto, salvo il caso dei passi astrologici
che subiscono una profonda rielaborazione; ma quasi mai intervengo-
no modifiche sostanziali. Dato quindi il particolare taglio della presente
edizione (parallelismo delle redazioni cronologicamente estreme), si è
fatto ricorso ai mss R. e L. principalmente per correggere alcuni piccoli
errori di T. elencati qui di seguito (e in gran parte già segnalati da Firpo
1948), mentre nelle note esegetiche sono state indicate alcune varianti
di qualche rilievo.
I nostri – di Daniele Malus (che nel 1993 ha eseguito una prima copia
del codicetto) e miei – criteri di trascrizione sono stati tendenzialmente
conservativi, proprio per cercare di restituire, non tanto vezzi grafemici
di un qualche oscuro copista, ma la coloritura dialettale di questa prima
versione com’era sgorgata, la prima volta, dalla penna, se non proprio
dalle stesse labbra del Filosofo calabrese, che, ancor troppo prostrato
dalle torture, forse può averla dettata all’amanuense (la conservatività
di Città è ampiamente controbilanciata, del resto, dalla traduzione di
Civitas).
Gli interventi si sono limitati ai consueti ritocchi:
– Si è distinta la ‘u’ dalla ‘v’
– La ‘ti’ etimologica è diventata ‘z’
– Si è fatta cadere l’‘h’ etimologica e pseudoetimologica, la ‘c’ iniziale
di “cqui” e la ‘j’ finale nei plurali ‘-ij’
– È stato segnato il troncamento
– Punteggiatura e corpi grafici (maiuscolo, minuscolo, tondo, corsivo)
seguono l’uso moderno
– Sono state sciolte tutte le abbreviazioni (‘&’ → ‘e’ o ‘ed’) e trascritti

gamena con cartoni. Cartaceo, si compone di due unità codicologiche distinte, riunite in
tempi successivi alla loro scrittura. La prima (cc. 1-142) contiene una cronaca di Venezia dal
1297 al 1582; la seconda il testo della Città del Sole. Il secondo fascicoletto è costituito da 30
cc., con numerazione coeva nell’angolo superiore destro; mm. 196 x 129, rigatura a matita di
piombo; unica mano della fine del XVI-inizi del XVII secolo” (per quanto sto per dire, dis-
sento dall’ultima frase: le due battute finali del dialogo mi sembrano aggiunta di altra mano;
v. fig. 2).
XXX LA CITTÀ DEL SOLE

per esteso i simboli astrologici (il ‘sole’ astro però ha l’iniziale minu-
scola, per distinguerlo da ‘Sole’ sommo sacerdote)
– Non si è uniformata la diversa grafia delle stesse parole, né si è inter-
venuti sulle doppie e neppure sull’apostrofatura.

Apparato delle varianti di α

Le varianti riguardano solo la tradizione principale α cui fa capo T.


Questo lavoro era stato già approntato da Daniele Malus e dallo scri-
vente prima dell’ultima edizione di Città (Ernst 1997a), che contiene
l’apparato variantistico dei 17 mss attualmente noti, apparato di cui, in
questa sede si è tenuto conto relativamente ai soli mss ivi considerati
(T., R., L.)4.

Titolo: Città del Sole – Ospitalario, Genovese marinaro


(R aggiunge: di F.T.C.D. [= Fra Tommaso Campanella Domenicano])
L: Appendice della politica detto La Città del Sole di Fra Tomaso Campanella. Dialo-
go poetico. Interlocutori: Hospitalario e Genovese nochiero del Colombo

2.4: v’ho – L: t’ho


4.19: tanto grosso è terrapieno <<tutti i curatori moderni correggono: “tanto
[è] grosso e terrapieno”; ma, per la concordia dei mss, si può intendere:
“tanto grosso è [il] terrapieno”>>
6.1: E cossì – L: Appresso
6.8: colonne e di sotto e di sopra belle – L: colonne [] di sotto e di sopra con
belle
6.19: insensibili RL: invisibile
8.1: Seguita in cortesia – R: Di’, di’ mo, per vita tua. – L: Dì mo, per vita tua.
8.19: il tempio, vi siano sedie portatili assai – L: tempio insieme, non manchino se-
dili portatili []
10.4: li chiostri, e qui – R: chiostri. E qui
10.6: quaranta. – L: quaranta, ecc.
12.27: finti – RL: pinti
14.11: infirmità – L: infirmità quasi.
14.20: oh – RL: sì
14.23: sono questi cossì tra – RL: sono queste cose tra
16.12: che pensiamo – L: che non pensiamo
16.22: distintamente – RL: dottamente

4
Soltanto in questo e nel successivo paragrafo i mss TRL sono privi di punto abbreviativo; le
osservazioni curatoriali sono comprese fra << >>; le varianti di mss dentro la stessa stringa te-
stuale sono comprese fra { }, le lacune fra [].
NOTA AL TESTO ITALIANO XXXI

16.30: Trovasi – RL: trovai


18.1: onorato – R: lontano
18.23: d’unir – L: con unir
20.14: Mogori – L: Magori
20.22: in mano d’officiali che le dispensano, – RL: in mani d’officiali [] le di-
spense,
20.31: l’amor proprio – R: ambizione propria
22.4: che non si – RL: che [] si
24.21: far all’altro – RL: all’altro far
24.25: l’officio – L: l’offiziale
24.32: e a ciascun – R: e [] ciascuno
24.41: vuol piacere – L: vuol far piacere
26.2: e questi son privati per li peccati della mensa comune – RL: e questi rei per
pena sono privati della mensa comune
26.6: per emendarli – L: per ammendarli.
26.7: come si fan – L: come [] fan
26.11: Primo – RL: prima
26.11: l’uomini e donne – R: le donne e gli uomini
26.25: scapigliati – RL: scapigli
26.29: Dopo il settim’anno vanno alle – R: dopo il 7 hanno le – L: dopo li 7 anni
vanno alle
26.38: Poi alli dieci si – R: poi [] si – L: poi tutti si
26.44: dove più riuscirono – R: dove poi ben riusciro – L: dove miglior profitto fan-
no,
28.13: servidori. – RL: servidori con roina della republica.
28.21: appone – L: oppone
28.26: Poi – R: Però
28.30: o – RL: e
30.2: mariteme – RL: marine
30.3: molto ne’ – L: molto bene ne’
30.12: può saper governare – R: può [] governare
30.16: siamo – L: semo
30.19: sian’atti; e sia – RL: atti perché son nati signori, o eletti da fazione potente. Ma
il nostro Sole [] sia
30.22: tiranno chi – R: tiranno un chi
30.28: dove – R: nel che; L: al che
32.4: all’ingegni pronti – L: alli pronti d’ingegno
32.6: come bisogna – RL: è bisogno
32.18: hann’essi tre – RL: hanno da essere tre
32.25: or una schiera e or un’altra – RL: mo una schiera, [] mo un’altra di loro.
32.30: appartengono – L: partengono
32.37: di guerra machine, – L: machine di guerra,
34.2: comuni e belli letti – R: communi con belli letti – L: comuni, dormitorii, []
letti
34.16: pascer li armenti; però nell’aia, nella vendemia, nel formare il cascio e
mungere l’uberi si soleno le donne – RL: pascere le pecore, operar nell’aia, nel-
XXXII LA CITTÀ DEL SOLE

la vendemmia, ma nel formare il cascio e {L: nel} mungere [] si soleno pur {L:
[]} le donne
34.21: erbe. L’arti – RL: erbe ed essercizi minimi {L: facili} Ma universalmente l’arti
34.26: fuor – RL: altro
34.28: E ch’è – RL: Pur chi è
34.29: La musica però è delle – RL: musica [] è solo {L: solo è} delle
34.32: Fanno le – RL: Fanno anche le
34.36: di venti uno anno. – RL: di vinti anni.
34.38: Stanno – RL: Hanno
36.25: fratelli – RL: frati
36.28: ciascuno il suo piatto – L: ciascuno, secondo il suo esercizio, piatto;
36.29: piatto; e li – R: piatto di porzione e menestra; e li – L: piatto di pitanza e mi-
nestra, frutti, cascio; e li
36.34: l’officiali hanno la miglior parte, e mandano spesso in tavola del loro a
chi – R: offiziali si dan meglior parti, e {L aggiunge: questi} mandano spesso del
loro in tavola a chi
36.41: cantar in musica – R: cantar [] musica
38.2: cocina, e nelle stanze, nelle strade, nelli vasi e nelle vestimenta stimano
assai la polizia. – RL: cucina, e alli refettori e stimano assai la nettezza nelle strade,
nelle stanze, nelli vasi e nelle vestimenta. {L aggiunge: e nella persona.}
38.7: lino, sopra un vestito con giuppone e calze intiere, – RL: lino, poi un ve-
stito ch’è giubbone e calza insieme, <<in T una (stessa?) mano ha cancellato il
“poi”, sostituendolo con sopra, e ha trasformato “insieme” in intiere>>
38.12: fin – R: sin – L: insino
38.13: pedale grande come bolzacchino – R: pedal [] bolzacchino <<soprascr.:
stivaletta>>
38.15: ben – R: bell’
38.19: volte: – RL: volte varie:
38.23: decenza – RL: procerità
38.29: tutti – R: tutto
38.31: bugata – RL: bucato
38.35: vivandarî – RL: refettori
38.44: sorgente, molta nelle – R: sorgente, e molta nelle – L: sorgente molta, e
nelle
40.29: quelli molestati da Venere. Ma – RL: quelli più molestati da Venere. Li
provedono, ma
40.39: testa. – L: testa, e la seconda volta crescen la pena finché diventa capitale. {RL:}
Ma chi si astiene {L: ritiene} fino alli 21 anno d’ogni coito è celebrato con alcuni ono-
ri e canzoni.
42.2: lotta – RL: lotta, come i Greci antichi,
42.4: ch’è impotent’al – RL: chi è impotente o no al
42.5: con quali si – L: con [] si
42.17: se non han – L: non quando han
42.20: pitture – L: statue
42.28: stanza – RL: cella
NOTA AL TESTO ITALIANO XXXIII

42.34: mirati da Marte di buono aspetto e da Saturno così – RL: mirati da Giove
di buono aspetto e da Saturno e Marte così
44.9: sorte. – L: sorte, dependente dall’armonia del tutto con le parti.
44.12: solo nella fondazione della – R: solo nella complessione, nella
44.15: Saturno. <<T: “Ma... Saturno” a marg.>> RL: Saturno, se non con buone di-
sposizioni.
46.9: arte, e che – L: arte, e che difficilmente senza disposizione naturale può la virtù
morale allignare, e che
46.15: principale – R: possibile
46.21: mutano – L: mettono
46.27: perch’essa non procuri – R: perché nessuna si procuri
46.44: lottare o vero alle – RL: lottare e alle
48.5: e dopo di questo si – RL: e poi si
48.14: costumi. – L: costumi e questa è concordia stabile nella republica.
48.16: l’altro. – R: l’altro, e questa concordia stabilisce la republica.
48.21: si chiama – L: chiamano
48.25: eccellenti – RL: valenti
48.25: nell’arte loro o fanno – R: nell’arte [] e fanno
48.37: Tortelio ecc. E questi nomi s’aggiungono – RL: Tortelio o simili altri. E
questi cognomi s’aggiungono
50.5: dolore che non sia fatto generatore? – RL: dolore a chi non è {L: sia} fatto
generatore << T: “generate”; così anche a r. 6 per “generatione”>> o quel che
ambisce?
50.7: Signor no, – R: [] Non,
50.13: Né ci bisogna inganno – R: <<a marg.:>> Platon disse che si doveano gabba-
re li pretendenti a belle donne immeritamente, con far uscir la sorte destramente secon-
do il merito; il che qui non s’osserva Né ce bisogna inganno – L:
Platone...<<=R>>, il che qui non bisogna far con inganno
52.7: grandezza – L: e vivezza e
52.8: bellezza – RL: beltà
52.9: in bellettar – RL: imbellettarsi
52.13: tampoco comodità di – RL: comodità manco di
52.14: chi le daria loro? R: li daria []? L: ci li daria []?
52.19: colori, di pianelli – L: colori e alte pianelle
52.20: belle. – RL: belle per tenerezza e così guastano la propria complessione e della
prole.
54.13: eroi la – RL: eroi ed eroisse la
54.27: che si commette. – R: che la commise. – L: che l’ha commesso.
54.39: Genova – RL: Napoli
54.39: sono settantamila anime e non faticano se non le diece o quindici mila –
L: son da trecento milia anime, e non faticano cinquanta milia
56.1: lussuria – RL: lascivia
56.25: menzognari – L: bugiardi
56.34: servire in ogni cosa, se bene ogni – RL: servire alle cose, ma ogni
56.36: le religioni – R: la religione
56.39: Bella e santa cosa mi par questa, ma – RL: È bella cosa questa e santa; ma
XXXIV LA CITTÀ DEL SOLE

56.41: par ardua – L: pare dura e ardua


58.2: glosa. – RL: glosa, ch’i Cristiani antichi tutto ebbero commune {L: commune eb-
bero}, altro che le mogli, ma queste pur fûro communi nell’ossequio.
58.4: l’ossequio delle donne e insieme il letto – R: l’ossequio commune delle
donne e [] il letto – L: l’ossequio delle donne e [] il letto
58.9: Socrate, Catone, Platone – R: Socrate, [] Platone
60.11: migliorano. – L: migliorano, e quando sapranno le ragioni vive del Cristiane-
smo, provate con miracoli, consentiranno perché son dolcissimi. Ma fin mo trattano
naturalmente senza fede rivelata; né ponno a più sormontare.
62.7: cardar – RL: carminar
62.11: membro solo ha – L: uno solo membro ha
62.12: serve; ma questi stanno (se non sono illustrissimi della città) nelle ville –
L: serve [] nelle ville
62.13: sono – R: fûro
62.17: Dimmi ti prego per ora della – RL: Di’ mo della
62.22: armi, dell’artelleria – L: armi, un altro dell’artellaria
62.25: maestri – R: capimastri
62.37: spada, a saettare di lancia – RL: spada, di lancia, a saettare,
62.40: donne imparan’anch’esse quest’ – R: donne imparano pure queste; L:
donne pure imparano queste
64.4: assalto straniero, difender le – RL: assalto [], difendeno le
64.10: quelle – RL: quei
64.16: siano Bragmani – RL: siano stati Bragmani
64.21: ferire il nemico ribello, nemico della ragione – RL: ferire l’inimico ribello
della raggione che
64.39: Vi sono quattro Reggi nell’isola – RL: Se mai non avessero guerra, pure s’e-
sercitano all’arte di guerra e alla caccia per non impoltronirsi e per quel che potria suc-
cedere. Di più vi sono quattro Reggi {L: Regni} nell’isola
64.42: desiderano – R: desideriano
66.23: e’ – RL: costui
68.12: l’archebugi – RL: gli artiglieri
68.14: guerra, e cossì – L: guerra e n’han pur di legno nonché di metallo, e cossì
68.37: loro secondo insieme si consigliano – RL: secondo prima insieme si [solo
L:] consigliôrno
70.8: ha in – RL: ha dopo in
70.21: perciò fanno gran passata, – RL: per questo passano ogni armatura,
70.26: non potendosi ferire una armatura con spada o con pistola, assaltano –
RL: non potendo un’armatura ferrea penetrare con spada o con pistola, {L ag-
giunge: sempre} assaltano
70.34: nemico, tirano – RL: nemico, lo cingono, tirano
72.9: e contra – L: a contrario
72.18: aretrandosi – L: ritirandosi
72.22: spade all’ultima prova – RL: spade sono l’ultima
74.10: dimandi la – R: domanda in grazia la
74.13: indulgenza, e se non v’è – RL: indulgenza, [] se non quando ci è
74.17: si pone – L: mette
NOTA AL TESTO ITALIANO XXXV

74.20: è impossibile – RL: è quasi impossibile


74.24: cosa – RL: avere
74.30: sensa contribuire a spese – R: senza contribuzione e spese
76.7: vigilie – L: veglie
76.19: o altri – RL: o altro danno a’ vinti,
76.29: severamente – L: secretamente
76.35: fa più – RL: fa poi in guerra più
78.6: artefìci – R: artifìci; L: offizi
78.15: fatigose son – L: fatigose e utili son
78.24: arti di – L: arti che sono di
78.25: femine. – L: femine. Le speculative son di tutti, e chi più è eccellente si fa letto-
re; e questo è più onorato che nelle meccaniche, e si fa sacerdote.
78.33: a finché – R: affinché – L: acciò che
78.35: il vitto che non ponno portare, e fanno venir d’ogni parte – L: il vitto [].
Dall’altre parti
78.39: danari – R: donare
78.43: che donano – RL: che quelli donano
80.2: infestino – RL: infettino
80.41: armati per li campi sempre. – RL: armati, che per li campi sempre van va-
gando {L: girando}.
82.42: attendeno, ed a castrati; – RL: attendeno a caponi ed a castrati ed al frut-
to;
84.6: di quell’esercizio – R: di questi esercizi – L: di questo esercizio
84.10: in squadra mai soli – R: in squadra, né mai – L: in squadroni, né mai
84.13: disgusto, perché – L: disgusto, e ciò perché
84.29: si reducerà – LR: averà da riducersi
84.43: come mangiano – RL: Chi e come mangiano,
86.16: Mercurio e Venere, e – L: Mercurio [] e
86.17: sole. – RL: sole. Stava Saturno entrando nella quarta, senza far malo aspetto a
Marte e al sole.
86.23: Vergine e nell’asside – L: Scorpio e nella triplicità dell’asside
86.27: si curâro – L: [] curano
88.3: carni diverse, mèle – RL: carne, butiri, mèle
88.33: gran necessità – L: necessità grandissima,
88.33: bivono ma con aqua, e – RL: bevono [] con acqua poi, e
88.41: secondo la porzione tassata dal – RL: secondo la stagione dell’anno, quel
che è più utile e proprio, secondo provisto viene dal
90.9: chi a far una cosa e chi un’altra; – RL: chi a servire i vecchi, chi in coro, chi ad
apparecchiare le cose del commune;
90.16: chiragre, né doglie coliche, né sciatiche, né catarri, né flati – RL: chira-
gre, né catarri, né sciatiche, né doglie coliche, né flati
90.19: distillazione – R: digestione
90.30: cibo sovvengono – L: cibo e bagni sovvengono
90.36: sudore leva – R: sudore anche leva
90.40: caschi – L: cali
90.44: efimere solo – R: efimere febri solo
XXXVI LA CITTÀ DEL SOLE

92.7: Raro – R: Di rado; L: Rado


92.17: Quintane, sestane, ottane poche – RL: Quintane, ottane, settane poche
94.11: Macometto, – R: Macometto, Scoto e – L: Macometto, Soto e
94.17: fiore – R: fiori – L: fuori
94.19: con macis – R: con pongono macis – L: [] pongono macis
94.22: annevato, – L: annevato, come li Napoletani,
94.25: l’umori in favor del calore – L: l’umori grossi in favor del natio calore
94.29: stanchezza. Hanno un – L: stanchezza; né contra il soverchio calor dell’aro-
mati augmentato, perché non escono di regola. Hanno pur un
94.32: buon’arte – RL: bell’arte
94.34: dell’officiali, che molto desidero sapere. – RL: degl’officiali [].
96.4: {T: Pot., Sap., Am.} – R: Potestà, Sapienza, Amore – L: Pon, Sin, Mor
96.5: tre offiziali sotto di sé, che sono tredici, e ognuno di quelli tre altri che
fan 4 – L: tre offiziali [] che fan {R: son} tutti quaranta;
96.40: raro – RL: rado
98.3: modo – R: mondo
98.9: il Musico, l’Aritmetico, il Poeta, l’Oratore, il Prospettivo, il Pittore – RL: il
Musico, il Prospettivo, l’Aritmetico, il Poeta, l’Oratore, [] il Pittore
100.5: per la pariglia – RL: per la pena della pariglia
100.13: Sole – RL: Metafisico
100.23: e poi dal Sole il terzo dì s’aggrazia o condanna, e non può – L: e [] dal
Sole al terzo dì si condanna, o s’aggrazia dopo molti dì con consenso del popolo; e
nessuno può
100.34: secar – R: seccare; L: resecare
102.4: officiali – RL: officiali maggiori,
102.14: contenersi, e quell’arte – L: contenersi in quell’arte
102.16: par – RL: paion
102.20: da se stesso all’officiali ad accusarsi e dimandar mercede, – RL: da se []
all’officiali accusandosi e dimandando {R: dimandano} ammenda,
102.23: peccato, sia chi si vuole, mentre – RL: peccato, e la commutano, mentre
102.32: giuramento. – RL: giuramento il reo.
104.8: diffinizione: leggi” – L: diffinizione e legge”
104.9: così lo condannano – RL: così poi lo condanna o
104.22: Onde – RL: Talché
104.28: nominare, e li tre si – RL: nominare li peccatori e li tre poi si
106.3: necessario per emendarli – R: necessario per amendarli, – L: necessario
[],
106.35: fuori; – L: fuori o si fa sacerdote;
110.2: balli sotto chiostri bellissimi. – RL: balli sotto li chiostri, bellissimi.
110.4: e tutti in – RL: e uniti in
110.16: in Ariete, in Cancro, Libra e Capricorno; – R: in Ariete e Libra in Cancro,
Libra e Capricorno
110.22: e ebbero gran vittorie – RL: e quando ebbero [] vittoria,
112.1: perché – RL: e
112.2: mondo. – RL: mondo, che toglie il premio alla virtù e lo dona altrui per paura
o adulazione.
NOTA AL TESTO ITALIANO XXXVII

112.24: ad austro, ed in ultimo a settentrione – R: ad Austro poi a Settentrione


– L: a Settentrione poi a Mezzodì
112.28: ed in ultimo ad – RL: e poi ad
114.16: al decimo nono anno, – RL: a dicinove anni,
114.18: capo del Drago – L: []
114.23: dell’altri); – RL: di lui);
116.8: quando. – L: quando e la sostanza delle stelle e chi ci sta dentro a loro.
116.10: stelle, li quali alli stolti non paiono – RL: stelle, sole e luna, li quali alli
stolti non pareno veri,
116.14: di secoli – RL: del secolo
116.18: ruine <<da qui fino a “…cinque milia” (136.12) vi è una lacuna in L per
la perdita di due carte del ms>>
118.13: stelle; – R: stelle, com’in altari e nel cielo come tempio;
120.2: sole s’opponeno, o congiungono – R: sole si [] congiongeno
120.4: nelle quadrature e per questo pareno le stelle tarde di Saturno, Giove,
Marte, Venere, Mercurio, di retrogradare in questi tempi che fann’alto cir-
colo e nel alzare paiono gire adietro e cossì si veggono, perch’il stellato cie-
lo corre velocemente in 24 ore, ed esse ogni dì restano più adietro, talché
sendo passate dal cielo paiono tornare; ma la Luna, velocissima in congiun-
zione e opposizione non par tornare, ma solo tardare (è alquanto oscura,
ma contiene il vero e par bugia; scriverò altrove meglio), perch’il primo cie-
lo non è più di lei veloce, onde non pare retrograda ma solo tarda; e cossì si
vede che né epicicli né ecentrici ci voleno a farl’alzare e retrocedere, e cossì
pur nel calare si fanno retrogradi perché non correno col primo cielo, ma
abbassano, onde restano adietro li tre pianeti primi. Del sole –
R: nelle quadrature e nell’opposizione per avvicinarsi a lui. E la luna in congiun-
zione e opposizione alza per stare sotto il sole e ricever luce in questi siti assai, che la
sublima. E per questo le stelle, benché vadano sempre di levante a ponente, nel-
l’alzare paion giri a dietro; e così si veggono (alquanto oscura, ma contiene
il vero e par bugia; scriverò altrove meglio), perché il stellato cielo corre ve-
locemente in 24 ore, ed esse ogni dì, caminando meno, restano più a dietro;
talché, sendo passati dal cielo, paion tornare. E quando son nell’opposito del
sole, piglian breve circolo per la bassezza, ché s’inchinano a pigliar luce da lui, e però
caminano inante assai; e quando vanno a par delle stelle fisse, si dicon stazionari;
quando più veloci, retrogradi, secondo li volgari astrologi; e quando meno, diretti.
Ma la luna, tardissima in congiunzione ed opposizione, non par tornare,
ma solo avanzare inanti poco, perché il primo cielo non è tanto più di lei ve-
loce allora c’ha lumi assai o di sopra o di sotto, onde non par retrograda, ma
solo tarda indietro e veloce inanti. E così si vede che né epicicli, né eccentrici
ci voleno a farli alzare e retrocedere. Vero è ch’in alcune parti del mondo han
consenso con le cose sopracelesti, e si fermano, e però diconsi alzar in eccentrico. Del
sole
122.10: primo – R: principio
122.16: suo – R: sito
124.17: previsti – R: antevisti
124.19: signore – R: servire,
XXXVIII LA CITTÀ DEL SOLE

124.36: Hanno – R: Stanno


124.42: infinito, non – R: infinito ente non
126.16: mettemo – R: metteno
128.31: noi. – R: noi, ch’al non essere e disordine declinamo.
130.8: ecc. – R: ecc., e non esser in verità.
130.13: <<T corregge mo soprascrivendo “adesso”; R: mo>>
130.21: Giove; – R: Giove e poi gli altri pianeti;
132.2: l’intravariano. – R: l’intravariano e l’anomalie han gran forza fatale.
132.6: Adamo, – R: Adamo tanto scompiglio,
132.17: punti; – R: punti: generazione ed educazione;
134.14: e che, tolti l’abusi, sarà signora del mondo. – R: e che soli gli abusi sa-
rian signoria del mondo.
134.23: vedo – R: credo
136.16: e com’entrando in Cancro l’asside di Mercurio a tempo che le con-
giunzioni magne si facevano in Cancro, fece queste cose inventare per la Lu-
na, Giove e Marte, ch’in quello segno valeno al navigare novo, novi regni e
nov’armi. Ma entrando l’asside di Giove in Libra pur segno di mutazione,
sarà gran monarchia nova e di leggi reforma. E dicono –
R: e come entrando <in>Vergine l’asside di Mercurio a tempo che le congiun-
zioni magne si faceano in Cancro, fece queste cose inventare per la Luna []
e Marte, che in quello segno valeno al navigar novo, novi regni e nove armi;
ma entrando l’asside di Saturno in Capricorno e di Mercurio e di Marte in Vergine
presto che congiunzioni magne in primo trigono, sarà grande monarchia nova e di
leggi riforma e d’arti e profeti e rinovazione. E dicono –
L: e come, stando nella triplicità 4a l’asside di Mercurio a tempo che le congiun-
zioni magne si faceano in Cancro, fece queste cose inventare per la Luna []
e Marte, che in quel segno valeano al navigar novo, novi regni e nove armi.
Ma entrando l’asside di Saturno in Capricorno, e di Mercurio in Sagittario, e di
Marte in Vergine, e le congiunzioni magne tornando alla triplicità prima dopo l’ap-
parizion della stella nova in Cassiopea, sarà grande monarchia nova, e di leggi
riforma e di arti, e profeti, e rinovazione. E dicono
138.9: ecc. – L: ecc, ed aspettano un occhiale di veder le stelle occulte ed un oricchiale
d’udir l’armonia delli moti di pianeti.
152.4: in Fiandra, Maria – RL: in Francia, e la Bianca in Toscana, Maria
152.6: in Roma. – RL: in Roma {R: Boema} ed Isabella in Spagna inventrice del mon-
do novo.
152.10: ecc. – R: ecc. E tutti sono maledici per Marte e per Venere e per la Luna, par-
lano di bardascismo e puttanesmo. – L: ecc. E tutti sono maledici li poeti d’ogge, per
Marte, per Venere e per la Luna parlano di bardascismo e puttanissimo.
152.19: elevazione – L: apogio
152.21: Luna e per Venere – RL: Luna, Marte e per Venere
152.26: Marte le – R: Marte e Giove le
154.8: in tutti questi paesi. – L: in tutte quelle parti e in Tartaria.
154.13: Spagna per Giove ed – L: Spagna [] ed
154.14: sottostamo – RL: sottostanno
154.18: d’ora – RL: di mo
NOTA AL TESTO ITALIANO XXXIX

154.20: savi, cioé sopra l’asside di Giove in Libra, aereo, mobile, casa di Satur-
no, e Venere, e Mercurio, padre dell’arti ed invenzioni, e sopra la congiun-
zione magna che sarà in Sagittario, casa di Giove e del Sole; e sì come per
Cancro aqueo se trova la navigazione, cossì per Acquario aereo il volare si
trovarà; e perché segueno dopo la congiunzione magna l’eclissi in Ariete e
Libra, segni equinoziali, con l’alterazione dell’asside faran –
RL: savi circa la mutazion dell’asside de’ pianeti e dell’eccentricità e solstizi ed equinozi e
obliquitati, e poli variati e confuse figure nello spazio immenso; e del simbolo c’hanno
le cose nostrali con quelle di fuori del mondo; e quanto seque di mutamento dopo la
congiunzion magna e l’eclissi, che sequeno dopo la congiunzion magna, in Ariete e
Libra, segni equinoziali, con la renovazione dell’anomalie, faran
158.9: di prescia non ti lo potresti imaginare. Un’altra – RL: di prescia [].
Un’altra
158.29: prolungò – RL: promulgò
160.11: OSP.: Di grazia non ti partire; segui quello <che> mi prometti, adesso
che è tempo, ché mi sarà di soma grazia. – RL: OSP.: Aspetta, aspetta.

Lezioni manoscritte variate

Salvo diversa indicazione, la variante corrispondente adottata nel te-


sto è stata ricavata sempre e concordemente da RL; gli scarsi e lievi in-
terventi congetturali del curatore invece sono evidenziati fra < >:

4.20 T: la [ ]di (lac. marcata da sp. bianco; R: la valguardi; L: ha valguar-


di); 4.32 colossi; 6.8 fa il; 8.34 si noti in; 10.3 grande; 10.22 TL: s’appella
.O.; R: 0 (=simb. astrol. del Sole); 12.18 preposizioni; 16.13 sono [] ani-
mali; 18.28 cura d’essa; 18.29 medicine, speciarìe (così anche R e L; a
mio avviso, invece, “speciarie” è un attributivo: ‘medicine speziali’, che
in P. diventa infatti un genitivo specificativo: “medicina pharmacopo-
lae” = dello speziale); 22.6 credo [] li; 26.3 dalla mensa; 28.17 ch’è (il
‘chi’ è apostrofato anche a: 30.5 ch’ha; 34.28 ch’è); 28.22 può [] Sole;
30.1 correspondevoli; 30.25 detto chi; 32.11 si ha; 32.30 Onde hanno; 38.20
entra [] Cancro; 38.32 sottane [] officine; 38.43 essi spicciano; 40.38 TR:
perverteno; 42.12 TR: e li macri alle grasse; 42.23 li dona; 44.14 TR: abbin
prencipi; 46.12: strugono (v.134.29: “struggere”); 46.19 S’alcuna; 48.12 ge-
nerazione, li; 50.5 fatta generate (è indubbiamente abbreviaz. di “genera-
zione”, perché identicamente è abbreviata anche “generazione” di r. 9);
54.1: scerzi; 56.33 perché [] s’attaccano (“non” è cancellato in T); 56.41
comune; 62.11 membro solo solo ha (R: membro solo ha; L: uno solo
membro ha – v.118.6 infra); 62.38 arte, < > giocando spada; 68.18 saranno
le; 68.25 spartata; 68.41 incarnarnarsi; 70.2 carezzi; 70.5 mastrarnosi; 70.13
civita; 70.21 TRL: stretti (ma nel sonetto 27,8: “ritrovate le pistole”);
XL LA CITTÀ DEL SOLE

70.34 circonda; 70.38 TR: incrocicciata; L: incrocchiata (Civitas: “decussa-


tim”); 72.19 avicenna; 74.1 assenti; 76.8: divise da; 76.30 s’in cose; 78.28
città, [] vi son; 78.42 quando [] i fanciulli; 80.24 TR: e lo; L: e li; 84.18
d’animali [] spesso; 84.28 combatendo; 88.10 TR: bisogna; 88.39 T: Man-
giano [] secondo la porzione tassata dal (RL: Mangiano, secondo la sta-
gione dell’anno, quel che è più utile e proprio, secondo provisto viene dal);
94.15 e cossi; 96.6 dodici (R: 13; L: []); 96.8 4 (R: 40; L: quaranta); 96.41
della scienza; 98.30 frustra; 100.32 plaghi; 100.35 dal capo; 104.27 TL:
quanto [] strani; R: quanto li strani; 106.2 che s’è; 110.8 barrettino (R:
berrettino; L: barettini); 110.12: grande; 112.29 (a margine alcuni segni
illeggibili); 112.32 TR: tutte [] genti; 112.34 attentatamente; 114.11 obligo;
114.18 pur < > Capo; 118.6 come come (v.62.11 supra); 118.20 T: Heretici
(cancellato ed a fianco scritto: centrici; poche righe dopo il copista scrive
“ecentrici”); R: ecentrici; 122.15 excogitano; 124.6 e l’unir; 126.2 Fanno a
metafisici; 126.23 procedere; 128.16 dui; 130.22 soccedeno; 130.26 e cinque-
cento; 132.25 come si; 136.13: stupendo; 152.4 Margarita in Francia; 152.6:
TR: El (v.160.2); 158.5 muta tutto il mondo e rinovalo; 158.26 che pur;
158.27 TL: cavaro; R: cavò; 158.28 e a; 160.2 t’el; 160.12 quello < > mi.
NOTA AL TESTO LATINO

Il testo di Civitas Solis è stato ricontrollato, dopo la basilare riedizione


di Bobbio, sull’edizione parigina del 1637 [=P.], alle p. 146-67 della III
sezione, la Politica, di cui notoriamente Civitas è Appendice (v. figg. 3 e
4: per la descrizione delle edizioni seicentesche di Civitas cfr. Firpo
1940, n°8; Crahay, p. 54-6): si è scelta questa come edizione di riferi-
mento, non solo perché è l’ultima, ma anche perché è l’unica che C.
poté sorvegliare direttamente. L’attuale edizione ricalca quasi fedel-
mente l’ed. Bobbio (p. 117-67)1, a partire dall’ortografia:
– quasi identica la punteggiatura (ad es. v. n.8.11-2; invece, mentre
B.123,17: “medicina, pharmacopolae”, ritengo essenziale, per il senso
[v. n.98.4], rispettare la punteggiatura originale di P.: “medicina phar-
macopolae”; analogamente, per fedeltà a P., ho mantenuto la virgola a
42.29: “in domo benigna, in bono aspectu”, assente in B.131,34); in
questo gruppo si può includere anche un intervento restaurativo: men-
tre B.159,12 scrive: “Quod tibi non vis, alteri ne feceris et quae vultis ut fa-

1
Successivamente il testo è stato controllato anche sulla pregevole ed. Crahay, in cui, pur
condividendone alcune linee di fondo (come la scelta di P. come base dell’edizione), tuttavia
non mancano alcune mende, sulle quali non ci sembra il caso di soffermarci dettagliatamen-
te (anche perché, a causa della sopraggiunta morte di Crahay, la pubblicazione è stata curata
da altri); comunque, in generale l’edizione belga si caratterizza perché:
a) utilizza un doppio testo a fronte: Civitas (nell’ed. P.) con sotto Città (nella red. di Firpo)
nella pagina pari, e la traduzione francese nella pagina dispari;
b) a Città e Civitas segue un ‘Annexe’ contenente Quaest. Pol. IV curato da P. Jodogne (p. 261-
82).
In particolare, poi:
– la variantistica a pie’ pagina è esemplata principalmente su Fr., ma anche sull’ed. (postu-
ma) del 1643 e su quella di B., della quale dice: “cette édition est soignée; celle qu’on trou-
vera ici s’en sépare sur quelques points, presque toujours pour écarter une correction qui ne
paraît pas s’imposer”, adottando dunque una linea ultraconservativa: “il faut maintenir des
aberrations dont il [=C.] est manifestement responsable” (p. 56);
– tale conservatività è desumibile fin dalla grafia: mantenimento delle ‘u’ in luogo delle ‘v’ (a
partire da “nauigatione” di 2.2) e viceversa (solo nelle capitali del titolo: “DIALOGVS POE-
TICVS”);
– numeri espressi in cifre romane, simboli di Hoh e astrologici mantenuti invariati;
– espunzione di tutte le glosse qui paragrafate, perché “ne constituent nullement une suite
des idées”; invece le “notes de référence... sont incorporées... à celles de la présente édition”
(p. 61), pur con alcune mende.
Infine alle p. 23-9, riassumendo Crahay 1973, analizza minutamente il latino di Civitas.
XLII LA CITTÀ DEL SOLE

ciant vobis homines, et vos facite illis”; l’ed. P. (qui ripristinata a 132.33-5)
teneva distinte le due massime, per le ragioni dette nella nota a questo
passo: “Quod tibi non vis, alteri ne feceris, et Quae vultis ut faciant vobis ho-
mines, et vos facite illis”;
– identica la disciplina delle maiuscole (rispettando però la volontà
di C. di “scrivere il nome di ‘DIO’ in tutte maiuscole” – Gramm. III II, in
SL, p. 689 – , qui solo relativamente al nome del Figlio), la normalizza-
zione della grafia (“&” diventa “et”, e così per il regime delle “u”/”v” e
“ij”) e la partizione delle parole (ad es. a p. 149 vi è “sub porticibus” re-
so in 18.11 con “subporticibus”, e viceversa è disgiunto “Operaepre-
tium” di p. 158 [78.1]); i pochi numeri in cifre arabe sono tradotti, sal-
vo quelli delle indicazioni bibliografiche, nell’espressione verbale corri-
spondente (es. p. 149: “qui autem viginti duos annos plures habent, vo-
cantur ab eisdem patres, qui pauciores 22, filios [sic]”); per i casi di gra-
fie dubbie, ho seguito due criteri: di conservatività, se nel testo vi è
un’unica occorrenza, purché lessicalmente attestata (es. “Cignus”), o,
di converso, se è costantemente adottata una certa grafia inconsueta
(es. “praelium”, “praeliantur”; così pure per le contrazioni: ad es.
Crahay corregge “observarint” di 46.22 in ‘observaverint’, in contrasto
con l’‘usus’ campan., testimoniato da 66.2: “usurparint”); ho seguito in-
vece un criterio di normalizzazione nel caso in cui si tratti di allografia
rispetto ad altre occorrenze intratestuali (un “faemina” di p. 152 viene
corretto in “foemina”, testualmente prevalente), salvo un’eccezione
(‘Machomettus’, v. infra n. 2);
– scioglimento delle abbreviazioni (“Resp.”, “Videl.”, ecc.); una cate-
goria a parte è costituita dai simboli astrologici. A differenza dei mss ita-
liani, in Civitas vi sono solo tre simboli nell’ultima pagina, tipografica-
mente molto densa per economia di spazio: Marte, Saturno e Venere
(quest’ultimo stampato a rovescio); un caso particolare e curioso è co-
stituito dal Sole, che è insieme stella e nome del principe-sacerdote: nei
mss le due entità sono indifferentemente indicati col nome o col sim-
bolo (un cerchietto con un puntino al centro), tanto che alcuni codici
lo riportano anche nel titolo. Per sciogliere questi equivoci (grafici o at-
tributivi) Fr. poneva, alla prima occorrenza del nome del Sacerdote,
‘Sol’ (10.18: “sacerdos, quem vocant suo idiomate Sol, nostro autem di-
ceremus Metaphysicum”), e in seguito il segno astrologico; ma, come ri-
levava B.: “l’espressione suo idiomate, riferita alla trasparente parola la-
tina Sol, e la mancata corrispondenza con la traduzione in ‘Metafisico’
indussero il C. a coniare per la seconda ed. quella parola fantastica
Hoh”. In P., dopo il primo (e unico) “HOH”, il capo della Città verrà
identificato sedici volte con un cerchietto simile ad una ‘O’ maiuscola’,
sette volte con un cerchietto più piccolo con al centro un puntino (tut-
NOTA AL TESTO LATINO XLIII

ti questi casi sono stati ‘traslitterati’ da B., e così in questa edizione, sul-
la prima occorrenza), e quattro volte con ‘Metaphysicus’; cioè, strana-
mente, il sommo sacerdote è quasi sempre indicato con il simbolo astro-
logico, mentre l’astro solare con le declinazioni di ‘Sol’ (v. n. 10.19).

Invece la presente redazione si discosta da quella einaudiana per tre


aspetti:
1)per gli interventi sul testo v. la ‘Tavola delle emendazioni’: un solo
caso non è stato sanato nel testo (una lacuna a 156.14, sfuggita a tutti),
ma in nota, perché a) la frase della corrispondente red. italiana era ab-
bastanza lunga; b) pur essendo certi che occorre un’integrazione, non
era detto che fosse proprio quella di Città (v. n.157.5);
2)l’inserzione delle glosse intertitolistiche (anche Lerner ‘raccoman-
dava’ a Crahay, p. 11 di “réproduire les manchettes des éditions origi-
nales”, ma invano); infatti a margine di P. (e Fr.) vi sono due tipi di chio-
se:
– quelle di commento e di rinvio bibliografico (a sue o altrui opere),
riportate da B. attraverso l’uso di asterischi, e che ho mantenuto con
la stessa notazione asteriscata a fondo pagina, ma sciogliendo le ab-
breviazioni bibliografiche;
– quelle che fungono da indicazione della materia trattata nei capo-
versi successivi, non riportate appunto da B., vengono poste a margi-
ne del testo (salvo una che è stata cassata, perché evidente refuso: re-
plica in luogo incongruo [80.5-6] del successivamente pertinente ‘De
custodia agrorum’ [80.38-9]);
3)la rinuncia al confronto con Fr., essendo altre le finalità qui perse-
guite (confronto fra la prima [presunta] e l’ultima redazione dell’ope-
ra); ed essendo Fr. edizione non direttamente sorvegliata dall’Au.; tale
rinuncia ha comportato due cose:
– non segnalare “le varianti sostanziali” tra le due redazioni, come le
chiama B. riportandole a fondo pagina (anche perché questo lavoro
è stato rifatto, pure per le varianti secondarie, da Crahay);
– in vari casi ha preferito adottare una variante desunta dalla Fr.; in-
vece, quando entrambe le lezioni sono accoglibili, ho privilegiato
quella di P., e indico qui di seguito i ritocchi effettuati da B. e non ac-
colti, in quanto ritenuti o erronei (per congettura, o per svista del
proto einaudiano), oppure volute correzioni campan., o infine per-
ché ispirati a un principio restaurativo, e non, come qui, tendenzial-
mente conservativo; invece quelli accolti saranno opportunamente
segnalati.
XLIV LA CITTÀ DEL SOLE

Correzioni di Bobbio non accolte

I numeri indicano, per entrambi, pagina/rigo; quando la citazione è


seguita da [Fr.], s’intende che Bobbio [=B.]si è basato sulla Francofor-
tese; il segmento testuale in corsivo di B. si distacca, per inserzione o va-
riante, dalla redazione parigina [=P.], e quindi dalla presente, salvo il
numero finale sottolineato di 144.29 (=“85”), in cui B. e P. coincidono
(=“5”) e qui si corregge.
B. P.
118,33 perystilia 6.7 peristylia
119,21 tametsi et inter 8.22 tametsi inter
120,26 quot sunt scientiae [Fr.] 10.40 quot scientiae
122,31 Machomettum 18.3 Mahomettum2
123,34 sunt, at dispensatio [Fr.] 20.20 sunt, ac dispensatio
124,25 valet, quoniam non habent 24.2 valet, qui non habent
[Fr.]
125,10 et ad eiusmodi [Fr.: et ad 24.29 ad eiusmodi
huiusmodi]
125,25 genu usque utuntur [Fr.] 26.13 genu utuntur3
125,26 mixtim 26.14 mistim4
126,9 mechanicarum etc. 28.1 mechanicarum
127,6 at vero [Fr.] 30.6 et vero
127,21 authoris norit [Fr.] 30.28 auctoris novit5
128,17 castramentatione 32.33 castrametatione6

2
In C. la grafia a stampa, del nome e dell’aggettivo derivato, è soggetta a tre tipi di oscilla-
zione e loro combinatoria: con/senza ‘c’; con/senza ‘h’; ‘t’ semplice/geminata; infatti, a
94.10: Machomettus; a 140.12: mahometanos (e in altre opere ulteriori combinazioni). Impossi-
bile una normalizzazione della grafia, per cui non resta che limitarsi a registrarne le oscilla-
zioni; B., pur normalizzando in ‘Machomettus’ i primi due casi, poi riporta “machometanos”
(160,31). Per ragioni analoghe si mantengono le due grafie di ‘Annibale’: “Annibalem” in
18.9 (così, ad es., anche Mon. Messiae, p. 8) e il più corrente “Hannibalis” in 64.27.
3
L’usque di Fr. sembrerebbe rispecchiare la lezione di Città: “le donn’han la sopraveste fin
sotto il ginocchio, e l’uomo sopra” (T.26.14); ma in Civitas ‘usque’ è sempre seguito da ‘ad’ e
accusativo. Pertanto, diversamente dalle edizioni moderne (B. e Crahay), la sua espunzione
può esser considerata volontaria (e del resto il contesto suggerisce chiaramente che si sta
parlando della lunghezza delle vesti).
4
Unica attestazione; tali sono pure: 70.24 “Cignum” (B.140,19 “Cygnum”) [Forcellini, Ono-
mast.]; 90.4 “maratrum” (B.146,21-2 “marathrum”) [Du Cange; Thesaurus]; 118.21 “tropheo”
(B.155,11 “tropaeo”) [Forcellini; Du Cange].
5
Su 20 casi di coniugazioni di ‘nosco’, 14 sono contratte; nella presente edizione, inoltre, è
stato normalizzato “authoris”, che, insieme all’“authorem” di 148.30, è diventato “aucto-”
perché a 132.29 vi è “auctorem” (v. ‘Tavola delle emendazioni’, dove i casi di normalizzazio-
ne vengono segnalati solo alla loro prima ricorrenza).
6
Senza ‘n’ anche in 68.27.
NOTA AL TESTO LATINO XLV

128,24 grabati 34.2 grabata7


129,36 reputantur 38.35 reputatur
130,9 exceptis rimulis [Fr.] 38.11 exceptis vinculis
130,12 semichoturnis 38.14 semicothurnis
130,35 In atriis 40.9 At in atriis
131,16 coetu 42.3 caetu8
131,27 orent Deum Coeli. [Fr.] 42.19 orent Deum.
132,21 Homines sic etiam [Fr.] 46.3 Homines etiam
133,4 exercentur alphabetis 46.34 exercentur in alphabetis
134,18 in proceritate, vivacitate ac 52.7 in proceritate ac
[Fr.]
136,9 *Sanctus 56.37 Sanctus9
136,12 communitatem uxorum 58.1 communitatem
[Fr.]
136,18 quamcumque 58.10 quamcunque
138,17 honeste, etc.”, 64.30 honeste”,
138,20 felices 64.34 foelices10
139,17 proeliis 68.7 praeliis11

7
‘Grabatum -i’: è probabile che sia una reminiscenza evangelica (“Tolle grabatum tuum et
ambula” Mr. 2,4-12), anche se non è dalla Bibbia che si può desumere il genere (infatti le No-
vae Concordantiae riportano sia ‘Grabatus’ che ‘Grabatum’); dai lessicografi si apprende che
nel latino classico era maschile, e nel latino cristiano è passato al neutro (Isidoro, XX XI:
“Grabatum Graecum est”; tuttavia un suo commentatore lo considera un lapsus o un errore:
“Grabatum neutro genere apud antiquiores vix reperietur; Graece est ‘kràbatos’... Ciceroni,
Martiali et aliis, masc. gen. grabatus pro lecto humili, in quo mendici cubabant et meretrices
diobolares. Fortasse apud Isidorum legendum grabatus” [PL LXXXII, 1049]); e lo stesso Du
Cange lo registra solo come neutro (attribuendo al latino classico la forma maschile), citan-
do appunto il summenzionato passo evangelico. In Theol. XIV, p. 33 ricorda che “il vescovo
Spiridione riprende il confratello suo Trifillo, che predicando non aveva voluto usare come
troppo duro il vocabolo evangelico ‘grabato’ [=grabatum] e l’avesse sostituito con ‘lettuccio’
[=lectulum]”.
8
Anche se i lessici non riportano la forma ‘cae-‘, non s’impone la correzione (accolta anche
da Crahay), perché unica attestazione in Civitas, dove questa dittongazione è spesso sui ge-
neris (es.: ‘caeterus’; ‘caelestis’ e ‘coelum’).
9
È il sottostante “glossa” (56.40) che va postillato, perché la nota bibliografica campan. rin-
via alla “glossa” e non all’epistola di S. Clemente. Un caso analogo poco oltre: al periodo che
comincia con “At qui” (62.7), B. appone questa nota: “In margine: ‘Vigor evangelii non po-
test totus naturaliter nosci’. Nell’ediz. del ’23 manca. Qui è fuori posto: forse andrebbe rife-
rita al passo che precede: ‘Nihilominus mittunt ad explorandum mores nationum et melio-
res semper amplectuntur’, a cui nel testo italiano segue una frase di contenuto analogo”. In
realtà è per mancanza di spazio, a causa di due corpose glosse adiacenti, che il proto seicen-
tesco non ha potuto porre questo commento al margine che gli spettava, e cioè proprio do-
ve B. ha giustamente indicato. Analogamente dicasi a 144.13, ma stavolta dovuto a un’erro-
nea punteggiatura in B.
10
Aggettivo e sostantivo (64.40) sempre dittongati ‘oe’.
11
Dittongo ‘ae’ in tutti i casi sostantivati e verbali.
XLVI LA CITTÀ DEL SOLE

140,15 machaeram 70.19 macheram12


140,22 deiiciunt [Fr.] 70.28 deiiciuntque13
143,22 Ac si 80.18 At si
145,3 Cancacinae 84.31 Caucacinae14
146,14 quod a Deo 88.34 quando a Deo
146,33 exscreare 90.21 excreare15
151,16 criminibus; deinde sua 106.6 criminibus; deinde
publice confitetur; deinde sacrificium16
sacrificium [Fr.]
152,18 naviter 108.20 noviter
152,30 perystiliis 110.1 peristyliis
154,29 in hoc et in multis 116.18 in hoc Aristotelem
Aristotelem [Fr.]
156,2 supranaturalibus [Fr.] 122.2 supernatibus17
159,6 planetarum 132.24 planctarum18

12
Così anche tre righi sotto.
13
Il “deiiciunt” della Fr., adottato anche da Crahay, p. 142, forse è formalmente più corretto,
correlandolo a T.70.35 (“tirano e gettano”; per cui avrebbe potuto essere ‘deiiciunt proster-
nuntque’) e ad una possibile influenza del “deiiciuntque” di 70.24; tuttavia l’ortografia, pur
con tutti i limiti della punteggiatura editoriale seicentesca, sembra voler circoscrivere para-
dittologicamente i due predicati correlati; donde l’opzione per una soluzione conservativa,
sospettando una volontà autoriale sia in questo caso che in quello analogo di 96.19, dove un
“aliaque” di Fr. (anch’esso accolto da Crahay, p. 170) è diventato “alia” in P.
14
T., R., L. riportano “Caucacina”, mentre in scritti latini usa: “Cocinchinensium” (SL, p. 528,
pur con varie oscillazioni dei mss: cfr Firpo 1954, p. 1308); dunque questa forma potrebbe es-
ser un mero calco dell’italiano, sebbene in SL (p. 962) ci sia un “Cochincina”.
15
V. 54.30: “excrementa excernunt” senza ‘s’.
16
Lacuna o cassatura? Lacuna: è un omoteleuto (come ad es. a 68.11 – v. ‘Tavola delle emen-
dazioni’); cassatura: Fr.: “eiusmodi criminibus; deinde sua publice...”: essendoci una correzio-
ne nell’intorno adiacente, qui si accoglie la lezione seriore, anche per ragioni contenutisti-
che (v. n.104.24-37).
17
Anche Crahay, p. 198 lo mantiene invariato. A 142.29 “supernaturales” (nessun caso invece
di ‘supranaturalis’) si riferisce ad eventi trascendentali, mentre in questo caso allude, come
dice T., a “cose sopracelesti”, cioè a entità che si trovano al di là del cielo (a quale cielo, poi,
C. stia pensando, non saprei indicarlo con sicurezza: può essere quello oltre Saturno, e dun-
que l’anello zodiacale, in base a un’erronea teoria astrologica che identifica apogei ed esal-
tazioni dei pianeti; oppure si tratta del cielo delle stelle fisse, perché poco sotto [124.27] i So-
lari s’interrogano sull’esistenza di altri mondi: e la “simpatia” potrebbe esser un indizio del-
l’esistenza di tali universi paralleli). L’Au. ripristina in P. la ‘lectio difficilior’; infatti ‘supernas
-atis’ significa: proveniente dal ‘mare superum’, cioè l’Adriatico (con es. di Vitruvio), ed
estensivamente “qui est supra”, con es. di Plinio (Forcellini); il ricorso a un ‘supernas’ gli per-
metteva così d’instaurare un duplice sistema oppositivo: da un lato si contrappone a ‘inferio-
ra’, al basso, cioè alla Terra, e dall’altro a ‘supernaturalia’, che alluderebbe a un’oltremon-
danità non più fisica.
18
“Planctarum” è grafia corrotta per “plantarum” (136.1: “plantas”): naturalmente le piante,
e non i pianeti, possono esser dissezionati, come del resto conforta la redazione italiana.
NOTA AL TESTO LATINO XLVII

161,19 cum seminant... cum putant 142.24 cum seminat... cum putat19
161,n. Thomas p. 1, et 3 con. 144.28 Thomas P[rima] P[ars] et 3
[Gen.] 5 Con[tra Gentiles] 85.20
162,33 fundatur 148.3 fundantur
165,37 statuerit 158.16 statuerat21

Tavola delle emendazioni

Sono qui elencate, con sola indicazione di nostra pagina.rigo, le va-


rianti reputate evidenti lacune, errori o disomogeneità di grafia, cor-
rette alla luce generalmente della Fr. e quasi sempre concordanti con
la B.; pertanto, per praticità, saranno indicati con [-Fr.] e (-B.) solo i
casi in cui la forma emendata non è presente in Fr. e/o non è propo-
sta da B.

2.17 gubernetur <Crahay accoglie la forma “gubernetur” di P.; ma la cor-


relativa precedente è all'indicativo: "fabrefacta est", e a 70.33 (glossa) si
ha "gubernando">; 4.5 est [] in <civitas è omissione involontaria del
proto (e non volontaria dell’Au., secondo l’ipotesi di Crahay), come
concordemente attestano le redazioni precedenti, italiana e Fr.>; 4.40
distinguntur; 6.7 maeniana (e 64.23 Maenia) [-B.] <da 4.25 sempre con
dittongo ‘oe’>; 8.5 circundatur <in 10.1 è ‘circumd-’> [-Fr.], (-B.); 10.7

19
In effetti P. recita: “cum seminat in Septembri, cum putant in Martio” (Crahay, p. 220 stra-
namente e arbitrariamente li rovescia: “seminant... putat”); B. ha omologato i predicati su un
possibile soggetto collettivo ([gli uomini] seminano a settembre, potano a marzo); invece in
questa ediz. si è ritenuto di unificarli al singolare, perché il soggetto implicito è la “causa li-
bera” di 142.17.
20
Il primo numero è un errore della einaudiana, il secondo di P.: “p.p.” (e non ‘p. 1’) sta per
‘Prima Parte’ della Summa Theologica. Il secondo è congetturale perché: 1) poco sopra
(140.15) l’abbreviazione del Contra Gentiles è: “3. con. Gen. cap. 70”; ma una postilla a margi-
ne deve essere molto più sintetica, ed inoltre le postille di rinvii bibliografici interni all’ope-
ra tomistica (Piana, vol. XIV) stenografano la Summa contra Gentiles per mezzo di con; 2) il
cap. 5 di 3SCG tratta ‘Rationes quibus videtur probari quod malum non sit praeter intentio-
nem’, dove si dimostra la volontarietà, e non la preterintenzionalità, del male: nulla a che ve-
dere con l’indipendenza del libero arbitrio dagli influssi astrali trattata qui da C.; dunque o
non è quella l’opera cui rinvia la glossa (ma non ho trovato altre opere abbreviate in con); o
non è quello il capitolo: poiché il cap. 85 del 3° libro di Contra Gentiles tratta proprio que-
st’argomento, mi è sembrato che la spiegazione più economica sia quella di una lacuna edi-
toriale dell’‘8’: una conferma indiretta la si può ricavare da un rinvio proprio a questo capi-
tolo tomistico da parte di Firpo, p. 463 (riferito all’equivalente di T.158.12sg, dov’è ribadito
appunto lo stesso concetto di 142.33-6).
21
È da reputare un’emendazione autoriale sulla Fr., perché: a) non è un’opinione, ma una
ferma decisione; b) per la ‘consecutio’ avrebbe dovuto esser ‘statuisset’.
XLVIII LA CITTÀ DEL SOLE

quasi quadraginta novem22 [-Fr.], (-B.); 10.37illorum [-Fr.] (-B.); 12.27 ta-
bulae perculiares [-Fr.]; 14.10 fornicum sunt exteriori [-Fr.]; 16.8 et mu-
scae <l’esplicativa modale è più logica della pur plausibile correlativa>;
16.20 declararetur; 18.1 Zamolhim; 18.15 peritiam extate; 20.13 Magorum;
22.3 quantus [-Fr.] (-B.) <22.6: “quanto”>; 24.10 dgnoscitur; 24.18 duos fi-
lios [-Fr.]; 24.39 detractationis [-Fr.] <66.25: “detrectant”>; 26.10 quidam;
26.32 quatuor [] exinde; 26.33 Namque [] alii; 28.6 dedicerit [-Fr.]; 28.8
vocamus; 28.18 perficiendi <28.19: “praeficiendus”>; 30.2 idaealibus [-Fr.](-
B.) <nel sottotitolo vi è: “Idea”>; 30.20 nati sunt <così anche Crahay; ma
la causale è retta da “reputatos”, un predicato indicante opinione>;
30.28 authoris [-B.] <132.29: “auctorem”>; 32.36 propter haec (-B.)
<T.32.39: “di più”>; 36.20 pulcra <da 8.6 quasi sempre con l’‘h’>; 38.17

22
L’indiziaria storia testuale di questa svista è così ricostruibile. Il quasi di 10.7 traduce il “da”
di T.10.5, che però era già diventato “quasi” [=q.] in mss seriori e deteriori (Napoletano2 e
sue copie – mss che comunque avevano avuto una seppur superficiale revisione autoriale);
non nel L., che, anzi, correggendo T.54.39-40 (v. 54.39 in ‘Apparato della varianti di α’), ag-
giunge un altro “da” (“son da trecento milia anime”). Da una ricognizione dei q., si scopre
anzitutto che ben undici volte su quattordici ricorrenze, esso è un’aggiunta di Civitas rispet-
to a Città (e se computiamo anche i sinonimici fere, diventano diciassette su venti: una vera e
propria sordina inflitta al testo), a volte con funzione di approssimazione per eccesso (“q. se-
pientibus” [4.32]), a volte con funzione di modalizzatore (10.8: “q. vexillum”). Una di queste
aggiunte è l’unico altro caso in cui il q. precede un numerale: “q. octo passus” (8.15) traduce
“vi sono per otto passi” (T.8.13). Il q. difettivo italiano è reso in latino con fere: ‘q. tre’ signifi-
ca ‘da 2,1 a 2,9’, e infatti “fere tribus” traduce “dui passi o tre” (T.6.2). Poiché a 10.7 l’Au. ha
usato q., qualunque preposizione italiana (“da” o “quasi”) abbia tradotto, è ovvio che intende
attribuirgli un significato non difettivo, ma semplicemente approssimativo: ‘più o meno di’
(visto che non esistono occorrenze in Città di ‘circa’ [ma in Mon. Fr., p. 490: i Francesi “son
25 millioni d’uomini in circa, e Spagna non ne fa 4 al più”], e l’unico circa latino [76.32] non
si riferisce a una quantità, ma significa ‘relativamente a’). Inoltre l’altra occorrenza di L. (“da
trecento milia”) indica senz’ombra di dubbio che il Genovese adotta un sistema di arroton-
damento decimale (nella Bibbia, ad es., vi è la ‘venticinquina’: Ez. 8, 16: “quasi viginti quin-
que viri”; nel Decameron la dozzina e la mezza dozzina: V,3,10: “da 12 fanti”; III, 10, 24: “da sei
volte”): dunque ‘quasi quarantanove’ sarebbe un’inesattezza formale, perché riferito a enti
(= ‘religiosi’) non approssimabili ad ordini di grandezza minori dell’unità. Perciò non resta
che ipotizzare che il ‘q. 49’ sia solo frutto di una mera svista. Il ms L., infatti, dopo il numera-
le “quaranta” porta la stenografia di “etc.” (una ‘&’ con una ‘c’ sottoscritta a mo’ di svolazzo:
“&c”). Presumendo che l’archetipo di L. sia lo stesso su cui successivamente fu esemplata Ci-
vitas, si può ipotizzare che l’Au. ha scambiato un analogo simbolo stenografico dell’archeti-
po per un ‘9’, vuoi per somiglianza grafica che per adiacenza al numero espresso in lettere:
in pratica il “da quaranta&” riportato da L. è stato preso per un ‘quaranta9’ e quindi è stato
tradotto in “q. quadraginta novem” (per quanto riguarda poi l’uso campan. dell’“etc.”, l’ap-
prossimazione della cifra e ulteriori prove indirette che questa sia quaranta e non quaranta-
nove, v. n.10.6-7; per un altro caso analogo, v. n.54.34-56.9). Il previdente Alberti raccoman-
dava “a chi sta copiando questo libro [= De Architectura] di trascrivere i numeri, che ora sa-
ranno menzionati, non già con simboli, ma con i loro nomi per disteso” (VII VI, p. 564), con-
sapevole, al pari di Pico, che gli amanuensi “molto spesso travedono nella trascrizione dei nu-
meri” (II, p. 101).
NOTA AL TESTO LATINO XLIX

aptae; 38.30 [] Inferiores; 38.31 cellariae [-Fr.]; 40.10 companularum [-


Fr.]; 40.13 faemina <da 18.30 quasi sempre con dittongo ‘oe’; analoga-
mente per faeminina di 150.5-6>; 40.20 illcitum; 40.26 generationis []
qui; 42.5 Lacaedemonum;; 42.8 quibuscum foeminis; 46.15 Si quid; 48.18
Nason [-Fr.] <48.25: “Naso”>; 48.32 applausu a musica [-Fr.] <T.48.42:
“applauso e musica”>; 50.18 deprivari plerumque; 52.10 altis scandaliis;
54.37 70000 animae [-Fr.]; 56.20 archibusio <da 72.13 “archibugiis”>;
64.16 Bracmani <66.5: “Bragmanorum”> [-Fr.] (-B.); 64.22 exercitum aut
[-Fr.]; 64.35 contigerent; 66.4 superstitionics; 66.13 liberatotes; 66.25 respondi;
66.35 Consilio <da 28.20 è “Concilium”>; 68.1 Predicatore; 68.10 ipsorum;
68.12 in praelium super [] mulis <evidente lacuna omoteleutica sanata
per interpolazione da Fr.>; 68.14 carucis; 68.23 artilleria; 68.31 et sicuri;
70.4 quidam; 70.6 arggrediuntur; 70.12 optima spolia; 70.21 levis armatu-
rae milites <Fr.: “gravis armaturae equites”: da quanto segue (70.30), si
deduce che questi ‘milites’ sono ‘equites’, per cui è probabile che, a dif-
ferenza del precedente, sia un reparto dotato di armatura pesante per
uno scontro ravvicinato basato sulla potenza; concorda anche Crahay,
p. 142>; 70.33 ephyppiis <a 70.16 “ephippiis”>; 72.1 inferius (-B.) <v.
n.73.1>; 72.3 trianglo; 74.4 contra enim; 76.30 deffendisse <a 106.8 con ‘f’
semplice>; 78.5 Nunc ipsarum [-Fr.]; 78.34 vident [] pro; 80.35 contra to-
tas; 84.29 Federa <e così, essendo difformi e non attestate le coniug. di
‘foedo’: 54.34 faedantia, 100.28 faedetur> [-Fr.] (-B); 86.18 Lina; 88.16
mutant []: primo; 88.32 Prothomedico; 88.33 consulitut; 90.6 per simil;
90.10 conferant; 90.21 & magnum; 94.25 renovandum [-Fr.]; 98.15 Equo-
rum [-Fr.](-B); 102.7 merentur [-Fr.]; 104.10 beneficientiae <e poco oltre
maleficientiae: ma v. 24.27: “Beneficentia”> [-Fr.] (-B.); 104.23 primiores [-
Fr.]; 104.27 peccatia [-Fr.]; 106.22 testitudinis <e così poco sotto; ma da
8.7 è “testudo”> [-Fr.]; 108.7 ut possit; 110.17 Capricornium <da 136.20
“Capricornum”>; 110.28 haerois <ma da 10.15 “heros”>; 112.21 mane []
ad ortum <tutte le red. preced. (da T.112.23 a Fr.) hanno “prima”/“pri-
mo”, replicato del resto simmetricamente a 112.24>; 112.37 sunt [] for-
mositatis <è attestato da tutte le red., da T.112.42 a Fr.; ma a differenza
del caso precedente, tranne la mediocre cura editoriale di P. e un gioco
di richiami con il “mirificant” del rigo sg, non vi è altra ragione strin-
gente che imponga l’evidenza della lacunosità, e infatti Crahay, p. 190
non l’accoglie>; 114.3 votant quantum; 116.20 alterum [] motuum <evi-
dente lacuna sanata da tutti i critici con Fr.>; 118.16 tanqnam; 120.1 ap-
propiuquant; 120.4 apponuntur [-Fr.]; 120.6 breviorem [-Fr.] <Crahay, p.
199: “breviorem curriculum dans les deux éditions latines est évidemment
une faute pour brevius, une faute qu’il faut se garder de corriger”; in
realtà è attestata nella tarda latinità la forma secondaria ‘curriculus’, ma
C. la usa sempre al neutro (ad es. in Quaest. in Eth., p. 2), e dunque l’in-
L LA CITTÀ DEL SOLE

timazione di Crahay è da respingere>; 120.26 in in anteriora; 120.30 in


anteriori; 122.19 fixa <44.11: “ad fixas”>; 126.3 ens scilicet qui Deus [-Fr.]
<Crahay è qui iperconservativo: ma ‘ens’ è neutro [v.128.6] e la relativa
non può esser reputata superflua, almeno quanto non lo è la successiva,
accordata al neutro: “et nihilum quod est defectus”>; 128.7 essentiatur;
130.4 quaedam est, ac <seguo B., perché possibile refuso, più che ano-
mala costruzione> [-Fr]; 132.24 planctarum <B.: “planetarum”>; 132.32
philosophatus; 134.9 illorum; 134.24 exurare; 136.11 magnatis [-Fr.]; 136.13
Mudigenarum [-Fr.]; 136.14: synodus [-Fr.] <da 136.22: “primas synodos
magnas”>; 142.25: putant; 144.16 arbitriis <Crahay, p. 222 lo conserva, in-
tendendolo aggettivalmente o come corruzione “pro ‘arbitrariis’”>;
144.29 5 (-B.) <anziché “85”>; 148.29 quam diabolus (-B.) <ma “qua” an-
che Crahay, p. 226>; 148.32 Rebarbari <v.92.3>; 150.5 faecunditatem; 152.5
novis orbis; 156.5 suppolaribus <ma in Astrol. ‘subpolar-’>; 158.21 nec se
ipse.
Fig. 3 - Frontespizio della Philosophia Realis (Parigi, 1637)
Fig. 4 - Pagina del titolo della Civitas Solis (Parigi, 1637)
LA CITTÀ DEL SOLE
CIVITAS SOLIS
CITTÀ DEL SOLE CIVITAS SOLIS
vel
De Reipublicae idea
DIALOGUS POËTICUS

OSPITALARIO, Interlocutores: HOSPITALARIUS MA-


GENOVESE MARINARO GNUS ET NAUTARUM GUBERNATOR
GENUENSIS HOSPES

OSPITALARIO - Dimmi, di HOSPITALARIUS* - Eia quaeso, memora


grazia, tutto quello che t’av- tandem quaecunque tibi hac in navigatione
venne in questa navigazione. contigerunt.
GENOVESE - Già v’ho detto GENUENSIS - Narravi iam quo pacto totius
come girai il mondo tutto, e 5 orbis terrarum peragraverim gyrum ac de-
poi com’arrivai alla Taproba- mum in Taprobanam pervenerim coactu-
na e fui forzato mettere in ter- sque fuerim in terram descendere. Ubi in-
ra, e poi, fugendo la furia de colarum metu sylvam adierim; ex qua tan-
terrazani, mi rinselvai e uscii dem egressus in planitiem magnam prorsus
in un gran piano proprio sot- 10 sub aequatore constiterim.
to l’equinoziale. HOSP. - Hic quid tibi accidit?
OSP. - Qui che t’occorse? GEN. - Extemplo in agmen frequens viro-
GEN. - Subito incontrai un rum ac mulierum armatarum incidi, quo-
gran squadrone d’uomini e rum multi nostrum callebant idioma, simul
donn’armate, e molti di loro 15 atque in Solis Civitatem me conduxerunt.
intendevano la lingua mia, HOSP. - Dic, qua ratione isthaec civitas fa-
li quali mi condussero alla brefacta est? Quaque gubernatur?
Città del Sole. GEN. - Attollitur ex amplissima Figura et
OSP. - Di’, com’è fatta que- planitie collis ingens, super quo exstructio
sta città e come si governa? 20 maior pars civitatis fundata est; at civitatis
GEN. - Sorge nell’ampia multiplices illius ambitus exponuntur
campagna un colle, sopra il ad multum spatium extra montis radi-
quale sta la magior parte della
città; ma arrivano li suoi giri
molto spazio fuor delle radici 25
del monte, il quale è tanto, che

* Defensio huius dialogi est in Politicis Quae-


stionibus, quarta quaestio, ubi ostenditur esse
cathechismum Gentilium ad politiam et fidem
30 christianam pure apostolicam.
LA CITTÀ DEL SOLE
ovvero
Lo stato ideale

DIALOGO FITTIZIO FRA IL GRANDE OSPITALIERO1 E UN NOC-


CHIERO GENOVESE, SUO OSPITE

OSPITALIERO* - Orsù racconta, per favore, quanto ti è accaduto in que-


sta navigazione.
GENOVESE - Già ho narrato in che modo, dopo aver circumnavigato
tutto il mondo ed esser finalmente giunto a Taprobana2, sono stato co-
stretto a scendere a terra; e come lì, per paura degli abitanti, mi sono
nascosto in un bosco; uscito dal quale, alla fine mi sono fermato in una
vasta pianura proprio sulla linea dell’equatore.
OSP. - Qui che ti accadde?
GEN. - M’imbattei all’improvviso in una schiera numerosa di uomini e
donne armati3, molti dei quali intendevano la nostra lingua, ed essi mi
condussero subito alla Città del Sole.
OSP. - Dimmi in che modo è costruita questa città? E com’è governa-
ta? Aspetto
GEN. - Nella vastissima pianura s’innalza un grande colle, su e struttura
cui è stata edificata la maggior parte della città; comunque i suoi della città

* La difesa di questo dialogo si trova nella Quarta delle Quaestiones in Politicis dove
si mostra che esso contiene la dottrina pagana propedeutica al buon governo e alla
fede cristiana schiettamente apostolica4.

1
Cavaliere dell’Ordine di Malta o, più genericamente, colui che, in una comunità laica o re-
ligiosa, sovrintende all’accoglienza degli ospiti (v. n. compl.).
2
È il nome indiano grecizzato dell’isola di Ceylon, situata però a 10° di latit. Nord; l’accenno
alla sua equatorialità (2.10) ha fatto però pensare a Sumatra, in cui, a partire dalla metà del
XV sec., i viaggiatori europei hanno creduto di riconoscere l’edenica Taprobana di Tolomeo
(Geogr. VII, 58d; v. n. compl.).
3
Con Bobbio ritengo trattarsi di contadini muniti di attrezzi agricoli, scortati eventualmente
da drappelli armati, come si chiarisce in seguito (80.27; v. n. compl.).
4
«Proponendo l’esempio di questa città, da un lato insegno ai pagani a vivere in modo retto,
se non vogliono che Dio non si curi di loro; dall’altro persuado i cristiani che la vita di Cristo
è conforme a natura» (Quaest. pol. IV, p. 107; v. n. compl.).
4 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS

la città fa due miglia di dia- ces, qui ea constat magnitudine, qua civita-
metro e più, e viene ad essere tis diameter duo et plus milliaria continet,
sette miglia di circolo; ma, per ut circuitus sit septem; at ex gibbositate plu-
la levatura, più abitazion’ha, ra capit quam si in planitie foret.
che se fuss’in piano. 5 Distincta est civitas in septem gyros ambi-
È la città distinta in sette tusve ingentes, a septem planetis nomina-
gironi grandissimi, nominati tos, et ab altero in alterum per quatuor stra-
dalli sette pianeti, e s’entra ta viarum intratur perque portas quatuor ad
dall’un all’altro per quattro mundi angulos quatuor spectantes. Et pro-
strade e per quattro porte, alli 10 fecto sic aedificata est, ut si quis primum ex-
quattro angoli del mondo pugnaret gyrum, necesse habet duplicato
spettanti; ma sta in modo che, labore expugnare secundum et maiori ter-
se fuss’espugnato il primo gi- tium, ac semper geminare vires laboresque.
rone, bisogna più travaglio al Quapropter septies expugnanda est volenti
secondo e poi più; talché sette 15 eam subiugare. Ego tamen iudico nec pri-
fiate bisogna espugnarla|1v> mum posse occupari ambitum, ita crassus
per vincerla. Ma io son di pa- est, terra plenus, munitus propugnaculis,
rere che n’anco il primo si turribus, bombardis et fossis.
può, tanto grosso è terrapieno, Ingressus igitur per portam Aquilonarem
ed ha valguardi, torrioni, ar- 20 (quae ferro operta est, sic fabrefacta ut possit
tellaria e fossati di fuora. elevari ac demitti, et facile et fortiter obserari
Entrati dunque per porta processibus suis in postium robustorum sinu-
Tramontana di ferro coperta, bus decurrentibus mirifico artificio), interca-
fatta che s’alza e cala con bel- pedinem planam vidi septuaginta passuum
lo ingegno, si ved’un piano 25 inter prima ac secunda moenia. Dehinc vi-
di cinquanta passi tra la mu- suntur palatia ingentia muro secundi gyri co-
raglia prima e l’altra. Ap- pulata omnia ut unum esse omnia dicere
presso stanno palazzi tutti queas. Porriguntur ex media altitudine pala-
uniti per giro col muro, che tiorum fornices continuati per gyrum totum,
puoi dire che tutti siano uno; 30 super quibus sunt deambulatoria, et substen-
e di sopra han li revellini so- tantur columnis ab imo crassis formosisque,
pra colonne, come chiostri de subporticus quasi sepientibus, sicuti peristy-
frati, e di sotto non v’è introi- lia sive claustra monachorum. Inferne autem
to, se non dalla parte conca- introitus non habent nisi ab interiori pariete
va delli palazzi. Poi son le 35 in sui parte concava, et intratur in aedes infe-
stanze belle con le finestre al riores plane, in superiores vero per scalas
convesso ed al concavo, e son marmoreas ad interiora consimilia deambu-
destinte con piccioli muri tra latoria, et ex illis ad superiores aedes, quae
loro. Solo il muro convesso è formosae sunt et fenestras habent ad conca-
grosso otto palmi, il concavo 40 vum et convexum parietem et gracilibus di-
tre, il mezano uno o poco più. stinguuntur parietibus. Quippe murus con-
vexus, id est exterior, crassitiem habet palmo-
rum octo, concavus vero trium, intermedii
unius et forte cum dimidio.
LA CITTÀ DEL SOLE 5

molteplici gironi si estendono per lungo tratto oltre i piedi del monte, e
le sue dimensioni sono tali da misurare più di due miglia di diametro e
quindi sette di circonferenza; e tuttavia, sviluppandosi su una conves-
sità, sfrutta una superficie maggiore che se fosse estesa tutta in pianura1.
La città è divisa in sette grandi gironi, o cinte, ognuno avente il nome
di un pianeta, e si accede dall’uno all’altro per quattro strade e quattro
porte rivolte ai quattro punti cardinali. Ed è evidente che è stata edifica-
ta in modo tale che, ammesso che fosse espugnato il primo girone, sa-
rebbe stato necessario uno sforzo doppio per espugnare il secondo, an-
cor più grande per il terzo ecc., dovendo duplicare ogni volta gli sforzi
e le fatiche. Perciò chi volesse impadronirsene, dovrebbe espugnarla
sette volte. Ma secondo me, non è possibile conquistare neanche il pri-
mo girone, talmente è massiccio il terrapieno e munito di bastioni, tor-
ri, bombarde e fossati.
Entrato dunque per la porta Settentrionale (tutta ricoperta di ferro,
essa è stata ideata in modo tale da poter esser alzata, abbassata e chiusa
facilmente e solidamente con un meccanismo molto ingegnoso grazie
ad appositi sistemi di scorrimento collocati negli incavi di robusti bat-
tenti), ho visto un intervallo pianeggiante di settanta passi2 tra la prima
e la seconda cinta muraria. Da lì si scorgono grandi palazzi serrati tutti
al muro del secondo girone tanto che potresti dire esser un tutt’uno.
Dai palazzi, a mezz’altezza, sporgono ininterrottamente per l’intero gi-
ro i porticati, con sopra dei loggiati, sorretti da colonne larghe alla ba-
se e ben tornite, che chiudono quasi i sottoportici, come nei peristili o
nei chiostri dei frati. In basso poi hanno gli ingressi solo nella parte in-
terna, o concava, delle mura, attraverso i quali si entra nelle stanze infe-
riori direttamente, mentre alle superiori si accede attraverso scalinate
marmoree che immettono in corridoi consimili. Da essi si passa quindi
nelle stanze superiori, che sono belle ampie, dotate di finestre sia nel
muro esterno che in quello interno, e separate tra loro da pareti sottili.
Ogni muro convesso, ovvero esterno, è spesso otto palmi, il concavo so-
lo tre, e i tramezzi uno e mezzo circa.

1
La superficie dell’emisfero può arrivare fino al doppio di quella del cerchio sotteso (v. n.
compl.).
2
A Napoli un passo misurava 185 cm e mille passi formavano un miglio, cioè 1,855 Km (Ma-
gini, 7v: «Il miglio, misura che hoggi è communemente in uso... abbraccia mille passi... par-
lando delle miglia latine e delle nostre italiane»; e C. stesso rende 110 mila miglia con 110
milioni di passi [v. n. 114.5-6]); e, poco sotto, un palmo è circa 26 cm (Treccani e GDLI).
6 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS

E cossì poi s’arriva al se- Dehinc pervenitur ad secundam pla|147>-


condo piano, ch’è dui passi o nitiem angustiorem prima passibus fere tri-
tre manco, e si veden le se- bus. Atque secundi ambitus primus conspici-
conde mura con li revellini tur murus, consimilibus ornatus deambula-
in fuora e passeggiatorî; e 5 toriis superne et inferne. Et ab interiori par-
dalla parte di dentro, l’altro te alius est murus interior palatia interclu-
muro, che serra li palazzi in dens: secunda moeniana et peristylia habet
mezo, ha il chiostro con le co- consimilia, columnis suffulta inferne, super-
lonne e di sotto e di sopra bel- ne vero picturas egregias, ubi sunt aedium
le pitture. 10 ianuae superiorum.
E cossì s’arriva fin al su- Itaque deinde per consimiles ambitus et
premo e sempre per piani. So- muros duplices intercludentes palatia, orna-
lo quando s’entrano le porte, tos deambulatoriis porrectis exterius, fultis
che son doppie per le mura in- columnis, itur usque ad supremum ac conti-
teriori ed esteriori, s’ascende 15 nuo per planum aequale. Attamen quando
per gradi tali che non si cono- per portas transitur, quae duplices sunt, hoc
sce, perché vanno obliqua- est exterioris interiorisque muri, scanditur
mente, e son |2r> d’altura per gradus, sed ita formatos quod vix discer-
quasi insensibili distinte le nitur ascensio, quoniam oblique inceditur
scale. 20 et quasi invisibilibus distinctae sunt scalae
Nella sommità del monte elationibus.
v’è un gran piano ed un In montis cacumine area est plana bene
gran tempio in mezo, di stu- spatiosa; et in medio eius templum adsurgit
pendo arteficio. mirifico constructum artificio.
LA CITTÀ DEL SOLE 7

Da lì si giunge alla seconda spianata più stretta della prima di circa


tre passi; e si vede il primo muraglione del secondo1 girone, in alto e in
basso provvisto di analoghi porticati; dalla parte interna vi è l’altro mu-
ro concavo che serra i palazzi. Il secondo girone ha mura e peristili ana-
loghi a quelli del primo, sorretti in basso da colonne, e decorati da ma-
gnifici affreschi in alto2, dove si aprono le porte delle stanze superiori.
E così, attraverso gironi tutti uguali con le doppie mura racchiudenti
al loro interno i palazzi, dotati di portici protesi esternamente e sorretti
da colonne, si perviene al settore più elevato della città, oltrepassando
sempre questi spiazzi. Soltanto quando si passa per le porte, che sono
duplici, una per il muro esterno e l’altra per l’interno, si sale per gradi-
ni, ma così ben tagliati che a stento ci si accorge della pendenza, perché
si procede obliquamente e perché i gradini hanno dislivelli pressoché
insensibili3.
Sulla sommità del colle vi è un’area pianeggiante molto ampia e in
mezzo sorge un tempio di splendida architettura.

1
A rigore sarebbe il terzo girone, avendo già oltrepassato il «secondo» (6.3); l’ipotesi più at-
tendibile, essendo improbabile una svista a così breve distanza testuale, è che il primo circui-
to sia strutturalmente e funzionalmente diverso dagli altri sei anelli, costituiti da doppie mu-
ra con palazzi porticati e affrescati; il primo invece è esclusivamente difensivo (4.15-8 e 76.2):
dunque questo è il secondo dei gironi abitati.
2
Da questo elegante chiasmo («columnis… inferne, superne… picturas») parrebbe che le
pitture stiano solo in alto, e i portici inferiori non siano affrescati; ma successivamente (12.8;
18.11) risulta che anche i sottoportici sono istoriati. È possibile che sia una svista, anche per-
ché dietro vi è una complicata storia testuale: tutti i mss di Città, a partire da T.6.9, dicono
che le pitture murali sono collocate nel portico superiore e in quello inferiore del girone; sal-
vo L., che le confina al solo portico superiore («ha il chiostro con le colonne di sotto, e di so-
pra con belle pitture»), sanando in tal modo una contraddizione con T.40.8-9 (le arti specu-
lative si esercitano «di sopra, dove sono le pitture»). Se non che in Civitas forse l’Au. è ritor-
nato all’ideazione originaria (pitture sopra e sotto), aggiungendo a 40.7 un «nobiliores», che
potrebbe richiamare l’«egregias» di 6.9; e in tal caso si eviterebbe l’incoerenza. Più avanti, in-
fatti, si legge che Sapienza ha fatto dipingere le mura non solo «dentro e di fuori» (T.12.6),
ma anche «inferiores ac superiores» (12.8); e sempre in Civitas aggiunge che gli eroi militari
sono «in inferioribus subporticibus depictos» (18.11, assente in T.18.5): è solo in base a 18.11
che si evince che le pitture sono distinte e gerarchizzate non soltanto sull’asse orizzontale
(esterno/interno), ma anche su quello verticale: inventori, legislatori, profeti e Cristo stesso
sono dipinti nei portici superiori, dove sono le pitture «egregias» (6.9), ovvero «nobiliores»
(40.7).
3
«Insensibili» asseconda la lezione di T.6.19, probabilmente travisata da un esemplare alto
dello stemma di mss, essendo attestata già da R., e trascinatasi così in tutti i rami fino a L. In-
fatti Firpo 1948, p. 252: «T. mostra che l’aggettivo fu deformato nella trascrizione, perché la
dolcezza delle scale a gradini inclinati, tali che l’ascesa “non si conosce”, vuol che si ritorni al
primitivo “altura... insensibile”» (del resto “insensibile” non è altro che una generalizzazione
sensoriale di “invisibile”).
8 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS

OSP. - Seguita in cortesia. HOSP. - Perge nunc, perge, dic, oro per vi-
GEN. - Il tempio è tondo tam.
perfettamente, e non ha mu- GEN. - Templum absolutae ro- Templi
raglia che lo circonda; ma sta tunditatis forma decoratur: non structura in
situato sopra colonne gross’e 5 circumdatur muris sed super co- cacumine
bell’assai. La cupola gran- lumnis haeret crassis, pulchre con-
d’ha in mezo una cupoletta cinnatis. Testudo maxima, mira arte
con uno spiraglio, che pende exstructa, in centro vel polo sui testudi-
sopra l’altare, ch’è uno solo e nem editiorem habet parvam, et in hac spi-
sta nel mezo del tempio. Gira- 10 raculum, quod altari imminet, quod uni-
no le colonne trecento passi e cum est ac in centro templi. Columnis cir-
più, e fuor delle colonne della cumseptum, templum vero excedit trecen-
cupola vi sono per otto passi tos quinquaginta passus. Capitellis forinse-
li chiostri con mura poco ele- cus columnarum innituntur fornices por-
vate sopra le sedie, che stan 15 recti quasi octo passus extrorsum, unde
d’intorno al concavo dell’este- aliae columnae ipsos sustinentes attollun-
rior muro, benché in tutte le tur, inhaerentes crasso muro fortique erec-
colonne interiori, che sensa to passibus tribus, inter quem ac priores co-
mura fraposte tengono il tem- lumnas deambulatoria sunt inferiora, pavi-
pio, vi siano sedie portatili 20 mentis constrata pulchris; et in muri conca-
assai. vo, crebris distincti portis amplissimis, sedi-
Sopra l’altare non v’è altro lia sunt immobilia, tametsi inter columnas
ch’un mappamondo assai interiores templum substentantes non de-
grande, dove tutt’il cielo è di- sint sellae portatiles plurimae decoraeque.
pinto, ed un altro dov’è la ter- 25 Super altare nihil conspicitur nisi globus
ra. Poi sul cielo della cupola magnus in quo totum depictum est coelum,
vi stanno tutte le stelle mag- et alter globus in quo depicta est tellus. Porro
giori del cielo, notate con i in coelo testudinis magnae omnes coeli stel-
nomi loro e virtù, ch’hanno lae a prima usque ad sextam magnitudinem
sopra le cose terrene, con tre 30 depictae cernuntur, propriis notatae nomini-
versi per una; ci sono li poli bus ac virtutibus, quas terrestribus influunt
ed i circoli segnati non del rebus, in tribus quaeque versiculis. Adsunt
tutto, perché ci manca il mu- poli et circuli maiores minoresque iuxta rec-
ro a basso, ma si vedeno fini- tum horizontem ipsorum in templo adnotati,
ti in corrispondenza nelli 35 sed non perfecti, quoniam deficit murus in-
globbi dell’altare. V’è sempre ferne, at videntur perfici in relatione ipso-
accese sette lampadi nominati rum ad globos, qui sunt in altari. Pavimen-
dalli sette pianeti. tum pretiosis lapidibus collucet. Lampades*
aureae septem continuo igne accensae pen-
40 dent, septem planetarum nomina gerentes.

* Moses iuxta universi exemplar, consimile de-


scribit templum et lampades.
LA CITTÀ DEL SOLE 9

OSP. - Continua orsù, non ti fermare, te ne scongiuro.


GEN. - Il tempio è perfettamente circolare: non è cinto da Struttura del
mura, ma poggia su massicce colonne di ottima fattura. La tempio posto
volta maggiore, edificata con arte mirabile, è sormontata al sulla vetta
suo centro, o polo, da una cupoletta, dove vi è una stretta aper-
tura sulla verticale dell’altare, il quale è unico e collocato al centro del
tempio. Tutto circondato da colonne, il tempio supera i trecentocin-
quanta passi di circonferenza. Ai capitelli delle colonne si appoggiano
le arcate aggettanti per circa otto passi all’infuori, dove sono sostenute
da altre colonne, incorporate in un muro spesso, robusto e alto tre pas-
si; tra questo muro e il primo colonnato corrono i porticati inferiori, pa-
vimentati magnificamente; e nella parte interna del muro, interrotto da
frequenti spaziosissime aperture, vi sono panchine fisse, sebbene fra le
colonne interne sorreggenti il tempio non manchino molte sedie por-
tatili eleganti.
Sopra l’altare ci sono solo due globi: sul più grande è rappresentata
la sfera celeste e sull’altro quella terrestre. Inoltre, sulla volta maggio-
re, si vedono dipinte tutte le stelle del firmamento dalla prima alla se-
sta grandezza, ognuna affiancata da tre versetti indicanti il suo nome e
l’influenza che esercita sulle cose terrestri. Sulla volta si trovano altresì
i poli e i circoli maggiori e minori, segnati così come appaiono al loro
orizzonte equatoriale, non completi però, mancando dell’emisfero in-
feriore, ma che tuttavia possono esser completati correlandoli ai globi
che sono sull’altare. Il pavimento risplende di pietre preziose. Pendo-
no sette lampade* d’oro perennemente accese, aventi i nomi dei sette
pianeti.

* Mosè, in analogia al modello dell’universo, descrive un tempio con le lampade


del tutto simile1.

1
Il concetto è richiamato astro-magicamente a 146.16 e 148.22, e si rifà a Ex. 25, 9sg.; ed è
espressamente cit. in: Metaph. XVI I IV [III, p. 195]: «Mosè fabbrica l’atrio del tabernacolo ad
imitazione del cielo mentale... all’esterno invece accende sette lumi, molto somiglianti ai set-
te pianeti» (v. n. compl.).
10 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS

Sopra il tempio vi stanno Super templo circumdant testudinem


|2v> alcune celle nella cupo- parvam cellae quaedam pulchrae ac parvae;
letta a torno e molt’altre gran- et post planam intercapedinem super clau-
di sopra li chiostri, e qui abi- stris seu fornicibus internarum et externa-
tano li religiosi, che sono da 5 rum columnarum multae sunt cellae ac
quaranta. grandes decoraeque, ubi sacerdotes et reli-
V’è sopra la cupola una giosi habitant quasi quadraginta etc.
banderola per mostrare li ven- Super minorem testudinem quasi vexil-
ti, e ne segnano 36; e sanno lum volubile omnino eminet ostentans ven-
quando spira ogni vento che 10 tos, quos signant usque ad triginta sex. Ac
stagion porta. E qui sta an- norunt qualem ferant annum venti singuli
ch’un libro in lettere d’oro di et quales in mari ac terra mutationes, sed
cose importantissime. non nisi sui climatis. Ibidem sub vexillo co-
OSP. - Per tua fe’, dimmi dex adservatur literis inscriptus aureis.
tutto il modo del governo, ché 15 HOSP. - Rogo te, generose heros, Idea
qui t’aspettavo. edissere mihi totam regiminis ipsorum regiminis
GEN. - È un prencipe sa- rationem. Huc enim te praestolabar.
cerdote tra loro, che s’appella GEN. - Princeps magnus inter eos est sa-
Sole, ed in lingua nostra si cerdos, quem vocant suo idiomate Hoh, no-
dice Metafisico: questo è capo 20 stro autem diceremus Metaphysicum. Hic
di tutti in spirituale e tempo- est omnium caput in temporalibus ac spiri-
rale, e tutti li negozî in lui si tualibus, omniaque negotia ac causae in
terminano. Ha tre prencipi ipsius iudicio postremum terminantur.
collaterali: Pon, Sin, Mor, Tres illi assistunt Principes collaterales,
che vuol dire: Podestà, Sa- 25 Pon, Sin et Mor, quod nostra lingua sonat
pienza ed Amore. Potestas, Sapientia et Amor.
Il Podestà ha cura delle Potestati curae sunt negotia belli
guerre e delle paci e dell’arte ac pacis, artes militares; estque su- Cura
militare; è supremo nella premus in re bellica at non super Potestatis
guerra, ma non sopra Sole; 30 Hoh. Ipse regit magistratus milita- triumviri
ha cura dell’officiali, guerrie- res, milites, curam munitionum gerit,
ri, soldati, munizioni, fortifi- fortificationum et expugnationum et
cazioni ed espugnazioni. machinarum bellicarum et fabricarum et
Il Sapienza ha cura de artificum huiusmodi res tractantium.
tutte le scienze e delli dottori e 35 Sapientiae vero curae subiacent artes li-
magistrati dell’arti liberali e berales et mechanicae et scientiae Cura
mecaniche, e tiene sotto di sé omnes et magistratus illarum et Sapientiae
tant’officiali quante sono le doctores et disciplinarum scholae, triumviri
scienze: c’è l’Astrolago, il Co- sibique subiacent tot magistratus
smografo, il Geometra, il Loi- 40 quot scientiae. Est magistratus qui vo-
co, il Retorico, il Grammati- catur Astrologus, item et Cosmographus,
co, il Medico, il Fisico, il Poli- Arithmeticus, Geometra, Historiographus,
tico, il Morale; e tien’un libro Poëta, Logicus, Rhetor, Grammaticus, Me-
dicus, Physiologus, Politicus, Moralis;
LA CITTÀ DEL SOLE 11

La cupoletta posta sopra il tempio è circondata da alcune celle picco-


le e belle; poi su quello spazio piano, che insiste sopra i chiostri (o arca-
te) tra le colonne esterne ed interne, sono state ricavate molte celle
grandi e decorose, dove abitano una quarantina di religiosi e sacerdoti
ecc.1
Svetta sulla cupoletta una specie di banderuola girevole che indica la
direzione dei venti, e ne contano fino a trentasei. E così sanno quale an-
nata arrecheranno i singoli venti e quali cambiamenti atmosferici in
mare e in terra, ma soltanto della loro fascia climatica. Sotto la stessa
banderuola è conservato un libro scritto a lettere d’oro2.
OSP. - Ti prego, o nobile eroe, spiegami dettagliatamente il Un modello
loro regime politico. In effetti non vedevo l’ora che tu toccassi di governo
questo punto.
GEN. - La suprema autorità dei Solari è un sacerdote, che nella loro
lingua si chiama Hoh, e nella nostra potremmo chiamare Metafisico.
Questi dispone sia del potere spirituale che temporale, e le sue decisio-
ni, alla fine, troncano ogni controversia, processuale e non.
Lo affiancano ed assistono tre prìncipi, Pon, Sin e Mor, che nella no-
stra lingua significano Potenza, Sapienza e Amore.
A Potestà competono gli affari di pace e di guerra, le arti mi- Compiti
litari. Sulle questioni belliche è l’autorità suprema, ma non al di Potestà
di sopra di Hoh: è a capo degli ufficiali e dei soldati, si occupa
delle opere di difesa, delle fortificazioni e delle espugnazioni, nonché
delle macchine e fabbricati bellici, e degli addetti a queste opere.
A Sapienza spetta invece la direzione delle arti liberali e ma- Compiti
nuali, di tutte le scienze e loro magistrature, dei docenti e del- di Sapienza
le scuole; da lui dipendono tanti magistrati quante sono le di-
scipline: vi è un magistrato che si chiama Astrologo, come pure vi è il
Cosmografo, l’Aritmetico, il Geometra, lo Storiografo, il Poeta, il Logi-
co, il Retore, il Grammatico, il Medico, il Fisiologo3, il Politico, il Mora-

1
Come dirà in seguito, nelle celle inferiori abitano quaranta magistrati-religiosi, nelle cellet-
te superiori invece dimorano stabilmente i ventiquattro sacerdoti-scienziati di 106.41, cui im-
plicitamente rinvia quell’«etc.» (v. n. compl.).
2
Nella cupoletta si trova l’albo d’oro, nonché libro dei segreti, evocato più avanti come «li-
bro degli eroi» (v. 112.8 e n. compl.).
3
Il Fisiologo (o Fisico) è l’esperto delle qualità (chimico-)fisiche degli enti naturali, uomo in-
cluso: «Il fisico, che le cose velenose e contrarie intende, può ammazzare e salvare... Ora il fi-
sico conosce queste cose dal calore, dal sapore e dall’odore e dalla consistenza crassa o len-
12 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS

solo, dove stan tutte le scien- unumque modo volumen habent, quod vo-
ze, che fa leggere a tutto il po- cant Sapientiam, in quo omnes sunt scien-
polo ad usanza di Pitagorici. tiae compendio ac facilitate mira conscrip-
E questo ha fatto pingere tutte tae. Hunc legunt ad populum iuxta ritum
le muraglia, su li revellini, 5 Pythagoreorum.
dentro e di fuori, |3r> tutte le |148> Hic Sapientia, totius ci- Scientiarum
scienze. vitatis parietes internos externo- faciles per
Nelle mura del tempio este- sque, inferiores ac superiores, picturam
riori e nelle cortine, che si ca- picturis praestantissimis adornari disciplinae
lano quando si predica per 10 fecit, omnesque scientias in eis de-
non perdersi la voce, vi sta signari mirifico ordine.
ogni stella ordinatamente con In muris templi exterioribus et in corti-
tre versi per una. nis, quae demittuntur cum sacerdos concio-
Nel dentro del primo giro- natur, ne vox dispersa praetervolet audito-
ne tutte le figure matemati- 15 res, pictae sunt stellae, ipsarumque magni-
che, più che non scriss’Eucli- tudines, virtutes et motus, tribus versiculis
de ed Archimede, con le loro notatae singulae.
proposizioni significanti. Nel In interiori muro primi ambitus conspi-
di fuori v’è la carta della ter- ciuntur depictae omnes figurae mathemati-
ra tutta, e poi le tavole d’ogni 20 cae longe plures quam Archimedes et Eucli-
provinzia con i riti, costumi e des invenerunt, et ad parietis proportionem
leggi loro, e con l’alfabeti or- grandes et decore signatae cum brevi decla-
dinati sopra il loro alfabeto. ratione, versiculo contenta in singulis; sunt
Nel dentro del 2° girone vi et definitiones et propositiones etc. In exte-
son tutte le pietre preziose e 25 riori convexo est primo descriptio integra
non preziose, e minerali, e permagna simul totius terrae; hanc conse-
metalli veri e finti, con le di- quuntur tabulae peculiares cuiuslibet pro-
chiarazioni di dui versi per vinciae, ubi et ritus et leges et mores et ori-
uno. Nel di fuori vi son tutte gines et vires incolarum brevi prosa com-
sorti di laghi, mari, fiumi, 30 prehenduntur; et alphabeta, quibus utun-
vini, ogli ed altri licori, e loro tur provinciae omnes, visuntur super alpha-
virtù ed origine e qualità; e ci beto Civitatis Solis.
sono le carrafe piene di diver- In interiori secundi gyri, domiciliorum
si licori di cento e trecento an- scilicet secundorum, cernuntur omnia lapi-
35 dum genera pretiosorum et communium
et mineralium metallorumque pictorum, at
et verorum quoque frustula, cum declara-
tione apposita singulis in duobus versiculis.
In exteriori omnia maria signata sunt et flu-
40 mina et lacus et fontes quae sunt in mun-
do, et vina, olea et liquores cuncti, ipso-
rumque origines, qualitates et virtutes; ad-
suntque ampullae super fornicibus muro
confabricatae, diversis plenae liquoribus a
LA CITTÀ DEL SOLE 13

le. I Solari adottano un unico libro che si chiama Sapienza, nel quale so-
no trattate con mirabile concisione e chiarezza tutte le scienze. Questo
libro, secondo l’usanza dei Pitagorici, viene letto al popolo.
Questo Sapienza fece adornare le mura1 interne ed ester- Le discipline
ne, superiori e inferiori della città con pitture splendide rap- scientifiche
presentanti tutte le scienze opportunamente classificate. facilmente
assimilabili
Nelle mura esterne del tempio e nelle sue cortine, calate
tramite
giù, quando il sacerdote predica, per non disperderne la voce, le pitture
sono dipinte le stelle, ognuna delle quali è accompagnata da tre
versetti che spiegano grandezza, virtù e moti.
Nella muraglia interna del primo girone si possono osservare i dise-
gni di tutte le figure geometriche, molto più numerose di quelle sco-
perte da Archimede ed Euclide; tali figure ben riprodotte e di grandi di-
mensioni, proporzionate come sono alla parete, vengono adeguata-
mente accompagnate ognuna da una breve nota illustrativa di un ver-
setto; vi sono definizioni, proposizioni ecc. Nella muraglia esterna con-
vessa vi è anzitutto una gigantesca mappa complessiva e complanare di
tutta la Terra; seguono quindi le tavole specifiche di ogni regione, ac-
compagnate da un breve trafiletto in prosa2 in cui sono esposti riti, leg-
gi, costumi, origini e risorse dei loro abitanti; e gli alfabeti di tutte le na-
zioni sono correlati a quello della Città del Sole.
Sulla muraglia interna del secondo girone, ovvero del secondo anel-
lo di palazzi, si vedono tutte le specie di pietre, preziose e comuni, di
minerali e metalli, dipinti, ma anche presenti in piccoli campioni, con
l’apposita didascalia in due versetti. Nel muro esterno sono segnati tut-
ti i mari, i fiumi, i laghi e le sorgenti della Terra; e i vini, gli oli e tutti i li-
quori, con le rispettive provenienze, qualità e proprietà; sopra le arcate
vi sono dei recipienti sferici murati, pieni di diversi liquori vecchi di

ta» (Senso, p. 243-5). Per questa sua conoscenza della natura e proprietà delle cose, cioè del-
la fisiologia umana e della fisica degli elementi, è lui ad occuparsi della posologia alimenta-
re, dai poppanti (46.31) agli adulti (88.22); mentre la composizione della dieta spetta a un
capomedico (88.32): se dunque il Medico si occupa dell’aspetto qualitativo (=cosa?), il Fisio-
logo cura quello quantitativo (=quanto e quante volte? V. n. compl.).
1
Esclusa la settima cinta, soltanto protettiva, non abitativa, e quindi, a rigore, non facente
parte della ‘civitas’.
2
L’improvviso passaggio dalla poesia (12.16, 23 e 38; in T.12.19-23 non si menzionano dida-
scalie) alla prosa può esser casuale ‘variatio’, oppure può stare a indicare che il sussidio mne-
monico offerto dal ritmo poetico non è necessario per (o conciliabile con) l’apprendimento
di dati geografici.
14 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS

ni, con li quali sanano tutte centum et trecentis annis, quibus varias cu-
infirmità. rant infirmitates. Sunt et grandines et nives
Nel dentro del 3° vi sono et tonitrua et quaecunque in aëre fiunt,
tutte sorte d’erbe ed arbori del suis expressae figuris versiculisque. Habent
mondo pinte, e pur in teste di 5 artem etiam faciendi intra cubiculum om-
terra sopra il revellino, e le di- nia meteorologica, idest ventos, pluvias, to-
chiarazioni dove prima si nitrua, iridem etc.
trovâro, e le virtù loro, e le so- In interiori tertii gyri sunt omnes arbo-
miglianze ch’hanno con le rum et herbarum species depictae, aliquae
stelle e con li metalli e con le 10 autem sunt in testis vivae super fornicum
membra umane, e l’uso loro exteriori pariete, cum declarationibus ubi
in medicina. Nel di fuori tut- primo inventae sunt, quae sint ipsarum vi-
te maniere di pesci di fiumi e res et qualitates et similitudines ipsarum
laghi e mari, e le virtù loro, cum rebus coelestibus et metallis et cum
ed il modo di vivere, di gene- 15 partibus corporis humani et cum rebus ma-
rarsi ed allevarsi, ed a che rinis, et ipsarum usus in medicina etc. In ex-
serveno e le somiglianze |3v> teriori omnia piscium genera fluviorum, la-
ch’hanno con le cose celesti, cuum et marium, ipsorumque mores et vir-
terrestri dell’arte e della natu- tutes, generationis ratio, vitae, educationis,
ra; oh che mi stupii, quando 20 et usus, quem habent ad mundum et ad
trovai pesce vescovo e catena e nos, ipsorum quoque similitudines cum re-
chiodo e stella, a punto come bus coelestibus et terrestribus a natura et ab
sono questi cossì tra noi. Ci arte productis, ita quod obstupui cum vide-
sono incini, rizzi, spondoli, rem piscem episcopum et catenam et lori-
tutto quanto è degno di sape- 25 cam et clavum et stellam et verpam, et simu-
lacra istarum rerum apud nos existentium
omnino referentes. Visuntur echini, conchi-
lia, spondili etc. et quidquid scitu dignum
LA CITTÀ DEL SOLE 15

cento e trecento anni, con i quali curano svariate malattie. Vi è anche la


grandine, la neve, i tuoni e ogni fenomeno atmosferico, illustrati da fi-
gure e versetti. Questo popolo conosce anche l’arte di riprodurre in
una stanza tutti i fenomeni meteorologici, come vento, pioggia, tuoni,
arcobaleno ecc.
Nel muro interno del terzo girone sono dipinte tutte le specie vege-
tali, alcune delle quali sono anche trapiantate in vasi collocati sopra le
arcate della parete esterna, con la spiegazione di dove furono scoperte
la prima volta, di quali siano le proprietà, le qualità e le corrispondenze
con le cose celesti, i metalli, le parti del corpo umano, le cose marine,
nonché il loro uso officinale ecc. Nel muro esterno sono illustrate tutte
le specie di pesci di fiume, di lago e di mare, con le loro abitudini e qua-
lità, il modo di generare, vivere, allevare e l’utilità che esse hanno sia
per l’uomo che per il resto della natura, e inoltre le loro somiglianze
con le cose celesti e terrestri, naturali e artificiali. Enorme fu dunque la
mia meraviglia nel vedere il pesce vescovo, il pesce catena, il pesce lori-
ca, il pesce chiodo, il pesce stella e il pesce priapo, specie che riprodu-
cono perfettamente le forme di codeste cose quali sono presso di noi; si
osservano i ricci, le conchiglie, le ostriche1. Insomma, qualunque cosa

1
Fonti antiche: Plinio, IX I [Conte]: nel mare si trovano parecchi esseri mostruosi, perché es-
so è particolarmente propizio alla infinita combinazione, da parte delle correnti e dei venti,
dei semi generativi, «cosicché diventa vera l’opinione comune secondo cui qualsiasi cosa na-
sca, in qualsiasi parte della natura, si trova anche in mare; e in più nel mare si trovano molte
cose che non sono da nessuna altra parte. Che vi siano immagini di oggetti, e non solo di ani-
mali, è possibile comprenderlo se si considera l’uva [animale ignoto], la spada [=il pesce spa-
da], le seghe ed anche il cocomero, che è simile, sia nel colore che nell’odore, a quello di ter-
ra, per cui non ci si dovrebbe meravigliare che teste di cavallo sovrastino chiocciole così pic-
cole [=ippocampi]»; Ambrogio, V II,5, elenca tutti i tipi di pesci che hanno corrispettivi terre-
stri e alati: «i cani marini, i vitelli marini... i leoni di mare. Perché [non] aggiungere anche i
pesci merli, tordi e persino i pesci pavoni, dei quali vediamo riprodotti negli uccelli anche i
colori...?». Alle fonti moderne cit. da Firpo (ed. Ernst 1997a, p.9), la principale delle quali re-
sta Botero per il pesce vescovo (p. 50), bisogna associare «il mio amico Imperato, diligentissi-
mo nella sua storia» naturale (Hist. II, p. 1245), e di cui Sensu, p. 222r ricorda lo «studium seu
technotecha» a Napoli, a metà fra ‘Wunderkammer’ e museo naturale: nelle Camere delle
meraviglie «era proprio il confronto ‘vis-à-vis’ tra gli oggetti che sottolineava il senso generale
di una catena di dipendenze cosmiche... La raccolta enciclopedica preilluminista riunisce in-
sieme una serie di omologhi, cioè di oggetti nei quali si riconoscono legami e connessioni...
Come [fa] C. delle misteriose corrispondenze tra gli esseri più diversi, come i pesci a forma di
catena, chiodo, stella, di cui parla in Senso, e questo è il ‘consenso’ o principio della somi-
glianza» (Lugli, p. 119). Contro questa teoria delle ‘segnature’, già nel 1670 Scilla, p. 38: «la-
scerò ad altri l’arbitrio di credere... che la Palla marina e l’Ermodattilo, il Fallo, il Boratmets
somiglino più alla castagna che ad un graspo d’uva, più alla mano che al nostro ginocchio, più
al dio degli orti Priapo che al petto umano, e per finirla più ad un agnello che ad un serpe, ma
16 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS

re con mirabil arte di pittura mundus aqueus habet, mirabili pictura ac


e di scrittura che dichiara. scriptura ibi patet.
Nel 4° di dentro vi sono In quarto interiori avium genera omnia
tutte sorti d’ucelli pinti e loro depicta visuntur, ipsorumque qualitates,
qualità, grandezze, costumi, 5 magnitudines, mores, colores, vita etc.; ac
e la fenice è verissima appres- phoenix verissima illis habetur. In exteriori
so loro. Nel di fuori stanno omnia reptilium animalium genera patent,
tutte sorti d’animali reptili, serpentes, dracones, vermes, et insecta ut
serpi, draghi, vermini, e l’in- muscae, culices, tafani, scarabei etc., cum
setti, mosche e tafani ecc., con 10 ipsorum conditionibus, virtutibus, venenis
loro condizioni, veneni e vir- et usibus etc. Ac longe plura sunt quam nos
tuti; e son più che pensiamo. existimare possimus.
Nel 5° di dentro vi sono In quinto interiori habentur animalia
l’animali perfetti terrestri di perfecta terrestria, tot generum ut obstupe-
tante sorti ch’è stupore. Non 15 scas. Nec nos millesimam novimus partem;
sappiamo noi la millesima et cum sint plurima et ingentis magnitudi-
parte, e però, sendo grandi di nis, in exteriori quoque depicta sunt gyri
corpo, l’han pinti ancora nel ambitu. Hem, quot equorum genera modo!
di fuori revellino; e quante Pape, quae figurarum pulchritudo docte
maniere de’ cavalli solamen- 20 declaratur!
te! Oh belle figure dichiarate In sexto interiori depictae sunt omnes
distintamente! mechanicae artes ipsarumque instrumenta,
Nel 6°, dentro vi sono tut- et quibus modis apud diversas nationes trac-
te l’arti mecaniche, e l’inven- tantur, et iuxta dignitatem suam locatae ac
tori loro, e li diversi modi, co- 25 declaratae apparent; et simul inventores
me s’usano in diverse regioni ipsarum. In exteriori vero sunt depicti om-
del mondo. Nel di fuori vi nes inventores scientiarum et armorum et
son tutti l’inventori delle leg- legumlatores, ubi vidi Moysem, Osirim, Io-
gi, delle scienze e dell’armi. vem, Mercurium, Lycurgum, Pompilium,
Trovasi Mosè, Osiri, Giove, 30
Mercurio, Macometto ed altri
LA CITTÀ DEL SOLE 17

rilevante il mondo acquatico racchiuda, la si trova mirabilmente dipin-


ta e descritta lì.
Sulla parte interna della quarta cinta muraria sono disegnate tutte le
specie di uccelli con le qualità, dimensioni, abitudini, colori, condizioni
di vita ecc.; e per i Solari la fenice è un uccello veramente esistente. La
parte esterna mostra tutti i generi di rettili: i serpenti, i draghi, i vermi,
e gli insetti quali le mosche, le zanzare, i tafani, gli scarabei ecc., con le
abitudini di vita, proprietà, veleni, e i loro usi ecc. E sono molto più nu-
merosi di quanto possiamo immaginare.
Nella muraglia interna della quinta cinta sono disegnati gli animali
terrestri perfetti, di tali e tante specie da restarne stupiti – noi non ne
conosciamo nemmeno la millesima parte –; e poiché sono tantissimi e
di notevole grandezza, sono stati dipinti anche sul lato esterno del giro-
ne. Caspita! Solo di cavalli, quante specie ci sono! E quante belle figure
dottamente spiegate!
All’interno del sesto girone sono dipinte tutte le arti manuali e i ri-
spettivi utensili, e in che modo siano esercitate presso le diverse nazioni;
ognuna di queste arti è collocata e illustrata in base alla sua importanza,
e accompagnata dalla menzione del suo scopritore. All’esterno invece
ci sono i ritratti di tutti gli inventori delle scienze, delle armi e i legisla-
tori, e lì vidi Mosè, Osiride, Giove, Mercurio, Licurgo, Numa, Pitagora,

non già che siano istessissimi nel disegno», come vorrebbero quelli che riducono tutto a «una
sola virtù formatrice». Invece a favore delle corrispondenze si era pronunciato Della Porta,
Magia I IX, 13r-v: «Tutte le spetie delle cose... secondo la loro possanza, vediamo che cercano
inclinare, tirare, allettare et convertire nella sua somiglianza, e se di virtù saranno più gagliar-
de, questo più facilmente succederà». Entrambi – Della Porta e Imperato – sono menzionati
nella stessa pag. di Senso IV I; e quest’ultimo è ancora evocato in Metaph. VI VII I (II, p. 103):
«Abbiamo visto che tutto ciò che viene generato sulla terra viene pure generato nel mare, tal-
ché alcuni pesci abbiano la foggia di calamaio, altri di porta-spada, altri di vescovo mitrato, al-
tri la catena, altri la corazza, come scrive l’Imperato, altri lo stesso pescatore; e gli enti marini
non solo imitano quelli naturali terrestri, ma pure quelli artificiali». Infatti Imperato riporta a
p. 680 nelle sue tavole grandi e dettagliate le figure di piante e animali rari, fra cui la «lorica
marina» [=pesce corazza], questa «spezie di animale imperfetto, simile a corio [=involucro
dell’embrione dei mammiferi] delineato in modo di scame [=squame] commesse, procede
nell’acqua con movimento serpeggiante, d’incesso diritto e non colcato». Tutti questi esseri
marini vengono menzionati, sempre a suffragio dell’analogia fra i regni naturali, anche in:
Mon. Sp. III, p. 18; Senso, pp. 25, 218 e 323 (cui lui stesso rinviava in una glossa marginale pre-
sente in una copia tarda di Città [il solo ms Casanatense]: «De natura horum animalium vide
in nostra Magia»); Epilogo, p. 331, che, come nei precedenti casi, scrive: «pesci vescovi... pesci
loriche» (per cui ho sempre replicato in traduzione il nome di genere, ‘pesce’, consideran-
dolo un nome composto come in ‘pesce martello’).
18 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS

assai; e in luoco assai onora- Pythagoram, Zamolxim, Solonem, Charon-


to era Giesù Cristo e li dodici dam, Phoronaeum, aliosque plurimos; quin
Apostoli, che ne tengono gran et Mahomettum depictum habent, quem ta-
conto, Cesare, Alesandro, Pir- men ut fabulosum ac sordidum legislato-
ro e tutti li Romani; ond’io 5 rem oderunt. At in loco dignissimo IESU-
ammi|4r>rato come sapevano CHRISTI vidi effigiem ac duodecim aposto-
quelle istorie, mi mostrarono lorum quos dignissimos reputant magnique
che essi teneano di tutte na- faciunt, ut supra homines. Vidi Caesarem,
zioni lingua, e che mandava- Alexandrum, Pyrrhum et Annibalem, alio-
no a posta per il mondo l’am- 10 sque bello et pace praeclaros heroas, praeci-
basciatori, e s’informavano pue Roma|149>nos, in inferioribus subpor-
del bene e del male di tutti; e ticibus depictos. Cumque admirando quae-
godeno assai in questo. Vidi rerem unde ipsi nostrorum nossent histo-
che nella China le bombarde e riam, indicarunt apud se omnium lingua-
le stampe fûro prima ch’a 15 rum peritiam extare; ac de industria per or-
noi. Ci son poi li maestri di bem totum continuo sese mittere explora-
queste cose; e li figliuoli, sen- tores et legatos, qui mores et vires et regi-
sa fastidio, giocando, si tro- men et historias nationum perdiscerent, bo-
vano saper tutte le scienze na ac mala cunctarum, ac deinde ad rempu-
istoricamente prima ch’abbin 20 blicam suam referrent, et in hac valde
dieci anni. oblectantur. Vidi apud Chinenses inventas
Il Amore ha cura della ge- esse bombardas et typographiam antequam
nerazione, d’unir li maschi apud nos. Sunt magistri harum picturarum
alle femine in modo che fac- declaratores, et pueri sine labore quasi lu-
cin buona razza; e se rideno 25 dendo addiscere consueverunt scientias
di noi ch’attendemo alla raz- omnes, historico tamen modo, ante pri-
za delli cani e cavalli, e tra- mum decennium.
scuramo la nostra. Tien cura Amor generationis primum cu- Cura
della educazione, delle medi- ram gerit, ut ita copulentur masculi Amoris
cine speciarie, del seminare e 30 foeminis quod optimam edant pro- triumviri
racogliere i frutti, delle biade, lem. Ac irrident nos, qui generationi
delle mensi e d’ogn’altra cosa canum et equorum studiosam nava-
pertinente al vitto, vestito e mus curam, humanam vero negligimus.
coito, ed ha molti mastri e Item ipsius regimini subest educatio nato-
mastre dedicate a quest’arti. 35 rum, medicina pharmacopolae, satio et
collectio frugum et fructuum, agricultura,
pastoralis, mensarum apparatus, coquina-
ria, et quidquid pertinet ad victum et vesti-
tum et coitum venereum, multosque magi-
40 stros ac magistras his artibus dedicatos ipse
regit.
LA CITTÀ DEL SOLE 19

Zamolxi1, Solone, Caronda2, Foroneo3, e parecchi altri; e c’è finanche il


ritratto di Maometto, che però detestano reputandolo un legislatore fal-
so e spregevole. Viceversa vidi collocata in luogo eminentissimo l’effigie
di Gesù Cristo e dei dodici Apostoli, che reputano i più degni e li ten-
gono in grande considerazione come individui superiori. Sotto i portici
inferiori vidi dipinti Cesare, Alessandro, Pirro, Annibale e altri illustri
eroi, specialmente romani, distintisi in guerra e in pace. E avendo chie-
sto, stupito, dove mai avessero appreso i fatti della nostra storia, rispose-
ro che presso di loro si studiavano tutte le lingue, e che di proposito in-
viavano continuamente esploratori e ambasciatori in ogni parte del
mondo, affinché indagassero i costumi, le risorse, i modi di governo, la
storia delle diverse nazioni, insomma quanto vi è di buono e di cattivo
in ognuna, per poi riferirne al loro paese, cui queste relazioni sono
sommamente gradite – ho così appreso che i Cinesi avevano scoperto le
bombarde e l’arte della stampa prima di noi.
Vi sono poi dei maestri che illustrano queste pitture e i fanciulli si abi-
tuano ad apprendere senza fatica, quasi giocando, tutte le scienze, ma
solo a livello descrittivo4, prima di compiere dieci anni.
Ad Amore, il terzo triumviro, spetta anzitutto occuparsi del- Compiti
la procreazione, cioè che i maschi si uniscano alle femmine in di Amore
modo da generare un’ottima prole. E si fanno beffe di noi che
ci applichiamo con zelo al miglioramento delle razze di cani e cavalli, e
poi trascuriamo completamente quella umana. Ugualmente al suo di-
castero compete l’educazione dei fanciulli, la farmacopea, la semina,
la mietitura e la raccolta dei frutti, l’agricoltura, la pastorizia, l’allesti-
mento dei pasti, l’arte culinaria, e tutto ciò che riguarda vitto, vestiario
e coito; Amore ha sotto di sé molti maestri e maestre preposti a queste
arti.

1
Schiavo e poi allievo di Pitagora, tornò dalla sua gente, gli Sciti, a predicare il verbo pitago-
rico, fingendo di averlo ricevuto dagli dei (v. n. compl.).
2
Il più antico legislatore siciliano (VII-VI sec. a.Cr.), nativo di Catania e discepolo di Zaleuco
di Locri (v. n. compl.).
3
Personaggio mitologico, figlio di Inaco e della ninfa Melia: secondo Platone, Tim. 22, fu il
primo uomo; secondo Pausania (II, 15, 5) «fu il primo a riunire in comunità gli uomini che
prima di allora vivevano isolati»; Igino chiarisce che aveva fondato una città-mercato, chia-
mata poi Argo (p. 175); e, per gli Argivi, fu lui, e non Prometeo, a dare il fuoco agli uomini
(Pausania, 19, 5; v. n. compl.).
4
Con “historicus” qui allude a una conoscenza puramente descrittiva, limitata all’epifenome-
no, naturale o culturale (v. n. compl.).
20 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS

Il Metafisico tratta tutti Metaphysicus autem haec omnia cum his


questi negozi con loro, ché tribus tractat Principibus, absque ipso enim
sensa lui nulla si fa, ed ogni factum est nihil. Omniaque negotia reipu-
cosa la comunicano essi quat- blicae inter quatuor hosce pertractantur, et
tro, e dov’il Metafisico inchi- 5 quo inclinat Metaphysicus, concurrunt pari
na, son d’accordo. consensu omnes.
OSP. - Or dimmi dell’officii HOSP. - At dic, sodes, magistra- Origo
e dell’educazioni e del modo tus, officia, functiones, educatio- et necessitas
come si vive; s’è republica o nem, genus vivendi, utrum sit res- reipublicae
monarchia o stato di pochi? 10 publica, an monarchia, an aristo- optimae
GEN. - Questa è una gente cratia.
ch’arrivò là dall’Indie, ed era- GEN. - Hoc genus hominum ab In-
no molti filosofi, che fugîro la dia illuc convenit, effugientes a clade Mogo-
ruina di Mogori e d’altri pre- rum regionem depopulantium et praedo-
doni e tiranni; onde si risolse- 15 num et tyrannorum, statueruntque philo-
ro viver alla filosofica in co- sophicam vitam ducere in communitate, li-
mune, |4v> se ben la comu- cet mulierum communitas non sit instituta
nità delle donne non s’usa tra inter caeteros ipsorum provinciae accolas,
le genti della provincia loro; apud ipsos in usu est hac ratione: omnia illis
ma essi l’usano, ed è questo il 20 communia sunt, ac dispensatio in magistra-
modo. Tutte cose son comuni, tuum est ditione. Scientias, tamen, honores
ma stanno in mano d’officia- et delitias communes ita habent ut nemo si-
li che le dispensano, onde non bi quidpiam appropriare queat.
solo il vitto, ma le scienze ed Aiunt omnem proprietatem eo fieri ac
onori e spassi son comuni, ma 25 foveri, quod propria domicilia seorsum sin-
in maniera che non si può ap- guli habemus et liberos et uxores proprias.
propriare cosa alcuna. Ex quo oritur proprius amor: namque ut fi-
Dicono essi che tutta la lium ad divitias et dignitates sublimemus et
proprietà nasce dal far casa haeredem bonorum multorum relinqua-
appartata, e figli e moglie 30 mus, evadimus quisque aut rapax publicae
propria, onde nasce l’amor rei, si quis timorem ex divitiarum et generis
proprio; ché, per sublimar a potentia excussit, aut avarus et insidiosus et
ricchezze o a dignità il figlio o hypocrita, si tenuis est viribus, opulentia et
lasciarlo erede, ognuno di- genere. At cum proprium amorem amiseri-
venta o rapace publico, se 35 mus, remanet tantummodo amor commu-
non ha timore, sendo potente; nitatis.
o avaro ed insidioso ed ippo- HOSP. - Ergo nemo laborare volet, dum ut
crita, s’è impotente. Ma alii laborent, unde ipse vivat, expectat, sicu-
quando perdeno l’amor pro- ti Aristoteles arguit in hoc Platonem*.
prio, resta il comune solo. 40
OSP. - Dunque nullo vorrà
faticare, mentr’aspetta che
l’altro fatichi come Aristotele * Vide Quaestionem tertiam huius Politicorum li-
dice contra Platone? bri pro hac republica contra Aristotelem.
LA CITTÀ DEL SOLE 21

Questi tre principi trattano ogni questione con il Metafisico, senza il


quale non si fa nulla. Tutti gli affari dello stato, infatti, sono discussi da
loro quattro, ma dove propende la volontà di Hoh, lì converge anche
quella dei triumviri.
OSP. - Ma ti prego, parlami delle magistrature, cariche, fun- Origine e
zioni, del loro modo di educare, del loro modo di vivere; è necessità
una repubblica, una monarchia o un’aristocrazia? di questo
GEN. - Questa popolazione è fuggita lì dall’India, per scam- stato
1
pare all’invasione dei Tartari del Mogol che devastavano la re-
gione, e di altri predoni e tiranni.
Essi deliberarono di far vita comune basata su princìpi filosofici; e,
sebbene la comunanza delle donne non sia stata istituita presso gli altri
abitanti della loro nazione, i cittadini Solari la praticano secondo questa
modalità: tutto è in comune, e ai magistrati spetta stabilirne la distribu-
zione. Pertanto il sapere, gli onori e i piaceri sono collettivi, in modo ta-
le che nessuno possa appropriarsi di qualcosa.
Dicono che la proprietà esiste e si estende perché ognuno di noi pos-
siede casa, prole e moglie propria. Da qui nasce l’egoismo: e infatti per
assicurare ai discendenti ricchezze e titoli nobiliari e lasciarli eredi di
molti beni, ognuno mira a spogliare la cosa pubblica, se è temibile gra-
zie ai suoi averi e al suo lignaggio; o diventa avido, perfido e ipocrita, se
è sprovvisto di forza, ricchezza e casato. Invece quando si svelle l’amor
proprio, resta soltanto l’amore per la comunità.
OSP. - Allora nessuno vorrà lavorare, aspettandosi che siano gli altri a
farlo per lui, come Aristotele2 ha obiettato a Platone*.

*Vedi la Terza delle Quaestiones in Politicis a favore di questa forma di stato, contro
Aristotele3.

1
«I tartari hanno ora due grandi imperi: l’uno è de’ tartari mogori, l’altro de’ cataini: i mo-
gori hanno a’ tempi nostri disteso incredibilmente il lor dominio» (Botero, I, p. 386). ‘Mo-
gori’ erano chiamati i sudditi mussulmani di Akbar (1542-1605), imperatore Moghul (in Oc-
cidente appellato ‘Gran Mogòl’), che aveva represso i culti indù e ostacolato le missioni ge-
suite (v. n. compl.).
2
Pol., 1261b 30-5: «Di quel che appartiene a molti non si preoccupa proprio nessuno... per-
ché suppongono che ci pensi un altro» (v. n. compl.).
3
È vero che la III Quaest. pol. porta come sottotitolo ‘Se la forma di stato descritta da Aristo-
tele come eccellente fra tutte sia veramente la migliore, o non la peggiore’, e che essa esor-
disce: «Aristotele, dopo aver criticato nel libro II della Politica la repubblica di Platone che
prevede il comunismo integrale... ricorrendo secondo la sua abitudine ai propri sofismi... fi-
nalmente delinea la propria forma di stato» (p. 95); ma in effetti i due nodi polemici vengo-
22 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS

GEN. - Io non so disputare, GEN. - Ego disputationi inservire non no-


ma ti dico ch’hanno tant’a- vi. Verumtamen dico tibi, eos tanto patriae
more alla patria loro, ch’è co- amore flagrare, quanto vix credi potest; et
sa stupenda, più che non si tanto quidem magis quam de Romanis, ul-
dice de’ Romani, quanto son 5 tro pro patria occumbentibus, narrant hi-
più spropriati. E credo che li storiae, quanto proprietatem hi abiecerunt
preti e monaci nostri, se non magis. Credo equidem et fratres et mona-
avessero li parenti o l’amici, e chos et clericos nostrates, nisi consangui-
l’ambizione di crescere più a neorum et amicorum amore aut ad dignita-
dignità, sariano più spro- 10 tes maiores ascendendi ambitione labefac-
priati e santi caritativi con tarentur, longe sanctiores fuisse futuros et
tutti. minus proprietatis amantes et plus charita-
OSP. - Dunque là non c’è tis redolentes erga omnes, sicut erant tem-
pore Apostolorum et nunc plerique.
15 HOSP. - Hoc videtur dicere S. Augustinus,
LA CITTÀ DEL SOLE 23

GEN. - Io non so tener dietro alla disputa. Ti posso dire però che essi
amano la patria così tanto da non credersi; e senz’altro più dei Romani
– che pur, a detta degli storici1, si sacrificavano volentieri per la patria –,
in quanto i Solari hanno rinunciato del tutto alla proprietà. Credo anzi
che se frati, monaci e chierici nostrani non si facessero corrompere dal-
l’affetto per parenti e amici o dall’ambizione di ascendere a più alte ca-
riche, sarebbero di gran lunga più venerabili, meno attaccati ai beni
materiali e più dediti alla carità verso il prossimo, come era al tempo de-
gli Apostoli2 e com’è ancor oggi per la maggior parte di loro.
OSP. - È quanto sembra sostenere Sant’Agostino3; ma l’amicizia dun-

no affrontati non nella III, bensì in Quaest. pol. IV II: Aristotele «dice che circa questa pro-
prietà comune dei beni, [vi sono tre possibilità:] o i campi sono privati e i frutti comuni, o vi-
ceversa, o entrambi comuni. Nel primo caso chi avrebbe più suolo, dovrebbe lavorare di più
per coltivarlo, e ricevere la stessa parte di frutti di quelli che non lavorano: donde la discor-
dia, e la rovina... Secondo caso: la pigrizia assalirebbe tutti, i campi sarebbero mal coltivati,
perché ognuno penserebbe più al suo che al comune interesse e dove ci sono tanti servitori
peggiore è il servizio, poiché ognuno si aspetta che l’altro faccia il lavoro che dovrebbe fare
lui. Lo stesso avverrebbe nel terzo caso con un’aggravante, perché ognuno pretenderebbe la
parte migliore e maggiore di frutti, e la minore di fatiche; donde in luogo dell’amicizia, sor-
gerebbero discordie e inganni» (p. 104; per l’amicizia v. n. 24.2-3; per l’antiaristotelismo v.
nn.30.26-31 e 116.19).
1
«I Romani fino alla guerra contro Terracina combattevano senza stipendio e gareggiavano a
morire per la patria; non appena però subentrò la brama del possesso, il valore a poco a po-
co svanì. E Sallustio [De Catil. coniur., 52] e Sant’Agostino [CD 5,13,209, dove riporta il passo
di Sallustio] insegnano che essi conquistarono un così grande impero per amore della co-
munità; e Catone in Sallustio [dice]: “la ricchezza pubblica e la povertà privata, all’esterno
un potere giusto e all’interno un animo libero di manifestarsi e sgombro da paura e cupidi-
gia, rafforzarono lo stato romano”» (Quaest. pol. IV, p. 107; il passo sallustiano sarà varie volte
menzionato da C. – ad es.: Afor., 42).
2
At. 2, 44-5 e 4, 32: «Nemo dicebat aliquid proprium, sed erant illis omnia communia». Nel
Cinquecento circolava invece l’idea che la comunità dei beni fosse praticabile solo nello sta-
to d’innocenza e, contingentemente, dai primi cristiani (da More, 226 a C.G. Canapicio, Phi-
losophia..., 1540, p. 215, cit. da Cantimori, p. 50; v. n. 59.1).
3
«Hoc» può riferirsi: 1) alla su citata frase di Sallustio, ripresa da Agostino, 2) al fatto che la
proprietà uccide la carità, concetto che per tre volte attribuisce ad Agostino in Quaest. pol. IV
(I, p. 109; II, p. 127; III, p. 161), alludendo, secondo Ernst, p.109, al cap. 36 del ‘De nutrien-
da charitate’ (De div. quaest., 83 [PL XL, 25]): «Veleno della carità è la speranza di acquistare
e possedere beni temporali»; 3) allo stile di vita comunitaria dei primi cristiani, ereditato poi
dai monaci, ma che anche presso costoro si andava corrompendo: Quaest. pol. IV ne accenna
due volte (II, pp. 127 e 141), fornendo anche una nutrita schiera di Autorità patristiche av-
verse alla proprietà privata, nonché una breve storia del ‘comunismo’ protocristiano, fino a
papa Simplicio, che, nel 470, «per ragioni di forza maggiore», fece sì che la Chiesa passasse
da un regime comunitaristico a uno proprietario: «Ma ancora Papa Gelasio poco dopo, e S.
Agostino non volevano ordinare uno chierico se non metteva tutto in comune... Concedia-
mo poi che la Chiesa abbia potuto accordare la divisione [dei beni] più per tolleranza che
per diretto ed esplicito proposito: del resto, come dice S. Agostino, è meglio un chierico zop-
po che morto, cioè proprietario anziché ipocrita»; in tal caso bisogna rifarsi a Enarr. in Ps.
24 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS

amicizia, poiché non si fan at inquam ergo inter hoc genus hominum
piacere l’un l’altro? amicitia nil valet, qui non habent unde mu-
GEN. - Anzi grandissima, tua beneficia sibi conferant.
perch’è bello a vedere, che tra GEN. - Imo maxime. Nam operae pretium
loro non ponno donarsi cosa 5 est videre munera nulla quidem alterum ab
alcuna, perché tutto hanno altero accipere posse; quidquid enim neces-
del comune; e molto guarda- se habent a communitate accipiunt, ac bene
no gl’officiali, che nullo ab- cavent magistratus, ne quis plusquam me-
bia più che merita. Però reatur accipiat; at nihil necessarium dene-
quant’è |5r> bisogno tutti 10 gatur ulli; amicitia vero dignoscitur inter
l’hanno. E l’amico si conosce eos in bello, in infirmitate, in scientiarum
tra loro nelle guerre, nell’in- comparatione, ubi mutuis auxiliis ac doctri-
firmità, nelle scienze, dove na sese iuvant; interdum laudibus, verbis,
s’aiutano e insegnano l’un functionibus et de suo necessario se mutuo
l’altro. E tutti li giovani s’ap- 15 colunt. Omnes contemporanei se vocant in-
pellano frati, e quelli che sono vicem fratres: qui autem viginti duos annos
quindeci anni più di loro, plures habent, vocantur ab eisdem patres,
padri, e quindeci meno, figli. qui pauciores viginti duos, filii. Porro et ma-
E poi vi stanno l’officiali a gistratus bene intendunt, ne quis alter alteri
tutte cose attenti, che nullo 20 in confraternitate iniuriam inferat. |150>
possa far all’altro torto nella HOSP. - Ecquomodo.
fratellanza. GEN. - Quotquot apud De accusationibus
OSP. - E come? nos sunt virtutum nomina,
GEN. - Di quante virtù noi apud illos sunt magistratus: est
abbiamo, essi hanno l’officio: 25 enim qui vocatur Magnanimitas, qui Forti-
c’è l’un che si chiama Libera- tudo et Castitas et Liberalitas, Iustitia crimi-
lità, un Magnanimità, un nalis et civilis, et Solertia et Veritas, Benefi-
Castità, un Fortezza, un centia, Gratitudo, Hilaritas, Exercitium, So-
Giustizia criminale o civile, brietas etc.; ad eiusmodi munera eliguntur,
un Solerzia, un Verità, Bene- 30 quisque ad illud ad cuius virtutem magis a
ficenza, Gratitudine, Miseri- pueritia in scholis praenoscitur aptissimus.
cordia; e a ciascun de questi Quapropter cum inter eos nequeant latroci-
s’elegge quello, che da fan- nia inveniri, nec caedes insidiosae, nec stu-
ciullo nelle scuole si cono- pra, incesta, adulteria, aliaque facinora, in
sc’inclinato a tali virtù. Però, 35 quibus nos invicem accusamus, ipsi se accu-
non sendo tra loro latrocinii, sant ingratitudinis, malignitatis, quando
n’assassinii, né stupri, n’in- quis honestam negat alteri satisfactionem,
cesti e adultèri, delli quali noi et pigritiae et tristitiae et iracundiae et scur-
ci accusiamo, essi s’accusano rilitatis et detrectationis et mendacii, quod
d’ingratitudine, di mali- 40
gnità, quando uno non vuol
piacere onesto, di bugia, che
LA CITTÀ DEL SOLE 25

que non ha alcun valore per un popolo come questo i cui cittadini non
possono scambiarsi nessun bene1.
GEN. - Anzi, è fortemente sentita. Infatti è molto apprezzabile vedere
che nessuno può accettare alcun favore dall’altro, perché qualunque
cosa loro abbisogna la ricevono dalla comunità, e i magistrati sorveglia-
no affinché nessuno ottenga più di quanto meriti – comunque a tutti è
assicurato il necessario. Ma l’amicizia tra loro si manifesta in guerra,
nella malattia, nello studio, dove si scambiano aiuti, conoscenze e, tal-
volta, anche lodi, parole d’incoraggiamento, servigi e addirittura lo stes-
so necessario. Tutti i coetanei si chiamano fratelli; coloro i quali hanno
ventidue anni più degli altri sono chiamati padri dai minori, e quelli
che hanno ventidue anni meno sono chiamati figli dai maggiori. E inol-
tre i magistrati vigilano per impedire che litigi turbino lo spirito frater-
no della comunità.
OSP. - In che modo?
GEN. - Quante sono le virtù presso di noi, tante sono le ma- Le accuse
gistrature presso di loro: c’è infatti il magistrato chiamato Ma-
gnanimità, quello chiamato Fortezza, Castità, Liberalità, Giustizia pena-
le e civile, Solerzia, Sincerità, Beneficenza, Gratitudine, Gaiezza, Atti-
vità, Sobrietà ecc.; viene eletto a ciascuna di queste cariche colui che fin
dall’infanzia a scuola si è mostrato particolarmente incline a tale virtù.
Quindi, non potendo incorrere in latrocini, assassini, stupri, incesti,
adultèri e altri reati di cui noi altri ci incolpiamo, i Solari si accusano di
ingratitudine, malignità (quando qualcuno nega all’altro una debita
soddisfazione), pigrizia, scontrosità, iracondia, scurrilità, maldicenza e

131, 5 o a Serm. 355 e 356 (PL XXXIX, 1568sg), dove il vescovo di Ippona dice che la pro-
prietà privata dei chierici è tutt’al più tollerata, non certo incoraggiata, ma che il modello da
imitare (e praticare, almeno secondo la regola del convento da lui fondato a Ippona) è quel-
lo «di quei beati di cui parlano gli Atti degli Apostoli»; è questo precetto apostolico che di-
stingue e innalza i cristiani sui Romani: «distribuire a ciascuno secondo il suo bisogno, né dir
mai che una cosa ci appartiene, bensì avere tutto in comune» (CD 5,18,220; v. n. 60.4-6);
4) secondo Crahay, p. 87 si riferisce a De haeres., 5 (PL XLII, 32) in cui condanna gli Anabat-
tisti, passo anch’esso evocato in Quaest. pol. IV II, p. 125: «È un’eresia negare la divisione dei
beni, a quanto afferma S. Agostino contro coloro che avevano mogli e campi comuni e soste-
nevano che bisognava vivere così per imitare gli Apostoli»; ma l’ortodossia della comunione
dei beni non è tanto in causa qui, quanto a 60.1 e relativa glossa.
1
Riprende una delle obiezioni aristoteliche alla repubblica platonica: «soccorrere gli amici o
gli stranieri o i compagni è la cosa più gradita e condizione di ciò è il possesso privato della
proprietà (...) mentre la virtù farà sì che, nell’uso, le proprietà degli amici siano comuni, co-
me vuole il proverbio» (Pol., 1263b 5 e 1262a 30) pitagorico: «omnia amicorum esse com-
munia» (Diogene, VIII, 10; v. n. compl.).
26 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS

l’abborriscono più che la pe- magis atque pestem abominantur. Ac rei in


ste; e questi son privati per li poenam privantur communi mensa aut mu-
peccati della mensa comune, lierum commercio aliisque honoribus, do-
del commerzio delle donne, e nec et quando videtur iudici ipsorum con-
d’alcuni onori, finché pare al 5 gruere correctioni.
giudice, per emendarli. HOSP. - Dic rationem qua ma- De veste et
OSP. - Or dimmi, come si gistratus eliguntur. educatione
fan l’officiali? GEN. - Hoc non rite intelliges, parentum et
GEN. - Questo non si può nisi prius ipsorum vitam addiscas. electione
dire, se non sai la vita loro. 10 Primo quidem ut scias masculi et
Primo è da sapere che l’uomi- foeminae idem fere vestimenti genus in-
ni e donne vesteno d’un mo- duunt, bello aptum, licet mulieres toga sub
do atto a guerreggiare, benché genu, viri autem super genu utuntur.
le donn’han la sopraveste Ac mistim omnes in omnibus educantur
|5v> fin sotto il ginocchio, e 15 artibus: transacto primo et ante triennio,
l’uomo sopra. E s’allevano pueri linguam addiscunt et alphabetum in
tutti in tutte l’arti: dopo i tre parietibus circumambulando, quorum sunt
anni li fanciulli imparano la agmina quatuor et senes quatuor, duces eo-
lingua e l’alfabeto nelle mu- rum doctoresque supra omnes probatissi-
ra, caminando in quattro 20 mi. Post paululum gymnastica, cursu, disco
schiere; e quattro vecchi li et caeteris exercent eos ludisque, quibus
guidano e l’insegnano, e poi omnia membra roborentur aeque: semper
li fan giuocare e correre, per tamen nudos pedes ac caput usque ad septi-
rinforzarli, e sempre scalzi e mum annum. Conducunt simul illos ad offi-
scapigliati, fin alli sette anni, 25 cinas artium, sutoriae, coquinariae, ferra-
e li conducono nell’officine riae, lignariae, picturae etc., ut ingenii pro-
dell’arti, cositori, pittori, ore- pensionem cuiusque perpendant. Post sep-
fici, ecc.; e mirano l’inclina- timum annum, praelibatis terminis mathe-
zione. Dopo il settim’anno maticis in parietibus, conferuntur ad lectio-
vanno alle lezioni delle scien- 30 nem omnium scientiarum naturalium: qua-
ze naturali, tutti; ché son tuor sunt lectores eiusdem lectionis et in
quattro lettori della medesma quatuor horis omnia quatuor agmina exin-
lezione, e in quattro ore tutte de expediuntur. Namque dum alii exercent
le quattro squadre si spedisco- corpus aut publicis serviunt usibus functio-
no; perché, mentre l’altri s’e- 35 nibusque, alii lectioni operam navant.
sercitano il corpo, o fanno li Dehinc abstrusioribus mathematicis, medi-
publici servizi, l’altri stanno cinae aliisque dedicantur omnes scientiis, et
alla lezione. Poi alli dieci si continua inter eos est disputatio et alterca-
metteno alle matematiche, tio studiosa, illique postea magistratus fiunt
medicine ed altre scienze, e c’è 40 illarum scientiarum, in quibus proficiunt
continua disputa tra loro e
concorrenza; e quelli poi di-
ventano officiali di quella
scienza, dove più riuscirono,
LA CITTÀ DEL SOLE 27

menzogna, colpa, quest’ultima, detestata più della peste. E i colpevoli


sono puniti con la privazione della mensa comune o dei rapporti con le
donne e degli altri privilegi, per il periodo che il giudice ritiene neces-
sario alla loro correzione.
OSP. - Dimmi come vengono eletti i magistrati. Il vestiario,
l’educazione
GEN. - Per capirlo a dovere, occorre che prima ti descriva il parentale
loro modo di vivere. e le elezioni
Sappi anzitutto che maschi e femmine indossano uno stesso
tipo di abito adatto al combattimento, con l’unica differenza che men-
tre alle donne la veste scende sotto il ginocchio, agli uomini arriva so-
pra. Tutti, senza distinzione di sesso, sono istruiti in tutte le materie: an-
che prima che abbiano compiuto i tre anni i bambini imparano la lin-
gua e l’alfabeto, passeggiando intorno alle mura, divisi in quattro schie-
re guidate da quattro anziani maestri saggi e probi più di ogni altro. Su-
bito dopo si danno agli esercizi ginnici, alla corsa, al lancio del disco e
ad altri giochi, con i quali irrobustiscono armonicamente tutte le mem-
bra: fino a sette anni stanno sempre a piedi nudi e a capo scoperto. I
maestri li conducono anche nelle botteghe artigiane, nelle calzolerie,
cucine, fucine, falegnamerie, dai pittori ecc., per poter valutare meglio
le attitudini di ciascuno. Dopo il settimo anno, acquisiti i rudimenti di
matematica con l’aiuto dei disegni sulle mura, si applicano allo studio
di tutte le scienze naturali: vi sono quattro professori per la stessa lezio-
ne e in quattr’ore sbrigano tutti e quattro i drappelli. Infatti mentre al-
cuni si danno agli esercizi fisici o sbrigano servizi e faccende per la co-
munità, altri si dedicano alle lezioni. In seguito tutti si applicano alle
matematiche più complesse, alla medicina e alle altre scienze; e si emu-
lano continuamente in dispute e dotte controversie; e successivamente
diventano magistrati di quella particolare scienza o arte, in cui si sono
28 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS

o di quell’arte meccanica, magis, aut artium mechanicarum. Sequun-


ch’ognuna have il suo capo. tur enim quisque ducem ac iudicem suum.
Ed in campagna, nei lavori e Et in campos egrediuntur ad opera agro-
nella pastura delle bestie pur rum et bestiarum pasturas inspiciendum di-
vanno ad imparare; e quello 5 scendumque, et illum reputant nobiliorem
è tenuto di più gran nobiltà, ac praestantiorem, qui plures didicerit artes
che più arti impara, e meglio ac sapientius exercere novit. Quapropter ir-
le fa. Onde si rideno di noi rident nos in eo quod artifices vocemus
che l’artefici appellam’ignobi- ignobiles ac eos habeamus nobiles, qui nul-
li, e diciamo nobili quelli, che 10 lam addiscunt artem, vivunt ociose et tot
null’arte imparano e stann’o- servos suo ocio et lasciviae dedicatos deti-
ziosi e tengono in ozio e lasci- nent, unde sicut ex vitiorum schola pro-
via tanti servidori. deunt in reipublicae perniciem tot nebulo-
L’officiali poi s’eleggono nes ac malefici.
da quelli |6r> quattro capi, e 15 Caeteri vero officiales eliguntur ab illis
dalli maestri di quell’arte, li quatuor Primatibus - Hoh, Pon, Sin, Mor -
quali molto bene sanno chi è et a praeceptoribus illius artis, cui praefi-
più atto a quell’arte o virtù, ciendi sunt, qui probe norunt quis aptissi-
in cui ha da regere, e si pro- mus sit arti aut virtuti, in qua rector praefi-
pongon in Consiglio, e ognu- 20 ciendus est. Et in Concilio quidem propo-
no appone quel che sa di loro. nuntur a magistratibus, nil ipsi more candi-
Però non può essere Sole se datorum petentes; et opponit quicunque
non quello che sa tutte l’isto- scit aliquid contra eligendos aut pro eis.
rie delle genti e riti e sacrifici e Attamen nemo Hoh dignitatem Electio
republiche e inventori di leggi 25 conscendit, nisi qui omnes gentium Hoh
ed arti. Poi bisogna che sap- norit historias et ritus et sacrificia et
pia tutte l’arti meccaniche, leges et respublicas et monarchias et inven-
perch’ogni duoi giorni s’im- tores legum et artium et rationes et historias
para una, ma l’uso qui le fa coeli et telluris. Item necesse habent nosse
saper tutte, o la pittura. E 30 omnes artes mechanicas, nam biduo fere
tutte le scienze ha da sapere, unam addiscunt, licet non bene operari;
matematiche, fisiche e astrolo- sed usus et pictura eis facilitatem ad hoc
giche. Delle lingue non si cu- praebet; item et scientias physicas, mathe-
ra, perch’ha l’interpreti, che maticas et astrologicas. Non tanta lingua-
sono li grammatici loro. Ma 35 rum cura est notitiae, quoniam interpretes
più di tutti bisogna che sia habent plures qui sunt in republica gram-
Metafisico e Teologo, che sap- matici. Sed prae caeteris oportet callere me-
pia ben la radice e prova d’o- taphysicam et theologiam, pernosse radices
gn’arte e scienza, e le simili- et fundamenta et probationes omnium ar-
tudini e differenze delle cose, 40 tium et scientiarum, similitudines ac diffe-
la Necessità, il Fato e l’Armo- rentias rerum, Necessitatem, Fatum et Har-
nia del mondo; la Possanza, moniam mundi, Potentiam, Sapientiam et
Sapienza ed Amor divino e Amorem rerum et Dei, gradus entium ipso-
d’ogni cosa; e li gradi degl’en-
LA CITTÀ DEL SOLE 29

più distinti; e infatti ognuno è soggetto a un capo1 che è anche il suo


giudice. Vanno pure nei campi ad osservare ed imparare i lavori agrico-
li e pastorali, reputando più nobile e stimabile chi ha appreso il mag-
gior numero di mestieri e sa esercitarli con maggior perizia. Perciò ri-
dono di noi che chiamiamo plebei quelli che vivono della propria arte e
nobili quelli che, non avendone nessuna, vivono oziosamente e tengo-
no una turba di servitori dediti solo a soddisfare la loro pigrizia e lussu-
ria, per cui da una tale sentina di vizi germogliano tanti fannulloni e
malvagi a rovina dello stato.
Gli altri magistrati sono eletti da quei quattro Primati – Hoh, Pon,
Sin, Mor – e dai precettori di quell’arte cui dovranno esser posti a capo,
e costoro sanno bene chi è più idoneo a quella disciplina o virtù, che è
chiamato a dirigere. E nel Consiglio questi vengono segnalati dai magi-
strati, senz’alcuna sollecitazione da parte dei candidati, com’è invece
nostra abitudine; e vi interviene chiunque ha da dire qualcosa pro o
contro quelli che devono essere eletti.
Nessuno tuttavia accede alla carica di Hoh, se non conosce a Elezione
fondo la storia di tutte le genti, con i loro riti, sacrifici, leggi, or- di Hoh
dinamenti repubblicani, monarchici, i legislatori e inventori, non-
ché le spiegazioni e descrizioni dei fenomeni terrestri e celesti. Parimen-
ti occorre che abbia cognizione di tutte le arti manuali – del resto i Sola-
ri in due giorni arrivano quasi a impararne una, pur non sapendola pra-
ticare a dovere, ma l’esercizio e le pitture murali li agevolano enorme-
mente –; inoltre deve conoscere tutte le scienze fisiche, matematiche e
astrologiche. Non gli si richiede altrettanta cura nella conoscenza delle
lingue, avendo essi parecchi interpreti, che nella Città sono i grammati-
ci. Dal Metafisico si esige invece che, più che in qualunque altra discipli-
na, eccella in metafisica e teologia; che abbia una conoscenza approfon-
dita delle radici, dei fondamenti e delle dimostrazioni di tutte le arti e
scienze, delle somiglianze e differenze fra le cose; che conosca altresì la
Necessità, il Fato e l’Armonia del mondo, la Potenza, la Sapienza e l’A-
more delle cose e di Dio2, la gerarchia degli esseri, le loro corrisponden-

1
Questo ‘dux’ è chiamato «rex» dalla sua schiera (84.5). Fonte (rielaborata) del passo è Plu-
tarco, Lyc. 16, 7-13.
2
Il senso della frase è che Hoh deve conoscere le primalità dell’Ente e degli enti, ovvero, più
in generale, deve conoscere la filosofia (fisica e metafisica) campan. La metafisica campan.
(v. 128.2 sg.) contempla un Dio distinto in tre primalità spirituali (Potenza, Sapienza e Amo-
re), le quali, per agire sui principi fisici (spazio e materia, caldo e freddo), si servono o emet-
30 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS

ti e correspondenze loro con le rumque symbola cum coelestibus, terrestri-


cose celesti, terrestri e marite- bus et marinis rebus et cum idealibus in
me, e studia molto ne’ Profeti Deo, quantum scire mortalibus licet, stu-
ed Astrologia. Dunque si sa duisse quoque in prophetis et in astrologia
chi ha d’esser Sole, e se non 5 oportet. Ergo norunt longe ante quis futu-
passa trentacinque anni, rus sit Hoh; et vero, nisi trigesimum quin-
non arriva a tal grado; e que- tum annum attigerit, ad tantam non erigi-
sto officio è perpetuo, mentre tur dignitatem. Hoc |151> munus perpe-
non si trova chi sappia più di tuum est, quousque non invenitur qui sa-
lui e sia più atto al governo. 10 pientior sit illo aptiorque ad regendum.
OSP. - E chi può saper tan- HOSP. - Ecquis tantum sa- Num sapientes
to? Anzi non può saper gover- pere potest? Quin scientiis sint apti regno
nare chi attende alle scienze. operam navans, regimini
GEN. - Io dissi a loro que- ineptus esse videtur.
sto, |6v> e mi risposero: “Più 15 GEN. - Hoc ipsum et ego illis opposui, qui
certi siamo noi ch’un tanto responderunt: “Certiores profecto nos su-
litterato sa governare, che voi mus, tam literatissimo viro sapientiam ines-
che sublimate l’ignoranti, se regnandi quam vos qui viros praeficitis
pensando che sian’atti; e sia ignorantes, propterea idoneos reputatos
pur tristo in governo, non 20 quod ex principibus nati sint aut a factione
sarà mai crudele, né scelera- praepotente electi. At Hoh noster, licet im-
to, né tiranno chi tanto sa. peritissimus regiminis, non tamen crudelis
Ma sappiati che questo è ar- unquam erit, nec scelestus, nec tyrannus,
gomento che può tra voi, dove quippe qui tantum sapit: veruntamen hoc
pensate che sia dotto chi sa 25 insuper vos non lateat idem argumentum
più gramatica e logica d’Ari- apud vos posse, ubi putatis doctissimum es-
stotile e di questo e di quello se qui plus grammaticae aut logicae Aristo-
autore, dove ci vuol solo me- telicae aut alterius auctoris novit; cuiusmodi
moria servile; onde l’uomo si ad sapientiam vestram requiritur tantum
fa inerte, perché non contem- 30 servilis memoria et labor, unde efficitur ho-
pla le cose, ma li libri, e s’av- mo iners, quoniam non contemplatur res
vilisce l’anima in quelle cose sed verba librorum, et in mortuis signis re-
morte; né sa come Dio regga le rum animam vilem reddit; nec proinde in-
cose e l’usi della natura e del- telligit qua ratione Deus entia regat, nec na-
le nazioni. Il che non può av- 35 turae mores et usus, neque nationum.
venir’al nostro Sole, perché Quod nostro Hoh contingere nequit. Non
non può arrivare a tante quidem enim tot artes ac scientias perdisce-
scienze chi non è scaltro d’in- re potest, qui solertissimo non pollet inge-
gegno ad ogni cosa, onde è nio ad omnia aptissimo, igitur et ad regnan-
sempre attissimo al governo. 40 dum maxime. Nos quoque non latet, qui
Noi pur sappiamo che chi sa unam modo profitetur scientiam, illam non
una scienza sola, non sa
LA CITTÀ DEL SOLE 31

ze con le cose celesti, terrestri e marine e con le idee prime in Dio, al-
meno per quanto è possibile a mente umana; ed infine occorre che sia
versato anche in profezia e astrologia. Pertanto sanno molto in anticipo
chi sarà il futuro Hoh; e del resto non si può aspirare ad una carica così
elevata prima dei trentacinque anni. Tale dignità è perpetua, almeno fi-
no a quando non si scopra qualcuno più sapiente di lui e più capace di
governare.
OSP. - Ma chi è in grado di conoscere un così gran nu- I sapienti sono
mero di cose? E anzi, chi si dedica al sapere non è ritenuto atti a governare?
capace di governare.
GEN. - Anch’io sollevai quest’obiezione, a cui essi così risposero: «Ab-
biamo più probabilità noi di riscontrare in un uomo così colto doti di
governo, rispetto a voi, che affidate il potere a uomini ignoranti, ritenu-
ti abili a regnare solo perché di sangue reale o perché eletti da una fa-
zione1 molto potente. Ma anche se il nostro Hoh si rivelasse del tutto in-
capace di governare, comunque non sarà mai crudele, né scellerato, né
tiranno, visto che è così sapiente. Tuttavia non vi nascondo che quell’o-
biezione ha molto peso per voi, che reputate che sia più colto chi più
conosce la grammatica e la logica di Aristotele o di qualsiasi altro auto-
re; al che, per la vostra cultura dottrinale basta solo applicare lo sforzo
della memoria servile, che rende l’uomo inerte, perché non osserva le
cose, ma le parole dei libri, e nei morti simboli delle cose l’anima s’avvi-
lisce, e perciò non sa cogliere in che modo Dio regga gli enti, né le leg-
gi e le vicende della natura e dei popoli. Il che non può accadere al no-
stro Hoh. Non è in grado infatti di acquisire un simile patrimonio di ar-
ti e scienze colui che non mostra un ingegno acutissimo e versatile in
tutto, e quindi massimamente nell’arte del governo. Del resto sappiamo
bene che chi conosce una sola disciplina, in realtà non conosce vera-
mente né quella né le altre, e chi si è dedicato a una sola materia, ap-

tono delle ‘influenze magne’: «nasce la Necessità dalla Potenza, il Fato dalla Sapienza e l’Ar-
monia dall’Amore» (Poesie : 23, Madr. 1, Esp.). Per il loro tramite si realizzano le generazioni
e mutazioni non caotiche degli enti secondi: «La necessità dunque è l’influsso della divina
potenza nel fare e muovere le cause al loro fine. Il fato è la serie ordinatissima delle cause e
concause, derivata dalla sapienza di Dio. L’armonia è l’influsso del divino amore, per cui le
cose si armonizzano ai propri fini e questi da ultimo al fine supremo. E senza questi influssi
non può avvenire nulla» (Theol. I [II, p. 155]; v. n. compl.).
1
È l’insieme di «coloro che cospirano contro i buoni e i probi» (Tertulliano, Apolog. XL, 1):
v. 78.2.
32 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS

quella né l’altre bene; e che co- vere scire nec alias, et qui aptus est uni mo-
lui ch’è atto ad una sola, stu- do scientiae, ex libris haustae, rudem atque
diata in libro, è inerte e gros- inertem esse; ast id non contingit ingeniis
so. Ma non coss’avviene al- promptis expertisque in omni scientiarum
l’ingegni pronti e facili ad 5 genere et ad considerandas res natura ido-
ogni conoscenza, come biso- neis, veluti necesse est nostrum esse Hoh.
gna che sia il Sole. E nella Praeterea et in civitate nostra ea facilitate
città nostra s’imparano le addiscuntur scientiae (ut vides) qua plus
scienze con facilità tale, come proficiunt discipuli hic in anno uno quam
vedi, che più in un anno qui 10 apud vos in decem aut quindecim. Fac,
si sa ch’in dieci o quindici tra quaeso, periculum in his pueris”.
voi, e mira in questi fanciul- Qua in re ipse vehementer obstupui
li”. |7r> propter sermonem veridicum ipsorum et
Nel ch’io restai confuso per propter experimentum illorum puerorum,
le ragioni sue e la prova di 15 qui et meam linguam bene callebant. Si qui-
quelli fanciulli, ch’intende- dem tres ex eis oportet esse peritos nostrae
vano la mia lingua; perché linguae et tres Arabicae et tres Polonae et
d’ogni lingua sempre han- tres aliarum singularum, et nullum ocium
n’essi tre che la sappiano. E eis datur, nisi quo etiam doctiores fiunt.
tra loro non c’è ozio nullo, se 20 Nam et ideo in campestria egrediuntur gra-
non quello che li fa dotti; ché tia scilicet cursitandi, sagittas et lanceas ia-
però vanno in campagna a culandi, archibugiis reboandi, feras perse-
correre, a tirar dardi, sparar quendi, herbas agnoscendi et lapides, etc.,
archibugi, sequitar fere, lavo- agriculturam et pastoralem discendi, modo
rare, conoscer l’erbe, or una 25 agmen unum, modo aliud.
schiera e or un’altra. Tres quidem Principes Hoh assistentes
Li tre officiali primi non non necesse habent scire, nisi artes ad suum
bisogna che sappiano se non pertinentes regimen: itaque norunt histori-
quell’arti ch’all’officio loro ce tantum artes communes omnibus, pro-
appartengono. Onde sanno 30 prias vero exquisite, quibus nimirum alius
l’arti comuni a tutti, istorica- alio dedicatur magis. Ita Potestas eruditissi-
mente imparandole, e poi le mus est in arte equestri, in ordinando exer-
proprie, dove più se dà uno citu, in castrametatione, in fabrica armo-
ch’un altro: cossì il Potestà rum omnis generis et machinarum bellica-
saperà l’arte cavaleresca, fa- 35 rum et stratagematum et in tota militari re
bricar ogni sorte d’armi, cossì etc. Sed praeter haec huiusmodi Principes
di guerra machine, arte mili- necesse habent fuisse philosophos, histori-
tare ecc. Ma tutti questi offi- cos, politicos et physicos. Idem dic de aliis
ciali han da essere filosofi, di duobus triumviris.
più, e istorici naturalisti e 40 HOSP. - Equidem publica Communitas
umanisti. munera omnia dicas velim ac vitae et artium
OSP. - Vorrei che dicessi l’of- distinguas, et educationem et distributio
fici tutti, e li distenguessi; e s’è communem luculentius narres. foeminis
bisogno le educazioni cumuni. et maribus
LA CITTÀ DEL SOLE 33

presa per giunta sui libri, è intellettualmente limitato e ottuso; ma ciò


non accade agli ingegni pronti e versati in ogni genere di scienze e per
natura portati a riflettere sulle cose, com’è indispensabile che sia il no-
stro Hoh. Inoltre nella nostra città, come hai potuto constatare, le ma-
terie s’imparano con tale facilità che gli alunni traggono più profitto
qui in un anno che da voi in dieci o quindici1. Fai pure la prova con
questi bambini».
E sotto questo aspetto devo ammettere che sono rimasto senza paro-
le, non solo per la verità del loro discorso, ma ancor più per la prova
fornitami da quei fanciulli che comprendevano bene anche la mia lin-
gua – infatti fanno in modo che tre di loro sappiano la nostra lingua, tre
l’araba, tre la polacca e così per ognuna delle altre lingue. E non è con-
cesso loro nessuno svago, se non quello che li rende ancor più istruiti.
Anche in campagna infatti schiere di alunni a turno vanno a esercitarsi
nella corsa, oppure a tirar frecce o giavellotti, sparare con gli archibugi,
cacciare la selvaggina, imparare a riconoscere piante, minerali ecc., ol-
tre a impratichirsi nell’agricoltura e nella pastorizia.
I tre prìncipi che assistono Hoh, poi, sono tenuti a sapere solo le arti
relative alla loro sfera di responsabilità: pertanto hanno una conoscen-
za sommaria delle arti comuni a tutti, mentre hanno una conoscenza
approfondita di quelle di propria competenza, alle quali ovviamente
ognuno si deve dedicare più degli altri. Così Potestà è molto ferrato nel-
l’arte equestre, nell’organizzazione dell’esercito, nell’allestimento degli
accampamenti, nella fabbricazione delle armi di ogni tipo, delle mac-
chine belliche, stratagemmi2 e insomma in tutta l’arte militare. Ma oltre
che esperti militari, occorre che tali prìncipi siano anche filosofi, stori-
ci, politici e scienziati. Analogamente dicasi per gli altri due triumviri.
OSP. - Desidererei che m’illustrassi distintamente tutte le Comunità di
loro cariche pubbliche, e mi esponessi più in dettaglio il mo- vita e di
do di educarli comunitariamente. lavoro e loro
assegnazione
a uomini
e donne

1
Grazie ai sussidi audiovisivi delle mura; in varie Lettere (pp. 27, 136, 160, 174, 194, 411), C.
diceva di esser in grado d’insegnare in un anno tutto lo scibile, servendosi del mondo stesso
«per libro e per memoria locale».
2
‘Strategema’ in Civitas indica o le tecnologie belliche (come in questo caso), o gli espe-
dienti tattici (68.34), o entrambe le cose (68.26): v. n. compl.
34 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS

GEN. - Sono prima le stan- GEN. - Aedes communes sunt illis et dor-
ze comuni e belli letti e biso- mitoria et grabata aliaque necessaria. At po-
gni; ma ogni sei mesi si di- st quoscunque menses sex secernuntur a
stingueno dalli mastri, chi magistris, qui dormituri sunt in hoc circo
ha da dormire in questo giro- 5 quique in alio et alio, et qui in primo cubi-
ne o in quell’altro, e nella culo et qui in secundo: quod per alphabe-
stanza prima o 2a, notate per tum notatum habent in superliminio.
alfabeto. Sunt et artes communes mechanicae et
Poi son l’arti comuni speculativae masculis et foeminis, hac cum
agl’uomini e donne, le spe- 10 discretione: quod artes operosae magis et
cu|7v>lative e mecaniche; con ubi iter requiritur, tractantur ab masculis, si-
questa distinzione, che quelle cuti arare, seminare, fructus legere, in area
dove ci va fatica grande e laborare forte et in vindemia. At ad mulgen-
viaggio, le fanno l’uomini, das oves et caseum formandum solent et
come arare, seminare, coglier’i 15 mulieres destinari; itidem et ad hortos pro-
frutti e pascer li armenti; però pe civitatis pomerium ad colligendas herbas
nell’aia, nella vendemia, nel et excolendas similiter vadunt. Artes vero
formare il cascio e mungere quae sedendo et stando tractantur ad mu-
l’uberi si soleno le donne lieres spectant, veluti texere, nere, suere,
mandare, e nelli orti vicini al- 20 tondere capillos et barbas, pharmacopia et
la città per l’erbe. L’arti che si omnia vestimentorum genera conficere, ex-
fanno sedendo e stando, per lo cluduntur tamen ab arte lignaria et ferraria
più son delle donne: come tes- et fabrica armorum. At si quae picturae est
sere, cuscire, tagliar li capegli idonea, non prohibetur. Musica tamen solis
e le barbe, la speziaria, e far 25 est data mulieribus, quia delectant magis,
tutte sorti di vestimenti; fuor quin et pueris: non tamen buccinarum et
che l’arte del ferraro e dell’ar- tympanorum usus. Item epulas parant et
mi. E chi è atta a pingere, mensas sternunt; sed mensis ministrare pro-
non se li vieta. La musica prium est puerorum munus et puellarum
però è delle donne, ché più di- 30 usque ad vigesimum annum.
lettano, e de’ fanciulli, ma Sunt in quolibet circo propriae culinae,
non le trombe e tamburri. horrea et promptuaria utensi|152>lium,
Fanno le vivande, apparec- esculentorum et poculentorum, et cuilibet
chiano le mense; ma lo servir functioni praeest senex compositus et anus
a tavola è proprio delli giova- 35 altera, qui simul imperant ministris ac pote-
ni, maschi e femine, finché so- statem habent verberandi vel iubere ut ver-
no di venti uno anno. berentur negligentes et inobedientes, ac
Stanno in ogni girone le
publiche cucine e le dispense
della robba. E d’ogni officio 40
soprastante è un vecchio e
una vecchia, che comandano
e han potestà di battere o far
battere d’altri li negligenti o
LA CITTÀ DEL SOLE 35

GEN. - Essi hanno in comune le case, i dormitori, i letti e quanto con-


cerne i bisogni primari. Ogni sei mesi i maestri scelgono chi deve dor-
mire nell’uno o nell’altro girone, chi nella prima o nella seconda stan-
za, identificata attraverso una lettera dell’alfabeto posta sull’architrave.
Anche le arti meccaniche e speculative sono in comune a maschi e
femmine, ma con questa differenza: i servizi più faticosi e richiedenti
grandi spostamenti, come arare, seminare, raccogliere la frutta, fare i
lavori pesanti nell’aia e vendemmiare, sono affidati ai maschi; invece
mungere le pecore e fare il formaggio spetta alle donne, come pure
l’andare negli orti alla periferia della città a coltivare e raccogliere ver-
dure. Sono inoltre riservati alle donne i mestieri sedentari, come tesse-
re, filare, cucire, tagliare barba e capelli, preparare farmaci e confezio-
nare ogni genere di vestiti; sono escluse però dalla falegnameria, dalla
fonderia e dalla fabbricazione delle armi. Ma se qualcuna ha attitudine
per la pittura, non gliela si proibisce; la musica, poi, salvo trombe e tam-
buri1, è appannaggio esclusivo delle donne, perché dilettano di più, ol-
tre che dei fanciulli. Le donne inoltre sono addette alla cucina e all’im-
bandimento delle mense; ma spetta a fanciulli e fanciulle, fino all’età di
vent’anni, servire a tavola.
Ogni girone ha le sue cucine, dispense e depositi di utensili, di prov-
viste e di bevande, e ad ogni mansione presiedono un vecchio a ciò de-
putato e anche una vecchia, che insieme dirigono gli aiutanti, e hanno
la facoltà di battere o far battere i negligenti e i disubbidienti, ed osser-

1
L’esclusione di donne e bambini dall’uso di certi strumenti a fiato o a percussione dipende
dal fatto che, oltre a richiedere una notevole forza fisica, il loro suono, come diceva Virgilio,
Aen. VI, 164, è ‘marziale’; «nessun clangore si stima più efficace per incitare gli animi al co-
raggio» del «suono spezzato delle trombe», ripeteva Ambrogio, V XXII, 76. Anche per C. i
«suoni hanno forza magica che lo [=spirito] muovono a diversi affetti secondo la varietà: gli
aspri della trombetta e tamburo lo infuriano a guerra et ira; i molli e piani del liuto ad amo-
re» (Senso, p. 292-3). A Napoli, poi, «gli strumenti a fiato si limitano alle trombe e ai pifferi...
Ma questi sono strumenti, come del resto i tamburi, ‘poco nobili’, usati prevalentemente nel-
le celebrazioni ufficiali, siano religiose o laiche, per rimarcare l’atto solenne o avere effetto
di richiamo sulle folle e perciò vengono affidati a galeotti o a ‘suonatori’ occasionali» (R.
Bossa, La musica nella Napoli del Seicento, cit. da Leone, p. 193-4).
36 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS

desubedienti, e notano ognu- perpendunt notantque singulos et singulas


no ed ognuna in ch’esercizio quibus in ministeriis praestent magis.
meglio riesce. Tutta la gio- Universa iuventus servit senioribus prae-
ventù serve alli vecchi che tergressis quadragesimum annum, sed ma-
passano 40 anni; ma il ma- 5 gister et magistra curant vesperi cum eunt
stro o maestra ha cura la se- dormitum et mane mittendos ad ministe-
ra, quando vanno a dor- rium eos, quibus ex ordine incumbit, unum
|8r>mire, e la matina di vel duos in singula cubicula. Iuvenes vero
mandar alli servizi, di quelli mutuo sibi ipsis ministrant: vae autem recu-
a chi tocca, uno o due ad 10 santibus!
ogni stanza, ed essi giovani Habent primas et secundas De refectione
si serveno tra loro, e chi recu- mensas, utrinque sunt sedilia:
sa, guai a lui. Vi son prime e hinc recumbunt mulieres, inde viri, et velu-
seconde mense: d’una parte ti in refectoriis monachorum strepitus fit
mangiano le donne, dall’al- 15 nullus; et dum comedunt, legit e suggestu
tra l’uomini, e stanno come iuvenis canendo distincte ac sonore in codi-
in refettorio de frati; si fa sen- ce, ac saepe magistratus interloquuntur sub
sa strepito, e uno sempre legge aliquo lectionis loco notabiliori. Et quidem
a tavola, cantando, e spesso suave est cernere, quo pacto illis ministret
l’officiale parla sopra qualche 20 tam pulchra iuventus in veste succincta, tam
passo della lezione. È una opportune, ac simul iuxta invicem tot ami-
dolce cosa vedersi servire da cos videre, fratres, filios, patres et matres, vi-
tanta bella gioventù, in abito vere tanta honestate, decore et charitate.
succinto e coss’a tempo, e ve- Cuilibet sua mappa datur, patina, obso-
dersi a canto tant’amici, fra- 25 nium et ferculum.
telli, figli e madri vivere con Medicorum cura est edicere coquis, quo
tanto rispetto e amore. die quae dapes parandae sunt et quae seni-
Si dona a ciascuno il suo bus et quae iuvenibus et quae aegrotis. Ma-
piatto; e li medici hanno cura gistratus portionem accipiunt grandiuscu-
di dire alli cochi in quel gior- 30 lam et pinguiorem; hi de portione sua sem-
no qual sorte di vivanda con- per aliquid distribuunt pueris in mensa, qui
viene, quale alli vecchi, quale mane sese studiosiores ostenderunt in lec-
alli giovani e quale all’amma- tionibus et in disputationibus de sapientia
lati. E l’officiali hanno la mi- et armis. Hoc autem inter praeclarissimos
glior parte, e mandano spesso 35 honores reputatur. In festis vero diebus mu-
in tavola del loro a chi più sice cani etiam in mensa volunt, sed paucis
s’ha fatto onore la matina nel- vel una voce in cythara, etc. Et quum omnes
le lezioni e dispute delle scienze pariter ministerio manus porrigant, nun-
e d’armi, e questo si stima per quam aliquid deficere invenitur. Seniores
grande onore e favore. E nelle 40
feste fanno cantar in musica
pur in tavola; e perché tutti
metteno mano alli servizi, mai
non si trova che manchi cosa
LA CITTÀ DEL SOLE 37

vano e annotano in quali servizi maggiormente si distingue il tale o la


tal’altra. Tutta la gioventù serve gli anziani, cioè quelli che hanno supe-
rato i quarant’anni; però il maestro e la maestra curano che alla sera,
quando vanno a dormire, e al mattino vengano mandati alle rispettive
incombenze quelli ai quali spetta per turno, uno o due per ogni stanza:
tutti i giovani quindi provvedono vicendevolmente anche a se stessi – e
guai ai renitenti!
Vi sono due ordini di tavolate, con i sedili ad entrambi i La refezione
lati: da un lato siedono le donne, dall’altro gli uomini, e co-
me nei refettori dei frati si osserva il più profondo silenzio; mentre
mangiano, un giovane su una pedana legge cantando un libro con into-
nazione chiara e sonora, e spesso i magistrati commentano qualche pas-
so degno di nota. E dev’essere certo cosa molto piacevole vedersi serviti
ineccepibilmente da una così bella gioventù in veste succinta1, e vedersi
accanto tanti amici, fratelli, figli, padri e madri che vivono in così gran-
de decoro, rispetto e amore.
A ciascuno viene distribuito il tovagliolo, il piatto, la prima portata e
la pietanza. È compito dei medici istruire i cuochi su cosa sia da cucina-
re per il tal giorno e cosa vada riservato ai vecchi, cosa ai giovani e agli
ammalati. I magistrati ricevono una porzione un po’ più grande e più
scelta, una cui parte sogliono distribuire poi a tavola a quei fanciulli,
che la mattina si sono particolarmente distinti nelle lezioni, nelle dispu-
te teoretiche e nell’uso delle armi – tale favore è reputato un grandissi-
mo onore. Nei giorni di festa vogliono che si canti anche durante il
pranzo: poche voci o una sola accompagnata da una cetra. E poiché tut-
ti ugualmente danno una mano, il servizio è sempre perfetto. Degli an-

1
La «veste» è presumibilmente la «sopraveste» (T.26.14; 26.12: «toga»), che viene stretta da
una cinta (ai soli giovani; o solo in occasione del servizio a mensa, per agevolare i movi-
menti).
38 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS

alcuna. Son vecchi savi sopra- compositi praesunt rei coquinariae et mini-
stanti a chi co|8v>cina, e nelle stris refectoriorum, et magnifaciunt mundi-
stanze, nelle strade, nelli vasi tiam in stratis, aedibus, vasibus, vestibus et
e nelle vestimenta stimano as- officinis et portibus.
sai la polizia. 5 Alba interula utuntur ad De vestimentis
Vesteno dentro camisa carnes, cui adhaeret vestis,
bianca di lino, sopra un ve- quae simul thorax ac caligae est, absque cri-
stito con giuppone, e calze in- spis, fissa a summis lateribus usque ad imum
tiere, sensa pieghe e spaccato crurum et similiter ab umbilico ad nates in-
per mezo, dal lato e di sotto, e 10 ter coxendices; et globulis hinc porrectis,
poi imbottonato. E arriva la exceptis vinculis illinc, obserantur fixura-
calza fin al tallone, a cui si rum orae; cruralia caligis continuata ad ta-
pone un pedale grande come los usque descendunt; mox udonibus pedes
bolzacchino, e la scarpa so- vestiunt grandibus quasi semicothurnis, fi-
pra. E son ben attillate, che 15 bulis adstrictis, quibus calceos superpo-
quando si spogliano la sopra- nunt; ac tandem toga, ut diximus, amiciun-
veste, si scerneno tutte le fat- tur: et ita apte concinnatae sunt vestes,
tezze della persona. Si muta- quod, quando toga spoliantur, discernuntur
no le vesti quattro volte: partes effigiei totius distinctae prorsus et
quando il sole entra in Can- 20 nihil fallentes. Mutant vestes quater in anno
cro e Capricorno, Ariete e Li- varias, hoc est cum Sol ingreditur Arietem
bra. E, secondo la complessio- et Cancrum et Libram et Capricornum; et
ne e decenza, sta al Medico iuxta conditionem ac necessitatem in Medi-
distribuirle col Vestiario di ci arbitrio est ac Vestiarii singulorum gyro-
ciascun girone. Ed è cosa mi- 25 rum eas distribuere, et mirum est quod eo-
rabile ch’in un punto hanno dem in tempore quot opus sunt vestes simul
quante veste vogliono, grosse, habent, rudes et graciles, pro tempore. Al-
sottili, secondo il tempo ecc. batis utuntur omnes; et lavantur singulis
Vesteno tutti di bianco, e ogni mensibus lixivio vel sapone etc.
mese si lavano le vesti col sa- 30 Aedes inferiores omnes sunt officinae ar-
pone, o bugata quelle di tela. tium et culinae et cellaria et horrea, promp-
Tutte le stanze sottane so- tuaria, armamentaria, refectoria et lavacra,
no officine, cocine, granari, quamvis ad pilas peristyliorum laventur, et
guardarobbe, dispense, vi- aqua deiicitur per canales, in cloacas defe-
vandarî e lavatorî; ma si la- 35 rentes. In qualibet platea singulorum circo-
vano nelle pile delli chiostri. rum sunt proprii fontes, qui per canales ia-
L’acqua si getta per le latrine culantur aquas attractas ab imo fere montis
o canali, che vanno a quelle. sola agitatione artificiosi manubrii: sunt
Hanno in tutte le piazze delli aquae fontales et in cisternis, quo pluviales
gironi le loro fontane, che ti- 40
rano l’acque dal fondo solo
con muover un legno, onde
esse spicciano |9r> per li ca-
nali. V’è acqua sorgente, mol-
LA CITTÀ DEL SOLE 39

ziani appositamente incaricati sovrintendono alla cucina e agli addetti


al refettorio e tengono in gran conto la pulizia di strade, case, vasella-
me, vesti, officine e magazzini.
Indossano una camicia bianca a contatto della pelle, su cui va Vestiario
la veste, che è insieme farsetto e brache1, senza pieghe, tagliata la-
teralmente dai fianchi in giù e frontalmente, sotto il cavallo, dall’ombe-
lico alle natiche; qui gli orli degli spacchi sono chiusi da bottoni spor-
genti all’infuori, mentre ai lati da lacci; delle gambiere prolungano le
brache fino ai talloni; poi infilano dei calzari alti come stivaletti, stretti
con fibbie e, sopra, le scarpe; e finalmente, come ho già detto, indossa-
no una sopravveste. Questi vestiti sono tanto ben confezionati, che,
quando si tolgono la sopravveste, si distinguono con precisione e senza
alcun inganno tutte le forme della persona. Mutano d’abito quattro vol-
te all’anno, cioè quando il Sole entra in Ariete, in Cancro, nella Bilan-
cia e in Capricorno; e a discrezione del Medico e del Guardarobiere di
ciascun girone, in base allo stato di salute e alla necessità di ognuno, si
distribuiscono i vestiti. Stupisce il fatto che al momento del bisogno, su-
bito dispongano di quanti abiti vogliono, pesanti o leggeri, secondo la
stagione. Si vestono tutti di bianco; ed ogni mese si lavano i vestiti con la
liscivia o col sapone ecc.
Tutti i locali inferiori sono laboratori di arti e mestieri, cucine, canti-
ne, dispense, magazzini, arsenali, refettori e lavatoi – sebbene essi si la-
vino alle fontane dei chiostri –, e l’acqua defluisce in canali, terminan-
do nelle fognature. In ogni piazza di tutti i gironi vi sono le fontane che
gettano le acque incanalate, attinte quasi alle falde del monte, azionan-
do soltanto la manovella di un ingegnoso meccanismo; vi sono sia ac-

1
Cioè una specie di tuta aderente («giuppone» di T.38.8 è «giubbone» sia in R. e L. [v. ‘Ap-
parato delle varianti di α’], che in Poesie, 29, Madr. 7, Esp.: «come un giubbon che non sta be-
ne addosso di chi lo porta»).
40 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS

ta nelle conserve a cui van le per aquaeductus arenosos ex tegulis domi-


piogge per li canali delle case, ciliorum collectae perferuntur; lavant et
passando per arenos’acque- corpora saepe sua, prout medicus ac magi-
dotti. Si lavano le persone lo- ster iubent. Artes mechanicae exercentur
ro spesso, secondo il mastro e 5 omnes sub peristyliis; speculativae vero su-
il medico ordina. L’arti si fan perne in deambulatoriis et moenianis, ubi
tutte ne’ chiostri di sotto, e le sunt picturae nobiliores, et in templo legun-
speculative di sopra, dove so- tur diviniores.
no le pitture, e nel tempio si At in atriis et pinnis gyrorum sunt horo-
leggeno nell’atri di fuori. So- 10 logia solaria et campanularum et pendones,
no orologi di sole e di squille quibus horae et venti dignoscantur.
per tutti gironi, e banderole HOSP. - Dic de generatione. De generatione
per saper li venti. GEN. - Nulla foemina mari et educatione
OSP. - Or dimmi della ge- supponitur, nisi decimum no- parentum
nerazione. 15 num attigerit annum. Nec mas
GEN. - Nulla femina si sot- generationi dedicatur, nisi vigesimum pri-
topone a maschi, se non arri- mum attigerit, et ultra si niveae est com-
va a 19 anni, né il maschio plexionis. Ante hoc tempus licet quibusdam
si mette alla generazione in- concubitu mulierum uti, sed sterilium aut
nanzi alli 21, e più s’è di 20 praegnantium, ne illicitum vas expetere co-
complessione bianco. Nel tem- gantur. Ac matronae magistrae et seniores
po innanti è ad alcuno lecito magistri provident illis veneris usum, qui sa-
il coito con le donne sterili o laciores sunt ac stimulantur magis, prout
pregne, per non fare in vaso clam ab eis norunt petentibus et in palestra
indebito; e le maestre matrone 25 praenoscunt. Attamen licen|153>tiam a ma-
con li seniori della generazio- gistro primo generationis petunt, qui ma-
ne han cura di provederli, se- gnus est medicinae doctor et subest Amori,
condo a loro è detto in secreto Principi triumviro. Si capiuntur in sodomia,
da quelli molestati da Venere. vituperantur et biduo gestare in poenam
Ma non lo fanno sensa far 30 coguntur collo ligatos calceos, significando
parola al mastro maggiore, quod perverterint ordinem et pedem in ca-
ch’è un gran medico, e sotto- pite posuerint. At si reciderint, augetur poe-
stà ad Amore, princepe offi- na donec in capitalem desinat. At quicun-
ciale. Se si trovano in sodo- que abstinent a coitu prorsus usque ad vige-
mia, son vituperati, e li fan 35
portare dui giorni legata al
collo una scarpa, significan-
do che pervertîro l’ordine e po-
sero li piedi in testa.
LA CITTÀ DEL SOLE 41

que sorgive che di cisterne riempite attraverso condutture con filtri di


sabbia che raccolgono la pioggia caduta dai tetti delle case. I Solari si la-
vano spesso, in base alle disposizioni del medico e del maestro. I me-
stieri manuali si esercitano tutti nei chiostri; le arti speculative invece in
alto, nei loggiati e lungo le mura dove sono le raffigurazioni più elette;
e nel tempio si leggono i libri sacri.
Negli atri1 e nei pinnacoli dei gironi vi sono orologi solari e a campa-
na, e banderuole, con cui conoscere l’ora e il vento.
OSP. - Parlami della procreazione. La generazione
GEN. - Non si fa accoppiare nessuna femmina col maschio e l’educazione
prima dei diciannove anni. Né si pone il maschio alla gene- parentale
razione prima dei ventun anni, e anche più, se di costituzione gracile.
Prima di quest’età ad alcuni è concesso giacere con le donne, purché
sterili o gravide, per non esser costretti a sfoghi illeciti. E le maestre e i
maestri anziani decidono circa l’opportunità di far soddisfare l’impulso
sessuale a coloro che sono più lascivi e più eccitabili, in base a una loro
confidenza e perché se ne avvedono nelle palestre. I maestri comunque
chiedono l’autorizzazione al primo maestro della generazione, che è un
grande esperto in medicina e che dipende da Amore2, il Principe trium-
viro. Se vengono colti in sodomia, sono rimproverati e condannati a
portare per due giorni le scarpe legate al collo, volendo intendere che
hanno invertito le leggi naturali e posto i piedi in testa. Se sono recidivi,
si aumenta la punizione che può arrivare fino alla pena capitale. Ma

1
Cambia l’ortografia, e quindi il senso, rispetto a T.40.9 : «...e nel tempio si leggono nell’atri
di fuori. Sono orologi di sole...». L’explicit del periodo precedente, è diventato l’incipit di
quello seguente, con un netto peggioramento, perché, come diceva Firpo 1948, p. 254, cor-
reggendo, sulla scorta dei mss T. ed L., la punteggiatura adottata da Bobbio, «i gironi all’e-
sterno non hanno ‘atri’, ma il muro pieno, mentre appunto il tempio è cinto dal colonnato»;
e inoltre perché i portici che circondano il tempio (8.19) sono più indicati per tenervi lettu-
re sacre anziché orologi campanari o solari, secondo quanto suggeriva Alberti, VIII V (p.
706): «Altri strumenti assai convenienti sulle torri potranno essere delle figure mobili indi-
canti la direzione del vento, o la posizione del sole nella volta celeste, e l’ora del giorno» (per
‘atrium’ v. n. 82.23).
2
Si tratta del «Genitarius» (98.8) alle dirette dipendenze di Amore; è un ‘pari grado’ di un al-
tro magistrato, che determina il cruciale momento della generazione (42.26) e che non è un
mediconzolo qualsiasi (sarebbe curioso che una meno impegnativa decisione circa la liceità
di rapporti sessuali non riproduttivi sia affidata a un «magnus... medicinae doctor» [40.26-7],
e quella ben più grave di fissare l’ora adatta a procreare sia demandata a un medico ‘generi-
co’), ma è il «Medicus» alle strette dipendenze di Sapienza, insieme al «Physicus» (98.4). An-
che in Oecon. I III, p. 193 raccomanda un consulto prematrimoniale: «ex physicorum pru-
dentumque senum consultatione».
42 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS

Perchè quando s’esercitano simum primum annum, magis autem si ad


alla lotta, son nudi tutti, ma- vigesimum septimum, celebrantur honori-
schi e femine, li mastri cono- bus et cantilenis in publico caetu.
scono |9v> ch’è impotent’al Quoniam, dum exercentur palestra mo-
coito, e quali membra con 5 re priscorum Lacedaemonum, nudantur
quali si confanno. E cossì, omnes masculi ac foeminae, magistri in-
sendo ben lavati, si donano spectantes norunt qui potentes sint quique
al coito ogni tre sere; e non ac- flacci ad coitum, et quorum membra quibu-
coppiano se non le femine scum foemineis congruunt membris. Et ita
grandi e belle alli grandi e 10 post ubi bene loti sunt, veneri operam dant
virtuosi, e le grasse a’ macri, tertia quaque nocte et non copulant foemi-
e le macre alli grassi, per far nas grandes ac pulchras nisi grandibus ac
temperie. La sera vanno i studiosis viris, et pingues macribus et ma-
fanciulli e acconciano li letti, cras pinguibus, ut bene temperentur et uti-
e poi vanno a dormire, secon- 15 liter. Vesperi pueri accedunt et sternunt tha-
do ordina il mastro e la mae- lamos, dehinc dormitum vadunt sicuti eis
stra. Né si pongon al coito, se iubet magister et magistra. Nec coitu per-
non han degerito, e prima fruuntur generatores antequam digerant ci-
fanno orazione, e hanno belle bum et orent Deum. Sunt in cubiculis for-
pitture d’uomini illustri, do- 20 mosae statuae virorum illustrissimorum
ve le donne mirano. Poi esco- quas inspectant mulieres; mox per fenestras
no alle finestre, e pregano Dio contuentes coelum rogant Deum ut prolem
del Cielo, che li doni prole concedat praestantem. In duabus cellis
buona. E dormeno in due cel- seorsum dormiunt usque ad horam coitus,
le, sparti fin a quell’ora che 25 et tunc surgens magistra utriusque ostium
s’hanno a congiungere, e al- deforis aperit. Hanc horam Astrologus et
lora va la maestra, e apre l’u- Medicus determinant* ac nituntur captare
scio dell’una e l’altra stanza. tempus, quo Venus ac Mercurius sint a Sole
Quest’ora è determinata dal- orientales in domo benigna, in bono aspec-
l’Astrologo e Medico; e si for- 30 tu Iovis, similiter et Saturni et Martis, vel in
zano sempre di pigliar tempo, nullo horum, praesertim Sol et Luna, quae
che Mercurio e Venere siano
orientali dal sole in casa be-
nigna, e che siano mirati da
Marte di buono aspetto e da 35
Saturno così il sole come la
Luna, che spesso sono afete.

* Divus Thomas in 5 Politicorum, lect. 13, docet


a figura coeli hominum inclinationes ad mo-
40 res sciri. Ergo etc.
LA CITTÀ DEL SOLE 43

chiunque rimane vergine fino a ventun anni o, meglio ancora, fino a


ventisette, viene onorato e celebrato con canti durante una cerimonia
pubblica.
Quando si esercitano in palestra, secondo l’antico costume spartano,
maschi e femmine sono tutti nudi; perciò i maestri, osservandoli, posso-
no sapere chi è atto e chi è impotente a generare, e quale tipo di costi-
tuzione fisica meglio si confà a un certo tipo femminile. E così, ben la-
vati, sono pronti a congiungersi ogni tre notti. Le robuste e belle ven-
gono fatte accoppiare solo con uomini robusti e gagliardi, le grasse con
i magri e le magre con i grassi, per ottenere incroci ben equilibrati e
fruttuosi. La sera i fanciulli salgono nelle stanze e preparano i letti;
quindi i prescelti vanno a dormire, come ordina il maestro e la maestra.
I procreatori infatti non possono unirsi sessualmente prima di aver ter-
minato la digestione ed aver pregato Dio. Nelle stanze da letto vi sono
delle statue1 ben modellate di uomini illustrissimi su cui si fissano gli
sguardi muliebri; poi i generatori, volgendo lo sguardo al cielo attraver-
so le finestre, pregano Dio che conceda loro una prole sana. Dormono
in due celle separate fino all’ora del coito, quando, levatasi la maestra,
va e apre da fuori le porte di entrambi.
Sono l’Astrologo2 e il Medico a preoccuparsi di determinare l’ora*,
in cui Venere e Mercurio3 siano orientali rispetto al Sole in una casa be-
nigna, in aspetto propizio con Giove, come pure con Saturno e Marte, o
in nessun aspetto. Importano soprattutto il Sole e la Luna, che sono

* S. Tommaso in Politicorum Expositio (5,13) insegna che si conoscono dalla costella-


zione celeste le inclinazioni morali degli uomini. Dunque ecc.4

1
Sono le statue dei loro ‘eroi’, come chiarito a 112.16-9. Le pratiche emulative si fondano su
un’antica credenza: la presunta immaginazione delle gestanti (anche animali: v. n. 83.1), tan-
to potente da plasmare il feto (v. n. compl.).
2
L’Astrologo, in quanto magistrato superiore direttamente sottoposto a Sapienza (10.41), è
probabilmente uno dei sacerdoti (come si evincerebbe da 44.19), fra i cui compiti c’è ap-
punto quello di ‘decernere’ l’ora propizia al concepimento (108.9).
3
Senso, p. 205 sintetizza così i consigli ai genitori: «aspettare il tempo quando benigne stelle
siano nell’Ascendente e nel mezzo cielo, e li pianeti si guardino con buoni aspetti fra loro e
con le stelle fisse, e siano in dignità perché molto dispongono e aiutano alla nobiltà della
prole». È il primo di una serie di passi astrologici (i più estesi sono a pp. 86, 136 e 150-8),
per la cui terminologia tecnica v. nn compl. da 42.28 a 44.11.
4
Sottintende: l’oroscopo natale è «dunque» lecito, perché, anche se l’influsso degli astri ‘in-
clina’, non costringe – come sarà ampiamente illustrato alla fine del trattatello (pp. 140-58).
44 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS

E per lo più vogliono Vergine saepissime aphetae sunt. Virginem in horo-


in ascendente; ma assai si scopo amant, sed bene cavent ne maleficae
guardano che Saturno o sint in angulo, quoniam omnes inficiunt an-
Marte non stiano in angolo, gulos quadrato et oppositione, ex quibus ra-
perché tutti quattro angoli 5 dix vis vitalis et fortunae ab harmonia totius
con opposizioni e quadrati et partium universi pendet. Non satis expe-
infettano, e da essi angoli è la tunt satellitium, sed bonos aspectus. Satelli-
radice della virtù vitale e del- tium quaerunt in fundatione civitatis et le-
la sorte. Non si curano di sa- gis, cuius tamen non sit princeps Mars et Sa-
tellizio, ma solo degli aspetti 10 turnus, nisi interdum optime dispositi. Aliis
|10r> buoni. Ma il satellizio utuntur constellationibus et ad fixas. Et ne-
solo nella fondazione della fas ducunt genitores non esse mundos a se-
città e della legge ricercano, mine tribus diebus ante coitum et ab actio-
che però non abbia prencipe nibus pravis vel non esse summo Deo conci-
Marte o Saturno. E han per 15 liatos devotosque. Caeteri, qui per delitias
peccato li generatori non tro- aut necessitate medicinae aut stimulo utun-
varsi mondi tre giorni avanti tur venere sterilium aut praegnantium aut
di coito e d’azioni prave, o di foeminarum vilium, hos ritus non obser-
non esser devoti al Creatore. vant. Magistratus vero, qui omnes sacerdo-
Gl’altri, che per delizia e per 20 tes sunt, itemque sapientes magistri non
servire alla necessità, si do- fiunt generatores apud eos, nisi pluribus
nano al coito con sterili o pre- diebus multa observarint. Ipsi enim ex mul-
gne o con donne di poco valo- ta speculatione debiles habent spiritus ani-
re, non osservano queste sotti- males et virtutem ex cerebro non transfun-
gliezze. E l’officiali, che son 25 dunt, eo quod semper aliquid pensiculant:
tutti sacerdoti, e li sapienti idcirco prolem flaccam edunt. Ergo in hoc
non si fanno generatori, se
non osservano molti giorni
più condizioni; perch’essi, per
le molte speculazioni, han de- 30
bole lo spirito animale, e non
trasfondeno il valor della te-
sta, perchè pensano sempre a
qualche cosa; onde trista raz-
za fanno. Talchè si guarda 35
LA CITTÀ DEL SOLE 45

spessissimo afèti1. Prediligono Vergine in ascendente, ma essenzialmen-


te si guardano dai pianeti malefici angolari, perché con la quadratura e
con l’opposizione questi funestano tutti gli angoli, dai quali dipende
l’origine della forza vitale e della fortuna grazie all’armonia tra il tutto e
le parti dell’universo2. Si curano solo dei buoni aspetti, non di una con-
centrazione di pianeti, che ricercano però nella fondazione di una città
e nell’emanazione di una legge, purché in essa non siano dominanti
Marte e Saturno, salvo che siano particolarmente dignificati3. Tengono
conto di altre costellazioni e delle stelle fisse4.
Considerano empietà che quantomeno nei tre giorni antecedenti al
coito i procreatori non si siano mantenuti casti e scevri da cattive azioni,
e conciliati e devoti al sommo Dio. Gli altri che per loro piacere, per ra-
gioni di salute o per stimolo venereo, si uniscono a donne sterili, gravi-
de o di basso conio, non sono tenuti a osservare queste norme. I magi-
strati, invece, che sono tutti sacerdoti, e pure i maestri sapienti non pos-
sono diventare generatori, se non hanno osservato per parecchi giorni
molte prescrizioni. Costoro infatti, per il molto speculare, hanno gli spi-
riti animali debilitati e non sono in grado di trasfondere la loro virtù dal
cervello, in quanto sempre pensano a qualcosa: perciò rischiano di ge-
nerare una prole fiacca.

1
Luoghi afetici (etimologicamente: ‘datori di vita’) sono quelli che ospitano il pianeta che
presiede all’impulso della vita (Astrol., p. 128, che lo deriva da Tolomeo; v. n. compl.)
2
Questi righi contengono un implicito monito pratico: procreare quando né Saturno né
Marte transitano in una delle quattro case angolari. Fondamento dell’astrologia giudiziaria è
infatti che il momento fatale (concezione o nascita) determina tutta la vita futura, perché in
quell’istante si concentra l’influsso delle forze celesti. Un ruolo cruciale, in questo processo,
lo svolgono l’Ascendente, che è ‘fons vitae’, e gli altri tre cardini, che segnano altri momenti
decisivi dell’esistenza. Pertanto influssi nefasti in questi quattro luoghi critici compromette-
rebbero l’intero quadro del tema natale (ad es., proprio per la predilezione di Mercurio e
Vergine rischiano di contrarre l’epilessia [v. n. compl. e n.94.6]).
3
La concentrazione di pianeti non deve far da scorta (=‘satellitium’) a uno di questi due, a
meno che la sua preminenza non derivi dall’esser particolarmente dignificato. Il potere ma-
lefico di Saturno, pianeta freddo, e di Marte, secco (Astrol., p. 84-5), viene ulteriormente esal-
tato quando il pianeta transita nella casa di cui è signore (Saturno in Capricorno e Acquario,
Marte in Ariete e Scorpione: Astrol., p. 34; v. n. compl.).
4
Oltre alle dodici dello Zodiaco, sono convenzionalmente distinte altre trentasei costellazio-
ni esterne alla cintura zodiacale: ventuno boreali, quindici australi (Astrol., p. 20-1). Le stelle
fisse sono tali non perché immobili nel firmamento, come credevano gli antichi (o stelle len-
tissime, secondo Tolomeo [Astrol., p. 29]), ma perché non muta la loro posizione relativa re-
ciproca – a differenza delle ‘stelle erranti’ o pianeti –, in quanto il cielo, oltre la fascia zodia-
cale, dentro cui sono immerse, ruota in ventiquattro ore (120.20; v. n. 120.28-9); a causa del-
la loro distanza sono i pianeti a fungere da transponder degli influssi stellari sulla Terra
(Astrol., p. 53; v. n. compl.).
46 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS

bene, e si donano questi a bene animadvertitur, et copulant hos sa-


donne vive, gagliarde e belle; pientes foeminis natura vividis, strenuis et
e l’uomini fantastici e capric- formosis. Homines etiam peracutos, celeres
ciosi alle donne grasse, tempe- argutosque et quasi furentes foeminis pin-
rate, di costumi blandi. E di- 5 guioribus et blandis moribus. Et dicunt pu-
cono che la purità della com- ritatem complexionis, unde virtutes fructifi-
plessione, onde le virtù frut- cant, non posse studio acquiri, et homines
tano, non si può acquistare natura pravos timore legis bene operari vel
con arte, e che l’uomini di Dei, quo cessante, vel clam vel palam, rem-
mala natura per timor della 10 publicam pessundant. Idcirco totum stu-
legge fanno bene, e, quella dium ac principale in generatione adhiben-
cessante, struggono la repu- dum esse, et naturalia merita perpendenda
blica con manifesti o secreti esse, non dotes et nobilitates fallaces gene-
modi. Però tutto lo studio ris.
principale dev’essere nella ge- 15 Si quae istarum foeminarum non conci-
nerazione, e mirarsi li meriti pit ab aliquo viro, copulant ipsam aliis; si
naturali, e non la dote o la tandem sterilis invenitur, fit communis, sed
fallace nobiltà. non datur illi matronarum honor in Conci-
S’alcune di queste donne lio generationis et in templo et in mensa: et
non concipeno con uno, la 20 hoc observant, ne ipsa sterilitatem procuret
|10v> mutano con altri; se luxuriandi gratia. Quae autem conceperunt
poi si trova sterile, si può ac- quindecim diebus non exercent corpora.
cumunare, ma non ha l’ono- Deinde lentis exercitiis utuntur ad roboran-
re delle matrone in consiglio dam prolem et aperiendos meatus nutri-
della generazione e nella 25 menti ad illam, ac paulatim semper maiori
mensa e nel tempio; e questo exercitio roborantur. Nec edere nisi profi-
lo fanno perch’essa non pro- cua ex praescripto medicorum permittun-
curi la sterilità per lussuria- tur. Post ubi pepererint, ipsaemet lactant
re. Quelle ch’hanno concepi- educantque foetus in communibus aedibus
to, per quindici giorni non 30 destinatis: duobus annis lac praebent et ul-
s’esercitano; poi fanno leggie- tra, uti iubet Physicus. Deinde ablactata pro-
ri esercizi per rinforzar la pro- les traditur curae magistrarum, si foemina
le e aprir li meati del nutri- est, vel magistrorum, si mas. Et tunc cum
mento a quella. Parturito aliis infantibus ludicre exercentur in alpha-
ch’hanno, esse stesse allevano 35 betis et picturis noscendis et in cursu et am-
li figli in luochi comuni, per
doi anni lattando e più, se-
condo pare al Fisico. Dopo si
smamma la prole, e si dona
in guardia delle mastre, se 40
son femine, o delli mastri,
con altri fanciulli; e qui s’e-
sercitan’al alfabeto, a cami-
nare, correre e lottare o vero
LA CITTÀ DEL SOLE 47

Così stanno bene attenti a far accoppiare questi sapienti con donne
di natura vivace, forti e belle. E analogamente gli uomini svegli, ardenti
e di tempra molto focosa ed energica si uniscono con donne grasse e
d’indole placida.
Dicono che la purezza del temperamento, da cui deriva ogni virtù,
non si può acquistare con l’impegno personale, e che gli uomini malva-
gi per natura si comportano bene per timore della legge o di Dio, ma
una volta venuto meno tale timore, o in segreto o apertamente manda-
no in rovina lo stato: donde tutto l’impegno prioritariamente profuso
nell’eugenetica, e nel fare attenzione alle vere disposizioni naturali,
non a ricchezze e fallace nobiltà del casato.
Se una di queste donne non è resa gravida da un uomo, la si accop-
pia ad altri; se alla fine si rivela sterile, è a disposizione di tutti, ma non
le è concesso l’onore delle matrone di sedere nel Consiglio della gene-
razione, nel tempio e in mensa: ciò per evitare che certe donne si pro-
curino la sterilità per fornicare a piacimento. Quelle invece che hanno
concepito restano a riposo per quindici giorni. Quindi si dedicano a
degli esercizi moderati per fortificare il nascituro e aprirgli i canali del
nutrimento, e progressivamente s’irrobusticono intensificando l’atti-
vità fisica. Possono cibarsi solo degli alimenti nutritivi prescritti dai dot-
tori. Dopo il parto loro stesse allattano e allevano i neonati in case co-
muni appositamente adibite: i piccoli sono allattati per due anni e più,
secondo la prescrizione del Fisiologo. Svezzata la prole, la si affida poi
alla cura delle maestre se femmina, dei maestri se maschio. E allora
con gli altri bambini cominciano giocosamente ad esercitarsi allo stu-
dio degli alfabeti e delle figure dipinte, a camminare e a correre, a far
48 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS

alle figure istoriate; e han ve- bulatione et luctamine et historiis figuratis


sti di color vario e bello. Alli et linguis; et veste decora et varia ornantur.
sett’anni si donano alle scien- Post sextum annum scientiis naturalibus
ze naturali, e poi all’altre, se- assuescunt, deinde caeteris prout magistra-
condo pare all’officiali, e do- 5 tibus congruum videtur, ac deinde mecha-
po di questo si metteno in me- nicis. At pueri ingenio abiectiores mittun-
canica. Ma li figli di poco va- tur in villas, et cum perfectiores evaserint,
lore si mandano alle ville, e, |154> aliqui recipiuntur in civitatem; at ple-
quando riescono, poi si ridu- rumque cum sub eadem constellatione ge-
cono alla città. Ma per lo 10 nerentur, contemporanei sunt virtute consi-
più, sendo generati nella me- miles et moribus et effigie, et hinc concor-
desma costellazione, li con- dia stabilis magna in republica suboritur, et
temporanei sono di virtù con- mutuo amore et auxiliis sese prosequuntur.
simili e di fattezze e di costu- Ipsorum nomina impo- De impositione
mi. E s’amano grandemente 15 nuntur non casu sed arte a nominum
ed aiutano l’un l’altro. Metaphysico iuxta proprieta-
Li nomi |11r> loro non si tem, ut priscis Romanis mos fuit:
metteno a caso, ma dal Meta- quapropter alius vocatur Pulcher, alius Na-
fisico secondo la proprietà, so, alius Crassipes, alius Torvus, alius Macer
come usavano li Romani: 20 etc. At cum evaserint praestantes in suis arti-
ond’altri si chiama il Bello, bus aut quid magni facinoris in bello aut pa-
altri il Nasuto, altri il Pedu- ce praestiterint, additur cognomen illis ab
to, altri Bieco, altri Crasso, arte, veluti Pulcher Pictor Magnus, Aureus,
ecc.; ma quando poi diventa- Excellens, Strenuus; aut ab actione dicen-
no eccellenti nell’arte loro o 25 do: Naso Fortis, Astutus, Victor, Magnus,
fanno qualche prova in guer- Maximus; et a devicto hoste, ut Africanus,
ra, s’aggiunge il cognome Asianus, Etruscus, vel si superavit Manfre-
dall’arte come Pittor Magno, dum aut Tortelium, dicetur Macer Manfre-
Aureo, Eccellente, Gagliardo, dius, Tortelius etc. Haec autem cognomina
dicendo: Crasso Aureo, ecc.; 30 adduntur ab superioribus magistratibus et
o pur dall’atto dicendo: saepius cum corona conveniente actioni vel
Crasso Forte, Astuto, Vincito- arti etc., et cum applausu ac musica. Aurum
re, Magno, Massimo, e dal enim et argentum ipsis nihili aestimatur, ni-
nemico vinto come Africano,
Asiano, Tosco, ecc.; Manfre- 35
di, Tortelio dall’aver supera-
to Manfredi o Tortelio ecc. E
questi nomi s’aggiungono
dall’officiali grandi, e si do-
nano con una corona conve- 40
nient’all’atto o arte sua, con
applauso e musica. E si van-
no a perdere per quest’ap-
plausi, perch’oro e argento
LA CITTÀ DEL SOLE 49

la lotta, a imparare le storie raffigurate e le lingue; e indossano vesti


graziose e varie.
Dopo il sesto anno passano allo studio delle scienze della natura, poi,
se reputati idonei dai magistrati, si dedicano alle altre scienze, e succes-
sivamente apprendono i mestieri manuali. I fanciulli tardi d’ingegno si
mandano in campagna e quelli che lì hanno fatto notevoli progressi,
vengono riaccolti in città; ma nella maggior parte dei casi, essendo stati
concepiti sotto la medesima costellazione, i coetanei sono individui affi-
ni fisicamente e moralmente, donde la grande e durevole concordia
nello stato; e inoltre si aiutano reciprocamente con l’affetto e il mutuo
soccorso.
I loro nomi sono imposti dal Metafisico, non a caso, ma Imposizione
oculatamente in base alle caratteristiche individuali, così co- dei nomi
me facevano gli antichi Romani: perciò uno è chiamato Bello,
uno Nasone, uno Piedone, uno Bieco, uno Magro ecc. Ma quando qual-
cuno si distingue particolarmente in un’arte o in un’impresa di guerra
o di pace, si aggiunge al nome un soprannome, come ad esempio, dal-
l’arte: Bello Pittore Grande, Aureo, Eccellente, Gagliardo; o dall’impre-
sa: Nasone il Forte, l’Astuto, il Vincitore, il Grande, il Massimo; o dal ne-
mico sconfitto, come l’Africano, l’Asiatico, l’Etrusco; o per aver battuto
Manfredo o Tortelio, sarà chiamato Magro Manfredio, Tortelio ecc. An-
che questi soprannomi sono imposti dai magistrati superiori e molto
spesso accompagnati dal dono di una corona che s’addice all’impresa o
all’arte ecc., e con applausi e musiche. Infatti l’oro e l’argento per i So-
50 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS

non si stima, se non come si sicut materia vasorum aut ornamentorum


materia di vasi o di guarni- communium cunctis.
menti comune a tutti. HOSP. - Dic, quaeso, estne zelotypia inter
OSP. - Non c’è gelosia tra eos et dolor ei, qui non electus est in magi-
loro o dolore che non sia fatto 5 stratum aut in aliud quod ambit?
generatore? GEN. - Minime. Nemini enim deest quod
GEN. - Signor no, perch’a necesse habet, nec ad delitias. Generatio
nullo manca il necessario lo- autem religiose tractatur in bonum reipu-
ro quant’al gusto; e la gene- blicae et non privatorum, et necesse est ma-
razione è osservata religiosa- 10 gistratibus obedire. Et quod nos dicimus na-
mente per bene publico, non turale esse homini ad prolem cognoscen-
privato, ed è bisogno star’al dam et educandam, propria uti uxore et do-
detto dell’officiali. Né ci bi- micilio et liberis, negant dicentes generatio-
sogna inganno di ballotte per nem esse ad conservationem speciei, ut di-
15 cit S. Thomas, et non individui. Ergo spec-
tat prolificatio ad rempublicam non ad pri-
vatos, nisi quatenus sunt reipublicae partes;
et quia prave generant ac prave educant pri-
vati plerumque prolem in reipublicae per-
20 niciem, ideo magistratuum curae illam, tan-
quam primum elementum reipublicae, sa-
crosancta religione committunt. Et certitu-
do est communitatis, non particularitatis.
Distribuunt ergo generatrices et generato-
25 res praestantissimae indolis iuxta philo-
sophiam. Plato hanc distributionem putat
sortibus faciendam esse, ne a formosis mu-
lieribus videntes se arceri aliqui et zelo et
ira in magistratus insurgant; putatque eos
30 qui non merentur in formosioribus semina-
re, decipiendos esse, dum sortes educuntur
astu a magistratibus, sic ut semper illis obve-
niant quae congruunt, non quas appetunt.
Ast haec astutia Solaribus necessaria non
LA CITTÀ DEL SOLE 51

lari non hanno alcun valore, se non come materia per far vasi o orna-
menti comuni.
OSP. - Dimmi, dunque: ma chi non è stato eletto a una magistratura o
a un’altra carica ambita, non prova gelosia o dispiacere?
GEN. - Per niente. Tutti infatti sono forniti del necessario, compresi i
piaceri.
La generazione è regolamentata scrupolosamente in vista del bene
pubblico e non privato, e perciò devono obbedire ai magistrati. Essi
non condividono la nostra idea secondo cui è naturale per l’uomo, af-
finché possa riconoscere ed allevare la prole, avere moglie, casa e figli
propri; i Solari affermano invece, come S. Tommaso1, che la generazio-
ne ha per fine la conservazione della specie, non dell’individuo. Di con-
seguenza la riproduzione è di competenza pubblica, non dei privati, se
non in quanto membri dello stato; e poiché per lo più i singoli individui
generano malamente e educano malamente la prole con gravi conse-
guenze per la collettività, allora i Solari con uno zelo religioso l’affida-
no, quale fondamento primo dello stato, alla cura dei magistrati. E la
garanzia dell’identità è fornita dall’appartenenza alla comunità, non al
singolo.
Accoppiano dunque con discernimento i procreatori e le procreatri-
ci dotati di eccellente costituzione. Platone ritiene che queste unioni
debbano esser regolate dal sorteggio, affinché quelli, cui non furono
concesse donne belle, non si rivoltino per gelosia e rabbia contro i ma-
gistrati; e ritiene che bisogna ingannare coloro che non meritano di fe-
condare le più belle, facendo addomesticare dai magistrati i sorteggi
con l’astuzia, in modo da destinare non quelle che a loro piacciono, ma
quelle che a loro si addicono2. Questa astuzia però – per cui a uomini

1
3SCG, 122, ad 4: «Semen autem, etsi sit superfluum quantum ad individui conservationem,
est tamen necessarium quantum ad propagationem speciei»; e naturalmente «bonum speciei
est melius quam bonum individui: quia ‘bonum gentis est divinius quam bonum unius ho-
minis’ ut dicitur Ethica [c. 2, lect. 2]» aristotelica (v. n. 86.1-2).
2
Resp., 459d-460a: «i migliori devono unirsi alle migliori più spesso che possono e, al contrario,
i più mediocri con le più mediocri... E tutto ciò deve avvenire senza che nessuno lo sappia, ec-
cetto gli stessi governanti, se si vorranno evitare al massimo le discordie... Si deve allora ricorre-
re, secondo me, a ingegnosi sorteggi sì che quella persona mediocre incolpi la fortuna per cia-
scuna unione, ma non i governanti» (cfr anche Timeo, 18d). Per l’estrazione a sorte si ricorreva
alle «ballotte» (T.50.14), cioè ai bussolotti, come narra Andreotti, II, p. 269, per le elezioni po-
litiche cosentine nel XVI sec.: «si piglino tante ballotte quante sono persone, e tre di queste sia-
no dorate, e sei d’argento, e si mettono in una cassetta», e dopo si procede al sorteggio.
52 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS

contentarsi delle brutte i brut- est, ut deformes viri deformes sortiantur


ti, perché tra loro non c’è mulieres; nam inter eos deformitas non in-
bruttezza; |11v> ché, eserci- venitur.
tandosi esse donne, diventa- Cum enim exerceantur mu- Pulchritudo
no di color vivo e di membra 5 lieres, fiunt coloribus vividae, mulierum in
forti e grandi, e nella gagliar- membris robustae et grandes et quo consistit
dia e grandezza consiste la agiles, et in proceritate ac stre-
bellezza appresso loro. Però è nuitate consistit pulchritudo apud eos. Id-
pena della vita in bellettar la circo poena capitali puniretur si qua faciem
faccia o portar pianelle, o ve- 10 fucaret ut formosa fiat, aut altis sandaliis
ste con le code per coprir li pie- uteretur ut appareret magna, aut vestibus
di di legno; ma non averiano caudatis ad tegendos ligneos pedes. Sed nec
tampoco comodità di far que- ullam, si cuperent, facultatem talia faciendi
sto, perché chi le daria loro? E haberent. Quis enim praeberet illis? Et
dicono che questo abuso in 15 aiunt huiusmodi abusiones apud nos subo-
noi viene dal ozio delle don- riri ocio et desidia mulierum, quo decolo-
ne, che le fa scolorite, fiacche rantur, pallescunt, flaccescunt et parve-
e picciole; e però han bisogno scunt; idcirco indigent appositis coloribus
di colori, di pianelli e farsi et sandaliis altis et pulchras fieri non ex ro-
belle. Di più, s’uno s’innamo- 20 bore, sed ex teneritudine ignava; itaque
ra di qualche donna è lecito propriam temperiem naturamque et prolis
tra loro parlare, far versi, simul pessumdant. Praeterea si quando ali-
quis amore ardenti capitur mulieris cuiu-
spiam, licet eis colloquium, iocus, serta ex
LA CITTÀ DEL SOLE 53

sgraziati debbano toccare donne sgraziate – è inutile ai Solari; infatti tra


loro non si riscontrano deformità.
Grazie alla vita attiva che conducono, le donne sono di colo- La vera
rito vivace, di membra forti, robuste e agili, e la bellezza per bellezza
delle donne
loro consiste solo nella statura e nel vigore. Perciò incorre-
rebbe nella pena capitale colei che si truccasse per farsi bella, o por-
tasse scarpe con la zeppa per sembrare più alta, e vesti caudate per na-
scondere i piedi di legno1. Ma anche se lo desiderassero, non avrebbero
nessuna possibilità di ricorrere a tali artifici: chi infatti glieli procure-
rebbe? E asseriscono che da noi simili trucchi sono frutto dell’ozio e
della pigrizia delle donne, che le fa scolorite, pallide, fiacche e poco svi-
luppate; perciò hanno bisogno di cosmetici, di tacchi alti e di farsi belle
non del vigore, ma dell’ignava delicatezza; e così compromettono la lo-
ro salute, e quella della prole.
Se mai qualcuno s’innamora ardentemente di una donna, sono per-
messi, tra loro due, colloqui, giochi, e scambi di ghirlande di fiori e di

1
«Le donne napoletane portavano al piede delle ‘iscarpette’, ma facevano anche abbondan-
te uso di pianelle lavorate in città al ‘vico dei Pianellari’, al Pendino; avevano la tomaia di
stoffa, a volte anche riccamente ricamata, e la suola di sughero, altissima, fin quasi a farne ve-
ri trampoli» (Leone, p. 47); pur occultati da gonne lunghe rasoterra, questi «piedi di legno»
non riuscivano però a sfuggire alla satira, come quella dell’anonima cinquecentesca Ballata
contro le nuove foggie I, 228: «Più d’un palmo de pianelle/ per la terra vui portate, / per parer
maior e belle / quando per la via passate». Fra i lussi e le mode della vanità femminile, stig-
matizzati da C., le scarpe alte hanno un posto particolare, perché «il soverchio spessore, la
pesantezza e l’altezza delle scarpe impediscono alla donna di esercitare il corpo, ed essa
mentre si muove ha bisogno di un servo cui appoggiarsi come se fosse paralitica... disgustan-
do chi le guarda. Onde per difetto di esercizio corporale divien languida e pallida e ha biso-
gno di nuove artificiali tinte, che la marciscono vieppiù, indeboliscono la prole, contamina-
no e degenerano lo stato. Perciò si diffondono, in pubblico e in privato, costumi imbellettati
e falsi, esempi turpi... Di contro vedi come le Calabresi, che non portano sandali spessi e non
si truccano, né stanno mai in ozio, hanno corpi grandi, agili, robusti, di carnagione vivace.
Perciò una madre di famiglia eliminerà tali cose da casa sua come la peste, per tutti i benefi-
ci che a lei, la famiglia e lo stato ne seguiranno. Per evitare di incorrere in questo male l’uni-
co rimedio è far sì che le donne siano continuamente applicate ad arti utili, e mai vivano in
ozio» (Oecon. III III, p. 199-202). Consiglia pertanto scarpe non più alte di un dito, non stret-
te, ma ben chiuse per proteggere dall’acqua, e piatte, come le basi delle statue: «ridiculi et
casui [=caduta] expositi sunt, qui tuberatos [=spessori] subter gerunt» (Medicina, p. 63-4).
Prima che moda abbellitiva, per il fittizio aumento di statura, gli ‘stomachevoli’ trampoli (o
calcagnini, copine, tapine) ideati originariamente dalla pretestuosa necessità di proteggersi
dal fango e dagli escrementi delle strade (Goretti, p.196), o, in Spagna, adottati come espe-
diente preventivo e coattivo anti-adulterio (calzando queste ‘pianelle di castità’ così alte e
scomode, era impedito alle donne non solo di fuggire, ma, come rileva lo stesso C., anche so-
lo per camminare era necessario appoggiarsi a una persona, ovvero a un custode, guardia del
corpo e sorvegliante insieme), in Italia (e in particolare a Venezia) divennero bersagli insie-
me di satira e di «infamia, a causa dello speciale incitamento alla lascivia sotteso dall’andatu-
ra sinuosa e ‘pompeggiata’ cui obbligavano» (Goretti, p. 197).
54 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS

scherzi, imprese di fiori e di floribus aut frondibus mutuo largiri et car-


piante. Ma se si guasta la ge- mina. At si generatio periclitatur, nullo pac-
nerazione, in nullo modo si to coitus inter eos dispensatur, nisi quando
dispensa tra loro il coito, se mulier iam gravida foetu fuerit (quod mas
non quando essa è pregna o 5 expectat) aut sterilis. Caeterum vix agnosci-
sterile. Però non si conosce tra tur in eis amor concupiscentiae ardentis,
loro se non amore d’amicizia sed amicitiae tantum.
per lo più, non di concupi- Res familiaris et comestibilis parvi pendi-
scenza ardente. tur, quoniam cuilibet datur prout opus ha-
La robba non si stima, 10 bet, nisi honoris signum sit. Porro heroibus
perch’ognuno ha quanto li bi- et heroidibus largiri solet respublica munu-
sogna, salvo per segno d’ono- scula honoris gratia in solemnitatibus, dum
re. Ond’all’eroi la republica convivantur, aut serta formosa aut cibum
fa certi doni, in tavola o in suavem aut vestes decoras.
feste publiche, di ghirlande o 15 Tametsi omnes albis in die vesti- De colore
di vestimenta belle fregiate; bus et in civitate utantur, noctu vero vestium
benché tutti di bianco il gior- et extra civitatem rubris, sive laneis
no e nella città, ma di notte e sive sericeis; abominantur colorem ni-
fuor della città vesteno di ros- grum sicuti faeces rerum: idcirco oderunt
so, o di seta o di lana. Aborri- 20 Iaponenses, atri coloris amicos.
scono il color negro, come fec- Superbiam vitium execrabilissi- Contra
cia delle cose, e però odiano li mum ducunt et superbus actus ca- superbiam
Giapponesi, amici di quello. stigatur abiectione saevissima, qua-
La superbia |12r> è tenuta propter nemo reputat vilitatem mini-
per gran peccato, e si punisce 25 stra|155>re in mensa vel in culina aut aegris
un atto di superbia in quel etc. Sed vocant disciplinam omne ministe-
modo che si commette. Onde rium et aiunt ita honorificum esse pedi am-
nullo reputa viltà lo servire bulare et culo cacare, sicut oculo videre et
in mensa, in cucina o altro- linguae loqui: nam ille lacrymas et ista spu-
ve, ma lo chiamano impara- 30 tum, excrementa excernunt, cum opus est.
re; e dicono che cossì è onore Idcirco cuicunque quilibet ministerio depu-
al piede caminare com’all’oc- tatus operatur illud tanquam honestissi-
chio guardare; onde chi è de- mum.
putato a qualch’officio, lo fa Non habent mancipia foedan- Communis
come cosa onoratissima, e 35 tia mores: ipsi enim sibi ipsis suffi- labor quid
non tengono schiavi, perché ciunt et superant. At nos, heu, non prosit
essi bastano a se stessi, anzi ita: septuaginta milia animarum
soverchiano. Ma noi non cos- Neapoli commorantur et ex eis vix laborant
sì, perché in Genova sono set- decem aut quindecim millia; et hi nimio la-
tanta mila anime e non fati- 40 bore macerantur continuo et diuturno, et
cano se non le diece, o quin- destruuntur. Ociosi quoque caeteri perdun-
dici mila; e questi patiscono
fatica assai, e se struggeno; e
l’oziosi si perdeno anche per
LA CITTÀ DEL SOLE 55

fronde, e poesie. Ma se la progenie dovesse correre pericolo, a nessun


costo si concederebbe loro di accoppiarsi, a meno che lei non sia già ri-
masta incinta di un altro (cosa che l’amante stesso auspica) o sia risulta-
ta sterile. Del resto difficilmente si riscontra in loro un amore suscitato
da ardente concupiscenza, ma soltanto d’amicizia.
I Solari poco si preoccupano di accumulare beni e provviste, perché
ognuno viene fornito del necessario, escluse le ricompense onorifiche:
infatti lo stato suole elargire ad eroi ed eroine nelle solennità festive,
durante il convito, alcuni piccoli doni, come belle ghirlande, un piatto
prelibato o vesti eleganti.
Sebbene durante il giorno tutti in città vestano di bianco, di Colore
notte e fuori città vestono abiti rossi, sia di lana che di seta; e dei vestiti
detestano il colore nero, come feccia delle cose: perciò odia-
no i Giapponesi, che prediligono quel colore.
Giudicano la superbia un vizio ignobile e ogni suo atto è Condanna
punito con il più duro disprezzo; perciò nessuno si sente smi- della superbia
nuito se serve in mensa o in cucina, o assiste i malati ecc. Ma
chiamano ogni incarico ‘disciplina’ e dicono che è altrettanto onorevo-
le per il piede camminare e per il sedere defecare, come per l’occhio
vedere e per la lingua parlare: anch’essi infatti – l’uno con le lacrime e
l’altra con la saliva – secernono delle escrezioni, quando è necessario.
Perciò ognuno esegue la propria mansione come cosa più che dignito-
sa, qualunque sia l’incarico assegnatogli.
Non tengono schiavi che corrompono i costumi: essi bastano Vantaggio
a se stessi ed avanzano. Non così noi, purtroppo: a Napoli abi- del lavoro
tano settantamila persone, ma neppure dieci o quindicimila la- comune
vorano; e questi sono affaticati da un lavoro soverchiante e inin-
terrotto, che li distrugge. Anche tutti gli altri, stando in ozio, si rovinano
56 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS

l’ozio, avarizia, lussuria e tur desidia, avaritia, aegritudine corporis,


usura, e molta gente guasta- lascivia, usura etc., plurimamque gentem
no, tenendol’in servitù e po- contaminant et pervertunt, detinendo illam
vertà, o facendoli partecipi di in ipsorum servitium, sub paupertate et
lor vizi, talché manca il servi- 5 adulatione, ac impartiendo propria illis vi-
zio publico, e non si può il tia: ergo deficit publicum servitium et utiles
campo, la milizia e l’arti fare, functiones. Campus, militia et artes non nisi
se non male e con stento. Ma prave coluntur et cum fastidio multo pauco-
tra loro, partendosi l’officî a rum. Ast in Civitate Solis, dum cunctis di-
tutti e l’arti e le fatiche, non 10 stribuuntur ministeria et artes et labores et
tocca faticar quattro ore il opera, vix quatuor in die horas singulis la-
giorno per uno; se ben tutto il borare contingit; reliquum licet tempus
resto è imparare giocando, di- consumatur in addiscendo iucunde, dispu-
sputando, legendo, insegnan- tando, legendo, narrando, scribendo,
do, caminando, e sempre con 15 deambulando, exercendo ingenium et cor-
gaudio. E non s’usa gioco che pus, et cum gaudio. Nec permittitur ludus
si faccia sedendo, né scacchi, illis, qui fit sedendo, neque talorum, neque
né dadi, né carte o simili, ma alearum, neque scacchorum aut similium
ben la palla, ballone, rollo, etc. Ludunt pila, folliculo, trocho, lucta, ia-
lotta, tirar palo, dardo ed ar- 20 culatione pali, sagittae, archibugio etc.
chibugio. |12v> Asserunt insuper paupertatem asperam
Dicono ancora che la po- efficere homines viles, astutos, dolosos, fu-
vertà grande fa l’uomini vili, res, insidiosos, exules, mendaces, testes fal-
astuti, ladri, insidiosi, fora- sos etc.; divitias vero insolentes, superbos,
sciti, menzognari, testimoni 25 ignorantes, proditores, praesumentes quod
falsi ecc.; e le ricchezze inso- nesciunt, fallaces, iactabundos, sine affec-
lenti, superbi, ignoranti, tra- tione, contumeliosos etc. At communitatem
ditori, disamorati, presumito- efficere omnes simul divites ac pauperes: di-
ri di quel che non sanno ecc. vites quia omnia habent, pauperes quoniam
Però la comunità tutti li fa 30 nihil possident; ac simul rebus non serviunt
ricchi e poveri: ricchi, ch’ogni sed res ipsis, et in hoc valde laudant religio-
cos’hanno e possedeno; pove- sos christianitatis, maxime autem vitam
ri, perché non s’attaccano a Apostolorum.
servire in ogni cosa, se bene HOSP. - Hoc pulchrum sanc- De mulierum
ogni cosa serv’a loro. E molto 35 tumque videtur, at communitas communitate
laudano in questo le religioni mulierum ardua nimis. Sanctus disputatio
della cristianità e la vita del- Clemens Romanus dicit et co-
l’Apostoli. niuges iuxta institutum apostolicum com-
OSP. - Bella e santa cosa mi munes esse debere, et laudat Platonem ac
par questa, ma quella delle 40 Socratem ita docentes, sed glossa* intelligit
donne comuni par ardua. S.
Clemente Romano dice che le
donne pur siano comuni, ma * Causa 12, quaest. 1 De Communi vita, comma
la glosa intende quanto all’os- II: ‘Dilectissimis...’.
LA CITTÀ DEL SOLE 57

nella cupidigia, nella mollezza, nella lascivia, nell’usura ecc.; e infettano


e corrompono parecchia gente, tenendola in servitù, in povertà e sotto-
missione, contagiandola dei loro vizi, a detrimento delle attività e fun-
zioni pubbliche: i campi, la milizia, le arti sono coltivate male e con mol-
ta riluttanza da parte dei pochi che vi si dedicano. Invece nella Città del
Sole, essendo mansioni, arti, mestieri e servizi suddivisi fra tutti, ognuno
non lavora neanche quattr’ore al giorno; il resto del tempo lo si impie-
ga studiando con passione, discutendo, leggendo, narrando, scrivendo,
passeggiando, esercitando la mente e il corpo, e sempre gioiosamente.
Non sono leciti i giochi sedentari: astragali, dadi, bussolotti, scacchi e si-
mili. Giocano invece alla palla, al pallone, alla trottola1, alla lotta, al lan-
cio del giavellotto, al tiro con l’arco, con l’archibugio ecc.
Affermano inoltre che la miseria rende gli uomini vili, furbi, fraudo-
lenti, ladri, insidiosi, banditi, bugiardi, falsi testimoni ecc.; la ricchezza,
di converso, li rende insolenti, superbi, ignoranti, traditori, millantato-
ri, ipocriti, boriosi, aridi, ingiuriosi ecc. Invece la comunione dei beni li
rende tutti contemporaneamente ricchi e poveri: ricchi perché hanno
tutto, poveri perché non possiedono nulla; e quindi non sono loro a
servire le cose, ma sono le cose a servire loro, e per questo riguardo ap-
prezzano molto i religiosi della cristianità, e in particolare il modo di vi-
vere degli Apostoli.
OSP. - Ciò sembra bello e venerabile, ma la comunanza Polemica
delle donne è cosa difficile da accettare. San Clemente Ro- circa la messa
mano dice che anche le mogli devono esser in comune, se- in comune
delle donne
condo l’insegnamento apostolico, e loda pareri analoghi di
Socrate e Platone. Ma la glossa* interpreta che tale comunanza ri-

* Decretum Gratiani, Causa XII, q. 1, Comma II: «Dilectissimis...», incipit del De com-
muni vita di S. Clemente.

1
Gli astragali sono dadi a quattro facce ricavati originariamente dall’omonimo osso del pie-
de del montone; se ne lanciavano quattro contemporaneamente e vinceva chi totalizzava il
punteggio più alto. La trottola è una specie di cono di legno con intorno avvolto un filo che
si tira violentemente per farlo girare il più a lungo possibile; essa sostituisce il «rollo» di
T.56.19, gioco questo di gran lunga più movimentato, perché si trattava di far rotolare a lun-
go un disco di legno (secondo Bobbio e Firpo; secondo il GDLI, che cita il passo di Città, si
tratta del gioco dei birilli). Presumo che la sostituzione sia stata dettata dalla maggior diffu-
sione della prima e dalla mancanza di un lemma latino corrispondente per il secondo (v. n.
compl.).
58 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS

sequio non al letto, e Tertulia- hanc communitatem quoad obsequium


no consente alla glosa. non quoad thorum. Ac Tertulianus consen-
GEN. - Io non so di questo; tit glossae, priscos Christianos omnia com-
so ben ch’ess’hanno l’ossequio munia habuisse praeter uxores, quae tamen
delle donne e insieme il letto, 5 et in obsequio communes fuerunt.
ma non sempre, se non per ge- GEN. - Isthaec ipse vix novi. Hoc vidi Sola-
nerare. Credo che si possano ribus communes esse mulieres obsequio et
ingannar ancora; ma essi si thoro, sed non semper, neque more bellua-
difendeno con Socrate, Cato- rum quamcunque oblatam foeminam suba-
ne, Platone ed altri. Potria 10 gitantium, sed nisi gratia et ordine genera-
tionis, ut dictum est. Credo tamen hos deci-
pi posse in hoc. At ipsi tuentur se iudicio So-
cratis, Catonis et Platonis et S. Clementis,
LA CITTÀ DEL SOLE 59

guarda l’ossequio, non il letto1. E Tertulliano concorda con la glossa, di-


cendo che i primi cristiani avevano tutto in comune tranne le mogli, le
quali, però, furono condivise anche nell’ossequio2.
GEN. - M’intendo poco di queste cose. Ciò che ho visto è che i Solari
avevano in comune le donne, nell’ossequio e nel letto; però non sem-
pre né come fanno gli animali che si accoppiano con qualunque fem-
mina si offra, ma solo in vista e in funzione della generazione, come già
detto3. Può darsi che in questo si sbaglino. Ma essi si appoggiano sul-
l’autorità di Socrate, Catone, Platone4 e di S. Clemente, travisato però,

1
At. 2,44: «Tutti i credenti stavano insieme e avevano tutto in comune» (e così anche 4,32).
Dopo la resurrezione, Cristo riapparve trasfigurato agli Apostoli, i quali «videro il regno
quando fu fondata sopra di essi la Chiesa con ogni spirituale felicità possibile in terra... dove
aspiriamo a una comunanza di vita [=communitatem vitae] quale conviene allo stato di in-
nocenza e al secolo aureo» (Theol. XXV, p. 51); anzi uno degli evangelisti, Marco, a sentire Fi-
lone, fondò una «republica mirifica» ad Alessandria (Quod rem. 3, p. 117; Quaest. pol. III,
p.102). «S. Clemente nel citato canone afferma: “le mogli secondo la dottrina degli Apostoli
devono essere comuni”. Ma siccome questo [principio] urta l’onestà dei cristiani, si deve ac-
cettare la glossa ivi apposta: “Per quanto concerne il servizio [= obsequium] non il letto”; a
conferma di ciò Tertulliano attesta che così sono vissuti i primi cristiani, cioè avevano tutto in
comune (salvo le donne per quanto riguarda il letto); è evidente infatti che possono svolge-
re [=ministrare] tutti i compiti... Sostengo la comunanza nelle funzioni [=functionibus], sal-
vo il governo politico... La nostra Città è totalmente coerente al modello apostolico, se sosti-
tuisci alla comunanza sessuale la comunanza obsequiorum muliebrium» (Quaest. pol. IV III,
pp. 108 e 112; tr. Ernst, p. 173: «la comunità delle donne quanto all’ossequio»). La frase di S.
Clemente, che però si riferiva ai pitagorici (tra amici «in omnibus autem sunt sine dubio et
coniuges» [v. nn.25.1 e 56.43-4]), è così glossata (da Bartolomeo da Brescia [Ernst 1997a, p.
25]): «E le mogli, non carnalmente, ma nel servizio [= ad usum obsequii] o nel diletto». ‘Ob-
sequium’ è il ‘servizio’ o ‘dovere’ (e, al limite, ‘culto’) fra persone aventi un rapporto non pa-
ritario; ma la disparità fra chi serve e chi è servito è qui molto sfumata, per evidenziare la po-
tenziale partecipazione delle donne a (quasi) tutte le funzioni sociali della ‘communitas’ (v.
n. compl.).
2
Apolog. XXXIX (PL I, 535): «da noi tutto è indiviso salvo le mogli», disprezzando (appellando-
li «lenones») invece proprio i poco oltre citati «Socrate per i Greci e Catone per i Romani, i qua-
li cedettero agli amici le mogli che avevano sposato»; anche nell’Epitome XXXIII (XXXVIII), 1-5,
Tertulliano si scaglia contro l’assunto della Repubblica platonica che «tutto fosse comune a
tutti», replicando le motivazioni probabilmente di Cicerone, De rep. IV, 5.
3
A 42.4 sg., per la coppia di ‘generatori’ programmati dallo stato (50.7 e 24 sg.; v. n. compl.).
4
Quaest. pol. IV III, p. 112: «Ortensio o Catone, uomo molto saggio e dotto, concesse sua mo-
glie a Bruto, per aver un figlio da lei, quasi che quell’inflessibile stoico giudicasse in base alla
[sola legge di] natura che ciò avvenisse per carità naturale» – dove C. stravolge un aneddoto
plutarchiano sulla vita di Catone uticense: Q. Ortensio chiede a Catone di concedergli la fi-
glia Porcia, già maritata a un altro; ma Catone risponde che non può disporre di chi non ap-
partiene più «sua potestate»; allora Ortensio gli chiede sua moglie, Marcia, e Catone a quel
punto dovette concedergliela. Per quanto riguarda Platone, si riferisce alle teorie espresse in
Resp. (segnatamente 457c-d); e per Socrate, all’episodio narrato da Diogene (II, 5, 26), se-
condo cui gli toccarono due mogli, quando per crisi demografica Atene aveva provvisoria-
mente permesso la bigamia (Gellio, XV, 20).
60 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS

stare che lassassero questo uso sed, ut dicis, male intellecti. Aiunt* S. Augu-
un giorno, perché nelle città stinum communitatem approbare magis,
soggette a loro non accomu- sed non foeminarum, quia est haeresis Ni-
nano se non le robbe, e le don- colaitarum, in thoro; ecclesiam autem no-
ne quanto all’ossequio e al- 5 stram permisisse, ut maius malum vitaret et
l’arti, ma non al letto; e que- non ut maius bonum introduceret, proprie-
sto l’ascriveno all’imperfezio- tatem bonorum. Fieri posset ut quandoque
ne di quelle che non hanno hunc morem deponerent: nam in civitati-
|13r> filosofato. Però vanno bus subditis non sunt communia nisi bona
spiando di tutte le nazioni 10 alia, mulieres vero minime, nisi quoad obse-
l’usanze, e sempre migliora- quium et artes. At Solares id adscribunt im-
no. perfectioni aliorum, quia philosophati mi-
nime fuerint. Nihilominus** mittunt ad ex-
plorandum mores nationum et meliores
15 semper amplectuntur.
Consuetudo quidem aptas bello mulieres
facit et aliis usibus. Itaque Platoni consen-

* Vide super hoc Quaestionem quartam et in li-


bro De Monarchia Messiae, contra Sotum, pu-
20 tantem haeresim esse communitatem, cum
potius contrarium sit haeresis ex S. Thoma,
Augustino et Concilio Constantiae male intel-
lectis ab eo. Vide etiam Antimachiavellismum,
ubi ista quaestio etiam tractatur.
25 ** Vigor Evangelii non potest totus naturaliter
nosci.
LA CITTÀ DEL SOLE 61

a quanto dici. Sostengono* che S. Agostino propenderebbe piuttosto


verso la comunanza, ma non quella carnale delle donne essendo que-
sta un’eresia nicolaita1; e che la nostra Chiesa ha permesso la proprietà
privata, per evitare un male peggiore e non per introdurre un bene mi-
gliore. I Solari un giorno potrebbero anche abbandonare questo co-
stume: infatti nelle città assoggettate sono comuni soltanto i beni, men-
tre le donne si prestano per la collettività solo nei servizi e nelle arti.
Essi però l’attribuiscono all’immaturità delle altre genti, perché sono
scarsamente imbevute di filosofia. Nondimeno** inviano osservatori a
studiare i costumi delle altre nazioni e assimilano sempre quelli che
giudicano migliori.
L’addestramento, certo, rende le donne atte alla guerra e ad altre
mansioni. Pertanto dopo aver conosciuto quelle donne, io concordo in

* Per questo problema confronta la Questione quarta e De Monarchia Messiae contro


Soto2, che ritiene esser eresia la comunanza, quando è vero piuttosto il contrario,
secondo S. Tommaso, S. Agostino e il Concilio di Costanza, travisati da Soto. Con-
sulta anche l’Antimachiavellismo, dove pure è trattato questo argomento3.
** Non si può afferrare tutto lo spirito del Vangelo con le sole risorse naturali.

1
«L’eresia dei Nicolaiti consistette in questo: ognuno poteva unirsi come e con chi gli pare-
va; ma ciò è contrario al diritto naturale, e guasta la generazione» (Quaest. pol. IV III, p. 112;
Theol. XXV, p. 93; v. n. compl.).
2
Domingo de Soto, domenicano e teologo-giurista a Salamanca nel XVI sec., in De iustitia et iu-
re IV III I, p. 304, sostiene che ‘Haeresis est negare rerum divisionem’ rinviando ai passi aristo-
telici, all’agostiniano De haeres., 40 [PL XLII, 32] e alla condanna di Hus da parte del Concilio
di Costanza (v. n. 154.13), per confutare la naturalità della comunanza dei beni, facendo risa-
lire la nascita della proprietà privata all’origine del creato quando Adamo divise il mondo ai
suoi successori. In un’altra opera (Comment. in IV Sentent., dist. 26, q. 1, art. 1 ‘Utrum matri-
monium sit hominibus naturale’ [II, 82-5]) combatte la promiscuità della ‘republica socrati-
ca’, che «merito Aristotelem multis nominibus repudiasse» (v. n.compl. e n. 60.4-6).
3
Originariamente scritto in italiano (1607), e intitolato Riconoscimento della vera religione
(Schoppe, p. 25; Lettere, p. 192: «Recognitio verae religionis contra l’anticristianismo, praecipue mac-
chiavellistico»), il volume fu dedicato e inviato a Schoppe, che lo reintitolò Atheismus
triumphatus, «titolo che piacque a C. e fu conservato in fronte all’opera» (Firpo 1940, p. 101)
pubblicata in latino prima a Roma nel 1631, e poi, revisionata, a Parigi, nel 1636; opera che
l’Au. chiama anche, a volte (es. Poët. VI III [SL, p. 1024]) Antachitofellismus (sintesi del finale di ti-
tolo latino: ‘contra antichristianismum Achitophellisticum’), a volte (es. Aforismi, p. 152) Anti-
machiavellismo (sintesi dell’italiano ‘contro l’anticristianesimo machiavellistico’). In questo libro
Machiavelli è accusato dei guasti prodotti nella politica e nella religione cristiana, avendo basato
«la ragion di stato sull’amor parziale» (Lettere, p. 26), cioè l’egoismo, e, con la mortalità dell’ani-
ma e l’eternità del mondo, ha ridotto la religione a mero ‘instrumentum regni’. Il passo cui qui
si allude è in Atheismus X XIII, p. 117, replicante la spiegazione pseudotomista dell’avversione
agostiniana agli ‘apostolici’: ‘mio’ e ‘tuo’ sono la radice di ogni male; la divisione dei beni è il
male minore a cui si è dovuto ricorrere; ma certo Agostino non condanna «qui se dicebant Apo-
stolicos propter communitatem bonorum (hoc enim haereticum est assistere)», ma «propter
communitatem mulierum» (v. n. compl.).
62 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS

Di più questo è bello, che tio, ex quo istas vidi, et rationes Caietae*
fra loro non c’è difetto che fac- nostri non satis approbo, minime vero ari-
cia l’uomo ozioso, se non l’età stotelicas.
decrepita, quando serve solo Hoc egregium est illis, imitatione di-
per conseglio. Ma chi è zoppo 5 gnum, quod nullus defectus ociosos reddit
serve alle sentinelle con l’oc- homines, excepta decrepita aetate, quando
chi; chi non ha occhi serve a etiam adconsulendum adhibentur. At qui
cardare la lana e levar il pelo claudus est, servit in excubiis speculans ocu-
dalli nervi delle penne per li lis, quos habet; qui caecus est, carminat ma-
matarazzi; chi non ha mani, 10 nibus lanam, exspoliando plumas pilis qui-
ad altro esercizio; e s’un mem- bus replentur anaclinteria et pulvinaria; qui
bro solo ha, con quello serve; caret oculis et manibus, usum aurium reipu-
ma questi stanno (se non so- blicae commodat vel vocis etc.; et tandem si
no illustrissimi della Città) unum modo membrum habet, cum illo ser-
nelle ville, e sono governati 15 vit vel in villis, et bene tractantur et sunt ex-
bene, e son spie ch’avisano al- ploratores rempublicam admonentes quae-
la republica ogni cosa. cunque audierint.
OSP. - Dimmi ti prego per HOSP. - Dic, quaeso, nunc rem belli- De re
ora della guerra; ché poi del- cam; deinde enim artes et victum dices bellica
l’arti e vitto mi dirai, poi delle 20 et scientias et postremo ipsorum reli-
scienze, e al fine della religione. gionem. |156>
GEN. - Il Podestà tiene sot- GEN. - Potestas triumvir sub se habet ma-
to di sé un officiale dell’armi, gistrum armorum, magistrum artilleriae et
dell’artelleria, un delli cava- equitum et peditum et architectorum et
lieri, un dell’ingegnieri; ed 25 stratagematum etc., et horum cuilibet pa-
ognun di questi ha sotto di sé rent magistri et artifices primarii multi eiu-
molti maestri di quell’arte. sdem artis. Insuper athletis praeest, qui mi-
Ma di più ci sono l’Atleti, litare exercitium docent omnes; et hi, pro-
ch’a tutti insegnano l’eserci- vecti aetate, prudentes duces sunt, a quibus
zio della guerra. Questi sono 30 exercentur pueri post duodecimum an-
attempati, prudenti capitani, num, quamvis ante assueti sint luctae, cur-
ch’esercitano li giovani di do- sui, iaculationi lapidum etc. sub magistris
dici anni in suso all’armi; inferioribus. Nunc autem docentur ferire
benché prima nella lotta e cor- hostem et equos et elephantos, tractare en-
rere e tirar pietre erano avezzi 35 sem, lanceam, sagittas, fundas, equitare,
da mastri inferiori. Or questi persequi, fugere, manere in ordine militiae,
l’insegnano a |13v> ferire, a adiuvare commilitonem, arte praevenire
guadagnar l’inimico con ar- hostem ac vincere. Mulieres quoque has do-
te, a giocar di spada, a saet- centur artes sub magistris et magistrabus
tare di lancia, a cavalcare, a 40
sequire, a fuggire, a star nel-
l’ordine militare. E le donne
imparan’anch’esse quest’arti
sotto maestre e mastri loro, * Caieta Consentinus in dialogo De pulchro.
LA CITTÀ DEL SOLE 63

pieno con Platone, e, per contro, dissento del tutto dal nostro Gaeta*, e
ancor più, invero, da Aristotele.
Quel che è veramente apprezzabile nei Solari, e degno d’imitazione,
è che nessun difetto fisico è un pretesto valido all’inattività, tranne l’età
molto avanzata – i vegliardi però si prestano ancora a dare consigli. Ma
chi è zoppo è utilizzato nei servizi di sorveglianza, potendo usare gli oc-
chi di cui è dotato; chi invece è cieco, con le mani carda la lana o spiu-
ma le penne con cui s’imbottiscono materassi e cuscini; chi è privo di
occhi e mani serve lo stato con le orecchie o la voce ecc., e se ha anche
soltanto un arto, con quello serve, ad esempio in campagna; e vengono
trattati bene; e sono anche spie che riferiscono allo stato quel che han-
no ascoltato.
OSP. - Parlami adesso, per favore, dell’organizzazione militare; L’arte
poi delle arti, del vitto, delle scienze e in ultimo della loro religione. militare
GEN. - Il triumviro Potestà ha sotto di sé il maestro d’armi, quello
dell’artiglieria, della cavalleria, della fanteria, del genio, della tattica
ecc.; e a ciascuno di essi obbediscono molti mastri e ufficiali della stessa
specializzazione. Inoltre egli è a capo degli atleti, i quali insegnano a
tutti le esercitazioni militari; e questi, in età avanzata, diventano i capi
avveduti sotto cui si esercitano gli adolescenti dai dodici anni in poi; pri-
ma di quell’età, comunque, i fanciulli erano già stati allenati alla lotta,
alla corsa, a lanciar pietre ecc. dai maestri inferiori. Ma adesso devono
imparare a colpire l’avversario, i cavalli, gli elefanti1, a maneggiare la
spada, la lancia, l’arco, la fionda, a cavalcare, inseguire, ripiegare, stare
inquadrati, soccorrere il compagno, superare il nemico in abilità e
sconfiggerlo. Anche le donne imparano queste arti sotto la guida di lo-

* Gaeta di Cosenza nel dialogo De pulchro2.

1
Da ultimo Botero, II II II parla della loro presenza a Ceylon (anche se probabilmente più
che geografica, sarà una reminiscenza storica – Pirro, Annibale...).
2
Nato da famiglia patrizia, Giacomo Di Gaeta o Jacopo da Gaeta «è dottor di legge, ma è
molto intendente delle lingue [greca e latina], et della poesia, et della philosophia telesiana»
scrive di lui G. G. de Rossi nella Tavola degli autori delle Rime per la Castriota (Vico Equense,
1585, cit. in: Bolzoni 1977, p. 236). Il dissenso, come chiarisce in Quaest. pol. IV (v. n. 62.1-3),
riguarda l’attitudine muliebre alla guerra, negato dal Cosentino nel Ragionamento, p. 71-5,
dove dice che Platone era «fuorviato dalle favole sulle Amazzoni» (Ernst 1996, p. 149), men-
tre il taglio della mammella da loro praticato era la miglior prova della inidoneità a dare la
morte da parte di chi la natura aveva destinato a generare la vita (le Amazzoni antiche sono
ammirate a 64.5, le moderne sono deprecate a 150.12: v. n. 152.12-4; per il Gaeta v. n.
compl.).
64 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS

per quando fusse bisogno propriis, ut possint, si quando opus foret,


aiutar l’uomini nelle guerre opem ferre masculis in bello propinquo ci-
vicine alla città; e, se venisse vitatis etc., ac moenia tueri, si quando inva-
assalto straniero, difender le sio impetuosa repente inundaret: et Lace-
mura. Onde ben sanno spa- 5 daemonas et Amazonas hic laudant. Quare
rar l’archibugio, far balle, bene norunt pilas ignitas archibugio iacula-
gittar pietre e andar incontro. ri, illas ex plumbo formare, iacere lapides
E si sforzano torre da loro ex pinnis, obviam impetui ire.
ogni timore, ed hanno gran Ac penitus adsuescunt omnem abiicere
pene quelle che mostrano co- 10 metum, et quidem magna puniuntur poena
dardia. Non temeno la morte, qui timiditatem ostenderint. Mortem nil ti-
perché tutti credono l’immor- ment, quoniam omnes credunt immortali-
talità dell’anima, e che, mo- tatem animorum ac de corporibus exeuntes
rendo, s’accompagnano con associari spiritibus probis aut pravis iuxta
li spirti buoni o rei, secondo li 15 merita praesentis vitae. Quamvis ipsi sint
meriti. Benché essi siano Bragmani ex parte Pythagorici, transmigra-
Bragmani Pitagorici, non tionem animarum non asserunt nisi ex ali-
credeno trasmigrazione d’ani- quo interdum iudicio Dei; nec abstinent a
ma, se non per qualche giudi- laedendo hostem reipublicae et religionis,
zio di Dio. Né s’astengono di 20 humanitate indignum.
ferire il nemico ribello, nemico Secundo quoque mense exercitum lu-
della ragione, che non merita strant; et quotidianum est armorum exerci-
esser uomo. Fanno la mostra tium aut in campo equitando aut intra moe-
ogni duoi mesi, e ogni giorno nia. Nec deest lectio de arte militari un-
c’è l’esercizio dell’armi, o in 25 quam: curant legendas historias Moysi, Io-
campagna, cavalcando, o sue, David, Machabeorum, Caesaris,
dentro, e una lezione d’arte Alexandri, Scipionis, Hannibalis etc. Ac
militare, e fanno sempre leg- deinde sententiam singuli dicunt propriam:
gere l’istorie di Cesare, d’Ale- “hic bene fecerunt, hic male, hic utiliter, hic
sandro, di Scipione e d’Anni- 30 honeste”, et deinde respondet praeceptor
bale, e poi donano il giudizio et decernit.
loro quasi tutti, dicendo: HOSP. - Quibuscum bella ge- De modo
«Qui fecero bene, qui male»; e runt et quas ob causas, cum sint belligerandi
poi risponde |14r> il mastro e ita foelices?
determina. 35 GEN. - Etsi nunquam bella continge-
OSP. - Con chi fan le guer- rent, nihilominus in arte militari exercen-
re e per che causa, se sono tur et in venatione ne forte mollescant, at-
tanto felici? que omnem in eventum ne sint imparati.
GEN. - Vi sono quattro Praeterea quatuor sunt regna in insula,
Reggi nell’isola, li quali han 40 quae ipsorum foelicitati invident valde, eo
grand’invidia della felicità quod populi cuperent vivere more horum
loro, perché li popoli desidera- Solarium ac potius his subesse quam pro-
no vivere come questi Solari, e
vorriano star più soggetti ad
LA CITTÀ DEL SOLE 65

ro maestri e maestre, affinché, se la situazione lo richiede, siano in gra-


do di prestar aiuto ai soldati in un combattimento non lontano dalla
città ecc. e di difendere le mura nel caso di un repentino e massiccio at-
tacco: e a tal riguardo ammirano molto le Spartane e le Amazzoni. Sono
quindi addestrate a sparare proiettili infuocati con l’archibugio, fonde-
re il piombo per le munizioni, scagliar pietre dai merli, tener testa agli
assalti.
Ed è in loro intimamente inculcato lo sprezzo del pericolo, e chi mo-
stra paura è punito duramente. Non temono affatto la morte, poiché
credono nell’immortalità dell’anima che uscendo dal corpo raggiun-
gerà gli spiriti buoni o cattivi secondo i meriti conseguiti nella vita ter-
rena. Benché essi siano Bramini pitagorizzanti, non credono alla tra-
smigrazione delle anime, se non eccezionalmente per una decisione di-
vina; e non desistono dal colpire il nemico dello stato e della religione,
indegno di esser trattato da uomo.
Ogni due mesi passano in rivista le truppe, mentre ogni giorno si
esercitano nelle armi, o cavalcando in campo aperto, o all’interno delle
mura. Non mancano mai lezioni di arte militare: fanno leggere le storie
di Mosè, Giosuè, Davide, dei Maccabei, di Cesare, Alessandro, Scipione,
Annibale ecc.; poi ognuno esprime il suo parere: ‘qui fecero bene, lì
male, qui convenientemente, lì onorevolmente’, e alla fine il precettore
dà la sua risposta risolutiva.
OSP. - Ma a chi fanno guerra e per quali ragioni, se sono co- Il modo di
sì felici? guerreggiare
GEN. - Quand’anche non dovesse mai scoppiare una guer-
ra, nondimeno si esercitano nell’arte militare e nella caccia, per non in-
fiacchire troppo, e per non trovarsi impreparati di fronte a qualsiasi
evenienza.
D’altronde in quell’isola vi sono quattro reami, molto invidiosi della
loro felicità, per il fatto che i loro popoli vorrebbero vivere come i Sola-
ri e piuttosto sottostare a costoro che ai propri sovrani, i quali, perciò,
66 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS

essi, che non a’ propri Reggi. priis regibus: quapropter saepe bellum in
Onde spesso lor’è mossa guer- hos movetur, causando quod confines usur-
ra, sotto color d’usurpar con- parint et impie vivant, propterea quod non
fini e di viver empiamente, habeant idola, nec sectentur superstitiones
perché non segueno le super- 5 Gentilium aliorum, nec Bragmanorum pri-
stizioni de Gentili, né dell’al- scorum. Et tanquam in rebelles insurgunt
tri Bragmani; e spesso li fan alii Indi, quibus prius subditi erant, et Ta-
guerra, come rubelli che pri- probanenses, quibus primo indiguerunt;
ma erano soggetti. E con tutto nihilominus victores sunt semper Solares.
questo perdeno sempre. Or es- 10 Porro hi, cum primum patiuntur insultum
si Solari, subito che patiscono aut dedecus aut praedam vel ipsorum amici
preda, insulto o altro disono- vexantur aut ab aliis civitatibus tyrannide
re, o son travagliati gl’amici oppressis tanquam liberatores advocantur,
loro, o pur son chiamati d’al- repente in Concilium eunt consultum. Ubi
cune città tiranneggiate come 15 primo coram Deo genuflectunt, ut inspiret
liberatori, essi si metteno a consilium optimum. Deinde examinantur
consiglio, e prima s’ingenoc- merita negotiorum et sic indicitur bellum.
chiano a Dio e pregano che li Mittitur statim sacerdos, quem vocant Fo-
faccia consigliarsi bene, poi rensem. Hic petit ab hostibus praedae resti-
s’esamina il merito del nego- 20 tutionem aut ut solvant oppressione suos
zio, e cossì se bandisce la amicos aut deponant tyrannidem: quibus
guerra. Mandano un sacer- negantibus indicit bellum invocando Deum
dote detto Forense: e’ diman- ultionum, Deum Sabaoth, in exitium eo-
da a’ nemici che rendan’il rum qui iniquam tuentur causam. Si vero
tolto o lascino la tirannia; e 25 detrectant respondere hostes, sacerdos dat
se quelli negano, li bandisco- illi terminum respondendi horam unam, si
no la guerra, chiamando Dio rex est, tres vero, si respublica, ne illudere
delle vendette in testimonio queant. Ac ita suscipitur bellum contra con-
contro di chi ha il torto; e se tumaces iuris naturalis et religionis. Indicto
quelli prolungano il negozio, 30 bello, omnia exequitur Vicarius Potestatis.
non li danno tempo, s’è re, Potestas autem, quasi dictator Romanus,
più d’un’ |14v>ora, e s’è re- omnia proprio agit consilio et voluntate, ut
publica, tre ore a deliberar la tarditas noxia vitetur. At cum res magni mo-
resposta, per non esser burla- menti fuerit, consulit Hoh et Sapientiam et
ti; e così si piglia la guerra se 35 Amorem. Sed ante in Concilio magno pro-
quelli son contumaci alla ra-
gione. Dopo ch’è pigliata,
ogni cosa esequisce il locote-
nente del Podestà; ed esso co-
manda senza consiglio d’al- 40
tri; ma s’è cosa di momento,
domanda il Amore e ‘l Sa-
pienza e il Sole. Si propone in
Consiglio grande, dov’entra
LA CITTÀ DEL SOLE 67

spesso muovono guerra contro di loro, con il pretesto che hanno scon-
finato o che vivono empiamente – perché i Solari non hanno idoli, né
seguono le superstizioni di altri pagani o degli antichi Bramini. Inoltre,
trattandoli da ribelli, guerreggiano contro di loro sia altri Indiani, di cui
prima erano stati sudditi, sia gli stessi Taprobanesi, al cui aiuto inizial-
mente avevano fatto ricorso; eppure i Solari ne escono sempre vincitori.
Essi, appena subìta una provocazione, un affronto, una razzia, o se i
loro alleati sono attaccati, o appena sono chiamati da altre città per li-
berarle dalla tirannide da cui sono oppresse, immediatamente si riuni-
scono in Consiglio. Lì, per prima cosa s’inginocchiano davanti a Dio, af-
finché ispiri loro la decisione migliore. Quindi si entra nel merito delle
questioni e si aprono le ostilità in questo modo: anzitutto si manda un
sacerdote chiamato Forense1; questi richiede ai nemici la restituzione
del bottino razziato, o la cessazione delle persecuzioni contro i loro al-
leati, o l’abbattimento del regime tirannico; se rifiutano, egli dichiara
guerra, invocando il Dio delle vendette, il Dio degli eserciti, a sterminio
di chi parteggia per l’ingiustizia. Se poi i nemici tergiversano, il sacer-
dote esige la risposta entro un’ora, se è un regno (tre, se repubblica)2,
affinché non s’illudano di poterli raggirare. E così si fa la guerra a chi si
pone fuori del diritto naturale e della religione. Dichiarata la guerra, la
conduzione passa al Vicario di Potestà. Il Potestà invece, analogamente
al dittatore per i Romani, decide tutto autonomamente, onde evitare ri-
tardi fatali. Se però si tratta di una questione particolarmente grave,
consulta Hoh, Sapienza e Amore. Ma dapprima al Gran Consiglio, dove

1
È l’equivalente di ‘Feziale’ o ‘Feciale’, uno dei venti membri di un collegio di sacerdoti ro-
mani cui era affidata la difesa del diritto internazionale (cit. in Mon. Messiae XVII, p. 81 e Di-
sc. univ. XII, p. 1144: «l’abbia [=la guerra] a dechiarar giusta, come usavano i Romani con
consenso de’ sacerdoti», e «s’il feciale non bandia la guerra, non l’imprendeano, come fu a
tempo di Coriolano» [Avvertimenti, p. 454]); i quali sacerdoti con determinate cerimonie
consacravano trattati di pace, alleanze, impedivano le guerre ‘empie’, o viceversa chiedevano
soddisfazione agli stati che avevano rotto i patti, offeso o danneggiato i Romani, e quando
questa veniva negata, aprivano le ostilità (Varrone; Cicerone, De rep. 3,22 e De leg. 2,21; Livio,
1,24,3sg; Gellio, XVI, 4).
2
«Nota che tutte le repubbliche sono tarde in deliberare, per gli molti consigli» (‘A Venezia’
[Poesie, 38, Esp. 13]).
68 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS

tutto il popolo di 20 anni in ponitur a Praedicatore belligerandi occasio


su, e le donne ancora, e si di- et iustitia expeditionis faciendae, et intrant
chiara la giustizia dell’impre- omnes in Concilium a viginti annis et supra,
sa dal Predicatore, e metteno ac ita ordinantur necessaria.
in ordine ogni cosa. 5 Scire liceat, apud ipsos omnia armorum
Devesi sapere ch’ess’han genera in armamentariis adservari, quibus
tutte sorti d’armi apparec- saepe utuntur ad experimentum in praeliis
chiate nell’armari, e spesso si fictis. Singulorum circorum parietes exte-
provano quelle in guerre fin- riores pleni sunt bombardis et ministris
te. Hanno per tutti li gironi, 10 ipsarum paratis; habent et alia huiusmodi
nell’esterior muro, l’artellerie tormenta bellica, quae cannones vocantur,
e l’archebugi preparati e molti quae ferunt in praelium super currubus.
altri cannoni di campagna Munitiones vero alias et commeatus super
che portano in guerra, e cossì mulis et asinis et carrucis; et sic, ubi fue-
sopra le carra le conducono, e 15 |157>rint in aperto campo, intercludunt in
l’altra munizione nelli muli, medio commeatus et tormenta et currus et
e bagaglie. E se sono in cam- scalas et machinas, et simul diu animose
po aperto, serrano le bagaglie praeliantur. Mox pedem referunt sub vexil-
in mezo e l’artegliarie, com- lis quisque suis; hostes vero decipiuntur, pu-
batteno gran pezzo, e poi fan- 20 tantes eos loco cedere aut parare fugam; er-
no la ritirata. Ed il nemico, go insectantur; at Solares in cornua et agmi-
credendo che cedeno, s’ingan- na utrinque divisi resumunt halitum et vi-
na; perch’essi fanno ala e pi- res, iubentque artilleriam pilas iaculari igni-
gliano fiato e lasciano l’arte- tas, ac deinde revertuntur ad pugnam con-
gliaria sparare, e poi tornano 25 tra perturbatos hostes. Et multa huiusmodi
|15r> alla zuffa contro nemi- observant. Stratagematis et machinis cunc-
ci scompigliati. Usano fare li tos superant mortales; castrametantur more
padiglioni alla romana con Romano; tentoria figunt muniuntque vallo
steccati e foss’intorno con et fossa celeritate mirifica. Adsunt magistri
gran prestezza. Ci sono li ma- 30 operum et machinarum et tormentorum; li-
stri di bagaglie, d’artegliarie gone et securi milites cuncti uti norunt. Ha-
e dell’opere. Tutt’i soldati bent et duces quinque aut octo aut decem
sanno maneggiare la zappa e consulentes in negotio bellico, ordinem et
la scure. Vi son cinque, otto o stratagemata docti, imperantes suis agmini-
dieci capitani di consiglio di 35 bus prout ante consuluissent. Solent et con-
guerra e di stratagemme, che ducere agmen puerorum armatorum in
comandano alle squadre loro equis, ut bellum discant ac assuescant quasi
secondo insieme si consiglia- catuli luporum et leonum in sanguine; qui
no. Sogliono portar seco una periculi tempore in tutum se recipiunt et
squadra di fanciulli a caval- 40 mulieres multae armatae cum eis. Ac post
lo per imparar la guerra, e in-
carnarsi, come lupaccini, al
sangue; e ne pericoli si ritira-
no, e molte donne con loro. E
LA CITTÀ DEL SOLE 69

accedono tutti i cittadini che abbiano compiuto vent’anni, il Predicato-


re espone il motivo dell’entrata in guerra e la giustizia della causa, e co-
sì si predispone quanto necessita.
Bisogna sapere che essi hanno negli arsenali ogni genere di arma-
menti, di cui spesso si servono in combattimenti simulati. Le mura
esterne di ogni girone sono piene di bombarde con i serventi pronti ai
pezzi; hanno anche altre macchine da guerra, chiamate cannoni, che
portano in battaglia sopra i carri. Munizioni e vettovaglie sono traspor-
tate invece su muli, asini e carretti; e così, appena sono in campo aper-
to, dispongono al centro le salmerie, le artiglierie, i carri, le scale e le
macchine da guerra, e subito si battono a lungo animosamente. Poi si
ritirano ciascuno sotto le proprie bandiere; i nemici in questo modo so-
no indotti in errore, ritenendo che essi stiano cedendo e dando alla fu-
ga, e allora si slanciano all’inseguimento; ma i Solari, spartitisi in due ali
e due schiere, ripreso fiato e coraggio, ordinano all’artiglieria di aprire
il fuoco, e subito dopo ritornano all’assalto contro i nemici disorientati.
Ricorrono a molte tattiche analoghe; nessuno li eguaglia in stratagem-
mi e macchine belliche. Dispongono gli accampamenti come i Romani:
alzano le tende, scavano il fossato ed erigono uno steccato di protezio-
ne delle macchine e dell’artiglieria con stupefacente rapidità, sotto la
direzione dei maestri del genio; tutti i soldati sanno maneggiare la van-
ga e la scure. Hanno cinque, otto o anche dieci condottieri, esperti nel-
lo schierare le truppe e nella tattica, che deliberano su ogni operazione
bellica e poi guidano l’esercito conformemente al piano stabilito.
Sogliono portare con sé una squadra a cavallo di fanciulli armati, per-
ché imparino l’arte della guerra e si avvezzino al sangue, come i lupetti
e i leoncini. Questi fanciulli insieme a molte donne armate, all’appros-
simarsi del pericolo, si pongono in salvo; ma dopo la battaglia proprio
70 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS

dopo le battaglie esse donne e pugnam ipsae mulieres et pueri bellatori-


fanciulli fanno carezze alli bus blandiuntur, medicantur, serviunt, am-
guerrieri, li medicano, serve- plexibus et verbis corroborant. Mirum
no, abbracciano e conforta- quantopere proficiat hoc unum. Milites qui-
no; e quelli, per mostrarsi va- 5 dem, ut sese strenuos ostendant uxoribus ac
lenti alle donne e figli loro, natis, ardua aggrediuntur et victores facit
fanno gran prove. Nell’assal- amor. In certamine qui primus scandit ho-
ti, chi primo saglie il muro ha stiles muros accipit post conflictum coro-
in onore una corona di gra- nam gramineam honoris ergo cum militari
migna con applauso militare 10 applausu a mulieribus et pueris. Qui socio
delle donne e fanciulli; chi auxilium praebet, coronam civicam querci-
aiuta il compagno ha la coro- nam; qui tyrannum occidit, opima spolia
na civica di quercie; chi uc- templo sacrat et ab Hoh recipit cognomen
cid’il tiranno, le spoglie opi- facinoris. Alii alias coronas accipiunt.
me, che porta al tempio; e si 15 Equites gerunt quisque lanceam unam et
dona dal Sole il cognome del- duas ex ephippiis pendentes pistolas, vali-
l’impresa. dae temperaturae, angustas in orificio ma-
Usano i cavalieri una lan- gis, qua de re penetrant omnem ferream ar-
cia, due pistole avanti caval- maturam. Macheram insuper habent et pu-
lo, |15v> di mirabil tempra e 20 gionem. Alii vero clavam ferream, qui sunt
strette in bocca, che perciò gravis armaturae milites. Nam si nequeat
fanno gran passata, ed ferrea armatura hostilis machera nec pistola
hann’anche lo stocco. Altri forari, aggrediuntur hostem clava, sicut
portano la mazza, e questi so- Achilles Cignum, et conquatiunt deiiciunt-
no l’uomini d’arme, perché, 25 que. Duae catenae ex clava pendent sex pal-
non potendosi ferire una ar- morum, et in extremo illarum ferreae pilae,
matura con spada o con pi- ita quod proiectae in hostem circundant
stola, assaltano il nemico con collum eius, trahunt deiiciuntque, proster-
la mazza, com’Achille contra nunt.
Cigno, e lo sconquassano e 30 Ut autem facilius uti clava Secretum
gettano. Ha due catene la possint, non tenent manu equi de equo
mazza in punta, a cui pende- habenas, sed pedibus, si quidem gubernando
no due palle, che, menando, lora super ephippiis sellae decus- pedibus
circondano il collo del nemi- satim permutantur et staffis extre-
co, tirano e gettano; e, per po- 35 ma innodantur fibulis non autem pedibus.
terla manegiare, non tengono
briglia con mani, ma con li
piedi, incrocicchiata in la sel-
la, e avvinchiata nell’estremo
alle staffe, non alli piedi, per 40
LA CITTÀ DEL SOLE 71

loro confortano i combattenti, li curano, li aiutano, li rincuorano con


parole e carezze. É stupefacente quanto questa pratica, da sola, sia van-
taggiosa: i soldati, infatti, per dimostrarsi valorosi agli occhi delle donne
e dei figli, diventano più arditi e l’amore li rende vittoriosi. Il primo che
nell’assalto è riuscito a scalare le mura nemiche, dopo la battaglia, è in-
coronato dalle donne e dai fanciulli tra gli applausi militari con la coro-
na onorifica di gramigna; chi ha salvato un compagno, è insignito della
corona civica di quercia; chi ha ucciso il tiranno, consacra nel tempio le
spoglie opime e riceve da Hoh il soprannome derivato dall’impresa. Al-
tri meritevoli ricevono altre corone.
I cavalieri portano una lancia e, infilate nei quartieri1 della sella, due
pistole di ottima tempra, con la canna che si va restringendo all’uscita,
per cui la pallottola riesce a penetrare qualsiasi corazza di ferro; sono
armati anche di spada e pugnale. La cavalleria pesante invece è dotata
di una mazza ferrata. Se infatti non si riesce a forare la corazza dei ne-
mici né con la spada né con la pistola, li si aggredisce con la mazza, co-
me Achille contro Cigno2, squassandoli e atterrandoli: dalla mazza pen-
dono due catene di sei palmi, alla cui estremità sono fissate delle palle
di ferro, in modo tale che, scagliatele contro il nemico, si serrino intor-
no al collo; poi lo strattonano e lo disarcionano, rovesciandolo a terra.
Onde potersi servire più facilmente della clava, tengono le Il segreto
briglie non con le mani, ma con i piedi; basta che le redini di governare
s’incrocino sopra la gualdrappa della sella e l’estremità di il cavallo
ogni tirante sia annodato non ai piedi, ma alle staffe con del- con i piedi

1
Propriamente l’‘efippio’ è una sella primitiva formata da una coperta ripiegata, o meglio,
secondo l’unica attestazione italiana registrata dal GDLI (Colonna, Hypnerotomachia, 28-9),
«drappo per cavalcatura» (Pozzi, II, s. v.); in questo caso allude più specificamente al ‘quarto’
o ‘quartiere’: «ciascuna delle due ampie e forti pezze di cuoio che pendono ai lati dell’arcio-
ne e su cui poggiano le ginocchia del cavaliere» (GDLI).
2
Cicno (così Graves, p. 697) si chiama sia un figlio di Ares, ucciso con la clava, ma da Ercole
(Esiodo, Lo scudo di Ercole, 57-138 e 318-480); sia un figlio di Poseidone, che a Troia si scontrò
con Achille e fu ucciso però non con la clava, ma strangolato (Ovidio, Metam. XII, 138-44).
Per Amerio, l’Au. deve aver confuso i due miti; invece C. ha presente proprio il mito ovidia-
no, sia perché all’epoca notissimo (nel Furioso XXIX, 19 Rodomonte fece a Isabella tutti gli
scongiuri «che far lo può qual fu già Cigno e Achille»; Della Porta, Fisonomia V X, p.809: «Fin-
gono i poeti Cigno, figlio di Nettuno, esser stato ammazzato da Achille»), sia perché non è
tanto a quei versi che pensa, ma a quelli immediatamente precedenti, quando Achille lo in-
calza e percuote con l’elsa della spada, usata quindi alla stregua quasi di una clava: dopo vari
inutili tentativi di trafiggerlo con la lancia, Achille «percosse con l’elsa tre o quattro volte il
volto e le tempie dell’uomo che gli stava davanti; quello arretrava e lui lo incalzava e imper-
versava, piombandogli addosso e stordendolo, senza dargli tregua» (p. 132-5).
72 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS

non impedirsi; e le staffe han Staffae autem exterius sphaeram habent


di fuori la sfera e dentro il ferream, interius vero triangulum. Idcirco
triangolo, onde il pie’ torcen- permutante pede latus in triangulo contor-
do ne’ lati, le fan girare, ché quendo, in gyrum trahuntur sphaerae,
stan affibiate alli staffili, e 5 prout fibulis pendent e staffilibus, itaque
cossì tirano a sé o allungano contrahunt vel laxant fraenum mirabili ce-
il freno con mirabil prestezza, leritate; et dextro pede torquent equum ad
e con la destra torceno a sini- sinistram, sinistro vero ad dexteram. Hoc
stra e e contra. Questo secre- arcanum Tartaros quoque latet: nam, licet
to manco li Tartari hann’in- 10 pedibus regant habenas, nesciunt tamen
teso, ché tirare e torcere non torquere, attrahere et extendere per troch-
sanno con le staffe. Li cavalli leam staffarum. Equites levis armaturae pri-
leggieri cominciano con mo committunt praelium archibugiis, dein-
schioppi, e poi entrano l’aste e de phalanges hastis, deinde fundibularii qui
le frombole, delle quali tengo- 15 in pretio habentur magno; et consuerunt
no gran conto. E usano |16r> pugnare intercurrentibus quasi in textura
combattere per fila intessute, filis, aliis procedentibus aliis sese recipienti-
andando altri, e altri aretran- bus vicissim. Habent acies firmantes exerci-
dosi a vicenda; e hanno li tum sarissis; ensibus autem postremum ten-
squadroni saldi delle picche 20 tatur periculum.
per fermezza del campo; e le Post bellum celebrant triumphos milita-
spade all’ultima prova. res more Romanorum et pulchriores, et
Ci son poi li trionfi milita- supplicationes Deo in gratiarum actionem.
ri ad uso de Romani, e più Et tunc dux in templo se praesentat, et nar-
belli, e le supplicazioni rin- 25 rantur bene ac male gesta a poëta vel histo-
graziatorie. E si presenta al rico, qui secum de more in expeditione fuit.
tempio il capitano, e si narra- Et Princeps maximus coronat ducem lau-
no li gesti dal Poeta o istorico rea, et singulis strenuis militibus munuscula
ch’andò con lui. E ‘l Princepe
lo corona, e a tutti li soldati 30
fa qualche regalo ed onore, e
LA CITTÀ DEL SOLE 73

le fibbie. Le staffe poi sono congegnate in modo da avere all’esterno un


rocchetto di ferro, al cui interno vi è un appoggio triangolare. Perciò il
piede mutando lato d’appoggio, nel cambiare angolazione al triangolo,
fa ruotare anche i rocchetti, assicurati con fibbie agli staffili; e così al-
lungano o accorciano il freno con notevole celerità, e col piede destro
tirano il cavallo a sinistra, e viceversa. Questo segreto1 è ignorato anche
dai Tartari, i quali, infatti, benché sappiano governare le briglie con i
piedi, non sanno però girarle, tirarle o allentarle per mezzo della pu-
leggia delle staffe.
È la cavalleria leggera con gli archibugi a ingaggiare battaglia per pri-
ma, seguono le falangi con le lance, poi i frombolieri, molto apprezzati,
che sono avvezzi a combattere per file scorrenti su e giù quasi come nel-
la tessitura, alcune avanzando, altre retrocedendo alternatamente. Han-
no anche, a protezione dell’esercito, truppe armate di picche; ma è spa-
da alla mano, che si dà l’assalto finale.
Terminata la guerra, si celebrano i trionfi militari secondo l’uso dei
Romani, ed anche più imponenti. Si elevano anzitutto ringraziamenti a
Dio: allora il comandante supremo si presenta nel tempio e un poeta o
uno storico, che, com’è d’uso, ha seguito la spedizione, narra quanto di
positivo e di negativo è accaduto. Poi il Metafisico incorona d’alloro il
condottiero, distribuisce ai soldati valorosi piccoli regali e onorificenze;

1
Bisogna fare in modo che le staffe, pur restando saldamente agganciate alla sella tramite gli
staffili (= corregge di cuoio), nello stesso tempo possano ruotare onde tirare e rilasciare le re-
dini incrociate. Il ‘segreto’ sta nella staffa. Vista in sezione frontale, essa ha il profilo di un
cerchio circoscritto a un triangolo; infatti è costituita da un largo anello cavo, e probabil-
mente anche un po’ concavo esternamente, cioè con i due orli esterni rialzati – e dunque un
rocchetto –, dentro il quale è fissato un sostegno di forma triangolare, che permetta al piede
di cambiare l’angolazione d’appoggio, cioè di premere su uno dei tre lati. In tal modo, in
teoria, con i piedi si può stringere, allentare o lasciar invariate le briglie. Queste sono fissate
ad una estremità esterna del rocchetto, per cui, ruotandolo, le redini incrociate si avvolgono
o svolgono; la staffa, a sua volta, è accalappiata agli staffili attraverso un loro terminale ad
anello, piuttosto largo o sdoppiato, che permetta di sostenerla senza impedire la rotazione
del rocchetto. Con qualche lieve ritocco si è sostanzialmente accolta la spiegazione di Firpo,
più convincente di quella di Bobbio. Inoltre è sospettabile un refuso di P. rispetto a Fr., per-
ciò, con Crahay, p.142, si è corretto l’«inferius» di r. 2 con ‘interius’, non solo perché in op-
posizione logica col precedente «exterius» (T.72.2: «di fuori la sfera e dentro il triangolo»),
ma anche perché il triangolo ‘inferiormente’ alla staffa sferica non avrebbe alcuna funzione.
C. aveva trattato quest’artifizio nel Trattato dell’arte cavaglieresca [1596, perduto]: «far che li
soldati a cavallo adoprino ambe le mani senza tener la briglia e guidar bene il cavallo per
ogni verso meglio ch’i Tartari» (Firpo 1939a, p.472; Firpo 1947, p.82); e poi in: Lettere, pp. 28,
161, 174, 411; in Art. proph., p. 277 dice che l’ingresso dell’apogeo di Mercurio in Sagittario
(in Scorpione a 136.16), tra le altre invenzioni, sarà generoso «praecipue pertinentium ad
equestrem ordinem».
74 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS

per molti giorni sono esenti et honores impartiuntur, qui et plures dies
dalle fatiche publiche. Ma es- vacant a laboribus publicis: quod nec illis
si l’hanno a male, ché non placet nimis, quoniam nesciunt ociosi esse
sanno star oziosi e aiutano itaque opem ferunt amicis. E contra autem
l’altri. All’incontro quelli che 5 qui propria culpa victi sunt aut victoriam
per loro colpa han perduto, si amiserunt, vituperio excipiuntur, et qui pri-
riceveno con vituperio, e chi mus fugam arripuit, mortem evadere nullo
fu il primo a fuggire non può pacto valet, nisi cum totus exercitus eius vi-
scampar la morte, se non tam poscit et singuli partem poenae in se
quando tutto l’esercito di- 10 recipiunt. Ac raro admittitur ad hanc indul-
mandi la sua vita, e ognuno gentiam, nisi ubi rationes multae illi favent.
piglia parte della pena. Ma Qui vero socio aut amico non tulit oportu-
poco s’ammette tal’indulgen- nam opem, virgis caeditur. Qui inobediens
za, e se non v’è gran ragione. fuit, traditur bestiis devorandus intra quod-
Chi non aiutò l’amico o fece 15 dam vallum, daturque baculus in manu
atto vile, è frustato; chi fu di- eius; et si vicerit leones et ursos, qui ibi sunt,
sobediente, si pone a morire quod fere impossibile est, recipitur denuo
dentro un palco di bestie con in gratiam.
un bastone in mano, e se vin- Civitates subiugatae aut ultro illis datae
ce li leoni e l’orsi, ch’è impos- 20 confestim omnia in communi reponunt,
sibile, torna in grazia. |158> praesidium et magistratus Solares ac-
Le città superate o date a cipiunt, ac paulatim assuescunt moribus Ci-
loro subito metteno ogni |16v> vitatis Solis, magistrae omnium, ad quam
cosa in comune, e riceveno etiam filios docendos mittunt, nihil pro ex-
l’officiali solari e la guardia, 25 pensis contribuendo.
e si van sempre acconciando Operosum esset narrare de exploratori-
all’uso della Città del Sole, bus et magistro ipsorum et excubiis et de or-
maestra loro; e mandano li fi- dinibus ac ritibus intra et extra civitatem,
gli ad imparare in quella, quae ex te potes cogitare, quia eliguntur a
sensa contribuire a spese. 30 pueritia iuxta inclinationem et constellatio-
Saria lungo dirti del ma- nem, in ipsorum genituris inspectam. Qua-
stro delle spie e sentinelle, del- propter singuli operantes iuxta naturalem
l’ordini loro fuori e dentro la propensionem suam bene tractant ministe-
città, che te li puoi pensare, rium suum et iocunde, quia naturaliter.
ché sono eletti da bambini se- 35 Idem dico de stratagematis et aliis functio-
condo l’inclinazione e costel- nibus etc. Excubiae fiunt in civitate diuque
lazione vista nella genitura
loro. Ond’ognuno, operando
secondo la proprietà sua na-
turale, fa bene quell’esercizio 40
e con piacere per esserli natu-
rale; così dico delle stratagem-
me e altri. La Città di notte e
di giorno ha le guardie nelle
LA CITTÀ DEL SOLE 75

costoro sono esentati per parecchi giorni dai lavori collettivi, la qual co-
sa loro non garba troppo, perché non sanno stare in ozio, e perciò con-
tinuano ad aiutare i compagni. Invece coloro i quali, per propria colpa,
furono sconfitti o persero un’occasione di vittoria, sono biasimati; a chi
per primo se la diede a gambe, spetta inesorabilmente la pena di morte,
a meno che tutto l’esercito non chieda a gran voce di risparmiargli la vi-
ta ed ogni commilitone sia disposto a scontare una parte del castigo. Ma
raramente si concede una simile grazia, e solo quando parecchi argo-
menti depongono a suo favore. Chi invece non ha debitamente soccor-
so il compagno d’armi o l’amico è frustato. Chi ha disobbedito, è con-
dotto, armato solo di un bastone, in un recinto di belve per esser divo-
rato; e se, per un caso, è capace di vincere i leoni e gli orsi ivi racchiusi,
cosa pressoché impossibile, viene graziato.
Le città conquistate o arresesi spontaneamente mettono subito ogni
cosa in comune, accolgono una guarnigione e i magistrati solari, e pro-
gressivamente assimilano gli usi della Città del Sole, maestra di tutte lo-
ro, presso la quale inviano anche i propri figli a studiare gratis.
Sarebbe laborioso riferirti delle spie e del loro maestro, delle senti-
nelle, e di quelle disposizioni e pratiche1 dentro e fuori la città che ti
puoi facilmente figurare. A tali incarichi i cittadini sono destinati fin
dall’infanzia secondo l’inclinazione e la costellazione che presiedette
alla loro genitura; perciò, assecondando la propria tendenza naturale,
ciascuno compie il suo dovere con zelo, e anche con gioia, essendo in
sintonia con la sua indole. Lo stesso dicasi dei maestri di stratagemmi, e
di altre funzioni militari. Le sentinelle sono di guardia notte e giorno al-

1
Si riferisce in generale alle pratiche e ordinamenti solari? O specificamente a quelle milita-
ri di sorveglianza? In base a quanto segue immediatamente, si direbbe che il Genovese stia fa-
cendo una digressione di carattere generale circa le inclinazioni di ogni Solare per una spe-
cifica attività (civile o militare che sia); se invece si tiene conto dell’intera risposta, si vedrà
che il tema trattato è sempre l’organizzazione militare, e quindi la dittologia ablativale è da
intendersi presumibilmente come: ‘l’organizzazione militare’, fra le cui molteplici funzioni
si esaminerà poco oltre (74.36) quella relativa alle misure di sorveglianza.
76 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS

quattro porte e nelle mura noctuque in quatuor portis et in extremis


estreme, su li torrioni e val- moeniis septimi gyri super propugnaculis et
guardi; e il giorno al più le fe- turribus et aggeribus intrinsecis. In die qui-
mine, la notte i maschi guar- dem a foeminis, in nocte vero a maribus, et
dano; e questo lo fanno per 5 hoc ne pigrescant et ob fortuitos casus. Vigi-
non impoltronire e per li casi lias partiuntur sicut milites nostrates horis
fortuiti. Han le vigilie, come ternis. Et in solis occasu ad sonum tympani
li nostri soldati, divise di tre et symphoniae armati custodiae distribuun-
in tre ore; la sera entrano in tur.
guardia. 10 Utuntur venatione, ut belli imagine, et
Usano le caccie per imagi- ludis, pedes et equites, in plateis quibusdam
ni di guerra, e li giuochi in in festivitatibus. Deinde sequitur musica
piazza a cavallo e a piedi etc.
ogni festa, e poi segue la mu- Libenter culpas et offensas inimicis con-
sica, ecc. 15 donant et post victorias benefaciunt illis. Si
Perdonano volontieri a’ muros diruere aut capita hostilia interficere
nemici e dopo la vittoria li decretum est, haec omnia uno eodemque
fanno bene. Se gettano mura die victoriae faciunt. Deinde beneficia non
o voglion’occidere li capi o al- cessant illis conferre et dicunt non esse pu-
tri, tutto fann’in un giorno, e 20 gnandum, nisi ut victos reddant meliores,
poi |17r> li fanno bene, e di- non autem ut extinguant. Si inter eos con-
cono che non si deve far guer- certatio est de iniuria aliave de re (nam ipsi
ra se non per fare l’uomini vix nisi de honore contendunt), Princeps
buoni, e non per estinguirli. eiusque magistratus castigant reum clancu-
Se tra loro c’è qualche gara 25 lum si in iniuriam factis proruperit post
d’ingiuria o d’altro, perch’es- iram primam; si verbis, expectant decisio-
si non contendono se non d’o- nem usque ad praelium dicendo iram evo-
nore, il Principe e i suoi offi- mendam esse contra hostes. Qui autem in
ciali poniscono il reo severa- bello gesta praeclariora ostenderit, ille in
mente, s’incorse ad ingiuria 30 contentione causam meliorem defendisse
di fatto dopo le prime ire; se et veritatem reputatur, alter vero cedit. At
di parole, aspettano in guer- circa iustum poenae sunt. Veruntamen ad
ra a difinirle, dicendo che l’i- monomachiam venire non datur, tum quia
ra si deve sfogare contro li ne- tollitur virtus tribunalis, tum quia iniusta
mici. E chi fa più atti eroici, 35 saepe apparet quando iustior succumbit.
quell’è tenuto che abbia ragio- Qui autem se meliorem ostendere profite-
ne nell’onoranza,e l’altro ce- tur, in publico bello id agat.
de. Ma nelle cose del giusto ci
sono le pene ecc.; però in duel-
lo di mano non ponno veni- 40
re, e chi vuole mostrarsi me-
gliore, faccialo in guerra pu-
blica.
LA CITTÀ DEL SOLE 77

le quattro porte della città e su bastioni, torri e terrapieni delle mura


esterne del settimo girone. Di giorno sono di turno le donne, di notte
gli uomini, e tutto questo si fa per non rilassarsi troppo e per esser pron-
ti a qualsiasi evenienza. La durata dei turni di guardia è, come da noi, di
tre ore. Al tramonto, al suono dei tamburi e di altri strumenti, i militari
si distribuiscono nei vari corpi di guardia.
Praticano la caccia, come simulacro della guerra, e, nella ricorrenza
di certe festività, organizzano giostre a piedi e a cavallo nelle piazze, se-
guite da musiche ecc.
Magnanimamente perdonano le colpe e le offese dei nemici, e dopo
la vittoria li trattano generosamente. Se è stato decretato l’abbattimen-
to delle mura e l’uccisione dei capi nemici, fanno tutto lo stesso giorno
della vittoria. Dopo di che si sforzano di far loro del bene, perché dico-
no che l’unica ragione di combattere è di migliorare i vinti, non di ster-
minarli.
Se fra di loro scoppia un diverbio per un’offesa o per altra causa (è
raro che insorgano liti, e, se sorgono, è solo per questioni d’onore)1, il
Principe e i suoi magistrati puniscono segretamente2 il colpevole, se
questi ha reagito all’ingiuria, dopo il primo impeto d’ira, passando a vie
di fatto; se invece le offese si sono limitate alle parole, i giudici sospen-
dono la loro decisione fino al giorno di una battaglia, dicendo che l’ira
si deve sfogare contro i nemici. Quello dei due litiganti che si sarà poi
particolarmente distinto per gesta militari valorose, è ritenuto colui il
quale nella contesa ha sostenuto la causa più valida e vera, e l’altro re-
cede. Ma se è in causa la giustizia, c’è il codice penale. Comunque sono
vietati i duelli, sia perché si svaluterebbero i tribunali, sia perché i duel-
li denunciano tutta la loro profonda iniquità quando a soccombere è
chi ha ragione. Perciò chi ambisce a mostrare di essere il migliore, lo di-
mostri combattendo per lo stato.

1
Non essendoci proprietà privata di cose o persone, quelle possono essere le uniche cause di
litigi.
2
Sembrerebbe più sensato il «severamente» di T.76.29, ma la ‘lectio difficilior’ «secretamen-
te» del solo, ma autorevole L. è da preferirsi, avallato anche da Oecon. III III, p. 199: se la mo-
glie pecca per ignoranza, il marito la deve «admonere clam»; e, più attinentemente, per quel
che consiglia Machiavelli: «se nasce una sedizione o discordia tra’ soldati», bisogna «gastiga-
re i capi degli errori; ma farlo in modo che tu gli abbia prima oppressi che essi se ne siano po-
tuti accorgere» (VI, p. 591). Tuttavia la punizione segreta parrebbe in contrasto con il prin-
cipio appena enunciato (v. n. 74.8-10) della collettivizzazione della pena – e quindi della sua
massima pubblicità.
78 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS

OSP. - Bella cosa per non fo- HOSP. - Operae praetium, ne De opificio
mentare fazioni a ruina della factiones foveantur in patriae per-
patria e schifar le guerre civili, niciem ac civilia bella extinguantur, ex
onde nasce il tiranno, come fu quibus oritur tyrannus saepe, veluti Roma
in Roma ed Atene. Narra ora, 5 et Athenae admonent. Nunc ipsorum, rogo,
ti prego, dell’artefíci loro. dic opificia etc.
GEN. - Devi aver inteso co- GEN. - Audisse te credo, quo pacto com-
me comun’è a tutti la militare, munes sunt illis ars militaris, agricultura, pa-
l’agricoltura, la pastorale storalis: quilibet enim has nosse tenetur,
ch’ognuno è obbligato a saper- 10 quas in primo nobilitatis gradu celebrant.
le: queste sono le più nobili tra Attamen qui plures callet artes, nobilior ha-
loro; ma chi più arti sa, più betur et ad discendam artem is addicitur,
nobile è, e nell’esercitarla quel- qui aptior est ad ipsam. Artes operosiores
l’è posto, che più è atto. E l’ar- sunt apud eos laudabiliores, veluti ferraria,
ti fatigose son di più laude, 15 aedificatoria etc. ac nemo aggredi ipsas de-
com’il ferraro ed il fabricatore; trectat eoque magis quod in ipsorum genesi
e non si schifa nullo a pigliar- propensio patet; et inter eos ob laborum di-
le, tanto più che nella natività stributionem nemo laborem adit destructi-
loro si vede l’inclinazione, e vum individui, sed conservativum modo. Ar-
|17v> tra loro, per lo comparti- 20 tes operosae minus foeminarum sunt. Nos-
mento delle fatiche, nullo vie- se natare omnes tenentur et hanc ob rem
ne a participare fatica distrut- sunt piscinae extructae extra moenia civita-
tiva dell’individuo, ma solo tis et intra prope fontes.
conservativa. L’arti di manco Mercatura illis exiguum praestat usum.
fatica son delle femine. Saper 25 Agnoscunt tamen pretia monetarum et cu-
nuotar’è a tutti necessario, e dunt pecuniam legatorum et exploratorum
vi sono a posta le pescine fuor, gratia, ut pecunia victum comparent. Ex va-
nelli fossi della città, e dentro riis mundi regionibus accedunt ad civitatem
vi son le fontane. ipsorum mercatores, empturi superflua bo-
La mercatura a loro poco 30 na civitatis. Solares autem renuunt pecu-
serve, ma però conoscono il va- niam accipere, sed merces rerum, quibus
lor delle monete, e batteno mo- ipsi carent, accipiunt in communicatione et
neta per l’ambasciatori loro, a saepe emunt pecunia. Ac pueri Solares in ri-
finché possano commutar con sus prorumpunt cum vident mercatores pro
la pecunia il vitto che non 35 parvo pretio tantam mercium copiam elar-
ponno portare, e fanno venir giri; at non ita senes rident. Nolunt a man-
d’ogni parte del mondo merca-
danti a loro per smaltire le cose
soverchie, e non vogliono da-
nari, se non merci di quelle co- 40
se ch’essi non hanno. E se ri-
dono quando vedeno i fan-
ciulli, che donano tanta robba
per poco argento, ma non li
LA CITTÀ DEL SOLE 79

OSP. - Saggia decisione, per non fomentare fazioni esiziali Le attività


per la collettività e per spegnere sul nascere guerre civili, che lavorative
favoriscono l’ascesa al potere di un tiranno, come gli esempi di Ro-
ma e Atene ammoniscono. Ora ti prego di illustrarmi le loro attività la-
vorative.
GEN. - Credo di averti già detto che tutti praticano l’arte militare, l’a-
gricoltura e la pastorizia: ognuno infatti è tenuto a conoscerle, essendo
le arti più apprezzate. Pertanto chi è esperto in più arti, è dotato di mag-
gior prestigio; e ognuno viene addestrato in quell’arte in cui è più ver-
sato. I mestieri più faticosi sono per loro i più lodevoli, come quello del
fabbro, del muratore ecc., e nessuno si rifiuta di esercitarli, tanto più
che l’inclinazione per un certo mestiere si manifesta dalla nascita; ed
inoltre per la divisione del lavoro attuata da loro, a nessuno spetta una
fatica estenuante, ma solo quella che salvaguarda l’individuo. Le donne
praticano i mestieri meno gravosi. Tutti devono saper nuotare, e perciò
vi sono delle piscine costruite fuori le mura della città, e dentro, vicino
le fontane.
A loro il commercio serve poco. Tuttavia conoscono il valore del de-
naro che coniano per i loro ambasciatori e informatori, affinché possa-
no procurarsi il necessario per vivere all’estero. Dalle varie parti del
mondo arrivano alla Città i mercanti per comprare quel che essa ha
prodotto in sovrappiù. I Solari però rifiutano il denaro, ma accettano di
barattare le merci di cui sono sprovvisti, e spesso le pagano in moneta. I
fanciulli dei Solari – ma non i vecchi – se la ridono quando vedono i
mercanti dar in cambio di pochi soldi grandi quantità di merci1.

1
Perché si sottolinea la serietà dell’anziano? In un episodio di More, 130 (ispirato a sua volta
dal Nigrinus di Luciano), si narra della venuta di alcuni ambasciatori vestiti sfarzosamente,
ignari del disinteresse utopiano per metalli e pietre preziose, lì destinate, come «nugae», ai
passatempi infantili; un ragazzo, rivolgendosi alla madre, dice: «Guarda, mamma, quel gros-
so bietolone che gioca tuttora con perle e pietruzze quasi fosse ancora bambinello!»; al che
la madre, «tutta seria: - Zitto, figliolo, credo che sia uno dei buffoni dell’ambasciata». Sia le
motivazioni del riso fanciullesco che della serietà degli adulti sono diverse rispetto a CS: men-
tre le due generazioni utopiane prendono due diversi abbagli (ma entrambe restando anco-
rate al loro codice ‘capovolto’), forse l’incongrua serietà del vecchio Solare è spiegabile con
la conoscenza, appunto per esperienza d’età, del codice di valori dell’‘altro’ mondo, quello
del mercato e della proprietà – e della sua contagiosa rischiosità. Suppongo che C. avesse un
ricordo impreciso di questo passo dell’Utopia: una sua valenza (la serietà dell’anziano – che lì
rendeva ancor più arguto il doppio equivoco) è sfumata, se non proprio persa, una volta pas-
sata in CS (cfr., ma con accentuazioni diverse, Moneti, p. 166). C. si limita a un accenno, che,
sia per brachilogia, sia per sua idiosincrasia con la sfera del comico, non può esser gustata ap-
pieno, e senz’altro non quanto la scenetta di More. Infine l’opposizione campan. ‘puer/se-
80 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS

vecchi. Non vogliono che cipiis et advenis civitatem pravis moribus la-
schiavi o forastieri infestino la befactari. Idcirco mercantur in portis et
città di mali costumi; però vendunt quos bello capiunt aut excavandis
vendeno quelli che pigliano in fossis aut operosis laboribus extra civitatem
guerra, o li metteno a cavar 5 ipsos destinant, quo perpetuo quatuor mili-
fossi, e far esercizi faticosi fuor tum agmina mittuntur ad custodiam agro-
della città, dove sempre vanno rum, ac simul laboratores, ex quatuor por-
quattro squadre de soldati a tis, quae vias habent lateribus constructas
guardar il territorio e quelli usque ad mare ut facile res conducantur et
che lavorano, uscendo dalle 10 advenae non impediantur, quibus sane iu-
quattro porte, le qual’hanno le cundi sunt ac munifici.
strade de mattoni sin al mare Tribus diebus publicis expensis De hospitio
per condotta delle robbe e faci- alunt eos, lavant pedes ipsorum exhitio
lità delli forastieri, alli quali primo, ostentant civitatem et ordi- exhibendo
fanno gran carezze: li danno 15 nem ipsius, Concilio et mensa pu-
|18r> da mangiare per tre blica eos secum dignantur; et sunt viri de-
giorni, li lavano li piedi, li putati ad hospitum curam |159> et custo-
fan veder la città e l’ordine lo- diam. At si velint fieri cives in Republica So-
ro, entrar’in consiglio ed a lis probant eos per mensem in villa et alte-
mensa. E ci sono uomini de- 20 rum mensem in civitate, deinde decernunt
putati a guardarli, e se voglio- et recipiunt eos certis ceremoniis et iura-
no farsi cittadini, li provano mentis etc.
un mese nelle ville e uno nella Agricultura plurimi fit: non De agricultura
Città, e cossì poi risolveno, e li est terrae palmus absque fructu.
ricevono con certe cerimonie e 25 Observant ventos stellasque pro-
giuramenti. pitias. Paucis relictis in civitate, exeunt om-
L’agricoltura è in gran sti- nes armati in campos ad arandum, semi-
ma: non c’è palmo di terra nandum, fodiendum, sarculandum, meten-
che non frutti. Osservano li dum, colligendum, vindemiandum, cum
venti e le stelle propizie, ed 30 buccinis, tympanis et vexillo, et omnia expe-
escono tutti in campo armati diunt paucissimis horis perficiuntque labo-
ad arare, seminare, zappare, res ex arte. Carris utuntur velis su- De carris
metere, ricogliere, vendemiare persparsis, quae vento feruntur
con musiche, trombe, stendar- etiam contrario, artificio mirabili
di; e ogni cosa fanno fra po- 35 rotarum contra rotas, et cum ventus deest,
chissim’ore. E hanno le carra bestia una plaustrum magnum trahit, pul-
a vela, che caminano col ven- chrum visu. Custodes territorii di-
De custodia
to, e quando non c’è vento, scurrunt interim armati semper agrorum
una bestia tira un gran carro per vices. Stercoratione non utun-
– bella cosa! –; e hanno li 40
guardiani del territorio ar-
mati per li campi sempre. Po-
LA CITTÀ DEL SOLE 81

Non vogliono che la Città sia corrotta dai cattivi costumi di schiavi e
stranieri; perciò il commercio si tiene nei porti e vendono i prigionieri
di guerra, o li tengono per scavare fossati o per altri lavori faticosi fuori
dalla città; dove, insieme ai lavoratori, quotidianamente vengono invia-
te a custodia dei campi quattro schiere di soldati dalle quattro porte, da
cui si diramano fino al mare quattro strade pavimentate di mattoni, per
agevolare i traffici e anche l’accesso degli stranieri con i quali si mostra-
no affabili e generosi.
Infatti i forestieri sono mantenuti a spese della colletti- Dimostrazioni
vità per tre giorni: anzitutto lavano loro i piedi, poi gli mo- di ospitalità
strano la Città e la sua organizzazione, li accettano al Consi-
glio e a mensa; e vi sono degli uomini incaricati di proteggerli e pren-
dersi cura di loro. Ma se vogliono assumere la cittadinanza solare, li ten-
gono in prova un mese in campagna e un mese in città; poi, in caso di
ammissione, li accolgono con apposite cerimonie, giuramenti ecc.
In grandissimo conto è invece tenuta l’agricoltura: non vi L’agricoltura
è palmo di terra che non sia coltivato. Osservano i venti e le
stelle propizie. Lasciati pochi abitanti in città, escono tutti in
campagna attrezzati per arare, seminare, zappare, sarchiare, mietere,
raccogliere, vendemmiare, con trombe, tamburi e la bandiera, e tutto
sbrigano in poco tempo e a regola d’arte: si servono di carri con I carri
su una vela spiegata, che marciano anche con venti contrari, at-
traverso un ingegnoso sistema di ingranaggi; e quando il vento
manca, basta un solo animale a trainare un grosso carro – che è proprio
un bello spettacolo. I guardiani nel frattempo sempre a turno Sorveglianza
pattugliano armati i campi1. dei campi

nex’ ha anche una motivazione psicologica: «gli animi leggeri dei fanciulli e delle donne so-
no attratti da beni piccoli e imitazioncelle vane... che facilmente commuovono e divertono il
loro spirito tenue, fluido, sconsiderato, che... gode nell’espandersi, anche senza motivo. In-
vece la gente dotta si rallegra del vero bene e di esempi utili» (Poët. VIII XI [SL, p. 1165-7])
Circa poi lo ‘scambio ineguale’, il dettato testuale sembra ricalcare Diodoro, III III (I, p.
156): la città di Saba era più di ogni altra ricchissima, «conciosia cosa, che nel negotiare del-
le mercatantie, e nel venire facendo i cambi, e baratti, con una delle cose loro di pochissimo
peso, prendono dai mercanti sempre gran prezzo» e perciò hanno vasellami e finimenti tut-
ti d’oro (come i Solari [50.1], seppur per motivi opposti); e infine «accipiunt in communica-
tione» [78.32] contiene un’eco dell’espressione diodorea «in rerum commutatione ca-
piunt».
1
La ragione della presenza di queste guardie campestri (in cui forse il Genovese si è imbat-
tuto poco dopo il suo sbarco [2.12]) forse deriva, oltre che da Platone, Leg., 762a, da una sug-
gestione di Diodoro, V X (I, p.274-7): «Sono intenti i soldati alla difesa della patria con l’ar-
82 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS

co usano letame all’orti ed a’ tur ad campos impinguandos et lutis, pu-


campi, dicendo che li semi di- tantes quod semina quid marcoris con-
ventano putridi e fan vita trahant ac vitam brevem manducata effi-
breve, come le donne imbellet- ciant et flaccam, veluti mulieres fuco et non
tate e non belle per esercizio 5 exercitio pulchrae prolem pariunt langui-
fanno prole fiacca. Onde né dam: quapropter nec tellurem ipsi fucant
pur la terra imbellettano, ma sed bene exercent, et arcanis utuntur reme-
ben l’esercitano, ed han gran diis ut cito nascantur semina et multipli-
secreti di far nascer presto e cent, nec perdantur. Librum habent ad hoc
multiplicare e non perder se- 10 opus, quem vocant Georgica. Pars territorii
me. E tengono un libro appo- quanta sufficit aratur, reliqua remanet in
sta di tal esercizio, che si chia- pascua animalium.
ma la Georgica. Una parte Porro generosa ars procrean- De armentis
del territorio, quanto basta, di educandique equos, boves, pe-
s’ara; l’altra |18v> serve per 15 cudes, canes omneque genus be-
pascoli delle bestie. Or questa stiarum domesticarum et cicurum in sum-
nobil arte di far cavalli, buoi, mo est pretio apud eos, sicuti fuit in tempo-
pecore, cani e ogni sorte d’a- re Abrahae, et ita perducuntur ad coitum ut
nimal domestico è in sommo bene generare queant. Apponuntur pictu-
pregio appresso loro, come fu 20 rae nobiles boum, equorum, pecudum etc.
in tempo antico d’Abramo; e Emissarios equos equabus non associant ad
con modi li fan venire al coi- pastum, sed opportuno tempore copulant
to, che possano ben generare, eos in atrio stabulorum campestrium. Ob-
innanzi a cavalli pinti o buoi servant Sagittarium in horoscopo in bono
o pecore; e non lasciano an- 25 aspectu Martis et Iovis: pro bobus Taurum,
dar in campagna li stalloni pro pecudibus Arietem, etc. secundum ar-
con le giumente, ma li dona- tem. Habent gregem gallinarum sub Pleia-
no a tempo oportuno innanzi dibus, anates, anseres, ductas ad pastum a
alle stalle di campagna. Os- mulieribus prope civitatem, non sine ipsa-
servano Sagittario in ascen- 30 rum oblectatione, ubi et loca sunt quibus
dente, con buono aspetto di clauduntur et ubi caseum, butyros et lactici-
Marte e Giove: per li buoi, nia conficiunt. Curant capones, castratos
Tauro, per le pecore, Ariete, multos et fructum etc. Extat liber de hac re,
secondo l’arte. Hanno poi quem Bucolica vocant.
mandre di galline sotto le 35
Pleiadi e papare e anatre,
guidate a pascere dalle donne
con gusto loro appresso la
città e li luochi dove la sera
son serrate. A far il cascio e 40
lattecini e butiri e simili mol-
to attendeno, ed a castrati; e
c’è un libro di questa arte det-
to la Buccolica. E abondano
LA CITTÀ DEL SOLE 83

Non fanno uso di letame e fango per concimare il terreno, ritenendo


che i semi si guastino e svigoriscano, e che abbrevino la vita di quelli che
poi ne mangeranno i frutti; come le donne belle per belletto, non per
vita attiva, danno alla luce una prole malsana; quindi non imbellettano
la terra ma la lavorano con cura, e hanno dei procedimenti segreti per
far subito germogliare i semi e moltiplicarli, senza perderne neanche
uno. A tal uopo hanno un libro intitolato Georgica. Si coltiva solo quella
parte di terreno che basta alla loro sussistenza, e il resto lo si lascia a pa-
scolo.
Gode pure di molto credito la nobile arte della riprodu- La pastorizia
zione e dell’allevamento di cavalli, buoi, pecore, cani e ogni
specie di animale domestico e addomesticato, come lo fu al tempo
di Abramo, e li accoppiano in modo tale da ottenere un miglioramento
della razza. Li pongono infatti dinanzi a figure di splendidi esemplari di
buoi, cavalli, pecore ecc.1 Non lasciano pascolare insieme gli stalloni
con le giumente, ma le fanno montare nella corte delle stalle di campa-
gna al momento opportuno, cioè quando osservano Sagittario in ascen-
dente in buon aspetto di Marte e Giove – per i buoi Toro, per le pecore
Ariete ecc., secondo l’arte. Sotto le Pleiadi tengono galline, anatre e
oche: le donne con piacere le conducono a razzolare nei dintorni della
città, dove vi sono pure dei recinti in cui le rinchiudono e dove prepa-
rano anche formaggi, burro e latticini. Allevano capponi, molti altri ca-
strati, pulcini ecc. Vi è un libro sulla pastorizia intitolato Bucolica.

me. Pars enim quaedam eius orae a latronibus, qui agricolas per insidias capiunt, infesta est».
Non si accenna mai a predoni che infestano i campi in CS (anche se era fenomeno fin trop-
po diffuso all’epoca, specie al Sud); però fra le cause di apertura di ostilità vi erano anche ac-
cuse di sconfinamento (66.2).
1
«È usanza de’ gran signori dipingere belli cavalli e belli cani e farli vedere alli cavalli e alli
cani quando si fottono perché simili li generassero» (Senso, p. 304; v. n. 82.19-20).
84 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS

d’ogni cosa, perché ognuno Omnibus abundant rebus, quoniam quili-


desidera d’esser primo alla fa- bet esse primus cupit in labore, quia paucus
tica per la docilità delli costu- est et fructuosus, ipsique bene dociles sunt;
mi e per esser poca e fruttuo- et quicunque inter eos caput est aliorum in
sa; ed ognun di loro, ch’è ca- 5 huiusmodi ministeriis, appellatur rex: dicunt
po di quell’esercizio, s’appella enim hoc esse nomen proprium ipsorum et
re, dicendo che questo è nome non ignorantum. Mirum quomodo gregatim
loro proprio, e non di chi non mulieres ac viri incedunt ac nusquam prae-
sa. Gran cosa ch’uomini e ter obedientiam regis nec ab hoc fastidium
donne sempre vanno in squa- 10 contrahunt, ut nos, quoniam agnoscunt il-
dra, mai soli, e sempre all’o- lum ut patrem aut fratrem maiorem.
bedienza del |19r> capo si Habent nemora et sylvas ferarum, quibus
trovano, senza nullo disgu- saepe exercentur.
sto, perché l’hanno come pa- Ars nautica dignificatur valde De nautica
dre o fratello maggiore. 15 apud eos et habent rates et trire-
Hanno poi le montagne e mes quasdam absque remigio et
le caccie d’animali, e spesso absque ventis miro artificio mare perambu-
s’esercitano. lantes; alias vero ventis et remis agitatas. Be-
La marinaria è di molta ne norunt stellas ac fluxus refluxusque ma-
reputazione, e tengono alcuni 20 ris. Navigant gratia cognoscendi gentes et
vascelli, che sensa remi e sen- regiones varias et res. Nemini iniuriam infe-
sa vento caminano, ed altri runt nec inferri patiuntur; non praeliantur
con vento e remi. Intendeno nisi lacessiti. Dicunt orbem terrarum eo
assai le stelle, e flussi e reflus- venturum totum, ut vivat iuxta mores ipso-
si del mare, e navigano per 25 rum: idcirco semper perscrutantur, num
conoscer genti e paesi. A nul- alia sit natio quae probatiorem et praestan-
lo fan torto; sanza esser sti- tiorem vivat vitam. Admirantur Christianam
molati non combatteno. Dico- institutionem, et vitam apostolicam in se et
no che il mondo si riducerà a in nobis expectant. Foedera habent cum
vivere com’essi fanno, però 30 Chinensibus et cum populis multis, insula-
cercano sempre sapere s’altri nis et continentis, Siam, Caucacinae, Cali-
vive meglio di loro. Han con- cuti, per quos explorare modo possint. Ha-
federazione con li Chinesi, e bent quoque et ignes artificiales ad pugnas
con più popoli isolani e del navales et terrestres multaque stratagema-
continente, di Siam e de Cau- 35 tum arcana: ideo nunquam fere non sunt
cacina e Calecut, solo per victores.
spiare. Hanno anco gran se- HOSP. - Pergratum esset nunc De vita et
creti di fuochi artifiziali per le audire quibus nutriantur cibis et victu totius
guerre marittime e terrestri, e potibus, et quomodo et quanta et partium
stratagemme, che mai non re- 40 est ipsorum vita. Reipublicae
stan di vincere.
OSP. - Ma dimmi per tua
fe’ come mangiano, e quanto
è longa la vita loro.
LA CITTÀ DEL SOLE 85

Tutti i prodotti abbondano perché ognuno desidera eccellere nel suo


lavoro, in quanto dura poco e rende molto, ed inoltre perché sono tutti di-
sciplinati; chi di loro è a capo di una di queste attività è chiamato re: dico-
no infatti che questo nome spetta a costoro e non a degli ignoranti. È uno
spettacolo mirabile vedere questi lavoratori e lavoratrici procedere in
gruppo, senza mai disobbedire al re o mostrar segni di fastidio, come av-
viene da noi, perché lo considerano un padre o un fratello maggiore.
Hanno boschi e foreste ricche di selvaggina, nelle quali praticano
spesso la caccia.
La marineria è molto apprezzata da loro ed hanno una par-
te della flotta che si muove senza remi e senza vele grazie a un La nautica
prodigio della tecnica; altre navi sono invece spinte dai remi e
dal vento. Conoscono bene le stelle e le maree. Navigano per conoscere
popoli, regioni e cose nuove.
Non offendono, ma non tollerano affronti da nessuno; combattono
solo se provocati. Sono convinti che tutto il mondo arriverà ad adottare
le loro istituzioni; perciò non smettono mai di cercare se vi sia un’altra
nazione in cui si viva una vita più proba e migliore della loro. Ammira-
no la religione cristiana, e aspirano, sia per loro stessi che per noi, all’i-
stituzione del modello di vita degli Apostoli. Sono alleati con i Cinesi e
con molti altri popoli, insulari e continentali, del Siam, della Cocincina,
di Calicut1, ma al solo fine di poterli conoscere. I Solari si servono an-
che di ordigni esplosivi nelle battaglie navali e terrestri, e possiedono il
segreto di un’infinità di stratagemmi: perciò quasi mai escono sconfitti.
OSP. - Ti sarei molto grato se potessi dirmi ora di Vita e vitto di tutta la
quali cibi e bevande si nutrono, e come e quanto tem- comunità e dei singoli
po vivono.

1
Sono segnati tutti e tre sulla carta dell’Asia dell’Ortelius: i primi due sono regni della peni-
sola indocinese, corrispondenti all’incirca il primo all’attuale Thailandia (da Singapore alla
Cina), il secondo alla regione delle foci del Mekong e del Dong, a cavallo fra Cambogia e
Vietnam del Sud; se questi sono prossimi a Sumatra, il regno di Calicut, con capitale omoni-
ma (oggi Kozhikode), dove sbarcò Vasco de Gama nel 1498, si trova nella provincia sud-occi-
dentale indiana del Malabar, e quindi è più prossimo a Ceylon (v. n. compl.).
86 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS

GEN. - Essi dicono che pri- GEN. - Ipsi docent prius consulendum es-
ma bisogna mirare alla vita se vitae totius, deinde partium. Idcirco
del tutto e poi delle parti; on- quando civitatem extruxerunt signa fixa po-
de quando edificâro la città, suerunt in quatuor mundi angulis; in horo-
posero i segni fissi nelli quat- 5 scopo Leonem et Iovem a Sole orientalem,
tro |19v> angoli del mondo. Mercurium vero ac Venerem in Cancro, sed
Il sole in ascendente in Leo- prope quod facerent satellitium; Martem in
ne, e Giove in Leone orientale Sagittario in quinta, foelici aspectu aphe-
dal sole, e Mercurio e Venere tam et horoscopum roborantem; Lunam in
in Cancro, ma vicini, che fa- 10 Tauro, quae bene aspiciebat Mercurium et
cean satellizio; Marte nella Venerem, nec tamen quadrato feriebat So-
nona in Ariete, che mirava di lem. Saturnus quartam appetebat domum,
sua casa con felice aspetto l’a- nil tamen laedens Solem et Lunam sed sta-
scendente e l’afeta, e la Luna biliens fundamenta erat. |160> Fortuna
in Tauro, che mirava di buo- 15 cum Algol erat in decima, ex quo ipsi augu-
no aspetto Mercurio e Venere, rabantur sibi dominatus firmitatem et ex-
e non facea aspetto quadrato cellentiam. Porro et Mercurius in bono Vir-
al sole. La Fortuna con il ca- ginis aspectu et absidis, a Luna illustratus,
po di Medusa in decima qua- malus esse non potest; et cum iovialis sit,
si era, ond’essi s’augurano si- 20 ipsorum scientia non mendicat; parum cu-
gnoria, fermezza e grandezza. rant in Virgine ipsum praestolari et co-
E Mercurio, sendo in buono niunctionem. Observant quoque ad robur
aspetto di Vergine e nell’assi- et diuturnitatem vitae singularum positio-
de suo, illuminato dalla Lu- nem stellarum in conceptione, ut dictum
na, non può esser tristo; ma, 25
sendo gioviale, la scienza loro
non mendica; poco si curâro
LA CITTÀ DEL SOLE 87

GEN. - Essi credono che bisogna badare prima alla vita del tutto e poi
a quella delle parti. Perciò quando fondarono la città, indicarono i se-
gni fissi sui quattro angoli del tema oroscopico1: Leone all’Ascendente
con Giove orientale rispetto al Sole, Mercurio e Venere in Cancro, ma
vicini a Giove, in modo da creare una concentrazione planetaria; Marte
in Sagittario in quinta casa, che rafforzava con l’aspetto propizio l’afeta
e l’ascendente2; Luna in Toro, in buon aspetto3 con Mercurio e Venere,
ma senza una sfavorevole quadratura col Sole. Saturno entrava in quar-
ta casa, senza comunque nuocere a Sole e Luna, e anzi era quello che
rendeva stabili le fondamenta. Il punto di Fortuna si trovava in decima
casa congiunto con Algol4, e grazie a questa circostanza essi si augurava-
no stabilità e grandezza di dominio. Inoltre anche Mercurio, in buon
aspetto con Vergine e con il proprio apogeo5, influenzato dalla Luna,
non può esser malefico, anzi, risentendo dell’influsso di Giove, i Solari
non sono costretti ad andare elemosinando il sapere e la conoscenza; si
preoccupano poco di aspettarlo in Vergine e della congiunzione. Os-
servano anche, per determinare il vigore e la longevità degli individui,
la posizione delle singole stelle al momento del concepimento, come

1
‘Angoli’ in accezione astrologica sono i quattro cardini dell’oroscopo: Ascendente, Medium
Coeli, Discendente, Imum Coeli (0°, 90°, 180°, 270°).
2
Marte è il vertice di un triangolo che ha agli altri estremi l’Ascendente e il punto di Fortuna
(in nona casa), essendo il trigono (=120°) l’unico aspetto positivo conciliabile.
3
All’interno della circonferenza zodiacale gli astri situati sulle parallele alla linea dei solstizi
‘si guardano’ (mentre quelli sulle parallele alla linea degli equinozi ‘si ascoltano’ [Tolomeo,
Tetrab. I,15-6]); ma questo termine spesso indica genericamente uno degli aspetti astrologi-
camente significativi.
4
Ogni stella, in base a grandezza e colore, è assimilata a un pianeta, di cui quindi viene a con-
dividere, generalmente, le caratteristiche astrologiche; Algol, nome arabo del «capo di Me-
dusa» (T.86.19), appartiene alla costellazione di Perseo e, quale stella di natura saturnina
(Astrol., p. 54), contribuisce alla saldezza della città.
5
Apogeo e perigeo di un pianeta sono gli «absides, in quibus planetae elevantur et deprimun-
tur» (‘Ecloga’, 16, Esp.), che Firpo 1954 (SL, p. 284) e Giancotti (Poesie, p. 617) traducono «le
assidi», adottando la dizione campan. (es.: T.86.23), non accolta dai lessici correnti che regi-
strano ‘abside’ e, meglio, ‘apside’. Gli apsidi hanno un’importanza sia astronomica (il loro
spostamento è uno degli indizi della fine del mondo) sia astrologica, come in questo caso, in
cui significa che Mercurio, trovandosi in Cancro, è in duplice aspetto propizio, essendo in se-
stile (=60°) con Vergine (dove nel V sec., al tempo di Marziano Capella, era collocato il suo
apogeo, e dov’è anche la sua esaltazione) e in triplicità (=120°) con il suo attuale apside, arre-
trato, all’epoca di Copernico, nel segno dello Scorpione – il ms L., commettendo un errore
pur tuttavia sintomatico, riporta infatti: «in buono aspetto di Scorpio e nella triplicità dell’as-
side suo».
88 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS

d’aspettarlo in Vergine e la est. Dicunt enim Deum causas dedisse re-


congiunzione. rum, quibus sapiens uti non abuti debet.
Or essi mangiano carni Cibus ipsorum sunt carnes, buty-
De cibis
diverse, mèle, cascio, datteri rum, mel, caseus, dactyli et olera va-
ed erbe diverse, e prima non 5 rii generis, et a principio nolebant
volevano uccidere gli anima- animalia occidere eo quod crudele videre-
li, parendoli crudeltà; ma poi tur; at considerantes postea crudele quoque
vedendo che era pur crudeltà esse herbas occidere quae sensum et ipsae
ammazzar l’erbe, che han participant, unde fame perire opus erat, in-
senso, onde bisognava mori- 10 tellexerunt res ignobiles nobilium gratia
re, considerâro che le cose factas esse, ideoque nunc omnibus vescun-
ignobili son fatte per le nobili, tur. Non tamen libenter occidunt animalia
e mangiano ogni cosa. Non fructuosa, ut boves et equos. Distinctionem
però uccidono volontieri gli observant ciborum utilium et noxiorum, et
animali fruttuosi, come bovi 15 ex medicinae scientia utuntur eis. Ter ci-
e cavalli. Hanno però distin- bum perpetuo mutant circulo: primo man-
ti li cibi utili dalli dissutili, e ducant carnes, secundo pisces, tertio her-
secondo la medicina si serve- bas, deinde revertuntur ad carnes ne grave-
no; |20r> una fiata mangia- tur nec extenuetur natura. Senes utuntur
no carne, una pesce e una er- 20 cibis digestibilioribus et manducant ter in
be, poi tornano alla carne per die et parum; communitas vero bis, pueri
circolo, per non gravare ed quater, ut Physicus dispensat. Vivunt ut plu-
estenuare la natura. Li vec- rimum ad centum annos, plerique vero ad
chi han cibi più digestibbili, e ducentos.
mangiano tre volte il giorno e 25 In potu temperatissimi sunt. Vi- De potu
poco, li fanciulli quatro, la num iuvenibus non conceditur
comunità due. Vivono alme- usque ad decimum nonum annum, nisi
no cent’anni, al più centoset- necessitas sanitatis urgeat. Post hoc tempus
tanta o doicento al rarissimo. diluto aqua utuntur, ita et mulieres. Senes
E son molto temperati nel be- 30 quinquagenarii aquam plerumque non ap-
vere: vino non si dona a’ fan- ponunt. Manducant pro anni temporibus
ciulli sino alli 19 anni sanza utiliora, et omnino ut a Protomedico, qui
gran necessità, e bivono ma hoc curat, consulitur. Nihil noxium Nota
con aqua, e cos’alle donne; li tunc reputant quando a Deo produci-
vecchi da 50 anni in su lo be- 35 tur, nisi quantitatis multae abusus adsit.
veno senz’aqua, ma, quando Idcirco in aestate fructibus vescuntur, quia
hanno da fare qualche consi- humidi sunt succique pleni et frigidiusculi,
glio o giudizio, vi mettono contra aestus ardorem et ariditatem, in hye-
aqua. Mangiano, secondo la me siccis rebus, in autumno uvis, quoniam
stagione dell’anno, quel che è 40 contra atram bilem et tristitiam datae sunt a
più utile e proprio, secondo la Deo. Utuntur plurimum odoribus. Mane
porzione tassata dal Capome-
dico, che ha cura. Usano as-
sai gli odori: la mattina,
LA CITTÀ DEL SOLE 89

già detto. Dicono infatti che Dio ha fornito le cause di tutte le cose, di
cui il saggio deve far uso, non abuso.
Si cibano di carne, burro, miele, formaggio, datteri e ortaggi Cibi
d’ogni genere. Dapprincipio non volevano macellare gli animali
reputandolo un atto di crudeltà; ma considerando poi che altrettanto
crudele era uccidere le piante, dotate anch’esse di sensazione1, per cui
sarebbe stato inevitabile morire di fame, hanno capito che gli esseri in-
feriori sono stati creati per i superiori, e perciò ora si nutrono di tutto.
Ciononostante malvolentieri uccidono gli animali proficui, come buoi
e cavalli. Sanno distinguere fra cibi salutari e nocivi, e se ne servono in
base ai dettami della scienza medica. Alternano sempre una di queste
tre vivande: il primo giorno mangiano carne, il secondo pesce, il terzo
verdura, quindi ritornano alla carne, per non affaticare e debilitare l’or-
ganismo. Ai vecchi vengono serviti tre volte al giorno cibi più digeribili
e in quantità moderata; la comunità invece mangia due volte al giorno,
i fanciulli quattro, secondo le prescrizioni del Fisiologo. Campano al-
meno cent’anni, ma la maggior parte arriva a duecento.
Sono moderatissimi nel bere. Ai giovani fino a diciannove anni Bevande
è vietato bere vino, salvo per ragioni di salute. Dopo quell’età lo
bevono mischiato con acqua, e così pure le donne. Solo gli uomini che
hanno raggiunto i cinquant’anni, per lo più lo bevono assoluto. Si ciba-
no degli alimenti più proficui in base alla stagione dell’anno, e sempre
dietro parere del Protomedico, a ciò preposto. D’altronde, riten- Nota
gono che nessuna cosa, in quanto creata da Dio, sia nociva, se non
se ne abusa smodatamente2. Perciò d’estate mangiano frutta: perché
è umida, succosa e fresca, onde contrastare la secchezza e la calura del-
la stagione estuosa; d’inverno mangiano cose secche, in autunno uva,
perché Dio ce l’ha data per combattere malinconia e tristezza.
Si servono molto di erbe odorose: al mattino, appena alzati, tutti si

1
‘Senso’ è la sensibilità universale (percezione e attrazione/repulsione), in vari gradi e modi
presente negli enti (primi e secondi, minerali, vegetali e animali), orientati comunque tutti a
quel che oggi chiameremmo ‘istinto di conservazione’: Dio ha dato alle cose «senso d’esser
bene, perché si conservino a sua gloria» (Senso, p. 35; v. n. compl. e n. 14.12-6).
2
Il «Nota» a margine è una rimarcatura di questo periodo. È spesso usata da More, ma intra-
testualmente, come a 266: «Lettore prendi nota di questo». In SN invece le frasi, aventi un
‘Nota’ in glossa, sono in corsivo, per cui, anche coerentemente agli usi tipografici dell’epoca,
si potrebbe considerare la frase da «Nihil» a «adsit» come se fosse sottolineata dall’Autore.
90 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS

quando si levano, si pettina- surgentes pectunt caput, lavantur vultum et


no e lavano con aqua fresca manus in aqua frigida omnes. Deinde denti-
tutti; poi masticano maiora- bus masticant mentam aut petroselinum
na o petrosino o menta, e se aut maratrum, vel manibus confricant, se-
la fregano nelle mani, e li 5 niores thus; et orant orientem versus brevi
vecchi usano incenso; e fan- oratiuncula persimili orationi quam nos do-
no l’orazione brevissima a le- cuit IESUS CHRISTUS. Et egrediuntur alii
vante come il Pater noster; ad ministrandum senibus, alii in chorum,
ed escono e vanno chi a far alii ad functiones reipublicae. Deinde se
una cosa e chi un’altra; poi 10 conferunt ad lectiones primas, deinde in
si riducono alle prime lezioni, templum, deinde ad exercitium corporale,
poi al tempio, poi escono all’e- deinde quiescunt parumper, sedendo, et
sercizio, poi riposano poco, se- tandem ad prandium accedunt.
dendo, e vanno a magnare. Inter eos non est podagra, ne- De morbis
Tra loro non c’è podagre, 15 que chiragra, nec catarrhi, nec Solarium
né chiragre, né doglie |20v> schiatica, nec colici dolores, nec et cura
coliche, né sciatiche, né catar- inflationes et flatus: hi enim morbi a
ri, né flati, perché questi na- distillatione oriuntur et ab inflatione: ipsi
scono dalla distillazione ed autem frugalitate et exercitio dissolvunt hu-
inflazione, ed essi per l’esser- 20 morem omnem et flatum. Quapropter de-
cizio purgano ogni flato ed decus est magnum, si quis spuere et excrea-
umore. Onde è tenuto a ver- re conspicitur: aiunt enim hoc signum esse
gogna che uno si vegga spu- vel pauci exercitii vel ignavae pigritiae vel
tare, dicendo che questo nasce crapulae et ingluviei. Potius inflammationi-
da poco essercizio, da poltro- 25 bus laborant aut spasmo sicco, quibus copia
neria e dal mangiar’ingordo. succulenti probique cibi succurrunt. Hecti-
Patiscono più tosto d’infia- cas vero dulcibus curant balneis et lactici-
mazioni e spasmi secchi alli niis et habitatione amoena in villis et lento
quali con la copia del buon laetoque exercitio. Lues venerea praevalere
cibo sovvengono; e all’ettica 30 non potest inter eos, quoniam crebro lava-
con bagni dolci, e latticini, e cro vini corpora mundant oleisque aromati-
star in campagne amene in cis leniunt et sudore exercitii dissolvunt va-
bello essercizio. Morbo venereo porem foetidum a quo putrescit sanguis et
non può allignarvi, perché si medulla. Phthysim minuspatiuntur, quia di-
lavano spesso li corpi con vi- 35 stillatione carent ad pectus, minime autem
no ed ogli aromatici; ed il su- asthma, cuius constitutioni crassus humor
dore leva quell’infetto vapore, requiritur. Curant febres ardentes frigido
che putrefà il sangue e le me- aquae potu; ephemeras vero odoribus et
dolle. Né tisici si fanno, per
non esser distillazione che ca- 40
schi al petto, e molto meno
asma, poiché umori grossi ci
vole a farla. Curano le febri
ardenti con aqua fresca, l’efi-
LA CITTÀ DEL SOLE 91

pettinano, si lavano la faccia e le mani con acqua fredda; poi masticano


o sfregano fra le mani menta o prezzemolo o finocchio; i vecchi usano
l’incenso; e poi volgendosi a oriente elevano una breve preghiera simi-
le a quella che ci ha insegnato Gesù Cristo. Quindi si recano chi ad ac-
cudire gli anziani, chi nel coro, chi alle funzioni pubbliche; dopo vanno
alle prime lezioni, poi al tempio, agli esercizi ginnici, poi stanno un po’
seduti a riposare, e finalmente vanno a pranzo.
Non soffrono di gotta, né ai piedi né alle mani, e neppure Malattie
di catarri, sciatica, coliche, infiammazioni e meteorismi: que- dei Solari e
ste malattie infatti insorgono dalla eccessiva secrezione di umo- loro cure
ri e da rigonfiamenti; ma con la frugalità e l’esercizio essi fanno spa-
rire ogni umore e flato. Perciò è sommamente indecoroso per qualcu-
no esser sorpreso a sputare e scatarrare: dicono infatti che questo è se-
gno o di scarso esercizio fisico e quindi di poltroneria, o di gozzoviglia e
quindi di ingordigia. Sono più soggetti alle infiammazioni o allo spa-
smo secco, cui rimediano con molti cibi sani e sugosi. Curano le febbri
etiche1 con bagni rilassanti, latticini, ameni soggiorni in campagna e
con esercizi moderati e piacevoli. La sifilide non può diffondersi tra lo-
ro, perché si lavano spesso il corpo con il vino e lo leniscono con oli aro-
matici, e col sudore degli esercizi fisici si elimina anche il vapore infetto
che corrompe sangue e midollo. Soffrono raramente di tisi, perché non
hanno catarri distillatisi nel petto, e ancor meno di asma, causata da un
umore denso. Curano le febbri ardenti2 col bere acqua fredda; le pas-

1
Portano estenuatezza, secchezza e consunzione, e sono dovute all’anormale ritenzione di
calore nella parte solida degli organi, che consuma l’umidità corporea: «Per Hecticam, con-
sumitur soliditas ac spiritus exhalat et compositum dissolvitur» (Physiol. VI I, p. 31; la classifi-
cazione delle febbri s’ispira alla trattatistica galenica: v. n. compl.).
2
Febbri originatesi negli spiriti vitali; le effimere (rigo 38) sono quelle che durano da 24 a 72
ore (SD XIV VI).
92 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS

mere solo con odori e brodi brodio pingui aut somno aut sonis aut exul-
grassi o con dormire o con tatione; tertianas emissione sanguinis et
suoni e allegrie; le terzane con reubarbaro aut persimili attractivo aut de-
levar sangue e con reubarba- cocta aqua in radicibus herbarum purgati-
ro o simili attrattivi, o con be- 5 varum et acetosarum. Sed raro medicinam
vere aque di radiche d’erbe purgativam bibunt. Quartanas facile curant
purganti e acetose. Raro ven- repentinum improvisis metum incutientes
gono a medicina purgante. et herbis humori quartanae oppositis aut
|21r> Le quartane son facili persimilibus; et ostenderunt mihi arcana
a sanare per paure subbite, 10 contra ipsas. Diligentiori opera curant con-
per erbe simili all’umore o op- tinuas, a quibus pavent magis, et observatio-
posite; e mi mostrâro certi se- ne stellarum et herbarum et precibus ad
creti mirabili di quelle. Delle Deum contra ipsas dimicant. Quintanas,
continue tengono conto assai, sextanas, octanas etc. fere nullas vides, ubi
e fann’osservanza di stelle e 15
d’erbe, e preghiere a Dio per
sanarle. Quintane, sestane,
ottane poche si trovano, dove
LA CITTÀ DEL SOLE 93

seggere con odori e brodi grassi o col sonno o con musica e allegria; le
terzane con salassi e rabarbaro, o attrattivi1 analoghi, o con decotti di ra-
dici di erbe purgative e acidule. Ma raramente prendono purganti. Cu-
rano facilmente le quartane col causare al malato un repentino spaven-
to2 e per mezzo di erbe dalle proprietà opposte o identiche3 all’umore
della quartana; e mi mostrarono le loro ricette segrete contro queste
febbri. Maggiore impegno profondono contro le febbri persistenti, più
temute, e contro di esse ricorrono all’osservazione degli astri, alle erbe
e alle preghiere a Dio. Non vedi quasi mai quintane, sestane, ottane

1
Nella medicina antica: ‘che attira gli umori del corpo’ (GDLI). «Le cose che odore e sapore
di collera [=bile] hanno, sono atte a purgare la collera per similitudine, come il reubarbaro»
(Senso, p. 247-8; Medicina V III-VIII è dedicato ai purganti; v. n. 111.1). Nel trattato sui sempli-
ci di Avicenna, Canon II II, 585 (I, 159G-H), al rabarbaro si attribuiscono, tra le altre virtù
(principalmente trar fuori la bile), quella di giovare «febribus antiquis et habentibus perio-
dos» (come sono appunto le terzane). Attrattive (e lassative) sono quelle sostanze che per le
loro qualità di calore e sottigliezza riescono ad attrarre ed estrarre ‘corpi’ estranei e nocivi
(duri o molli, come gli umori) dall’organismo, «ut magnetes, asa faetida, maiorana, apium,
piretrum...» (SD XII LXXXIV).
2
Il potere terapeutico della paura improvvisa è così spiegato da Epilogo, p. 498: la febbre com-
porta un’esalazione eccessiva di calore, quindi di spiriti; invece «nella paura, lo spirito fugge
dentro... et si fa [=crea un] senso di freddo», e così questa adunata e concentrazione di spiri-
ti, psicosomaticamente indotta, potrà meglio sciogliere gli umori superflui. In Medicina, p.
678 narra di alcuni casi di guarigioni dalla febbre quartana (da cui lui stesso era stato afflitto
a 14 anni: Syntagma I I), in seguito a paure per gravi incidenti o torture. La fonte è Telesio, V,
29 (II, p. 379): «lo spirito... nella paura e nella tristezza si raccoglie tutto nei ventricoli del
cervello e negli altri casi nelle parti esterne»; nel caso di febbri persistenti, in cui cioè lo spi-
rito (= calore) si è diffuso negli organi corporei periferici (e rischia di esalare), occorre co-
stringerlo a riagglomerarsi e compattarsi nella sua sede naturale, il cervello: ecco spiegato il
ricorso alle paure repentine. Analogamente per Della Porta (Fisonomia VI XIII, p.982): l’ec-
cesso di umori porta alla loro putrefazione, se non si riesce ad espellerli o neutralizzarli; la
quale putrefazione genera calore, ovvero febbre e allora «la paura molto raffredda per modo
di disseccare», tanto che correntemente si dice che il terrore gela il sangue; più precisamen-
te condensa e quindi essicca gli umori, impedendone l’alterazione maligna.
3
Medicina, p. 282: le medicine devono avere o la proprietà «attrahendi per similitudinem, ut
senna melancholiam; vel extinguendi per oppositionem, ut borrago, vel acoetosella et aran-
tii et citri pars interior, quae melancholiam reprimunt minuuntque». Questa teoria ‘omeo-
patica’, ripetutamente e variamente enunciata (ad es. Senso, p. 216 dove loda «il Porta»; Phy-
siol. [in Epilogo, p. 442]; Theol. IV [II, p. 115]; vi è anche un’estensione escatologica in Politici,
p. 118: «Li Macchiavellisti... son imperversanti a guisa de demoni [dei] quali sono imitatori,
e alfine saran compagni, perché ogni simile va al suo simile» [v. n. 125.3]), tale teoria era dif-
fusa tra gli scienziati cinquecenteschi, come appunto Della Porta, Magia I XIII c. 21r-v: «De si-
mili assai ne dicano i precetti de’ Medici, come alcune parti del corpo si rallegrano del lor si-
mile, come il cervello del cervello, i denti de denti... e finalmente ogni membro al membro
simile fa gran giovamento», per cui, ad es., «se desideri far uno loquace, dagli lingue da man-
giare»; e Persio, p. 35: «quando volete alimentar bene un de’ vostri membri, per essempio il
cielebro, o il fegato, o tale altro, mangiate di un simile membro d’animale, il quale habbi
qualche raffronto colla complession dell’huomo, cioè cielebro o fegato di gallina o d’altri».
94 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS

non ci sono umori grossi. crassi humores desunt. |161> Utuntur bal-
Usano li bagni ed olii all’u- neis, ideo et thermas habent ritu Romano-
sanza antica, e ci trovâro rum, et oleis; ac longe plura remedia arcana
molti più secreti per star net- invenerunt ad munditiem, sanitatem et ro-
to, sano, gagliardo. Si sforza- 5 bur servandum. His aliisque modis dimi-
no con quest’ed altri modi cant contra morbum sacrum quo crebro in-
aiutarsi contra il morbo sa- festantur.
cro, che ne pateno spesso. HOSP. - Signum mirifici ingenii, unde
OSP. - Segno d’ingegno Hercules, Scotus, Socrates, Callimachus et
grande, ond’Ercole, Socrate, 10 Machomettus eodem laborarunt.
Macometto, Callimaco ne GEN. - Dimicant autem precibus ad coe-
patîro. lum, corroboratione capitis et rebus acidis
GEN. - E s’aiutano con et exquisita exultatione et brodiis pinguibus
preghier’al cielo e con odori e insparsis flore farinae triticeae. In condien-
confortamenti della testa e co- 15 dis ferculis peritissimi sunt: apponunt ma-
se acide e allegrezze e brodi cim, mel, butyrum, aromata multa valde
grassi, sparsi di fiore di fari- corroborantia; et pinguedinem acetosis
na. Nel condire le vivande temperant, ne unquam respuant. Non bi-
non han pari, con macis, mè- bunt frigidum nive potum nec calefactum
le, butiro e con aromati assai, 20 ex arte, uti Chinenses; non enim indigent
che ti confortano grandemen- auxilio contra humores in caloris nativi sub-
te. Non beveno annevato, sidium, sed hunc roborant contuso allio,
neanche caldo, come li Chine- aceto, serpillo, menta, basilico, in aestate et
si, perché non han bisogno lassitudine praesertim. Norunt et arcanum
d’aiutarsi contro l’umori in 25 ad renovandam vitam quolibet post septen-
favor del calore, ma lo confor- nio, absque afflictione et ex arte suavi ac mi-
tano con aglio pesto ed aceto, rifica quidem.
serpillo, menta e basilico, l’e- HOSP. - Adhuc de scientiis De magistratuum
state e nella stanchezza. et magistratibus non dixisti. electione
Hanno un secreto di rinovar 30 GEN. - Utique, sed quo- et regimine et
la vita ogni sett’anni, sen- niam ita curiosus es, plura an- Concilio iterum
s’afflizione, con buon’arte. nectam. Quolibet in novilunio ac pressius
OSP. - Non hai ancora det- ac plenilunio congregant Con-
to delle scienze e dell’officiali, cilium post sacrificium. Huc admittuntur
che molto desidero sapere. 35 omnes a viginti annis et supra, et interro-
GEN. - Sì, ma poiché sei gantur una singuli, ut referant quid desit
tanto |21v> curioso, ti dirò di reipublicae, qui magistratus suo munere
più. Ogni nova Luna ed
ogni opposizione sua fanno
consiglio dopo il sacrificio; e 40
qui entrano tutti da venti an-
ni in su, e si dimanda ad
ognuno che cosa manca alla
città, e quale officiale sia buo-
LA CITTÀ DEL SOLE 95

ecc., in quanto essi sono privi di umori densi. Fanno anche ricorso ai ba-
gni – perciò hanno le terme come i Romani –, e agli oli balsamici; e
hanno scoperto tanti altri segreti per conservare l’igiene, la salute e il vi-
gore del corpo. In questi e in altri modi combattono il morbo sacro da
cui sono spesso afflitti.
OSP. - Segno questo di genialità, tanto che anche Ercole, Scoto, So-
crate, Callimaco e Maometto ne furono colpiti1.
GEN. - Essi lo combattono con preghiere al cielo, col ritemprare gli
spiriti della testa, con sostanze acide, col cercare di stare in allegria, con
brodi grassi cosparsi di fiore di farina di grano. Sono abilissimi nel con-
dire le pietanze: vi mischiano macis2, miele, burro e molte spezie corro-
boranti, correggendone il grasso con sostanze acetose, per evitare di
sputare. Non usano bevande raffreddate con la neve, o, come fanno i
Cinesi, artificialmente riscaldate; infatti non hanno bisogno di alcun ri-
costituente per rafforzare il calore naturale corporeo contro l’eccesso
di umori, ma in estate e specialmente nei momenti di stanchezza lo for-
tificano con aglio tritato, aceto, timo, menta, basilico. Conoscono an-
che un segreto per ringiovanire ogni sette anni3, senza dolore, con me-
todi dolci e tuttavia portentosi.
OSP. - Non mi hai ancora parlato delle scienze e dei magi- Di nuovo,
strati. ma più
GEN. - Non è vero, ma poiché sei tanto curioso, aggiun- brevemente,
sull’elezione
gerò ulteriori particolari. Ad ogni novilunio e plenilunio, dei magistrati,
dopo l’ufficio divino, si riuniscono in Consiglio. Ad esso so- il governo e
no ammessi tutti i cittadini dai venti anni in su, e si domanda il Consiglio
ad ognuno di riferire pubblicamente sulle carenze della Città4,

1
Giovanni Duns Scoto, filosofo e teologo inglese del XIII sec., soprannominato ‘doctor sub-
tilis’ per l’acutezza dei suoi scritti; Callimaco è probabilmente una svista per Maraco, antico
poeta siracusano, menzionato nei Problemata aristotelici, insieme a Socrate, dei cui stati esta-
tici parla anche Gellio (II I, 1-3; v. n. compl.).
2
È l’involucro carnoso situato tra il frutto della noce moscata e la buccia esterna (v. n. compl.).
3
Dopo sette anni avvengono dei ‘mutamenti’ fisiologici (trasformazioni, ‘esalazioni’, ri-gene-
razioni), «perché in questi [numeri] patiscono novità» (Epilogo, p. 441); tali mutamenti cli-
materici delle membra fanno «buoni succhi dentro [l’organismo] generare, e ammollire la
carne e ossa e purgare, finché ogni pravità esali e si rinovi tutta la temperie. Dal che si vede
che l’uomo muta complessione... perché a puerizia è ridotto il corpo, e così si può trovar ar-
te e rinnovare la vita... La magia imita questo nella teriaca e purgazioni segrete e unzioni
esteriori» (Senso, p. 262-3; v. n. compl.).
4
Letteralmente: ‘di cosa manca allo stato’, cioè i bisogni; oppure ‘in cosa manca lo stato’,
cioè le inadempienze (così, secondo Crahay, p. 171: «ce qui ne va pas dans l’Etat»)? La tra-
96 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS

no e quale sia tristo. Dopo recte fungantur et qui prave. Item post oc-
ogn’otto dì, si congregano tavum quemque diem omnes magistratus
tutti l’officiali, che sono il So- congregantur, videlicet Hoh primus et cum
le, Potestà, Sapienza, Amore; eo Potestas, Sapientia et Amor, quorum qui-
e ognun di questi ha tre offi- 5 sque tres sub se magistratus habet, qui simul
ziali sotto di sé, che sono tre- sunt tredecim, iique functiones artium sibi
dici, e ognuno di quelli tre al- convenientium habent: Potestas militiae,
tri, che fan 40; e quelli han Sapientia scientiarum, Amor victus, vestitus,
l’officio dell’arti convenienti generationis et educationis. Conveniunt et
a loro, il Potestà della mili- 10 omnium agminum magistri, qui sunt decu-
zia, Sapienza delle scienze, riones, quinquagenarii, centuriones, cum
Amore del vitto, generazione, mulierum tum virorum, et tractatur de his,
vestito ed educazione, e li ma- quae reipublicae intersunt, et eliguntur ma-
stri d’ogni squadra, cioè ca- gistratus, qui tantummodo nominati antea
porioni, decurioni, centurio- 15 fuerant in Concilio magno. Itidem quotidie
ni sì dell’uomini come delle consilium ineunt Hoh et tresviri Principes
donne. E si ragiona di quel de rebus occurrentibus, et corrigunt et con-
che bisogna al publico, e s’e- firmant et exequuntur quae decisa sunt in
leggono l’officiali, nominati electionibus, alia provident necessaria. Non
nel Consiglio grande. Dopo 20 utuntur sortibus, nisi ubi sunt omnino dubii
ogni dì fa consiglio Sole e li quo pendere debeant. Hi magistratus per-
tre Prencipi delle cose occor- mutantur iuxta populi voluntatem. At prio-
renti e confirmano o conciano res quatuor nunquam, nisi ipsimet de consi-
quel che s’è trattato nell’ele- lio inter eos habito cedant dignitatem illi,
zione, e l’altri bisogni. Non 25 quem pernoverint sapientiorem seipsis et
usano sorti, se non quando ingenio clariorem et puriorem; profecto ita
son dubi in modo che non dociles ac probi sunt, quod libenter cedunt
sanno a qual parte pendere. sapientiori et ab eo discunt. Sed hoc raro
Questi officiali si mutano se- accidit.
condo la volontà del popolo 30 Principalia scientiarum capita subiiciun-
s’inchina, ma li quattro pri- tur Sapientiae triumviro praeter Metaphysi-
mi no, se non quando essi cum, qui est ipse Hoh, qui omnibus scientiis
stessi, per consiglio fatto tra
loro, cedeno a chi veggono sa-
per più di loro, ed aver più 35
purgato ingegno; e son tanto
docili e buoni, che volentieri
cedeno |22r> a chi più sa e
imparano da quelli; ma que-
sto è di raro assai. 40
Li capi principali delle
scienze sono soggetti al Sa-
pienza, altro ch’il Metafisico
ch’è esso Sole, che a tutte
LA CITTÀ DEL SOLE 97

quale magistrato fa bene il suo dovere e quale si comporta male. Del pa-
ri, ogni otto giorni tutti i magistrati si riuniscono: cioè, insieme alla pri-
ma carica dello stato, Hoh, vi sono Potestà, Sapienza e Amore, ognuno
dei quali ha sotto di sé tre magistrati – e in tutto fanno tredici –, e cia-
scuno presiede alle rispettive competenze: Potestà alla difesa, Sapienza
alle scienze, Amore a vitto, vestiario, generazione e educazione; si radu-
nano altresì i comandanti di ogni squadra sia di uomini che di donne,
cioè i centurioni, i quinquagenari, i decurioni. Tutti costoro trattano le
cose di pubblico interesse, e ratificano la nomina dei magistrati che il
Consiglio grande in precedenza aveva soltanto proposto. Inoltre Hoh e
i triumviri giornalmente si consultano sugli affari correnti, rettificano,
confermano e fanno eseguire le decisioni prese dall’assemblea, e prov-
vedono a tutto quanto è necessario. Non si servono dei sorteggi, se non
quando proprio non sanno che decisione prendere. Questi magistrati
sono sostituiti secondo la volontà popolare. Ma i primi quattro mai,
tranne quando essi stessi, dopo aver deliberato insieme, decidono di la-
sciare l’incarico a colui che hanno visto esser più sapiente e d’ingegno
più acuto e retto del loro; sono davvero così miti e disinteressati, che vo-
lontariamente si dimettono e si rimettono al più sapiente. Ma ciò acca-
de di rado.
I principali capi delle scienze sono soggetti al triumviro Sapienza sal-
vo il Metafisico, cioè Hoh, che sovrintende su tutti i campi come un ar-

duzione cerca di salvaguardare entrambi i sensi, attraverso il duplice valore, soggettivo e og-
gettivo (più letterale), del genitivo.
98 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS

scienze comanda, come archi- imperat, sicut architectus, et pudet illum


tetto, e ha vergogna ignorare quippiam possibile mortalibus ignorare.
cosa alcuna al modo umano. Sub Sapientia ergo est Grammaticus, Logi-
Sotto a lui sta il Grammatico, cus, Physicus, Medicus, Politicus, Moralis,
il Logico, il Fisico, il Medico, 5 Oeconomicus, Astrologus, Astronomus,
il Politico, l’Economico, il Geometra, Cosmographus, Musicus, Pro-
Morale, l’Astronomo, l’Astro- spectivus, Arithmeticus, Poëta, Rhetor, Pic-
logo, il Geometra, il Cosmo- tor, Sculptor. Sub Amore triumviro est Geni-
grafo, il Musico, l’Aritmetico, tarius, Educator, Medicus, Vestiarius, Agri-
il Poeta, l’Oratore, il Prospet- 10 cola, Pastor, Armentarius, Cicurarius, Ma-
tivo, il Pittore, Scultore. gnus Coquinarius, Farctor etc. Sub Potesta-
Sott’Amore sta il Genitario, te triumviro sunt Stratagemarius, Campio-
l’Educatore, il Vestiario, l’A- nista, Ferrarius, Armarius, Argentarius, Mo-
gricola, l’Armentario, il Pa- netarius, Architectus, Magister explorato-
store, il Cicurario, il Gran 15 rum, Magister equitum et peditum et ae-
Coquinario. Sotto Potestà il quorum, Gladiator, Bombardarius, Fundi-
Stratagemmario, il Campio- bularius, Iustitiarius. Ac hi omnes sub se ha-
ne, il Ferrario, l’Armario, bent particulares artifices.
l’Argentario, il Monetario, HOSP. - De iudicibus autem De iudicandi
l’Ingegnero, Mastro spia, 20 quid? modo et
Mastro cavallarizo, il Gla- GEN. - Hoc dicere cogitabam: iudices
diatore, l’Artigliero, il From- singuli iudicantur a magistro primo
bolario, il Giustiziero. E tutti suae artis, ergo omnes artifices primates
questi hanno li particolari sunt iudices et puniunt exilio, flagellis, vitu-
artefici soggetti. 25 perio, privatione mensae communis, inter-
Or qui hai da sapere ch’o-
gnuno è giudicato da quello
dell’arte sua; talch’ogni capo
dell’arte è giudice, e punisce
d’esilio, di frusta, di vitupe- 30
rio, di non mangiar in men-
sa comune, di non andar in
LA CITTÀ DEL SOLE 99

chitetto e che si vergognerebbe di ignorare qualsiasi cosa accessibile al-


la mente umana. Sotto il Sapienza vi sono il Grammatico1, il Logico, il
Fisiologo, il Medico, il Politico, il Morale, l’Economo, l’Astrologo, l’A-
stronomo, il Geometra, il Cosmografo, il Musico, il Maestro di prospet-
tiva2, l’Aritmetico, il Poeta, il Retore, il Pittore, lo Scultore. Sotto il
triumviro Amore stanno il Maestro della Generazione, l’Educatore, il
Medico, il Guardarobiere, l’Agricoltore, il Pastore, il Mandriano, l’Ad-
domesticatore3, il Capocuoco, il Farcitore ecc. Sotto il triumviro Potestà
vi sono il Tattico, l’Istruttore, il Fabbro ferraio, l’Armaiolo, il Tesoriere,
il Coniatore di monete, l’Architetto, il Capo delle spie, il Comandante
dei cavalieri, dei fanti e dei marinai, il Maestro di scherma, l’Artigliere,
il Fromboliere, l’Ufficiale di giustizia4. E tutti costoro hanno ai loro or-
dini gli artigiani della singola specialità.
OSP. - Che dici poi dei giudici? I giudici e
GEN. - Pensavo proprio di parlarti della giustizia. Ognuno è il modo di
giudicabile dal magistrato della sua arte, quindi tutti i capi del- giudicare
le arti sono anche giudici e possono punire con l’esilio, con la
frusta, con il biasimo, con l’interdizione dalla mensa comune, dal tem-

1
A rigore, cioè in base a quanto detto a 28.36, si tratterebbe del responsabile dei professori
di lingue straniere; tuttavia la prossimità a «Logicus» (come a 30.27) induce a una traduzio-
ne più letterale.
2
La prospettiva era considerata quella branca della geometria dedicata allo studio della per-
cezione e rappresentazione dello spazio, utilizzata eminentemente in pittura.
3
Assente nei lessici: Du Cange e il Thes. riportano il tardo latino ‘cicur’ = mansueto (v. 82.16),
da cui ‘cicurare’ = ‘mansuefacere’ (così Varrone, VII, 91: «‘cicur’ designa ciò che non è sel-
vaggio»; Celio, XIII VIII, p. 477: di Eliogabalo si tramanda che avesse leoni e leopardi «exar-
matos cicuresque: quos ita instituerant mansuetarii, ut ad mensas secundas iussi accumbe-
rent...»): è colui che si occupa dell’ammaestramento degli animali domestici (per le fiere vi
è il ‘domitor’ – contemplato anche in Garzoni, CXXXVII: ‘De’ domesticatori d’animali sel-
vatici’); mentre l’allevamento è curato dal ‘pastor’ che pascola ovini e suini, e l’‘armentarius’
buoi e cavalli (il «Bubuculus» di Mon. Messiae I,7 traduce il «bifolco» di Mon. del Messia, p. 49;
per la distinzione ‘armenta’/‘greges’ cfr Isidoro, XII [in SN XVIII II]).
4
Per l’elencazione v. n. 32.35; in particolare lo «Stratagemarius» – da non confondere con lo
stratega (=es. Crahay, p. 173: «Stratège») perché lo ‘strategus’ è «dux exercitus» (Forcellini),
mentre il comandante supremo dell’esercito solare è Potestà (66.31) –, è uno specialista nel-
le tattiche militari, disciplina che fino a più di un secolo e mezzo fa si chiamava proprio ‘stra-
tegica’: «l’arte degli stratagemmi della guerra», secondo il Diz. tecn.–etimol.–filolog. (Milano,
Pirola, 1829); il «Campionista» è presumibilmente il capitano degli ‘atleti’, cioè degli istrut-
tori delle arti marziali (62.27); lo «Iustitiarius», infine, è un alto magistrato incaricato di am-
ministrare la giustizia (non il Giustiziere perché i Solari ne sono sprovvisti [100.27]); a Na-
poli vi era la carica «del Gran Giustiziero, soprintendente di giustizia, retto in pratica dal reg-
gente della Vicaria» (Leone, p. 163), espressamente evocato da Mon. Messiae XIV, p. 69:
«Nam Iustitiarius Neapolitanus dependet a Prorege immediate, a Rege mediate».
100 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS

chiesa, né parlar alle donne. dicto ecclesiae, commercii mulierum. At


Ma quand’occorre caso in- cum casus accidit iniuriosus, morte punitur,
giurioso, l’omicidio si punisce et oculum pro oculo solvunt, nasum pro na-
con morte, e occhio per occhio, so, dentem pro dente etc., iuxta legem ta-
naso per naso, si paga per la 5 lionis, si casus est voluntarius et praefuit
pariglia, quando |22v> è ca- consilium. Quando vero rixa est ac nullo
so pensato. Quando è rissa praeeunte consilio accidit, sententia mitiga-
subitania, si mitiga la sen- tur, non tamen a iudice sed a triumviratu, a
tenza, ma non dal giudice, quibus etiam provocatur ad Hoh non per
perché condanna subito se- 10 iustitiam sed per gratiam. Hic autem potest
condo la legge, ma dalli tre condonare. Carceres non habent, nisi tur-
principi. E s’appella pure al rem unam ad includendos rebelles hostes
Sole per grazia, non per giu- etc. Non scribitur libellus causae, quem vul-
stizia, e quello può far la gra- go |162> dicimus processum, sed coram iu-
zia. Non tengono carcere, se 15 dice ac Potestate accusatio et testes produ-
non per qualche ribello nemi- cuntur, et reus respondet defensionem; et
co un torrione. Non si scrive statim absolvitur aut condemnatur a iudice;
processo, ma in presenza del et si provocat ad triumvirum, sequenti die
giudice e del Potestà si dice il absolvitur aut condemnatur. Tertio vero die
pro e contra, e subito si con- 20 ab Hoh aut gratis dimittitur per indulgen-
danna dal giudice; e poi dal tiam aut sententia inviolabilem accipit fir-
Podestà, se s’appella, il se- mitatem, et reus accusatori conciliatur et te-
quente dì si condanna; e poi stibus, tanquam medicis suae aegritudinis,
dal Sole il terzo dì s’aggrazia amplexu osculoque etc. Nec quispiam mori-
o condanna, e non può mori- 25 tur nisi manibus populi occidatur aut lapi-
re se tutto il popolo a man co- detur, primo tamen incipientibus accusato-
mune non l’uccide; ché boia re ac testibus: carnifices enim et lictores
non hanno, ma tutti lo lapi- non habent, ne foedetur respublica. Aliis
dano o brugiano, facendo vero datur electio mortis, qui sibi pulverem
ch’esso si leghi la polvere per 30 bellicum in sacculis circumdant et supposi-
morir subito. E tutti piango- to igne cremantur, assistentibus hortatori-
no e pregano Dio, che plachi bus ad bene moriendum. Tota autem civitas
l’ira sua, dolendosi che sian collacrymatur et precantur Deum ut sede-
venuti a secar un membro in- tur ira sua, dolentes quod eo devenerint ut
fetto dal corpo della republi- 35 membrum reipublicae putridum habeant
ca; e fanno di modo che esso resecandum. Et quidem rationibus ipsum
stesso accetti la sentenza, e di- reum convincunt et sermocinantur donec
sputano con lui fintanto ipsemet acceptet cupiatque sententiam ca-
ch’esso, convinto, dica che la pitis, alioquin nec moritur. At si facinus
merita; ma quando è caso 40 commissum est contra libertatem reipubli-
contra la libertà o contra Dio cae aut contra Deum aut contra magistratus
o contra l’officiali maggiori, supremos, absque misericordia fit subito
sensa misericordia s’esequi-
sce. Questi solo si puniscono
LA CITTÀ DEL SOLE 101

pio e dai rapporti con le donne. Ma quando si verifica un caso partico-


larmente grave, l’omicidio è punito con la morte, o con la legge del ta-
glione – occhio per occhio, naso per naso, dente per dente ecc. –, se il
reato fu volontario e premeditato. Nel caso di lite, e quindi di un reato
non premeditato, si mitiga la sentenza, ma non dal giudice, bensì dai
triumviri, per il giudizio dei quali ci si può anche appellare a Hoh non
per mutare la sentenza, ma per condonare la pena. Solo lui ha infatti il
potere di concedere la grazia. Non hanno carceri, tranne una torre in
cui rinchiudere i nemici ribelli. Non si scrivono quegli atti da noi detti
comunemente processo, ma l’accusatore con i testimoni si presenta da-
vanti al giudice e al triumviro Potestà, e poi tocca all’accusato difender-
si; subito dopo il giudice assolve o condanna; e se ci si appella al trium-
viro, il giorno seguente viene emessa la sentenza definitiva. Il terzo gior-
no Hoh concede la grazia o conferma inappellabilmente la sentenza; in
quest’ultimo caso il colpevole si riconcilia con l’accusatore e con i testi-
moni, quasi come se fossero medici che l’hanno sanato dalla sua malat-
tia, baciandoli e abbracciandoli. Al popolo soltanto poi spetta mettere a
morte o lapidare il condannato, e il primo colpo viene scagliato dall’ac-
cusatore e dai testimoni: non hanno infatti boia o littori per non mac-
chiare lo stato. Ad alcuni condannati è concesso di scegliere come mo-
rire, e costoro, cintisi di sacchetti di polvere da sparo, si danno fuoco,
assistiti da quelli che li esortano ad una buona morte. Tutta la città in-
fatti piange e prega Dio di placare la sua ira, dolendosi di aver dovuto
resecare dal corpo dello stato un suo membro infetto. E con opportune
argomentazioni riescono a convincere il condannato ad accettare e ad-
dirittura desiderare la pena capitale, altrimenti non può essere giusti-
ziato. Ma i crimini contro lo stato, contro Dio o i magistrati supremi,
senza misericordia vengono immediatamente puniti, e puniti con la
102 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS

con morte; e quel che more ha animadversio. Hi tantummodo morte pu-


da dire tutte le cause perché niuntur. Qui autem moriturus est, coram
non deve morire, e li peccati populo cogitur ex religione dicere causas
dell’altri e dell’officiali, di- quibus non deberet mori, et peccata alio-
cendo quelli meritano peggio; 5 rum qui mori et ipsi deberent, et culpas ma-
e se vince, lo mandano in esi- gistratuum, asserendo quod hi deterius sup-
lio e purgano la città con pre- plicium mererentur, si tamen ita videtur illi
ghiere, sacrifici e amende; in conscientia. Ac si vicerit rationibus, mitti-
|23r> ma non però travaglia- tur in exilium et expiant civitatem precibus,
no li nominati. 10 sacrificiis et emendationibus; non tamen
Li falli di fragilità e d’i- nominatos a reo vexant, sed admonent.
gnoranza si puniscono solo Peccata fragilitatis et ignorantiae puniun-
con vituperi, e con farli impa- tur tantummodo vituperiis et coactione ad
rare a contenersi, e quell’arte consuetudinem continentiae aut ad discipli-
in cui peccò, o in altra, e si 15 nam illarum scientiarum aut artium, contra
trattano in modo, che par l’u- quas peccavit; et ad se invicem ita se habent,
no membro dell’altro. quod videntur omnino esse eiusdem corpo-
Qui è da sapere che s’un ris membra et alter alterius.
peccatore, sensa aspettare ac- Hic scias velim quod, si quis peccator
cusa, va da se stesso all’offi- 20 non expectata accusatione ultro magistra-
ciali ad accusarsi e diman- tus adit, accusans se ac petens emendatio-
dar mercede, lo liberano dalla nem, liberatur a poena occulti criminis,
pena del occulto peccato, sia quae commutatur in aliam, dum accusatus
chi si vuole, mentre non fu non fuisset. Magnopere cavent ne cui qui-
accusato. 25 spiam calumniam struat; si quidem, in poe-
Si guardan’assai dalla ca- nam talionis incidat est opus. Et quia sem-
lunia per non patir la mede- per turmatim ambulant et operantur, quin-
sma pena. E perché quasi que testes ad convincendum peccatorem re-
sempre stanno accompagnati, quiruntur: alioquin, praestito iuramento, li-
ci vuol cinque testimoni a 30 beratur cum comminatione. Sin secunda et
convincere, se non se libera tertia vice accusatur sub duobus aut tribus
col giuramento. Ma se due al- testibus, geminatam pendet poenam.
tre volte è accusato da doi o Ipsorum leges paucae sunt ac Leges.
tre testimoni, al doppio paga breves et clarae, descriptae omnes Iudicium
la pena. 35 in tabula aerea, pendente ad valvas
Le leggi son pochissime, templi, hoc est in columnis; et quidem, in
tutte scritte in una tavola di singulis columnis inscriptae, cernuntur
rame alla porta del tempio, quidditates rerum metaphysico stylo ac bre-
cioè nelle colonne, nelle quali
ci sono scritte tutte le quidità 40
delle cose in breve: che cosa è
LA CITTÀ DEL SOLE 103

morte. Il condannato a morte in presenza del popolo deve dire sotto


giuramento le ragioni per cui non dovrebbe morire lui, e denunciare le
colpe di altri, i quali anche dovrebbero pagare, come pure denunciare
le colpe dei magistrati, spiegando, se così pare alla sua coscienza, per-
ché costoro sarebbero meritevoli di una punizione ben più aspra. Se le
sue argomentazioni sono convincenti, viene mandato in esilio, e purifi-
cano la città con preghiere, sacrifici ed espiazioni; tuttavia quelli de-
nunciati dal reo non li castigano, ma si limitano ad ammonirli.
I peccati di fragilità e d’ignoranza sono puniti solo con biasimi severi e
col costringere il peccatore a mostrarsi più disciplinato e diligente in quelle
scienze o arti in cui avesse mancato; e si comportano reciprocamente come
se fossero davvero membra di uno stesso organismo e legati l’uno all’altro.
Desidero che tu sappia anche questo: se un peccatore, senza aspetta-
re di esser incriminato, va spontaneamente dal magistrato ad incolparsi
e a fare ammenda, viene prosciolto per il reato occulto e la pena gli vie-
ne commutata in altro, purché non sia stato già accusato. Si guardano
bene dalla calunnia: chi vi dovesse incorrere, subirebbe la legge del ta-
glione1. E poiché si muovono e lavorano sempre in gruppo, occorrono
cinque testimoni per accusar uno di un delitto: diversamente quello,
dietro suo giuramento d’innocenza, torna in libertà con ammonizioni e
minacce. Ma se è accusato per la seconda o la terza volta da due o tre te-
stimoni, allora gli s’infligge il doppio della pena.
Le loro leggi sono poche, brevi e chiare, incise tutte su una ta- Leggi e
vola di bronzo appesa alle porte del tempio, cioè nelle colonne, processi
dove, pure scolpite, ci sono tutte le definizioni delle quiddità delle

1
Il calunniatore è punito con la legge del taglione: cioè egli subisce la stessa pena che sareb-
be stata inflitta al calunniato (e non: ‘viene a sua volta calunniato’, come, troppo alla lettera
e troppo blandamente, intende Bobbio), se quello fosse risultato davvero colpevole del reato
attribuitogli dal calunniatore. La pena risale alla legislazione mosaica: Mosè «propone la pe-
na del taglione per i testimoni e gli accusatori falsi» (Theol. XIV, p. 113), richiamandosi a
Deut. 19, 18-9: «I giudici facciano una diligente inchiesta, e se troveranno che quel testimone
mente e ha deposto il falso contro il suo fratello, trattate lui come aveva pensato di fare a suo
fratello»; principio ripreso dalla patristica (Damasceno, Parall. III CXVII, 161E: se si trova uno
che ha reso falsa testimonianza, «reddent ei sicut fratri suo facere cogitavit»), accolto dal di-
ritto canonico (SD VIII CIX-CXII), ed ancora vigente in ambito ecclesiastico: un confratello
«maestro di bona vita si mettea ‘in poena talionis’ se non provava quanto era» stato da lui
scritto in una lettera circa il malcostume del Generale dell’Ordine (Lettere, p. 284); e sarebbe
stato auspicabile che fosse esteso anche a quello laico: il Re giusto «deve anco provveder a fal-
si testimonii, dei quali il mondo abonda, e far che sia la pena della pariglia a chi accusa e non
prova, perché oggi sono più le calunnie che l’accuse» (Mon. Sp.1, p. 40).
104 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS

Dio, che cosa è angelo, che co- vissimo, quid videlicet est Deus, quid ange-
sa è mondo, stella, omo, ecc., lus, quid mundus, stella, homo, fatum, vir-
con gran sale, e d’ogni virtù tus etc., magno quidem sale; et omnium vir-
la diffinizione. E li giudici tutum definitiones ibi sunt delineatae. Et
d’ogni virtù hanno la sedia 5 iudices omnium virtutum sedile habent,
in quel luoco, quando giudi- hoc est tribunal, quilibet sub ea columna in
cano, dicono: «Ecco, tu pec- qua virtutis, cuius sunt iudices, definitio ex-
casti contra questa diffinizio- tat; et cum iudicat, ibi sedet dicens: ‘Fili, tu
ne: leggi»; e così lo condan- peccasti contra hanc sacram definitionem
nano o d’ingratitudine o di 10 beneficentiae vel magnanimitatis, vel etc.:
pigrizia o d’ignoranza; e le lege’; ac, habita discussione, condemnat
condanne sono certe vere me- ipsum ad poenam, cuius est reus, videlicet
dicine, più che pene, e di sua- maleficentiae, abiectionis, superbiae vel in-
vità grande. gratitudinis vel pigritiae etc. Condemnatio-
OSP. - Or dir ti bisogna 15 nes autem sunt certae veraeque medicinae
delli sacerdoti, sacrifici e cre- et quidem suavitatem redolentes magis
|23v>denze loro. quam poenam.
GEN. - Sommo sacerdote è HOSP. - Iam te dicere opor- De sacerdotibus
Sole; e tutti l’officiali sono sa- tet de sacerdotibus, sacrificiis et religione,
cerdoti, parlando delli capi, e 20 et religione ac fide ipsorum. sacrificio et
officio loro è purgar le co- GEN. - Summus sacerdos est oratione
scienze. Onde tutti si confes- ipse Hoh et omnes magistratus,
sano a quelli, ed essi impara- at primores tantum; eorum munus est con-
no che sorte de peccati regna- scientias expurgare. Itaque universa civitas
no. E si confessano alli tre 25 clancularia confessione, qua utimur et nos,
maggiori tanto li peccati pro- peccata sua pandunt magistratibus, qui si-
pri, quanto li strani in gene- mul purgent animas ac addiscant quae pec-
re, sensa nominare, e li tre si cata grassentur in populo. Deinde ipsi magi-
confessano al Sole. Il quale stratus sacri confitentur peccata propria tri-
conosce che sorte d’errori cor- 30 bus Principibus supremis et confitentur si-
reno e sovviene alli bisogni mul aliena, neminem tamen nominando
della Città e fa a Dio sacrifi- sed confuse, praesertim graviora et noxia
cio ed orazioni, a cui esso reipublicae. Ipsi tandem tresviri eadem pec-
confessa li peccati suoi e di cata ac propria simul confitentur ipsi Hoh,
35 qui proinde agnoscit quae peccatorum ge-
nera grassantur in civitate, et succurrit op-
portunis remediis. Tunc offert sacrificium
Deo et preces; ac prius confitetur peccata
LA CITTÀ DEL SOLE 105

cose, in stile filosofico e sintetico1; cioè: cosa è Dio, cosa è angelo, cosa
è mondo, stella, uomo, destino, virtù ecc., e scritte con molta sottigliez-
za. Ci sono pure le definizioni delle virtù; e i giudici hanno là una sedia
per ognuna di esse, cioè un tribunale, ognuno posto sotto quella colon-
na in cui c’è la definizione della virtù di sua pertinenza; e quando deve
emettere una sentenza, seduto lì dice: ‘Figlio, tu hai peccato contro
questa sacra definizione della beneficenza o della magnanimità ecc.:
leggi!’; e, discusso il caso, lo condanna alla pena di cui si è reso colpe-
vole, cioè, ad esempio, per malvagità, disprezzo, superbia, ingratitudi-
ne, pigrizia ecc. Le pene sono vere ed efficaci medicine, che sanno più
d’affetto che di punizione.
OSP. - Ora è d’uopo parlare dei sacerdoti, dei sacrifici, I sacerdoti e
della religione e delle credenze di costoro. la religione,
GEN. - Sommo sacerdote è lo stesso Hoh e sacerdoti sono il sacrificio e
la preghiera
tutti i magistrati superiori: compito loro è purificare le co-
scienze. Così tutti i cittadini, attraverso una confessione segreta, come
la nostra, confidano i loro peccati ai magistrati, che purgano le anime
e nello stesso tempo apprendono quali sono i falli più frequenti tra i
Solari. Poi i magistrati consacrati confessano ai tre Principi supremi i
propri errori, ed anche quelli altrui ma in modo generico e anonimo,
segnalando in particolare le colpe più gravi e più pericolose per lo sta-
to. Infine gli stessi triumviri fanno altrettanto con Hoh, il quale così è
messo al corrente dei peccati di cui più si macchia la Città, e ricorre
agli opportuni rimedi: offre un sacrificio e preghiere a Dio, e davanti a

1
Termine della scolastica, per indicare l’essenza o qualità sostanziale di un ente: «oggetto
proprio dell’intelletto è la quiddità» = ‘quod quid est’, ciò che una cosa è (Tommaso, 1SCG,
58). C. lo usa non solo in latino (ad es. Metaph. V II II [I, p. 369]): la scienza «inferisce pro-
posizioni universali esprimenti le essenze [=quidditates] delle cose corporee»; Compendio
XLII,7: «Intelligere est intus legere quidditatem ex notionibus praecedentibus rerum»); ma
anche in italiano ‘quiddità’ (Canzone 81 [Madr. 2, 13]: «ogni quiddità vien dal Potere», che
è una delle Primalità) o «quidità» (T.102.40, forse influenzato dalle prime attestazioni dan-
tesche: ‘quiditate’ [Par. XX, 92]) è termine ‘proprio, anche se inusuale’ (Rhet. XII II [SL, pp.
883 e 893]), che l’Au. però privilegia rispetto ai suoi sinonimi: «Platone per primo disse
‘idea’ e Aristotele ‘entelechia’; perché io non dovrò dire ‘primalità’ e ‘quiddità’?... Quando
vogliono indicare l’essenza di una cosa... i termini ‘quidditas’ ed ‘essentia’ sono più significa-
tivi e concisi» (Gramm. I I II [SL, p. 441]). A proposito poi della concisione delle «definizioni»
filosofiche, presentando a Séguier le sue Quaestiones, scrive: «scientiae omnes in hoc opere
continentur, stylo quidem brevi claroque» (Lettere, p. 379); è difficile, però, stabilire se il «me-
taphysico stylo» sia prosastico o poetico (v. n. 13.2), visto che l’Au. è anche autore di poesie
metafisiche, e in Poët. IV I (SL, p. 967) aveva ricordato che «Solone diede le leggi in versi», e
in I I (SL, p. 909) aveva esaltato l’arte poetica, «instrumentum legislatoris».
106 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS

tutto il popolo publicamente totius populi coram Deo publice in templo


in su l’altare, ogni volta che super altari, quotiescunque necesse fuerit
sia necessario per emendarli, cor|163>rectione, neminem tamen pecca-
sensa nominare alcuno. E torem ex nomine declarando. Itaque absol-
coss’assolv’il popolo, ammo- 5 vit populum, commonendo ut caveat ab
nendolo che si guardi da huiusmodi criminibus; deinde sacrificium
quelli errori, e confessa li suoi offert Deo, ut civitati condonet et ipsam a
in publico e poi fa sacrificio a peccatis absolvat et doceat et defendat. Se-
Dio, che voglia assolvere tut- mel in anno quoque Principes supremi sin-
ta la città ed ammaestrarla e 10 gularum civitatum subditorum quisque
difenderla. Il sacrificio è que- suorum fatentur peccata coram Hoh, unde
sto, che dimanda al popolo nec mala provinciae ignorat, et humanis et
chi se vuol sacrificare per li coelestibus remediis proinde consulit om-
suoi membri, e cossì un di nibus etc. Sacrificium est huiusmodi: Hoh
quelli più buoni si sacrifica. 15 interrogat populum, quisnam ex eis velit se
E il sacerdote lo pone sopra sacrificium Deo dare pro membris suis; et
una tavola, ch’è tenuta da qui sanctior est, seipsum offert. Tunc super
quattro funi, che stanno a quadrata tabula ceremoniis et precibus
quattro girelle della cupola, e, praelibatis ponitur, quae nimirum per fibu-
fatta l’orazione a Dio che rice- 20 las quatuor funibus quatuor alligata, pen-
va quel sacrificio nobile vo- dentibus ex quatuor trochleis testudinis
lontario umano (non di be- parvae. Et clamant ad Deum misericordia-
stie involontarie, come fanno rum, ut acceptum habeat sacrificium illud
li Gentili), fa tirar le funi; e humanum voluntarium, non ferinum invo-
questo saglie in alto alla cu- 25 luntarium quod Gentiles faciunt. Mox fu-
poletta e qui si mette in ora- nes trahi iubet Hoh, sacrificiumque sursum
zione; e se li dà da mangiare elevatur ad centrum testudinis parvae, ac
parcamente, fin a tanto che ibi orationibus se dedicat ferventissimis; et
la città è |24r> espiata. Ed es- cibus subministratur illi per fenestram a sa-
so con orazioni e digiuni pre- 30 cerdotibus circum habitantibus, sed parce,
ga Dio, che riceva il pronto donec civitas expiata fuerit; ipseque oratio-
sacrificio suo; e cossì, dopo ne et ieiunio precatur Deum Coeli ut spon-
venti o trenta giorni, placata taneum acceptet sacrificium sui, et post vi-
l’ira di Dio, torna a basso per ginti aut triginta dies, placata ira Dei, fit sa-
le parti di fuori; e questo è 35 cerdos aut (sed rarissime) revertitur deor-
sempre onorato e ben voluto, sum sed exteriorem per viam sacerdota-
perch’esso si dà per morto, ma lem. Et hic vir in posterum honore et bene-
Dio non vuol che muora. volentia tractatur multa eo quod ipse se in
Di più vi stanno venti- mortem obtulit pro patria, Deus autem
quattro sacerdoti sopra il tem- 40 mortem non vult.
pio, li quali a meza notte, a Insuper viginti quatuor sacerdotes super
mezo dì, la matina e la sera templo commorantur, qui in media nocte et
cantan’alcuni salmi a Dio; e in meridie et in mane et in vesperi, quater
videlicet in die, psalmos canunt coram Deo,
LA CITTÀ DEL SOLE 107

Lui prima confessa pubblicamente sull’altare del tempio i peccati di


tutto il popolo, ogni volta che lo ritenga necessario perché faccia am-
menda, senza ovviamente fare il nome di nessuno; quindi assolve il po-
polo, esortandolo a non commettere più falli simili; e poi offre un sa-
crificio a Dio affinché perdoni la Città, l’assolva dai peccati, l’illumini e
la protegga. Una volta all’anno anche ognuno dei reggenti delle varie
città confessa i peccati dei propri sudditi a Hoh, affinché egli conosca
pure i mali della provincia, e quindi consigli a tutti sia rimedi umani
che divini.
Il sacrificio consiste in questo: Hoh chiede al popolo chi è che voglia
immolarsi a Dio per i suoi concittadini; il più santo si offre. Allora, dopo
le cerimonie e le preghiere preliminari, viene collocato sopra una tavo-
la quadrata, assicurata a quattro ganci con quattro corde, pendenti da
quattro carrucole fissate alla volta della cupoletta. E pregano il Dio mi-
sericordioso che voglia accettare quella vittima umana e volontaria – e
non ferina e involontaria, come fanno i pagani. Appena Hoh comanda
di tirare le funi, la vittima sacrificale è sollevata in alto al centro della cu-
poletta, e qui si dedica alle più fervide orazioni. Attraverso una finestra
gli è somministrato un po’ di cibo dai sacerdoti che abitano nelle celle
collocate intorno alla cupoletta, fino a quando la città non sarà stata pu-
rificata; e lui stesso, pregando e digiunando, implora il Dio del Cielo af-
finché accetti il suo sacrificio spontaneo. Dopo venti o trenta giorni,
placata l’ira di Dio, si fa sacerdote o (rarissimamente) ritorna giù attra-
verso il camminamento esterno dei sacerdoti. Quest’uomo in seguito è
trattato con molto onore e benevolenza per il fatto che non ha esitato a
rischiare la vita per la comunità – ma Dio non ha voluto la sua morte.
Sopra al tempio abitano altresì ventiquattro sacerdoti, che quattro
volte al giorno – mezzanotte, mezzogiorno, mattina e sera –, cantano
108 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS

l’officio loro è di guardar le eorumque munus est inspectare stellas, et


stelle e notare con astrolabi astrolabiis earum motus notare, et effectus
tutti li movimenti loro e l’ef- in res humanas et vires pernosse. Idcirco
fetti che producono, onde san- norunt in qua regione orbis quaenam fuerit
no in che paese che mutazio- 5 mutatio aut futura sit et in quo tempore, et
ne è stata e ha da essere. E mittunt exploratum si ita se res habeat, et
questi dicono l’ore della gene- notant praedictiones veras et falsas, ut pos-
razione e li giorni del semina- sint ex experientia rectissime praedicere.
re e racogliere, e serveno come Hi decernunt horas generationis et dies sa-
mezani tra Dio e l’uomini; e 10 tionis et messis et vindemiae, ac sunt veluti
d’essi per lo più si fanno i So- internuncii et intercessores et copula inter
li e scriveno gran cose e inve- Deum et homines, et ex his ut plurimum
stigano scienze. Non vengono sufficiuntur Hoh; scribunt praeclara et
a basso, se non per mangiare; scientias investigant. Deorsum non descen-
con donne non s’impacciano, 15 dunt nisi ad prandium et coenam, uti spiri-
se non qualche volta per me- tus ex capite ad ventriculum et iecur; mulie-
dicina del corpo. Va ogni dì ribus non commiscentur, nisi raro ob cor-
Sole in alto e parla con loro di poris medicinam. Singulis diebus Hoh
quel ch’hanno investigato so- ascendit ad illos et ratiocinatur cum eis de
pra il beneficio della città e di 20 his quae noviter investigaverunt in benefi-
tutte le nazioni del mondo. In cium civitatis et omnium mundi nationum.
tempio a basso sempre ha In templo inferne perpetuo unus de populo
d’essere uno che faccia orazio- adsistit orans coram altari, et alius singulis
ne a Dio, ed ogn’ora si muta, horis sibi succedit, sicut nos consuevimus in
come noi facciamo le quaran- 25 supplicatione solemni quadraginta hora-
ta ore, e questo si dice conti- rum, et hunc orandi modum vocant iuge sa-
nuo sacrificio. crificium.
Dopo mangiare si rendeno Post refectionem referunt gratias Deo in
grazie a Dio con musica, e musica. Deinde canuntur gesta heroum Chri-
poi |24v> si cantano gesti d’e- 30 stianorum et Hebraeorum et Gentilium et
roi cristiani, ebrei, gentili, e omnium nationum; et hoc delitiosum est il-
di tutte le nazioni, per spasso lis, nemini quippe invident. Canuntur hym-
e per godere. Si cantano inni ni de amore, de sapientia et de omni virtute
d’amore, di sapienza e d’ogni sub magisterio regis sui. Assumit quilibet
virtù. Si piglia ognuno quel- 35 quam magis amat mulierem, et chorea exer-
LA CITTÀ DEL SOLE 109

salmi a Dio; l’altro compito loro è osservare le stelle e con gli astrolabi
registrarne i moti, per studiare i loro effetti sulle vicende umane e le lo-
ro virtù. Perciò sanno sempre in quale regione del mondo e in quale
momento c’è stata o ci sarà una mutazione; mandano poi degli osserva-
tori a controllare se si è avverata, e annotano le predizioni esatte e quel-
le errate, in modo da riuscire a fare, grazie all’esperienza, pronostici
sempre più corretti. Sono loro a individuare l’ora propizia alla procrea-
zione e i giorni della semina, del raccolto e della vendemmia; sono con-
siderati una sorta di messaggeri, intercessori e mediatori tra Dio e gli
uomini, e la maggior parte degli Hoh sono reclutati fra costoro; anno-
tano i fatti più importanti e investigano le scienze. Giù non scendono se
non per i pasti, allo stesso modo in cui lo spirito cala dalla testa allo sto-
maco e al fegato; raramente si congiungono con donne, e solamente
per ragioni di salute. Hoh sale ogni giorno da loro a informarsi di quel
che hanno scoperto di nuovo per il bene della Città e di tutti i popoli
della Terra. Nel tempio da basso resta sempre una persona a pregare
davanti all’altare, sostituita dopo un’ora da un’altra, come noi siamo so-
liti fare nella supplica solenne delle quaranta ore, e questa preghiera la
chiamano ‘sacrificio perpetuo’1.
Dopo la refezione ringraziano Dio con musiche. Poi cantano le gesta
degli eroi cristiani, ebrei, pagani e di tutte le nazioni, cosa a loro som-
mamente grata, non avendo invidia per nessuno. Cantano inni sull’a-
more, la sapienza e su ogni virtù, sotto la direzione del loro capo. Ognu-

1
Mon. Sp.1, p. 26: la Spagna è chiamata a «reedificar Gerosolima, liberandola da cattività, e
per far il tempio a Dio del cielo, ove si instituisca continuo sacrificio, come i profeti han det-
to... E ora per tutto il suo stato che cerchia il mondo si celebra ogn’ora messa, e nel suo Im-
perio giamai annotta» (così anche Lettere, p. 26; Supplizio, pp. 83 e 149; in Quod rem. 3, p. 58,
dice che il sacrificio permanente è segno certo della missione unificatrice della Spagna).
Ernst rinvia a Is. 44,28 e 45,1sg; ma la sua istituzione risale a Ex. 29, 38sg (comment. da
Theol. XVII, p. 108: ‘Lex iugis sacrificii’) e la sua formulazione è in Dan. 8,11-3, mentre Ago-
stino, CD 16, 22 la fa risalire alla benedizione di Abramo da parte di Melchisedec (Gen.
14,18): «E là per la prima volta si manifestò il sacrificio che ora i cristiani offrono su tutta la
faccia della terra» (Comestore, super Gen., cap. 67 e in Num., cap. 40 [in SH II XIX e XLVI]:
«iuge sacrificium vel indesinens»). Invece la devozione delle Quarantore, cioè l’esposizione
del Sacramento ai fedeli per tre giorni di seguito, in ricordo del periodo di tempo che Cri-
sto era rimasto nel sepolcro, diffusa in Italia nel Cinquecento, fu approvata il 25 novembre
del 1592 da Clemente VIII con la bolla Graves et diuturnae, in cui si regolamentava la turna-
zione continua del culto nelle principali chiese di Roma. L’orazione perpetua, comunque,
è istituzione né solo cristiana (Platone, Leg., 828a), né solo occidentale (Palladio, 11: i Bra-
mini «pregano continuamente» – e sulla «preghiera continua dei brahmani, cfr. Bardesane»
[Desantis, p. 56]).
110 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS

la che più ama, e fanno alcu- centur honesta formosaque sub peristyliis.
ni balli sotto chiostri bellissi- Mulieres gestant prolixos capillos, conser-
mi. Le donne portano li ca- tos collectosque in nodum unum omnes in
pelli lunghi, inghirlandati e capitis coronide, eductos tamen in contex-
tutti in un groppo in mezo la 5 tum cincinnum unum; homines vero unum
testa ed una treccia. Gli uo- modo cincinnum attonsis circum reliquis
mini solo un cerro, un velo e crinibus, unum velum et unum desuper ca-
berrettino. Usano cappelli in pucium rotundum, parum excedens capitis
campagna, in casa berrette formam. Pileis in campestribus utuntur, do-
bianche o rosse o varie, secon- 10 mi vero biretis albis aut rubris aut variis iux-
do l’officio ed arte che fanno, ta artem aut ministerium quisque suum;
e l’officiali più grandi e pom- magistratus vero grandiusculis et pomposio-
pose. ribus.
Tutte le feste loro son quat- Ipsorum festivitates magnae De festis
tro principali, cioè quand’en- 15 sunt, quando Sol quatuor mundi diebus
tra il sole in Ariete, in Can- cardines intrat, hoc est in Cancrum,
cro, Libra e Capricorno; e in Libram, in Capricornum et Arietem,
fanno gran rapresentazioni et doctas formosasque exhibent actiones
belle e dotte; e ogni congiun- quasi comicas, et singulis pleniluniis et novi-
zione e opposizione di Luna 20 luniis festum celebrant, et in diebus quando
fanno certe feste. E nelli gior- civitatem fundaverunt aut victorias reporta-
ni che fundâro la città e ebbe- verunt aut etc., et cum musica vocum foe-
ro gran vittorie, fanno il me- minearum et cum tubis et tympanis et bom-
desmo con musica di voci fe- bardis.
menine e con trombe e tam- 25 Ac poëtae canunt laudes prae- De poëtarum
burri ed artigliarie; e li poeti clariorum ducum et victorias. Ve- usu
cantano le laudi delli più vir- runtamen qui mentitur, etiam in
tuosi. Ma chi dice bugia in alterius herois laudem, punitur. Non po-
laude è punito; non si può test poëtae munus exercere qui mendaciter
dir poeta chi finge menzogne 30
LA CITTÀ DEL SOLE 111

no poi sceglie la donna che più gli piace e intrecciano balli decorosi e
giocondi sotto i chiostri. Le donne portano i capelli lunghi, intrecciati e
annodati in un’unica treccia raccolta a crocchia sulla sommità del capo;
gli uomini invece hanno solo un ciuffo sulla testa rasata1, uno zucchetto
e sopra un cappuccio rotondo di poco sporgente sul capo. In campagna
si coprono con cappelli, in casa con berretti bianchi o rossi o di vari co-
lori secondo il mestiere o la funzione di ognuno; il copricapo dei magi-
strati infatti è un po’ più grande ed elegante.
Le loro festività più importanti sono quando il Sole entra nei Festività
quattro punti cardinali – Cancro, Bilancia, Capricorno, Ariete –;
si fanno degli spettacoli belli e istruttivi, simili a commedie; sono festeg-
giati anche i pleniluni e noviluni, gli anniversari della fondazione della
città, delle vittorie ecc., e accompagnano queste feste con cori femmini-
li, trombe, tamburi e colpi di cannone.
I poeti cantano le lodi dei condottieri più illustri e le loro Compito
vittoriose imprese. E tuttavia chi mente, anche se decanta la dei poeti
virtù di un eroe non Solare2, viene punito. Non può rivestire la ca-

1
Le donne portano i capelli ‘intrecciati e raccolti in una crocchia sulla sommità del capo, an-
nodati però in un’unica treccia’ (così alla lettera); e analogamente gli uomini hanno una
foggia che può considerarsi l’inverso della tonsura (Crahay, p. 187). Il lessico è biblico: Ez.
8,3: «in cincinno capitis mei»; 1Cor. 11,14-5: «La stessa natura non v’insegna forse che è cosa
indecente per l’uomo portare i capelli lunghi, mentre la lunga capigliatura è una gloria per
la donna? Perché i capelli le sono stati dati come velo»; così commentato da Crisostomo, In
Epist. pr. ad Cor., Hom. XXVI (IV,526-9): sarebbe un crimine «si mulieres detecto capite, vel si
tecto viri incedant», in quanto «symbola viro et mulieri tradidit... viro quidem principatus,
mulieri autem subiectionis... Non est creatus vir ex muliere, sed mulier ex viro... Ideo debet
mulier velamen traductum habere super caput suum... Ergo velari subiectionis est sub mariti
potestate... Quod si vir comam nutriat, ignominia est illi; mulier vero, si comam nutriat, glo-
ria est illi, quum capilli pro velamine dati sunt ei. Et si pro velamine dati sunt, inquit, qua gra-
tia aliud addendum est velamen? Ut non tantum suapte natura, sed etiam voluntate subiec-
tam se esse confiteatur». La foggia dei capelli può invece ispirarsi sia a usanze meridionali
(ad es. le fanciulle napoletane portavano acconciature «o alla scozzese, coi capelli cioè a ca-
nestrette intrecciati di nastri o fettucce (zagarelle) incarnatine o verdi, o alla spagnola col
tuppo» [B. Capasso, cit. da Leone, p. 56]), sia a suggestioni esotiche: le donne in India por-
tano i capelli «pettinati e fatti in una treccia in cima della testa, e posti in quella molti fiori e
odori» (Odoardo Barbosa e Niccolò de’ Conti [in Ramusio, II, pp. 607 e 809]); anche le Ci-
nesi «usano grand’arte in acconciarsi il capo e mettono assai tempo e diligenza in pettinarsi
e acconciare i capelli e poi li legano nella cima da ogni banda con una benda guernita di per-
le e d’oro» (Maffei, I, p. 370).
2
Per Crahay, p. 188 «alterius», vocabolo scarsamente perspicuo o pertinente, potrebbe esse-
re la corruzione di ‘altioris’: ‘dell’eroe più sublime’. Secondo me, vuol dire che le bugie non
sono permesse neanche parlando di eroi stranieri (e quindi poco noti), perché la scarsa fa-
miliarità non è alibi sufficiente a giustificarle.
112 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS

tra loro; perché questa licenza fingit, hancque licentiam iudicant esse or-
dicono ch’è ruina del mondo. bis humani perniciem eo quod auferat
Non si fa statua a nullo, praemium virtutibus ac aliis praebeat saepe
se non dopo che muore; ma, vitiosis ex metu vel adu|164>latione, ambi-
vivendo, si scrive nel libro 5 tione et avaritia.
dell’eroi chi ha trovato arti In nullius gloriam erigitur statua, nisi po-
nuove o secreti d’importanza, st eius mortem. Attamen vivens inscribitur
o fatto gran beneficio in guer- in libro heroum quicunque invenisset novas
ra o pace al publico. Non artes aut arcana utilissima vel beneficium
s’ |25r>atterrano li corpi mor- 10 ingens sive domi sive militiae in rempubli-
ti, ma se brugiano per levar cam contulerit. Non humantur corpora de-
la peste e convertirsi in fuoco, functorum sed cremantur, ut pestis non su-
cosa tanto nobile e viva, che boriatur et ipsa convertantur in ignem, rem
vien dal sole ed a lui torna; e tam nobilem ac vivam, quae a Sole venit et
per non restar sospetto d’ido- 15 ad Solem regreditur; item et ne idololatriae
latria. Restano pitture solo o detur occasio. Remanent tamen statuae ac
statue di grand’uomini, e picturae heroum, ipsasque inspec-
quelli mirano le donne formo- tant formosae saepe mulieres, ge- De orandi
se, che s’applicano all’uso nerationi dedicatae a republica. vitu
della razza. 20 Orationes fiunt ad quatuor mundi
L’orazione si fa a’ quattro angulos horizontales et quidem mane,
angoli del mondo orizontali, primo ad ortum Solis, deinde ad occasum,
e la mattina prima a levante, deinde ad austrum, deinde ad septentrio-
poi a ponente, poi ad austro, nem; e contra in vespere, primo ad occa-
ed in ultimo a settentrione; 25 sum, deinde ad orientem, deinde ad sep-
la sera al riverso, prima a po- tentrionem et deinde ad austrum; et repli-
nente, poi a levante, poi a cant unum modo carmen quo postulant
settentrione, ed in ultimo ad corpus sanum et mentem sanam sibi ipsis
Austro. E replicano solo un omnibusque gentibus et beatitudinem, et
verso, che dimanda corpo sa- 30 concludunt: “Veluti Deo videtur optimum”.
no, mente sana, a loro e a Caeterum publica oratio prolixa est et in
tutte le genti, e beatitudine, e coelum effunditur. Idcirco altare rotundum
conclude: «come par meglio a est et ad angulos rectos decussatim divisum
Dio». Ma l’orazione attenta- interviis, per quas Hoh intrat post quatuor
mente e lunga si fa in cielo; 35 repetitiones, ac rogat suspiciendo coelum:
però l’altare è tondo e in croce hoc illis observatur ut mysterium magnum.
spartito, per dove entra Sole Vestimenta pontificalia sunt mirificae for-
dopo le quattro repetizioni, e mositatis et significationis instar Aaronis:
prega mirando in suso. Que- imitantur naturam et mirificant artem.
sto lo fanno per gran miste- 40
rio. Le vesti ponteficali sono
stupende di bellezza e signifi-
cato a guisa di quelle d’A-
ron.
LA CITTÀ DEL SOLE 113

rica di poeta chi fa poesia con le menzogne, e ritengono che questa li-
cenza della poesia sia perniciosa per il genere umano, perché toglie il
premio a uomini virtuosi per accordarlo spesso, per timore, adulazione,
ambizione o cupidigia, ai viziosi.
Non si erigono statue a gloria di nessun cittadino, se non dopo la sua
morte; quand’è ancora in vita, invece, lo si iscrive nel libro degli eroi, se
ha scoperto nuove arti o segreti utilissimi oppure se, in pace o in guer-
ra, ha recato notevoli servigi allo stato.
Non seppelliscono i morti, ma li cremano, per evitare la peste e per
convertirli in fuoco, elemento tanto nobile e vivo che viene dal Sole e al
Sole ritorna, e ancora per impedire ogni occasione d’idolatria. Conser-
vano solo ritratti e statue di eroi, e queste sono le stesse effigi su cui
spesso fissano gli sguardi le donne belle destinate dallo stato alla gene-
razione.
Elevano le loro preghiere ai quattro punti cardinali e cioè La preghiera
la mattina, volgendosi prima ad oriente, poi ad occidente, circolare
quindi a mezzogiorno e infine a settentrione; all’opposto al ve-
spro: prima ad occidente, poi ad oriente, quindi a nord e infine a sud; e
replicano una formula sempre identica, in cui chiedono corpo e mente
sani e la beatitudine per se stessi e per tutto il mondo, e che termina co-
sì: ‘come par meglio a Dio’. Invece la preghiera pubblica è più lunga e
la si rivolge al cielo. Perciò l’altare è rotondo e attraversato da quattro
corridoi tagliati ad angolo retto, attraverso i quali accede Hoh dopo
quattro repliche della preghiera, lo sguardo rivolto al cielo: questa ceri-
monia è osservata da loro come un gran mistero. Le vesti pontificali so-
no d’ineguagliabile magnificenza e di profondo significato come quelle
di Aronne1: imitano la natura e magnificano l’arte.

1
Aronne è il fratello maggiore e l’aiutante di Mosè, le cui vesti sacerdotali sono descritte in
Ex. 28,4 e 39,1; ma C. richiama più spesso (Theol. III, p. 53; Apologia, p. 22; Disc. Cometa, p. 71)
un versetto di Sap. 18, 24: «sulla lunga sua veste/ vi era tutto l’universo», così commentato:
«Nelle vesti di Aronne sono chiari i dodici segni celesti espressi nell’Efod nei dodici figli di
Israele e nelle dodici gemme trasparenti che rappresentano le figure celesti e, come dice Sa-
lomone nel libro della Sapienza, tutto l’orbe vi era figurato nel peso, e i tintinnaboli e le pie-
tre di granato annunciavano la voce che il mondo interiore manda verso il mondo esteriore.
E se ben si guarda, come le parti dell’uomo sono in relazione alle parti del mondo, così i va-
ri ornamenti erano in relazione alle varie parti del sacerdote, il quale a sua volta significava
Cristo» (Theol. XVII, p. 219; per le fonti v. n. compl.).
114 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS

Distingueno li tempi se- Tempora partiuntur iuxta De astronomia


condo l’anno tropico, non si- annum tropicum, non autem in sacris
derio, ma sempre notano sidereum, sed quotannis no- temporibus
quanto anticipa questo di tant quantum temporis illud civilibus
tempo. Credeno ch’il sole sem- 5 anticipet istud. Opinantur Solem
pre cali a basso, e però facen- perpetuo deorsum appropinquare: ideoque
do più stretti circoli arriva al- peragrando circulos angustiores pervenit
li tropici ed equinozi prima hoc anno ad tropicos et aequinoctia ante-
che l’anno passato; o vero pa- quam praeterito, aut videtur pervenire eo
re arrivare, ché l’occhio, ve- 10 quod oculus, humiliorem cernendo ipsum
dendolo più basso in obliquo, in obliquo, prius quoque pervenire ac obli-
lo vede prima giungere ed quare conspicit. Menses lunari metiuntur
obliquare. Misurano li mesi cursu, annum vero solari. Ideoque hunc illi
con la Luna e l’anno con il non concordant usque ad decimum nonum
sole; e però non accordano 15 annum, quando etiam Caput Draconis
questi con quella |25v> fin al suum perficit cursum. Qua de re novam
decimo nono anno, quando condiderunt astronomiam. Laudant Ptolo-
pur il Capo del Drago finisce maeum, admirantur Copernicum, etsi Ari-
il suo corso; del che han fatto starchum ac Philolaum ante illum. Sed di-
nuova astronomia. Laudano 20 cunt alterum numeros motuum notare cal-
Tolomeo ed ammirano Coper- culis, alterum fabis, neminem vero ipsis re-
nico (benché Aristarco e Filo-
lao prima dell’altri); ma dico-
no che l’uno fa il conto con le
LA CITTÀ DEL SOLE 115

Scandiscono il tempo secondo l’anno tropico, e non se- L’astronomia per


condo quello siderale, ma ogni anno rilevano quanto que- il calendario
st’ultimo anticipi il primo1. Credono che il Sole si avvicini religioso
sempre di più alla Terra: percorrendo infatti delle orbite via e civile
via più strette, arriva ai tropici e agli equinozi prima dell’anno prece-
dente; o meglio sembra arrivare, perché l’occhio, vedendolo più basso in
obliquo, lo vede anche giungere prima agli apsidi e flettere la sua corsa. I
mesi si calcolano sul ciclo lunare, l’anno su quello solare. Ma i due cicli ri-
mangono sfasati fino al diciannovesimo anno, quando anche il Capo del
Drago completa il suo percorso2.
Perciò hanno inventato una nuova astronomia. Lodano Tolomeo,
ammirano Copernico, sebbene prima di lui ci fossero già Aristarco e Fi-
lolao3. Dicono però che l’uno calcola i moti astronomici con le pietruz-

1
Il calendario lunisolare ebraico (Beroso, 8r ne attribuisce l’invenzione a Noè), adottato dai
Solari, si fonda sul ciclo metonico (da Metone, astronomo ateniese del V sec. a.Cr.) di 235 lu-
nazioni che corrispondono quasi esattamente a diciannove anni, con anni di dodici e tredici
mesi. Il calendario dei Solari si basa su un duplice confronto: principalmente anno
solare/anno lunare; e secondariamente anno solare/anno siderale. L’anno solare (o tropi-
co) è il tempo impiegato dal Sole per passare sullo stesso punto zodiacale, detto punto gam-
ma, perché all’epoca di Ipparco (l’astronomo greco, vissuto intorno al 150 a.Cr., che ha sco-
perto la sfasatura fra le due misurazioni [Tolomeo, Tetrab. III,2]) lo si faceva cadere a 0° di
Ariete (il cui simbolo astrologico è simile alla lettera greca g), e quindi l’inizio dell’anno
astrologico coincideva con l’equinozio di primavera. L’anno sidereo è il tempo compreso fra
due successive congiunzioni del Sole con una medesima stella, ed è maggiore dell’anno tro-
pico di oltre ventuno minuti in un anno, a causa della precessione degli equinozi: per un len-
to movimento di oscillazione dell’asse terrestre, il punto gamma di intersezione fra l’eclittica
e l’equatore celeste si anticipa di un grado ogni settantadue anni circa (cento anni, secondo
gli antichi). Ed è appunto questa differenza (anno sidereo/anno tropico) che i Solari ‘anno-
tano’ (114.3) annualmente, in quanto, come dice subito dopo, essi ritengono che non sia co-
stante (cioè = 21 minuti), e che ciò dipenda dal progressivo avvicinarsi del Sole alla Terra. In-
vece il confronto fra il ciclo lunare e quello solare viene effettuato ogni diciannove anni, cioè
nel punto ‘capitale’ (114.15) in cui la Luna torna a passare dall’emisfero settentrionale a
quello meridionale della sfera celeste (v. n. compl.).
2
Capo e Coda del Drago sono i due ‘nodi’, cioè le due intersezioni delle orbite lunari con il
piano dell’eclittica verificantisi ogni «18» (Garin 1946, II, p.543) anni: «quando il pianeta
[=Luna] si dirige verso Austro si chiama ‘Coda del Drago’ o nodo discendente; quando è in
direzione boreale, si chiama nodo ascendente, o ‘Capo del Drago’« (Astrol., p. 29), nominati
così, perché le intersezioni orbitali lunisolari avevano suggerito questa strana figura. Perciò
‘Capo del Drago’ significa punto di massima distanza del deferente (= la circonferenza per-
corsa dal centro dell’epiciclo) dalla Terra, cioè, in questo caso, intersezione dell’eclittica con
l’orbita della Luna che passa dall’emisfero meridionale a quello settentrionale.
3
Sul primo vissuto a Samo nel III sec. a.Cr., il giovane C. aveva scritto il perduto De sphaera Ari-
starchi (che è anche il titolo di un art. di Physiol. I XVI IX, p. 196): «pose il sole per centro, opi-
nione seguita dal Copernico a’ tempi nostri» (cit. da Firpo 1940, p. 172; ma Ernst 2002 sostiene
che «C. non ricorda mai» il De sphaera «almeno con questo titolo; il rinvio di Firpo alla Phil. rea-
lis non sembra trovare riscontro» [p.261]); Filolao di Crotone, pitagorico del V sec., a detta di
116 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS

pietre, l’altro con le fave, ma bus numeratis mensisque, ac satisfacere


nullo con le stesse cose conta- mundo in moneta significatoria et non rea-
te, e pagano il mondo di scu- li. Idcirco ipsi summo conatu hoc negocium
di di conto e non d’oro. Però perscrutantur: necessarium enim est valde
essi cercano assai sottilmente 5 ad cognoscendam mundi constructionem
questo negozio, perch’importa et fabricam et num periturus sit necne et
a saper la fabrica del mondo, quando. Et prorsus verum esse credunt IE-
e se perirà e quando. E crede- SU CHRISTI ORACULUM de signis in Sole
no esser vero quel che disse et Luna et stellis, quae stultis nostratum
Cristo delli segni delle stelle, li 10 multis non ita apparent, quos mundi interi-
quali alli stolti non paiono, tus, sicut fur in nocte, comprehendet. Ergo
ma li venirà, come ladro di expectant illi saeculi renovationem, forte et
notte, il fin delle cose. Onde finem.
aspettano la rinovazione di Aiunt dubitationis plenum esse, num fac-
secoli, e forsi il fine. Dicono 15 tus sit mundus ex nihilo aut ex ruinis alio-
ch’è gran dubio sapere s’il rum mundorum aut ex chao, sed verisimile
mondo fu fatto di nulla o del- existimant, imo certum, quod factus fuerit
le ruine d’altri mondi o del et non ab aeterno. Idcirco valde in hoc Ari-
caos; ma par verisimile che stotelem oderunt, quem logicum appellant,
sia fatto, anzi di certo. Son 20 non philosophum. Et ex anomaliis rationes
nemici d’Aristotele, e l’appel- contra aeternitatem eliciunt plurimas.
lano pedante.
LA CITTÀ DEL SOLE 117

ze, l’altro con le fave, ma nessuno con le cose stesse numerate e misura-
te, e perciò ripagano il mondo con banconote false1.
I Solari dunque dedicano il massimo sforzo allo studio dell’astrono-
mia: è assolutamente necessario conoscere la fattura e il meccanismo
dell’universo, se esso sia perituro e, se sì, quando. E credono ciecamen-
te alla profezia di Cristo circa l’apparizione di segni nel Sole, nella Luna
e nelle stelle, cose che a molti sciocchi nostrani sembrano follie e così la
fine del mondo li sorprenderà come un ladro di notte. Quindi loro
aspettano il rinnovamento del mondo, e forse la fine.
Dicono che è molto difficile sapere se il mondo sia stato creato dal nul-
la o dalle rovine di altri mondi2 o dal caos, ma tuttavia ritengono proba-
bile, anzi certo, che esso sia stato creato e non che sia sempre esistito. Per-
ciò dissentono profondamente in questo da Aristotele, che definiscono
loico, non filosofo. E dall’osservazione delle anomalie astronomiche3 ad-
ducono parecchie ragioni contro l’ipotesi dell’eternità dell’universo.

Diogene, VIII, 85, «fu il primo ad affermare che la Terra si muove secondo un circolo», intorno
a un ‘focolare’ centrale, causa dell’origine e della fine del cosmo (v. n. compl.).
1
Servirsi di modelli matematici (anziché dell’osservazione diretta del cielo) per spiegare il
meccanismo dell’universo è come pagare con ‘fiches’ anziché con monete reali. Entrambe le
teorie cosmologiche sono dei meri artifici matematici, aventi una qualche utilità pratica, ma
non rispecchianti la realtà, che è solo questa: Dio è il Grande Orologiaio che decide come
muovere ogni singolo ingranaggio cosmico: «Ho additato tali fenomeni [=le anomalie co-
smiche] in base alle osservazioni di tutti gli astronomi, i quali sanno bensì vedere esattamen-
te, ma sono incapaci di rendersi ragione delle cose viste, e perciò ricorrono a petizioni di
principio e pongono per cause quelle che cause non sono, con duplice paralogismo, perché
trascurano il fatto che è la Causa Prima del mondo quella che imprime al vero il suo caratte-
re razionale» (Mem. ined., p. 209); i moti degli astri, dunque, dipendono direttamente dall’a-
zione divina, che non è arbitraria, ma anzi li utilizza come segnali indirizzati a quelli tra gli
uomini che sono vigili ai Suoi cenni: «Copernico con tutti gli altri fecero ben il conto e mo-
strâro l’esorbitanze in cielo; ma poi nel rendere a ragione errâro, perché non vollero rico-
noscere che questi son li segni dati da Cristo» (Lettere, p. 221; v. n. compl. e n. 114.17-18).
2
Allusione a Empedocle: sul filosofo agrigentino aveva scritto un perduto De philosophia Empe-
doclis, in cui confutava, come emergerebbe da Metaph. XI III II [III, p. 17], quella teoria (caos e
cosmo si succederebbero eternamente), che porterebbe ad un inconcludente, se non perico-
loso, ‘regressus ad infinitum’. Anche per Democrito ed Epicuro l’universo è eterno, indistrutti-
bile e infinito, composto da innumerevoli mondi, che muoiono e rinascono per l’inarrestabile
rimescolamento degli atomi. Per gli stoici invece vi è solo questo mondo che «però innumere-
voli volte nasce e perisce a determinati intervalli di secoli» (Agostino, CD 11,5).
3
Le (presunte) anomalie sono le discrepanze fra le osservazioni della posizione degli astri e
gli arbitrari calcoli della cosmologia tradizionale, alcune apparenti (v. n. 121.1), altre reali e
perciò cariche di influssi astrologici (cfr Astrol. II IV, p. 76); la principale di queste ultime è
costituita dall’orbita spiraliforme del Sole intorno alla Terra (114.5-9); le altre sono elencate
a 156.7sg. (insieme a configurazioni astrologiche), quale preludio di un nuovo ordine co-
smico (per le anomalie v. anche 132.1).
118 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS

Onorano il sole e le stelle Solem et stellas tanquam res viventes ac


come cose viventi e statue di statuas Dei et templa altariaque coelestia vi-
Dio e tempî celesti; ma non va honorant, non autem adorant. Prae
l’adorano, e più onorano il cunctis vero venerantur Solem. At creatu-
sole. Nulla creatura adorano 5 ram nullam latriae adoratione dignantur,
de latria, altro che Dio, e però hanc soli Deo exhibent: ideoque illi soli ser-
a lui serveno solo sotto l’inse- viunt, ne incidant in tyrannidem et mise-
gna del sole, ch’è insegna e riam serviendo creaturis in poenam talio-
volto di Dio, da cui viene la nis. Et sub Solis signo Deum contemplantur
luce, il calore ed ogn’altra co- 10 et cognoscunt, illumque vocant insigne Dei
sa. Però l’altare è come un so- vultum et statuam vivam, per quam lux, ca-
le fatto, e li sacerdoti pregano lor, vita et rerum productio in inferiora de-
Dio nel sole e nelle stelle; e fluit et omnia bona. Idcirco altare instar So-
chiamano l’angioli buoni per lis exstructum est et sacerdotes Deum in So-
intercessori, che stanno nelle 15 le adorant et in stellis tanquam altaribus, et
stelle, vive case loro, perché le in coelo tanquam templo, et implorant bo-
|26r> bellezze sue Dio le mo- nos angelos tanquam intercessores, qui mo-
strò più in cielo e nel sole, co- rantur in stellis, vivis domiciliis ipsorum.
me suo trofeo e statua. Nam, et pulchritudines suas longe magis
Negano l’ecentrici ed epici- 20 ostentasse Deum in coelo et in Sole, suo
cli di Tolomeo e di Copernico; tropheo ac statua, fatentur.
affermano che sia un solo cie- Negant excentricos et epicyclos Ptole-
lo e che li pianeti da sé si maicos et Copernicianos. Asserunt unum
esse modo coelum, planetasque a se ipsis
LA CITTÀ DEL SOLE 119

Onorano, ma non adorano, il Sole e le stelle quasi come esseri viven-


ti, effigi di Dio, templi e altari animati del cielo. Sopra ogni altra cosa in
realtà venerano il Sole. Però nessuna creatura è oggetto di latria1, tran-
ne Dio: il motivo per cui servono solo Lui è per non rischiare di cadere,
soggiacendo a delle creature, sotto la tirannide e la sventura, in base al-
la legge del taglione. E nell’immagine del Sole contemplano e ricono-
scono Dio, e lo chiamano volto insigne e statua viva di Lui, da cui pro-
mana la luce, il calore, la vita, la nascita delle cose e ogni altro bene.
Perciò l’altare è stato costruito a immagine del Sole e i sacerdoti adora-
no Dio nel Sole e nelle stelle come altari, e nel cielo come tempio, e
pregano gli angeli buoni come intercessori che dimorano nelle stelle,
loro case vive. Infatti dicono che Dio ha dispiegato le sue bellezze di
gran lunga più nel cielo e nel Sole, suo trofeo e statua.
Respingono eccentrici ed epicicli tolemaici e copernicani2. Afferma-
no che c’è un solo cielo, e che i pianeti si muovono e si alzano da soli,

1
«L’adorazione è una testimonianza prestata non solo alla virtù, ma anche alla superiorità, e
può essere prestata soltanto dall’inferiore al superiore. Essa si distingue in latria, con cui si
esibisce al superiore una perfetta servitù e una soggezione tanto esterna quanto interna, e in
dulia, con cui si riconosce una superiorità, ma non somma né infinita» (Theol. XVIII [II,
p. 187]); la venerazione di Dio, «come principio dell’essere e dell’ordine... non si deve avere
per nessuna creatura, o si commette empietà» (Comment., p. 807; v. n. compl.).
2
Per spiegare le irregolarità (già nell’antichità considerate apparenti) dei moti planetari (l’a-
vanzamento, la retrocessione e la stazionarietà), Apollonio di Perge (circa 262 a.Cr.; secondo
altri Ipparco di Nicea, 161-126 a.Cr.), aveva elaborato l’ingegnosa quanto macchinosa teoria
degli epicicli, fatta propria da Tolomeo e dominante fino al Cinquecento: il moto planetario
sarebbe costituito dalla composizione di due moti circolari sempre in direzione Ovest→Est:
una prima circonferenza planetaria di raggio minore (l’epiciclo) ha per centro il Sole; il Sole
a sua volta si muove in un’orbita di raggio maggiore intorno alla Terra (questo cerchio virtua-
le maggiore da esso tracciato si chiama deferente); il moto risultante è una epicicloide (in pra-
tica è lo stesso moto dei satelliti nel sistema eliocentrico). I pianeti inferiori, poi, aventi cioè
un’orbita interna a quella solare, hanno il deferente omocentrico, cioè coincidente col centro
della Terra; i pianeti superiori, Marte, Giove, Saturno, con orbita esterna alla solare, hanno il
deferente eccentrico, e dunque, come scriveva nel 1612 Galilei, altro avversario di questa teo-
ria, questo cerchio «circonda la Terra, ma non la contiene nel suo centro, ma da una banda»
(Op., XI, p. 345, cit. da Bobbio). Come e prima di Galilei (ma poggiando su altre basi teoreti-
che – le simpatie cosmiche [v. n. 123.1] –, e quindi elaborando un altro modello cosmologico,
prima geocentrico e poi ‘misto’), C. già in Epilogo, p. 250 riduceva questo complesso sistema di
epicicli e deferenti alle sole orbite eccentriche: «L’alzare et l’abassare de pianeti vien dalla lu-
ce più o meno dal sole ricevuta, e non dalle eccentrici et hepicicli». Copernico in effetti con-
sidera gli epicicli dei tolemaici un’ipotesi superflua, ma C. scrive: «Benché sembri che Coper-
nico dia la ragione del fatto che Venere e Mercurio non si allontanano dal Sole, come i tre pia-
neti superiori, ciò nondimeno egli adopera ancora gli eccentrici e gli epicicli nella Luna e nel-
la Terra, pone gli eccentrici nei pianeti e non fornisce la ragione del fatto che la Terra inclina
verso lo zodiaco. Dunque la sua posizione non toglie tutti gli inconvenienti ed erra in quanto
affastella dottrine di Tolomeo e Filolao» (Metaph. XI XV IV [III, p. 35]).
120 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS

muovano e alzino, quando al moveri et elevari, quando Soli appropin-


sole s’opponeno, o congiungo- quant et coniunguntur: ideoque et pigrius
no per la luce maggiore che ri- in ampliori circulo ad anteriora ferri quor-
ceveno; e abbassino nelle qua- sum omnes ire contendunt; cum vero oppo-
drature e per questo pareno le 5 nuntur Soli, paulatim inclinari ad recipien-
stelle tarde di Saturno, Giove, dam lucem ab eo et brevius curriculum as-
Marte, Venere, Mercurio, di sumere, quia terrae propinquiores sunt, ita-
retrogradare in questi tempi que et celerius in anteriora ferri. Et quando
che fann’alto circolo e nel’al- aequali velocitate cum fixis gradiuntur, dici
zare paiono gire adietro e cos- 10 stationarios; quando |165> celeriori, retro-
sì si veggono, perch’il stellato grados, secundum vulgares astronomos;
cielo corre velocemente in 24 quando pigriori, directos, ob maiorem lu-
ore, ed esse ogni dì restano cem quam excipiunt elevanturque etc. Nam
più adietro talché sendo pas- ex quadraturis et in oppositionibus humilia-
sate dal cielo paiono tornare; 15 ri, ut ab illo non elongentur. Lunam vero et
ma la Luna velocissima in in oppositione nedum in coniunctione ele-
congiunzione e opposizione vari eo quod sub Sole sit. Itaque stellas om-
non par tornare, ma solo tar- nes, quamvis ab ortu in occasum ferantur,
dare (è alquanto oscura, ma videri e contra moveri, quoniam stellatum
contiene il vero e par bugìa; 20 coelum velociter convolvitur totum in vigin-
scriverò altrove meglio), per- ti quatuor horis, ipsaeque non ita velociter,
ch’il primo cielo non è più di sed relinquuntur in itinere: proptereaque
lei veloce, onde non pare re- praeventas a coelo, videri retrorsum cieri.
trograda, ma solo tarda; e Lunam tamen nobis citimam non videri in
cossì si vede che né epicicli né 25 oppositione et coniunctione retrorsum cur-
ecentrici ci voleno a farl’alza- rere unquam, sed parum, modo in anterio-
re e retrocedere, e cossì pur nel ra tunc praeferri, quando lumine multo aut
superne aut inferne repletur. Nam primum
coelum est tantae velocitatis prae ipsa, quod
30 non videri potest in anteriora ita ferri, ut ex-
cedat gradus tredecim quibus ab illo deficit:
ergo nec retrocedere, sed solum tardari aut
accelerari ante et retro. Unde patet epicy-
clos et excentricos non requirere, ut eleven-
35 tur et deprimantur et repedent et pigre-
scant. Profecto hoc affirmant, sidera erran-
LA CITTÀ DEL SOLE 121

quando si approssimano e si congiungono al Sole: e perciò avanzano più


lentamente in un’orbita più ampia verso quest’astro che è il centro di at-
trazione di tutti loro; quando invece sono in posizione opposta al Sole, si
inclinano un poco onde ricevere la sua luce e percorrono un arco ridot-
to, poiché sono più vicini alla Terra, e così avanzano più celermente.
Quando i pianeti si muovono alla stessa velocità delle stelle fisse, si chia-
mano, secondo l’astronomia corrente, stazionari; quando sono più velo-
ci, retrogradi; diretti, quando sono più lenti, a causa della maggior quan-
tità di luce che ricevono, e perciò si alzano ecc. Infatti nelle quadrature e
nelle opposizioni si abbassano, per non allontanarsi dal Sole; la Luna in-
vece si alza anche durante l’opposizione (a maggior ragione in congiun-
zione), perché è situata sotto il Sole. Perciò tutti i pianeti, benché girino
da levante a ponente, sembrano muoversi in direzione opposta: la volta
celeste compie un giro completo velocemente in ventiquattr’ore e inve-
ce gli stessi pianeti non girano così rapidamente, ma vengono lasciati in-
dietro e pertanto, superati dalle stelle, sembrano retrocedere. Al contra-
rio la Luna, il pianeta più prossimo alla Terra, durante l’opposizione e la
congiunzione non sembra mai retrocedere, ma solo avanzare di poco,
quando è illuminata sopra o sotto da molta luce solare. Infatti il primo
cielo viaggia ad una velocità di poco superiore a quella della Luna, per
cui non si può percepire il suo avanzamento se non supera i tredici gra-
di di differenza: quindi non sembra retrocedere ma solo ritardare o ac-
celerare avanti e indietro. Onde appare chiaro che non c’è bisogno di
epicicli ed eccentrici per spiegare perché i pianeti si alzino, si abbassino,
indietreggino, ritardino1. Affermano con certezza che i corpi celesti or-

1
C. spiega (ad es. in Senso, p. 173) le apparenti anomalie del moto dei pianeti in maniera di-
versa dall’astronomia vigente (tolemaica; per Telesio, invece, i pianeti orbitano da occidente
a oriente, mentre «l’orbita suprema da oriente a occidente» [I,9,91]), e cioè che tutti i corpi
celesti si muovono nella stessa direzione da Est a Ovest (e non: il cielo delle stelle fisse da
Ovest a Est, e i pianeti in senso opposto [v. n. 118.22-122.4]); in secondo luogo che le orbite
planetarie sono ellittiche e non epicicloidali (escluso Mercurio e Venere che ruotano intor-
no al Sole, e poi tutto questo sotto-sistema eliocentrico ruota intorno alla Terra immobile:
quindi l’orbita risultante è un epiciclo). Perciò la terminologia corrente risulta inadeguata:
in particolare ‘retrogradatio’, che C. sostituisce con ‘velocitas’ (in Theol. III, p. 136 l’aveva
chiamata ‘subdeficentia’), in quanto i pianeti non tornano indietro, ma accelerano o decele-
rano rispetto alla velocità costante delle stelle; tuttavia, per intendersi, «loquendum ut plu-
res» (v. n. 120.11). Dal canto suo l’orbita anomala della Luna, il cui apside è in funzione del-
l’angolo col Sole, fa sì che risulti doppiamente diverso anche il suo moto apparente: da un la-
to essa viaggia a una velocità prossima a quella delle stelle, e dall’altro non sembra mai in-
dietreggiare, ma tutt’al più sopravanzare il firmamento (= ‘il primo cielo’), anche se è diffi-
cile avvertire lo scarto sotto i tredici gradi.
122 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS

calare si fanno retrogradi per- tia in certis mundi partibus sympathiam


ché non correno col primo cie- nancisci cum rebus supernatibus ac ibi im-
lo, ma abbassano, onde resta- morari propterea magis: ideoque dici in ab-
no adietro li tre pianeti primi. sidem erigi.
Del sole poi rendeno la 5 Porro quare Sol in septentrionali plaga
causa fisica, che nel setten- plus immoretur quam in australi, physicam
trione s’alza per contrastar la reddunt causam, videlicet ibi elevari ad ter-
terra, dov’essa prese forza, ram comburendam ubi ipsa vires plures sor-
mentre esso scorse nel merig- tita est, dum ipse excursitavit in meridiem
gio, quando fu il primo del 10 quando ortus est simul cum mundo. Qua-
mondo. Talché in settembre propter in autumno nostro et vere australis
bisogna dire che sia stato plagae mundum incepisse asserunt cum
|26v> fatto il mondo, come Chaldaeis et Hebraeis antiquioribus, et non
l’Ebrei e Caldei antichi, non sicut recentiores opinantur. Itaque elevatus
li moderni, excogitâro: e cos- 15 ut reficiat quod amiserat, plures immoratur
s’alzando per rifar il suo, sta in septentrione quam in austro dies, ac in
più giorni in settentrione che excentricum scandere videtur. Cum hoc ta-
in austro, e par salir in eccen- men incerti sunt an Sol sit centrum inferio-
trico ecc. ris mundi et an fixae sint aliorum centra
20 planetarum et an planetae aliis lunis, sicut
tellus nostra, ambiantur; sed invigilant
adhuc investigationi huius veritatis.
LA CITTÀ DEL SOLE 123

bitanti in determinate parti dell’universo entrano in simpatia con entità


che stanno più in alto, e lì sostano più a lungo: perciò si dice che si al-
zano in apside1.
Forniscono inoltre una spiegazione fisica del perché il Sole indugi
più nell’emisfero settentrionale che in quello meridionale: quest’indu-
gio dipende dal fatto che il Sole vuol bruciare la Terra lì, nell’emisfero
boreale, dove essa ha più forza, in quanto il Sole, al momento in cui
nacque insieme all’universo, orbitava sull’emisfero australe. Perciò i
Solari concordano con i Caldei e gli Ebrei più antichi2, contro l’opi-
nione dei moderni, che il mondo sia sorto nella stagione che per noi è
l’autunno e per l’emisfero australe primavera. Pertanto il Sole, innal-
zatosi per recuperare quanto aveva perduto, sosta più tempo nell’emi-
sfero settentrionale che in quello australe, e sembra quasi salire in ec-
centrico. Invece essi sono in dubbio su ciò: se il Sole sia il centro della
regione inferiore dell’universo e se le stelle fisse non siano a loro volta
centri di altri sistemi planetari e se intorno a tali pianeti, come succede
alla Terra, non orbitino altri satelliti; ma stanno ancora indagando su
queste ipotesi3.

1
Sensu, ‘App.’ a I, 8 (in: Senso, p. 336): sympathia «non sensus est, sed affectio ex sensu pro-
diens» (‘sensus’, sempre in accezione campan. di sensibilità diffusa e diversa secondo i va-
ri enti). C. farebbe ricorso ad essa per giustificare, secondo Crahay, p. 199, «perché questo
ritardo varia da un pianeta all’altro» rispetto al moto celeste; oppure perché sospetta, er-
roneamente, una connessione fra esaltazione e apside planetario, cadendo nell’equivoco
di identificare apogei ed esaltazioni. «Rebus supernatibus» è il simmetrico del più diffuso
‘[rebus] inferioribus’ (es.: 124.1-2; v. n. 151.2), ma non è chiaro se si riferisce a corpi o re-
gioni celesti che stanno oltre il sistema solare (come ritengo, proprio perché l’apside è
astrologicamente rilevante per C. [v. 86.18]), o addirittura oltre il firmamento (v. n.
compl.).
2
San Girolamo sostiene che gli Ebrei, nel periodo della deportazione babilonese, avevano
adottato il calendario caldaico, secondo il quale «october est primus mensis» (Comm. in
Ezech. I, 6; v. n. compl.).
3
Per ‘regione inferiore’ qui s’intende il nostro sistema solare (v. n. 124.27-8 per l’altra ac-
cezione di ‘mundus’). Circa le due teorie cosmologiche rivali, C. opterà per un terzo mo-
dello, il geo-eliocentrico, sostenendo di esserci arrivato indipendentemente da Tycho (v.n.
160.1-2 §3); e infine circa l’ipotesi dell’esistenza di altri sistemi planetari nel nostro uni-
verso, resasi imperiosa dopo l’apparizione delle comete (136.23) e dopo che il telescopio
aveva mostrato i satelliti di Giove e le ‘macchie’, solari e lunari, indizio che gli astri non
erano puramente eterei, ma erano impastati degli stessi elementi terrestri, su tale ipotesi,
dunque, C. nutriva perplessità d’ordine fisico e metafisico, ma non la escludeva a priori: il
fatto che il cosmo in cui vi è la nostra Terra sia composto di materia, e quindi quantitativa-
mente limitato, non permette di «asserire che il mondo sia finito, poiché vi possono essere
altri sistemi anche al di fuori della circonferenza del nostro cielo» (Compendio X,3; v. n.
compl.).
124 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS

Tengono doi princìpi fisi- Duo autem principia physica re- De physica
ci: il sole padre e la terra ma- rum inferiorum asserunt: scilicet
dre; e l’aere essere cielo impu- Solem patrem et Tellurem matrem. Aërem
ro, e il fuoco venir dal sole, e vero esse portionem coeli impuram ignem-
il mare esser sudor della terra 5 que omnem a Sole derivari. Mare autem su-
liquefatta dal sole ed unir dorem esse telluris vel fluorem combustae
l’aere con la terra, com’il san- fusaeque terrae in visceribus ac vinculum
gue il spirito col corpo uma- aëris atque terrae, sicuti sanguis spirituum
no; ed il mondo esser animale et corporis animalium. Mundum animal es-
grande, e noi star intra lui, 10 se ingens, nosque in eius ventre vivere, sicu-
come i vermi nel nostro corpo; ti vermes in ventre nostro. Idcirco non per-
e però noi appartenemo alla tinere nos ad stellarum et Solis et terrae
providenza di Dio, e non del providentiam, sed Dei tantum, quoniam re-
mondo e delle stelle, perché ri- spectu illorum, aliud intendentium nihil
spetto a loro siamo casuali; 15 quam sui amplificationem, casu nati sumus
ma rispetto a Dio, di cui essi et vivimus; respectu vero Dei, cuius illi sunt
sono stromenti, siamo previsti instrumenta, praescientia et ordine conditi
e provisti; però a Dio solo ave- sumus et ad finem magnum destinati. Idcir-
mo l’obligo di signore, di pa- co soli Deo obligati sumus ut patri, et omnia
dre e di tutto. 20 ab eo recognoscere tenemur.
Tengono per certa cosa Procul dubio credunt immortalitatem
l’immortalità dell’anima, e animarum, hasque post mortem associari
che s’accompagni, morendo, angelis probis aut pravis, prout illis aut his
con spiriti buoni e rei, secon- in actibus praesentis vitae sese similiores
do il merito. Ma li luochi del- 25 reddiderunt. Omnia enim sibi similia pete-
le pene e premî non l’hanno re. De locis poenarum et praemiorum pa-
per tanto certe; ma assai ra- rum a nobis discrepant. In ancipiti versan-
gionevole pare che sia il cielo tur, num alii mundi extra nostrum sint, ac
e li luochi sotterranei. Stanno furoris esse arbitrantur asserere nihil esse,
anche molto curiosi di sapere 30 quoniam, inquiunt, nihil neque intus ne-
se queste pene sono eterne o que extra mundum est, Deusque, ens infini-
no. Di più son certi che vi sia- tum, non compatitur secum nihilum. Infini-
no angeli buoni e tristi,
com’avviene fra l’uomini, ma
quello che sarà di loro aspet- 35
tano aviso dal cielo. Hanno
in dubio se ci siano |27r> al-
tri mondi fuor di questo, ma
stimano pazzia il dire che
non ci sia niente, perché il 40
niente né dentro né fuori del
mondo è, e Dio, infinito, non
LA CITTÀ DEL SOLE 125

Secondo loro esistono due princìpi fisici delle cose inferiori1: La fisica
il Sole padre e la Terra madre. L’aria non è altro che la parte im-
pura del cielo e tutto il fuoco deriva dal Sole2. Il mare è il sudore della
Terra o il fluido del magma fuso e combusto nelle sue viscere, nonché il
legame fra aria e terra, come il sangue lo è tra gli spiriti e il corpo degli
esseri animati. Il mondo è un gigantesco animale, e noi viviamo nel suo
ventre, come i vermi nel nostro. Perciò il nostro destino non dipende
dalla provvidenza delle stelle, del Sole e della Terra, ma solo di Dio, poi-
ché rispetto agli astri, spinti unicamente dall’impulso ad espandersi, la
nostra nascita e la nostra vita sono del tutto accidentali; invece in rap-
porto a Dio, di cui gli astri sono strumenti, noi siamo stati creati con
prescienza e secondo un progetto, e siamo destinati ad un grande sco-
po. Perciò siamo obbligati soltanto a Dio come a un padre, e siamo te-
nuti a riconoscere che tutto ci viene da lui.
Credono fermamente nell’immortalità dell’anima, che dopo la mor-
te si accompagna agli angeli buoni o cattivi, secondo che, per le azioni
compiute in vita, si sia resa più simile a questi o a quelli. Infatti il simile
è sempre attratto dal simile3. Sui luoghi del premio e della pena hanno
pressappoco le nostre credenze.
Sono incerti circa l’esistenza di altri mondi fuori del nostro, ed è una
follia, secondo loro, asserire che vi sia il nulla, poiché – sostengono – il
nulla non è né dentro né fuori del mondo, e Dio, ente infinito, non può
tollerare al suo fianco il niente4. Si rifiutano però di credere ad un infi-

1
La fisica campan. poggia sull’impianto classico (come l’Occidente lo eredita dal Medio
Oriente – Caldei, Egizi – attraverso la mediazione greca, in particolare pitagorica): divisione
del cosmo in due settori, il superiore etereo e il mondo sublunare costituito dalla mescolan-
za dei quattro elementi (acqua, aria, terra, fuoco), sebbene derivati e ridotti a due ‘princìpi’
generatori: il padre sole e la madre terra, due antagonisti mortali, sul cui precario equilibrio
dinamico (caldo/freddo) si regge la vita (v. n. compl.).
2
L’aria è materia celeste ispessita: «L’aria è cielo impuro, ed è calda e umida» (Compendio XI,
4); la materia celeste sta all’aria come l’aria sta all’acqua (Senso III I); Physiol. VI I,28 (glossa
B) chiarisce altresì che l’aria e l’acqua non sono, come pensa Aristotele, elementi primi; ma
il mare è sudore della terra, e l’aria ne è l’evaporazione: «generatur enim a sole... est pars
caeli impurior»; il fuoco stesso è calore solare che, addensatosi, si rende visibile.
3
È frase proverbiale fortunatissima e antichissima, risalente almeno ad Omero, Odissea XVII,
218, ripresa quasi alla lettera in ‘Canzone Quarta’ (Poesie, 79, Madr. 5, Esp.; v. n. 60.13 e
n. compl., per l’Aldilà); la legge fisica di attrazione fra i simili (v. n. 93.3) è estesa alla metafisica.
4
Se qualcuno posto sull’ottava sfera, come argomentano gli Stoici, scagliasse fuori del cosmo
una lancia, sarebbe dimostrabile che «se non va, ci sia corpo resistente, e se va ci sia spazio...
Adunque è ente, né si può intendere che sia niente... né in Dio, né fuor di Dio, perché... Dio
[sarebbe] finito, mentre ci è il niente... E così se Dio è infinito ente, il niente non si trova né
126 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS

comporta il niente seco. tum tamen corporeum dari negant.


Fanno metafisici prencìpî Principia metaphysica De metaphysica
delle cose l’ente, ch’è Dio, ed il duo ponunt, ens scilicet quod
niente, che è il mancamento Deus est summus, et nihilum
d’essere, come condizione sen- 5 quod est defectus entitatis et terminus a
za cui nulla si fa: perché non quo fit aliquid physice: non enim fit quod
si faria si fusse, dunque non est, ergo non erat quod fit. Item ex nihilo et
era quel che si fa. Dal correre ente illis essentiatur metaphysice finitum
al niente nasce il male, il pec- ens. Item a propensione ad non esse nasci
cato; però il peccatore si dice 10 malum ac peccatum, et peccatum habere
annichilarsi e il peccato ha causam deficientem sed non efficientem.
causa deficiente, non efficien- Deficientem autem intelligunt defectum
te. La deficienza è il medesmo potentiae vel sapientiae vel voluntatis. In
che mancanza, cioè o di poter hoc ultimo ponunt peccatum: qui enim scit
o di saper o di volere, ed in 15 ac potest benefacere, debet etiam velle: vo-
questo ultimo mettemo il pec- luntas enim ab illis nascitur et non e con-
cato. Perché chi può e sa ben verso. Hic stupere est quod et ipsi Deum
fare, deve volere, perché la vo- adorant in Trinitate, dicentes Deum esse
lontà nasce da loro, ma non summam Potentiam, et ab hac procedere
e contra. Qui ti stupisci che 20 summam Sapientiam quae simul idem Deus
adorano Dio in Trinità, di- est, et ab ipsis Amorem qui et Potestas et Sa-
cendo ch’è somma Possanza, pientia est, neque enim procedens non ha-
da cui procede somma Sa-
pienza, e d’essi entrambi som-
LA CITTÀ DEL SOLE 127

nito corporeo1.
Pongono due principi metafisici, ovvero l’ente che è il La metafisica
sommo Dio, e il niente, che è la mancanza d’essere e insie-
me il termine a partire dal quale si produce fisicamente qualsiasi cosa:
infatti non si fa ciò che già è, dunque ciò che è fatto non c’era. Analoga-
mente di quell’ente e di quel niente si sostanzia metafisicamente l’essere
finito. E parimenti dal tendere al nulla nasce il male e il peccato; e il pec-
cato ha causa deficiente non efficiente: per causa deficiente intendono
una mancanza di potenza o di sapienza o di volontà. Nella mancanza di
volontà consiste il peccato; perciò chi sa e può fare del bene, deve anche
volerlo: la volontà infatti nasce da potere e sapere, e non viceversa. È stu-
pefacente che anche loro adorino Dio nella Trinità, dicendo che egli è
somma Potenza, da cui procede la somma Sapienza, che è insieme lo
stesso Dio, e da entrambi Amore che è insieme Potenza e Sapienza –
quello che procede non può non avere la natura di quello da cui proce-

fu mai» (Senso, p. 32). Qualunque cosa ci sia oltre il firmamento, sicuramente questa cosa
non è il nulla, contrariamente a quanto pensa Aristotele, Phys. IV («omne namque univer-
sum non est alicubi... Et extra omne et totum nihil est»), perché il nulla ‘essenziale’ sarebbe
incompatibile con l’Essere. «S’e’ [=l’Essere] fu sempre, il Niente non fu mai» (31, Madr. 4,
9): se l’Essere è, il non-essere non è. La coesistenza di Ente e niente è un’aporia blasfema:
un’aporia, perché un niente che è ente (cioè sostanziale), è un ossimoro; una bestemmia,
perché Dio, essere perfetto, esclude di per sé l’esistenza di un non-essere, che intaccherebbe
la perfezione proprio del suo predicato fondamentale, l’ontologico («nec duo Dii esse pos-
sunt, duoque prima maxima entia infinita omnino repugnat esse» [Physiol. V VII, p. 27]; gli
enti sono formati «di un essere finito e di un non-essere infinito, mentre Dio consta soltanto
di un infinito essere. Perciò se Dio è ente infinito, non può non essere qualche cosa, perché
gli mancherebbe qualche cosa, mentre l’infinito comprende tutti gli enti e non ha fuori di sé
alcuna entità: altrimenti egli sarebbe circondato e limitato dal nulla» [Theol. I (I, p. 133)]; v.
n. compl. e n. 126.7-8). Pertanto, come scriverà il gesuita Atanasio Kircher nell’Iter exstaticum
coeleste (1671), «quando ti raffiguri quello spazio immaginario che sta al di là del mondo, non
è necessariamente il nulla quello che tu concepisci, ma la pienezza della sostanza divina»
(cit. da Poulet, p. 43).
1
L’universo non può esser infinito per due ragioni, fisiche e metafisiche: il motivo fisico è
che un cielo, per quanto igneo, non potrebbe percorrere in ventiquattr’ore uno spazio infi-
nito, «idcirco mundum infinitum haud esse puto» (Quaest. phys. XI I, p. 112); le ragioni me-
tafisiche sono due: 1) «infinità di tempo, di luogo e di vigore» soltanto «in Dio» (Poesie, 3,
Esp. 8) possono darsi, perché due infiniti sono incompatibili: Dio creò il mondo «non tutta-
via dalla propria sostanza, perché allora Dio e il mondo sarebbero ugualmente infiniti e eter-
ni; d’altra parte non vi può essere che un solo infinito e un solo eterno» (Metaph. XI III II [III,
p. 17]); 2) «Da lui, per lui e ’n lui [=Dio] vien stabilito [=reso stabile, la ‘base’]/ lo smisurato
spazio e gli enti sui,/ al cui far del nïente si è servito»: proprio in quanto creature, «le cose
non sono infinite, ma mancano di Dio, partecipano il non essere e la divisione; donde nasce
il numero e la contrarietà» (3, 10 e 15, Esp.): anche lo spazio, dunque, in quanto creato, pri-
ma non c’era, e dunque, partecipando del non-essere (essendo ‘fatto’ di ente e niente), non
può essere infinito (v. n. compl.).
128 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS

mo Amore. Ma non conosce- beat naturam eius a quo procedit et non re-
no le persone destinte e nomi- cedit. Veruntamen non agnoscunt personas
nate al modo nostro, perché distinctas nominatas, ut in lege nostra Chri-
non ebbero revelazioni, ma stiana, eo quod careant revelatione, sed no-
sanno che in Dio c’è proces- 5 runt in Deo esse processionem et relatio-
sione e relazione da sé a sé; e nem sui ad se, in se et a se. Itaque omnia en-
cossì tutte cose compongono tia essentiantur eis metaphysice quidem ex
di possanza, sapienza ed potentia, sapientia et amore, in quantum
amore, in quanto han l’esse- habent esse, et ex impotentia, insi-
re; d’impotenza, insipienza e 10 pien|166>tia et disamore, in quantum parti-
disamore, in quanto pendeno cipant non esse: et per illas merentur et per
dal non essere. E per quelle has peccant, aut peccato naturae ex primis
meritano, per queste peccano, duobus, aut moris et artis in totis tribus vel
o di peccato |27v> di natura in tertio. Quippe et natura particularis pec-
nelli primi o d’arte in tutti 15 cat ex impotentia aut ignorantia faciendo
tre. E cossì la natura partico- monstrum. Caeterum haec omnia a Deo,
lare pecca nel far i mostri per omnis nihilitatis experte, praecognoscuntur
impotenza o ignoranza. Ma et ordinantur tanquam a potentissimo, sa-
tutte queste cose sono intese da pientissimo et optimo. Quare in Deo ens
Dio potentissimo, sapientissi- 20 nullum peccat, extra Deum peccat. At extra
mo ed ottimo, onde in lui nul- Deum non itur, nisi nobis et respectu nostri,
l’ente pecca e fuor di lui sì; non autem sibi et respectu sui. Namque in
ma non si va fuor di lui, se nobis est deficientia, in ipso vero efficientia.
non per noi, non per lui, per- Idcirco peccatum actus Dei est in quantum
ché in noi la deficienza è, in 25 entitatem et efficientiam habet, at in quan-
lui l’efficienza. Ond’il peccare tum habet non entitatem et deficientiam, in
è atto di Dio, in quanto ha es- qua consistit quidditas ipsius peccati, est in
sere ed efficienza; ma in nobis et a nobis qui ad non esse per deordi-
quanto ha non essere e defi- nationem declinamus.
cienza, nel che consiste la qui- 30 HOSP. - Pape, quam arguti sunt!
dità d’esso peccare, è in noi. GEN. - Profecto si memoria tenuissem et
OSP. - Oh, come sono ar- cura discedendi non sollicitarer et metu,
guti! mirabilia profunderem; at navim amitto nisi
GEN. - S’io avesse tenuto a propere discessero.
mente, e non avesse prescia e 35 HOSP. - Per fidem rogo, hoc De causa
paura, io ti sfondecaria gran unum ne caeles: quid dicunt de mundanorum
cose; ma perdo la nave, se peccato Adae? malorum
non mi parto. GEN. - Ipsi plane confitentur
OSP. - Per tua fé, dimmi multam in orbe corruptelam grassari, homi-
questo solo: che dicono del 40 nesque regi non veris superioribus rationi-
peccato d’Adamo?
GEN. - Essi confessano che
nel mondo ci sia gran corrut-
tela, e che l’uomini si reggono
LA CITTÀ DEL SOLE 129

de senza distaccarsene. Tuttavia non riconoscono tre persone designate


con nomi distinti come nel Cristianesimo, per il fatto che non hanno
avuto la Rivelazione; non ignorano però che in Dio vi è processione e re-
lazione di sé a sé, in sé e da sé. Pertanto tutti gli enti, per i Solari, sono es-
senziati metafisicamente di potenza, sapienza e amore, in quanto parte-
cipano dell’essere; e di impotenza, insipienza e disamore, in quanto par-
tecipano del non-essere: e grazie alle prime acquistano meriti, invece a
causa delle seconde peccano – di peccato di natura, per le prime due; o
di costume e di condotta per tutte e tre o solo per la terza. Ed infatti la
natura particolare pecca per impotenza o ignoranza generando mostri.
Del resto Dio, assolutamente privo di non-essere, prevede e regola tutto
ciò, lui che è potentissimo, sapientissimo e buonissimo. Perché in Dio
nessun ente pecca, lontano da Dio sì. Ma non possiamo allontanarci da
Dio per causa Sua o in rapporto a Lui, ma solo per noi e rispetto a noi.
Infatti in noi è la deficienza, in Lui l’efficienza. Di conseguenza, il pec-
cato, in quanto ente dotato di esistenza ed efficienza, è un atto di Dio;
ma è in noi e dipende da noi per quel che ha di non-essere e deficienza,
che è poi l’essenza del peccare, perché a causa del disordine noi ten-
diamo al non-essere.
OSP. - Però, come sono profondi!
GEN. - Certo. Avrei potuto raccontarti ben altre meraviglie, se le aves-
si tenute a mente e non fossi angustiato dall’ansia e dalla premura della
partenza; ma perdo la nave, se non mi affretto.
OSP. - Ti prego, spiegami solo una cosa: che dicono del pec- La causa
cato di Adamo? dei mali
GEN. - Ammettono apertamente che il mondo è afflitto da del mondo
una grande corruzione, e che gli uomini non sono governati dalla
130 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS

follemente e non con ragione; bus, probos cruciari et male audire, pravos
e ch’i buoni pateno e i tristi dominari, quamvis infoelicitatem vocent
reggono; benché chiamano in- horum vitam beatam: nam annihilatio
felicità quella loro, perch’è quaedam est haec ostensio essendi quod
annichilarsi mostrarsi quel 5 non sunt, videlicet reges, sapientes, strenui,
che non è, cioè d’essere re, sancti, quod in veritate non sunt; ex quo ar-
d’esser buono, d’esser savio gumentantur magnam in rebus humanis ex
ecc. Dal ch’argomentano che quopiam accidenti perturbationem subor-
ci sia stato gran scompiglio tam esse. Et primo quasi eo pendebant ut
nelle cose umane, e stavano 10 dicerent cum Platone orbes coelestes in pri-
per dire con Platone, che li scis saeculis revolutos esse ab occasu, prae-
cieli prima giravano dall’oc- senti eo ubi nunc orientem dicimus, ac po-
caso, là dove adesso è il le- stea contrarium assumpsisse cursum. Dixe-
vante, e poi variâro. Dissero re etiam possibile fuisse ab aliquo inferiori
anche che può essere che go- 15 numine res inferiores regi atque a primo
verni qualche inferior Virtù, numine sic permitti, sed hoc assertum stul-
e la |28r> prima lo permetta, tum reputant. Ac stultius quod Saturnus pri-
ma questo pur stimano paz- mo bene regnarit ac deinde Iovem minus
zia. Più pazzia è dire che pri- bene, deinde vero caeteros successisse pla-
ma resse Saturno bene, e poi 20 netas, quamvis fateantur mundi aetates or-
Giove; ma confessano che dinari secundum seriem planetarum. Cre-
l’età del mondo succedeno se- duntque ex absidum mutationibus post mil-
condo l’ordine de pianeti, e le annos aut mille et sexcentos res variari in-
credeno che la mutanza del- signiter. Hanc nostram aetatem assignan-
l’assidi d’ogni mill’anni o 25 dam videri Mercurio, tametsi a magnis co-
mill’e seicento variano il
mondo. E questa nostra età
par che sia di Mercurio, se
LA CITTÀ DEL SOLE 131

vera ragione superiore; anzi i buoni sono inascoltati e addirittura perse-


guitati, e invece i malvagi imperano – benché i Solari chiamino disgra-
zia la cosiddetta felicità di costoro: infatti è una sorta di autoannulla-
mento1 questo voler apparire quel che non si è, cioè sovrani, saggi, va-
lorosi, santi. Da ciò arguiscono che per una causa ignota dev’essere in-
sorta una grande perturbazione nelle cose umane. In principio erano
tentati di dire con Platone2 che le sfere celesti anticamente giravano
dall’attuale occidente in quella direzione che ora chiamiamo oriente, e
poi avessero invertito il corso.
Hanno anche ritenuto possibile che le cose di questo mondo fossero
rette da una divinità inferiore, con il consenso di Dio; ma adesso la re-
putano una sciocchezza. Ma ancora più stupida è la credenza che prima
abbia regnato Saturno bene e poi Giove meno bene, e così via gli altri
pianeti succedutisi. Tuttavia credono che le età del mondo si sussegua-
no secondo la serie dei pianeti, e che le cose cambino profondamente
ogni mille o milleseicento anni in seguito alla mutazione degli apsidi3.
Sembra che la nostra sia l’età di Mercurio, sebbene sia alterata dalle

1
Propriamente ‘annihilatio’ è una delle specie della ‘mutazione’: «La mutazione dal non-en-
te simpliciter all’ente si dice creazione; dall’ente al nulla si dice annihilatio» (Compendio XIV,3).
‘Annichilimento’, perché si vuol apparire quel che non si è: se ogni singola e unica determi-
nazione è affiancabile da infinite negazioni (A è A, ma è anche nonB, nonC...), allora l’ap-
parenza consisterà nell’assumere per determinazione non quella sola positiva, ma una delle
negative (donde l’essere un non-essere). Innumerevoli le volte in cui questa forma di non-es-
sere viene condannata: ad es. nel celebre sonetto ‘A certi amici…’ (63, 8): «il viver sporca chi
per viver finge»; oppure: l’uomo «si finge/ saggio, buon, valoroso: talché in sfinge/ se stesso
annicchilando alfin converte»; così autocommentato: «questo fingersi quel che non siamo, è
un annicchilamento di quel che siamo, assai penoso» (10,2-3; v. nn. 24.39-26.1 e 56.5); ma
Dio, alla fine della ‘commedia’ (v. nn. 84.5 e 128 [glossa]) smaschererà il niente che c’è die-
tro queste larve: «At ego in fine dierum cuncta iudicabo in comediae universalis agnitione,
redditis terrae larvis, evacuatisque scaenis» (Moralis XV, 61). Naturalmente la finzione va di-
stinta dalla generazione (un fiore diventa frutto: v. n. 126.7-8) e dall’allucinazione: i deliran-
ti «credunt se videre quae non sunt: et se esse reges, et canes et lupos: in his vera est appa-
rentia, sed non vera existentia» (Medicina, p.342).
2
Polit., 269a: nella contesa fra Tieste e Atreo per il vello d’oro, Giove, «per dar testimonianza
del suo favore ad Atreo, mutò il corso degli astri nella direzione attuale»; per Platone è una
prova della ciclicità dell’universo (v. n. compl.).
3
Un accenno alle loro mutazioni anche a 156.7 (ma v. n. 87.5); tali mutazioni sarebbero in-
tervenute a partire dalla profezia di Aggeo circa la venuta del Messia, e gli apsidi «si sono già
spostati innanzi di trentaquattro gradi secondo Copernico, Ticone e Keplero» (‘Ecloga’, 169,
16, Esp.): dal fatto che gli estremi orbitali dei pianeti toccano nuove costellazioni si deduco-
no due cose: a) la precessione degli equinozi; b) le disorbitanze dei pianeti, che, insieme al
Sole, si avvicinano alla Terra per incendiarla. In Astrol. sono riportate le tabelle delle varia-
zioni di equinozi e apogei, secondo i calcoli di Brahe.
132 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS

ben le congiunzioni magne niunctionibus intervarietur, et anomalia-


l’intravariano. rum regressus fatalem vim possideant.
Finalmente dicono ch’è fe- Demum affirmant hominem Christia-
lice il cristiano, che si conten- num esse foelicem, qui credere contentatur
ta di credere che sia avvenuto 5 quod ex peccato Adae tanta contigerit per-
per il peccato d’Adamo, e cre- turbatio. Opinantur etiam ex patribus deri-
deno che dalli padri alli figli vari in filios potius poenae malum quam
corre il male più della pena culpae; a filiis autem ad patres culpam re-
che della colpa. Ma dai figli verti, quatenus neglexerunt generationem,
al padre torna la colpa, per- 10 et celebrarunt ipsam praeter tempus et lo-
ché trascurâro la generazio- cum et electionem genitorum, aut educatio-
ne, la fecero fuor di tempo e nem neglexerunt aut prave natos docue-
luogo, in peccato e sensa scel- runt instruxeruntque. Idcirco ipsi sedulam
ta di genitori, o trascurâro navant operam generationi et educationi,
l’educazione, ché mal l’indot- 15 et aiunt poenam ac culpam redundare in
trinâro. Però essi attendeno rempublicam tam filiorum quam paren-
assai a questi doi punti; e di- tum, idcirco omnes hoc tempore in miseriis
cono che la pena e la colpa re- versari civitates et, quod peius est, vocare
donda alla città, tanto de’ fi- pacem et beatitatem ipsa mala, quoniam
gli, quanto de’ padri; però 20 bona non sunt experti, viderique mundum
non si vedeno bene e par ch’il casu regi. At vero qui constructionem mun-
mondo si regga a caso. Ma di contuetur et hominis anatomiam (quam
chi mira la construzione del ipsi in condemnatis ad necem experiuntur
mondo, la notomia dell’uomo saepe) et plantarum et belluarum et usus
(com’essi fanno de condenna- 25 partium ac particularum earundem, cogitur
ti a morte, anatomizandoli) e Dei sapientiam ac providentiam altis accla-
delle bestie e delle piante, e mationibus confiteri. Itaque debere homi-
gl’usi delle parti e particelle nem religioni se totum dare propriumque
loro, è forzato a confessare la auctorem venerari semper. Hoc autem non
providenza di Dio ad alta vo- 30 bene perficere posse vel non facile, nisi qui
ce. Però si deve l’uomo molto Dei opera perquirit et pernoscit eiusque ob-
dedicare alla vera religione, servat leges et probe philosophatur in ope-
ed onorar l’autor suo; e que- ribus suis: Quod tibi non vis, alteri ne feceris, et
sto non |28v> può ben fare Quae vultis ut faciant vobis homines, et vos faci-
chi non investiga l’opere sue e 35 te illis. Unde sequitur quod, sicuti nos a filiis
non attende a ben filosofare, e
chi non osserva le sue leggi
sante: «Quel che non vuoi
per te non far ad altri, e quel
che vuoi per te fa’ tu il mede- 40
smo». Dal che ne segue, che se
LA CITTÀ DEL SOLE 133

grandi congiunzioni1, e i ritorni delle anomalie possiedano un’influen-


za fatale.
In definitiva reputano felici i cristiani a cui è sufficiente credere2 che
il peccato di Adamo abbia causato tanto scompiglio. Ritengono anche
che il male che i padri trasmettono ai figli è quello della pena più che
della colpa; invece la colpa dai figli ritorna ai padri, perché trascuraro-
no la generazione, avendola compiuta fuori tempo e luogo, e senza aver
selezionato i genitori, o per aver trascurato la formazione dei figli o per
aver impartito loro una pessima educazione e istruzione3. Perciò i Sola-
ri pongono la massima cura nella generazione e educazione, in quanto,
a loro dire, la pena e la colpa tanto dei figli quanto dei padri ricadreb-
bero sullo stato, come dimostra di questi tempi la miseria in cui versano
le nazioni e, quel che è peggio, il chiamare pace e felicità gli stessi mali,
perché non sanno più cos’è il bene; e così sembra che il mondo sia ret-
to dal caso. Ma chi indaghi l’architettura dell’universo e l’anatomia del-
l’uomo (essi praticano spesso la dissezione dei cadaveri dei giustiziati) e
quella delle piante e delle bestie, e l’utilità delle loro parti, anche le più
minuscole, dovrebbe rivolgere entusiastiche lodi alla sapienza e provvi-
denza di Dio. Pertanto l’uomo deve dedicarsi interamente alla religione
e venerare sempre il proprio Autore. E ciò può esser eseguito bene e
agevolmente solo da chi scruta e conosce a fondo le opere di Dio, os-
serva le Sue leggi e medita opportunamente sulla sua condotta: Non fa-
re agli altri quel che non vuoi sia fatto a te, e Quel che vuoi sia fatto a te, fallo
agli altri. Da qui consegue che, come noi dai figli e dagli uomini, ai qua-

1
Mentre T. riporta sempre ‘congiunzioni magne’ (T.132.1, 136.18, 156.2 e 158.4), qui si par-
la due volte di grandi ‘coniunctiones’ (l’altra a 158.3) e quattro di ‘synodi’ (136.14 e 22,
142.22, 156.14), termine quest’ultimo con cui Tolomeo intendeva una congiunzione o op-
posizione dei soli Luminari, mentre a partire dal Medio Evo le si riferisce ai tre pianeti mag-
giori (v. nn. 136.22, 156.13-158.5).
2
Nessuna ironia sulla limitatezza di tale convincimento; «contentatur» e il successivo «etiam»
sono le parole cruciali, per comprendere il senso (e l’importanza) di questo passo in cui, per
l’Au., si celebra il vertice della consonanza fra ‘religio abdita’ e ‘indita’: per afferrare la cau-
sa essenziale di tutti i mali del mondo, è sufficiente ai Cristiani aver fede nelle parole della Ge-
nesi, che possono essere confortate anche da un risvolto scientifico: colpevoli accoppiamenti
(=Peccato) creano degli incolpevoli penitenti (=trasmissione di pena senza colpa), con la dif-
ferenza che le pene dei figli ricadono sui padri e sull’intera società. Si potrebbe dire che il
dogma del peccato originale sia stato qui assunto a ‘figura’ di una verità storico-naturale, e vi-
ceversa (v. n. seg., n. compl. e n. 128 [glossa]).
3
Se il padre pecca, il figlio continua a scontarne la pena; ma la colpa è del solo padre (e ov-
viamente è peggiore la colpa della pena, come insegnavano Platone, Gorg., 472e e 478-9, e
More, 182; v. n. compl.).
134 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS

dalli figli e dalle genti noi cer- et ab hominibus requirimus honorem et bo-
camo onore, alli quali poco na quibus parum elargimur, plura nos de-
damo, assai più dovemo noi beamus Deo a quo totum recipimus, totum
a Dio, da cui tutto recevemo, sumus et ubique in eo. Laus illi in saecula.
in tutto siamo e per tutto. Che 5 HOSP. - Profecto cum hi, qui naturae tan-
sia sempre lodato. tum legem norunt, tantopere propinquent
OSP. - Se questi, che segue- Christianismo, qui nihil addit supra leges
no solo la legge della natura, naturae nisi sacramenta conferentia auxi-
son tanto vicini al cristiane- lium ad observantiam illarum, ego argu-
smo, che nulla cosa aggiunge 10 mentum validum sumo mihi pro religione
alla legge naturale se non li Christiana, quod sit omnium verissima
sacramenti, io cavo argomen- quodque, sublatis abusionibus, domina sit
to da questa relazione che la futura in toto terrarum orbe, ut praeclario-
vera legge è la cristiana, e res theologi docent et sperant. Aiuntque id-
che, tolti l’abusi, sarà signora 15 |167>circo Hispanos novum orbem invenis-
del mondo. E che però li Spa- se (quamvis inventor primus sit Columbus
gnuoli trovâro il resto del maximus heroum noster genuensis) ut om-
mondo, bench’il primo trova- nes nationes in unam legem congregentur.
tore fu il Colombo vostro ge- Ergo hi philosophi erunt testes veritatis,
novese, per unirlo tutto ad 20 electi a Deo. Hinc agnosco nos nescire quid
una legge; e questi filosofi sa- agamus, sed esse Dei instrumenta; illi, cupi-
ranno testimoni della verità, ditate auri et divitiarum, novas quaeritant
eletti da Dio. E vedo che noi regiones, Deus autem finem altiorem inten-
non sappiamo quel che face- dit. Sol terram exurere contendit, non qui-
mo, ma siamo instromenti di 25
Dio. Quelli vanno per avari-
zia di danari cercando nuovi
paesi, ma Dio intende più al-
to fine. Il sole cerca struggere
LA CITTÀ DEL SOLE 135

li poco diamo, ricerchiamo onori e favori, così dobbiamo dare molto di


più a Dio, dal quale riceviamo tutto, siamo in tutto e per tutto in Lui.
Gloria a Dio nei secoli.
OSP. - In verità, poiché costoro, che conoscono soltanto la legge natu-
rale, sono tanto prossimi al cristianesimo (che non aggiunge nulla alle
leggi di natura, tranne i sacramenti conferiti per aiutarci a meglio os-
servarle), io ne ricavo una solida argomentazione a favore della religio-
ne cristiana, come quella che è l’unica vera e che, eliminati gli abusi, re-
gnerà nel mondo, come i più illustri teologi insegnano e sperano. A tal
proposito dicono1 che gli Spagnoli hanno scoperto il Nuovo Mondo
(sebbene il primo scopritore sia stato il nostro2 grandissimo eroe, il ge-
novese Colombo), affinché tutte le genti siano unificate sotto una sola
legge. Questi filosofi solari saranno dunque3 scelti da Dio a testimo-
nianza della verità. Debbo perciò riconoscere che noi non sappiamo
quel che facciamo, ma siamo strumenti nelle mani di Dio: quegli Spa-
gnoli vanno alla ricerca di nuove terre per brama di oro e ricchezze, e
Dio invece mira a uno scopo più alto; il Sole cerca di bruciare la Terra4,

1
Il soggetto è sempre «theologi» (esplicitato nella traduzione di Crahay, p. 213: «ces théolo-
giens»), perché l’Ospitaliero non sta riportando le tesi dei Solari, ma di «illustrissimi teologi»
(tra cui è certamente da annoverare C. stesso, autore di una sterminata Theol. e sostenitore
della riunificazione del mondo in un solo ovile, sotto il pastorale papale [Mon. Messiae]).
2
Città invece porta «il Colombo vostro genovese» (T.134.19); il cambio di persona è forse do-
vuto alla grafia dei mss, spesso abbreviato in u.ro, per cui la «v» scritta come una ‘u’ è stata
scambiata per una ‘n’. Bisogna quindi intenderlo come ‘vostro’, cioè cittadino di Genova co-
me il suo interlocutore, senza inopportune illazioni sull’‘italianità’ dell’Ospitaliero (fatte ad
es. da Crahay, p. 205).
3
Questa deduzione è da collegare a 134.14, dopo «sperant», perché conclude la prima parte
dell’analisi circa la facilità con cui, una volta ‘ridotti alla ragione’ i popoli, li si può converti-
re al cristianesimo. Mentre la seconda parte appartiene alla sfera profetale e provvidenziale
della sua teologia della storia: Cristo ha preannunciato che la fine del mondo ci sarà quando
la Terra ubbidirà ad un’unica legge; cosa che appunto sta accadendo a seguito della prodi-
giosa espansione dell’impero spagnolo – uno di quei segnali terrestri, che insieme a quelli
celesti (specificati a 136.14-25), indicano che il nuovo Avvento è certo e prossimo.
4
«Il Sole, la Luna e le stelle, agiscono sulla Terra per la sua distruzione, secondo la propria
intenzione; invece secondo l’intenzione di Dio, sono origine della distinzione, generazio-
ne e corruzione delle cose» (Compendio XII,1). Questa teoria di una Mente che orchestra al
fine di un bene superiore i conflitti ‘elementari’ è replicata incessantemente: da Epilogo,
p. 240: «Bella cosa è... che ’l calore e ’l freddo, diffondendosi da i due elementi [Cielo e
Terra] l’un contra l’altro, da sé stessi agendo contra sé stessi non intendono altro che mol-
tiplicar la natura»; ad Astrol., ‘Prefaz.’, 2, Theol. I (I, p. 65) e Metaph. VII I VI (II, p. 249):
«sotto un sapientissimo artefice, mentre il cielo e la terra si combattono, essi non realizza-
no quel che vorrebbero, cioè la distruzione reciproca, bensì ciò che non vorrebbero, cioè
la nascita dei secondi enti». L’idea di provvidenzialità divina, così com’è qui espressa, è
d’origine telesiana: I, 13; III, 35; IV,29 («in tutte le Sue opere cambia in sommi vantaggi e
136 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS

la terra, non far piante ed dem producere plantas et homines etc., sed
uomini; ma Dio si serve di lor Deus utitur ipsorum pugna ad horum pro-
in questo. Sia laudato. ductionem. Ipsi laus et gloria.
GEN. - E se sapessi che cos- GEN. - O si scires, quid per astrologiam di-
sì dicono per astrologia e per 5 cunt et ex nostris quoque prophetis de sae-
li stessi profeti nostri ed ebrei e culo venturo, et quod saeculum nostrum
altre genti di questo secolo plus historiae habet in annis centum quam
|29r> nostro, ch’ha più isto- mundus totus in quatuor milibus, plure-
ria in cent’anni che non ebbe sque libri editi sunt in hoc centenario quam
il mondo in quattro mila; e 10 in quinque milibus; et de inventione mirifi-
più libri si fecero in questi ca typographiae, archibugiorum et usus ma-
cento ch’in cinque milia; e gnetis, praeclaris signis simulque organis
dell’invenzioni stupende del- congregationis mundigenarum in unum
la calamita e stampe, arche- ovile; et qualiter, dum fiebant synodi ma-
bugi, gran segni dell’unità 15 gnae in trigono Cancri, abside Mercurii
del mondo; e com’entrando in Scorpionem procurrente, hae mirabiles in-
Cancro l’asside di Mercurio a ventiones acciderunt a Luna et Marte, po-
tempo che le congiunzioni tentibus in hoc trigono ad navigationem no-
magne si facevano in Can- vam novaque regna et arma nova. At cum
cro, fece queste cose inventare 20 mox intraverit Saturni absis in Capricor-
per la Luna, Giove e Marte, num, et Mercurii in Sagittarium, et Martis
ch’in quello segno valeno al in Virginem post primas synodos magnas et
navigare novo, novi regni e visionem novae stellae in Cassiopea, monar-
nov’armi. Ma entrando l’as- chia nova insurget et reformatio legum, ar-
side di Giove in Libra, pur se- 25 tium, et prophetae et renovatio. Et aiunt na-
gno di mutazione, sarà gran
monarchia nova e di leggi
reforma. E dicono ch’a’ cri-
LA CITTÀ DEL SOLE 137

non certo di produrre piante, uomini ecc., ma Dio si serve del combat-
timento fra la Terra e il Sole per la riproduzione degli esseri viventi. A
Lui la lode e la gloria.
GEN. - Sapessi cosa prevedono per i tempi che verranno, grazie all’a-
strologia e ai nostri profeti! Dicono che sono successe più cose in questi
cento anni che nei quattromila della storia passata del mondo, e che so-
no stati pubblicati più libri in questi cento che in cinquemila anni; e
quindi l’invenzione della stampa, delle armi da fuoco e della bussola so-
no segni evidenti e strumenti insieme della riunificazione di tutte le
genti in un solo ovile. E dicono che, mentre si verificavano le grandi
congiunzioni nel trigono del Cancro, con l’apogeo di Mercurio che ol-
trepassava lo Scorpione, sono state fatte queste scoperte mirabili grazie
alla Luna e a Marte, molto potenti in questo trigono a spronare a nuove
navigazioni e a fondare nuovi regni e a scoprire nuove armi1.
Ma non appena l’apogeo di Saturno entrerà in Capricorno, quello di
Mercurio in Sagittario e quello di Marte in Vergine, dopo le prime gran-
di congiunzioni e l’apparizione di una nuova stella in Cassiopea2, sor-
gerà una monarchia nuova, si riformeranno le leggi e le arti, verranno
nuovi profeti e un generale rinnovamento3. Presagiscono altresì che da

beni quegli svantaggi e quei mali, che accadono per necessità di materia»; v. n. 114.5-6, per
l’avvicinamento del Sole e la conseguente combustione terrestre; e n. 28.41-3 per l’Armo-
nia primalitativa).
1
Alle cause addotte da Tolomeo (comete, eclissi), C., con gli astrologi arabi e Cardano, ag-
giunge i periodi bisecolari delle triplicità (l’alternanza delle grandi congiunzioni nei quattro
trigoni, come spiegato in Astrol., p. 69-76). Della triplicità o trigono di Cancro (con Scorpio-
ne e Pesci, segni d’acqua), posto sotto la signoria di Venere, Marte e Luna (v. n. 153.3), qui si
esalta l’aspetto positivo dell’aver fomentato le scoperte geografiche e tecniche (replicato a
142.21), agevolate anche dall’apogeo di Mercurio in Scorpione, mentre Marte e Luna, «si-
gnori degli itinerari», hanno permesso la scoperta del Nuovo Mondo, e il giro del mondo di
Magellano «primus magnificus profugus»; Giove in esaltazione con Mercurio in apogeo fa-
vorì l’invenzione della stampa; e infine, Mercurio in Scorpione e Marte in aspetto favorevole
facilitarono la scoperta delle armi da fuoco (Art. proph., p. 273; a 150.5sg., dove riprende il di-
scorso, il Genovese invece espone anche gli effetti negativi di questo trigono: domini e co-
stumi femminei ed eresie [v. n. 152.19]).
2
Nel 1572 Tycho Brahe osservò nella costellazione di Cassiopea un nuovo corpo celeste (o il
collasso di una supernova?), che brillò fino al 1574 (v. n. compl.).
3
Riforma della legge precedente, e non introduzione di una nuova legge che azzeri le passa-
te (Cardano); e neppure «eversio» (Arquato), ovvero rivoluzione. Essa servirà invece ad ag-
giornare la legge esistente, raddrizzando le storture inevitabilmente venutesi a creare nel
corso di 1600 anni di storia cristiana; recuperata la lettera e lo spirito evangelici, essa coinci-
derà con la legge naturale e ne agevolerà così l’universalizzazione.
138 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS

stiani questo apporterà tioni sanctae emolumentum magnum inde


grand’utile; ma prima si svel- portendi; at prius quidem evelli et extirpari,
le e monda, poi s’edifica e deinde aedificari et plantari, etc.
pianta. Dimitte me, quoniam habeo quae agen-
Abbi pazienza, ch’ho da 5 da mihi sunt.
fare. Hoc tamen non te lateat eos iam invenis-
Questo sappi, ch’hanno se artem volandi, quae una mundo deesse
trovato l’arte del volare, che videbatur, et in proximo ocularia expectare
sola manca al mondo ecc. quibus occultae stellae videantur, et auricu-
OSP. - Oh! oh! oh! mi pia- 10 laria quibus coeli audiatur harmonia.
ce. Ma Cancro è segno femi- HOSP. - Hem! ah, ah, ah, perplacet qui-
nile di Venere e Luna, e che dem. Sed Cancer est signum Veneris foemi-
può far di bene? neum et Lunae; quid potuit benefacere in
aëre cum sit aqueum? Et quomodo stellae
15 haec sciunt faciuntque? Omnia sunt a Deo
suis dispensata temporibus. Nimis astrologi-
zant.
GEN. - Haec etiam mihi responderunt, re-
LA CITTÀ DEL SOLE 139

qui deriverà alla nazione santa un grande vantaggio; ma prima di semi-


nare e costruire, bisognerà estirpare e abbattere1.
Lasciami andare, perché ho da fare. Non voglio tralasciare questo,
però: hanno scoperto l’arte del volo, l’unica che sembrava mancare al
nostro mondo, e sperano di disporre tra breve di cannocchiali con cui
vedere le stelle invisibili a occhio nudo e di auricolari2 con cui ascoltare
l’armonia celeste.
OSP. - Oh, quanto mi piace! Ma Cancro è un segno femminile di Ve-
nere e della Luna; come può mostrarsi propizio nell’aria se è un segno
d’acqua? E in che modo queste stelle possono sapere e potere tanto?
Tutto è dispensato da Dio al momento opportuno. Strologano un po’
troppo questi Solari.
GEN. - Anche loro mi hanno risposto3 che Dio è la causa universale di

1
Grazie all’invenzione della stampa, delle armi da fuoco e della bussola l’espansione del-
l’Occidente ha assunto ritmi vertiginosi, che in brevissimo tempo porterà alla globalizzazio-
ne, anche perché sono alle porte altre strepitose scoperte: strumenti ottici e acustici, mac-
chine volanti. Tali invenzioni sono state favorite da ‘phaenomena’ celesti: astronomici, quali
l’accelerazione delle anomalie cosmiche, prima fra tutte l’avvicinarsi del Sole, che, riscaldan-
dolo, ha civilizzato in special modo il Nord Europa (stampa e polvere da sparo sono inven-
zioni tedesche [Astrol. VII, p. 10-1; Art. proph., p. 283]); e astrologici: il passaggio delle con-
giunzioni dei pianeti maggiori dal IV al I trigono, secondo quanto sostiene Cardano, com-
porterà l’ascesa di un monarca universale (v. n. 143.1); e siccome il I è il trigono in cui Cristo
era apparso la prima volta, ciò implica, non solo la conversione e riunificazione del mondo
in «unum ovile unumque pastorem» (= il Papa), ma anche – «evelli et extirpari» – l’Apoca-
lisse prossima ventura (Art. proph., p. 275-6; v. n. compl.).
2
Questo fantascientifico strumento, coniato per mera analogia ‘sensoriale’ (vista/udito) col
cannocchiale, è puro ‘flatus vocis’, a differenza di altri ‘segreti’ dei Solari: «come il telescopio
ha reso visibili le stelle fino ad ora invisibili, allo stesso modo uno strumento auricolare per-
metterà di sentire l’armonia dei cieli, perché ogni moto è suono» (Astrol. VII, p.11). Secondo
Crahay, p. 217 sarebbe un’ennesima contraddizione con la teoria di un solo cielo (v. n. 118.23-
4): ma per C. anche i singoli pianeti girando vorticosamente nell’etere producono un’armonia
celestiale, che non riusciamo a percepire, essendo le nostre orecchie immerse in quest’atmo-
sfera tanto densa rispetto all’eterea, quanto lo è l’acqua rispetto all’aria (v. n. compl.).
3
Una prosa a volte ellittica e a volte ripetitiva, punteggiata da un ostico lessico filosofico-teo-
logico (condito da qualche neologismo), può far perdere il senso complessivo di questa e
della successiva risposta del Genovese, che segna l’inizio del lungo intermezzo qui aggiunto
(da 138.14 a 150.4) a difesa dell’astrologia: Dio è il creatore della natura, costituita da enti e
da una rete di rapporti causali gerarchizzati (v. n. 142.1-4); una volta creata, la natura funzio-
na da sola (salvo Suoi interventi supernaturali); dunque: a) il Creatore di ogni cosa e di ogni
causa non può non esser onnipresente (altrimenti, venuto meno il predicato dell’esistenza,
le cose sparirebbero), ma ciò non significa che Dio è mescolato alle cose né che si sostituisce
alle cause: Lui è il Creatore che fornisce continuamente l’essere alle cose, ma poi gli enti
hanno capacità autonoma di agire. Come dice Tommaso, 3SCG, 69, il fatto che Dio governi il
mondo non esclude le cause seconde, cioè quelle interposte fra Dio e gli effetti ultimi, e ad
esse sono da imputare le imperfezioni: un artigiano può esser un maestro della sua arte e fa-
re un pessimo manufatto per colpa degli strumenti difettosi; b) di converso l’onnipresenza
140 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS

rum omnium causam esse Deum universa-


lem immediate, non immediatione particu-
laris causae sed universalis principii et virtu-
tis: non enim Deus manducat cum Petrus
5 manducat, nec mingit, nec furatur, licet es-
sentiam et virtutem det manducandi, min-
gendi et accipiendi, ut causa immediata qua
nulla prior, sed qua omnis alia particularior,
modificans immensitatem actionis divinae.
10 HOSP. - O quam bene! Idem dicunt doc-
tores nostri scholastici, praecipue Divus
Thomas contra philosophos mahometanos,
asserentes operationem primae causae im-
mediatiorem in attingentia quam secundae,
15 in 3 Contra Gentiles cap. 70, et 2 Sententiarum
dist. 37, et De Potentia quaest. 1, art. 3 et 5, et
Opusculis 9, quaest. 38, ubi immediatione
principii non attingentiae, cuiusmodi est
particularis causa, docet agere universalem.
20 Sequere.
LA CITTÀ DEL SOLE 141

tutte le cose in una maniera diretta, che non è però quella della causa
particolare, ma è quella del principio e della potenza universale. Non è
infatti Dio che mangia quando Pietro mangia, minge, ruba, sebbene sia
Lui a fornire l’essenza e la facoltà di mangiare, di orinare e di arraffare,
come Causa immediata generale rispetto alla Quale nessun’altra è più
diretta e ogni altra è più particolare, e tale quindi da modificare l’infi-
nità dell’azione divina.
OSP. - Benissimo! La stessa cosa sostengono i nostri dottori scolastici,
specialmente S. Tommaso contro i filosofi maomettani i quali asserisco-
no che l’operazione della causa prima1 è più diretta attraverso il contat-
to di quella della causa seconda – in 3 Summa contra Gentiles, 70, in 2 Sen-
tentiarum, distinz. 37, nel De Potentia, q. 1, art. 3 e 5, nel nono degli Opu-
scula, quest. 38, S. Tommaso insegna che la causa universale agisce per
l’azione diretta del principio e non del contatto, che è proprio della
causa particolare. Prosegui.

(e onnipotenza) di Dio non deve far cadere nell’errore opposto (commesso dai Maometta-
ni), che, essendo la causa strettamente legata all’effetto, considera quindi Dio il recondito
autore di tutto (non è il Sole che riscalda, ma Dio); c) i due Tommasi obiettano che prima di
tutto non esiste rapporto causa-effetto senza contatto (i raggi del Sole ci colpiscono diretta-
mente e ci riscaldano); e in secondo luogo che in tal modo si cadrebbe nell’assurdo che a
Dio si ascriverebbero le azioni più vili e delittuose; invece è un Pietro qualsiasi, impastato di
essere e non-essere (126.7-8), e non Dio, puro Essere, che ruba. Anzi, proprio la fallibilità de-
gli esseri è la miglior prova della loro autonomia. Anche gli astri sono cause universali auto-
nome, cioè dipendenti solo indirettamente dall’intervento divino; ma ciò non significa esser
caduti dalla padella del ‘pancausalismo’ divino dei maomettani alla brace del determinismo
astrologico. Infatti bisogna tener conto di due fattori: 1) tra le cause create da Dio vi è anche
la causa libera (=libero arbitrio) di cui ha dotato solo l’uomo, che è talmente libero da poter
bestemmiarLo (158.21; Quaest. in Eth. II I, p. 24); 2) a maggior ragione l’uomo può opporsi
alle cause universali – quando è buio infatti accende la lucerna –, specialmente se si tiene
presente che le cause celesti agiscono sul senso, e non sulla ragione (e quindi sulla volontà).
In questo modo C. crede di risolvere due delle più grosse questioni che hanno travagliato la
Controriforma: il libero arbitrio e la liceità dell’astrologia, col dotarla di uno statuto a deter-
minismo limitato (è il programma di Astrol., dove «insegna a separare l’astrologia fisica dalla
superstiziosa, senza sovvertire la Provvidenza divina né intaccare la libertà umana»
[‘Praef.’]).
1
C. distingue l’azione dall’operazione («L’operatione non è azzione né passione, come stima
Aristotele, ma l’habito dell’essere» [Epilogo, p. 224]), in quanto la seconda si esplica esclusi-
vamente nella conservazione della propria entità; ad es.: operazione del fuoco è il moto, co-
me quella della terra è la quiete; pertanto scagliare un sasso in aria è un’azione da parte del-
la causa che ha scatenato il moto locale violento, è una passione per il sasso che ne subisce
l’effetto, mentre è un’operazione il suo tendere a ritornare allo stato naturale di quiete. La
frase di Civitas significa che, secondo i Maomettani, quando vi è stretto legame, e quindi con-
tatto, fra la causa (es. il fuoco) e l’effetto (= calore), è direttamente Dio e non l’ente (=il fuo-
co) ad operare, cioè ad agire (= riscaldare; v. n. compl.).
142 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS

GEN. - Igitur aiunt: Deus dedit causas om-


nibus futuris effectibus et universales et par-
ticulares, quae particulares operari non
possunt nisi et universales operentur. Non
5 enim planta floret nisi Sol propinque cale-
faciat. Tempora autem ab universalibus
sunt causis, scilicet a coelestibus, omnia er-
go coelo operante operamur. Causae autem
liberae utuntur tempore, et in se et erga alia
10 interdum. Nam et igne cogit homo florere
arbores et lucerna illustrat domum, absente
Sole. Causae vero naturales aguntur tempo-
re. Igitur quemadmodum alia fiunt de die,
alia de nocte, alia in hyeme, alia in aestate,
15 vel vere, vel autumno, tam per causas libe-
ras quam per naturales, ita et alia in uno
saeculo, alia in alio. Et sicut causa libera
non cogitur dormire quando fit nox nec
surgere quando mane, sed operatur ex suo
20 commodo, sic utendo vicibus temporum,
ita neque cogitur invenire archibugia et ty-
pographiam cum fiunt synodi magnae in
Cancro et monarchias cum in Ariete, et sic
de caeteris cum seminat in septembri, cum
25 putat in martio etc. Nec possunt credere
quod Pontifex sapientissimorum Christia-
norum prohibeat astrologiam nisi contra
abutentes ad divinandum actus liberarbitrii
et supernaturales eventus, cum sidera su-
30 pernaturalium sint tantum signa, natura-
lium vero causae universales, voluntario-
rum solum occasiones, invitamenta et incli-
nationes. Nec enim oriens Sol cogit nos sur-
gere de lecto, sed invi|168>tat et commoda
35 praestat, uti nox incommoda ad surgendum
et commoda ad dormiendum. Cum ergo
agant in liberum arbitrium indirecte et per
accidens, dum agunt in corpus et in sensum
corporatum corporalique organo affixum,
40 mens excitatur a sensu in amorem vel
LA CITTÀ DEL SOLE 143

GEN. - Affermano dunque questo: Dio ha attribuito ad ogni effetto fu-


turo cause universali e cause particolari, in maniera tale che le cause
particolari non possano agire senza le universali. Una pianta infatti non
può fiorire se il Sole non la riscalda da vicino. Le epoche sono determi-
nate da cause universali, ovvero celesti; e dunque tutto il nostro agire è
sotto l’influsso celeste. Mentre le cause volontarie si servono del tempo
sia in sé sia a volte per altre cose – infatti, senza il Sole, l’uomo con il ca-
lore artificiale costringe le piante a fiorire e con la lucerna illumina la
casa –; le cause naturali invece sono determinate dal tempo: in tal mo-
do, come alcune cose avvengono di giorno, altre di notte, alcune d’in-
verno, altre d’estate, alcune in primavera, altre in autunno, sia per cau-
se arbitrarie che naturali, così pure alcuni eventi si attuano in un seco-
lo, altri in un altro. E come la causa arbitraria non è costretta a dormire
perché viene notte, né a levarsi quando fa giorno, ma agisce solo a suo
vantaggio utilizzando in quel tal modo la successione temporale giorno-
notte; analogamente non è spinta affatto ad inventare l’archibugio e la
stampa quando si verificano le grandi congiunzioni in Cancro, o a fon-
dare monarchie quando sono in Ariete1; e allo stesso modo quando si
semina in settembre, si pota in marzo ecc.
Non possono credere che il Pontefice dei sapientissimi cristiani proi-
bisca l’astrologia, se non a quelli che ne abusano per predire gli atti sog-
getti al libero arbitrio e gli eventi soprannaturali. Le stelle, infatti, in rap-
porto alle cose soprannaturali sono soltanto segni; in rapporto ai feno-
meni naturali sono cause universali; e infine per gli atti volontari sono
solo occasioni, incitamenti, inclinazioni. Come infatti il Sole, sorgendo,
non costringe ma invita ad alzarci, mostrandocene la comodità, così la
notte ci offre tutti gli svantaggi a stare alzati e i vantaggi a dormire. Quin-
di gli astri agiscono sul libero arbitrio in maniera indiretta e accidentale,
con l’influenzare il corpo e il senso, che è di natura corporea e stretta-
mente coeso ad un organo corporale2; tale senso a sua volta eccita l’ani-

1
Ogni regime statuale ha il trigono di segni che più gli si confà: «in regno primus triangulus
Solis et Iovis laudatur», cioè il I trigono dei segni di fuoco (Ariete-Sagittario-Leone) è propi-
zio all’avvento delle monarchie (Astrol., p. 220-1; v. e n. 139.1).
2
Con quest’espressione cerca di mediare fra il tomistico «potenze inferiori» dell’anima (le
passioni o «appetitus» per la volontà e le funzioni conoscitive inferiori per l’intelletto: imma-
ginativa, cogitativa e memoria), «che sono strettamente legate agli organi corporei» (ST I,
115,4), e la sua teoria ‘de sensu’ e degli spiriti animali; sono presenti in questo rigo le tre
‘parti’ di cui si compone l’essere umano: «corpus», cioè l’organismo fisico; «sensum», cioè la
144 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS

odium vel iram et caeteras passiones; et


tunc potest adhuc excitatae passioni assenti-
re et dissentire. Haereses ergo et bella et fa-
mes, quae significantur per sidera, plerum-
5 que veniunt, quoniam plerumque homines
a sensuali appetitu potius quam a ratione
regi se permittunt, unde faciunt haec quae
accidunt contra rationem, aliquando etiam
assentientes passioni rationabiliter, ut iu-
10 stam iram concipiendo iustum bellum mo-
liuntur.
HOSP. - Bene quidem, et hoc etiam Divus
Thomas* asserit et Pontifex noster; nam ad
medicinam et agriculturam et navigatoriam
15 concedit astrologiam, et cum omnibus suis
scholasticis, qui de actibus arbitrii etiam co-
niecturalia prognostica permittunt, verum,
excrescente malitia et abusu permissionis,
vetant non coniecturas sed prognosticum
20 coniecturale, non ut semper falsa sed ut ple-
rumque vel semper periculosa. Principes
enim et populi, in astrologia confisi, mala
innumera moliuntur et bona aggrediuntur
non successura, sicuti patet in Arbace, Aga-
25 tocle, Druso, Archelao, et tandem consimi-
lia expectamus in aliquo duce Phinlandiae
propter Ticonis prognosticon, et in pontifi-

* Idem Divus Thomas Prima Pars et 3 Contra


Gentiles, 85.
LA CITTÀ DEL SOLE 145

ma all’amore, all’odio, all’ira e alle altre passioni. Ma anche allora l’ani-


ma è libera di condiscendere o meno alla passione così suscitata. Dun-
que le eresie, le guerre, le carestie annunciate dalle stelle per lo più ac-
cadono in quanto gli uomini per lo più1 si lasciano governare dall’appe-
tito sensuale anziché dall’intelletto, onde agiscono irragionevolmente; a
volte essi accordano un assenso razionale anche ad una passione, come
quando per una giusta ira intraprendono una giusta guerra.
OSP. - Dici bene, e in accordo con S. Tommaso* e con il nostro Pon-
tefice, che infatti concede il ricorso all’astrologia nella medicina, nell’a-
gricoltura e nella navigazione, e in accordo con tutti gli Scolastici, i qua-
li concedono di far pronostici congetturali anche a proposito di atti ar-
bitrari. Ma, cresciuta la malizia e abusando di tali concessioni, ora vieta-
no non le congetture, ma il pronostico congetturale, non perché sem-
pre falso, ma perché quasi sempre pericoloso. Infatti i sovrani e i popo-
li, che confidano nell’astrologia, ordiscono innumerevoli misfatti e in-
seguono fortune che non si realizzeranno, come mostrano gli esempi di
Arbace, Agatocle, Druso, Archelao; e qualcosa di simile, infine, ci aspet-
tiamo da un duca di Finlandia in seguito al pronostico di Tycho2. I prìn-

* Analogamente S. Tommaso, Summa Theologica I e Summa contra Gentiles III, cap. 85.

sensibilità fornita dagli spiriti che lo pervadono; e, poco oltre, la «mens» (=l’anima), termine
che ricorre altre due volte in accezione lata (a 112.28 è il generico ‘stato mentale’, come nel-
la massima ‘mens sana in corpore sano’; a 158.28 indica il ‘pensiero’ distorto, eretico dei
Riformati); in questo caso è apparentabile invece a quel ‘senso altro’, «il senso dell’uomo in-
teriore» (Agostino, CD 11,27), cioè la coscienza, di cui Agostino stesso in Trin. 9,3,3 descrive
le funzioni: «raccoglie sia le informazioni degli oggetti concreti provenienti dai sensi corpo-
rei che quelle degli enti astratti per semetipsam». Si chiama «Mens enim ex eo quod emineat
in anima, eminentior et praestantior dicta est» (SN XXVII I); infatti Damasceno, Orth. fidei II,
216H dice che essa «nihil aliud est, quam purissima ipsius [=dell’anima] pars: quod enim
oculus in corpore, hoc mens est in anima».
1
La duplicazione non è affatto un refuso, ma la concordanza delle statistiche: è perché la
maggioranza degli uomini è asservita al senso, che la maggioranza dei pronostici astrologici
sono indovinati; infatti la stessa replicazione troviamo in Senso, p. 316 (che dichiara anche la
fonte tomistica: 3SCG, 85): «gli astrologi per lo più indovinano, perché gli uomini vivono se-
condo il senso alterato dalle stelle, per lo più, e non secondo quella mente divina che Dio gli
infonde» (la replicazione dell’avverbio, comunque, è di matrice aristotelica; ad es. Eth. Nic.,
1168b 1: «si deve amare soprattutto chi è soprattutto amico e amico è soprattutto colui che,
se vuole bene a qualcuno, glielo vuole proprio per lui»).
2
Allude a Astronomiae instauratae Progymnasmata (Prague, 1602; in: Opera omnia, ed. J. L. E.
Dreyer, Hauniae, 1916, III, 308sg [v. n. 136.23]): secondo il pronostico di Tycho (fondato sul-
l’apparizione della nuova stella in Cassiopea [136.23]), un «sovrano del Nord» sarebbe di-
ventato il monarca universale; e una serie di favorevoli coincidenze fece supporre che costui
fosse Gustavo Adolfo (duca di Finlandia era uno dei titoli dei re di Svezia) e che il 1632 sa-
146 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS

ces nostros multa audent principes his in


coniecturis confisi, a nebulonibus decepti.
GEN. - Sic etiam Solares aiunt alia prohi-
beri ut falsa, alia ut periculosa, quatenus ad
5 idololatriam aut ad destruendam libertatem
aut ad politicam conturbandam possunt
converti. Imo dico tibi invenere iam Solares
rationem fati sideralis vitandi, neque enim
ars datur a Deo nisi ad utilitatem. Quando
10 igitur imminet eclipsis non salubris, qualis
est cum interregnant beneficae, sed infau-
sta, cum maleficae vel cometes dirus vel di-
rectio prava in aphetico loco, illum, cui ma-
lum minantur sidera, intra aedes albas clau-
15 dunt, odoribus et aceto roseo conspersas,
accendunt faces septem ex cera, aromatis
confecta, aedificatas, et adhibent iovialem
musicam et laetas conversationes, ut semina
pestilentialia per circunfusum aërem a coe-
20 lo dimissa dissolvantur.
HOSP. - Pape! medicinalia sunt haec om-
nia et sapienter applicata: coelum enim cor-
poraliter agit et corporalibus impeditur an-
tidotis, sed obstat numerus candelarum
25 quasi in numero ponatur virtus, quod olet
superstitionem.
GEN. - Profecto ipsi sese tuentur Pythago-
LA CITTÀ DEL SOLE 147

cipi, fidando in queste congetture astrologiche, ingannati da ciarlatani,


ardiscono tramare addirittura contro i nostri pontefici.
GEN. - Anche i Solari dicono che bisogna proibirle, alcune perché
false, altre perché pericolose, in quanto si possono facilmente sovverti-
re in idolatria o in attentato alla libertà o in turbativa della vita pubbli-
ca. Anzi ti dico che i Solari hanno già trovato il modo di evitare il fato
siderale, e del resto ogni arte ci è data da Dio solo a nostro vantaggio.
Infatti allorché sta per verificarsi un’eclissi non di quelle propizie
(quando si interpongono astri benefici), ma un’eclissi infausta, quan-
do cioè vi sono stelle malefiche o una funesta cometa o un allineamen-
to nocivo degli astri in luogo afetico1, rinchiudono colui che è minac-
ciato di sventura dalle stelle, dentro una casa bianca impregnata di
odori e di aceto rosato; accendono sette candele fatte con cera ed es-
senze profumate, e lo intrattengono con musica gioviale2 e liete con-
versazioni, per dissolvere gli influssi esiziali3 emanati dal cielo e sparsi
attraverso l’atmosfera.
OSP. - Perbacco! Questi sono tutti rimedi terapeutici e sapientemente
applicati: infatti il cielo agisce fisicamente e pertanto può essere contra-
stato da antidoti fisici; tuttavia lascia perplessi il numero delle candele,
quasi che l’efficacia risieda nel numero, il che puzza di superstizione.
GEN. - In effetti essi si basano sulla dottrina pitagorica della virtù dei

rebbe dovuto essere l’anno fatale: in effetti fu l’anno del suo massimo trionfo, vincendo con-
tro Wallenstein nella battaglia di Lützen, dove però trovò anche la morte (v. n. compl.).
1
Moto angolare di un astro infausto verso un luogo oroscopicamente ‘vitale’.
2
‘Gioviale’ è da intendersi in senso astrologico, cioè di una musica presumibilmente ‘conso-
nante’ a Giove (mentre la «musica saturnina» si addice ai funerali [Comment., p. 768]); così
come esistono anche cibi gioviali che contrastano le malattie saturnine (Astrol., p. 16: «ad ma-
la saturnina iovialibus [cibis], ad martialia venereis»). Ai pianeti corrispondono determinate
musiche, tenendo conto sia dell’‘harmonia mundi’ (Plinio, 2, 84 ricorda che Pitagora utiliz-
zava la teoria armonica per calcolare la distanza dei pianeti e chiama «distanza dalla Terra al-
la Luna un tono, dalla Luna a Mercurio mezzo tono... per un totale di sette toni che si chia-
ma diapason, cioè l’accordo universale; Saturno si muove secondo il modo dorico, Giove se-
condo il frigio e così gli altri»; perciò, essendo Giove «rotundus, temperatus», è possibile che
gli corrisponda anche un ‘tono’ e quindi un’armonia ben temperata); e sia tenendo conto
della teoria delle corrispondenze, per cui ad ogni pianeta corrisponde uno strumento o un
genere musicale (v. n. 92.1 e n. compl.).
3
Metaph. II II I (I, p. 219): «Il seme è la sintesi delle cause e dei principi e degli elementi e del-
le primalità, la quale perviene alla sostanza dell’effetto»; ‘germe’, in senso non biologico, ma
astratto: «nel seme si trovano tutte le cause, ricondotte insieme nella sostanza del causato»
(p. 220). Già Pico, VII VII (II, p. 192) paragonava la malignità dell’influsso con la peste: «a
quel modo che le vesti infette non perdono l’infezione [=a pestilentia infectae venenum] per
un certo tempo, così dicono avvenire alle parti del cielo» (v. n. 44.2-6).
148 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS

rica doctrina de viribus numerorum, nescio


an superstitiose; nec in solo numero, sed in
medicina cum numero fundantur.
HOSP. - Nulla superstitio: nullus enim ca-
5 non nec scriptura Dei vim numerorum
damnavit. Imo medici utuntur ipsa in mor-
borum periodis et crisibus. Et scriptum est
quod omnia Deus fecit in numero, pondere et
mensura, et in septem diebus creationis
10 mundi, in septem angelis tuba canentibus,
in septem fialis, in septem tonitruis, septem
candelabris, septem sigillis, septem sacra-
mentis, septem donis Spiritus, septem ocu-
lis in lapide Zachariae, numerorum myste-
15 ria commendantur. Unde S. Augustinus, S.
Hilarius et Origenes quam multa de nume-
rorum viribus philosophantur, praesertim
de septenario et senario. Non ergo damna-
rem ex hoc Solares, ex quo se medicos coe-
20 lestium et defensores arbitrii demonstrant.
Imitantur enim coelum in septem planetis
per septem faces, sicut Moyses per septem
lucernas. Et Romae iudicatum est* non esse
superstitionem nisi ubi solis numeris et non
25 rebus numeratis datur vis quae debetur
Deo, et in quo non habent usum et vim; sic
qui coelo aut herbis, ubi nil operantur, tan-
quam si operarentur, utitur. Est enim vana
observantia qua diabolus, Dei simius, imita-
30 tur Deum, numerorum auctorem. Et «nu-
mero impare gaudet» apud Virgilium. Imo
cum vis naturalis reubarbari datur agarico

* Iudices fuerunt P. Tontolus et M. Ioannes


Baptista Marinus.
LA CITTÀ DEL SOLE 149

numeri, non so se superstiziosamente; non si basano però sul solo nu-


mero, ma sulla medicina affiancata dalla numerologia.
OSP. - Nessuna superstizione: infatti nessun canone ecclesiastico né la
Sacra Scrittura hanno mai condannato la potenza dei numeri. Anzi i me-
dici si servono proprio di questi nelle fasi cicliche e critiche delle malat-
tie. È scritto che Dio ha fatto il mondo con numero, peso e misura; e i misteri
dei numeri sono esaltati altresì nei sette giorni della creazione del mon-
do, nei sette angeli che suonano le trombe, nelle sette ampolle, nei sette
tuoni, nei sette candelabri, nei sette sigilli1, nei sette sacramenti, nei set-
te doni dello Spirito, nei sette occhi nella pietra di Zaccaria2. Perciò
Sant’Agostino3, Sant’Ilario e Origene hanno lungamente filosofato sulle
virtù dei numeri, in particolare del sette e del sei. Dunque non condan-
nerei i Solari per essersi dimostrati medici delle malattie provenienti da-
gli astri e difensori del libero arbitrio. Con le sette fiaccole infatti raffi-
gurano i sette pianeti, come Mosè con le sette lucerne. E a Roma si è sen-
tenziato* che è superstizione quando si assegna ai soli numeri, e non al-
le cose numerate, un potere che spetta soltanto a Dio, e quando lo si at-
tribuisce a cose in cui essi sono inutili e inefficaci; com’è il caso di chi si
serve del cielo o delle piante, quando non producono nessun effetto, co-
me se lo producessero. È questa infatti una pratica vana4 con cui il dia-
volo, scimmia di Dio, imita Lui creatore dei numeri, e, secondo Virgilio,
‘si compiace del numero dispari’5. Quando per ignoranza la virtù natu-

* I giudici furono padre Tontoli e monsignor Giovan Battista Marini.

1
Nell’ordine: Gen. 1,2,2; Apoc. 8,2; 15,7 e 16,1-20; 10,3-4; 4,5; 5,1. (v. n. compl.).
2
Zc. 3,9: «Ecco la pietra che io metto dinanzi a Giosuè: su quest’unica pietra sono sette occhi:
io stesso vi inciderò sopra la sua iscrizione – dice il Signore degli eserciti –, e rimuoverò in un
solo giorno l’iniquità da questo paese». È la quarta delle otto visioni messianiche del profeta.
3
«S. Agostino si sofferma ovunque sui misteri e le virtù dei numeri, e loda Pitagora per la sua
filosofia dei numeri nel X libro della Civitas Dei, e nell’XI, cap. 30 e 31 disserta dottamente
sull’utilità del senario e del settenario, secondo la Sacra Scrittura, attestando che non è da di-
sprezzare la natura dei numeri, poiché, afferma, Dio ha creato ogni cosa ‘secondo numero,
peso e misura’« (Apol. ad lib., p. 321; v. n. compl.).
4
«Vana observantia» si ha «quando si attende un effetto da cose, che non sono cause di quel-
l’effetto, né segno posto da Dio o dalla chiesa di Dio o dalla natura, e perciò S. Tommaso,
nella [ST] II IIae q. 96, insegna che la superstizione del patto tacito si ha solo quando si ap-
pongono alle cose utilizzate per il rimedio caratteri o lettere, che sono segni e non cose ope-
ranti... Ma nel procedimento di cui si parla non si pongono caratteri né lettere, per cui non
c’è nessuna superstizione» (Apol. ad lib., p. 317).
5
Bucol. VIII, 73-5: «Terna tibi haec primum triplici diversa colore/ licia circumdo, terque
haec altaria circum/ effigiem duco: numero deus impare gaudet»: l’amante cerca di ricon-
150 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS

per ignorantiam, non est superstitio, sed si


virtus Dei detur agarico vel numero, super-
stitio est: vide Theologiam. Nunc prosequere
sermonem unde digressi sumus.
GEN. - Essi dicono che la 5 GEN. - Igitur Solares foeminina signa fe-
femina porta fecondità di co- cunditatem regionibus, quibus foeminina
se in cielo, e virtù manco ga- sunt, adducere putant et minus robustis do-
gliarda rispetto a noi aver do- minatum rebus afferre inferioribus, causan-
minio. Onde si vede ch’in do, occasionando, commoditates et incom-
questo secolo regnâro le don- 10 moditates praebendo aliis, aliis auferendo,
ne, come l’Amazoni tra la ut dictum est. Unde scimus in hoc saeculo
Nubia e il Monopotapa, e tra muliebre regnum praevaluisse, sicuti Ama-
l’Europei la Rossa in Tur- zones novae inter Nubiam et Monopota-
pam, et apud Europaeos regnavit Russa in
LA CITTÀ DEL SOLE 151

rale del rabarbaro è attribuita all’agarico1, senza dubbio non è supersti-


zione; ma se all’agarico o al numero è attribuita una virtù divina, allora
è superstizione: vedi la mia Teologia. Ora, però, prosegui il discorso in-
terrotto.
GEN. - Dunque, per i Solari i segni femminili fanno fiorire le regioni
che sono sotto il loro influsso, e fanno predominare gli enti inferiori
più deboli2, creando cause o occasioni, offrendo vantaggi o svantaggi ad
alcuni, togliendone ad altri, come si è detto. Ciò spiega perché in que-
sto secolo abbia prevalso il dominio muliebre, come le nuove Amazzoni
fra la Nubia e il Monopotapa3; e quanto all’Europa, Rosselana ha re-

durre a sé l’amata lontana con un incantesimo che consiste nell’avvolgere tre volte tre fili in-
torno ad un’immagine di lei, e tre volte portarla intorno all’altare, in quanto la divinità pro-
piziatrice (Ecate, secondo Goelzer), ama il numero dispari. Vives, nel commento a CD 10, 23,
cita il passo virgiliano: «Pythagoricos in tribus posuisse perfectionem rerum... et in deorum
sacris hunc numerum solitum usurpari... Virgilius expressius: ‘Terna tibi...’»; il fatto, dunque,
che per un incantesimo tutte le azioni vadano ripetute tre volte, è ritenuta un’usurpazione
diabolica, che scimmiotta una pratica e una numerazione divina (anche per Crahay, p. 227,
nel passo virgiliano «deus» starebbe a indicare il diavolo; v. n. compl.).
1
Galeno, De simpl. medic. XI VI, ‘De agarico’, p. 814: «ex crassis aut viscosis humoribus sanat»;
Zimara, p. 194: «Reubarbarum bene hominem calefacit»; Della Porta, Magia I VIII: «Il Reu-
barbaro non purga si non la collera gialla chiamata bile... l’Agarico, la pituita» (c. 11r; v.
n. 93.1). L’agarico è un fungo «resolutivum, incisivum grossorum humorum, aperitivum om-
nium oppilationum...» (Avicenna, Canon II II [I, 107EF]), che, secondo Dioscoride: «ven-
trem purgat, et choleram et phlegma deponit... et icteros ex hepatis constipatione iuvat» (in
SN IX XXVIII); oggi è ritenuto un purgante drastico ad azione emetica. Aveva utilizzato que-
st’es. in Apol. ad lib., p. 319: «Come un medico, che utilizzasse insipientemente l’agarico per
purgare la bile nera – ciò che esso non può fare, dal momento che gli è naturale purgare la
sola pituita –, non incorrerebbe nell’accusa di superstizione, così chi con i Pitagorici ritenes-
se che nei numeri ci sia una virtù che in realtà non c’è, non per questo sarebbe superstizioso,
ma ingannato e ignorante».
2
Esemplare la parafrasi di Ernst alla similare redazione italiana: i segni femminili «favorisco-
no il prevalere di forze solitamente più deboli: di qui il dominio politico delle sovrane cin-
quecentesche». Con ‘inferiora’ s’intendono gli elementi (soggetti e oggetti) terreni diretta-
mente sottoposti agli influssi superiori celesti; espressione frequentissima, che in Astrol. ap-
pare fin dal titolo dell’Introd. («et stella agere quadruplici modo in inferiora»; v. n. 150.14-
152.4).
3
La Nubia è una delle cinque «parti principali» dell’Africa, «confinata a ponente da Gaoga,
a Tramontana dall’Egitto, a Mezogiorno dal deserto Garan», cioè corrisponde alla parte set-
tentrionale del Sudan e all’estremità meridionale dell’Egitto; «sono governati da donne,
chiamano la lor regina Gaua» (Botero, I III, p. 163). Il Monopotapa era un antico impero, ca-
pitale Zimbabue, che occupava un territorio compreso fra i fiumi Zambesi e Limpopo, e cor-
risponderebbe agli attuali Mozambico e Zimbabwe, esplorato nel 1560 dal gesuita Gonzales
de Silveyra. A nord di questa «isola» di 750 leghe di giro abita «la gente più guerriera che
habbia questo Prencipe [di Monopotapa, la quale gente] sono donne, che si governano a
guisa dell’antiche Amazone. Vagliono assai con l’arco in mano: mandano i figliuoli maschi a
i padri fuor della provintia; e tengon per sé le femmine: habitano verso occidente, non lungi
dal Nilo» (Botero, I III, p. 173). Dunque ci sarebbero varie popolazioni di donne guerriere (e
152 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS

chia, la Bona in Pollonia, |169> Turchia, Bona in Polonia, Maria in


Maria in Ungaria, Elisabeth Ungaria, Elizabeth in Anglia, Catharina in
in Inghilterra, Caterina in Gallia, Blanca in Etruria, Margarita in Bel-
Francia, Margarita in Fian- gio, Maria in Scotia, Isabella in Hispania, in-
dra, Maria in Scozia, Camil- 5 ventrix novi orbis. Et poëta huius saeculi a
la in Roma. E ’l |29v> poeta mulieribus orditur: Le donne, i cavalier, l’arme
di questo secolo incominciò e gli amori; et quidem maledici poëtae et
dalle donne dicendo: «Le haeretici grassantur ob Martis trigonum et
donne, i cavalieri, l’arme e hospitium Mercurii apogeo praestitum; et
l’amori» ecc. E l’uomini s’af- 10 ob Venerem et Lunam loquuntur semper
feminâro e si chiamano «Vos- de re meretricia et pathica, et viri omnes
signoria»; ed in Africa dove effoeminari cupiunt in sexu et voce: nam
regna Cancro, oltre l’Amazo- vocantur Vossignoria. Et in Africa ubi Cancer
ne, ci sono in Fez e Maroch li et Scorpio praevalet, praeter Amazonas ex-
bordelli dell’affeminati publi- 15 tant in Fez et in Marocco lupanaria publica
ci, e mille sporchezze. effoeminatorum, aliaeque spurcitiae innu-
Non però restò, per esser merae, ad quas temperies mundialis invitat,
tropico segno Cancro ed esal- non cogit.
tazione di Giove ed elevazione Non tamen ideo trigonus Cancri (quia
del sole e di Marte trigono, sì 20 tropicus est et exaltatio Iovis et apogeum
come per la Luna e per Venere Solis et Martis triplicitas), veluti per Lunam
ha fatto la nova invenzione et Martem et Venerem novam inventionem
del mondo e la stupenda ma- hemispherii exhibuit ac mirum circumeun-
niera di girar tutta la terra e di totum orbem iter et muliebre imperium,
l’imperio donnesco, e per Mer- 25 et per Mercurium et Martem typographiam
curio e Marte le stampe ed ar- et archibugium, non etiam in causa fuit, po-
chibugi, di non far anche di tius occasio hominibus, ut fiat magna legum
leggi gran mutamento: ché
LA CITTÀ DEL SOLE 153

gnato in Turchia, Bona Sforza in Polonia, Maria d’Asburgo in Unghe-


ria, Elisabetta Tudor in Inghilterra, Caterina de’ Medici in Francia,
Bianca Capello in Toscana, Margherita d’Austria nei Paesi Bassi, Maria
Stuart in Scozia, Isabella di Castiglia in Spagna1, scopritrice del Nuovo
Mondo. E un poeta di questi tempi inizia il suo poema con le donne:
«Le donne, i cavalier, l’arme e gli amori»; e invero, per il trigono di Mar-
te e per il transito di Mercurio all’apogeo, poeti sfrontati ed eretici im-
pazzano; e, per Venere e la Luna, parlano sempre di puttane e invertiti;
e gli uomini stessi si vanno effeminando nel sesso e nel linguaggio: in-
fatti usano l’appellativo ‘Vossignoria’. E in Africa, dove dominano il
Cancro e lo Scorpione, oltre alle Amazzoni, si vedono a Fez e in Maroc-
co dei lupanari pubblici di effeminati, e varie altre sconcezze, alle quali
la temperie mondiale induce, ma non costringe.
Non per questo tuttavia il trigono del Cancro (che è segno tropico, esal-
tazione2 di Giove, apogeo del Sole e triplicità di Marte3), come per la Lu-
na, Marte e Venere propiziò la recente scoperta di metà del mondo4, la
sua straordinaria circumnavigazione e il dominio muliebre; e, per Mer-
curio e Marte, l’arte della stampa e l’archibugio; tale trigono, dunque,
non fu propriamente in causa, quanto piuttosto fu l’occasione offerta
agli uomini, per attuare un grandioso sconvolgimento degli ordina-

non Amazzoni in senso proprio), in un vasto territorio dell’Africa centro-orientale; una di


queste tribù fornisce al Monopotapa le truppe mercenarie (v. n. 62.1-3 e n. compl.).
1
Rosselana, favorita di Solimano I; Bona Sforza moglie di Sigismondo I di Polonia; Maria
d’Asburgo, sorella di Carlo V e moglie di Luigi II d’Ungheria; Elisabetta Tudor regina d’In-
ghilterra; Caterina de’ Medici moglie di Enrico II di Francia; Margherita d’Austria (è una
Asburgo sia la figlia di Massimiliano, governatrice dal 1506 al 1530, sia la figlia naturale di
Carlo V, duchessa di Parma, e governatrice dal 1559 al 1567); Bianca Capello (o Cappello),
prima amante e poi moglie del Granduca di Toscana Francesco I de’ Medici; Maria Stuart re-
gina di Scozia; Isabella di Castiglia, nel 1479 associata da Ferdinando nel regno d’Aragona (v.
n. compl.).
2
Il punto zodiacale di massima efficacia di Giove, ovvero la sua esaltazione, è il 15° grado di
«Cancro che è segno boreale a noi molto vicino, portatore di salubri venti settentrionali, e
pertanto ci è massimamente favorevole» (Astrol., p. 37-8).
3
La quarta triplicità (Cancro, Scorpione e Pesci), femminile, notturna e formata da segni
d’acqua, di notte «habet Martem principalem dominum, qui signo fixo praeest» (cioè Scor-
pione), mentre di giorno domina Venere, e la Luna è il terzo pianeta associato (Astrol., p. 40-
1; v. n. 137.1).
4
Art. proph., p. 268 ne spiega l’origine astrologica: quando all’igneo Sagittario, che è segno di
Spagna e che fornì loro anticamente le armi da tiro (archi e balestre), la stella Antares ag-
giunse il fuoco, si ebbero «ignitos arcus, quos archibugios vocamus»; e Dio, all’inizio di nuo-
vi imperi, suole fornirli di nuove invenzioni per favorirli ulteriormente; infatti «archibugia,
typographia et usus magnetis» furono molto atti ad accelerarne la fortuna (v. n. 136.10-1).
154 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS

nel mondo novo ed in tutte le mutatio sub providentia Dei, semper ad bo-
marine d’Africa ed Asia au- num inclinantis, nisi nos inclinationem per-
strali è intrato il cristianesmo vertamus. Hic mihi dixerunt mirifica de
per Giove e sole, ed in Africa consensu coelestium cum terrestribus et
la legge del Serefo per la Luna 5 moralibus, et de Christianae legis amplifica-
e Marte, in Persia quella de tione in novum orbem, et de eius perma-
Alle rinovata dal Sofì, con nentia in Italia et Hispania, et de vacillatio-
mutarsi imperio in tutti que- ne in boreali Germania, Anglia, Scandina-
sti paesi. Ma in Germania, via, Pannonia, quarum prognostica nec re-
Francia ed Inghilterra entrò 10 citare volo, quoniam sapientissimus Papa
l’eresia per esser essi a Marte noster iustis de causis vetuit, at nec de Xeri-
ed alla Luna inclinati; e fi et Sofii mutationibus in Africa et Perside,
Spagna per Giove ed Italia quo tempore Wiclef et Us et Lutherus reli-
per il sole, a cui sottostamo, gionem labefactarunt apud nos, et Minimi
per Sagittario e Leone, segni 15 ac Cappuccini illustrarunt; et quomodo ea-
loro, restâro nella bellezza del- dem coeli motione alii utuntur in bonum,
la legge cristiana pura. E alii abutuntur in malum, quamvis haeresis
quante cose saran più d’ora inter opera carnis ab Apostolo memoretur,
innanzi, e quanto imparai ac proinde passionibus sensui illatis a Mar-
da questi savi, cioè sopra l’as- 20 te, Saturno et Venere ob subiectam sponte
side di Giove in Libra, voluntatem. Hoc tamen narrabo quod Sola-
|30r>aereo, mobile, casa di res iam artem volandi invenere, aliasque ar-
Saturno, e Venere, e Mercurio tes ex Lunae et Mercurii constitutione,
padre dell’arti ed invenzioni, adiuvante Solis abside. Nam in aëre hae
e sopra la congiunzione ma- 25 possunt stellae ad artem volandi: etenim
gna che sarà in Sagittario, quod aqueum in regionibus nostris ac na-
casa di Giove e del sole; e sì tans, sub aequatore est aëreum ac volitans
come per Cancro aqueo se tro- ob situm terrae ad coelum apricum magis.
va la navigazione, cossì per Namque novam condidere quidem astrono-
Acquario aereo il volare si tro- 30 miam, ut in altero hemispherio ab aequato-
re ad austrum domus Solis sit Aquarius, Lu-
LA CITTÀ DEL SOLE 155

menti, sotto la provvidenza di Dio, che inclina sempre al bene, se noi


non pervertiamo la Sua inclinazione. E così mi narrarono cose stupefa-
centi sulla corrispondenza delle cose celesti con le terrestri e le morali,
e sulla diffusione nel Nuovo Mondo del cristianesimo, e del suo perma-
nere in Italia e Spagna, e invece del suo vacillare nel Nord della Germa-
nia, in Inghilterra, Scandinavia, Ungheria – cose su cui non voglio pro-
nosticare, poiché il nostro saggio Pontefice per giusti motivi l’ha vieta-
to; e non voglio parlare neppure dei rivolgimenti avvenuti per opera
dello Sceriffo in Africa e di Ismail es-Sufi in Persia1, nello stesso tempo
in cui da noi Wyclif, Hus e Lutero attentavano alla religione, e i frati mi-
nimi e i cappuccini le davano lustro. Non dirò neppure in che modo
dello stesso moto dei cieli alcuni se ne servono per il bene, altri lo vol-
tano in male, sebbene l’eresia sia annoverata dall’Apostolo fra le opere
della carne2, e cioè sia l’effetto delle passioni suscitate nei sensi da Mar-
te, Saturno e Venere, in seguito all’abdicazione della volontà.
Aggiungerò tuttavia che i Solari hanno già inventato l’arte del volo,
ed altre arti, per la felice disposizione di Luna e Mercurio, con l’aiuto
del Sole in apside. Infatti queste stelle nell’aria hanno il potere di favo-
rire l’arte del volo, perché quanto da noi è collegato all’acqua e alla navi-
gazione, nell’emisfero australe è legato all’aria e al volo, a causa della mag-
giore insolazione della Terra dovuta alla sua posizione rispetto al Sole. E
infatti hanno fondato una nuova astronomia, di modo che, nell’altro emi-
sfero compreso fra l’equatore e il Polo Sud, casa del Sole è l’Acquario, del-

1
Quod rem. 4, p. 152sg. narra la storia dell’ascesa al trono di Fez e del Marocco dello «Xerif-
fus» (o ‘Serifus’), cioè dei discendenti di ‘Machomettus Bentonettus Xeriffus’, «lo Sceriffo
del Marocco, cioè il sovrano della dinastia Sa’diana, che conquistò il trono di Fez nel 1549 e
condusse il regno a grande prosperità e potenza militare» (Firpo 1951, p. 50n); mentre in
Art. proph., p. 287, ne predice la caduta. ‘Sofius’ (‘Soffius’ in Quod rem.), o Sofì, fu detto in Oc-
cidente il re di Persia, Sciah-Ismail es-Sufi, che fondò nel 1502 la dinastia dei Safawidi e rista-
bilì l’unità politica della Persia dopo l’invasione mussulmana, rendendosi famoso per le stra-
gi di popolazioni di rito sunnita, essendo lui sciita. Botero, II III, p.109-16 nel lungo paragr.
dedicato al ‘Seriffo’, esordisce: «Tra tutti i Prencipi dell’Africa non credo se ne possa alcuno
proferire in ricchezza di stato e in grandezza di forze al Seriffo, conciosia che il suo stato
comprende tutta quella parte della Mauritania», in cui è racchiusa la porzione più civile del-
l’Africa, e «tra gli altri i famosissimi regni di Marocco e di Fessa»; le sue vicende «paiono as-
sai simili a que’ d’Ismael re di Persia. Amendue s’acquistarono seguito col mantello della re-
ligione e del sangue; amendue soggiogarono in breve tempo molto paese; amendue crebbe-
ro con la ruina dei principi vicini; amendue riceverono gravi disdette da’ Turchi e perderono
una parte degli Stati loro» (v. n. compl.).
2
S. Paolo, Gal. 5, 19-20: «si svelano facilmente le opere della carne, che sono... l’idolatria, la
magia... le sètte» (v. n. compl.).
156 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS

varà; e perché segueno dopo nae Capricornus, etc. Et omnia signa et po-
la congiunzione magna l’e- testates invertunt et sub aequatore intra tro-
clissi in Ariete e Libra, segni picos aliter signa nominantur et aliter pla-
netis distribuuntur quam extra et quam in
5 subpolaribus. Et ita necesse est ex vi natu-
rae. Evax! ecquantum didici ab his sapienti-
bus de mutationibus absidum et excentrici-
tatum et obliquitatis, aequinoctiorum et sol-
stitiorum et polorum, et figurarum coele-
10 stium confusione in spatio immenso, mun-
di machina nutante, et de symbolis rerum
nostrarum cum eis, quae sunt extra mun-
dum nostrum; et quantum mutationis se-
quatur post synodum magnam [...] in Arie-
LA CITTÀ DEL SOLE 157

la Luna il Capricorno ecc.1; e tutti i segni e le potestà s’invertono, e, nella


fascia equatoriale compresa fra i tropici, i segni sono chiamati diversa-
mente e sono distribuiti fra i pianeti in altro modo che nelle regioni poste
fuori dai tropici e in quelle subpolari – e così deve essere per forza di cose.
Bene! Quante cose ho imparato da questi sapienti sulle mutazioni de-
gli apsidi, degli eccentrici e dell’inclinazione dell’eclittica2, degli equi-
nozi, solstizi3 e poli4, e sulla confusione delle costellazioni nello spazio
immenso causata dall’oscillazione del meccanismo cosmico, e sulle cor-
rispondenze tra le cose del mondo e quelle che ne sono fuori: e quanti
cambiamenti seguiranno dopo la grande congiunzione [...]5 in Ariete e

1
Quel che in T.154.28-30 è un avvicendamento (alle scoperte marittime fatte sotto un segno
d’acqua, com’è Cancro, seguiranno quelle aeree, quando verrà l’età dell’aereo Acquario), in
Civitas assume un’altra prospettiva: coloro che stanno agli antipodi hanno i segni rovesciati, e
perciò quel che per noi è acqueo per loro è aereo (donde i maggiori progressi aviatori dei Sola-
ri rispetto a quelli marinareschi), come appunto insegnava Astrol., I VII, art.3: «Quanto a coloro
che abitano oltre l’equatore e che osservano il polo australe, essendo equidistanti rispetto a noi
dall’equatore, hanno i domicili planetari in luogo contrario. Poiché invero la Luna è a loro vici-
nissima in Capricorno e agisce potentemente nei corpi ivi inferiori, il domicilio della Luna è il
Capricorno, quello del Sole l’Acquario (…) Queste cose gli Etiopi, i Taprobani e gli Spagnoli
che posseggono colonie sotto l’equatore possono meglio comprendere per esperienza». Quin-
di, a differenza di 114.16-7 (che rinviava semmai alla perduta Astronomia), qui si tratta della rifon-
dazione non dell’«astronomia», nell’accezione moderna, ma dell’astrologia.
2
Sono due segnali (assenti in T., ma presenti in R. e L.: v. n. 156.13-158.5) dell’avvicinamen-
to dei pianeti alla Terra (v. n. 114.1-5): eccentricità è il rapporto costante (<1) delle distanze
dei punti di una parabola (in questo caso l’ellisse orbitale) da un fuoco: l’anomalia rivele-
rebbe pertanto una variazione dell’orbita, in particolare, per C., un suo restringimento; le
«obliquitati» sono le orbite planetarie (Sole incluso, s’intende) inclinate rispetto al piano
dell’equatore celeste (per C. coincidente con quello terrestre), inclinazione che è di circa
23°30’, corrispondente alla fascia tropicale, la quale si va accorciando dai 23°51’20” al tempo
di Aristarco ai 23°28’30” misurati da Copernico (Theol. XXV, p. 177; Mon. Sp., p. 20).
3
La precessione degli equinozi, dovuta allo spostamento dell’asse terrestre, porta ad una
sempre più marcata discordanza fra sito reale delle costellazioni e zodiaco tropico, che crea
appunto la ‘confusione delle figure’ zodiacali (v. n. seg. e n. 156.10).
4
Non è chiaro (a C. stesso) se l’oscillazione riguardi i poli celesti o terrestri; oppure si tratti
di un altro degli effetti dello scivolamento della cintura zodiacale; o infine se sia un’oscilla-
zione Nord/Sud, come si direbbe da questa frase: «inveni etiam polos ex sedibus suis reces-
sisse: stellas australes factas boreales et e contra» (Lettere, p. 65). Ma in Astrol., p. 77 respinge
l’ipotesi copernicana di doppia librazione dei poli terrestri, che causa dei moti a corolla di
tutta la sfera cosmica, con ulteriore complicazione delle ghirlande orbitali («nec polos sic co-
rollari putandum»), per poi condividerla in Theol. XVIII (I, p. 57): la profezia di Aggeo sarà
completamente adempiuta quando perirà «il mondo stesso e il cielo e la terra... Infatti anche
la terra vacilla, come dimostra lo spostamento dei poli osservato da Francesco Maria di Fer-
rara e da Copernico».
5
Sulla scorta della concordia di tutti i mss di Città e principalmente della incongruenza
(astro)logica del passo, occorre restaurare una probabile lacuna omoteleutica recuperando
il dettato del ms più prossimo a Civitas, cioè L.: «dopo la grande congiunzione, e l’eclissi, che
sequeno dopo la congiunzion magna, in Ariete e Bilancia» (v. n. compl.).
158 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS

equinoziali, con l’alterazione te et Libra, signis aequinoctialibus, in re-


dell’asside faran cose stupen- stauratione anomaliarum; quae stuporis
de in confirmar il decreto del- plena sequantur post magnam coniunctio-
la congiunzione magna, e nem in confirmatione decreti eius et muta-
mutar tutto il mondo e rino- 5 tione et renovatione orbis.
varlo. Sed tu, quaeso, ne me amplius detineas;
Ma per tua fé, non mi facienda restant multa et scis quibus sollici-
trattenere più, ch’ho da fare. tor curis. Alias.
Sai come sto di prescia, non ti Hoc tamen non omittam, quod ipsi liber-
lo potresti imaginare. Un’al- 10 tatem humanam prorsus adstruunt, et di-
tra volta. cunt quod si quadraginta horae, quibus cru-
Questo si sappi, ch’essi ciatus est philosophus magnus inter eos ab
tengon la libertà dell’arbitrio. hostibus crudelissime, non potuere illum
E dicono che, s’in quarant’o- cogere ad confitendum ne verbulum qui-
re di tormento un uomo non 15 dem de his quae requirebant, eo quod sile-
si lascia dire quel che si risol- re statuerat ex animo; nec stellas ergo, quae
ve tacere, manco le stelle, a longe et suaviter movent, posse cogere
ch’inclinano con modi lonta- nos ad operandum contra decretum no-
ni, ponno sforzare. Ma per- strum, nec Dei decreto cogente nos regi,
ché nel senso suavemente fan- 20 quoniam homo est adeo liber quod etiam
no mutanza, chi segue più il blasphemat Deum. Deus autem nec se
senso che la ragione è soggetto ipsum, nec alios cogit adversum se. Nun-
a loro. Onde la costellazione quid divisus est Deus? At quia in sensum
che da Lutero cadavero cavò mutationem insensibilem suavemque fa-
vapori infetti, da Giesuini 25 ciunt astra, qui plus sensum quam rationem
nostri, che fur al suo tempo, sectatur divinam, eis subiugari. Nam et con-
cavò odoros’esalazioni di stellatio, quae de haereticorum cadaverosa
virtù, e da Fernando Cortese mente vapores foetidos eduxit, eadem eo-
che prolungò il cristianesmo dem in tempore ex fundatoribus Iesuinae
in Messico nel medesimo tem- 30 religionis et Minimorum et Cappuccino-
po. rum exhalationes fragrantes virtutem
eduxit. Et sub eadem Columbus et Corte-
sius divinam in altero hemispherio CHRI-
STI religionem propagavit.
LA CITTÀ DEL SOLE 159

Bilancia, segni equinoziali1, con la ripresa delle anomalie. E quante co-


se strepitose si verificheranno, dopo la grande congiunzione – a confer-
ma del suo decreto –, che cambieranno e rinnoveranno il mondo.
Ma, ti prego, non trattenermi oltre; mi restano ancora molte cose da
fare e sai da quanti impegni sono pressato. Alla prossima volta.
Tuttavia voglio dire almeno questo: loro credono fermamente nella li-
bertà umana, e dicono che se quaranta ore, durante le quali molto cru-
delmente fu torturato dai nemici un loro grande filosofo2, non bastaro-
no a costringerlo a pronunciare neanche una sillaba di quanto i carnefi-
ci anelavano di sapere, dal momento che lui aveva deciso fermamente di
tacere; allora neppure le stelle, che da lontano e dolcemente ci stimola-
no, possono obbligarci ad agire contro la nostra volontà. E non siamo
governati nemmeno da un volere divino che ci costringa, perché l’uomo
è talmente libero da poter anche bestemmiar Iddio. E Dio non spinge ad
agire contro di Sé né Se stesso né gli altri: forse che Dio è diviso? Ma poi-
ché le stelle imprimono impercettibili e leggerissime mutazioni alla par-
te sensibile dell’uomo, coloro che obbediscono più ai sensi che alla ragio-
ne spirituale, si fanno influenzare dagli astri. Infatti quella stessa costella-
zione che dalla putrida mente degli eretici cavò vapori infetti, trasse fuori,
contemporaneamente, dai fondatori dei Gesuiti, dei Minimi e dei Cap-
puccini fragranti esalazioni di virtù. E sempre sotto il suo influsso Colom-
bo e Cortés3 propagarono nell’altro emisfero la santa religione di Cristo.

1
Intende dire angolari, dotati quindi di influssi ancor più potenti.
2
In T.158.15 era semplicemente «un uomo». Nella lettera a Schoppe, scritta cinque anni do-
po nell’orrida fossa di Sant’Elmo, gli ritorna l’incubo della sua passata tortura: «E infine sono
rimasto quaranta ore, legato con corde strettissime che mi segavano la carne fino alle ossa, ap-
peso con le mani legate e incrociate dietro sopra un legno molto affilato [=acutissimum], che
mi divorò [=devoravit] la sesta parte dei glutei e fece scorrere a terra dieci libbre di sangue; so-
no guarito con l’aiuto divino dopo sei mesi, e ora sono stato scaraventato in una fossa» (Schop-
pius, p. 71; alla tortura alludono vari passi di Lettere, pp. 52 e 59; Theol. V [I, p. 47] ecc.).
3
Nominati spesso insieme quali massimi eroi moderni (es. Mon. Sp. XXXI, p. 350: «quei che
han con virtù trovato e acquistato quei paesi... Colombo e Cortese»; in Poetica IV, p. 321 pro-
pone le loro avventure come soggetto letterario ideale); tale accoppiamento si deve a Botero,
IV II, che aveva già lodato «Fernando Cortese» a I V, p. 211: «Costui fu non meno eccellente
nel ben governare i popoli che nel soggiogarli, e nell’arti della pace che nel maneggio del-
l’armi». Del primo si è detto (v. n. 134.16-7); il secondo (di cui T.158.28 – anche in questo ca-
so, meno generico rispetto a Civitas – ricorda l’evangelizzazione del Messico) è menzionato
pure come un conquistatore (uno di «quei che fanno gran acquisti» [Mon. Sp.1, p. 78], in
quanto «astu sane Cortesius occupavit Mexicanum Regnum» [Mon. Messiae XVIII, p. 84-5]),
che andrebbe ricompensato con una munificenza più simbolica che venale. Negli anni in cui
Cortés conquistava il Messico (1519-27) si sanciva anche la rottura di Lutero con Roma.
160 CITTÀ DEL SOLE / CIVITAS SOLIS

Ma di quanto è per seguire Quae autem mundo nunc imminent plu-


presto nel mondo te ’l dirò rima, alio in sermone complebo tibi.
|30v> un’altra fiata. HOSP. - Hoc saltem refer, qua ratione mo-
L’eresia è opera sensuale, vent naves absque vento et remigio?
come dice S. Paolo, e le stelle 5 GEN. - Flabello super puppim aedificato
nelli sensuali inchinano a amplo, quod desinit in pertica una ad quam
quella, nelli razionali alla ve- pondus appensum facit aequilibrium, ita
ra legge santa della prima quod unus puer una manu potest elevare et
Ragione, sempre laudanda. deprimere; in principio autem alae ma-
Amen. 10 gnae; axis supra duas furcas illud sustinet,
OSP. - Di grazia non ti facile volubilis. Praeterea quaedam navigia
partire; segui quello che mi movent rotis duabus in aqua giratis per fu-
prometti, adesso che è tempo, nes, quae de rota magna, supra proram po-
ché mi sarà di soma grazia. sita, decurrunt et decussatim cingunt rotas
GEN. - Non posso, non 15 puppis. Rotam magnam facili negotio con-
posso. volvunt, quae parvas in aquam impositas
trahit, sicuti accidit in organo, quo mulieres
Calabrae et Gallae filum advolvunt, parant
aut nent.
20 HOSP. - Expecta, expecta modicum, etc.
GEN. - Non licet, non licet.
LA CITTÀ DEL SOLE 161

Ora stanno per accadere nel mondo grandissimi eventi; ma te ne par-


lerò in un altro colloquio1.
OSP. - Rispondi soltanto a questo: come fanno a muovere le navi sen-
za vento e senza remi?
GEN. - Per mezzo di un largo ventaglio installato sulla poppa e fissato
in cima ad una pertica, la cui estremità opposta è bilanciata da un con-
trappeso, in modo che anche un bambino con una sola mano può al-
zarlo e abbassarlo; davanti si trovano grandi vele; il ventaglio è imper-
niato su un asse, sostenuto da due forcelle, che gira senza difficoltà. Al-
tri vascelli, poi, sono spinti da due ruote che girano in acqua, mosse per
mezzo di funi, che, scorrendo da una ruota grande, collocata sopra la
prua, e incrociandosi, fanno girare le ruote poste a poppa. Per mettere
agevolmente in movimento tale ruota grande, che trascina con sé quel-
le piccole immerse, usano lo stesso principio del filatoio con cui le don-
ne calabresi e francesi attorcono il filo, lo preparano e filano.
OSP. - Aspetta, aspetta un momento.
GEN. - Non posso, non posso2.

1
Questa frase (traduzione letterale di T.160.1-3) secondo Firpo ed Ernst 1997a, p. XLIII, rin-
vierebbe al De symptomatis mundi per ignem interituri, il trattatello che doveva andare in appen-
dice all’Astronomia (entrambi andati perduti), e al Prognosticon astrologicum de his quae mundo
imminet usque ad finem, anch’esso del 1603 e divenuto l’ultimo capitolo degli Art. proph. Tutte
queste opere erano state scritte, perse, riprese... eppure quella promessa resta ancora immu-
tata in L., in Fr. e 35 anni dopo. Oltre a una supina inerzialità testuale e al reiterato interven-
to papale sui pronostici (v. n. 142.25-144.11), si può motivare tale silenzio, in tutte le reda-
zioni di CS, con la constatazione che di fatto quelle opere non erano in circolazione? O piut-
tosto che si trattava di rivelazioni così gravi, per la chiesa o lo stato, che non potevano essere
rese pubbliche impunemente? (v. Introduzione e n. compl.).
2
Secondo Bobbio, il finale di Città è un’aggiunta posticcia (non necessariamente apocrifa):
se si dovesse tener conto del primo tentativo di congedo del Genovese, dovrebbe finire subi-
to dopo la sezione metafisica, che del resto coronerebbe degnamente la descrizione di una
repubblica filosofica. Questa intuizione di Bobbio sarebbe confermata dal finale di T., le cui
ultime tre righe sono aggiunte da altra mano (v. ‘Nota al testo italiano’). Tuttavia anche il
dialogo di Doni si conclude con una brusca interruzione: «Non aver per male che io mozzi il
tuo ragionamento...» (p. 82). E, volendoci concedere un’illazione nel congedarci, diremmo
che quella nave che si riporta via il Genovese sta andando a Taprobana, analogamente al suo
antesignano Itlodeo «che oggi risiede di propria elezione nell’isola di Udepotia, ma che di
tanto in tanto fa qualche scappata fra noi» (lettera di Budé premessa a More, p. 86; così an-
che Gilles a Busleyden: pare che «in parte divenuto insofferente delle usanze dei suoi, in par-
te spinto dalla nostalgia di Utopia, se ne sia tornato per mare laggiù» [p. 61]).
COMMENTO AL TESTO

2.a: CIVITAS SOLIS


La prima volta che appare il titolo latino è nella lettera a Schoppe del 1607:
“trado tibi… de republica librum unum, attitulatum Civitas solis” (Lettere, p.
110; ma quel che gli consegnava in realtà era Città). Il titolo allude alla nazione
dei Solari, posta nell’isola di Taprobana in cui vi sono altri quattro regni
(64.39); questo stato è costituito dalla capitale Città del Sole (2.15), circondata
da un territorio in parte coltivato (82.10) e in parte boschivo (84.12), che arri-
va fino al mare (80.9), attrezzato con porti (80.2), più alcune città satelliti e
province (60.8, 74.19 e 106.10 e 12).
Esaminiamo ora in dettaglio la stringa titolistica, prima parola per parola e poi
integralmente.
‘Civitas’ [= c.] è “societas bona fide unita, sub imperio moderato” (Aphor., p.
90), costituita da “multae familiae in unum collecta” (Oecon. III I, p. 197); tale
definizione implica una rete di relazioni oppositive:
a) c./collettività asessuate: non vi è ‘civitas’ senza donne e ‘coniugium’, come
gli ordini religiosi o le comunità dei Bramini, dei Bonzi e delle moderne
Amazzoni africane (Oecon. I); Città del Sole, pur essendo in sostanza una so-
la grande famiglia (24.15-8), non è una ‘schola’, un ‘coenobium’, un ‘coe-
tus’ militare, mercantile ecc. (Quaest. oec. I I, p. 171);
b) c./‘urbs’: “non saxa, sed habitatores” (Isidoro, XV II; Pompeo Festo, De ver-
borum significatu – distinzione risalente almeno a Cicerone, De rep. I, ma una-
nimemente condivisa ancora nel XVI sec.: Spinasatus, I xv, p. 37-8; Brucioli,
VI, 26v; Persio 1575, n° 379; Magini, 2v); con un duplice corollario: Civitas So-
lis non allude, a mo’ di sineddoche, a ‘Stato del Sole’ (‘Roma’ per Impero
romano), e non è neppure la ‘capitale’, anche soltanto nel senso di struttu-
ra urbana e vertice sociale dello stato, ma è proprio tutto lo stato, perché si
tratta di una Città-Stato, un tardo-rinascimentale Comune degli Antipodi
con un territorio ristretto e punteggiato da altre entità geopolitiche subor-
dinate;
c) c./‘terra’: “città principali capi di regni come è Lisbona, Toledo, Anversa”;
“una città grande, come Napoli, o di presidio, come Crotone” (Mon. Sp., pp.
124, 166, e 70 cit. a n. 12.27 per l’‘emboitement’ reame-provincia-città-villa).
Un geografo come Magini, 2r-v rilevava come da “terra cinta di mura” e den-
tro edificata, “hora presso i Christiani città sono dette quelle ch’hanno pro-
prio Vescovo o Arcivescovo o Patriarca, e terre murate l’altre”; Maffei, I, p.
364 ci mostra che la dicotomia si sta articolando in gerarchia: in Cina “han-
no circa dugento Città celebrate per la grandezza loro, e molte più poi del
secondo ordine: le terre e le castella dipoi, alcune delle quali fanno tremila
fuochi, e le ville sono quasi innumerabili” (oggi diremmo: capitali e capo-
luoghi, province, comuni, frazioni).
164 LA CITTÀ DEL SOLE

d) c./‘colonia’: “‘Civitas’ proprie dicitur, quam non advenae, sed eodem nati in
solo condiderunt. Ideoque urbes a propriis civibus conditae, civitates non
coloniae nuncupantur” (Isidoro, XV II, VIII); Magini, 2r: “Ma certe città sono
Metropoli, che a guisa di madri di sé generano altre città. Sonoci però di
quei che chiamano Metropoli la città primaria della regione o della Provin-
cia”. In CS non usa mai ‘metropoli’,1 del resto qui assolutamente fuori luo-
go, perché 1) Città del Sole non ha colonie, ma ‘subditae’ (60.9); 2) non
clona città copie o satelliti, come Amauroto a Utopia e la città di Doni, di cui
“ciascuna provincia ne aveva una” (Mondi, p. 163); 3) Città del Sole stessa è
semmai una ‘colonia’ di profughi che ha tagliato i ponti con la madrepatria
indiana (20.12 e 62.11), costituendo una ‘enclave’ in un ambiente ostile
(64.40 e 66.6) – il XVII sarà proprio il secolo che vedrà la nascita di questa
nuova forma di colonizzazione del Nuovo Mondo da parte di comunità a va-
rio titolo perseguitate nel Vecchio.
Disegnato lo spazio semantico del nominativo (= Civitas), è facile specificare il
genitivo (= Solis), perché è l’Au. stesso a enunciarlo nell’‘Ecloga’: “urbem, So-
lis de nomine dictam” (169, 121), astro precedentemente eretto a “insegna del-
la semblea d’esso Autore” (89, 2, Esp.), cioè, come annota Firpo 1957, p. 1341:
“la ‘semblea’ è la collazione ecumenica delle genti ispirata ai princìpi della
Città del Sole e della Monarchia dei Cristiani”; ed Ernst 2002, p. 97-8: “l’immagine
solare è molto presente nel Cinquecento, in autori e in contesti diversi”: da Fi-
cino e i neoplatonici agli ermetici, dai viaggiatori che descrivevano culti astrali
nel mondo nuovo, come Benzoni, ai letterati come Ruscelli, “che parlando del-
l’insegna di Filippo II di Spagna, tesseva il più caldo elogio del sole che vi era
raffigurato”.
Per quanto riguarda la sua funzione sintattica, il titolo nella sua integralità è
stato foggiato su una triplice matrice: a) quella di ‘genere’: le utopie porteran-
no a lungo il marchio ‘u-toponimico’, cioè designeranno un nome di non-luo-
go, e di ‘Città del Sole’ non ne esistono (più); b) poi quella agostiniana (l’au-
tore più citato in assoluto da Civitas: quattro volte): nel sintagma |La Città di –|
la sostituzione di ‘Dio’ con ‘Sole’ è senz’altro voluta, perché il Sole è da un la-
to l’emblema ‘naturale’ (ovvero razionale) della divinità, e dall’altro vuol esse-
re implicitamente l’antesignana (v. n. 2.29: i Solari sono ‘catecumeni’) della
Gerusalemme celeste, “quando [ri]sorge il Messia, vero Sole” (Theol. XXV, p.
99); c) infine l’onomastica urbana ha un debole per i nomi propri, reali o em-
blematici, da sempre (es. Alessandria), ma specialmente in occasione di neo-
fondazioni urbane, sia immaginarie (Sforzinda di Filarete) che reali (la Co-
smopoli dell’architetto Buontalenti dedicata a Cosimo I de’ Medici). Si vuol di-
re che il modulo ‘città-del-sole’ rispecchia, crittografato, il sistema di battezza-
re le città col nome del fondatore; e dunque esso sta per l’auto-citazione (e -ci-

1
Ricorre, ad es., in Politica, il cui cap. VII s’intitola ‘De coloniis et civitate’: “Coloniae con-
flandae sunt ex civibus propriis metropolis imperii… Quae civitates sint metropolitanae
ipsius regionis…” (v. n. 20.18).
COMMENTO AL TESTO 165

frazione): ‘Città-di-Campanella’. Se è vero, infatti, che l’Au. fu colpito dal no-


me di una città indiana in cui si era imbattuto leggendo Botero, “Campanel”,
tanto da modellarvi l’architettura eptamurata (v. n. 20.13); se dunque il co-
gnome ebbe un qualche peso in questo ‘gioco di spazi’, non è improbabile che
possa averlo avuto anche il nome di un personaggio attento all’onomastica
(48.14), al ‘nomen/omen’ (Sasso, Eco), all’autoritratto nel quadro (è lui il
“philosophus magnus” di 158.12). Ebbene, il nome da laico di C. è Domenico,
e domenica è “die[s] Solis”.2 Allora, senz’alcuno sforzo d’immaginazione, si
può agevolmente supporre che l’Au., inciampando in quel curioso Campanel
indiano, abbia deciso di sfruttare anche il proprio nome proprio: Città [del
Pianeta/Giorno] del Sole = Civitas Dominica = Città del Signore e dell’Autore,
Domenico prima e domenicano poi.
Le fonti: oltre all’Eliopoli egizia,3 suggerita come referente prioritario da oltre
mezzo secolo (Treves) con alterna fortuna, vi è anche la fantasmatica Eliopoli
dell’Asia Minore, promessa da Aristonico (I sec. a. Cr.) che, ribellatosi ai Ro-
mani e rifacendosi all’utopia dello Iambulo (o Giambulo) diodoreo,4 “radunò
rapidamente una moltitudine di poveri e di schiavi, di cui si guadagnò il favore
promettendo loro la libertà e che chiamò Eliopolitani” (Strabone, XIV I, 38).5
Infine “l’ideale della città solare si ritrova in tutta la tradizione della repubblica
cosmopolitica stoica”.6 Nel 1564 Cosimo I aveva fondato un’altra piazzaforte
“verso Castrocaro… alla quale mentre, secondo le cerimonie consuete della
Chiesa, era per porsi del sacerdote la prima pietra, essendosi in un tratto tutto
il cielo ricoperto di nugoli, solo quella parte ove la nuova terra s’avea a fonda-
re restò scoperta a’ raggi del sole. Il qual segno interpretando a felice augurio,
fu quella terra chiamata la Città del Sole”.7

2
Quod rem. 3, 131; Astrol., p. 228; Comestore, V: “Natus est Dominus anno regni Augusti 42,
nocte dominicae diei… Nam ea die qua dixit: ‘Fiat lux, et facta est’ visitavit nos oriens ex al-
to” [SH VI LXXXVIII]; Pico: gli astrologi arabi “sono soliti chiamare solare la nostra religione,
perché rispettiamo il giorno del Sole che chiamiamo domenica” (I, p. 621).
3
Nella Bibbia: Is. 19, 18 profetizza “Civitas Solis vocabitur una”; Gs. 19, 41 cit. da Agostino,
Quaest. in Hept. I, 136; e, nella selva di autori classici: Strabone, XVII, che la nomina per il
tempio del Sole; Plinio (V IX), che menziona anche quella araba (XI II), patria della fenice
contemplata nel bestiario Solare (16.6); Isidoro, XV I, p. 33: “Heliopolis quae latine inter-
pretatur solis civitas”.
4
Gli abitanti adoravano al di sopra di tutti gli altri dèi il Sole, “da cui sia le isole che essi stes-
si prendono il nome” (Diodoro, II XIII [I, p. 120]).
5
Con CS è avvenuto l’opposto: è stata una rivolta, fallita, a determinare la nascita di quest’al-
tra città solare (cfr Finley, p. 274-6).
6
J. Bidez, La cité du monde et la cité du soleil chez les Stoiciens, Paris, 1932 (cit. da Bobbio, p. 35).
7
Scipione Ammirato, Istorie fiorentine, Firenze, 1641, cit. da Firpo 1970, p. 387; cfr anche Fir-
po 1965, p. 70-1; e principalmente Firpo: “La suggestione più vicina e probabile sembra esse-
re quella della razionalistica ‘Civitas Solis’ o ‘Paradisus’ in cui si sarebbe dovuto parlare solo
latino, vagheggiata dal Granduca di Toscana intorno al 1585; accenna ad essa il Botero (Delle
cause della grandezza delle città, Roma, 1588, cap. I, 2)”.
166 LA CITTÀ DEL SOLE

In sintesi: la Città del Sole è l’equivalente ‘laico’ dell’agostiniana ‘Civitas Dei’,


dopo aver debitamente sostituito il Dio della Rivelazione con il dio della natu-
ra; e dunque il toponimo titolistico campan. starebbe anche a significare che
quello di Taprobana è il migliore dei mondi possibili precristiani, di cui il cri-
stianesimo, “tolti gli abusi”, non sarebbe la negazione, ma il logico comple-
mento. ‘Città del Sole’, fulgida promessa di riscatto, in cui splende l’eterno
‘dies dominicus’ dell’aureo riposo, significa ‘Comunità posta sotto l’insegna
del Sole’, sia in senso stretto (scritta, governata, illuminata da Sole, nome del-
l’Autore, del Metafisico, del simbolo divino), sia in senso lato (dedicata al sim-
bolo dell’Amore, della Ragione e del Potere: le Primalità), specie se si tiene
conto della diffusione antica e moderna di quel toponimo per neofondazioni
urbane.

2.b: De Reipublicae idea


Letteralmente: ‘Prototipo di Stato’, più nel senso di archetipo platonico (30.2-
3: le ‘cose ideali’ sono “in Deo”), che di ipotesi progettuale. Tuttavia vi è una
certa qual forma di essenzialità (‘quiddità’ – direbbe C. [102.38]) in
quell’“idea”: “l’idea è la forma delle cose esistente indipendentemente dalle
cose stesse, e conoscendo l’idea l’artefice conosce le cose e imitandola opera”
(Theol. I [II, p. 41]); “come si viverà in comune si prova ne’ Profetali; e v’è l’idea
nella Città del Sole, fatta dall’Autore” (Poesie, 52, Esp.).

2.c: DIALOGUS
“Est disputatio vel collatio duorum vel plurimorum, quem Latini sermonem di-
cunt” (SD I XLIII). Platone “ha scritto tutte le sue opere in forma dialogica, per-
ché comprendessimo che si può sapere solo quello che enunciamo parlando
vicendevolmente, ma che non si conoscono le cose come sono in sé” (Syntagma
IV I). La forma dialogo dunque è (stata) impiegata per la conoscenza comune
(‘doxa’), non per quella assoluta dell’essenza (‘episteme’). Il genere dialogico
è segnale di divulgatività e insieme di ‘dialetticità’, secondo il modello ‘classi-
co’ (platonico, non teatrale) della disputatio: “Componiamo i discorsi o sermo-
ni, i dialoghi e i sintagmi, non secondo il metodo delle scienze, ma secondo
l’occasione che si offre, e per la soddisfazione di coloro per i quali scriviamo, e
per la discussione dell’argomento di cui si scrive” (Syntagma III IV). L’indiffe-
renza per le coordinate primarie dell’evenemenzialità (spazio e tempo: dove
[comunque v. n. 128.31-4] e quando si svolge questo dialogo?) mostra come la
cornice dialogica sia ormai ridotta a vuoto contenitore neutro, una volta trasfe-
rita in generi non letterari (filosofico: Bruno; scientifico: Galilei; e ovviamente
politico, dalla Respublica platonica a Utopia).

2.d: POËTICUS
Intrigante la lettura (implicita) che fa Caye di questo aggettivo, che viene sol-
levato dal duplice piano letterale e (anti)realistico (si tratta, insomma, di un
finto dialogo), per diventare un traslato investente l’intera operetta: “C. de son
côté se méfie à ce point de l’utopie qu’il fera de sa Cité du Soleil, ce qu’il appel-
le une Poétique du politique et non pas une utopie, revenant ainsi à la distinc-
COMMENTO AL TESTO 167

tion entre l’Histoire et la Poésie, entre la narration des singularités et l’expres-


sion de l’universel, que trace la Poétique d’Aristote” (p. 350).

2.e: HOSPITALARIUS MAGNUS


‘Ospitaliero’ è forma seicentesca (GDLI: prima attestazione in Musso) e, secon-
do il DELI, la più corrente oggi. Quest’appellativo è concordemente interpre-
tato come Cavaliere dell’Ordine militare e sovrano di Malta, che anche a Na-
poli aveva una propria sede (Leone, p. 121); Ordine che discende dalla con-
fraternita dell’ospedale di San Giovanni a Gerusalemme, sorta all’inizio del XII
sec. con il compito di assistere i pellegrini, passata nel 1309 a Rodi e dal 1530
con sede principale a Malta. Ma potrebbe più genericamente alludere ad una
figura, che in una certa qual struttura, laica o religiosa, sovrintende (“ma-
gnus”) a chi si occupa dell’accoglienza degli ospiti (Du Cange, 238sg s. vv. ‘ho-
sp-’): “Hospitalarius” è chiaramente in sistema con “hospes”: chi dà e chi riceve
ospitalità. Elenchiamo le ragioni a favore di ognuna delle due ipotesi:

- A favore dell’ipotesi Ospitaliero = Cavaliere di Malta:


A)è l’accezione più frequente;
B)tale accezione è presente in Sarpi, forse conosciuto personalmente da C.:8
“ospitalarii di San Giovanni Gierosolimitano detti Cavaglieri di Malta sono
l’antemurale di Sicilia e dell’Italia contro i barbari” (VIII, p. 1177-8); ancora
nella sarpiana Istoria dell’interdetto, si parla di un certo “cavalier Verdelli”,
agente del conte Vaudemont a Venezia, a cui il Papa si rivolgerebbe in una
missiva chiamandolo “fra Verdelli ospitalario”, e richiamandolo ai suoi dove-
ri “verso l’interessi della religione di San Giovanni” (VI, pp. 172 e 177);
C)in Poetica XV (p. 360) fra gli esperti in cose militari è menzionato Lelio Bran-
caccio, “marchese di Montesilvano e Cavaliere di Malta [dal 1584 al 1589
(DBIt)]… in Napoli prefetto all’annona” (Firpo 1954, p. 1373); è possibile
che C. pensasse a lui (o al nipote Marco Antonio, anch’egli gerosolimitano
dal 1577 e nominato balì dell’Ordine nel 1629 [DBIt]), cui, idealmente al-
meno, dedicare CS?
D)voleva fondare un ordine missionario militare: esorta infatti Paolo V, onde
evitare la piaga dei mercenari, a istituire nuovi ordini di “soldati religiosi…
come li descrive Platone nella sua Repubblica”, e i cui ordinamenti somiglia-
no per tanti versi alle istituzioni di quel grande convento armato che è la
Città del Sole (vita in comune, selezione per virtù e non per nobiltà, educa-
zione ginnico-militare e istruzione polivalente), modellata sulla mancata Re-
pubblica di Stilo: “risulta largamente provato come fra Tommaso non abbia
voluto istaurare la repubblica a proprio vantaggio, ma intendesse istituire
per il Papa e per il Re un seminario d’uomini eccellenti nelle lettere e nelle
armi” (Supplizio, p. 98).

8
“C. arriva a Padova [nell’ottobre 1592] dove... conosce Galilei (forse anche Sarpi)” (Vivanti).
168 LA CITTÀ DEL SOLE

- A favore dell’ipotesi Ospitaliero = ‘frate ospitalario’:


a) lo stesso Sarpi, Conc. IV, p. 575 allude ad un’altra categoria di “ospitalarii”,
quelli operanti negli “ospitali”: dei “chierici” che vivono in collettività, che
svolgono attività assistenziali – nel caso degli ‘ospedali’, assistenza ai pelle-
grini, malati e bisognosi; e probabilmente Sarpi allude all’ordine ospitaliero
dei Fatebenefratelli, fondato nel 1540 a Siviglia da S. Giovanni di Dio, che
segue la regola di Sant’Agostino (ma lo escluderei per CS, perché il Genove-
se è un “hospes”, bisognoso di ospitalità, non di cure mediche);
b) ‘monachus hospitalarius’ è il “custos hospitii”, che soccorre “hospites qui
sunt peregrini” (come potrebbe essere il Genovese, che “peragraverit”
[2.5]): “Hospitalarius major [il nostro è un “Hospitalarius magnus”]… in
hospitali assidue commorari debet et nocte jacere, ut ea, quae inibi conti-
nentur, custodiat, et paratus sit omni tempore advenientes quotque, quos re-
cepi oportet, sicut oportet, recipiat” (dal Libro di S. Vittore); “Hospitalaria”
erano chiamate le “domus hospitum in Monasteriis”; e “officium Hospitala-
rii” era appunto una delle mansioni conventuali (Du Cange, s.v. variis,
238sg); GDLI riporta l’es. settecentesco di un “frate ospitalario” (Manni, Ist.
del ‘Decam.’), che è anche l’ultima attestazione della forma in ‘-lario’;
c) C., non solo in quanto frate, ma in quanto profugo (fino al 1599), nei con-
venti di mezza Italia, statisticamente avrà frequentato più addetti alla fore-
steria che cavalieri gerosolimitani;
d) è vero che Du Cange riporta anche l’accezione “milites ordinis Sancti Joan-
nis Hierosolymitani” (stupirebbe il contrario), ma si tratta appunto di acce-
zione prevalentemente tardo-medievale; infatti Bosio, nella sua monumen-
tale e fondamentale Istoria (1602-30), rileva come, dopo la conquista di Rodi
(1309), “dismettendosi pian piano l’uso di chiamare Hospitalieri i Cavalieri
e Religiosi di quest’Ordine, Cavalieri di Rodi lungamente poi detti sono”,
così “come hora a’ tempi nostri, Cavalieri di Malta, dall’habitatione, che fan-
no in quell’isola, nominati sono” (I, p. 72-3), mentre l’appellativo ‘Hospita-
liero’ viene riservato al capo di una delle lingue di Francia (“Frat’Ugo di Sa-
rais Hospitaliero” [II, p. 201]); una controprova di questa neo-denomina-
zione topologica la si può rintracciare in autori frequentati da C., come:
Mandeville, XXXV e LXXXVII: “li cavalieri di San Iohanni” stavano nel
“grande hospitale de Sancto Iovanni, dal quale li cavalieri de Rhodi hanno
loro principio”; Maffei, III, p. 186: l’ordine giapponese dei Bonzi Neuguri
“ha una certa somiglianza colla milizia di Rodi ovvero di Malta” (id. I, p. 414;
II, p. 258); Botero, I III, p. 189: Tripoli “fu tolta a’ cavalieri di Malta da Sinam
Bassà nel 1551”; Magini, II, 105r parlando di Malta li chiama “Cavalieri Gie-
rosolimitani”, e parlando di Rodi “Cavallieri di San Iovanni Battista” (161v);
e finalmente lo stesso C., proprio relativamente al precedentemente cit.
punto C), esorta il Re di Spagna di “fare anco due cavalieri di mare, come
son quei di Malta… e non sempre fidarsi di marinai ausiliarii e mercenarii,
come sono Genovesi” (Mon. Sp., p. 238 – passo in cui, come si vede, è com-
presente anche l’interlocutore di CS), e così li appellerà di nuovo non solo
nella stessa op. (p. 360), ma anche in Metaph. XVI VII, V (III, p. 283), mentre
a Theol. XXIII, lo chiama ‘ordine religioso militare’ “di S. Giovanni”;
COMMENTO AL TESTO 169

e) nell’ordine di Malta non esiste un ‘Grande Ospitaliero’, l’attributo essendo riser-


vato al Maestro e a qualche altra carica, ad es. Cancelliere (invece l’alta burocra-
zia del regno di Napoli era strutturata in “Sette Grandi Uffici”, con un “Gran Can-
celliere”, “Gran Contestabile”, “Gran Giustiziero”, ecc. [Leone, p. 163]);
f) la Crusca non registra ‘ospitalario’, ma: “Spedaliere: cavaliere gerosolimita-
no”, derivandolo da ‘hospitalarius’; le attestazioni, però, sono desunte solo
dalla Cronica del Villani (“non restituìo a’ Tempieri e Spedalieri le loro ma-
gioni” [VI XXIV]), ed a metà XIV sec. i Cavalieri, come sappiamo, erano an-
cora chiamati con quel nome;
g) in Platone (Leges, 624a) uno dei tre dialoganti è l’anonimo “ospite ateniese”;
Doni immagina che “due Pellegrini” ospiti “nella nostra Academia” condu-
cano Savio e Pazzo alla “gran città” (Mondi, p. 162); in More, 5-6 Itlodeo rac-
conta le meraviglie di Utopia mentre è ospite a casa di More; e così l’‘ho-
spes’ genovese, per calco assonantico, sarà accolto da un “Hospitalarius”, ov-
vero un generico ospite (laico, chierico o cavaliere che fosse),9 secondo la
stessa accezione rinvenibile in Oecon. VIII, p. 210, dove così saluta Fabri de
Peiresc: “clarorum virorum Mecenas et perennis hospitalarius”.10
In sintesi: essenzialmente in base all’(unica?) attestazione campan. extra-te-
stuale, ‘Ospitaliero’ indicherebbe non tanto una carica precisa, quanto, specie
se correlato alle fonti ‘utopiste’ imperniate sul genere dialogo+relazione di
viaggio, un ‘addetto agli ospiti’ o, più genericamente ancora, ‘colui che ospita’.
L’attributo ‘Magnus’, apparso solo in Civitas, potrebbe riferirsi al rango sociale,
come dimostra sia il suo livello culturale, sia il fatto che il suo interlocutore,
per potergli rivolgere subito il ‘tu’, ha dovuto esser promosso da semplice ‘Ma-
rinaio’ a “Nochiero” (v. n. sg). Pertanto una soluzione di compromesso fra le
due ipotesi (frate/cavaliere) potrebbe essere questa: l’Hospitalarius sarebbe
l’addetto agli ospiti di un convento di Cavalieri, come quello che c’è a Lisbona:
attiguo alla chiesa dei Geronimiti, dove sono conservate le spoglie di Vasco de
Gama, infatti, vi è il convento dei Cavalieri di Cristo, in cui anticamente erano
accolti i capitani di mare e i loro equipaggi per tutta la durata dei preparativi
delle loro spedizioni (e così pure dopo lo sbarco). La chiesa e il convento for-
mano un complesso molto interessante anche per un’altra analogia con il tem-
pio solare; infatti le cupole sono sormontate da globi portanti meridiani, pa-
ralleli, eclittiche, orbite dei pianeti (v. 8.25sg): esistono altri complessi analo-
ghi? È possibile che C. ne sia venuto a conoscenza?

2.f: NAUTARUM GUBERNATOR GENUENSIS


In CS nessun personaggio fittizio è dotato di nome proprio; per evocarli, l’Au.
ricorre al loro status sociale, a partire dai due “interlocutores”: un marinaio e
forse un cavaliere, di certo un ‘ospitaliero’ e un ‘ospite’.

9
Il suo rango lo possiamo ricavare, più che dal postremo “Magnus”, da quel ‘voi’ con cui gli
si rivolge il Genovese in T.2.4, che però già a T.26.10 diventa ‘tu’: “Ma toccate voi, la Signoria
Vostra (non vo’ dir più ‘tu’, ch’io mi ricordo che avete grado)” (Doni, Mondi, p. 339).
10
Cfr P. Miller, Peiresc’s Europe: Learning and Virtue in the Seventeenth Century, Yale Univ. Press, 2000.
170 LA CITTÀ DEL SOLE

In tutti i mss italiani in cui si nominano gli interlocutori, il viaggiatore-narrato-


re è indicato sempre come il “Genovese marinaro”; soltanto L. sostituisce a
“marinaro” “Nochiero del Colombo”, che passa quindi in tutte le attuali edi-
zioni di Città, senza che nessuno s’accorga dell’evidente anacronismo:11 quan-
to avrebbe dovuto vivere un ‘nocchiero di Colombo’ per poter menzionare
“Camilla in Roma” (T.152.5), la sorella di Sisto V, che dimorò nell’Urbe dal
1585 al 1590? Naturalmente si potrebbe rovesciare la prospettiva, accettare
cioè l’ipotesi indirettamente suggerita da L. che il dialogo Ospitaliero/Geno-
vese si svolga nel primo Cinquecento;12 e quindi considerare la menzione di
Camilla (e altri casi analoghi) come un accidentale anacronismo;13 ma con il
passaggio da Città a Civitas, in partic. con le allusioni a Tycho e Gustavo Adolfo
di Svezia (144.26), nonché alla Bolla antiastrologica papale (142.25), riferenti-
si entrambe a eventi degli anni Trenta del XVII sec., tale prospettiva sarebbe as-
solutamente insostenibile (v. n. 136.4-6).
E poi, come spiegare questa parallela ‘promozione’ gerarchica del marinaio? È
possibile che inizialmente l’Au. avesse pensato di rispecchiare attraverso il pro-
nome personale una differenza di status fra un (presunto) cavaliere e un mari-
naio, ma, per svista, a causa della distanza fra le due battute e/o a causa dell’‘at-
trazione’ esercitata dal costante uso del ‘tu’ da parte dell’Ospitaliero, l’abbia
subito abbandonato. In L. l’aporia pronominale viene sanata nel modo più
economico, cambiando un solo pronome, il primo (“Già t’ho detto”). L’u-
niformazione pronominale avrà però comportato di riflesso anche una neces-
saria promozione – poteva infatti un ‘semplice’ marinaio rivolgersi così fami-
liarmente a chi lo ospitava, Cavaliere o meno che fosse? Un eccesso di zelo ‘no-
bilitativo’ poi lo ha proiettato troppo indietro nel tempo, addirittura nel glo-
rioso equipaggio colombiano. Nella successiva traduzione latina, esemplata su
un ms diverso dall’antigrafo di L., C. ha ovviato a entrambi gli errori, elimi-
nando tanto il primo pronome (2.4: “Narravi iam quo pacto…”) pur mante-
nendo successivamente la seconda persona singolare (22.2: “Verumtamen dico
tibi…”), quanto l’anacronistica allusione a Colombo.
Infine, la genovesità del viaggiatore e ancor più il presunto status cavalleresco
dell’interlocutore non affiorano mai nell’operetta; a prescindere dal generico

11
Firpo 1970, p. 380: “un marinaio genovese ch’era a bordo delle navi di Colombo”; Battista,
p. 730: “il Genovese è addirittura un protagonista della scoperta dell’America”; il commento
di Plastina – “si deve osservare che il Colombo di cui parla il C. non può esser identificato
con Cristoforo Colombo, giacché nel corso del dialogo si parla di cose, come il cannocchia-
le, che furono inventate dopo la morte del navigatore genovese” – apre la strada a tutt’altra
ipotesi, come quella di Formichetti 1999, secondo cui è “un nocchiero genovese della nave
‘Colombo’” (p. 139): ipotesi plausibile, ma presumibilmente falsa, visto che in CS quel nome
viene a cadere.
12
D’altronde, se s’interpreta “questo secolo” di T.150.10 [150.11: “hoc saeculo”], come ‘il no-
stro secolo’, esso non può che essere il XVI.
13
Sapendo per giunta che C. vi incorreva spesso – uno degli ultimi anacronismi è additato da
Firpo 1986, in Mem. ined., p. 214 a proposito del sacco di Roma.
COMMENTO AL TESTO 171

suo esser marinaio, vi sono due casi in cui Genova è chiamata in causa: a) il pri-
mo caso è forse una svista del copista (anche se un po’ strana – v. n. 54.36-56.9)
presente solo in T.54.39; b) il secondo caso, sull’onda di un empito ‘nazionali-
stico’, compare a 134.17, dove si richiama la patria di Colombo. L’ipotesi plau-
sibile è che C., sulla scia di More (che finge un Itlodeo al seguito di Vespucci),
voleva coniare una figura di marinaio la cui ‘serietà’ era garantita dalla sua so-
la origine, cioè dall’appartenere a quella razza di navigatori, che non solo ave-
va prodotto un così ammirevole Capitano (“Supera tutte le imprese umane
quella del Colombo… il più grande degli eroi” [Poët. VII II; v. 134.16]), ma che,
forte dell’esperienza, aveva contribuito a fugare le tenebre della superstizione,
in cui vagavano anche spiriti eccelsi: “Sant’Agostino e Lattanzio si burlavano
dell’altro emisfero; e ‘l testimonio delli marinari di Colombo li convince d’er-
rore” (Lettere, p. 50). Peripezie testuali o sviste autoriali hanno poi ingarbuglia-
to gli annessi: perché se non era (crono-)logico che costui, oltre che concitta-
dino, fosse anche nocchiero di Colombo, di contro era molto più logico che
un Genovese conoscesse meglio la realtà sociale e demografica della sua città
(con la quale per giunta i numeri concordano), che non quella di Napoli, ama-
ra capitale del suo Au.14
In conclusione, è probabile che inizialmente avesse intenzione di ambientare il
dialogo in epoca prossima alla Scoperta, ma strada facendo o l’intendimento si
è perso o non si è mantenuto coerente con l’impostazione iniziale, e il punto
di vista temporale dei dialoganti è venuto a coincidere con quello dell’Au.

2.4-10: Narravi iam… constiterim.


L’esordio a) finge una conversazione già in corso; e simmetricamente si con-
clude bruscamente, interrompendo un racconto che ripetutamente, nel finale,
viene rinviato (128.33, 138.4, 158.6 e in partic. 160.1); b) ricalca l’incipit di re-
lazioni di viaggi reali;15 o di viaggi immaginari, come quello mandevilliano: un
inglese “havendo passato India e le isole alte [altre?] de India, dove sono più
de sei milia leghe, per molte stagioni tanto andò circundando il mondo, che
trovò una isola nela quale udì parlare il suo linguagio” e se ne stupì; “ma io di-
co che era tanto andato per terra e per mare che lui haveva circondato fino in
suo paese” (Mandeville 1517, CXXXV). Quest’ultima è forse una delle proba-
bili fonti dell’intera prima pagina, condividendone i seguenti punti: giro del
mondo;16 sbarco coatto (“il sopresse [= sorprese] una tempesta fortissima in

14
Sebbene C. ricordi che i Genovesi, fungenti da appaltatori d’imposte per conto degli Spa-
gnoli, “han nel regno di Napoli, di 2700 popolazioni che vi sono, quasi le due mila” (Mon. Fr.,
p. 442) - sui rapporti C./Genova cfr il bel contributo di Arato F.
15
Come quella dello pseudo-Ambrogio, che utilizza lo stesso verbo a proposito del viaggio di
Alessandro in India: “e Macedoniae regione consurgens, totum pene peragravit mundum”
(PL XVII, 1135-6).
16
Anche Botero, grande esploratore di biblioteche, nella ‘Dedica a Carlo Emanuele di Sa-
voia’, esordiva: “avendo io finito una peregrinatione di tanti anni… nella quale ho girato l’u-
no et l’altro emisfero”; e così l’Itlodeo moreano.
172 LA CITTÀ DEL SOLE

mare per la quale el fo portato in una grande isola”); ritrovarsi in piena cam-
pagna; incontro con abitanti che parlano la sua stessa lingua (2.14).

2.6: Taprobanam
La geografia in CS è molto poco sviluppata, coerentemente all’economia del-
l’opera, che sacrifica i dettagli non strettamente funzionali al messaggio ideo-
logico. Dal testo comunque si ricava che:
– Città del Sole si trova a Taprobana;
– Taprobana è un’isola (64.39) equatoriale (2.10);
– è prossima all’India, da dove è fuggita la comunità di bramini (20.12, 64.16), seb-
bene dai loro ex-dominatori i Solari subiscano ancora delle persecuzioni (66.7);
– tuttavia le coordinate di quest’isola sono fuori dalle rotte occidentali, per-
ché nessuno è ancora andato a predicare il Vangelo (128.4), e anzi si direb-
be che il Genovese sia il primo europeo approdatovi; di contro i Solari co-
noscono bene cultura e tradizioni occidentali, perché mandano continua-
mente osservatori in giro per il mondo (18.16, 60.13-4);
– a precisare ulteriormente la loro collocazione, contribuisce l’indicazione
dei loro rapporti commerciali e diplomatici, che privilegiano l’area estre-
morientale: Cina, penisola indocinese e isole (84.29-31), fino al Giappone
(54.20);
– della geografia isolana non si sa quasi nulla (il monte su cui è costruita la
città, campi coltivati, foreste e strade che portano al mare sono assoluta-
mente generici), salvo forse la presenza di quattro regni (64.39) e di alcune
città assoggettate (60.8, 106.10).
In sintesi, la Taprobana di C. è un (non-)luogo ibrido, collocato all’equatore
come Sumatra, ma geo-antropologicamente simile alla Ceylon premoderna, e
scelto proprio per queste sue presunte caratteristiche: l’insularità per marcar-
ne l’alterità (ad es. 30.15sg), l’antipodicità per la prossimità al luogo di prove-
nienza dei profughi indiani, ed essenzialmente l’equatorialità, luogo dal clima
ottimale, indispensabile per la felicità individuale e sociale dei suoi abitanti.
Dato questo quadro testuale, restano due questioni aperte: cos’è Taprobana e
perché proprio Taprobana?
La prima è molto complessa e insieme poco importante. Complessa, perché vi
sono ottime ragioni (come quelle avanzate da Plastina, Flamigni, Ernst, Lerner
2001 [p. 234]) per sostenere che per C. Taprobana corrisponde a Ceylon, e ve
ne sono altrettanto valide (come quelle sostenute da Bobbio, Firpo, Amerio e
altri) per propendere per Sumatra. Trascurabile, perché: a) lo scarso rilievo
che ha la geografia, la riduce automaticamente a mera cornice spaziale ‘qual-
siasi’, e dunque ‘Taprobana’ non sarebbe altro che una pura convenzione lin-
guistica, intercambiabile sia con Ceylon che con Sumatra, per cui, come scrive
Crahay, bisogna rinunciare a pronunciarsi reputando “vain de vouloir serrer
de trop près les réalités géographiques qui figurent chez les auteurs d’utopies”
(p. 63); b) di converso, proprio per la specificità del contenuto ‘ideale’, non è
tanto la realtà ‘oggettiva’ geografica quel che conta per il testo, quanto la realtà
‘soggettiva’, cioè quel che Taprobana rappresenta per l’Au. (e quindi la que-
stione cruciale non è tanto cos’è, ma perché Taprobana).
COMMENTO AL TESTO 173

La difficoltà d’individuare con precisione su un atlante odierno la Taprobana


di C. dipende da due cause:
I) C. la designa sempre col nome di Taprobana: Salomone “per mandar dal
mar Rosso in Goa e alla Taprobana, stava tre anni a ritornare la sua armata,
cosa che in tre mesi i nostri fanno oggidì” (Mon. Sp., p. 338);17 “quei teologi
i quali pretendevano ricavare dalla Scrittura che… il paradiso terrestre si
trova nelle Isole Fortunate oppure in Tabrobrana [sic], resterebbero smen-
titi dalla esperienza dei navigatori” (Theol. III, p. 101); a proposito della pro-
bità dei Solari, dichiara: “et Plinius quam optimos in Taprobana esse narrat,
et qui vitam potius physicam quam civilem vivant” (Quaest. pol. IV I, p. 102);
così pure gli abitanti sono chiamati, salvo che a 66.7 (“Taprobanenses”), “i
Taprobani” in Mon. Sp. XXIX, p. 314, in Astrol. (“Quod Aethyopes et Tapro-
bani, et Hispani sub aequatore colonias possidentes, possunt melius per ex-
perientiam discere” [p. 36]) e in Historia, p. 1254, che Firpo 1954 traduce:
“gl’Indonesiani”, annotando: “La Taprobana degli antichi è certo l’isola di
Ceylon, ma, per un errore comune agli atlanti del Cinquecento, C. designa
con tal nome Sumatra” (p. 1446). Ciò prova almeno che non si tratta di un’i-
sola immaginaria come Utopia, collocata in un luogo non ben precisato del-
l’Oceano (Firpo 1979, p. 54).
II) La seconda difficoltà dipende dall’assoluta discordanza delle fonti. In una
delle principali ediz. cinquecentesche della Naturalis historia (nota a C. – vi al-
lude proprio in Quaest. pol. IV), è contenuta una chiosa del traduttore, a pro-
posito di Taprobana, che fotografa l’esitazione dell’epoca: “L’isola di Tapro-
bana hoggi si chiama Sumatra, et dicono gli scrittori, ch’hanno ultimamente
fatto questo viaggio l’anno 1520 che dove Tolomeo, Plinio et altri cosmografi
hanno posto la Taprobana, non è isola alcuna che si possa creder esser quel-
la. Ma Andrea Corsali afferma, che la Taprobana non è altramente Sumatra,
ma è l’isola di Zeilan [= Ceylon] cento leghe sotto Calicut” (Plinio [Domeni-
chi], VI XXII, p. 157). Nella Geografia di Tolomeo, Taprobana segnava l’estre-
mo limite sudorientale del mondo abitato, all’opposto dell’isola di Ierné (=
Irlanda), che delimita il mondo a nord-ovest. A partire dalla metà del Quat-
trocento, prima con i viaggiatori italiani,18 e poi con le spedizioni portoghesi

17
Allude a 1Re 10, 23-8, in cui si parla di una città “Tharsis”, di “Coa” e dell’isola di Ophir, do-
ve Colombo credette di essere approdato (invece era Haiti – Anghiera, I I, p. 4); ancora Pao-
lino: “Salomonis naves tres circiter annos navigationis ad insulam Taprobanem seu Ceylan
impendebant” (Systema, p. 307); ma oggi tali nomi sono d’incerta interpretazione e colloca-
zione secondo la Bibbia concordata.
18
Niccolò dei Conti visita entrambe le isole: in mezzo a un lago di Ceylon vi è “una città re-
gale che circonda tre miglia”, governata “da certe genti che discendono dalla stirpe di Bra-
mini, i quali sono riputati i più savii che altre persone, perciò che non attendono ad altro,
tutto il tempo della loro vita, che agli studii della filosofia, e son molto dediti all’astrologia e
alla vita più civile”. Sumatra “è quella che appresso gli antichi è detta Taprobana… [le genti]
sono molto crudeli e di pessimi costumi… gli uomini pigliano quante donne lor piacciono”
e addirittura “i Taprobani mangiano carne umana, e le teste usano in luogo di monete” (Ra-
musio, II, p. 793-4).
174 LA CITTÀ DEL SOLE

nel Cinquecento, si era scoperto che l’isola tagliata dall’equatore non era
Ceylon, considerata la mitica Taprobana e l’edenica sede del paradiso terre-
stre,19 con il suo ‘pico de Adam’ avente sulla vetta la gigantesca impronta del
nostro progenitore; l’isola equatoriale, dunque era invece Sumatra, descritta
però come un luogo altamente ‘inamoenus’ con paludi e cannibali. A Plinio
si richiama anche il Botero geografo (evocato in Quaest. phys. XXIV IX, App.,
p. 236): “Plinio fa mentione della Taprobana, e prima di lui Ovidio: ‘Quid ti-
bi si calida, prout, laudare Syene, / Aut ubi Taprobanen Indica tingit aqua?’.
La qual Taprobana è sotto l’equinottiale” (I IV, p. 194); e non solo nelle Rela-
tioni dedica un paragr. a ‘Zeilan’, la più “eccellente” e “fertile” delle isole del
golfo del Bengala, “detta da gli antichi Taprobane” (I II, II, p. 24); ma nel
1607 scrive appositamente un Discorso per ribadire la sua teoria, in seguito al-
l’obiezione sollevatagli da “un cavaliere portoghese di molto giudicio e sen-
no”: costui “meravigliò confidentemente meco che nelle mie Relationi univer-
sali io avessi scritto che l’isola di Zeilan fosse quella che gli antichi chiamaro-
no Taprobana; contra l’oppinione commune, che vuole che Taprobana sia
quella che si chiama oggi Samatra [sic]”. Tranne Barros, I, 169r-v, infatti, tutti
gli autori cinquecenteschi20 ritengono ormai assodato che la Taprobana di
Tolomeo sia Sumatra – compresi i due cartografi, che C. considera prope-
deutici agli studi geografici (Syntagma IV VI): Ortelio (1570) e Mercatore
(1594). Ortelio, nella tav. dell’Asia (p. 3), la identifica in Sumatra (“Samotra
olim Taprobana” è l’indicazione sulla carta), mentre nella descrizione dell’A-
sia è chiamata solo col nome Taprobana: “Insulae quae huic Asiae ascribun-
tur, inter fere innumeras, hae sunt praecipuae… Taprobana et Zeilan in In-
dico Oceano”, riportato identico nell’Atlas minor di Mercatore curato da Io-
docus Hondius (= G. De Jode) nel 1607, dove per la prima volta Taprobana
sparisce dalla mappa, e restano solo l’isola di “Ceylon” e l’isola di “Sumatra”.
Ma anche i cartografi prendono abbagli sorprendenti: la tavola dell’Asia che
accompagna le Relationi boteriane riporta correttamente “Zeilan” sotto l’In-
dia, mentre sotto l’Equatore vi è “Samotra olim Taprobana”. Il che significa
che l’ignoto cartografo non ha rispecchiato il dettato testuale (anche Suma-
tra per Botero, I III, p. 197 è sotto l’equatore, ma non è Taprobana), bensì l’o-
pinione (e la cartografia) corrente. A far inclinare Firpo a quest’ultima ipo-
tesi, sarebbe stato quel passo di Varthema che dice che a Taprobana/Sumatra
vi sono: “quattro re de corona, li quali sono Gentili” (p. 272), proprio come a
64.39. Il che, ammesso pure che il dato sia attinto da fonti esclusivamente sto-
rico-geografiche (e non anche trans-storiche [v. n. 64.39-66.1]), è vero solo a

19
Com’era nei sogni dei Padri fino a Colombo (Collo e Crovetto, p. 65; Gil, p. 134-153); “in
essa [= Ceylon] è tanta dolcezza d’aria, tale fertilità di terra e copia di fiumi e d’acque perpe-
tue, che si dice questa esser già stata la stanza de’ primi nostri Padri” (Maffei, I, p. 180); “mol-
ti s’imaginano che qui [= Taprobana] già ci fusse il Paradiso Terrestre” (Magini, II, p. 192v).
20
Acosta, 48r; Varthema, p. 272; Maffei, I, p. 53 (pur con incongruenze, ad es. in I, p. 435:
“andò a Ceilan, ovvero alla Taprobana”); Garzoni, p. 552 (che si rifà all’ed. Ruscelli [1561]
della Geogr. di Tolomeo); Magini, II, 192v.
COMMENTO AL TESTO 175

metà, perché anche a “Zailon sonno quatro re tutti Gentili; non ne scrivo le
cose de ditta insula perché essendo questi re in grandissima guerra fra loro,
noi non potessemo star lì molto… In questa insula è bonissimo aere… e qui
non è né troppo caldo né troppo freddo… È posta questa insula sotto la linea
equinoziale” (p. 148-50). Oltre ai punti di contatto con la Taprobana di CS (il
principale è l’equatorialità; ma in più si specifica che i quattro re di Ceylon
sono bellicosi, cosa che non è detta per quelli di Sumatra), quel che è ancor
più interessante è che nella redazione ramusiana (I, p. 845) dell’Itinerario di
Varthema, mentre a Ceylon vi sarebbero “quattro re, tutti gentili” (e la nota
curatoriale rinvia proprio a Plinio: “quattuor satrapiae”), invece di Sumatra,
dice che “al parer mio (come ancor molti dicono) credo che sia la isola Ta-
probana, nella quale sono tre re di corona, li quali sono gentili”. Anche per
Magini Ceylon ha quattro reami, mentre Sumatra/Taprobana alcuni la sud-
dividono “in quattro Regni, altri in dieci e altri in ventidue. Ma otto ne sono
solamente noti”. Una testimonianza incontrovertibile, ma ignoro se C. la co-
noscesse, la fornisce Garzoni: “L’isola Taprobana oggi detta Somotra o Suma-
tra o Salice, che è sotto l’imperio di quattro re, sta all’incontro di Cori pro-
montorio dell’India” (p. 552). L’esistenza di quattro regni a Taprobana, in ef-
fetti, si basa presumibilmente proprio su un’equivoca interpretazione plinia-
na: chiuso il capitolo taprobanese, nelle edizioni attuali della Nat. hist., il suc-
cessivo (= XXV) si apre così: “Haec conperta de Taprobane. Quattuor satra-
piae, quas in hunc locum distulimus, ita se habent”; intende dire che adesso
riprende a parlare dei quattro regni persiani, cui aveva accennato preceden-
temente (p. 78: “Etenim plerique ab occidente non Indo amne determinant,
sed adiiciunt quatuor satrapias… Quatuor vero satrapiae mox paulo, ad Ta-
probanam insulam festinante animo”). Quella frase, che invece nelle ediz.
cinquecentesche (Plinio [Victorius]) chiude il capitolo taprobanese, è resa
così dalla traduzione coeva (Plinio [Domenichi]): “Le quattro satrapie lequa-
li differimmo in questo luogo, stanno così” (p. 159). Come si può constatare,
il passo pliniano si prestava, per la sua collocazione e per una certa sua ambi-
guità, ad esser mal interpretato o mal ricordato, e quindi collegato a Tapro-
bana (e non alla Persia). L’equivoco risale al Medioevo come prova il De mo-
rib. dello pseudo-Ambrogio (PL XVII, 1133), il quale narra di uno “scholasti-
co Thebaeo”, che decide di visitare “insulam quae Taprobane vocatur… in
qua illi, quibus beatorum nomen est, longissimam aetatem vivere asserun-
tur… Huic quattuor moderantur reges seu satrapae, inter quos unus est
maximus, cui caeteri subjacent, obediuntque, ut ille scholasticus referebat
(Ptolemaeus, lib. VII Geographiae, c. 4)”. Rinviando alle singole note per gli
svariati elementi di contatto fra la Taprobana ambrosiana e campan., si noti
come i quattro re isolani sono chiamati anche ‘satrapi’, a conferma dell’equi-
voco derivato da un’inesatta lettura (o tradizione) del testo pliniano.
In breve: se per Barros e Botero, Taprobana è sicuramente Ceylon (suddivisa
però in nove regni; mentre Sumatra ne avrebbe avuto ventinove “innanzi che i
Portoghesi entrassero nell’India” [I II, II, p. 23]), per tutti gli altri invece è Su-
matra, pur con notevoli imprecisioni e indecisioni: Andrea Corsali in una pri-
ma lettera a Lorenzo de’ Medici scrive di “Sumatra, che dicon esser la Tapro-
176 LA CITTÀ DEL SOLE

bana… sotto la linea dell’equinozial si trova”; ma in una successiva (28.9.1517),


senza chiare motivazioni, cambia idea: “l’isola di Zeilam, di sotto di Calicut C
leghe… mi pare la Taprobana, e non Sumatra, come mi dicono molti, quan-
tunque l’anno passato scrivessi il contrario” (Ramusio, I, p. 53); Maffei: “l’Isola
Ceilan, la quale, come s’è detto di sopra, Giovanni de Barros si sforza di prova-
re con molti argomenti essere l’antica Taprobana… si divide in nove Satrapie,
ovvero regni” (I, p. 180-1); Ortelius nell’‘Elenco dei termini geografici recenti
e barbari’ del suo Synonymia, alla voce ‘Sumatra’ rinvia a Taprobana, dove però
curiosamente si legge: “Maris Eoi insula maxima est. Hodie Zeilan nomina-
tur… Mercatori tamen ‘Sumatra’ dicitur”; e addirittura già nel XVII sec., a con-
ferma del perdurante tentennamento, il curatore stesso dell’Atlas minor di Mer-
catore, Hondius, nel 1607 candidamente scrive che fra l’ipotesi tolemaica (Ta-
probana= Ceylon) e quella di Mercatore, “ego rem in medio relinquo”.21
Se dunque le fonti ‘specialistiche’ tentennano ancora un secolo dopo che quei
mari erano regolarmente battuti da spedizioni occidentali, non è improbabile
che anche C. continuasse a chiamare pre-modernamente un’isola equatoriale
orientale, non solo e tanto per la vischiosità dell’onomastica geografica (quella
per cui ancora oggi comunemente si dice ‘ex Congo’ e non Bothsvana), quan-
to perché lui stesso non ha le idee chiare. E forse poco gli importerebbe di
averle, perché quel che conta non è tanto una questione ‘nominalista’ (come
ribattezzare Taprobana: Ceylon o Sumatra?), quanto il fatto che i viaggiatori at-
testino l’esistenza di un’entità geografica che possiede le stesse caratteristiche
che fanno di Taprobana Taprobana. Alla fine del XVIII sec. uno dei primi insi-
gni studiosi di cose indiane, il Paolino, chiarisce definitivamente: con Tolomeo
“li Romani, come Plinio, Solino… la chiamano Taprobane… Noi la chiamiamo
Ceilan, Zeilan… Tutte queste etimologie schiarite provano evidentemente che
Sailan… è l’antica Taprobane, molto ben descritta da Plinio… Legendolo non
si può sbagliare, e son sogni quelli di Sonnerat, di Andrea Corsali, di Massimi-
liano Transilvano, di Barttema [= Varthema], di Pigafetta, che pretendono che
l’isola di Tolemeo… sia l’isola di Sumatra” (Viaggio, p. 372). Più recentemente
Broc, che pur ritiene che ‘Taprobane’ si riferisca sempre e solo a Ceylon, rico-
nosce tuttavia l’aleatorietà delle designazioni geografiche utopiane: “Senza
dubbio, all’origine dei miti geografici, troviamo quasi sempre frammenti di ve-
rità, ma questa verità, spesso modesta, viene abbellita e amplificata fino a far
nascere grandiose costruzioni dello spirito. Dalle terre immaginarie ai regni
utopistici c’è solo un passo: l’Utopia di Tommaso Moro o La Città del sole di
Campanella sono gli esatti contemporanei della Terra australis dell’Eldorado dei
cartografi… In effetti Utopia è a-geografica, fuori dello spazio terrestre, allo
stesso titolo della Città del sole… proiezioni dello spazio mentale nel vuoto geo-
grafico” (pp. 111 e 144); invece per Lestringant, p. 53: “Les progrès de la navi-

21
Cfr G. Mangani, Il ‘mondo’ di Abramo Ortelio. Misticismo, geografia e collezionismo nel Rinasci-
mento dei Paesi Bassi, Modena, Panini, 1998; J. Schulz, La cartografia tra scienza e arte. Carte e car-
tografi nel Rinascimento italiano, Modena, Panini, 1990.
COMMENTO AL TESTO 177

gation… font en outre reculer ou s’évanouir les îles-bornes comme l’‘ultima


Thulé’ de Virgile… où la légendaire Taprobane des Anciens… dont le nom
passe de Ceylon à Sumatra”.22
E veniamo così alla seconda questione – perché proprio Taprobana? –, che è
poi la vera questione. Dalle citazioni intra- ed extratestuali, si comprendono
due cose interrelate: “noi attendiamo, secondo la sua promessa, ‘i cieli nuovi e
la nuova terra’, in cui abiterà la giustizia” dice l’Apostolo (2Pt. 23, 13); dove
possono stare i Mondi Nuovi della giustizia, se non nel Nuovo Mondo? Oltre a
questi generali afflati millenaristici, vi è poi una ragione d’ordine pratico-geo-
grafico: Taprobana, declassata dalle spedizioni occidentali da sede dell’Eden a
emporio commerciale (il Genovese più che un’inedita rotta di scoperta, per-
corre una rotta commerciale ampiamente rodata), non ha cessato per questo
di essere un paradiso terrestre, grazie a un clima temperato dovuto alla sua
equatorialità, per cui i giorni sono uguali alle notti. Ecco che cosa rende non
intercambiabile, non ‘nominalistica’ la scelta di Taprobana a patria del popolo
eletto: la sua ‘antipodicità’ (ovvero ‘novità’, ‘alterità’) e la sua equatorialità
che, da ex-sede dell’Eden (v. supra i cit. Magini e Theol. III) o fondale esotico
qualsiasi, la elegge a presupposto indispensabile per impiantarvi una società
naturale (e non soprannaturale) ideale, in virtù di quella ‘temperies’ che da
climatica diventa fisiologica, morale e quindi politica (v. n. 2.10, n. 152.17-8).
È più difficile, ovviamente, rispondere all’altra metà della questione: come mai
la scelta è caduta proprio su Taprobana? La difficoltà principale deriva dall’ec-
cesso di input che C. aveva a disposizione: Diodoro (II XIII [I, p. 120]), il cui
Iambulo, secondo alcuni,23 c’era arrivato davvero a Taprobana/Isola del Sole,
ma si era inventato le istituzioni di quella “republica quanto meglio ordinata
che si seppe imaginare di quel paese… infiniti anni avanti che Platone scrives-
se la sua Republica” (Ramusio, I, p. 903-7); anche Petrarca, nel De vita solitaria, –
nota Firpo – ne loda gli istituti democratici: “si elegge per arbitrio del popolo il
re, e non si valgono la ricchezza o la nobiltà del sangue, ma tutto il favore si at-
tribuisce alla virtù, di maniera che la ricchezza o il parentado non li rimuove
dalla elezione del migliore”; e pure More non si sottrae almeno ad un accenno
alla mitica Taprobana: nel viaggio di ritorno da Utopia, Itlodeo “mirabili tan-
dem fortuna Taprobanen delatus, inde pervenit in Caliquit” (More 1518, p.
28);24 e neppure Ariosto è immune al fascino dell’isola: Alcina profetizza ad
Astolfo, mentre a cavallo dell’Ippogrifo guarda “la terra di Tomaso” indiana, le
“mille isole” dell’Oceano (tra cui “Taprobana”: XV, 17), che fra sette età (i set-

22
Per l’intera questione cfr M.-T. Gambin, ‘L’île Taprobane: problèmes de cartographie dans
l’Océan Indien’, in: M. Pelletier (a c.), Géographie du monde au Moyen Âge et à la Renaissance,
Paris, 1989 (p. 191-200).
23
“Nonnullis Iamboli insula [= Taprobana] videtur, a Diodoro Siculo descripta” (Ortelius, Sy-
nonymia).
24
Firpo traduce: “in circostanze straordinarie venne trascinato a Ceylon, donde raggiunse
Calicut”, quest’ultima menzionata anche in CS (84.31); Itlodeo sarebbe il primo europeo ad
abbordare l’isola venendo da est, reduce dalla spedizione di Magellano.
178 LA CITTÀ DEL SOLE

te secoli che vanno da Carlo Magno a Carlo Quinto, quando cioè Dio “vorrà
porre il mondo a monarchia, / sotto il più saggio imperatore e giusto”: XV, 24)
nasceranno i nuovi Argonauti: Colombo, Cortés… gli stessi eroi che ritroviamo
in CS (158.32).
Quindi dalle opere e relazioni geografiche C. ha cavato i pochi dati funzionali:
l’assenza di Paradisi edenici; l’equatorialità; i quattro regni bellicosi che giusti-
ficano la loro urbanistica, insuperabile (4.15-8) quanto il loro apparato milita-
re (66.14); gli abitanti che vivono una vita più prossima a natura che a cultura
(questo è poi il significato di Quaest. pol. IV I, p. 102 – i Solari invece sono civi-
li[ssimi] e ‘naturali’ insieme); e infine insularità+antipodicità, per ‘isolare’ ap-
punto la purezza della comunità da contaminazioni con popoli corrotti (la
“malvagità” che si ritrova in altre zone del mondo collocate all’equatore “di-
pende dalla mescolanza con quanti vivono ai tropici, ciò che nella nostra re-
pubblica evitiamo” [ib.; v. infatti 80.2-5]), e anche per farla risaltare sulla realtà
degradata: “Taprobane è stata a lungo considerata un altro mondo [alterum
orbem terrarum], conosciuto con il nome di terra degli Antictoni” (= abitanti
dell’emisfero australe – Plinio [Conte], VI, [24] 81): l’“altro mondo”, che era
stato scambiato dai Padri per l’Altro mondo edenico, diventa in C. un mondo
altro. Lancioni ha ricostruito “lo strano caso Ceylon-Taprobane” (p. 194), e
cioè il proliferare e vagare di quest’isola nella cartografia cinquecentesca, con-
cludendo (p. 205-6): “ironia della sorte, dopo tanto cercare, al posto di Tapro-
bane, là dove gli antichi avevano situato l’Altro Mondo [= gli Antictoni], tro-
viamo davvero l’Altro Mondo [= Utopia]… Un’identificazione definitiva di Ta-
probane ed Utopia può essere quella di T.C. che situa su Taprobane la Città del
Sole”.
Per concludere, alla domanda iniziale – perché quella Città del Sole, che dove-
va sorgere nella patria dell’Au., è emigrata in un’isola antipodica? –, la risposta
più suggestiva ci sembra quella data da Nigro, p. 1153: “Nel ‘non luogo’ artifi-
cioso dell’utopia che sottintende e nega la città reale, si colloca l’altra Napoli
di C.: ‘sotto l’equinoziale’, sulla linea dell’Equatore”; come dire: la Città del So-
le è agli antipodi, perché è un mondo antitetico, rispetto a quella Napoli sim-
bolo dello sfacelo occidentale (56.38).

2.6-8: coactusque… sylvam


Sarà una di quelle selve ricche di selvaggina (84.12), in cui i Solari praticano
l’arte venatoria, che per loro è anche una forma di esercitazione militare
(76.10): Botero parla delle foreste di Ceylon come luoghi ottimali per la caccia
(I II, II).
Diversi esempi di sbarchi su isole, anche coatti, e inselvamenti si ritrovano nel-
la Storia vera di Luciano: “Approdammo [sull’isola, sbattutivi da una tempesta],
dunque, e, sbarcati, ci gettammo a terra stanchi di sì lungo travaglio, e così
stemmo lungo tempo… Non c’eravam dilungati un tre stadii dal mare per la
selva…” (libro I); attraccati all’isola dei Beati, inselvatisi e poi, usciti dal bosco,
“avanzandoci per un prato fiorito, incontrammo le guardie… e ci menarono
alla signoria” (libro II). Più frequentemente evocata dalla critica è la remini-
scenza dantesca dell’‘inselvamento’, il quale però non va considerato come
COMMENTO AL TESTO 179

una premessa a un viaggio “di conoscenza e purificazione” (Bolzoni 1977, p.


76), bensì come smarrimento in un territorio ostile, il che implica una distopia
naturale (la foresta come ‘locus inamoenus’) a contraltare della prossima eu-
topia culturale; l’effetto ricercato, insomma, è quello retorico del brusco rove-
sciamento di destini: dalla selva oscura alla salvezza Solare (a Dante, sulle so-
glie dell’Eden, Beatrice dice: “Qui sarai tu poco tempo silvano / e sarai meco
senza fine cive, di quella Roma onde Cristo è romano” [Purg. XXXII, 100-2]).
Inoltre quel che rende l’incipit dell’Inferno uno dei referenti più probabili,25
sono altri due elementi: solitudine del Narratore-Protagonista; omissione del
come e perché egli sia capitato proprio in quel luogo. Il motivo del suo imbo-
scamento, però, cambia da Città (T.2.7-9: scampare a un pericolo reale, un at-
tacco degli isolani) a Civitas: pericolo ipotetico da ignoti abitanti;26 in entram-
be le redazioni, e più chiaramente in latino, non si dice mai, però, che il Ge-
novese “per salvare la vita da un attacco, è costretto a sbarcare” (come pensa
Bolzoni 1977, p. 76). Civitas, derubricando il pericolo da concreto a potenzia-
le, mostra che l’incidente/accidente dello sbarco è indipendente da quello
dell’inselvamento, lasciando tuttavia ancor più aperto un interrogativo (da
chi/cosa il Genovese è costretto a sbarcare?), la cui insolubilità sta a indicarne
l’assoluta irrilevanza agli occhi dell’Au. che, secondo un tratto ricorrente in re-
lazioni di viaggio in luoghi più o meno immaginari, non avverte l’esigenza di
raccontare dettagliatamente le peripezie, ma solo il sito visitato: a partire da
Diodoro27 fino a More, che, pur narrando molti dettagli sulle esplorazioni di
Itlodeo nella fascia equatoriale (5-7), lascia nel vago lo sbarco a Utopia. Per
giunta Ceylon godeva di una fama sinistra circa l’approdo, come si può ricava-
re sia da Palladio (p. 52) che dallo pseudo-Ambrogio (PL XVII, 1133): intorno
all’isola vi erano migliaia di isolette calamitose, perché calamitanti le navi com-
messe con chiodi o parti di ferro.28 Anche i viaggiatori moderni ne constatano
la pericolosità: Maffei racconta che Lorenzo Almeida, “solcando i mari inco-
gniti fu il primo de’ Portoghesi, che trasportato dalla forza della corrente s’ac-
costò ai liti dell’isola Ceilan” (I, p. 180); e lui stesso si salva a stento dal naufra-

25
A prescindere dalla ben nota ammirazione di C. per Dante, massimo “poeta cristiano”, che
“ebbe assai del pittagorico, ché beneficando il publico ha sempre favellato” (Poetica, p. 428).
26
C. sapeva bene che gli indigeni non accoglievano i ‘Conquistadores’ sempre a braccia aper-
te: gli Spagnoli “sopra la Florida Spagna e Nuova Francia e sopra Baccalaos e sopra Messico
nel settentrione non hanno potuto entrare, sendo ributtati da terrazzani” (Mon. Sp.).
27
II XIII (I, p. 120): Iambulo e un suo anonimo compagno, fatti salire a forza su una piccola
imbarcazione, dopo quattro mesi “furon trasportati ad un’Isola di forma rotonda… E come
si cominciarono a venire all’Isola accostando alcuni huomini di essa facendosi loro incontro,
tirarono alla riva la scafa. E gl’altri che quivi concorrevano, meravigliandosi della venuta di
questi forestieri, con molta benignità e piacevolezza gli ricevettero”, facendo loro vedere
“tutte quelle cose le quali eglino appresso loro si ritrovavano”.
28
È la contaminazione di due notizie della Geografia di Tolomeo, di cui Gil (pp. 49 e 65) for-
nisce altre testimonianze, a cui si può aggiungere Mandeville, che però accredita questa leg-
genda all’isola di “Oriens” [= Hormuz] e all’impero del Prete Gianni (CXXXIX e CLXV).
180 LA CITTÀ DEL SOLE

gio a causa delle secche che la circondano; proprio quelle secche che salvaro-
no Taprobana dall’assalto dei Cinesi, i quali abbandonarono l’impresa “per un
naufragio di 80 vascelli, che perderono nello stretto che è tra l’isola e il Conti-
nente, pieno di basse, scogli, sirti, che non si può navigare se non per un cana-
le” (Botero, I II, II, p. 25).

2.10: sub aequatore


Alla possibile obiezione che situare all’equatore la Città del Sole è stata una
pessima scelta, perché “Tolomeo, Virgilio, Aristotele e gli antichi scienziati col-
locano fra i Tropici e ai Poli regioni inabitabili per il troppo caldo o per il trop-
po freddo, e gli equatoriani, essendo di costituzione fisica caldissima, hanno
spiriti astuti, sottili e caliginosi, non certo sapienti… e infatti non si è mai visto
fiorire sotto l’Equatore una nazione che ambisse all’egemonia mondiale”; a ta-
le obiezione, C. risponde seccamente: “i suddetti filosofi si sono sbagliati: infat-
ti sotto l’equatore vi è un clima costante [= perpetua est temperies], perché la
notte è uguale al giorno… Invero è sotto i Tropici che le terre sono aride e le
complessioni caliginose, per il sostare del Sole e del giorno e per la mutazione
dell’orizzonte. Plaga felice chiama, al contrario, Telesio la zona equatoriale, e
quelli che ci abitano non hanno nulla da invidiare ai migliori uomini in assolu-
to. Durando e molti teologi vi collocano, dato il clima, il paradiso terrestre”
(Quaest. pol. IV, p. 100-2).29 La “zona torrida”, cioè l’“intervallo fra un Tropico e
l’altro”, che “abbraccia 46 gradi, ai quali rispondono in terra 840 leghe” (Bote-
ro, I III, p. 197), secondo Telesio si suddivide in due fasce climatiche: quella
equatoriale, che è ottimale, perché il Sole allo zenit è sì intensissimo, ma per
una breve durata, compiendo “il giro diurno con moto velocissimo… La regio-
ne equinoziale è dunque temperata e beata… Mentre la regione che non dista
molto da questa e che è quasi intermedia tra l’equinoziale e i tropici è bruciata
al massimo dal Sole, che vi sovrasta molto a lungo e compie il suo moto diurno
con una certa lentezza” (IV, 4 [II, p. 19]).
Se queste sono le fonti principali, gli obbiettivi polemici sono Aristotele, Me-
teor. II, 5, 362b e Tommaso, ST I, 102, 2, secondo il quale “sotto il cerchio equi-
noziale non esisterebbero uomini, e questo per carenza di nozioni fisiche e
geografiche e per fedeltà ad Aristotele cui ha voluto credere più che alle ragio-
ni di Alberto Magno e Avicenna” (Apologia, p. 13).30 Ma anche un altro S. Tom-

29
L’ottimalità del clima equatoriale è uno dei refrain campan.: Epilogo, p. 208; Physiol. III II,
p. 10; Gentilismo, p. 40; Medicina, p. 57; Astrol. II II, II; in Syntagma II II, esorta a “non respinge-
re a prima vista ciò che non s’accorda con il tuo intelletto; infatti troviamo molte verità che
prima collocavamo tra le cose impossibili, come quella secondo cui non era possibile vivere
all’equatore”.
30
A p. 29 dice che Tommaso avrebbe potuto spiegare il calore mortale equatoriale ricorren-
do alla spada fiammeggiante di cui parla la Genesi (3, 24): “Foedius errarunt, qui zonam tor-
ridam esse gladium flammeum angeli custodientis viam paradisi docent; cum iam nihil im-
pedimenti viatoribus & navigantibus zonam illam afferre compertum sit” (cfr anche le note
20-2 a p. 207 dell’ed. Lerner dell’Apologia, da cui si evince che tutte le ‘auctoritates’ antiche e
COMMENTO AL TESTO 181

maso, più prossimo e più utopista, reputava l’equatore inabitabile per l’eccesso
di calore (More, 6). Di contro un aristotelico convinto come Acosta, giunto in
Perù trovò la “zona torrida” così fredda che doveva mettersi al Sole all’aperto:
“che altro potevo fare, dunque, se non ridere delle Meteore di Aristotele, veden-
do che in quel luogo e in quella stagione, mentre secondo le sue regole ci sa-
rebbe dovuto essere un calore bruciante, io e tutti i miei compagni avevamo
freddo?” (I, p. 105).31

2.12-3: in agmen… armatarum


Come il Genovese scoprirà in seguito, infatti, i Solari “exeunt omnes armati in
campos ad arandum” (80.26; in Oecon., del resto, consiglia di tenere nelle case
coloniche “servi, canes molossi et arma rustica”, cioè gli attrezzi agricoli [II V,
p. 206]), accompagnati da trombe, tamburi e gonfaloni, ma anche da pattu-
glie: “custodes territorii discurrunt interim armati semper per vices” (80.37).
Invece secondo Battista, p. 734 e Ernst 1996, p. 47, è “un gruppo addestrato e
determinato di sentinelle”, tra cui ci sono anche donne (76.4). “Agmen” (o
“squadrone”) in CS non è termine spiccatamente militare: delle altre otto ri-
correnze in Civitas metà si riferisce a corpi militari (68.21, 34 e 36; 80.6) e altri
quattro casi riguardano schiere ‘civili’, prevalentemente scolaresche (26.18 e
32; 32.25); inoltre le donne hanno ruoli militari limitati e complementari
(62.38sg), e in partic. le loro escursioni extraurbane, anche quelle civili (34.15-
23), sono sempre perimeniali. Tuttavia a 68.36-40 ritroviamo sia un’espressione
affine e sia le donne in armi: in guerra i Solari sogliono “conducere agmen
puerorum armatorum… et mulieres multae armatae”.

2.14: nostrum callebant idioma,


“Anche noi se udissimo parlare uno Scita nella nostra lingua ci stupiremmo
forse di più” (Theol. IV [II, p. 163]). In Diodoro la poliglossia degli abitanti del-
l’isola di Iambulo dipende da una loro meravigliosa peculiarità ‘linguale’: sono
dotati infatti di una lingua biforcuta, grazie alla quale, “e dal loro ingegno poi
aiutati… non solamente imitano ogni umana favella”, ma addirittura riescono
a parlare con due uomini contemporaneamente, impiegando, con ognuno,
una delle due metà della lingua (II XIII [I, p. 121]). I Solari, più realisticamen-
te, si dedicano, da piccoli, allo studio delle lingue (32.14-5), i cui alfabeti sono
esposti sinotticamente nella prima cerchia muraria (12.30); è un segnale di
apertura e insieme necessità di attingere ai contributi scientifici delle altre na-
zioni (18.12-5; v. n. 12.30, n. 32.12-9).

medievali, da Tolomeo ad Alberto Magno [con riserve], concordano sull’inabitabilità dell’e-


quatore, salvo Pietro d’Abano [XIII sec.]; Lerner rinvia per l’intera questione a G. H. T. Kim-
ble, Geography in the Middle Ages, New York, 1968, p. 162-4).
31
Cfr anche De natura novi orbis libri duo…, Salamanca, 1589, II, cap. 1-14; per la caduta della
credenza dell’inabitabilità della zona torrida, in seguito alle scoperte geografiche, cfr Broc,
p. 48-9.
182 LA CITTÀ DEL SOLE

2.16: ratione
“Ratio assume presso i filosofi molti significati”, tra cui: “criterio che regola l’i-
deato e l’ideante”, come ad es. “in Sallustio, nella Catilinaria: ‘Vi mostrerò il
modo [= rationem] di evitare questo’” (Comment., p. 763). Per ‘ratio’ equiva-
lente di ‘modus’ (e che, associata a ‘philosophandi’, indica il ‘metodo’) cfr
Lerner 2001, pp. LIV e XCVI.

2.19: collis
Collina molto estesa, non molto alta (altrimenti sarebbe un ‘mons’, espressa-
mente scartato in Quaest. pol. IV, p. 102: “montes asperrimos ut minus civiles ef-
fugimus, colles elegimus ad robur civitatis”): “è monte un altissimo tumore di
terra, detto dal montare… È colle un minor monte, e quasi un monticello”
(Magini, 2v), definizione derivata da Isidoro (“montes sunt tumores terrarum
altissimi… Colles sunt praeeminentia montium iuga, quasi colla” [XIII VI]). Fu
proprio Colombo che ad Haiti “super edito igitur colle a septentrione civita-
tem erigere decrevit… Inhaeret praeter ea huius montis radicibus vasta plani-
ties, longitudinis millium passuum circiter sexaginta” (Anghiera, I III, p. 30).
Ma la fonte potrebbe esser Maffei, come parrebbe di capire dalla concordanza
di molti altri dettagli descrittivi: a Ceylon “vi sono monti vestiti di selve, che pie-
gate in forma di teatro fanno una bella vista, e nel mezzo v’è rinchiusa una
gran pianura di lungo circuito a simiglianza del piano del teatro, uno de’ qua-
li s’alza da terra quasi sette leghe, e va sempre molto diritto, e nella cima v’è un
piano molto uguale” (I, p. 180-1: il paragone col teatro può aver contribuito al-
l’idea di una struttura urbana a gironi circolari degradanti, anche se a simme-
tria rovesciata).
Nei suoi memoriali C. promette di “far fabricare una città salubre ed inespu-
gnabile” (Lettere, p. 158; Lettere1, p. 62). La scelta del colle risponde sì a esigen-
ze difensive, ma principalmente igieniche: “Altitudo locorum aërem habet cla-
rum et mundificatum, quia venti septentrionales ab altis locis nascentes ad al-
tiora loca cito penetrant. Aqua igitur eorum clara, subtilis et dulcis est. Homi-
nes pulchri coloris, fortes et sani, corpora eorum magna: humiles sunt et man-
sueti”; ‘De locis convenientibus habitationi humanae’: “In locis altis homines
sunt sani, fortes et laboris multum patientes, diu vivunt” (SN IV CXII e VI XIX).
Ciò spiega, almeno in parte, perché la Città del Sole sia edificata in cima a una
collina che degrada fino al piano, e non sul mare, come sarebbe stato più ov-
vio, trattandosi di un’isola (si pensi ad Amauroto, porto dell’isola di Utopia),
nonché più conforme allo spirito dell’epoca. Infatti gli urbanisti, sull’onda del-
le ricchezze e dei progressi procurati dalle scoperte o dai traffici marittimi,
esaltano le città marinare: “Genova, Napoli, Anversa, Amsterdam testimoniano
la potenza e i benefici del porto”, sostiene Scamozzi nell’Idea dell’Architettura
universale [1615] (cit. da Finotto, p. 176). Oppure, anziché per una collocazio-
ne intermedia, perché non optare per una soluzione decisamente montana,
molto più protetta, come suggeriva l’altra fonte principe di quest’utopia, Pla-
tone (Leg., 704-5)? Dagli atti processuali sappiamo che, se non fosse fallita la ri-
volta del 1599, la vera Città del Sole sarebbe dovuta sorgere sul monte Consoli-
no che sovrasta Stilo (a cui in gioventù [1598] aveva dedicato un sonetto: ‘So-
COMMENTO AL TESTO 183

vra il monte di Stilo’ [Poesie, 101]), distante una decina di Km dallo Jonio: “Per-
ché incitasti [sogg.: C.] all’istituzione della repubblica sulle montagne con l’e-
loquenza e le armi?” (Supplizio, p. 97); “riferivano i congiurati: ‘il monte di Sti-
lo si sarebbe chiamato monte pingue e di libertà’” (Bobbio, p. 31). In Aphor. e
Politica VII, 3-4, Quaest. pol. III, ‘in 1’ e Quaest. pol. IV I, C. analizza le due ipote-
si topografiche rivali, difendendo la sua scelta, a partire da quella geografica
equatoriale: Aristotele (Pol. VII, 6) propende per la città portuale (marittima o
fluviale) per due ragioni: a) facile accessibilità per uomini e merci; b) arricchi-
mento demografico e culturale dei cittadini; per ragioni etiche e strategiche,
“Platone invece ritiene [Leg. 704-5] che la libertà si tuteli meglio sui monti”
(Quaest. pol. IV, p. 100). Purtroppo ognuna di queste soluzioni comporta anche
degli svantaggi: per la città-mercato di Aristotele, poca sicurezza, corruzione
dei costumi e conseguente rischio di diventar preda della tirannia, ancor più
probabile nelle isole; per la città-fortezza di Platone, scarsità di popolazione e
scomodità logistica, che, impedendo un agevole scambio di cose e persone, in-
selvatichisce gli abitanti. Pertanto per una città il sito ottimale, cioè che coniu-
ghi i benefici delle due soluzioni precedenti, senza i rispettivi handicap, è un
colle non lontano da un porto, che presenta per la ‘salute’ degli abitanti van-
taggi:
– morali, in quanto si evitano le commistioni di costumi stranieri potenzial-
mente corruttori (80.1);
– politici: “ad robur civitatis” – sebbene la sicurezza della città, più che dal col-
le, è assicurata dall’architettura e dalla virtù dei suoi abitanti;
– fisici: luogo ben ventilato, e quindi salubre;
– spaziali: una città costruita in collina può avere fino al doppio dello spazio
disponibile rispetto a una città equivalente costruita in pianura (4.3-4);
– ‘panoramici’: “sopra i monti e i promontori, in verità, [le città] si edificano
più comodamente per difendere la libertà, la legge e la virtù… È necessario
poi avere attenzione… alla possibilità della vista ad oriente e verso le altre re-
gioni celesti” (Politica VII, 4); a metà fra strategia e astrologia, si colloca la
città panottica (il colle Solare si eleva solitario al centro di un’immensa pia-
nura); sia in senso attivo: sulla panoramicità insisterà Alberti: “conviene fon-
dare la città nel centro del suo territorio, in posizione tale da poter tener
d’occhio fino i margini della propria zona, discernere quanto conviene fare,
e intervenire al momento giusto dove è necessario; e tale che i fattori e i col-
tivatori possano recarsi ai campi quando vogliono e tornarsene poi traspor-
tando il raccolto… A mio parere la posizione migliore per fondare una città
dovrebb’essere una zona pianeggiante situata in montagna o un rialzo in
pianura… Gli antichi, e principalmente Platone, consigliano di fondare le
città a dieci miglia dal mare… Parimenti la positura di una città sopra la cre-
sta eminente di un’altura riesce di grande vantaggio al suo decoro, alla sua
piacevolezza, e soprattutto alla sua salubrità e sicurezza” (De re aedif. I IV, p.
36 e IV II, p. 278-80 – un trattato, che, secondo De Mattei 1953, contiene an-
ticipazioni della futura città campan.). E che il panorama sia anche requisi-
to urbanistico indispensabile lo conferma, quasi due secoli dopo (1615),
Scamozzi, esortando a prediligere i “luoghi più elevati, ricchi di aria pura, di
184 LA CITTÀ DEL SOLE

acque dolci e chiare, di belle prospettive” (Finotto, p. 176). Ma la Città del


Sole è ‘panoramica’ principalmente in senso passivo: più che città che guar-
da, è una città da guardare; già Aristotele dava come ottimalmente dimen-
sionata la città che si può abbracciare “con un unico sguardo” (Pol. 1327 a2);
Doni vanta la radiocentricità della sua città utopica, perché agevola l’oriz-
zontarsi. In CS l’occhio fisico è stato sostituito da quello mentale, uno sguar-
do comunque onnicomprensivo, che domina l’intero panorama del sapere:
“la Città del Sole, idea de ottima republica e di ottima città inespugnabile, [è]
tanto riguardevole che mirandola solamente s’imparano tutte le scienze
istoricamente” (Lettere, p. 389; Lettere1, pp. 24, 62) – la panottica è diventata
enciclopedia.
La topografia ideale di C. contempla dunque una località prossima a un porto:
né troppo lontana, per non pregiudicare gli scambi; né troppo vicina (o, peg-
gio, coincidente), per evitare che l’intrinseca immoralità dello spirito mercan-
tile e il contatto con costumi sociali eterogenei contagino gli abitanti; non la
montagna, perché l’eccessiva asperità l’isolerebbe inselvatichendoli. La mora-
lità è, fra tutti, il vero punto qualificante, perché “la felicità di vita e la prospe-
rità dello stato non deriva dal sito ma dalla virtù” (Quaest. pol. IV, p. 102). Per il
resto, nella Città del Sole, all’incremento demografico ci pensa un’eugenetica
adeguata (al contrario di Platone e More, C. non crede si debba limitare il nu-
mero di abitanti); e a ottimizzare il clima, oltre al sito collinare, contribuisce
l’urbanistica (quattro strade nelle quattro direzioni dei venti: 4.7-8) e l’archi-
tettura (le case sono dotate di finestre contrapposte: 4.39-40). Dall’unione di
eugenetica razionale e clima (e quindi sito) favorevole, inoltre, si ottengono
temperamenti eccellenti. Il nesso clima/carattere, implicito in CS (es. 152.17),
esplicito in Quaest. pol. IV, derivato da Platone, medicalizzato da Ippocrate, è ri-
preso da Della Porta e comprovato dagli ottimi mercenari svizzeri:32 mentre gli
abitanti delle pianure, per la monotonia del clima e del paesaggio, sono pigri e
vili, gli abitanti dei monti sono “atti alle fatiche, alle guerre, a tutti i virili eser-
cizi; e fra tutti sono audacissimi” (Fisonomia VI XI, p. 975-6), aggiungendo, con
un fitto corteo di ‘auctoritates’ antiche, che gli abitanti delle (piccole) isole e
in genere di luoghi marittimi sono per natura ladri, perché essendo questi luo-
ghi “secchi, sono di secco temperamento, e [ciò è anche causato] dal sole del
mare, nel quale di continuo versano” (VI XV, p. 991).
C. non propone, comunque, nulla d’inedito come possono testimoniare: Cice-
rone, De rep. II, 5-11; Vitruvio, I IV; Eusebio, 617A-618B; Alberti, che, curiosa-
mente, scrive che una città in una zona di difficile accesso “poteva piacere più
delle altre ad Aristotele” (I IV [p. 34]);33 e, tra gli utopisti cinquecenteschi: Mo-

32
Cfr il sonetto ‘A Svizzeri e Grisoni’ (41); Antiven., p. 78: “li Svizzeri… vivono [in] repubbli-
ca populare sopra quelli monti, separati dalla gente, dove stanno invitti”.
33
Per l’esattezza, in Pol. 1327a 5-15 e particolarmente VII, 11, Aristotele ritiene che “la posi-
zione ideale [sia] in alto”, purché di facile comunicazione col mare, in luogo salubre come
esposizione ai venti, e ben difesa.
COMMENTO AL TESTO 185

re, 79; Brucioli caldeggia anche lui questa soluzione ‘anfibia’: occorre che “la
città possa repugnare facilmente contro a quegli che le volessero fare violenza,
e questo si farà più facilmente, se ella sia partecipe del Mare e della Terra, aven-
do l’aiuto d’ambedue le parti” (VI, 43v); Patrizi: “in parte edificata sopra colle
rilevato, perché sia più esposta all’aure… in parte posta al piano, dove la fred-
dura non può aver così gran forza” (p. 95).34
Ma un ruolo altrettanto determinante per la scelta di un tale sito collinare
l’hanno avuto le suggestioni allegorico-profetiche cristiane, a partire dalla Ge-
rusalemme celeste, costruita “sopra un monte grande ed eccelso” (Apoc., 21,
10; Is. 2, 2; 11, 6 e 9; 65, 18 e 25: “si godrà la gioia, l’allegrezza eterna in grazia
di quanto io sto per creare. Ecco, io creo Gerusalemme per l’esultanza ed il suo
popolo per la gioia… Non vi sarà più male né distruzione sopra tutto il mio
monte santo – dice il Signore”; Eb. 12, 18-22: “Voi non vi siete accostati ad un
monte che si poteva toccare… Vos autem accessistis ad montem Sion et ad civi-
tatem Dei vivi, ad Ierusalem quae est in coelo”); passi che C. cita spesso: in
Mon. Messiae: “montem sanctum tuum”, il monte Sion, “in quo constituitur Da-
vid Rex praedicans praeceptum Dei, sciunt omnes esse Ecclesiam” (III, p. 17);
in Art. proph., a proposito proprio dei vaticini sul secolo aureo prossimo ventu-
ro (p. 87); ‘Fundamenta eius in montibus sanctis’ è l’incipit del Ps., 86 [87],
cioè della profetica visione della Gerusalemme messianica, ed è anche il titolo
del paragr. incipitario dei Disc. univ., dedicato ai lineamenti dell’“ottima repu-
blica descritta da’ filosofi”, ma che sarà realizzata quando “regnarà per tutto il
mondo solo il vicario di Cristo” (I, p. 1120).
Al sacro monte, in ambito cristiano, fanno capo almeno due tradizioni: la Mon-
tagna del messaggio universale (prima di Dio a Mosè e poi di Cristo ai discepo-
li), su cui bisogna inerpicarsi per ascoltarlo e quindi poter conseguire la salvez-
za: “certe ita: Mons ecclesia appellatur, de quo dicit Propheta: ‘Mons Dei, mons
uber’ [Ps. 67]. Ascendit ergo Christus in montem, ut illic discipulis suis myste-
ria traderet veritatis, ostendens quoniam omnis qui vult discere mysteria verita-
tis, in montem ecclesiae debet ascendere” (Crisostomo, In caput Matthaei V,
Hom. IX [II, 796C]).35 L’altro archetipo è l’Eden: nel ‘Comment.’ all’Orth. fidei
II XI di Damasceno (che sosteneva l’orientalità dell’Eden), De Billy, a fine ‘500,
scrive che ovunque fosse, “scimus eum terrenum esse, et interiecto oceano et
montibus oppositis remotissimum a nostro orbe, in altum situm, pertingentem
usque ad lunarem circulum, unde aquae diluvii illuc minime pervenerint”
(214H). Dunque il Paradiso terrestre (o celeste: Olimpo) “si sviluppa sull’apice
di un luogo ritenuto in qualche modo separato dalla natura indifferenziata e
prossimo al cielo, collegato ad esso da una montagna… In quanto nesso privi-

34
Cfr S. Plastina, La figura e l’opera di Francesco Patrizi da Cherso nella critica più recente, ‘B&C’
III/2 (1997, p. 335-44); Francesco Patrizi, filosofo platonico nel crepuscolo del Rinascimento, a c. di P.
Castelli, Firenze, Olschki, 2002; e Mazzoni, De triplici hominum vita [1576], n. 1219 (cit. da Fir-
po).
35
Quest’omelia pare non sia da ascrivere al Crisostomo.
186 LA CITTÀ DEL SOLE

legiato fra terra e cielo, una montagna trasferisce il proprio prestigio ai feno-
meni architettonici – i templi, per onorare e ospitare il dio – che la coronano;
di riflesso, anche la città circostante acquista un carattere sacro” (McClung, p.
45). La montagna sacra, la montagna purgatoriale in cima alla quale c’è l’E-
den, “in attesa di raggiungere la vera città del sole, quella celeste” (Agazzi); la
montagna di Astolfo “che non lontan con la superna balza / dal cerchio de la
luna esser si stima”, sulla cui vetta “surgea un palazzo in mezzo alla pianura, /
ch’acceso parea di fiamma viva / … che più di trenta miglia intorno aggira”
(Orlando Furioso XXXIV, 48-52): il palazzo del Paradiso terrestre è fatto di pie-
tre preziose, come la Gerusalemme Celeste dell’Apocalisse (e infatti non a caso
il suo guardiano è S. Giovanni). Strofe, queste, menzionate in Theol. IV, p. 188
e addirittura lodate da C. in Poët. VIII IX: “Dottissima quella [favola] dell’Ario-
sto, che narra… ciò che i Padri immaginano sul Paradiso terrestre” (p. 1101);
sebbene lui dubiti che ci sia un Paradiso terrestre in una qualche isola beata
(Poët. IX VI, p. 1199: “l’isole Fortunate, dove gli antichi posero il paradiso, son
le più sparadisate del mondo”), o in cima a un colle: “circa il luogo del paradi-
so la disputa è viva. Alcuni infatti lo pongono su monti altissimi, dove secondo
una leggenda prodotta da semplicità di spirito e raccolta dai Padri il cielo si
congiunge alla terra. Questo è vero soltanto se si prende il cielo per l’aria, ma
allora ogni monte si congiunge al cielo” (Theol. IV [II, p. 187]).36 Il mito di Ge-
rusalemme invece permane, e su due piani: quella terrestre sarà la ‘caput mun-
di’, quando il mondo diverrà un unico ovile con un solo pastore (ad es. Theol.
XXVII IV, I: ‘Ierusalem reaedificandam fore sedem saeculi aurei potiusquam
Romam et caput monarchiae Christi’); quella Celeste è evocata esplicitamente
da C. a proposito del tentativo insurrezionale in Calabria (Supplizio, p. 141:
“Come risulta da Ezechiele e dall’Apocalisse, avrà luogo sulla Terra questo felice
Stato ecumenico… a guisa di preludio per quella Gerusalemme che si erigerà
in Cielo”; Lettere, p. 43: “al fine le reliquie dopo la rovina [= i superstiti] s’edifi-
caranno in novo tempio e nova Ierusalemme”).
Diffusamente, inoltre, raffigurazioni di una Gerusalemme idealizzata presentava-
no analogie patenti con l’urbanistica Solare: la xilografia di Hartmann Schedel
[1493] (Kruft, p. 56) replicata, esattamente un secolo dopo, in un anonimo inta-
glio su legno (McClung, p. 99), la raffigura in pianta elevata, con in vetta il ‘Tem-
plum Salomonis’ e con triplice fila di mura circolari concentriche, degradanti
lungo un colle, dalle numerose porte collocate simmetricamente lungo lo stesso
asse radiale, con i palazzi compressi fra le mura tanto che sembrano far blocco.

2.27: Politicis Quaestionibus,


C. affiancò la sua trattatistica con degli apparati, a volte sterminati, di Quaestio-
nes in cui discute le tesi altrui e confuta le obiezioni mossegli; in partic. delle

36
Cfr anche Apologia, pp. 13 e 57, e le corrispondenti note di Lerner 2001, pp. 207-8 e 289,
con annessa bibliografia sulla localizzazione del paradiso terrestre dall’Antichità al Medio
Evo, da P.-D. Huet [1691] a J. Delumeau [1992]: circa le congetture dei Padri – gli antipodi,
una montagna altissima addirittura fino alla Luna – Apologia è drastica: “iam deceptos eos, ex
navigantium testimonio apparet”.
COMMENTO AL TESTO 187

quattro Quaestiones Politicae presenti in Philosophia Realis, “due [sono] dedicate


a temi trattati nel De politica e altrettante dettate a difesa del modello utopico
descritto nella Città”, nelle quali – scrive C. – “analizzo i punti oggi dibattuti a
causa dell’empietà degli uomini e della feroce bramosia di dominio, e difendo
in breve il mio Stato ideale al lume della natura e dell’autorità della Scrittura
sacra” (cit. e tr. di Firpo 1982a, p. 376; ma cfr anche Ernst 1996, p. 33-4). Le
quattro Quaestiones Politicae riguardano: I) ‘De Dominio et Regno’ (“se sia la
stessa cosa regnare e dominare”); II) conseguenze potenzialmente nefaste
(Machiavelli, Maometto) della teoria politica aristotelica; III) ‘De optimo [sic]
Republica’ (tradotta da Firpo 1982a, p. 379-89: ‘Sulla più perfetta forma di Sta-
to’), dove attacca la Pol. aristotelica (v.20.43-4); IV) ‘Super tertia parte epilogi-
stica in appendicem de Republica’, ripartita in tre articoli in cui tratta dell’op-
portunità di aggiungere in appendice alla sua Politica la Civitas, delle tesi con-
trapposte di Platone e Aristotele circa la comunanza dei beni, e risponde an-
che ad obiezioni su altri punti specifici marginali.37

2.29: cathechismum
“Immagino tale repubblica [= Città del Sole] in ambito pagano, i cui abitan-
ti, in attesa della rivelazione di una vita migliore, si rendono meritevoli di
conseguirla, in quanto la loro organizzazione è conforme a ciò che detta la
ragione naturale. Si può dire che essi vivano in un periodo che prelude alla
vita cristiana, proprio come, nel Contro Giuliano, Cirillo dice che la filosofia è
stata data ai gentili come introduzione [= catechismus] alla fede evangelica”
(Quaest. pol. IV I, p. 107). La filosofia quale “catechismus ad fidem” è formula
che C. attribuisce erroneamente a Cirillo;38 infatti, come rilevava Femiano
(p. 168), probabilmente C. si confonde con Stromata I di Clemente Alessan-
drino: “Cette probabilité est renforcée par le fait que, dans un autre passage
du Gentilismo (art. 2, p. 29), C. écrit: «Data est enim gentibus ait Clemens
Alexandrinus et Cyrillus philosophia, ut catechismum ad fidem ab Autore na-
turae, a quo dicimur rationales naturaliter, et Christiani ex fide supernatura-
li»” (Lerner 2001, p. 213). Sulla propedeuticità del paganesimo al cristianesi-
mo, sulla razionalità del cristianesimo e sul fatto quindi che, se Cristo è la Ra-
gione universale, tutti i buoni filosofi, come i Solari, sono quasi cristiani, si
sofferma anche Atheismus (p. 85).39

37
Tradotta la prima volta da Passerini nel 1836, e quattordici anni dopo, sempre a Lugano,
da un anonimo, ristampata nelle Opere scelte di C. curate da D’Ancona nel 1854, è stata infine
ritradotta da Ernst 1996 (p. 97-173).
38
Comment., p. 682; Gentilismo I, p. 3; Apologia, pp. 16 e 20: “cum eorum [= i pagani] philo-
sophia sit catechismus, et nostra sit perfecta doctrina, teste Cyrillo”.
39
“La ragione naturale è effetto e raggio del Verbo o Ragione divina, che è Cristo, dal quale
tutti ci denominiamo razionali. E per questo tutto quanto i filosofi asseriscono razionalmen-
te, lo asseriscono come cristiani, sebbene non sappiano esplicitamente che Cristo è la prima
ragione” (Theol. I [I, p. 21]; cfr anche Atheismus, p. 85 e Frajese 1998, p. 340-1; v. n. 120.20-4).
188 LA CITTÀ DEL SOLE

2.29a: politiam
Parola d’origine greca (‘politèia’ – “perché è costituita di armati”), è usata da Ari-
stotele sostanzialmente in due accezioni: retto governo di popolo, contrapposto
alla democrazia, sua degenerazione (Pol. 1279a 37-9); “‘ariste politeia’ significa
anche costituzione perfetta” (Bertelli, p. 295), che è la seconda accezione: l’or-
dinamento ideale, mediano, è incarnato astrattamente dalle Leggi platoniche
(1265b 25); e concretamente dalla costituzione spartana: “la politia è, per dirlo in
maniera generale, una mistione di oligarchia e di democrazia… la mistione ha di
mira solamente agiati e disagiati, ricchezza e libertà”; la perfetta riuscita di questa
sintesi si ha “quando è possibile dire la stessa costituzione democrazia e oligar-
chia… e questo succede a una costituzione che stia al centro, giacché allora cia-
scuna delle sue forme estreme si riconosce in essa” (1293b-1294b). Ambrogio
usa ‘politia’ per un’organizzazione ‘politica’ a cui guarda con simpatia: la ‘re-
pubblica delle gru’ (V XIV, 50-2). Nell’Umanesimo passerà quindi a significare
genericamente forma o prassi di governo (spesso riferita all’organizzazione poli-
tica Comunale). La parola sarà d’uso corrente nel lessico giuridico cinquecente-
sco (Spinasatus, I II, 3; Botero, I IV, p. 201), e la ritroviamo frequentemente an-
che nelle opere politiche campan.: Afor. 5 e 146n; Politica III, 8: “Il dominio di
uno buono si dice regno e monarchia; di uno malvagio tirannia. Di più buoni,
aristocrazia; di più malvagi, oligarchia. Di tutti buoni, politia; di tutti malvagi, de-
mocrazia”; Oecon. III I, p. 197; Lettere1, p. 36: “non han potuto i filosofi trovar me-
glior modello di republica che la monarchia in San Pietro fondata e la politia di
tanti vescovi e arcivescovi e senato di cardinali”; Mon. Sp. XXX, p. 336, in acce-
zione strettamente aristotelica: nell’avvicendarsi circolare delle forme di gover-
no, la politia segue l’oligarchia e degenera in democrazia; Antiven., p. 79 e Disc.
Princ., p. 134, dove ‘politia’ “vale appunto: buon governo” (Firpo 1954, p. 1340;
ripreso da Amerio e Giancotti, p. 441); ma anche in una poesia del 1606 (86,
175-6): l’ape “Oh, come sape – politìa e governo / d’està e d’inverno!”, che è l’u-
nica attestazione riportata dal GDLI (nell’accezione di “prassi di governo”). Il
lemma latino, identico nel significante, lo è anche nel significato di ‘sistema di
governo’: quella del tiranno è una “fragilis politia” (Mon. Messiae I, 8); ed esorta
il re persiano affinché “politiam habeas humaniorem” rispetto alla spietatezza
dei Turchi (Quaest. pol. IV, p. 107).

4.1-3: civitatis diameter… septem;


Il metodo di tracciamento della pianta di una città (anche poligonale) s’impo-
stava a partire dal diametro; e se il diametro è un po’ più di due miglia, la cir-
conferenza (= 2πr) misurerà circa sette. Il ‘7 miglia’ di circonferenza del monte,
oltre che numero emblematico di Città, è forse retaggio e riciclaggio di Maffei (I,
p. 180-1, cit. in n. prec.) e Botero (I II, II, p. 24), che parlavano della montagna di
Ceylon alta “sette leghe”. Queste dimensioni possono esser puramente casuali.40

40
Alberti [Bartoli] ricorda che “la Città certo del Sole edificata da Busiride, la quale chiama-
no Tebe… girò venti miglia” (IV III, p. 106).
COMMENTO AL TESTO 189

Le misure della città fornite dal testo, infatti, sono insufficienti a ricostruirne la
pianta; il testo non ci dice neppure il numero dei suoi abitanti, malgrado questa
sia una preoccupazione costante tanto di Platone che di More. Ci mancano in-
fatti le tre dimensioni dell’anello abitato di ogni girone, in partic. la larghezza, e
l’ampiezza del piano sulla vetta del monte. Pertanto non è possibile sapere: a) se
la struttura a bersaglio è totalmente (dalla circonferenza al centro) o solo par-
zialmente (dal settimo al primo girone) omogenea: cioè il raggio dei 7+1 cerchi
concentrici ha un incremento costante (70+x passi), oppure lo spazio dov’è eret-
to il tempio (6.22-5), ha rispetto agli altri un raggio maggiore (y+63 passi =
[(350:6,28)+8]); b) perché i 50 passi dei gironi (T.4.26) sono diventati 70 (4.24),
e i 300 del tempio (T.8.11) sono passati a 350 (8.12-3): privi della pianta urbana,
sono possibili solo illazioni sia sulla ragione di quelle grandezze sia sulle cause
del loro aumento – pratico-funzionali, simboliche o altro?41
Le fonti: un possibile referente, specie per la minuziosa descrizione, ma anche
per una profonda identificazione dell’Au. con il Profeta esiliato e perseguitato,
è Ez., 40-8: Ezechiele rapito in estasi vede “sopra un monte altissimo… costrui-
ta una città” quadrata con al centro il tempio, la cui urbanistica presenta varie
somiglianze con quella Solare (ad es.: “un muro che lo cingeva dai quattro ven-
ti” [42, 20], che ricorda il nome delle porte Solari [4.19]; le celle e cellette
adiacenti al tempio [41, 6-7], come a 10.1-7), e naturalmente fra le numerose e
dettagliate misure fornite, alcune cifre coincidono, come il “cinquanta” (cubi-
ti) di spazio libero intorno al tempio, che è un quadrato di 500 cubiti (45, 2); o
il “settanta” (cubiti) di lunghezza dell’edificio occidentale (41, 2), l’“otto” e il
“due” (cubiti) del vestibolo (40, 9); però anche l’incubatrice di tutti i futuri vi-
venti, l’arca (Gen. 6, 15), è lunga trecento cubiti e larga cinquanta, numeri non
solo biblicamente rilevanti,42 ma anche “esemplati sulle proporzioni del corpo
umano” (Agostino, CD, 15; e C. stesso: l’arte imita la natura “e fabbrica le navi
come uccelli… le città come organismi del corpo umano” [Theol. I (II, p. 39)]).
Di queste misure faranno tesoro gli architetti: da Alberti (IX VII, p. 834) a Vil-
lalpando, che attraverso un sontuoso commento (proseguito poi da Prado) al-
la visione della Gerusalemme celeste, getta le basi di un’architettura ideale ba-
rocca (In Ezechielem explanationes, Romae, 1596-1604, 3 vol.).

4.3-4: ex gibbositate… foret.


In base al noto principio che “sarà più capace quella città che avrà pianta cir-
colare” (Alberti, IV III, p. 294), C. sostiene43 che, tra i vantaggi delle città co-

41
A proposito della minuziosità del dettaglio e dell’eccesso, diceva Sciascia: “quanto più sono
inverosimili tanto più sono nei dettagli precise” (‘Quel che Voltaire si è perso’, in: Gli amici
della Noce, Sciardelli, 1997).
42
Origene, In Genesim Hom. II (PG XII, 171): “si Scripturis sanctis intendas ex otio, permulta
invenies magnarum rerum gesta sub tricenario vel quinquagenario numero contineri”.
43
Ad es. in ‘Salmodia’ 86, 65-6: montuosità e avvallamenti rendono la superficie terrestre più
capiente che se fosse tutta pianeggiante.
190 LA CITTÀ DEL SOLE

struite su alture, vi sarebbe anche quello per cui, a parità di superficie, essa
conterrebbe “plura” che se fosse contenuta in piano; i suoi detrattori invece
obiettano che “nec plures mons capit, quam area eius” (Quaest. pol. IV, p.
100). Amerio, semplificando, prova a spiegarlo così: poiché la città si estende
lungo i fianchi del monte, “è come ipotenusa rispetto a cateto”. Il ragiona-
mento è geometricamente ineccepibile, ma architettonicamente impraticabi-
le. Infatti a 6.15-21 si dice che il dislivello viene ammortizzato attraverso le
doppie porte, e quindi proprio sotto l’anello dei fabbricati, che avranno il
muro esterno più alto di quello interno, per cui o le case hanno il pavimento
in pendenza parallela a quella del monte (con effetti comicamente immagi-
nabili); oppure hanno regolari impiantiti ortogonali alle pareti, ma in tal
modo il loro pavimento è diventato uno dei cateti. Allora in che consiste que-
sto vantaggio, tenendo conto altresì che lo spazio aperto fra i gironi è stato
terrazzato (6.14-5)? Il discorso, per giunta, avrebbe senso solo quando, in su-
perfici molto estese, l’incremento di curvatura è molto basso, e in pratica
l’arco è di poco più grande della corda; in superfici ridotte o in forti dislivel-
li, il necessario ricorso al terrazzamento annullerebbe il vantaggio. In realtà
C. non sta parlando di superficie abitativa, ma di spazio in generale – si noti
che Civitas parla di “plura” (neutro), e non di “plures” (= persone), come fa
Quaest. pol. IV; e allora, non solo è indubbio che la superficie semisferica è
maggiore (fino al doppio) dell’area del cerchio sotteso, ma poiché si tratta di
un “collis ingens” in larghezza, proprio per quanto appena detto, non sareb-
be da escludere anche una maggior capienza abitativa. Più in generale, in
Quaest. pol. IV, C. sostiene che il suo progetto urbano unisce il vantaggio igie-
nico e difensivo della città montana platonica (Leg., 778c: “sulle alture per ra-
gioni di difesa e di pulizia”; 704b-705: evitare intrusioni e contaminazioni
straniere [v. 80.1]), a quello espansivo della città marittima aristotelica, senza
patirne gli svantaggi: per la città-porto di Aristotele la scarsa sicurezza e il de-
cadimento dei costumi;44 per la città-fortezza di Platone,45 la scomodità logi-
stica e la penuria di abitanti, cui qui provvede un’adeguata eugenetica, quan-
titativa oltre che qualitativa (controllo della razza).

4.5-18: Distincta est civitas… et fossis.


L’impianto descrittivo della città utopica giace alla confluenza di una serie di
spunti disparati:
– dall’idealizzazione della città reale (le ‘laudes urbium’, sul modello delle
‘Panathenaikós’ di Elio Aristide, ma praticate già da Menandro nel III sec.
a. Cr.), si approda, secondo Stäuble (p. 41-64), alla città ideale, “la città

44
Ma v. nota 1 a pag. 192.
45
Anche Machiavelli, in base proprio a considerazioni strategiche, dettate dai nuovi arma-
menti, sosteneva che “le terre… forti per natura” sono quelle poste “sopra un monte erto…
perché quelle poste sopra a’ monti che non sieno molto difficili a salirgli, sono oggi, rispetto
alle artiglierie e le cave, debolissime” (VII, p. 597).
COMMENTO AL TESTO 191

che non esiste, ma che si potrebbe edificare (o immaginare) seguendo cri-


teri razionali” (da Vitruvio a Scamozzi, passando per Alberti e Filarete), e
infine, nel Cinquecento, si arriva alla città utopica, nella speranza che an-
che uno spazio razionalizzato possa contribuire a migliorare gli uomini. E
quindi l’impianto descrittivo della città immaginaria ricalca alcuni tratti
topici delle ‘laudes urbium’, come quella fiorentina di Leonardo Bruni
(inizio XV sec.): salubrità, posizione territoriale centrale, collocazione col-
linare (né montana, perché impervia, né marina, perché malsana), istitu-
zioni socio-politiche.
– Poi vi è il filone religioso: la città di Dio contrapposta a quella degli uomini,
secondo il modello palingenetico della Gerusalemme celeste consegnato
dalla Scrittura (Ez.; Apoc.; 1Re).
– Infine l’idealizzazione della Città non poteva trovare migliore fertilizzante
del neoplatonismo: la città non imita più la natura, ma cerca di approssi-
marsi al modello perfetto dell’‘idea’ divina – il cerchio e il quadrato, la per-
fezione e l’orientazione.

4.5-6: septem gyros… septem planetis


Al di là di suggestioni esterne (dall’Ecbatana di Erodoto,46 alla Campanel di
Botero [v. n. 20.13], due città eptamurate) e al di là del valore simbolico del
numero sette (v. nn. a p. 148), il modello sette mura/sette pianeti (cioè Luna,
Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno) risponde a tre funzioni:
– perfezione cosmica: imitazione dell’Universo, somma architettura divina;
concetto scontato e (perciò) fissatosi nel linguaggio: se ‘cielo’ è la contra-
zione di ‘casa di Helios’,47 allora una Città del Sole non può che avere la for-
ma del cielo. Del resto la pianta radiocentrica del ‘mondo savio’ di Doni – al-
tra utopica città (a forma) solare, “fabricata in tondo perfettissimo, a guisa
d’una stella” (Mondi, p. 162) – non è forse la ‘figura’ rinascimentale del So-
le, quello stesso che orna il frontespizio dell’edizione parigina (v. fig. 4)?
Che questo sia il modello principale di riferimento, lo si ricava dalla stessa
nota autoriale ([8.41]: se tempio e candelabro sono “exemplar universi”, a
maggior ragione lo è tutta la Città): i Solari, popolo pre-cristiano alla dia-

46
“Formata di cinte concentriche, la disposizione della detta fortezza è tale, che una cin-
ta non supera la vicina che dell’altezza dei merli. Il sito, che è una collina isolata, può già
in certa misura concorrere a questa disposizione; ma essa fu, per la maggior parte, realiz-
zata appositamente. Il numero delle cinte è di sette in tutto; ed è nell’ultima che si trova-
no i palazzi e i tesori. La più estesa è all’incirca della lunghezza della cinta di Atene. Nel-
la prima cinta i merli sono bianchi; nella seconda neri; nella terza porpora; nella quarta
blu; nella quinta rosso aranciato… delle due ultime, una ha i merli argentati e l’altra do-
rati” (I, 98).
47
“Pro sui [= del cielo] concameratione graece dicitur ‘uranon’ idest palatium: unde dicitur
‘coelum’ quasi ‘casa Helios’, idest Solis, quia Sol sub ipso positus ipsum illustrat” (Comestore
in SN III I; v. n. 8.28).
192 LA CITTÀ DEL SOLE

spora come gli antichi Ebrei, possono trarre solo dal Libro della Natura i lo-
ro modelli.48
– Facilità e stabilità mnemonica: Camillo dice che il suo sforzo principale è
stato quello di individuare ‘luoghi’ della memoria non caduchi, a differenza
delle altre mnemotecniche, e “che tengano sempre il senso svegliato e la
memoria percossa… pertanto piglieremo i sette pianeti, le cui nature an-
chor da’ volgari sono assai ben conosciute… Questa alta et incomparabile
collocatione fa non solamente officio di conservarci le affidate cose, parole
et arte, che a man salva ad ogni nostro bisogno informati prima la potremo
trovare, ma ci dà anchor la vera sapienza ne’ fonti di quella, venendo noi in
cognition delle cose dalle cagioni et non da gli effetti”, allo stesso modo in
cui se volessimo vedere un bosco per intero, cercheremmo “una erta, la qual
ci conducesse sopra un alto colle: del bosco uscendo, dall’erta comincerem-
mo a veder in gran parte la forma di quello; poi, sopra il colle ascesi, tutto in-
tiero il potremmo raffigurare. Il bosco è questo nostro mondo inferiore, la
erta sono i cieli, e il colle il sopraceleste mondo” (p. 53-4: l’equivalenza con
la Città del Sole è perfetta, compreso anche il Tempio in cima al colle).
– Robustezza: la forza difensiva poggia in piccola parte sulla proverbiale soli-
dità della fabbrica celeste (per la metafora architettonica del cielo v. n.
116.5), e in gran parte sulla simbolica del ‘sette’: “Salomone al nono de’ Pro-
verbii dice la sapienza haversi edificato casa, et haverla fondata sopra sette
colonne. Queste sette colonne significanti stabilissima eternità, habbiamo
da intender che siano le sette Saphiroth del sopraceleste mondo”. Il luogo
veterotestamentario cit. da Camillo (p. 51: sette colonne simbolo di massima
stabilità) è integrabile da un altro archetipo, legato da un lato alla cosmolo-
gia e dall’altro a un celeberrimo episodio biblico: le sette spire del labirinto
oppure – che per certi versi è lo stesso (cfr Kern, p. 166sg) – le sette proces-
sioni necessarie a espugnare Gerico; come già osservato (da ultimo Mollia,
p. 46) a proposito del “sette fiate” di T.4.15-6, per far cadere le mura di Ge-
rico, occorrerà che sette sacerdoti per sette giorni l’assaltino a suon di trom-
be (Gs. 6, 3-5).

4.7-9: per quatuor… quatuor spectantes.


Dei circa centocinquanta numerali presenti in Civitas, il ‘quattro’ è quello con
il maggior numero di ricorrenze (ventisei): v. 26.18, 26.30 e 106.20.49
Fonti principali: a) la Bibbia (sia per la replicazione del ‘quattro’ che dell’e-
spressione “quatuor mundi cardines”, per la quale v. n. 110.15-6): “Vidi quattro
angeli, in piedi ai quattro angoli della terra, che trattenevano i quattro venti
della terra…” (Apoc. 7, 1); in Supplizio (pp. 139 e 155) C. menziona Is.: “i figli

48
Sulle prime città edificate a immagine del cielo cfr G. Della Pergola, Le città antiche cosmo-
goniche, testo&immagine, 2001.
49
Il ‘sette’ è al secondo posto con ventiquattro occorrenze, metà delle quali però a 148.9sg:
v. n. 146.27-148.2 e da n. 148.9-15 a n. 148.21-3.
COMMENTO AL TESTO 193

d’Israele accorrenti dai quattro venti del cielo” [2, 4]; Dio “raccoglierà i di-
spersi di Giuda dai quattro angoli della terra” [11, 12]), divenuta una sineddo-
che topicamente indicante la totalità spaziale, ma che in CS ha spesso (44.3-4;
86.4; 112.21) una valenza tecnica astrale; b) Botero: “Era in Cuzco il ricchissi-
mo tempio del Sole… Eravi una piazza spaziosa, onde erano tirate 4 strade alle
4 porti [sic] dell’imperio”; e c’era anche il tempio “dell’idolo Vitzilpuitzli”, che
“aveva quattro porte, volte alle quattro parti del mondo, e a ciascuna risponde-
va una strada lastricata lunga sei e più miglia” (V I, 6). Ma anche la meno spa-
zio-temporalmente esotica Vitry-le-François, voluta da Francesco I a metà Cin-
quecento, ha i quattro assi viari principali denominati e orientati cardinalmen-
te (Klein, p. 314).50
Se Vitruvio prevedeva un accesso alla città sghembo, per agevolare la difesa,
che divenne regola aurea nel Medio Evo (“Curandumque maxime videtur ut…
portarum itinera non sint directa, sed scaeva” [SD XI XXI]), nel Rinascimento
invece Francesco di Giorgio Martini opta per la simmetricità e la linearità degli
assi viari: “Se la città fusse locata in un poggio rotondo… le strade che proce-
dono dal centro alla circunferenzia debbano sempre essere dritte, et a le porti
correspondere” (Tratt. di Arch. III, cit. da Le Mollé, p. 297).

4.15-8: Ego… et fossis.


Al poeta epico, C. consiglia di non essere sfornito nelle “cose della guerra”, at-
tingendole dalle “fortificazioni ed espugnazioni, descritte da Vegezio ed Eliano
secondo gli antichi e, doppo le bombarde, dal Brancaccio [e] Cesare d’Evoli,
versati in queste arti, e dal filosofo Col’Antonio Stigliola più secondo la mate-
matica” (Poetica XV, p. 360);51 visto che di solito “prevale molto più l’offesa che
la difesa”, Brancaccio sostiene di aver inventato “nuovi modi fuor del solito co-
stume… benché siano di molto maggiore spesa, non di meno sono fortissimi…
com’è a dire beloardi [= baluardi] spiccati dal recinto… e in oltre fossi larghi e
profondi, con terrapieno in dentro verso l’abitazione con altri beloardi, cava-
lieri e piatteforme, come se fusser due fortezze l’una dentro l’altra… acciò se
per assalto l’inimico si impadronisse del primo recinto, ritrovasse maggior dif-
ficoltà nel secondo per non poterlo battere, né minare, o zappare” (p. 136). In
seguito, durante il soggiorno padovano, C. può aver avuto altre due occasioni
per imbattersi in problemi di architettura militare: la costruzione della fortezza
di Palmanova, il cui architetto era il fiorentino Buonaiuto Lorini (nel Grandu-
cato era stata edificata, fra le altre fortezze a pianta razionale, ‘Eliopoli’); e poi

50
Le Mollé (p. 286-7) la considera, dopo Sforzinda e con la Città del Sole, uno dei pochi ca-
si di città ideali rinascimentali che s’ispirano a un modello cosmico.
51
Per notizie e bibliogr. degli autori cit., cfr la nota di Firpo 1954, p. 1373; inoltre per Nicola
Antonio Stigliola (o Stelliola) cfr Formichetti 1999, pp. 29 e 40; Lerner 2001, p. 171-2, ed
Ernst 2002, p. 260; secondo DBIt, autore di Della vera disciplina è Giulio Cesare e non Lelio
Brancaccio, il quale alla fine degli anni Ottanta “si offriva a Venezia come consulente per i la-
vori di fortificazione della cittadella di Bergamo”.
194 LA CITTÀ DEL SOLE

le lezioni tenute da Galileo che furono raccolte in due trattati sull’arte delle
fortificazioni (Opere II, p. 79-146).

4.19: portam Aquilonarem


L’ingresso dalla porta Nord non ha alcun significato recondito; è, al più, una
reminiscenza biblica: Ezechiele è trasportato in visione da Dio a Gerusalemme,
“iuxta ostium interius quod respiciebat ad aquilonem” (Ez. 8, 3). Denomina-
zioni analoghe si ritrovano anche in città ideali, come la Sforzinda filaretiana,
dove ogni torre ha il nome di un vento (p. 136); anche le sei torri dell’esago-
nale abbazia di Thélème hanno nomi ‘cardinali’, a partire da quella Nord che
si chiama “Artica” (Rabelais, Gargantua I, 53). Circa la foggia e la fattura delle
porte urbane, ecco le testimonianze più approssimabili a CS:
– quelle del tempio di Salomone sono doppie porte, in cui la meravigliosità
dell’artificio consiste, oltre alla preziosità della lamina d’oro che ricopre il
legno, nella chiusura simultanea della doppia coppia di battenti, dovuta al
fatto che di notte non restava nessuno nel tempio e dunque non si sarebbe-
ro potute chiudere dall’esterno le porte interne;52
– le porte del Tartaro virgiliano (menzionate da C. in Comment., p. 743): “Por-
ta adversa ingens solidoque adamante columna, / ut nulla virum non ipsi
excendere ferro / caelicolae valeant” [= nessuna forza umana o divina riu-
scirebbe ad attaccarle e distruggerle] (Aen. VI, 552-4);
– Colonna descrive dettagliatamente come le “gemelle valve” del tempio di
Venere si aprono da sole senza far rumore: “opera excellente et exactissima
non solamente de vedere, ma oltramodo di subtile excogitato… di artifice”
(p. 206-7);
– le città cinesi sono compartite da “due vie larghissime che s’incrocicchiano
insieme e tanto diritte, che scuoprono agli occhi de’ riguardanti quattro
porte coperte di piastre di ferro con ornamento magnifico e con entrata
molto bella a vedere” (Maffei, I, p. 365-6 – foderarle di metallo serviva a ir-
robustirle, ma anche “dicono che le porte coperte di cuoio e di ferro si di-
fendono dal fuoco” [Alberti (Bartoli) IV IV, p. 110]);
– le porte, ma delle case, “sono a due battenti: basta una spinta della mano ad
aprirle, e poi si richiudono da sole” (More, 177);
– uno dei modi per fortificare le porte è ricorrere alle “saracinesche, per po-
tere mettere dentro i suoi uomini quando sono usciti fuora a combattere…
le quali calandosi escludono i nemici e salvono gli amici”, elogiando un si-
stema “ad uso di graticola” dei Francesi, nel quale basta allentare “le catene
e lasciano calare tutta quella parte ingraticolata, la quale abbassandosi chiu-
de il ponte” (Machiavelli, VII, p. 601-3).

52
1Re 6, 33-4; Comestore, XVIII (in SH I LXXVII): “In latere meridiano erant quattuor portae
duplices valvas habentes, quae laminis aureis et argenteis miro opere erant decoratae” - le
‘porte’ del tempio, “cioè le colonne”, sono chiamate “valvas” a 102.35.
COMMENTO AL TESTO 195

4.25: moenia.
Indica le mura di delimitazione della città (64.23 e 78.22), a precipuo scopo
protettivo; in questo unico caso coinvolge il secondo girone (che è anche abi-
tativo) per pura economia della frase, essendo le mura dei gironi interni de-
nominati ‘parietes’ (4.40), ‘muri’ (6.41) o ‘moeniana’ (6.7 e 40.6). Rabano
Mauro, De Universo XIV I (PL CXI, 384): “moenia sunt muri civitatis dicta ab
eo quod muniant civitatem… proprie autem moenia sunt tantum muri: mu-
rus autem turribus propugnaculisque ornatur” (che riecheggia proprio 4.17-
8, ed è replicato a 76.2-3). L’idea di un blocco unico case-mura risale a Leg.,
779ab di Platone: “Se bisogna veramente che un qualche muro di difesa ab-
biano gli uomini, è necessario che fin da principio si gettino le fondamenta
delle case dei privati, in modo che tutta la città stessa sia una fortezza, e tutte
le case siano disposte sulle strade in modo regolare, fatte nella stessa forma,
adatte alla difesa; non è spiacevole a vedersi una città che ha l’aspetto di una
sola casa, e sarebbe anche cosa eccellente per la sicurezza dei singoli e dello
stato sulla base della facilità con cui si presta alla vigilanza” (cfr anche Crizia,
117de).

4.26-6.10: Dehinc visuntur… superiorum.


È solo in Civitas che si coglie con chiarezza qual era il reale (il finale?) pro-
getto urbano solare: salvo il settimo, costituito da sole mura con apparati di-
fensivi (4.15-8), l’anello edificato degli altri “gironi” (T.4.7 - lemma dantesco
[GDLI]) è formato da un corpo centrale a due piani, porticato non solo so-
pra e sotto, ma anche sul lato esterno e interno: il piano inferiore è adibito a
magazzino o servizi comuni; il superiore è abitativo, sempre comunitaria-
mente; la superficie muraria dei portici è affrescata sopra e sotto (è l’enci-
clopedia illustrata di 12.6sg). Lo spaccato laterale di un girone è costituito
dunque da sei settori con quattro destinazioni diverse: i porticati superiori
esterni (4.28 e 6.5) e interni (4.37), cui si accede per una scalinata marmorea
(4.36), essendo affrescati con soggetti “più nobili” (6.9; 16.26sg), sono desti-
nati a ospitare le lezioni sulle arti speculative (40.5); i vani contigui, come si
è detto, sono abitativi (4.36); quelli inferiori esterni hanno pitture a soggetto
meno elevato (18.11), come pure quelli interni, dove vi è l’ingresso per gli
edifici (4.34), e dove si praticano anche le arti meccaniche (40.4), essendo i
locali adiacenti officine e laboratori (38.30). La comparazione ai “claustra
monachorum” di 4.33 esplicita infine il modello (comunitaristico religioso)
cui si ispira l’urbanistica della Città. Non a caso, nell’Oecon. (II II, p. 191-2),
C. indica analoghi requisiti prevalentemente d’ordine igienico per la costru-
zione di una casa, tra cui, prima di tutto, la salubrità dell’aria: fresca d’estate,
calda d’inverno, esposta a venti sani, il che significa un luogo sufficiente-
mente elevato (in luoghi bassi vi è aria stagnante e quindi mefitica), ma non
troppo, onde permettere un agevole rifornimento delle provviste; e conclude
dicendo che la porta principale molto ampia deve dar accesso ad una corte,
possibilmente con peristili “quasi monasteriorum claustra”, su cui si aprano
cantine, dispense, depositi di attrezzi e stalle.
196 LA CITTÀ DEL SOLE

4.29: fornices
I “revellini” (di norma sono delle fortificazioni a protezione dei punti deboli
della cortina muraria – principalmente delle porte53 –, ma nella Città solare so-
no delle logge sporgenti a mezza altezza dai palazzi) e i “passeggiatori” (T.6.5 =
camminamenti di ronda) diventano corridoi e porticati in Civitas: l’aspetto bel-
licistico della Città del Sole viene lievemente depresso a vantaggio di quello di-
dattico.

4.30-4: substentantur… monachorum.


Per la loro grossezza (‘crassities’) non c’è quasi spazio fra una colonna e l’altra;
così sono i portici della città di Saba, in Arabia, descritta da Diodoro, III III (I,
p. 156), che aveva usato lo stesso predicato di 6.13: “fulciantur”.

4.39: fenestras
La loro funzione è prevalentemente igienica (non estetica): quando il passag-
gio dei venti purificatori è “impedito dalle case, vi suppliscono le finestre con-
trapposte, in modo da chiudersi alle correnti nocive ed aprirsi a quelle benefi-
che” (Quaest. pol. IV, p. 103), come insegnavano Virgilio (Georg. IV, 297-8), Al-
berti (I XII, p. 80), e lo si ritrovava in Agostini.

6.15-21: Attamen… elationibus.


La città collinare dunque è costituita dall’alternanza di anelli a raggio decre-
scente: uno intermeniale terrazzato ed uno edificato e delimitato da doppia
cinta muraria (e quindi doppia porta), nel quale necessariamente si dovrà
smaltire il dislivello, la cui pendenza è comunque molto addolcita dal partico-
lare tipo di scalinate d’accesso. Nella versione italiana non ne è ben chiara la
modalità (Bobbio, Pirovano, Mollia: tracciato obliquo della scalinata; Firpo,
Amerio: taglio inclinato nell’alzata minima dei gradini); e questa ambiguità
trapassa anche nella latina: “oblique inceditur” è da intendere rispetto all’asse
orizzontale del procedere o a quello verticale del salire? La rampa della scala è
obliqua (ovvero zigzagante), oppure base e alzata del gradino formano un an-
golo ottuso (obliquo, appunto)? Pur condividendo l’obiezione di Firpo a Bob-
bio (“scale oblique toglierebbero l’allineamento delle porte successive e la sim-
metria evidente delle quattro strade”), tuttavia il “quoniam oblique inceditur”
risulterebbe ridondante, perché su un piano inclinato non si può che proce-
dere inclinatamente. Tutto sta nel come s’interpreta il correlativo (“inceditur
et quasi”): se è un correlativo puro, che unisce due dati eterogenei, ovvero l’o-
bliquità orizzontale e verticale, allora rampa e gradini sono inclinati; se invece
quell’“et” sottende una consequenzialità (= ‘e quindi’), per cui la seconda fra-
se è una deduzione/amplificazione della prima, allora solo i gradini (taglio e
calpestio) sono obliqui.

53
Bisogna “coprire le porte con rivellini, in modo che non si entri o si esca dalla porta per li-
nea retta, e dal rivellino alla porta sia uno fosso con uno ponte” (Machiavelli, VII, p. 601).
COMMENTO AL TESTO 197

8 (glossa): Templi structura in cacumine


I suoi principali tratti simbolici (centralità, modello dell’universo, ecumenicità
e, principalmente, fusione del potere spirituale e temporale), ritornano anche
l’ultima volta che C. lo descrive: nella città chiamata ‘Eliaca’, il Delfino “innal-
zerà nel mezzo un tempio a guisa di quello del cielo, / reggia del sommo sa-
cerdote e regale senato, / e deporrà gli scettri dei regni davanti agli altari di
Cristo, / ed emanerà quelle leggi, che un tempo insegnarono i profeti” (‘Eclo-
ga’ [169, 239-42]).
Oltre che a Doni e all’architettura conventuale con deambulatori porticati, la
‘struttura’ del tempio potrebbe essersi ispirata a quella biblica, presentando per
giunta rilevanti concordanze lessicali con la descrizione del tempio di Salomo-
ne fatta da Pietro Comestore, sottolineandone le affinità (verbali più che con-
cettuali): “aedificavit super capita forinsecus prominentia tria tabulata ad deam-
bulandum circa templum, quae in Evangelio pinnacula [v. 40.9] templi dicun-
tur et pavimentum vario marmore stratum eratque circumseptum muro in alti-
tudine 25 cubitorum interius, exterius vero altitudinis 40 cubitorum, secundum
declivitatem collis… habebat porticus circumiacentes instar claustri monacho-
rum, in quibus erant columnae… In eodem atrio posuit… lavatorium… in sche-
mate hemispherii factum” (cap. XVIII in: SH II LXXVI; v. anche n. 8.24).
Con estrema chiarezza Le Mollé individua in questa struttura radiocentrica
‘piena’ i tratti autoritaristici dell’utopia campan.: “le siège de l’autorité est
placé au milieu. Aussi l’utopie libérale laisse-t-elle le centre vide: l’île de Tho-
mas More est circulaire et un grand port naturel en occupe le centre… Au libé-
ralisme du plan rectangulaire ou du centre vide du plan circulaire s’oppose
l’autoritarisme du centre plein où réside le maître du lieu: temple ou palais, ou
les deux à la fois… La naissance des seigneuries efface les structures commu-
nales: la ville cruciale [= a scacchiera] était un espace ouvert”, la città centrata
è uno spazio chiuso e centripeto: “dalla periferia verso il centro… Con i suoi as-
si principali convergenti tutti verso l’autorità centrale… la città ideale segna la
fine della libertà” (p. 302sg; ma C. aveva forti riserve sull’istituzionalizzazione
dei luoghi sacri: v. n. 112.20-30).

8.3: rotunditatis
Gli antichi “pensavano che a’ varii Dii si avessero a fare e convenissero varie for-
me di Tempii: percioché lodavano che al Sole e a Bacco era bene di farli tondi”
(Alberti [Bartoli], VII III, p. 205).

8.9: spiraculum
“Le finestre dei templi devono essere di dimensioni modeste e in posizione
ben elevata, sì che attraverso di esse non si possa scorgere altro che il cielo, né
i celebranti e gli oranti siano sviati altro che dal pensiero della divinità” (Alber-
ti, VII XII, p. 616).

8.11: in centro templi. Columnis circumseptum,


La redazione parigina ha in effetti questa punteggiatura: “in centro templi, co-
lumnis circumseptum.”; in tal modo si avrebbe che non solo il tempio (come
198 LA CITTÀ DEL SOLE

ha detto poche righe sopra), ma anche l’altare è circondato da colonne. Acco-


glie quest’ortografia (e dunque quest’interpretazione) da ultimo Crahay, che
non indica nelle note la discrasia con l’edizione di Bobbio. A favore della scel-
ta di Crahay militano due fattori: a) l’ed. Parigina, appunto; b) il miglioramen-
to testuale, perché si evita una ripetizione ravvicinata (tempio poggiante su co-
lonne è detto a 8.5-6). Nella presente edizione si è optato per l’ortografia bob-
biana per due ragioni: a) per l’assoluta coerenza e compattezza dei mss italiani
(v. T.8.10); b) riparlando dell’altare (a 112.32, dov’è completata la sua descri-
zione), non si menzionano più queste colonne, prive del resto di una qualche
ragionevole funzione architettonica (quelle del tempio servono, oltre quanto
qui si dice, anche come sostegno per le tavole delle leggi [102.36]); e, princi-
palmente, la prosecuzione del testo scioglie ogni residuo dubbio: “Capitellis fo-
rinsecus columnarum…” non può che riferirsi alle colonne perimetrali, da cui
è possibile aggettare degli archivolti esterni (e non certo da fantomatiche co-
lonne dell’altare).

8.24: sellae portatiles


Il tempio ha molte funzioni, oltre a ospitare i sacerdoti: eminentemente luogo
per la celebrazione di riti (es. 112.32) e sacrifici (106.6 e 108.22); in alto, os-
servatorio meteorologico (10.8-13) e astronomico (108.1); in basso, planetario
(8.25sg e 12.12-7), sede del Gran Consiglio (implicitamente deducibile da:
66.14; 66.35; 94.33), scuola superiore (40.7) e tribunale (102.33sg). Pertanto
l’accenno alla quantità e portabilità delle sedie potrebbe far pensare che, mal-
grado fino all’Ottocento le chiese ne fossero sprovviste (Kern, p. 184), queste
venissero utilizzate tuttavia per alcune delle funzioni su citate. Per altre funzio-
ni, come quelle processuali, invece occorrono sedie fisse (“sedile” [104.5], e
non ‘sella’, si chiama infatti la sedia dei giudici).
Sempre notevoli le concordanze lessicali con la descrizione comestoriana del
tempio di Salomone (v. n. 8 [glossa]): “In eisdem porticibus erant cathedrae,
id est tria genera sedilium, ut ait Isidorus; in cathedris sedebant doctores in
Gymnasio; in synedris auditores… in exedris assessores cum iudice, quando se-
cretius aliquid tractabant… In atrio interiori erat altare”, ricoperto da una
quantità di bronzo maggiore “quam illud [=altare] portatile” (XVIII, in SH II
LXXVI).

8.25-34: Super altare… adnotati,


La prima regola per chi voglia ‘recte’ filosofare, è “conoscere a fondo i dati os-
servativi, non in parte, ma del tutto: ad esempio se vuoi filosofare intorno alle
cose celesti, devi prima apprendere le osservazioni empiriche, vale a dire il nu-
mero delle stelle erranti e di quelle fisse, i tempi delle loro rivoluzioni, e le va-
riazioni, e quando si innalzano, quando si abbassano, quando stanno ferme,
quando retrocedono; e poi le misure della latitudine e della longitudine, e in-
fine il loro sito, luogo e ordine… L’ordine di leggere la storia naturale richiede
che in primo luogo si ponga sotto gli occhi la rappresentazione su carte della
divisione del cielo e della terra secondo la cosmografia pratica, non speculati-
va; quindi si distinguano le regioni del cielo e della terra secondo i circoli, e in-
COMMENTO AL TESTO 199

fine si esamini la storia delle cose celesti e terrestri…” (Syntagma II II e III; la co-
smografia celeste e terrestre è riprodotta anche nelle cortine del tempio, e nel-
le mura esterne del tempio e del primo girone [v.12.12-7 e 12.24-6]; per la più
dettagliata descrizione dell’altare v. 112.32-6).

8.25-7: globus… tellus.


Nel 1541 Mercatore aveva ideato due globi, uno terrestre e uno celeste, che,
portati da Anversa in Italia dal duca Della Rovere, sono ora conservati nel Mu-
seo Civico di Urbania; globi rari da noi, come ve ne sono soltanto a Roma, Cre-
mona e Prato.54 Nella chiesa dei Gerolimiti di Lisbona le cupole sono sormon-
tate da globi che riportano meridiani, paralleli, eclittiche e orbite di pianeti.

8.28: in coelo testudinis magnae


Simmetricamente a 118.1-3, dov’è il cielo ad essere un tempio. Wittkower, Prin-
cipi, p. 14: “È degno di considerazione che il vocabolo latino ‘coelum’ per tetto
o soffitto… venisse adottato dagli italiani” (v. n. 4.5-6; e n. 118.23-4 per la grafia
del vocabolo). In partic. è Alberti (III XIV e VII XI) a insistere sul parallelismo
cupola/cielo, che, come ricorda lo stesso Wittkower, ha una lunga genealogia
(e bibliogr. da lui cit. in nota);55 e non solo in Occidente: Saxl riporta due
esempi (fig. 62-3) di cupole orientali in cui è dipinto il cielo (cfr di Saxl anche
i due capitoli: ‘Edifici celesti anteriori alla Farnesina’ e ‘La carta del cielo’).

8.28a: stellae
È il termine più diffuso (venti ricorrenze in Civitas) per indicare genericamen-
te i corpi celesti; solo in qualche caso è possibile dedurre dal contesto se si rife-
risce alle stelle (es. 136.23 per la ‘nova’ apparsa in Cassiopea) o ai pianeti (es.
120.17, 154.25). Un sinonimo è “sidera”, usato solo quattro volte: due nel sen-
so di pianeti (120.36 e 146.14) e due come corpi astrali (142.29 e 144.4).
“Astra” invece compare una volta sola a 159.25, anch’esso in accezione lata.
‘Constellatio’ (quattro ricorrenze: 44.11, 48.9, 74.30, 158.26) ha significato
astrologico di ‘concorso di corpi astrali’, legati ad un oroscopo (v. n. 44.10-1).
Malgrado esistano anche vocaboli specifici per ognuno dei corpi celesti (nove
ricorrenze di ‘planeta’, quattro di ‘fixa’ per le stelle del firmamento, sei di ‘si-
gnum’ per le costellazioni zodiacali, e un “cometes” a 146.12), predomina
un’approssimazione lessicale, pur essendo l’Au. un esperto di scienze astrali.
Ciò non deve affatto stupire: già Isidoro testimoniava una diffusa improprietà
linguistica in fatto di astronomia: “Stellae et sydera inter se differunt. Nam

54
Cfr Gerardo Mercatore, Catalogo, Ed. Bibl. e Civ. Museo di Urbania, 1996.
55
Cui si può aggiungere che Alberti [Bartoli], VII XI, p. 240 apprezzava “quel che scrive Var-
rone che nella volta [del tempio] fusse dipinta la forma del Cielo, e una stella mobile, che
con la sua lancetta [= raggio] dimostrasse qual’hora fusse del giorno, e che vento ancora ti-
rasse dal lato di fuora. Certo che siffatte cose piacciono grandissimamente”, e sedussero in-
fatti Colonna, Hypnerotomachia, p. 194, che l’adottò per il suo tempio di Venere.
200 LA CITTÀ DEL SOLE

‘stella’ est quaelibet singularis, ‘sydera’ vero sunt stellae plurimae factae, ut
Hyades, Pleyades; ‘astra’ autem sunt stellae grandes, ut Orion, Lucifer, Bootes.
Sed haec nomina scriptores confundunt, et astra pro stellis et stellae pro syde-
ribus ponentes” (III LX).

8.29: a prima… magnitudinem


“Albumasar: fra le innumerevoli stelle, ne sono state scelte 1029, come le più
degne di nota; tolti i sette pianeti, le restanti sono divise in sei ordini in base al-
la luminosità e alla grandezza: 15 nel primo ordine, 45 nel secondo… nel sesto
49” (SN XV LII).

8.30-2: propriis… versiculis.


Figure e definizioni delle stelle si ritrovano sulle cortine del tempio (12.15-7),
e qualcosa di analogo sono le “quidditates” (102.38) iscritte sulle colonne, al-
cune delle quali dedicate appunto a “quid mundus, stella” (104.2). Frequenti
sono le esortazioni alla sintesi e semplificazione delle scienze, ad uso didattico,
“come ho fatto io” in Disc. univ. XXIV (p. 1165), alludendo oltre, ad es., a Epi-
logo, forse anche a questi espedienti: l’uso di versetti, come specifica in Poët. III
II; IV IX; V I e VIII III (pp. 961, 995, 1005 e 1075), serve ad agevolare la memo-
rabilità: “le scienze sono espresse in poesia perché brevemente e piacevolmen-
te siano apprese e tenute a memoria”, in quanto “ciò che si dice in versi resta
nella memoria più facilmente, perché lo si apprende in modo ritmico, conciso
e piacevole”, avendo “il metro un che di piacevole”, e così “i fanciulli imparano
e l’accaduto si tramanda ai posteri”.

8.31-2: virtutibus… rebus,


Vi sono due tipi di ‘virtù’ naturale, una autodiretta e l’altra eterodiretta (come
in questo caso): “Virtutem sua prima significatione vim esse naturalem cuiu-
scunque rei, ad sui esse tuitionem, invenimus, ut virtus lapidis est durities, qua
se a malis corrumpentibus defendit… Deinde virtus dicta est non illa quae ser-
vat subiectum suum, sed quae ad alterius utilitatem proficit, ut virtus Reubar-
bari est purgare choleram” (Quaest. Eth. III, p. 33).

8.33: circuli maiores minoresque


‘Circulus’ designa qui un cerchio convenzionale (= meridiano e parallelo),
mentre a 120.3 indica un tracciato reale (= orbitale). Per Crahay (p. 71), inve-
ce, il limite inferiore della cupola raffigurerebbe l’orizzonte su cui si staglie-
rebbero dei tracciati orbitali ‘reali’ piuttosto che dei fittizi reticoli convenzio-
nali. Così però si trascurerebbe (o si fraintenderebbe) quell’“ipsorum”, che sta
a indicare il peculiare orizzonte dei Solari che coincide con l’equatore. È infat-
ti possibile osservare (quasi) tutto il cielo, compresi i poli astronomici, solo al-
l’equatore, “dove nascono e tramontano tutte le stelle, perché i poli del mon-
do giacciono nell’Orizzonte. In qualunque altro luogo della Terra, dove i Poli
del mondo s’abbattono fuori dell’Orizzonte, cioè, dove uno si leva e l’altro
s’abbassa, rimane sempre occultata una parte del cielo” (Magini, 5v), come nel-
COMMENTO AL TESTO 201

le nostre latitudini, in cui “polus Boreus semper videtur, Austronotius num-


quam” (Isidoro, III XLIV).
Da quanto sopra, si deduce che: a) l’emisfero rappresentato sulla volta concava
del tempio è tagliato non sul piano dell’equatore (come ritengono tutti i com-
menti), ma su quello verticale di uno dei meridiani, perché solo così si posso-
no segnare i due “poli”, naturalmente collocati a 180° sul cerchio massimo
orizzontale della cupola (il “polo” nel culmine della volta maggiore [8.8] è, co-
me si evince dal contesto, un mero sinonimo di “centro” geometrico, e non di
polo astronomico); b) di conseguenza i “circuli” sono tutti rappresentati, ma
per metà, ovvero semi-meridiani (“maiores”) e semi-paralleli (“minores”): l’al-
tra metà va idealmente integrata con i globi posti sull’altare.
Il complesso reticolo convenzionale celeste era costituito da cinque “circuli” o
“coeli zones”: “arcticus”, “tropicus [boreale]”, “aequinoctialis”, “antarcticus” e
infine lo “hiemalis sive brumalis”, cioè il Tropico australe; inoltre vi è il ‘circulo
Zodiaco’ e il ‘candido circulo’, cioè la Via Lattea (Isidoro, III LXIV e XIII VI). Ad
essi “aggiungiamo i due coluri, così chiamati da un nome greco che significa
‘troncato’, perché non li si vede mai interi all’orizzonte. Tutti e due passano
per il polo boreale, e vi si tagliano ad angoli retti; e ciascuno di essi, seguendo
una direzione perpendicolare, divide in due parti uguali i cinque paralleli sum-
menzionati” (Macrobio, Somnium I XIV).56 Per Thierry de Chartres (in SN III
XIX) vi sarebbero ben undici circoli, due visibili (Zodiaco, Via Lattea) e nove in-
visibili, ovvero linee convenzionali: cinque paralleli, “maximus quorum est ae-
quinoctialis”; due “qui dicuntur coluri”, che segnano le quattro stagioni; e infi-
ne gli ultimi due sono: “Meridianus” (= “designans in qua sol existens aequali-
ter distat ab Ortu et Occasu”) e “Horizon… ubi coelum videtur terrae coniun-
gi”; ma questi ultimi due “non scribuntur in sphaera, quia per diversitatem ha-
bitantium vel circunspicientium variantur”. Questo reticolato cosmico classico-
medievale fu ereditato quasi invariato dall’età moderna: Doni parla di un acca-
demico veneziano, che, salito con una mirabolante scala sul primo cielo, “il ca-
po pien di cosmografia, cominciò a mostrare le cose celesti con le sue distin-
zioni e… discorse per infino alla elevazion de’ poli, nascimenti delle stelle, pa-
ralelli, meridiani” (Mondo piccolo, p. 25).

8.38: pretiosis lapidibus


Unica presenza di pietre pregiate, più che preziose in CS (salvo i ‘campioni’
raccolti a scopi didattici sulle mura: 12.34-5), probabilmente per influsso di
passi come quello di Comestore cit. a n. 8 (glossa).

8.38-40: Lampades… gerentes.


L’ottava visione di Apoc. 21, 10, secondo C., sta a indicare chiaramente cosa
simbolizzi la lampada: “nella città [di Dio] non c’è il Sole, ma la lucerna di lei

56
Identica partizione del mondo in [pseudo-]Galeno, De hist. phil. XIX XII ‘De divisione coe-
li’ e XXI ‘De divisione terrae’.
202 LA CITTÀ DEL SOLE

è l’Agnello… Come infatti il Sole produce in questo mondo i giorni e gli anni,
così nel secolo futuro e nella Gerusalemme celeste la faccia di Dio produce il
giorno perenne e gli anni eterni senza interposizione di notte” (Theol. XXV, p.
143).57

8.41-2: Moses… lampades.


Oltre che nella cit. Metaph., il passo dell’Exodus 25, 9 è evocato anche in Theol.
I (II, p. 41): “come fu detto a Mosè: ‘mira e fa ogni cosa secondo l’esemplare
che ti è stato mostrato sul monte’”; e in Apol. ad lib., dove precisa anche l’ese-
gesi che ha in mente: “In quell’occasione, come insegna S. Giustino nel Contro
Trifone, gli furono mostrate tutte le cose celesti, sopracelesti e sublunari, e quin-
di fece il tabernacolo e le vesti ad exemplar ipsorum… Inoltre Sisto da Siena af-
ferma che [la stanza santa del tabernacolo] nella parte australe aveva sette lam-
pade, di cui quella centrale, che era la più grande, rappresentava il Sole, le al-
tre sei i sei pianeti, poste nella zona meridiana, perché in essa si osserva massi-
mamente il corso dei pianeti, come dice S. Tommaso con i padri… Donde l’a-
postolo, Heb. 8 e 9, insegnò che tutte queste cose erano ombra di quelle celesti”
(p. 323); infatti in Eb. 9, 23 il tabernacolo è chiamato “simbolo del santuario ce-
leste” (v. n. 112.32-4 e n. 148.21-3).
L’altra fonte concomitante può esser stato il Timeo, 39b (“dio accese… quel lu-
me, che ora chiamiamo Sole, affinché risplendesse quant’è più possibile per
tutto il cielo”), menzionato in Theol. III (p. 138: “Deus accendit Solem sicut lu-
cernam”), dove poco sotto replica l’opinione di un Mosè astronomo/vate, per
“come fabbricò il tabernacolo sul modello del mondo, e come pose sette lucer-
ne in un unico candelabro per simboleggiare i sette pianeti”.58
A proposito delle sette lampade (ma l’eptadicità è altrimenti legata alla simbo-
logia solare anche in altre culture: dai sette gradini delle ziggurat ai sette om-
brelli sovrapposti agli stupa buddisti), Singh ricorda come per la comunità zo-
roastriana indiana dei Parsi “i sette esseri sacri” fossero scaturiti da Ahura Maz-
da, “come torce accese da una torcia” (p. 90-1), tema affine al candelabro a set-
te braccia degli ebrei.59 Ma il paragone lampade/pianeti appartiene alla cultu-
ra mediterranea: in Cicerone, De rep., riportato da Macrobio, Somnium I XVII, si
parla del Sole come “moderatore delle altre fiaccole celesti” (per l’intero con-
testo della citaz. v. n. 118.2a); la fonte più probabile è però Filone Ebreo: su

57
Per la doppia comparazione lucerna/Sole e Sole/Dio, v. n. 142.10-2, n. 146.7-20, n. 148.21-
3; per il ‘fuoco perenne’ cfr Ex. 27, 20-21 e Lev. 24, 4: Aronne “terrà in ordine le lampade sul
candelabro d’oro puro, perché ardano di continuo davanti al Signore”; e infine per la sim-
bologia del sette v. n. 146.27-148.2 e da n. 148.9-15 a n. 148.21-3.
58
Così anche: Theol. XVII, pp. 77 e 173; Theol. XXV, p. 79; Quaest. pol. III, p. 90. Lessico (“iux-
ta exemplar”, ad es. in Ex. 26, 30) e figuralità biblica sono presenti anche in: Ludovico, 66, 1
(135v); Apologia, p. 22; e risalgono ai primi pensatori cristiani (ad es. la concezione del co-
smo/tabernacolo è già in Clemente Alessandrino, Strom. V, 6).
59
C. aveva potuto leggere di Zoroastro nell’Iside et Os. plutarchiano, cit. in Quaest. pol. IV, p.
121.
COMMENTO AL TESTO 203

ognuno dei bracci del candelabro “sette fiaccole e sette lampade [= ‘lampa-
dià’], simboli di ciò che i sapienti chiamano pianeti” (Mosis II, par. 102-3).60
Un’ultima suggestione è l’incipit del Purg., XXX: “Quando il settentrïon del
primo cielo”, in cui i sette candelabri (simbolizzanti i sette doni dello Spirito
Santo [XXIX, 50] – sette candelabri e sette doni anche a 148.11-3) vengono pa-
ragonati alle ‘septem triones’, cioè le sette stelle dell’Orsa, in un contesto alta-
mente profetico-visionario. Il tema dovette tornare in auge nel ‘500 anche in
aree non strettamente ortodosse, visto che tra gli scritti di Camillo Delminio
contenuti nel cod. 59 della Bibl. Univers. di Pavia, vi è una Breve et chiara inter-
pretazione del Candeliero exemplare;61 ed anche altrove accenna al “candelabro au-
reo con sette lucerne significanti i sette pianeti” (Camillo, p. 112). Altra fonte
non trascurabile è Doni, che apre il ‘Mondo massimo’ con un comm. all’Esodo:
“Mentre ch’io rimiro tutte l’università di questo mondo, mi si rappresenta il
gran Tabernacolo di Moisè, nel qual si può comprendere quanto gran misterio
egli avesse dentro, e poiché si può appropiare all’essempio del mondo, che fu
cavato dal divino modello… Che vuol dire che ‘l candellieri aveva sette rami?
Non altro che i sette pianeti che illuminò e formò il Lume e il Fattor dell’uni-
verso… E il lume dell’Evangelio venne a illuminare il mondo con sette doni
dello Spirito Santo” (Mondi, p. 190-2).

10.1-6: Super templo… decoraeque,


Il tempio circolare è a cupola, sormontata a sua volta da una cupoletta; ester-
namente, intorno alle due cupole, vi sono delle celle abitate dal clero Solare.
Più file di camere, destinate a trenta sacerdoti, furono edificate intorno al tem-
pio di Salomone (1Re 6, 5 e 10); e, su più piani, in quello di Ezechiele, con la
differenza che, anziché restringersi salendo, “le stanze di piano in piano anda-
vano allargandosi” (Ez. 41, 6-7; templi rotondi con celle anche in Vitruvio: v. n.
104.4-8).
La terna di attributi delle cellette, “quaedam pulchrae ac parvae”, è in sistema
quasi oppositivo con la terna aggettivale delle celle: “multae… grandes deco-
raeque”; e quest’ultima dittologia ricorre a 12.22.

10.6-7: ubi… etc.


Salvo il predicato, tutti i termini di questa proposizione sono a vario titolo am-
bigui e quindi problematici:

60
L’allegoria o ‘modello’ lo si ritrova ‘in extenso’ in Filone, Quis, par. 215-6, 440-1 e 567; e an-
cora: Giuseppe Flavio, Antiq. jud. III VI, 7; Pietro Comestore, super Gen., cap. 57 e 66 (in SH II,
XXIV): “per septem lucernas candelabri septem planetas”; Pico, Heptaplus, II Proem., p. 187: la
parte media del tabernacolo “era illuminata da un candelabro a sette braccia che indicano,
secondo gli interpreti latini, greci, ebrei, i sette pianeti”.
61
Segnalato da Vasoli 1977, che si chiede “se sia veramente del Delminio (morto nel 1544)
la versione del Candelabrum typicum, pubblicato a Venezia soltanto nel 1547 dal Postel” (p.
197-8).
204 LA CITTÀ DEL SOLE

– ubi: si riferisce a tutte le stanze (= celle e cellette), o alle sole celle grandi in-
feriori?
– sacerdotes et religiosi: sono due categorie distinte, o è una dittologia sinonimi-
ca, visto che di ‘religiosi’ Solari il testo non farà più parola?
– quasi quadraginta: a prescindere che le edizioni latine riportano “quasi qua-
draginta novem” (ma si tratta probabilmente di una svista, cui si è voluto ri-
mediare in questa edizione – v. n. 22 della ‘Tavola delle emendazioni’ lati-
ne), quaranta è il numero totale degli ecclesiastici, o dei soli fantomatici ‘re-
ligiosi’?
– etc.: di solito serve a interrompere un elenco sequenziale omogeneo, di cui il
testo ha fornito un numero sufficiente di elementi atti a individuarlo (es.:
12.24: “sunt et propositiones et definitiones etc.” [= ‘e così di seguito’]);
però, in questo caso (che è anche la prima occorrenza in Civitas), “etc.” non
è preceduto da nessun catalogo ripetitivo, ma semmai tronca una descrizio-
ne, che il lettore non potrà completare da solo: che cosa sottintende, dun-
que?
Per sciogliere i vari dubbi, viene in soccorso T. (e la pressoché concorde tradi-
zione manoscritta italiana). Proviamo a ricostruire diacronicamente quel che è
potuto accadere nel corso delle principali stesure di questo passo. In prima ste-
sura – “e qui abitano li religiosi, che sono da quaranta” (T.10.4-6) – l’intenzio-
ne autoriale è abbastanza nitida: nelle celle inferiori, quelle cioè menzionate
nella frase immediatamente precedente, abitano i (soli) quaranta religiosi. In-
fatti l’Au. presumibilmente ha già in mente, a quest’altezza testuale, due punti
che tratterà in seguito: a) che gli ufficiali (o magistrati) superiori sono tutti “sa-
cerdoti” (T.104.19-20); b) che costoro sono quaranta (T.96.8). Ed è agevole
presumerlo: il primo punto, per ovvie ragioni ideologiche (C. è un teocratico);
il secondo, perché quel numero è l’aritmetizzazione della ‘tetractis’ pitagorica
(v. n. 96.6), setta d’appartenenza dei Solari (T.64.17). È molto probabile che
l’Au. sapesse già anche a chi fossero destinate le cellette superiori del tempio:
ai ventiquattro sacerdoti di T.106.39, che hanno collocazione e funzioni diver-
se degli ufficiali-“religiosi”. Il che ci induce a escludere che “religiosi” di T.10.5
sia sinonimo di ‘sacerdoti’ o indichi la classe generale in luogo della specie par-
ticolare, ma sta appunto a denotare una precisa categoria del clero Solare: la
magistratura superiore. L’unica ‘svista’ commessa dall’Au. è di non aver man-
tenuto coerentemente in tutto il testo tale distinzione lessicale: in Città, infatti,
non riappare più il termine ‘religioso’, ma userà sempre e solo ‘sacerdote’ (co-
me si è appena visto a T.104.18-9 – per cui non si capiva più se sul tempio c’e-
rano quaranta religiosi e ventiquattro sacerdoti, quaranta in tutto, oppure, co-
me rilevava già Bobbio, i quaranta originari nel prosieguo diventavano con-
traddittoriamente ventiquattro). A ulteriore conferma che i quaranta religiosi
delle celle sono proprio e solo gli ufficiali superiori sta il fatto che, immediata-
mente dopo aver descritto la struttura del tempio, il Genovese elenchi l’orga-
nigramma Solare, a partire dal “prencipe sacerdote” (T.10.17): il nesso implici-
to tra la pianta topografica e quella organica della nomenklatura Solare non
può che esser proprio quel “religiosi” – e si può anche comprendere, almeno
in parte, la sparizione del termine ‘religioso’, proprio perché in una frase co-
COMMENTO AL TESTO 205

me T.10.17-8: ‘È un prencipe religioso tra loro…’, sarebbe stata inevitabile la


confusione sostantivo/aggettivo.
Nelle successive trascrizioni e revisioni di Città, accadono due accidenti testua-
li: nell’archetipo di L. (quello utilizzato per la traduzione), l’Au. ha introdotto
dopo il “da quaranta” di T.10.5-6 quell’“&c.”, poi scambiato per un ‘9’, ed è sal-
tato il rigo di T.96.7-8 (= “e ognuno di quelli tre altri, che fan 40”), per cui il nu-
mero degli ufficiali superiori si è fermato a “tredecim” (96.6). Inoltre Civitas
aggiunge un “sacerdotes” (10.6), e rende il “da 40” italiano con “quasi quadra-
ginta novem”, che non ha alcun senso, né in sé (i ‘religiosi’ sono enti unitari
non scomponibili, e quindi non approssimabili all’unità), né in relazione alla
‘numeristica’ Solare.62 Sarebbe anzi più probabile che quel “da” significasse ‘in
numero di’. Ma l’organigramma delle alte cariche, per vizi di trasmissione del
testo, è ormai saltato: sia perché è passato tanto tempo fra l’ideazione origina-
ria e le sue revisioni, sia perché passa tanto spazio fra questo primo accenno al
clero e la sua successiva trattazione più estesa (se in Civitas è a 2/3, in Città era
ben a 3/4 dell’opera). Proprio per questo, l’Au., in fase di revisione, ricordan-
do che su quel tema il suo dialogo ci sarebbe tornato più avanti, pur essendo
andata perduta la corrispondenza numerica tra ufficiali e religiosi, sente tutta-
via l’esigenza di avvertire in qualche modo il lettore che l’argomento del tem-
pio e degli ecclesiastici non si concludeva lì: ed ecco le due aggiunte, distinte
nel tempo ma interdipendenti tra loro: quel rinforzo di “sacerdotes” (che allu-
de, proprio per l’anteposizione a “religiosi”, ai ventiquattro residenti nelle cel-
lette) e poi quell’“etc.”, a preludio di un seguito prossimo venturo, che inter-
rompe la trattazione solo momentaneamente, e non per sempre, come di soli-
to fa.63 Infatti ‘De sacerdotibus…’, come segnala la glossa a margine (104.21),
ne parlerà dettagliatamente il Genovese, e si soffermerà specificamente sul lo-
ro numero e residenza a 106.41: “Insuper viginti quatuor sacerdotes super tem-
plo commorantur…”. Insomma quell’“etc.” era una specie di promemoria o di
preavviso: ‘per quanto riguarda tempio, sacerdoti, religiosi e il resto, a dopo’.
Ammesso dunque di aver riconosciuto, sotto le interferenze di trasmissione,
l’intenzionalità autoriale,64 essa è comunque effettivamente rispecchiata e cor-

62
Ammesso che volesse alludere alla somma dei sacerdoti delle cellette e del nuovo numero
di ufficiali-religiosi, avremmo avuto 24+13 = 37, che semmai sarebbe ‘quasi quadraginta’ e
non ‘quadraginta novem’; ed essenzialmente sarebbe in contrasto con l’architettura templa-
re che prevede un numero maggiore di celle, e quindi di religiosi, e un numero minore di
cellette, e quindi di sacerdoti.
63
Un uso analogo di “etc.” per rinviare ad un altrove dello stesso testo è a 64.3: l’educazione
militare è impartita alle donne, affinché, “si quando opus foret, opem ferre masculis in bello
propinquo civitatis etc., ac moenia tueri…”; quell’“etc.” sospende - e qui addirittura a metà
frase - la trattazione dell’impiego delle donne in battaglia, perché sarà ripresa a 70.1-10, e
quindi sottintende: ‘come si vedrà in seguito’.
64
Ovvero: a quest’altezza testuale il Genovese sta descrivendo solo parte del clero Solare – gli
ufficiali-sacerdoti –, ma ve n’è un’altra parte, distinta per collocazione e mansioni, di cui si
farà menzione ‘via di seguito’: i sacerdoti.
206 LA CITTÀ DEL SOLE

roborata (a prescindere dalla discrasia delle cifre) da CS. Infatti tutti i magi-
strati sono sacerdoti (44.19); o meglio: solo i magistrati superiori (104.22), a
partire da Hoh, che è il sommo sacerdote e capo supremo (10.18), general-
mente prescelto tra i ventiquattro che dimorano sul tempio (108.12-3). Essi so-
no mediatori (108.11: “copula”; T.108.10: “mezani”) fra dio e l’uomo, a volte
anche solo fra uomo e uomo, come ad es. il Forense (66.18), e i loro compiti
sono in genere confessionali (104.23-4). Mansioni precipue dei ventiquattro
sacerdoti invece sono la preghiera quattro volte al giorno (106.42sg) e le osser-
vazioni astrologiche, con finalità molto pratiche – ad es. determinare l’ora pro-
pizia alla riproduzione dei generatori (42.26 e 108.9), mentre essi, pur non os-
servando il voto di castità, non sono di norma procreatori (44.20-1 e 108.16-8).
Come si diventa religioso lo si apprende solo da L. (v. 78.25 in ‘Apparato delle
varianti di a’: il migliore nelle discipline speculative diventa lettore per poi di-
ventare sacerdote, potenziale futuro Hoh); oppure la vittima umana, scampata
al rito sacrificale, viene accolta in questa eletta schiera (106.34; v. 106.35 in ‘Ap-
parato delle varianti di a’). Si direbbe che l’Au. avesse in mente una doppia
struttura clericale scandita spazialmente sul duplice asse alto/basso e inter-
no/esterno: ventiquattro sacerdoti-sacerdoti (sapienti) ‘superiori’, che vivono
cioè nelle cellette in alto ed hanno mansioni esclusivamente interne al tempio
(preghiera e osservazione degli astri); e quaranta religiosi-ufficiali ‘superiori’
(in senso solo gerarchico, perché loro risiedono nelle celle in basso), che inve-
ce si occupano della gestione corrente e quindi prevalentemente esterna della
Città. Da Città a Civitas la spazialità è sostanzialmente rimasta invariata, o addi-
rittura resa ancor più nitida da almeno due nuovi elementi: il dimorare dei sa-
cerdoti nelle cellette (106.30); l’esplicita assegnazione del sacrificio perpetuo
al popolo (108.22).
Ora si può tentare di rispondere ai quesiti posti all’inizio:
– ubi: si riferisce alle sole celle inferiori;
– religiosi et sacerdotes: le quali celle sono abitate dai religiosi/magistrati,
– quasi quadraginta: che sono in tutto quaranta, quante sono (/erano origina-
riamente e correttamente) le magistrature,
– etc.: ‘e il resto in seguito’, ovvero: dei (ventiquattro) sacerdoti-scienziati resi-
denti stabilmente nelle cellette superiori, e delle loro funzioni se ne ripar-
lerà a partire da 104.21 (v. n. 106.41-4 sulle fonti del duplice ordine ecclesia-
stico Solare).
Infine, a ulteriore e terminale riprova che il numero corretto è quaranta (e
non 49 o 13, frutto di sviste di copisti e non intenzionali revisioni d’Au.), si può
addurre l’importanza che esso riveste nella ‘numerologia’ campan.: quaranta
sono le ore di tortura di Cristo e “quarant’ore di tormento” (T.158.14) sono
quelle patite dall’Au., alludendo all’ultima tortura del ‘polledro’, che durò in
effetti trentasei ore (Firpo 1954, p. LXXVI). Ciò significa che quel ‘quaranta’
ha un forte potere modellizzante (nel caso della sua tortura, l’arrotondamento
deriva naturalmente da un’identificazione con quell’altro Messia ingiustamen-
te perseguitato). Dunque è un numero carismatico, legato com’è alla sfera del
sacro e del sacrificio, replicato nel rito delle “quaranta ore” di fresca istituzione
(T.108.25; v. n. 118.3 e n. 106.41-4, dove si chiarisce, come su accennato, che
COMMENTO AL TESTO 207

non vi è alcun nesso fra il numero dei sacerdoti delle cellette [= 24] e il sacrifi-
cio perpetuo). Formichetti adduce un’ulteriore testimonianza: nel Commentum
in carmen cuius titulus ‘Vera sapientia mortis meditatio’ di Urbano VIII, composto
di quaranta versi, “C. ritiene non casuale la scelta [del numero di versi] fatta da
Maffeo Barberini e ricollega il numero quaranta ai giorni del digiuno di Mosè
e di Elia e alla Quaresima, attribuendo ad esso un significato magico e propi-
ziatorio” (p. 35). Il quaranta, del resto, era una cifra carica di valenze simboli-
che sia ‘naturalistiche’ (quaranta giorni è la nona parte dell’anno – ne tratta,
ad es., Alberti, IX V, p. 818), sia religiose: Ephrem Siro (III, 230sg), nell’esalta-
zione ‘In sanctos quadraginta Martyres’, e Isidoro in Liber numerorum (PL
LXXXIII, 197-8: il quaranta “plenitudinem indicat temporum”) fanno un am-
pio excursus delle presenze e valenze di questo numero in luoghi cruciali bi-
blici; e in partic., nella descrizione della reggia di Salomone, cui C. si è proba-
bilmente ispirato per ideare le dimore dei sacerdoti solari, ricorre spesso que-
sto numero per indicare delle misure: 1Re 6, 17: “lunga quaranta cubiti”; 7, 38:
“il bacino conteneva quaranta bati”.

10.8-12: Super minorem… mutationes,


“È necessario prevedere i venti e le tempeste, e sapere quali in quali regioni e
in quali tempi siano soliti verificarsi. In questo caso ogni pericolo e timore ce-
derebbero il passo all’arte e alla ragione. Pertanto, se non riusciamo ad evitare
i mali, non è perché siano inevitabili, ma perché trascuriamo le arti, o perché
non abbiamo piena conoscenza dei mezzi atti ad evitarli” (Astrol. VII II, 3, 8). La
meteorologia Solare, come quella utopiana (More, 138), è invece molto pro-
gredita e diffusa: è in grado di riprodurre artificialmente i fenomeni atmosferi-
ci (14.5-7); sistemi di misurazione e osservazione del tempo, quotidiano (oro-
logi) e atmosferico (banderuole), si trovano in tutti i gironi (40.9). Anche sul-
la sommità delle fattorie sarebbe opportuno issare “quasi vexillum, signum
quoddam ventos omnes ostendens: unde sciant quis ventus, quibus rebus pro-
sit et obsit, et quibus solent spirare temporibus” (Oecon. II IV, p. 194). Riguardo
al loro numero, poi, Compendio chiarisce: “Il nome dei venti deriva dal luogo da
cui spirano. I principali, pertanto, sono quattro: il Subsolano, lo Zefiro, Borea
e Austro. Vi sono poi quattro venti secondari… Tra questi vi sono anche dei
venti intermedi fino a un totale di trentasei” (XX, 7-8); e sempre trentasei sono
i venti indicati in Phil. realis I, p. 65, e la rudimentale rosa dei venti tracciata a p.
38 di Physiol. ne segna un sottomultiplo (Crahay, p. 71: “Pour C. 36 doit être
surtout le carré de six”).
Ignoro se siano esistite prima altre rose di venti a trentasei direzioni. La discra-
sia fondamentale dipende da una divisione dei quattro punti cardinali in due (e
si ha una rosa a otto direzioni) e poi in tre (e si ha una rosa a ventiquattro dire-
zioni); oppure si ha una divisione in tre sottosettori (4x3=12, come nel qua-
drante analogico dell’orologio) e poi in altri tre (per un totale di trentasei). Ari-
stotele, Seneca, Damasceno, Isidoro (XIII XI) concordano che i venti sono do-
dici “sed plures nusquam sunt” (SN IV XXXIV ‘De numero ventorum’); semmai
sono i loro nomi ad esser “longe plura quam duodecim” (De Billy, 211G). Ma
grande era la confusione sotto i cieli, come testimonia Galeno, In Hipp. De Hum.
208 LA CITTÀ DEL SOLE

comm. XVI III, XIII, p. 402: “de eorum numero non jam inter omnes convenit; alii
enim esse quatuor praecipuos volunt, tum alios innumeros statuunt, aliis octo
esse placet, aliis duodecim, alii item quatuor et viginti commemorant”. Infatti
Marco Polo e gli architetti umanisti (da Alberti, I III a Filarete) adottano il mo-
dello vitruviano a otto direzioni, e suoi multipli (nell’ed. Cesariana alle carte
XXV-XXVIII vi sono varie rose di venti, compresa una sezione di pianta urbana
le cui strade sono orientate in base a una rosa di ventiquattro venti); e quello di-
venta lo standard moderno, come conferma Imperato, che traccia una rosa a ot-
to direzioni “secondo il moderno uso” (IX IV, p. 242). E C. stesso, come si è visto
e come anche farà altrove, adotta il quadrante a otto: “Dai quattro cardini del
Mondo e dai quattro punti opposti dei Tropici si segnano otto venti, distinti in
ogni regione con diversi nomi, ed in mezzo di loro se ne segnano altri che si
vanno dividendo per l’uso della navigazione” (Epilogo, p. 281).65

10.13: climatis.
In senso tecnico ‘clima’ è l’inclinazione del Sole rispetto all’equatore; gli astro-
nomi antichi avevano suddiviso la Terra in fasce climatiche latitudinali, dall’equa-
tore ai poli (e da oriente a occidente), per cui è passato a significare zona geo-
grafica (v. n. 8.33). Isidoro, III XLII: “Climata coeli, id est, plagae vel partes qua-
tuor sunt”, cioè orientale, occidentale, settentrionale, australe; “sunt et alia cli-
mata coeli, quasi septem lineae ab Oriente in Occidentem, sub quibus et mores
hominum dispares, atque animalia specialiter diversa nascuntur; quae vocata
sunt a locis quibusdam famosis”: Meroe, Siene, Catachoras [= Africa], Rodi, Elle-
sponto, Mesoponto, Boristene. “Li savi la [= Terra] trovaro divisa per l’operazio-
ne de li planeti en sette parti, li quali so’ chiamati climata, sì che ciascheduno pla-
neta ha lo suo clima come ciascheduno signore ha la sua provinzia” (Restoro d’A-
rezzo, II, 5, 9); si hanno così sette “strisce longitudinali diverse secondo la latitu-
dine” (Morino, p. 202), a partire dal “primo clima” che è “da lato del cerchio de
l’equatore”, dove il giorno è uguale alla notte e vi sono due estati e due inverni
(Restoro, ib., che riporta da Alfragano, p. 86sg, anche le varie regioni e città che
stanno sotto ogni clima). La restrizione della previsione deriva dalla consapevo-
lezza, come dice Pico, che “nei mutamenti meteorologici… la stessa situazione
stellare [= ab eadem constellatione] determina variazioni atmosferiche diverse
nei diversi luoghi, là violente, qua tranquille, qui nevi, là sereno” (II, p. 471).

10.13-4: Ibidem… aureis.


Che il libro a lettere d’oro sia il libro che immortala gli eroi Solari viventi e le
loro imprese di pace e di guerra – il che spiega la sua collocazione speciale (il
punto centrale e più alto della Città) –, lo si può provare anche solo per via in-
tratestuale. A proposito del libro degli eroi, tutti i mss di Città, a partire da

65
In queste pagine si trattano anche le funzioni dei venti, il loro nesso con clima, agricoltu-
ra, salute ecc., temi che interessarono fin da subito C.: in Phil. sens. c’è un paragr. dedicato a
‘De signis ventorum’ (p. 333).
COMMENTO AL TESTO 209

T.112.5-7, riportano: “si scrive nel libro dell’eroi chi ha trovato arti nuove o se-
creti d’importanza”; tutti, salvo quattro (deteriori) che invece del relativo chi
hanno la congiunzione che. A favore del che (o comunque di una interpretazio-
ne del chi come congiunzione non necessariamente dichiarativa) militano va-
rie argomentazioni grafologiche e intratestuali:
a) il capostipite generale di questi quattro mss (il Berlinese) reca un anodino
“ch’ha”, il che spiega la duplicità delle lezioni nei suoi discendenti;
b) spesso la grafia antica della ‘e’ è molto prossima a quella della ‘i’; inoltre un
errore ortografico rivela un travisamento del copista di T. (“… si scrive nel li-
bro dell’Eroi. Chi ha…”) di fronte a una congiunzione presumibilmente
causale (‘… dell’Eroi, ché ha’);
c) il chi sarebbe pleonastico, reso implicito dal “vivendo” iniziale e dal sogget-
to sottinteso, mentre il che ci fornisce un dato supplementare, ovvero che
nell’albo d’oro sono segnati non solo gli inventori, ma anche – ed è meno
ovvio – le invenzioni;66
d) il che permette di comprendere meglio la natura, la funzione, nonché l’ori-
ginale collocazione (nella cupoletta del tempio) del misterioso “libro in let-
tere d’oro di cose importantissime”: le ‘cose importantissime’ sono appunto
questi ‘secreti d’importanza’ tecnico-scientifica dei Solari;67
e) quando CS ritorna sull’argomento sacerdoti, loro numero e residenza
(106.41), dopo poco (112.8) compare il “libro dell’eroi”, che, non solo ha
una singolare (fortuita?) assonanza col precedente (più marcata in R.: “d’e-
roi”/“d’oro”); ma per giunta in Città il sintagma ‘importan-’ compare solo
due volte, e proprio in relazione al contenuto dei libri (del libro).
In conclusione: malgrado tutto il peso della tradizione principale manoscritta,
condivisa anche da Civitas (“quicunque” [112.8]), probabilmente si tratta di
un errore nel ms di riferimento, trascinatosi inerzialmente, a causa della di-
stanza testuale fra i due libri (v. n. 10.6-7): ovvero libro d’oro e libro d’eroi so-
no simili per significante e uguali per significato, come la lezione di quel grup-
po di quattro mss lascerebbe intravedere, permettendo di avanzare quest’ipo-
tesi sull’enigma del libro, curiosamente tralasciata da tutti i commentatori.68

66
I punti c-e sono ripresi da Tornitore, p. 199.
67
Trattando dei libri ‘magici’ di Della Porta, Ernst 2002 ricorda che “il mago napoletano in-
seriva la vasta gamma dei suoi ritrovati entro i motivi neoplatonici resi popolari da Ficino, Pi-
co della Mirandola e Cornelio Agrippa, secondo i quali il ruolo del mago consiste nel mari-
tare le cose terrene a quelle celesti… ma connetteva altresì tale tradizione al fortunatissimo
filone della letteratura dei segreti, che dalla metà del secolo, grazie alla raccolta di segreti del
sedicente Alessio Piemontese, aveva conosciuto un successo e una diffusione crescente” (p.
19 - rinviando per i libri dei segreti a W. Eamon, La scienza dei segreti della natura. I libri discreti
nella cultura medievale e moderna, Ecig, Genova, 1999 [1994]).
68
Bobbio: il libro delle arti speculative che si legge nel tempio, la Bucolica, la Georgica; Firpo:
“vien fatto di pensare ai ‘segreti’ posseduti dai Solari in materia di allevamento, di medicina
e di guerra, spesso citati più innanzi” (così anche Crahay, p. 71: sebbene “placé a cet endroit,
ce codex pourrait contenir des éphémérides”); Amerio: “il libro contiene le osservazioni e i
210 LA CITTÀ DEL SOLE

10.18-9: Princeps… sacerdos,


Non esistendo proprietà privata, quindi neppure eredità ed ereditarietà, è eti-
mologicamente il ‘capofila’, cioè colui che occupa il primo posto in una serie:
tra gli Ebrei “quelli che governavano il popolo non erano signori, ma principi
e non potevano decidere nulla che non fosse conforme alla legge data da Dio”
(Theol. XVII [II, p. 213]).69
Per C. il potere deve essere affidato nelle mani di uno solo: come nell’uomo
una è la testa, così nella comunità (familiare o sociale) uno deve esser il “Rec-
tor”; invece gli organismi rappresentativi (“Senatus, consules, Optimates”) “so-
no istituiti in mancanza di un buon Rettore quando si è corrotto lo stato di na-
tura, et si in unum non coëunt, non potest civitas recte gubernari” (Quaest. oec.
I I, p. 171-2). Tale sovranità assoluta però si basa non sulla ‘signoria’ (di sangue,
di censo…), ma sulla primazia basata sul valore e sul merito (84.4-6), indizi a
loro volta di una investitura Superiore. Cristo lasciò un vicario, perché “ottima
è la monarchia col capo visibile per mantenere la unità, principio e fine degli
enti… ‘quot capita, tot sententiae’”, come succede agli eretici (Disc. univ. X [p.
1139]). Ma il dato fondamentale desumibile dalla legislazione mosaica è la fu-
sione dei due poteri, temporale e spirituale: “Christo fu figurato da Adamo…,
da Moise…, Abramo, e tutti questi ebbero la potestà spirituale e temporale, fu-
rono prencipi e sacerdoti del popolo loro; dunque Christo fu l’uno e l’altro.
Anzi è da stimare che queste due potestà siano una, ma diversi atti havendo è
divisa in parti tali integrali” (Mon. del Messia, p. 84).70 Dunque Cristo istituirà la
“monarchia sacerdotale, siccome è scritto: ‘Hai fatto di noi sacerdoti e regno
per il nostro Dio’… Melchisedec fu re e sacerdote; il papa è dell’ordine di Mel-
chisedec, e Platone collocò l’età dell’oro sotto un principato sacerdotale [Le-
ges, 713b-d]… Pietro lo chiama infatti ‘Sacerdozio regale’ [1Pt. 2, 9: “regale sa-
cerdotium et regnum sacerdotale”; cfr anche Apoc. 5, 10], e perciò il sommo sa-
cerdote e papa sarà sovrano di tutta la terra” nel secolo d’oro (Supplizio, pp. 93,
141-3, 149sg).71

pronostici tratti dai venti, l’importanza dei quali nei riguardi dell’agricoltura e della naviga-
toria è indicata dal C. in più luoghi”; Agazzi accoglie e sintetizza entrambi i punti di vista, in-
sistendo sul contenuto astrologico; Widmar invece ipotizza una raccolta dei principi morali
ed economici dei Solari, ma già Sapienza funge da summa enciclopedica: “unumque modo
volumen habent” (12.1); cfr anche De Mattei 1969, p. 150-1 e v. n. 104.1-3.
69
Così anche More: Firpo 1979 traduce con ‘magistrato supremo’ (p. 181) e assimila questa
carica vitalizia a quella del doge (v. n. 28.20).
70
Illuminante il commento di Frajese: “Principato e sacerdozio non sono quindi due poteri
che si sommano, quanto piuttosto due diverse funzioni dello stesso potere naturale” (p. 40).
71
Cfr anche: Lettere1, pp. 36 e 133; Antiven., p. 59; Mon. del Messia, p. 62-3; Papatus, p. 140; Ti-
toli, p. 299; Metaph. XVI VII, V (III, p. 283): già Platone e Aristotele consigliavano “che i re do-
vessero venir consacrati al sacerdozio, perché fossero venerabili presso i popoli ed evitassero
la tirannide”; Mon. Fr., p. 378: “dove regna un sacerdote sommo armato, non può nissun aspi-
rare a regno universale”; Quaest. oec. II IV, p. 178 e Mon. Messiae II, p. 10-1 ricordano che anti-
camente paternità, principato e sacerdozio erano uniti – in Adamo; sapienzialità, sacerdota-
lità e regalità in Ermete Trismegisto –, come si rileva anche dalla lettera di Platone ai Siracu-
COMMENTO AL TESTO 211

Oltre al papato, agli ebrei e ai selvaggi, l’altro esempio di teocrazia che C. po-
teva aver presente era la Pancaia di Diodoro, dove “i Sacerdoti sono quelli che
tutti gl’altri guidano: e a loro si rimettono di tutte le liti i giuditij, e tutto quel-
lo che d’intorno alle cose publiche si viene determinando” (V X [I, p. 274-5]),
o l’imperatore di Costantinopoli “signore di temporali e spirituali in so paese”
(Mandeville, XXVIII) e quello etiopico, che per modestia si faceva chiamare
Prete (Mon. Sp. XXVIII, p. 308: “il re delli Abassini, detto il Pretejanni”), impe-
ratore teocratico di un regno in cui “come el papa, li arcivescovi, vescovi e ab-
bati sono re” (Mandeville, CLXVII). Nell’utopia di Doni a capo della città è
eletto il più anziano dei cento sacerdoti, responsabili delle cento strade/quar-
tieri in cui essa è divisa (p. 72).

10.19: Hoh,
I nomi del teocrate e dei triumviri (Pon, Sin, Mor) sono gli unici lemmi della
lingua Solare. A chi si ispirano? Per i nomi dei triumviri v. n. sg. Il nome del
sommo sacerdote in Città era “Sole” (T.10.19: v. ‘Lezioni manoscritte variate’);

go di ‘Sole’ inteso come Metafisico, il simbolo astrologico, cioè la ¤ con il pun-


ma tutti i mss (e molti addirittura nel titolo: Città dell’O Sole) riportano, in luo-

viazione (ad es.: la ‘.a.’ sta per ‘autem’). La ¤ di Città, dunque, anzitutto celava
tino al centro oppure compresa fra due punti (.O.), che è un segnale di abbre-

una contraddizione: infatti, una volta sostituito il simbolo astrologico con il no-
me, la frase diventa incongruente, come avvertiva già Bobbio: “L’espressione
suo idiomate, riferita alla trasparente parola latina Sol [presente nell’ed. Fr.], e la
mancata corrispondenza con la traduzione in ‘Metafisico’ indussero il C. a co-
niare per la seconda ediz. quella parola fantastica ‘Hoh’”. La “parola fantasti-
ca” invece potrebbe essere una semplice ideografia e stenografia insieme: “Ta-
luni infatti scrivono con un particolare carattere un unico vocabolo, e ciò av-
viene in due modi: cioè sia imitando col disegno, come se ad esempio ‘o’ signi-
ficasse pane… come usano fare i Cinesi… Altri invece si valgono di una figura
simile, come gli Egizi, o simbolica, come fanno i Caldei, che indicano i pianeti
o i segni dello zodiaco con le figure di quegli animali… allo stesso modo gli
Egizi in luogo di ‘Iddio’ tratteggiano misticamente il carattere del sole”
(Gramm. III I, III, p. 681-3).72 Non è da escludere, però, che C. avesse in mente
un nome ‘esotico’ pertinente, come quell’‘On’, nome egizio della “Civitas So-
lis” (Is. 19, 18; o ricavabile da qualche esegesi biblica); oppure il geroglifico
dell’occhio e dello scettro, ideografia di Osiride, ricordato da vari autori: Dio-
doro, I I, II (I, p. 12): “Certa cosa è che ‘l primo Re che fosse appresso gli Egit-
tij, fu detto Sole”; Plutarco, Iside e Os. X e Macrobio, Saturn. I, 21, 12: questo

sani (Epist. VIII, 356e), e “idem abservatur apud Gentiles novi orbis multos”, a conferma del-
la ‘naturalità’ di tale carica.
72
Annota Firpo 1954: “C. aveva dunque riconosciuto il simbolo astrologico del sole ¤ (che
anche in cinese significa Sole) in qualche geroglifico egiziano”, che aveva potuto osservare
nell’“obelisco eretto in Roma di fronte alla basilica lateranense” (p. 1399).
212 LA CITTÀ DEL SOLE

simbolo indica che “Osiride è il sole, e che con potere divino vede dall’alto
ogni cosa; infatti gli antichi chiamano il sole ‘occhio di Giove’”; fino a una del-
le tante ed. cinquecentesche illustrate di Orapollo, II, 34: “il sole sovrasta e
scruta ogni cosa ed è per questo che viene chiamato ‘dai molti occhi’”, e quin-
di spesso [aggiunta cinquecentesca, p. 231:] “significavano Dio con l’immagine
di un occhio”.73
C. ha poi affiancato alla O due H, presumibilmente in seguito a una duplice
esigenza: a) uniformare la nomenclatura del vertice uni-trinitario a tre lettere;
b) utilizzare una lettera che non alterasse il suono della vocale-simbolo (Poët.
IX II, p. 1181: “La ‘h’ è quasi una vocale… serve per allungare le vocali”); la
doppia acca, poi, serve a evitare equivoci: una H sola avrebbe potuto esser
scambiata o per interiezione se seguiva, o per verbo se precedeva la O.74
Infine non è da escludere che sull’onomastica Solare abbiano influito le più va-
rie suggestioni: ad es. HOH è quasi il rovescio della celebre segnatura OMO
impressa sul volto umano (Dante, Purg. XXIII, 31-3); oppure, anziché lingue
esotiche nel tempo, è probabile che siano state lingue esotiche nello spazio a
fornirgli quantomeno un modello di riferimento: in SH I LXV si legge infatti
che “Omnes in illis partibus [= Persia] Solem colunt, qui ipsorum lingua Hel
dicitur”; ancora da Iapon., p. 146 o da Botero: “tutto il Giapone era sotto un Si-
gnore che si chiamava Dairi, avero Vò” (I II, I, p. 12); e anche gli abitanti delle
Molucche “hanno in tanta riverenza li Re loro, che non osano riguardarli e
non li chiamano altramente che con nome di Sole e di cose tali” (I II, I, p. 17).
Fin qui il significante. Per il significato di ‘Hoh’, le motivazioni dell’emblema
solare sono praticamente le stesse per cui al Sole è stato dedicato il nome della
città:
a) principio fisico telesiano positivo, e quindi simbolo della divinità naturale;
b) simbolo e protettore del papato (“Sol idest Papatus”), anche astrologica-
mente (Art. proph., p. 287);
c) il Sole è topicamente adottato a emblema del potere assoluto, tanto da
(s)piegarne l’etimologia (‘sole’→‘solo’): “Se tutto il mondo fosse retto da
uno solo, ut Alexander dicebat ab uno sole, cesserebbero le guerre e anche
le malattie” (Aphor. X, 23 [p. 197]); secondo C., Alessandro Magno avrebbe

73
L’occhio-sole, cioè il cerchio con un puntino al centro, non è poi altro che la pianta urba-
na della Città del Sole vista dall’alto e stilizzata nelle sue componenti fondamentali: l’anello
del girone con il Tempio solare centrale; immagine questa a C. non peregrina, visto che, per
rendere l’idea dell’eternità come puro presente, ricorre proprio a un modello panottico: “se
il centro del cerchio fosse occhiuto in tutte le direzioni, vedrebbe tutti i punti della periferia,
in cui terminano le linee, circuirlo, essendo gli uni passati e gli altri futuri rispetto ad essi
punti, ma rispetto a sé tutti presenti” (Theol. I [II, p. 15]).
74
Secondo Firpo 1970, le H servono a “renderla [= la O] più misteriosa” (p. 384); per
Crahay, invece, non si tratterebbe della lettera ‘O’, ma di “un modo approssimativo per ren-
dere il segno astrologico del Sole e le due ‘H’ servono a metterlo in rilievo, conferendogli un
aspetto esotico” (p. 73) – e infatti nella sua ed. gli “Hoh” del testo latino sono sistematica-
mente sostituiti dal cerchio con puntino.
COMMENTO AL TESTO 213

coniato questo paragone autoreferenziale (Mon. Messiae III, pp. 17 e 46; Po-
litica X, 23), divenuto etimologia corrente: infatti la si ritrova in Cicerone, De
nat. deor. III XXI; Macrobio, Somnium I XX (e Sat. I, 17, 65): “Il sole è il capo
degli astri… così il suo nome latino è derivato da una parola di quella lingua
che significa ‘solo’”; Isidoro, III LXXI: “Sol dicitur, quia solus apparet obscu-
ratis fulgore suo cunctis syderibus”; De Billy, 205I: “quod solus super hemi-
sphaerium nostrum insigniter eluceat”; Francesco Sansovino: “il Sole è vera-
mente un solo, et non più, et però si chiama Sole” (Delle cose mirabili della
città di Venezia, Venezia, 1587, in: Bolzoni 1995, p. 231); ed è onnipresente
nelle op. campan., in genere per polemizzare contro Aristotele che sostiene
“quod unus non possit regere mundum totum” (Mon. Messiae cit.);75
d) l’ultimo tocco a questo quadro non è escluso che provenga dall’ermetismo:
secondo Yates 1981, p. 27, il sacerdote Sole è la reincarnazione del Trisme-
gisto: “Egli era un sacerdote egiziano, il più saggio di tutti loro, eccelso come
filosofo per la sua vasta conoscenza, come sacerdote per la santità di vita e la
pratica di culti divini, degno infine del rango reale come amministratore
delle leggi” (per le coloriture magiche del ritratto di Hoh v. n. 28.24-30.5); e
infatti Mon. Messiae II, p. 12, a proposito della vetustà di questa carica, cita
proprio “Trismegistus, rex Aegyptiorum, vocatur ter maximus, quia erat
Rex, Sacerdos et Philosophus excellentissime”;
e) per ultimo, ma è la prima e unica cosa esplicitata dal testo, Hoh è la tradu-
zione ‘solariana’ di “Metafisico”, che significa ‘filosofo per eccellenza’ (in
contrasto con ‘Logico’, mero manipolatore di parole, com’è apostrofato Ari-
stotele a 116.19): se la filosofia è la suprema delle discipline umane, la meta-
fisica è la regina delle discipline filosofiche: “il legislatore è per la vita e i co-
stumi quello che il metafisico è per le scienze – anzi, se è un buon legislato-
re, è innanzi tutto metafisico” (Rhet. I I, p. 719).

10.25: Pon, Sin et Mor,


Per i Principi si serve di tre lettere (a caso? L’unica costante è che la prima e
l’ultima devono esser consonanti, la seconda vocale) contenute nel nome del-
le tre primalità (28.42-3: “pernosse… Potentiam, Sapientiam et Amorem”),
precorrendo così, secondo Di Napoli, p. 46, “l’uso moderno delle sigle”; men-
tre nel testo ‘Hoh’ ricorre spesso, per i triumviri userà solo un’altra volta i loro
nomi Solari (28.16). Tali nomi rispecchiano dunque la distinta sfera di compe-
tenza in cui ognuno di essi è ‘primo’ (‘primates’), e perciò stesso è a capo di
una struttura gerarchizzata e fittamente articolata in basso (v. n. 96.6).
Nella “città bellissima” di Panara, nell’isola indiana di Pancaia, “usano di eleg-
gere ogn’anno tre Principi, al giuditio de i quali le cose loro tutte (fuor che la
pena di morte, di maniera però che le cose d’importanza debbano co’ Sacer-
doti conferire) si rimettono”; di conseguenza: “la civilità loro è in tre parti divi-

75
Ad es. Gramm. III IV, I: “Sol perché risplende da solo” (p. 707); cfr anche: Lettere, p. 74; Epi-
logo, p. 551; Senso, p. 217; Supplizio, p. 137.
214 LA CITTÀ DEL SOLE

sa [Diodorus: “Politia eorum trifariam partita est”]” (Diodoro, V X [I, p. 274-


5]). A differenza però di quello diodoreo, il triumvirato solare non sembra di
primo acchito replicare l’archetipica triade indoeuropea, individuata da
Dumézil – chi prega, chi lavora e chi combatte –, perché rispecchierebbe la
struttura Trinitaria primalitativa (Essere = Potere+Sapere+ Volere: v. 126.18-22,
n. 28.41-3 e n. 126.18-128.2), autrice e garante dell’ordine naturale e sopran-
naturale. Eppure quell’archetipo di lunga durata rispunta ugualmente sotto la
vernice utopistica: il primato deve spettare alla casta sacerdotale (esattamente
come in Diodoro: “i Sacerdoti sono quelli che tutti gl’altri guidano”), perché
“la mente [= l’anima] è libera, e così pure il sacerdote… Ai sacerdoti sottostan-
no i magistrati, come lo spirito; ai magistrati i soldati, gli agricoltori, gli artigia-
ni come il corpo; a questi sottostanno le mura della città, i campi, i fiumi, le
greggi come i beni esterni al corpo; così si regge la migliore società” (Metaph.
XVI V, II [III, p. 233]; Mon. del Messia, p. 54-5): il migliore dei mondi possibili
non è altro che l’ennesimo calco dell’arcaica tribù indoeuropea, condito per
giunta con il più vieto stereotipo menenioagrippiano. Secondo Servier 1967,
invece, la fonte del triumvirato solare non sarebbe cartacea, ma reale: “en
1150, Eudes de l’Etoile avait fondé une Eglise nouvelle dont les dignitaires
etaient appelés Sagesse, Raison, Jugement (N. Cohn, p. 48). Il semble bien que
C. s’en soit souvenu en organisant” Città (p. 143). Ma la ‘Weltanschauung’
campan. ha senz’altro la priorità in siffatta struttura di potere: all’aristotelico
motore immobile, C. sostituisce il “conamen universale” (Phil. realis II, p. 129),
“le flux d’énergie qui innerve le monde et y propage la vie”, e da cui discende,
non solo una teologia e una cosmologia, ma anche una politologia: “A cette
unité originaire du pouvoir, à l’unité religieuse de son mode effluent de com-
munication correspond l’unité politique de sa dispensation aux hommes et de
son organisation par l’articulation de la parole, du glaive et de l’or. Cette unité,
C. l’appelle la Monarchie universelle. Puisque le pouvoir est Un, il faut que ce-
lui qui le proportionne et le dispense à travers le monde soit lui aussi unique:
c’est le monarque… Le mouvement universel innerve l’homme sans média-
tion sinon celle de la religion et de la monarchie. C. n’est pas un penseur de la
toute-puissance, car si le conamen est source unique de vie, son mode de di-
spensation est triple: le conamen se dispense avec puissance, sagesse et amour,
ce que C. appelle les trois primordialités, qu’il personnifiera dans la Cité du So-
leil sous le noms de Pon (POteNtia), de Sin (SapIeNtia) et de Mor (aMOR), et
que Leibniz reprendra dans sa Théodicée. Les trois primordialités symbolisent la
trinité dans l’unité de la substance divine du conamen” (Caye, p. 337-8).

10.30: magistratus
“‘Magistratus’ vero, quod sint maiores reliquis officiis” (Isidoro in: SD VII XI).
Carica onorifica meritocratica, non strettamente giuridica, sinonimo di “offi-
cialis” (in T. anche ‘mastro’), di derivazione platonica (es. Resp., 459b); pertan-
to le successive occorrenze di ‘officialis’ sono state tradotte con ‘magistrato’, ri-
servando ‘ufficiale’ all’esclusivo ambito militare, come in questo caso; i nomi
delle cariche militari sono ripetute genericamente a 62.22 e specificamente a
98.12sg.
COMMENTO AL TESTO 215

Le magistrature solari sono di numero indeterminato; si è eletti, e destituiti,


per meriti (26.39sg), secondo moduli e gerarchie da corporazione medievale,
godendo di privilegi e, in generale, di segnali di distinzione di status:
– abitano in celle grandi sul tempio (10.5-7: i magistrati superiori sono anche
sacerdoti [44.19])
– mangiano di più e meglio (36.29-31)
– sono però sottoposti a pratiche pre-sessuali rigorose (ma in quanto intellet-
tuali: 44.21)
– se un condannato a morte riesce a dimostrare che sono colpevoli, curiosa-
mente il condannato è esiliato, mentre loro sono soltanto ammoniti (102.2-
11)
– portano dei berretti con insegne speciali (110.12).

10.35-6: artes… mechanicae


Per quanto possano essere ideali, le società utopiche moderne non superano la
divisione primaria del lavoro (ad es. v. 16.21-8): anche nel convitto di Sforzinda
vige la stessa demarcazione tra le arti più degne e quelle meccaniche (Filarete,
p. 502). Ugo da San Vittore, nel Didascalicon I, dice che vi sono tre tipi di ‘ope-
re’: quella divina (la creazione), quella naturale e infine “opus humanum…
naturam imitatur, convenienter mechanicum, id est adulterinum, nominatur”
(in SD XI I: ‘De arte mechanica et speciebus eius’); le arti meccaniche, sintoni-
camente alle liberali, sono sette, secondo SH I LIII: “lanificium, armaturam, na-
vigationem, agriculturam, venationem, medicinam, theatricam”, la quale ulti-
ma racchiude le arti ludiche (navigazione, agricoltura e pastorizia, medicina,
arte militare sono le arti su cui si sofferma diffusamente il Genovese, con un fu-
gace accenno alla caccia [76.10] e alle attività teatrali [110.18-9]: v. n. 62 [glos-
sa] e n. 78.13-4).
C. in parte è allineato al tomismo dominante, che predicava la superiorità del-
le arti speculative per il primato della contemplazione (v. 40.4-8 e cfr Theol.
XXIII V, I); in parte riscatta questa ‘viltà’ della ‘meccanica’: in primo luogo,
seppur non sempre coerentemente (si ponga a confronto ad es. 78.7-17 e 80.3-
5), ammantando di ‘nobiltà’ le attività primarie: nel curriculum di Hoh non
devono mancare le ‘arti meccaniche’ (28.30), cioè le conoscenze tecniche; è
questo il punto di massima rivalutazione di queste discipline pratiche, altrove,
a partire dalla tassonomia dell’enciclopedia murale (16.21sg), sempre pospo-
ste a quelle ‘liberali’ o ‘speculative’ (34.9).76 In secondo luogo C. era un gran-
de estimatore delle scienze, specie quelle empiriche che recano un ausilio con-
creto all’uomo, come si vede dai tanti suoi (presunti) ritrovati tecnici che ascri-
ve all’inventività dei Solari; alla fine del suo trattato di astrologia, esorta a privi-
legiare la ragione, quella ragione che ha scoperto tutte le scienze davvero utili
per l’uomo: “scientiis vero uti eum oportet voracioribus, non sophisticis; ope-
rativisque, non verbosis, qui subtrahi malis cupit”, come l’agricoltura, la pasto-

76
Per tutta la questione dello statuto sociale delle arti v. n. 32 (glossa) § 3, punti 2 e 3.
216 LA CITTÀ DEL SOLE

rizia, la medicina… (Astrol. VII, p. 6; v. n. 26.24-7, n. 30.26-31), discipline prati-


che la cui regina è, per lui, la magia naturale (corrispondente all’odierna tec-
nica – per ‘magia’ e pratiche magiche v. anche n. 14.12-6, n. 28.24-30.5, n.
146.7-20) come si può evincere già solo dall’etimologia che ricava da ‘ma-
gus’→‘magister’ (v. n. 18.39).

10.38: doctores
I docenti, cioè “Doctores in publicis gymnasiis et templis”, sono sì “praeclario-
res”, ma le altre figure professionali (“Iudices, Procuratores, Medici, Pharma-
copolae”) sono “utiliores” (Quaest. oec. III I, p. 183); Botero, Ragion: “dottori ec-
cellenti in teologia e in ragione canonica” (p. 134).

10.40-4: vocatur Astrologus… Moralis;


T.10.39-43 non annovera Aritmetico, Storiografo e Poeta; a 98.3-8 ristila l’elen-
co, aumentandolo di cinque unità (identico a T.98.4-23).

10.41: Cosmographus
L’astrologia “tratta della causalità delle stelle sulle cose inferiori”; l’astronomia
è la scienza che “investiga i moti delle stelle, i siti, le quantità”; la cosmografia
“delinea la situazione di tutto il mondo e le moli dei corpi; un’altra che fa lo
stesso per la terra, è detta geometria” (Metaph. V II, II [I, p. 369-71]); in Mon.
Sp., p. 72, infatti, scrive che il principino “si deve pigliare spasso mirando le fi-
gure di matematici, cioè la descrizione delli suoi regni”. A Tolomeo risale la di-
stinzione fra astronomia propriamente detta, o astrologia matematica, e astro-
logia giudiziaria; distinzione che sarà consacrata e consegnata al Medio Evo da
Isidoro (III XXVII) e ripresa da Pico, I, p. 53. La “cosmographia”, nel ‘500 sino-
nimo di geografia,77 richiedeva le ‘matematiche’ come discipline propedeuti-
che (geo-metria), secondo l’insegnamento di Tolomeo: per la Geografia “la
scienza delle Matematiche… è importantissima, convenendole considerar la
forma, o la figura e la grandezza di tutta la terra, e insieme il sito e la disposi-
tione, che ella ha col cielo che la circonda…” (Geogr. I I), che significa, secon-
do il suo commentatore, “in che modo sia ciascun luogo situato per rispetto
del cielo, cioè in qual clima sia egli posto, sotto qual parallelo e a qual meridia-
no soggiaccia” (Magini). In geografia “descrittione commune” è “la descrittio-
ne della terra divisa per Regioni, e di tutte le cose che se ritrovano dentro di
quella, e parimente di fuore, dei monti, dei mari, dei fiumi, delle historie, e si-
milmente di tutte quelle cose che sono in ogni luogo riputate e meravigliose e
memorabili”; perciò C. vorrebbe che il re abbia “cosmografi che descrivano il
mondo tutto da Spagnoli navigato, perché Tolomeo poco ne seppe… Deve an-

77
Così Garzoni, XXXVII, p. 528 e CXXXII, p. 1351; e C. stesso, Theol. IV (II, p. 184); anzi lui
spesso menziona – ad es.: Mon. Fr., p. 490; Syntagma IV VI – la sua (perduta) Cosmografia
(1598), che raccoglieva lezioni di geografia impartite a nobili napoletani (Firpo 1954, p.
LXXII).
COMMENTO AL TESTO 217

cora mandare astrologi valenti al mondo nuovo… dove abbino da descrivere


tutte le figure di stelle nove che sono sotto il polo antartico” (Mon. Sp., p. 98);
come si vedrà poco oltre, geometria e geografia sono adiacenti nell’enciclope-
dia murale (v. n. 12.25-9).

10.44: Physiologus,
Da T.10.42 a Fr. era “il Fisico”; e nel prosieguo di CS non ci s’imbatterà mai in
Fisiologi, ma sempre e solo in Fisici: 46.31, 88.22, 98.4. Ciononostante, ho pre-
ferito continuare a tradurlo sempre con ‘Fisiologo’, per tre motivi:
a) “Physiologus” è usato come sinonimo di ‘Fisico’ dall’Au. (ad es. uno dei tito-
li della sua Astronomia era De motibus astrorum libri 4 contra physiologos et astro-
nomos; e in Theol. XXV, p. 58 se la prende con ‘astronomi et physici’), e quin-
di significa genericamente: ‘scienziato della natura’;
b) “Physicus” e “Physiologus” esercitano la stessa funzione, che, nella Città, è
contigua a quella di “Medicus” (ne è una specializzazione); e infatti nell’a-
nalogo elenco di magistrature soggette a Sapienza stilato a 98.4, il “Physicus”
è anche lì adiacente a “Medicus”;
c) ‘Fisico’ è oggi correntemente usato in accezione diversa, attestata anche in
CS (es. 32.38), in relazione oppositiva con Metafisico, e quindi in questi casi
va mantenuta la traduzione letterale del termine.
‘Fisiologia’ ha un significato generale e uno particolare, ma in entrambe le ac-
cezioni è un sinonimo di ‘fisica’. In generale, ‘fisiologia’ significa filosofia e
scienza della natura: “chi vuol conoscere la filosofia naturale [= physiologiam],
deve prima apprendere la storia naturale dei minerali, dei vegetali e degli ani-
mali…” (Syntagma II II); un esempio di ‘poema physiologicum’ è il Salmo CIII
di David, “dove si disputa del cielo, della terra, del mare, dei monti, delle sor-
genti, degli angeli, degli animali, delle erbe e delle stelle, e delle singole crea-
ture, in che modo sono state create per il vantaggio degli uomini… ci trovi na-
turas rerum et haec proprie est physiologia utilis…” (Poët. VIII I, p. 1061). Ma
anche la fisica ha lo stesso significato di scienza naturale; infatti il Forcellini de-
finisce la ‘Physiologia’ “scientia quae de naturis rerum disserit, eadem ac physi-
ca”, e “Physiologus… est qui etiam Italice fisiologo dicitur, qui nempe natura ar-
cana inquirit et interpretatur”, e dunque è equivalente di “Fisico, Filosofo na-
turale”. I Triumviri devono essere anche dei fisici (32.38), cioè naturalisti, visto
che, tra l’altro, il curriculum scolastico prevede lezioni “omnium scientiarum
naturalium” (26.30); scienze “physicas” (28.33), che certo Hoh deve conosce-
re, anche se deve eccellere in “metaphysicam” (28.37) – non a caso si chiama il
Metafisico. Comunque i contenuti e i confini tra Fisica e Metafisica sono af-
fiancatamente tracciati a 124.1sg (‘De physica’) e 126.2sg (‘De metaphysica’).
E la fisica, come lì vedremo, si occupa dei primi principi naturali e dell’origine
del mondo, è cioè la sommatoria di biologia (zoologia e botanica) e geologia
con un occhio di riguardo alla genesi delle forme minerali, vegetali e animali.
Il Fisico ha come “artis obiectum… veritatem naturae”, “le leggi di natura”
(Poët. I I, p. 912) – e questa è appunto la valenza divenuta oggi prevalente (se
non esclusiva), per cui, usato in questo significato, ‘physicus’ va tradotto fedel-
mente con ‘fisico’.
218 LA CITTÀ DEL SOLE

Vi è poi un’accezione ristretta di ‘physicus/physiologus’ particolarmente diffu-


sa proprio all’inizio del Seicento, come attesta la Crusca alla voce ‘fisico’:
“Scienziato di fisica [che è poi “scienzia della natura delle cose”]… Oggi l’uso
lo piglia sempre per medico. Lat. clinicus”; e anche il GDLI contrappone al me-
dico chirurgo il “medico fisico”, che cura le malattie interne. Il Fisico è dunque
il medico clinico, il terapeuta (non il chirurgo o il medico pratico),78 l’equiva-
lente del ‘Physiologus’, definito dal Du Cange: “medicus, qui de iis quae ad na-
turam hominis spectant, disserit”; e la fisica fisiologica (o la fisiologia fisica), a
sua volta è una branca della medicina: la medicina “avendo per oggetto le cau-
se delle cose naturali, che da’ medici vengon speculate… è tanto amica e fami-
gliare della fisica che si può con ragione chiamar scienza”; la prima delle cin-
que branche della medicina è la “naturale”, detta dai Greci “fisiologica”, e com-
prende: “gli elementi, i temperamenti, gli umori, le parti del corpo, le facolta-
ti, le azioni e gli spiriti” (Garzoni, XVII, ‘De’ medici fisici’ [pp. 278 e 283]); in-
fatti Galeno, Def. med.: “Medicina est ars quae sanis victus rationem et aegro-
tantibus medelas praescribit… Partes Medicinae… sunt quinque… Physiologia
equidem est quae in speculatione versatur regentis nos ac moderantis naturae”
(XIX, p. 351).

12.2: Sapientiam,
Assente in Città, avrà introdotto questo titolo per analogia con gli altri due testi
fondamentali dei Solari, Georgica e Bucolica (82.10 e 34); l’altra differenza è che
in Città è il triumviro Sapienza a tenere questo libro e leggerlo al popolo, men-
tre in Civitas sono tutti i magistrati a lui soggetti.
Oltre che da motivazioni ovvie (è un’enciclopedia del sapere, compilata dal Sa-
pienza), è probabile che tale titolo gli sia stato suggerito da un passo di Brigida,
in cui il mondo è chiamato “Sapientia Dei”, come si evince da Gentilismo, p. 16;
Theol. I (I, p. 23) e Apologia, p. 16 [trad., p. 142]: Salomone “nel capo VII della
Sapienza rivela di conoscere le scienze naturali, matematiche, astronomiche e
logiche… E per questo il mondo da principio era chiamato ‘Sapientia Dei’ (co-
me fu rivelato a santa Brigida) o ‘libro’ affinché noi tutti vi leggessimo dentro”:
Sapienza, dunque, perché viva e vera, e non scolastica, come uno dei tanti libri
morti che impigriscono lo spirito e lo distolgono dalla contemplazione del
Mondo, principale Libro divino (v. n. 30.31-3).
Dante, Parad. XXXIII, 85-7: “Nel Suo profondo vidi che s’interna, / legato con
amore in un volume, / ciò che per l’universo si squaderna”: nella Luce divina
è contenuto, come se fosse legato in un solo volume, ciò che è sparso in tutto
l’universo; per giunta la Luce “parvemi tre giri / di tre colori e d’una conte-
nenza” (116-8). Mentre a Thélème vi è ancora una immensa biblioteca, che oc-
cupa un intero lato della città esagonale (Rabelais, Gargantua I, 53), la nuova
“ossessione del secolo [è] quella di un’opera che contenga tutto, e ci si prova-

78
Un corrispondente di Mersenne, Villiers, letta la Medicina campan., dice di averla trovata
“pour l’egard du sujet plus physique que prattique”.
COMMENTO AL TESTO 219

no in tanti a scriverla: gli autori delle piazze universali, dei gran teatri del mon-
do… Possederlo equivarrà a possedere il mondo… Anche nella città ideale di
C. tutto il sapere e tutte le conoscenze sono contenute in un unico libro, anzi il
libro è conservato al centro di un tempio che ha tutta la larghezza didattica di
un grande museo”, che si espande e completa nelle mura (Lugli, pp. 100 e
138). Ancora auroralmente, C. è avvinto in un miraggio pansofico, “il libro
stesso tende a diventare tutta la biblioteca: è un contenitore aperto, pronto ad
assorbire in sé tendenzialmente tutti gli altri libri” (Bolzoni 1995, p. 63).

12.5: Pythagoreorum.
A Crotone Pitagora era arrivato ad avere duemila seguaci che conducevano vi-
ta comune secondo i suoi princìpi filosofici, formando un ‘makòeion’, “hoc est
auditorium publicum, ad quod omnes convenirent” (Giamblico, Vita [Theo-
doreto], VI, p. 43). I Solari, del resto, sono (stati – secondo R. e L.) “Bragmani
ex parte Pythagorici” (v. n. 64.16).
Il giovane C., influenzato dalle conversazioni con Stigliola (v. n. 4.15-8), aveva
scritto una Philosophia Pythagorica carmine Lucretiano instaurata, “un poemetto la-
tino in tre libri, composto in Napoli fra il 1590 e il ‘91” (Firpo 1954, p. 1366),
da lui menzionato spesso (Poetica XI, p. 338; nella lettera a Galilei del 13 gen-
naio 1611 lo chiama De philosophia pythagoreorum), considerando le loro teorie,
specie quelle astronomiche, ‘concordi con le Sacre Scritture’ (Apologia, p. 10-
1).

12 (glossa): Scientiarum… disciplinae


1. Enciclopedia
Tra le strabilianti invenzioni che C. promette a illustri personaggi, come il car-
dinale Farnese, c’è quella di “fabricar una città ammirabile al re, salubre ed
inespugnabile, che, mirandola solo, s’imparino tutte scienze istoricamente”
(Lettere [1606], p. 28).79
Sulle cortine del tempio e su sei delle sette mura della Città del Sole il triumvi-
ro Sapienza ha fatto dipingere tutto lo scibile umano “mirifico ordine” (12.11),
e tali pitture, come recita la glossa a margine, facilitano l’apprendimento delle
scienze. Le mura dipinte, a metà strada fra Enciclopedia80 Illustrata e Museo

79
A dimostrazione della convinzione, o pervicacia, dell’Au., la stessa promessa è reiterata ad
altri illustri corrispondenti (Lettere, pp. 158, 174; Lettere1, pp. 24, 62), e viene ripresa in Quae-
st. pol. IV: “Ho eliminato i mali che derivano dall’ignoranza e dall’insipienza, grazie alla gran-
de familiarità degli abitanti con ogni tipo di dottrina, e poi la struttura stessa di questa città e
le immagini murali comunicano a chi le guarda tutte le scienze, almeno da un punto di vista
descrittivo” (trad. Ernst, p. 111).
80
Thomas Elyot in The Boke named the Governor usa per la prima volta nel 1531 il termine “en-
ciclopedia”; il termine latino moderno deriva da una falsa lettura dell’espressione greca
‘enkyklios paideia’, cioè ‘istruzione circolare’ = ‘insieme di dottrine che costituiscono un’i-
struzione totale’. Entrambe queste accezioni sono perfettamente compatibili con l’invenzio-
ne dei murales: la ‘circolarità’ e la ‘totalità’ dello scibile. Era ancora l’accezione aristotelica
220 LA CITTÀ DEL SOLE

delle Meraviglie – questo Rotolo di pietra insensibile al tempo (atmosferico e


storico) –, sono uno dei sogni più sognati in età moderna: la memoria univer-
sale, nella versione qui prevalentemente pedagogizzante dell’imparare presto
e bene (32.7); sempre al cardinal Farnese scriveva: “Prometto inoltre d’inse-
gnar filosofia naturale e morale, logica, retorica… cosmografia in spazio d’an-
no a tutti ingegni atti a imparare con mirabil modo, facendo che il mondo stes-
so serva per libro e memoria locale” (Lettere, p. 27).
Vorrei tentare di delucidare sia il ‘mirifico ordine’ con cui si srotola il sapere
universale, cioè il criterio tassonomico che sottende la sequenza di pitture mu-
rali, sia l’artificio su cui si basa la presunta facilità di apprendimento – due que-
stioni cruciali su cui purtroppo C. glissa, e che tratterò separatamente per pure
ragioni espositive, ma che naturalmente sono interrelate, perché la conoscen-
za del criterio ordinativo agevola il processo assimilativo. È spontaneo porsi un
quesito preliminare: perché un sapere enciclopedico? Così risponde il Solare a
T.30.41sg: “Noi pur sappiamo che chi sa una scienza sola, non sa quella né l’al-
tre bene; e che colui ch’è atto ad una sola studiata in libro, è inerte e grosso”.
La riforma delle scienze auspicata da C. (cui si applicò a partire dal 1609 fino
ad approdare alla Disputatio in Prologum instauratarum scientiarum premessa alla
Phil. realis del 1637) è improntata al principio che il sapere deve fondarsi “iux-
ta propria dogmata ex natura et Scriptura Dei codicibus”, ovvero: per abituarsi
a pensare con la propria testa (spirito critico), attingendo le idee dai due Gran-
di Codici divini, quindi dall’universo mondo storico e naturale, bisogna domi-
nare un sapere poliedrico (anche se non approfondito, come accade del resto
agli stessi triumviri: 32.26sg). Questa riforma delle scienze è stata dettata da
due necessità: a) l’enorme accelerazione del sapere dell’ultimo secolo (inven-
zioni e scoperte terrestri e celesti: 136.6-14), che ha scardinato il passato para-
digma scientifico; b) l’originalità del genio del cristianesimo, che per la sua in-
trinseca razionalità, è in grado di fornire, molto più di qualsiasi filosofia passa-
ta, una visione del mondo completa e coerente (per tutta la problematica epi-
stemologica cfr Amerio 1966, p. 160-2).

plutarchiana (basti pensare all’Ethica nicomachea): quella che in certo modo domina pure
l’enciclopedismo medievale e rinascimentale. Nel senso moderno di esposizione di tutto lo
scibile il termine appare solo nel 1620 nel Cursus philosophici Encyclopaedia di Johann Alsted.
Invece l’ordine alfabetico fu introdotto solo nel Settecento dal Coronelli. “Il termine ‘enci-
clopedia’ adoperò il C. la prima volta nel 1598, intitolando un compendietto, oggi perduto,
non si sa bene se dell’universo sapere o della sola cosmografia, che egli aveva allora imparti-
ta a certi nobili in Napoli. Ma non frequentò più gran che un tal vocabolo, passando a quel-
la sua ‘universalis instauratio scientiarum’ che al concetto di giro compìto dello scibile asso-
cia quell’altro di una generale rifusione del sapere… In effetti sono riconoscibili nel C. tre
enciclopedie: l’enciclopedia come ‘polimazia’ e sentimento che il filosofo ebbe della propria
forza intellettuale; l’enciclopedia come ‘teorica dell’enciclopedia’, cioè come epistemologia;
infine l’enciclopedia come giro compìto delle scienze da lui restaurate” (Amerio 1966, p.
157): naturalmente qui è in causa quest’ultima accezione; e, visto che l’aveva usato come ti-
tolo di un’opera pedagogica perduta, non escluderei che la pseudo-etimologia del nome
stesso – educazione circolare – abbia contribuito all’idea delle mura ‘enciclopediche’.
COMMENTO AL TESTO 221

2. Tassonomia
“Mirifico ordine”: qual è dunque il criterio ordinativo di questa enciclopedia
murale illustrata, che è lo specchio dell’universo? E perché poi sarebbe così
‘mirifico’?
Mentre fino a 10.14 il vettore descrittivo era orientato dall’esterno all’inter-
no (dal basso verso l’alto), adesso (12.12) è come se lo sguardo del Genove-
se, giunto in cima al pinnacolo più alto, contemplasse dalla prospettiva op-
posta la Città, o, secondo Donno, facesse dietrofront. In effetti non è così.
Anzitutto la descrizione urbanistica e (quindi) la narrazione in presa diretta
è terminata con la domanda dell’Ospitaliero sulla natura del regime politico
(10.15); in secondo luogo la descrizione delle figure murali si arresta alla se-
sta cinta e pertanto si sviluppa non in base a punti di vista prospettici del visi-
tatore,81 ma secondo i criteri tassonomici dell’ideatore, il Sapienza. Il filo
conduttore del sapere è un arco teso fra il vertice del macrocosmo (le stelle)
e il vertice del microcosmo (Cristo). Che non si tratti di un ordine ‘esotico’,
casuale o prettamente pedagogico, basterebbe a dimostrarlo l’indice di Phil.
realis (il vero Sapientia, e non quello fittizio dei Solari [12.2]), dove i capitoli
si dipanano secondo lo stesso filo attorcigliato ai sei gironi: ‘sei’, questo nu-
mero sacro (come il sette: 148.18), corrisponde ai giorni della Creazione.82
In effetti il ricorso alla Bibbia è abbastanza ovvio, non tanto per la formazio-
ne religiosa di C.,83 quanto per la teoria del doppio codice scritto da Dio, il
Libro della Natura e quello dei Profeti, disprezzando invece i libri degli uo-
mini (v. n. 30.26-31 e n. 30.31-3), specie se peripatetico-lullistici (v. punto
seg.): basta rammentare l’eloquente sonetto 6 (‘Modo di filosofare’), dove si
esorta a “non studiare i libri e tempii morti delli uomini”, “copiati dal vivo
con più errori”, per “tornar all’original libro della natura”. Perciò una città
ideale e naturale non può che ‘tornar all’originale’, cioè all’ordine primor-
diale, quello con cui Dio ha creato, sistemato e insegnato il mondo prima ad
Adamo e poi, attraverso appunto la Bibbia, agli uomini. Premesso ciò, l’orga-
nizzazione della conoscenza del mondo, ovvero del Libro della Natura, è age-

81
Né soltanto, come dice Firpo, per la “prevalente funzione difensiva” della settima cerchia;
il motivo lo si può dedurre, invece, da Quaest. phys. II III, 11, dove, volendo anticipare un po’
quanto veniamo a dire, C., dopo aver ripercorso le tappe principali della Creazione, conclu-
de: “et deinde [Dio creò] hominem in sexto die. Nam in sex diebus operatum esse, et in sep-
timo quievisse, [la Genesi] narrat”: il settimo girone è bianco perché Dio si riposò, e, termi-
nata la Creazione, l’Enciclopedia è finita.
82
Un C., che ironizzava sul fatto che, mentre i rabbini sulle lettere ci “costruiscono una filo-
sofia, i nostri ne cavano appena degli anagrammi” (Gramm. III I, V, p. 687), non poteva non
accorgersi del facile anagramma gironi/giorni, essendo inoltre entrambi chiamati con i no-
mi dei pianeti (4.6; cfr anche Astrol., pp. 214 e 228, dov’è esplicitato il nesso giorni della crea-
zione/pianeti).
83
Tommaso, trattando della gerarchia dei regni naturali e degli uomini, afferma: “È eviden-
te che la divina provvidenza ha posto un ordine in tutte le cose, cosicché è vero quanto dice
l’Apostolo: ‘Le cose che sono da Dio sono ordinate’” (3SCG, 81).
222 LA CITTÀ DEL SOLE

volmente deducibile dal secondo Libro divino, la Bibbia.84 Per cercare di


chiarire meglio quanto profondo fosse questo modello del doppio codice
(Natura/Scrittura), si può ricorrere a questo rapporto:
Natura:Bibbia = Figure murali:Sapienza
Se però si va ad applicare meccanicamente la Genesi all’indice dell’enciclope-
dia solare, le corrispondenze giorni/gironi saltano. Affinché i rapporti tornino
a collimare occorre una chiave. E questa ‘clavis universalis’ si trova, con debita
esaltazione dei misteri numerologici, in Theol. III VIII: “respondet primus [dies
formationis] quarto [die ornatu], secundus quinto, tertius sexto, et qui philo-
sophantur in numeris multa hic habent mysteria”. Attraverso la lettura che C.
fa della Genesi, è possibile dedurre il cifrario per decodificare il sistema tasso-
nomico della sua enciclopedia: egli pone infatti una precisa corrispondenza fra
la creazione degli ‘scenari’ dei primi tre giorni e quella degli ‘ornamenti’ degli
altri tre:
1°giorno: distinz. LUCE/TENEBRE →4°: ornato del FUOCO
2°giorno: distinz. ACQUA(super.)/ACQUA(infer.)→5°: ornato ACQU/ARIA
3°giorno: distinz. ACQUA/TERRA →6°: ornato della TERRA
Il 1° giorno Dio creò la luce, che distingue la notte dal giorno: e, corrispon-
dentemente, nel 4° giorno fece le stelle, che sono l’ornato del cielo. E analo-
gamente nella Città, il centro dello stato è destinato a rappresentare la carto-
grafia celeste (pure all’interno del tempio vi sono mappamondi terrestri e
astrali). Anche il primo girone, con le scienze sussidiarie dell’astronomia, co-
me la geometria, geologia, gemmologia e meteorologia, è sempre dedicato
all’illustrazione di uno degli ‘ornamenti’ celesti, la Terra (come pianeta e, in
quanto elemento, come nemica del Fuoco, il cui regno è lo spazio sidereo, di
cui è affrescato il tempio, dedicato al suo principe e simbolo, il Sole). Il se-
condo giorno sono in causa le scienze delle acque, le quali acque, come il cie-
lo produsse gli astri, generarono pesci e uccelli (passo che ha creato sempre
un qualche imbarazzo negli esegeti: cfr ad es. Ambrogio, V XIV, 45, che deve
inventarsi delle analogie fra le due specie; SQ XVI I, invece, risolve brillante-
mente l’impasse: “Patet ratio cur sub eadem die factus est ornatus aëris et
aquae, quia scilicet haec duo elementa tenent naturam mediam luminosi
corporis, idest caeli vel ignis, et opaci, scilicet terrae”: data la facile converti-
bilità di aria/acqua, attraverso un semplice passaggio di grado di densità, dal-
l’acqua sono sorti sia i volatili che i “natatilia, et non ex aëre volatilia”. In-
somma con un unico atto Dio creò un solo ‘umore’ che varia soltanto “prop-
ter crassitudinem”, il dominio liquido per i pesci e quello aereo per gli uccel-
li, “et ideo dicitur aqua commune productivum utrorumque cum dicitur:
‘Producant aquae reptile ecc…’, quia ex aquis elevatis in vapores nubium exi-

84
Il comm. di Damasceno definisce “Liber naturae est ipsa mundi dispositio, singulas creatu-
rarum species pulcherrimo ordine complectens, et summum omnium authorem ex ipsis
quoque pacto dinoscendum insinuans… Liber vero Scripturae est sacra pagina… in quibus
divina revelatione nobis indultis manifesta traditur Dei cognitio” (Orthod. fidei I, 164C).
COMMENTO AL TESTO 223

stit materia volatilium, ex aquis vero pinguescentibus inferius materia pi-


scium”. La distinzione delle acque nel secondo giorno comporta solo un pro-
cesso di rarefazione di quello che è primordialmente un unico “umore”, o
meglio un fluido (oggi diremmo un ‘brodo primordiale’, a patto di non sot-
tilizzare sullo stato fisico-biologico): la parte evaporata sale in alto, mentre si
ferma in basso in forma liquida la parte più condensata (così diceva anche il
Poimandres, 5 [45]). Ma da questo elemento anfibio, l’‘acqu/aria’, “si forma-
no per concrezione anche le pietre” e ‘a fortiori’ le varie specie di “liquores”
del II girone; nonché le piante del III interno. Dal III esterno in poi l’acqua
e l’aria si trasformano da contenuto generatore in due distinti contenitori
(scenari): secondo la gerarchia ascendente, conforme a un universo antro-
pocentrico (“le specie più perfette si fanno dopo quelle imperfette, e final-
mente viene l’uomo che è il più perfetto dei viventi” [Theol. III, p. 179]), la
meno quintessenziata acqua e i suoi abitanti precedono il IV girone interno
degli uccelli.
Illustrate così le Scienze dell’Acqua e dell’Aria (ovvero il 2°/5° giorno), si pas-
sa al 3°/6° giorno (separazione della terra dalle acque / suo popolamento), e
quindi alle Scienze dell’elemento connesso: al regno della terra (come quarto
elemento, insieme generatore e scenario) appartengono gli animali, sia imper-
fetti (rettili e insetti, generati da materie vili, come il fango e gli escrementi) e
sia perfetti, disegnati sul ‘recto’ del quinto girone, cioè quelli ambulanti e ses-
suati (v. n. 16.13). Il sesto è dedicato agli esemplari più degni del genere uma-
no, il vertice autoconsapevole dell’universo: la dignità inferiore o interna è ri-
servata agli inventori ‘manuali’, quella superiore esterna agli ‘intellettuali’, al
sommo dei quali stanno i legislatori.85

3. Memoria e immaginazione
Se oggetto del sapere è la Natura, e la Scrittura, suo specchio fedele, fornisce il
criterio tassonomico e gerarchico, come si fa poi concretamente ad apprende-
re una simile mole di dati, per giunta presto e bene? A quali risorse, materiali e
intellettuali, bisogna far appello? Di certo non ricorrendo ai libri e alla “me-
moria servile” (T.28.28-9 – affermazione ancor più autorevole, perché sostenu-
ta da uno che leggeva e ricordava tutti i libri).
I Solari, pur conoscendo ed apprezzando la stampa come uno dei segnali del
moderno (136.9-11), non alludono mai a biblioteche e in tutta l’opera si men-

85
L’Au., che si ritaglierà uno spazio in finale come ‘filosofo magno’ (158.12), lo possiamo
senz’altro immaginare in quest’eletta schiera, “sesto fra cotanto senno” (Inferno IV, 102), pas-
so cui allude, per altro scopo, in Poët. IV III. E così i vertici dell’umanità, con l’immortalità
della fama, si approssimano al divino – Cristo, il teandro, “in loco dignissimo” (18.5) –: che la
tassonomia ‘naturale’ sia anzitutto una gerarchia, è quasi tautologico, com’è magnificamen-
te tratteggiato dal chiaro e sintetico schema agostiniano: “In his ergo quae a Deo facta sunt,
praeponuntur viventia non viventibus; et in his quae vivunt, sentientia non sentientibus; et in
his quae sentiunt intelligentia non intelligentibus; et in his quae sentiunt et intelligunt, im-
mortalia mortalibus. Sed ita praeponuntur ordine naturae” (Civ. Dei, X).
224 LA CITTÀ DEL SOLE

zionano solo tre libri (il Sapientia, che è la versione cartacea dell’enciclopedia
murale, e due manuali tecnico-pratici, la Georgica [82.10] e la Bucolica [82.34] –
tralasciando il Libro a lettere d’oro [10.13-4], perché è probabilmente un Albo
d’oro, con funzioni celebrativo-commemorative più che manualistiche [v. n.
10.13-4]); ciò non esclude che essi posseggano una biblioteca, da cui attingere,
ad es., per le letture pubbliche fatte in varie sedi (a mensa, nelle lezioni milita-
ri ecc.). È certo però che il libro, la cultura libresca, non gode buona fama nel-
la Città, perché:
• tutto quello sciupio di vernici e superfici (a fronte del totale silenzio in fatto
di biblioteche) sembra deporre a favore della cosa sulla parola, della figura
sulla scrittura (e la lettura è sempre un’attività corale, non individuale, cioè
vi è sempre qualcuno che legge ad un uditorio: 12.4, 36.15, 64.25);
• l’unica volta, in tutta l’opera, in cui un Solare prende la parola, lo fa per
rampognare gli Occidentali che incentivano la ‘memoria servile’ infarcen-
dola di sillogismi aristotelici, col duplice risultato d’intorpidire le menti e di
allontanarle per sempre dalla verità delle cose reali a causa di quel filtro di
preconcetti con cui sono state imbottite (v. n. 30.26-31).
• Primato della vista sull’udito, dell’esperienza sull’ipse dixit? Solo in parte.
Quel che forse qui è in causa non è tanto la vetusta gerarchia dei sensi,
quanto una germinale ‘psicologia’, cioè un profondo ripensamento di ruolo
e funzione delle principali facoltà mentali: memoria e immaginazione.
Nell’età del Manierismo e del Barocco si assiste all’ultimo grande trionfo del-
le arti della memoria, che sono certamente le principali ispiratrici di que-
st’enciclopedia murale; quelle arti che, decollate nel XIII sec., per impulso
dei domenicani (come Romberch), furono portate all’apice (ermetico) dal
domenicano Giordano Bruno (Yates 1972, p. 183). “L’arte della memoria,
nel Cinquecento, conserva i tradizionali ingredienti di base (i loci, l’ordine,
le immagini), ma tende anche a trasformarsi profondamente. La rinnovata
fortuna del lullismo e la riforma della logica legata al ramismo dischiudono
nuovi orizzonti”; si va alla ricerca di un metodo capace di riprodurre il ritmo
profondo della realtà, un metodo che sia dunque in grado di offrire la clavis
universalis, ovvero “quel metodo o quella scienza generalissima che pongono
l’uomo in grado di cogliere, al di là delle apparenze fenomeniche o delle
‘ombre delle idee’, la struttura o trama ideale che costituisce l’essenza della
realtà… mettendolo a contatto non con i segni, ma con le cose; dar luogo ad
enciclopedie totali, a ordinate classificazioni che siano lo specchio fedele del-
l’armonia presente nel cosmo” (Rossi 1983, p. 17). Molti maestri di memoria
sono inoltre affascinati dalle dottrine di ascendenza ermetica, cabalistica,
neoplatonica. “L’arte della memoria diventa allora parte di un complesso in-
sieme di procedure attraverso cui si cerca di decifrare la fitta rete di corri-
spondenze che legano il microcosmo al macrocosmo, sperando di impadro-
nirsi dei poteri che l’accesso ai livelli più profondi e più segreti della realtà
comporta”: questa citazione di Bolzoni 1995 (p. 253-4), oltre ad esser la sin-
tesi più efficace e aggiornata del quadro delle mnemotecniche moderne,
contiene molte delle potenziali componenti alla cui risultante sta l’enciclo-
pedia murale, utopistica ma non troppo – visto che l’Orbis sensualium pictus
COMMENTO AL TESTO 225

comeniano (1658)86 è, attraverso la mediazione di Bruno e Andreä87 e op-


portunamente depurato degli elementi magico-astrologici, una sua sicura,
prossima e realistica filiazione. Tra le varie discipline (dalla retorica alla ma-
gia) che si aspettavano delle ricadute positive da questo rilancio delle mne-
motecniche, una delle più coinvolgibili era appunto la pedagogia: imparare
presto e bene. Perciò i Solari, che possiedono in ogni campo tutto il know-
how più avanzato del mondo (e oltre: l’arte del volo [138.7]), non possono
non aver piegato a fini didattici gli ultimi ritrovati dell’arte della memoria,
sia contenutistici (assenza della cultura libresca, e di contro: insistenza sulle
scienze e arti manuali) che metodologici.
La città istoriata appartiene a uno schema mnemotecnico classico, cioè quel-
lo dei ‘loci’, che risale almeno alle Institutiones oratoriae di Quintiliano (XI II,
17-22), e che C. teorizza nella Rhet. IV I: “Giova [agli oratori] anche l’arte del-
la memoria, che si fonda sui luoghi e le immagini, ad es. imprimendosi in
mente molti luoghi ben noti, spesso percepiti col tatto e con la vista in qual-
che palazzo o convento… Allora infatti, ripercorrendo ordinatamente nella
memoria i luoghi, vengono in mente le immagini e di conseguenza le cose da
dire illustrate con le immagini, nello stesso ordine. Si possono fare immagini
reali e affiggerle o scriverle in quei luoghi, quando si debbono esporre molte
e importanti cose” (p. 747-9); schema che, secondo Ellero (p. 114), C. pratica
nelle poesie (segnatamente le Poesie filosofiche). Così suggeriva Della Porta nel-
l’Ars reminiscendi (Napoli, 1602 [1566I]): l’animo si muove volentieri per i luo-
ghi materiali, e dunque la miglior mnemotecnica è ripercorrere idealmente
un tragitto spaziale: “Per questo, scrive il Della Porta, nell’Eneide Enea rac-
conta a Didone le proprie avventure ricordando prima, in ordinata successio-
ne il luogo in cui ciascuna di essa si è verificata… L’esigenza retorica di una
ordinata ‘dispositio’ viene d’altra parte a sovrapporsi perfettamente all’esi-
genza mnemonica di costruire un ordinato percorso di luoghi” (Bolzoni
1995, p. 197; cfr anche Bolzoni 1986). Ecco il primo requisito urbanistico (“la
regolarità dell’architettura crea delle relazioni fra gli oggetti dispersi del
mondo che vengono rappresentati figurativamente” [Neuber, p. 100]) e pe-
dagogico (mutuato dalle arti della memoria): schiere di fanciulli compiono
passeggiate didattiche in questo teatro del sapere seguendo corretti ritmi ed
itinerari (26.14sg), proprio perché l’itinerario è reputato un sussidio al pari

86
Comenio aveva conosciuto la filosofia di C. attraverso l’Adami, cancelliere dell’università
di Jena (cfr anche Yates 1972, p. 350-1 e Salsano).
87
“Con cui C. carteggiò” (Amerio 1966, p. 179), e a cui Tobia Adami aveva indirizzato la let-
tera dedicatoria dell’edizione del 1621 della raccolta poetica campan., di cui Andreä aveva
tradotto in tedesco sei sonetti già nel 1619. Su Andreä e Comenio cfr E. Garin, L’educazione in
Europa 1400/1600, Bari, 1957, p. 222-9; Rossi 1983, p. 203-11; Zoppi Garampi, p. 38-9 ricorda
inoltre l’amicizia di Adami con Johann H. Alsted, autore di una Clavis artis lullianae (1609) e
di Vernat con Wolfgang Ratke, “che come Alsted aveva utilizzato la dottrina ramista per clas-
sificare in maniera sistematica tutti gli elementi della realtà e garantire così il possesso della
sapienza universale”.
226 LA CITTÀ DEL SOLE

dell’audiovisività (immagini dipinte e commentate per iscritto e oralmente).


Lo stesso Garzoni era convinto che “l’arte aiuti grandemente la natura… e
che molto giovi alla memoria l’artificio quando i luoghi non siano come in-
numerabili” (LX, p. 841); e, basandosi sul Thesaurus artificiosae memoriae di
Cosma Rosselli (1579), distingue i luoghi (= lo spazio in cui si visualizzano in
sequenza le immagini, permettendo di ricordarle più facilmente) in omoge-
nei ed “eterogenei (come… una città)… I luoghi particolari son le parti di
questi predetti (come un muro, una mano d’uomo, una piazza d’una città); e
da questi dipende quasi tutta la memoria artificiale delle cose, ch’è riposta in
loro” (cioè non solo le immagini aiutano a ricordare le cose, ma anche la lo-
ro ordinata collocazione nei gironi ha funzione mnemotecnica). E ancora: il
palazzo mentale, il testo come edificio (“la Città del Sole, se usata come siste-
ma di memoria, doveva costituire un sistema semplicissimo di memoria rina-
scimentale, in cui il sistema classico di ricordare luoghi in edifici veniva adat-
tato alle modalità rinascimentali di rispecchiamento del mondo” [Yates 1972,
p. 276; cfr anche Bolzoni 1995, p. 198sg]), il testo come città (ib., p. 260-2:
con rinvio a Doni in partic., e all’architettura utopistica in generale: “del re-
sto ridisegnare la città vuol dire spesso, nell’utopia cinquecentesca, ridisegna-
re l’enciclopedia”).
L’immagine può essere un ausilio della memoria o un surrogato della realtà,
ma comunque sempre in funzione subordinata, ancillare alla cosa, che deve re-
stare l’oggetto prioritario del sapere: “Quando ci vogliamo ricordare delle cose
imparate pigliamo il libro dov’è l’imagin loro o le contempliamo in altro simi-
le. Similmente vedendo una lampada ci ricordiamo del Sole…” (Epilogo, p.
460). Imitando, al più, si ricorda, ma né s’impara né si prova piacere estetico (e
dunque stimolo a imparare) come erroneamente supponeva Aristotele (Rhet.,
p. 1371), secondo cui “imitare è piacevole, perché s’impara: non ci rallegriamo
infatti per ciò che imitiamo, ma perché facciamo il ragionamento che la cosa
dipinta è già stata da noi veduta nella realtà, e così avviene che si impari qual-
che cosa. In tali parole Aristotele ribadisce l’errore già rilevato nella sua Poetica
[VI, 1451b]. Infatti che cosa impariamo vedendo Cesare dipinto, se l’abbiamo
già visto vivo? Evidentemente che il dipinto raffigura lui. Se è così, mi ralle-
grerò di più vedendolo vivo, perché constato materialmente che quello di oggi
è lo stesso di ieri. Non consiste il piacere nell’imitare, ma nell’indizio di un’ar-
te capace di conservare” (Poët. II V, p. 947).
Ha ragione Amerio 1966 a sottolineare che nelle opere campan. “manca omni-
namente una tecnica della memoria, manca un accenno qualsiasi alla clavis univer-
salis, manca ogni ombra di didattica… in nessunissima parte [vi è] traccia alcu-
na di una mnemotecnica nel senso lulliano e bruniano” (p. 159). Ciò non si-
gnifica però una svalutazione della memoria ‘tout court’, ma solo di un certo
tipo di memoria: all’astratta combinatoria di vuote definizioni dell’enciclope-
dismo lullista, C. contrappone infatti un altro modello “fondato sulle immagi-
ni sensibili. Nel perduto De investigatione rerum, composto fra il 1587 e il 1591,
C. aveva fatto riferimento a una dialettica ‘ex solo sensu’ che classificava gli og-
getti del senso in nove categorie, «di modo che si possa argomentare intorno a
qualunque cosa non solo mediante vocaboli, secondo l’uso di R. Lullo, ma me-
COMMENTO AL TESTO 227

Fig. 5 - La Scala dell’Ascesa e della Discesa di Ramon Lullo (da Yates 1972, p. 166).
228 LA CITTÀ DEL SOLE

Fig. 6 - Figure dell’Ars Brevis di R. Lullo (Strassburg, 1617; in: Salsano, fig. 7)
COMMENTO AL TESTO 229

diante oggetti sensibili»”88: un rilancio della teoria della ‘memoria locale’ di


Pietro da Ravenna contro l’‘ars combinatoria’ lulliana, per cui, più che la ri-
cerca dei luoghi, prevale la funzione esercitata dalle figure che devono essere
degli eccitanti dell’immaginazione. La teoria dell’immaginazione che era alla
base del ‘Teatro della memoria’ di Giulio Camillo,89 presuppone che non siano

88
Il passo (cit. da Rossi 1983, p. 147) è la traduzione di Syntagma I I, dove C. rievoca la lettu-
ra giovanile di Lullo nel convento di Altomonte; “de principiis sciendi per categorias”, tra cui
quelle “Lullianas”, si occuperà più tardi in Metaph. (Syntagma I III): è molto probabile che
l’Ars magna lulliana sia stata, prima e più di altre opere, la lettura che gli ha ispirato, sia in po-
sitivo che in negativo, i criteri epistemologici e pedagogici concretizzatisi poi nelle mura so-
lari. La differenza, anzi l’antitesi, è stata illustrata dall’Au. stesso, ed è quella classica – le pa-
role contro le cose –: Lullo si basa solo su parole [“per vocabula tantum”], mentre C. sogna
una scienza enciclopedica che si basi sulla combinatoria di nove generi di sensibili [“redactis
ad novem genera sensibilium”]. L’invenzione di Lullo consisteva infatti in un sistema combi-
natorio globale dei concetti: “i segni dei concetti più importanti in certi gruppi dovevano es-
sere disposti intorno a cerchi come le punte del compasso, e le varie combinazioni si ottene-
vano facendo ruotare i cerchi intorno a un centro comune” (Kneale, p. 281). Da Lullo (tor-
nato in auge proprio nel XVI-XVII sec., e rilanciato da Leibniz), comunque, C. può aver de-
rivato: a) l’aspirazione ad un metodo insieme rigoroso e facile, che assicuri una sapienza uni-
versale: l’Ars magna si propone incipitariamente infatti come sistema innovativo con cui com-
binare i principi universali, da applicare poi secondo la specificità di ogni scienza, imparan-
do a ragionare correttamente e analogicamente: “per hanc quidem scientiam possunt aliae
scientiae perfacile acquiri. Principia enim particularia in generalibus huius artis relucent” (f.
1); b) la divisione in cerchi concentrici delle muraglie e delle ruote dell’arte mnemonica: la
Fig. IV dell’ed. da me consultata è composta da un cerchio più grande suddiviso in nove set-
tori, segnati dalle lettere dell’alfabeto (una cui epifania deve esser la tavola di tutti gli alfabe-
ti posti in corrispondenza con quello Solare [12.30-2]), e due cerchi di carta più piccoli ruo-
tanti su un perno di spago (ancor più eloquenti le figure dell’Ars brevis lulliana riportate in
un’edizione seicentesca [v. fig. 6]): nel caso della Città anziché i settori, sono le schiere di al-
lievi a ruotare intorno alle mura; Orazio Toscanella trasformerà le ruote dei princìpi del lul-
lismo in vere e proprie macchine combinatorie, formate da settori semicircolari e radiali: “il
modello della macchina interagisce con quello dello spazio… [Le ruote] diventano ‘came-
re’, quasi stanze di un edificio che contiene appunto il tesoro dell’eloquenza” (Bolzoni 1995,
p. 69-70, dove sono anche riprodotte); o si metamorfizzano in uno degli svariati sistemi cir-
colari mnemotecnici: dal Teatro della memoria di Giulio Camillo, al fittissimo Sole radiante
di Bruno (cfr M. Cambi, La machina del discorso. Lullismo e retorica negli scritti latini di Giordano
Bruno, Napoli, Liguori, 2002), dalle città ultraterrene di Cosma Rosselli (riprodotte in: Yates
1972, n° 10, 11, 16…) alle ruote della fortuna in cui Sigismondo Fanti (Triompho di fortuna,
Venezia, 1527) ha trasformato gli ingranaggi delle macchine combinatorie di Toscanella e
Castelvetro: “l’intero cosmo, e l’enciclopedia, sono scomposti/ricomposti entro un percorso
ludico” (Bolzoni 1995, p. 114-6), inaugurando i giochi didattico-mnemonici derivati dal gio-
co delle ‘sorti’: figure accompagnate da didascalie, che sono una via di mezzo fra i tarocchi e
un sussidiario; queste e tante altre ‘trouvailles’ analoghe, che denotano il fertile mimetismo
e trasformismo del ‘kyklos’, il cerchio, e della ‘paideia’, vengono rilanciate dal ‘Controrina-
scimento’, il cui universalismo mistico ed ermetico si opponeva al neoaristotelismo emerso
in ambiente riformato (Salsano, p. 63-4).
89
Yates 1972 ne riporta la pianta, la cui cavea è suddivisa in sette ordini di gradinate, ognuno
dedicato a un pianeta; pianta che in una conferenza al Warburg “confrontò con i sistemi di
memoria di Bruno, di C. e di Fludd” (p. 122n). Un fervido ammiratore di questo teatro pla-
230 LA CITTÀ DEL SOLE

le cose ad imprimersi nella nostra mente, ma è la potenza della nostra immagi-


nazione ad agire sulle materie più malleabili, rendendole a noi obbedienti
(sull’immaginazione, in partic. delle gestanti, v. n. 42.19-21). Il processo di ‘im-
printing’ del sapere si basa su due tragitti mentali; mentre quello sensoriale è
un solo tragitto dalla sensazione esterna attiva, attraverso i sensi, agli spiriti ani-
mali interni passivi (v. n. 44.23), invece la figura dipinta agisce sull’‘imagina-
tio’, la quale a sua volta plasma la pieghevole memoria infantile, traslando l’im-
magine concreta di partenza in nozione astratta. Addirittura per curare le ma-
lattie dell’‘intellettivo’ (= disturbi della memoria e dell’apprendimento), C. di-
ce che bisogna far ricorso all’“ars memorandi per locos et res exteriores, quae
magis imprimunt” (Medicina, p. 6, e cfr anche p. 307-9).

4. Fonti
Per questo suo progetto plastico-pedagogico, C. può aver tratto ispirazione, ol-
tre che dalle suddette riflessioni a margine di psicologie, mnemotecniche ecc.,
anche da due ordini di suggestioni (più che fonti certe):
A) tecnico-pratiche:
• Architettoniche: a prescindere dalla valenza estetica (è spesso elogiata l’ec-
cellenza delle pitture ‘praestantissimae’ [12.9], “mirabili” [16.1] ecc.; già
Aristotele raccomandava le mura non solo per difesa, ma quale “ornamento
alla città” [Pol. 1331a]), a partire dal Medio Evo le chiese con le mura o le ve-
trate decorate di immagini e storie sacre furono l’unico libro degli illettera-
ti: Damasceno dedica un capitolo a spiegare che “imagines sunt monimenta
quaedam”, e “etenim illitteratis hominibus hoc sunt, quod litteratis libri. Et
quod auribus oratio est, idem est oculis imago” (De imag. I, 504K). “‘Quod le-
gentibus scriptura, hoc idiotis praestat pictura’, si legge nelle epistole di Gre-
gorio Magno e un pensiero analogo si trova in un passo del Decretum Gratia-
ni” (Saxl, p. 427-8 – il Decretum è cit. in Civitas [56.43]). In Sisto da Siena, C.
aveva letto questa pagina di commento ad un’illustrazione di Aronne ad-
dobbato nei suoi paramenti sacerdotali (in Civitas a 112.37-9): la Sciographica
è “umbratilis et picturalis expositio, quae per varias figurarum et imaginum
delineationes clarius et apertius prae oculis ponit ea, quae non admodum
aperte verbis exprimi potuerunt”; ad es. in matematica, molti teoremi sareb-
be arduo comprenderli senza il sussidio di figure e didascalie (“absque pic-

netario, Fabio Paolini, nel 1589 pubblica a Venezia le Hebdomades (citato, insieme al De arte cy-
clognomica [Anversa, 1569] del medico Cornelius Gemma, in Apol. ad lib., p. 326): “la divisio-
ne settenaria era il chiodo fisso di Camillo, e Paolini la rispetta scrupolosamente, facendo del
suo libro un catalogo generale di sette oggetti, diviso in sette volumi ciascuno di sette capito-
li… Tutti gli oggetti del mondo dovevano essere distribuiti in sette serie”, con il vantaggio
che ogni immagine, parola, idea veniva caricata anche di una “forza planetaria” (Couliano
1987, p. 390-1, che sintetizza un cap. di Walker); utili anche le ‘noterelle intorno a Giulio Ca-
millo Delminio’ di Vasoli 1977, p. 219-46; e poi si vedano anche le figg. dell’inferno e del pa-
radiso “come immagine di memoria artificiale, da Cosma Rosselli, Thesaurus artificiosae memo-
riae, Venezia, 1579”, strutturate a gironi ascendenti simili alla Città del Sole.
COMMENTO AL TESTO 231

turarum ope et brevium quarundam annotationum sub ipsis picturis adiec-


tione vix et aegre possunt intelligi”), e così per svariati casi analoghi (Sisto
ha in mente certe descrizioni bibliche, quali “compositio templi et urbis de-
scriptae ab Ezechiele”; ma è facile capire che una proposizione come quella
che segue ha una portata didattica ben più generale): “adhibitis picturis,
multo plura unico intuitu consequimur, quam et longa et numerosa com-
mentariorum lectione: magis enim longeque distinctius animo apprehendi-
tur, et tenacius memoria retinetur, quod oculis colligitur quam quod solis
auribus percipitur”.90 Quest’usanza non solo rimase sempre viva, dato l’alto
tasso di analfabetismo e malgrado le istanze riformiste di portare il Libro al
popolo, ma a fine Cinquecento fu ravvivata dalla pratica missionaria a con-
tatto con culture assolutamente altre: Bolzoni 1995 cita la Rhetorica christiana
(Perugia, 1579) di Diego Valadés e il massiccio ricorso a illustrazioni e im-
magini da parte dei francescani per evangelizzare le popolazioni messicane
(p. 226-8); Diez ricorda il convento di S. Francesco a Quito, città equatoria-
le, che già di per sé “sembra l’incarnazione dell’urbe utopica di C.… Occu-
pa 30.000 mq sui quali s’innalzano sette chiostri, le cui pareti sono cariche di
quadri, con giardini nel centro, dove si acclimatarono tante piante appena
giunte dal vecchio continente. Anche i peristili che descrive C. hanno alle
loro pareti pitture rappresentanti le diverse arti, la storia, la cosmografia, la
religione ecc. L’urbe utopica di C. nella sua essenza [è] un’istituzione plasti-
camente educativa, come le città conventuali dell’America spagnola” (p.
320).91
• Wunderkammer: “L’impressione è che il collezionista abbia davanti a sé tutta
la natura nella sua immensa ricchezza… Un catalogo che non crei gerarchie
è l’unico mezzo per preservare insieme le due istanze di universalità e di
unità. La conoscenza del mondo si acquisisce attraverso l’elenco, in un lun-
go apprendistato che equivale a passare in rassegna tutte le forme e tutti i
modi dell’esistente. Così è anche il programma pedagogico della CS di C. In
sei gironi murari intorno al tempio, al centro della città sono ordinate e rap-
presentate tutte le scienze con oggetti e figure, e l’educazione dei giovani si
compie in brevissimo tempo, entro i dieci anni, nello spazio dei gironi, dove

90
III, p. 168; cfr Ernst 1997b, p. 307-8; Ernst 2002, p. 213: “In questo tipo di esposizione ‘um-
bratile e pittorica’, l’immagine pone sotto gli occhi cose che non si possono esprimere in mo-
do adeguato con le sole parole. Oggetti come l’arca di Noè, il tabernacolo mosaico, il tempio
di Salomone si comprendono male e a fatica senza la figura, mentre grazie alla loro rappre-
sentazione si comprendono facilmente e si ricordano più a lungo”.
91
Svariate sarebbero le testimonianze di edifici le cui pareti interne e soffitti riproducono ci-
cli cosmologici più o meno enciclopedici, da Schifanoja al Palazzo della Ragione a Padova;
un monaco-poeta francese dell’XI-XII sec., Baudri, vide nella corte di Adele di Blois un sof-
fitto che simulava la volta celeste piena di stelle con le sedi dei pianeti, e sul pavimento un
mosaico che rappresentava il globo terrestre con i suoi fiumi, i mari ecc. Sulle pareti delle sa-
le erano raffigurati i grandi eventi del cosmo: il caos e la creazione, la storia della Bibbia e
quella narrata dalla mitologia greca (Morpurgo, p. 180sg).
232 LA CITTÀ DEL SOLE

vien mostrato tutto ciò che deve essere conosciuto. Così è il museo enciclo-
pedico” (Lugli, p. 104). In alcuni casi, anziché le figure, sono raccolte le co-
se stesse (dall’erbario ai ‘liquori’ prodigiosi [12.41sg e 14.10sg]); il collezio-
nismo europeo nacque all’intersezione proprio tra un sapere che si pensava
come enciclopedico e il tentativo di raggiungere poteri magici e alchemici
(Bolzoni 1995, p. 246sg). Ad es. tra le ‘mirabilia’ orientali (oltre quelle occi-
dentali: Imperato e Della Porta a Napoli [v. n. 12.41]), C. conosceva quanto
si favoleggiava di un celebre personaggio mitico: Mandeville, CLXVII narra
che il Veglio della Montagna (“Oatalonabos” o “Gatholonabes”) “havia una
montagna cum uno castello sì forte e sì nobile quanto se potesse dire: egli
haveva facto murare tutta la montagna nobelmente e dentro da questi muri
erano li più belli giardini che se potessero trovare e havere; ivi havea fatto
piantare ogni bona cosa odorifera e tutti li arbori e le herbe… C’erano in
quel posto parecchie cose insolite e immagini istoriate: di animali e di uc-
celli che per mezzo di speciali congegni cantavano deliziosamente” (Mande-
ville e Mandeville 1982, p. 188). Ma più (/oltre) che una ‘Wunderkammer’,
C. poteva aver sott’occhio un testo avente svariati punti di contatto con la
sua creatura murale: la Tipocosmia di Alessandro Citolini (Venezia, 1561); lo
schema è il solito percorso nel palazzo-mente e palazzo-mondo: arrivati alla
settima stanza, “il padrone di casa invita tutta la compagnia ‘a veder con gli
occhi già formato quel mondo, che per sei giorni havea con le parole dipin-
to’ (p. 546); li conduce dunque in un’ampia stanza, dove ‘mostrò loro una
grandissima palla, ne la quale entrar vi si potea. E quivi entrati si videro din-
torno il cielo, e nel mezzo la terra’… Questa specie di museo didattico lascia
insoddisfatti i visitatori: ‘tutti finalmente conclusero queste esser cose più to-
sto da fanciulli, che da desiosi di sapere. Menolli poi il conte ne lo studio
suo, e aperto un libro di estrema grandezza, incominciò a mostrar loro que-
sto suo nuovo ed artificioso mondo’”, che offrì un’immedesimazione con i
principi delle cose: parve loro di entrare in un giardino, “dove si trovano tut-
ti gli animali e tutte le piante, ‘e in cotal forma vedendoli, non i nudi nomi
solo, ma la vera essenzia e figura loro a comprender venivano’” (Bolzoni
1995, p. 252). Sei stanze, sei giorni della Creazione, e solo sei gironi sono af-
frescati (gli unici che sono anche porticati); alla settima stanza con il suo
planetario corrisponde ovviamente la sferica cupola del Tempio con quel
che contiene; infine il Grande Codice, riposto nel ‘secretum’ e che trasfor-
ma questi cinquecenteschi cybernauti fra le reti di modelli virtuali, in novel-
li Adamo, che conoscono non più nominalistiche parvenze, ma le essenze
delle cose: sembrerebbe la sconfessione del Libro della Natura, a vantaggio
dei “mortuis signis” (30.32), come direbbe C. Ma non è così. Anzitutto an-
che i Solari hanno un libro dei libri, la Sapienza (v. n. 12.2); e poi, come non
pensare al ‘Libro d’Oro’, specie quando era pieno di “cose importantissime”
(T.10.13), situato in cima al Tempio, equidistante dai ‘cubicula’, le cellette-
studio dei sacerdoti-scienziati? Infine in quel passo della Tipocosmia si avver-
te chiaramente un doppio grado di conoscenza: un sapere ‘esteriore’, ‘fan-
ciullesco’ con dei tratti di facilità e inevitabile semplificazione, e un sapere
profondo delle cose, intellettuale e metafisico; analogamente: le pitture mu-
COMMENTO AL TESTO 233

rali forniscono una conoscenza “historico tamen modo” (18.26), mentre sul-
le colonne del tempio sono incise le “quidditates” delle cose (102.38).
B) Fonti teoretiche:
• Bibbia: Ez. 8, 10: “Ingressus vidi et ecce omnis similitudo reptilium et anima-
lium… depicta erant in pariete in circuitu per totum”.
• Svariate potrebbero essere altre fonti non tecniche, da cui C. può aver ere-
ditato questa mirifica invenzione: dagli affreschi nel tempio che Didone sta
costruendo, dove Enea “in ordine vede l’iliache pugne” (Aen. I, 620); dall’o-
vidiana reggia del Sole (Metamorf. II, 1-18: Vulcano aveva “inciso sul metallo
[delle porte] l’immagine dei mari che recingono la terra, la sfera del mondo
e il cielo che la sovrasta”, con le rispettive creature); da questa frase di Am-
brogio, che sta illustrando proprio i sei giorni della creazione: “Ecce, Hieru-
salem, pinxi muros tuos” (VI VII, 42; anche se Gerusalemme è simbolo del-
l’anima, e la citazione deriva dalla versione dei Settanta di Is. 49, 16); dai
bassorilievi esemplari purgatoriali (XII, 23-72); dai portici interni dell’abba-
zia di Thélème, le cui gallerie erano “dipinte di antichi fatti illustri, storie, e
descrizioni della terra” (Gargantua I, 53), ed erano “ornate di corni di cervo
e di liocorni, rinoceronti, ippopotami, denti d’elefante e altre mirabili cose”
(I, 55); da relazioni di viaggio in un più o meno favoloso Oriente (il mitico
giardino del Veglio della Montagna su cit.).
• Vi è una favola, infine, che, più di tutti i testi precedenti, presenta notevoli e
svariate affinità non solo pertinenti alle mura dipinte e alla loro funzione pe-
dagogica. Manca però la prova di una filiazione diretta – e infatti chi per pri-
ma ha indicato questa suggestione parla di “rapporto intertestuale” (Bolzoni
1993, p. 64). Si tratta di un passo del Libro di Sindbad, una raccolta incorni-
ciata di favole persiane dell’VIII-IX sec., il cui originale è andato perduto,
ma una sua redazione posteriore fu tradotta in greco alla fine dell’XI sec. e
approdò in Europa all’epoca delle crociate, quando Giovanni di Altaselva la
tradusse, debitamente rielaborata, nel Dolopathos sive Opusculum de Rege et
Septem Sapientibus (circa 1184-5): la ramificazione europea dell’opera è mol-
to complessa.92 Ho potuto consultare appunto l’Ystoire, l’ed. D’Ancona e sva-
riate redaz. dell’Erasto, oltre alla redaz. spagnola, la quale è una ramificazio-
ne secondaria del Sindban siriaco (il capostipite, diciamo così, del Syntipas
[Runte, p. XIV]): tranne proprio Erasto, che risalirebbe al XVI sec. (D’Anco-
na, p. XXXI), e di cui esistono svariate stampe veneziane (ne ho consultato
una del 1561 e una del 1596), tutte e tre le altre ediz. contengono allusioni
alla casa dipinta, e alla sfida ad istruire uno o due fanciulli in un tempo re-
cord: Libro de los engannos I (Comparetti, p. 78): “et fiso faser un gran palaçio

92
Cfr schema di Runte (p. XVIII), da cui emerge che la versione italiana, Il libro dei Sette Savi
[ed. D’Ancona], sarebbe l’immediato antecedente di sterminate e intricate redazioni occi-
dentali (tra cui una mediofrancese, edita appunto da Runte: Li Ystoire de la male marastre), e in
volgare – tra cui Il libro dei Sette Savi (dalla redaz. Cappelli a quella curata da Segre) –; e poi
Storia di una crudele matrigna, Storia di Stefano, L’amabile di continentia, Erasto… e tralascio le re-
dazioni latine.
234 LA CITTÀ DEL SOLE

hermoso de muy grant guisa, et escribiò por las paredes todos los saberes
quel’ avie de mostrar et de apprender, todas las estrellas et todas las feguras
et todas las cosas etc.”; l’Ystoire: “En milieu de cel vergier fisent li siet sage fai-
re une maison si noble comme il le seurent deviser. Une chambre i ot ou il
fisent les siet ars paindre dou milleur ouvrier que on seuist en nule terre. Et
en celi chambre tinrent il les doi enfans a escole” (137a; Runte, 2, 40). In Ita-
lia si ebbero due aree di diffusione della favola orientale: quella toscana
(esemplata nell’ed. D’Ancona), più tarda (posteriore al Decameron), era d’o-
rigine francese; l’altra, veneta, è quella ‘indigena’ (riportata da Battaglia
Ricci – Il libro dei sette savi), traduzione da un originale latino (Segre). La ver-
sione a cura di D’Ancona narra che ognuno dei sette Savi di Roma offre i
suoi servigi all’imperatore per istruirgli a dovere il figlio; alcuni di loro gli
promettono di completare l’istruzione in tre anni (26.15: “et ante trien-
nio”). Salomonicamente l’imperatore lo consegna a tutti e sette, i quali lo
portano fuori Roma; scelto l’inevitabile ‘locus amoenus’, “ivi fecion fare una
casa assai agiata e quadrata e grande e bella, e le camere di dietro, e belle
loggie dinanzi e quando la magione fu fatta e compiuta i Sette Savj vi fecio-
no dipigniere le sette arti nelle quattro faccie della casa, cioè astronomia, ni-
gromanzia, gieometria, retorica, musica, aritmetica e loica; e fecion fare el
letto del giovane nell’un canto della sala, sì che poteva vedere le sette arti; e
cominciarono ad aprendere e a insegnare, e quando l’uno il lasciava e l’al-
tro il pigliava e gl’insegniava il meglio che sapeva ecc.; e così il tennono tre
anni, sicch’egli si sapea ben conosciere delle Sette Arti”. In Erasto vi è da un
lato una precisa corrispondenza fra i sette sapienti e le sette arti liberali, ma
lo scolaro soggiorna “dieci anni” (3v-4r). Invece nella traduzione greca l’a-
spetto pedagogico è massimamente sottolineato: Syntipas (grecizzazione di
Sindbad) promette al re di educargli l’unico figlio, che non aveva tratto al-
cun beneficio da tre anni di scuola, talmente bene da farne un filosofo per-
fetto in sei mesi.93 Trascorsi i quali, il principino stesso svela al padre l’ele-
mentare segreto di un così prodigioso apprendimento: “Una creatura anco-
ra infantile non può imparare facilmente: ogni bambino cerca diletto nei
giochi e nello svago, e non presta mente all’insegnamento… Syntipas, con-
siderando la mia età puerile, non mi sottopose a un insegnamento pesante,
né pretese di usare con me, all’inizio, parole difficili, per evitare che l’allie-
vo, subito affaticato dal peso di concetti ardui da assimilare, finisse per re-
spingere dalla mente ogni ammaestramento” (p. 97). Dopo aver insistito sul-
la ineludibilità dei pronostici astrologici, senza la buona disposizione dei
quali ogni educazione è inutile (“la sorte che presiedeva alla sua nascita ha
arricchito – così credo – la virtù del suo intelletto”), all’ennesima domanda

93
Anche nella redaz. persiana, riportata nell’Introduzione, il saggio fa costruire “una torre
quadrata e dipingere con immagini sul soffitto e sui muri delle stanze le più importanti dot-
trine: a questo modo gli riesce, spiegando a voce quelle pitture, di compiere in sei mesi l’e-
ducazione del ragazzo” (p. LIV).
COMMENTO AL TESTO 235

del re sul segreto pedagogico, il principe ricorda la nuova dimora costruita-


gli dal filosofo: “all’interno l’ha decorata e intonacata di un bianco splen-
dente, e sulle pareti ha dipinto tutto ciò che mi avrebbe insegnato, distin-
guendo il contenuto con scritte e disponendolo in un ordine accurato [“mi-
rifico ordine”!] e nelle pitture ha inserito anche il sole, la luna e gli astri. Sul-
le medesime pareti della casa ha poi inciso dieci proposizioni sulla saggezza,
sulla conoscenza e sull’istruzione” (p. 105), che potrebbero far pensare an-
che alle ‘essenze’ segnate sulle colonne del tempio (102.38).
A questi due motivi principali (l’enciclopedia dipinta e l’enorme accelerazione
che la figuralità ordinata imprime al processo educativo), come si diceva all’i-
nizio di questo paragr., se ne possono aggiungere altri forse non secondari: la
comune fascinazione per il sette (sette filosofi, sette mogli, sette giorni, 7x2 sto-
rie); l’enunciazione della ‘regola aurea’ (132.33): il protagonista, “per guada-
gnarsi la disponibilità e l’assenso del re, ricordò un principio generale: ‘Sire –
disse –, ciò che non hai piacere di ricevere da qualcuno, non volerlo neppure
fare ad altri’” (p. 44), e che costituirà la nona proposizione di saggezza: “ci si
deve comportare con gli altri così come si vuole che gli altri facciano con noi”
(p. 106); la ri-creazione di pseudo-fenomeni meteorologici (passo però assente
in Città [v. n. 14.2-7]), la pena per i sodomiti (qui la matrigna è condannata a
portare appeso “al collo un campanaccio; poi dovrà salire in groppa a un asino,
ma al contrario” [p. 101]); la saggezza dei filosofi che prevale sull’iniquità, rie-
quilibrando valori normalmente rovesciati: a un saggio privo di ricchezza e di
onore non si presta l’attenzione che si dedica a un idiota che però “detiene
grandi ricchezze e vive nell’abbondanza” (p. 106-7; v. 30.17-21).
Purtroppo la redazione italiana (Libro dei sette savi di Roma), di cui anzitutto
non sappiamo se esistano edizioni pre-seicentesche (anche se è comunque so-
spettabile, data la sua grande fortuna anche oltre il Medioevo, una fonte orale
inevitabilmente irricostruibile [Mattei, p. 12]), è priva proprio di questi ele-
menti maggiori, mentre potrebbe esser ravvisabile qualche motivo collaterale
(il sette: il figlio ha sette anni ed è affidato a sette filosofi, che raccontano sette
storie ecc.; la ‘prova’ di sapienza del fanciullo [32.10-1], che nel testo greco è
forzosamente assente per il mutismo coatto); ma ovviamente si tratta di ele-
menti così topici (forse archetipici: simbolica dei numeri; il piccolo Gesù e i
dottori del tempio), da risiedere nell’immaginario collettivo. Tuttavia lo spun-
to offerto da Bolzoni 199394 richiede un approfondimento, in quanto lo si ri-
trova anche in altri cicli, come il Libro di Shimas, nato “sicuramente in ambien-
te cristiano” (Maltese, p. 21), in cui pure si “indugia a descrivere il metodo e le
fasi della sua [= di un principino] istruzione, che sono molto simili a quelle im-

94
Ma non ripreso da Bolzoni 1995, dove del resto le mura dipinte solari non sono mai men-
zionate: forse perché quelle mura sono lo spartiacque fra i ‘thesauri’ mnemotecnici e l’Enci-
clopedia il cui ordine è puramente sequenziale e, tra breve, convenzionale? Le mura solari
sono a metà strada fra il Teatro di Camillo e l’Encyclopédie.
236 LA CITTÀ DEL SOLE

piegate da Sindbad con il figlio di Ciro. Intorno ai dodici anni Wird Khan è or-
mai maestro di ogni arte e scienza, e Shimas può esibire la saggezza del ragaz-
zo al re e ai sapienti visir raccolti in assemblea, ponendogli una serie di quesiti
ai quali l’allievo fornisce abili risposte” (Mattei, p. 22).
Forse nella novellistica cinquecentesca, che riprese vigore al seguito della stam-
pa bembiana del Decameron, gualteruzziana del Novellino ecc., o in quella folk-
lorica sarà possibile rintracciare questi elementi sul mai tramontato mito di
un’istruzione facile, veloce e completa, che C. in varie lettere voleva far passare
come sua invenzione strepitosa.95

12.12-3: In muris… cortinis,


Allude alle mura del portico esterno al tempio (8.17), il quale non ha pareti
(8.4-5); perciò occorre abbassare delle cortine, per migliorarne l’acustica. L’i-
dea delle cortine può essergli venuta da Ex. 26, 1: “Tabernaculum ita fiet. De-
cem cortinas de bysso retorta et hyacintho ac purpura coccoque bis tincto”; nel
comm. di De Lyra al Tabernacolo: “platea magna… erat clausa columnis quin-
que pedum altitudinis, in quibus pendebant cortinae usque ad terram, ubi
cum paxillis et funibus figebantur, ne a ventis moverentur… Illa cortina pote-
rat trahi et retrahi pro ingressu et egressu eorum qui intrabant atrium” (BS I,
774-7).
Le difficoltà sollevate da Crahay, p. 75 sulla distribuzione materiale delle pittu-
re derivano dall’aver considerato il muro del chiostro che circonda il tempio
alla stregua delle mura di cinta: la sequenza delle pitture parte dalle cortine e
procede dal centro alla periferia fino al sesto girone. Semmai ci si può chiede-
re perché duplicare nelle cortine del tempio gli stessi astri che ne affrescano la
volta interna, e una risposta potrebbe essere tanto pratica (nel tempio la loro
fruizione sarebbe poco idonea per svariati motivi: sacralità del luogo, altezza
della cupola, ed essenzialmente sua forma semicircolare che non permette una
descrizione completa della sfera celeste), quanto simbolica: Doni, a proposito
del Tabernacolo, dice che le sue “cortine erano di colori diversi, e le stelle che
circondano tanta divinità sono variate ancora” (Mondi, p. 191); nell’Ex. (26-36)
non si allude mai a ‘stelle’ nelle cortine (che erano ricamate a cherubini), ma
nell’esegesi doveva esser stata posta, e non certo da Doni per la prima volta,
un’equivalenza fra la loro policromia e il ‘manto di stelle’ sempre vario.

12.19-21: mathematicae… Euclides


Nell’ordine di lettura dei libri matematici, “praecedat Euclides communes the-
ses examinans mensuris et numeris; sequitur Archimedes qui eos rebus multis
applicat” (Syntagma II VI). Si ricordi comunque che con ‘matematica’ si inten-
deva anche l’insieme delle arti quadriviali: la matematica “quantitatem abstrac-

95
Un altro poema persiano del XII sec. (Nezami, Le sette principesse, a c. A. Bausani e G. Ca-
lasso, Milano, 1982) narra di un re che sposa sette principesse e fa innalzare loro sette padi-
glioni, ognuno di un colore diverso e “costruiti secondo l’indole dei sette pianeti”.
COMMENTO AL TESTO 237

tam considerat, et sic tractat de invisibilibus visibilium formis”, e “sunt quatuor


species mathematicae: scilicet arithmetica de numeris, musica de proportione,
geometria de spacio, astronomia de motu” (SH I LIII). “Se nel tempio si trova la
raffigurazione delle costellazioni, le mura dell’anello più interno recano tutte
le figure della matematica, che viene considerata il più importante strumento
di conoscenza del piano di salvezza che l’uomo sia riuscito a creare”: basti pen-
sare a Galileo (Neuber, che rinvia anche all’‘osservatorio della matematica’
nella Christianopolis di Andreä: “concepito con finalità didattiche, serve a mo-
strare immagini astronomiche, carte geografiche e a raffigurare la meccanica,
che nel Seicento offre il modello scientifico in campo cosmologico” [p. 99-
100]).

12.22-4: declaratione… propositiones


Sansovino, ad es., chiamava “dichiarationi” le sue note al testo di Beroso. Syn-
tagma III II: “Insegnamo le scienze non ricercando, ma ricavando dalle cose in-
vestigate propositiones universales et definitiones, quae sunt epilogus investi-
gatorum (“non principio del conoscere, ma solo dell’insegnare” [I I])… quas
brevibus verbis, significativis, perspicuis et multa sententiose continentibus ex-
plicare debet”; proposizioni e definizioni dunque “sono l’epilogo della scienza
di ciascuna cosa mediante i tratti essenziali” (Theol. I [II, p. 45]; e infatti in for-
ma di brevi proposizioni apodittiche sono strutturati il Compendio e l’Epilogo).

12.25-9: descriptio… incolarum


“Chi si occupa di cosmografia deve avere sotto gli occhi le navigazioni, i viaggi,
la storia delle regioni ritrovate”; come pure, “mentre si leggono le storie con-
viene avere sotto gli occhi la cosmografia, la cronologia e le genealogie delle fa-
miglie… Poi sono da notare le trasmigrazioni dei popoli e le mutazioni dei re-
gni, delle repubbliche, delle religioni e dei costumi…”, gli stessi “agiografi a
mala pena puoi comprendere senza la cosmografia e la cronologia”, e “certa-
mente risulta della più grande utilità apprendere le leggi di tutte le nazioni e le
sètte”; eppure non c’è nessuno che “abbia raccolto le storie di tutte le regioni,
convenienti ai rispettivi tempi. Senza dubbio Mosè ha dato l’esempio, ma nes-
suno è stato capace di seguirlo; si sente perciò il bisogno di qualcuno che narri
le origini, le genealogie, le gesta, i tempi, le regioni, le mutazioni, le trasmigra-
zioni e gli eventi celesti, terrestri e marittimi di tutte le nazioni di entrambi gli
emisferi dall’inizio del mondo fino ai giorni nostri. Avrei voluto farlo io; ma i
prìncipi non sanno offrire queste opportunità e non si curano di una tale ini-
ziativa divina”; anzi, poco oltre rammenta di essersi “sforzato di elaborare una
Cosmografia in modo artificioso”, scontento di quelle di “Ortelio e Mercatore
[che] si limitano a raffigurare tavole con abilità pratica, senza elaborare meto-
do alcuno” (Syntagma II II-III; IV II e VI).
C. accoglie la definizione tradizionale di cosmografia (es. Garzoni, XXXVIII,
p. 528), così sintetizzata da Magini: “narra le nature e le proprietà delle Regio-
ni, de’ luoghi e delle cose contenute in essi, parimenti i costumi delle genti, e
tutte le cose degne di consideratione che accaderono a’ diversi tempi”; defini-
zione lata, che Magini stesso vuol restringere alla descrizione della “conosciuta
238 LA CITTÀ DEL SOLE

e habitata parte dell’universo, dichiarando i termini, i confini, e le grandezze


delle Provincie e dell’Isole” (c. 1); descrizione che deve esser dettagliata e illu-
strata dalle sempre più indispensabili carte geografiche: “Debbonsi oltre a ciò
persuadere gli studiosi, che questa dottrina senza l’uso e cognitione delle tavo-
le, e senza una fedelissima descrittione, che esplichi a una per una separata-
mente tutte le cose, non possono né acquistare né ritenere in sé alcuna lettio-
ne, imperoché la ragione della dipintura provoca l’intelletto al vero ordine del-
la memoria, e dimostra in qual parte ciascuna cosa si debbi collocare e discor-
rere con la mente” (Gastaldo [Tolomeo (Munster), Geogr. II]).

12.27: provinciae,
‘Provincia’ è la sottopartizione geo-antropica di un’entità politica (= reame) o
geografica (continente, isola) più vasta, equivalente a ‘regione’: “Non sa gover-
nare il mondo chi non sa governare un imperio, né un imperio chi non sa un
reame, né un reame chi non sa una provincia, né una provincia chi non sa una
città, né una città chi non sa una villa, né una villa chi non sa una famiglia”
(Mon. Sp., p. 70); “La sesta [comunità è unione] di più città in una provincia.
La settima, di più province in un regno…” (Politica I, 4). In altre occorrenze te-
stuali (20.18, 106.12) invece prevale l’accezione latina di territorio soggetto (in
cui l’occupante ha insediato una guarnigione, introdotto lingua, costumi ecc.:
74.19-25), e la valenza dominante allora risulta la sua opposizione con la ‘capi-
tale’ (o stato egemone).
Narra Alberti che per primo Aristarco (cit. a 114.18) “sopra una tavola di ferro
avrebbe tracciato un disegno del mondo diviso in province” (VIII IX, p. 766 –
fonte: Vitruvio IX VIII, 1). ‘Province’ erano in Tolomeo la prima ripartizione
dei continenti (Europa, Asia e Africa totalizzavano ottantanove province); per
Gastaldo (in Tolomeo, Geogr. [Munster] III): “Regione si chiama ogni Provin-
cia che sia governata da Re”; Barros, I, 86v: “per honore di una così grande ter-
ra [= Brasile], noi la chiamaremo provincia”; per Magini, 2: “dicesi continente
ogni terra soda o ferma, quella… tutta unita e congiunta insieme. È la regione
una parte di terra laquale veniva retta da Re, percioché avanti che si facessero
le Provincie, le Regioni erano sotto i re, e rette da loro… Dicevasi provincia
ogni regione acquistata in guerra lungi dall’Italia; quella che ‘l popolo Roma-
no aveva vinto di lontano. Tuttavia, per il più, confondosi hoggi Regione e Pro-
vincia, e l’una si prende senza diferenza per l’altra”; e infatti Doni, Mondi, p.
163: “ciascuna provincia… come dir, verbi grazia, la Lombardia, la Toscana…”.

12.30: alphabeta,
Forse è una suggestione derivatagli dall’uso degli alfabeti come sussidio mne-
monico. Sottesa a questa tavola comparata di tutti gli alfabeti vi è infatti un’in-
tenzione pedagogica: Garzoni (che riprende da Rosselli – integrabile, ad es.,
con Le ombre delle idee [1583] di Bruno, e le sue ruote plurialfabetiche coassiali)
dice che “gli alfabeti di diversi caratteri, che sono assegnati da questi professo-
ri di memoria, siano molto comodi per l’istessa” facoltà mnemonica (LX, p.
842); e insieme vi è un progetto ecumenico (v. n. 2.14 e n. 32.12-9): in attesa
della lingua perfetta filosofica universale, l’apprendimento delle lingue è la
COMMENTO AL TESTO 239

condizione preliminare a ogni opera d’apostolato: “infatti la via che conduce


al loro animo [= degli infedeli] è la lingua che loro conoscono. Perciò agli apo-
stoli, che dovevano predicare a tutto il mondo e a tutte le nazioni, Dio, Primo
Oratore, diede il dono di tutte le lingue” (Rhet. IV III, p. 757).96 Mandeville
1982 (pp. 16, 37, 75, 98, 104) riportò le lettere degli alfabeti delle principali ci-
viltà mediterranee; Pierre Gilles immaginò e pubblicò (nell’edizione frobenia-
na del 1518) l’alfabeto utopiano (More, p. 64) con i simboli corrispondenti al-
le lettere del nostro alfabeto: in partic. la ‘f’ è rappresentata da un cerchio con
un puntino al centro, cioè proprio dal simbolo astronomico del sole e di Hoh
(v. n. 10.19);97 e infine va ricordato che intorno alla metà del XVII sec. la Con-
gregazione ‘de Propaganda Fide’, per merito anche di Francesco Ingoli, si
dotò di una stamperia poliglotta (cfr Guerrini 2002, p. 387-8).

12.34: lapidum
La stessa tassonomia del Compendio: cap. XXII: pietre; XXIII: metalli; XXIV-
XXVI: piante; XXVIIIsg: animali; in Hist. (p. 1233) cita il trattato sui metalli di
Agricola (De re metallica [1530]).

12.41: liquores
La combinazione di tipo di calore (possente/moderato) e di terra
(densa/molle, uguale/disuguale) determina i vari ‘liquidi’, dalla cui solidifica-
zione (ma anche alimentazione)98 derivano le pietre e i metalli, e dalla cui eva-
porazione i gas e fenomeni meteorologici connessi: gli stati fisici della materia,
cioè i ‘Gradi tra ‘l raro e ‘l denso’ (Epilogo, pp. 233-7, 303) ovvero “disposizioni
degli elementi” (‘Salmodia’ 84, 49 Esp.) o “passioni materiali tra la densità e la
tenuità sono il lentore, la malleabilità, la viscosità, la scivolosità [= lubricositas],
la fluidità, la liquidità [= liquor], la vaporosità, la tenuità e molti altri di cui non
c’è nome” (Compendio XII, 7; idem in Mathem. I I [p. 35]): dai cinque stati fisici
di Persio 1575, n° 1521-6 (‘lentor’ o ‘flexibilitas’, ‘mollities’, ‘viscositas’, ‘fluor’,
‘tenuitas’) si è passati ad almeno nove.
‘Liquor’ dunque sta a indicare uno stato intermedio della materia fra raro e
denso (nel Medio Evo, del resto, il termine indicava il grado di densità, ad es.
del vino: “Vini diversitas propter liquorem triplex est: aut enim subtile aquo-
sum, aut terrestre et crassum, aut mediocre” [SN V]), ottenuto sia artificial-
mente (cioè un estratto per distillazione o spremitura) che naturalmente: la
terra “aquam, vinum, oleum et liquores alios, tamquam lac a mamillis, submi-

96
Mon. Sp., p. 300-2; Disc. univ.; per la riforma dell’alfabeto, cfr Poetica XXV e Poët. IX I.
97
Per le lingue utopiche, perfette e immaginarie cfr le sterminate bibl. di Rossi 1983, Pelle-
rey, Eco, Cornelius e, da ultimo, C. Marrone, Le lingue utopiche, Viterbo, Stampa Alternativa &
Graffiti, 2004.
98
‘Salmodia’ 86, 129-31: “Si cresce e pasce di liquor terrestre / il ferro, il sasso alpestre; – un
grasso e molle / l’erbe satolle, – immobili animali”; annota Giancotti: “Per l’opinione che
metalli e sassi, dotati di senso, crescano pascendosi di liquor, cioè di umore, terrestre, cfr Epilo-
go III, 2; Senso III XIII”.
240 LA CITTÀ DEL SOLE

nistrat” (Oecon. II IV, p. 194), e di tali liquori terrestri si nutrono minerali, vege-
tali e animali.

12.42: origines… virtutes;


‘Origini, qualità e virtù’, così come a 12.28-9 per le nazioni e successivamente
per erbe e animali (14.12sg), costituivano i paragr. delle voci standard dell’en-
ciclopedismo medievale e rinascimentale (v. n. 14.12-6): ad es. SN V XXIV-XXX
tratta ‘De fontibus’, come e dove trovarle, ‘De natura aquae fontalis’, loro ‘di-
versi generi’, ‘De miraculis fontium’ e successivamente ‘de aquis metallinis’ e
loro virtù terapeutiche (LXVIII e sg). Anche Alberti (X V-XI) e Imperato (XII
XXIV, p. 315) trattano delle virtù delle acque minerali; Della Porta descrive pro-
prietà meravigliose di ‘fiumi’, ‘laghi’, ‘fonti’, fornendo un’adeguata bibliogr.
classica da Teofrasto a Plinio e Solino (Magia I XVIII).

12.43: ampullae
Etimologicamente ‘ampia bolla’: “‘Ampulla’ quasi ampla bulla similis est enim
rotunditate bullis” di sapone (SD XI XXIX: ‘De vasis liquoris’).

14.2-7: Sunt… iridem etc.


L’intero periodo è stato introdotto nell’ed. Parigina; ma di questi trucchi di
magia naturale ne parlava già Senso: “Pioggie l’uomo può fare con fumi ascen-
denti al tetto della sala che sopra sia coperto di neve; e tuoni, mischiando tra
quelli fumi canfora e solfo ardente, li cui vapori tra gli altri aggravati si accen-
dono e scoppiano; l’iride, spruzzando l’acqua in aria all’incontro del sole in
mezzo della luce e dell’ombra; venti, aprendo contrarie finestre, ripiena prima
di fumo la stanza; e altro più si può fare” (p. 291), come ad es.: “li fulmini s’i-
mitano con le bombarde” (Lettere1, p. 62);99 e in effetti, tornato in libertà, C. fe-
ce degli esperimenti per riprodurre la pioggia e l’iride in una stanza (“ut ego
soleo, sed intra cubiculum”) con fiale e spruzzamenti (Quaest. phys. XXV V, p.
253-5; Theol. XIV).
Sarebbe però da chiedersi se tale inserzione ‘tardiva’ non sia stata ispirata a C.
piuttosto dalla lettura della Nova Atlantis (1627) o magari solo di un’ipotetica
fonte comune; già Negri faceva notare che Tobia Adami nell’introduzione alla
Fr. traccia un parallelo fra l’Instauratio Magna di Bacone e l’opera di C. (p. 546-
7), e può darsi che l’asserzione tobiana che entrambi “tendessero ad una sola
meta”, possa implicare che avessero anche un comune fondamento ispirativo,
in partic., nella Nuova Atlantide, lì dove gli scienziati raccontano: “Abbiamo an-
che case grandi e spaziose, dove imitiamo e riproduciamo i fenomeni meteo-
rologici, come la neve, la grandine, la pioggia, le piogge artificiali di corpi non
acquosi, i tuoni, e i fulmini” (Bacone, p. 38).

99
“A far tuoni e lampi come Dio fa nell’aria, così fa l’uomo con l’artegliaria” (Senso, p. 124);
e cfr anche Astrol. VII II, 3, 8.
COMMENTO AL TESTO 241

Pitagora aveva insegnato i segreti naturali della meteorologia, e cioè “donde


provenissero la neve e il fulmine; se i tuoni fossero opera di Giove o non piut-
tosto dei venti che squassavano le nubi” (Ovidio, Metam. XV, 69-71). Doni,
scherzando sull’impresa ‘babelica’ dei “Cintii”, dice che “saliron tanto alto che
si chiarirono come si generava la pioggia, la gragnuola e la saeta” (Mondi, p.
375). C. spiega i principali fenomeni meteorologici (e meteoritici) in Compen-
dio XVII-XXI e poeticamente in ‘Salmodia’ 86, 85-124.

14.12-6: vires… in medicina


Physiol. IX II: ‘Quod Plantae sunt analogice animalia’ (“l’erbe… [sono] immo-
bili animali” [‘Salmodia’ 86, 131]), fornendo in glossa le ‘auctoritates’: da Pita-
gora al De Homine di Alberto Magno (p. 53). Le loro somiglianze principali so-
no: il moto (sebbene limitato al solo ‘moto locale progressivo’, cioè alla cresci-
ta), la struttura: le radici corrispondono alla bocca, il tronco al ventre, i rami al-
le braccia, hanno sistemi di difesa (spine ecc.), nonché “sympathia et anti-
pathia mutua et cum caeteris Mundi rebus, etiam caelestibus”. Dettagliatamen-
te e sistematicamente se ne occupano Medicina (p. 261-81), Metaph. (XIV V) e
Senso (III XII-XIV e IV I): la magia naturale, secondo Plinio, si divide in Religio-
ne, Medicina e Astrologia: la prima serve a “purgar l’animo… la seconda per
conoscere le virtù dell’erbe, pietre e metalli e la simpatia e antipatia tra loro e
con noi, e la complessione e attitudine a patire e operar dell’uomo che ha bi-
sogno di quelli. La terza per conoscere il tempo di operare e il simbolo che con
ogni cosa han le stelle fisse, erranti e li luminari che manifestamente sono cau-
se delle virtù e mutazioni di tutte cose” (p. 222). Similitudini, corrispondenze,
simpatie100 poggiano sull’idea che tutti i corpi, a diverso grado, sono dotati di
sensibilità o “senso, chi più chiaro come il cielo i venti gli animali, e chi più scu-
ro come la terra le piante le pietre. Il che farà noto la loro amicizia e nimicizia,
nata dalla conoscenza della simiglianza e dissimiglianza tra loro” (Epilogo, p.
334; Compendio XXVI-XXVII). Esempi di corrispondenze piante/pianeti in
Astrol.: “heliotropium et lupinum motum longitudinis Solis et horas indicant”
(p. 3); e questo tema della “simpatia e antipatia degli alberi fra loro e con le
stelle” si presta ottimamente ad esser trattato in poesia (Poët. VIII VI, p. 1085).
Infine la dottrina delle segnature (ogni minerale, erba, animale che presenti
una qualche analogia con qualche membro del corpo umano gli è certamente
di giovamento) aveva anche conseguenze pratiche (così, ad es., si credeva che
lo zafferano giallo curasse l’itterizia). Di tali questioni C. ne aveva discusso pub-
blicamente a Napoli con “Ioannes Baptista Porta, qui scripserat Physiognomo-
niam, ubi sympathiae et antipatiae rerum dicebat non posse reddi rationem,
quando simul suum librum iam excusum [fu pubblicato nell’86] examinaba-
mus” (Syntagma I I); C. ritiene invece che sia possibile spiegare la simpatia e
l’antipatia fra le cose, ed “è questo lo stimolo per la scrittura, nell’inverno del

100
V. n. 45.4 [f.p.], n. 122.1, n. 123.1 [f.p.] e n. 154.3-5 per le valenze astrologiche.
242 LA CITTÀ DEL SOLE

‘90, del De sensitiva rerum facultate, titolo che presto cambierà in De sensu rerum”
(Formichetti 1999, p. 18; Badaloni, p. 677sg; Bruers, p. VIII).
Ma questa ‘simpateticità’ da tempo faceva ormai parte di un sapere diffuso: “ab
antiquis dictum est etiam quod non est herba in terra quae non habeat stellam
in coelo, quae eam respiciat et crescere faciat” (SN III LXXXIII): tra gli ‘antichi’,
C. ha presente senz’altro Plinio (come sostiene in Metaph. VI X, I [II, p. 147]) e
il celebre aforisma del Picatrix: “quicquid continetur in maiori mundo, conti-
netur naturaliter in minori”; tra i moderni: Gesner (nello specchio proemiale,
in cui presenta la distribuzione della materia delle Historiae animalium ricche di
molte tavole a colori, alla lettera D è prevista la trattazione anche di “Sym-
pathiae et antipathiae, hoc est naturales quaedam concordiae et dissensiones
singulorum, primum ad alias animantes, deinde ad res inanimatas”),101 Impe-
rato (cfr Bolzoni 1995, pp. 144 e 254) e Aldrovandi.

14.16: In exteriori
Due gironi dedicati 1/4 alla botanica e 3/4 alla zoologia hanno per spartiac-
que il tipo di ‘sensibilità’ (= “capacità di riconoscere un oggetto sensibile grazie
alla passione che si percepisce da esso”), che caratterizza i suoi membri: “ci so-
no cinque sensi: naturale, animale, umano, angelico e divino”; naturale, quello
delle piante (e minerali), animale degli esseri animati, cioè semoventi: “lo spi-
rito animale più abbondante e più puro dello spirito della pianta, agitandosi
può separare e muovere dalla materia comune la sua sede”; tale spirito “è ge-
nerato all’interno di una materia fluida e densa, dalla quale, non riuscendo ad
uscire verso il cielo cui è simile, forma, per ispirazione dell’ideatore, gli organi
della vita e, agitando, li separa dalla materia comune per il movimento. L’ani-
male, dunque, è formato dallo spirito che anima la statua, dall’umido di cui lo
spirito e i vasi si nutrono e, infine, dal solido, da cui si costruiscono gli organi e
i vasi” (Compendio XXVIII). La zoologia campan. prevede quattro “gradus”
ascendenti di animali (Physiol. X II, p. 57; ‘Salmodia’, 86, 125-85): pesci, uccel-
li, rettili e insetti, quadrupedi. Come qualsiasi altro essere, anche le specie ani-
mali hanno a loro origine e fondamento le molteplici modalità d’interazione
primaria caldo/freddo (= fuoco/terra): “l’animale non è sole, ma terra in cui
il sole, operando, spirito produsse fra durezze, di cui, esalar non potendo, or-
ganizzò la mole e fece atta alla vita loro” (Senso, p. 2). La varietà e gerarchia del-
le specie dipende dalla volontà della divina Sapienza, che ordinò che certe spe-

101
Castelli sintetizza così lo specchio proemiale: “Gesner prevede, articolati in varie lettere, i
punti che illustreranno aspetto e significato dell’animale preso in considerazione. I punti ‘A-
D’ descrivono rispettivamente la storia del costume degli animali, la dislocazione di questi, la
differenza tra le specie, le azioni dei corpi o fisiognomica degli animali, simbologie e antipa-
tie. Sono inoltre specificati i cibi e i rimedi che si traggono da questi per la vita dell’uomo, gli
alimenti… né sono estranee osservazioni riguardanti predizioni, religione, proverbi… [re-
stando ancorato] a modelli invalsi il secolo precedente, come dimostra la lettera prefatoria
del Gaza [all’Hist. Anim. aristotelica], dove venivano largamente giustificati i valori simbolici,
i costumi e le virtù degli animali” (p. 74).
COMMENTO AL TESTO 243

cie animali “fierent perfectiora magisque recedentia a plantarum natura”, per-


ché nel forgiare il creato non era opportuno andare da un estremo d’imperfe-
zione ad uno di somma perfezione senza passare per i medi, e così cavalli, ce-
tacei, aquile, elefanti sono animali terrestri, marini e aerei più grandi “plusque
sapientiae Primalitatis participantes” (Physiol. X II, p. 57 e V, p. 60).

14.17: piscium
I pesci precedono gli uccelli, perché la sfera dell’acqua sta più in basso di quel-
la dell’aria (e non a caso, per ultimo, menziona l’uccello del fuoco, la fenice).
In Plinio, VIIIsg infatti la sequenza è: animali terrestri, acquatici, volatili (uc-
celli, insetti). SN fa solo apparentemente eccezione (prima gli uccelli [XVI] e
poi i pesci [XVII]), perché considera aria e acqua, all’atto della Creazione, un
solo elemento, il “commune productivum volucrum et natatilium” (XVII I), co-
me del resto fa anche C., quando si richiama alla Bibbia: “Deus iubet: ‘Produ-
cat Terra animam viventem et producant aquae reptilia et volatilia’” (Sensu, 2r).
Molte voci delle scienze naturali solari (morfologia, abitudini, qualità, “vita” –
con cui s’intende sia il grado di sensibilità o coscienza, sia la durata dell’esi-
stenza) sono già contemplate in quella ‘summa’ del sapere medievale che è SQ,
sebbene C. si rifaccia anche ai naturalisti moderni (come Rondelet, cit. a p.
1233 di Hist., per il quale v. n. 14.24-5).

14.20-1: usus… ad nos,


In Poët. VIII IV, p. 1076, indica qual è il suo modello: ‘la descrizione degli ele-
menti terrestri e celesti’, “ipsarumque usus in se, ad nos et ad Dei honorem”, va
eseguita “come Davide fece nei Salmi, cantando soltanto dal punto di vista fisi-
co le cause finali e quella agente”; infatti la scienza “considera le nascite e le
morti, i mutamenti, le parti, i principi, gli effetti e gli usi [= usus], riguardo agli
uomini e riguardo a tutta la natura dei corpi” (Metaph. V II, II [I, p. 369]; “usus”
è insieme ‘utilizzo’ e ‘utilità’). Ma in quella che si può considerare una sorta di
lirica cristiana ‘Sulla natura delle cose’, cioè la ‘Salmodia’ 86, confessava “esse-
re impossibile dire de’ costumi de’ tutti gli animali ecc., e delle loro parti ed
uso” (Esp., p. 185).

14.24-5: piscem episcopum… verpam,


Riportiamo qui di seguito le definizioni di queste specie marine tratte da due
dei principali vocabolari italiani, perché in alcuni casi ci è difficile stabilire con
precisione a quale specie propriamente C. si riferisca.
Pesce vescovo: “Denominazione comune di un pesce della famiglia Dasiatidi”
(GDLI); invece per il GDU esso oggi si chiama “Pesce nottola. Del genere pte-
romileo (‘Pteromylaeus bovinus’)”, e somiglia alle razze. Ma forse C. aveva in
mente un presunto “monstrum”, descritto e illustrato dalla zoologia (fantastica
e non) coeva, a partire da Rondelet, cui hanno narrato che nel 1531 in Polonia
“visum id monstrum marinum Episcopi habitu et ad Poloniae regem delatum,
cui signis quibusdam significare videbatur vehementer se cupere ad mare re-
verti, quo deductus statim in id se coniecit. Sciens omitto plura, quae de hoc
monstro mihi narrata sunt, quia fabulosa esse arbitror… Ego qualem monstri
244 LA CITTÀ DEL SOLE

eiconem accepi, talem omnino exhibeo. Vera ea sit an non, nec affermo, nec
repello” (XVI XXI ‘De pisce Episcopi habitu’, p. 494; v. fig. 7); Gesner, Animan-
tium marinorum ordo (XII, p. 174): “Monstrum aliud marinum anno D. 1531 in
Polonia visum, Episcopi habitu”; Aldrovandi riporta anche la testimonianza in-
diretta del Bellonius (Pierre Belon) sempre relativo a questo presunto esem-
plare polacco: “in Batavinis annalibus de pisce episcopo scriptum est… cuius
corporis magnitudo, facies et cultus talis erat omnino, qualem videmus figu-
ram alicuius Episcopi, mitra et reliquis suis ornamentis induti” (Monstrorum,
p. 355).

Fig. 7 - Il pesce vescovo (da: Rondelet)


COMMENTO AL TESTO 245

Pesce catena: “Specie di pesce noto agli antichi” (GDLI; voce assente nel GDU).
Pesce lorica: GDLI alla voce ‘Loricaridi’: “Famiglia di pesci siluroidei, con ro-
busta corazza di piastre ossee che protegge il corpo; aperture branchiali picco-
le; bocca ventrale usata come ventosa per il fissaggio sul fondo; vivono nei fiu-
mi dell’America meridionale e centrale”; alla voce ‘Loricati’ (assente in que-
st’accezione in GDU): “Sottordine di pesci caratterizzati da testa grossa, coraz-
zata con piastre ossee e forti spine velenifere”; GDU: alla voce ‘loricaria’ (assen-
te in GDLI): “Pesce d’acqua dolce del genere Loricaria diffuso nell’America
tropicale”; alla voce ‘Loricaride’: “Pesce della famiglia dei Loricaridi, dal corpo
in parte coperto da placche ossee e bocca ventrale a ventose, diffuso nei tor-
renti dell’America centrale”.
Pesce chiodo: “Così detto per la forma” (GDLI; assente nel GDU).102
Pesce stella: nome arcaico di ‘stella marina’, “echinoderma della famiglia Aste-
ridi che presenta una caratteristica struttura raggiata; asteria” (GDLI); in GDU
alla voce ‘Stella marina’: “Nome comune di varie specie marine della classe de-
gli Asteroidei, caratterizzate da corpo pentagonale con cinque o più bracci ri-
vestiti di piastre calcaree”.
Pesce priapo (nella red. latina dell’Epilogo [IV VI, p. 331] è chiamato “priapus”
il pesce ‘verpa’): “Priapo marino: oloturia” (GDLI); alla voce ‘Priapulo’ (un ver-
me marino di forma cilindrica, che abita i fondali sabbiosi, della famiglia dei
‘Priapuloidi’), riporta la definizione del Tramater, che l’ascrive all’ordine degli
echinodermi “così denominati dalla loro forma a foggia del pene”; GDU alla
voce ‘Oloturia’: “animale marino del genere Oloturia, diffuso lungo i litorali di
tutti i mari” dal “corpo di forma allungata e cilindrica”; alla voce ‘Priapulo’:
“Invertebrato del genere Priapulo dotato di una sola appendice caudale”; i
Priapulidei sono “diffusi principalmente nei mari freddi, dove vivono in galle-
rie scavate nella sabbia”. Rondelet 1555 dedica i capitoli XXII e XXIII del ‘liber
de insectis et zoophytis’ alla ‘Mentula marina’ e a ‘De altera mentulae marinae
specie’: “Mentulae marinae nullus veterum… mentionem fecit praeter Athe-
naeum… Mentulam marinam vocamus, eius figura et specie maxime nos ad id
impellente, atque etiam vulgari appellatione, qua Massilienses [= i Marsigliesi]
et nostri utuntur… Corio enim duro constat… Quum vivit, intumescit ac di-
stenditur, post mortem flaccessit [sic per ‘flaccescit’]. Foramina duo habet, qui-
bus aquam trahit et reiicit. Partes internae indiscretae sunt. Multa huiusmodi
Zoophyta circa stoechadas insulas capiuntur. Varia sunt, alia viridia, alia nigri-
cantia, alia flavescentia”; analogamente l’altra “neque a Mentulae contractae
forma multum distat, si eam cum scroto accipias”; invece i capp. XVIII-XX so-
no dedicati a ‘De Holothuriis’ (senz’alcun accostamento al membro virile).

102
Quest’esemplare, come del resto anche i precedenti, non sono segnalati né da Rondelet
né da Gesner, a conferma che la ‘technoteca’ di Imperato è stata la sua fonte principale (for-
se si tratta dell’aguglia appartenente ai beloniformi).
246 LA CITTÀ DEL SOLE

Presumo che C. avesse in mente il primo tipo di ‘Mentula marina’, così raffigu-
rata:

Fig. 8 - Mentula marina (da: Rondelet)

Tale figura viene riprodotta poi da Gesner, V, che, però, non solo la inserisce
fra i crostacei e non fra gli ibridi ‘zoofiti’ (“Mihi certe plus quam Zoophytum,
hoc animal videtur”), ma nel riportare, come suo solito, tutte le testimonianze
note di questo che egli chiama, pudicamente, “pudendum marinum virile”
(senza però tralasciarne il nome in volgare: “Vulgus Italicum ‘Cazo marino’
noncupat”), conclude: “Holothuriorum secunda species paulo ante exhibita [a
p. 262 c’è il disegno uguale all’oloturia di secondo tipo di Rondelet: fig. 9], ge-
nitalis virilis quandam similitudinem prae se fert” (p. 265).

Fig. 9 - Seconda specie di Oloturia (da: Gesner)


COMMENTO AL TESTO 247

16.3-5: avium… vita


La zoologia aviaria Solare rispecchia ancora le tipologia di trattazione medie-
vale: anche in SN XVI si riscontrano le stesse voci: ‘De natura avium’, ‘De diffe-
rentia avium multiplici’ in cui si tratta pure ‘de moribus’, ‘De Mutatione in co-
lore’ ecc.; e, dopo aver elencato ogni singola specie in ordine alfabetico, que-
st’enciclopedia medievale ritorna a parlare della riproduzione in generale (sul-
la tassonomia di Gesner, Historia v. nota 101).

16.6: phoenix… habetur.


La specificazione “illis” (= Solari) l’avverto come una presa di distanza da parte
dell’Au., che infatti altrove si mostra scettico sull’esistenza di questo ‘uccello
del fuoco’: dei non-enti immaginari, “come l’ircocervo”, ci può essere una
scienza nominalistica, “così… io posso sapere cosa sia la fenice solo quanto al
significato del nome, se ignoro se essa esista; quando infatti dico che la fenice
è così, presuppongo che essa esiste o in una finzione o nella descrizione dei
poeti” (Metaph. VI II, IV [III, p. 19]); Medicina, p. 273: tra gli animali solari vi è
“phoenix, si fabulosus non est”.
Se per Cardano infatti è una “favola” (X, p. 291: “Parecchi hanno detto che esi-
ste la fenice, che è una storia più prossima alla favola che alla verità”), è invece
un uccello reale non solo per gli antichi (Erodoto, II, 37; Plinio, IX II;103 Ovi-
dio, Metam. XV, 391-407; Tacito, Hist. V, e moltissimi altri: Filostrato, Eliano, So-
lino), ma anche per i Padri, che vi ricamano allegorie sulla Resurrezione: a Lat-
tanzio è attribuito (con certezza da Erasmo, oggi dubitativamente) un carme
intitolato Phoenix (PL VII, 277sg); e così Ambrogio (V XXII, 79), sulla scia di Cle-
mente Alessandrino (Ep. I, 25). La credenza in quest’incarnazione zoomorfica,
tipica dei culti solari, transiterà nel Medio Evo (Orapollo, I, 34-5 e II, 57; Isido-
ro e il De nat. rerum, presenti in SN XVI LXXVI; Albertus, De animal.104), fino ai
primi viaggiatori moderni, falsi o veri, come Mandeville, LVI-LVII o Niccolò de
Conti (in: Ramusio, II, p. 819-20), quest’ultimo addotto a testimone in una
glossa del traduttore cinquecentesco di Plinio [Domenichi]: “più nuovamente
conferma non esser favola quanto si dice di questo uccello il Poggio Fiorentino
nel viaggio di Nicolò de Conti” (p. 198). La glossa a Plinio di Domenichi po-
trebbe spiegare ancora meglio la specificazione “illis”, cioè la credenza dei So-
lari nella fenice, a differenza del cauto scetticismo pliniano, come conferme-
rebbe anche Gesner: “Aethiopes atque Indi discolores maxime et inerrabiles
ferunt aves, et ante omnes nobilem Arabia phoenicem, haud scio an fabulose,
unum in toto orbe, nec visum magnopere”; passa poi a descriverne il noto mi-
to della rinascita dalle sue ceneri “et prope Panchaiam in Solis urbem et in ara

103
Il luogo di nidificazione della fenice risorta è “prope Pancaiam in Solis urbem”; postilla di
Domenichi: “porta tutto il nido presso a Panchaia nella Città del Sole”, cioè l’Eliopoli sita sul
delta del Nilo.
104
L. 23, tr.1, c.24, 110 (II, p. 1493-4); in un Libellus de natura animalium attribuito erronea-
mente ad Alberto Magno (Vincenzio Berruerio, Mondovì, 1508) vi è un’incisione ‘De Feni-
ce’, riportata in Castelli, Tav. III.
248 LA CITTÀ DEL SOLE

ibi deponere”; e conclude l’imponente carrellata delle fonti classiche, citando


dallo Scaligero: “Phoenicem haud esse penitus fabulosum, legimus in Com-
mentariis navigationum. In mediterraneis Indiae reperiri. Semenda vocatur ab
incolis” (III, p. 691). Dunque tale presenza ‘documentata’ dai navigatori pres-
so gli Indiani giustificherebbe il fatto che per ‘loro’ Solari, oriundi dall’India,
la fenice è un animale realmente esistente.105

16.7: reptilium
La distinzione degli animali terrestri in rettili e quadrupedi ricalca Gen. 1, 22
(sesto giorno): “Produca la terra animali viventi secondo la loro specie: anima-
li domestici, rettili, bestie selvagge della terra”; At. 10, 12: “tutti i quadrupedi e
i rettili della terra”. In base alla lettura della Genesi che fa C., Mosè distingue-
rebbe gli animali terrestri “in rettili, i quali mancano di piedi… in bestie, che
vivono di preda errando, e in giumenti, che son di aiuto all’uomo” (Theol. III,
p. 183); è trasparente il duplice criterio di selezione: imperfetti (striscianti) i
primi; perfetti (ambulanti) i secondi, a loro volta suddivisibili in selvatici e do-
mestici. Tale partizione era del resto comune a molte scuole di pensiero paga-
ne: dagli gnostici (Stobeo, I, 49, 69: “Quelli che hanno avuto molta acqua, mol-
ta terra, una quantità media d’aria e poco fuoco, sono diventati quadrupedi, a
causa del calore che è in loro sono diventati più aggressivi di altri animali.
Quelli che hanno avuto una parte uguale di terra e di acqua sono diventati ret-
tili”) agli ermetici (in Poimandres, 11 [49] vi è omogeneità: “l’aria produsse i vo-
latili e l’acqua gli animali acquatici… E la terra quindi partorì dal suo grembo
gli animali che erano in lei, quadrupedi e rettili, fiere selvagge e animali do-
mestici”). I rettili, in base alla locomozione, furono suddivisi in tre specie: “ser-
pentia” o colubri che strisciano sulle costole, “repentia”, che fanno leva sulle
zampe (lucertole e batraci), e “trahentia”, come i vermi che si muovono facen-
do leva sulla bocca (SN XX I; SH I XXVIII).

16.8: dracones,
“Di serpi e draghi il fischio e la bravura / e la varia pittura / a noi ci fan paura,
/ gli rendon brutti, e tra lor belli e santi” (29, madrig. 2, 9). Del resto di draghi
se ne incontrano anche nella Bibbia, per cui Ambrogio (V XIV, 45) e Agostino
sono costretti a darne un sobrio ritratto, da cui emerge il loro duplice statuto
motorio (strisciano e volano): “I draghi si dice che sono privi di zampe, riposa-
no nelle grotte e si sollevano nell’aria” (De Gen. ad Litter. 3, 9, 13). Più detta-
gliatamente: Albertus, De animal., l.3, tr.2, c.2, 79 e specialmente l.25, 2, 25-9:
“Draco secundum Avicenna et Semeryon” appartiene al terzo genere di ser-
penti, quelli nocivi per il morso, non per il veleno, che è curabile; “secondo
questi filosofi drago è un nome di genere che contempla molte specie; sono di

105
Ma Gesner non ne riproduce la figura, come fa invece per tutti gli altri volatili; cfr R. Van
den Broek, The Mith of the Phoenix: according to Classical and Early Christian Traditions, Leiden,
1972.
COMMENTO AL TESTO 249

grossa corporatura, dai 5 agli oltre 30 cubiti, specie quelli che si trovano in In-
dia… Desub terra etiam dicunt dracones tempore tempestatum erumpere et
evolare in aërem late diffusis alis eius pelliceis”; e SN XX XXIX-XXXII ‘De draco-
ne’: con testimonianze tratte da Aristotele, Plinio, dal Fisiologo, Isidoro, Avicen-
na, che concordano sulla sua localizzazione in Oriente (più o meno estremo) e
nei deserti (SD XV CIX). Tra le testimonianze moderne, Giovio: in un’immensa
catena montuosa dell’Africa meridionale, secondo gli indigeni, “his in vallibus
dracones gigni alatos, qui anserinis [= d’oca] pedibus gradatim humi serpant”
(I XVIII); e Gesner, che dedica un lungo capitolo a ‘De dracone’ e ai serpenti
alati, ‘quos vulgus dracones vocat’ (con incisioni, e ricchissimo corredo di fon-
ti e descrizioni), conclude con una testimonianza personale: “Anno Domini
1543 audivi in finibus Germanicae prope Stiriam subito multos serpentes ap-
paruisse, quadrupedes, lacertorum instar, alatos, morsu irrimediabili. Froscho-
verus [= l’editore] narrabat ex bibliopola Stirio auditum” (V, p. 55).

16.8a: vermes, et insecta


La zoologia medievale classifica gl’insetti tra i vermi, a loro volta appartenenti
alla famiglia dei rettili; ad es. la tassonomia di Albertus, De animal. XXIIsg, or-
dina le specie in quadrupedi, uccelli, pesci, serpenti, vermi e questi ultimi con-
templano anche gli insetti (ad es. il “culex” o la “musca vermis est natus…”
[XXVI, 13 (II, p. 1505-8)]). Vermi e insetti sono entoma, animali segmentati,
comprendenti numerose specie, alcune delle quali generano vermi, come le
mosche. La definizione, derivata da Plinio (XI I: ‘insecta’ “in ragione delle in-
cisioni che… dividono in segmenti le diverse parti del loro corpo”), passa nel
Medio Evo: Beauvais distingue gli ‘anellati’, che hanno cioè il corpo segmenta-
to ad anelli, in tre specie: alcuni sono volatili come le api, altri deambulanti co-
me le formiche e quelli che propriamente si dicono vermi (SN XX LXX); Ari-
stotele li chiama ‘rugosi’, poiché hanno il corpo formato da pieghe o rughe;
Plinio invece li chiama insetti, sono privi di sangue, di ossa e di carne, e il loro
tessuto è una sostanza a metà strada tra osso e carne. Vengono poi elencate, al
solito alfabeticamente, le singole specie: l’intero XX libro di SN è dedicato per
la prima parte ai serpenti, quindi ai vermi e poi agli anellati, oltre alle mosche
e alle zanzare, ai tafani e agli scarabei, le blatte e i bruchi, la tartaruga, gli scor-
pioni e i rospi. E lo si ritrova nel Cinquecento: Cardano si occupa anche degli
‘animali generati dalla putrefazione’ (ad es. le api: Virgilio, Georg. IV, 281-314),
cioè quel genere “chiamato dai latini ‘insetto’, perché hanno la vita precisa e
tagliata”; una glossa a margine puntualizza: “a causa delle incisioni che essi
sembrano avere sul corpo, alcuni li chiamano anulati” (IX, 234r); insetti e ver-
mi sono nelle storie naturali di Rondelet 1555 (‘De insectis et zoophytis liber’,
p. 107), e ancora nei Paralipomeni alle Insectorum historiae di Aldrovandi, curati
da Bartolomeo Ambrosini nel 1657 (p. 28sg); e lo stesso Telesio, del resto, ac-
comunava insetti e rettili, entrambi privi della facoltà immaginativa – le mo-
sche per la loro eccessività e mobilità, i vermi, viceversa, per la loro lentezza e
freddezza (VIII, 11 [III, p. 205]).
L’eretico (= l’Epicureo) e il Manicheo ci domandano: “cur muscas, culices ve-
nenosaque animalia?” (Theol. III, p. 183), perché, secondo loro, l’arte divina sa-
250 LA CITTÀ DEL SOLE

rebbe incompatibile con insetti e animali nocivi; e lo stesso Aristotele che par-
la di ‘cose vili’ in natura, “se si riferisce ai pidocchi… alle serpi, si mostra poco
filosofo, perché sono cose basse e vili rispetto a noi, non rispetto alla natura”
(Metaph. II, p. 169b). A dimostrazione del male insito nella natura si prende
questa categoria (insetti e serpenti), la cui nocività (velenosità?) per l’uomo
sembra l’unico denominatore comune riconoscibile, con ulteriori riscontri:
“mosche, zanzare, serpenti… [sono] cose contrarie alla natura umana”, alla
cui formazione presiedono angeli cattivi: “perciò Belzebù, forse in base a tale
ministero, significa re delle mosche” (Metaph. XV II, II [III, p. 155]). Nella fossa
di Sant’Elmo, del Sole “son privo tanto ch’invidio alle mosche ed a serpi”, cioè
ai più infimi (Lettere, p. 135). Mentre alla suddetta domanda degli eretici, la ri-
sposta topica medievale è quella espressa da SH I XXVIII (Dio, sapendo che l’uo-
mo sarebbe caduto in peccato, “in poenam laboris dedit ei iumenta, quasi ‘iu-
vamenta’, ad opus vel esum; reptilia vero et bestiae sunt ei in exercitium”), con
C. invece si affaccia il relativismo biologico: quel che è male per l’uomo, è be-
ne per altre specie, a partire da quelle cosiddette nocive: ‘mors tua, vita mea’,
il tutto orchestrato dal Supremo progetto provvidenziale che a noi sfugge.

16.13: animalia perfecta terrestria,


La bipartizione degli animali terrestri risale al cit. (v. n. 16.8) Gen. 1, 22: rettili
imperfetti / altri animali (domestici/selvatici) perfetti.106 Il problema è capire
se “terrestria” va preso in senso stretto (= animali di terra ferma), come fa ad
es. Ambrogio, V XII, 37 (“tre infatti sono fuor di dubbio le specie animali: ter-
restri, alate, acquatiche”, suddivise a loro volta in perfette e imperfette, o infe-
riori), o in senso lato (= uno dei quattro elementi), come fa altrove lo stesso C.
(v. n. 14.16). Infatti i requisiti (e quindi gli esempi) di perfezione animale ab-
bracciano specie di tutti e tre i regni, perché, com’è ben chiarito nella Quinta
Esposizione dell’Heptaplus di Pico,107 tre sono le specie terrestri nominate dalla
Bibbia: a) dotate di cinque sensi (imperfetti sono invece “quelli che hanno la
sola sensazione del tatto” [Aristotele, De animal., 434a 1]); b) dotate di circola-
zione sanguigna (gli imperfetti ne sono privi quasi del tutto); c) mammiferi
(imperfetti: asessuati, partogenetici, nati dalla putrefazione), “come il cavallo,
il bue e tra gli animali marini il delfino” (Aristotele, De gener. animal. 732a 15 e

106
La perfezione non riguarda solo gli animali: anche tra le pietre vi sono le “imperfette co-
me il tufo” e le “perfette come la selce” o il diamante; e così “esistono metalli perfetti come il
ferro e imperfetti come il mercurio” (Compendio XXII, 2 e XXIII, 2).
107
‘Di tutti i mondi in ordine di successiva partizione’: “Fra gli animali della terra Mosè ne ri-
corda tre: giumente, rettili e belve; con queste partizioni, non essendocene più di così, ci in-
dica le differenze dei bruti privi di ragione. Le belve infatti, che sono dotate di perfetta fan-
tasia, hanno una posizione di mezzo fra gli esseri irrazionali e non si lasciano né educare, né
addomesticare dall’uomo. I rettili hanno fantasia imperfetta e stanno quasi fra gli animali e
le piante. Le giumente, anche se mancano di ragione, essendo in qualche modo capaci di di-
sciplina umana, sembrano partecipare di un certo grado di ragione; la loro condizione è qua-
si intermedia fra i bruti e gli uomini” (p. 301).
COMMENTO AL TESTO 251

30).108 La causa generale della perfezione è sì la maggior quantità di calore


(come già si sapeva: “Perfectius quidem animalium naturaliter est, quod maio-
ris caliditatis est et humiditatis; et quia calor est causa crementi [= crescita] et
rectificat animalium corpora, propter hoc homo est erectioris corporis” [SN
XXI I]); ma la caratteristica specifica degli animali perfetti, più che il movi-
mento per cercarsi il cibo (le piante sono immobili, e gli imperfetti strisciano),
è la loro generazione, che non è prodotta direttamente dal Sole (come negli
animali che vivono da un giorno a un mese: la sola virtù del Sole e della terra
non basta a far nascere l’elefante o il cavallo o l’uomo [Quaest. phys. X I, p.
85]), né dai succhi della terra o della putrefazione (Qph XXXV, 3), né avviene
per autofertilizzazione (come le lumache), ma è sessuata (Physiol. X II, p. 57 e
V, p. 60), perché la loro formazione necessita “di molto tempo e di operazioni
più delicate” (Theol. IV [II, p. 135]). Pertanto, in sintesi, in base alla circolazio-
ne sanguigna e alla respirazione, all’apparato sensoriale, alle funzioni animali
superiori, alla deambulazione, agli ‘usi’ (nocività/utilità) ed essenzialmente al-
la riproduzione, animali perfetti sono per eccellenza quelli del regno terrestre.

16.16: ingentis magnitudinis,


Da ciò si deduce che (tutte?) le figure sono quanto meno a grandezza natura-
le. Nel Seicento fu molto criticata “l’esigenza di rendere intelligibili i testi at-
traverso le immagini… probabilmente a causa dell’uso ancora invalso di tabu-
lae favolose”; contrariamente a Bacone (Parasceve [1620 circa]), l’enciclopedia
illustrata delle mura è nettamente schierata, e forse anche indebitata proprio
con questa trattatistica scientifica, come proverebbe il fatto che la questione
delle dimensioni delle immagini degli animali era stata sollevata già da Gesner:
nel Proemio alla Historia animalium “avverte anche del problema riguardante la
rappresentazione proporzionale degli animali secondo le loro specie e le loro
tipologie, in quanto le specie più grandi abbisognano di uno spazio maggiore”
(Castelli, p. 76-7).

16.19: Pape,
È una delle interiezioni (con “Perge”, “Per fidem”, “Evax”…) più spesso repli-
cata (128.30 e 146.21), e secondo Crahay esse costituirebbero la spia linguisti-
ca della “seule influence littéraire précise: celle des comiques latins” (p. 24).
L’interiezione indica “solo un sentimento, ed è utilissima al poeta… Una espri-
me il riso, un’altra la gioia, come ‘evax!’, un’altra minaccia… Infine, quanti so-
no i sentimenti ricordati nella Retorica, tante interiezioni si possono usare”
(Poët. IX IV, p. 1185; v. n. 138.11).

108
Ma sostanzialmente questa classificazione era già quella di Erodoto, e tale resterà (Agosti-
no, CD 11, 16; così Albertus, che dedica l’intero libro 21 a ‘de perfectis et imperfectis anima-
libus et causa perfectionis et imperfectionis’, e, dello pseudo-Albertus, il IV De secretis, quasi
coevo a Città) fino ai tempi di Redi.
252 LA CITTÀ DEL SOLE

16.28: legumlatores,
“Legislatore è chi fonda un nuovo stato [= imperium], con nuove leggi e reli-
gione, armi, riti e auspici” (Aphor. VI, 167 ‘De legislatoribus’). Al vertice della
‘mathesis’ di una Città sapienziale abitano inventori e legislatori, secondo una
gerarchia tracciata appunto negli Aforismi, e così sintetizzata nella postilla lati-
na a Afor., 54: “Legislatores, sacerdotes, magistratus, senatus, iudices, milites,
artifices, pastores, agricolae et mercatores” (p. 108). Dunque, primato del legi-
slatore, specie se dotato dei crismi del divino: “la più grande azione magica del-
l’uomo è dare leggi agli uomini” (Senso, p. 318; ancora: Epilogo, p. 508; Metaph.
XVI VII, II); crismi che forse l’Au. stesso credeva, o aveva creduto, di possedere,
a sentire alcuni testimoni del processo del 1599: C. si proclamava “lo primo ho-
mo del mondo, legislatore e Messia”;109 ma C. stesso, seppur meno empiamen-
te, lascia intendere che, poiché “politicam scientiam condidi” (Syntagma I III),
sarebbe da inscrivere nell’albo d’oro tra “i legislatori d’Italia e gli filosofi anti-
chi”, e invece da vent’anni è perseguitato dall’ingrata patria (36, Madrig. 4),
cioè da quella Spagna che “per accomodar le cose sue ha bisogno d’un gran sa-
vio come Licurgo o Solone, delli quali più ne sono oggi che a loro tempo, ma
più invidiati e meno conosciuti, per essersi ristretto l’intendimento delle cose
sotto a certe regole vili, ecc.” (Mon. Sp. XXXII, p. 358).
A confortarlo in quest’idea di un primato dei legislatori (e inventori) sono:
– fonti classiche pagane: Platone (Leggi) e Cicerone, De rep. VI, 13 e 28 (Ma-
crobio, Somnium II XVII): “i loro [= dello stato] governanti e conservatori, di
qui [= cielo] partiti, qui ritornano”; Plinio dedica buona parte del VII libro
(191-209) agli inventori; ma principalmente Diodoro (v. n. sg).
– fonti moderne cristiane: secondo Tommaso chi governa ha meriti, in terra e
specialmente in cielo, maggiori: “La virtù più eccelsa è quella con cui l’uo-
mo è in grado di governare non soltanto se stesso ma anche gli altri, e tanto
più quanto più vasto è il numero dei componenti la società… Dunque quan-
to più merita lode degli uomini e premio da Dio, colui il quale fa sì che il
paese goda della pace, tiene a freno le violenze, osserva la giustizia, e con le
sue leggi e i decreti stabilisce ciò che i sudditi devono fare?” (Opuscoli Filoso-
fici – Il potere politico, p. 48-9);
– fonti umanistiche: se Telesio si limita a esaltare genericamente i ‘sapienti’
“come enti divini” (IX, 6 [III, p. 363-5]), in tutto il Cinquecento è vivissimo
questo primato del politico, per retaggio quattrocentesco: “di cielo venire, e
in cielo ritornare tutti i giusti governatori delle repubbliche, per tutti i seco-
li del mondo, è stato da’ sommi ingegni certissimamente approvato”; la fra-
se ciceroniana diventa un motto che Matteo Palmieri (Vita civile IV, cit. in De
Mattei 1982, p. 26-7) consegna ai vari Tassoni, Cebà, Zùccolo, Bonini, Bona-

109
Soldaniero aveva sentito dire da Ponzio che “C. et loro predicarebbero la libertà della sug-
getione reggia et della legge et che predicariano nova lege, et C. farebbe nove leggi et predi-
cando farebbe miracoli, sì che il populo gli crederebbe et seguiterebbe” (Amabile, Congiura
III, p. 139).
COMMENTO AL TESTO 253

ventura, Albergati, Sgualdi (“che sono le Religioni, se non sacre Republi-


che?” [Aristocratia conservata, Venezia, Sarzina, 1634, p. 9]). E tale primazia
politica trova un puntuale riscontro proprio nella coeva trattatistica archi-
tettonica: Alberti, IV I (p. 264-6) considera i legislatori “degni di imperitura
gloria e ammirazione”; l’intero XIX libro del Trattato averliniano è una gal-
leria di ritratti di uomini insigni, che illustrano le mura interne della Casa
della Virtù.

16.28-18.6: Moysem… IESU-CHRISTI


La lista si è dilatata ad ogni nuova edizione, anche se è rimasta sempre entro i
confini del bacino mediterraneo: in Città (T.16.30-18.5), oltre alle tre divinità
pagane, spicca per trattamento scarsamente differenziato il terzetto Mosè, Cri-
sto, Maometto, ovvero quei ‘tre impostori’ di un trattato anonimo, che “exiit in
Germania iuxta Averrois et Aristoteles dogmata” (Disp. in prol.), e di cui C. fu in-
giustamente accusato di essere l’autore e processato nel 1594 (cfr Afor., 87; Let-
tere, p. 107; ‘Pref.’ di Atheismus);110 da Licurgo a Solone è un’aggiunta di Fr.; Ca-
ronda e Foroneo appaiono nell’ed. Parigina. Liste analoghe di personaggi emi-
nenti, reali o mitici, si trovano sparse in molte opere di C.: da Poetica (III II-III) a
Theol. (es.: I [I, p. 25]; XVII, p. 121). Tuttavia il suo atteggiamento verso di loro
muta radicalmente intorno al 1615: in Poët. V II, p. 1011 li considera quasi tutti
degli impostori, per cui in Quaest. pol. IV svela a cosa sia ridotto questo
pantheon: è la bibliografia politica ormai superata dal progetto campan. e rele-
gata in un’enciclopedia pietrificata: “tutti i difetti presenti nell’organizzazione
statuale di Minosse, Licurgo, Solone, Caronda, Romolo, Platone, Aristotele ecc.,
nella mia Città del Sole, a ben vedere, sono stati aboliti” (p. 102); l’unico ad ec-
cellere è Mosè, “ut caeteri legislatores sint eius veluti simiae, Pythagoras, Numa,
Minos, Seleucus, Solon, Zamolxis, Mahometes et alii” (Syntagma II V).
Esaminiamo i criteri con cui è stato stilato quest’elenco di personaggi eccellenti:
– fonti: principalmente Diodoro (da I I, II a I II, VI [I, p. 12-74]), con indicato a
margine (da Baldelli?): “Legislatori”; è un elenco di coloro che hanno fatto
scoperte fondamentali per l’umanità, a partire da Osiride, Mercurio, Minos-
se, Zamolxi, Caronda, Pitagora, Licurgo, Solone (la sequenza diodorea è
tendenzialmente cronologica, ma anche spaziale); Isidoro, Etym. V I ‘De auc-
toribus legum’ (per nazioni: Mosè diede le leggi agli Ebrei, Foroneo ai Gre-
ci, Mercurio Trismegisto agli Egizi, Solone agli Ateniesi, Licurgo agli Sparta-
ni “ex Apollinis auctoritate”, Numa ai Romani); e Ficino, II, p. 1135 (In Mi-
noem): poiché le leggi umane imitano quelle divine, i legislatori dicono di
averle ricevute dagli dei: “omnes illustres conditores legum inventionem le-
gum in Deum, sed per diversa nomina atque media retulerunt… Trismegi-
stus Aegyptiis in Mercurium; Moyses Iudaeis rectissime in patrem totius na-
turae Deum; Minos Cretensibus, in Iovem; Charondas Car[t]haginensibus,

110
Per un’aggiornata panoramica abbracciante anche questo “fantomatico trattato”, cfr Ber-
ti e Popkin, ‘Introduz.’ (v. n. 60.23-4).
254 LA CITTÀ DEL SOLE

in Saturnum; Lycurgus Lacedaemoniis, in A[p]ollinem; Draco et Solon


Atheniensibus, in Minervam; Pompilius Romanis, in Aegeriam; Mahometus
Arabibus, in Gabrielem; Zamolxis Scythis, in Vestam”. Altre fonti: Clemente
Alessandrino (Strom. I XIV-XVI), Diogene in incipit; e saltando all’età moder-
na: Fioravanti, II XXXIX, 249r; ben più estesamente Filarete, in partic. pp.
455, 540-57, 563sg, 576sg (gerarchicamente prima gli inventori poi i legisla-
tori, ognuno con una targhetta a illustrazione delle sue imprese); Doni,
Mondi, p. 68-9 (riprende da Guevara [ib., p. 430] l’ordine spaziale, cioè per
nazione, dei sette legislatori originari: da Mosè per gli Ebrei a “Solone agli
Ateniesi, Licurgo ai Lacedemoni… Numa ai Romani e Foroneo agli Egizii”);
e Persio, p. 67-8;
– tassonomia: in quest’elenco sono contemplate quattro categorie principali
con varie sottopartizioni, comprese fra Cristo e l’anticristo Maometto:111
1. Dio in persona fattosi uomo, oppure un suo inviato (Mosè)
2. chi si ispirò ai princìpi dettati dalla ragione naturale (Solone e Licurgo)
3. impostori (a vario titolo e grado)
4. ispirati dal diavolo (Maometto).
La 3a categoria è più raffinatamente ripartibile (in base a Theol. XVII, p.
121): coloro i quali furono ritenuti divinità dai loro seguaci (Romolo e Cin-
ghi [= Gengis Khan] – non a caso assenti in questa lista); coloro i quali si fe-
cero passare per inviati di dio (es. Zamolxi); e infine quelli che si fecero pas-
sare per dèi (Giove e Mercurio). Però la millantata missione divina non fu
consegnata a “nessuno di questi in maniera manifesta, ma sempre fra monti
e spelonche, dove gli uomini non potevano verificare se davvero era un dio
quello che dava la missione” (Theol. XVII, p. 125), perché in realtà nessuno
di costoro possedeva neanche uno dei ‘dieci segni da cui si distingue il mes-
saggero divino da quelli non divini’ (Theol. XVII V II, VI; Disc. Univ. X [p.
1140]; Quod rem. 3, pp. 132 e 137). La presenza di tante divinità declassate a
uomini illustri fa ritenere che, come molti suoi predecessori (da Varrone,
cit. da Atheismus, p. 32, agli Umanisti: ad es. Alberti, ‘Prol.’ [p. 12] e VII II, p.
540), C. guardi evemeristicamente agli dei pagani, considerandoli cioè re-sa-
cerdoti spacciatisi poi per divinità.112 Questa “abitudine di elevare al cielo
uomini eminenti per i loro benefici” (Cicerone, De nat. deor. II XXIV, p. 62; III
XXI: “è necessario parlare anche contro quelli che deificano gli uomini… a
cominciare da Giove”), fu considerata da Lattanzio113 e da Agostino positi-

111
Cfr anche: Aphor. VI e VIII; Politica V, 4; Senso, p. 235; Atheismus, p. 130-1 ripercorre la tra-
dizione dossografica – da Patrizi a Cardano – sui legislatori sedicenti divini; Poët. V II; Metaph.
XVI VII, IV ([III, p. 269).
112
Poetica II, p. 318; Senso: “ogni nazione quel che di nuovo vide, ignorandone le cause, l’at-
tribuì a divinità” (p. 234).
113
Div. Inst. I VIII e XV: li si è creduti dèi, forse “quia reges maximi ac potentissimi fuerint: ob
merita virtutum suarum aut munerum, aut artium repertarum, cum cari fuissent iis quibus
imperitaverant, in memoriam sunt consecrati” (PL VI, 156).
COMMENTO AL TESTO 255

vamente: Evemero “scrisse, non da impertinente favoliere, ma da storico ac-


curato, che tutti questi dèi furono uomini mortali” (CD 6, 7). L’evemerismo,
come principio ontogenetico delle religioni pagane (o naturali), diverrà
luogo comune,114 ereditato e adottato dal ‘500,115 anche perché la sua por-
tata universale sembrava confermata da pratiche analoghe presso popolazio-
ni lontane nello spazio: i Cinesi “ripongono nel numero degli Dei gli inven-
tori di ciaschedun’arte, e gli altri che o in pubblico o in privato fanno a’
mortali qualche gran beneficio” (Maffei, I, p. 396; a II, p. 263 paragona
“Giove” e altri “Dei falsi e bugiardi” alle divinità giapponesi di secondo gra-
do, cioè “che furono già Re o figliuoli di Re, o che per alcun ritrovamento o
altra segnalata prova hanno conseguito la gloria di falsa divinità”). Ma la di-
vinizzazione dei legislatori, anche quella simulata, è giustificata da C. per il
fatto che altrimenti un uomo non si inchinerebbe spontaneamente ai detta-
mi di un altro uomo, e neppure “caper cedit capro: cedit autem pastori, quia
superioris est speciei. Soli ergo Deo tamquam potentissimo ac sapientissimo
supra se cedit, creditque homo ultroneus. Hanc enim ob rem legislator unu-
squisque (ait Varro) conatus est ostendere se Deum esse, vel verba et man-
data a Deo accepisse, seu vere, seu false, quo leges suae libentius et obedien-
tius acceptarentur” (Atheismus, p. 32); commenta opportunamente Frajese
1998: “D’altra parte l’ordine politico è un prodotto della natura e quindi
della ragione prima, così quei legislatori che nell’antichità hanno presenta-
to le proprie leggi come inviate da Dio, in quanto hanno dato ai loro popoli
delle legislazioni ragionevoli ed utili alla vita sociale, non hanno perpetrato
un inganno, ma hanno invece operato secondo verità, perché hanno conse-
gnato alla loro società le leggi del Cristo-prima ragione” (p. 340). L’altra ca-
ratteristica del pantheon di Civitas è di contemplare all’incirca un rappre-
sentante per ogni nazionalità o meglio per “setta”, come emerge più chiara-
mente ed esaustivamente in Theol. I (“ogni setta del mondo crede di aver ri-
cevuto da Dio, attraverso il proprio legislatore, i suoi dogmi e le sue scrittu-
re” [I, p. 25]) e Comment.: “infatti né Numa, legislatore dei Romani, né Mi-
nosse, dei Cretesi, né Zaleuco, dei Locresi, né Pitagora, di Crotone, né Za-
molxi, degli Sciti, né Dracone, né Solone degli Ateniesi, né Licurgo, degli
Spartani, né Foroneo, dei Greci, né Caronda, dei Cartaginesi, né Amida, dei
Giapponesi, né Cinghi, dei Tartari, né Maometto, degli Arabi, possono esse-
re paragonati a” Mosè (p. 867).
– Funzioni: raffigurazioni plastiche di personaggi ‘esemplari’, collocate anche
altrove oltre che nel sesto girone, hanno in CS tre funzioni: culto degli eroi,
ma bandendo qualsiasi culto della personalità che possa pericolosamente vi-

114
“Quos igitur pagani Deos asserunt, homines olim fuisse produntur, et pro uniuscuiusque
vita vel meritis coli apud suos post mortem caeperunt, ut apud Aegyptum Isis, apud Cretam
Iupiter” (Isidoro, Etymol. VIII XI).
115
Telesio, IX, 6 (III, p. 363-5); gli uomini di alto ingegno “soperchiarono l’humana natura,
e dagli huomini furono deificati dopo morte, e honorati d’altare e di tempio” (Persio, p. 61).
256 LA CITTÀ DEL SOLE

rare in idolatria (112.6-16; 118.4-9); immaginazione delle gestanti (42.20;


112.16); e infine una funzione didascalico-emulativa: “può di natura il don
più raffinarsi / con gli oggetti e con l’arte educativa, / e farsi ampio e chia-
ro; / ma non leggier, di greve, / se di savi e di eroi / senno e forza ogn’a-
lunno non riceve” (25, Madr. 4, 5-10); anzi, dato il contesto architettonico-
astrale e il carisma quasi taumaturgico (42.20), di cui sono caricate le vene-
rate immagini, non è da escludere una funzione talismanica: “intorno al pe-
rimetro della città egli [= Ermete] collocò varie immagini, e le dispose in
modo tale che per virtù loro, gli abitanti fossero resi virtuosi e scevri da cat-
tivi languori e scelleratezze” (Picatrix IV III).

16.28a: Moysem,
“Mosè in ogni cosa è talmente superiore, che gli altri legislatori, come Pitago-
ra, Numa, Minosse, Seleuco, Solone, Zamolxi, Maometto e gli altri, non sono
che sue scimmie” (Syntagma II V). Infatti ha potere legislativo assoluto “o Dio,
che ha cura di tutto, ed è la somma ragione; o colui cui Dio delega le sue veci,
come Mosè e Pietro” (Politica V, 4). “Moïsè legista e ubidente” lo chiama Dante
(Inf. IV, 57 e Par. XXXII, 130) riferendosi a Ex., 32-4, come fa anche C.: “Ad
Abramo l’obediente, a Job il paziente, a Mosè il legifero: questi [titoli gloriosi]
non si ponno mutare, perché opera eorum sequitur illos” (Titoli, p. 297); infatti
“Mosè promulgò le leggi dategli da Dio e fondò uno stato rettissimo, e finché
gli Ebrei vissero in ottemperanza alle sue leggi, prosperarono; quando invece
le trasgredirono, decaddero” (Quaest. pol. IV, p. 101); ma le leggi mosaiche fu-
rono ottimamente riformate da Cristo: “nisi Christus legem Moysi laudasset…,
nemo forte nunc in mundo praeter vos [= Ebrei] legem Moysi crederet” (Quod
rem. 3, p. 132).116

16.28b: Osirim,
Divinità egizia, figlio del cielo e della terra; tagliato a pezzi dal fratello Seth
(Syntagma IV I), fu ricomposto e resuscitato dalla sorella Iside; simboleggiava
l’alternarsi del giorno e della notte e le periodiche inondazioni del Nilo. “Isi e
Osiri dagli Egizi… per essere stati inventori d’arti o di religioni o leggi, furono
riveriti con sacrifizi e con poemi” (Poetica II, p. 318), ma sono dei millantatori
(Aforismi, 107 e 167). Alcune fonti (Diodoro, I I, II [I, 12] e I XIII, IV; Plutarco, Is.
et Os., 13, 356A-B; Beroso, 20r; Giamblico, Misteri, p. 264 [VIII III]; Macrobio,
Saturn. I, 21, 11; Eusebio, Chr., 48b.22) attribuiscono ad Osiride la civilizzazio-
ne dell’umanità attraverso l’agricoltura e l’istituzione delle leggi e dei culti re-
ligiosi; altre fonti invece (Agostino, CD 8, 27; 18, 37 e 40; Comestore, 70), dico-
no che è la moglie Iside ad aver civilizzato gli Egizi con la scrittura, come so-
stiene altrove lo stesso C.: “gli Egiziani attraverso Iside” ricevettero le loro leggi
(Theol. I [I, p. 25]).

116
Cfr anche Mon. Sp. I, 4; Poetica XI; Afor., 33-4, 57, 65; ma le pagine più intense ed inneg-
gianti a Mosè sono in Comment., p. 860-8; Mon. Sp., p. 4 e ai cap. V-VI di Theol. XVII.
COMMENTO AL TESTO 257

16.28c: Iovem,
Per C. l’equivalente caldaico del nome di Dio era “Jove”, da cui deriva prima lo
“Jeova” ebraico: “il nome di Giove presso gli antichissimi Caldei, donde Abra-
mo lo introdusse tra i Giudei, era un vero nome tetragramma [= Geova] ma
poi fu comunicato agli uomini e Belo, re d’Egitto della stirpe di Nembrot, se lo
usurpò per primo, e dopo di lui altri principi, compreso quello che presso i
Cretesi fu chiamato Giove. Perciò Senofonte dice che i primi monarchi furono
chiamati Saturni, i figli Giovi e i nipoti Ercoli” (Theol. I [I, p. 181]; Senso, p.
225). Anche il Giove dei Greci e Latini è dunque un impostore, come mostra la
sua tomba a Creta (Theol. XVII, pp. 121 e 181; Theol. XXVI, p. 48); ed è que-
st’ultimo, probabilmente, che è effigiato dai Solari, come parrebbe da Mon.
Sp., in cui appare nello stesso terzetto e insieme distinto da Belo (= il Baal di
1Re 16, 31; uno degli antichi progenitori Fenici): “quando li Assiri sotto Nino
mutâro la religione di Noè e fecero quella di Giove Belo… I Macedoni… si fe-
cero Alessandro figlio del Dio Ammone… Lascio stare Giove, Mercurio, Osiri e
altri antichissimi quanto fecero con questo” (X, p. 94; cfr altresì: Metaph. III XI
XVII, I; Poetica II; Quod rem. 2, p. 19; Comment., ‘Proemio’ [p. 693]).
Fonti: in Theol. I (I, p. 25) C. esplicita la fonte: “I Gentili considerano Giove e
Mercurio come autori delle loro leggi, secondo le testimonianze di Platone, e
così Minosse e Numa dichiarano di aver introdotto le leggi e la religione per
opera divina”; in effetti fu Giove, secondo Platone, a dettare le leggi a Minosse
(e dunque ai Cretesi): Minos. 318-20, Leg. 624a-636d, Protag. 322c-d; altre fonti:
Beroso, 8v; Mela, II VII; Servio, Ad Aen. VII, 180; Solino, Coll. XI, 7; Diodoro, V,
71-2; e specialmente Lattanzio, Div. Inst. I XI; Agostino, CD 9-12; per ‘Iuppiter
Stator’: Cicerone, De leg. 2, 11, 28 e Agostino, CD 3, 13 e 7, 11 (“quod haberet…
impellendi, statuendi, stabiliendi, resupinandi potestatem”, reggitore e sosten-
tatore del mondo); SN XXXII XXIX.
Oltre alle sue qualità legislative, Giove ebbe almeno tre altre ‘marche’ suscetti-
bili di divinizzazione:
– inventore dell’agricoltura: Virgilio, Georg. 1, 121, irriso da Agostino, CD
7, 19;
– mago diabolico: “Iuppiter, magorum celeberrimus, et totius sceleris officina,
apud vulgus ignobile arcem divinitatis obtinuit, quoniam ad perpetrandos
incestos nepharios in quaslibet formas deformavit” (SN XXIII LXXVI); Giove
è stato deificato per le sue pratiche magiche, volte a soddisfare la sua lasci-
via, esperto com’era in trasformismi (cigno, toro, pioggia d’oro… );
– divinità antonomastica per indicare la pervasività del divino nella natura
(l’animismo), sulla scorta di un motto, spesso cit. da C. (es. Lettere, p. 118),
attribuito da Sensu, p. 235n a Catone, e da Theol. I (I, p. 95) a Lucano che l’a-
vrebbe derivato a sua volta dalle Georgiche virgiliane: “Superos quid quaeri-
mus ultra! Juppiter est quodcunque vides, quodcunque movetur” (per C. e
la teoria dell’‘anima mundi’ v. n. 124.9-10, n. 132.35-134.3); è invece molto
più diffuso il motto presente in Bucol. III, 60 (“Iovis omnia plena”): da Ara-
to, che lo colloca proprio in incipit, come ricorda Macrobio, Somnium I XVII;
ad Agostino, CD 7,9; e modernamente allo Stephanus, Annotat. a Callimaco
p. 1: “A Iove principium, quoniam Iovis omnia plena”; Pulci, per dire che
258 LA CITTÀ DEL SOLE

agli Antipodi sono pagani, scrive: si “adora il Sole e Juppiter e Marte” (Mor-
gante XXV, 231).

16.29: Mercurium,
A partire da Ficino (es.: Amore II XIII [I, p. 215]), Ermete Trismegisto era chia-
mato correntemente Mercurio (con o senza l’appellativo di ‘Tre volte grande’)
e quindi si rischiava di confonderlo con l’omonima divinità romana.117 “Si trat-
ta di una figura sincretica, nata dalla fusione, avvenuta nella cultura greco-lati-
na, di Thoth118… e di Ermete, dio greco (‘Mercurius’ per i Latini), messaggero
degli dei e guida delle anime dei defunti. A lui furono attribuiti testi in lingua
greca che in realtà appartengono a diversi autori dei primi tre secoli dell’era
cristiana. Essi sono distinguibili in due gruppi: uno di trattati e di formule di
carattere magico, alchemico, astrologico, e un altro di testi di carattere filosofi-
co-religioso, influenzati dalla filosofia greca e dalla cultura giudaica, cristiana e
gnostica. Il secondo gruppo è oggi rappresentato dal cosiddetto Corpus Herme-
ticum, che comprende diciassette trattati in lingua greca, scritti, a quanto pare,
ad Alessandria o in ambiente alessandrino”,119 i più famosi dei quali sono l’A-
sclepius e il Poimandres. In questi scritti Ermete risulta un saggio e un legislatore,
perciò C. nei suoi scritti mostra tanta ammirazione per “Trismegisto sapientis-
simo”; mentre “i miracoli di Giove [Sensu aggiunge: “Mercurii”], di Bacco, d’A-
pollonio e d’altri Dei, parte furono naturali, che alla sciocca gente parevano
miracoli” e parte diabolici, invece per primo e da solo, “Trismegisto il vero
Dio… stimò, e non stima quelli Dei Egizii”.120
La tradizione, cui attinge C., vuole che Mercurio (“Mercurius, quod mercibus
praeest”, secondo l’etimol. di Isidoro, VIII XI), figlio di Giove e di Maia,121 ov-
vero nipote di Atlante,122 sarebbe stato inviato dal padre a portare a tutti gli uo-
mini indistintamente “il pudore e la giustizia, affinché servissero da ordina-
mento della città e da vincoli costituenti unità di amicizia” (Platone, Protag.,

117
In Mondi “l’eliminazione da parte del Doni dell’aggettivo peculiare del Trismegisto” fa
problema (Pellizzari, p. 176).
118
O Theuth, dio egiziano inventore della scrittura e delle matematiche (Platone, Phaedr.
274c). È all’età alessandrina in effetti che risale la sua identificazione con Hermes (Saxl, p.
167; Schiavone, p. 186).
119
Giancotti, p. 212-3, a commento del sonetto 40, 10: “cerca fuor di zelo in umil tende / Ca-
ton, Minoi, Pompili e Trismegisti”, cioè una lista di legislatori e dunque uomini “atti al re-
gno”.
120
Senso, pp. 233-4 e 323; e così in: Theol. I (es. I, p. 19); Mon. Messiae II, p. 12; Quod rem. 3, p.
24: “Trismegisto” autore del Pimandro; Opusc. ined., p. 23: autore dell’Asclepius – in quegli stes-
si anni [1614], però, Casaubon ne provava l’inautenticità –; in Metaph. III XV, III espone le
dottrine di Ermete o “Mercurius, quem vocant Trismegistum”.
121
Cicerone, De nat. deor. III XXI-XXII, ricordato da Lattanzio, Div. Inst. I VI.
122
Isidoro, Chronic. (PL LXXXIII, 1025) parla di un “Serapis, Jovis filius, Aegyptiorum rex,
moriens, in deos transfertur… Tunc fuit et Mercurius, nepos Atlantis, multarum artium peri-
tus” (Atlante è infatti padre delle Pleiadi, una delle quali è appunto Maia).
COMMENTO AL TESTO 259

322cd). Dall’Hermes pagano poi finse di essere stato ispirato il Theuth egizio,
e già Diodoro (I I, II e I II, V) testimonia che il processo di contaminazione fra
le due divinità era in atto; Girolamo, In praepar. Evang. I IX: “Aegyptii Thoyth
vocarunt, Alexandrini Thoth, Graeci Hermen, hoc est Mercurium”; Ficino, la
cui lista di legislatori ‘divini’ coincide quasi con quella di CS: “Trismegistus
Aegyptiis in Mercurium” (II, 1135 [in Minoem] – per il contesto della citaz. v. n.
16.28-18.6). O addirittura il Trismegisto si fece passare per suo figlio: “Ermes il
mio avo, di cui porto il nome” (Agostino, CD 8, 23). Una controprova la si può
trovare in Naudé, Considérations III, p. 118: nella sua lista di statisti simulatori,
che dice di aver ricavata direttamente da C., sostiene che Trismegisto fece cre-
dere di aver ricevuto le leggi da Mercurio come Minosse dal padre Giove.

16.29a: Lycurgum,
Mitico autore della costituzione spartana insieme a Solone e Numa, appartiene
ai sapientissimi legislatori designati dal popolo (Aforismi) e “ai quali viene affi-
data la ragion comune dello stato” (Politica, V, 4); in Quaest. Eth. (I, 11) è posto
(con Mosè, Romolo e Codro) fra i ‘dominatores’ virtuosi contrapposti ai perfi-
di tiranni vantati da Machiavelli; e in Theol. XVII, p. 179 addirittura fra i marti-
ri (insieme a Pitagora, Zaleuco, Romolo, a parte Mosè e Cristo): “I Lacedemo-
ni perseguitarono a morte il buon Licurgo, che dava loro le leggi, e anzi uno di
essi gli trasse un occhio con un colpo”.
Il plutarchiano Lycurgi et Numae comparatio è una fonte palese: non solo i due
statisti si trovano affiancati, ma si narra anche l’apologo dei due cani che s’az-
zuffano per un misero osso trascurando la caccia, citato spesso da C., e adatta-
to alla realtà contemporanea (es. Disc. univ. XVIII [p. 1153]). Sullo statista
spartano, oltre Lyc. 5, 4, cfr anche: Erodoto, 1, 65, 4; Platone, Leg. 630d, 691e,
858e; Cicerone, De rep. II, 2; De leg. I, 57; Diodoro, I, 94-5; Agostino, CD 10, 13;
Giustino, III: “finse che autore delle leggi fosse Apollo Delfico” (SH II XC).

16.29b: Pompilium,
È uno dei tipici casi di ribaltamento di giudizio: originariamente annoverato
tra i “gran dottor della legislatura” (36, Madr. 4, 1 [circa 1603]), eletto dal po-
polo (Afor., 33), e, per la sua prudenza (Mon. Sp. V, p. 38), giustizia e tempe-
ranza, capace di guidare rettamente lo stato (p. 97); giudizio replicato da
Aphor. V, 4; ma sempre in Aphor. [1619] viene tacciato d’impostura, alla stregua
di Maometto, che con la spada e con la menzogna ha conquistato un dominio
perituro (VIII, 3); insomma un ingannatore “officioso e utile” (espressione
averroistica: “mendaces officiosi”, secondo Metaph. XVI VI, II [III, p. 239]), per-
ché “meditava le leggi nel bosco e poi le consegnava ai Romani come se le aves-
se ricevute là da un dio” (Metaph. XVI VII, IV [III, p. 271]), e cioè dalla ninfa
Egeria (Poetica VI; Theol. XVII, p. 125), persuadendoli “con la forza dell’orato-
ria” (Rhet. I II, p. 727).
Fonti: Virgilio, Aen. 7, 763; Ovidio, Fasti 3, 273; Agostino, CD 7, 35; Isidoro (in
SH II, CIV) dice che traspose in latino le leggi di Solone e stilò le Dodici Ta-
vole.
260 LA CITTÀ DEL SOLE

18.1: Pythagoram,
Prevalgono i giudizi positivi su di lui: anch’egli appellato “il gran dottor della
legislatura”,123 anche se non mancano le riserve: è un ingannatore che “finse di
aver conversato per due anni con gli dei” (Metaph. XVI VII, IV [III, p. 271]), e
per giunta con quelli “dell’Averno” (Poët. V II, p. 1101), ed è tra coloro, come
Numa, le cui leggi sono scomparse, perché affermate con la spada o l’inganno
(Aphor. VIII, 3).
Fra le varie fonti note ed in parte dichiarate da C. (autore di una perduta Phi-
losophia Pythagorica [v. n. 12.5]), classiche,124 patristiche (Giustino [SH III XXIV],
Agostino, Eusebio, Tommaso), e moderne (da Beroaldo a Barri), è degna di
menzione quella del condiscepolo telesiano Persio: “il nostro Pithagora andò
fino ad Egitto per apparar le mathematiche… in Isparta per conoscer le leggi
di Minos di Licurgo. Onde tornatosene in Italia, e in Crotone dimorato per
venti anni, città nobile della magna Grecia, venutosene a Metaponto, luogo po-
co lontano dalla nostra patria [Persio è di Matera], qui terminò gli anni suoi”,
e la sua casa fu trasformata in tempio, “dove egli avesse a essere adorato e mi-
rato con devotione come Dio” (p. 67).

18.1a: Zamolxim,
Di Napoli traduce ‘Zamolxide’ (Metaph., Proem. [I, p. 87]); Amerio ‘Zamolsi’
(es. Theol. I [I, p. 25]); Piazzi: ‘Zamolxis’; Cesaro: ‘Zalmosse’ a p. 91 e ‘Zal-
moxis’ a p. 210; gli studiosi francesi hanno antesposto la ‘l’ alla ‘m’;125 qui si è
optato per la traduzione di Firpo 1941 e 1954 e Bolzoni 1977, p. 967, non es-
sendoci alcuna grafia prevalente.126
La storia di questo millantatore, prima schiavo, poi allievo di Pitagora, che, af-
francatosi e arricchitosi, tornò tra la sua gente, gli Sciti, a propagandare il ver-
bo pitagorico, facendosi passare per una divinità col trucco di fingersi morto e
‘risorgere’ dopo quattro anni, è ampiamente nota nell’antichità: Erodoto, IV,
93-5; Platone, Charm. 156e-157a; Aristotele, Fragm. 104; Diogene, I, 1 e VIII, 2;
Porfirio, Vita, 14-5; Giamblico, Vita, 104, 173 (Theodoreto, XXX, p. 154-5); Cri-
sostomo, Contra Gentiles 1036D. Della Porta, Magia, 1r lo considera invece un
‘mago’ eccellentissimo. C. lo inserisce fra gli impostori: “lo scita Zamolxi, dopo
essere rimasto nell’antro del monte, diede la legge al popolo che l’aspettava ai

123
Insieme con Numa: 36, Madr. 4, 1 e sonetto 137, 31; ebbe “intelligenza mistica” della na-
tura, come Platone (Theol. I [I, p. 37]), e “gareggia con Mosè nella legislazione” (Apologia, p.
56).
124
Da Diogene a Livio, da Plutarco a Ovidio – a cui rimprovera “confusioni cronologiche, co-
me l’incontro di Numa con Pitagora” (Poët. VIII IX, p. 1099) –, da Giamblico a Clemente Ales-
sandrino.
125
F. Pfister, Zalmoxis, ‘Studies…’ (1953); M. Eliade, De Zalmoxis à Gengis-Khan, Paris, 1970;
Crahay: ‘Zalmoxis’.
126
La correzione dell’unico “Zamolhim” dell’ed. Parigina è effettuata sulla base della Fr. e
delle altre opere, nonché della presunta agevole corruzione della ‘x’ in ‘h’ (anche se in Com-
ment., p. 866 c’è “Zamolsius”).
COMMENTO AL TESTO 261

piedi del monte” (Theol. XVII, p. 127-9), fingendo di aver avuto lì “convegno
con gli dèi” (Poët. V II, p. 1011) – cioè la dea Vesta, secondo Diodorus, I XCIV e
Ficino, Amore II, 1135.

18.1b: Solonem,
Modello di “buono legislatore in fatti” (Afor., 57; mentre Platone lo fu ‘in lette-
re’ e Mosè in tutti e due), espressione della ragione naturale (Afor. V, 4), scris-
se in versi le leggi ateniesi, per agevolarne la memorabilità (Poetica IX, p. 339).
In Theol. XXIX, p. 65 muta parere: Solone è un altro impostore che finge di es-
sere stato ispirato da Minerva.
Fonti: Platone, in partic. Tim. 20-7; Plutarco, Solon, 17-25; Cicerone, De leg. I, 57;
Livio, III, 31-2; Diogene, 45, 55-63; Ocellus, p. 12; Agostino, CD 18, 25 (uno dei
sette sapienti: “si dice che diede alcune leggi agli Ateniesi”); il dettaglio auto-
biografico più intrigante, che cavava dal plutarchiano Solon VIII, è la sua finta
follia, per incitare gli Ateniesi alla riconquista di Salamina, senza incorrere nel-
la pena di morte: “Bruto e Solon furor finto coperse” (Sonetto 62, rinviando in
nota a “quando [l’Au. stesso] bruciò il letto e divenne pazzo, o vero o finto”).

18.1c: Charondam,
Non mi risulta menzionato da C. prima di Quaest. pol. IV, p. 102 [circa 1620]:
anche lui condannato, come Solone, Licurgo, Zamolxi, Numa “per non aver
osservato la religione che tenevano per vera e davvero data da Dio, mentre ve-
devano in essa molte cose contrarie alla ragione naturale”. Eppure le fonti ac-
cessibili su questa figura forse mitica di legislatore catanese del VI sec. a. Cr.
non scarseggiano affatto, e tratteggiano unanimemente un profilo positivo:
Platone gli attribuisce “il merito di aver agito da buon legislatore e fatto l’utile
dei suoi cittadini” (Resp. 599e); è spesso citato nella Pol. aristotelica, segnata-
mente a 1274a25-1274b8, quale allievo di Zaleuco; e poi: Cicerone, De leg. I, 57;
II, 14; Diogene, II, 76; Eliano, III, 17; Porfirio, Vita, p. 21; Giamblico, Vita, p.
130 [Theodoreto, pp. 103, 123, 154], che l’annovera fra i pitagorici; Ocellus, p.
12. Diodoro, I II, V [I, p. 74-6] lo considera “legislator de’ Sibariti” e in XII [I, p.
524-32], “huomo di ottima natura, e di singolar peritia nelle cose del mondo, e
delle divine parimente dotato, e appresso ornato di tutte le scienze e buone di-
scipline. E questi usando non picciola diligenza di venir considerando di qua-
lunque natione le leggi, e gl’instituti, e di quelle tutte le miglior cose, e che più
gli parevano a proposito… eleggendo, e quasi che in un corpo riducendole,
impose loro che quelle dovessero per leggi loro osservare”; Doni, Mondi (p.
123) ne storpia il nome in “Gerondia”; e forse a una storpiatura del nome del-
la sua patria è dovuta la menzione in Ficino, Amore II, p. 1135 quale legislatore
dei Cartaginesi (Catanesi?), ripresa proprio da C. in Theol. XXIX [circa 1623],
p. 65 e in Comment. p. 866: “Charondas [legifer] Chartaginiensium”.

18.2: Phoronaeum,
Come Caronda, anche questo nome manca nell’ed. del 1623; in Comment., p.
866 è chiamato legislatore “Graecorum”: figlio di Inaco, fu il più antico re di
Argo (se non proprio della Grecia), e insegnò agli uomini l’uso del fuoco e a
262 LA CITTÀ DEL SOLE

vivere riuniti in città. Solone “favoleggiò di lui come il primo uomo” (Platone,
Tim. 22b) vissuto prima del diluvio. Altre fonti: Diodoro, I, 94-5; Plinio, VII,
194; Igino, p. 143; Apollodoro, II, 1, 1; Pausania, I 39, II 15 e IV 40; Eusebio,
Chron. 30a.12; Isidoro, V I e Chron. [PL LXXXIII, 1025] dice che per primo die-
de ai Greci le leggi (anzi ‘forus’ sarebbe derivato da “Foroneo”, secondo Etym.
XV II, 27), seguito da Comestore, LXX in SH I CX e Bellarmino, Chron. 3: circa
diciannove secoli a. Cr. “claruit Phoroneus legislator primus”; Agostino, CD 18,
3 (“la Grecia accrebbe la sua fama grazie alle leggi e tribunali istituiti sotto Fo-
roneo, re dell’Argolide”); Filarete lo reputa fratello di Isis e primo legislatore
della Grecia; Bosio, II, 35: secondo re di Argo e fondatore della città di Rodi;
Doni, Mondi (p. 68-9) plagia (e quindi sbaglia come) Guevara, che lo conside-
ra legislatore degli Egizi, “e fu lor re, fu uomo giusto, non meno virtuoso che
savio e onesto. Alcuni vogliono che le sue leggi corressino tutto il mondo, per-
ché si vede i Romani aver chiamate certe leggi giustissime ‘forum’ per memo-
ria del re Foroneo”.127

18.3: Mahomettum
Fin dall’oroscopo si poteva intuire che sarebbe sortito uno dei peggiori
“prophetas falsos, pestiferos, venereos, fabulosos, inanes, viribus gladii non ra-
tione fretos, stultiloquos” (Quod rem. 4, p. 127), e uno di quei legislatori, “i qua-
li spinti dall’astuzia o da un demone, finsero di essere stati inviati da Dio, come
imitatori dei suoi veri messaggeri” (Politica V, 4); in effetti “le lettere del suo no-
me Magumettus formano il numero 666”, cioè quello della Bestia ovvero del
più infernale Anticristo, secondo Apoc. 13, 18 (Disc. univ., X); e del resto ogni
sua azione denuncia la matrice demoniaca: infatti non avrebbe “potuto inven-
tare così favolose e colossali bugie, e rispondere con tanta prontezza a tutte le
questioni per mezzo di sciocche invenzioni, se nell’antro in cui credeva di par-
lare con Gabriele non fosse stato ingannato dal Diavolo, che era sempre appic-
cicato alla sua lingua: infatti chi esamina i suoi scritti nota che egli parla in mo-
do quasi affascinante”.128

18.5 IESU-CHRISTI
Tanto viene depresso Maometto (e, come si è visto, quasi l’intero pantheon
pagano, Pitagora incluso), quanto viene esaltato Cristo – la distanza con
T.18.2 misura qui forse sia un tentativo di chiarimento che un ravvedimento:
nelle redaz. italiane, Cristo è una delle manifestazioni (seppur massime, op-

127
Il nome, in realtà, “significa probabilmente ‘Il portatore’, ossia il benefico”, secondo Gui-
dorizzi (p. 416), alla cui nota si rinvia per l’esaustivo elenco delle fonti greche: “è una note-
vole figura di fondatore culturale” (secondo Pausania, 2, 19, 5, scopritore del fuoco; secondo
Igino il primo a fabbricare armi), e “fu anche il primo uomo e il primo re, e sarebbe stato an-
che il primo ad innalzare un altare in onore di Era” (p. 521).
128
Poët. V II, p. 1013; per la sua diabolica fascinazione cfr anche il sonetto 16; Mon. Messiae I,
6; il XIV cap. di Art. proph.; Apologia, p. 57; sulle fonti di C. circa la dottrina di Maometto, cfr
nota di Amerio a Quod rem. 4, p. 6-7, e Lerner 2001, pp. 184 e 288.
COMMENTO AL TESTO 263

portunamente distinte e onorate) della sapienza umana, mescolato però con


i duci militari, “specie Romani” (proprio i Suoi carnefici!); Civitas invece in-
staura tre livelli: la sapienza umana; quella ‘supra homines’; e l’eroismo mili-
tare (ribadendo, con l’aggiunta di Annibale, il criterio di estrazione multiet-
nica degli eroi), raffigurato nel porticato esterno inferiore del sesto girone
(v. 18.11-2).
Se i Solari di Città vedevano in Gesù solo la razionalità assoluta, quelli di Civitas
possono cominciare a sospettarne la divinità. Naturalmente qui Cristo è in cau-
sa essenzialmente in quanto “legislatore ottimo” (Poetica VI, p. 326; Theol.
XXIII II, I), cioè di grado eccelso, quello divino: “Cristo illustrò una mirabilissi-
ma repubblica senza peccati, che a stento gli Apostoli osservarono interamen-
te, poi dai popoli passò al clero e finalmente ai soli monaci” (Quaest. pol. IV, p.
101). In tal modo la posizione di Cristo al vertice dell’umanità, e dotato di trat-
tamento anche tipograficamente speciale,129 risulterà meno scandalosa: se, al-
l’epoca del processo, la deposizione in punto di morte del capo secolare dei
congiurati Maurizio De Rinaldis (“Fra Tomaso disse che Nostro Signore Gesù
Cristo fu un uomo da bene” [Amabile, Congiura III, p. 254]), può esser sospet-
tabile di estremo tentativo di autoscagionamento (Romeo G.), la testimonian-
za “particolarmente attendibile” (Frajese 1998, p. 318) di Soldaniero,130 e l’ul-
timo verso del sonetto 102, coevo alla congiura, sul venerabile sacrificio di Cri-
sto, “benché non sia del Padre Eterno il figlio”,131 sono una sottotraccia ine-
quivocabile della sua passata eterodossia. Tanto evidente che non sfuggì a un
censore coevo di Civitas (non di Città!): Athanasius Rhetor132 lo “attacca per
aver osato collocare il Salvatore e i profeti sulla stessa base di legislatori empi e
atei” (Lerner, p. 135).

18.8-9: Caesarem… Annibalem,


I primi due spesso cit. insieme: 64.26-7; Poët. IV VIII, p. 991: “canteremo con
maggior vantaggio le imprese di Cesare o di Alessandro…”; nell’Ethica dirà
però che solo a uno sguardo superficiale Cesare e Alessandro sembreranno de-
gli eroi, perché la guerra più difficile è quella che si combatte contro i propri
vizi interiori; ancor più critico in Titoli, p. 292: “provai io nell’Antimachiavellismo
contra Macchiavello e Giuliano (Ernst rinvia ai cap. X, App. e XVIII di Athei-
smus), che dissero che la legge cristiana non fece eroi mirabili, come Cesare e
Alessandro e simili, mostrando che fur bestie a comparazione di Mosè, di Pie-
tro e Paulo adorati da tutto il mondo, quando la memoria di quelli è gittata a

129
Gramm. III II, I, p. 689: “la religiosità ci insegna poi a scrivere il nome ‘DIO’ in tutte maiu-
scole”.
130
Da Dionisio Ponzio, aiutante di C., aveva sentito dire che “sebben Christo morì, non resu-
scitò, ma il corpo suo fu robato e fece come gli altri che davano lege alli popoli che non la-
sciavan trovar li corpi loro” (Amabile, Congiura III, p. 204).
131
Cfr Firpo 1947, p. 235-6; invece Giancotti, p. 482-5, è molto più cauto circa la paternità
campan. di questa poesia.
132
Anticampanella in compendium redactus…, Paris, 1655 [1637I].
264 LA CITTÀ DEL SOLE

terra”. Al di là delle fonti classiche,133 “Giulio Cesare, maestro sommo d’arte


bellica” (Mem. ined., p. 217), era diventato il paladino degli strateghi moderni:
da Machiavelli a Brancaccio, il cui trattato di arte militare non era altro che il
commentario dell’opera di Cesare; e Botero stesso,134 per eccitar “l’uomo a de-
siderio d’onore e di gloria”, consigliava “il discorrere delle virtù proprie di un
principe e dell’imprese de’ gran capitani, la lezione delle vite di alcuni impe-
ratori e personaggi di alto valore” (Ragionamenti, p. 120).

18.10: heroas,
“Dicitur Heros quasi semideus”:135 gli eroi sono qui effigiati per ragioni cultu-
rali (dei primi due e del quarto i Solari commentano le storie [v. n. 64.25-6]),
non cultuali, altrimenti si macchierebbero d’idolatria (112.6). Il culto degli
eroi è unanimemente raccomandato, da Platone (Crat. 398b) e Pitagora (cui
Diogene, VIII, 23 fa dire: “onora gli eroi prima che gli uomini”), fino a More,
224.

18.10a: praecipue Romanos,


CS s’ispira implicitamente a trattati politici greci (platonici), esplicitamente in-
vece richiama spesso modelli e usanze romane: eroismo e attaccamento alla pa-
tria (22.4); nomi propri privati (48.17) e pubblici incarichi (dalle generiche
magistrature [10.30 e 10.37] alle cariche specifiche: il Feziale [66.18] e il ditta-
tore [66.31]); accampamenti (68.27) e trionfi militari (72.22); le terme (94.2).

18.16: exploratores
In Platone è un ruolo semi-istituzionale: “Viaggerà come osservatore quanti an-
ni vuole dei dieci che intercorrono fra i suoi cinquanta e i sessant’anni e, tor-
nato in patria, si presenti al Consiglio dei magistrati ispettori delle leggi” (Leg.
950d). Senza limitazioni d’età in CS, il viaggio a scopo di conoscenza è indizio
di apertura mentale (ripetutamente perorata nel testo: 60.14-5, 84.20-32), per-
ciò bisogna prender esempio dai “signori veneziani, che quando tornano dal-
l’ambasciarie fanno certe relazioni delle cose del paese” (Mon. Sp. XII, p. 112).

18.17-8: mores… nationum


È una topica ‘scaletta’ di argomenti delle relazioni di viaggio, come in Magini,
3r (‘L’utilità della geografia’) e Botero, che nella ‘Dedica’ dice di aver “ricerca-
to i siti de’ paesi e costumi de’ popoli, e le forze delli Re, e (quel che m’haveva
mosso all’impresa) lo stato della Religione Christiana per il mondo”; quasi

133
Livio, Plutarco, Svetonio – una copia delle Vitae Caesarum di quest’ultimo è stata rinvenu-
ta nel convento di Nicastro dalla De Vinci.
134
Botero scrisse per i figli di Carlo Emanuele I di Savoia, di cui era precettore, I Prencipi
(Alessandro, Cesare e Scipione) (Torino, 1600).
135
Ludovico 87, 10; così anche Sansovino: “Heroe vuol dire Huomo grande, Principe e parti-
cipante del divino con l’intelligenza delle cose” (6v).
COMMENTO AL TESTO 265

identica, ma in forma di ‘curriculum’, riappare in Syntagma II II: chi si occupa


di storia sociale, “impari la storia civile delle nazioni, i costumi delle genti, le
mutazioni e le forme del vivere, i diversi governi tanto delle famiglie quanto
delle città e dei regni”.

18.20: in hac
Crahay l’interpreta diversamente: “De celle-ci [= république] ils tirent beau-
coup de satisfaction”; ma annotando dubbiosamente: “forte legendum in hoc
(in questo It.)” (p. 82): cioè i viaggiatori solari, dopo aver visitato le altre nazio-
ni, provano piacere a ritornare in patria, dove stanno meglio (che altrove). Sia
la versione proposta che quella supposta sono, però, poco pertinenti rispetto al
contesto, in contrasto con il passo parallelo di Città (T.18.13) e anche con le
sue probabili fonti: Mandeville vuol fornire notizie sui Bizantini, “perché mol-
te gente prendeno dilecto de odire cosa nova” (XXVIII); e More, 171 (qui ri-
calcato quasi alla lettera). Invece “hac” è corretto (testimoniato anche da Fr.),
e il soggetto sottinteso della frase non è ‘gli esploratori’, bensì le loro relazioni;
quindi: nella Città le relazioni di viaggio sono molto apprezzate.

18.21-3: Vidi… apud nos.


Si veda n. 136.10-1 per l’emblematicità non modernista, ma palingenetica di
questi ritrovati tecnici, perciò frequentemente menzionati: solo in Civitas quat-
tro volte (136.10, 142.21, 152.25); e variamente replicati altrove.136 Circa la pri-
mogenitura cinese, negata da More, la fonte è Maffei: “Non è dubbio che il
fondere artiglierie e lo stampare libri e l’immagini (delle quali nuove invenzio-
ni l’Europa tanto si gloria) è cosa antichissima appresso i Chini” (I, p. 374);
plagiato da Botero, sia in Delle cause della grandezza delle città, p. 388sg, che in
Rel.: “Sono più di mille anni che usano la stampa; dell’artiglieria non l’affer-
mo” (I II, p. 125); anche Magini, II, 191r (che si rifà ad Ortelio) ritiene che la
stampa sia stata inventata in Cina.

18.24-5: quasi ludendo


Non generico afflato ludico, ma risultato di tecniche precise, qui pedagogiche
(arte della memoria visiva applicata al vivente libro del mondo), altrove (56.9-
16) socioeconomiche: dalla razionale divisione e assegnazione di compiti deri-
va anche una riduzione dell’orario di lavoro. Forma e concetto sembrano deri-
vati non solo da Platone (Resp. 536e-537a), ma anche da Maffei: “In questo mo-
do i fanciulletti… apprendevano in poche ore e quasi scherzando molto più
delle cose divine ed altissime che quella e nuova e vecchia Accademia, e quel

136
Ad es. in Metaph. XI III, II: “ed ora sono state inventate l’arte tipografica e le bombarde, le
quali benché prima possedute dai Cinesi, tuttavia fra noi hanno una nuova nascita” (III, p.
11); il sistema suggerito in Mon. Sp. con “quei della Taprobana” per “introdurre il Cristiane-
simo a loro” è quello di donare “scienze e stampe e pitture e altre arti [pacifiche] che essi am-
mirano” (XXIX, p. 316).
266 LA CITTÀ DEL SOLE

celebrato Liceo, e tutte l’antiche scuole de’ filosofanti in tanti secoli con tanti
sforzi e con tante composizioni non potevano mai penetrare” (II, p. 224).

18.26: historico
Vi sono almeno tre accezioni del termine ‘historia’ (e derivati) riferito agli af-
freschi delle mura:
a) ‘percezione’: alle idee platoniche, nonché agli universali aristotelici, che dan-
no solo immagini sfocate e generiche delle cose, C. antepone le percezioni
che ce le restituiscono nella loro concretezza; queste percezioni del reale,
che chiama ‘historiae’, sono il fondamento epistemologico: “principia scien-
tiarum sunt nobis historiae” (Metaph. I VI, II), e sono di due tipi: “historiae di-
vinitus promulgatae” (la teologia), e “historiae humanitus notae” (Metaph. I
V, II, II), o ‘micrologia’, la scienza del mondo creato – piccolo mondo rispetto
all’Infinità –, a sua volta suddivisa in naturale (le scienze fisiche) e morale (le
scienze umane). Dunque con ‘storico’ qui (e più chiaramente ancora a
32.28) allude ad un sapere diretto, percettivo e descrittivo del mondo, non
mediato da astrazioni o categorizzazioni posticce (o ‘libresche’). Questo sa-
pere ‘storico’, proprio per la sua natura descrittiva, è però limitato alla sola
superficie del reale. E del resto tale limitazione è connaturata all’arte stessa
utilizzata, la pittura, a cui i Solari fanno ricorso, come surrogato delle cose
stesse, proprio per evitare o limitare la mediazione libresca; pittura, che “rap-
presenta le cose di fuore, senza interiormente conoscerle” (Poetica III, p.
319), cioè “senza render causa” (Senso, p. 221), come Galilei, il cui Nuncius
“sul nuovo cielo e sulle nuove stelle è opera storica: infatti non spiega perché
intorno a Giove ruotino quattro pianeti e due intorno a Saturno, ma riferisce
quanto è stato constatato” (Hist. II, p. 1245). L’aderenza all’epifania, alla ‘let-
tera’ delle cose spiega anche la scelta del termine ‘historicus’ che appartiene
al lessico dell’ermeneutica biblica: del resto, essendo Mondo e Bibbia due Li-
bri, uno fatto e l’altro scritto dallo stesso Autore, è ovvio che la strumentazio-
ne esegetica debba essere affine; e quindi, come nella Natura “vi è un dupli-
ce senso: uno storico e l’altro mistico: il senso storico è il senso percepibile
con i sensi… il senso mistico è quello per cui, mediante la ragione conve-
nientemente retta da Dio, scrutiamo le verità riposte, giacché sappiamo che
le cose tutte sono simili alle loro cause, e che tutte son simili a Dio” (Theol. I
[I, p. 37]); analogamente anche la Scrittura è pluristratificata: il senso scrit-
turale è “quatruplex: historicus, moralis, allegoricus et anagogicus, et nonni-
si historicus fundet dogma” (Quod rem. 4, p. 124; Theol. I [I, p. 39]); il signifi-
cato ‘storico’ o ‘letterale’137 è il primo e più superficiale grado d’interpreta-
zione della Scrittura, “comune agli storici”, rispetto al senso morale, proprio
dei “poeti, per educare i costumi con l’esempio; il terzo si trova in figurazioni

137
“Unum capitulum Bibliorum moraliter et literaliter exponat” (Quod rem. 4, 2 [p. 1240]); è
l’escatologia della salvezza che costringerà a interpretare il ‘sensus litteralis’ come ‘sensus hi-
storicus’ (cfr Jauss, II, p. 41-4).
COMMENTO AL TESTO 267

di cose passate simili a quelle future ed è proprio dei profeti e delle profezie
espresse per immagini”, culminante nel senso ‘anagogico’ quando ci si eleva
alla speculazione delle cose superiori, cioè “quando si descrivono per mezzo
delle cose presenti quelle che avverranno dopo la morte in un’altra vita”;138 e
sempre in ambito religioso, Senso distingue fra una fede che “viva si può dire
e non istorica solamente” (p. 228), cioè esteriore, fredda, “che può essere
propria anche di un ‘uomo tristo’, e una fede intrinseca, che si nutre dell’a-
more divino e trasforma ‘l’amante nell’amato’” (Ernst 2002, p. 117).
b) Istoriatura: ‘historicus’ sta dunque a precisare quell’“istoricamente”
(T.18.20), che è decisamente equivoco; infatti Bobbio e Firpo l’intendono:
‘mediante figure istoriate’, che invece vale solo per T.48.1 (“figure istoriate”),
a sua volta girato in: “historiis figuratis” (48.1). È dunque la forma figurale
specifica di questa enciclopedia murale, in un’accezione già presente nel ti-
tolo di un libro del Trattato [1584] di Lomazzo: ‘Della virtù e necessità dell’i-
storia, o forma che vogliam dire della pittura’: “Qui il concetto di ‘forma’…
viene equiparato a quello di ‘istoria’”, commenta puntualmente Saxl, p. 431.
c) ‘Datità’ (18.13 e T.18.7): “l’istoria tratta una o diverse azioni del mondo e
narra quello che per tutto si trova, senza unità, ordinandole solo al sapere”,
cioè alla mera informazione (Poetica V, p. 323). ‘Storia’ ha dunque il valore
corrente di sequenza evenemenziale reale, ma in cui, al solito, più che sul
contenuto, l’accento batte sulla forma: ‘storia’ significa, ‘strictu sensu’, cro-
nologia degli avvenimenti di rilevanza civile o naturale: “la storia è un di-
scorso narrativo, pluricomposito, veritiero, schietto, chiaro, adatto a fornire
i fondamenti delle scienze… Sopprimerà dunque lo storico tutto ciò che
non contribuisce alla cognizione delle cose necessarie alla scienza” (Hist.,
pp. 1225 e 1229).139 L’antitesi ‘quia’/‘quid’ (v. 102.38 le “quidditates” meta-
fisiche inscritte nelle colonne del tempio), ovvero storia/filosofia, era fatta
risalire ad Aristotele: dopo la tripartizione del sapere secondo la tassonomia
platonica basata sull’essenza divina (in Dio coesiste: “causa subsistentis, ratio
intelligendi et ordo vivendi”, ovvero la filosofia naturale, razionale e mora-
le), “porro quarta et ultima, videlicet historialis, licet ad Philosophiam di-
recte non pertineat, eo quod singularia [soltanto gli eventi singoli, staccati,

138
Poët., VIII II, p. 1071. Tale quadripartizione risale alla Scolastica, e Nicola De Lyra, nella
postilla alla Lettera ai Galati, la sintetizzò in un celebre distico: “Littera gesta docet, quid cre-
das allegoria / Moralis quid agas, quo tendas anagogia”; cfr Apologia, p. 27 e note di Lerner
2001, p. 230 sulle fonti ivi cit. da C. sui sensi della Scrittura, e p. 260, in cui commenta il sum-
menzionato Theol. I: “Le livre de la nature comporte deux sens: un sens ‘historique’, celui
que nous percevons avec nos sens, et un sens ‘mystique’, par lequel la raison bien conduite
nous amène jusqu’au Créateur de toutes choses. Quant à l’Ecriture, elle comporte quatre
sens, qui sont ceux de la tradition de l’Eglise: historique, moral, allégorique et anagogique”.
139
Sull’ancillarità della storia concordava Persio 1593: la “cognizione del quia, cioè che la co-
sa sia così”, senza conoscerne la causa o senza trarne utilità o senza riuscire a inquadrarla in
un sistema coerente non “basta a coloro che vogliono conoscere le cose per le loro cagioni”
(41v).
268 LA CITTÀ DEL SOLE

privi cioè di un ‘sistema’] rerum gesta tantum enarrat, de quibus, scilicet sin-
gularibus, secundum Arist., ars non est” (SQ I, Prol., XVI). Secondo Louis, in
un titolo come quello aristotelico o pliniano, ‘istorìa’ può significare sia
‘esposizione dei fatti relativi agli animali’, sia lo ‘stato della conoscenza rela-
tiva agli animali’. Per cui qui ‘storico’ indicherebbe anche lo ‘stato dell’arte’
delle singole discipline, che è il gradino preliminare indispensabile per fare
poi scienza o filosofia. Che è proprio quello che C. insegna a Naudé in Syn-
tagma (II II): come base ‘ad recte philosophandum’ occorre anzitutto cono-
scere “ejusdem historiam”, a partire da quella naturale; proprio per aver tra-
scurato la ‘storia’, “le scuole si estenuano in battaglie di parole, perché igno-
rano la storia delle cose sopra la quale si costruisce la scienza, per cui dalle
cose si volgono ai discorsi fini a se stessi”.

18.26-7: ante primum decennium.


L’istruzione perimeniale si svolge così: una volta svezzati dalle madri (a due an-
ni [46.30]), a circa tre anni imparano con i maestri la lingua (26.16); “dopo i
sei anni” (48.3), cioè a sette anni (26.23 e 27), avendo appreso i primi rudi-
menti matematici, passano alle discipline scientifiche più complesse fino ai die-
ci anni (T.26.38), quindi alle arti (48.5), e infine a dodici anni esercitazioni mi-
litari (62.30). T.26.16-28.8 scandisce un cursus studiorum leggermente diverso,
ma cronologicamente più coerente: dai tre ai “sett’anni” (T.48.3) istruzione
elementare intorno alle mura, con visite ai laboratori delle arti; dai sette ai die-
ci si dedicano alle scienze naturali; T.26.38-40 (e solo T.): dopo i dieci anni alle
scienze più astratte e complesse (come matematica e medicina), ma anche ai
lavori manuali (agricoltura, pastorizia).
Un così dettagliato iter lo aveva tracciato Platone in Resp. 535-8, riservandolo ai
soli futuri guardiani-filosofi, e in Leg. 792b (0-3 anni con nutrici comuni), 793e
(3-6 anni: giochi collettivi misti), 794c e 804d (dopo i 6 anni addestramento gin-
nico-militare, anche per le donne), 808e (con i pedagoghi: mestieri e scienze).
Tale impianto pedagogico fu rilanciato da Brucioli, che scandisce le stesse tappe
d’età: dai tre ai cinque anni giocano, facendo esercizi che “siano certe imageni di
quelle cose, nelle quali poi severamente si debbono intramettere… Trapassati
sette anni, bisogna subito cominciare ammaestrarli nella religione e nelle cose
divine… E appresso poi considerare a che discipline naturalmente sieno più atti,
e in quelle fargli esercitare… E così subito ch’al settimo anno venuti fieno, e dal-
le madri e nutrici loro separati, bisogna commettergli a maestri che moderino la
loro lascivia”, in classi dove trovino “buona frequenza di giovani suoi eguali”, per-
ché essi imparano più “per le emulazioni che per le battiture” (V, 19v).

18.31-3: Ac irrident… negligimus.


La fonte primaria è Plutarco, Lyc., 15, 59: Licurgo “scorgeva una grande stoltezza
e una grande vanità nelle leggi matrimoniali degli altri paesi: accoppiano cagne e
cavalle con gli stalloni più vigorosi… e poi sorvegliano sotto chiave le proprie mo-
gli, perché ritengono giusto che generino figli solo da loro, anche se sono pazzi o
anziani o tarati da malattie”. Altre fonti: Platone, Resp. 458e; Diogene, VI, 30;
Giamblico, Vita, p. 212; Ocellus, p. 57-8 (allude anche ai cavalli, oltre ad esser ‘pi-
COMMENTO AL TESTO 269

tagorico’); More, 177 (affine a Diogene). Da Platone a Della Porta l’esortazione a


pratiche eugenetiche, astrologicamente regolate, caratterizzerà anche la lettera-
tura non utopistica, e C. vi insisterà in modo particolare.140

18.38-9: quidquid… venereum,


I magistrati soggetti ad Amore sono elencati a 98.8-11 (v. n. 98.4). L’ultima fra-
se contiene una sequenza assonantica e perciò è sovente replicata: “Aedificabis
in villa domicilium… et quae ad rusticum victum, vestitum et dormitionem
pertinent” (Oecon. II IV, p. 194; Syntagma II II); anche in un oroscopo campan.
scoperto da Fulco: “per causa di femine e di cose pertinenti al vitto e vestito e
simili delitie” (p. 55).

18.39: magistros ac magistras


Appena svezzati, i maschi sono affidati a un maestro, e le femmine a una mae-
stra (46.32), che spesso operano congiuntamente (nell’educazione sessuale
[18.39 e 40.21], nella sorveglianza di refettori [34.34sg] e dormitori [36.5sg e
42.17], nell’educazione militare [62.39]) e nell’istruzione, presumibilmente
solo primaria (46.31-48.2; i “magistri” di 18.23 e i “senes” di 26.18 non alludo-
no quindi al solo sesso maschile); la separazione del precettore in maestri e
maestre – sia quelle sottostanti ad Amore (18.39-41, 40.21) che a Potestà
(62.39), sia la ‘vecchia’ (34.34) che la ‘matrona’ (40.21) –, si verifica quando
occorre un addestramento diverso della fanciulla rispetto al ragazzo.
A favore dell’insegnamento pubblico: “È rimedio che le scuole siano pubbli-
che, e docenti disponibili per tutti vivano con pubblici stipendi, e sia tolta au-
torità a quelli che insegnano per denaro, e vendono dottrine, componimenti e
predicazioni e mercanteggiano le scienze; e, affinché il popolo apprenda le
scienze, nella lingua popolare in scuole pubbliche e le dottrine sante nelle
chiese… venga soppressa l’autorità dei pedagoghi sofistici ed eretici, nonché
dei fannulloni” (Politica XV, 10; v. n. 132.6-13).
Per C. le donne non possono insegnare agli uomini: “l’uomo comanda la don-
na, perché è superiore in quanto più sapiente, essendo la sapienza il fonda-
mento del dominio naturale, come insegna l’Apostolo (perciò alle donne è vie-
tato predicare e insegnare); e in secondo luogo perché è più forte” (Quaest. pol.
IV, p. 108; Oecon. III I, p. 197); e quindi una precettrice compare soltanto in fun-
zione di esigenze esclusivamente femminili (l’apertura delle porte delle celle
dei procreatori tocca a una maestra [42.25]). Sono tutte suggestioni di Platone,
Resp. 460b; More, 72; Doni, p. 939 (finito l’allattamento, il maschietto “si dava a
governo degli uomini; e le femine, ad altre femine che insegnavano”).
Il termine ‘magister’, secondo C., deriva da ‘magus’: “si dà nome di magistro a
tutti artisti, venuto da magus, che vuol dir sapiente, come da sordo surdaster,

140
Ad es. in: Mon. Sp.1, p. 32; Quaest. pol. IV, p. 112; Senso, p. 305: “mi stupisco che siamo tan-
to bestiali che trascuriamo la generazione umana e tenemo tanto conto della razza delle be-
stie”; v. n. 40 (glossa).
270 LA CITTÀ DEL SOLE

perché ognun partecipa della sua sapienza con sua arte, ma si doveria distin-
guere il maestro teologo dal maestro ferrario” (Titoli, p. 300); invece secondo
Astrol. (VII II, 5) è chi fa delle scoperte significative nelle arti manuali a chia-
marsi ‘magus’, perché dietro c’è la mano divina a suggerirgliele: da ‘magus’ de-
riva il riduttivo in –astro, contrattosi infine nel volgarizzato ‘mastro’ (Lettere, p.
123: “Ho scritto a Scioppio che ti [= Pflug] faccia vedere tutti i libri del mastro,
perché ‘mastro’ mi chiami” – v. n. 10.35-6, n. 28.24-30.5).

20.9-11: respublica… aristocratia.


“Omne genus regiminis approbat catholica religio: et regium, ut gallum, et ari-
stocraticum, ut venetum, et populare, ut helveticum et olim romanum. Chri-
stus enim Dei ratio et sapientia est, et quidquid ratione fit a Christo est, Ratio-
ne Aeterna. Monarchicum tamen in Petro, orbis pastore, super omnia elegit,
quoniam Deus unus est, et unitas conservat magis quam pluralitas, philo-
sophorum testimonio et naturae” (Lettere1, p. 133).

20.13: Mogorum
L’impero dei Moghul è uno dei sette regni “che presero origine da Maometto”
(elencati in Theol. XXVI, p. 71: “regem Abdel seu Mogor Magnum”, e
nell’‘Ecloga’, 127); “li Tartari vincitori dell’Oriente” (Mon. Sp.1, p. 33), mal-
grado il nome, “non sono Mongoli, ma una dinastia turca musulmana, origina-
ria di Samarcanda e insediatasi in India verso il 1526-30 grazie al conquistatore
Babur [o Baber = Zahir al-Din Muhammad, il ‘Gran Mogol’], un discendente
di Tamerlano” e di Gengis-Khan (Auboyer, p. 196), conquista ulteriormente
estesa e consolidata da Akbar (Singh, p. 69).
“Da 50 anni in qua un Principe di estremo potere, che gli Orientali chiamano
il gran Mogor, a quel modo che noi diciamo il gran Turco” ha allargato enor-
memente la sua sfera d’influenza “sopra gli stati di qua dal Gange. La più com-
mune opinione si è che i Mogori siano Tartari di nazione… La loro città mae-
stra è Samarcanda, onde uscì il gran Tamberlane, del cui sangue si vanta d’es-
ser il Prencipe dei Mogori”, i quali, chiamati in aiuto da un re indiano spode-
stato, “avendo conosciuto l’abbondanza dell’India e gustato la sua fertilità,
hanno in pochi anni occupato, con un corso di perpetue vittorie, quasi tutto
ciò che giace tra il Monte Caucaso e il mare, e tra il Gange e l’Indo, nel quale
spazio contano 47 regni. Acabar, successore di Mahumudio, prese… la più par-
te della Cambaia, ove sono le famose città di Madabar, Campanel (questa ha
sette cinte di muraglia, e siede sopra un monte, che s’alza in mezo d’un pia-
no)”, recando “la rovina dei paesi per li quali passa e nei quali si ferma” (Bote-
ro, II II, p. 84-7). Questa è la fonte principale, perché il passo cit. è quasi tra-
dotto alla lettera in Quod rem. 4, pp. 110-2 e 172 (si noti l’accenno alla distru-
zione dell’eptamurata Campanel). Altre notizie sui “Tartari Mogori” le cavava
dai geografi141 e dai missionari: il gesuita Matteo Ricci redigerà una relazione

141
L’India orientale abbraccia varie nazionalità, tra cui “li Maumettani, alcuni de’ quali sono
COMMENTO AL TESTO 271

per il suo superiore, padre Maffei, Historiarum Indicarum libri XVI (Firenze,
1588), sulla breve missione di Rodolfo Acquaviva da Akbar (Maffei, II, p. 141;
cfr Lacouture, p. 292; Leed 1996, p. 126).
La Città campan. si differenzia dai paradisi naturali semi- o sempiterni, per il
fatto di avere una storia delimitata e recentissima: mezzo secolo prima di Città
un gruppo di profughi ideologicamente affini (come si assisterà nei secoli suc-
cessivi: dai Mormoni agli Ebrei), sfuggito alle persecuzioni (dei Mogori/Spa-
gnoli? [v. n. 64.16]), ha fondato una comunità ‘chiusa’, cioè un’enclave inci-
stata fra i regni taprobanesi, prima soccorrevoli, poi invidiosi e bellicosi
(64.39). Tagliatisi i ponti alle spalle e azzerato il loro passato, i Solari sono di-
ventati un popolo ‘a-storico’, vivente in un tempo immutabile, che cioè non è
frutto di un’evoluzione e che presumibilmente non muterà mai (sebbene sia
aperto al cambiamento [60.7-15]).

20.15-6: philosophicam… in communitate,


Visto che si trattava di un gruppo di sapienti indiani, era naturale che decides-
sero di “viver alla filosofica”, espressione che può significare due cose:
a) i profughi hanno deciso di costituirsi in una comunità fondata come un or-
dine monastico, con due differenze capitali rispetto al cenobio: 1) praticano
rapporti sessuali; 2) la comunità, pur professando una religione, è fondata su
dei principi razionali, che costituiscono il punto più alto cui possa aspirare
una speculazione priva di Rivelazione (il “cathechismum Gentilium” di 2.29 e
134.19). Dunque questa comunità, che originariamente era una setta di Bra-
mini pitagorici (64.16), continua a condurre una vita comunitaristica, in ba-
se a princìpi filosofici noti in Occidente da secoli: Alessandro Magno chiede
al bramino Didimo (= Dandami) di poter anche lui aderire a “quod audivi-
mus et philosophando hoc facitis” (SH IV LXVII): “l’Oriente nell’immaginario
occidentale è il luogo per eccellenza della sapienza. Lo stesso Thomas More
fa parlare agli abitanti di Utopia il persiano” (Formichetti 1999, p. 143).
b) A prescindere da scuole e sètte più o meno esot(er)iche, la ‘repubblica dei fi-
losofi’ è un’entità solidamente assestata e attestata nel panorama politico oc-
cidentale: dalla Repubblica di Platone a quella di Plotino, il quale – racconta
Porfirio (Vita di Plotino XII) – “voleva far sorgere una città di filosofi”, avva-
lendosi delle leggi della simmetria (Enn. V IX), e ci sarebbe riuscito “se taluni
cortigiani… non vi avessero frapposto ostacolo”; e l’umanistica Sforzinda di
Filarete sarebbe dovuta essere “l’erede presuntiva di questa Platonopoli” (As-
sunto, p. 84-5). Anche nella quartina in versi utopiani premessa da Gilles a
More, si legge: “ho proposto ai mortali una città filosofica” (p. 64). Firpo
1957, citando Amerio,142 rilevava come la convivenza solare, modello di so-

Persiani, altri Scitti, hoggi detti Mogores” (Magini, II, 184v, 188); nella Cosmographia di Testu,
coeva di Akbar, il regno del Bengala, 10° a Nord del Tropico del Cancro, è occupato dai “Tar-
tari Mogori”.
142
L’ultima forma del mito solare. Sulla teologia politica di fra T.C., in: ‘Jahrbuch der Schweizeri-
schen Philosophischen Gesellschaft’ (1944).
272 LA CITTÀ DEL SOLE

cietà perfetta, lungi dal rappresentare uno strascico dell’eterodossia giovani-


le, riprendesse una tesi tomistica. La ‘filosoficità’ di questi stati ideali consiste
nel non considerare l’uomo per quel che è, ma per quel che dovrebbe esse-
re; è questa una sentenza ciceroniana (Epist. ad Atticum II, 1), che, via Naudé
(Consid. pol.), si ritroverà ancora nella Scienza nuova vichiana: “La filosofia
considera l’uomo quale dev’essere, e sì non può fruttare ch’a pochissimi, che
vogliono vivere nella republica di Platone, non rovesciarsi nella feccia di Ro-
molo” (II VI): il Diritto che si fonda sul reale (per tutti) spodesta la Filosofia
che punta sull’ideale (per pochi). Ciò spiegherebbe perché il regime della
comunione delle donne non sia esteso alle altre città, in quanto quelle “non
hanno filosofato” (T.60.8-9): la repubblica di Platone è elitaria.
Ma qual è la filosofia predicata e praticata dai Solari? È contenuta in una rispo-
sta del Genovese, che sembra assolutamente non pertinente: all’Ospitaliero
che gli chiede ragguagli sull’alimentazione dei Solari e quindi sulla loro longe-
vità, egli risponde: “Ipsi docent prius consulendum esse vitae totius, deinde
partium” (v. n. 86.1-2); invece la società reale è composta da individualisti:
“ognuno pensa al bene proprio e poi a quello comune; ma amando se stesso,
ama le altre cose, in quanto buone a lui stesso. Poiché se a sé e agli altri sono
buone, saranno ancor più da amarsi, se avrà preso in considerazione ‘rite’ tut-
te le cose. Così gli uomini buoni amano la patria più che se stessi, e di più il ge-
nere umano della patria. Totum enim melius et maius suis partibus est. Gli uo-
mini di scarsa virtù, quasi stentassero a coprire i propri bisogni, più badano a se
stessi che alla totalità; pertanto si procurano il bene ma a scapito dell’altro e di
tutti” (Quaest. oec. III I, p. 181). Come opportunamente scrive Ernst 1997c: “In
posizione antitetica ai politici [= “macchiavellisti” avvinghiati all’“amor pro-
prio”, cioè l’egocentrismo], i filosofi credono che vi sia una sola legge vera e
certa, che è quella di natura ed è comune a tutti; incerti riguardo ai dogmi so-
prannaturali, vivono in modo virtuoso e conforme a natura: senza fare del ma-
le ad alcuno, ‘servino alla prima causa con l’affetto buono e opere oneste e be-
nefiche al genere umano’, non desiderano onori e ricchezze, ma ‘vivono con-
tenti del poco, e godeno de la contemplazione, e si stimano più che re e papa
e monarca’”. Le fondamenta ideologiche collettiviste della comunità solare
non poggiano su un’analisi economica (divario ricchezza/povertà), né sociale
(squilibrio diritti/doveri), ma prevalentemente etica; la Città è formata dai
‘migliori’, quelli altruisti, che hanno una visione corretta del vero bene (“opti-
mi autem viri qui totum parti anteponunt”). Questi ‘ottimati’, questi virtuosi
non sono né i più forti né i più capaci, né tantomeno i ricchi o i blasonati, ma
sono i sapienti (secondo la platonica equazione sapienza=bontà): “Oportet er-
go, quoniam omnes sumus mali ex amore proprio nimioque, viros bonos ita vi-
vere, ut alii ex pudore et honore et amore boni communis exacto, quem in eis
inspiciunt, sic vivant, ut aliis sint commodi, totumque corpus Reipublicae ita
coalescat, ut omnia membra sint proficua consonentque omnibus membris”
(Quaest. oec., p. 181). ‘Condurre una vita filosofica’, secondo i sapienti solari, al-
lora vorrà dire semplicemente ‘vivere una vita retta’, razionale e perciò ‘natu-
ralmente’ buona, perché si conosce il vero (e non: il proprio) bene, secondo i
precetti di 132.33-5.
COMMENTO AL TESTO 273

20.17: mulierum communitas


Svariati progetti di società perfette contemplano la messa in comune delle
donne: Platone, Resp., 449a-466d (“quae Hebraeorum doctrina non probat”
[Eusebio, 708B-709B]); Diodoro, II, p. 58 e II XIII (I, p. 120-4), esaltandone i
vantaggi in termini di pace sociale; Diogene, VI, 72 (Diogene Cinico) e VII,
131 (Stoici); Doni, Mondi, p. 165. Ma anche le relazioni dei viaggiatori riferiva-
no pratiche matrimoniali eterodosse: ad es. nelle Relationi di Botero sui Nairi,
popolazione indiana dove vige ‘da molti secoli’ “la comunità delle donne” (p.
238). C. si chiedeva se certe comunità conventuali pagane, dove non si pratica-
va l’astinenza, come i Marabuti “in Regno Fezae et Marochi”, o altre sparse “in
regionibus mundi diversis, videlicet Bracmani in India, suntne familia, an
non?” (Oecon. I I, p. 190).

20.18: provinciae
Se s’intende ‘provincia’ (v. n. 12.27) come unità politico-geografica, allora può
alludere o alla regione indiana di provenienza, oppure ai quattro regni dell’i-
sola (64.39; Taprobana è una ‘provincia’ per Tolomeo [Geogr. VIII, 63]). Ma è
più probabile che ‘provincia’ qui debba esser inteso ‘etimologicamente’, cioè
come territorio assoggettato (v. ad es. Disc. Princ., p. 116: “Li Medi signoreggiâ-
ro centoventisette provincie nel medesimo sito del mondo”), sia per la rimar-
catura di ‘ipsi’, sia perché a 60.8-13 ritorna la motivazione ‘filosofica’ che ha
portato ad escludere le province dal regime di comunanza sessuale (v. n. 32
[glossa] § 2). Le altre province solari, dunque, sono “città suddite”, oltre che
intellettualmente (mandano i loro figli a studiare a Città del Sole: 74.23-5) e re-
ligiosamente (i loro prìncipi devono confessarsi ad Hoh: 106.9-11) – cose que-
ste che potrebbero anche rientrare nelle normali relazioni capitale/provin-
ce143 –, principalmente perché sono dotate di un regime sociale (sessuale) di-
verso, per l’‘imperfezione’ dei loro abitanti (60.11): lo spirito della legge natu-
rale s’incarna solo nella Città, è solo lei l’essenza dello stato; tutto il resto sono
appendici ‘coloniche’ secondarie, non saldate in una rete di rapporti organici
e omogenei, presupposto di quella moderna statalizzazione del territorio che
invece andava prendendo piede in Europa. Infatti “chi comanda su regioni di
diversi climi, deve dar loro leggi diverse, o anche le stesse, operati cambiamen-
ti di cittadini mediante mutue colonie e trasferimenti… Le colonie vanno for-
mate dai cittadini propri della metropoli dell’impero o dai vicini, come dai Ro-
mani e dai Latini. Quelle città siano metropolitane della stessa regione, ovvero
altre di nuovo edificate, quando gli indigeni delle nuove colonie non concor-
dano per costumi o per comodità. Così vengono costituite sotto nuovi auspici,
leggi e religioni” (Politica VII, 1-2).

143
Anche il “Mondo Nuovo” di Doni era organizzato in “province”, come “la Lombardia, la
Toscana, la Romagna, il Friuli, le Marche”, ognuna con un proprio capoluogo identico alla
capitale.
274 LA CITTÀ DEL SOLE

20.19-20: omnia… communia


Fonti potenziali: Platone, Resp. 416d, 458c, 462a-c (“quello stato in cui la mag-
gioranza usa con l’identico scopo e alla stessa maniera ‘il mio’ e ‘il non mio’,
non è uno stato ottimamente amministrato?”); Leg. 739c; Diodoro, V X (I, p.
274-7): a Panara, nell’isola di Pancaia, “i contadini attendono a governar la ter-
ra, e i frutti che se ne cavano si mettono tutti in commune”; At. 4, 32 (“Quia
erant illis omnia communia”); Virgilio, Georg. I, 125-8; Diogene, VIII, 10 (cit. da
C. in Theol. IV [II, p. 105]); Porfirio, Vita, 20; Gellio, I, 9; Giamblico, Vita, 30 (p.
2: “Duo millia et eo amplius virorum conveniunt cum liberis et uxoribus, com-
munem locum condunt. Hinc magna Graecia, omnia habebat communia”;
[Theodoreto], VI, pp. 43, 72, 81, 92, 167-8); Giamblico, Protrept. [Theodoreto,
XX, p. 124] loda come stato ideale quello in cui “pecuniae… fiunt commu-
nes”; Crisostomo, Comment. Epist. ad Timotheum IV, Hom. XII ‘Communio re-
rum’: “in his quae communia sunt, nullae resonant lites”; Damasceno, Parall.
II, 85I, Basilio e Ambrogio nei loro Esameroni (172B-D e V XV, XXI), rifacendosi
a Virgilio (Georg. IV, 153sg: le api “da sole hanno i figli in comune, case con-
giunte a formare una città… e mettono in comune il frutto della loro ricerca”),
esortano a prender esempio dalle società animali, come quella delle gru e spe-
cialmente delle api, “che, uniche fra le specie dei viventi, hanno una prole co-
mune a tutte, e tutte abitano in un’unica dimora, vivono chiuse dentro i confi-
ni di un’unica patria. Comune a tutte è il lavoro, comune il cibo, comune l’at-
tività, comune l’uso e il provento… – che dire di più? – comune a tutte la pro-
creazione” (Ambrogio, V XXI, 67);144 Agostino, Regula, 1 (in: PL XXXII, 1378-
9), ma essenzialmente Serm. 355 e 356, cui implicitamente rinvia 22.15; Ve-
spucci (Mundus novus, Firenze, 1503, 2v) a proposito degli indigeni americani:
“nec habent bona propria, sed omnia communia sunt”; Anghiera, I III, p. 45:
per gl’indigeni cubani “la terra era di tutti… non conoscono la differenza tra il
mio e il tuo, fonte di tutti i mali… È davvero un’età dell’oro; né di fossi, siepi o
muri circondano i loro campi, ma vivono in giardini aperti a tutti”; Spinasatus
fa un excursus delle società, tra cui quella bramina, in cui ‘tutto è messo in co-
mune’: “Quoniam scriptum sit Domini esse terram et plenitudinem eius, quod-
que primores illi ecclesiae duces omnia in commune contulerint, itaque con-
cordissime vixerint, ideo quod divinitus commune datum sit, sibi privatim
usurpare, sacrilegium: omnia enim esse communia. Quo loco Monetariani to-
to, quod aiunt, caelo videntur errasse: per hanc enim confusionem religionum
sacrorumque neglectio contrahitur, hospitalitas dissolvitur, et in aegrotos et te-
nues eleemosyna restinguitur,145 etsi Gymnosophistae, Brachmanes et Essei in
simili bonorum confusione permixtioneque vixisse quondam referantur…
Quemadmodum et in Oceano meridiem versus insulam describit Diodorus Si-

144
È cit. in Quaest. pol. IV II; cfr anche Mon. Sp., p. 36 e Poët. VIII VI, dove suggerisce al “poeta
di trattare dell’organizzazione politica e militare degli uomini, parlando di quella delle api o
delle gru” (p. 1085).
145
Queste sono le accuse mosse da Aristotele a Platone: v. n. 20.37-9 e n. 21.3 (f.p.).
COMMENTO AL TESTO 275

culus, omnium rerum vel uxorum communitate usam”; così anche i Garaman-
ti, abitanti dell’estremo sud dell’Africa, i Massageti e gli antichi Britanni (I XII,
p. 30). Il neoplatonismo contagia buona parte delle utopie moderne: More,
54, 57 e 105 (a distribuire i beni comuni è il capofamiglia, anziché un magi-
strato); Doni, Mondi, p. 166: “Tutto era in comune”; Roseo, Instituzione, p. 44 (v.
56.21-33 e note collegate, e n. 32 [glossa]).

20.21-3: Scientias… queat.


Replicato a 24.7-10 e 54.8, e ribadito nel Cinquecento dal gesuita Acosta, che
elogiava “quella eccelsa perfezione che consiste nel non aver cose proprie, e
nel fornire tutti del necessario” (cit. da Maravall, p. 638); questo concetto era
mutuabile, sempre per società collettiviste, da Diodoro, V X (I, p. 274-7). Ma al-
l’epoca della stesura di Città, ancor vivo in C. doveva essere il ricordo della
riforma degli ordini religiosi che, quando era in Santa Sabina (1595-6), dice di
aver vanamente proposto a Clemente VIII: “fare che nissuno [dei frati] avesse
chiave e serratura nelle casse e nella camera, se non comune del dormitorio,
che così cessava la proprietà” (Mon. Sp., App., p. 364).

20.24-6: Aiunt… proprias.


Questa frase era già in Mon. Sp., p. 160; un’ampia trattazione del tema in Quae-
st. pol. IV II. Budé nella lettera a Lupset (premessa a More, p. 82) si basa sull’a-
dagio erasmiano ‘Il ricco o è un disonesto o ne è l’erede’, per condannare l’ac-
cumulazione progressiva di ricchezze “per la propria famiglia: e questo vale per
lui e per i suoi eredi, e sempre più si accentua” (v. n. 32 [glossa] § 1, n. 54.36-
56.9 e n. 56.21-7, per i guasti di ricchezza e povertà).

20.27: proprius amor:


“Noi amiamo le cose fuori di noi, perché esse ci conservano: o in noi, come per
esempio il cibo e il vestito, o nei figli che sono un altro noi, come la venere e la
moglie, o nella fama e nell’onore, che sono duratura conservazione di noi nel-
la memoria ed affetto degli uomini” (Theol. I [II, p. 69]). Agostino sul diverso
oggetto dell’‘amor’, stabilisce lo spartiacque fra le due ‘Città’, in un celebre
passo, che potrebbe fungere da epigrafe anche di CS (perché ha certamente
ispirato il sonetto 10 ‘Parallelo del proprio e comune amore’): “Costituirono
dunque queste due città due amori: la terrena, l’amore di sé fino al disprezzo
di Dio, la celeste l’amore di Dio fino al disprezzo di se stessi” (CD 14, 28, 628).
In Quaest. pol. IV, p. 109 indica le sue fonti cristiane: in CS sono stati eliminati
“tutti i mali originati dall’eccessivo amore e dal possesso di figli e mogli, pos-
sesso che amputa le forze della carità, come dice S. Agostino, e l’amor proprio,
dice S. Caterina nel Dialogo, è la causa di tutti i mali”;146 invece in Schoppe, p. 23

146
Trad. di Ernst, che rinvia per Caterina al Libro della divina dottrina volgarmente detto Dia-
logo della divina provvidenza, Bari, 1928, p. 348sg; per Agostino v. n. 23.3 (f.p.); in Quaest. pol.
IV III, ‘ad primum’, ribadisce il nesso: comunione dei beni = cessazione dell’amor proprio.
276 LA CITTÀ DEL SOLE

ricorda il motto dello “stoico Catone: ‘Non sibi, sed toti natum se credere mun-
do’”.147 Un contesto analogo, poi, lo trovava anche in Doni: “Noi siamo tanto
appiccati all’amore de’ figliuoli, all’affetto dell’acquisto della roba, al desiderio
del vendicar le ingiurie… che noi stiamo occupati tutte l’ore in sì vili operazio-
ni” (Mondi, p. 67, e a p. 247 fa suo il celebre motto agostiniano: “Duas civitates
duo faciunt amores…”).

20.37-9: Ergo… Platonem.


“Di quel che appartiene a molti non si preoccupa proprio nessuno… perché
suppongono che ci pensi un altro” (Aristotele, Pol. 1261b 30-5). Su quest’obie-
zione C. tornerà, oltre che nelle Quaest. pol. III e IV II, anche in Atheismus X XIV,
p. 118, dove cerca di smontare punto per punto le “rationes Aristot. contra
Rempubl. Apostolicam”, assimilando così la Repubblica platonica alle comu-
nità protocristiane. Le obiezioni aristoteliche (“nemo laborare volet”; e, impli-
citamente, poco sotto [24.2]: “amicitia nil valet”) a Platone148 sono condivise
non solo da Tommaso,149 Egidio Romano (De reg. princ. II, 3, 5-7 e III, 1, 9-11) e
Spinasatus (v. n. 20.19-20), ma da molti riformatori coevi a C.: dall’Albergati150
a Brucioli (“più tosto cose mirabili a dirsi che possibili a farle venire a lieto ef-
fetto”, perché “in quella cosa ch’è commune a molti si ha poca diligenza” [VI,
27r]); all’autore dell’utopistica Evandria, Zùccolo (Il Guardino [1625]): “Se le
facoltà [= i beni] fossero communi nelle Repubbliche, come il volgo vorria, chi
ne averebbe cura? Chi sarebbe colui che volesse affaticarsi? Qual legame ter-
rebbe uniti gli uomini nelle città, dove l’uno non avesse dell’altro bisogno?”.
Invece, prima Erasmo negli Adagia (3001),151 poi More, 60, Doni, Mondi, p. 166
e ancora lo Sgualdi, in Decemvirato di Lesbo (1634), propugnano l’uguaglianza
di beni quale miglior garanzia di libertà, in quanto la sproporzione causa inva-
riabilmente il prevalere tirannico di un individuo; e Sgualdi ripeterà l’esclama-
zione socratica: “beatissima quella Patria, in cui non avesser luogo queste due
parole meum e tuum”.152

147
Per il resto della citaz. v. n. 86.1-2; e, sempre per la dialettica parte/tutto, v. n. 20.15-6, n.
32 (glossa) § 1.
148
Ma uno degli ‘aurei precetti’ pitagorici suona proprio: “amicorum omnia esse communia
et amicum seipsum esse alterum” (SH III XXV), indirettamente ripreso anche qui (v. n. 24.2-
3, n. 25.1 [f.p.] e n. 59.1 [f.p.]).
149
Comm. in Arist. Pol. II, 1-7; del diritto naturale al possesso comune discute ST I-II, 94.
150
C. lo conobbe a Roma nel settembre del 1592; la sua proposta utopistica o riformatrice
(Republica regia III IX-X) “rifiuta in modo esplicito, sulla base più dell’utile economico e poli-
tico che della morale cristiana, l’ipotesi comunitaria di Platone, facendo proprie le critiche
mossegli da Aristotele” (Zucchini, p. 300).
151
Ivi specificava che Aristotele, e non Cristo, aveva insegnato che “nessuno stato comunista
è in grado di prosperare” (Firpo 1979, p. 83).
152
V. n. 24.15-8, n. 32 (glossa) § 1; in Quaest. pol. IV, p. 129 Ernst cita le fonti cristiane di que-
sto passo.
COMMENTO AL TESTO 277

22.1: Ego… novi.


Anzitutto perché è un marinaio, non un filosofo; ma essenzialmente perché in-
tende dire che alle argomentazioni astratte (‘tutti gli uomini sono egoisti’), lui
oppone le esperienze concrete di segno opposto (antichi Romani e comunità
monastiche).

22.8: clericos
I ‘chierici’ “predicano il cielo e si afferrano alla terra, come il zingaro: ‘Guarda,
compare, suso!’, e tu guardi, e ti piglia li danari dalla borsa. O come Diogene
[Cinico], che avendo fame sputava dentro la minestra, perché gl’altri la la-
sciassero, ed esso poi solo si la trangugiava. Così paion li clerici, che predicano
contro li dinari, contro la libidine, contro le ricchezze, contro gl’onori, ed essi
si li pigliano, e a tempo di tribulazione fuggono li guai e li lasciano alle pecore
loro; e pur si fan tener per santi. Onde è nato proverbio che ‘li santi moderni
fan dubitar di vecchi’” (Ateismo II, 3 [in Ernst 1997c, p. 626]). La corruzione
del clero C. l’aveva vanamente denunciata già a Clemente VIII (v. n. 20.21-3 e
n. 56.31), poi a Paolo V, con precise istruzioni onde evitare accaparramenti in-
dividuali;153 ma la testimonianza più potente e dettagliata è la lunga lettera di
C. a Urbano VIII del 9 aprile 1635 (Lettere, p. 282-95), infra citata (v. n. 144.27-
146.2).

24.2-3: amicitia… conferant.


In Mon. Messiae XVI, C. riporta un ampio stralcio del De Benef. VII IV in cui Se-
neca neutralizza il sofisma che non è possibile donare nulla al sapiente, se è ve-
ro che egli possiede tutto: “La stessa questione si pone per gli amici: dite che
tra di essi tutto è comune; dunque nessuno potrebbe fare il minimo dono al-
l’amico, perché ciò che dona fa parte del bene comune” (p. 76).154 Questa teo-
ria dell’amicizia come fondamento e collante sociale (unione contro le avver-
sità), d’origine platonica (Polit. 311c: v. n. 48.11-3 dov’è citato il passo), è rilan-
ciata da Aristotele: “lo stato è comunanza di famiglie e di stirpi nel viver bene:
il suo oggetto è un’esistenza pienamente realizzata e indipendente… Per que-
sto sorsero nella città rapporti di parentela e fratrie e sacrifici e passatempi del-
la vita comune. Questo è opera dell’amicizia, perché l’amicizia è scelta delibe-
rata di vita comune” (Pol. 1280b; cfr anche Et. Nic. 1168b). Da qui si capisce la
valenza, e quindi l’importanza dell’obiezione, per nulla ‘psicologica’, dell’O-
spitaliero (obiezione accolta anche dalla riflessione moderna: ad es. Roseo, In-

153
Lettere, p. 44-5; idem Disc. univ. VIII (p. 1132), XXII (p. 1159), XXIV (p. 1162); Quod rem.
4, 1.
154
Proprio a quest’intorno testuale allude la glossa di 60.18 (v. n. 60.18-23). C. conosce anche
altre testimonianze classiche sull’incompatibilità comunitarismo/amicizia, come quella di
Epicuro che contesta la sentenza di Pitagora ‘Comuni sono i beni degli amici’ (Diogene, X,
11), perché “una tale comunanza implica sfiducia, e senza fiducia non vi può essere amicizia”
(Theol. IV [II, p. 105]).
278 LA CITTÀ DEL SOLE

stituzione, pp. 48 e 54; e Brucioli, VI, 28v). Tale obiezione può sottintenderne in
realtà due, come chiarisce Quaest. pol. IV: a) se tutto (mezzi di produzione e
prodotti) fosse in comune, “ognuno pretenderebbe di ricevere la parte miglio-
re e più grande di frutti in cambio della più piccola parte di fatica. Di qui liti e
inganni in luogo dell’amicizia”; b) la seconda è una minaccia ben più grave al
sistema di valori (il collante sociale): “Una volta stabilita la comunità [dei beni]
sparisce la liberalità, l’ospitalità e la carità verso i poveri: chi infatti non possie-
de nulla di suo, non può fare queste cose né mostrar gratitudine” (p. 104, cit.
‘in extenso’ a n. 21.3 [f.p.]). E ciò era quanto appunto Aristotele (Pol. II, 3-4)
contestava alla Repubblica platonica: “dove donne e figli sono comuni ci sarà
meno amicizia”, quindi meno concordia e unità nello stato, perché “l’amicizia
si diluirà necessariamente proprio per l’effetto di una comunanza di tal sor-
ta… Due sono infatti le cose che portano gli uomini a preoccuparsi e ad ama-
re: ciò che è proprio e ciò che è caro: ora né l’uno né l’altro possono trovarsi
nei cittadini d’uno stato così governato”. Il sistema comunistico platonico ren-
de impossibile la liberalità (essendo tutto di tutti) e la continenza (essendo tut-
te di tutti), minando la base morale della società (1263b 15). C. risponde all’o-
biezione, additando il modello di vita conventuale ben regolata, dove non esi-
stono incuria e negligenza. La contestazione di Aristotele non si limita però so-
lo a questo livello ‘etico’; vi è un altro, e ben più grave, aspetto ‘eugenetico’,
che in parte e implicitamente è evocato dalla risposta del Genovese (per il ri-
schio d’incesto v. n. 32 [glossa] § 2, punto 3).

24.15-8: Omnes… filii.


A suggerirlo sono Platone, Resp. 414e, 463c-e; Tim. 18d;155 Diodoro, II XIII (I, p.
122 [v. n. 90.9-13]); Giamblico, Vita, 188; e principalmente Tertulliano, Apolog.
XXXIX, 8-10; More, 187. Nel terzo sonetto profetale predica che quando “di
‘mio’ e ‘tuo’ sia ‘l mondo privo /… cangiarsi in Paradiso il veggo e scrivo /… e
‘n fratellanza l’imperio funesto” (rinviando in Esp. all’“idea nella Città”: 52, 9);
e di rincalzo Mon. Messiae I, 7 precisa che la ‘fratellanza’ (rigo 20: “confraterni-
tate”) non è simile alla generica appellazione monastica, ma implica un regime
comunitario basato sull’amore e non sul potere: “inter eos qui mutuo conglu-
tinantur amore, dominium parum, sed fraternitas et maioritas fraterna inveni-
tur” (v. 50.22-3 e n. 32 [glossa] § 2).

24 (glossa): De accusationibus
1.
Partiamo dalle formulazioni più tarde, quindi più prossime a Civitas, perché
contengono i fondamenti dell’etica campan.: Comment.: “Vis è la prima espres-
sione del potestativo che serve a maneggiare, acquistare o respingere gli ogget-
ti esterni. Da vis deriva virtù, cioè il principio dell’azione perfetta… Si ritrova

155
Al quale Oecon. si richiama: “Patet etiam sic institui civitas in communitate, ut sit quasi fa-
milia una, quemadmodum Socrates docet, et S. Clemens, et nostra Civitas solis” (I I, p. 189).
COMMENTO AL TESTO 279

una virtù naturale nei bruti e nelle piante, una virtù razionale negli uomini e
una virtù infusa nel cristiano… Non è data virtù morale che non sia anche una
massima [= decretum] della sapienza e non derivi da un’inclinazione della vo-
lontà e da un ordine della potenza… La virtù quindi è regola delle passioni,
delle conoscenze e degli affetti, che ci spinge a cercare il bene e a fuggire il ma-
le, in base a un responso della capacità conoscitiva, ad una propensione della
volontà, ad un ordine della potenza” (p. 761); Physiol. I, 4: “Puritas Primalita-
tum in mente, in spiritu et corpore, quae facit bonum, idest servat esse homi-
nis, dici videtur virtus”, cioè “virtù è sapienza, potenza et volontà buona” (Epi-
logo, p. 518g); Quaest. Eth. III: “Virtutem sua prima significatione vim esse natu-
ralem cuiuscunque rei, ad sui esse tuitionem, invenimus, ut virtus lapidis est
durities, qua se a malis corrumpentibus defendit… Quapropter fortitudo est
virtus prima: et proprie secundum vocabulum… Deinde virtus dicta est non il-
la, quae servat subiectum suum, sed quae ad alterius utilitatem proficit… dein-
de dicta est virtus, quaecunque facultas hominis, unde actus bonos, nobis et
aliis elicimus” (p. 33), di cui appunto si occupa l’etica. Ma in effetti il volere
(cioè amore) non è in sè vero bene, “ma mezzo ad acquistar la vita”; e neppure
il sapere, “perché ogni scienza s’impara per acquistare la conservatione… Né il
primo bene è l’operatione [= potere: “È l’operare effetto della potenza sponta-
neamente agente” (p. 516b)], perché questa è mezzo per acquistare il bene”.
Dunque tutte e tre le primalità convergono in un unico fuoco e fine: l’essere
(ovvero Dio in essenza, come posto in 126.2), “perché la conservatione è fine
della sapienza, della voluptà… et dell’operatione, et ogni ente la desidera per
esser sempre et immortalarsi in vita eterna… Ne seguita ch’essa sia il sommo
bene di tutti gli enti amabilissimo, et che Dio, che donò l’essere et la conserva-
tione, sia il bene vero amabilissimo sopra noi medesimi” (p. 514-5). Insomma
la virtù non è altro che “partecipazione o perfezione della potenza, della sa-
pienza e dell’amore, la quale regola le affezioni e operazioni dell’uomo in vista
del bene, che è la conservazione dell’ente” (Theol. I [II, p. 111]).
La legge naturale fondamentale, l’autoconservazione, impone a ogni indivi-
duo di ‘fuggire il male e cercare il bene’, cui, volendo, può e specialmente sa
provvedere: poiché infatti tutte le cose sono impastate di bene e di male, la co-
noscenza di quel che è il vero bene è il presupposto anzitutto per volere e po-
ter far bene, e poi è la base (metafisica) del sistema di vizi e Virtù specifiche, in
cui si diffrange e attraverso cui si mira ad esso. Dunque “la conservazione in ge-
nerale è funzione delle primalità, ma siccome sono nel mondo cose diverse e
operazioni diverse… la virtù si plurifica… e ciascuna di esse deriva in maniera
prevalente da questa o quella primalità” (ad es. la fortezza dalla potenza, la giu-
stizia dalla sapienza, la misericordia dall’amore: Theol. I [II, p. 135]). L’altro
versante su cui poggia il sistema etico è quello fisiologico, deterministico e in-
natista.
Perciò, in sintesi, le virtù sono una mescolanza di qualità naturali innate, “di
scienza et arbitrio”: “che le virtù sian naturali quinci si vede, che il troppo cal-
do è iracondo, il freddo molle, il mediocre mansueto… Dunque non l’uso fa le
virtù et i vitij, ma son casi naturali – come la gravezza alla pietra, che non ha
modo di esser leggiera”. Il libero arbitrio, per C., è salvo grazie alla possibilità
280 LA CITTÀ DEL SOLE

“di volere e disvolere. Quinci è che gli impudichi per natura et gli avari per na-
tura ponno operare pudicamente e liberalmente, perché seguitano il decreto
della sapienza propria che dà legge alle virtù, o la sapienza della legge divina
predicata da Religiosi”. Il guardiano degli spiriti è la mente, retta dal bene na-
turale, ovvero l’anima, “commandata dalla Religione soprannaturale” (Epilogo,
p. 516-7bc). Nel mondo, scaturito dalla lotta di principi fisici contrari, non so-
lo il bene è spesso inseparabile dal male, ma è sempre relativo, in base al ben
noto principio del ‘mors tua, vita mea’ (124.11-20), per cui Dio affidò alla men-
te il compito di ‘corrigere’ lo spirito con il sussidio “delle virtuti animali obbe-
dienti” a lei, persuadendole che lei agisce in vista di un bene universale e po-
tenzialmente assoluto: “virtù è quel decreto dell’anima, che giudica doversi sa-
pere et imparare quanto si può per conservatione dell’essere presente et futu-
ro” (p. 510). E qui s’innesta il ‘potenziale’ divino che trasforma, si potrebbe di-
re con lieve forzatura,156 la mente in anima: tu anima, “immagine” di Dio, “por-
ti le potenze da ricevere la gratia, che ti fa operare non solo bene ma con me-
rito eterno” (p. 506); perciò la “mente” guida il retto agire ‘naturalmente’;
l’“anima”, ovvero una mente le cui potenze sono state attualizzate dalla Rivela-
zione, agisce bene ‘soprannaturalmente’.
Tale concezione innatista delle virtù comporta almeno due conseguenze prati-
che, adombrate in Civitas: a) le pene per i viziosi ‘sono vere medicine’ (v. n.
104.14-5), cioè castigare è, alla lettera, curare: ad es., la Sapienza riflette ed esige
“lo spirito puro”, cioè “sottile”, “atto a specolare”, invece “l’impuro” rende “sme-
morato et stolido”; perciò chi ha uno spirito naturalmente versato (cioè un flus-
so di calore privo di vapori o altre fuligginose impurità), non fa fatica ad esser sa-
piente; altrimenti occorrono “molti essercitij” che “purificano lo spirito et lo ren-
dono mobile” (p. 517);157 b) ognuno nasce con una particolare inclinazione de-
terminatasi al concepimento, sia per gli influssi astrologici (42.26) e sia per ra-
gioni che oggi diremmo genetiche;158 tale inclinazione condiziona non solo la vi-
ta attiva,159 ma anche la sfera propriamente etica (ad es. l’avarizia è “segnale di
spirito vile, sconfidente, piccolo, fuliginoso” [p. 520]); ed è appunto questa incli-
nazione che i magistrati solari cercano di riconoscere nei fanciulli (24.31).160

156
Per C., infatti, ‘mens’ e ‘anima’ sono quasi sinonimi: v. n. 64.13, n. 142.36-144.3.
157
Non saprei dire, però, se la privazione della mensa o di altri ‘onori’ sia da considerare una
‘medicina’ o una dissimmetria fra le pene comminate a 26.1-3 e quelle inflitte a 104.14-7.
158
“Inclinationem et constellationem” di 74.30 è quasi una dittologia, come chiarisce Mon.
Sp.1: “a far l’uomo virtuoso ci vuol anco l’inclinazion naturale, che dalla complessione de ge-
nitori, dalla salubrità dell’aere e dall’influenze dei pianeti deriva”(p. 32).
159
L’immaginazione “quando è in spirito sottile fa habilità nelle mathematiche et metafisi-
che scienze et nelle morali, che trattano le cose non esposte al senso… Et quando è in spiri-
to più corpolento et copioso fa attitudine alle mechaniche arti di orologij, di fabriche, di
stampe etc.” (p. 484-5).
160
Nella Città, comunque, proprio per la rigida politica eugenetica, vitale per lo stato (46.5-
10 e 50.15-20), queste diversità fisiche, caratteriali e attitudinali tendono ad azzerarsi, risol-
vendo così qualsiasi problema, compreso quello del sorteggio delle generatrici (50.26).
COMMENTO AL TESTO 281

I Solari godono di una condizione di uguaglianza, per le caratteristiche euge-


netiche ideali della loro razza; ma fuor della Città, cioè nella realtà, gli uomini
sono profondamente diversi per natura. C. non fa altro che aggiornare, e cioè
‘fisiologizzare’, il mito platonico della diversa lega con cui ognuno di noi è sta-
to fabbricato.161
Spicca anzitutto la differenza sessuale,162 riflesso di quella genetica: per la dif-
ferenza quantitativa e qualitativa nella commistione degli spiriti animali al con-
cepimento, nascono quattro specie di uomini (una combinatoria di forte/de-
bole con mente/corpo): i “forti di corpo et non di mente” nati per “coltivare et
per combattere”; i “forti di corpo et di mente”, nati per “regnare”; i deboli di
corpo ma “di mente savij” sono destinati a “investigare le scienze e religioni”; e
infine quelli deboli in entrambi sono nati “per servire”. Quattro classi (o me-
glio: caste, perché geneticamente chiuse): agricoltori-soldati, re, sapienti,
schiavi; ed è in nome di questa gerarchia ‘naturale’ (non del suo azzeramento)
che C. spesso si scaglia contro i falsi nobili a vantaggio di quelli veri e miscono-
sciuti (ad es. v. 28.5, 30.18-21, 84.5-7), e non solo e tanto per un risarcimento di
virtù usurpate, ma perché (in nome del solito primato del tutto sulla parte) ne
risente lo stato: “spirito sia la legge, gli huomini siano corpo, gli agricoltori sia-
no mani, i savij gli occhi, gl’ignoranti ventre… Et guardatevi che l’agricola per
natura non diventi Re, né il Re servo, né il Religioso soldato, né il soldato ser-
vo, ché il tutto sarà scompigliato, perché il caso et non il senno governarà” (p.
552; quasi ident. in Moralis XV, p. 61 – v. 130.1, 132.20-1).
Bisogna premettere che, se “in donis divinis et in virtutibus sunt homines inae-
quales, sicut et membra in corpore, et alii aliis apti functionibus” (Moralis XV,
p. 63), ciò è dovuto “alla varietà dei gradi di calore e di densità della materia,
per cui nascono spiriti diversi”; in dettaglio il processo è spiegato in Metaph.
XIV VI, II (III, p. 133): “lo spirito generante produce gli organi, simili al loro
principio secondo la condizione della materia e dei mezzi. La formazione inve-
ce proviene dall’anima del mondo e dagli angeli, che conoscono quali mezzi si
debba a questa o a quell’anima”; così “nello spirito si trovano veramente virtù e
vizi; esso, se l’indisposizione non è forte, può venir con la consuetudine mi-
gliorato o peggiorato, seppur di poco” (XVI VII, II [III, p. 253]). In sintesi: “nel-
l’uomo i costumi si rivelano secondo il temperamento e gli organi” (III, p.

161
Ottaviano considera questo “il primo e originale tentativo di una fenomenologia della vi-
ta morale da un punto di vista… strettamente fisiologico”, anche se il libero arbitrio “è irre-
parabilmente compromesso”, e l’innesto con la religione positiva è “voluto, ma non giustifi-
cato” (pp. 149 e 154), cioè è un’appendice posticcia, voluta o dovuta. La disuguaglianza na-
turale degli uomini, nonostante il messaggio evangelico, è tratto costante nel ‘500, appog-
giandosi alla teoria ‘scientifica’ degli spiriti: “gli huomini (parte atti a comandare et parte ad
esser comandati) secondo che la loro natura e l’ingegno dettava loro, et soprastando gli spi-
ritosi a gli obtusi, cominciarono a dominare” (Sansovino, Dedica a Roberto Strozzi).
162
La donna è un maschio mancato, cioè difettoso, e non solo fisiologicamente: la vera bel-
lezza non sarà mai di pertinenza femminile, perché le “manca il segno del valore et di senno”
(Epilogo, p. 432).
282 LA CITTÀ DEL SOLE

133), cui l’anima può adattarsi o contrastare (non è l’anima che lo determina;
l’anima sopraggiunge a organismo già formato “pugnatura hic [= nel corpo],
alibi vero regnatura”). La disuguaglianza originaria naturale viene inoltre fun-
zionalizzata alla divisione del lavoro sociale, secondo la quadruplice gerarchia
su indicata (Moralis XV, p. 60; v. Afor., 28 e 29 cit. in n. 48.11-3).
2.
A difesa della sua Città, C. adduce, tra l’altro, l’aver “evitato i due estremi, pri-
vilegiando il loro punto medio, nel quale risiede la virtù, e perciò non è possi-
bile immaginare una repubblica più felice e più semplice” (Quaest. pol. IV I, p.
111). Il sistema etico aristotelico (la ‘medietas’ come virtù fra due opposti vizi)
resterà quello egemone per tutto il Medio Evo, come ad es. può dimostrare la
struttura di SM I III, che distingue le Virtù, teologali e cardinali, “et vitiis oppo-
sitis”. Ma già Telesio, IX, 35 (III, p. 479) accusava Aristotele di non aver ‘posto
correttamente né lo scopo né il numero delle virtù’, perché è dallo scopo che
si deduce il loro numero (concetto che C. riprende nelle Quaest. Eth.), “per cui
ne omette parecchie, come la Solerzia, la Beneficenza, la Gratitudine; riduce
ad una sola virtù la Sobrietà e la Castità (le quali non solo sono diverse per na-
tura e non si uniscono sempre, ma anche si trovano separate in molti); e sepa-
ra e divide la Sapienza e la Prudenza, le quali… sono certamente un’unica
virtù”. Invece “il numero delle virtù deve essere ottenuto in base al numero de-
gli affetti e delle operazioni… cioè la facoltà d’intendere deve essere divisa in
tante virtù e chiamata in tanti modi, quanti sono gli affetti che devono essere
moderati e quante sono le operazioni che devono essere guidate”.
Sulle orme del suo maestro, C. riprende non solo la polemica antiaristoteli-
ca,163 ma lo stesso sistema etico, con le sue articolazioni e definizioni (IX, 5-22),
stilando un elenco di 32 vizi che sono l’eccesso e il difetto delle 16 ‘virtù natu-
rali’,164 stavolta in linea con l’insegnamento di Aristotele, che “in secundo Eth.
ait virtutes esse mediocritates passionum substantialiter” (Quaest. Eth. III II, p.
56). Il criterio tassonomico di C. respinge sia quello stoico che peripatetico;
non si fonda, cioè, sugli oggetti (perché lo stesso oggetto può esser di perti-
nenza di più discipline) né sui soggetti, “sed a primalitatum distinctis viis ten-
dendi in obiecta”: le cose bianche sono di genere diverso (il Sole, l’uovo), ma
in quanto riferite alla vista pertengono tutte al visibile, e così le virtù si ordina-
no “aliae ex volitivo, aliae ex cognoscitivo, aliae ex potestativo”: ad es. per la
conservazione nostra e da tramandare ai figli o alla fama, ci occorre vivere in
un consorzio di uomini: “erga quos [= gli uomini] ex tribus primalitatibus trina
virtus oritur, seu Benevolentia, Beneloquentia et Beneficentia”. Dunque se og-
getto della virtù è il bene, sarà bene tutto ciò che conserva l’‘homo socialis’,

163
Epilogo, pp. 526a e 511b; Gentilismo: “Tratta la morale senza metodo… ignora il numero
delle virtù, come appare… dal lib. VIII di Telesio” (p. 42).
164
Epilogo, p. 519-68, schematizzato da Ottaviano, p. 154; Telesio, IX, 5 (III, p. 359): “Dato
che la virtù stabilisce azioni moderate, ed al contrario il vizio stabilisce azioni o che eccedono
o che difettano, alle singole virtù o a parecchie di queste pare opporsi un duplice vizio”.
COMMENTO AL TESTO 283

male ciò che lo distrugge. Quindi le virtù si dividono anzitutto in base alla loro
fonte: derivano dal “Potestativo” quelle relative alle passioni, come la Fortezza,
che è la ‘regola’ (= medietas) tra timore e audacia; “aliae dicuntur ab Intellec-
tivo… ut prudentia est regula scientiae et ignorantiae”; “aliae sunt volitivi regu-
lae”, relative agli affetti, come ad es. “erga parentes et patriam Charitas”. Poi si
ordinano “circa modos conservandi, qui est finis”: l’uomo si conserva in Dio (le
tre virtù teologali sussunte nella “Sanctitas”), in sé stesso (“Fortitudo, Exerci-
tium, Solertia, Probitas, Liberalitas”), nei figli (“Castitas”), nello stato (“Iusti-
tia”) e negli amici, cioè la fama (es. “Magnanimitas”).165 Poi si distinguono in
base agli oggetti: ad es. la moderazione rispetto all’appetito sessuale è la Ca-
stità, rispetto alla gola è la Sobrietà. E infine “ex Principatu”: rispetto a se stes-
si, infatti, tutte le altre virtù sono subordinate a Fortezza, Prudenza e Santità; ri-
spetto agli altri, soggiacciono a Benevolenza, Beneloquenza e Beneficenza.
Tale sistema morale, che passerà strutturalmente immutato nella Physiol., costi-
tuisce anche l’ossatura predominante dei valori e disvalori Solari.166 Sparita la
proprietà privata, infatti, quasi l’intero esercizio della giustizia si risolve in cor-
rezione delle sbandate dalla retta, mediana via delle virtù, come rispecchiato
dalle magistrature e dalle tavole della legge (102.33 [glossa]: ‘Leges. Iudi-
cium’). Ma esistono anche sporadici accenni a singoli vizi particolarmente de-
testabili, come la bugia (caricata di un forte rilievo sia nell’elenco a 24.39, sia a
sè stante a 110.27, dove, fra l’altro, trae implicazioni notevoli sulla funzione ci-
vile di una letteratura ‘veristica’, non menzognera, adulatrice, timorosa) o la
superbia (cui è dedicato un capoverso a 54.21).
Del sistema di Epilogo, T.24.26-32 (e così R. e L.) menziona 10 Virtù e 3 vizi lo-
ro corrispondenti; Civitas 12 Virtù e 8 vizi (5 dei quali simmetrici alle Virtù
elencate). Vizi e Virtù vengono nuovamente citati a proposito dei tribunali po-
sti sotto le colonne, anche qui con diversa distribuzione fra Città e Civitas, co-
me appresso schematizzato:167

165
Quaest. Eth. III III, p. 58-9; Moralis I III, p. 12; Titoli, p. 291; Theol. I (II, p. 135-7) e X; Rhet. V
IV (p. 781-3) con qualche variante; Compendio LXII e Medicina dettagliano così: le affezioni
del volitivo sono amore e odio (in presenza dell’oggetto: voluttà/dolore; in assenza: deside-
rio/abominio); i mezzi per raggiungere il sommo bene (in base al loro uso moderato) sono:
‘Mens [= Anima], corpus, uxor et filii, res familiaris, Respublica, honor, venus, cibus, amici,
proximi’: “Sanctitas est erga finem [→Mens], sanitas et medela [→corpus]; circa se, natos et
uxores, caritas; erga parentes, pietas; erga Rempublicam, iustitia; erga rem familiarem, libe-
ralitas; erga acquisitionem eius, solertia; erga amicos aliosque homines, benevolentia et be-
neficentia, gratitudo, aequalitas, mansuetudo; erga ipsorum bona, benignitas et aemulatio;
in conversatione hilaritas, veracitas; erga alimentum et venerem, sobrietas et castitas; erga
honores, magnanimitas” (p. 5).
166
Tranne in Comment., dove, costretto dall’Elegia di Urbano VIII, che parla di “septem virtu-
tes”, pone proprio il problema: “cur septem ponit virtutes tantum” (p. 765-7), quando Ari-
stotele ne pone 12, Telesio 20 e Tommaso più di 100? E si aggrappa al tetracordo delle 4 virtù
cardinali naturali, cui successivamente seguì la cetra delle 4+3 teologali.
167
La lista cerca di rispecchiare l’ordine di apparizione nei testi; le Virtù fra <> sono il corri-
284 LA CITTÀ DEL SOLE

T.24.26-31 24.25-9
Liberalità Magnanimitas
Magnanimità Fortitudo
Castità Castitas
Fortezza Liberalitas
Giustizie Iustitiae
Solerzia Solertia
Verità bugia Veritas mendacium
Beneficenza Beneficentia
Gratitudine ingratitudine Gratitudo
Misericordia
<Benignità> malignità <Benignitas> malignitas
Hilaritas scurrilitas/tristitia
Exercitium pigritia
Sobrietas
<Mansuetudo> ira
<Benedicentia> detrectatio

T.104.10-1 104.10-4
Magnanimitas abiectio/superbia
<Esercizio> pigrizia <Exercitium> pigritia
Beneficentia maleficentia
<Gratitudine> ingratitudine <Gratitudo> ingratitudo
<Sapienza> ignoranza

È agevole, anche visivamente, operare dei confronti quantitativi fra gli elenchi
delle due redazioni,168 stilati in base all’ordine sequenziale in cui appaiono le
Virtù nei rispettivi testi. Data la casualità di questi elenchi (basta appunto os-
servarne la metamorfosi passando da T. a Civitas), per illustrarne le singole oc-
correnze, è opportuno rifarsi al sistema di Epilogo, che tuttavia non è meccani-
camente sovrapponibile, per due ordini di ragioni generali (per i dettagli si
rinvia alle note al testo specifiche):
• tassonomica: Epilogo colloca le Virtù in una scala che va dalla meno (“Soler-
tia”) alla più importante (‘Magnanimità’, non a caso chiamata anche ‘Subli-
mità’), da quelle individuali alle sociali;169
• qualitativa: mentre in Epilogo ognuna delle 16 Virtù è accompagnata dai due

spettivo sottinteso del vizio; in grassetto le non coincidenze; con / si separa il vizio per ecces-
so e quello per difetto della stessa Virtù, la quale consiste sempre nella “mediocrità”, l’‘aurea
medietas’.
168
Il corredo completo di Epilogo, come si diceva, è di 16 Virtù + 32 vizi complementari; in
Città se ne menzionano rispettivamente 10 e 6, in Civitas 12 e 12.
169
“Nell’Epilogo le diverse virtù vengono via via elencate secondo il filo dei vari livelli e ambi-
ti dell’autoconservazione – in se stessi, nei figli, nella società –, e anche questa enumerazione
segue da vicino quella di Telesio” (Ernst 2002, p. 48).
COMMENTO AL TESTO 285

vizi simmetricamente “contrarij”, uno per eccesso e uno per difetto, nel rap-
porto Virtù/vizi di CS si verificano quattro casi:
a) c’è o la sola Virtù (Castità) o un solo vizio (ira);
b) c’è una Virtù seguita, generalmente da un corrispondente vizio (Veri-
tas/mendacium), raramente da entrambi (Hilaritas/scurrilitas + tristitia);
c) per un vizio (malignità) CS fornisce una definizione che non solo non
corrisponde a quella fornita da Epilogo, ma neppure, almeno univoca-
mente, a nessuna delle categorie ivi contemplate; bisogna ricorrere al si-
stema etico telesiano (di cui Epilogo è quasi una fotocopia), per avere chia-
rimenti: Telesio, infatti, chiama “malignitas” quel vizio per cui uno “si rat-
trista dei beni degli altri, perché non si sente dotato di essi né spera di po-
terlo essere; e perciò in quei beni vede i propri mali” (IX, 20 [III, p.
407]); ‘non dar soddisfazione agli altri’ (ovvero non gioire con e per loro
[24.36-7] - come fa invece la simmetrica virtù della “Benignitas”, la com-
passione) è appunto la definizione telesiana, che, per trascinamento iner-
ziale, resterà immutata, pur essendo il sistema etico presente nella Phil.
realis ormai sensibilmente diverso da quello del 1602;
d) in alcuni casi Epilogo fornisce dei sinonimi (“sublimità o magnanimità o
generosità” [p. 565]); ma in CS vi sono due nomi di vizi, uno in Città e in
Civitas (“pigrizia”/ “pigritia”), e l’altro solo in Civitas (“detrectatio”), non
contemplati in Epilogo: se nel primo caso è Physiol. a indicarci il sinonimo
(= ozio, e non inerzia) e di conseguenza la Virtù connessa (= Esercizio, e
non Solerzia), nel secondo caso bisogna ricorrere a Moralis IX, 3, in cui si
tratta della “Benedicentia” (‘dar il buon esempio, diffondere il sapere e
cose proficue’) e dell’opposta “maledicentia”, che tra le sue ulteriori sud-
divisioni contempla anche la ‘detrectatio’: “cum famam aliorum in secre-
to diminuimus” (p. 36), ovvero la denigrazione occulta.170
Queste sono dunque le probabili “definizioni” etiche (104.3-4) incise dai Sola-
ri sulle tavole del tempio.
La Sapienza, regina delle virtù umane,171 è, come si è detto, la “ragione ordi-
natrice” (Epilogo, p. 505),172 che discrimina il bene da seguire dal male da fug-
gire, e, in quanto primalità, è la base metafisica (126.17sg) su cui poggia l’etica;
pertanto è prima e fuori da ogni schema; un suo vizio è l’ignoranza (Telesio:
“insipientia” [IX, 7]), “quella determinatione et impotenza dello spirito a co-
noscer le cose” (Epilogo, p. 511).

170
Così anche Theol. X (III, p. 151); SM I LI, III e III I, IV ‘De detractione’: “Quantum ad di-
gnitatem personae laeditur aliquis occulte… per detractiones, quibus aliquis aufert famam
suam”.
171
“S. Bern. in Cant. Sapientiae subdit ‘omnem virtutem’… et similiter Telesius [IX, 5 (III, p.
353)] docuit omnem virtutem esse sapientiam” (Quaest. Eth. III II, p. 56).
172
“È quella facoltà intelligente la quale stabilisce di percepire a fondo le nature e le facoltà
di tutte le cose… e così intende quali cose e quali forze siano buone e comode all’uso pre-
sente”, e viceversa (Telesio, IX, 6 [III, p. 361]).
286 LA CITTÀ DEL SOLE

Solerzia: “facoltà nativa nel trattare le cose”, grazie alla quale l’uomo, per la sua
capacità di imitare l’arte divina insita nella natura, inventa “tutte l’arti mecha-
niche: agricoltura, pastorale, statuaria, mercatura” (Epilogo, p. 518; Rhet. V IV, p.
781): cioè è la virtù indispensabile a procurarsi il necessario per vivere (Quaest.
Eth. III II, p. 58). La Liberalità, che è insieme parsimonia e magnificenza (ib.),
“maneggia i beni che la solertia acquista” e li spende a vantaggio proprio e dei
propri amici (Epilogo, p. 520). Esser moderati nell’alimentazione (= Sobrietà
[p. 521]), nella sessualità riproduttiva (= Castità [p. 523]), e non trascurare l’E-
sercizio fisico (“de qua virtute non dixit Telesius neque Arist., sed Chrys. illam
magnifecit” [Quaest. Eth. III II, p. 58]), impigrendosi nell’ozio, “il qual genera
tutti gli appetiti superflui e toglie i naturali” (Epilogo, p. 526), significa sapersi
autoconservare bene. Nell’assicurarci i predetti beni, possiamo esser molto tra-
vagliati dalle cose e ancor più dagli uomini: la Fortezza, “distinta dalla forza del
corpo”, è “virtù del senno”, che ci dice “quanto e come et a chi dobbiamo resi-
stere et vendicarci” (p. 545).
Le precedenti virtù servono all’uomo in quanto individuo; in quanto animale
sociale, gli necessitano le “virtù politiche”, cioè la Giustizia, che “insegna gli
huomini a vivere insieme et rendersi l’officij l’un l’altro, et che ogn’uno faccia
quello a che è nato et goda quei beni che ei s’acquista con virtù et non con vi-
tio. Et quando ciò non fanno li punisce con pena” (Epilogo, p. 549).173 Se la
Giustizia è l’anima del corpo sociale, la Verità ne è lo spirito, per cui il vizio op-
posto, la bugia, rende il bugiardo “infelicissimo animale, perché annichila se
stesso facendo et dicendo quello che non gli è nell’animo, et riducendo l’esse-
re al non essere” (p. 554).174
La terza virtù indispensabile alla vita dello stato è la Beneficenza, che “fa bene
a chi merita, et con danno di sé medesimo, quando il ben di colui a chi si fa
eccede il nostro danno” e che “apprezza più il tutto che la parte, più il comu-
ne che il particolare… non per interesse, ma per giubilo che ha della sua
bontà”; la maleficenza è far “male a gli altri et massime a buoni” o anche solo
chi “potendo far bene altrui no ‘l fa” (Epilogo, p. 556). “Sorella” della Benefi-
cenza è la Gratitudine, che “rende il benefitio quando può”, mentre ingrato è
“chi non rende quando può a chi n’ha bisogno et quando l’ha” (p. 558).
L’“Allegrezza”, indispensabile alla vita, “perché non si vive bene senza spasso”,
è “segnale di spirito lucido e puro, non disperante per i mali”, mentre i suoi
estremi, la tristezza e la “buffoneria”, adombrano uno spirito difettoso, “impu-
ro, fuliginoso” (p. 560). Altrettanto impuro è lo spirito dell’iracondo (il vizio
per eccesso della Mansuetudine), ma “desideroso di purità et nobiltà” (p.

173
La Giustizia è dotata di “due atti o modalità” (Theol. XI [III, p. 31]): distributiva (= ugua-
glianza per meriti delle persone) e commutativa (= equivalenza delle cose); v. n. 24.26, n.
40.33.
174
La spiegazione di quest’ultima frase sta nella definizione telesiana di “mendacium”: “la fa-
coltà intelligente la quale considera i non enti come enti, ed al contrario gli enti come non
enti oppure diversi da quelli che sono” (IX, 13 [III, p. 389]).
COMMENTO AL TESTO 287

561). La malignità, antitesi della Benignità, che gode del bene degli altri sen-
za sperare nulla in cambio (chiamata Misericordia se ci “si duole dei mali de
gli altri con animo di soccorrerli”), “duolsi del bene d’altri come testimonio
del suo poco essere”: chi vale poco si dispiace molto degli altrui successi o for-
tune (p. 562). Lo spirito Magnanimo, intessuto della stessa sostanza del Cielo,
è etereo: questa “virtù eroica… [che] ama la propria eccellenza solamente”,
“ad honores veros nos afficiens” (Quaest. Eth. III II, p. 58), che regola il divino
desiderio di eccellenza dell’uomo e che, a differenza della Fortezza, “sua si-
rocchia minore… non si vendica dell’ingiurie de malvaggi… perché giudica i
suoi malfattori indegni di contender seco… Né teme morir se non per pro-
pria colpa” (Epilogo, p. 565 – dove sembra trasparire un tratto autobiografico);
i vizi opposti sono l’abiezione, che “spregia gli honori perché non conosce la
loro bellezza”, e la superbia, “la qual ama quegli honori di cui non è per virtù
degna” (p. 564).175
Infine vi è la per nulla trascurabile componente astrologica, che qui appena ac-
cenniamo: “Quicquid coeperis animo, vide cui planetarum correspondet. Nam
Saturnus habet firmitatem, et perseverantiam… Juppiter… liberalitatem, magnifi-
centiam… Mars fortitudinem, victoriam, iracundiam… Sol omnium virtutum api-
cem, quae in magnanimitate continentur, habet… Ergo quando aliquid coeperis
alicui sideri conveniens in his, quae spectant ad animum, pone sidus illud in
ascendente…” (Astrol., p. 216): ogni pianeta, dunque, sovrintende a certi vizi e
virtù, in partic. al Sole fa capo la magnanimità; perciò quando bisogna mostrare o
ricorrere a una di queste virtù, bisogna porre il pianeta suo signore in Ascenden-
te (v. n. 44.3). Il rapporto fra fisiologia e astrologia nella plasmazione del morale
dell’uomo è appena abbozzato: si può dedurre che esiste una specie di gerarchia,
per cui alcuni vizi, come ignoranza e pigrizia risentono più spiccatamente degli
influssi astrali, che combinati però con “spiritibus crassis, stupidis, fuliginosis in
male affirmato cerebro” (Astrol. VII, p. 15) danno luogo al temperamento preva-
lente. Per alcuni di questi vizi temperamentali, fornisce anche dei consigli su co-
me correggersi (ad es. agli iracondi, frequentare persone mansuete).

24.22-4: Quotquot… magistratus:


Le magistrature etiche corrispondono idealmente alle schiere angeliche celesti,
perché, secondo Epilogo, p. 56, “tante sono le virtù e atti virtuosi quanti sono gli
Angeli del Cielo, e tanti i vitij e atti vitiosi quanto i demonij dell’inferno”. Il siste-
ma generale etico e le definizioni dei singoli vizi e virtù saranno ripresi a 104.13;
per i nomi delle Magistrature (compresi i Triumviri) è probabile che C. imitasse
“gli antichi [che] chiamano Dei le virtù e le primalità, e così per es. Democrito
chiamava Pena e Premio gli dei custodi delle leggi” (Theol. I [I, p. 319]).

175
Nell’edizione parigina dell’Ethica “le virtù che vengono ad aggiungersi tendono a sottoli-
neare la convergenza e l’armonia fra religione e natura. Non a caso l’elenco si apre con la
sanctitas, che, ponendo Dio come fine di tutte le virtù e orizzonte entro cui esse si collocano,
‘sancit et sanctificat’, vale a dire purifica, tutti i fini intermedi dirigendoli a lui, da cui deriva
ogni cosa e a cui ogni cosa ritorna” (Ernst 2002, p. 50).
288 LA CITTÀ DEL SOLE

24.26: Iustitia criminalis et civilis,


In Città (T.24.29, e così tutti i mss) invece: “Giustizia criminale o civile”. Nor-
malmente le due funzioni sono separate: svariati gli esempi, non solo occiden-
tali (da Machiavelli: “tiene due giudici in civile… così un luogotenente in cri-
minali” [p. 738], ad Agostini: “sei giudici civili, sei criminali” [Dialoghi, p.
146]), ma anche orientali (o almeno è in questa chiave che venivano riferiti gli
ordinamenti giuridici di popoli lontani): Maffei deve esser la fonte immediata:
in Cina, l’Ancasio “con un consiglio di uomini eletti, non solamente giudica le
differenze e le liti civili, ma ancora fa i processi delle cose criminali” (I, p. 382);
Botero, parlando del Giappone: “nelle cose criminali, la minor pena è l’esi-
lio… nelle civili non vi è quasi forma alcuna, ogni cosa dipende dalla forza e
dal volere dei maggiori” (II I, I, p. 12); Doni (che plagia Guevara): “Ius civile fu
l’ordine per formare una lite”, cioè istruire un processo fra privati, “acciò che
ogn’uno ottenesse per via della giustizia quello che per forza gli era stato tolto”
(Mondi, p. 70).
Anche C. conosce, ovviamente, e condivide questa distinzione: “si devono le
cause criminali allungare… e le civili abbreviare” (Mon. Sp. XIII, p. 116; Politica
XV, 3, cit. a n. 92.18-23); secondo la partizione classica,176 vi è un diritto natu-
rale, la cui trasgressione è reato assolutamente universale, e vi sono i diritti ci-
vili, in base ai quali ogni società impone sue norme per azioni che da un punto
di vista naturale sarebbero ‘indifferenti’, cioè prive di rilevanza penale (ad es.:
“ne manduces carnem porcinam”). “Civilis enim lex facit de indifferenti vir-
tuosum et iustum, quatenus fini politicae civilitatis conducit, qui consonat fini
naturali” (Quaest. Oec. II IV, p. 176; v. n. 32 [glossa] § 1, in partic. p. 312-5). Dun-
que una società deve far in modo che il suo diritto ‘civile’ sia quanto più corri-
spondente a quello ‘naturale’; e poiché la Città del Sole è un modello di so-
cietà di natura, si spiega perché la magistratura penale e civile coincida: cioè
quella ‘o’ sta per un ‘ovvero’ (corrisponde al ‘vel’, non all’‘aut’); e quindi le
due espressioni (italiana e latina) sono sostanzialmente equivalenti: il magi-
strato Giustizia criminale ovvero (in una società naturale) civile.
A ciò si possono allegare altre motivazioni specifiche che possono aver indotto
i Solari a unificare le due magistrature: a) la semplificazione delle leggi
(102.33-4) e dell’iter processuale (104.5-17, dove si possono vedere queste ma-
gistrature ‘etiche’ in azione) ha ridotto anche le cariche giuridiche; b) in un
regime comunitaristico le norme penali e civili che regolano i rapporti di na-
tura familiare e patrimoniale, non essendoci alcuna forma di proprietà privata,
hanno poca o nulla ragione d’esistere, come chiarisce subito dopo.177

176
“Jus civile [o ‘jus gentium’] est quod quisque populus, vel civitas sibi proprium, humana
divinaque causa constituit” (Isidoro, V V).
177
Ancora utile il cap. ‘La terminologia giurispubblicistica in C.’ di R. De Mattei (La politica
di C., Roma, 1927).
COMMENTO AL TESTO 289

24.27: Beneficentia,
“I Solari hanno sostituito la liberalità con la beneficenza, che è una virtù più
grande” (Quaest. pol. IV II, ‘ad tertium’), e che è in sistema con ‘dominio’ e ‘di-
ritto’: “Il diritto infatti esiste tra gli uguali in ciò in cui sono eguali; il dominio
è proprio del superiore verso gli inferiori in ciò in cui sono inferiori… Il bene-
ficio si ha, invece, tra colui che possiede e colui che è bisognoso: quindi, il be-
neficio è proprio della carità, il diritto della ragione, il dominio del potere” (§2
del cap. II della Politica, intitolato appunto ‘De dominio, de iure, et beneficio,
et regno’).

24.32-5: Quapropter… accusamus,


In Quaest. pol. IV, p. 109 elenca tutti i mali evitabili in una società sul modello
Solare, che infestano invece la società reale: quelli originati dalla proprietà
privata, dagli abusi della sessualità e dall’eccessivo attaccamento a moglie e fi-
gli. Queste ultime due categorie sono qui elencate (20.24 per la terza catego-
ria, e 24.32 per la seconda categoria), mentre sulla prima si soffermerà tutto il
capoverso a partire da 54.34.
Ma questo brano contiene una replica implicita178 sempre ad Aristotele, Pol.
1362a 25 (e 1362b 30), il quale obietterebbe che “per chi organizza una co-
munità di tal sorta [= con indivisione dei beni], non è agevole evitare certi in-
convenienti, quali ad es. oltraggi, uccisioni volontarie o involontarie, contese,
risse di parole” (e: “oltraggi, amori illeciti, assassinii”). Perciò agli ateisti da un
lato e ai negatori del libero arbitrio dall’altro, reputati entrambi frutto vele-
noso dell’aristotelismo-machiavellismo, ricorda negli Avvertimenti che “se tutti
principi e popoli credesser questa mane che non ci è Dio, si empirebbe in un
momento la città di furti, rapine, incendi, occisioni, stupri, incesti, e viva chi
può” (p. 454).
Un’identica connessione fra struttura sociale (comunitaristica) e assenza di vi-
zi/reati è già nella Lettera del Prete Gianni: “Nessun povero si trova tra noi…
non v’è né ladro né predone e non vi è spazio per il lusingatore servile né per
l’avarizia. Qui da noi non c’è divisione di proprietà… [e] non vi è chi sia adul-
tero. Nessun vizio ha potere presso di noi” (pp. 69-71 e 77).

24.33: caedes insidiosae,


Amerio notava che contraddittoriamente più avanti (T.100.3-4) si parla di omi-
cidi puniti con la morte; ma curiosamente in Civitas si legge: “At cum casus ac-
cidit iniuriosus, morte punitur…” (100.1-2), senza più menzionare l’omicidio:
è un ‘lapsus calami’ o l’Au. ha corretto una contraddizione? Propenderei per
la prima ipotesi (= lacuna di “omicidio”), anche perché la legge del taglione
permane e sono, seppur lievemente, inasprite le pene, tramite privazione, per
i reati meno gravi (98.24).

178
Esplicitata in Quaest. pol. IV II, p. 137; III, pp. 151 e 165-7 (ed. Ernst).
290 LA CITTÀ DEL SOLE

24.33-4: stupra, incesta, adulteria,


Sono tre delle “sex species luxuriae” riconosciute “in decretis [canonici], dist.
36, q. 1”: se vi è abuso di donne “consanguineitate vel affinitate iunctarum [=
unite]”, si ha incesto; se la donna è “in potestate viri” si ha adulterio, “in pote-
state patris est stuprum, si non inferatur violentia; raptus autem si inferatur”
(SM III II, IX; v. n. 32 [glossa] § 2, punto 3).

24.36-9: ingratitudinis… mendacii,


L’elenco è ripreso a 104.13, e fa capo a un trinomio etico topico, rintracciabile
ad es. in Ficino, Relig. IV, 16: Dio “fulmina coloro, che per ingratitudine e mali-
gnità e superbia dal Suo imperio si ribellano” (‘Contro la superbia’ è una glos-
sa di 54.21-2, di cui v. n. collegata).

24.39-26.1: mendacii… abominantur.


La ragione di tanta avversione dei Solari verso la bugia (comprese le finzioni
poetiche arbitrarie: v. n. 110.28-112.1) ha varie motivazioni: chi mente “anni-
chila se stesso facendo et dicendo quel che non gli è nell’animo, et riducendo
l’essere al non essere” (Epil. Magno, p. 554: v. 130.3-6 e n. 24 [glossa] § 2): vive-
re nella menzogna significa “un vero e proprio esaurirsi della vita” (Fintoni, p.
302); in secondo luogo è indizio di senno (= una delle primalità) e di spiriti vi-
tali impuri: “il natural mentire indice [= manifesta], / ma non lo scaltro, un
senno / di natura corrotta e peccatrice”; Esp.: “lo spirito puro, come luce s’infà
[“afficitur” = si permea] di tutt’i colori, e gli rappresenta come sono… e non sa
mentire, né vuole. Ma lo spirito impuro, fuligginoso, non si infà se non come
egli è infatto; e, come il rosso occhiale rappresenta le cose rosse, e non quali so-
no, così l’impuro le sente, e però è per natura mendace. Ed è segno di natura
corrotta e viziosa, quando mente non per industria, bisogno e sagacità, ma na-
turalmente in tutte cose suol mentire” (‘Canzone seconda’, 24, Madr. 3): chi
mente sistematicamente, e non perché costretto da contingenze particolari –
unica bugia tollerata è “la bugia a fin di bene, non quella dannosa” (Rhet. I II,
p. 729) –, il ‘bugiardo matricolato’, dunque, denuncia una patologia organica,
cioè di essere afflitto da spiriti ‘fuligginosi’, non trasparenti (cfr Epilogo, p. 555;
per la purezza degli spiriti v. n. 44.2-6, n. 44.23, n. 46.5 e n. 90 [glossa]).
La condanna sociale (e penale) della bugia perseguìta già da Pitagora, perché
mina l’amicizia (Giamblico, Vita [Theodoreto, XXII, p. 101]), ha in Platone,
Resp., 377d e 382c, il suo antesignano, e, in area cristiana, in Agostino, con due
invettive (De mendacio e Contra mendacium), e in Tommaso che ne scompone la
sfaccettata casistica (ST I CX), i suoi principali paladini. Altrettanta severità nel-
la Lettera del Prete Gianni, il quale sostiene che nessuno del suo popolo “mente
né vi è chi possa mentire”, perché “è tenuto per morto e mai più sentiamo par-
lare di lui” (p. 77). Ma la condanna della ‘simulazione’ diventerà uno dei temi
centrali e scottanti della discussione tardocinquecentesca sulla ragion di stato,
nel quadro del generale antimachiavellismo, culminante nella draconiana pro-
posta della pena capitale avanzata da Roseo (Instituzione, p. 55). Tuttavia vige
COMMENTO AL TESTO 291

sempre il doppio registro: una morale per il popolo, e una ‘ad usum Delphi-
ni’.179

26.1-3: Ac rei… honoribus,


Replicato quasi letteralmente a 98.24sg (dov’è adombrata anche la medicalità
della pena: 104.15), è ripreso da Platone, Resp. 460b, che di converso, in pre-
mio ai più valenti, riserva le donne migliori; e da Tertulliano, Apol. XXXIX:
nelle assemblee dei primi Cristiani, “si giudica anche… se qualcuno ha manca-
to, sì da venir escluso dall’orazione in comune, dalla riunione e da ogni con-
tatto con le cose sante”.

26.6 (glossa): De veste


Il vestito unisex s’ispira a criteri di funzionalità militare (e all’avversione per
l’antigienica e ipocrita moda femminile imperante [v. n. 52.4-8]); è dunque, al-
la lettera, una vera ‘uniforme’, sia sopra (26.10-3) che sotto (38.5), alla cui con-
fezione sono addette le donne (34.21), mentre ognuno è tenuto alla manuten-
zione del proprio guardaroba (38.3 e 28), e i cambi in fureria sono legati ai ci-
cli stagionali (38.20), sorvegliati dal Vestiario (oltre all’onnipresente Medi-
co),180 a sua volta soggetto ad Amore (18.37 e 98.9).
Circa il colore, Civitas sana una lieve contraddizione di Città, dove scriveva che
gli abiti dei bambini erano “di color vario e bello” (T.48.2); sparita quella in-
congrua policromia infantile (i vestitini sono solo vari e belli [48.2]), il colore
delle vesti è: sotto sempre bianco (38.5 e 27), sopra a volte bianco e a volte ros-
so, mai nero (54.15-20). Quest’uniforme (tranne ovviamente per le vesti ponti-
ficali [112.37]) non possiede alcun segnale di distinzione; i ‘gradi’ e le ‘mostri-
ne’, ovvero le specialità, sono demandate ai copricapo: in città si usano delle
berrette che indicano il mestiere di ognuno, mentre i magistrati portano un
copricapo di foggia più ricercata (110.12). Anche nell’egualitaria Città del So-
le occorrono segnali di distinzione, pur ridotti e discreti, in quanto “anche di
vestimenti deve esser riforma, perché è vergogna che li stessi abiti e colori, che
portan i clerici in Roma, portino anche i medici e legisti e studianti. Lungo sa-

179
A tacere del celeberrimo Accetto, Pissavino (cui si rinvia per la bibl. sul ‘mendacio’ - oltre
al su cit. art. della Fintoni, che mostra come a C. sia ben nota la letteratura nicodemistica) a
p. 320 cita un brano tratto da Botero, Ragion (‘Della neutralità’), ripreso anche da Zuccolo:
“Maometto II re de’ Turchi diceva, che il mantener la parola era cosa da mercatante, non da
prencipe, perché il mercatante vive del credito e della fede, il prencipe si vale della forza e
dell’arme” (p. 446). More fa della sincerità una bandiera ideologico-letteraria: “curerò con
ogni impegno che nel libro non appaia falsità di sorta, così di fronte ad eventuali dubbi pre-
ferirò dire cosa non vera piuttosto che una menzogna, perché mi è più caro essere onesto
che sapiente” (lettera a Gilles premessa a Utopia).
180
Circa la medicalizzazione dell’abbigliamento, cfr Medicina IV IV ‘De Vestibus’, in cui C.
esorta ad una ‘naturalità’ del vestire, in modo da imitare i rivestimenti naturali: “Vestibus na-
turam imitabere, quae arbores ac fructus et ova interius membrana tenui, in medio medulla-
ta, exterius duro vestit cortice. Unde camisiam, diploidem et sagum [= mantello e saio] com-
menti sumus”.
292 LA CITTÀ DEL SOLE

ria a dire che le vesti son un titulo muto, che parla più che il titolo loquace, e
se li cardinali non fusser distinti di vestimento da vescovi e dottori, sariano in
minore stima, quantunque avessero titolo d’altissimo e santissimo: e però dice
Livio e Plutarco, li regi e senatori si distinsero d’abiti e colori dalli popolani per
esser venerabili, e li lor precetti meglio osservati, e san Bernardo loda la pur-
pura nel papato, benché sotto ci desideri il cilicio, scrivendo ad Eugenio [III]
papa” (Titoli, p. 298; per i colori v. n. 38.5, n. 54.15-8 e n. 54.19-20).
Circa l’uniformità del vestire, per foggia e colore, cfr More, 99 e 255: nel tem-
pio vestono tutti di bianco, colore gradito agli dèi, come già Pitagora181 e Pla-
tone (Leg. 956a) tradotto da Cicerone (De leg. II, 45), insegnavano; Roseo spie-
ga la necessità dell’‘uniforme’: “tutti si debbano vestire d’un panno e in un me-
desimo modo; perché la varietà del vestire genera pazzia e scandalo ne i popo-
li” (pp. 44 e 54); Doni propone foggia uguale, ma colori che mutano, col cre-
scere dell’età, dal bianco al nero (p. 72). Inoltre, insieme agli evidenti modelli
monastici (i domenicani vestono di bianco) e le suggestioni moreane a favore
della praticità, hanno pesato anche leggi suntuarie e biasimi ecclesiastici, a par-
tire dai primi padri della Chiesa: se lo scopo delle vesti è quello di proteggersi
dal clima, “vide ne non alia quidem viris, alia vero foeminis vestis tribuenda sit:
tegi enim utrisque commune est, quemadmodum comedere et bibere. Cum
usus itaque sit communis, constructionem similem comprobamus” (Clemente
Alessandrino, Paedagogus II, 86) ; e il loro colore ideale è il bianco (“Atque eos
quidem, qui sunt candidi, et non intus adulterini, candidis et minime curiosis
ac operosis vestibus uti convenientissimum”); che è proprio quanto sostiene
C.: vesti sobrie, pratiche, in linea con la generale riforma dei costumi, sia mo-
rali che materiali, pena la vita per quelle donne che inseguissero la moda delle
gonne lunghe per nascondere le scarpe alte (52.10-2); infatti anche in una
città ideale, ma dalla struttura sociale reale e dove quindi i colori e le stoffe va-
riano in funzione del censo (dal rosato per i nobili al ‘paonazzo’ dei mercanti,
dal verde delle arti minori all’azzurro e bianco per gli altri), vi è una rigida po-
litica suntuaria (Filarete, pp. 509 e 619).

26.6-7: rationem… eliguntur.


La questione dell’elezione e selezione dei quadri dirigenti viene ripresa a 94.28
(v. n. 10.30).

26.14-5: Ac mistim… artibus:


Platone, Resp. 452a impartiva un’identica istruzione ad ambo i sessi, riservan-
dola però solo ai futuri guardiani; senza limitazioni invece More (135) e Doni
(p. 73).
L’universalità dell’istruzione poggia sull’uguaglianza degli uomini, in quanto
dotati di ragione: “è chiaro che allo studio delle scienze deve attendere tutto il
genere umano, non solo questo o quell’individuo. Dio infatti ha creato l’uo-

181
In: Diogene, VIII, 19, 33; Giamblico, Vita [Theodoreto], XXI, pp. 100 e 149.
COMMENTO AL TESTO 293

mo, perché conoscesse Dio, e conoscendolo lo amasse, e amandolo ne godes-


se: per questo lo dotò di sensi e di ragione”, per cui se l’uomo non usasse que-
sta facoltà, “agirebbe contro l’ordine naturale stabilito da Dio” (Apologia, p.
15). L’istruzione universale, “gratis per tutti”, deve esser affidata alle parroc-
chie per l’alfabetizzazione primaria, e ai seminari vescovili per “grammatica, lo-
gica e teologia” (Disc. univ. XXIV, p. 1164-5). All’educazione dei fanciulli, per
l’importanza che essa riveste per lo stato, C. pensava di dedicare un volume ap-
posito, come si evince da Oecon.: “De corporis animique exercitiis, deque tota
eruditione puerorum, volumen iustum aliud proprium requiritur, cum maximi
momenti negotium sit in Rep. Quapropter sufficit hic, quae jam scripsimus, et
quae in Politicis et Solis civitate scripseramus” (IV I, p. 203 - per il ‘cursus studio-
rum’ v. n. 18.26-7).

26.18: quatuor… quatuor,


Come osservava già Bobbio, l’orientamento cardinale della Città (4.7-9), può
aver influenzato la fitta rete di quaterne che interseca CS (tralasciando qui
quelle architettoniche): dalle ore quotidiane di studio (26.32) a quelle di lavo-
ro (56.11), dalle squadre di soldati a guardia del territorio (80.5-7) alle pre-
ghiere (quelle dei sacerdoti [106.42-3], le ripetizioni di Hoh [112.34] e quelle
del popolo, replicate due volte [112.20]), dai regni dell’isola (64.39) alle volte
al giorno in cui i fanciulli mangiano (88.21), dal cambio stagionale dei vestiti
(38.20) alle feste principali, anch’esse stagionali (infatti pure equinozi e solsti-
zi sono “mundi cardines” [110.15-6]).

26.20-1: gymnastica… ludisque,


Per l’istruzione equilibrata (‘mens sana in corpore sano’) v. 46.33sg; per i gio-
chi ‘attivi’ v. n. 56.16-20: solo giochi che combattono l’ozio che “genera varij
morbi”; perciò, a vantaggio della virtù contraria, l’Esercizio (24.28), “si trovò la
ginnastica, il giuoco della palla e dell’armi” (Epilogo, p. 528). Questo elenco
(integrabile con quello di 62.31) costituisce il gruppo dei ‘ludi gymnici’ (cioè
quelli che si esercitano nel ‘ginnasio’), una delle quattro discipline della “thea-
trica”, la settima delle arti meccaniche, gruppo che comprende “quinque ge-
nera, scilicet saltus, cursus, iactus, virtus [= la forza fisica] atque luctatio” (SH I
LIIII). In Mon. Sp., p. 74 e Politica VIII, 7 cita Sallustio, De con. Catil., VIII: “‘Ro-
mani nunquam ingenium sine corpore exercebant’”; altre fonti: Platone, Resp.
536d-e; Aristotele, Pol. 1336a (attività ginnico-ricreative sotto la guida di mae-
stri); Galeno: “Aegrotum nullus cursibus et luctationibus curaverit, nam his
aliisque similibus exercitationum genus commune est, discorum telorumque
jactus, item saltus, halteras, armatorum certamina” o i lavori agricoli (In Hipp.
epid. l. VI, comm. III, XVIIB II, 8). Alberti prevedeva degli spazi in cui i paggi
potessero “esercitarsi al salto, al giuoco della palla, al lancio del disco, alla lot-
ta” (V III [p. 344]); così Vittorino da Feltre, a detta di Francesco da Castiglione
(La vita di Vittorino da Feltre, in: Garin 1958, p. 545): “diceva che meglio del fuo-
co riscalda l’esercizio fisico. Faceva esercitare quotidianamente, per lo più sot-
to la sua guida, anche i ragazzi che veniva educando, a giuochi vari, come la
palla, la corsa, il salto, il disco, la lotta… Diceva che questo non solo giova mol-
294 LA CITTÀ DEL SOLE

tissimo all’esercizio del corpo e alla salute, ma anche ad aguzzare la mente”;


More, 88; Doni, p. 75; Patrizi, p. 109; Botero: “Si accrescono poi le forze con
l’esercizio, e l’esercizio deve esser tale che svegli e desti tutte le membra, quale
è il giuoco della palla, commendato singolarmente da Galeno… Appartiene
anche a questo effetto l’assuefarsi a diverse cose contrarie: al freddo e al caldo”
(Ragion, p. 119).

26.23: nudos… caput


Oecon. IV I, p. 203 e Medicina, p. 64: fino a cinque anni, a capo e piedi nudi. Pla-
tone, Leg. 633c (educazione paramilitare); Aristotele, Pol. 1336a 15 (“giova abi-
tuarli fin da piccoli al freddo… e per la salute e per imprese di guerra”); Dio-
gene, VI, 31; Vittorino da Feltre e Botero (v. n. prec.).

26.24-7: Conducunt… perpendant.


Flamigni (p. 186-7) attribuisce all’enciclopedia murale, che accelera e diversi-
fica l’istruzione, la precocità della vocazione; in realtà i pedagoghi non fanno
che assecondare una scelta (se di scelta si può parlare) che è “naturale”, cioè
iscritta nel patrimonio genetico-astrologico (v. 48.9 e 74.30). Nel Syntagma
esorta a “consultare con diligenza i pittori, i tintori, i fabbri, gli orefici, i cerca-
tori d’oro, i contadini, i soldati, i bombardieri, i tessitori, i distillatori e altri ar-
tigiani”, perché nelle loro botteghe si ritrova “una filosofia più reale e vera che
nelle scuole dei filosofi” (II V; v. n. 30.26-31).

26.28: terminis mathematicis


Il sostantivo ‘terminus’, che significa ‘limite’ (così a 66.26 e 126.5), assume il si-
gnificato nuovo e corrente di ‘parola’.
L’importanza della matematica nell’istruzione (su cui insisteva Platone: Resp.
522c e sg; Leg. 747b, 817e), evincibile dalle successive replicazioni testuali
(26.36 e 28.33), non dipende dalla sua funzione strumentale “di regolare le
operazioni tecniche dell’uomo”, perché ciò la rende sussidiaria “ad ogni arte”,
ma priva di “carattere teoretico”.182 L’ambiguità (o ambivalenza) dello statuto
della matematica che traspare in CS è d’altro tipo: da un lato, per ragioni Scrit-
turali,183 si esaltano i numeri in quanto “ragione di Dio seminata nel mondo”
(Mon. Sp. III, p. 16); dall’altro s’irride Tolomeo e Copernico che si gingillano
con “numeros motuum” degli astri, che sono finzioni, anziché badare “ipsis re-
bus numeratis mensisque” (114.20-116.1), svalutando così di fatto l’epistemo-
logicità della matematica (v. n. 30.31-3 e n. 114.20-116.3).
La scuola pitagorica, a quanto narra Gellio, I, 9, era impostata sullo stesso iter
curricolare: dopo aver studiato le matematiche, “predisposti con questa prepa-

182
Così Amerio commenta un passo di Disc. univ. IX, in cui si dice che “la matematica in com-
mune è necessaria” (p. 1133).
183
Come ricorda lo stesso Ospitaliero, il mondo è stato creato “in numero, pondere et men-
sura” (148.8), pur senza scadere in cabale superstiziose (148.23-31).
COMMENTO AL TESTO 295

razione scientifica, procedevano allo studio delle opere della natura e dell’ori-
gine del mondo”. E la scelta della soglia dei sette anni deriva appunto dal fatto
che a quell’età “ratio, qua rationales dicimur, ex praenotionibus [= le cognizio-
ni innate] primo septenario compleri dicitur” ([Pseudo-]Galeno, De hist. phil.
XIX XXIV, p. 304).

26.33-5: dum alii… navant.


Quel che qui (e a 32.24-5) è avvicendamento obbligato, diventa a 90.7-13 for-
micolio operoso e ordinato (v. n. 90.9-13).

28.3-14: Et in campos… malefici.


Due costanti della requisitoria campan. qui interconnesse: capovolgimento dei
valori di nobiltà (parassitismo/abilità manuali e intellettuali) fra i due Stati an-
tipodici (84.5-7, 130.3-6), e conseguenze perverse che la ‘nobilitazione’ dell’o-
zio comporta (il concetto è ripreso pari pari a 54.34sg, con il caso esemplare di
Napoli); e viceversa esaltazione di tutte le attività, anche ludiche, purché non
sedentarie (eloquente 32.18: l’unico ozio che i Solari si concedono è quello
che li rende più sapienti).
Contro l’ozio esiste naturalmente un nutrito coro di invettive, che, limitata-
mente alle società ideali, vede allineati Platone, Leg. 643b-d; More, 88 (e Budé,
che nella lettera premessa a p. 82 tuona contro i ricchi oziosi e inetti); Doni, p.
11; Agostini, Rep., p. 201 (non vogliono oziosi in qualunque ceto) e Agostini, p.
164 (l’ozio è “cagione della povertà [= impoverimento] dei ricchi e della men-
dicità dei poveri”). Ma in queste righe si legge anche un’avversione più specifi-
ca all’emergente ideologia del rentier, che esaltava lo status di nullafacente,
quale sinonimo di nobiltà/proprietà (= rendita): da More, 59 a quell’inno alla
tecnica (e alla scienza) che è il Saggiatore di Galilei si levava una corale condan-
na del parassitismo.184 Una seconda e consequenziale piaga è la turba di servi,
la cui numerosità si traduce in ulteriore ozio e pervertimento di costumi: v.
54.34 e 80.1 (e spesso lo ribadisce altrove: ad es. Mon. Sp.1, p. 48: “Deve il Re,
per snervar l’inequità, far che i suoi baroni non tenghino molti servi, perché
questi per l’ozio si effeminano, e diventan superbi, adulteri, adulatori e ruffia-
ni, onde s’erige un seminario di malvagi che infettano il seme umano”).

28.20: Concilio
Salvo i quattro Principi, la cui carica è vitalizia (30.8-9, 96.22-9), la permanenza
in tutte le altre magistrature è soggetta alla volontà popolare. Esistono vari or-
gani e gradi assembleari nella Città: vi è un Gran Consiglio, organo plebiscita-
rio (per accedervi basta avere almeno vent’anni [68.3; 94.35: “omnes”; mentre
T.68.1 è inequivoco: “tutto il popolo di 20 anni in su, e le donne ancora”]),

184
“Pidocchi ed escrementi dello stato”: così più spregiativamente C. definisce questi “uomi-
ni falsamente chiamati nobili” in Moralis III II, p. 22, Politica IV, 15-6, Disc. univ. XIV e Quaest.
oec. III I, p. 182, dov’è ripreso quasi alla lettera.
296 LA CITTÀ DEL SOLE

convocato bisettimanalmente (94.32-3), e in cui sono invitati anche i forestieri


(80.15): è questo il Consiglio di cui qui (28.20) si parla per il vaglio delle can-
didature a magistrato (di arti [12.37] o virtù [24.24]) proposte dal quadrumvi-
rato e dai maestri; tali nomine sono poi sottoposte ad altri due giudizi di ratifi-
ca, emessi da due Consigli ristretti: quello delle tredici magistrature superiori
(T.96.8 includeva un livello gerarchico ulteriore, per cui ammontavano a qua-
ranta) e dei principali caposquadra, che si riunisce settimanalmente (96.1-2); e
quello ristrettissimo dei soli Quadrumviri, che invece si riunisce quotidiana-
mente (96.15). Altra decisione che spetta a questo Gran Consiglio è la dichia-
razione di guerra (66.14). Viene infine menzionato fugacemente un Consiglio
riservato alle matrone, il Consiglio della generazione, da cui sono escluse le
donne sterili (o ‘comuni’: 46.17). Questo meccanismo elettorale o è contrad-
dittorio, come sostiene Bobbio;185 oppure è solo farraginoso: nessuno può au-
tocandidarsi (28.21-2), e a segnalare i soggetti eleggibili possono essere solo i
loro ‘superiori’, ovvero i “quattro capi supremi insieme coi maestri delle arti”, i
quali costituiscono appunto il ‘Consiglio minore’. In pratica: il Consiglio ri-
stretto presenta dei candidati magistrati al Consiglio grande, il quale, vagliatili,
li ripropone al Consiglio ristretto, che li elegge e infine il Consiglio ristrettissi-
mo dei Quadrumviri ratifica quelle nomine. La macchinosità del dispositivo
elettorale rispecchia da un lato la debolezza degli istituti assembleari, e dall’al-
tro una struttura gerarchica molto autoritaria, per cui in fin dei conti l’assem-
blea popolare ha normalmente una mera funzione consultiva, mentre le leve
decisionali sono nelle mani di un’oligarchia ristrettissima, per non dire mono-
cratica, com’è spesso ribadito (10.22-3, 20.1-6, 100.20).
Con alcune varianti procedurali e di durata in carica, un meccanismo analogo
C. lo ritrovava in Platone, Leg. 950d e More, 86-7, che pure vietava le autocan-
didature: “chi briga per una qualsiasi carica viene escluso da tutte” (p. 187).
‘Governo misto’, quello della Città del Sole, come sottolineavano già Bobbio,
Diez, p. 318 (paragonandolo al regime veneziano) e De Mattei 1984, pp. 118 e
158 (attribuendo questa scelta alla fortuna che godeva all’epoca tale formula
politica – un nome per tutti: Roberto Bellarmino); ma in effetti il suo modello
di governo misto non è Venezia, semmai è la Roma dei papi erede della Geru-
salemme di Mosè, con il papato monocratico affiancato da un ‘Concilium’ car-
dinalizio (tutte cariche vitalizie), rispecchiante la gerarchia celeste.186 “Mosè
infatti comandava come re e sacerdote, gli altri giudici e i sommi sacerdoti par-
tecipavano alla sovranità, ma tuttavia l’ultimo appello si riferiva a Mosè [v.
10.22-3]. Inoltre partecipava al governo il senato, chiamato sinedrio di settanta
uomini eletti da tutto il popolo”, che però “non accedeva alle cariche e nem-

185
“Una prima volta l’elezione degli ufficiali è fatta dai quattro capi supremi insieme coi mae-
stri delle arti, e i nomi prescelti sono proposti in Consiglio grande; una seconda volta invece
è fatta dal Consiglio minore, il quale ratifica i nomi proposti dal Consiglio grande” (p. 48).
186
Disc. univ. XXII (p. 1159): “nella Chiesa il Papa rappresenta Dio, di cui è luogotenente; li
cardinali son l’angioli assistenti in tre gradi di Serafini, Cherubini e Troni”; Afor., 16; Theol. X
(III, p. 31).
COMMENTO AL TESTO 297

meno eleggeva [v. 96.21-9]… Questa costituzione politica degli Ebrei è l’esem-
plare di tutte le altre, affinché servano soltanto a Dio e non ci sia alcun uomo
padrone di altri uomini e tutte le faccende siano deferite dai laici ai sacerdoti”
(Theol. XVII, p. 213-5; v. n. 10.18-9 e n. 10.19).

28.24-30.5: Attamen… oportet.


Questo ritratto ideale del Principe campan. (che integra quello di 10.20-3, e si
proietta, in scala, ai livelli inferiori: 32.26-39; 84.4-7) si approssima molto al-
l’autoritratto: “nec erat in mundo quod alius inter veteres et recentiores tam
philosophos quam legislatores, poetas, cosmographos, medicos, astrologos,
caeterosque occultarum et notarum scientiarum professores nosset, quod ego
non studuerim mihi remanere non ignotum” (Quod rem., 2, 1 [p. 1196]). ‘Non
è re chi ha regno, ma chi sa reggere’ s’intitola il sonetto 17, che recita ai vv. 6-
8: “Re non è dunque chi ha gran regno e parte, / ma chi tutto è Giesù, Pallade
e Marte, / benché sia schiavo o figlio di bastaso [= facchino]”; così autocom-
mentato: non è “re chi regna, ma chi sa, può e vuole regnar bene. Pallade e
Marte sono la virtù militare e la prudenza umana: Giesù è la virtù e sapienza di-
vina. E chi di queste è vòto, non è re”.
Se per le bestie il “fundamentum iuris dominandi” è la forza, tra gli uomini è la
“sapienza”, e poi vengono la possanza e l’amore (Mon. Messiae I, 7). Il modello
di formazione del sovrano ideale è quello del legislatore, come lo tracciano
Aforismi, Politica (III, 11, cit. a n. 84.5; VI, 2: “colui che dovrà dare leggi a molti
uomini… deve conoscere le attività e i compiti di tutti loro… Deve anche co-
noscere bene le tradizioni dei luoghi et temperamenta ex coelo et terra, e an-
che gli eventi favorevoli e sfavorevoli che ivi sono soliti accadere, come inonda-
zioni, incendi…”; XI, 2) e Theol. I (I, p. 9) e XVII: “il legislatore deve essere
non solo buon cittadino ma anche uomo buono e oltre a ciò ottimo metafisico,
deve conoscere e indirizzare ai loro fini tutte le scienze e le arti, tanto specula-
tive quanto meccaniche” (p. 159). Non solo architetto (v. n. 98.1), dunque,
coordinatore di saperi – colui che oltre alle singole specialità, ha la visione uni-
taria e globale dell’edificio della cultura (e della Natura) –, quel mago di Hoh
è un Metafisico di nome e di fatto, anche perché domina il fior fiore della sa-
pienza mondana: “Magia enim flos est omnium scientiarum. Nec qui totas non
calet, ad tanta remedia aptus est: qui callet per se invenire poterit quampluri-
ma quae nec scripta sunt, et ego novi” (Astrol. VII, p. 21); dove affiora la radice
ermetica (v. Yates 1981, p. 27 citata in n. 10.19), già presente nel Picatrix, che
celebra come sapiente “colui che, nell’occulto, scorge, oltre la diversità, la cor-
rispondenza e l’unità… Per converso chi non è sapiente e mago, non è uomo
se non di nome” (Garin 1976, p. 56).187

187
Non c’è poi da stupirsi, se questo ritratto sembra lo specchio del diavolo, almeno a senti-
re il De sortilegiis di Paolo Grillando: “conosce la virtù delle erbe, delle pietre, dei metalli; le
proprietà di ogni animale, i segni e gli influssi celesti, i veleni che uccidono e quelli che risa-
nano, ed è proprio perché sa ogni più riposto segreto della natura che i teologi lo chiamano
filosofo, teologo, architetto, matematico, dialettico, fisico, grammatico, musico e medico ec-
298 LA CITTÀ DEL SOLE

Il tirocinio dei futuri intellettuali al potere è appositamente tracciato da: Plato-


ne, Resp. 375e, 485d, 502a sg (cursus per il guardiano-filosofo); Epinom. 966a
(in partic. deve conoscere teologia e astronomia); Aristotele, Pol. V, 9; Giambli-
co, Protr. 7, 41 ([Theodoreto] superiorità della sapienza); More, 135 e 167 (per
accedere alla ristretta schiera degli uomini di cultura); e infine Della Porta si
occupa, in un capitolo (I II) della Magia, ‘Delle conditioni che si ricercano a
uno che fa professione della sapienza, et della instruttione del sapiente’. Cfr in-
fine De Mattei 1982, p. 269-83 e De Mattei 1984, p. 310; Zucchini, p. 299-300
per i confronti con i sistemi elettivi di Bonifacio e dell’Albergati; ma il più si-
gnificativo, in relazione alla pratica Solare, resta quello ierocratico del Doni.

28.34: astrologicas.
Ribadito a 30.4: se non bastasse l’entusiasmo dell’Au. per questa scienza, non
solo Diodoro racconta che nell’Isola del Sole “si dà opera molta alle scienze
tutte e all’Astrologia sopra tutte l’altre” (II XIII [I, p. 121]), ma anche Niccolò
de’ Conti (v. n. 64.16) riferisce che “per tutta l’India è una setta di filosofi chia-
mati Bramini, dediti all’arte dell’astrologia, la quale studiano molto per saper
predire le cose future” (Ramusio, II, p. 791). Invece gli Utopiani sono ottimi
astronomi, ma disprezzano l’astrologia (More, 138).

28.38: radices et fundamenta


Della Porta, Magia IV XXV, 162v: “dicono che questa [= l’intagliare nelle pietre
talismaniche figure zodiacali] è la radice e fundamento del tutto” (“radix” in
un contesto astrologico a 44.4-5: v. n. 44.2-6).

28.41-3: Necessitatem… et Dei,


Necessità, Fato e Armonia “sono i canali attraverso i quali si esplicano e realiz-
zano nel mondo i disegni della provvidenza divina” (Ernst 2002, p. 44). Pren-
diamo dalle sue opere alcuni esempi di come agiscono praticamente queste in-
fluenze magne:188

cellentissimo” (Ernst, p. 190); naturalmente C. avrebbe rifiutato questo accostamento, prefe-


rendogli il modello dell’uomo ‘innocente’, Adamo prima della Caduta: “l’uomo signoreg-
giava… le pietre, le piante, il cielo, la terra, gli animali… dotato di scienza perfetta, conosce-
va l’essenza e il senso e le propensioni delle varie cose e, applicando le loro proprietà attive,
poteva produrre effetti prodigiosi. Così sarebbe stato potentissimo mediante una magia na-
turale” (Theol. IV [II, p. 161]; per la magia anche v. n. 10.35-6, n. 146.7-20; per il nesso sape-
re/potere v. n. 84.5).
188
Svariati accenni sono sparsi sia nell’opera in versi (Poesie, in partic. le Canzoni 23-5, 28 e
81) che in prosa (ad es.: Schoppe, p. 25; Theol. I [I, p. 67]; Quaest. phys. XIX II, p. 176), adden-
sandosi in Epilogo, p. 209, Metaph. II, il cui IX libro è dedicato alle tre ‘influenze magne’ (“in-
vero la pioggia si verifica di necessità, perché necessariamente il Sole solleva in alto i vapori i
quali, condensandosi, si trasformano in pioggia… Ciò si verifica attraverso un fato, col con-
corso della terra, che emette vapori, e dell’azione del Sole, e della condensazione per la di-
sposizione del Sole e del tempo; e infine ciò si conclude nell’armonia, perché la terra viene
rigenerata con la pioggia, germina le erbe e nutre gli animali” [II, p. 311-3]), e ai loro omo-
COMMENTO AL TESTO 299

– Necessità: l’influsso della Potenza è chiamato Necessità, che è “l’impossibi-


lità per l’ente di essere diversamente” (Metaph. II IX, II [I, p. 177]); per il lo-
ro bene “è necessario che le cose avvengano come Dio ha voluto che avve-
nissero” (Metaph. VI VI, III [II, p. 75]): ad es., “benché la Necessità abbia co-
stretto la terra al centro del cielo e l’abbia condensata e dotata di stasi, tutta-
via ciò giova alla sua conservazione come in base ad un patto; allo stesso mo-
do la Necessità ha pure fatto sì che il cielo fosse separato da essa e raccolto
in globi stellari per combattere la terra; tuttavia essa ha fatto questo per il
meglio del cielo, affinché esso non fosse superato dalla compatta terra, e per
il meglio dei secondi enti, affinché non venisse impedita la loro nascita, qua-
lora la terra venisse dappertutto bruciata” (Metaph. VII I, VII [II, p. 259]).
– Fato: “differisce dalla necessità, che si trova nelle cose semplici e prese indi-
vidualmente, in quanto il fato si trova nel concorso di molte cose e appartie-
ne alla sapienza che ordina” (Metaph. IX IV, I [II, p. 329]); per Fato s’intende
dunque il nesso e il concorso di più cause, agenti e pazienti insieme, ordina-
te in virtù della Prima causa: cioè è il piano della Volontà divina.189 A
134.20sg è esemplificato come, dal punto di vista di Dio, tutto ciò che sem-
bra arbitrio e contrasto si rivela un disegno armonioso, coinvolgendo la no-
dale questione del libero arbitrio: il Sole e la Terra vogliono distruggersi a vi-
cenda, ma da questo contrasto nascono gli enti (la Provvidenza, ovvero il fa-
to disvelato, si riconosce facilmente “nella fabrica mirabile dell’universo,
che agli contrari elementi, tutti cercanti solo la propria amplificazione e
non l’ordine e la produzione varia degli enti secondi, non si può attribuire”
[Antiven., p. 8]); l’uomo va nelle Americhe per arricchirsi, assecondando li-
beramente la sua cupidigia, cioè una causa particolare, la quale, nel supe-
riore, complesso progetto divino, non è altro che un mezzo, un vettore del-
la diffusione del Vangelo (v. n. 104 [glossa] § 4, punto 2).
– Armonia: “è consonanza di molte cose ad un bene piacevole; noi abbiamo
tratto tale termine dalla musica, in cui in un solo strumento più corde va-
rie… producono una soave melodia per diletto dell’anima… Ogni agente
agisce per un fine, e conseguito il fine l’azione cessa, e l’agente si acquieta
nel bene del fine, come la pietra tende al basso, perché viene conservata vi-
cino a un corpo affine, e quando si trova nel proprio affine si acquieta” (Me-

loghi difettivi (e non contrari!): “contingenza, caso e fortuna (o disarmonia). Ciò infatti che
è debole e impedibile, si chiama contingente, e deriva dall’impotenza… Ciò che si trova al di
fuori dell’ordine della sapienza, si chiama casuale: se infatti viene previsto, è sapienziale e fa-
tale, perché il fato è latinamente ciò che viene espresso e ordinato nella parola… Ciò che è
fuori dell’amore si chiama fortuito: quando infatti, volendo noi una cosa, capitiamo in un’al-
tra, buona o cattiva, abbiamo fortuna o infortunio… E la fortuna deriva dal nonessere della
volontà, il caso dall’ignoranza e la contingenza dall’impotenza” (Theol. I [II, p. 195]).
189
Mon. Sp., p. 4; Senso, p. 235; Theol. I (I, p. 241); Antiven., pp. 7 e 126: “il fato è la stessa vo-
lontà di Dio, eseguita dalle cause tutte insieme, che, da noi ignorata, si dice fato e fortuna e,
conosciuta, si dice provvidenza”; Metaph. VI VI, III (II, p. 75); Mon. Messiae I, 6: “Fatum, hoc est
divinus ordo”.
300 LA CITTÀ DEL SOLE

taph. IX VIII, I [II, p. 351]): “L’armonia e la Provvidenza divina fanno sì che


la ricerca di una migliore condizione, che si accompagna al movimento, ab-
bia fine in Dio (e abbia per fine Dio)” (Accietto-Gualtieri, p. 31).
La pervasività e fondatività di questo ‘pattern’ trinitario per tutto il creato è ta-
le che un sapiente come Hoh non può non conoscerlo, e d’altronde solo una
mente superiore, come deve esser la sua, può indagarlo: “Qui non agnoscit Fa-
tum, Harmoniam et Necessitatem, influxus primae causae Sapientiae, primi
Amoris et primae Potentiae, non poterit perfectam naturalium reddere ratio-
nem, semper per ambages ambulabit; nec nisi Deo duce ista perquirendo
agnovi” (Quaest. phys. XXXVIII IV, p. 393; e questo discorso si congiunge otti-
malmente a Quod rem. 3): “Sine hac illuminatione de Deo perfecte agnito om-
nes scientiae imperfectae fuerunt. Et ego admiratus sum mysterii altitudinem
et veritatem, et ex hoc mysterio scientias instauravi. Et cum legeritis nostram
Metaphysicam et Physiologiam et Medicinam et Politicam et Ethicam et alias
scientias, tam mire coruscantes ex hac declaratione, obstupescentes clamabitis
vere, in cuius effectibus, imaginibus et vestigiis panditur Deus trinus et unus”:
per la Metafisica v. 126.17 (e Metaph. I; V); per la Fisica sono in causa tutte le
scienze, dalla matematica (Mathem. I I, p. 31) alla medicina (“inveni in Anima-
li triplicia organa videlicet Potestativi, Cognoscitivi et Volitivi, et admiratus sum
quomodo illud difficillimum Monotriadis arcanum sit omnium scientiarum il-
luminatio”: Quaest. phys. XXXVIII [ma XXXIX], p. 402); dalla Poetica (Poët. VI II:
“al poeta, secondo le tre primalità metafisiche, sono necessarie tre cose: poten-
za, sapienza e amore”) alla Politica: nei principati regnava Potenza che si è tra-
sformata in tirannide; seguì Sapienza, che si è adulterata in sofistica; e allora
“ricorsero ad Amore, che era il migliore e lo provvedettero di Potenza [= l’e-
sercito] e di Sapienza [= la legge]” (Mon. Messiae I, p. 8); “Tre dunque i fonda-
menti del comando: la potenza, la sapienza e l’amore, che divisi non governa-
no bene” (Politica III, 4).
Per la pervasività dello schema trinitario, la fonte teologica prioritaria è agosti-
niana, come bastano a provare i titoli dei paragr. di CD 11, 2-6: ‘La Trinità divi-
na, che ha sparso indizi che la manifestano in tutte le Sue opere’; ‘L’immagine
della somma Trinità, che in qualche modo si trova nella natura dell’uomo…’:
“ecco che tutta la Trinità ci viene accennata nelle Sue opere. Di lì proviene la
nascita, la forma e la felicità della Città santa…”.190 Invece per le influenze ma-
gne sono marcate le consonanze col pitagorismo (Diogene, VIII, 33 e 85: per
Pitagora “l’universo è costituito secondo armonia”; per il discepolo Filolao:
“tutto avviene per necessità e armonia”) e con il neoplatonismo (Giamblico,
Misteri, pp. 269 e 290 [VIII VII e X V]: ‘De fatali vinculo quod necessitas appel-
latur…’; e tutto “vinculis necessitatis et fati tenetur”). Naturalmente li avversa-
no Damasceno (Orth. fidei II, 231IK ‘Actiones humanae non causari ex necessi-

190
P. 479; e Carena, citando Gilson: “Se vi sono delle vestigia di Dio nella natura, devono te-
stimoniare la sua trinità non meno della sua unità” (p. 1301), stabilendo così varie analogie
trinitarie fra il mondo e il suo Autore.
COMMENTO AL TESTO 301

tate, fato, fortuna aut caso’) e Agostino (CD 5, 10 contro la necessità; 5, 8, 197
sul fato = “il nesso e la successione casuale che provoca ogni avvenimento”),
perché vi leggevano un’interferenza con la Provvidenza divina da un lato e con
la libertà morale dall’altro (analogamente Pico, I, p. 447-9, che si richiama pro-
prio ad Agostino).
Fonti di strutture triadiche universalizzanti (per la Trinità v. n. 126.17-8):
• scritti ermetici: Pupilla, 4 (p. 39) sulle tre funzioni dell’anima: Volere, Ama-
re, Potere; Poimandres: tre gradi di ricerca di Dio; e principalmente nella pre-
faz. al Pimander (che C. conosceva: Yates 1981, p. 408), Ficino associa insie-
me, come i “due libri divini” di Ermete Trismegisto, il libro Sulla potestà e la
sapienza di Dio (cioè i quattordici trattati del Pimander) e il libro Sulla volontà
divina (= Asclepius – Yates 1981, p. 33);
• scritti pitagorici, “di cui sopravvivono solo frammenti” (Syntagma IV V): nei
Triagmi di Ione di Chio (dal titolo già eloquente): “Principio del mio discor-
so: tutto è tre, e nulla è più o meno di questo tre. Condizione perfetta di cia-
scun essere è una triade: intelligenza, forza e fortuna” (in: Pitagorici II, p.
11); e così Giovanni Lidio, che cita Ocello: “‘La triade per prima stabilì prin-
cipio, mezzo e fine’” (ib., II, p. 399; cfr Aristotele, De coelo A1, 268a 10; e Pla-
tone, Leg. 715 E, e nelle Defin. vi è “Amore” [412], “Sapienza” [414] e “Pos-
sanza” [416]); Ficino, II, p. 1323 (In Convivium): “Trinitatem Pythagorici
philosophi rerum omnium mensuram esse voluerunt, ob eam arbitror ratio-
nem quod Deus ternario numero res gubernat, atque res ipsae ternario nu-
mero terminantur”;
• tre absoluta (degli 8 totali) centrali e adiacenti nella tavola dell’Ars di Lullo
sono ‘Potestas’, ‘Sapientia’, ‘Voluntas’: ‘De Deo per potestatem deducto’,
‘De Deo per sapientiam deducto’, ‘De Deo per voluntatem deducto’ (pars
IX, f. 48v);
• naturalismo: mentre Telesio riserva quel trinomio solo a Dio,191 lo Stilese,
coniato il termine ‘primalità’,192 ne fa una chiave per decifrare il mondo:
dalla Monotriade “sono andato specolando in tutte le scienze verità mirabi-
li. Non c’è infatti cosa alcuna che non le renda testimonianza” (Quod rem. II
I [p. 1199]).

30.3: quantum… licet,


I limiti dell’umana sapienza sono tracciati in Metaph. I I, I, il cui secondo arti-
colo s’intitola: ‘Quod neque minimam partem rerum, quam putamus scire
sciamus’, cui rinvia l’Esp. del Madr. 3 della ‘Canzone terza’: “La fabbrica del
mondo e di sue parti / e delle particelle e parti loro; / le varie operazioni, /

191
Ad es. in IV, 29 (II, p. 197): “il mondo non è stato costruito a caso, ma da Dio sapientissi-
mo, potentissimo e ottimo [=longe eo sapientissimo longeque potentissimo et longe opti-
mo]” – stessa formula usata da C. qui a 128.18-9, ma anche in Theol. I (I, p. 14).
192
Metaph. I IX, XIV; Gramm. I I, II; Theol. I (I, p. 249): “quando dunque ricerchiamo l’ente per-
fetto, intendiamo l’ente integrato da queste che gli Scolastici chiamano perfezioni e io pri-
malità, perché essenziano le cose piuttosto che perfezionarle”.
302 LA CITTÀ DEL SOLE

che han tutte nazïoni / degli enti nostri e del celeste coro; / vari riti, costumi
vite ed arti / de’ passati e presenti, degli astri e delle piante, de’ sassi e delle fie-
re; / tempi, virtuti, luoghi e forme tante; / le guerre e le cagion de gli elemen-
ti / noti chi vuol sapere, / ch’e’ nulla sappia, e non con finti accenti”; Esp.: “da
questo [madrigale] conosce che più cose assai gli restano a sapere, e che que-
ste neanche sa, perché vede tanta la sua ignoranza d’esse, per la varietà e pic-
cola penetrazione in loro, che s’accorge poi bene non veramente sapere. E
questo è ‘l sapere al quale può arrivare l’uomo perfettissimo, secondo la Meta-
fisica dell’autore”: non a caso il significato del nome ‘Hoh’ è Metafisico (v. n.
98.1-2).193

30.6: trigesimum quintum annum


Platone, Resp. 540: i prescelti tra i guardiani di almeno cinquant’anni governe-
ranno a turno; Leg. 709: un principe “giovane”. Firpo ricorda che quando scri-
veva Città C. aveva trentaquattro anni; ma bisogna anche tener conto che, in
base alla scansione campan. delle età della vita e loro corrispondenza con i pia-
neti (v. n. 36.3-4), l’età adulta (22-41 anni), “allorquando l’uomo si perfeziona
e apprende la ragione delle primalità e desidera gli onori, le amicizie, le ric-
chezze e il potere”, è governata dal Sole (Compendio LII, 14; Astrol., p. 194). Per
quanto poi segue subito dopo, Ernst 1997a (p. 14) menziona un passo dei Pa-
radossi di Ortensio Lando (Venezia 1544, 29v), dove si parla di “una vecchia
usanza dell’isola Traprobrane [sic]” secondo la quale veniva eletto principe “il
più valoroso e più studioso”, che però il popolo faceva deporre, se deviava “dal
diritto camino”.

30 (glossa): Num sapientes sint apti regno


È una domanda retorica per un domenicano,194 “quoniam sapientiae pro-
prium est regnare – omnis / enim artifex Rex in sua arte esse probatur, in / no-
stris Politicis” (Ludov. 77, 5 [142v] – e qui accennato a 84.4-7); è solo al sapiente
che spetta il comando, e se il Sapere senza Potere è imbelle, il Potere senza Sa-
pere è facile preda di sofisti ed eresiarchi (Mon. Sp.1, p. 33; Poesie: sonetti 17 e
32), “perché è più certa la rovina quando gli dappoco et ignoranti si sublimano
nel governo e gradi” (Afor. n° 129; Politica III, 1). La questione cela risvolti au-
tobiografici: proprio nei primi anni di carcerazione napoletana ‘certi amici uf-
ficiali e baroni, per troppo sapere, o di poco governo o di fellonia l’inculpava-
no’ – in pratica accusavano la sua troppa sapienza di aver fatto fallire la con-
giura –; ad essi risponde con due sonetti (63 e 64), e rinviando a Metaph. VI IX,
III. Ma, a rigore, solo “i più santi e i più prudenti sarebbero i più adatti alle fun-

193
Cfr G. Ernst, ‘La fabbrica del mondo e di sue parti’: senso delle cose e armonia del tutto nella filoso-
fia della natura di C., in: L’interpretazione nei secoli XVI e XVII, a c. di G. Canziani e Y.-C. Zarka,
Milano, Angeli, 1993 (p. 247-69).
194
“Coloro che sono provvisti di una conoscenza più perfetta sono incaricati di ordinare gli
altri esseri” (Tommaso, 3SCG, p. 77).
COMMENTO AL TESTO 303

zioni di governo rispetto ai più dotti [= literatis]”; poiché però l’ipocrisia na-
sconde i reali meriti, e appare buono chi è malvagio, è meglio far appello alla
“dottrina [= literatura]”, la quale non si può simulare “e non può andar del tut-
to scompagnata dalla virtù” (Quod rem. 4, 2 [p. 1240]).
A confortarlo che il culto del vero e del bello non indebolisce l’azione pratica
(anzi: Minerva nasce armata), Platone, Resp. 349c-350c, 409d, 473d, 487b, 490c
(nell’impossibilità di fare saggio l’uomo politico, occorre far politico il saggio,
cioè il filosofo); Diogene, VII, p. 122-3; Palladio, II, 3 (“il filosofo non è domi-
nato ma domina, nessun uomo ha potere su di lui”); tra le sentenze e proverbi
di Platone, “ad un principe non esser altrimenti la sapienza necessaria che l’a-
nima al corpo: beatissime quelle republiche dovere essere nelle quali overo li
filosofi siano signori, o almeno quelli che governano, per una divina sorte, alla
filosofia attendano; perché niente diceva più pestifero essere che la potestà e la
audacia da una ignoranza accompagnata” (Ficino, Epist. IV, p. 259). Infine la
platonica connessione bontà/sapienza era stata ripresa anche da Telesio, IX, 6:
“Come tutti gli antichi hanno ritenuto, solo colui che è sapiente può sembrare
buono e fornito di tutte le virtù; anzi la sapienza procura allo spirito non solo il
bene supremo, ma lo rende simile agli enti divini” (III, p. 365).

30.16-41: nos… quam vos… insuper vos non lateat… Nos quoque non latet:
Vi sono due modelli selettivi fondati in ultima analisi su due modelli pedagogi-
ci antitetici: quello occidentale che si basa sui morti libri (da rifuggire: “fuggi-
te, amici, le seconde scuole”, cioè “quelle, che non da Dio nella natura impara-
no, ma da’ libri degli uomini, parlanti come opinanti di proprio capriccio”
[‘Proemio’ delle Poesie, 10 e Esp.]), e quello Solare, che si basa sul Libro della
Natura, o suoi immediati sostituti (le pitture o i reperti distribuiti sulle mura: v.
n. 12 [glossa] e n. 30.31-3).
Questa opposizione frontale ‘Voi/Noi’, fra realtà Occidentale negativa e ‘alte-
rità’ positiva, si ritrova a partire almeno dallo pseudo-Ambrogio (PL XVII,
1145), in cui il bramino Dandami contrappone ripetutamente la corrotta ‘ci-
viltà’ del conquistatore Alessandro Magno con la sanità di costumi del suo po-
polo: “Vos… tam pravis moribus vivitis… Nos autem…”.

30.26-31: ubi putatis… homo iners,


Cfr Diogene, VI, p. 48; More, 137. Con ‘grammatica’ allude alla “civilis”; C. di-
stingue infatti due tipi di grammatica: la civile, appunto, e la “filosofica”: la pri-
ma “è un’abilità, non una scienza, perché si fonda sull’autorità e l’uso di scrit-
tori famosi. A questa si attengono Scioppio, Turnèbe, Lipsio, che si credono sa-
pienti quando conoscono a memoria Cicerone o Virgilio, e le parole e le frasi,
quasi sempre contrarie alla ragion naturale, colte dall’uso dei signori e del vol-
go. Invece la grammatica filosofica si fonda sulla ragione e sa di scienza. Essa è
infatti il metodo dell’intelletto che investiga, e nota quanto ha investigato, e fra
le cose quali si trovano in natura stabilisce rapporti o distinzioni” (Grammatica
I I, p. 438). Con ‘logica aristotelica’ allude eminentemente alle formule sillogi-
stiche: in Apologia, p. 25, chiarisce che il suo modello di conoscenza non solo
non è il sillogismo, ma neppure l’indagine ‘specialistica’: “E coloro che riten-
304 LA CITTÀ DEL SOLE

gono di sapere perché conoscono Aristotele o un qualche nuovo aspetto del


mondo, libro di Dio, come Galileo… non sono veri sapienti… La sapienza si
legge nell’intero libro di Dio, che è il mondo… tanto che ad esso ci rinviano i
sacri scrittori, non ai libercoli degli uomini” (v. n. 30.41-32.3, per la ‘risposta’
implicita di Galilei).
Ovviamente nel mirino di C. c’era l’a lui più prossima organizzazione della
cultura, che aveva sperimentato personalmente fin dall’adolescenza (“anno
decimo tertio grammaticorum dogmata… perceperam”) e di cui ben presto
aveva intuito i limiti (l’astrattezza) e gli errori (Syntagma I I): dalla giovanile in-
vettiva contro gli aristotelici, “nessuno dei quali ho mai veduto recarsi in cam-
pagna o al monte o al mare per osservare le cose, ma solo badano ai libri”
(Phil. sens., Proemio), alla celebre lettera a mons. Antonio Querenghi195 dell’8
luglio 1607: “nella gioventù mia non ebbi maestri se non di grammatica e dui
anni di logica e fisica di Aristotile, la quale subito rinegai come sofistica; e stu-
diai solo tutte le scienze da per me” (Lettere, p. 133); e in Syntagma prosegue:
“Volli perciò verificare se le cose che loro scrivono nei libri si leggano anche
nel mondo, che dalle dottrine dei sapienti appresi essere il libro vivente di
Dio. E poiché i miei maestri non erano in grado di rispondere alle obiezioni,
che sollevavo contro quanto insegnavano, decisi di leggere io stesso tutti li-
bri… e di confrontarli con il libro del mondo, per appurare, dal raffronto con
l’originale e l’autografo, ciò che è vero e ciò che è falso nelle copie… Il tratta-
to Sull’investigazione lo scrissi [il perduto De investigatione rerum fu composto fra
il 1587 e il ‘90], perché mi sembrava che la filosofia aristotelica e quella plato-
nica conducessero i giovinetti alla conoscenza delle cose per una via larga e
non diretta. Mi proponevo pertanto di fare sì che ognuno potesse ragionare
di qualunque cosa con riferimento agli oggetti sensibili” (I I). Per non parlare
poi della scolastica universitaria, che pur aveva avuto il grande merito di me-
diare grecità e cristianità, ma che ormai da tempo si era ridotta a vuote for-
mule mnemoniche, e così i teologi “si dottorano con quell’ignoranza; e li ma-
stri e li discepoli son pappagalli” (Disc. univ. IX [p. 1136]); “perciò sono ridi-
coli quelli che vogliono venir chiamati filosofi perché hanno imparato a me-
moria e ripetono i concetti e i testi di Aristotele, o di un altro, come se pre-
tendessero di venir chiamati poeti, perché conoscono a memoria l’Eneide”
(Hist. II, p. 1245). Anche per reazione a tale andazzo, C. prediligeva le scienze
pratiche, di concreto aiuto all’uomo: “scientiis vero uti eum oportet voraciori-
bus, non sophisticis; operativisque, non verbosis, qui subtrahi malis cupit”, co-
me agricoltura, pastorizia e medicina (Astrol. VII, 6; v. n. 10.35-6, n. 26.24-7);
ed essenzialmente esaltava Telesio, che alle vacue formulette dell’aristoteli-
smo, opponeva una filosofia che ricominciasse a leggere direttamente nell’in-
finito libro della natura (sonetto 68).

195
Cfr U. Motta, A. Querenghi (1546-1633). Un letterato padovano nella Roma del tardo Rinasci-
mento, Milano, 1997.
COMMENTO AL TESTO 305

30.31-3: quoniam… reddit;


Parafrasi del celebre sonetto 6 ‘Modo di filosofare’: “Il mondo è il libro dove il
Senno Eterno / scrisse i proprii concetti, e vivo tempio / dove, pingendo i ge-
sti e ‘l proprio esempio, / di statue vive ornò l’imo e ‘l superno… Ma noi, stret-
te alme a’ libri e tempii morti, / copiati dal vivo con più errori, / gli antepon-
ghiamo a magistero tale… deh, torniamo, per Dio, all’originale!” (il che, per
inciso, potrebbe giustificare l’autodafé preliminare dei congiurati, che “voleva-
no bruciare tutti i libri”, posto che sia vera la deposizione di Felice Gagliardo o
Gagliardi [Palermo, p. 422]). Gentilismo: “La scrittura divina poi è duplice: una
è la natura, e l’altra è la Bibbia… la filosofia deriva dal primo codice, che è la
natura, e il primo codice non discorda dal secondo… Chi legge l’autografo
può correggere gli esemplari, ed è stolto chi presta fede all’esemplare e non al-
l’autografo” (p. 15-6); Epilogo: “Gli Huomini Santi fanno fede certa quando
parlano come testimonij di Dio, e scienza come testimoni del suo libro, ch’è il
Mondo, che si legge con esperienza nata da molte sensazioni” (p. 184b); Lette-
re: “nunc super aristotelismum a macchiavellismo, qui illi succrevit, insurgemus
et ad libri Dei, qui est mundus ipse, teste Antonio et Brigida, examen omnia
philosophorum dogmata revocemus et ad sacrorum bibliorum veritatem ut par
est examinemus” (p. 150-1); e addirittura la Natura segna il primato sulla Scrit-
tura, se non fosse troppo difficile per noi: “codice migliore è la natura univer-
sale scritta in vive lettere che la Sacra Bibbia scritta in lettere morte, le quali so-
no soltanto segni e non cose, come nel primo codice. Tuttavia per noi, almeno
in ordine alla scienza, migliore è il codice delle divine Scritture, perché più fa-
cile”, e infatti “io riconosco di aver attinto più fisica dalla Bibbia che non dagli
innumerevoli libri filosofici letti e dalle osservazioni intraprese”.196
È la ‘filosofia’ (pedagogia, magia, logica, tassonomia…) che sottende l’enciclo-
pedia visuale delle mura (v. n. 12 [glossa] § 2), e che può esser riassunta dall’e-
spressione ‘clavis universalis’, ovvero “decifrare l’alfabeto del mondo; riuscire a
leggere, nel gran libro della natura, i segni impressi dalla mente divina… met-
tendo l’uomo a contatto non con i segni, ma con le cose” (Rossi 1983, p. 17); le
mirabolanti promesse d’insegnare tutte le scienze in un anno197 si basano sul
principio che “quanto è più noto al senso il simile e quanto più è simile, più
perfetta è la scienza discursiva: onde meglio si conosce la notomia d’un huomo
tagliando un porco che una pianta, et meglio vedendola che leggendola in li-
bri altrui, per somiglianza et notizia maggiore” (Epilogo, p. 466; v. 132.21-7). Ma
la ‘scienza’ cui si perviene è una visione ‘poetica’; come dice Garin 1976, p. 60:

196
Theol. I (I, pp. 23 e 7); Metaph. I; per il ‘simbolo’ del Libro della natura in C. e in Galilei cfr
Garin 1961, p. 451-65; I. Calvino, Perché leggere i classici, Milano, 1991: ‘Il libro della Natura in
Galileo’, p. 102-10; Ernst 1991, p. 254; e per gli antesignani: G. Bezza, Liber Vivus. Anteceden-
ti astrologici della metafora galileiana del libro dell’universo, ‘B&C’, X/2 (2004, p. 481-7).
197
Alle perplessità di Schoppe a tal proposito, l’ottimista filosofo ribatte: “ac te puta in duo-
bus mensibus ex ore meo omnes mirabiliter auditurum, cum tibi mundum aperiam librum
Dei, non metaphysicum meum, quia iste est degenerans transcriptio ex illo” (Lettere, p. 136; v.
n. 33.1 [f.p.]).
306 LA CITTÀ DEL SOLE

“La ‘scienza’ approda a una formula magica, non a una formula matemati-
ca”.198

30.41-32.3: qui unam… inertem esse;


Infatti i Solari, oltre al Sapienza (12.2), che è il catalogo dell’enciclopedia mu-
rale e ‘compendio di tutte le scienze’, hanno anche i trattati specifici delle atti-
vità primarie (agricoltura e pastorizia [82.10 e 34]). Un Re “non deve saper
una sola professione di sciencia” (Mon. Sp.1, p. 33), ma molte, e deve anche in-
centivarle: “Profecto regum esset artes speculativas ac mechanicas excolere
multiplicareque” (Astrol. VII, p. 10).
In questo si misura la distanza fra C. e Galilei: C., ultimo (secondo Amerio) ‘fi-
losofo universale’, che sostiene: “è meglio, come dice Aristotele nel libro I De
anima, avere delle cose grandi poche conoscenze e probabili, che molte e pro-
vate delle cose piccole” (Apologia, p. 20); la pratica pansofica, su cui è model-
lata la primazia di Hoh (v.28.24sg), è orgogliosamente rivendicata anche in
Theol. I (I, p. 9): “io non mi sono applicato a una sola scienza, ma a tutte e che
da ultimo ho tutte riformate secondo le mie proprie meditazioni e le illumi-
nazioni della Sacra Bibbia”; e, di contro, Galilei, che, in una postilla alle Con-
siderazioni, non saprei se rivolta ad Aristotele199 o (come vuole Firpo 1968, p.
16-7) a C. stesso, ribatte: “Io stimo più il trovar un vero, benché di cosa leggie-
ra, che ‘l disputar lungamente delle massime questioni senza conseguir verità
nissuna”. Con il metodo sperimentale, con il linguaggio matematico della na-
tura, è iniziata anche l’era della specializzazione, contro la quale tuona il So-
lare. Invece Amerio 1966, p. 160 ritiene che nella pratica la società solare sia
parcellizzata proprio a partire dai suoi vertici – “tot magistratus quot scien-
tiae” (10.39; 96.30sg) –; in effetti la preparazione enciclopedica delle mura è
preliminare alla successiva specializzazione, e infatti ad es. i Triumviri cono-
scono tutte le arti “historice” e la loro specifica “exquisite” (32.26sg), perché
come dice Amerio stesso ricavandolo da Medicina (p. 63): “non si può passare
da una scienza all’enciclopedia, ma solo inversamente dall’enciclopedia alle
singole scienze” (p. 177).

32.12-9: Qua in re… fiunt.


La velocità di apprendimento dei fanciulli Solari non è un mero postulato uto-
pico: per imparare, ad es., una nuova lingua velocemente attraverso la lettura,
“scrivi una serie di vocaboli noti del tuo idioma, composto di tante parole
quante sono le lettere di quella che vuoi studiare, e fa in modo che le iniziali
delle parole stesse si susseguano secondo l’ordine dell’alfabeto da imparare.
Scrivi poi le parole della tua lingua prima con le lettere che le son proprie, poi

198
Ma si veda ultimamente Hagengruber, p. 78-82, che rivaluta le posizioni di C. rispetto a
Galilei proprio a proposito della presunta certezza della matematica.
199
Anche perché, come nota Lerner 2001, p. 221, l’asserzione su cit. non è di Aristotele, ma
del commento di Tommaso al De anima.
COMMENTO AL TESTO 307

alternativamente con quelle dell’altro alfabeto. Infatti così chiunque imparerà


a leggere bene con sorprendente facilità, in un sol giorno, perché ciò che è no-
to getta luce sull’ignoto” (Gramm. III III, II, p. 703). L’apprendimento delle lin-
gue non è solo vantaggioso individualmente (v. n. 2.14 e n. 12.30), specie per
noi occidentali che “abbiamo trascurato le lingue, perché abbiamo vinto gl’E-
brei, Greci e Latini tutti soggiogandoli al Cristianesimo”; ma anche socialmen-
te: ‘De lingua, gladio et pecunia’ s’intitola il IX cap. di Politica: “Poiché il co-
mando dell’uomo è partecipazione del potere divino, nessuno può fondare e
conservare un impero se non veramente mandato e autorizzato da Dio… Dun-
que la religione che lega gli uomini è causa di comando; strumento poi la sua
lingua, onde gli apostoli fondarono con la sola lingua autorizzata con segni
l’impero ecclesiastico in tutto il mondo, senza spada e senza ricchezza. Dunque
la spada e la ricchezza sono mezzi coadiuvanti ed estrinseci… Per regnare, vale
più la lingua d’altri che la propria, e più le armi proprie che quelle degli altri”
(1-2); il nemico esterno e le spaccature interne devono indurre il Re di Spagna
a “instituire nelle sue città principali lo studio della lingua arabica per armare i
popoli contra Turchi, Mori e Persiani, che di questa lingua si servono a mante-
nere il macomettismo, come noi della latina per il Cristianesimo” (Mon. Sp.
XXVII, p. 300-2).
Già R. Bacone nel Trecento anteponeva lo studio delle lingue agli sterili sofi-
smi della scolastica; e i religiosi telemiti ambosessi “erano così nobilmente alle-
vati, che non v’era nessuno che non sapesse… parlare cinque o sei lingue” (Ra-
belais, Gargantua I, 57). “Il programma formativo di C.… mostra anche atten-
zione ai modi più efficaci di comunicare i saperi, sia all’interno della città che
tra mondi diversi. Per questo motivo lo scrittore dà importanza allo studio del-
le lingue e si professa un pedagogo contrario tanto all’insegnamento mnemo-
nico quanto all’uso di un lessico non aggiornato” (Zoppi Garampi, p. 18).

32.35: stratagematum
L’elenco ritorna, ancora approssimato, a 62.22 e, più dettagliato, a 98.12, dove,
inoltre, anziché la perifrasi, conia un nome specifico (ad es. il ‘magister strata-
gematum’ è lo ‘Stratagemarius’). A proposito di quest’ultima funzione (e cari-
ca), il vocabolo ‘stratagema’ (e il corrispondente italiano: “delle stratagemme”
[T.74.42]) è formalmente ‘spurio’. Forcellini infatti raccomanda di scrivere
‘strategema, -tis’, con il genitivo plurale alla greca ‘-ton’; invece in Civitas, oltre
alla costante grafia ‘strata-’, si ha una coniugazione anomala: delle sei occor-
renze, tre sono genitivi plurali in ‘-tum’ (32.35, 62.25, 84.34), due ablativi plu-
rali in ‘-tis’ (68.26, 74.35), e un accusativo singolare in ‘-ta’ (68.34). Dal punto
di vista contenutistico, Frontino nell’introduzione al suo Strategematon dice che
il complesso di azioni ordinate dal capitano “provide, utiliter, magnifice, con-
stanter” costituiscono il genere delle “strategikà” (compresa la disciplina, la
giustizia ecc.), le cui singole specie, cioè le singole mosse, astuzie, espedienti –
la tattica insomma –, si chiamano “‘strategèmata’”; e Civitas rispecchia fedel-
mente questa accezione, così definita dal DELI (ed. 1988): “accorgimento astu-
to per sorprendere e sopraffare il nemico”; il lemma risale al 1587 (A. Lupici-
308 LA CITTÀ DEL SOLE

ni), mentre la prima attestazione di ‘stratego’ la fornisce il Muratori “avanti il


1750”.
Infine, l’ultima frase del Genovese (32.38) è un’inutile aggiunta dell’ed. Pari-
gina, perché il concetto era già espresso nella frase precedente. In tale frase gli
“istorici naturalisti e umanisti” di T.32.40 è diventata “historicos, politicos et
physicos” in Civitas; per comprendere questo cambiamento, bisogna tener pre-
sente qual è il modello di formazione dei quadri dirigenti elaborato da C. nel-
la sua maturità (che non ha nulla a che vedere con la mitica ‘polimateia’ uma-
nistica, ma è tutta incentrata sulla formazione del ‘politico’): come Mosè parte
dalla fisica (la Creazione) per poi arrivare al Decalogo, così Platone e Varrone
dicono che non si è legislatori se non si fondano i ‘moralia’ sui ‘naturalia’: “nec
politicus bonus erit qui physiologiam et historiam humanam antea non attige-
rit, naturas rerum hominumque et mores et inclinationes praenoscat atque
proinde sciat quibus indigent legibus quibusque tribunalibus” (Lettere, p. 378-9
[1637]).

32 (glossa): Communitas… maribus


I Solari non hanno in comune (20.19-20) solo i mezzi di produzione (beni ma-
teriali) e riproduzione (donne), ma anche i beni spirituali (20.21-3) e volut-
tuari (50.2); e, prima di tutto, vivono una vita comunitaria: finito l’allattamen-
to (46.31) a partire dai due anni, maschi e femmine indifferenziatamente sono
soggetti a casa (34.1), mensa (26.2, 98.25), dormitorio (34.1-2), scuola (26.14,
32.42-3), servizio militare ([60.15], compresa la vigilanza [76.4]) e lavoro (es.:
2.13, 56.9-11, 84.7-8) comuni.

1. Mezzi di produzione
“Boni communio signum est civitatis bene institutae. Boni proprietas signum
est reipublicae male institutae”: il primo è uno stato ‘secondo natura’, il se-
condo ‘violento’. Questo aforisma (Afor., 4 [p. 90]) non si ritrova più nella re-
dazione latina, ma riappare in Politica (I, 5: “Comunità e dominio sono mag-
giormente conformi a natura là dove il bene è comune a tutti; violento, dove
a pochi, o ad uno, o a nessuno. Il che suole accadere soprattutto dove gli uo-
mini assumono incarichi per i quali non sono adatti, e più per il bene di sé
che della comunità”). Ciò dà ancor più rilievo, per la sua carica eversiva, alla
collettivizzazione dei mezzi di produzione praticata dai Solari. Manca, è vero,
come rilevavano già Croce, p. 232 e Bobbio, p. 43, un’analisi socio-economi-
ca, ma – e mi sembra che nessuno l’abbia evidenziato – il nucleo moderno e
progressivo di CS sta tutto in quei due righi (T.56.34-5), che Civitas rende an-
cor più chiari ed efficaci: “rebus non serviunt sed res ipsis” (56.30). I Solari
non servono le cose, ma se ne servono – al contrario dell’occidentale Napoli
(54.38). Ecco la radice della polarizzazione ricco/povero e della conseguen-
te alienazione: esser strumentalizzati, asserviti alle cose, cioè esser schiavi del
possesso materiale. Basta questo rigo a rendere CS una pietra miliare della
storia della civiltà.
Tutto il male deriva dal ‘mio’ e ‘tuo’, perché miopemente si antepone la par-
te al tutto, causando, con la rovina dell’organismo sociale, anche quella del
COMMENTO AL TESTO 309

singolo membro (v. n. 86.1-2). Che poi questo stato di grazia sia, per C., l’an-
ticamera del Paradiso, e che sia un modello esportabile dalla vita conventua-
le,200 deve stupire solo chi dimentica che l’Au. era un domenicano della fine
del XVI sec., un frate-profeta e poeta: “Se fu nel mondo l’aurea età felice, /
ben essere potrà più ch’una volta, / ché si ravviva ogni cosa sepolta, / tor-
nando ‘l giro ov’ebbe la radice… Se, infatti, di ‘mio’ e ‘tuo’ sia ‘l mondo pri-
vo / nell’util, nel giocondo e nell’onesto, / cangiarsi in Paradiso il veggo e
scrivo” (52: ‘Sonetto terzo’); così annotato: “dopo la caduta dell’Anticristo
sarà in terra il secol d’oro, preludio del celeste regno… Nota con S. Crisosto-
mo e Platone che tutti i mali pendono dal ‘mio’ e ‘tuo’; e che come si viverà
in comune si prova ne’ Profetali; e v’è l’idea nella Città del Sole, fatta dall’Auto-
re”.201 In Quod rem. 4 arriva a proporre al Sofì di Persia, che, se si accorda con
i Cristiani, “totus mundus nobis, partim metu partim efficacia propalatae ve-
ritatis per duas sapientissimas nationes potentissimasque consentiet et reple-
bitur totus scientia Dei, et amorose secum nullibi dissidens conversabitur, et
omnia omnibus bona communia erunt, saeculum aureum resurget, et erit
una fides, una spes, una veritas, sicut et unus Deus, ad cuius beatam societa-
tem adspiramus” (p. 135).
La matrice del comunitarismo deriva dalla condanna della proprietà privata,
che C. ricavava da Platone (Leg. 875a: “l’interesse comune è quello che lega in-
ternamente gli stati, quello privato invece li lacera”; Resp. 462c, e nel Tim.) e
dai Padri della Chiesa.202 CS aggiunge sostanzialmente altri due modelli ‘cano-
nici’: il cenobio (assente in T.22.12, intuibile in 22.13-4, più chiaro in 56.31-2)
e la vita degli Apostoli (ossia le comunità protocristiane: 22.13, 56.32-3 e
84.28): il primo derivato dal secondo, come chiarisce Quaest. pol. IV: “Cristo in-
segnò un’organizzazione statuale stupenda priva di pecche, che a stento gli
Apostoli riuscirono a perseguire integralmente; in seguito passò dal popolo al

200
In altri termini: il suo comunitarismo (‘comunismo’ fu considerato anacronistico già da
Croce) sarebbe viziato di palingenesi millenaristica e, di converso, di idealizzazione del pro-
tocristianesimo, nonché di elitarismo intellettualistico (è una repubblica clerico-filosofica,
una ierocrazia).
201
Analoghi concetti nei sonetti 9, 10 e 20: ‘Contra il proprio amore…’, causa dell’egoismo e
dell’idolatria; ‘Parallelo del proprio e comune amore’: “Ma chi all’amor del comun Padre
ascende, / tutti gli uomini stima per fratelli”; commento: “All’incontro, l’amor universale ve-
ro, divino, stima più il mondo che la sua nazione, e più la patria che se stesso: tutti tiene per
fratelli, gode del ben d’altri, vi cessa la penosa invidia e gelosia; e così viene a goder d’ogni
bene come del proprio, a far bene a tutti ed esser poi signor di tutti per amore e innocenza,
non per forza… e così sarebbe stato nel secolo d’oro, se Adamo non peccava”; e l’ultimo so-
netto attacca: “O tu, ch’ami la parte più che ‘l tutto / e più te stesso che la spezie umana” (v.
n. 20.27, n. 50.7-9).
202
“Giovanni Crisostomo… cerca di inculcare in ogni omelia, specialmente quella su Lu-
ca, cap. 6, la massima: ‘Nessuno dica «proprio». Tutto ci viene da Dio: mio e tuo sono pa-
role menzognere’… E lo stesso Agostino nel trattato su Giovanni, 8…: ‘Se togli due pro-
nomi possessivi, cesserebbero le guerre, ci sarebbe una pace senza liti’” (Quaest. pol. IV II,
p. 105).
310 LA CITTÀ DEL SOLE

clero, poi ai soli monaci, e tra questi ora perdura, mentre presso gli altri solo
poche di quelle istituzioni resistono” (I, p. 101): in decrescendo, il retaggio di
Cristo è sopravvissuto solo in alcune comunità monacali – e, per le misteriose
vie della natura che non sono in antitesi con quelle della vera religione (anzi,
“sublatis abusionibus” [134.12], si riconcilieranno), in una comunità posta agli
antipodi. Questo modello del comunismo apostolico era già stato adottato dal
movimento evangelistico dei circoli erasmiani, e aveva avuto almeno due im-
portanti espressioni: una ‘pratica’ (More) e una teorica: l’Institution du prince
(Paris, 1547, cap. 22) di Guillaume Budé, il quale però aveva già espresso, nel-
la lettera premessa proprio a More, l’avversione per il diritto ‘positivo’ che san-
cisce il primato dell’avere sull’essere, e il richiamo alla “carità e un comunismo
pitagorico” contro decreti e decretali (sbeffeggiati anche da Rabelais), quando
bastano tre princìpi naturali, “capisaldi della legge utopiana”, e cioè: “l’ugua-
glianza fra i cittadini nel bene e nel male; un amore costante e battagliero per
la pace e la tranquillità; il disprezzo per l’oro e l’argento”, per veder subito
“crollare la superbia, l’avidità, le dispute dissennate… vedresti l’immane cater-
va dei libri giuridici… venir abbandonata ai tarli… Se l’Iddio ottimo e massimo
avesse mostrato la stessa benevolenza [usata per Utopia] verso quelle regioni,
che dal suo santissimo nome derivano e abbracciano la denominazione di cri-
stiane, certo la sete di lucro, che corrompe e rovina tante menti per ogni altro
rispetto eminenti ed acute, se ne sarebbe fuggita una volta per tutte e la satur-
nia età dell’oro potrebbe ritornare” (p. 83-4; per la lettera di Budé v. n. 104
[glossa] § 4, nota).
Tuttavia la proposta comunitaristica di C. non poggia solo sull’appiattimento a
questi modelli; per quanto debole, vi è un’argomentazione sufficientemente
delineata (20.24-36): dalla proprietà privata nasce l’‘amor proprio’, che, a sua
volta, è ‘causa di tutti i mali’ (Quaest. pol. IV I, p. 101-2: “amor proprius omnium
malorum causa est”), sia perché fonte di liti,203 sia principalmente perché ge-
nera la ricchezza e la povertà, le quali sono la fonte di tutti i vizi e i crimini (ad
es. la ricchezza dell’ozio, la povertà del furto).204
Questa tesi ha la sua base etica anzitutto in Platone (“alcuni sono poverissimi,
altri ricchissimi (estremi sommamente odiati da Platone)” recitava Mon. Sp.1,
p. 47); ma poggia anche sull’‘aurea mediocritas’ aristotelica: la ragione sta
nel mezzo, ma chi è troppo ricco o troppo povero difficilmente dà ascolto al-
la ragione: “siccome si è d’accordo che la misura e le medietà è l’ottimo, è evi-
dente che anche dei beni di fortuna il possesso moderato è il migliore di tut-
ti, perché rende facilissimo l’obbedire alla ragione, mentre chi è eccessiva-

203
La fedeltà, la proprietà, l’eredità (20.29 e 22.6) come perenne fonte di conflittualità so-
ciale sono deplorate dalla Bibbia (cui rinvia in Quaest. pol. IV I, p. 101) e da Platone, Resp.
464a-e, ed è un motivo ripreso anche da Roseo, Instituzione, pp. 44 e 55.
204
Sui guasti della proprietà privata e viceversa sulla beatitudine della vita comune degli Apo-
stoli ci torna ancora a 56.21-33, e spesso in altre opere, ad es. Atheismus, p. 117-8, Afor., 41 (p.
103).
COMMENTO AL TESTO 311

mente bello o forte o nobile o ricco, o, al contrario, eccessivamente misero o


debole o troppo ignobile, è difficile che dia retta alla ragione. In realtà gli uni
diventano piuttosto violenti e grandi criminali, gli altri invece cattivi e piccoli
criminali… Si forma quindi uno stato di schiavi e di despoti, ma non di liberi,
di gente che invidia e di gente che disprezza” (Pol. 1295b 5-25). Ma per Ari-
stotele la cattiveria naturale dell’uomo non è sanabile da una certa organizza-
zione sociale: “una legislazione siffatta potrebbe sembrare apparentemente
attraente e umana: chi ne sente parlare l’accoglie con gioia, ritenendo che ci
sarà un’amicizia meravigliosa di tutti con tutti, specialmente quando si de-
nuncia come causa dei mali ora esistenti negli stati l’assenza di una comu-
nanza delle sostanze – alludo alle cause intentate dagli uni contro gli altri a
proposito di contratti, ai processi per falsa testimonianza, all’adulazione dei
ricchi. Ora il vero motivo di tutto questo non è la mancanza della collettiviz-
zazione, ma la cattiveria umana” (1263b 20-5). E ad Aristotele è indispensabi-
le e, direi, inevitabile associare Tommaso, il quale alla Quaestio ‘Se il possesso
dei beni esterni sia naturale per l’uomo’, risponde, utilizzando proprio la
condanna di Agostino contro gli ‘apostolici’ radicali: “è lecito all’uomo pos-
sedere beni propri. Anzi questo è persino necessario alla vita umana, per tre
motivi: [primo, perché] ognuno per sfuggire la fatica, tende a lasciare ad altri
quanto spetta al bene comune, come capita là dove ci sono molti servitori”
(l’affinità non solo con l’obiezione di 20.37, ma essenzialmente con 28.11,
mostra quali erano i referenti scolastici che C. aveva in mente e di mira); in
secondo luogo “sarebbe un disordine, se tutti indistintamente provvedessero
a ogni singola cosa. Terzo, perché così è più garantita la pace fra gli uomini,
contentandosi ciascuno delle sue cose” (ST II-II, 66, 1-2). Infatti la ritroviamo
pari pari in Theol. X (III, p. 27): “Ma perché gli uomini vivessero insieme, bi-
sognava stabilire fra di loro un’uguaglianza in guisa cioè che tutti lavorino e
riescano utili a tutti, e non accada che mentre alcuni fruiscono senza faticare
delle fatiche altrui, la società si dissolva, non potendo i primi, né volendo, la-
vorare al posto di tutti. Onde avvenne che ciascuno fosse destinato alla sua
propria funzione e che così gli uomini si sostenessero con mutue fatiche e
con i beni acquistati con la fatica, come si sostengono vicendevolmente le
membra nel corpo umano, secondo l’insegnamento dell’Apostolo in 1Cor. 12
e Rom. 12, e quello di Platone, di Telesio e di tutti i buoni filosofi”. C. aderisce
alla linea di una divisione ‘programmata’ del lavoro, che, secondo lui, va da
Platone al protocristianesimo fino a Telesio. Viene omesso Tommaso, il qua-
le, tuttavia, per salvare istanze egualitarie del cristianesimo e proprietà priva-
ta, aveva teorizzato la distinzione fra il possesso, che è individuale, e l’uso, che
invece è comune (distinzione, che C. fa sua: v. n. 56.30-3): “cioè [il proprieta-
rio] deve esser disposto a parteciparle [= le ricchezze] nelle altrui necessità”,
dove ritorna l’elemosina come dovere cristiano e insieme compensazione di
squilibri sociali (Sent. in Pol. 2, 1-7; ivi si trova pure un minuzioso e sintonico
commento alle obiezioni di Aristotele a Platone circa la messa in comune dei
beni produttivi e riproduttivi).
Il Genovese, che all’obiezione antiplatonica dell’Ospitaliero, risponde per due
volte (22.1 e 58.6) ‘non so argomentare’, non lo fa perché è uno sprovveduto o
312 LA CITTÀ DEL SOLE

un dogmatico;205 il marinaio intende invece affermare la priorità dei fatti sulle


vuote argomentazioni misantropiche (l’avversione all’astrattezza dell’aristoteli-
smo, simbolo di un sapere morto, ricorre almeno due volte: 30.27 e 116.18): e
i fatti sono l’esperienza storica passata (Roma, quando era una ‘comunità’ vin-
ceva) e l’attuale modello di vita conventuale, a cui Agostino dettava queste ‘re-
gole’: “Primum, propter quod in unum estis congregati, ut unanimes habitetis
in domo, et sit vobis anima una et cor unum in Deo. Et non dicatis aliquid pro-
prium, sed sint vobis omnia communia: et distribuatur unicuique vestrum a
praeposito vestro victus et tegumentum, non aequaliter omnibus, quia non ae-
qualiter valetis omnes, sed potius unicuique sicut opus fuerit” (Regula ad servos
Dei, 1, in: PL XXXII, 1378-9). Il “non aequaliter” non significa meritocrazia, ma
diversità di bisogni, com’è più chiaro negli analoghi precetti per le monache:
“non dite di nulla: ‘è mio’, ma ogni cosa sia comune tra voi; dalla vostra supe-
riora sia distribuito a ciascuno di voi il vitto e il vestiario, non però a tutte in
egual misura, poiché non tutte avete la medesima salute, ma ad ognuna secon-
do le sue necessità. Così infatti leggete in At. (4, 32 e 35): ‘Essi avevano tutto in
comune e veniva distribuito a ciascuno secondo le sue necessità’” (Lett., CCXI,
5, in PL XXXIII, 960). In CS invece vige una blanda meritocrazia (es.: 24.8-9 o
54.10), a volte giustificata,206 molto più esplicita in Disc. univ. VI-VII e in Aphor.
II, 9, dove C. sostiene che tutti gli uomini sono uguali quanto “ad iura divina,
naturalia et civilia commutativa”, ma differiscono nella distributiva, perché
ognuno ha secondo le funzioni che assolve.
A queste premesse teoriche possono poi saldarsi ulteriori svariate suggestioni,
facenti capo ad almeno tre ordini di fonti:
1) i neo-platonici e pitagorici: contro ‘mio’ e ‘tuo’ tuona Giamblico (Vita, p.
167-8): base della giustizia è la comunanza sociale “in guisa che tutti sentano
allo stesso modo come se formassero un sol corpo e una sola anima, e dica-
no ugualmente ‘mia’ e ‘tua’ la stessa cosa… così le stesse cose erano comuni
a tutti e nessuno possedeva privatamente alcunché” ([Theodoreto], 14); in
base a un “principio razionale” di equità “i poveri ricevono dai facoltosi, e i
ricchi danno ai bisognosi, avendo gli uni e gli altri fiducia che in base ad es-
so avranno il giusto” (Stobeo, IV, 1, p. 139 [Hense], in: Pitagorici II, p. 375-7).
Infine dalla Vita di Licurgo plutarchiana poteva aver tratto degli elementi sui
costumi spartani, evocati due volte in Civitas (42.5 e 64.4).
2) La riflessione patristica, un cui spaccato sintetico ci è offerto dall’Enciclope-
dia medievale di Beauvais: la comunione dei beni è anzitutto un principio
del diritto naturale, e siccome la Solare è una società naturale incorrotta (o
che tramite la filosofia pitagorico-braminica ha voluto recuperare l’origina-

205
Come apparirebbe dalle interpretazioni di Pirovano: “le virtù sociali dei Solari non posso-
no essere dimostrate: la città del Sole è opera di fantasia” (p. 18); o di Bolzoni 1994: “si met-
te da parte la logica, la disputa: la città utopica è autoesplicativa, essa è, immediatamente,
persuasiva” (p. 79).
206
Per stimolare l’emulazione: 26.38, 36.30-4; cfr Quaest. pol. IV II, p. 106 circa la gerarchia
meritocratica, coltivata fin dall’infanzia.
COMMENTO AL TESTO 313

ria naturalità), è ovvio che l’adotterà in ossequio appunto al ‘De Tertio prae-
cepto naturae’207 dato ad Adamo ed Eva, che tratta “de diligendo Deo et
proximo suo, quo continentur omnia praecepta quae pertinent ad ius natu-
rale. Dicitur autem ius naturale quicquid naturalis ratio faciendum esse dic-
tat, sine omni vel magna deliberatione, ut Deum esse diligendum et proxi-
mo non esse nocendum. Ad hoc etiam pertinet secundum primum statum
omnia esse communia”. A questo punto l’‘Auctor’ fa un lungo inciso circa i
tre tipi di leggi naturali: a) i precetti [= praecepta] vanno sempre e comun-
que osservati in positivo (es.: ‘onora il padre’); b) i divieti [= prohibitiones],
in negativo, sono sempre e comunque impositivi (es.: ‘non uccidere’); c) e
poi ci sono le “demonstrationes”, la cui applicazione varia caso per caso (es.:
da una violenza ci si può difendere e, secondo Cicerone e Agostino, mode-
ratamente anche vendicarsi; oppure si può reagire come insegna Cristo,
porgendo l’altra guancia): “similiter malos punire est de iure naturali, puni-
re vero sic vel sic non est de iure naturali, sed iure positivo. Omnia ergo esse
communia sub demonstratione cadit, quia non fuit praeceptum iuris natu-
ralis simpliciter, sed tantum secundum quid, fuit enim praeceptum in statu
innocentiae sive naturae bene dispositae. Sed in statu cupiditatis et naturae
corruptae non est praeceptum, neque debet esse, quia si sic esset respublica
dissolveretur et humanum genus se mutua caede perimeret. Omnia tamen
tempore necessitatis extremae sunt communicanda, quia naturalis ratio dic-
tat quod magis diligenda est salus proximorum, quam ipsa temporalia… Na-
turalis enim ratio dictat quod omnia deberent esse communia, at appetit et
amplectitur naturali desiderio statum illum futurae beatitudinis, in quo
erunt omnia communia” (SN XXX LVIII). Dunque il pensiero cristiano tar-
domedievale, com’è espresso da Beauvais, circa il ‘comunismo’, è così arti-
colabile:
• la comunanza dei beni era un precetto naturale, quando la natura era in-
corrotta;
• adesso che la natura è corrotta, è un principio discrezionale;
• alle volte il meglio è nemico del bene (come recita la glossa: “Bono bo-
num est contrarium”): nella società attuale la comunanza dei beni signifi-
cherebbe l’autorizzazione a rubare e rapinare, e quindi la dissoluzione
della società, per cui, dopo la corruzione, il nuovo principio naturale è la
proprietà privata;
• pertanto la comunanza dei beni viene proiettata nel futuro remoto, quan-
do si ritornerà definitivamente alla purezza originaria.
3) La coeva letteratura utopistica: non solo More (59 e 105) e Doni, ma anche
un moderato come Zuccolo ricorda che “in una repubblica sono egualmen-
te pericolose l’eccessiva povertà e le soverchie ricchezze” (Città felice, p. 83 –

207
Il primo, “ad sustentationem naturae”: l’autosopravvivenza; il secondo, “crescite et multi-
plicamini”: la generazione.
314 LA CITTÀ DEL SOLE

Zuccolo è un ‘riformista’, come Patrizi e Agostini, che voleva solo un inter-


vento calmieratore dello stato).
Circa l’influsso della letteratura di viaggio, i pareri sono contrastanti: da un la-
to Romeo ribadisce con forza che “per ciò che riguarda la fondamentale que-
stione delle concezioni comunistiche… è insostenibile la sua presunta deriva-
zione dagli istituti del Perù incaico. Al silenzio del testo sulle fonti di quelle
concezioni supplisce in effetti la più tarda Philosophia Realis, dove la comunità
dei beni è riportata alla Genesi, ‘ubi Deus nil distribuit, sed communia reliquit
hominibus, ut crescant, multiplicentur, et repleant terram’ (De politicis, p. 104);
e i suoi modelli sono indicati in Platone, nella ‘Christianorum in principio
communitas ab Apostolis’, nella vita dei chierici fino a Urbano I e poi nella vi-
ta monacale. La sua legittimità, e quella della comunanza delle donne, è soste-
nuta con ricchezza di citazioni dei padri della Chiesa, con evidenti finalità giu-
stificative, che vanno però inquadrate nella effettiva e più profonda adesione al
cristianesimo da parte del filosofo che si verifica appunto negli anni della com-
pilazione e revisione della celebre operetta” (p. 177-9). Dall’altro, a partire da
De Mattei 1927, si fa notare che non è un caso che in generale il genere utopi-
co sia (ri)nato dopo le Scoperte geografiche, e in partic. che in CS, come in
More, a narrare di queste società ideali siano marinai al seguito di celebri
esploratori. È pertanto probabile che una tra le varie fonti concomitanti sia
una certa ideologia dei missionari, nata in seguito al contatto diretto con le
genti del Nuovo Mondo: Las Casas ritiene ‘innaturale’ la proprietà privata,
“convinto che originariamente le terre non erano soggette a un dominio di sin-
gole persone e venivano lavorate in comune per soddisfare le necessità di tut-
ti”, come dimostra il comunismo primitivo degli indios: “ho detto felici, perché
veramente erano tali: prendendo da questo mondo soltanto ciò che era loro
necessario per vivere, lo avevano in abbondanza senza preoccupazioni e affan-
ni, senza liti e senza prendere a nessuno il suo; anzi vivevano in armonia e tran-
quillità, in amore, pace e allegria” (cit. da Maravall, p. 638). Anche Anghiera
(v. n. 20.19-20), dopo aver riferito il discorso di un vecchio saggio indiano a Co-
lombo, dichiarava: “compertum est apud eos velut solem et aquam terram esse
communem, neque meum aut tuum, malorum omnia semina, cadere inter
ipsos…”; o, ancora, padre Nobrega nel 1552 testimoniava (ib., p. 80) che “et in
molte cose [gli indigeni messicani] servano la legge naturale: non posseggono
niuna cosa propria, ma tutte sono in commune… né si curano di accumular
ricchezze” (v. 54.8: “Res familiaris et comestibilis parvi penditur”).
La teoria politica di C. si basa sulla distinzione tomistica fra ‘uso’ e ‘proprietà’,
il primo legato al diritto naturale, la seconda al diritto positivo (v. n. 24.26, n.
56.30-3 e n. 60.4-7): “diritto naturale è quello che è posto dalla natura dovun-
que identico… quello che la natura razionale manifesta agli uomini indipen-
dentemente da ogni umana istituzione: per es. generare figli, onorare i genito-
ri, non prendere la roba altrui… Il diritto positivo invece è quello che l’uomo
o Dio ha stabilito, derivandolo dal naturale come una specificazione e una de-
terminazione. Per es.: ‘il ladro si punisca con la forca’… Questo elemento po-
sitivo è duplice: uno è il diritto civile, che si pone in una determinata provincia
o nazione, generalmente come specificazione del diritto naturale; l’altro è il di-
COMMENTO AL TESTO 315

ritto delle genti, dedotto dal diritto naturale, che tutte le nazioni concorde-
mente osservano” (Theol. X [III, p. 35]).208 Dunque: secondo il diritto “primae-
vo, nihil esset particulare et proprium cuique… Partitio est de iure gentium,
quod ab iniquitate suscepit occasionem, teste S. Clemente etc.” (Mon. Messiae I,
p. 6); dal diritto naturale discende in linea retta lo ‘jus gentium’ universale,
mentre le sue concrete e specifiche applicazioni in ogni singola nazione com-
pongono il diritto civile (Theol. X [III, p. 37]). In conclusione: l’indivisione dei
beni e quindi il loro uso appartiene al diritto naturale, e perciò è una funzione
anteriore e universale rispetto alla proprietà che appartiene al diritto positivo:
“più naturale è il dominio e la comunità, dove il bene è più comune a tutti. Vio-
lento è più dove è manco comune” (Afor.).
Le servitù interiori sono determinate da quelle esteriori: libero dal bisogno,
dal desiderio, dalle passioni, l’uomo è ‘naturalmente’ buono; vivere secondo
natura è già virtù, e il modello (o il mito) di questo stato naturale era ieri il pro-
to-cristianesimo, ed è oggi la vita claustrale. E la virtù consiste nel porre il desi-
derio a servizio della ragione, che esige quanto predica la massima di 132.33:
non fare agli altri quel che non vuoi sia fatto a te. In questo mondo idilliaco,
estirpati l’egoismo e la proprietà privata, è tolta la possibilità di peccare: non
esiste più l’amor di sé né l’amor di concupiscenza – non esiste, quasi più, il li-
bero arbitrio (v. n. 104 [glossa] § 4, punto 2).

2. Mezzi di riproduzione
I rapporti sessuali, in attesa di trovare un sistema sociale migliore (60.13), sono
regolamentati nel modo seguente: esiste un doppio regime circa la comunan-
za delle donne: nella Città esse sono poste in comune sia per quanto riguarda i
servizi che per le prestazioni sessuali (58.7); nelle province, i cui abitanti sono
filosoficamente immaturi (60.12) – probabilmente perché non hanno ancora
metabolizzato la legge che il tutto precede la parte –, l’accomunamento ri-
guarda solo i servizi (non il talamo [60.8-11] – per cui si deve presumere che lì
vigerà una qualche forma di coniugalità).
Il regime sessuale solare si basa su due presupposti:
• evitare l’amor proprio, che nasce anche dal possesso di una donna e quindi
di figli propri; e, più in generale, cessazione dei “vitia ex abusu amoris, ut
adulteria, fornicationes, sodomias, priapismos, suffocationes uteri [= abor-
ti], zelotypias [= gelosie], furores, etc.” (Quaest. pol. IV I, p. 101-2);
• eugenetica: è assurdo che gli uomini si preoccupino di migliorare le razze
animali, e trascurino la propria; una nazione è felice se i suoi cittadini sono

208
In Moralis XV, p. 59-62 e Politica V, 4-6, invece, vi è una tripartizione: prima viene lo “jus di-
vinum”, costituito dalle leggi divine in vista del sommo bene; poi il secondo, rivolto a fini na-
turali, è retto dal cielo, gli elementi naturali ecc. (il Sole “iuri naturali” sorge e tramonta per
illuminare e generare tutte le cose); infine il diritto umano che è duplice: lo “ius gentium”
comune a tutti gli uomini istituisce per il vivere sociale la proprietà, i matrimoni, i tribunali;
lo “ius civile, quod sibi omnis Civitas vel Natio moribus et usibus suis congruenter statuit ex
arbitrio sapientum”.
316 LA CITTÀ DEL SOLE

felici, ovvero sono sani fisicamente e intellettualmente, il che si ottiene ge-


nerandoli in condizioni di buona salute e fornendoli di una buona educa-
zione; perciò queste due mansioni (procreazione e istruzione) devono esse-
re di competenza dello stato, non dei singoli (50.7-22).
Per esser sicuri di seguire tutte le accortezze necessarie a favorire il migliora-
mento della razza, la riproduzione209 deve esser appannaggio statale. L’euge-
netica è il parametro regolativo delle unioni sessuali. Perciò ‘donne in comu-
ne’ non significa ‘libero amore’ (58.8-11), come credevano certi congiurati nel
1599, che evidentemente “non hanno filosofato” (T.60.8) abbastanza. Alle ste-
rili, per evitare nelle altre donne tentazioni di pratiche anticoncezionali per
lussuriare a piacere, vengono tolti alcuni diritti civili (46.18): esistono pertanto
due categorie di donne, quelle fertili, le ‘matrone’, che sono cittadine a pieno
titolo; e quelle sterili, che diventano ‘communes’ (46.17). ‘Comunanza delle
donne’ significa invece che, per la salvaguardia della stirpe, e cioè in base al
principio che il tutto precede la parte (86.1-2), la riproduzione della specie è
di competenza della comunità, non del singolo (50.16).
E l’individuo? Ai singoli sono consentiti accoppiamenti, per piacere o per me-
dicina del corpo (44.16) o per amore (52.23), onde evitare illeciti sessuali (la
sodomia [40.28]), purché non sia compromessa la razza (quindi rapporti con
donne sterili, quelle ‘communes’ appunto, o già incinte [44.17]), e purché
non abbiano commesso reati (26.2-3). Il che significa che anche le ‘unioni li-
bere’ sono comunque sottoposte a un controllo statale.
Questa organizzazione della sessualità comporta tre problemi:
1. Poiché gli accoppiamenti sono imposti dall’alto, per le superiori esigenze
della specie (e dunque dello stato), come evitare contese e gelosie tra gli in-
dividui, e rancore verso quei magistrati che debbano imporre un partner
sgradito? Se Platone deve ricorrere all’estrazione a sorte truccata, i Solari so-
no più fortunati, perché, per il duplice concorso di eugenetica e astrologia,
sono tutti individui perfetti (52.2 – o quasi: 48.6 e 62.8sg).
2. I rapporti di parentela significano maggior affetto e coesione fra i membri
riconosciuti; si può rispondere che tutti si amano fraternamente (o filial-
mente, in base al divario d’età [24.15-8]); ma Aristotele (Pol. 1262b) rileve-
rebbe (cito la parafrasi che ne fa C. stesso in Quaest. pol. IV III, p. 108) che,
“se il ‘tutti’ è preso alla lettera, allora tutti i vecchi sarebbero padri di tutti i
giovani, ma in tal caso l’affetto di un anziano verso di loro sarebbe ben pic-
colo, come una goccia di vino dolce in molta acqua”. A questo modello pa-
gano dell’affettività (quantitativo: l’amore, per esser veramente tale, è una
dose condensata, che una volta espansa, si dissolve o si ‘annacqua’), C. con-
trappone una metafora cristiana (qualitativa: il lievito, il sale della terra, in-
definitamente espandibile e pervasivo): “l’amore verso la comunità dunque

209
Non la sessualità (44.15-19) né l’amore (52.23): degli amori e amorazzi privati non inte-
ressa nulla alla collettività, salvo minaccino la specie – come l’omosessualità – o interferisca-
no nel controllo delle nascite.
COMMENTO AL TESTO 317

non sarebbe come una goccia di vino dolce in molta acqua, ma come una
fiammella in molta stoppa: l’amore infatti è una primalità e di sua natura dif-
fusiva come il fuoco” (Quaest. pol. IV III, p. 110).210
3. Il problema davvero fondamentale, per questo tipo di società promiscue, è
però l’incesto. Visto che la “certitudo est communitatis” (50.22), ovvero es-
sendo tutti figli della Città e non di una famiglia, come evitare che si verifi-
chino unioni incestuose? Se può esser ammissibile che i Solari non conosca-
no “stupra… adulteria” (24.33-4),211 invece è un po’ troppo sbrigativo soste-
nere ‘sic et simpliciter’ che ignorino pure gli “incesta”. Anche in Quaest. pol.
IV si (auto)obietta: dalla ‘scandalosa’ comunanza delle donne, “nascerebbe-
ro adulteri, fornicazioni e incesti con sorelle, madri e figlie, e gelosie tra le
donne, e contese [fra gli uomini] per quella che si vorrebbe possedere”.
Nella risposta, passati in rassegna i delitti contro la persona (“caedes, fur-
tum, rapina, fornicatio, adulterium, sodomia etc.”), esclude che essi possano
essere ascritti a tale comunità: “sed mulierum societas, neque personas de-
struit, neque generationem impedit: ergo non est contra naturalem ordi-
nem” (III, p. 108). Resta da analizzare l’incesto: “Con S. Tommaso e Gaetano
abbiamo detto che vi è incesto contro natura solo con la madre (e lo abbia-
mo evitato nella Città del Sole); con le sorelle e con altri l’incesto è contro la
legge: dove non viga una tale legge, non vi è alcun incesto” (ib., p. 109).
Dunque C. riconosce un solo tipo di incesto – fra madre e figlio (meno gra-
ve fra padre e figlia), unico tabù naturale; tra sorella e fratello invece è con-
venzione sociale. Però anche in Quaest. pol. IV, come in 24.34, l’Au. si limita
ad asserire che esso non si verifica nella Città, senza dirci come ciò sia possi-
bile. Un microsegnale intratestuale che ci potrebbe indirettamente fornire
qualche lume è un’altra apparentemente gratuita variazione numerica: in
T.24.17 si fissa a quindici anni il salto generazionale (“tutti li giovani s’ap-

210
In effetti la metafora del fuoco risale alla lettera di Alessandro Magno a Didimo, in cui l’e-
sorta a svelargli il segreto della loro felicità, non inficiata dal fatto che una tale estesa com-
partecipazione significhi depauperamento: “sicut ex una face, si lumina plura succenderis,
nullum damnum principali materiae generabit” (SH IV LXVII); la teoria – sociale – dell’amo-
re come quantità ristretta non moltiplicabile pena il suo decadimento, era stata rilanciata re-
centemente da un pensatore con cui proprio nelle Quaest. pol. si era confrontato: per Jean
Bodin (Les six livres de la Republique, Paris, Du Puys, 1583 [tr. it., Torino, 1964], I, 2) l’amore
terreno “è inteso in modo simile alla proprietà, come un rapporto esclusivo. Infatti ‘quanto
più esso si comunica, tanto più perde di vigore; come i grandi fiumi, capaci di sostenere gros-
si carichi, una volta divisi in più rami, perdono tale capacità, così l’amore disperso fra più
persone e cose perde la sua forza e la sua virtù’” (Conti Odorisio, p. 707).
211
Infatti, come spiega in Quaest. pol. IV, “vi può esser adulterio contro natura o contro la leg-
ge; è contro natura quando vi è unione fra animali di specie diversa…, è illegale quando uno
possiede la donna d’altri, stante una legge contraria. Ma nella nostra Città non c’è questa leg-
ge, ma vi sono pubblici generatori più utili a tale funzione: non vi è dunque adulterio, quan-
do non vi sono bastardi né connubi illegali”, e poiché è lo stato a regolare gli accoppiamen-
ti, “sarebbe un insulto allo stato [e non verso un’altra persona], se lo facesse contro la legge”
(III, p. 109).
318 LA CITTÀ DEL SOLE

pellano frati, e quelli che sono quindeci anni più di loro, padri, e quindeci
meno, figli”); a 22.16 il gap sale a ventidue anni. A differenza di altri casi (v.
n. 10.6-7), forse stavolta c’è un preciso motivo. Il sistema di appellativi semi-
conventuali (‘padri’, ‘fratelli’) fra le fasce d’età dei Solari non risponde solo
a un criterio ‘affettivo’ e di rispetto reciproco fra le generazioni, volto a sur-
rogare in regime comunitario i sentimenti familiari, ma ha un’altra funzio-
ne, ben più cogente. È Platone ad avergli suggerito questa sorta di ‘parente-
la allargata’: “Quei figliuoli che siano nati fra il decimo e il settimo mese dal
giorno in cui uno [guardiano] di loro si faccia sposo, tutti questi egli dirà fi-
gli se maschi, figlie se femmine, e quelli lo diranno padre… E così non si
congiungeranno fra loro come or ora dicevamo” (Resp. V, 461d-e). Anche i
Solari, oltre ai controlli statali, si servono, per la regolamentazione delle
unioni sessuali, dell’escamotage della barriera generazionale, la cui princi-
pale funzione è appunto quella eugenetica: poiché le unioni sono tenden-
zialmente fra quasi coetanei (40.13-8 e 40.34), s’annulla il rischio d’incesto
‘contro natura’ – restando irrilevante il rischio d’incesto tra fratelli (la ‘con-
fraternitas’ [24.20], su cui vigilano gli ufficiali, è altra cosa – è la solidarietà
sociale). Ed ora possiamo tentare di spiegare l’elevazione da quindici a ven-
tidue anni del divario generazionale: siccome il maschio non diventa pro-
creatore prima dei ventun anni (40.16 e T.40.20), C. ha voluto ritoccare a
ventuno più circa un anno di gestazione la barriera intergenerazionale; un
maschio non può quindi unirsi con una donna più grande di lui di ventidue
anni, perché sarebbe una sua ‘madre’ – reale o potenziale: cioè sotto quel-
l’appellativo potrebbe celarsi un legame non fittizio, ma di reale consangui-
neità, e dunque potrebbe verificarsi un incesto inconsapevole.

3. Uguaglianza dei produttori e dei mezzi di produzione


Uno dei grossi problemi di una comunità collettivistica è: chi si deve sobbarca-
re i lavori più umili e faticosi? Questione che si trascina dietro due immani dif-
ficoltà: l’uguaglianza dell’uomo (e della donna); la divisione sociale del lavoro
(e, principalmente, la gerarchia dei loro statuti o ‘dignità’ sociali).
Platone indoeuropeisticamente aveva risolto il problema con il famoso mito
delle tre anime/classi: aurea, argentea e bronzea (governanti, guerrieri, lavo-
ratori – Resp. 414d-415d). Anche Aristotele è un innatista: la distinzione fra pa-
droni (o liberi) e schiavi è altrettanto ‘naturale’ di quella fra maschi e femmine
(Pol. I, 4-5; 1254a 20: “certi esseri, subito dalla nascita, sono distinti, parte a es-
sere comandati, parte a comandare”; 1254b 10: “l’uno è per natura superiore,
l’altra inferiore, l’uno comanda, l’altra è comandata”). Questa concezione pas-
sa pressoché inalterata dalla cultura pagana a quella cristiana e quindi a quella
medievale: “la generazione della femmina è estranea all’intenzione della natu-
ra particolare, cioè della virtù seminale, la quale tende, per quanto può, a ren-
dere perfetto il concepimento”, cioè la femmina è un maschio mancato e im-
perfetto, utile solo perché senza di lei “non potrebbe compiersi la generazione
per molti animali”; come la ragione comanda le potenze corporee, “deve es-
serci un certo ordine degli uomini tra loro. Quelli infatti che emergono per in-
telligenza sono fatti naturalmente per dominare; mentre quelli che sono scarsi
COMMENTO AL TESTO 319

d’intelligenza e robusti corporalmente da natura sembrano destinati a servire”


(Tommaso, 3SCG, 81 e 94). Dante nel Parad., partendo da un problema adia-
cente (perché i figli sono diversi dai padri), ricorre, tomisticamente, all’‘incli-
nazione’ (astrologica) naturale, la quale, se non è assecondata dalla società, de-
termina incalcolabili guasti per la collettività: “E, se il mondo laggiù ponesse
mente / al fondamento che natura pone, / seguendo lui avria buona la gente.
/ Ma voi torcete alla religione / tal che fia nato a cingersi la spada, / e fate re
di tal ch’è da sermone; / onde la traccia vostra è fuor di strada” (VIII, 140-8).
Telesio agli astri preferisce la teoria fisiologica (averroistica) della diversa com-
posizione degli spiriti animali. Già questo lungo titolo denuncia con sufficien-
te chiarezza il suo pensiero: ‘Gli spiriti, poiché differiscono per calore, tenuità
e purezza, non sono diversi tra loro soltanto per intelligenza, ma anche per co-
stumi e bontà e cattiveria, cioè per le virtù ed i vizi’ (VIII, 36 [III, p. 329]); e, in
partic., riguardo all’indole infantile, dopo aver ribadito che vizi e virtù sono
congeniti, e non procurati per ‘consuetudine’, “proprio per questo cioè sono
diversi i costumi dei fanciulli, perché anche gli spiriti sono diversi; e proprio
per questo i costumi in quasi tutti mutano con il mutare dell’età, perché muta
anche la sostanza dello spirito; e le singole nazioni ed i singoli generi degli ani-
mali sono quasi tutti dotati di proprie virtù e di vizi propri, perché, come i sin-
goli corpi di questi e di quelli sono tra loro simili e affini, così lo sono anche gli
spiriti: e molto di più di quelli perché gli spiriti simili sono prodotti da uno stes-
so cielo e da cibi identici e specialmente in corpi simili” (IX, 30-1 [p. 455-7] –
passi questi ben noti a C., che li aveva commentati e difesi in Phil. sens., p. 330-
1, quando anche lui attribuiva al cielo un’influenza marginale). Dunque la die-
ta e il clima influenzano “la sostanza dello spirito” animale, con tutto quello,
intellettuale e morale, che ne consegue. C’è di più: la disparità è un dato costi-
tutivo non solo naturale, ma anche preternaturale, perché anche nel Paradiso
terrestre “ci sarebbe stata tra gli uomini disuguaglianza… e alcuni sarebbero
stati più belli o più sapienti o più santi degli altri… come c’è disuguaglianza fra
gli angeli, e fra la natura dei luoghi e fra le stelle” (Theol. IV [II, p. 165]).
CS si colloca su questa traccia ‘naturalistica’, ma pensa di sgretolare i due gros-
si macigni di cui sopra (disuguaglianza degli uomini e dei lavori) attraverso la
‘scienza’ e il ribaltamento delle gerarchie vigenti.
In sostanza la teoria platonica (“ciascuno di noi nasce per natura completa-
mente diverso da ciascun altro, con differente disposizione, chi per un dato
compito, chi per un altro” [Resp. 370a-b]) viene accolta dai Solari: le attitudini
vengono individuate (24.31) e saggiate (26.26-7) già nei bambini, fin nelle mi-
nute incombenze (36.1), assecondandole (46.12), per cui non si pone più il
problema dell’imposizione di un certo lavoro, in quanto ognuno fa ciò che è
portato a fare (78.16-7). Fin qui l’adesione al dettato ‘classico’ è totale; ma pro-
prio da qui inizia anche una sostanziale divaricazione: è vero che, attraverso
un’opportuna eugenetica astrologicamente sorvegliata (tutto il segreto sta nel-
la generazione, come rivela 46.11), si ‘fabbricano’ degli esemplari riusciti, sia
fisicamente (52.2) che intellettualmente e moralmente (48.10); e anzi, sfrut-
tando le opportune combinazioni astrali (come insegna S. Tommaso [42.38]),
si possono addirittura prefabbricare individui portati per una certa attività o
320 LA CITTÀ DEL SOLE

per un’altra (74.29-34); ciò tuttavia non esime i Solari dall’addestrarsi in tutte
le attività (26.14-5, 34.8) – il che significa anche andare contro quella specializ-
zazione, che tutti (da Platone a Doni) raccomandano. Non basta: la seconda
divaricazione consiste in un tentativo – solo un tentativo, sconfessato com’è
dalla pratica solare stessa, e dall’irruzione, che nessuna alterità utopistica può
arginare, delle contraddizioni della realtà in cui vive l’Au. (v. infra punti 2 e 3)
– di riqualificazione del lavoro manuale, rovesciando la domanda retorica di
Platone: “credi tu che i migliori uomini che abbiamo creato siano i guardiani
che hanno ricevuto l’educazione già detta, o i calzolai istruiti nell’arte di fare le
scarpe?” (Resp. 456d). Ad esser elogiate e a primeggiare sono infatti le arti ma-
nuali, che tutti imparano (28.1) e praticano (56.9). Dunque chi più e meglio
fa, più vale: è lui il vero ‘nobile’, nel senso proprio di colui che si eleva sulla me-
dia (28.5-7), tanto da esser chiamato ‘re’ (84.5) ed esser avviato alle cariche su-
periori (28.15-20). Non solo: proprio le arti più umili e faticose, ma primarie,
sono ‘al primo grado di nobiltà’, anzi quanto più sono onerose tanto più sono
onorate (78.13-4).212
In sintesi: poiché sono tutti sostanzialmente uguali, sia da un punto di vista ‘na-
turale’ (sesso e talenti innati), sia dal punto di vista sociale (per assenza di cen-
so e denaro), tutti possono e debbono svolgere tutte le mansioni, con queste
precisazioni:
• i compiti meno faticosi spettano al sesso debole (34.10; v. n. 34.9-10);
• le attività primarie spettano a tutti indistintamente; ognuno poi, seguendo la
sua inclinazione ‘naturale’ (74.32-4), sarà più versato, e quindi si applicherà
maggiormente all’uno anziché all’altro lavoro.
La società, dal canto suo, agisce con due leve: asseconda l’inclinazione indivi-
duale; esalta le attività manuali.
Ne consegue che nessuno parte avvantaggiato (socialmente o naturalmente);
ognuno svolge, oltre alle corvées obbligatorie (es. ai giovani servire a tavola
[34.28]), il lavoro che più gli piace, e non il meno faticoso o il più onorifico
(naturalmente non esistono lavori più remunerativi), in quanto l’unico rico-
noscimento sociale non riguarda il tipo, ma la qualità del lavoro (e di conse-
guenza le gerarchie non si basano sulla divisione del lavoro, ma sulla capacità e
bravura nell’eseguirlo – e, semmai, al primo posto vengono le abilità manuali).
Il modello offerto da C., a scorno dei superbi, è quello menenioagrippiano:
ogni orifizio corporeo (54.28: “oculo” o “culo” che sia) svolge un compito indi-
spensabile per la salute dell’intero organismo, e non è intercambiabile: “L’otti-
ma repubblica è quella dove ciascuno è eletto a fare quello officio al quale è
nato, perché allora regge la ragione”, e non il caso (Afor., n° 28 [p. 99]); ed in
partic. non succederà di trovare l’uomo sbagliato al posto sbagliato, che causa

212
“Non tutte le attività sono arti: sed illa tantum, quae aliquam formam in materia, quam
tractat, introducit: omnis enim ars natura est estrinseca, natura vero ars intrinseca” (Quaest.
oec. III I, p. 183): l’arte è quella che plasma, trasforma la materia (v. infra nota 214).
COMMENTO AL TESTO 321

tanti più danni quanto più in alto sta: un (nato per fare il) calzolaio che fa il re
o il sapiente è il colmo della nullità e rovinosità (130.3-6; Afor., n° 29).
Questo modello di una città ideale è però a sua volta molto idealizzato. La ‘pra-
tica’ stessa della Città del Sole si preoccupa di contraddirlo a ogni pié sospinto:
1. l’uguaglianza fra i sessi: il fatto che, pochi righi dopo aver nobilitato le atti-
vità più faticose (78.13), si riservino alle donne le arti meno onerose
(78.20), può spiegare, in parte, la ragione della perdurante disuguaglianza
fra i sessi: al sesso debole compiti meno impegnativi e dinamici (34.10); mal-
grado non siano discriminate intellettualmente, ciò non basta ad aprire una
crepa nell’uguaglianza universale? È solo un caso che nel pantheon murale
non sia rappresentata (o almeno citata) neanche una donna? È credibile
che una donna possa diventare Hoh, dopo che l’anti-pantheon femminile di
150.12sg ha mostrato come essa sia particolarmente inadatta al comando,
quando nefaste congiunzioni astrali ce l’hanno portata? La sua sede natura-
le è la cucina (34.27), oppure un ‘cubiculum’ (42.19), in cui, secondo tabel-
le medico-astrologiche stabilite da maschi (siano essi fisici, protomedici, sa-
cerdoti e/o astrologi [42.26, 108.9]), sfornare figli alla patria o fornire ‘me-
dicine’ a giovinotti incontinenti (40.18-25 e 44.16) e sapientoni impotenti
(108.16-8), o infine il puerperio, dove deve passarci due anni dopo ogni par-
to (46.30) – per non parlare della minaccia della pena capitale se osa truc-
carsi (52.9). Quindi è già molto se ha diritto di voto e (solo per?) un Consi-
glio delle matrone (46.18), da cui sono escluse le sterili – appunto a sottoli-
neare che la primaria funzione e dignità femminile è quella riproduttiva.
Per fugare dubbi residui, lasciamo all’Au. la parola, specialmente perché
adoperata a illustrazione di Civitas: “Asserisco che ci debba esser comunanza
nelle funzioni, salvo che nel potere politico: le donne non possono occupa-
re le magistrature, né debbono insegnare agli uomini, ma solo alle altre
donne e in relazione [“in ministerio”] della generazione” (Quaest. pol. IV III,
p. 108 – fanciulli e fanciulle hanno infatti maestri e maestre loro [46.32-3]).
Non solo, dunque, non ci sarà mai una Hoh, ma neppure una semplice don-
na-‘magistrato’, perché una donna né può comandare né può insegnare agli
uomini, ma solo alle donne, e soltanto limitatamente a problemi inerenti la
riproduzione. Questa teoria, che sarebbe anacronismo e scorrettezza bollare
come misogina, poggia su una base fisiologica, di tradizione classica, così
sintetizzata da Della Porta: “Platone dice che la femina in tutti i paragoni al-
l’uomo sia più imbecille [= debole] et imperfetta, il che Aristotele e Galeno
confermano, perché dicono avvenir per la freddezza, per essere il calore il
primo istromento della natura, e dare a poco calore poca perfezion d’opra”
(Fisonomia I XXVI, p. 161); teoria, da C. integralmente (integralisticamente)
recepita: l’Artefice “tutti li partìo in maschio et in femina, quello più caldo
et forte et atto ad agere e defendere et resistere, et questa debole a compati-
re et nutrire la molle prole; e ‘l maschio assembrò al sole et la femina alla
terra, perché assomigliasse la parte al tutto et l’effetto alla causa” (Epilogo, p.
339); per giunta “la femmina a caso nasce, intendendo sempre la natura fa-
re il più perfetto, ch’è il maschio” (p. 61; la femmina è un maschio mancato,
per difetto di calore interno), quindi “naturalmente [= secondo natura] do-
322 LA CITTÀ DEL SOLE

mina il maschio alla femina”; però “naturalmente domina solo la sapienza


non sofistica, ma filosofica”, non la forza, per cui “se la femina… avanza di
sapienza, meglio dominarà che il maschio” (Afor., 24-6; Theol. IV [II, p. 137-
9]; Mon. Messiae I, p. 7); Theol. XIV, p. 39 infine chiarisce la fonte: “Quando
adunque si domanda perché l’Apostolo, nella 1Cor. 4 e nella 1Tim. 2, vieti al-
le donne d’insegnare, mentre lo Spirito Santo concede anche a loro la pa-
rola della scienza e della sapienza… è facile rispondere che quel divieto ha
tre ragioni. La prima è la naturale soggezione, la seconda è l’infermità del
senso e la voce tendente alla sensualità, la terza è la naturale ignoranza. L’A-
postolo infatti dice della donna: ‘Non le permetto di parlare né di esercitare
superiorità sul marito’. Ora l’insegnare è sicuramente un atto di superiorità,
essendo la sapienza, come fu dimostrato nella Politica, il fondamento della
superiorità: naturalmente infatti il sapiente domina gli ignoranti e il mae-
stro i discepoli… Onde con questo divieto l’Apostolo provvide ottimamente
alla Chiesa. Tuttavia, come osserva S. Tommaso, non si esclude con questo
che la donna predichi privatamente… E talora le donne possono insegnare,
ma privatamente, non pubblicamente e d’officio”.213
2. Pari dignità di tutte le ‘arti’ (liberali e meccaniche [v. n. 10.35-6]): Rossi 1971
esalta la modernità di Città, dove “la tradizionale distinzione fra arti speculative
ed arti meccaniche viene qui rifiutata e si esalta il lavoro – anche il più modesto
e umile lavoro – come elemento centrale e decisivo della formazione dell’uo-
mo” (p. 103). È vero che si esalta il lavoro, anche il più umile, specie il più umi-
le,214 ma ciò non toglie che le arti meccaniche continuino a esser un gradino
sotto le speculative. La stessa tassonomia dell’enciclopedia muraria (v. n. 12
[glossa] § 2) svezzava subito i pargoli dall’illusione dell’uguaglianza delle man-
sioni, perché, “iuxta dignitatem suam locatae”, e cioè in ordine crescente d’im-
portanza venivano prima i mestieri (16.21) e poi le professioni (16.26);215 que-
sta gerarchia poi se la trovavano rispecchiata sia architettonicamente (quasi ar-
redo urbano) che simbolicamente (alto/basso e centro/periferia) a 40.4-8, do-

213
Circa “il difficile rapporto del C. con l’universo femminile” cfr G. Bock, Thomas C. Politi-
sches Interesse und Philosophische Spekulation, Tübingen, 1974, p. 133sg; L. Bolzoni, T. C. e le don-
ne: fascino e negazione della differenza, ‘Annali d’italianistica’, 7, 1989 (p. 195-216); M. Isnardi
Parente, T. C. e la repubblica di Platone, ‘Archivio storico per la Calabria e la Lucania’, XLVI,
1999 (p. 93-111); Fournel; più in generale sul posto della donna in testi utopistici: C. Cohen-
Safir, Cartographie du féminin dans l’utopie. De l’Europe à l’Amérique, Paris, L’Harmattan, 2000.
214
Sebbene nella versione di Città, che legge Rossi, ci sia anche scritto: “Le speculative son di
tutti e chi più è eccellente si fa lettore; e questo è più onorato che nelle meccaniche, e si fa
sacerdote” (ed. Bobbio, p. 84) – periodo assente in T. e in Civitas: v. 78.25 in ‘Apparato delle
varianti di α’.
215
Lo notava già Amerio, sulla scorta di un testo campan. ancora inedito (Theol. IX II, IV): “l’i-
dentica dignità morale del lavoro non importa [=comporta] tuttavia identica dignità pratica
di tutte le arti, e il C. riconosce arti vili e arti nobili, secondo che operino più o meno profon-
damente nella materia e abbiano un fine più o meno immediatamente connesso coi fini mo-
rali dell’uomo. Per il primo rispetto è più nobile la scultura che la molitoria, per il secondo
più la medicina che la vestiaria”.
COMMENTO AL TESTO 323

ve il buon vecchio modulo tripartito torna a farla da padrone: quelli che lavo-
rano, in basso (artigiani), quelli che pensano, in alto (tra affreschi “nobilio-
res”) e quelli che pregano, al centro. E infine, inequivocabilmente, il vertice
del cursus honorum è caratterizzato dal primato dell’intelligentija: del resto da
un nucleo storico di ‘bramani pitagorici’, che non estendono il comunismo
sessuale alle città satelliti, filosoficamente ‘imperfette’, il minimo che ci si possa
aspettare è che per diventare Principe-Sacerdote bisogna ‘eccellere in metafisi-
ca e teologia’ (28.38). Tutt’al più si può invocare un duplice registro: quando
C. esalta il lavoro manuale, ha in mente un codice sociale di cui capovolge i va-
lori: il nobile ‘meccanico’ è il vero “rex” rispetto a quel saprofita di un rentier,
la cui unica occupazione è oziare; il secondo codice, tassonomico, è basato in-
vece sulla progressiva complessità dell’astrazione; e, convenendo con la con-
clusione di Rossi,216 vediamo delinearsi un C. contraddittorio, che ribalta la
classista divisione del lavoro con una rivalutazione della tecnica, dei cui ritrova-
ti anche futuribili CS è piena; invoca la pari opportunità, se non proprio ugua-
glianza, fra gli uomini, con coraggiose aperture sociali (voto, istruzione) alla
donna; e poi, a proposito di quest’ultimo punto, ci si trova di fronte ad affer-
mazioni (o pratiche) di segno totalmente opposto, e all’interno della stessa CS.
3. All’uguaglianza fra gli uomini, infatti, C. oppone tre forme concrete di subor-
dinazione (e quindi disuguaglianza): per natura (il maschio e la femmina),
per colpa (il giudice e il reo), per sorte (il soldato e lo schiavo [Aphor. II, 11]).
I Solari non tengono prigionieri, salvo i nemici (100.12), ma in compenso
commerciano (80.3) quegli schiavi di cui prima si era negata l’esistenza
(54.34), o li impiegano nei lavori pesanti (v. n. 78.36-80.2 – il che già la dice
lunga circa la tanto sbandierata primazia delle attività faticose); ma c’è di più:
la loro tolleranza si arresta dinanzi ai nemici, una volta della ragione (T.64.22)
ora della religione (64.19), che sono indegni di esser annoverati nel genere
umano, e quindi vanno sterminati: “anche la guerra può talvolta essere effetto
di carità e identificarsi con la misericordia, come quando un principe attacca
militarmente popoli barbari viventi a guisa di bestie e li riduce poi a un vivere
umano: questo fece il Re di Spagna con le genti delle Indie Occidentali; in
questa guerra si manifesta anche la giustizia perché si difende il genere uma-
no dall’antropofagia e dalla sodomia, e si distolgono le anime dal culto del de-
monio” (Theol. XII, 175). In Rhet. VII III affronta un caso di argomentazione
“dalla causa finale: ogni bene è conveniente e lecito; che gli Spagnuoli spa-
droneggino sugli Americani è bene, dunque è lecito. Si dimostra che è bene
prima di tutto [a partire] dal bene in sé, che è Dio a cui gli Americani sono ne-
mici (questo argomento ha forza nel senato spagnolo); poi dall’onesto, poi-

216
“C. – pur tanto profondamente legato al clima della magia e dell’astrologia – avvertì come
pochi altri il carattere rivoluzionario delle grandi scoperte della tecnica e dei grandi viaggi di
esplorazione… Nonostante l’avida curiosità verso il rinnovamento in atto nella scienza e ver-
so i nuovi ritrovati della tecnica, C. – come ha di recente ribadito il Corsano – rimase ‘so-
stanzialmente estraneo al grande rinnovamento metodologico e produttivo dell’età sua’ [p.
239]” (Rossi 1971, p. 105).
324 LA CITTÀ DEL SOLE

ché è giusto che i migliori abbiano il sopravvento e sconfiggano la barbarie;


poi è cosa magnanima e pia, ecc… È un’opera buona ricondurre i selvaggi al-
la dignità umana, anche con la forza, come quando si riducono alla ragione i
pazzi; anzi, è un’opera di misericordia, ecc. Poi dall’utile, poiché avremo in
abbondanza dall’America oro, argento, animali, gemme, schiavi… Mentre chi
ruba una sommetta è un ladro, un grande utile sempre porta con sé l’onora-
bilità. È bello possedere molte parti del mondo e cingere col proprio dominio
la terra… Poi dall’emulazione, poiché gli Olandesi nostri nemici, intrapren-
derebbero ciò che noi smettessimo di fare” (p. 801).217 Posto che non si tratti
di pura esercitazione retorica, indubbiamente non si può chiedere a un uo-
mo, che per giunta ha passato metà della sua vita chiuso in un carcere, di usci-
re fuori dal suo tempo e dal suo spazio (che nel 1612 era ancora ispanocentri-
co). Per un altro religioso del Cinquecento, che fuori del suo mondo, almeno,
c’era stato, invece “le anime sono per natura tutte uguali, ma, poiché i corpi
nei quali sono inserite sono differenti quanto a capacità, si originano diversità
accidentali e apparenti che possono far sì che alcuni appaiano più di altri
adorni di virtù naturali” (Maravall, p. 636);218 e infatti per Bartolomeo Las Ca-
sas la schiavitù è contronatura perché l’uguaglianza naturale originaria com-
porta come conseguenza la libertà. Tuttavia non si può negare, anche perché
implicitamente la polemica affiora nella stessa CS (134.15-24: gli Spagnoli so-
no mossi alla scoperta del Nuovo Mondo soltanto dalla brama dell’oro), che
C. sia sdegnato da una siffatta politica di rapina, come denunciano scoperta-
mente il cap. XXXI di Mon. Sp. e ancor più gli ultimi scritti politici, in cui pro-
prio Las Casas è chiamato a testimone: “andate dagli Americani, e in quelle
terre così sterminate non troverete più esseri viventi, ma soltanto ossa e cene-
ri, e la terra ingrassata dal sangue dei suoi abitanti” (Opusc. ined., p. 95).219

217
Uno dei requisiti per cui un animale possa dirsi perfetto è l’abilità imitativa, che può esser
di due tipi: “le scimmie fanno quello che vedono e ricordano quello che odono; il ‘pigmeus’,
invece, pur parlando, è irrationabile animal; per quanto concerne le virtù animali, il pigmeo è
dopo l’uomo l’animale più perfetto: et videtur quod inter omnia animalia plus confert me-
morias suas et plus percipit de signis auditus, ita quod videtur aliquid habere imitans ratio-
nem, sed ratione caret”; i pigmei sono in certo modo paragonabili ai ‘moriones’ (= pazzi),
con la differenza che il folle ha la privazione non della ragione ma dell’uso di ragione. E fi-
nalmente non ha civiltà né leggi, ma segue “naturae impetum sicut et alia bruta animalia, sed
erectus incedit… et ideo semper silvestris manet nullam prorsus civitatem custodiens… In
base a quanto detto dunque il pigmeo è quasi a metà strada fra l’uomo avente un intelletto
divino e gli altri animali, nei quali non brilla neanche una scintilla della luce divina” (Alber-
tus, De animal., l, 21, tr.1, c.2, 11-2 [t. II, p. 1328-9]).
218
S. Cro, T.C. e i prodromi della civiltà moderna, Hamilton, 1979, p. 10sg; e da ultimo, per Las
Casas, Todorov (p.348-53).
219
Cfr per quest’aspetto Ernst 2002, p. 237-40 e Ernst 1991, p. 70-2, dove c’è anche una bibl.
sul rapporto C./Nuovo Mondo, fra cui sottolineerei Benzoni, 2-6v; per il tema del comuni-
smo campan., cfr Solari 1941, p. 193-7; R. Crahay, T. C. ou le socialisme dans la Cité de Dieu, in
‘Problèmes d’histoire du christianisme’, III, 1972-3 (p. 51-71); C. Quarta, Sul comunismo della
Città del Sole, ‘Quaderno filosofico’, I, 1977 (p. 7-64).
COMMENTO AL TESTO 325

34.2-7: At post… in superliminio.


Forse è anche un’esplicita reazione a quei progetti, facenti capo a un altro mo-
dello simbolico della città (‘la città antropomorfa’ [Finotto, p. 135], la città-
corpo umano di Richelieu [Kruft, p. 106]), modello legato alla divisione del la-
voro e alla conseguente gerarchia sociale, come in Dürer, in cui i fabbri dove-
vano abitare in periferia a fianco alle fucine, con al centro i palazzi dei nobili
ecc. (Kruft, p. 79), tipico della città medievale, ma rilanciato da Doni in chiave
di razionalizzazione urbanistica: ogni via dedicata a un mestiere. L’intercam-
biabilità di tutte le abitazioni (salvo presumibilmente quelle dei sacerdoti adia-
centi al Tempio [10.5 e 106.41]), ridotte a dormitori tutti uguali, non essendo-
ci alcuna forma di ‘privato’ (proprietà o famiglia),220 è agevolata dalla loro se-
mianonimità, identificate come sono attraverso una semplice lettera alfabetica:
il Palazzo della Virtù a Sforzinda è dotato di ventiquattro porte e ventiquattro
stanze (il numero è uguale a quello delle lettere dell’alfabeto, nota Grassi), cui
però si accede attraverso un percorso ascensionale di progressiva purificazio-
ne, coerentemente alla prassi architettonica del suo Autore, che progetta gli
edifici in base alla tipologia degli occupanti (Finotto, p. 136).

34.9-10: cum discretione:


Ricalca (ad es. da Tommaso, 3SCG, 81) la topica divisione sessuale del lavoro:
“Homo enim natura fortior, aptiorque negotiis externis et acquisitioni bono-
rum, unde alantur. Foemina timidior et blandior, aptiorque domesticis et pro-
lis educationi et bonorum conservationi” (Quaest. oec. II I, p. 174). Platone, Re-
sp. 451e, 455d-e, 457a-b (ripreso da Eusebio, 608-9B) e More, 91 indicano ap-
punto queste (compresa la cura degli orti in periferia: More, 84), come attività
elettivamente femminili in uno stato non solo ideale (v. 78.20, n. 18.39 e n. 32
[glossa] § 3).

34.11: ab masculis,
L’unico altro caso di “ab” seguito da consonante è a 48.30.

34.16: pomerium
“‘Pomerium’, parola sincopata, che significa ‘dietro o dopo le mura’” (Plutar-
co, Romulus 11, 4); “è lo spazio intorno alla Città fuori e dentro le mura, dove
non si può fabbricare” (Maffei, I, p. 368).

34.24: Musica
È eseguita quasi esclusivamente da donne e bambini (salvo trombe e tamburi,
che “inducono a movimenti veloci adatti a coloro che combattono, affinché si
lancino nella mischia”) in quattro circostanze: in mensa nei giorni festivi
(36.35), ma anche dopo pranzo (108.29); nella Città in occasione di giostre

220
La stessa alternanza si pratica nella repubblica di Platone (Resp. 416d, 457c) e in More, 83
(lo scambio di case avviene ogni dieci anni per sorteggio), nonché di fatto nei conventi.
326 LA CITTÀ DEL SOLE

(76.12), feste principali (110.22) o trionfi militari (48.32); per accompagnare


determinate attività (cambio della guardia [76.7], lavori collettivi in campagna
[80.30]); con funzioni terapeutiche (146.18). Musica in utopia: More, 94 e 115
(dopo pranzo); Agostini, Rep., p. 176; Doni, p. 78-9 (i giorni di festa nel Tem-
pio).

34.27-30: Item… annum.


Sono le stesse norme impartite dalla sua economia domestica: triplice separa-
zione, secondo un modello claustrale (v. n. 36.11-2): cucina/mensa, la prima
riservata solo al cuoco, per cui i pasti vanno passati attraverso “rotam ligneam,
quasi sancti Moniales in suis Monasteriis uti solent”; maschi/femmine e adulti/
fanciulli, ai quali ultimi spetta solo portare le vivande dalla “ruota” della cucina
alla tavola (Oecon. II II, p. 192; idem More, 111-2). Il limite di venti anni, poi, è
forse frutto di reminiscenze bibliche: “secondo le ultime disposizioni di Davi-
de”, i Leviti “erano addetti al servizio del Tempio del Signore dai vent’anni in
su, anziché solo dai trenta in avanti”, perché “il servizio era divenuto più legge-
ro” (1Cron. 23, 24-7).

34.32: promptuaria
“‘Promptuarium’ dictum eo quod inde necessaria victui promuntur, id est pro-
feruntur” (Isidoro, XV).

34.36: verberandi
La sferza è caldeggiata da Platone, Resp. 465a; mentre coatta solidarietà e reci-
proco servizio fra giovani (36.9) sono mutuati da More, 104.

36.3-4: senioribus… annum,


Dopo i quarant’anni il Solare diventa ‘senior’ (“senes” sono i cinquantenni
[88.29]), secondo una scansione d’età tracciata in Compendio LII, 11-8: 0-4 anni
l’infanzia, età lunare; 4-14 la fanciullezza, mercuriale; 14-22, l’età di Venere (v.
n. 40.22); 22-41, l’età del Sole (v. n. 30.6); “a 41 anni il calore aumentato inari-
disce le membra, infiamma lo spirito al desiderio di opporsi alla morte non
grazie alla generazione, ma alla fama: i capelli diventano bianchi a causa della
diminuzione per esalazione del calore che li nutre, e perciò si chiama età di
Marte. A 68 anni ha inizio l’età decrepita di Saturno, grave e tremante… Que-
sto diciamo soltanto degli uomini e soltanto per quel che concerne il nostro
clima. Gli altri animali, infatti, e gli uomini che vivono in climi diversi hanno al-
tre età”, come in quest’isola equatoriale dove arrivano a vivere fino a duecento
anni (88.24).

36.11-2: primas et secundas mensas,


Potrebbe alludere a una divisione per età (giovani in una tavolata e adulti nel-
l’altra), o, più probabilmente, per grado, e cioè una prima tavolata riservata agli
ufficiali (con un trattamento scelto [36.29]) e una seconda a tutti gli altri. Men-
tre in T.36.15-7 è questa disposizione (di mense e commensali) che richiama il
COMMENTO AL TESTO 327

refettorio conventuale, qui invece a richiamarlo è il silenzio che regna a tavola


(la discrepanza può dipendere dalla fluttuazione della punteggiatura nei mss).
Fonti, oltre all’esplicita pratica conventuale: Platone, Resp. 404a sg, 416e, Leg.
625c e sg; contrario alle mense comuni Aristotele, Pol. 1271a-1272b e 1329b;
Plinio esaltava delle api anche il fatto che “non mangiano separatamente, af-
finché non ci sia alcuna disuguaglianza né nel lavoro né nel cibo né nell’im-
piego del tempo” ([Conte] XI X); Plutarco, Lyc., 10, 1-5; 12, 1-14; Giamblico,
Vita, 98-9 ([Theodoreto, XXI, p. 99] lettura durante la refezione); Tertulliano,
Apolog. XXXIX; More, 107-14 (uomini seduti in “sedilia” da un lato e donne
dall’altro lato della tavola, e letture edificanti); Doni, p. 938 (una via di sole
osterie); Agostini, Rep., p. 172; Patrizi, p. 98 (brevi cenni in Cooke, p. 92-5).

36.15: legit
La lettura durante il pranzo comune non era esclusivo appannaggio conventua-
le; era praticato ad es. nella ‘Casa Zoiosa’ di Vittorino da Feltre, secondo questo
principio dietologico, come narra il Prendilacqua: “per non dar modo durante la
cena che venisse sollecitata la gola, era solito tenere degli scolari a leggere, così
da attirare l’animo dei commensali inducendoli a dilettarsi d’ascoltare. E sce-
glieva per un ufficio tanto delicato solo ragazzi di grande intelligenza e memoria,
con voci piacevoli e argute, avendo gran cura, anche sotto la guida di musicisti,
che pronunciassero bene, con esattezza e chiarezza; sì che quel dolce e armonio-
so concento distogliesse, se non dal cibo, almeno dai futili scherzi, specialmente
quando si cantavano le valorose gesta degli eroi, o si narravano storie” (p. 631); e
Signorini pensa “a Pitagora dieteta e musico come al possibile paradigma peda-
gogico” (p. 132), mediato dal boeziano De institutione musicae. Anche a Sforzinda
nel convitto dei ragazzi poveri, allevati in comunità fino a vent’anni, “mentre che
si mangerà, che faccino leggere continuo uno di quegli putti”; e dopo cenato,
“alla musica chi c’è adatto” (Filarete, p. 513-4).

36.26: Medicorum
È addirittura un Protomedico (88.32) a presiedere alla cucina, perché “la me-
dicina è architettonica rispetto alla coquinaria e alla speziaria” (Poetica III, p.
319); secondo la tradizione della scuola medica salernitana, infatti, gli alimen-
ti sono i primi farmaci. Lettere, p. 264 e Poetica X, p. 334 esplicitano la fonte: il
poeta adulatore, “non medico, ma cucinaro, che fa le cose al gusto solamente,
sarà, come disse Platone dell’oratore adulante”; infatti in Gorg. 463-6, Socrate
pone tra “le parti dell’adulazione” anche “l’arte della cucina”, perché “sotto la
medicina scivolò la culinaria, che simula di sapere quali siano i migliori cibi
per il corpo, onde se un medico e un cuoco dovessero scendere in gara”, il me-
dico risulterebbe senz’altro perdente221 – passo, questo, cui accenna anche Fi-
cino nell’‘Argumentum’ al Phaed. di Platone: “assomiglia uno cattivo oratore a

221
Cfr anche Poët. II III, p. 935-7, opera, questa, che si chiude con l’esortazione: “il poeta sia
cuoco quanto al verso, medico nel concetto” (p. 1217).
328 LA CITTÀ DEL SOLE

cuochi adulatori, come anchora fece nel Gorgia, e il buono a un medico” (I, p.
307, trad. di Figliucci).

36.34-5: Hoc… reputatur.


Quest’attenzione supplementare per i magistrati, che essi subito voltano in in-
centivo per i più bravi, è congeniale alle utopie collettiviste (il passo si può con-
siderare infatti un libero rifacimento di Platone, Resp. 468d; Plutarco, Lyc. 26,
8; Diodoro V XVII, p. 367-8; More, 109 e in partic., 114), nelle quali utopie,
non esistendo la molla dell’individualismo e dell’accumulazione dei beni (l’o-
ro è un metallo come gli altri: 48.32), bisogna ricorrere all’emulazione di beni
simbolici, senza cadere nell’idolatria (niente statue a eroi viventi [112.6]): pre-
miazione e promozione di grado dei più valenti nelle arti (26.39; 84.4); il co-
gnome dall’impresa a titolo onorifico (48.20); e comunque solo ‘regalini’
(“munuscula”) pubblici (vietati quelli privati: 24.5-6) sia al valor civile (54.11-
2) che militare (72.28).

38.5: Alba
Tutti i Solari indossano prevalentemente (v. n. 54.15-8) non solo biancheria,
ma anche capi di vestiario (38.27) bianchi, per la sommatoria di queste ragio-
ni:
– anzitutto Scritturali: Ec. 9, 8 (nella citaz. di Damasceno, Parall. II, 98E): “in
omni tempore sint vestimenta tua alba”, come bianche erano le vesti del Cri-
sto risorto, “ad eundem modum facies quidem ut sol splendet, vestimenta
autem eius lucis instar alba fiunt” (De Dom. transfig., 363I); “il bianco, che del
nero è ognor più bello” (29, Madr. 3, 9), è simbolo della luce e “la luce è si-
mile al Senno, secondo Salomone” (24, Madr. 1, Esp.);
– fisiche: “è il primo colore, che per sé si vede e fa vedere gli altri enti”, men-
tre tutti gli altri colori sono luce impura (24, Madr. 1, 10-4 ed Esp.); cioè il
bianco è anche il parametro cromatico basale: “nel genere dei colori misura
è la bianchezza e i colori si misurano dall’approssimazione o dilungamento
da essa” (Theol. I [I, p. 73]);
– sociali: “oggi tutti amano il nero, proprio della terra, e della materia e del-
l’inferno, di lutto e d’ignoranza segno” (54, Esp.): il bianco Solare è anche
una reazione alla moda vigente, che invece predilige il colore dell’ombra (=
freddo), della morte, del nulla; la scelta del bianco era dettata cioè anche
dall’avversione agli Spagnoli che amavano vestire di nero (Firpo 1954, p.
1330): “Taccia il popol moresco, che non vuole / udir il suon delle divine tu-
be. / L’alba colomba scaccia i corbi neri” (55, 12-4; v. nn. 54.18/20); e insie-
me è antesignano di quello che sarà il colore futuro, come appunto andia-
mo a vedere:
– è colore ‘apocalittico’, che preannunzia insieme la ‘renovatio’ e l’ordine do-
menicano biancovestito: nella celebre risposta del finto folle agli aguzzini
“diece cavalli bianchi” era adombrata la profezia di Zaccaria, dove “la qua-
driga dei cavalli bianchi è mandata a restaurare Gerusalemme, e bianco è il
primo cavallo vittorioso, che appare quando Cristo dischiude il primo segre-
to di questo nuovo Stato, e bianchi sono i vegliardi [Zc. 6, 3; Apoc. 6, 2, ecc.];
COMMENTO AL TESTO 329

questi preannunciano l’ordine domenicano e la sua denominazione e il suo


abito: coloro che affermano doversi attuare in terra lo Stato predetto inter-
pretano che debba avvenire per loro mezzo… e l’abate Gioachino… tali di-
pinse i Domenicani e li identificò, prima che esistessero, coi cavalli di Zacca-
ria [Gioacchino Da Fiore, Tractatus… e Concordia… II, 28 etc.]” (Supplizio,
pp. 97 e 153).222
– Colore dei vestiti dei congiurati: “quelli che vogliono far riforma di religioni
e di costumi, mutano gli abiti, li cappucci, le cappe” (Antiven., p. 75); C. vo-
leva infatti che “il vestito dei congiurati fosse… una veste bianca sin al gi-
nocchio, e sotto portassero quel colore e quelle ricchezze che più li piaceva-
no” (Anon., Relazione della Congiura e rebellione trattata da fra T. C…. [cit. da
Ditadi, p. 82]); secondo un’altra deposizione l’uniforme consisteva in “una
veste bianca sino al ginocchio, con una tovaglia alla testa che pendi di dietro
et con un cappellino in testa” (Flamigni, p. 83).
Questa ‘uniformità’ del vestire è appannaggio esclusivo delle utopie moderne:
gli abitanti di Pancaia (Diodoro V X [I, p. 274-7]), ad es., usano vesti “delicate”
senz’altra specificazione (la purpureità di quelle dell’Isola del Sole è indice di
ricchezza non di uniformità [v. n. 54.15-8]). More, invece, dopo una breve an-
ticipazione circa l’‘identico modo di vestire’ – “se si eccettua che dall’abito si
distinguono i sessi e i coniugati dai celibi” (par. 90, p. 185) –, poco oltre passa
alla descrizione del ‘Modo di vestire’: “Anzitutto, quando sono al lavoro vesto-
no senza pretese di cuoio o di pelli… quando escono in pubblico, indossano di
sopra un mantello che ricopra quegli abiti rozzi: questo è d’un medesimo co-
lore per tutta l’isola, cioè quello naturale”, ovvero bianco (par. 99, p. 193). Do-
ni, p. 8: “i vestimenti erano tutti uguali, salvo i colori, che insino a dieci anni
era bianco, insino ai venti verde, dai venti ai trenta paonazzo, insino ai quaran-
ta rosso, e poi il restante della vita negro”. Addirittura Rabelais, che dedica un
lungo paragr. (I, 56) a ‘Come sono vestiti i religiosi e le religiose dell’abbazia di
Thélème’, dove, da mondo alla rovescia qual è, trionfa lo sfarzo e la varietà di
colori e di mode, poi conclude ‘cavallerescamente’: “Ma c’era tal simpatia tra
gli uomini e le donne, che ogni giorno si vestivano nel medesimo modo… per-
ché in tutto ciò si regolavano sulla volontà delle dame”.
Dall’uniforme spiccano alcuni dettagli funzionali: in More generica distinzio-
ne di sesso, di occupazione e di stato civile; in C., ovviamente, non ci può esse-
re quest’ultima, ma c’è la prima: diversa lunghezza della veste, diversa foggia
dell’acconciatura del capo – capigliatura corta con zucchetto/capelli lunghi
ma annodati a treccia e inghirlandati (110.2) –; e la seconda, l’occupazione: al
lavoro e a riposo di certo cambia il cappello e forse anche il colore (rosso
[110.10]), con una traccia di gerarchia nel copricapo dei magistrati (per il sa-

222
Nonché il sonetto 55, 5-8: “E finir di Giovanni il lungo pianto / avendo il gran Leon giu-
deo gli onori / d’aprir il fatal libro, uscendo fuori / il bianco corridor del primo canto”, cioè
l’“equus albus” di Apoc. 6, 2, su cui torna spesso Theol. XXV: ad es. a p. 141 dice che nel giu-
dizio universale Dio vuol “munire il principio potestativo dell’uomo mediante le vesti bian-
che”, affinché non appaiano le sue vergogne come fu con Adamo.
330 LA CITTÀ DEL SOLE

pere) e nei paramenti sacri (per lo stato religioso); a Doni invece l’accomuna
la distinzione per fascia d’età: i bambini hanno vesti varie.

38.14: semicothurnis
Traduce il “bolzacchino” (T.38.14), o, secondo l’unica grafia attestata dal
GDLI, ‘borzacchino’, cioè uno stivaletto che arriva a mezza gamba.

38.20-2: Mutant… Capricornum;


La sostituzione dell’abbigliamento avviene cioè all’inizio delle quattro stagioni,
come consigliano diffusamente Oecon. VIII, p. 209 e Medicina, p. 64. Doni: “le
donne dovevano tenere i panni lini per mutarsi”, in modo che all’occorrenza:
“To’ questa vecchia, dammene una nuova; ecco la brutta, dammi la bianca” (p.
938); mentre i religiosi di Thélème non solo la veste, ma mutavano pure la tap-
pezzeria, “secondo la stagione dell’anno in cui s’abitavano” (Rabelais, I, 55 e
56).

38.28-9: lavantur… sapone


“I vostri indumenti vengano lavati secondo le disposizioni della superiora da
voi o dalle lavandaie… Anche il lavacro del corpo e l’uso del bagno non sia
troppo frequente, ma si conceda il solito intervallo di tempo, ossia una volta al
mese” (Agostino, Lett. CCXI, 13 [PL XXXIII, 963]).

38.35: fontes,
Platone, Leg. 761b, 763d, 779c; Aristotele, Pol. 1330b; Vitruvio, VIII, 2, 1-4 e 6,
1; Columella, De re rust. I V, 2; Alberti, X V-XI; e, in particolar modo: More, 81;
Rabelais, I, 53 (per le grondaie) e I, 55 (per fontane e piscine).

38.38: artificiosi manubrii:


Nel XVI sec. i dispositivi per il sollevamento dell’acqua rivelano molti progres-
si, dovuti alla sempre maggiore importanza che andava assumendo la pompa
aspirante (descritta da Giorgio Agricola nel De re metallica: “l’uomo addetto alla
pompa… spinge il pistone dentro il tubo e successivamente lo ritrae”). Celebre
la pompa disegnata da Ramelli nel 1588, che serviva a riempire una cisterna
per alimentare un acquedotto (Storia della tecnologia, p. 335). Infatti nelle ridu-
zioni paraguaiane, i gesuiti, attenti a ogni progresso scientifico, avevano adot-
tato, per l’alimentazione delle cisterne, un sistema di sollevamento idraulico
analogo (Armani, p. 111-2). Già il gesuita Maffei aveva in effetti notato che i Ci-
nesi per mezzo di un “tale artificio, che qualsivoglia uomo stando a sedere con
muovere leggiermente or l’uno or l’altro piede, vôtano in poche ore qualsivo-
glia gran sentina” (I, p. 378).
In Metaph. VI X, I (II, p. 147) C. dimostra di conoscere il principio fisico per il
sollevamento dell’acqua: le ‘ingegnose manovelle’ servono a creare il vuoto
pneumatico, che “solleva in alto le acque attraverso tubi, dai quali è stata fatta
uscire l’aria”; nella casa ideale “necesse est Cisternam intra Cortem… Item la-
vatoria loca, proindeque machinas artificiosas, per quas aqua aquaeductibus
aëreis in aedes omnes… exili unius manubrii agitatione feratur, ut Mechanici
COMMENTO AL TESTO 331

recentiores re ipsa ostendunt” (Oecon. II II, p. 192): è un impianto idraulico


completo di tubazioni, rubinetti e pompe, mosse con lo stesso tipo di propul-
sione utilizzato dai Solari per le navi – quello paragonato al filatoio (160.17) –,
cioè a biella, che in questo caso serve a ottenere il vuoto per risucchiare l’ac-
qua.

38.38-40.2: sunt aquae… perferuntur;


Il sistema di raccolta delle acque piovane è molto diffuso in area mediterranea,
per la sua particolare orografia e meteorologia (scarsità di fiumi e di precipita-
zioni). Nella ‘descrizione della città di Fez’ fatta da Leone Ebreo, moltissimo
spazio è dedicato al sistema di fognature, acquedotti, vasche, fontane (“Vi si
truovano moltissime case, le quali hanno certe conserve d’acqua fatte quasi in
quadro… Da ciascun lato della lunghezza usano di fare alcune fontane basse,
molto belle… Come le fontane son piene, l’acqua sen va nelle dette conserve
per certi acquedutti coperti e molto bene ornati d’intorno, e quando le con-
serve sono ancora elle piene, ne va allora quest’acqua per altri acquedutti… e
cade per certe picciole vie, di maniera che corre di sotto ai cessi…” (Ramusio,
I, p. 161).223 C. aveva pure conosciuto i vari sistemi di far “conserve” (= cister-
ne), “ricevendo l’aqua da’ tetti o d’altri luoghi più alti”, e poi di potabilizzarla
con vari tipi di filtratura (fra cui quello a sabbia), descritti da Alberti, X VI (p.
934) e Imperato, VII XXIV e XXIX (pp. 192 e 194). Infatti tra i vari requisiti per
la scelta del sito ideale all’edificazione di una casa, elencati in Oecon. (II II, p.
191-2), C. indicava la vicinanza all’acqua corrente, fornita da fiumi o acquedot-
ti, e comunque assicurata da capaci cisterne.

40.5-8: superne… diviniores.


Che i portici superiori contenessero pitture di contenuto (non c’entra la fattu-
ra) più elevato di quelli inferiori, lo si era già dedotto da 18.11, con i condot-
tieri in basso e i legislatori in alto (e Cristo ancor più sublimato). Analoga pro-
gressione in Quaest. oec. III I, p. 182: i primi rudimenti di religione l’insegnano
i genitori, poi i “praedicatores verbi Dei; deinde difficiliora in templis decla-
rat”.

40.9: horologia
La quattrocentesca Sforzinda di Filarete è sì costellata di banderuole, ma ha
pochi orologi. La proliferazione di sistemi di misurazione del tempo, oltre ad
esser funzionale alla vita conventuale dei Solari scandita dagli appuntamenti
collettivi (dalla refezione comune alla vigilanza, dalla preghiera con turnazio-
ne oraria permanente all’ingranaggio scolastico), trova una motivazione sup-
plementare in un secolo, che non a caso aveva riformato il calendario (v. n.

223
C. potrebbe averlo letto anche nella raccolta di Sansovino, Del governo dei regni e delle repub-
bliche così antiche come moderne, Venezia, 1578 (cit. da Ernst 1997a, p. 57).
332 LA CITTÀ DEL SOLE

114.1-5). Posti fra gli esempi ‘Della possanza dell’uomo’ (Poesie, 43-5: “Dà al ra-
me lingua, perc’ha divina alma”), i primi “horologia sonnantia sponte” (Art.
proph., p. 283), cioè che battono le ore, risalgono alla fine del XIV sec. Ma la lo-
ro costruzione ebbe notevole sviluppo, prima in seguito alle esplorazioni geo-
grafiche (il rilevamento della longitudine richiede la conoscenza dell’ora in un
meridiano-base), e poi alle osservazioni astronomiche, e fu proprio l’astrono-
mo Galilei a scoprire l’isocronismo del pendolo (cfr Rossi 1971, p. 43-4; Storia
della tecnologia III; Sobel, p. 33-5). Questi orologi però non avevano per nulla
soppiantato le meridiane (“l’orologio significa lo spazio del moto solare” [Tito-
li, p. 291]), su cui ancora a fine Seicento uscivano importanti trattati e realizza-
zioni pratiche. Carlo Carafa, “appassionato di astronomia e matematica”, non-
ché vicerè di Sicilia (Guidoni Marino, p. 422-4), pubblica un Exemplar horologjo-
rum solarjum civilium (Mazzarino, 1692). ‘Il Giornale dei Letterati’ di Parma, re-
censendo qualche anno prima una sua opera, scriveva che Carafa simboleggia-
va “il Principe nell’orologio solare, che diretto dal Sole, dirige le operationi de
mortali, e così il Principe ben regolato da Dio, ben regola i popoli”. Un ultimo
dettaglio: è lui l’ispiratore della pianta di Grammichele, una ragnatela radio-
centrica ottagonale, con un’enorme meridiana orizzontale, posta proprio al
centro della piazza sempre ottagonale, la quale fungeva appunto da catino del-
lo gnomone (per questa peculiarità si è fatto inutilmente il nome dell’utopia
campan. [Guidoni Marino, p. 424-5]). Un’altra struttura poligonale (esagona-
le), l’anti-abbazia di Thélème, abolisce gli orologi: “Siccome negli Ordini di
questo mondo tutto è… regolato ora per ora, fu decretato che in quel conven-
to non vi sarebbe né orologio né quadrante di sorta, ma che si assolverebbe ad
ogni opera secondo le occasioni e opportunità; perché (diceva Gargantua) il
più fiero perditempo che lui conoscesse era quello di stare a contare le ore” (I,
149).

40 (glossa): De generatione… parentum


Come ben notava Bobbio, la generazione ha “un valore metafisico e un valore
politico”: a) tutti i mali del mondo derivano dall’accoppiarsi a caso (il suo cor-
rispettivo dogmatico è il peccato originale [132.5]), perciò la materia va tratta-
ta “religiose” (50.8), anzi “sacrosanta religione” (50.21-2); b) la cellula, non so-
lo costitutiva, ma ‘durativa’ dello stato è formata da “maschio e femmina” (Phil.
realis IV, p. 472; Politica I, 4); per questa doppia valenza, occorre una duplice
preparazione dei procreatori: religiosa (44.14) e fisiologica (44.12-3; v. n. 32
[glossa] § 2).

40.14-7: decimum nonum… vigesimum primum


A diciannove anni le donne possono essere fecondate, mentre i maschi rag-
giungono la maggior età generativa a ventun anni, e la media fra queste due ci-
fre segna invece la maggior età civile (a vent’anni non servono più a tavola [v.
n. 34.27-30] e sono ammessi in Consiglio [68.3]); infine ventidue anni è la dif-
ferenza d’età per esser chiamati ‘padri’ (24.17), probabilmente perché a ven-
tun anni iniziano ad esser generatori (v. n. 32 [glossa], § 2, punto 3). Ventun
anni infatti è l’età minima maschile fissata secondo una norma fisiologica (“fi-
COMMENTO AL TESTO 333

no alli vent’uno anno [sic] non è ben cotto perfettamente il seme del maschio,
grosso et viscoso, che si possa in ossa et nervi ben distendere et addensare: on-
de quel de giovani è simile al donnesco, acquedoso et liquido, perché il calore
non è tanto che faccia svaporare il sottile et rendere costante et saldo il rima-
nente” [Epilogo, p. 445]; ma l’ideale sarebbe dopo i ventisette anni (42.2; Oecon.
II XIII, p. 193). Questa teoria, che C. attribuisce a “Platone e Aristotele” (Mon.
Fr. VII, p. 462), richiamandosi rispettivamente a Leg. 772a e Pol. 1335a, è una-
nimamente condivisa: da Savonarola, I, 6 a Telesio, III, 33: “il feto non si forma
affatto, se il seme è o così liquido e rilasciato, come quello dei fanciulli, da of-
frire allo spirito che in esso si genera una via d’uscita, oppure… così denso, co-
me il seme dei vecchi, da non potersi sciogliere in fluidi” (p. 589). Invece la
donna, che ha vita più breve, è in grado di prolificare prima del maschio, e
cioè dopo i diciotto anni, corrispondente a un ciclo lunare completo (Epilogo,
p. 445; Medicina, p. 56).224 Naturalmente procreazione e sessualità viaggiano di-
stintamente, come distinti sono i codici erotici: nel maschio l’astensione dal
coito fino a ventuno/ventisette anni viene premiata (42.2); nella femmina vie-
ne imposta (40.13).
Nella restante bibliogr. presumibilmente nota a C. la fascia di oscillazione del-
l’età procreativa era piuttosto estesa: Giamblico [Theodoreto, p. 179] e Ocel-
lus, p. 54: non prima dei vent’anni maschio e femmina; Albertus, De animal. l.
9, tr.1, c.1, 16-27 ‘De principio generationis hominis quod est sperma maturum
circa vicesimum primum annum generantium’; l. 18, tr.2, c.9, 94: “puer et se-
nex propter humorem et cruditatem frequentius generant feminas”; Savonaro-
la, I, 6: “le femene al decimo suo octavo anno e in li maschi almeno il vigesi-
moprimo”; More, 176: diciotto lei e almeno ventidue lui; Patrizi, p. 107: uomo
trentacinque-quarantanove anni, donna diciotto-quaranta (consigliabili da un
punto di vista medico); Figliucci: limitare le unioni sessuali a precise fasce
d’età.

40.17: complexionis.
Il peculiare aspetto e struttura fisica di un organismo. In questo caso sono chia-
mati in causa i linfatici, dalla carnagione chiara (‘nivea’), segno di sangue im-
perfettamente elaborato. Il ‘temperamento’, ovvero la particolare mescolanza
e interazione fra le qualità elementari (= caldo, freddo, umido, secco) e gli ele-
menti (= fuoco, aria, acqua, terra), donde i quattro umori (= sangue, collera o
fiele, melancolia e flemma), genera una delle cinque principali ‘complessioni’
– le quattro derivanti dal prevalere di uno degli elementi, più una risultante
dalla loro perfetta contemperanza (SN XXXI LXVII-LXVIII e SD XIII VIII). I tem-
peramenti variano poi con il sesso, l’età e principalmente sono soggetti alle in-
fluenze astrali (con quel che qui segue da 42.26 in poi).225

224
In Quaest. pol. III, p. 9 e Quaest. pol. IV, p. 109 polemizza con i trentasette anni fissati da Ari-
stotele, reputandoli eccessivi specie per le regioni più calde.
225
Ad es. Filarete, p. 36: la vita di un individuo, come di un edificio, “molto proccede per la
334 LA CITTÀ DEL SOLE

40.18-20: licet… praegnantium,


C. prende le distanze, seppur con distinguo, dalla morale cristiana, tomistica in
partic., circa la sessualità extra-matrimoniale (o, in genere, non procreativa):
“Durando ed altri teologi affermano che la fornicazione non è contro nessun
principio naturale, ma contro quello positivo, ed è priva di peso l’argomenta-
zione di S. Tommaso che la fornicazione contrasta con l’educazione e la gene-
razione, quando si sa che la donna è sterile” (Quaest. pol. IV III, p. 109). Ed an-
che in scritti teologici, C. resta perplesso circa il divieto dello sfogo erotico, co-
me nell’inedito Theol. IX VI, III (cit. da Amerio): “infatti se è permesso inebriar-
si per ragioni di salute, pur essendo l’ubriachezza peccato mortale, e uccidere
a scopo di difesa l’uomo che ti aggredisce, non riesco a intendere perché non
dovrebbe essere permesso giacere con donna non coniugata e sterile. Ma in
questa opinione intendo sottomettermi al giudizio della Santa Chiesa e dei
suoi Dottori” (v. n. 44.15-9, n. 56.35-6, n. 60.11-3 e n. 60.25-6).

40.20: illicitum vas


Essendo “signore assoluto e per essenza solo Dio… ne segue che nessun uomo
è… signore di se stesso… ma è soltanto usu[fruttu]ario. Né può far uso, a pro-
prio piacimento, di se stesso né delle sue membra, se non secondo il fine stabi-
lito da Dio nella legge naturale o scritta: perciò non ucciderà se stesso, né cam-
minerà con le mani ma con i piedi… né utilizzerà gli organi genitali contro la
riproduzione della specie” (Politica II, 14).226 Essendo, dunque, lecito solo il
“vaso della generazione” (Epilogo, p. 434), è illecita o “indebita” (T.40.25) qua-
lunque emissione volontaria di “seme fuor di tempo, o di luogo, o del vaso in
cui si fa la generazione” (Poesie, 28, Madr. 9, Esp.). Tra i vantaggi che offrirebbe
la regolamentazione sociale della procreazione, vi è pure “la fin de tout gaspil-
lage d’une semence dont la quantità est finie (d’où la condamnation stricte de
l’homosexualité, de la prostitution et des plaisirs solitaires)” (Fournel, p. 211).
L’espressione medico-giuridica “illicitum vas” è infatti riferita a ogni eiacula-
zione non procreativa coniugale (in regime matrimoniale): una delle funzioni
degli organi genitali è sì quella di espellere il seme superfluo, ma facendolo
“etiam vasis in quod fiat utiliter expulsio, ordinata ad speciei conservationem,
hoc est, foeminae” (Medicina I V); “Veretrum [= il pene]… ad intrandum in
foemineum vas” (Compendio L, 5). Poiché l’uomo può “proiicere semen in
alium, ubi tamen non proficiat, quia non est vas ad hoc naturaliter institutum”,
allora Dio disse: “‘Faciamus ei adiutorium’ scilicet foeminam” (SN XXX XVII).
Pertanto si è in peccato, “quod non servatur debitus modus concumbendi: ma-
gis autem si non sit debitum vas”, cioè vi è “vitium contra naturam”, in “quo-

compressione [= complessione] cioè d’essere nato sotto migliore pianeto o miglior punto”.
Per la teoria degli umori campan. basata sulla fisica dualistica telesiana, e non tetradica clas-
sica, v. n.88.39-40.
226
Si noti l’adiacenza fra la pena ai sodomiti Solari (40.28sg) e il divieto di pratiche sessuali
non- o addirittura anti-concezionali.
COMMENTO AL TESTO 335

cumque autem modo tale factum exerceatur, praeterquam inter hominem, sci-
licet marem et foeminam, ordinate et in vase debito, vitium contra naturam et
sodomiticum iudicatur” (Tommaso, 3SCG, 122 ad 5). “La natura volendo eter-
narci in qualche modo, ci donò quello stimolo di far figli e di gettar il seme in
un vaso dove si ammassasse e componesse un altro noi”, ma l’“amore” è ben al-
tro “ch’una foia di gittar il seme dovunque cada” (Lettere, p. 121).
Proprio in quanto espressione tecnica è suscettibile di riusi straniati, come in
Ferrante Pallavicino, la cui Retorica delle puttane [1642], così definisce la sined-
doche: “il tutto per la parte o la parte quasi il tutto, secondo l’aggradimento di
chi offre offrendo il genere per la specie, o il cambio di queste in quello nel va-
so proprio del sesso, o in quello commune della specie, conforme il gusto del
omo” (p. 60).

40.21: matronae
“‘Matrona’ si chiama la donna che ha contratto matrimonio, finché rimane in
tale stato, anche se non ha messo al mondo figli, e così viene detta dal vocabo-
lo ‘madre’, non essendolo ancora, ma avendo la speranza e la promessa di di-
venirlo presto” (Gellio, XVIII, 6). A volte è in sistema oppositivo con ‘mere-
trix’, come in Giovanni Crisostomo, Super Matth.: circa la moglie da scegliere,
“noli quaerere divitem… noli quaerere speciem [= l’aspetto fisico], quia mere-
trices quidem placent in specie, moribus autem matronae” (in SN XXX XXX-
VII). In CS l’opposizione è con ‘foemina communis’ (v. n. 44.18), e quindi, nel
contesto a-familiare della società solare, ‘matrona’ sta per donna di nobili co-
stumi destinata alla riproduzione.

40.22: veneris
‘Venere’ (replicata a 42.10 e 44.17) è un’antonomasia classica (Crisostomo, In
Caput III Epist. ad Romanos, Sermo VI [IV, 62A]: i Greci “concupiscentiam vo-
cant Venerem”); ma se si tiene conto della teoria delle età della vita (v. n. 36.3-
4), è sottintendibile anche un’allusione al pianeta che governa l’adolescenza,
da quattordici “usque ad annum 22”, quando Venere “ad coitum stimulat, inci-
tat insania miseraque cupidine versari in errore et caecitate” (Astrol., p. 194), fa
fiorire “il sangue nel seme… e aggiunge l’appetito di generare un simile, co-
nosciuta la propria mortalità” (Compendio LII, 13).

40.33: in capitalem
In Quaest. pol. IV scrive che nella Città ha “eliminato i vizi che derivano dagli
abusi della sessualità, come… le sodomie” (p. 101). Distrazione, oppure C. si il-
ludeva che le pene, magari debitamente inasprite (fino all’ultima red. italiana,
infatti, non c’era condanna capitale: v. 40.39 in ‘Apparato delle varianti di α’),
insieme alla relativa libertà sessuale vigente – fatta salva la procreazione rigida-
mente programmata –, avrebbe eliminato il ‘vizio contronatura’? O forse la so-
domia, come pratica non solo e tanto omosessuale ma antifecondativa (“Dio
predispone gli organi genitali dell’uomo per la generazione e invece l’uomo
non si procura la prole, ma il piacere sodomitico” [Theol. I (II, p. 159)]), era
una deriva probabile in una società dove appunto la procreazione era così
336 LA CITTÀ DEL SOLE

strettamente controllata (v. 46.20-1)? Comunque sia, un pizzico di malvagità ci


deve essere nelle utopie, per assicurare un effetto di realismo: di fronte alla
perplessità di giustificare la presenza del male in società così perfette, la Eliav-
Feldon ritiene che esso è indispensabile “per poter conferire a questi progetti
un accento di indubitabile concretezza” (cit. da Cambi, p. 156), altrimenti si
scivolerebbe nel meraviglioso. Dunque perché C. ha introdotto la pena capita-
le per i sodomiti?
– anzitutto perché era la prassi corrente: “nobis sodomiae scelus igne punitur”
(Quod rem. 4, p. 30);
– perché la sodomia è un peccato gravissimo, già per Agostino, Conf. III: “Fla-
gitia quae sunt contra naturam sunt semper detestanda atque punienda,
qualia sodomitarum fuerunt”. I Medievali avevano codificato due tipi di pec-
cato contro natura: “aut in se ipsum et dicitur mollicies, aut in alium et sic
sodomia. Quae et ipsa quatuor habet ramos: hanc enim turpitudinem ope-
ratur vel masculus cum masculo, vel faemina cum faemina, vel masculus
cum faemina in membro scilicet ad hoc non concesso, vel masculo aut fae-
mina cum bruto” (SN XXX XCIV), per cui “vitium contra naturam sit gravis-
simum peccatorum inter species luxuriae” e “post quod est incestus” (SM III
II, IX); e infatti in Poetica VIII VII loda “Moise, divinamente ammaestrato, che
non tacette la istoria de’ Sodomiti per far venire a schifo il loro nefando vi-
zio, nemicissimo alla generazione degli uomini” (p. 328);
– la legge del taglione (100.4) è il sistema generale punitivo cui si ispirano i So-
lari (essendo una società pre-cristiana, coerentemente adotta codici analoghi
alla legge mosaica veterotestamentaria); in tale regime, quindi, la pena di
morte è contemplata per l’omicidio premeditato (100.2), per i delitti contro
lo stato, la religione e le supreme autorità (100.39-42) e, ancor più, in stato di
guerra, per i vigliacchi (74.6-7) e i disubbidienti, cui è offerta però una possi-
bilità seppur remota di scampo (74.17); tuttavia la pena capitale scatta anche
in altri casi, in cui non sembra osservato il principio di giustizia distributiva, in
cui cioè la pena non è proporzionale alla colpa, come ad es. nel caso delle
donne frivole (52.9). Ma i sodomiti sono assoggettati anch’essi alla legge del
taglione, e quel che viene punito con la morte non è il peccato in sé (come in
tutti i casi precedentemente citati), ma la recidività. “Lo Scoto pensò che sia
contro il diritto naturale uccidere un uomo e che la condanna a morte, dopo
regolare giudizio pubblico, sia lecita soltanto in quei casi in cui Dio ha dato di-
spensa nel Vecchio Testamento. Ora questa sentenza è vera, supposto che la
natura si trovi nella sua originaria integrità, e vale se si considera la natura in
quanto natura, non in quanto essere razionale. La ragione infatti insegna che
il male deve essere tolto di mezzo e che l’uomo malvagio è una bestia immane
e un membro cancrenoso che è lecito amputare anche senza dispensa divina”;
ciò che ha rilievo non è solo l’entità della colpa, ma anche la recidività, dipen-
dente o meno dalla gravità, perché essa è l’unico indice dell’insanabilità del
membro sociale: “siccome la malvagità e l’incorreggibilità non constano in fo-
ro esterno, sembra che per la prima volta basti la pena del taglione, mentre
quando il delinquente ha accumulato i delitti, allora si deve aggravarla fino al-
la pena capitale” (Theol. X [III, p. 161-3]).
COMMENTO AL TESTO 337

La pena iniziale al sodomita, più che il contrappasso dantesco, è la messa in


pratica di un esempio tipico di mondo (e cervello) rovesciato (ad es. Doni,
Mondi, p. 134: se uno “portasse le calze in capo e andasse a gambe nude, il
mondo non se ne riderebbe?”), che anche C. adopera per indicare la sovver-
sione di una legge di natura: far di un contadino un re è “sicut si quis ambulet
manibus, non pedibus” (Moralis XV, p. 61),227 la cui fonte è patristica, come si
potrebbe evincere da Apologia, p. 15 (trad. p. 141-2): se l’uomo non si servisse
della ragione, “agirebbe contro l’ordine naturale stabilito da Dio, come suole
argomentare Crisostomo, proprio come se rifiutasse di valersi dei piedi per
camminare”; allude probabilmente a In caput Geneseos Tertium (Hom. XVII):
Adamo non può invocare a discolpa l’esser stato tentato da Eva, perché non a
caso Dio ha ordinato che la donna sia soggetta all’uomo, “et non caput pedes
sequantur. Verum non raro videmus contrarium usum evenire, ut is qui suo or-
dine caput esse deberet, neque pedum ordinem servet, et ea quae in pedum lo-
co est, in caput constituantur” (I, 121A).228 O lo pseudo-Ambrogio, in cui il sag-
gio bramino condannava la pratica di procurarsi il vomito per continuare la
crapula: “ipsamque mutantes perverso more naturam, ex eadem parte qua
escas capitis, egeratis: capite, non pedibus ambulantes” (PL XVII, 1145). Più
recentemente Filarete condanna non solo a una berlina analoga, ma anche ad
un uguale esito ‘capitale’, chi “qualche scandalo fatto avesse in atto venereo…
Al collo gli mettevano uno stormento priapesco, dinanzi sotto la barba, e anco-
ra di rieto. E per la terra lo menavano, faccendogli quello gastigamento che
avesse meritato, e se la morte meritavano, lo menavano al luogo deputato e ivi
gli davano quello martoro di morte, la quale era stata giudicata” (p. 551).
Volendo tralasciare un episodio tanto enorme quanto oscuro, narrato da Firpo
1954 (appena arrivato a Padova nel gennaio del 1592, C. è “coinvolto per reato di
sodomia perpetrato o tentato ai danni del Generale dell’Ordine; come innocen-
te, è ben tosto prosciolto” [p. LXIX]);229 tuttavia si conosce almeno un altro epi-
sodio emerso dalla registrazione fatta da due spie di un dialogo fra C. e il confra-
tello Pietro Ponzio, rinchiuso in una cella attigua, avvenuto la notte del 14 aprile
1600: “FRA TOMASE: ‘O fra Pietro, perché non opri qualche modo, e dormimo in-
siemi, e godemo?’. FRA PIETRO: ‘Volesse Dio, e dovesse dare diece docati alli car-
cereri; e a te, cor mio, te vorria dare vinte basate per hora’” (Supplizio, p. 179).230

227
Metaph. XVI VII, III; Quaest. pol. IV, p. 29: “Si dixero bonum esse ambulare manibus et lyram
pedibus pulsare, nunquid non dicetis esse contra rationem?”.
228
Lerner 2001, p. 212 rinvia invece all’Homilia in Ps. CXX (PG LV, 344-7).
229
C. stesso si scagiona dall’accusa “che avesse fatto cosa di notte, la quale mi era impossibile,
perché non vedo troppo, e per non avere io stanza propria e stare in compagnia. Interrogate
chi stette con me, che se io peccai contra il prelato, essi pur peccaro” (Schoppe, p. 29; per que-
sto processo, cfr Firpo 1939, ora in I processi di T.C.; e i recenti ritrovamenti di L. Spruit, I pro-
cessi campanelliani tra Padova e Calabria: documenti inediti dall’archivio dell’Inquisizione romana,
‘B&C’, VI/1 [2000, p. 165-77]).
230
Firpo 1985: “Erano frequenti nei conventi del tempo, non meno che nelle carceri, i rap-
porti omosessuali” (p. 179); per Formichetti 1999 “è uno spaccato della vita carceraria e dei
338 LA CITTÀ DEL SOLE

42.4-6: palestra… foeminae,


Fonti: Platone, Resp. 452a-d (ripreso da Eusebio, 707A-D); Aristotele, Pol. 1337a
30 (loda l’educazione degli Spartani); Plutarco, Lyc. 14, 4-15, 1, e qualche ana-
logia con More, 116 (v. n. 26.20-1).

42.7-9: potentes… membris.


Dalla testimonianza di G. Prestinace, amico di C.: “volea fare una republica do-
ve si havesse da vivere in commune… dicendomi che la generatione humana si
doveva solamente fare dalli huomini buoni, e che li inhabili non dovevano… e
dichiarando per huomini inhabili quelli che non erano valorosi et huomini ga-
gliardi” (in: Amabile, Congiura III, p. 255). Oecon. II III, p. 193: solo quelli ido-
nei alla riproduzione, “copulandi essent matrimonio… non secundum dotes
exterioresque divitias, sed secundum animi corporisque bona… Vide Civitas
Solis” (anche a 46.1-14), come consigliava Ocellus (esplicitamente cit. a tal pro-
posito in Senso, p. 305).231
Categorie a rischio (di ‘flacciditas’) sono i sapienti (44.26) e le donne frivole
(52.16), come diceva Giamblico, Vita, p. 211 (Theodoreto, p. 180-1); ma anche
More esorta a un’oculata scelta fra i due partner. Privilegiare l’eugenetica alla
genealogia era però proprio dell’insegnamento pitagorico: “E più presto quel-
la republica patisce tal roina, dove i matrimoni si congiungono per la dote e
per la ricchezza uguale e non per valore dell’anima e del corpo uguale nelli
contraenti, onde si speri buona razza, come ammaestra Pitagora” (Afor., 30 e
Politica IV, 12).232

42.11: tertia quaque nocte


“Vitet mulier coitum hinc ad tres dies, ne addatur aliud semen, vel ne aperiatur
orificum” (Scoto, III, p. 217). Dettagliate istruzioni sui “sei o sette giorni” di
preparazione al coito (ad es. una dieta a base di animali ‘grandi, forti e gene-
rosi’) in Oecon. III III, p. 199 e IV I, p. 202-3.

comportamenti che vi si svolgono, anche con la corruzione dei secondini” (p. 115); Ernst
2002: tra le affermazioni eterodosse, emerse nelle deposizioni dei congiurati, riconoscibili
con molta probabilità come sue, vi è anche “la spregiudicatezza sessuale, che riecheggia an-
che possibili simpatie per la poligamia islamica, l’accettazione della sodomia, che in seguito
verrà duramente condannata nella CS” (p. 72); secondo Flamigni, questo dialogo tanto ri-
schioso quanto impraticabile, non può esser spiegato razionalmente: “per Pietro, ma soprat-
tutto per Tommaso, parlare d’amore era anche un modo di parlare d’altro. Era un modo per
chiedere aiuto e per offrirlo, per sentirsi meno soli, per salvare qualcosa dalle prove più se-
vere del carcere… E l’amore – sacro o carnale, che importa? – consolava C. nei giorni peg-
giori della sua prigionia” (p. 151).
231
Ocello ebbe grande fortuna presso i telesiani, come dimostra il ripetuto apprezzamento di
Persio 1575, ‘Praef.’ e n° 437.
232
In Mon. Sp. (XV, p. 134-8 e XXVII, p. 294) consiglia mescolanze di razze settentrionali e
meridionali, per il miglioramento della specie, oltre che per la stabilità politica del Regno
spagnolo (v. nn. sg e n. 132.6-13; cfr Fournel, p. 216-7, che rinvia anche a P. Darmon, Le mythe
de la procréation à l’âge baroque, Paris, Seuil, 1977, p. 142-55).
COMMENTO AL TESTO 339

42.11-5: non copulant… utiliter.


Premesso che “la bellezza non è oggetto del generativo, ma segno di onestà e
fecondità”, per cui non si è attratti da “donne anziane” o “deformi” a vario ti-
tolo, “perché in esse manca il segno naturale della fecondità, che è la bellezza”,
si deduce che “sono adatti alla generazione un uomo e una donna di alta sta-
tura, di membra proporzionate e di colori vivi, di corpo agile e forte, non ec-
cessivamente grassi ma neanche troppo gracili e secchi” (Compendio L, 9-12). Il
principio eugenetico ottimale (e ovvio), dunque, è l’unione di due magnifici
esemplari (“formosa formoso et procero danda est viro, ut generatio meliore-
tur et amor mutuus intersit” [Quaest. oec. II I, p. 175]), così com’è suggerito dal-
la medicina aristotelica, basata sul principio della ‘proporzionalità’ psicofisica
fra i coniugi: Zimara spiega con Aristotele (De gener. anim. I; De anima II) il se-
greto per ottenere dal concepimento un buon frutto: “Agens et patiens debent
habere eandem proportionem, alias actio impeditur” (p. 112): se l’uomo è me-
lanconico e la donna è sanguigna, o l’uomo è collerico e la donna molto flem-
matica il concepimento non si realizza. L’altro principio eugenetico accettabi-
le è perseguire l’aurea medietà attraverso la contemperanza degli opposti psi-
cofisiologici: “alli secchi usar coito con le donne grasse è molto utile, e alli
flemmatici con le secche, e fan buona lega nella prole” (Senso, p. 285),233 se-
condo l’insegnamento platonico che ‘gli opposti si devono attrarre’, perché è
dall’unione dei dissimili che si ottiene una prole ben temperata (Tim. 18c; Leg.
773c). ‘Grassezza’ e ‘magrezza’ sono riflessi fisici di temperamenti, come spie-
gava Della Porta, Fisonomia IV VI (p. 689-91), derivandolo da Galeno (De tem-
per.). E a Galeno (più esattamente ad un cap. del De semine attribuito a Galeno:
‘De natura pueri secundum horam, humorem’) si era rifatto pure C. già in
Phil. sens., dove, occupandosi estesamente della generazione (p. 215-83), espo-
neva la teoria secondo cui l’indole è determinata dall’umore dei due genitori e
dall’ora del coito.234

42.17-9: Nec coitu… Deum.


“Far che tutti usino la generazione… dopo la mezzanotte, fatta la digestione,
perché è cresciuto il seme, e non fa danno al generante disturbando lo spirito

233
Mon. Sp., p. 134sg; Oecon. II III, p. 192-3; Medicina, p. 71 e Quaest. oec. cit., negli ultimi due
casi rinviando proprio a quanto “docuimus in Civitas”.
234
Altri esempi di unioni psicosomaticamente incrociate per ‘far temperie’ a 46.1-5. Progres-
si decisivi in ambito embriologico non saranno registrati prima della metà del XVII sec. e la
ginecologia non è cambiata molto dal XIII sec.; tuttavia a partire dal 1550 si è prodotta un’in-
gente messe di trattati di ostetricia: “D’une part, ces traités mettent toujours plus l’accent sur
la complémentarité anatomique ‘nécessaire’ et finaliste des corps féminins et masculins, ima-
ge de la perfection harmonieuse de la nature, en conférant, sous l’influence de la pensée
galéniste, un rôle fonctionnel et actif aux femmes dans la génération (grâce à la semence fé-
minine). D’autre part, ils laissent une place importante aux circostances de l’acte sexuel, à
ses déterminations et conditionnements extérieurs, énumérables et donc contrôlables”
(Fournel, p. 214-5).
340 LA CITTÀ DEL SOLE

dalla nutrizione e scemandolo” (Senso, p. 305). Telesio ne spiegava con chia-


rezza la causa: “è lo stesso spirito che aiuta l’opera [di digestione] al massimo,
perché dopo che i cibi sono stati ingeriti confluisce in maggior quantità in tut-
to lo stomaco”, cessando “dalle altre operazioni, perché se fosse spinto ad ope-
rare qualche altra cosa, non li potrebbe cuocere bene” (VI, 11 [II, p. 523]). Ma
sull’incompatibilità fra coito e digestione concordano tutte le scuole di pensie-
ro: Aristotele, Probl., 50 (o digiunare o alimentazione leggera); Giamblico, Vita,
211 [Theodoreto, p. 180-1]; Ocellus, p. 57; Avicenna, Canon III; Thierry de
Chartres (in SN XXXI VII); SD XIII XXXII ‘De horis coeundi’: “Oportet etiam ut
non fiat super repletionem; prohibet enim digestionem”; ma neppure a digiu-
no: “immo oportet ut fiat cum cibus a stomacho descendit et completa dige-
stione prima et secunda, media dispositione in digestione tertia” (la prima di-
gestione si fa nello stomaco, la seconda nel fegato e la terza nel sangue); in ta-
le disposizione ci si trova in genere “in principio noctis”, che è l’ora più conve-
niente, anche perché dopo segue un lungo sonno “et cum eo virtus accre-
scit”.235
Commentando un versetto di Is. 11, 7 (“non generabunt in conturbatione”), C.
dice che il profeta parla della generazione “qualem ego descripsi in Civitas sub
foelicibus astris, quando parentes purgati scelere in nomine Dei coëunt” (Art.
proph., p. 89; per il contenuto della preghiera dei procreatori v. 42.22). E infat-
ti quel che qui ha in mente è l’atto sessuale come “sacramento naturale” origi-
nario, derivandolo appunto da Isaia, come più estesamente chiarisce in Theol.
IV: “bisogna ritenere che il coito avrebbe avuto luogo anche nello stato inno-
cente, però con maggiore riverenza, e come se si celebrasse un atto sacro. On-
de Dio concorre in modo segreto alla propagazione degli uomini, e ha istituito
il coito come celebrazione di una sorta di sacramento naturale… Se questo
principio fosse praticato da tutti, tornerebbe a fiorire il secolo aureo, nascendo
una prole più robusta, più bella e più buona. Per questo nella Città del Sole noi
abbiamo regolato i matrimonii… Isaia insegna che nel secolo aureo la genera-
zione avverrà senza i perturbamenti derivanti dalle passioni libidinose e irra-
zionali: infatti i coniugi si uniranno spinti dalla volontà, non dalla voluttà” (II,
p. 177-9; l’altra fonte principale è Platone, Resp. 461a).

42.19-21: formosae… mulieres;


L’“imaginativa” era ritenuta una delle facoltà mentali, veicolata dagli spiriti nel
seme e nel sangue, capace di agire sul corpo materno e da quello trasmettersi
anche all’embrione, imprimendo su una materia massimamente plasmabile
quelle tracce ‘mnestiche’ (macchie, mostruosità o tratti somatici), frutto degli

235
Precetti analoghi in Ficino, Vita sana XI, p. 32; Patrizi, p. 107; Zimara, p. 97; e Savonarola,
dopo aver ricordato i danni di una cattiva digestione dovuta al copulare a stomaco pieno, av-
verte: “O frontoso che, come vai a lecto la sera, tu apici cum la moglie la scaramuza, non ti
maravigliare se la matina la bocha ti saperà da ovi marzi e se ne la faza serai smerito e sotto li
occhi sbatuto. Guàrdate, guàrdate, e se pure gram voluntà te coglie, aricordate di dormire”
(p. 21).
COMMENTO AL TESTO 341

incubi o delle piacevoli suggestioni che hanno impressionato i procreatori, e in


partic. la gestante. “Questo spirito, se durante il coito riceve una forte immagi-
ne dalla totalità del cervello, forma il feto secondo quell’immagine… e sebbe-
ne l’immaginazione si produca principalmente nel cervello, tuttavia, se essa è
forte, si diffonde dappertutto”, e specialmente il seme dei genitori, “quando
scende dal cervello, è ben animato e pieno di spirito; e così l’immaginazione
dipinge l’immagine in quello spirito del seme che si trova nei testicoli” (Phil.
sens., p. 249). Poiché dunque lo spirito animale si trasfonde nel seme insieme
all’immaginazione del generante, “è utilissimo avere in casa immagini di santi
e di eroi” (Oecon. IV I, p. 203), tanto che i trattati d’arte dedicano “ampie sezio-
ni al modo di favorire il concepimento attraverso dipinti collocati in posizioni
strategiche nella camera da letto”.236 Alberti infatti dice che “negli ambienti
ove ci si unisce con la moglie raccomandano di dipingere esclusivamente for-
me umane nobilissime e bellissime: ciò – dicono – ha grande importanza per la
bontà del concepimento e la bellezza della futura prole” (IX IV, p. 804); e in-
fatti Domenichi, in una glossa a Plinio, p. 202, ci conferma che questa usanza si
è diffusa: “Da questo par che sia hoggi nato il costume fra i Signori di tenere
per le camere quadri nobilissimi di pitture, perché da simili oggetti le Donne
prendano imaginatione bella”.
Per questa teoria, C. dice di rifarsi a Paracelso (Epilogo, p. 437) e Alberto Ma-
gno (Oecon. IV I, p. 202): del primo cfr De virtute imaginativa – Frammento, in
Griffero, e il cap. 3 di Griffero 2003; del secondo: la Summa de homine 37, 1; 38,
1; e Physica II III che si rifanno ad Avicenna (Canon, 1, 2, 2, 14; 3, 21, 1, 2 e 14;
De an., 9, 5, 18) e a Galeno (De semine, IV, ‘Cur dissimiles parentibus filii na-
scantur’), in: De animal. libri 15, 18 e 22; Quaestiones de animalibus VII, 3 [Alber-
tus, XII, p. 172] e XVIII, 3 [XII, p. 299]; Super Dionysium I, 48 (t. XXXVII, pars
I, p. 30). Ma la credenza nell’‘immaginazione transitiva’ ovvero nel potere
ideoplastico dell’‘imaginatio’ femminile è “antica quantomeno come la Genesi
e riaffiorerà senza significative variazioni nella trattatistica cinquecentesca, co-
stituendo una mentalità corrente… ancora a metà Settecento nella sfera della
procreazione ‘assistita’ degli animali e perfino degli esseri umani, come sem-
bra dimostrare la duratura abitudine di ‘circondare le spose di graziose imma-
gini o di regalare nel giorno delle nozze delle bambole’ (Pancino, Voglie mater-
ne, Bologna, 1996, p. 59)” (Griffero 2003, p. 23).
Pertanto, tra le svariate fonti potenziali della teoria della ‘vis imaginativa’ delle
madri,237 teoria appena accennata da C. proprio perché data per scontata, bi-

236
Giglioni (p. 38), che rinvia a D. Freedberg, Il potere delle immagini. Il mondo delle figure: rea-
zioni ed emozioni del pubblico, Torino, Einaudi, 1993.
237
Limitatamente a quelle attingibili da C.: Aristotele, De animal. hist. VII VI, 586; Aristotele,
Problemata X, 10; Plinio, Hist. nat. VII, 12; Plutarco, De Placitis V, 12; Agostino, De trinitate Dei
II, 2 e CD 12, 25 e 26; Scoto, III; pseudo-Galeno, De hist. phil. XIX XXXII, p. 327: “Saepe enim
imagines etiam et statuae sunt a mulieribus adamatae similisque earum proles in lucem edi-
ta”; Ficino [Niccoli], Amore; Savonarola (p. 13-4), dove tra l’altro, esorta le donne brutte in-
cinte a non guardarsi allo specchio; Aldrovandi, Monstrorum historia (a p. 327, Bartolomeo
342 LA CITTÀ DEL SOLE

sogna citare almeno: Tommaso, Quaest. disp. II, p. 543: “l’immaginazione è una
certa facoltà che risiede in un organo del corpo, grazie alla quale viene modifi-
cato, secondo la forma che è immaginata, lo spirito corporeo nel quale si
effonde la facoltà formativa, che nel seme produce il suo effetto; e perciò tal-
volta si attua nella prole qualche somiglianza dipendente dall’immaginazione
del genitore nell’atto stesso del coito, se quest’ultimo è potente”; Della Porta
spiega diffusamente e chiaramente il fenomeno: “È molto grande la forza del-
la imaginatione fissa, per modo che non la possiamo in tutto sapere. Quando
le donne son gravide, havendo desiderio d’una cosa, quella imaginatione alte-
ra gli spiriti interiori per modo che quella cosa desiderata et fissa nella imagi-
nativa si dipinge nel parto, il quale opera nelle carni tenerissime della creatura
e qui le sculpisce, così in perpetuo vi rimane quel segno… Plutarco in quel li-
bro del consenso de’ Filosofi, scrive che Empedocle fu di questa opinione che
la donna con la vista formava il figliuolo, percioché spesse volte le donne han-
no amate le imagini et le statue somiglianti alle quali hanno poi fatti li figliuo-
li… Gli uomini trovarono che nelle pareti delle stanze v’erano delle pitture le-
quali le donne guardavano fissamente, quando usavano con li mariti; delle
quali glie se imprimevano le imagini nella mente: e però si generavano i fi-
gliuoli a quelle somiglianti. Talché quel che è accastato [= accaduto?] ad altri,
giudico che si debba tenere a memoria, che giovarà assai e l’ho a molte perso-
ne detto, che tengano nelle lor camere figure belle, o sieno di scoltura, o pur
depinte, accioché le donne quando usano con li mariti, veggendo quelle belle
imagini, desiderino quella bellezza, e così faccino li figliuoli belli” (Magia, cap.
XXIII: ‘In che modo s’habbino a fare bei figliuoli’); Persio esorta le puerpere:
“principalmente con la fantasia forzinosi di contemplar oggetti nobili e degni,
sappiendo che in questo caso il proverbio si avveri: che l’immagination suol far
il caso” (pp. 90-1 e 97), cioè immaginarsi qualcosa, vuol dir spesso provocarla
(fortis imaginatio generat casum e con la sua proverbializzazione l’immaginazione
ha raggiunto il potere).238
L’immaginazione, per C., è uno dei ‘sensi non organici’ (memoria, compren-
sione, giudizio ecc.): “imaginatio est relictarum in memoria notionum per co-
niunctionem et divisionem et consimilationem nova ideatio” (Compendio XLII,
4). Attraverso questa facoltà non si crea nulla di nuovo (perché si limita a ri-

Ambrosini, l’allievo che curò l’edizione dell’opera, lasciata alla morte di Aldrovandi allo sta-
to di abbozzo [un ‘rudis fetus’ la chiama Ambrosini nel frontespizio], riporta la tassonomia
quadripartita delle epifanie teratologiche, adottata dal suo maestro: 1) mostri per eccesso e
per difetto; 2) i nati dall’accoppiamento di animali appartenenti a specie diverse; 3) quelli
causati dall’immaginazione e infine 4) quelli risultanti da cause extraterrestri [= “a causis
non sublunaribus”], ovvero celesti; a p. 445 si spiega cosa sia la ‘Vis imaginationis’, e come e
quanto “mulieres vehementius imaginantur”); Cardano, De rerum varietate; Telesio, e “la ver-
sione più aggiornata del galenismo”: i Physiologiae libri VII di J. Fernel.
238
Cfr ad es. Montaigne, L’immaginazione, p. 37, cit. da Griffero 2003, al quale si rinvia per
una esaustiva trattazione, in partic. al § 4.2 ‘Ex imaginatione natus: i (pessimi) dipinti dell’im-
maginazione materna’.
COMMENTO AL TESTO 343

combinare le immagini mnestiche), ma tuttavia essa è dotata di una straordi-


naria potenza, come si può constatare quotidianamente (a chi vede cose rosse
gli si smuove il sangue ecc.), e segnatamente lo è l’immaginazione “de’ gene-
ranti che trasfondono lo spirito col seme affetto dell’imaginativa loro” (Epilogo,
p. 435).
C.,239 basandosi sulla teoria degli spiriti animali (v. n. 44.23), che “hanno la ca-
pacità di trattenere le immagini, di trasportarle in altre parti del corpo e, quel
che è più difficile da comprendere, di convertirle in processi organici” (Giglio-
ni, p. 46), ipotizza la seguente dinamica dell’immaginativa femminile: attraver-
so gli occhi le immagini impressionano l’anima, che le trattiene come in uno
specchio, e poi, attraverso gli spiriti, dal cervello le diffonde anche nel fega-
to,240 e da lì esse passano nel sangue il quale va a irrorare l’utero femminile: “lo
spirito vitale è ben capace di conoscenza, perché trattiene le immagini che,
scendendo dal cervello nel fegato, sono ricevute come in uno specchio; e poi-
ché il sangue del fegato viene mandato nella matrice assieme a quello spirito
che trattiene l’immagine, in tal caso questo spirito, dato che è un animale sel-
vaggio, agisce secondo l’immagine ricevuta… Perciò nel coito tanto il padre
che la madre possono immaginare, e se l’immaginazione di uno dei due sarà
stata molto intensa, il feto verrà costituito secondo quella più forte” (Phil. sens.,
p. 246-8).

42.26-44.11: Hanc… ad fixas.


Con la medicina, l’astrologia è l’altra scienza che sovrintende alle principali at-
tività dei Solari, e in partic. a determinare quale sia il periodo favorevole alla
procreazione. Un’ottima – per chiarezza e sintesi – introduzione generale all’a-
strologia ce la offre Pico, II, p. 17: “Gli astrologi dicono che siffatta virtù e po-
tenza degli astri e delle stelle varia ad ogni istante, secondo che quei corpi cele-
sti si trovano in diversi luoghi del cielo, che i moderni chiamano case, o in co-
stellazioni diverse, che immaginano in numero di dodici; o secondo che gli stes-
si pianeti distanti nello spazio variamente si congiungono a vicenda con radia-
zioni che chiamano comunemente aspetti dei pianeti. Sono questi i modi prin-
cipali… secondo cui gli astrologi ritengono che mutino l’influsso e la virtù dei
corpi celesti” (le note successive cercheranno di chiarire i termini del linguag-
gio astrologico, nell’accezione in cui li usa C., desumendola dalle sue opere, in
partic. da Astrol.).
Al ‘tema natale’ dell’astrologia genetliaca è dedicato infatti Astrol., p. 125sg:
ivi, con procedure e addirittura paragrafature identiche a Tolomeo (III, p.

239
In più occasioni accenna a questi fenomeni ‘immaginativi’: Phil. sens. II disp. ‘De princi-
piis generationis foetus’ (p. 215sg); Senso, pp. 272 e 305; Medicina, p. 73; Theol. XIV, p. 171-3;
Oecon. IV I; Physiol. XVII I; Quaest. Phys. XXXV II.
240
“Il fegato non è solo un laboratorio in cui si produce il sangue, ma è anche una sorta di
centrale di smistamento delle immagini: le più violente vengono addolcite, alcune sono trat-
tenute, altre respinte” (Giglioni, p. 44).
344 LA CITTÀ DEL SOLE

7sg),241 s’insegna a pronosticare sorte e carattere del nascituro, concludendo


che “Haec habemus a stellis. Physicus autem et causas inferiores, ut semen, et
imaginationem parentum considerabit” (p. 127): l’astrologia quindi affianca
la ‘fisiologia’ che si era occupata dei fattori ‘psico-somatici’, genetici (qualità
del seme) e dell’imprinting parentale (v. n. prec.). Garin 1976, p. 49 riporta
un passo del De doctrina promiscua [1490] di Galeotto Marzio da Narni, che te-
stimonia l’antico e stretto rapporto fra queste due figure che dovrebbero fon-
dersi in una sola: “Sono medici di nome, e non di fatto, quelli che ignorano
l’astrologia”, conformemente alla teoria e pratica di Galeno.
Perché proprio questa specifica configurazione astrale? In un cap. del Liber
Hermetis (‘La separazione e la congiunzione reciproca dei cinque pianeti e del
Sole’) si dice che: “Mercurio in congiunzione col Sole, orientale, nella nascita
diurna, indica che il nato è di padre raziocinante e illustre, e significa prospe-
rità per il nato… Mercurio in congiunzione con Venere è favorevole in tutto”
(XXXI, p. 33-4). Ancora Persio riporta le opinioni circa la nascita dell’inge-
gno: “vollero attribuirla… a’ pianeti, sciegliendo per aventura infra quelli Mer-
curio, conciò sia cosa che egli ci tiri alla investigazione delle cose belle, e nuo-
ve”, e poi “Venere, madre delle gratie, da’ cui raggi ogni cosa essendo ornata, e
cospersa, tutto quello che per forza di Mercurio fu cercato, o pure per la virtù
solare trovato, e conquistato, condito e abbellito dalla mirabile e salutevole ave-
nentezza di Venere, ci diletta, e torna in profitto” (p. 19). E infatti Mercurio in
buon aspetto con Venere e in posizione propizia rispetto al Sole, come dimo-
stra in Astrol., in presenza di segni zodiacali a figura umana (come appunto
Vergine), fa gli uomini “ad opificia manuaria promptos, animo philosophico,
scientiis aptos, opifices, poëtas, elegantes… moribus moderatis, probos, palae-
stra gaudentes, magnificos, acutos in iudicando” (p. 152-3).242
Il modo pratico per trarre oroscopi lo insegna il IV libro di Astrol. (p. 117sg, e
in partic. p. 119-20), a partire dal momento in cui si deve calcolare l’inizio del-
la vita: la nascita (v. n. 42.26) perché “est initium vitae per se existentis et non
cum alio”; poi la strumentazione tecnica (orologi, astrolabi ecc.) per determi-
nare con la massima esattezza il punto oroscopico, alias Ascendente, oppure il
Medium Coeli, da cui si ricavano gli altri angoli e le case, ognuna destinata a
un particolare aspetto del neonato: dall’Ascendente si vedono il carattere, il fi-
sico (e suoi annessi: salute, malattie, accidenti); e così procedendo in senso an-
tiorario e ‘domificando’ lo spazio celeste, visibile e invisibile, nella casa succes-
siva c’è quanto serve a conservare il corpo (la ricchezza); nella terza i viaggi
brevi, i fratelli; nella quarta i genitori, le cose occulte (come i tesori), fino alla

241
In Syntagma II VI, del resto, dichiara l’eccellenza di Tolomeo: “in astrologia Ptolemaeus
praecellit. Arabes copiosiores quidem sunt, sed magis superstitiosi”; altre sue fonti sono ap-
punto gli Arabi, Re Alfonso, Cardano, Tycho Brahe e gli scritti ermetici.
242
Circa Vergine in Ascendente (v. n. 44.1a), si tenga presente che Albumasar attribuiva a
questa configurazione la nascita di Cristo, confutata da Pico (I, p. 607), perché la Chiesa ha
stabilito che era nato a mezzanotte.
COMMENTO AL TESTO 345

dodicesima (malattie, nemici). E finalmente si consultano i pianeti: Sole = glo-


ria, maestà; Luna = moglie, madre, sensibilità/ sensualità e la fortuna (per cui
gli onori); da Saturno derivano le cose nascoste, la pertinacia e le occupazioni
impegnative; da Giove onestà, semplicità e felicità; da Marte ira, fortezza, cru-
deltà, lussuria, superbia; da Venere amore, lusso; e infine da Mercurio l’intelli-
genza, la prudenza, la sapienza (ogni pianeta sovraintende a una virtù: nelle di-
scipline più ardue Saturno, Giove per l’eloquenza, Marte nel senso dell’onore,
Mercurio e Venere per un’acre disputa, in maestà il Sole). La tripletta di pia-
neti a 42.28 è stata scelta, perché “Giove e Venere, beneficando Mercurio, im-
primono spiriti nobili in noi, lucidi e atti a ricever influenza divina e visioni an-
geliche, come disse Origene”; se invece Marte e Saturno fossero in cattivo
aspetto con Mercurio e Luna, “che sono delli sensi e del discorso soprastanti…
vengono a produrre spiriti acri e tetre fuligini” (Senso, p. 201).
Per calcolare poi la durata della vita occorre tener conto del luogo afetico, dei
suoi signori e contrari (‘interfectores’); i governatori della vita sono cinque:
Sole, Luna, Ascendente, Fortuna, e il signore dei luoghi afetici.
Per determinare il tema natale bisogna (Tolomeo, Tetrab., pp. 189 e 325):
a) avuto luogo e ora di nascita, determinare anzitutto il segno zodiacale ascen-
dente;
b) poi ricercare il punto di Fortuna, calcolato sulla distanza Sole-Luna;
c) quindi identificare i pianeti che governano questo grado (= il punto di For-
tuna), prossimo in transito sull’Ascendente (perché accrescono il loro pote-
re, benefico o malefico), di cui esaminare cinque requisiti (trigono, domici-
lio, esaltazione, casa, aspetto).
Questo particolare oroscopo si basa sulle linee guida dettate poi in Astrol., p.
219 ‘In generatione’:
1) Iniziare le nozze con Venere orientale, angolare, nella sua dignità (cioè do-
miciliata in Toro o Bilancia; meglio ancora se esaltata in Pesci), con i Lumi-
nari posti in segni del trigono di fuoco e fortunati, possibilmente con la Lu-
na tra Giove e Venere; ma soprattutto evitare che i malefici infestino i luoghi
afetici o l’oroscopo (cioè Ascendente).
2) Far coincidere l’ora del concepimento con il transito della Luna in un segno
fecondo, e di un pianeta benefico maschile (se si vuole un maschio) al Medium
Coeli; meglio ancora sarà se la Luna concilierà la luce del Sole con quella di al-
tri pianeti; comunque “nec de satellitio curas, sicuti de bonis aspectibus”.
3) Calcolare nove mesi dopo il coito la seguente configurazione astrale: per
avere un figlio sapiente, Mercurio e Venere orientali in buono aspetto, e Sa-
turno in un segno umano; se invece si vuole un dominatore, occorre calco-
lare quando il Sole, con una scorta di pianeti benefici, si troverà in un segno
maschile.
4) Nell’ultimo cap. di Astrol., vi è una serie di istruzioni generali sulle cautele
da tenere nelle circostanze cruciali della vita, in cui il fattore astrale può es-
ser determinante (ad es. se nell’oroscopo natale si ha un Marte ostile, evita-
re la carriera militare).
I principi-guida del ‘tema natale’ sono quelli tolemaici (III, 4, p. 191-5), in par-
tic. i paragr. 6-8: “i pianeti sono molto potenti in luoghi loro propri o ad essi af-
346 LA CITTÀ DEL SOLE

fini, quando sorgono e quando il loro movimento è progressivo; rispetto ad un


tema natale l’influenza è più incisiva quando essi transitano sugli angoli o sulle
case succedenti (ma soprattutto sui primi angoli: l’Ascendente e il Medium
Coeli)… Conta se i pianeti sono orientali od occidentali rispetto al Sole e al-
l’Ascendente: i quadranti che precedono il Sole e l’Ascendente e i quadranti
diametralmente opposti sono orientali, gli altri, che seguono Sole e Ascenden-
te, occidentali… Orientali o angolari i pianeti sono molto attivi subito, mentre
occidentali o nelle case succedenti hanno azione ritardata”. L’altra regola au-
rea è preservare i Luminari da influssi negativi di Saturno e Marte, che sareb-
bero altamente malefici in quadratura e opposizione (v. nn. sg).
Il senso di questo oroscopo è molto generico; sono tutte buone disposizioni
astrali, con una certa tendenza a prediligere Mercurio, per le influenze sull’in-
telligenza, che, accoppiate alla sapienza gioviana, portano la saggezza.

42.26: Hanc horam


“Stultum est autem eligere tempus seminandi animalia et plantas, non autem
hominum” (Astrol., p. 219). Con questa reprimenda si chiude il paragr. dedica-
to alla ‘Generazione’: perché non si sceglie con un’oculatezza almeno pari a
quella impiegata per l’agricoltura e la pastorizia, il momento opportuno per la
procreazione? Lo sforzo teorico maggiore per definire le modalità del tema na-
tale fu compiuto da Tolomeo “nella dottrina delle genitura. La genitura chiude
l’individuo, e qualunque processo, una volta per sempre, nel punto dell’inizio
(la nascita, o magari la concezione). Le stelle, i cieli, definiscono in un attimo
– l’istante iniziale, l’ora fatale – il corso intero di un’esistenza: la sorte è segna-
ta una volta per tutte, concentrata in un punto decisivo – il punto in cui le po-
sizioni astrali scaricano sul nuovo essere emergente la somma delle proprie ra-
diazioni” (Garin 1976, p. 42).
Ma qual è questo “punto decisivo”: la nascita o la concezione? Su questo pro-
blema il C. di Civitas ha cambiato idea rispetto a quello di Città, ma il testo è ri-
masto invariato (v. T.42.29). Il primo C. ritiene che l’oroscopo ideale sia quello
calcolato all’atto del concepimento, per cui non può esser praticato che da una
società ‘ideale’: “più la concezione che la natività ha forza; ma si può variare, e
la natività è perfetta e certa. Però l’Astrologo questa mira; sed meliora praesta-
ret, si conceptionem pernosset” (aggiunge l’edizione latina di Sensu, p. 309).
Proposizione, questa, di stretta osservanza tolemaica: “L’inizio della vita del-
l’uomo è, conforme a natura, l’istante in cui viene concepita, ma di fatto, e ac-
cidentalmente, il momento del parto. Quando – per caso o anche per osserva-
zione – ci è dato conoscere il tempo esatto del concepimento, per pronostica-
re le particolari caratteristiche del corpo e dello spirito sarà bene riferirsi ad es-
so… Infatti al momento del concepimento il seme riceve in dote celeste una
volta per sempre una sua peculiare fisionomia… Se invece, come più sovente
accade, non si conosce il tempo preciso del concepimento, bisognerà partire
da quello della nascita, pure importantissima e secondaria solo al concepimen-
to”. Nella pratica, poi, Tolomeo si basa sull’ora della nascita (Tetrab. III, 2-3, p.
183-7), perché, come chiarisce Feraboli, “Tolomeo aggira destramente l’osta-
colo: se è vero che il seme riceve un’impronta astrale alla sua formazione, è al-
COMMENTO AL TESTO 347

trettanto vero che le sue evoluzioni durante il periodo di gestazione non ne al-
terano la primordiale natura, perché seguono lo schema fissato al concepi-
mento” (p. 418). Ma non per questo l’ostacolo veniva meno, e anzi diventava
un grimaldello per scardinare la fede negli astri: a coloro che “dicono che se si
riuscisse a scoprire l’ora del concepimento, se ne potrebbero trarre molti e più
ispirati responsi”, Agostino ripropone il caso emblematico dei gemelli di sesso
diverso, pur essendo stati manifestamente concepiti insieme (CD 5, 3 e 5, 5).
Perciò, alle soglie del Cinquecento, un altro irriducibile avversario dell’astrolo-
gia poteva constatare che “sull’inizio fatale dell’uomo, se pur ve n’è uno, sorge
un’incertezza grande e necessariamente inestricabile”, ed elenca una decina di
possibili ‘inizi fatali’, dal coito alla nascita, momento quest’ultimo “più facile a
determinarsi, [e] per questo [gli astrologi] lo considerarono il principale”,
malgrado Tolomeo “conceda più alla concezione che alla genitura, ancorché
abbia fatto molti tentativi per sostenere la tesi dell’importanza della genitura”
(Pico, II, p. 157-63). Anche Della Porta, che è un convinto avversario dell’a-
strologia (Celeste II IX, p. 24-6), concede quest’unico spiraglio per la pratica
astrologica: gli astri possono influire solo al momento in cui si mescolano gli
elementi (acqua, aria, terra, fuoco) dell’embrione, e dunque l’oroscopo, per
aver senso, andrebbe calcolato al momento del concepimento, non della na-
scita quando l’organismo composto è già formato: “E di qua si conosce quanto
sia vana e cattiva l’opinion degli Astrologi, che considerano la costellazione
dell’uscita del figlio dal ventre materno, a tempo ch’ella ha preso già i suoi co-
stumi dal temperamento dello Embrione. Che se si pigliassero il ponto del ca-
dimento del seme nella matrice, forse dal seme paterno, dal sangue mestruo di
che si ciba, e dalla costellazione prevalente in quel corpicello, direbbono qual-
che verità” (Fisonomia I XX, p. 135-6).
Il tardo C., invece, non considera più l’oroscopo genetliaco un ripiego rispetto
a quello del concepimento, ma l’unico valido, perché prima della nascita il fe-
to è solo un’appendice materna,243 e quindi bisogna calcolarlo solo quando il
neonato comincia a respirare (Astrol. IV II, p. 119: “debet horoscopus capi… a
tempore cum incipit respirare”). La coeva Civitas tuttavia non viene aggiornata
(anche 108.9 replica “l’ore della generazione” di T.108.7), anzi lo ribadisce a
86.24, passo assente in Città. Tuttavia forse non si tratta di una vera contraddi-
zione (fra teoria reale e pratica ideale), perché quel paragr. III ‘In generatio-
ne’ di Astrol., cit. all’inizio, consiglia di consultare le stelle non solo in occasio-
ne delle nozze, ma anche dell’amplesso, per giunta quasi con le stesse parole
(“Et si cupis filium sapientem elige Venerem et Mercurium orientale in bono
aspectu…”); però con questo monito: far in modo che questa configurazione
astrale si verifichi nove mesi dopo: “Cum vis coitu uti, et futuri nati scire, vel
cooperari fortunae, computa motus planetarum in 9 futuro mense” (p. 219). A

243
Dal punto di vista astrologico, non teologico: “Rationabiliter Astrologi ex nativitate iudi-
cium exordiuntur, quoniam non est per se homo qui prius erat pars matris, eius fato subiec-
tus; et in conceptione fuerat animal, non homo” (Physiol., in Epilogo, nota p. 441).
348 LA CITTÀ DEL SOLE

conferma della possibile non contraddittorietà, può soccorrere quest’altro bra-


no presente nel libro VII di Astrol., che fu scritto nel 1626, cioè una dozzina di
anni dopo i primi sei libri, per dare consigli pratici su come eludere influssi ce-
lesti maligni (v. n. 146.7-20). Nel capitolo dedicato alle nascite (V I: ‘De vitandis
malis, et nasciturorum, et natorum, generatim’), dice che alla propria nascita
non è l’individuo, ma sono i genitori che ci devono pensare a suo tempo – il
tempo del concepimento, ovviamente. Si può ritenere che egli tenga distinte le
due operazioni: il concepimento astrologicamente controllato è propiziatorio;
l’oroscopo alla nascita è invece prevalentemente ‘descrittivo’, nel senso che
non può che limitarsi a fotografare una certa situazione celeste in quel dato
momento (e dedurne un rapporto con l’evento), senza poter far nulla per an-
ticiparlo o posticiparlo. Per questo forse rinvia a Civitas (seppur con qualche al-
tra sbavatura – v. n. 44.7), anziché ai precedenti libri di Astrol.: “De planetis non
est consilium, ut nascaris fortunatus. Non tua, sed parentum est cura, qui semi-
nare tunc statuent, cum Luminaria sunt in angulis beneficorum satellitio asso-
ciata, aut beneficis occupantur anguli, et significatores salvi sunt a maleficis, in
bona configuratione ad Solem, et ad mundum, prout in dialogo de civitate Solis
consideravimus”.

42.28-44.1: quo Venus… aphetae sunt.


La versione ‘originaria’ aiuta a interpretare il passo e a intuirne, in parte, le vi-
cissitudini redazionali. T.42.34-7: “e che siano mirati da Marte di buono aspet-
to e da Saturno così il Sole come la Luna che spesso sono afete”; il senso è: ‘e
che il Sole e la Luna siano in un rapporto propizio con [cioè non si trovino né
a 90° né a 180° rispetto a] Marte e Saturno’. Dunque il soggetto di “siano mi-
rati” non è Mercurio e Venere, ma i posposti Luminari. A partire dal ms R., la
coppia dei malefici è stata affiancata da Giove: “e che siano mirati da Giove di
buono aspetto e da Saturno e Marte così il Sole come la Luna”. Malgrado la
complessità del dettato e della materia (nonché l’eventualità di refusi: infatti
Amerio qui appone un punto e interpola all’edizione Bobbio una ‘E’: “…da Sa-
turno e Marte. [E] così il Sole come la Luna…”), è plausibile sostenere che sia-
mo di fronte a due oroscopi diversi: in T. si richiederebbero due distinte circo-
stanze: a) Mercurio e Venere orientali dal Sole; b) Luminari ben disposti ri-
spetto ai Malefici; nei mss posteriori di Città, e più chiaramente in Civitas, le
condizioni astrali richieste sono sempre due, ma d’altra natura: A) per Mercu-
rio e Venere: a1) orientalità rispetto a Sole; a2.1) buon aspetto con i tre piane-
ti maggiori; a2.2) oppure: nessun aspetto (né favorevole né sfavorevole) fra i
due pianeti minori (e inferiori) e i tre maggiori (e superiori); B) Luminari in
aspetto propizio o nullo con i tre pianeti maggiori. In sostanza, mentre T. mi-
rava a tutelare i soli Luminari dai Malefici, successivamente tutti i pianeti dove-
vano esser in buono aspetto reciproco (precisamente: due Luminari+due Pia-
neti minori a 60° o 120° dai tre Pianeti maggiori). Anche un profano s’accorge
che, se la coppia di procreatori dovesse attendere il concorso di tutte queste
circostanze fauste, la Città resterebbe presto deserta. Perciò l’oroscopo latino è
diventato meno ‘restrittivo’, con l’aggiunta di quel “vel in nullo horum”, con-
cedendo cioè una pluralità di distanze angolari accettabili. Comunque da en-
COMMENTO AL TESTO 349

trambi gli oroscopi si capisce qual è l’accortezza da tenere: evitare che i Malefi-
ci in angolo siano in aspetto infausto con i Luminari; ovvero: di tutte le combi-
nazioni possibili, assolutamente non deve verificarsi che Saturno/Marte siano
in quadratura o opposizione con Sole/Luna.

42.28-9: Venus… orientales


I sette pianeti sono suddivisi in maschili (Sole, Marte, Giove) e femminili (Lu-
na, Venere, Saturno – Mercurio è considerato ambivalente); ma la distinzione
basilare è pianeti benefici/malefici, fondata sulla teoria degli umori: caldo e
umido sono positivi; freddo e secco negativi. Dalla combinatoria a due termini
di queste quattro qualità, attribuite in base alla loro orbita nel sistema geocen-
trico (Marte, ad es., brucia e secca, perché è immediatamente sottostante al So-
le), derivano due coppie di pianeti benefici (Giove e Venere, chiamati rispetti-
vamente ‘fortuna maggiore’ e ‘fortuna minore’) e malefici (Saturno e Marte).
Gli altri tre hanno in comune la caratteristica di esaltare le qualità del pianeta
a loro prossimo, anche se ognuno con una sua tipologia specifica: Mercurio è
un pianeta di grado zero (producendo sia umido che secco), ovvero ‘ancipite’,
“cum bonis bonus, cum malis pravus” (Astrol., p. 15); i Luminari, cioè il Sole e
la Luna, incrementano anch’essi l’attività del pianeta a loro vicino, ma mentre
la Luna lo fa solo con i malefici, il Sole è più versatile (“cum Saturno frigidus et
cum Marte calidus, cum tamen ipse [= il Sole] praestet omnia omnibus” [ib.]).
Inoltre i pianeti, oltre ad avere ognuno un proprio sesso specifico, diventano
maschili o femminili in base agli aspetti (v. n. 42.29-31) che assumono con il
Sole: si mascolinizzano (“masculescunt”) i pianeti mattutini, orientali (“orien-
tales a Sole vocantur, quando mane ante Solem apparent super horizontem”
[Astrol., p. 44], cioè quando precedono il Sole o sono situati in quadranti orien-
tali), angolari; si effeminano quelli vespertini, occidentali e in case cadenti (v.
n. sg). Per far capire in che consiste l’influsso che essi esercitano, C. scrive: “Pa-
lam est enim quod ut Sol convertit comas arborum, sic et Mars spiritus anima-
les” (Astrol., p. 221). Nel disporre l’esercito in battaglia, bisogna tener conto
della posizione (orientale/occidentale) di Marte, perché questo pianeta attira
gli spiriti animali, come il Sole fa con la chioma degli alberi. In partic. Mercu-
rio e Venere sono o occidentali o orientali, perché accompagnano sempre il
Sole (Astrol., p. 44); nel secondo caso suscitano individui ingegnosi, pazienti,
indagatori delle cose occulte, architetti di opere mirabili, filosofi e insieme ot-
timi costruttori di macchinari (Astrol., p. 154). Venere e Mercurio sono inoltre
qui accoppiati, sia per motivi astronomici, essendo satelliti del Sole (Senso, p.
168; Theol. III, p. 155); che per le loro proprietà astrologiche: l’accortezza mer-
curiale si esalta in presenza di un pianeta benefico, come appunto Venere. So-
le e Luna sono accoppiati, sia in quanto sono Luminari, sia in quanto sono, in-
sieme al punto di Fortuna, i governatori della vita, cioè determinano la lun-
ghezza dell’esistenza.
Infine ogni singolo pianeta e ogni triplicità di segni plasma sia il fisico (es. Mer-
curio li fa nascere biondi, di statura media ecc. [Astrol., p. 136]) che il caratte-
re, e dal temperamento si risale alle virtù d’animo (Astrol., p. 146: “A constitu-
tione Mercurii cognoscitur intellectus, ratio, contemplatio”); nonché l’inclina-
350 LA CITTÀ DEL SOLE

zione per il ruolo o il tipo di lavoro (specie per l’effetto congiunto di Venere e
Mercurio [Astrol., p. 181]).
Altre distinzioni fra i pianeti prese in considerazione in Civitas: Saturno, Giove,
Marte maggiori, lenti, superiori; Mercurio, Venere: minori, veloci, inferiori –
attributi che riguardano rispettivamente la grandezza del pianeta, la durata
della rivoluzione e la posizione dell’orbita, se esterna o interna a quella solare.

42.29: in domo benigna,


È uno dei dodici settori circolari in cui è stato diviso il panorama celeste come
lo si vede in un certo luogo della Terra in un certo momento: quando un astro
si trova in una di queste case, la sua virtù subisce una mutazione. A differenza
dei segni zodiacali (con cui non vanno confuse), le case si succedono in senso
antiorario, ripartendo quotidianamente il cielo compreso fra la Terra e la ban-
da zodiacale in spicchi di 30°. Lo schema di ‘domificazione’, cioè di costruzio-
ne delle case, per l’equatore, infatti, prevede dodici archi uguali di 30°, ma
non coincidenti né con lo zodiaco, né, per una sfasatura di +5° (secondo l’in-
segnamento tolemaico), con i quattro assi cardinali Ascendente/Discendente
e Medium Coeli/Imum Coeli (v. n. 44.1a, n. 44.3): in pratica C. calcola la pri-
ma casa con la cuspide, cioè l’inizio della casa, 5° sopra e le conclude 25° sotto
Ascendente (Astrol., p. 129):244 il primo quadrante (da Ascendente a Medium
Coeli) contiene le case 12, 11, X (le case angolari vengono indicate con nume-
ri romani); il secondo quadrante (da Medium Coeli a Discendente) le case 9,
8, VII; il terzo (da Discendente a Imum Coeli) le case 6, 5, IV; il quarto (da
Imum Coeli ad Ascendente) le case 3, 2, I. Si distinguono così tre gruppi di ca-
se dotate di diverso valore:
• angolari, o cardinali: I, IV, VII, X dove sono potentissimi gl’influssi astrali (“i
cardini che chiamano angoli hanno potenza primaria” [Pico, II, p. 361]);
• succedenti: 2, 5, 8, 11 perché immediatamente seguenti alle predette, sem-
pre nel senso della rotazione diurna, dove i pianeti sono di media potenza
(ottima, fra di esse, è l’11a casa);
• cadenti: 3, 6, 9, 12 perché declinanti dagli angoli, conferiscono scarsa forza
ai pianeti in esse presenti, la migliore delle quali è la 9a (Astrol., p. 31-2).
Le case sono benefiche (42.29) o malefiche in base anche a contingenti situa-
zioni, ma sono di regola malefiche la 12a e 6a (quest’ultima casa perché incon-
giunta con l’Ascendente: “fiunt morbi et vitia in prima, septima et sexta domo
(quae inconiuncta horoscopo)” [Astrol., p. 138]); sono benefiche 5a, 9a, X
(86.8-15: Saturno è nella IV, Algol nella X e Marte nella 5a).
Le denominazioni delle case, che derivano dalla loro sfera d’influenza, erano
raccolte nel Medio Evo in due versi mnemonici: “Vita, lucrum, fratres, genitor,
nati, valetudo, / Uxor, mors, pietas, regnum benefactaque, carcer” (Garin
1952, p. 539).

244
Ogni autore ha un suo schema di domificazione, come si può vedere ad es. in Pico, che ne
elenca svariati (II, p. 317-9).
COMMENTO AL TESTO 351

L’importanza degli aspetti angolari nel pronostico genetliaco è sottolineata nel


Liber Hermetis: “Se i malevoli saranno stati in opposizione, indicano gravi peri-
coli” al nascituro (XVI, 17); “Marte, in uno degli angoli o nelle case succeden-
ti ascendente o in tramonto, e Saturno, occupando la posizione opposta…, in-
dicano pericoli e inclinano i soggetti a morte violenta” (XXXVI, 4); viceversa
“ogni volta che un pianeta sarà stato sull’Ascendente o in aspetto anche al Sole
e alla Luna, senza alcun aspetto dei malevoli, i nati saranno vivaci e facili da al-
levare e trascorreranno la vita in prosperità” (XXVI, 2).

42.29-31: in bono aspectu… horum,


Gli enti celesti si ‘guardano’ e l’angolo d’incidenza di questi sguardi (o radia-
zioni) è altamente significativo: ‘aspetto’ è appunto la distanza angolare che se-
para due pianeti o due punti della fascia zodiacale. I principali aspetti astrolo-
gicamente pertinenti si dividono in benefici: trigono (120°) e sestile (60°); e
malefici (44.2): quadratura (90° [44.4; 86.11]) e opposizione (180°: quando
cioè si guardano in linea retta); mentre la congiunzione (0°: quando i loro cen-
tri hanno la stessa longitudine, con conseguente eclissi – il ‘range’ di tolleran-
za in queste misurazioni è ±10°) è neutra, dipende cioè da quali pianeti la for-
mano (Astrol., p. 47-51).
In CS si trovano ‘aspetti’ non solo nelle relazioni angolari interplanetarie (a
120.16 e 25, ad es., la congiunzione Luna/Sole indica i noviluni, l’opposizione
i pleniluni), ma anche: pianeta/altri luoghi oroscopici (86.8-9: con l’afeta e
l’Ascendente), e pianeta/segno (82.24-5: Sagittario in trigono con Marte e
Giove; 86.17: Mercurio/Vergine).
Gli aspetti sono, però, anche i rapporti angolari fra i segni zodiacali, che, di-
sposti in cerchio si guardano secondo tre relazioni spaziali (fauste o infauste,
come già detto): diametrale (o opposizione = 180°), quando si fronteggiano in
linea retta; quadrata (= 90°), quando si collegano in un quadrato inscritto due
segni maschili e due femminili (Cancro è femminile: 138.12); triangolare (un
quarto tipo di aspetto, il sestile, non è altro che uno sdoppiamento di questo,
con le sue stesse proprietà positive, ma più deboli): disposti a 120° i segni dello
stesso sesso formano quattro trigoni (136.15) o triplicità (152.21), ognuno as-
sociato ad un elemento e a due pianeti (uno signore diurno e l’altro nottur-
no), più un terzo pianeta aggiunto; perciò si va dal I trigono (Ariete-Leone-Sa-
gittario, aereo, dominato dal Sole di giorno e da Giove di notte, con Saturno
aggiunto) fino al IV trigono (acqueo, con Venere dominante diurno e Marte
notturno, e con associata la Luna: 136.17 e 152.8-22); per C. anche le proprietà
dei trigoni si rovesciano passando dal nostro emisfero a quello australe (per
cui il IV che da noi è acqueo, lì diventa aereo: 154.27). Infine i trigoni hanno
somma importanza nell’astrologia universale, in quanto il passaggio delle gran-
di congiunzioni (v. n. 130.25) dall’uno all’altro di essi quattro determina note-
voli mutamenti nell’assetto mondiale; in partic. lo è il ritorno al I trigono, che
avviene quasi ogni mille anni, secondo un certo computo o, secondo un altro,
circa ogni otto secoli (donde la crucialità del 1000 o del 1600 [130.23]), e che
dovrebbe esser imminente.
352 LA CITTÀ DEL SOLE

42.38-40: Divus… sciri.


In realtà i libri sulla Pol. aristotelica di Tommaso sono soltanto tre; gli altri cin-
que, in THOM, sono attribuiti a Pietro d’Alvernia; invece in Pia., t. II, il com-
mento alla Pol. è svolto in otto libri (e V, lectio XIII è ai ff. 100r-2).
Già il concilio di Toledo del 447 aveva inflitto la scomunica a chi credeva nel-
l’astrologia, ma Tommaso, in quel processo di riabilitazione del pensiero anti-
co (e in partic. dell’astrologia peripatetica), in auge al suo tempo, avalla queste
argomentazioni, meglio sviluppate in ST I, 115, 3-6, e in 3SCG, 85 (v. 144.28 e
n. 144.12-5). C. lo menziona anche altrove: “San Tommaso (specie nella Pol.,
lez. XIII) insegna che dalle stelle possiamo conoscere le inclinazioni morali e i
sentimenti naturali” (Poët. VI III, p. 1021); e in una glossa a marg. di Quaest. pol.:
“Divus Thomas in 5 Pol. lect. 13 ex figura coeli bonas et pravas generationes de-
ducit” (IV, p. 109).
Ma ecco cosa scrive lo pseudo-Tommaso (= Pietro d’Alvernia) In Pol. cont. V XIII
ad 5: “Talem enim inclinationem ad honesta vel turpia causari ex figura caele-
sti necesse est dicere, quamvis necessitatem non imponat in his quae operantur
secundum intellectum” (THOM VII I, 448). Commenta C.: “le stelle hanno in-
flusso sui costumi e sull’anima in via tendenziale, poiché dispongono in modi
diversi la bile nera e quella gialla, la flemma e il sangue, donde i vari caratteri e
gli spiriti generati dal sangue derivano le proprie affezioni o propensioni sug-
gerite dal temperamento” (Poët., cit.).

44.1: aphetae
“Dignoscitur vita ab aphetico loco et a dominis illius” (Astrol., p. 128): quando,
oltre al caratteriale, si vuol fare un oroscopo previsionale sulla durata della vi-
ta, si guardano i luoghi afetici. Luoghi afetici (etimologicamente: ‘datori di vi-
ta’, “e che in latino si potrebbero dire dimissori… perché di lì come da un car-
cere il corso della vita trae inizio” [Pico, I, p. 149]; aneretici, all’opposto, i ‘da-
tori di morte’) sono quelli che ospitano il pianeta che presiede all’impulso del-
la vita (Astrol., p. 128; da: Tolomeo, Tetrab., p. 219). Essi sono cinque, in questo
ordine d’importanza: Medium Coeli, Ascendente, le case 11, 7 e 9. In pratica:
la prima casa 5° sopra e 25° sotto Ascendente (secondo la domificazione qui
adottata [v. n. 42.1]); l’arco posto a 60° dal precedente nel senso del moto
diurno (11a casa); quello a 90° (contenente il Medium Coeli); quello a 120° (9a
casa) e infine quello in opposizione a 180° (7a casa con Discendente). L’influs-
so più forte spetta al Medium Coeli.
Anche gli afeti (“o distributori, che da tali luoghi, come da carceri, col loro sof-
fio – per così dire – largiscono l’impeto di vita” [Pico, ib.]) sono cinque: i due
luminari (= Sole e Luna [42.31]), l’oroscopo (= Ascendente), la Fortuna (uno
dei punti sensitivi: v. n. 44.2-6), il luogo del plenilunio o del novilunio imme-
diatamente precedente e i loro rispettivi signori:245 ad es., per la teoria tole-

245
Cioè i cinque pianeti che “in quei cinque luoghi hanno diritto e autorità”, secondo la dot-
trina di “Haly Abenragel [= Albohazen, De iudiciis astrorum IV, 3], oracolo degli astrologi di
questa età” (Pico, I, p. 147).
COMMENTO AL TESTO 353

maica, se Vergine è in Ascendente, e ivi staziona Mercurio, che è signore di


Vergine e Gemelli, Mercurio è l’afeta; ma se nella stessa casa ci fosse anche un
Luminare, allora l’afeta sarebbe il Luminare. Infatti il criterio tolemaico di
scelta del pianeta afetico è il seguente: in caso di nascita diurna il Sole, se si tro-
va in uno dei cinque suddetti luoghi; altrimenti, in ordine di scelta: la Luna, un
pianeta dignificato, o che almeno transiti sull’Ascendente; in caso di nascita
notturna, la Luna precede il Sole; più complesse procedure nel caso vi siano
più corpi astrali in più luoghi afetici (Astrol., p. 128-9).
Semplificando molto, la lunghezza della vita è data da un numero di anni pari ai
gradi misurati all’equatore compresi tra l’afeta e il punto fatale aneretico, di nor-
ma rappresentato da un pianeta malefico (naturalmente con tutta una serie di
correttivi dovuti alle interferenze, positive o negative, di altri pianeti incontrati
durante il percorso: i benefici aggiungono, i malefici tolgono anni). Si possono
però prevedere anche avversità non esiziali: ad es. la Luna (punto mobile afeti-
co) diretta verso una nebulosa (punto fisso) è interpretata (Astrol., p. 198: ‘De di-
rectionibus tempora eventuum declarantibus’) come prossima cecità; la Luna di-
retta verso Marte preannuncia un aborto, che diventa lebbra, se entrambi si tro-
vano nella Libra (a riprova che in astrologia la virtù più potente è quella del si-
gnificante). Un’applicazione concreta si ha a 146.13, a proposito di una direzio-
ne afetica da tentare di neutralizzare. Astrol., p. 130 (plagiando, in pratica, Tolo-
meo, Tetrab. III, 11), chiarisce che: nel moto rotatorio quotidiano della sfera ce-
leste un pianeta viene trascinato verso un altro punto supposto immobile; la di-
rezione è appunto l’arco compreso fra i due punti sensibili, quello di partenza e
quello del punto considerato immobile; esistono due direzioni, secondo Tolo-
meo: una antioraria (“recta”), quando l’afeta è collocato nel quadrante compre-
so fra Ascendente e Medium Coeli; l’altra “conversa” (oraria o antioraria) quan-
do l’afeta è collocato fra Medium Coeli e Discendente. Una direzione è ferale
quando pianeti malefici (Saturno e Marte) incontrano il pianeta datore di vita, o
viceversa. Comunque si tratta di calcoli molto complessi,246 e la formulazione più
chiara l’ho trovata in Pico: “Quando vogliono prevedere in che anno un qualche
bene o un qualche male sopravverrà, distribuiscono i gradi fra i luoghi principa-
li della genitura ed il corpo o i raggi dell’astro buono o cattivo, e secondo il nu-
mero dei gradi determinano il numero degli anni dopo cui ci si deve aspettare
quell’avvenimento. È questa la posizione degli astrologi circa le direzioni, in ba-
se alle quali Tolomeo prevede la durata della vita, e la folla degli astrologi tutti i
casi e le vicende della fortuna” (VII VII, p. 191-3).

44.1a: Virginem
Vergine (prediletto dai Solari nella nascita degli individui e nella fondazione
delle città [86.21]), segno zodiacale dell’Au. nato il 5 settembre (Astrol., p.

246
Nallino stesso deve confessare: “Doctrina directionis, usum astrologicum quod attinet,
summopere obscura et intricata est” (cit. da Garin 1952, p. 550). Tolomeo la calcola sempre
dal Sole verso la Luna (Tetrab. III, 12); altri seguono vari metodi, esposti da Pico (II, p. 145).
354 LA CITTÀ DEL SOLE

170), fa ottimi matematici, astronomi, adatti agli studi dotti e ingegnosi (Astrol.
II III: ‘De moribus gentium ex signorum dominantium natura’).
I segni sono compresi in una fascia di dodici costellazioni, determinata dal pia-
no dell’eclittica, cioè il percorso annuale del Sole secondo il sistema geocentri-
co; partendo da Ariete, vi sono dodici archi di circonferenza di 30° (il tragitto
mensile del Sole), che si costruiscono così: semplificata la sfera celeste a cer-
chio, la si divide in due (un semicerchio visibile e l’altro invisibile) attraverso
un asse orizzontale, che è il piano dell’orizzonte di quel certo luogo (per la
Città del Sole esso coincide con il piano dell’equatore [2.10]) ad una certa ora:
ai suoi estremi ci sono a sinistra, contrariamente alla convenzione geografica,
Ascendente=Est e all’estremità opposta Discendente=Ovest; il piano orizzonta-
le è intersecato da un asse verticale mediano, determinato dal meridiano del
luogo, il cui estremo superiore è Medium Coeli = ‘quel che culmina allo Zenit’,
e l’estremo inferiore della verticale dell’osservatore è Imum Coeli = ‘quel che
non si vede al Nadir’.247 I segni si distinguono, secondo diversi aspetti della lo-
ro natura, in:
– “communi” (Senso, p. 322), “id est medietas eorum erit unius temporis et
medietas alterius” (SN XV XL): Gemelli, Vergine, Sagittario, Pesci (ad es.
quando il Sole è in Gemelli, per metà tempo è primavera e per metà estate);
– fissi (86.3) o cardinali (110.16): Toro, Leone, Scorpione, Acquario (auspica-
bili nelle fondazioni perché definiti anche ‘solidi’), detti così perché la sta-
gione è costante (il Sole in Toro cade in pieno ed esclusivo periodo prima-
verile);
– mobili: Ariete, Cancro, Bilancia, Capricorno si dicono mobili, perché quan-
do vi entra il Sole, cambia la stagione (ad es. il Sole in Ariete indica il pas-
saggio dall’inverno alla primavera);
– maschili: Ariete, Gemelli, Leone, Bilancia, Sagittario, Acquario; e femminili
(150.5): Toro, Cancro (138.12), Vergine, Scorpione, Capricorno, Pesci;
– infine, in base agli elementi, segni di terra: Toro, Vergine, Capricorno; di
fuoco: Ariete, Leone, Sagittario; di aria: Gemelli, Bilancia, Acquario; e di ac-
qua: Cancro (138.14), Scorpione, Pesci.
Inoltre in cielo sono convenzionalmente distinte altre trentasei costellazioni
(44.11), esterne alla cintura zodiacale: ventuno boreali, quindici australi
(Astrol., p. 20-1).

44.1b: horoscopo
In generale: tema di natività o schema che riproduce graficamente una situa-
zione celeste spazio-temporalmente determinata, all’atto della nascita di un in-
dividuo (Astrol. IV I, II: ‘De horoscopo’); in partic., come in questo caso, indica
l’Ascendente, e quindi il segno zodiacale intercettato dall’orizzonte (Astrol., p.

247
Il meridiano comprende, ma non coincide con Nadir e Zenit, salvo all’equatore, al con-
trario di quanto pensa C.: “prima quarta incipit ab angulo orientali horizontis usque ad ze-
nith, seu medium coeli” (Astrol., p. 31).
COMMENTO AL TESTO 355

31-2); esso è il prioritario indicatore psicofisico dell’individuo e i pianeti che vi


si trovassero assumono un’importanza speciale (Venere: amore, lusso; Mercu-
rio: intelligenza, prudenza, astuzia, dottrina, ecc. [Astrol., p. 120]).248

44.2-6: sed bene… pendet.


In T.44.7-9 scriveva: “e da essi angoli è la radice della virtù vitale e della sorte”;
cui nel solo ms L. ha aggiunto: “dependente dall’armonia del tutto con le par-
ti”. Ciò comporta due problemi, uno di carattere filologico e l’altro interpreta-
tivo.
Partiamo dal filologico, meglio definibile filogenetico: questo passo di Civitas
in effetti non è la traduzione di L. (a ulteriore conferma che il ms di riferi-
mento per la traduzione non fu il Lucchese): manca la copula della relativa
(“totius et partium”); in luogo del participio “dependente” vi è un presente
(“pendet”), che funge da unico predicato verbale, ed è stato anche aggiunto
“universi”.
Ma perché C. ha effettuato questa integrazione che è insieme enigmatica (sia
in Città che in Civitas) e banale (affermare in un contesto astrologico, che ‘tout
se repond’, è, a dir poco, scontato)? Il duplice intervento integrativo, proprio
in occasione di revisioni destinate alle stampe (di Città: L.; di Civitas: Fr.), pre-
sumibilmente è stato suggerito da un’esigenza di attenuazione del dettato (e
non certo di chiarificazione, perché il passo, specie in latino, s’ingarbuglia
sempre di più). Infatti la frase immediatamente precedente è un po’ troppo
sbilanciata nel senso del determinismo astrologico (i pianeti angolari determi-
nano addirittura qualità e durata della vita di un uomo).
Cerchiamo adesso di decifrare il passo, partendo, anzitutto dall’orizzonte teo-
rico generale in cui esso s’inquadra, e che è lo stesso evocato (con maggior
chiarezza) da uno dei principali detrattori moderni dell’astrologia, un autore
ben noto a C.: Pico si chiede “come un qualche pianeta dominerà il cielo in
modo tale da produrre in questo mondo effetti prodigiosi, ed in particolare
cattivi? Dal momento che l’influenza del cielo risulta dalla collaborazione di
tutte le luci, tutta quell’armonia suprema è sempre regolata in modo tale che,
come in essa tutto concorda, così per essa mai niente discordi nel mondo infe-
riore. Ogni elemento sarà tanto più perfetto quanto più potente sarà la stella

248
Ma il più completo sistema di corrispondenze è in Medicina V III, I e sg: ‘Ex rerum generi-
bus unicuique sideri attributarum et homines eisdem correspondentium, itidem philo-
sophandum esse Medico…: et primo quae stellae, qui homines, quae partes hominis, quae
animalia, quae plantae, quae mineralia, qui lapides, qui colores, odores, sapores, qui come-
tae et eclipses et aëris constitutiones tribuantur’ a partire da Saturno; interesse speciale rive-
ste il cap. ‘De Solarium ordinibus’ (V V, II): i tratti dei ‘solari’, cioè di quelli dotati della natu-
ra del Sole, sono: “animo ampli, magnanimi, reges secundum naturam, qui plus amant to-
tum quam partem, benefici sunt toti genere humano, religiosi, liberales, ambitiosi, cunctis
scientiis delectantur; omnia movent grandia negocia… Sunt corpore grandiusculo, bene
commensurato, capillitio pulchri saepeque flavi, qualis David in S. Scriptura describitur; na-
so simi, oculis acutis et mediocribus, interdum glaucis, claris, spissa barba, iunctis superciliis,
splendidi colore, albo, roseoque”.
356 LA CITTÀ DEL SOLE

presente: ora, se la perfezione delle parti non ripugna a quella del tutto, ma
anzi col tutto anche le parti vengono meno” (III XXI [I, p. 371]), non può es-
serci un astro dominante che alteri questo bilanciato equilibrio di influssi, per-
ché le stelle in sé, e quindi i loro influssi, sono sempre benigne, e obbediscono
a un principio di armonia generale, che può esser alterato solo dalla materia
inferiore o dalla nostra volontà. Insomma, la stella non rafforza (o indebolisce)
un elemento a scapito degli altri, perché ciò squilibrerebbe l’armonia del tut-
to. Il che implica che è generalmente ammesso – anche dai detrattori dell’a-
strologia – che il cielo, “sommo fra tutti i corpi”, è un sistema armonico, la cui
regolarità è la risultante di una complessa geometria di rapporti e influssi fra le
sue parti; e quindi ogni singolo evento è da iscrivere all’interno di questa tra-
matura, fitta e invisibile che avvolge il mondo e i suoi abitanti.
Fatta questa premessa, passiamo al problema interpretativo del passo in que-
stione: “e quibus radix vis vitalis et fortunae ab harmonia totius et partium uni-
versi pendet”; a livello grammaticale, il latino compatta la frase di Città (ms L.)
in una sola proposizione, che, per il verbo alla terza singolare (= “pendet”), ac-
cetta quest’unica lettura: proprio dagli angoli dipende la radice della virtù vita-
le e della fortuna, relazione particolare dell’universale armonia cosmica (raro,
ma attestato – “scritt. giurid. II-III sec.” [Calonghi] –, l’uso del genitivo ‘vis’).
Questa è la parafrasi. Adesso tentiamo un’interpretazione: gli influssi angolari
[celesti] segnano così profondamente da marchiare una vita e un destino
[umano], a causa del rapporto micro/macrocosmo; quindi non c’è da stupirsi
che corpi celesti (così lontani, così eterogenei da noi) posti in certe posizioni
‘cruciali’ abbiano degli effetti così ‘vitali’ sugli uomini, per giunta embrionali:
ciò dipende dal fatto che nell’universo ‘tout se tient’, e che la ‘particella’ uomo
non è altro che il frutto della totalità del sistema di corrispondenze universali.
I quattro assi celesti (Ascendente, Discendente, Imum Coeli, Medium Coeli)
sono proprio le coordinate che scrivono e in cui si iscrive il tracciato vitale di
ogni individuo: l’afeta e la Parte della Fortuna, che determinano durata e qua-
lità della vita.
Ora dovrebbe esser chiara anche la ragione del (reiterato) intervento ‘comple-
tivo’: può sembrare curioso che C. abbia scomodato il macrocosmo (= l’armo-
nia universale), quando sta enfatizzando una sua parte (= gli angoli). Ma l’ha
scomodato per dire che tutto il cielo ha sì effetto su tutto e tutti, però non allo
stesso modo: il Sole, ad es., che è la causa universalissima, illumina ugualmen-
te tutta la Terra, ma in un emisfero è estate, in un altro inverno ecc. “Effectus
generalis a coelo nullus potest in toto mundi inferiori simul unus et idem acci-
dere, nisi totum coelum simul et ubique suarum partium agat idem” (Astrol., p.
55). Il cielo produce gli stessi effetti solo lì dove agisce nella sua totalità e nelle
sue stesse parti allo stesso modo. Quell’“ab harmonia totius et partium univer-
si” implica dunque che, premessa o fatta salva la teoria ‘sistemica’ delle cause
astrologiche, per cui bisogna considerare la rete complessiva di rapporti e cor-
rispondenze, vi sono poi alcuni nodi di questa rete particolarmente sensibili,
come gli angoli, i quali comunque sono sempre subordinati alla potenza del
tutto, e quindi non sono le uniche, assolute e ovunque uguali cause determi-
nanti il destino individuale: “La purità natia dunque si tira / dall’armonia del
COMMENTO AL TESTO 357

mondo e d’ogni corda, / che vario suon disserra, / tesa in cielo ed in terra; / e
chi sa ingenerarla, a lor s’accorda, / dove, onorato, Dio sua grazia aspira”, così
parafrasato da Giancotti: “E chi cerca e sa contribuire a produrla, in tanto rie-
sce a tale effetto, in quanto si pone in accordo con l’armonia del mondo, là do-
ve Dio, onorato da tale ricerca, ispira la sua grazia”; e così autocommentato dal-
l’Au.: “Assai difficile è a dire come dall’armonia del cielo e della terra e delli se-
condi enti co’ primi avviene la purità dello spirito sensitivo, e come si può far
generazione perfetta sotto certi luoghi e stelle e tempi, secondo che l’autore
scrive nella Città del Sole. E che Dio, onorato in cercar la sua grazia per ragion
naturale da lui seminata, infonde il suo aiuto, ed unisce l’anima immortale a
spirito puro, e fa uomini divini” (25, Madr. 5, 1-6 ed Esp.; a quest’importante
passo di CS rinviano altresì: Metaph. XVII II, I [III, p. 317]; Art. proph., p. 93 e
Theol. IV I, p. 13).
L’idea di un’interdipendenza e di una corrispondenza universale è talmente
radicata in ambito neoplatonico, che anche un avversario dichiarato dell’astro-
logia, come Pico, la condivide (replicandola sovente: I, p. 371-3; II, p. 211-5);
ed anzi direi che se non è l’ispiratore diretto, il passo che segue (II, p. 461-3) è
un ottimo riscontro e commento delle contorte e sibilline parole campan. (e
può quindi giustificarne la lunghezza): Pico attacca lo statuto scientifico dell’a-
strologia, dicendo che essa non è una scienza sperimentale, perché non si veri-
fica mai “un totale ed assoluto ripetersi di tutta la situazione celeste”; gli astro-
logi però controbattono che ci si può contentare di rilevare anche solo mede-
sime situazioni particolari “e quando ciò sia accaduto più volte, l’osservazione
ripetuta darà l’esperimento”. Difesa debole e incoerente, “sia perché la mede-
sima situazione particolare opera in modo diverso se si trova in un diverso in-
sieme; sia perché la sostanza di tutto il pronostico non dipende tanto dalle par-
ti quanto dal tutto, ossia dall’armonia di tutte le parti insieme, che opera qual-
cosa di peculiare e di proprio, che non farà alcuna delle parti per sé presa e
neppure tutte insieme, dal momento che una cosa sono tutte le parti, e un’al-
tra quel che risulta dalla proporzionata combinazione di tutte. Sarà dunque
imperfetta tale osservazione con cui raccolgono i loro esperimenti. Sarà infatti
imperfetta in quanto in nessun modo può considerare la totalità, e fallace in
quanto non considera sempre nello stesso modo la medesima parte. E su que-
sta ragione nessun altro insiste con tanta forza d’argomenti quanto gli astrolo-
gi, i quali affermano che tutto avviene secondo le combinazioni stellari, e non
secondo le virtù proprie di ciascun astro, ma dal complesso, insieme unito, di
tutte, onde la determinazione del fato scaturisce da tale fusione” (v. n. 108.7-8).
L’altra teoria sottesa è quella enunciata in Antiven.: “li medesimi influssi e au-
spici operano nello crescimento e corso delle cose, che furono nella funda-
zione” (p. 145), e sintetizzata dal termine “radix”, che ricorre spesso in
Astrol., alludendo al tema natale, cioè all’origine dell’esistenza: “omnes con-
figurationes significantes aliquid boni, vel mali in radice, ut epilepsiam, di-
gnitatem etc.”, cioè tutte le figure astrali significative per il destino indivi-
duale, si ritrovano anche in successivi momenti dell’esistenza, ma “non ta-
men efficaciter operantur, nisi in radice praecesserint: tunc enim validus ef-
fectus erit” (p. 209); “in radice”, cioè ‘all’origine’, che, per i Solari, è il con-
358 LA CITTÀ DEL SOLE

cepimento, in Astrol. (e di norma) è la nascita; bisogna dunque considerare


quale pianeta occupava un luogo astrale altamente sensibile (ovvero gli an-
goli, a partire da Ascendente, e altri luoghi afetici), e da lì trarre auspici sul-
l’esistenza futura: “In omni actione considera significatorem illius in tuae ge-
nesis radice: et vide quomodo in principio vitae se habet ad bonum et ma-
lum, et in quibus habes illum infoelicem abstine”; ad es.: “si in radice habes
Martem infoelicem, abstine a militia, et ab omni re significata a planeta alio
quem infoelicem habes” (pp. 222 e 232).
La metafora vegetale, con la variante del ‘seme’ in luogo della radice,249 la si ri-
trova a 146.18 (v. n. 147.3 [f.p.]), e con più ricchezza e chiarezza in Mon. Fr., p.
376; Theol. IV (II, p. 135): “ogni ente è contenuto nel suo principio seminale”;
e Theol. XXV, p. 27: “Gli sviluppi e le origini di tutte le cose si trovano celati nei
loro principii e origini, come nel seme di un’erba si trovano celati foglie, stelo,
fiori e frutti che ne nasceranno. Ogni cosa infatti venuta all’esistenza non è al-
tro che lo sviluppo e l’estensione del proprio principio, così come pervenuta
alla perfezione, essa non è altro che il ritorno al proprio principio. L’albero,
per esempio, nasce dal seme, e quando è giunto in perfezione ritorna in frutti
e in semi”.
Infine, secondo la teoria d’ascendenza platonica (Tim., 69b-70e), l’anima
diffonde le sue tre forze (= ‘vires’) per tutto il corpo attraverso gli spiriti (v.
n. 44.23), e precisamente nel fegato la ‘vis naturalis’, nel cervello la ‘vis ani-
malis’, e “vis vitalis est in corde, quae obtemperandum fervorem cordis aë-
rem hauriendo atque reddendo, vitam et salutem toti corpori tribuit” (Ugo
di San Vittore, De anima et spiritu, in SN XXIV III). Pseudo-Albertus ritiene
che ognuna delle sfere celesti eserciti il suo influsso su ognuno dei mesi di
gravidanza; il Sole presiede al quarto mese, “quod Sol est radix totius virtutis
vitalis”; se poi il Sole è in Ariete, prima costellazione dello Zodiaco, ha un in-
flusso temperato sul feto, “et tunc est motus ad generationem, ideo motus
Solis in Arietem dicitur principium vitae et radix virtutis vitalis” (De secretis,
p. 38).
La dialettica parte/tutto (estensibile alla sfera sociale: v. n. 86.1-2) è di deriva-
zione concettuale e lessicale pitagorica: Diogene, VIII, 27 (per Pitagora, “il fa-
to governa e il tutto e le parti”); Ocellus, p. 53 (“ex partibus totum et univer-
sum constituitur”). In ambito più strettamente astrologico, SN XV XLVIII ‘De
cooperatione omnium planetarum’: alla domanda se tutti i pianeti contribui-
scono “ad generationem unuscuiusque” o se un pianeta da solo è in grado
“aliquid efficere”, pronta è la risposta: “omne quod efficitur in mundo infe-
riori ab omnibus planetis efficitur” (e la glossa: “Caelum est una causa totalis
inferiorum effectuum”); la spiegazione è la seguente: “virtus inferius non agit
nisi per virtutem superiorem. Sed et duo quae distant aliquibus mediis natu-
raliter interpositis non agunt vel patiuntur ab invicem absque medio. Propter

249
Topico in ambito astrologico, secondo la testimonianza di Pico: i pianeti “diffondono a
guisa di profumo le qualità dello Zodiaco, in cui sono dispersi i semi delle cose” (II, p. 41).
COMMENTO AL TESTO 359

hoc nullus planeta inferior agere potest in haec terrena, nisi per virtutem sui
superioris, nisi superior agere potest in haec terrena, nisi mediante suo infe-
riori” (l’interdipendenza universale era dunque spiegata con l’ingranaggio
delle sfere celesti: la sfera superiore muove l’inferiore; e così il pianeta che sta
sopra attiva quello inferiore, e anzi senza questi pianeti intermedi i pianeti su-
periori non potrebbero agire sulle cose terrestri). Secondo Persio, il modo
d’essere del nostro spirito non dipende tanto da “un pianeta che ad un altro,
ma a tutto il cielo noi sottometterci, da cui siamo per ricevere i beni celesti,
cioè lo spirito depurato” (p. 37). Cruciale ne è pertanto l’atto di nascita, come
ribadisce il Nostro: “Considerabis caeli in tua genesi constitutionem et aphe-
tas, ut intelligas quibus iuvatur quibusque tua laeditur temperies… Progressus
et fines rerum in principiis latent, sicut calefactio in calefaciente: principia au-
tem ex tota rerum serie et universitate; non enim agunt particulares causae,
nisi cum universalibus, cum quibus faeliciter et sine quibus infaeliciter proce-
dit effectus. Igitur caeli et mundi constitutionem in exordiis rerum, actionum
et morborum spectes, oportet” (Medicina, p. 58): importanza delle ‘origini’ (a
tutti i livelli: soggetti, azioni, malattie); la genesi, l’embrione delle cose è l’ul-
timo anello di una concatenazione totale e universale di cause, perché le cau-
se particolari non agiscono senza le universali – e gli influssi astrali rientrano
in quest’ultima categoria –: per cui se le cause universali saranno propizie, es-
se si riverbereranno anche nell’incipit. Donde l’importanza dell’osservazione
degli astri ad ogni genesi, perché l’atto d’inizio contiene ‘in nuce’ lo sviluppo
di ogni cosa.

44.3: in angulo,
Una volta fissato l’oroscopo, cioè quel punto dello zodiaco (ovvero dell’eclitti-
ca) che sorge all’orizzonte (detto perciò anche ‘oriens’, o Ascendente), nell’i-
stante determinato (es. della nascita), si determinano anche gli altri tre angoli
o cardini del quadrante in cui si legge il pronostico: ‘occidens’ o Discendente
è quello opposto, mentre il “Medium Coeli” è l’intersezione del piano zodiaca-
le con il meridiano superiore e l’“Imum Coeli” l’intersezione con il meridiano
inferiore.
Ai quattro punti cardinali celesti e perciò detti anche ‘cardini’,250 le forze astra-
li sono potentissime (Astrol., p. 32).

44.7: satellitium,
C. chiama “satellizio” (T.44.9, derivato da Tolomeo, Tetrab. IV, 3) un aspetto fa-
vorevole determinato da una concentrazione di più pianeti, che può verificarsi
anche in due segni contigui (es. a 86.5-6: quello di Giove in Leone con Mercu-
rio e Venere in Cancro), purché entro uno scarto angolare di circa 10° (Astrol.

250
Ascendente = Est; Discendente = Ovest; Imum Coeli e Medium Coeli sono le opposte cul-
minazioni del meridiano del luogo con l’eclittica, che solo all’equatore corrispondono ri-
spettivamente al Nadir e allo Zenit (invece per C. sono, erroneamente, sempre tali).
360 LA CITTÀ DEL SOLE

IV II, I: ‘De parentibus nati’). Gli effetti dipendono dalle caratteristiche dei pia-
neti coinvolti: può aver rilevanza l’ubicazione nel grafico oroscopico, perché
influenzano particolarmente gli effetti di una casa.
Della concentrazione planetaria terrà altresì conto per la fondazione (86.7),
ma non per la legislazione della città.251
La definizione di ‘satellizio’ data da Amerio (“influsso astrologico proveniente
dalla disposizione dei satelliti sotto un pianeta principale”), basata su Astrol. IV
XIV, II, p. 173sg, e passata in GDLI (che riporta l’attestazione di Città) non è va-
lida, perché i primi satelliti (di Giove) furono scoperti solo nel 1609 da Galilei,
ed inoltre erano chiamati ‘pianeti’252 e “astra” da C. (“astrorum mediceorum”
[Lettere, p. 161]); infine in 86.7 a ‘far satellizio’, appunto in occasione di fonda-
zione di città, sono Mercurio e Venere. E del resto in Astrol. si dice espressa-
mente che dei quattro satelliti di Giove e dei due di Saturno, scoperti col tele-
scopio, poiché agiscono di conserto al loro pianeta, “non est de ipsis doctrina
in Astrologia nostra” (I, p. 12).

44.9: princeps
Ogni pianeta percorre l’intera fascia dei segni in un periodo che varia dai 27
giorni della Luna ai circa 30 anni di Saturno. Per una rete complicata di analo-
gie e corrispondenze, essenzialmente e tradizionalmente basata
sull’affinità/eterogeneità dei quattro elementi naturali (acqua, aria, terra, fuo-
co), ogni pianeta esercita una propria potestà (o signoria, o principato – “prin-
ceps”) in un determinato segno; o, viceversa, in un cert’altro segno non è in
grado di esercitarla a pieno o affatto. Tali “potestà” (156.1) sono i gradi e i tipi
di dignità o dignificazione che un pianeta raggiunge in un certo segno. Esse so-
no sette, cioè in ordine d’importanza: “Domus, ubi sunt tanquam in sua domo;
Trigonus ubi tanquam in familiaribus; Exaltatio, ubi tanquam in regno”, e poi:
Terminus, Carpentum, Persona, Gaudium (Astrol., p. 33). Le principali, e men-
zionate in Civitas, sono le prime tre, e la prima e la terza costituiscono una dop-
pia coppia oppositiva:
• esaltazione: un pianeta è definito in esaltazione, quando sprigiona il suo po-
tenziale massimo in un certo grado del segno zodiacale che lo esalta, per-
ché, secondo Albumasar, è in quel grado che i pianeti furono formati, e dà
luogo a grandi mutazioni: Sole nel 19° di Ariete, Luna nel 3° del Toro, Sa-
turno nel 21° della Bilancia, Giove nel 15° di Cancro (152.19-22), Marte nel
28° di Capricorno, Venere nel 27° dei Pesci e Mercurio infine è in esaltazio-

251
Ne tratta Astrol. (p. 221), in cui curiosamente tale concentrazione è contemplata proprio
per il tema natale: cfr IV, p. 121 e VII, p. 14, con esplicito rinvio alle pratiche astrali prenata-
li dei Solari: si esorta la coppia “alla fecondazione quando i Luminari sono angolari con ag-
gregati pianeti benefici… secondo quanto trattato in Civitas Solis”.
252
A partire dal frontespizio del Sidereus, Venetiis, Th. Baglionum: “…in QVATVOR PLANE-
TIS circa IOVIS Stellam…”.
COMMENTO AL TESTO 361

ne nel 15° di Vergine (SN XV XL);253 per contro è definito ‘caduta’ il segno
opposto al segno dell’esaltazione (Mercurio in Pesci), in cui l’influsso del
pianeta si affievolisce;
• domicilio: da non confondere con la Casa come ‘locus’ celeste, il domicilio
è il rapporto fra la Casa e il pianeta che vi può godere come padrone (= do-
minus); è il segno che il pianeta controlla e nel quale si trova nel suo am-
biente favorevole, perché lì si trovava al momento della creazione del mon-
do: Cancro è domicilio della Luna, Leone del Sole; gli altri pianeti ne hanno
due, uno diurno, primario, in cui è stato creato e l’altro secondario, nottur-
no: Mercurio Vergine e Gemelli, Venere Bilancia e Toro, Marte Scorpione e
Ariete, Giove Sagittario e Pesci, Saturno Capricorno e Acquario; esilio è il se-
gno opposto al domicilio, dove l’attività del pianeta è ostacolata (per Mer-
curio: Sagittario e Pesci);
• triplicità è la terza, per ordine e importanza (Astrol., p. 39-40), delle ‘dignità’
dei pianeti; detta anche Trigono (sostantivo), non va però confusa con l’o-
monimo aspetto (aggettivo), anche se si chiama così proprio per la distanza
angolare, ma non dei pianeti, bensì dei segni: esso è infatti ognuno dei quat-
tro triangoli equilateri inscritti nel cerchio zodiacale, i cui vertici toccano i
tre segni collocati a 120°, uno cardinale, uno mobile e uno fisso:
1. Ariete(-Leone-Sagittario): igneo (segni del fuoco), maschile, diurno, in
cui dominano il Sole di giorno e Giove di notte;
2. Toro(-Vergine-Capricorno): terrestre, freddo, secco, in cui dominano Ve-
nere e la Luna;
3. Gemelli(-Bilancia-Acquario): aereo, maschile, diurno, dominato da Satur-
no e Mercurio;
4. Cancro(-Pesci-Scorpione): acquatico, femminile, notturno, posto sotto
l’egida principale di Marte, che la spartisce di giorno col Sole e di notte
con la Luna (Astrol., p. 39-40; il Liber Hermetis XXXV, 23 pone invece Ve-
nere di giorno, Marte di notte).
In quest’ordine ogni duecento anni un trigono succede all’altro, e con il mu-
tare della natura dei segni (fuoco, terra…) in cui avvengono le grandi con-
giunzioni, si determinano le sorti delle nazioni, religioni ecc., perché ogni tri-
gono ha maggiore influenza su certe regioni, forme di governo, religioni ecc.:
ad es., quando i pianeti maggiori sono congiunti in un segno del trigono di
fuoco, viene nel mondo la pace per il dominio di Giove e del Sole (l’impero ro-
mano, con Giulio Cesare; la legge di Cristo e la monarchia sacerdotale [Astrol.,
p. 66; v. n. 160.1-2, § 2.2.2]).
In generale si può dire che quando un pianeta è dignificato, cioè assolve una

253
Astrol., p. 38; Astrol., p. 156: “in Virgine enim vis Mercurii geminatur”. Non bisogna
confondere l’esaltazione con l’apogeo del pianeta, come fa Plinio, II, 16 e 63-8, e, seppur
problematicamente, C. stesso (frutto di tale confusione potrebbe essere, ad es., quella strana
‘simpatia apsidale’ di 120.36sg [v. n. 122.1]), che ipotizza un legame fra l’‘altitudo’ astrologi-
ca e quella astronomica, perché l’apogeo riguarda la distanza dalla Terra o dal Sole, mentre
l’esaltazione è una relazione con lo Zodiaco.
362 LA CITTÀ DEL SOLE

delle sette condizioni di signoria di un segno, è anche signore della casa corri-
spondente (nel nostro caso: se una casa ha la cuspide in Scorpione, che è il do-
micilio di Marte, signore di quella casa sarà Marte); esistono due tipi di pianeti
dominanti: quello che presiede alla genitura, più dignificato perché angolare,
in casa propria, meglio collegato col Sole (in questo caso [42.28] la dominanza
del tema natale è ripartita fra Mercurio e Venere, pianeti assistiti, e quindi am-
plificati, da Giove); altro pianeta, invece, è quello che domina sulla durata del-
la vita (44.1: afeta): per le nascite diurne il Sole, per le notturne la Luna.

44.10-1: Aliis… ad fixas.


Costrutti di ‘uti+ad’ anche a 38.5 e 46.23 (ma in entrambi i casi manca “et”);
Senso spiega: “e li pianeti si guardino con buoni aspetti fra loro e con le fisse
stelle”; al posto di ‘e con le fisse stelle’, la parallela redazione latina riporta: “et
ad fixas primae magnitudinis praesertim” (IV, p. 305).
Oltre che aggregato di stelle che occupano la stessa zona della sfera celeste,
‘constellatio’ significa anche ‘tema oroscopico’, cioè la fotografia del cielo in
un certo istante: ad es. il tema natale che qui non è quello della nascita, ma del
concepimento. In traduzione si può conservare ‘costellazione’, a patto di non
restringerne il significato (secondo l’accezione moderna) alle sole stelle:
‘Co[n]stellatio’ chiamavano i Romani lo stato del cielo al momento della na-
scita, e quindi l’oroscopo;254 questa accezione si è mantenuta anche all’epoca
di C., come testimonia la Crusca: “segno o figura celeste, composta di più stelle
insieme, per la costituzion de’ pianeti, o vero aspetto di stelle tra di loro”.
Passiamo a “fixa”: i Solari tengono conto anche delle stelle esterne alla fascia
zodiacale (‘paranatellonta’), secondo la lezione ermetica (Liber Hermetis XXV)
e tolemaica (I IX, 47-51), di cui fa tesoro il cap. di Astrol. ‘De fixarum natura et
dominio et actione super inferiora, per se et cum planetis’: anche singole stel-
le particolarmente appariscenti, pur essendo distantissime da noi, tuttavia co-
municano i loro effetti a pianeti che li ritrasmettono sulla Terra. Le caratteri-
stiche e qualità dei pianeti si evincono, tra l’altro, anche “prout comparantur
ad fixas” (I I, p. 8); e infatti “fixae autem similes planetis determinant effectus,
ut illi. Consideranda sunt non solum planetae, sed etiam fixae, et utrorumque
mistiones” (II V, p. 84); pertanto “è manifesto che i pianeti non hanno un rap-
porto con determinati segni del cielo, ma con le stelle che convengono loro
per colore e per effetto e fors’anche con alcune figure [asterismi]” (I VII, p.
35); e del resto per il tema di fondazione della Città è stata presa in considera-
zione anche Algol (86.15), che è una stella della costellazione di Perseo.
L’aggiunta di questa frase in Civitas può essergli stata dettata da possibili obiezio-
ni (come quella sollevata ad es. oggi da Donno [v. n. 86.2-22]), che la rarità della
configurazione astrale appena descritta avrebbe pregiudicato l’indice di natalità

254
Ad es. in SN XV L ‘Reprobatio fatalis constellationis’: “bisogna guardarsi dal cadere nel-
l’errore degli oroscopi genetliaci, ed evitare di attribuire vanamente necessitati fatalium con-
stellationum quanto è di pertinenza invece del libero arbitrio”.
COMMENTO AL TESTO 363

dei Solari (v. n. 42.28-44.1); invece così potrebbe voler dire che quella figura ce-
leste è solo una delle tante ‘costellazioni’ oroscopiche propizie alla procreazione.

44.11-5: Et nefas… devotosque.


‘Empi’ erano considerati già da Platone (Resp. 461a; Leg. 775e) quei genitori
che non si erano purificati prima del coito. Non solo l’immaginazione, ma an-
che l’intenzione, cioè un pensiero purificato, gioca un ruolo eugenetico fon-
damentale, come si può rilevare da una qabbalistica Lettera sulla santità, attri-
buita a Yosef Giqatilla (XIII-XIV sec.) e citata da Griffero 2003: Dio “ha dato al-
l’immaginazione dell’uomo la facoltà di generare qualcosa di simile a ciò che
egli si immagina [durante l’unione carnale]… Stando così le cose, sono le me-
ditazioni e il pensiero, nella stessa misura del cibo, a far sì che il nascituro sia
un giusto o un empio. Dunque l’uomo deve rendere puliti i propri pensieri e
le proprie meditazioni, e far sì che durante l’amplesso siano degni, distoglien-
doli da cose trasgressive o dissolute, e indirizzandoli esclusivamente a ciò che è
santo e puro… In sostanza, se un uomo concepisce cose buone, pulite e pure,
ecco che il suo pensiero agisce sulla goccia del seme, e quel nascituro assume
la forma del pensiero stesso” (p. 25). Analogamente C.: “Or chi sa mettere de-
siderio di grande o picciola cosa nella femina pregna, può far nascere il parto
con figure e colori di quella cosa; e se desidera virtù, nobiltà e sapienza comu-
nica al parto il medesimo” (Senso, p. 309).

44.15-9: qui per delitias… non observant.


“Quanto poi è concesso dalla Città del Sole per evitare la sodomia o guai mag-
giori, lo è anche dalla religione cristiana: infatti il marito può accostarsi senza
peccato alla moglie anche se è incinta, solo per estinguere la libidine e non per
procreare… e del resto gli altri filosofi, come Aristotele, Ippocrate ecc., in base
alla legge naturale e in nome della salute, raccomandano il coito a quelli che
non generano, per evitare mali peggiori” (Quaest. pol. IV III, p. 110 - come det-
to a 40.19 [v. n. 40.18-20] e 108.16-8). Infatti Aristotele diceva che il coito eli-
mina molto umore flemmatico (Probl., 50) e “per la salute o per un altro moti-
vo del genere” è consigliato a tutte le età (Pol. 1335b 35). L’astinenza compro-
mette la salute, perché l’eccesso di umori (lo sperma è uno degli umori) inva-
de i nervi e gli spiriti animali non possono passare liberamente, rischiando la
paralisi: il coito è come un salutare salasso (Epilogo, p. 420); e, anzi, è vero che
Dio vuole “che noi non troppo usiamo l’atto di venere, perché se ne vanno i
nostri spiriti fuori et, il corpo restando debole, ci ammaliamo”, ma neppure “si
deve usare molto poco, perché il ritenuto seme genera satirismi, soffocationi
d’utero, ecc.” (Epilogo, p. 524; Medicina, p. 55). Teoria, questa, condivisa anche
da More, 160, e ampiamente riscontrabile nelle fonti prossime a C.: Scoto, II,
p. 215; Beroaldo, Symbola Pythagorae; SD XIII XCIII ‘De coitu et eius iuvamentis’;
Zimara, p. 95: (“sperma ultra debitum tempus retentum, convertitur in vene-
num”); Telesio, V, 29 (II, p. 379): il coito “expellit fumum spermatis de cere-
bro, et expellit materiam apostematicam [= tumorale (Du Cange)]”, che pos-
sono causare vertigini e oscuramento della vista e danni cerebrali; Della Porta:
“Assai più mal ne può seguire dal seme ritenuto che da’ mestrui, principal-
364 LA CITTÀ DEL SOLE

mente in quelli che hanno il seme di più cattivo succo e più copioso, e che
oziosamente vivono”, come accade ai sapienti costretti a vita sedentaria, per cui
devono “fuggir quelle infirmità che sogliono alle volte dal ritener nel corpo
quel seme avvenire”, o ricorrendo al coito, oppure, secondo Arnaldo da Villa-
nova, “se ben l’atto venereo è utile alla sanità, non per questo è necessario.
Molto giova a questo il vomito et il cavarsi il sangue; ché queste cose diminui-
scono la copia del seme” (Fisonomia VI VII, p. 961-2).

44.18: vilium,
‘Vilis’ è peggiorativo del ‘communis’ nell’accezione negativa utilizzata a 12.35,
dove si distinguono le pietre preziose e quelle “communium”; o, più pertinen-
temente, a 46.17, dove la ‘foemina communis’ (nel latino classico: la ‘mere-
trix’) è in opposizione a ‘matrona’, perché non è assegnata a un generatore
specifico, ma posta a servizio sessuale non riproduttivo della collettività: dato il
regime comunitaristico, infatti, ‘donna comune’ va qui inteso nel senso di ‘po-
tenzialmente a disposizione di tutti’, e non di ‘cosa della quale tutti sono com-
proprietari’. Le donne inidonee alla generazione, dunque, per costituzione,
perché infeconde o, peggio, autosterilizzatesi, non più riservate al procreatore
loro assegnato dallo stato, sono liberamente disponibili per la collettività (v.
40.19, 46.17 e 54.4), come suggerito da Platone, Resp. 461c. In Oecon. consiglia
alla signora di servirsi di una “faeminam vilem emptitiam, quae vilia servitia
tractet. Item unam, vel duas ancillas nobiliores, aut plures, pro familiae magni-
tudine et nobilitate” (II v, p. 195).

44.19: Magistratus… sacerdotes


Come insegna Platone, l’anima per volare alla patria celeste, ha bisogno di due
ali: “l’intelletto e la volontà”, il primo appannaggio del filosofo, la seconda del
sacerdote: “O felici secoli, i quali questa divina copula della sapientia e religio-
ne spetialmente appresso gli Ebrei e Christiani conservaste intera” (Ficino, Re-
lig., 6-7).

44.23: debiles… animales


La fisiologia campan. si fonda sul principio che tutti gli enti di natura, com-
presi quelli inanimati, sono dotati di ‘senso’ (88.8), cioè di un grado di sensibi-
lità progressivamente più complessa; privo di questa facoltà appetitiva e con-
servativa il cosmo precipiterebbe nel caos. Una di queste forme superiori di
sensibilità comune a tutti gli enti animati (bestie e uomini) sono “gli spiriti ani-
mali” (al plurale [44.28]); quel che distingue l’uomo è di avere anche un’ani-
ma (o “mens” [142.40]), “creata da Dio come ottima guida a governare nel-
l’uomo gli spiriti animali e tutto il corpo” (Theol. IV [II, p. 151]). L’uomo è
composto quindi di due ‘res’: l’anima divina “che principalmente abita nello
spirito” (Senso, p. 153-4: v. n. 64.13), e il corpo. Questa materia corporea, a sua
volta, è presente nelle sue tre manifestazioni fisiche: solido per tener insieme
l’organismo (carne, ossa), umido (sangue) per nutrirlo, e spirito per muoverlo
e renderlo senziente (Lettere, p. 118: “anima brutale”). Lo spirito, o meglio il si-
stema organizzato di spiriti, non è altro che sangue “assottigliato” (dunque, per
COMMENTO AL TESTO 365

quanto sottile, è corporeo), così come le membra sono “sangue ingrossato”; e


come il sangue è il mediatore fra spirito e carne, così lo spirito è l’indispensa-
bile “vehicolo e vincolo tra il corpo” (Epilogo, p. 505-6) e l’anima: “non si può
congiungere anima divina senza il mezzo dello spirito a lei simile, né lo spirito
senza il sangue a lui simile con proporzione discendente” (Epilogo, p. 428; Phy-
siol. VI I, p. 31: “spiritus qui sunt portio caelestis”, mentre “corpus portio terre-
stris”). Il sangue che proviene dal cuore, ad es., essendo “spiritoso assai”, per la
ventilazione polmonare, “nutrica la diversità delli spiriti habitanti nella testa”
(Epilogo, p. 347; Metaph. VII I, VII [II, p. 261]: “nella testa risiede, come in una
rocca, il complesso degli spiriti”); i quali spiriti “non sono mai li medesimi, per-
ché altri n’essalano et altri si fanno a quelli simili, come le fiamme della lucer-
na sempre paiono le medesime quantunque spariscano” (Epilogo, p. 357). Gra-
zie a queste ‘fiammette’, esalate dal sangue e residenti nella testa, possiamo
contemporaneamente vedere, sentire, camminare ecc. Gli spiriti corporei,
cioè il principio vitale biologico, non sono altro infatti che calore tenue, luci-
do, mobile (“spiritus enim igneus, naturaque mobilis est” [Quaest. phys. XXX-
VIII IV, p. 391]); ed è proprio questa sua natura ‘solare’ (“lo spirito dal sole in-
generato” [Senso, p. 138]), calda, sottile e dinamica che lo fa essere contempo-
raneamente uno nella testa e molteplice in tutto il corpo. Mentre nei corpi
semplici, come “nella pietra, nel ferro, nel vento, nell’acqua, una forma fa una
cosa sola”, l’animale è capace di assolvere diversi compiti parallelamente, e
dunque è più giusto pensare “che più spiriti pendenti da una università loro
per continuazione governano il composto, come molti huomini una nave pen-
denti da un capo con continuatione di precetto, benché habbino i corpi di-
scontinuati” (Epilogo, p. 421); nel caso dell’uomo questo ‘capo’ o “mente” riu-
nificatrice è l’immaginazione: “imaginatio est causa princeps, spiritus vero exe-
quens”. La facoltà dell’immaginazione (che abbiamo visto in opera nelle ge-
stanti [v. n. 42.19-21]) è come un nocchiero che dirige la nave; l’equipaggio
non è altro che la sua ‘longa manus’ differenziata in tanti marinai/spiriti che
circolano elettivamente nelle cavità cerebrali, nei nervi e nelle arterie, dove il
loro moto è meno ostacolato (Quaest. phys. XXXVIII IV, p. 391-2).255
In sintesi: lo spirito, distillato dal sangue, è un fluido vitale calorico che per la
sua natura ignea tende verso l’alto, risiedendo quindi nei ventricoli cerebrali;
ma che, diretto dalla facoltà immaginativa, frazionandosi attraverso i vasi e i
nervi, raggiunge le varie zone corporee, eseguendo sia le funzioni passive per-
cettive, che quelle attive motorie di tutte le membra. Tra queste funzioni vi è
naturalmente anche quella riproduttiva (e forse non è un caso che Civitas ab-
bia paragonato i sacerdoti che calano giù dal tempio per nutrirsi e riprodursi
“uti spiritus ex capite ad ventriculum et iecur” [108.14-5]). La generazione de-
gli enti, universalmente, avviene grazie a questa sorta di energia interiore, che

255
L’anima/nocchiero è in Pico, I, p. 337; invece la natura solare dello spirito risale almeno
a Ippocrate, Carni II, 1-2: “Ciò che chiamiamo caldo è, a mio avviso, immortale, ha l’intelli-
genza del tutto, vede, intende, conosce tutto, il presente come l’avvenire”.
366 LA CITTÀ DEL SOLE

“calefaciendo, attenuando et consolidando” opera la generazione organica in


generale; invece per quanto riguarda la nascita di quella particolare individua-
lità, occorre il concorso di Fato, Necessità e Armonia, influssi di cui si serve
l’Intelligenza che funge da interfaccia e messaggero delle forme ideali impres-
se da Dio (Quaest. phys. XXXVIII IV, p. 393; v. n. 28.41-3). Materialmente, poi, la
fecondazione avviene in seguito a produzione del seme da distillazione della
parte più pura del sangue, che circola nei vasi spermatici, passando nei testico-
li e unendosi con gli spiriti (Medicina, p. 55), dove “sollecitato dal calore semi-
nale nei testicoli, comunica questo tipo di sensazione al cervello” (Physiol. XIV,
8). E dai ventricoli del cervello “si versa nel membro lo spirito e con sé porta il
sangue… e si accinge a secernere il seme o perché appesantito dalla sua ab-
bondanza o perché stimolato dalla sua acrimonia o perché piuttosto allettato
dal piacere”. Con l’eiaculazione lo spirito disceso nei vasi seminali “vola tutto”
insieme al seme “affinché possa godere tutto del piacere” (Telesio, VI, 19 [II, p.
567]), e deve proprio volare, altrimenti svanisce nell’aria.
Gli spiriti animali – insegnava inoltre Telesio – “non sono tutti dotati della me-
desima forza di natura e della medesima tenuità al pari della materia dei cieli,
alla quale si è visto che sono molto simili, ed essi differiscono tra loro non solo
per il fatto che questi in alcuni sono più raccolti in sé e più spessi ed in altri di
meno, ma anche per il caldo e la tenuità ed inoltre per la purezza e il nitore”
(VIII, 29 [III, p. 297]). Gli spiriti, in quanto entità corporee, possono dunque
essere soggetti a patologie – la morte, cioè la patologia estrema, se ‘naturale’
(cioè per vecchiaia), è causata dalla sempre più ridotta produzione (e ricam-
bio) di nuovi spiriti da parte del sangue (le fiammelle spente non vengono più
progressivamente riaccese); se ‘accidentale’, consiste in una rapida volatilizza-
zione degli spiriti, generalmente conseguente a forte emorragia (il caso più
semplice): il corpo muore perché si svuota dei suoi fluidi calorici. Poi vi è l’in-
finita casistica degli impedimenti all’azione senziente e movente dell’orche-
strazione di spiriti (gli spiriti infatti sono costretti nei vasi sanguigni e nelle cel-
le cerebrali in cui normalmente circolano): da quelli straordinari, come la pa-
ralisi di un membro, quando “un nervo è pieno di qualche humore”, che
ostruisce il passaggio allo spirito; a quelli normali, come il sonno quando lo spi-
rito si ritira tutto nella testa, o come quando siamo molto intenti ad un’opera-
zione per cui non possiamo farne contemporaneamente un’altra.
Quest’ultima è appunto la condizione dei sapienti, che sono continuamente
‘distratti’, presi come sono dalle loro meditazioni, per cui “nell’atto sessuale
trattengono gli spiriti più alti e nobili del cervello, trasfondendo solo quelli più
bassi” (Ernst 2002, p. 94). In Titoli, C. adduce, in effetti, due ordini di ragioni al
fatto che “li figli de filosofi per lo più son bestiali”: una “ragion teologica”,
esplicitata attraverso una terzina dantesca: “Rade volte discende per li rami /
l’humana probitate: e questo il vole / Quel che la dà, acciò da sé si chiami” (Pg.
VII, 121-3: la non ereditarietà delle virtù è voluta da Dio, proprio perché l’uo-
mo comprenda che si tratta di una Grazia concessa, o anche perché essa sia
premio e merito di una conquista individuale). Alla ragione teologica vanno
poi affiancate almeno due ragioni ‘fisiche’, e cioè: “la debolezza naturale al va-
lor razionale per lo più accoppiata, e la poca attenzione del generante verso la
COMMENTO AL TESTO 367

generazione, ma distratta altrove. Si vede ciò nei figli di Salomone, di Socrate,


di Cicerone, di Ciro e d’altri assai” (p. 295). Perciò “accade ai sapienti di gene-
rare figli ottusi”; infatti i figli dei popolani “riescono valenti d’ingegno e di for-
ze, perché quelli vi trasfondono l’intera loro sostanza e gli spiriti del cervello,
migliori di quelli che il filosofo trae dai testicoli” (Quaest. pol. III, p. 99). Ed ec-
co il perché: “quando osserviamo attentamente qualche cosa, non udiamo o
udiamo male quelli che ci chiamano; e quando la musica diletta lo spirito nel-
le orecchie, esso confluisce tutto nella testa, e la vista ne rimane debole… e
quando vogliamo osservare con un solo occhio in un buco chiudiamo l’altro,
perché raccogliamo in uno solo tutto lo spirito” (Metaph. XIV I, I [III, p. 87]):
gli spiriti si concentrano in una funzione, a scapito delle altre; dunque i sa-
pienti, sempre occupati nei loro pensieri, concentrano gli spiriti nel cervello,
pregiudicando le altre funzioni corporee, comprese quelle generative: “li figli
di filosofi son tutti quasi stolidi e ignoranti come tu [= Pflug] sai nella nostra fi-
losofia” (Lettere, p. 121), cioè dalla Medicina, dove spiega perché filosofi e sacer-
doti, occupati nelle meditazioni, generano una pessima prole: “quoniam spiri-
tum a capite, cum sint cogitationibus occupati, nullum vel exilem emittunt; qui
sapientiae affectum et similitudinem paternam producere idcirco nequit, et
multum ex testiculis crassum effundunt, ut in filiis Salomonis… Telesii et alio-
rum sapientum rudibus experimur plerumque”, ed è opportuno che si asten-
gano dalle donne, “non nisi menstruo, aut trimenstruo uti propter medicinam
coitu, aut vivacem et succi plenam coactos ducere virginemque” (p. 74); ovve-
ro: “chi attende alla contemplazione è debole di spiriti, e nel coito [gli spiriti]
non escono dalla testa, perché sono pochi e stanno cogitando, ma dalli testico-
li; e fanno uomini grossi di materia e d’ingegno… Ma a questi si converria raro
coito con donne spiritose, forti, alquanto grasse, che quel seme e spirito buono
receverieno e avviveriano e moltiplicariano bene” (Senso IV, p. 305-6; idem Epi-
logo, p. 525).256 Occorrono dunque stimolazioni sessuali molto forti, affinché
tutti gli spiriti possano essere coinvolti nella generazione e, trasfusi nel seme,
siano in grado di forgiare una prole non ‘difettosa’.
Janni fornisce un’altra spiegazione: gli intellettuali “sono poco atti alla genera-
zione perché questa è determinata con moto che non parte dalla testa ma sol-

256
È l’aristotelismo arabo ad aver elaborato la teoria dell’incompatibilità di una doppia at-
tenzione (non si possono pensare due cose diverse contemporaneamente), sulla base ap-
punto del principio: “una virtus intensa retrahit aliam a sua operatione”; poiché “substantia
animae habet duas actiones”: una relativa al corpo, chiamata “pratica”, e una riflessiva, chia-
mata “apprehensio per intellectum”, due funzioni tra loro incompatibili e allora “cum occu-
pata fuerit circa unam retrahetur ab alia”; e poiché “sapientes multum intendunt imagina-
tioni et rationi et multum profundant suas cogitationes et meditationes, unde in eis ut pluri-
mum debilitatur virtus naturalis, et ideo frequenter sperma eorum est indigestum et malum,
et propter hoc producuntur filii mali, quia qui bonus est in studio, pravus est in foro et in ge-
neratione vel venereo actu” (Avicenna, De an. p.1 c.4-5, p.5 c.2; teoria ripresa da Albertus,
Quaest. de animal. XVIII, 4, XII, p. 299: ‘Quare sapientes et philosophi ut plurimum generant
filios fatuos’).
368 LA CITTÀ DEL SOLE

tanto dagli organi genitali e quindi la prole ha ingegno grossolano” (II, p. 28).
Tale interpretazione, in effetti, è in linea con il peripatetismo occidentale: in-
fatti il Problema XXIX posto da Aristotele (‘come mai gli sciocchi [= “stolidi”]
fanno figli assennati e forti?’), è risolto così da Alessandro d’Afrodisia nel suo
comm.: “Gli stupidi, totalmente soggiogati dalla voluttà, durante la copula,
hanno lo spirito tutto immerso nel corpo: perciò il loro seme caricatosi di mol-
tissima forza, sia razionale che naturale, fa nascere individui molto savi”; il con-
trario accade “prudentioribus atque iis praesertim qui sunt eruditi”.
Che i geni partorissero folli è una idea diffusissima nei trattati di medicina cin-
quecenteschi (Fournel, p. 215: essi “admettent souvent que les hommes plus
‘spirituels’ sont moins aptes à engendrer”), non solo per l’influsso di Aristotele
(Rhet. II, 1390b) e della medicina peripatetica (ad es. Zimara, p. 216-7), ma per-
ché anche la scuola concorrenziale di pensiero l’aveva recepita:257 per Ficino
“ad un che contempli o ad un curioso non è cosa più pestifera che l’atto vene-
reo; e all’incontro da chi questo atto frequenta, non è cosa più aliena che e ‘l
pensiero e la contemplatione. Et in questo numero di contemplatione poniamo
il fisico, il religioso e chiunque è nei suoi negocij molto cogitabondo e da gravi
cure oppresso”, in quanto il coito è superiore alle “forze dell’huomo, perché di
un subito evacua e cava gli spiriti fuora e sempre i più sottili; debilita il cervello,
destrugge lo stomaco e i più nobili membri, che sono dintorno al cuore: e in-
somma non è male che sia più contrario e più nemico dell’ingegno che questo.
Onde Ippocrate non per altro giudicò il coito molto simile al mal caduco” (Vita
sana VII,16; cfr anche Th. Pl. XIII II, p. 286-7). Savonarola esorta il sapiente: “Se
desideri prole forte e robusta, non impregnare… quando per il studiare se ri-
truoa l’huomo de spiriti molto resoluto… Sì che i fioli che se engenerano per
quelli di spiriti resoluti, come per exercitio, studio et cetera, suono comuna-
mente meschini e debele. O frontoxo doctore molto studioso, hebi a mente che
Aristotile dice che i fioli che nasseno de huomo litterato, zioé che molto se exer-
cita cerca le lettere, suono comunamente meschini e alquante fiate pazi, cussì
ritrovandese il spirito gignitivo [= spirito vitale+naturale+animale] quanto in la
vertù animale [che deriva dal cervello] per il gram studio molto debele: che cer-
to è pur vero che Venus cum Palade non se convene” (p. 20).258
Per quanto poi riguarda le fonti della teoria degli spiriti animali, esse sono ci-
tate in Theol. III: “Questa è la dottrina di Ippocrate nel lib. VI dell’Epidauro [de
Epidemiis], di Telesio, di Plutarco, di Varrone, di Democrito e di Empedocle.
Aggiungo Aristotele, che nel libro della Generazione degli animali dice: ‘nell’u-
more risiede lo spirito, e nello spirito il calore’, sicché tutti gli enti sono in cer-
to modo pieni di anima” (p. 181). Altro riferimento certo, oltre al De Vita coeli-

257
Come il telesiano Persio nel suo Trattato; del resto pure Platone sosteneva che “il valore
quando si produce per molte generazioni di figli… alla fine fiorisce d’ogni specie di follia”
(Polit. 310d).
258
Adagio ripetuto spesso da C. (Mon. Sp., p. 318; Disc. univ. XI [p. 1140]): “quia Minerva mi-
nuit nervos”: Minerva snerva.
COMMENTO AL TESTO 369

tus comparanda di Ficino, è il I De semine di Galeno (IV, p. 512-93 [p. 328-41 del-
l’ediz. veneziana]). Comunque la terminologia è prevalentemente telesiana, a
sua volta di matrice avicenniana259 e paolina, perché si basa sull’opposizione
‘psyché’/’pneuma’ = spirito/anima.260

46.5: puritatem complexionis,


Secondo l’opinione di Galeno, “la temperie del corpo fa e cagiona mutatione
nell’animo, ne costumi, ne vitii e nelle virtù… Alle quali cose soggiugne… che
la potenza dell’anima si regoli dalla temperatura del sangue” (Persio, p. 20-2).
“Né può farsi / puro chi non è nato / per colpa altrui o per fato. / Può di na-
tura il don più raffinarsi” con l’educazione, ma non “si trasfonde, se fiacco ed
ignaro / figlio fanno”; e nell’Esp.: “la sapienza non s’impara né si trasfonde per
generazione, poiché gli figli e discepoli delli sapienti ed eroi non sono tutti sa-
pienti e valorosi. Dunque è dono divino travasato per loro” (25, Madr. 4, 2sg; v.
n. 24 [glossa], n. 40 [glossa] e n. 44.23).

46.18-9: non datur… generationis,


“Il Dio di Mosè vietò l’ingresso nel tempio a tutte le donne sterili che professa-
no la verginità [Ex. 23 e Deut. 27: ‘maledetto chiunque non susciterà discen-
denza in Israele’], il qual divieto ai nostri giorni è seguito in parte anche da
Maometto” (Theol. XVII, p. 143). Curiosamente Formichetti 1999 interpreta
così: “per evitare la sterilità maschile gli accoppiamenti si ripetono con più uo-
mini” (p. 145); ma il testo inequivocabilmente chiama in causa la sola sterilità
femminile.

46.20-1: sterilitatem… gratia.


Le pratiche antifecondative sono ampiamente diffuse, come attesta Della Por-
ta, Magia: iniziando il capitolo intitolato ‘D’alcuni rimedi appartenenti alle

259
Avicenna, IV VIII su cit. e Opera in re medica II, 325a: lo spirito, corpo sottile generato dal
cuore, funge da mediatore fra anima e corpo; teoria famosissima, che si ritrova anche in Pi-
co: lo spirito umano, contenuto nel seme, è “vapore sanguigno tenue, chiaro, mobile perfet-
tamente rispondente al cielo, come scrivono Aristotile e Avicenna” (I, pp. 207-9, 219).
260
Impossibile fornire qui una bibliogr., anche solo sommaria, su uno dei nodi cruciali della
riflessione scientifica, umanistica e religiosa occidentale; capitale, comunque, su quest’argo-
mento resta: Spiritus. IV Colloquio internazionale del Lessico Intellettuale Europeo, a c. M. Fattori e
M. Bianchi, Roma, Ateneo, 1984; e il recentissimo Per una storia del concetto di mente, a c. di E.
Canone, Firenze, Olschki, 2005; confrontando la teoria ficiniana degli spiriti e quella, insod-
disfacente, di C., Walker scrive: “la teoria di C., parlando in senso stretto, non spiega assolu-
tamente niente… È inutile spiegare l’udito dell’uomo, presupponendo dentro di lui un va-
pore che sente” (p. 261-2); accenni ‘divulgativi’ e generali sulla teoria rinascimentale dello
pneuma, ‘veicolo dell’anima’, in Couliano, pp. 17-8, 43 e M. Foucault, Histoire de la sexualité,
Paris, Gallimard, III vol. Invece discreti spunti sui rapporti fra C. e la medicina li offriva già 60
anni fa Janni (I, p. 18-21; II, p. 22-35), recentemente aggiornati da M. Mönnich, T. C.: Sein
Beitrag zur Medizin und Pharmazie in der Renaissance, Stuttgart, 1990; M.-D. Couzinet, Notes pour
les ‘Medicinalia’ de T. C., in: ‘Nuncius’, XIII, 1998 (p. 39-67).
370 LA CITTÀ DEL SOLE

donne’, si premura di chiarire che gli “isperimenti” che seguiranno, “benché


apresso d’alcuni parranno poco honesti, et indegni d’esser scritti”, afrodisiaci,
calmanti, e sistemi anticoncezionali riempiono “i libri de medici” (II XVI, 76r).
Uno dei principali addebiti che C. muove ad Aristotele è che, per il controllo
demografico, “in 7 Pol. abortus et nefarios concubitus, ne abundet numerosi-
tas, consulit” (Disp. in prol.).

46.23-5: ad roborandam… nutrimenti


Espressione tipica del linguaggio medico: Giove alla puerpera giunta al nono
mese “embryum [sic] corroborat et maternos aperit aditus” (SN XV XLIX); Fici-
no, Vita sana, 18: il Sole “apre co’ raggi suoi i meati del corpo, e sparge e diffon-
de dal centro alla circonferenza gli humori e gli spiriti di dentro”.
Circa il regime della gestante, consiglia in Oecon. IV I p. 203: dopo che la mo-
glie ha concepito, per alcuni giorni stia immobile; poi “exerceat paulatim cor-
pus ad prolem roborandam”, ad es. facendo brevi passeggiate; parli di cose vir-
tuose e probe, perché la sua immaginazione è molto potente a plasmare il tem-
peramento del nascituro; e stia sempre in animo lieto, e si nutra di cibi sani e
piuttosto grassi che delicati, perché producono sangue e alimento. Si tratta di
pratiche anticamente e diffusamente consigliate: da Platone, Leg. 789d e Ari-
stotele, Pol. 1335b 10, fino a Savonarola, il cui II trattato è dedicato al ‘Rezi-
mento de le donne gravide’: a partire dall’alimentazione, poi il “movimento
over exercitio… le pregnante debeno havere exercitio temperato… per exica-
re le superfluità di lei e del feto… e vogli manzare de le cosse apte a fare buon
sangue” (p. 88).

46.29: communibus aedibus


Il sottolineare la comunanza di queste ‘nursery’, oltre a ribadire l’assenza del
privato nella Città comunitarista, intende segnatamente togliere qualsiasi occa-
sione all’insorgere dell’‘amor proprio’, evitando per giunta anche le possibili
complicazioni del futuro distacco madre/figlio, come aveva letto presumibil-
mente in Diodoro sull’identica usanza nell’isola del Sole: in comune “si alleva-
no i fanciulli, e son communemente amati e ben voluti da ognuno. E bene
spesso usano di levare i bambini da coloro che gli allevano, a fine che le madri
non possano i figliuoli riconoscere. Onde ne segue che non esendoci tra loro
ambizione alcuna o pure una grande affezione, son sempre d’acordo, e vivono
senza sedizione alcuna” (II XIII [II, p. 122]).

46.30: duobus… et ultra,


Per il lungo periodo di allattamento materno (vivamente caldeggiato): Plato-
ne, Resp. 460b; Leg. 792b; dai quasi tre anni testimoniati da Macrobio (Somnium
VI, 47: è a “35 mesi” che il lattante comincia a provare disgusto per il latte del-
la nutrice), in seguito ci si assesta sul biennio suggerito da Avicenna (cit. in SD
XI XXX e SN XXXI LX): “Naturale ablactandi tempus est duorum annorum.
Quod si infans aliqua de lacte desideraverit, ordinate est ei tribuendum, non
autem violenter prohibendum. Post quam vero duales apparere caeperint den-
tes, ad nutrimentum ordinate movendus erit quod forius sit”; Savonarola: “se
COMMENTO AL TESTO 371

dimanderai quanto tempo lactare debe il fanzuolo, dico che ‘l tempo naturale
è, come dice Avicenna, anni dui, spetialiter nei maschi – il perché la latitudine
di vita di quelli è più longa che in le femine – e le fanzuole hanno a lactare per
fina a mexi dexedoto in vinti. Ma questi termini non se guardano, che la briga-
ta [= la gente] o per spexa o per altra caxuone [= causa] quelli abreviano. An-
cuora suono alquanti medici che quelli abreviano, ancuora suono alquanti più
prolungano assai, ma questa è pur pratica comuna” (p. 154); Guevara, II XXVII
(‘Come alla presentia del Magno Alessandro fu disputata una tale questione:
quanto tempo doveano lattare i fanciulli’); More, 112; Doni, p. 73; Brucioli, V,
19r [‘Dello instruire i figliuoli’]: col latte si succhiano i costumi.261
Le stesse pratiche, eugenetiche e educative, le aveva suggerite ai reali di Spa-
gna: “la regina pregna si deve esercitar moderatamente in qualche esercizio
per fortificar la prole. Il figlio nato deve allevarsi di latte di donna generosa,
forte e savia, e più in man d’uomini che di donne, perché i costumi si beeno
col latte, e dopo per farli spasso mirar le figure matematiche… la descrizione
de suoi regni, e veder cavalli e armi, e non giochi donneschi… Deve aver mae-
stri religiosi, vescovi e capitani invecchiati in guerra, e belli parlatori, acciò im-
parino la lingua e la legge parlando, e non col fastidio della gramatica” (Mon.
Sp.1, p. 32 e Mon. Sp. IX, p. 72).

48.2: veste… ornantur.


Elimina l’accenno al cromatismo (T.48.1: “han vesti di color vario e bello”), che
contrasterebbe con precedenti (38.5 e 27) e successive (54.15) dichiarazioni di
quasi uniformità del bianco – Firpo 1970, p. 381 parlava “di colori varianti se-
condo l’età”, usanza che invece si attaglierebbe meglio al Mondo di Doni.

48.6-8: At pueri… in civitatem;


In Quaest. pol. III, p. 99 accusa Aristotele di non aver pensato ai minorati, che è
un problema invece avvertito da quasi tutti i legislatori classici e moderni, uto-
pistici e non, con soluzioni generalmente drastiche,262 salvo Platone, Resp. 460c
e More, 72, che consigliano appunto di inviarli nelle fattorie. Suggerimento,
questo, che, oltre a una radicata cultura che privilegia la città alla ‘villa’,263 de-
ve avere anche qualche fondamento nella pratica, come potrebbe attestare il
Cimone decameroniano (V, 1): “quasi matto era e di perduta speranza… con
la voce grossa e deforme e con modi più convenienti a bestia che a uomo”, per

261
E così anche C.: “se la madre è in salute, lo allatti; altrimenti lo affidi a una generosa balia,
infatti, come dice Crisippo, con il latte si bevono anche i costumi” (Oecon. IV I, p. 203).
262
Ad es. per Doni i “mostri” vanno soppressi alla nascita (p. 74-5); tali pratiche epurative so-
no invece espressamente condannate da C., perché “Dio non tollererebbe che accadano que-
ste cose invano” (Astrol., p. 126 ‘De monstris’).
263
Già nell’alto Medio Evo Rabano Mauro spiegava che “vici et castella et pagi sunt, quae nul-
la dignitate civitatis honorantur, sed vulgari hominum conventu incoluntur” (De Universo XIV
I [PL CXI, 383]).
372 LA CITTÀ DEL SOLE

cui il padre, persa ogni speranza, “per non aver sempre davanti la cagione del
suo dolore, gli comandò che alla villa n’andasse, e quivi co’ suoi lavoratori vi di-
morasse; la qual cosa a Cimone fu carissima, per ciò che i costumi e l’usanza
degli uomini grossi gli eran più a grado che le cittadine” (v. n. 62.13-7).
“Rus seu villa… Aedificabis in villa domicilium” (Oecon. II IV, p. 194), ‘villa’ è la te-
nuta di campagna, dove consiglia di mandare ad abitarvi i servi “fideles… ingenio
exiguos, robore validos” (IV II, p. 205); tuttavia per “villa propriamente s’intende
la casa fuori della città” (Magini, 2v). In CS le fattorie non sono soltanto unità pro-
duttive (62.15), come in More, ma anche residenze amene (90.28).

48.8-11: at plerumque… effigie,


Questa ottimistica dichiarazione sembra contraddetta da quanto sostenuto a
158.26sg: come mai, sotto la stessa ‘constellatio’, nascono Solari (quasi) tutti
belli e buoni, mentre nel resto del mondo uno stesso oroscopo partorisce men-
ti fetide d’eresia e menti profumate di virtù? C. fa ricorso al libero arbitrio
(158.19-21), che, se pilotato dalla ragione e non dal senso, inclina alla virtù; e
dunque, in ultima istanza, poggia tutto sull’educazione, e perciò sull’organiz-
zazione sociale (razionale) dei Solari (132.6sg).

48.11-3: hinc… suboritur,


A 132.6-21 il concetto è espresso più distesamente, senza le determinazioni
astrali, ma in forma negativa. “L’ottima repubblica è quella dove ciascuno è
eletto a fare quello officio al quale è nato, perché allora regge la ragione. Pes-
sima dove ciascuno fa officio contra quello per che è nato, perché la regge il
caso… Dove dalla fanciullezza sono scelti nell’ufficio a che sono nati da mae-
stri pubblici sapienti non timidi, ivi la repubblica diviene fiorentissima. Ma do-
ve a caso entrano nelli ufficii, cioè perché sono figli del re, sono re, perché so-
no figli dei nobili, sono ufficiali… e non perché sono buoni e savi, ivi la repu-
blica va sempre rovinando” (Afor., n° 28-9).264
La fonte è Platone, Polit. 309-11, in partic. 311b-c: “l’arte di governo, per co-
munione d’intenti e per via d’amicizia riconducendo ad unità l’indole degli
uomini valorosi e temperanti, realizza così il più sontuoso ed il migliore di tut-
ti i tessuti [sociali], e, avvolgendone tutti gli altri, schiavi e liberi, nelle città, li
tien stretti in questo intreccio”.265

48 (glossa): De impositione nominum


CS non accenna affatto alla lingua usata dai Solari, ma in compenso possiamo
riconoscere dall’uso dei loro nomi propri, appellativi e titoli distintivi le teorie
espresse dall’Au.:

264
Alla necessità di assecondare l’innata vocazione per il bene collettivo Politica dedica i §§
IV, 9-10 e XI, 11.
265
Cfr M. Migliori, Arte politica e metretica assoluta. Commentario storico-filosofico al ‘Politico’ di Pla-
tone, Milano, Vita e Pensiero, 1996.
COMMENTO AL TESTO 373

• i Solari vengono battezzati dal Metafisico, perché “anche Platone insegna


nel Cratilo [389a-390a] che l’attribuzione dei nomi non è cosa da grammati-
co, ma da logico sapientissimo, cioè da metafisico, scopritore delle cose e in-
stauratore delle scienze” (Gramm. III IV, p. 705);266 i nomi propri non sono
arbitrari, convenzionali, ma devono essere appropriati, riflettenti cioè le
qualità o tratti distintivi delle persone (o delle cose, per i nomi comuni);267
tra le varie cause che impediscono di avere una lingua perfetta (in cui cioè i
nomi scaturiscano “dalle stesse cose cui vengono imposti”), c’è il fatto che “li
principi sciocchi et il volgo senza guida d’imitatione mettono i nomi a ca-
priccio, senza consigliarsi con legislatori et filosofanti imitatori della natura
et di Dio. Però il mondo è tutto corrotto così nel parlare come nel sapere”,
scontando il peccato d’orgoglio di Babele (Poetica XXV; Epilogo, p. 416-7);
• il criterio onomastico seguito dal Metafisico è quello classicamente basato
sulle “qualità della natura significate da’ Romani con questi vocaboli: il Na-
sone, l’Agrippa… che nascon… o dal segnalato naso… o piede etc.” (Titoli,
p. 292); “i Romani facevano bene, che notavano gli individui da qualche
proprietà del naso, de piedi, del busto, et non a caso, come facciamo noi ser-
vendoci dell’amor proprio non del senso” (Epilogo, p. 480c); ma lo stesso cri-
terio vige anche presso una popolazione moderna (dotata per giunta di altri
tratti comuni con i Solari), la quale “si trova ne’ confini della Nubia,
Bornò… [i cui abitanti] vivono senza religione con le mogli comuni. Non
usano nomi proprii, ma si distinguono solamente l’uno dall’altro con qual-
che accidente della persona. Il guercio, il zoppo, il nano. Il che usarono an-
che i Latini: per che quindi nacquero i nomi de’ Flacchi, Frontoni, Nasoni,
Cocliti, Crassi, Crassipiedi, e gli altri” (Botero, I III, p. 181 e II II, p. 106). Per
quanto riguarda l’appellativo generico, comunemente, tra di loro, i Solari si
rivolgono un fittizio titolo di parentela (‘fratello’, ‘padre’ ecc., come i reli-
giosi), in ragione del rapporto generazionale fra gli individui (24.15-8), ad
indicare, fra l’altro, la concordia che regna nello stato (36.21-3; 84.10-1);
• ad alcuni Solari, poi, viene attribuito un ‘titolo’, derivato dall’esser preposto:
– ad un’arte e professione, come i triumviri o i magistrati (10.40-4 e 98.3sg),
oppure a un’attività o mestiere, come il “rex” di 84.5;
– ad una virtù, cui son predisposti fin da piccoli (24.25-31), e di cui diven-
tano poi eventualmente i giudici (104.5-7).
Questi titoli sono ‘segni razionali’ (a differenza di quelli ‘naturali’ desunti
dalle caratteristiche psico-fisiche dell’individuo come i nomi romani), “testi-
ficativi delle qualità de’ personaggi imposti dal senno politico per beneficio
della republica”, e derivano dal tipo “dell’officio, in chi più vale e s’adopra
ciascun membro della republica” o “della professione e arte con che vive

266
Cfr anche Rhet. XII III, p. 885; e particolarmente Metaph. I I, 14 e IX, 4.
267
La Grammatica si chiude con un’‘Appendice sull’istituzione di una lingua filosofica’, che
contiene un decalogo di stampo mimologico: “1°) assegnare i nomi secondo la natura e la
proprietà delle cose” (p. 713).
374 LA CITTÀ DEL SOLE

ogni membro della republica e aiuta gl’altri membri con scambievole offi-
cio”; essi sono di tipo ‘inalterabile’ e ‘onesto’, in quanto sono “quei che con-
vengon a ciascuno nell’operatione et esercizio ordinario per il ben comune,
come teologo, fisiologo, matematico… e tutti i nomi dell’arti e delle scien-
ze… immutabili, perché portan immutabile professione, come ne’ membri
del corpo… perché l’arti son corrispondenti alle nature, e tutte han parti-
cella d’onore” (Titoli, p. 296-7; v. 54.26-33);
• ad alcuni dei Solari, poi, viene ascritto al nome ‘onesto’ dell’incarico rico-
perto, anche un titolo ‘laudativo’ (= “aggiunta d’ornamento” ai titoli pre-
detti, “come i passamani alle vesti, che non servono se non per farle ri-
guardevoli”); tale titolo di merito può sommarsi ad un titolo glorioso nel
caso in cui si siano distinti in imprese civili (professionali, artistiche:
48.20) o militari (48.21; 70.13): “alle volte è delli gesti onorati, come a Sci-
pion si diede l’Africano… Ad alcuni, senza nominare impresa particolare,
si dà più vocabolo glorioso, come il Magno a Alessandro… Esser magno
conviene a tutte cose grandi nel suo genere, etiam pignato grande e cane
grande si dice, ma senza articolo, ma il Grande, il Filosofo con l’articolo
usato da Greci e da volgari, ma non da latini, come san Crisostomo avverti-
sce [In caput Geneseos V, Hom. XXI (I, 152A-C) si occupa di un’onomastica
appropriata], è assai più che Massimo di Valerio e di Quinto Fabio, e ha
più forza di sostantivo che d’adiettivo”; l’attribuzione dei titoli ‘giusti’ deve
esser fatto “non per gonfiar la superbia umana”, ma per apportare un tri-
plice beneficio allo stato: “de parte del populo, perché vedendo tanto ri-
spetto portato a gl’offiziali e sapienti, lor obbedisca con verità e amore;
l’altra de parte dell’onorato, perché ‘virtus laudata crescit’… L’altra è da
parte degl’onoranti, perché da quelli riceven il benefizio, o della profes-
sione, o dell’arte, o del reggimento con più coraggio o alacrità… Di più,
tutti li cittadini, vedendo onorarsi la virtù ne’ personaggi, si sforzano per la
virtù della emolazione farsi virtuosi e degni di pervenire a quel grado”; ma
naturalmente allo stato torna utile dare i titoli “anche di vituperio, perché
il titulato s’ammendi, e li titulanti si guardino d’incapparci… così l’Ingra-
to, il Crudele…” (Titoli, p. 293-6);
• infine (48.26-9; 70.13), l’imposizione del nome non si basa solo sulla deriva-
zione dalle “proprietà” degli enti: “imporre il nome a una cosa è titolo e se-
gno di dominio; chi infatti prende degli schiavi, impone loro il nome come
padrone” (Theol. IV [II, p. 163]); e chi ha vinto, assume il nome dello scon-
fitto (/conquistato) per lo stesso, simmetrico, gesto di signoria: “Se Vasco
della Gama fosse stato di natione così gloriosa come erano i Romani, forse
che haverebbe accresciuto al cognome della sua famiglia, ancora che fosse
tanto nobile come è, il cognome dell’India: poi che sappiamo essere più glo-
riosa cosa per le insegne dell’honore l’acquistato che lo hereditato, e che
Scipione più si gloriava del fatto che gli diede per cognome Africano, che
del cognome di Cornelio, ch’era della sua famiglia” (Barros, I, 82r); sui no-
mi derivati da imprese militari si diffonde Poët. VIII IX: “Orlando porta le in-
segne quadripartite del vinto Altomonte… Queste cose hanno significato
perché i vincitori sono ornati dai vinti” (p. 1115).
COMMENTO AL TESTO 375

Bisogna da ultimo chiarire che la “testificazione”, cioè l’attestazione del ‘tito-


lo’, è una delle virtù ignote agli “antichi filosofi”, e precisamente è una delle
parti della beneloquenza (v. n. 24 [glossa] § 2): “la testificazione ha tre atti,
cioè laudazione delle cose naturalmente buone e vituperazione delle male;
glorificazion dell’eminenti et egreggi fatti, e mirificazion de supranaturali,
qual è il culto di dulia nei santi”; esemplificativamente: “Si lauda il cibo, la ga-
gliardia, la bellezza, l’agilità, la casa, la vigna, il cavallo, ma non si onorano, se
non rispetto alla virtù umana, né si glorificano, se non rispetto a gran gesti… Si
onorano i virtuosi co’ titoli della virtù propria, onde altri chiama filosofi, altri
teologi, altri poeti, altri pittori, altri medici, segnalando le qualità della profes-
sion loro. E a questi onori s’aggiunge la laude dicendo: gran filosofo, eccellen-
te pittore, quando avanza l’ordinario, et ogni artefice è lodato dal suo mestie-
ro, anche il buon cuoco, il buon acquarolo, il veloce corriero. La glorificazione
si dà quando le virtù escono all’atto di grandi imprese, et a questi si fanno sta-
tue, libri, archi trionfali, si dà la laurea o altra corona, e s’amplifica la gloria
con la laude. La mirificazione si dà a quelli solo, che sopra umanamente han-
no operato a gloria di Dio e del prossimo, come agli eroi e santi, che fecero
tanti miracoli, sprezzaro la vita, meglioraro il genere umano, e questi ‘referun-
tur ad divos’” (Titoli, p. 291). Dunque i titoli onorifici solari poggiano su un ar-
ticolato sistema etico, che va appunto dalla lode alla mirificazione: la lode ser-
ve a distinguere le qualità positive da quelle negative; l’onorificenza è in prati-
ca un attestato di ‘professionalità’, che può esser accompagnata anche da un
apprezzamento laudativo; la glorificazione si riserva a chi compie imprese ec-
cezionali, anch’essa suscettibile di lode, oltre che di riconoscimenti tangibili e
non solo onomastici, come corone (48.31; 70.7-14; 72.27), doni puramente
emblematici (54.11-4; 72.28) o l’iscrizione nel libro degli eroi (112.8), o come
statue (16.25-18.12; 112.17), ma solo postume (112.6-7); la mirificazione si ha
quando l’eccezionalità sfocia nella supernaturalità dell’impresa, e quindi si
passa al culto (= dulia), assente però nella società Solare precristiana, dove nes-
suna creatura viene venerata, salvo il Creatore (118.1-6), onde evitare gli erro-
ri dei pagani: “pur gl’antichi canonizzavano per dèi i loro meravigliosi uomini,
come Cesare, Romulo, Augusto, Apolline etc. Ma chi le loro vite e gesti esami-
na, non meritano mirificazione, perché non fecero cose soprannaturali, e il
mondo s’ingannò in essi” (Titoli, p. 291-2).
Altri cenni sull’onomastica solare sono sparsamente desumibili a proposito del
nome dei sette gironi (4.5-6) e delle sette lampade del tempio (8.37-40), en-
trambi aventi il nome dei pianeti; delle quattro porte che prendono invece il
nome dai venti (4.19); e infine a proposito del nome del Metafisico e dei trium-
viri (Hoh, Pon, Sin, Mor – v. n. 10.19 e n. 10.25), gli unici vocaboli in lingua so-
lare di CS. Anche questi, come gli altri, sono caratterizzati dalla non arbitra-
rietà della loro coniazione, la cui motivazione ultima può riposare non solo in
una naturalità mimologica, o magari in una razionalità filosofica, ma addirittu-
ra potrebbe affondare in una divina radice cabalistica: “Negli Articuli proph. ab-
biamo detto che i nomi hanno virtù prefigurativa in forza dell’analogia, poiché
i nomi stessi derivano da Dio e non sono dati a caso, tranne che per la nostra
ignoranza… Quelli che traspongono per cabala le lettere scambiandole e for-
376 LA CITTÀ DEL SOLE

mando gli anagrammi, ricavano molti sensi, e S. Giovanni quando predice il


nome dell’Anticristo, ha qualcosa di cabalistico. Io però preferisco usare la
chiave propria delle Scritture, la quale si conforma meglio alla natura, giacché
non sempre quelli che hanno l’identico nome hanno anche l’identico destino,
a meno che Dio abbia così voluto: e la decifrazione in tali casi è troppo intrica-
ta” (Theol. XXV, p. 45).

48.32-50.2: Aurum… cunctis.


Svariate sono le testimonianze di viaggiatori circa il disinteresse degli indigeni
per i metalli preziosi; ad es. in una lettera pseudo-vespucciana, i “paesani” su-
damericani “affermavano questa parte abbondar di oro, e spesse fiate dicevano
che appresso di loro è di poca stima e quasi di niun pregio” (Ramusio, I, p. 677;
così Acosta, II, p. 410). Ma le fonti più probabili di C. restano le solite: Platone,
Resp. 416e; Leg. 742a-743d (da abolire per evitare liti fra concittadini); Plutar-
co, Lyc. 22, 7-8; pseudo-Ambrogio (PL XVII, 1136): il sapiente bramino ricorda
ad Alessandro che l’oro non sfama, non disseta, non cura e non rende felice;
particolarmente drastico è More, 124-6 che lo destina agli usi più ignobili.

50.3: zelotypia
“La gelosia è figlia del timore e dell’amore, quando temiamo che ciò che noi
amiamo sia dato ad altri e che quindi ci manchi. Ma se il bene amato non scar-
seggia, non c’è gelosia: infatti non la proviamo se altri ama Iddio, che anche
noi amiamo” (Rhet. V, p. 769-71); “i magistrati sono privi di ambizione, e ven-
gono così a cadere tutte le malvagità legate alla successione, all’elezione e al ca-
so, come dicevamo negli Aforismi” (Quaest. pol. IV I, p. 101). Il miglior esempio
di assenza di gelosia fra i Solari, è 54.4-5: l’amante, cui, per ragioni eugeneti-
che, fosse vietato accoppiarsi con la sua amata, ‘attende con ansia’ che lei sia
messa incinta da un altro, in modo che così possa cadere il divieto.268 Invece
l’invidia delle cariche è spenta dalla consapevolezza del maggior valore di chi è
loro preposto (84.4). La stessa cosa si verifica in altre utopie coeve: Doni, p. 75-
6; Patrizi, p. 98 (per beni e cariche pubbliche, non vigendo lì la comunione
delle donne). Sull’assenza di invidia nei Bramini, cfr la pseudo-lettera di Dan-
dami (v. n. 56.30-3).

50.7-9: Generatio… privatorum,


In base al principio esposto a 86.1-2 (v. n. 32 [glossa] § 2 e n. sg), ribadito a
ogni pié sospinto nelle sue opere, inclusa questa (v. n. 40 [glossa], n. 54.27-
9), i Solari “non generano per sé ma per lo Stato… Se infatti in tale repub-
blica il tutto cura la sua totalità e non l’affida ai privati, agisce rettamente. Il
marito unendosi per libidine alla moglie tutte le volte che vuole, genera una
prole debole e degenere” (Quaest. pol. IV III, p. 111). Sul matrimonio fatto
nell’interesse dello stato (o della specie) e non dell’individuo si erano anche

268
Ancora, circa la “gelosia”: Quaest. pol. IV III, pp. 108 e 111; Physiol. XVIII, 1.
COMMENTO AL TESTO 377

pronunziati: Platone, Leg. 773b; Plutarco, Lyc. 15, 14; Giamblico, Vita, 213
[Theodoreto, p. 180-1]; Ocellus, p. 49-53. “Religiose” e “sacrosancta religio-
ne” (50.21) alludono entrambi all’‘impegno’ assunto, nel primo caso come
scrupolo, nel secondo come vincolo: “Il termine ‘religione’ sembrerebbe de-
signare in modo più specifico non qualsiasi culto, ma il culto di Dio… tutta-
via nell’uso corrente del latino… si dice che bisogna avere la ‘religione’ della
famiglia, dell’amicizia e degli altri rapporti umani” (Agostino, CD 10, 1, 393).
L’insistenza su questo termine, al di là del contesto generico (i magistrati so-
no anche sacerdoti, ‘conventualità’ della Città ecc.) e specifico (riti religiosi
dei due generatori: di preghiera [42.19] e di purificazione [44.12]), serve an-
che a evitare censure su una pratica così ‘libera’ da esser facilmente equivo-
cabile come libertina.

50.22-3: Et certitudo… particularitatis.


La certezza della paternità269 è qui dilatata a sentimento di appartenenza fisico-
psicologica a una collettività e non più a una individualità. All’obiezione ari-
stotelica (Pol. 1261-2, ripresa anche da trattatisti coevi a C., come Brucioli, VI,
27) che con la messa in comune delle donne, verrebbe conculcato il naturale
desiderio dell’uomo di conoscere la propria prole in cui si eterna, C. risponde
che i Solari “essendo tutti membra di uno stesso corpo, considerano tutti i mi-
nori d’età propri figli, e sanno di potersi eternare meglio in quell’organismo
[comunitario] che nei figli propri” (Quaest. pol. IV III, p. 111). Invece in tratta-
zioni ‘reali’ (e non ideali), C. condivide quell’obiezione ed esalta la monoga-
mia,270 anzitutto per motivi eugenetici: bisogna accoppiare nei matrimoni
“uno con una, perché a tutte potendo congiungersi, le belle solamente sarìano
mogli; et non conciperebbono, come le meretrici, nelle quali l’attione di un se-
me guasta quella d’un altro; et non fora certo alcuno della prole, in cui egli si
deve serbare” (Epilogo, p. 525).

50.25: iuxta philosophiam.


‘Scientificamente’: la somma di competenze medico-astrologiche, e in genera-
le il livello sapienziale dei magistrati, che una coppia normale non possiede
(mettendo a repentaglio la genitura). Perciò subito dopo pone il problema ti-
pico delle unioni combinate o imposte (v. n. 32 [glossa] § 2). Più in generale,
la ‘filosofia’ a cui i Solari si ispirano fin dalla loro fondazione (20.15-6) è quel-
la platonica, sia in avversione ai peripatetici, sia per la sua prototipica ‘repub-
blica filosofica’ e sia in quanto e per quel tanto che si presta ad esser inglobata
nel sistema campan. a forti tinte astrologiche. ‘Philosophus’ nell’accezione lata

269
‘Certitudo’ è usato in accezione medico-giuridica: “naturaliter est in maribus in specie hu-
mana sollicitudo de certitudine prolis, quia eis imminet educatio prolis; haec autem certitu-
do tolleretur si esset vagus concubitus” (SM III II, IX); più le madri che i padri amano i figli,
“propter maiorem certitudinem, quam habent de ipsis” (Zimara, p. 164).
270
Come in Oecon.: “certitudo prolis ex una uxore, nulli cognita nisi viro” (III IV, p. 200).
378 LA CITTÀ DEL SOLE

di scienziato è assestata; in quella ristretta di ‘astrologo’ la si trova ad es. in SN


XV XLIII: il Sole è “masculinus, aureus, regnandi cupidus… Has proprietates at-
tribuunt philosophi Soli et similiter caeteris planetis unicuique suas” (v. n.
60.11-3).

52 (glossa): Pulchritudo… consistit


Premesso che ogni cosa è insieme bella e brutta, la bellezza naturale è un valo-
re positivo, riflesso dell’istinto di conservazione, mentre la bruttezza e la defor-
mità sono indizi del male distruttore e monito dell’essere perituro (e perciò ri-
fuggite): “il bello è segnale del buono; il buono è quello che ci conserva, come
il male quello che ci strugge” (Poetica XIX, p. 384 e Poët. II II, p. 925); “vir autem
mulierem pulchram amat magis quoniam in illa servatur tutius meliusque se-
men, quam in turpi, redditurque proles praestantior” (Physiol. XIV VI, p. 107);
“le donne sono belle in quanto hanno possibilità di conservazione nei figli, i
maschi in quanto la possiedono in sé” (Poët. II II, p. 951), e dunque quella ma-
schile è la vera bellezza: “Pulchros autem voco statura proceros, parum pin-
gues, robustos, agiles” (Quaest. oec. II III, p. 175), cioè: “consiste la bellezza nel-
la procerità del corpo, nella gagliardia, nell’agilità e destrezza, nella proportio-
ne delle parti, vivezza de colori. Però il nano non può mai esser bello, né la fe-
mina si può dir bella, né il facchino… perché in tutti questi manca il segno del
valore et di senno” (Epilogo, p. 432, concetti ripresi nella Canzone 29, ‘Della
bellezza, segnal del bene, oggetto d’amore’, in partic. Madr. 8). “La bellezza al-
trimente i Medici, altrimente i Filosofi la diffiniscono. Ippocrate dice la vera
bellezza non esser altro che una ottima constituzione di temperamento, che si
giudica dall’azioni, non dalla bianchezza o mollezza che abbino le sue parti,
che dia sufficiente utilità alli officii degli organi… È un assioma vecchio et ap-
provato da tutti quelli che fan professione di Fisonomia, che la convenevol di-
sposizione delle parti del corpo dimostra ancora una convenevol disposizione
di costumi” (Della Porta, Fisonomia VI XI, p. 748-9).

52.4-8: Cum enim… apud eos.


Mentre per l’ozio saranno esplicitamente condannati poco sotto i ricchi parte-
nopei (54.41), qui vi deve essere un’implicita reprimenda alle napoletane: ri-
spetto alle virtuose calabresi (che non s’imbellettano e – perciò – sono sane e
belle), “infoelices e contra Parthenopeae, suis ancillis ob ocium foediores, in-
firmiores, deformiores” (Medicina, p. 64). Altra polemica, implicita, è contro
Aristotele, reo di non essersi occupato di “una metà della cittadinanza, cioè le
donne”, e in partic. “della superfluità che occorre evitare in tema di belletti e
di abbigliamento” (Quaest. pol. III, p. 97), mentre le donne Solari “noi le abbia-
mo tenute occupate in esercizi e in virtù adatte a loro” (Quaest. pol. IV I, p.
102). Queste donne frivole incappano nel vizio opposto alla Parsimonia, all’u-
so moderato dei mezzi messi a disposizione dalla Solerzia: “sunt enim qui in
omni materia conservationis excedunt: vestes caudatas volunt… horum vitium
est luxuria et superfluitas” (Moralis IV I, p. 23); e dovrebbero perciò esser ber-
saglio preferito della satira, la quale “vitupererà… i visi imbellettati e l’indolen-
za delle donne, donde nasce prole fiacca e rovina dei matrimoni” (Poët. VIII VII,
COMMENTO AL TESTO 379

p. 1089). Ma oltre che per ragioni etico-politiche, l’avversione ai belletti da par-


te di C. è dovuta a ragioni socio-mediche, in quanto attentato alla salute della
prole, che è uno dei massimi beni dello stato, e quindi, in una Città che fonda
gran parte della sua ragion d’essere sull’eugenetica, si può configurare come
attentato alla repubblica (donde la severità della pena: 52.9), nonché tradi-
mento della ‘natura’ (come si può dedurre anche dalla comparazione di 82.4-
6): “anzitutto perché consumano molto tempo e denaro, senza nessun vantag-
gio, anzi a detrimento del patrimonio; poi perché danno occasione a peccati di
libidine: i loro trucchi e belletti sono come il cerchio di alloro sull’insegna del-
l’osteria, che significa ‘qui si vende vino’; e così su di loro: ‘Qui si vende il vino
della lussuria e della impudicizia’; in terzo luogo perché si suscita la gelosia co-
niugale; infine perché a seguito di questi belletti appaiono più deformi e finte.
E generano ira e nausea, perché cercano di illudere gli uomini con l’inganno,
e con l’inganno catturare l’amore, che deve esser la cosa più pura e spontanea.
E fin qui sarebbe il male minore. Ma camminare su scarpe alte un palmo e an-
che più, e peggio, voler ritoccare il volto, decorandolo con litargirio e antimo-
nio, ‘rubrica et albo pigmento, caeterisque unguentis et sordibus’, non solo è
diabolico, come insegnano Ambrogio e Crisostomo, perché correggono la di-
vina pittura, ma per giunta [compromettono la salute fisica, perché] puzzano,
hanno dolori di testa, denti anneriti, si debilitano; diventano stitiche, pallide,
‘squallentes’ come cadaveri; per cui sono costrette a ricorrere ad altri belletti
falsi, e far sì che la donna non sia più la stessa donna, ma l’annichilimento di se
stessa. Aggiungi che, baciando il marito, gli avvelenano la pelle con i loro falsi
colori, e lo nauseano” (Oecon. III III, p. 200); “così infatti infiacchiscono se stes-
se con malattie, i figli con la debolezza, e lo stato con l’effemminatezza” (Politi-
ca IV, 14).
Fonte prossima: More, 99 e 185 (che però si limita a biasimarle); remota: Pla-
tone, Gorg. 465: come alla “medicina corrisponde quella forma di adulazione
che è la culinaria; alla ginnastica, nello stesso modo, il saper vestire, dannosa
cosa, ingannevole, ignobile, servile, che ingannando seduce con forme ester-
ne, colori, unguenti, stoffe, e che, correndo dietro a un’allotria bellezza, fa tra-
scurare la bellezza autentica che solo si ottiene mediante la ginnastica”. Ma la
bellezza ‘artificiale’ incorreva da sempre nelle reprimende contro il lusso e la
vanità, che già risuonavano nella lettera dei Bramini ad Alessandro Magno:
“faeminae nostrae non ornantur, ut placeant: quae quidem ornamentorum
cultum oneri potius deputant quam honori, etenim nesciunt in augenda pul-
chritudine plus affectare quam natae sunt” (SH IV LXVI e LXVIII); e poi nel Pae-
dagogus di Clemente Alessandrino, II X (I, p. 234-9, e III, p. 291), o ancor me-
glio in Ambrogio e Crisostomo (menzionati dall’Au. stesso): in base alle parole
dell’Apostolo (1Pt. 3; 1Tim. 2), l’uomo è “stato dipinto dal Signore… Cancelli
la pittura, o donna, se spalmi il tuo volto d’un candore materiale, se lo ricopri
d’un rossore artificiale. Questa è una pittura che esprime il vizio, non il decoro
della bellezza… Non cancellare la pittura di Dio e non assumere quella di una
prostituta… Chi altera l’opera di Dio, commette una grave colpa. È infatti una
grave colpa pensare che un uomo ti dipinga meglio di Dio” (Ambrogio, VI VIII,
47 – anche così si spiega la gravità della pena, che ad una società postdarwinia-
380 LA CITTÀ DEL SOLE

na può sembrare spropositata).271 Inoltre lo stesso Urbano VIII nei suoi Poëma-
ta inserì un carme contro le donne che si truccano per farsi belle (Spini, p. 59-
60). Della Porta, invece, mentre nella Fisonomia condanna gli uomini, che
“consumano miserabilmente la vita nel colto [= culto] del suo corpo, non sa-
pendo eglino che cosa abbino, che sia assai più preziosa del corpo” (VI XII, p.
766), nella Magia mette in guardia circa la nocività di certe sostanze impiegate
per ‘gli ornamenti delle donne’ (II XV).272

52.24-54.2: serta… carmina.


Secondo Persio anche questi doni servono all’elevazione spirituale: “Vedesi dun-
que la potenza d’amore quanto vaglia al far dello ‘ngegno… l’ascoltare le loro [=
delle donne amate] parole, e ragionar con loro, o l’aver qualche loro cosa, come
moccichini, fiori, frutti, guanti, libretti, o altro, viene a destar lo ‘ngegno. Et le lo-
ro parole, dico, perché essendo elle proferte con harmonia, a un modo di dire,
muovono lo spirito, e fanno che col muoversi riceva perfettione; l’haver qualche
loro cosa, perché tante volte quante noi quella veggiamo e tocchiamo con mani,
si rinuova memoria di quelle in noi, e si porge briga allo spirito di muoversi, e
muovendosi di abbellir lo ‘ngegno, e ritruovar cose nuove, l’istesso fa la presenza
di persone dotte e eccellenti” (p. 116-7). Ed ecco la dinamica dell’amore: “l’amo-
re non essendo altro, a voler seguir la diffinition commune, che un disiderio del-
la cosa amata, il disiderio movendo lo spirito fa che quello s’accenda e unisca, e
acceso e unito, faccia ristrigner la virtù, la quale, ristretta in se stessa, più veloce
viene ad oprare e con più forza… Però il vero amore, e degno d’esser abbracciato
d’ognuno, io non intendo che sia quello il quale sarà macchiato di libidine, e at-
trattivo a concupiscenza, ma quello che ci guida alla contemplation di Dio per
mezo di queste cose frali” (p. 117-8; per quest’ultimo concetto v. n. sg).

54.5-7: Caeterum… amicitiae tantum.


I Solari realizzano la profezia agostiniana: “verrà un tempo in cui godremo l’un
l’altro della nostra sola bellezza, senz’alcuna concupiscenza” (CD 22, 24, 1140);
e sempre agostiniana è la distinzione tra l’amor d’amicizia, che ha per oggetto il

271
Svariati i luoghi in Crisostomo ‘Contra muliebre ornandi studium’: Comm. in Epist. Pauli
ad Coloss. IV, Hom. X (IV, 1301sg); Ad Timotheum I, Hom. IV (IV, 1453sg) e Hom. IX (IV,
1472sg); Ad Hebr. XII, Hom. XXX (IV, 1847-9), dove si esplicita il nesso fra il fisico e il mora-
le: ‘mulierum mollities’ non deriva soltanto dalla debolezza propria del loro sesso, “sed etiam
ex conversatione et educatione: quod enim sub umbraculis degunt, quod oleo unguntur,
quod assidue unguentibus abundantibus et aromatis perfunduntur, et iacent in strangulis de-
licatis”, per cui “corpore namque molli reddito et delicato, necesse est animam participare
ex corporis morbo”.
272
Erano specialmente i medici ad esortare laicamente alla cautela, come fa Fioravanti nel
‘Ragionamento sopra i belletti che usano le donne per farsi belle’: è stato “Giovanni Mari-
nelli dottore ne le arti e medicina modenese a insegnare nel libro Gli ornamenti delle donne i
segreti per farsi belle; ma molte volte invece si fanno bruttissime, per non conoscere la natu-
ra dei materiali, e quindi insegna ad evitare le cose nocive” (III XXVIII, 305v).
COMMENTO AL TESTO 381

bene della persona che si ama, e l’amor di concupiscenza, che invece ha per og-
getto la persona. Mentre infatti per Agostino “la concupiscenza ha molti ogget-
ti, tuttavia la parola ‘concupiscenza’ pronunciata senza aggiunta del suo ogget-
to di solito non evoca alla mente se non quella che eccita le parti indecenti del
corpo” (CD 14, 16, 611); invece per Tommaso: “est enim amor concupiscentiae
quo dicimur amare illud quo volumus uti et frui, sicut vinum…; amor autem
amicitiae est quo dicimur amare amicum, cui volumus bonum” (Quaest. quodlib.
1, 4, 3). Ed è in quest’ultima accezione che C. lo usa altrove: “Ciascun ente ama
il proprio essere come sommo bene, e sebbene altri enti siano migliori, tuttavia
non li ama come buoni per sé, ma soltanto come utili, e sé stesso ama di amore
di amicizia, come dicono i teologi, mentre le cose utili ama con amore di con-
cupiscenza” (Theol. I [II, p. 103]); ed è falso l’assunto che “non esista amor di
amicizia [“in teologia chiamato carità”], che non sia fondato nell’amore di con-
cupiscenza”, come provano quelle donne della città indiana di Narsinga che si
uccidono alla morte dei mariti (Theol. IV [II, p. 103]). Nel mondo di Doni il
problema proprio non si pone, in quanto mettendo in comune le donne, l’a-
more non esiste più, perché esso nasce solo da privazione (p. 76).

54.8: Res… penditur,


Coerentemente a 48.32-50.2. Palladio, II, p. 5sg (circa la frugalità dei Bramini);
More, 105 e 267.

54.15-8: omnes albis… sericeis;


Non è del tutto chiara la ragione di queste vesti rosse: mentre finora ha detto e
ripetuto (38.5 e 27) che vestono solo di bianco, adesso sembra che solo metà
del tempo e dello spazio (interno, giorno) vestano di bianco e l’altra metà
(esterno, notte) di rosso. Proviamo a formulare due ipotesi, la prima relativa al
doppio regime dell’abbigliamento; la seconda sul cromatismo.
I) l’abbigliamento dei domenicani prevede sopra la tonaca bianca, una cappa
di lana nera senza maniche con cappuccio adibita all’uso corale o da viag-
gio; Alberti lascia intendere che, se si abita vicino alla porta della città, si può
entrare e uscire “senza doversi cambiare d’abito né passar sotto gli occhi del-
la gente” per andare in villa: dunque il sistema oppositivo principale è fra un
abbigliamento pubblico urbano e tutti gli altri – privato e extraurbano, che
in certi casi possono anche coincidere (ammesso che C. preveda una sfera
privata [e in che senso ‘privata’?] in una Città in cui anche i dormitori sono
comuni); ad es. More parla (v. n. 38.5) di un mantello bianco da calzar sopra
gli abiti da lavoro, una volta tornati in città; infine, secondo un’anonima ‘Re-
lazione della Congiura’ (in Ditadi, p. 82), C. avrebbe esortato i congiurati ad
abbigliarsi con una veste bianca, “e sotto portassero quel colore e quelle ric-
chezze che più li piacevano”, dove la “tabanella” ha una funzione di divisa e
nello stesso tempo di approssimativo livellatore sociale;273 invece non è per-

273
Il cronista sottolinea anche “le affinità di vesti e usi” con i Turchi (Ernst 2002, p. 70): Feli-
382 LA CITTÀ DEL SOLE

tinente la qualità del tessuto, lana e seta: si tratta di vesti diverse, destinate
presumibilmente a stagioni diverse (38.20).
II) Circa il cromatismo del vestiario, vi possono essere varie ipotesi:
– una parzialmente plausibile è che intenda richiamarsi a dei costumi indi-
geni antichi e mitici: i Solari di Diodoro, II XIII [I, p. 120] “fanno le vesti
di colore di porpora”; oppure recenti e reali: in “Cananor, città grandissi-
ma dell’India”, la casta guerriera dei Nairi (“Naeri”), “zoé gentilomini”,
normalmente vanno “nudi e scalci con un panno intorno senza niente in
testa, reservato quando vanno alla battaglia portano un cappellino intor-
no alla testa de colore rosso” (Varthema, p. 117);274 “Cicerone dice nel li-
bro delle leggi che il color bianco è molto grato a Dio, e che le vesti colo-
rate non debbano servire se non agli uomini di guerra” (Guevara, IV
XXXI);
– nel Furioso Astolfo sale nel palazzo collocato su uno spiazzo della monta-
gna del Paradiso Terrestre: “Nel lucente vestibulo di quella / felice casa
un vecchio al duca occorre, / che ‘l manto ha rosso, e bianca la gonnella,
/ che l’un può al latte, e l’altro al minio opporre” (XXXIV, 54): il venera-
bile è S. Giovanni, l’autore dell’Apocalisse. Questo passo è ben presente a
C., perché lo menziona in Poët. VIII IX: “Dotta quella [favola] dell’Ariosto,
che narra del viaggio di Astolfo nella Luna per riprendere il senno di Or-
lando: infatti rivela i princìpi di Pitagora e ciò che i Padri immaginano del
Paradiso terrestre, e contiene stupendi significati” (p. 1101). Quali signi-
ficati? Forse la simbologia cromatica può aiutare a sciogliere alcuni inter-
rogativi. Bisogna premettere che C. conosceva due scale cromatiche: a)
una fisica prodotta “dalla luce e dalla tenebra” (Epilogo, p. 231), estremi
della gamma ‘termica’ (dal caldo al freddo: “La luce è l’aspetto vivo del
calore… Il contrario della luce è la tenebra, aspetto della materia ovvero
colore positivo e non privativo” [Compendio XL, 11 e 16]), il cui diverso
dosaggio produce la scala cromatica (“il colore è una luce morta o tinta
dalla opacità e dalle tenebre della materia” [ib., 12]; “dalla mescolanza di
questi [= luce e tenebra] nascono i colori intermedi” [ib., 16]): “il colore
più vicino alla luce è il bianco… Al bianco più opaco segue il bianco avo-
rio, poi il pallido, poi l’arancione, poi il giallo, poi il verde, poi il color
porpora, il celeste, il grigio e lo scuro; a questo punto, se la luce è ancor

ce Gagliardo depone che “C. avea stabilito alli congiurati nova sorta di vestiti; cioè una taba-
nella bianca fino alle ginocchia, con maniche lunghe e un capolecchio, legato a modo di tur-
bante turco” (Palermo, p. 422). A tacere, poi, di eventuali valenze sacro/profano, non in-
congrue in una Città sacerdotale: i sacerdoti ebrei, prima di passare dal perimetro sacro al
cortile esterno del tempio, devono deporre “nelle camere le loro vesti liturgiche usate nel
servizio divino perché tali vesti sono sante, e rivestiranno altri abiti, per avvicinarsi ai luoghi
destinati al popolo” (Ez. 42, 14).
274
A proposito dei Nairi (v. n. 62.30-3.), Botero aveva narrato che “un prencipe di questi pae-
si (avea forse qualche pratica della Republica di Platone) v’introdusse la comunità delle don-
ne” (p. 308).
COMMENTO AL TESTO 383

più velata, non appare più a noi la luce ma le tenebre” (ib., 13) – in que-
sta gamma fisica, il rosso [= “purpureus”] occupa proprio il grado inter-
medio tra bianco e nero; b) ed una scala ‘filogenetica’, basata su una teo-
logia della storia come eterno ritorno: “che il primo colore fu il candido
celeste, si vede nelle istorie di Roma; poi rosso nella bellica crudeltà; poi
vario nelle sedizioni; poi venne il bianco a tempo di Giesù Dio, e tutti bat-
tezzati prendevano la veste bianca, e da quella per vari colori siamo ora ar-
rivati al nero. Dunque torneremo al bianco, secondo la ruota fatale” (Poe-
sie, 54, Esp.). Il bianco giace così in un duplice sistema oppositivo: da un
lato (fisico-politico) con il suo estremo di gamma, il nero (colore di moda
spagnola: v. n. 54.19-20) e dall’altro (teologico-storico) con il rosso, l’in-
termedio della serie. Il potere della porpora, impuro (24, Madr. 3, 7: “Ma
l’impuro infelice, / qual rossor rosse scorge / le cose, e non come enno”
[= sono]) e bellicosamente crudele, sarà destinato a ritornare al bianco:
“purpureae vestes, quae mutabuntur in albas, / …si quis bene mystica
sentit” (169 [‘Ecloga’], 220-1); la “mistica significazione” che deve esser
ben ‘interpretata’ è che “il Pontefice e i Cardinali useranno vesti bianche,
come gli angeli nella risurrezione; ora, invece, usano le rosse, perché sia-
mo ancora nella passione” (ib., Esp., 218), come appunto spiegava l’‘Ap-
pendix de colore vestium’ di Art. proph. (p. 150: “i cardinali e i principi in-
dosseranno a quel tempo [del rinnovamento, cui si ritornerà circolar-
mente, allo squillo della settima tromba del giudizio], non più vesti rosse,
ma bianche”).
In sintesi: C. non aveva dimenticato (e come poteva, nel 1602?) le istruzioni ai
congiurati, che rispondevano al modello moreano: sotto vestitevi come volete
(ovvero, come è più pratico, nel caso di More; come è più consono al vostro
‘gusto’ e censo, nel caso dei congiurati), ma sopra vestiamo tutti la stessa
uniforme bianca della risurrezione (= rivoluzione).
Il colore rosso poteva averglielo suggerito una delle tante fonti citate (da Dio-
doro a Giamblico [Theodoreto, p. 140: ‘vestis fulva testatur aequalitatem et ju-
stitiam animi’], dai libri profetici a Varthema), e così ha istituito questo doppio
registro cromatico, che rispecchia quel che doveva essere un suo vissuto cultu-
rale (More) e reale (rivolta): quando prevale la praticità (il lavoro fuori città) o
di notte (in assenza di attività pubbliche), si abbandona l’uniforme solare – per
indossare un’altra uniforme, è vero, ma questo potrebbe dipendere dalla par-
ticolare contingenza che i Solari hanno un guardaroba unificato. La Città Fu-
tura e Pre-Storica (cioè pre-cristiana) insieme, non può che possedere entram-
be le connotazioni cromatiche del profetismo apocalittico: il rosso della “pas-
sione”, e cioè dell’avvento, nella cui auroralità è immerso tutto il mondo,275
sarà cancellato dalla seconda Resurrezione (quella ‘rinascita’ realizzata all’in-

275
In un’altra pseudo-visione C. scrive: “Ed ecco vidi molte donne oneste in abito rosso e bi-
gio, che consolavano Rachel, che piange sul Vaticano” (Antiven., p. 52; per i colori in C., cfr
Casubolo).
384 LA CITTÀ DEL SOLE

terno delle mura Solari), quando, per continuare con l’‘Ecloga’, “si aduneran-
no i sovrani e le schiere dei popoli in una città, che chiameranno Eliaca”, il cui
‘candido’ stendardo spazzerà via tutti gli altri ‘tetri’ colori (‘Ecloga’, 236sg).

54.18-9: abominantur… rerum:


L’ostilità per il nero è in Occidente una costante di lunga durata: Aristotele,
Probl. XXXI, 19 (bianco e nero rovinano la vista, a differenza degli intermedi
giallo e verde), ripreso variamente da peripatetici e medici, come Zimara, p.
134 (quanto più il sensibile è eccellente tanto più corrompe il senso); e da pi-
tagorici: Diogene, VIII, 34 (Pitagora: “il bianco è proprio della natura del be-
ne, il nero della natura del male”); Giamblico, Vita, p. 153 (“i colori nero e ros-
so sono segno di pigrizia”); Beroaldo, Symbola Pythagorae: “candor est symbo-
lum virtutis, nigritia vitiositatis… Sunt alii pullati [= vestiti di nero] et vestibus
nigris atrati [= oscurati] quorum mens interior nigritiae exteriori respondet ut
intus forisque sint nigerrimi”. Infine il colore è indizio anche dell’influsso
astrale dominante, e il nero è colore saturnino, quindi infausto (Astrol., p. 88).
Però questo particolare uso metaforico di ‘feccia’ non ricorre mai nelle altre
opere di C.,276 dove si dice sempre che il nero è “faccia della materia” (come il
bianco è “faccia” della luce), sia in italiano (Epilogo, pp. 198d, 231, 396, 439,
444), sia in latino,277 ricalcando così l’orma linguistica telesiana, che ne è la
matrice: Telesio illustra fin dal tit. di I, 2 (p. 40) che il bianco “caloris speciem
et veluti faciem esse”, e in generale è la ‘facies’ del Sole; è così, simmetrica-
mente, il nero per la Terra (I, 4): “ogni bianco è aspetto del caldo, ed il nero,
che si vede nei nostri enti, è aspetto della materia” (I, 7). Perciò si possono
avanzare due ipotesi per giustificare questa sorta di apax metaforico: a) sulla
‘variatio’ assonanticamente facilitata, C. può avervi addizionato anche una di-
stribuzione interna: se il bianco è faccia, il nero è feccia delle cose; b) più pro-
babilmente si tratta di una corruzione testuale di T.54.21-2 (“feccia delle cose”)
inerzialmente trascinatasi nelle redazioni successive.

54.19-20: oderunt… amicos.


La fonte principale è Botero, I II, I, p. 11 (che a sua volta attinge da Maffei, II,
p. 254-5): “I colori di allegrezza appresso loro sono il nero e il rosso; di tristez-
za e di lutto il bianco. Si tingono i denti di un color nero per bellezza” (il det-
taglio dei denti neri è riportato pressocché identico in Atheismus X VII, p. 130 e
in Art. proph., p. 151). Ma tutta quest’avversione antinipponica non può esser
spiegata solo da curiose o magari antitetiche predilezioni cromatiche. In effet-

276
E nelle sue fonti, o almeno quelle più prossime – era presente in Macrobio, per intendere
l’ultimo gradino di una gerarchia: la medicina “è l’infima feccia [= extrema faex] della fisica”
(Saturn. VII, 15, 15).
277
“Lux est facies caloris vivida… Luci contraria est tenebra, materiei vultus” (Compendio XL,
11 e 16; cfr: Phil. realis, p. 6; Quaest. phys. pp. 31, 453; Quod rem. 3, p. 108; Metaph. II V, IX [II,
p. 301]; Art. proph., p. 150).
COMMENTO AL TESTO 385

ti in Antiven., p. 26 e Art. proph., p. 6 i Giapponesi vengono assimilati ai lutera-


ni, perché “libertatem tollunt”, cioè il libero arbitrio, come riferiva Maffei (II,
p. 257sg: negano “la provvidenza di Dio e l’immortalità dell’anima”, in segreto
e in privato, perché “dicono che il volgo e la moltitudine si deve tenere a segno
col timore dell’inferno”); e Botero traccia un bilancio complessivamente nega-
tivo di quel popolo, che, pur dotato di molte qualità, ha “grandissimi vizi. Spen-
dono il giorno in balli, in ebrietà e in peggiori cose. Hanno molto differente il
cuore dalla bocca. Non è gente che meglio cuopra il mal talento con la simula-
zione e con l’inganno. Non rubano, ma assassinano…” (ib.).
È presumibile però che i Giapponesi fungano solo da schermo al vero bersa-
glio, cioè “il popol moresco” del sonetto 55, gli Spagnoli che amano essere ne-
ri fuori e crudeli dentro come i Mori (cfr Firpo 1954, p. 1330), e perciò “l’Ita-
lia, che sempre imita gli Spagnuoli ed altri forastieri nel vestire, è schiava di
quelli” (Antiven., p. 75; v. n. 38.5).

54 (glossa): Contra superbiam


Ecli. 10, 7 e 12-3; More, 269-70 (in quanto massima espressione di egocentri-
smo, è particolarmente intollerabile in una società comunistica). La superbia,
radicata nell’amor proprio, “è la radice di ogni vizio, in quanto amore disordi-
nato dell’eccellenza. Essa capovolge il corretto rapporto fra l’uomo e Dio e, fa-
cendoci voltare le spalle al sommo bene, ci rinchiude in noi stessi, che giungia-
mo a crederci degni di ogni onore e ci vergognamo di dipendere da Dio. Il su-
perbo sarà desideroso di onori per una vana ostentazione e nelle disgrazie per-
derà ogni stima di sé” (Ernst 2002, p. 53, che parafrasa Ethica).

54.27-9: pedi… loqui:


La duplicazione (rispetto a Città [T.54.32]) ‘bassa’ dell’esempio e modello an-
tropomorfico dello stato, serve ad accentuare, attraverso gli estremi, la pari di-
gnità (e indispensabilità) di ogni mansione sociale (v. n. 32 [glossa] § 3 e n.
78.13-4). Il ricorso a un ‘sermo vulgaris’ è retoricamente autorizzato in alcune
circostanze: “nel discorso veemente metafore tali giovano per suscitare la fede
e il sentimento, come l’Apostolo Paolo: ‘tutto ho tenuto in conto di sterco in
confronto alla preminenza del mio Signore’. Ci esprimiamo così quando vo-
gliamo rendere vilissima nell’animo degli ascoltatori la cosa di cui parliamo;
ciò si addice soltanto a persone serissime, molto sapienti e anziane, e in mo-
menti d’impeto” (Rhet. XII IV, p. 889), e da un tale ‘momento’ sarà stato attra-
versato il Genovese con l’es. di 140.4-7 (‘mingere’).278 Del resto “le cose, che a
noi sembrano mali ed escrementi, hanno grandissima utilità. Lo sputo è un’e-
screzione dell’animale, eppure senza di esso non è possibile il gusto; l’orina è

278
Altri esempi di metaforizzazione delle membra in: Lettere, p. 72, Quaest. oec., p. 172, Anti-
ven. (unitamente all’invettiva salace): “Il diavolo ha cacato in bocca vostra [= clero venezia-
no]; non potete parlar parole di Dio, né de’ profeti suoi” (p. 52).
386 LA CITTÀ DEL SOLE

un umore che il corpo rigetta, eppure senza di essa l’alimento non viene assi-
milato nel corpo” (Theol. I [II, p. 191]).
Fonte presumibile (cit. in Oecon. I, p. 190, e Quaest. pol. III, ‘in 3’) è S. Paolo,
1Cor. 12, 14-26: “Nam et corpus non est unum membrum, sed multa. Si dixe-
rit pes, quia non sum oculus, non sum de corpore… Si totum corpus oculus,
ubi auditus… Quod si essent omnia unum membrum, ubi corpus? Non po-
test autem oculus dicere manui: Opera tua non indigeo; aut iterum caput pe-
dibus: Non estis mihi necessarii… Sed multo magis quae videntur membra
corporis infirmiora esse necessariora sunt, et quae putamus ignobiliora mem-
bra esse corporis, his honorem abundantiorem circumdamus…” (cfr anche
Rom. 12, 4-8); passo così commentato da Quaest. pol. III: “Piedi sono i conta-
dini, mani gli operai, testa i governanti, occhi i consiglieri, tutti però membra
appartenenti a un unico corpo.279 Né basta a dissociarli dal corpo il fatto che
non esercitino le altre funzioni, altrimenti un corpo sarebbe costituito da un
membro solo. Quando Aristotele afferma [Pol. 1253b 22] che costoro [= i
contadini] non sono idonei alla virtù e alla vita beata, mente per la gola… so-
lo perché essi non si danno pensiero della sua logica. Forse che la mano o il
piede sono contrari alla virtù?”.280 L’armonia delle membra sociali sarà varia-
mente ripresa in ambito cristiano (frequenti accenni negli At., cit. da C. stes-
so: v. n. 86.1-2): nella Città di Dio “ognuno non vorrà essere ciò che non gli è
stato dato di essere, eppure sarà legato dal vincolo della più serena concordia
a colui che ricevette di più: come anche nel corpo l’occhio non vuol essere
ciò che è il dito, poiché sia l’uno che l’altro sono membra comprese nella
tranquilla struttura del corpo intero” (Agostino, CD 22, 30, p. 1154). Ancor
più calzante il passo tomistico: “per il tutto è meglio che tra le sue parti ci sia
varietà, senza la quale non può esserci l’ordine e la perfezione di tutto l’esse-
re… Ciò è evidente nell’esempio del corpo umano: poiché il piede sarebbe
una parte più nobile, qualora avesse la bellezza e la virtù dell’occhio; però il
corpo nella sua totalità sarebbe più imperfetto, se gli venisse a mancare la
funzione del piede” (3SCG, 94; per le fonti classiche e in partic. l’apologo di
Menenio Agrippa v. n. 86.1-2; per la dialettica tutto/parte inoltre v. n. 50.7-9,
n. 100.23).

279
In Politica VI, 7 un elenco più dettagliato: “…per occhi, i sapienti investigatori delle scien-
ze; per orecchie, spie e mercanti… vi sono anche gli addetti alla pulizia della città per ano”.
280
Commenta Ernst 2002: “Alle dottrine di Aristotele che dall’eccellenza naturale di alcuni
uomini e dall’inferiorità di altri deriva il diritto naturale di alcuni di comandare su altri, C.
contrappone il modello organicistico esposto in un celebre passo dell’Epistola ai Corinzi, se-
condo il quale ogni membro del corpo esercita una funzione di pari dignità e tutti insieme
contribuiscono all’unità e al buon funzionamento dell’intero organismo. In questa prospet-
tiva non sono degni di essere qualificati come cittadini non coloro che esercitano funzioni
volgarmente considerate vili e spregevoli, bensì i parassiti e quanti non collaborano al benes-
sere del tutto, poiché vivono nell’ozio e si dedicano ai piaceri futili o dannosi” (p. 198-9).
COMMENTO AL TESTO 387

54.34: Non habent mancipia


Ma a 80.1 si contraddice (v. n. 32 [glossa] § 3, punto 3 e n. 78.36-80.2), come
del resto fanno i suoi predecessori: Platone, Leg., 633c (come prova di autosuf-
ficienza); More, 16, 92, 95-6, 172 e 264-6 (quasi tutti i rinvii riguardano l’auto-
sufficienza economica degli utopiani).

54.36-56.9: At nos… paucorum.


La naturalità dell’equa ripartizione del lavoro era mutuata anche dalle società
animali,281 e diventerà il sinonimo di stato di natura (v. n. 56.30-3), che si con-
tenta di poco; mentre invece “quanti uomini s’affaticano per dar mangiare a
un solo, e quanti signori mangiano con più fastidio e nausea che diletto e pia-
cere, sempre temendo della vita, e pascon mille volte una bestia per una sola
che la debbe pascer loro” (Doni, Mondi, p. 45).
I Solari non conoscono “tutti i malanni del corpo e dello spirito, che nascono
dal troppo lavoro nei poveri, e dall’ozio nei ricchi, mentre noi ripartiamo
equamente il lavoro” (Quaest. pol. IV I, p. 102), come specificherà nel successi-
vo periodo (56.9-16). La condanna sociale della divaricazione abissale fra ric-
chezza e povertà (“si vede oggi che un uomo ha centomila ducati di rendita, e
poi mille uomini non hanno tre docati per uno”) lo si ritrova in Mon. Sp. XVI,
p. 160 e XVII, p. 174, nel primo caso estendendolo a tutto “il mondo vecchio”,
e incolpando l’“oro del Mondo nuovo”; nel secondo esaltando i Veneziani che
“senza molti servi vivono”, temendo che il ricco “o se li accattiva, e può fare se-
quela contro il Re… o vero li effemina, e fa adulteri, superbi, ruffiani ecc., e ne
fa un seminario di vigliacchi, i quali poi, pigliando moglie… infettano il seme
umano di lor malvagità”; perciò compito prioritario del Re è “procurare l’e-
qualità, primo, levando i molti servi. Secondo, facendo che per dieci anni i po-
poli pagassero la metà del tributo solamente, e il resto pagassero i baroni e
quei che non fanno arte”. Lo stesso concetto ritorna in Oecon.282 e in Quaest.
oec., dove chiama direttamente in causa i nobili napoletani, ‘schiavi dei vizi e
[quindi] degli stranieri’: “Siquidem tempus habent occasionemque vacandi
delitiis et sibi instrumenta parent delitiarum et servos: meretricantur, ludunt,
ociantur… et pravo exemplo corrumpunt laboratores, qui propterea putantur
ignobiles… et sic assuescimus falso iudicare et operari falsius. Alunt etiam ser-
vos scelerosa vita, et ex ipsorum schola tota Respublica inficitur. Nobiles Nea-

281
Basilio, Hexam. 176A; Ambrogio, V XV, 52: “da principio gli uomini avevano cominciato ad
attuare un’organizzazione politica ricevuta dalla natura sull’esempio degli uccelli, in modo
cioè che la fatica fosse comune, comune la dignità, ciascuno imparasse a dividersi a turno le
responsabilità, venissero ripartiti obbedienza e comando, nessuno fosse escluso dalle cari-
che, nessuno esente dalla fatica”.
282
II V, p. 195: il padrone deve badare che “ne superfluat servorum numerus, et ubi unus uni
functioni servitioque sufficit, duo non applicentur; nam et deterius functiones promove-
bunt”; il principio è aristotelico: “molti servi talora eseguono gli ordini peggio che pochi”
(Pol. 1262b 35).
388 LA CITTÀ DEL SOLE

politani huiusmodi malis laborant, proptereaque servi erunt vitiorum et exte-


rorum” (III I, p. 182; v. n. 20.24-6, n. 20.27, n. 28.3-14, n. 131.1 [f.p.]).
Ma si tratta davvero di Napoli? T.54.39 scrive infatti “Genova”, giustificabile dal-
la cittadinanza di uno dei dialoganti; purtroppo l’attestazione è unica e cozza
contro a) la (quasi) generale concordia degli altri mss, b) la ‘cittadinanza’
(coatta) dell’Au., cui doveva esser ben noto il quadro di degradazione e paras-
sitismo rispecchiante la patologia di un regno, “che sarà tutto testa senza nes-
suna dell’altre membra” (Cornelio Spinola [circa 1642], in Galasso, p. 357); c)
la frequente allusione al marasma napoletano in altri scritti,283 e svariati sono i
luoghi in cui si allude alla corruzione pubblica (Mon. Fr., p. 446) e ai suoi catti-
vi costumi (Phil. realis IV, pp. 494, 505; Oecon. IV II, p. 204). Quel che però è an-
cor più curioso è che a Genova la popolazione oscilla fra i 67.000 abitanti del
1579 e i 73.000 del 1638 (Storia d’Italia Einaudi VI, Atlante, p. 264); mentre Na-
poli “alla fine del Cinquecento conta circa 240.000 abitanti; con i casali e i bor-
ghi esterni si toccano circa i 300.000” (ib., p. 344).284 In L. in effetti si legge
“son da trecento milia anime”, e Firpo suppone che la correzione “poté esser-
gli suggerita dal Botero (Delle cause della grandezza delle città II, 12)”. Essendo
questa la prova più patente che non era L. l’esemplare di riferimento, ma una
redazione anteriore ancora scorretta, come mai questo errore macroscopico è
passato al doppio vaglio della traduzione del 1623 e della sorvegliata nuova edi-
zione del 1637? Un altro lapsus da frettolosa revisione? O non è più logico sup-
porre che l’Au. abbia cambiato idea, ma non, congruentemente, i dati? Cioè:
originariamente e cautelativamente, non potrebbe aver scritto ‘Genova’, che è
più logico visto chi parla, per intender comunque ‘Napoli’, che è più logico vi-
sto chi scrive? Infine: abbiamo detto che ‘quasi’ tutti i mss riportano “Napoli”;
infatti una tradizione manoscritta deteriore corregge così l’intera frase: “in una
città saranno tante migliara d’anime, et non fattica se non la quarta parte”;285
Bobbio, escludendo che sia autoriale, ipotizza che “il mutamento sia dovuto,
più che al desiderio di correggere un errore, alla volontà di far scomparire, per
ragioni non facili da precisare, l’accenno poco lusinghiero alla città di Napoli”
(p. 171-2).
Alla fine della disamina mi sembra più plausibile l’ipotesi di un errore (del co-
pista) di T., perché, malgrado Mon. Sp., p. 166 la considerasse “una città gran-
de”, ancora all’altezza del 1608 C. riteneva che a Napoli vi fossero meno di cen-
tomila abitanti: infatti dice che “il Re, solo da Napoli, se non mangia più di tre-

283
Doc. Gall., una delle più lunghe filippiche antispagnole, esordisce: “Quid de regno mise-
rabili Neapolitanorum et Siculorum dicam, ubi ius et fas est id, quod avaritia et superbia hi-
spanica vult?” (p. 3-4); ma già nella Mon. Sp. erano segnalate le gravi carenze del Vicereame,
quali l’usura (XVI, p. 164) e principalmente il divario fra ricchi e poveri (XVI, p. 160; XVII,
p. 172-4).
284
Secondo un autore coevo, G.C. Capaccio (Il Forastiero, Napoli, 1634), la città ospita circa
400.000 abitanti (Leone, p. 9).
285
È anche più facilmente spiegabile lo scambio “settanta mila” (T.54.39-40) → “tante mi-
gliara”.
COMMENTO AL TESTO 389

mila tumoli [di grano] il giorno, viene a guadagnare più che centomila ducati
l’anno”; poiché il tumolo (= 40 Kg) corrisponde, secondo C. (Afor. n° 56, p.
108), al fabbisogno medio individuale mensile, vuol dire che la città fa circa
90.000 abitanti (= 3000x30). Allora la correzione a “trecentomila” può essere
stata un’iniziativa del copista di L., mentre sull’esemplare che C. traduceva in
latino restava quel “settantamila”, che si approssima di più alla cifra su derivata.
Comunque, fonte più prossima dell’intero passo, di cui la situazione parteno-
pea è un esempio prossimo spazio-temporalmente, è More, 95. Suggestiva la
‘boutade’ di Nigro: “Fondata sul lavoro collettivizzato e sulla comunione dei
beni, la città campanelliana si pone come modello ‘totale’. E nella sua astrazio-
ne, e nell’organizzazione razionale, ingloba un’analisi in negativo della realtà
napoletana. La forma metaforica dell’utopia solare trova infatti puntello reto-
rico nel ‘ma’ avversativo,286 e di correzione, che di ‘una Napoli’ fa ‘un’altra Na-
poli’” (p. 1153).

56.5: adulatione,
La sottomissione ha effetti negativi sia in alto che in basso: nei subordinati, ge-
nera l’adulazione (una delle cause dell’umana calamità: 112.4); nei superiori,
coltiva il loro “amor proprio”, che “ci fa schifar la fatica, e però divegniamo ina-
bili. E poi, perché ci amiamo troppo, vedendo che le virtù sono quelle che con-
servano l’uomo, ci fingiamo almeno virtuosi”, finzione penosa; “ma questa pe-
na è coverta d’onori falsi, d’adulazione e da ricchezze, ne’ prìncipi più che in
altri” (Poesie, 10, Esp.; v. n. 131.1 [f.p.]). Fonti: Platone, Resp. 465c; Leg. 729a.

56.11-2: vix quatuor… contingit;


“Fra le cose belle e felici che Licurgo ha procurato ai suoi concittadini una è
questa, cioè l’abbondanza di tempo libero” (Plutarco, Lyc. 24, 2); More insiste
particolarmente sul lavoro straordinario collettivo (pp. 78, 88-100 e 119, imita-
to anche da Roseo, p. 44): Firpo ironizzava sulle ‘sei ore’ di lavoro degli Uto-
piani; e, erroneamente, altrettante ne attribuirà ai Solari: “ogni cittadino dovrà
dedicare sei ore quotidiane al lavoro manuale” (Firpo 1970, p. 381); ma in ef-
fetti nelle ‘riduzioni’ gesuitiche in Paraguay, “per gli adulti la giornata lavorati-
va variava da quattro a sei ore” (Armani, p. 153). Nell’aurea età che sarà re-
staurata dal Delfino “cessarono gli ozi e cessarono le fatiche: / difatti il lavoro,
amichevolmente spartito fra molti, è gioco” (‘Ecloga’, 169, 227-8; Theol. XXVII
II, IV), venendo così a cessare la maledizione divina del lavoro con sudore della
fronte: come avrebbe passato il tempo Adamo se non fosse stato cacciato? “Sive
in arando, sive in seminando, sive in plantando et caeteris huiusmodi operibus,
primum hominem non ad laborem, sed ad delectationem exercendum” (SN
XV XII; v. 78.13-19, 80.26-32, 90.7-13).

286
Allude all’attacco di Città: “Ma noi non così, perché in Napoli…”; vieppiù sottolineato da
un’esclamazione in Civitas (54.36): “At nos, heu, non ita…”.
390 LA CITTÀ DEL SOLE

56.16-20: Nec permittitur… archibugio etc.


La condanna dei giochi d’azzardo, oziosi e dannosi (“qui avaritiam generant,
rapacitatem, per iura, fraudes, malosque mores” in Oecon. II V, p. 196; IV II, p.
203; Quaest. oec. III I, p. 188; la coppia “talorum et alearum” in Disp. in Bullas
[OA, p. 208]), e viceversa la lode degli sport è diffusa nella letteratura utopisti-
ca moderna:287 More, 94 e 152; ripreso anche nel Nuovo Cinea, p. 165 di Crucé
[1622I]: “Gli antichi, prevedendo le disgrazie che potevano nascerne, non con-
sentivano di giocare soldi, né di fare alcuna scommessa, se non nei giochi one-
sti, come la lotta, la piastrella, la corsa, e altri simili che si fanno con esercizio
del corpo”; Doni, Mondi, p. 107 (“che si spegnessino le carte, i dadi”); Bobbio e
Firpo citano dalla Forma d’una republica catholica [1581] di Francesco Pucci (ed.
Cantimori, p. 196) e Zuccolo, Guardino, p. 231, entrambi biasimanti “i giochi
che si fanno a sedere”; in Forma… si distingue altresì “la palla piccola e la gros-
sa”; anche a Thélème c’erano “i giochi della pallacorda e del pallone” – e poi “i
bersagli per tirare con l’archibugio, con l’arco e la balestra” (Rabelais, Gargan-
tua I, 55; v. n. 26.20-1, n. 76.33, e un accenno metaforico a 114.19sg).

56.23: exules,
Traduce il “forasciti” di T.56.24, cioè “quei cittadini che per sfuggire alle san-
zioni, talora eccessive, in cui erano incorsi per qualche reato commesso” (Fir-
po), si davano alla macchia; questi “banditi” erano numerosi soprattutto in Ca-
labria: “oltre alle lotte intestine nelle città, esistono nelle campagne vere e pro-
prie bande di delinquenti composte di alcune centinaia di affiliati. Il fenome-
no si genera per la completa assenza dello Stato; i conflitti giurisdizionali fan-
no aumentare i delitti e, di conseguenza, il numero dei fuoriusciti che vanno a
ingrossare le fila dei banditi” (Formichetti 1999, p. 57).

56.21-7: Asserunt… contumeliosos etc.


“Elimino inoltre tutti i mali che derivano da ricchezza e povertà, mali opposti
invisi a Platone [Resp. 421d] e Salomone” (Ecli. 31, 1-11, libro attribuito a Salo-
mone, ma è di Jesus Ben Sirach [Quaest. pol. IV I, p. 109]). Espressioni simili a
quelle di CS, C. le aveva già usate in Afor.: obbiettivo primario delle leggi è l’u-
guaglianza, perché “i troppo poveri sono rapaci, et insidiosi e spergiuri. I trop-
po ricchi superbi e lussuriosi…”; e Mon. Sp.: gli uomini “o son troppo ricchi, il
che li fa insolenti, superbi e molli; o troppo poveri, il che li fa insidiosi, e ladri
e assassini”, a discapito della giustizia, perché se il povero litiga con il ricco
“non può trovar giustizia, onde si fa fuoruscito, o more in carcere, e il ricco de-
prime chi gli piace, perché il giudice da lui pende” (pp. 160 e 174); invece una
sottile analisi psicologica dei rapporti perversi fra ricchi e poveri si trova in Di-
sc. univ. XXI e Afor., 41 (v. n. 20.24-6 e n. 32 [glossa] § 3).

287
Innumerabili, e perciò qui tralasciate, le testimonianze antiche concordi; segnaliamo solo
che già Erodoto, parlando dei Lidi, scriveva: “inventarono i dadi, gli astragali, la palla e altri
giochi, escluso gli scacchi” (I, 7).
COMMENTO AL TESTO 391

Che tutti i mali derivino dallo squilibrio ricchezza/povertà lo sostenevano Pla-


tone, Resp. 421d-422a; Plutarco, Lyc. 8, 3; Ambrogio, VI VIII, 53. Brucioli, esal-
tando la classe media, e perciò stesso virtuosa, sostiene, sulla scorta di “laudati
scrittori”, che sia i ricchissimi che i poverissimi “non obediscono facilmente al-
la ragione”, perché chi eccelle “di nobiltà, o di ricchezze, disprezza gli altri, e
diviene ingiurioso… E quegli anchora, che grandemente poveri sono, debili,
vili e abietti, mancano sovente della ragione, e diventano avari, e nelle picciole
cose maligni e cattivi… e altri ocultamente rei e fraudatori, come quegli che
non temono di perdere cosa alcuna” (VI, 30r).

56.30-3:ac simul… Apostolorum.


‘Servirsi, e non servire le cose’ è il cuore progressista di CS (motto che è un li-
bero rifacimento di More, 134, a sua volta, presumo, di Ecli. 10, 19): uguaglian-
za nella comunanza dei mezzi di produzione (e riproduzione) e libertà nella
comunità sociale significano la fine dell’alienazione, cioè dell’asservimento
dell’uomo all’uomo, e, peggio, dell’uomo alle cose (Poesie, 3, 93: “servir a Dio,
in comunità vivendo, / è proprio libertà di spirti umani”, così annotato da C.:
“ama il vivere in comunità, e questa esser la vera libertà, secondo la Città del So-
le” – i suoi modelli comunitari sono, inevitabilmente, quelli protocristiani e ce-
nobitici).
Per C., la collettivizzazione dei beni, vista come un volano moralizzatore più
che calmieratore delle disuguaglianze sociali, è un ritorno allo stato di natura,
nel senso che è un principio, quasi sempre violato, del diritto naturale, fonda-
to proprio sulla distinzione tomista fra uso e possesso: “Dio solo è signore asso-
luto secondo natura; poiché ha potere assoluto sulla natura e l’uso delle cose…
L’uomo è signore solo sotto determinati aspetti… Né della sua vita, né dei sud-
diti, né dei beni è signore quanto alla sostanza, ma quanto all’uso, e per il fine
prescritto da Dio”.288 Perciò “può saper di risposta al C. certa osservazione del
Bonaventura (Della ragione di stato et prudenza civile, Urbino, Corvini, 1623, p.
28): il quale, negando che il comunismo sia secondo natura, rileva che, vice-
versa, la natura è stata, non violata, bensì sviluppata e nobilitata, mediante l’a-
bolizione della comunione da parte della legge civile” (De Mattei 1984, p.
249). E lo Zuccolo parlando di divisione e non comunione di beni implicita-
mente corregge il C.: nella Repubblica di Evandria ci sono sì ricchi e poveri,
ma lo stato s’impegna al massimo a contemperare i due estremi. La regola fon-
damentale del mondo utopico di Doni è che “la natura si contenta di poco…
Se noi vivessimo secondo la natura, non saremmo mai poveri” (Mondi, p. 45),
perciò esaltava Diogene Cinico, che alle profferte di Alessandro rispondeva

288
Politica [1623], p. 73n; nell’ed. parigina del 1637 C. ammette invece apertamente la pro-
prietà privata: “noi usiamo in comune il sole e la terra, possediamo però un giardino, perché
diventa di proprietà per qualche diritto” (Politica II, 12; per tutta la questione v. n. 32 [glos-
sa], § 1).
392 LA CITTÀ DEL SOLE

che “i denari erano in poco conto appresso di me, io gli tenevo per famigli ed
egli per padroni” (p. 112).
Al di là del modo di produzione, il messaggio capitale di quest’operetta, che
avrà pure le sue ascendenze nel pauperismo protocristiano e confusi obbiettivi
palingenetici, riguarda il processo di accumulazione precapitalista, la cui nega-
zione, proprio negli anni dell’avvento dell’etica protestante, si sarebbe potuta
porre come l’alternativa sociale controriformista cristiana – ‘tolti gli abusi’ –,
sottolineando della ricchezza “il valore d’uso, il soddisfacimento dei bisogni,
opposto allo scambio e al desiderio di accumulazione” (Sapegno, p. 1007). In-
vece come riflesso dell’ideologia controriformista resta solo “l’assenza di ogni
dimensione politica”, sostituita con la moralità e razionalità del progetto, il
predominio della Chiesa, e segnando così “per l’Italia l’emarginazione dal
pensiero politico europeo, che proprio in quel volgere di anni si poneva il pro-
blema della sovranità dello stato, della sua natura e legittimità” (Sapegno, p.
1008). Discordo con quest’ultima tesi, perché C. ha una teoria politica cristia-
na da proporre: lo stato di natura non è un eden pre-storico, ma è quello dove
cercare di fondare quel diritto naturale, anteriore a quello positivo e con quel-
lo in permanente dialettica, almeno fino a quando il Messia non ha completa-
to/ aggiornato i comandamenti veterotestamentari (v.n. 60.4-7).
In T.56.34: “servire in” è costrutto intransitivo (R., L.: “servire alle”); “se bene”
è da intendersi avversativamente “sì bene”, cioè ‘bensì’ (R., L.: “ma”), analoga-
mente a T.56.12 (“se ben”). L’espressione ritorna frequentemente nelle Lettere:
i prìncipi obbediscono al Papa “per servirsi di lui, non per servire a lui” (p. 44);
“noi ci servimo di Cristo e non servimo a Cristo” (p. 54) ecc.; ma anche nelle
opere (es.: Ateismo I, 7: “questi si pensano servire a Dio, mentre si serveno di
Dio” [in Ernst 1997c, p. 621]; Poesie, 75, Madr. 5, 8: “e chi di Dio si serve e a Dio
non serve”).

56.31: religiosos christianitatis,


“Le religioni della Cristianità” (T.54.36) significa gli Ordini religiosi, come in
Antiven., p. 117: “non tenere Gesuini nello Stato [di Venezia]… e tutte le reli-
gioni che si trovano”, cioè ordini di religiosi che vivono in comunità.
Se lo si confronta con 22.7-14, questa ‘lode’ suonerebbe ironica, a stento salva-
ta dal “nunc plerique” finale (v. n. 22.8); mentre invece sarebbe molto calzante
proprio per i Bramini, un cui membro, Dandami, nella (falsa) lettera ad Ales-
sandro Magno, perora gli stessi precetti Solari: “inter pares locus non praebe-
tur invidiae, ubi nullus superior est: omnes divites facit paupertatis aequali-
tas… Omnia possidemus, quaecunque non cupimus. Est enim ferocissima pe-
stis cupiditas” (SH IV LXVII; v. n. 32 [glossa] § 1).

56.35-6: at communitas… nimis.


Quasi letteralmente in Doni, p. 74; sulla struttura a-familiare dei Solari, cfr
Amerio 1944, p. 28-59. La posizione di C. circa la questione monogamia/poli-
gamia è espressa diffusamente in Oecon. III II, p. 98 e la connessa Quaest. oec. II
I, p. 174, in cui sostiene che “dal punto di vista della generazione ed educazio-
ne, la poligamia non è contro natura: in questo modo infatti aumenta la nata-
COMMENTO AL TESTO 393

lità, e più facilmente si aiutano reciprocamente nell’allevamento della prole:


sicut experientia docet, et Theologi boni etiam intelligunt”. Se però si prendo-
no in considerazione fattori secondari (rispetto a quello primario: generazione
ed educazione), e cioè coabitazione, fedeltà e stabilità sociale, allora la poliga-
mia è contro natura. Infatti le donne s’ingelosirebbero, né l’uomo riuscirebbe
ad amarle tutte nella stessa misura, e quelle trascurate complotterebbero con-
tro le favorite, “et coitu inter se et exterius aliis hominibus, quando potuerint,
copulabuntur”. Inoltre solo i ricchi potrebbero permettersi più mogli, a detri-
mento però della sanità dei costumi. Ancora: parecchie donne non possono
dominare sotto lo stesso tetto, né contemporaneamente né alternatamente, al-
trimenti l’odio le divorerebbe. E poi un uomo solo non basterebbe alla gene-
razione: doversi congiungere con tante donne va a scapito della qualità del se-
me, che risulterebbe scarso e poco elaborato. Infine l’uomo, in quanto anima-
le razionale, possiede più anima che corpo: il corpo infatti occupa sette palmi
di lunghezza e uno in larghezza, mentre l’anima si espande nell’universo;
quindi la natura richiede che sia dedicata più cura all’anima che al corpo: la
congiunzione venerea dei corpi rende l’anima bestiale, invece la contempla-
zione unisce l’anima alle cose divine, divinizzandola e nobilitando anche il cor-
po; dunque è più naturale per l’uomo conceder meno al corpo e più alla men-
te, e a questo si presta di più la monogamia della poligamia, “igitur naturalior
Monogamia”. L’esempio dei Patriarchi dimostra che la poligamia non è contro
natura (a loro era stata concessa, infatti, “per moltiplicare il numero degli ado-
ratori di Dio”, essendo anticamente gli uomini meno numerosi e meno spiri-
tuali); ma dopo la venuta di Cristo, fu data maggior importanza all’anima ri-
spetto al corpo, per cui è diventata più consona alla natura la monogamia (v. n.
40.18-20, n. 44.15-9, n. 58.8-12, n. 60.11-3 e n. 60.25-6).
Date queste premesse, per giustificare la società amatrimoniale dei Solari, biso-
gna tener conto della filosofia della storia di C., che prevede quattro fasi (in
realtà sono tre, perché la quarta non sarebbe che il ritorno alla prima): ‘il secolo
aureo’, quando Adamo non aveva ancora peccato, ovvero l’età della natura in-
nocente; l’età ‘bestiale’, quando l’uomo primitivo era più prossimo agli esseri ir-
razionali, caratterizzata dalla rozza poligamia; dopo la venuta di Cristo, l’uomo si
è razionalizzato, ed è passato alla monogamia, che più si confà alla sua essenza
spirituale; indipendentemente dai tentennamenti, la super-razza dei Solari, frut-
to di climi favorevoli e incroci genetico-astrologici oculati, cioè quella che più si
approssima alla razza Originaria,289 sceglie una formula che è ancor più ‘spiri-
tuale’, in cui cioè quasi tutti i residui di ‘bestialità’ sono stati bruciati (la poliga-
mia è infatti una soluzione dettata solo da criteri scientifici): per questo le colo-
nie, non altrettanto ‘filosofiche’, cioè che non hanno raggiunto quel livello di su-
blimazione razionale, sono prive della comunanza delle donne (60.8-11).
Questa prassi così eretica rispetto alla monogamia sacramentale del matrimo-

289
Più correttamente, credo, bisognerebbe dire: i Solari sono l’avanguardia dell’umanità, so-
no l’uomo futuro, quello che passa dall’Avvento al Trionfo.
394 LA CITTÀ DEL SOLE

nio cristiano, è ammissibile e concepibile solo grazie all’azione combinata di


questi due fattori: a) il relativismo ‘antropologico’: dai costumi dei Bramini in
India, dei Bonzi in Giappone, delle Amazzoni in Africa (v. 150.12), “videntur
nec de omni familiae forma loquuti esse philosophi, praecipue Aristoteles aut
ex praefatis formis familias minime confici”; b) una filosofia della storia insie-
me evolutiva e tuttavia ‘circolare’ insieme (che tanto avrebbe influito su Vico).
L’avversativa (= “at communitas”) sottende le sei obiezioni prese in considera-
zione da Quaest. pol. IV III, p. 118: 1) l’amar tutti indistintamente come parenti
indebolisce, anziché rafforzare, i legami comunitari; 2) conflitti sociali a causa
delle donne; 3) conculcamento del naturale desiderio umano di conoscere la
propria prole, in cui si eterna; 4) tutti i guai del libertinaggio, in partic. l’ince-
sto; 5) violazione del comandamento di Dio: ‘sarete due in una carne sola’, e
dunque condanna della poligamia; 6) i Nicolaiti per aver messo in comune le
donne furono dichiarati eretici.290 A queste obiezioni dei peripatetici C. ri-
sponde in dettaglio (v. nn. sg); ma non è Aristotele né l’unico né il principale
antagonista. Come si può intuire dalla polemica che segue, vi sono almeno al-
tri due avversari coinvolti: i padri della Chiesa (in partic. Tertulliano e Agosti-
no) e principalmente gli oppositori contemporanei, come il teologo Domingo
de Soto (60.19) e J. Bodin.291 Ma anche lo Zuccolo è contrario alla comunanza
delle donne in un’opera (Guardino, p. 31-2), che, essendo letteraria, mostra co-
me la questione avesse travalicato i recinti della politica: “Se le donne fossero a
tutti comuni, come bramano coloro i quali più adentro la natura degli affari ci-
vili non penetrano, e come volle anco Platone, o fosse Socrate, chi nutrirebbe i
figliuoli? Chi gli ammaestrerebbe nelle creanze e nelle arti? Forse ne terrebbe
cura il magistrato? E che frutto produrrebbero i providimenti de’ Magistrati,
dove non fosse prole certa, né vero affetto d’amor paterno o materno? Crede-
te pure a me, che il tutto sarebbe disordine e confusione”.

56.43-4: Causa 12… ‘Dilectissimis…’.


Questa postilla bibliografica rinvia al Decretum Gratiani del 1152, che nell’indice
del t. CLXXXVII della PL s.v. ‘dilectissimis’ è segnalato così: “c.2, C. XII, qu.1”,292
e che significa appunto: ‘canon pars secunda, causa XII, quaestio 1a’, rinvenibile
alle colonne 882-3 del tomo cit.: “Infine uno dei più sapienti tra i Greci [= Pita-
gora] sapendo che ciò era così, disse che tra amici tutto deve esser posto in co-
mune. In quel ‘tutto’ sono senza dubbio incluse anche le donne” (PL CXXX,
57). Passo così commentato da C.: “S. Clemente Papa… dice nel can. Dilettissimi:
‘l’uso di tutto ciò che è al mondo deve essere comune a tutti gli uomini, ma ini-
quamente qualcuno disse che quella cosa era sua, un altro quell’altra, ecc.; e rac-

290
In Art. proph., p. 83-4 ripropone negli stessi termini l’intera questione e schiera di ‘aucto-
ritates’.
291
Les six livres de la Republique, Paris, Du Puys, 1583 (tr. it., Torino, 1964).
292
Come Bobbio stesso aveva correttamente indicato nella sua nota a Civitas, la quale però
deve contenere un refuso da inversione nell’indicazione “can. 2 XCII q.1”.
COMMENTO AL TESTO 395

conta che gli Apostoli hanno vissuto e predicato che tutto era comune, anche le
donne. La stessa cosa insegnano tutti i Padri, a proposito del primo cap. della Ge-
nesi, dove Dio non distribuì nulla, ma lasciò tutto in comune agli uomini, affinché
crescessero, si moltiplicassero e popolassero la terra” (Quaest. pol. IV II, p. 104).

58.1: obsequium
Anche italianizzato: il re “quasi pastore le sue pecorelle difende con armi e leg-
gi… li [sic] pasce e con amorosi obsequii gli osserva” (Mon. Sp.1, p. 36). Invece
i sinonimi latini sono ‘ministerium’, a proposito dei ‘servizi’ dei domestici, ad
es. in Moralis: “Sunt enim qui volunt… servos plures quam ministerio” (IV I, p.
23); oppure in Atheismus, in un contesto identico (v. n. 61.3 [f.p.]), C. usa ‘offi-
cium’ in luogo di ‘obsequium’: “exceptis mulieribus: quae tamen in officiis
communes erant, non autem in coitu” (XIII, p. 117).
In SH IV, LXVII viceversa si avverte più chiaramente la divaricazione verticale fra
coloro che dovrebbero essere naturalmente uguali, proprio rimarcando la pe-
santezza dell’‘obsequium’: “saevitia est in obsequium cogere quos nobis fratris
eadem natura progenuit”; è da negriero costringere i propri fratelli a mansioni
dure/infime. Nello pseudo-Ambrogio ritroviamo l’‘obsequium’ nel significato
di ‘dovere coniugale’ in riferimento alle usanze sessuali braminiche: “Si autem
acciderit ut quispiam sterilem sortiatur uxorem, usque ad quinque annos ma-
ritus ipsius ad eam transit, et ei maritale praestat obsequium. Quae si gravida
per tempus illud non fuerit, mox ab eadem penitus separatur” (PL XVII,
1135). Barri, p. 316, riprendendo Giustino (SH III XXIV) a proposito delle usan-
ze pitagoriche a Crotone, riferiva che Pitagora insegnava alle matrone “pudici-
tiam et obsequia in viros”. E infine Telesio inserisce il vocabolo in una serie
che, credo, più che sinonimica, è una gamma semantica compresa fra l’ono-
ranza e la sudditanza: “et quos honorare quosque observare et quibus obsequi
et parere et subditum etiam aequum est…, libenter et honores et obsequia et
ministerium etiam, ubi oportet…” (“a coloro che è giusto onorare e servire ed
a cui si devono giustamente tributare ossequi ed ubbidire ed anche assogget-
tarsi, devono essere dovuti gli onori e gli ossequi e anche il servizio, quando è
necessario”: IX, 22 [III, p. 416.1-4]).

58.8-12: neque more… in hoc.


Vi sono tre tipi di connubi liberi o sregolati (“concubitus vagus”): “ognuno può
congiungersi come, quando e con chi gli pare, e questo va contro la natura ra-
zionale, sebbene sia praticato da alcune bestie… dotate di estro solo in deter-
minati periodi. Gli uomini invece, sempre mossi dagli stimoli sessuali, se potes-
sero unirsi con chiunque e sempre, si indebolirebbero, e poi ognuno andreb-
be soltanto con le donne più belle, e queste, per la commistione e azione con-
traria dei semi, non concepirebbero, come succede alle prostitute”, tralascian-
do i guai che provocherebbe la gelosia delle brutte verso le belle. Questo pri-
mo tipo di unione sessuale anarchica è dunque innaturale ed eretica (vedi i Ni-
colaiti); ma ancora peggiore quella praticata, e scoperta recentemente, in al-
cune regioni della Gallia e della Germania: “dopo le nozze legali, in certi pe-
riodi, col favore delle tenebre, maschi e femmine si uniscono a caso… Per cui
396 LA CITTÀ DEL SOLE

può capitare che uno poi da qualche indizio si accorga di essersi congiunto
con la madre”. Anche questa è un’unione eretica, contronatura e addirittura
peggiore di quella delle bestie, mossa com’è da sola libidine e non da esigenze
riproduttive. “Finalmente il terzo modo è quello da noi descritto in una società
come se fosse allo stato di natura; ovvero: non possono diventare generatori se
non i più forti e i migliori, e – secondo il giudizio di medici e matrone –, solo
nel momento astrologicamente propizio al concepimento, con riverenza e pre-
ghiera alla divinità” (Quaest. pol. IV III, p. 109).293
Se in CS la posizione di C. sull’accomunamento delle donne è dubbiosa e oscil-
lante (perfezione dei Solari e imperfezione dei confederati; diritto di natura e
Rivelazione; costante ricerca di regole socio-sessuali più idonee), in Quaest. pol.
IV la sua teoria è netta e chiara: concordemente alla ‘glossa’, comunanza delle
donne nel ‘servizio’. Il che significa: le donne prestano i loro servigi indistinta-
mente alla comunità, salvo tre casi: a) lavori pesanti; b) servizio militare di pri-
ma linea; c) compiti politico-direzionali e di docenza ai maschi. Ma il loro ‘ser-
vizio’ peculiare allo stato è “ministerium generationis”: la riproduzione della
specie è la speciale ‘funzione femminile’, scientificamente regolamentata. Col-
lettivizzando lo stato, si salva sia la legge naturale (un’accurata selezione), sia
quella rivelata (la glossa). Salvo le perplessità, come si è detto (v. n. 40.20 e n.
50.22-3), circa il precetto cristiano dell’astinenza con le sterili, anche in uno
scritto altamente responsabilizzante, quale è Metaph., la procreazione resta
l’imperativo prioritario: a proposito della poligamia degli antichi, chiarisce che
“quando gli uomini erano pochi e avevano bisogno di propagarsi, vi era la leg-
ge che permetteva le mogli; ora invece sarebbe enormità, quando fosse per la
libidine, e non per avere la prole” (XVI VII, I [III, p. 249]).294
Questa insistenza sul tema dipende anche dalla necessità di fugare i sospetti di li-
bertinaggio che erano circolati subito nelle deposizioni dei congiurati, come ad
es. in quella di Felice Gagliardo, che dichiarava addirittura “che volevano liberare
tutte le monache delli monasteri e volevano fare il ‘crescite’ [‘e moltiplicatevi’]”;
infatti tra i capi principali d’imputazione dell’allegazione fiscale contro C., si leg-
ge: “concitavit enim fere totam provinciam, conspirando contra statum invictissi-
mi Regis, ad finem ut vitam luxuriosam et liberam viveret; et, quod pejus est, ut
gravissimum haeresis crimen in Regno seminaret” (Palermo, pp. 422 e 427).

60.3: haeresis Nicolaitorum,


L’Apostolo si compiace che la Chiesa di Efeso “odii le opere dei Nicolaiti, che
io pure detesto” (Apoc. 2, 6), perché negavano la divinità di Cristo e si abban-
donavano ai peccati carnali; Damasceno, De haeres. 463G e Agostino, De haeres.

293
Come appunto accadeva, secondo Eusebio, nella Repubblica platonica: ivi le donne sono
comuni come potrebbe chiamarsi comune l’erario statale, e non “quasi libidinis ac flagitii li-
beram cuivis potestatem faciat” (708D-709E), in quanto solo il Magistrato decide a chi debba
essere assegnata.
294
Si rinvia al saggio di Amerio sulle teorie genetiche e matrimoniali del C. cit. in nota 142.
COMMENTO AL TESTO 397

V (PL XLII, 26): “Nicolaiti, dal nome di uno dei sette diaconi ordinati dagli
Apostoli [At. 6, 5]. Questo Nicola, accusato di esser geloso della sua bellissima
moglie, per espiare il peccato, permise a chi l’avesse voluto, di servirsi della
moglie. Ciò che egli fece fu adottato da altri, e si formò una turpissima setta,
che praticava l’amore comune”.

60.4-7: ecclesiam… bonorum.


Oltre quanto già detto sulla riforma di Simplicio del 470 e sulla posizione di
Agostino (v. n. 23.3 [f.p.]), “diciamo che la Chiesa può praticare la divisione
[dei beni] e permetterla, come si tollerano le meretrici, quale male minore –
meglio zoppi che morti, come dice S. Agostino” (Quaest. pol. IV II, p. 107; v. n.
32 [glossa] § 1 e n. 56.30-3).
Il punto di vista di C. a proposito della collettività dei beni è evincibile da una
lunga e complessa polemica imbastita contro Domingo de Soto (v. n. 61.2
[f.p.] e n. 60.18-23), il bersaglio preferito della Quaest. pol. IV: secondo il No-
stro, la comunanza dei beni è un cardine del diritto di natura, che non è stato
cancellato dal peccato originale, ma dall’ingiustizia (cita la glossa a S. Cle-
mente [v. n. 56.43-4]: “per iniquitatem, idest per ius gentium contrarium iuri
naturali”). Soto (Sent. 4, 15) poi aderisce all’argomentazione di De Vio: la na-
tura adotta l’indivisione ‘negative’, ma non insegna ‘affermative’, ovvero la
natura non ci dice esplicitamente che bisogna adottare la comunanza; quindi
la natura non esclude che si possano esperire altre forme socio-economiche.
Tommaso invece distingue uso da possesso: il primo deve esser collettivo (e
appartiene al diritto naturale), il secondo invece è individuale (e appartiene
al diritto positivo); ma parlando delle elemosine, l’Aquinate dice che in caso
di necessità anche il proprio deve diventare collettivo, e dunque i ricchi sono
padroni, ma solo di distribuire e donare le cose. In sintesi: il diritto naturale,
anteriore e superiore al diritto delle genti, predica l’indivisione dei beni: Dio,
“come attestano S. Ambrogio, il Crisostomo e i migliori Padri, vuole che tutti
vivano in comune” (Theol. IV [II, p. 165]); il possesso individuale (sancito dal
diritto civile) ne è dunque una corruzione, che al più può esser tollerato co-
me male minore, per metter freno a “iniquitatem, violentiam, avaritiam”
(Quaest. pol. IV II, p. 105-6).

60.8-11: nam… artes.


Questa restrizione era stata già enunciata a 20.16-8 (v. n. 20.18); e circa il di-
verso status cittadino/provinciale v. n. 48.6-8. All’obiezione che una simile città
non può assurgere a dimensioni nazionali, oltre che per ragioni urbanistiche
(4.1-6), anche perché le popolazioni assoggettate295 avrebbero costumi diversi,
per cui o la corromperebbero o si ribellerebbero, risponde: “Perciò anche io

295
I Solari assoggettano (20.18, 74.19), gli utopiani colonizzano (More, 103): sono colonie
quelle “dalle maggiori città edificate in questa guisa che loro mandano coloni ad habitarle”
(Magini).
398 LA CITTÀ DEL SOLE

ho istituito un tale modo di vivere solo per gli abitanti della capitale; i villaggi
poi lo imiteranno – in parte, o addirittura in tutto se se ne fondassero parecchi
in una provincia” (Quaest. pol. IV I, p. 103).

60.11-3: At Solares… fuerint.


“Quel che ha sancito la legge, e cioè che ognuno abbia rapporti solo con la
propria moglie anche se sterile, non può esser facilmente compreso dal filo-
sofo [= “a philosopho”] in base ai soli principi naturali. Perciò io sostengo sol-
tanto questo: che chi fonda uno stato con quel sistema di comunanza delle
donne non pecca nei confronti della natura, prima che dalla legge di Dio non
abbia imparato che così non si deve fare” (Quaest. pol. IV III, p. 109; v. n. 56.35-
6, n. 58.8-12 e n. 60.25-6). Perciò vi è la glossa di 60.25. Per il concetto di ‘filo-
sofia’ dei Solari, cui “philosophati” è strettamente collegato, v. n. 20.15-6 e n.
50.25; qui non si allude tanto a una competenza ‘scientifica’, eugenetica, quan-
to alla razionalità naturale, declinata etico-politicamente, che esige la priorità
della “sacrosanta religione” dello stato rispetto alle esigenze del singolo.

60.13-5: Nihilominus… amplectuntur.


Rispetto a T.60.9-12 i Solari sono diventati più selettivi; ma non hanno perso
quella loro apertura verso la novità (v. 18.15-21), che emergeva però con più
chiarezza nell’aggiunta al solo ms L. (v. 60.11 in ‘Apparato delle varianti di α’ -
a ulteriore riprova della sua estraneità rispetto a Civitas): “e quando sapranno
le ragioni vive del Cristianesmo, provate con miracoli, consentiranno, perché
son dolcissimi”; disponibilità verso il nuovo, tipica dei popoli sia realmente
‘nuovi’, sia tali solo nella finzione (More, 164 e 258).296

60.18-23: Vide super… ab eo.


In Quaest. pol. IV, risponde alla quarta obiezione dei suoi detrattori:297 “Come
suo solito, Soto argomenta subdolamente: lo stesso Agostino infatti, nel 4° cap.
del De haeres. e S. Tommaso, [ST] II-II, q. 66, art. 2, insegnano che eretico è chi
sostiene che i possessori di beni saranno dannati e chi approva il libero amore,
non chi predica la vita in comune. Anzi è più grave eresia condannare la co-

296
La malleabilità dei selvaggi, facilmente assoggettabili quindi a un qualsiasi modello ideo-
logico eteronomo, era già chiara a Vasco de Quiroga: “Questa gente è come ‘molle cera’, è
una ‘tabula rasa’ su cui nulla è stato impresso, materia ben disposta e pronta a ricevere ciò
che con essa si voglia sperimentare” (cit. da Maravall, p. 640). Inoltre nella quartina premes-
sa da Gilles in lingua utopiana, si diceva: “Offro volentieri quello che mi appartiene, ma non
mi pesa accettare suggerimenti migliori”; annotava Firpo 1979: “Dichiarazione prudenziale:
gli Utopiani vivono secondo il lume naturale, ma sono pronti ad accogliere le regole di vita
imposte dalla Rivelazione e dall’ortodossia cattolica” (p. 64).
297
“È eresia rifiutare la divisione dei beni, come attesta S. Agostino contro coloro i quali ave-
vano in comune donne e beni e sostenevano che così bisognava vivere secondo gli Apostoli.
Parimenti Soto… scrive che nel Concilio di Costanza fu condannato Giovanni Hus che ri-
provava la proprietà privata. E Cristo dice: ‘Date a Cesare quel che è di Cesare’” (II, p. 104).
COMMENTO AL TESTO 399

munità, praticata dagli Apostoli e dai monaci, che la divisione [dei beni]… E lo
stesso Soto sostiene che la divisione [della proprietà] fu introdotta per la tra-
scuratezza [mostrata] per le cose comuni e per la brama per quelle proprie, e
[dunque spunta] da una radice maligna; quindi la divisione non è buona in sé,
ma soltanto permessa, non certo voluta in ossequio alla [legge di] natura. Or-
dunque, come osa chiamare eretici quelli che seguono la [legge di] natura, e
lodare quelli che, con Aristotele, vanno predicando quel che è stato concesso
solo in seguito a una corruzione?” (II, p. 107). Anzi poco sopra C. aveva esalta-
to – per quanto poteva farlo un domenicano del XVII sec. – il modello di vita
di una setta scismatica, gli Anabattisti “in communi viventes”; peccato che non
condividano “dogmata fidei recta”, altrimenti ne avrebbero beneficiato ancora
di più e “sarebbero un esempio della verità di questo” modello comunistico
(Quaest. pol. IV I, p. 103). Un po’ più morbida, per l’introduzione di un fonda-
mentale distinguo (Soto ha forse ragione per la vita presente, non per quella
futura), la polemica antisotiana in Atheismus X XIII, dove appunto ribadisce la
superiorità della vita in comune.
Per quanto poi riguarda la frase di Lc. 20, 25: “Reddite quae Caesaris Caesari” è
interpretata da C. nel senso che nulla è di Cesare e quindi nulla bisogna dargli,
perché tutto appartiene a Dio, e a Cesare tocca solo il compito di dispensarlo
(Quaest. pol. IV II, p. 107). Tema che è appunto ripreso in Mon. Messiae: “Per-
placet Deo, ut bona dentur, hoc est communia fiant in Ecclesia. Ad hoc enim
respexerunt Apostoli, et ita fiet tantum ut revertantur omnia ad communita-
tem, sicut fuit in lege naturae” (XV, p. 75); e dopo un’ampia citaz. senechia-
na,298 precisa: “quod usus est tuus et dominium meum… vel melius: dare Ec-
clesiae est ponere in communi quod erat proprium. Et valet viri Beati Augusti-
ni distinctio, quod amministratio est principum, et proprietas, iurisdictio et po-
testas est Vicarii Christi” (XVI, p. 76-7).299
Infine, per quanto riguarda S. Tommaso, sempre in Quaest. pol. IV chiarisce
che si sta riferendo a ST II-II, 66, 2, in cui l’Aquinate riporta il passo agostinia-
no per sostenere proprio l’opposto, e cioè l’eresia dei cosiddetti ‘apostolici’ se-
condo i quali tutti coloro che non mettono in comune i beni saranno dannati,
concludendo: “perciò è erroneo affermare che non è lecito all’uomo possede-
re in proprio” (II, p. 107); e inoltre nel De regim. principum IV, 4 pseudo-tomisti-
co la proprietà indivisa delle donne è considerata “più bestiale che umana”,
meravigliandosi che una tal dottrina sia stata predicata da filosofi come Socra-

298
“Lib. 7 de Benef. c. 4” e 5, circa la possibilità di donare qualcosa, ad es., a un re, visto che
“iure civili omnia Regis sunt”.
299
Entrambi i passi cit. sono assenti da Mon. del Messia (per il secondo v. n. 24.2-3), dove Soto
era criticato per un’altra sua tesi anti-unitaria, ricavata “stoltamente” da Aristotele, e cioè che
“il dominio di tutto il mondo in uno è contro natura e impossibile” (p. 64): con la Sua venu-
ta, Cristo “ha promulgato i precetti di una legge [basata]… sull’amore di Dio e del prossimo,
che abolisce ogni particolarità e separatezza, una legge comune e universale in cui possono
confluire tutte le genti” (Ernst 2002, p. 146).
400 LA CITTÀ DEL SOLE

te e Platone. La posizione di Tommaso sulla natura della proprietà (che sarà


poi quella adottata dalla Chiesa fino al Mater et Magistra di Giovanni XXIII nel
1961) coincide con quanto sosterrà Soto, sulla scorta di De Vio: è vero che in
natura esiste la comunanza dei beni, ma ciò non significa che la natura ci ob-
blighi a non possedere nulla; quindi il diritto positivo (“ius positivum”) è una
convenzione che la ragione umana ha imposto non contro, ma sopra il diritto
naturale: “il possesso privato non è contro lo ‘ius naturale, sed iuri naturali su-
peradditur’ per un intervento razionale” (II-II, 66, 2). Il ricco non pecca in
quanto tale, ma solo se impedisce agli altri di godere dei beni di cui lui gode; se
si arroga cioè oltre al possesso anche l’uso esclusivo: la proprietà è individuale
e inalienabile per diritto, l’uso invece con adeguate leggi e con il precetto del-
l’elemosina deve compensare le disparità sociali.300

60.23-4: Vide etiam… tractatur.


Nella lettera-prefazione alla filza di mss consegnati a Schoppe, che porta alla fi-
ne la data “Kalendae Iunii 1607 in Caucaso”,301 C. scriveva: “Tuo debetur nomi-
ni libellus iste, nam veluti in gratia Dei praeventus iste, nam obsisteris”.302 Nel-
la presente traduzione, comunque, analogamente ad Amerio (Quod rem., 2, 1,
[p. 1213]), è stato mantenuto il titolo campan. originario.303
Innumerabili sono i passi in cui C. se la prende con “il Macchiavello, che mac-
chia gli avelli” (Antiven., p. 66); ma le ragioni principali dell’avversione sono
quasi sempre le stesse: privilegiare il ‘particulare’ (“amar solo se stesso e nullo
altro al mondo” [Antiven., p. 128]) sull’universale; perciò “contro la peste di
questo secolo” ha scritto questo libro, per mostrare ai ‘machiavellisti’ (“per
macchiavellista intendo ognun che vive per astuzia fondata nell’amor proprio

300
Su Soto e il comunitarismo, ritorna anche in Antiven., chiamandolo “adulatore del secolo”
e perciò destinato al “fuoco” (pp. 56 e 63); e ancora Theol. (II, p. 165) e Art. proph. (p. 84);
per un suo ritratto critico cfr S. Di Liso, Domingo de Soto. Dalla logica alla scienza, Bari, Levante,
2000.
301
Schoppius: Struvius la riporta, traendola da un ms di Atheismus posseduto dalla ‘Bibliotheca
Salana’ da lui ritenuto l’autografo originario, a cui fa seguire un sommario confronto fra ms
e edizione parigina.
302
Cfr Ernst 1996b, p. 22; e, per il titolo: Lettere [1609]: “Recognoscimento filosofico della vera uni-
versale religione contro l’anticristianesimo, macchiavellesimo, al qual libro Gaspar Scioppio, che lo
tiene, pose titolo l’Ateismo trionfato” (p. 162), cioè ‘debellato’, come lo tradurrà l’Amabile;
nell’Index librorum campan. (risalente al 1607, secondo Ernst 1999a, p. 494) il titolo dell’ori-
ginaria versione italiana è: Riconoscimento filosofico della religione cattolica contro l’anticristianesmo
Macchiavellesco; nel Syntagma scrive che nel 1608 a Schoppe “diedi anche l’Ateismo trionfato:
anzi è stato lui a suggerire questo titolo per il libro che io preferisco chiamare Riconoscimento
della religione secondo tutte le scienze contro l’anticristianesimo macchiavellistico” (I III).
303
Per storia e significato del testo cfr: Ernst 1991, p. 73-104; Ernst 1996b e 1997e, dove si an-
nuncia anche la scoperta del ms italiano, che è stato testè pubblicato (v. Bibliografia); For-
michetti 1999: “la titolazione così perentoria data dallo studioso tedesco, non faceva risaltare
la ricerca della verità e privilegiava il possesso della verità” (p. 162); in generale sulle modifi-
cazioni arbitrarie dei titoli campan. cfr L. Firpo, C. e la fortuna dei titoli, ‘Belfagor’ (1946).
COMMENTO AL TESTO 401

e nella miscredenza della religione” [Schoppe, p. 32]) “quanto s’ingannano nel-


la dottrina dell’anima ed in pensar che la religione sia arte di Stato. Scoprendo
anche come tutti prìncipi che seguiro tale opinione ab initio mundi han perdu-
to la vita e lo Stato” (Lettere, p. 26). Un’altra radicale divaricazione è enunciata
inauguralmente alla Phil. realis (Disp. in prol. I, 2 ‘De summo bono’): “Politici
moderni, et Macchiavellistae summum bonum ponunt in dominatu et poten-
tia”; invece “si dominator vult esse… bonus et servitus, in laborando autem et
serviendo virtuose beatur… ut Moyses, Lycurgus et Romulus et Codrus et alii”,
contrapposti ai ‘tiranni infelicissimi’ (da Nerone al Valentino) “a Macchiavello
laudatis” (p. 11), confutando anzi la tesi sostenuta dal Principe che “tutti i pro-
feti disarmati ruinarono” (Politici, p. 152). Arriva ad esser rimproverato dai suoi
stessi superiori per avergli dato del ‘bastardo’ (v. n. 158.27-8), e lui lì spiega
perché, per Machiavelli, dovette infrangere anche le regole della pietà cristia-
na: “A tutti è noto quanto male fa e ha fatto nella Cristianità Nicolò Machiavel-
lo, che alli prìncipi non solamente fa lecito, ma dona per precetto la ingiustizia
e il tradimento, lo spergiuro, l’ammazzare i proprii fratelli e parenti, e ognuno
che può dar sospetto allo stato politico, per utile loro proprio e non della com-
munità; e che mette la religione in burla… e di più predica che è timidità igno-
rantesca a dar rimorso di coscienza a questi affari. Però, volendo io levarli quel-
la stima in che è tenuto dalli politici e da eretici e da quello che scrisse De tribus
impostoribus, mi fu bisogno di dire quello che è con verità di lui”.304 Acutamen-
te Amerio 1966 nota però che alle volte C. si comportava più machiavellistica-
mente di Machiavelli: “benché abbia stabilito che la prassi politica deve sotto-
mettersi sempre alla legge morale, il C. machiavellizza più volte, sebbene non
senza impaccio, nei particolari della prassi. Plaude, citando un madrigale del
Tasso, al regicidio del Clément, sostiene che Carlo V peccò non uccidendo Lu-
tero, suggerisce che i sudditi abbiano a pagare a peso e lo stato a numero di
monete” (p. 175); cui si può aggiungere un passo ancor più pregnante e perti-
nente, che Amerio non poteva conoscere: “li religiosi son quelli chi fanno rive-
rire i principi del popolo, il qual è d’assai più gran forza che il principe e non
di meno sta soggetto, perché la religione, con promettere eterni beni a chi ob-
bedisce al principe e alla legge, e l’inferno a chi disobbedisce, fa stare tutti i po-
poli con il suo principe, e li toglie l’anima di rebellare, però non può fare mag-
gior pazzia un principe quando mostrasi disprezzatore della religione, perché
li popoli che credeno odiano il principe, e disprezzano come empio e scelera-

304
Risposte…, in: Opusc. ined., p. 51-2. Nel processo romano del 1595 fu anche accusato di es-
ser lui l’autore di questo anonimo libello in cui si sosteneva che Mosè, Cristo e Maometto
erano degli impostori, “e quello fu stampato trenta anni prima che io nascessi” (Schoppe, p.
29); in Politici (p. 150-2) sostiene di aver scritto Atheismus anche per stroncare i complotti dei
“macchiavellisti” che l’accusavano falsamente di esser l’autore dell’empio libercolo, che lui
ritiene invece sorto in ambiente tedesco: “si era addirittura dato come autore un certo Otto-
ne, segretario di Federico II Hohenstaufen” (Formichetti 1999, p. 31 – per tutta la questione
cfr Ernst 1991, p. 105-33; Ernst 1996b, p. 29 e v. nota 412).
402 LA CITTÀ DEL SOLE

to, e come disse Aristotile, sequitato dal Machiavello, l’odio e il disprezzo sem-
pre portano ruina allo stato” (Papatus, p. 150).305

60.25-6: Vigor… nosci.


La nota ha una portata assolutamente ristretta alla questione della liceità della
comunanza sessuale, su cui il pensiero teologico di C. è che ‘La poligamia non
è primariamente o totalmente contro natura, ma solo secondariamente. Tutta-
via migliore e più conforme a natura è la monogamia, la quale è anche confor-
me al Vangelo, mentre la poligamia gli è piuttosto contraria’ (Theol. XXIV XVII,
XXIII; v. n. 60.11-3); il richiamo esplicito al Vangelo deriva dal fatto che “soltan-
to la legge evangelica esclude totalmente la poligamia, come afferma Durando.
E questa totale esclusione conviene alla purità dei costumi, alla concordia, alla
pace” (Theol. XXIV [VI, p. 169]; Quaest. pol. IV III, p. 109). Per nulla in causa è
il rapporto fra i Solari e il Cristianesimo (v. 128.4, n. 104 [glossa], n. 128 [glos-
sa], n. 134.5-14), ovvero fra religione naturale e rivelata, ma vi è un tentativo di
sfumare questa “provocation” di C., rispetto alle proposte tutte ‘matrimoniali-
ste’ delle utopie moderne (salvo Doni; l’unica possibile fonte contemporanea
potrebbe esser Juan Huarte, Examen de ingenios): attraverso “une distinction en-
tre le temps des Solariens (avant le péché et la révélation) et celui du monde
chrétien” è possibile “justifier à la fois la validité philosophique et naturelle de
la ‘communauté des femmes’ et la légitimité de sa condamnation postérieure
par l’Eglise. Le concept reste toutefois opérant à travers la distinction entre
deux types de communautés, celle qui passe par l’acte sexuel et celle qui relève
de la communauté de vie” (Fournel, p. 209 – le due comunità sono quella del-
la Città del Sole e quella delle province).

62.1-3: rationes… aristotelicas.


C., in analogia ma con ordine rovesciato rispetto al filo logico seguito dalla Re-
sp. platonica, sta pensando al problema dell’uguaglianza delle donne, e di con-
seguenza alle loro mansioni, specie quelle relative al governo e alla milizia.
Mentre Platone nella “prima ondata” (455d) parla della quasi uguaglianza dei
sessi (e quindi della pari opportunità ed istruzione), e nella “seconda ondata”
(457c) tratta della comunanza sessuale, invece C., dopo essersi molto dilunga-
to su quest’ultimo punto, sfiora qui un argomento, che approfondisce in Quae-
st. pol. IV: alle Solari “ho affidato le arti che richiedono minor fatica e, in guer-
ra, la difesa delle mura; infatti si legge che le Spartane difesero la patria in as-
senza dei mariti, e le femmine degli animali si battono come i maschi. E le
Amazzoni un tempo in Asia, ora in Africa combattono le guerre: ma ciò –
obietta il nostro Gaeta nel De Pulchro – va contro natura, tanto che devono am-
putarsi la mammella destra, per poter maneggiare la lancia. Invece ritengo più

305
V. n. 76.15-8 e n. 116.19; sulla lettura forzatamente ‘averroista’ di Machiavelli da parte di
C., cfr Caye, p. 340sg; sul rapporto C./Machiavelli sul piano politico e religioso, a partire da
Mon. Sp., cfr Ernst 2002, p. 55sg.
COMMENTO AL TESTO 403

attendibile l’argomentazione di Galeno secondo cui esse [lo facevano] affin-


ché l’energia che serviva ad alimentare la mammella fosse diretta a rafforzare il
braccio destro. Infatti il seno non impedisce per niente di maneggiare la lan-
cia… Aristotele poi non riesce a confutare quest’argomentazione delle Amaz-
zoni… [e inoltre] respinge l’esempio delle femmine degli animali che combat-
tono… ma s’inganna” (III, p. 108).306
Circa l’opportunità (o meno) di un impiego bellico delle donne C. aveva potu-
to trovar conforto in: Platone, il quale non solo faceva condividere loro i turni
di guardia (Resp. 456a-b, 466c-d), ma voleva che prestassero servizio militare fi-
no a cinquant’anni (Resp. 457a; Leg. 785b, 804d-806b, 813e); Eusebio, 706A-
707B; pseudo-Tommaso, De regim. principum IV, 5-6 (dove si confrontano le op-
poste teorie di Platone e Aristotele sulle donne in armi); Egidio Romano, De re-
gim. princ. III, 1, 12 (cit. da Firpo 1979); More, 196 (ausiliarie di riserva) e 214
(ma anche per assistere i mariti in guerra), e appunto Gaeta, p. 71-2. Per quan-
to riguarda poi i precedenti ‘storici’: sull’educazione militare delle Spartane
cfr Plutarco, Lyc. 14, 3; De liber. inst. 11, 8d; sulle Amazzoni, v. n. 150.12-4 e, più
in generale, sulla parità dei sessi, v. n. 32 [glossa] § 3, punto 1.

62.13-7: et tandem… audierint.


Tre versioni alquanto diverse fra T.62.11-5 (e tutti i mss italiani a me noti), L. e
Civitas (62.13-7); L. (redaz., per inciso, adottata solo da Bobbio) infatti al passo
corrispondente, recita: “e se un membro solo ha, con quello serve nelle ville”.
In tal modo – cioè omettendo: “serve; ma questi stanno (se non sono illustrissi-
mi della Città) nelle ville” – muta il senso: tutti i minorati, secondo le prime ste-
sure di Città, sono confinati nelle ville (“per non turbare l’armonica bellezza
della città perfetta”, chiosa Firpo); secondo L., invece, soltanto quelli più gra-
vemente lesi. La versione latina è ancor meno ‘coattiva’: i minorati o mutilati
sono utili in città o quantomeno in campagna (“vel in villis”); ma anche qui, co-
me in L., è caduta la frase centrale. Quest’anomala affinità fra L. e Civitas è
spiegabile in due modi: a) il più probabile è che l’archetipo comune a L. e Ci-
vitas fosse mutilo (la lacuna, come si vede, non destituisce di senso il periodo);
b) l’altra spiegazione è che la frase sia stata tagliata e non omessa, per quel pro-
cesso di attenuazione delle sporgenze testuali, che in questo caso significa una
maggiore ‘pietas’ verso chi non è stato favorito dalla natura.307 Pertanto, in tal
caso, la red. Bobbio rispecchierebbe, senz’altro meglio di Firpo e Amerio, l’in-
tenzione autoriale di evitare appunto quell’impressione estetizzante (colta già
da Firpo), ma così poco cristiana. In effetti l’inurbanità, come poi è diventato

306
Aristotele non cita mai le Amazzoni; invece, a proposito delle bestie: “È assurdo poi trarre
esempi dagli animali per dimostrare che le donne devono avere le stesse occupazioni degli
uomini, dal momento che gli animali non hanno casa da amministrare” (Pol. 1264b 5; anco-
ra in Pol. 1269 esamina molto criticamente le società militari di Spartani e Cretesi).
307
Tuttavia, C. sconsiglia accoppiamenti fra deformi, salvo che si voglia ottenerne dei servito-
ri: “Nec committenda esset deformibus generatio, nisi ut servos procrearent” (Quaest. oec. II
I, p. 175).
404 LA CITTÀ DEL SOLE

significato corrente, significava o implicava una rozzezza di modi e di forme,


una in-civiltà, insomma testificava una sub-umanità, una semi-ferinità (‘fore-
sto’, ‘villano’ ecc.): esemplare la novella decameroniana del ‘bestione’ Cimone
(v. n. 48.6-8).
La sua fonte prima è Botero (I II, p. 125-6; ma anche Ragion IV VII), che esplici-
tamente si rifà alle “lettere dei padri Giesuiti” per le cose asiatiche, e precisa-
mente a Maffei, I, p. 375; ma anche Matteo Ricci, nel memoriale a Valignano
del 1582, scrive che i Cinesi “sono i più industriosi del mondo, perfino i ciechi
e gli zoppi si guadagnano da vivere, perciò i mendicanti sono pochi”.308
Altre attestazioni: Platone, Crit. 53a: “tu [Socrate] sei uscito meno volte da que-
sta città che non gli zoppi e i ciechi e gli altri storpi”, che venivano allontanati;
Alberti [Bartoli]: “non essendo nessuno tanto storpiato che non potesse in
qualche cosa giovare a gli altri uomini con la sua fatica. Che più? I ciechi gio-
vano ancora a girare il filatoio a funaiuoli” (V VIII, p. 135); Zuccolo, Evandria:
“in Evandria anco i ciechi, i zoppi, gli stroppiati s’impiegano in qualche eserci-
zio” (p. 214-5).309 Invece nel ‘mondo’ di Doni i vecchissimi e inabili sono man-
tenuti in ospedale (p. 74-5).

62.15-7: sunt exploratores… audierint.


“Lo stato ha… per orecchie spie e mercanti” (Politica VI, 7; v. n. 74.26-7).

62 (glossa): De re bellica
L’‘arte della guerra’ (per la quale qui si ispira a: Platone, Resp. 403e-404a; Leg.
804c-806c, 813d-814b; Machiavelli, in part. III; More, 196-223), inaugura la
trattazione delle arti disposte gerarchicamente: all’arte bellica seguono le altre
due attività ‘primarie’ comuni a tutti (78.8), agricoltura e pastorizia; quindi i
‘servizi’, come la nautica e la mercatura; dalle arti che servono a procacciarsi la
sussistenza, si passa a quelle che mantengono in vita (secondo una scansione
mutuata dalla scienza politica: es. Aphor. XI, 6: “Qui acquirit dominia… Qui
conservat…”): la culinaria (non la gastronomia, ma la dietologia – branca con-
trollata dalla medicina), quindi le scienze e infine il culto e la scienza delle co-
se celesti (religione, fisica e metafisica). L’importanza dell’arte militare nel
pensiero del C., che confessava al Naudé che la congiura era fallita anche per
la mancanza di armati, era stata già colta da De Mattei 1927, pp. 135-47 e da
Firpo 1947, pp. 81-94.

308
Agli occhi dei missionari in partenza per l’Impero di mezzo, “la Cina è la realizzazione di
quella ‘repubblica dei filosofi’ che Platone ha solo potuto pensare” (Lacouture, p. 297 – la
realtà sarà meno esaltante, come Ricci avrà modo di testimoniare già nella seconda edizione,
più critica, del suo Trattato delle meraviglie della Cina, 1584).
309
Sorprendentemente De Mattei 1984, a proposito di questo passo, commenta: “a differen-
za della CS, ove, attese le diligenze eugenetiche, non si prevedono se non organismi sani, in
Evandria la minoranza [minorazione?] fisica non sembra affatto scongiurata” (p. 289 - ma
minorato, oltre che nascere, si può diventare…).
COMMENTO AL TESTO 405

62.30-3: exercentur… inferioribus.


Per l’educazione fisica dei fanciulli v. 26.20-4. All’istruzione bellica dei due or-
dini religiosi e militari, che C. vorrebbe far istituire (v. n. 2.e punto D, e n. 104
[glossa] § 1, punto A), dovrebbero provvedere “predicanti e maestri publici
della milizia maritima e terrestre… e nella vecchiezza [i cavalieri stessi] siano
maestri degli altri” (Disc. univ. XIV [p. 1148]; v. n. 68.35-70.7). Gli esercizi mili-
tari suggeriti da Machiavelli alla gioventù sono “correre e fare alle braccia, far-
gli saltare… fargli trarre con la balestra e con l’arco; a che aggiungerei lo scop-
pietto, istrumento nuovo e necessario”, e “a tutte queste cose avevano preposti
maestri” (II, p. 490). Brancaccio L.: “il giuocar d’arme, il correre, il saltare, lan-
ciare il palo e simili altre fatiche, posson, non men della natura, forza e de-
strezza apportare” (p. 2). Altra straordinaria affinità con i costumi dei Nairi (v.
n. 54.15-8), setta guerriera indiana simbiotica ai bramini: “E come sono d’anni
sette, son posti subito nelle scuole, dove imparano tutte le sorti di leggierezze e
attitudini nell’armi… E come li maestri veggono che sono bene assuefatti e leg-
gieri, gl’insegnano a giocare di che sorte d’arme più a lor piace, cioè arco, ba-
stone o lancia; ma per la maggior parte è il giuoco di spada e targa [= scudo],
che tra gl’Indiani più si costuma… e li maestri che insegnano questa arte…
nelle guerre sono capitani” (Odoardo Barbosa, in: Ramusio, II, p. 635; così
Barros, I, 176v e Maffei, p. 81-3).

62.44: Caieta… De pulchro.


Giacomo Di Gaeta o Jacopo da Gaeta è menzionato da C., spesso insieme agli
altri amici dell’Accademia Cosentina, come ad es. nel sonetto ‘Al Telesio co-
sentino’ (68, 9): “Il buon Gaieta la gran donna adorna / con diafane vesti ri-
splendenti / onde a bellezza natural ritorna”; così autocommentato: “Ma il
Gaieta, che scrisse della bellezza, avanzò tutti, secondo ch’e’ [= C.] dice in Me-
tafisica” (VI XVI, I [II, p. 235]: “ha superato tutti gli scrittori nel dire ciò che è
bello, benché egli non abbia attinto i principi della metafisica; noi nella nostra
‘Canzone sul bello’ [29, ‘Della bellezza…’] li abbiamo indicati tutti”). Il Gaeta
è ancora nominato nella Poetica XX (p. 401) e Poët. II VII (p. 952); è anche uno
degli interlocutori del Dialogo politico contro luterani, calvinisti e altri eretici
[1595]; Senso, p. 158 invece riporta un’originale teoria fisiognomica dell’“argu-
to nostro Gaeta” tratta anch’essa probabilmente dal De pulchro (Ragionamento
detto l’academico overo della bellezza, G. Cacchi, Napoli, 1591), recentemente ri-
tornato alla luce per merito del compianto Giorgio Fulco e ritornato in circo-
lazione per le cure di Cerbo e Cerbo 1997.310

64.6-7: pilas… iaculari,


Quest’espressione ritorna quasi identica a 68.23.

310
Altri cenni in Minieri Riccio, p. 167; Falcone, II, p. 115; Accattatis: “ci restano di lui un ma-
drigale nella Raccolta del Monti, e un sonetto tra le rime dell’Ardoino” (II, p. 373); Bolzoni
1992, p. 221-6 e Bolzoni 1995, p. 173-4.
406 LA CITTÀ DEL SOLE

64.7: illas ex plumbo formare,


È probabile che la contraddizione con quanto sostenuto prima (34.23: è vieta-
to alle donne fabbricare armi) sia risolvibile, distinguendo la situazione nor-
male da quella di emergenza – a prescindere che la fusione del piombo è ope-
razione elementare (per la questione delle donne-soldato v. n. 62.1-3).

64.13: animorum
È l’unico caso di ‘animus’; tutte le altre occorrenze sono del femminile ‘anima’
(poco sotto, r. 17: “animarum”); in questo caso non credo siano in causa acce-
zioni diverse, perché i paralleli passi di Città (T.64.13 e 18) sono entrambi al
femminile.
Con Agostino e Paolo (1Cor. 14, 14), C. crede che “l’huomo costa di mente, spi-
rito et carne” (Epilogo, p. 427f). L’anima (= ‘mens’: 142.40) è quel che distin-
gue l’uomo dagli altri esseri animati, sebbene essa “non abbia nessuna opera-
zione propria che non sia comune allo spirito corporeo” (Metaph. XIV IV, II [III,
p. 119]). In CS non è enunciata una pneumologia; sappiamo solo che i Solari
credono ad un’anima immortale (124.21), eccezionalmente trasmigrante
(64.16-7) e, se macchiata, emendabile (104.27, qui chiaramente sinonimo del
‘conscientia’ di tre righi prima); e una tale credenza da parte di un popolo pre-
cristiano si giustifica col fatto che tantissimi pensatori antichi, “gli stoici, i pla-
tonici, i pitagorici e gli esseni, filosofi santissimi e dottissimi… sostengono
che… esistono i superi e gl’inferi, e la pena e il premio dopo la morte… Dimo-
strano o la resurrezione futura o la trasmigrazione in meglio o in peggio, per-
ché si riveli la giustizia di Dio” (Metaph. XIV IV, II [III, p. 113-5]).
Si è già detto come l’uomo sia abitato da due entità quintessenziate, gli spiriti
animali (v. n. 44.23 – da non confondere con gli “spiritibus” di 64.14, che sono
i demoni) comuni a tutti i viventi, chiamati anche ‘anima sensitiva’: “anima est
spiritus corporeus tenuis, lucidus, mobilis, calidus, potentiae, sapientiae et
amoris particeps… Nell’uomo non è presente solo l’anima sensitiva, comune
anche ai bruti, bensì la filosofia cristiana asserisce [esserci] anche un’anima in-
tellettiva o razionale, chiamata propriamente mente [= “mens”], non derivante
dagli elementi, ma immessa da Dio per creazione” (Compendio LIX, 1 e LX, 1)
e non, origenianamente, per punizione e riscatto della caduta, bensì per lotta-
re contro le tenebre del mondo, rendersi degna del Suo creatore e “acquistare
la beatitudine a se medesima e al corpo” (Theol. IV [II, pp. 143 e 147]).
La sede dell’anima intellettiva “non è il cuore né il fegato né la testa, ma lo spi-
rito” (Compendio LXI, 1), attraverso il quale, essa “muove il corpo e si ritira o
sporge negli organi e riposa e vigila ed entra ed esce, come cosa che ha esi-
stenza propria, perché è appunto uno spirito tenue, contenuto nei nervi, e
avente sede nel cerebro”; e “distrutto il quale [spirito] essa se ne va” (Epilogo, p.
490). Anche l’anima è un’epifania del ‘senso delle cose’, come sosteneva già in
Senso, cioè partecipa a un livello superiore di quella spinta vitale infusa da Dio
nella materia all’atto della creazione. ‘Creare il mondo a Sua immagine e so-
miglianza’ è interpretato da C. in base alla tripartizione metafisica basilare: la
Trinitaria Potenza, Sapienza e Amore ha consustanziato gli enti di queste sue
primalità, rendendoli tutti dotati di senso, cioè di un certo grado e purezza di
COMMENTO AL TESTO 407

calore: gli uomini di senso razionale, gli animali e le piante di senso naturale e
il mondo inanimato di senso materiale. Con l’importante postilla (in Theol. III,
pp. 165 e 167), a confutazione di ipotesi materialistiche alla Galeno, che “come
la luce nell’aria, la quale non dipende dall’aria ma dal Sole, allo stesso modo
l’anima dipende da Dio, non dal corpo”. L’anima razionale infatti è costituita
dalle Primalità allo stato puro, e perciò lei, e solo lei, è stata creata da Dio a Sua
immagine, immortale, incorporea, e infusa nel feto dopo trenta giorni dal con-
cepimento, se maschio; sessanta, se femmina (Epilogo, p. 425).311 Suo compito
principale nell’organismo è orchestrare armonicamente il complesso degli spi-
riti animali: Dio “infonde l’anima immortale, la qual debba perfettionare tutto
l’artificio et le sue operationi. Et insiememente ella si fa forma di tutto l’huo-
mo” (Epilogo, p. 418). Metaph. specifica che la sostanza dell’anima è la quintes-
senza di quella dello spirito o del cielo, che è pure spirito tenue, caldo e sensi-
tivo.312 Telesio aveva inoltre detto che, mentre negli animali l’‘anima’ è lo spi-
rito che deriva dal seme, nell’uomo, non solo per quanto si deduce dalla Scrit-
tura, ma anche per la sua aspirazione all’infinito, è stata infusa da Dio un’ani-
ma incorporea immortale, che è “la forma dello spirito” (II, 25).313

311
C., quindi, a differenza di Basilio e Gregorio di Nissa, condivide l’ipotesi scolastica dell’a-
nimazione mediata, e non immediata (Doni, Mondi, p. 100 si prende gioco di tutta la que-
stione).
312
VI VII, III (II, p. 111); e in partic. cfr il XIV libro, interamente dedicato a ‘De anima uma-
na’.
313
Della coppia ‘mens/spiritus’, relativamente ad Atheismus, se n’è occupata Ernst 1991, p.
141-6 (v. n. 142.36-144.3); Ernst 2002 tratta a fondo la pertinente polemica fra i telesiani, Per-
sio e C., e gli aristotelico-galenici, “fautori di una tripartizione di principi e di facoltà incor-
poree che avevano le rispettive sedi nel fegato, nel cuore e nel cervello” – in partic. il medico
veronese Andrea Chiocco, contro cui durante il soggiorno padovano aveva scritto un’Apolo-
gia pro Telesio perduta, ma sintetizzata in Senso II IX, “dove sostiene, al pari di Telesio, l’unità e
la corporeità dello spirito animale, e la sua sede nel cervello, da dove, tramite i sottilissimi ca-
nali nervosi, si diffonde in tutto l’organismo per adempiere alle sue molteplici funzioni vita-
li, motrici e conoscitive… L’uomo non solo è fornito di uno ‘spiritus’ di gran lunga più raffi-
nato e puro di quello animale, capace di muoversi con agilità entro celle cerebrali più spa-
ziose, ciò che gli consente di elaborare catene argomentative estremamente più complesse.
L’autentica, radicale differenza dell’uomo consiste nel fatto che egli è dotato, oltre che dello
‘spiritus’ che lo collega a tutti gli altri esseri naturali, anche di una mens di origine divina, che
costituisce e fonda la sua dimensione specifica. Gli indizi a favore di questa mens, e di conse-
guenza dell’eccellenza e della divinità dell’uomo, sono molteplici, ma fondamentalmente si
ricollegano a quel principio enunciato fino dall’inizio del libro [= Senso], che ‘nessun effetto
potersi dalla sua causa elevare’. L’uomo non esaurisce tutte le sue capacità all’interno del
mondo naturale… La sua capacità di protendersi con il pensiero e il desiderio verso l’infini-
to (‘quando l’uomo va cogitando, pensa sopra il sole, e poi più sopra, e poi fuor del cielo e
poi più mondi infinitamente’) prova che non è figlio solo del sole e della terra, bensì di una
causa infinita… La connessione dell’uomo con un mondo sopra-naturale viene confermata
dalla sua capacità di andare oltre i limiti immediati dell’autoconservazione naturale… e so-
prattutto l’uomo è libero nel suo volere, può resistere alle coazioni esterne, può valutare e
soppesare gli oggetti delle sue scelte…” (pp. 26 e 111-5; ancora valido lo studio di G. S. Feli-
ci, La mente nella filosofia di T.C., ‘Rendiconti della R. Acc. dei Lincei’, 1894).
408 LA CITTÀ DEL SOLE

64.16: Bragmani ex parte Pythagorici,


“Ex parte” lo intendo sia come ‘di parte’, cioè di tendenza, sia, un po’ libera-
mente, come ‘parzialmente’ Pitagorici (quindi “pitagorizzanti”), visti i vari
punti di discordanza (metempsicosi, idolatria, dieta vegetariana ecc.); “sint” re-
plica la forma verbale “siano” (T.64.16), e non “siano stati” (come R. e L.), che
sarebbe più corretto, dato l’esplicito distinguo dai “Bragmanorum priscorum”
(66.5).
I “Bragmani pitagorici” di T.64.17 non li ho trovati menzionati in altre opere
né di C. né di altri autori. C. sostiene di aver “percorso le dottrine” di tutte le
scuole, compresa quella dei “Bramani” e dei “Narsingani, che ripongono la fe-
licità nel nirvana” (Theol. I [I, p. 9 e II, p. 67]), e di aver appreso “multa bona,
sed superstitiones quoque multas” (Atheismus X IX, p. 131), come l’idolatria de-
gli “antichi Bramini” (66.5). Da diversi autori, antichi e moderni, poteva aver
appreso infatti che esistono varie sette di questi sapienti indiani (sacerdoti
indù oppure membri della più alta casta induistica): Arriano, De reb. gestis Al.
Magni VII: i [Gimno]Sofisti sono una delle sette caste degli Indiani; Origene,
Contra Celsum I: “tra i filosofi Indiani vi sono i Bramini e i Samanei” (PG XI,
703);314 Girolamo, contra Iovin., 2, sulla falsariga di Bardesane, distingue i Gim-
nosofisti in due congreghe [= dogmata], “quorum unum appellat Bragmanas,
alterum Samanaeos” (SH I XC); Celio: “Indos philosophos sunt qui bifariam
partiantur, ut alios Brachmanas nuncupent… alios vero Germanas” (XVIII
XXXI, p. 716); Magini: “Gli Indi hanno sacerdoti originati dagli antichissimi e
nominatissimi Bracmani, da’ Greci chiamati ginnosofisti, e da loro somma-
mente honorati. Altri di questi sacerdoti menano la lor vita nella frequenza de-
gli huomini, altri nelle spelonche, detti Abduti che prima s’addimandavano Io-
gues” (II, p. 185); Botero: i religiosi indiani “son divisi in due sette, perché al-
cuni si maritano e vivono nelle città e ritengono il nome di Brammanni; altri
menano vita celibe e si chiamano [Ioghi], furono già detti Ginnosofisti” (III II,
p. 105).315
Mentre oggi ‘Bramini’ (o Bramani, o Brahmani) e Gimnosofisti si considerano
sinonimi (GDLI), all’Età moderna la classe sacerdotale indiana appariva piut-
tosto variegata, sia nelle credenze che nei comportamenti, alcuni dei quali
sembravano molto simili ai modelli occidentali. Queste coincidenze furono
spiegate in vari modi, e risultavano nel complesso meno stupefacenti di quanto
possa suonare alle nostre orecchie un ‘Bragmani Pythagorici’, perché era risa-
puto che India e Europa si frequentavano da ‘sempre’. Scambi fra civiltà medi-
terranee e India erano infatti ampiamente testimoniati: Diodoro, V X (I, p. 274-

314
E in nota vi è una ricca bibliogr. sulle due sette, a partire da Porfirio, De abstinentia; per
una bibliogr. sommaria sui Gimnosofisti cfr anche Firpo 1979, p. 66.
315
Cioè ‘sapienti nudi’, secondo il nome dato dai Greci a quegli asceti indiani, i fachiri, che
praticano lo Yoga e vivono nelle selve: Ficino, Relig., p. 6; Persio, p. 67; Maffei, I, pp. 79-80 e
181, dove dice che “massimamente i Giogue vengono per divozione a visitarlo [= il monte di
Adamo a Ceylon] di paesi lontani più di mille leghe”.
COMMENTO AL TESTO 409

7) narra che gli abitanti dell’isola indiana di Pancaia erano seguaci di Giove
Trifilo; testimonianze analoghe in Erodoto, III e Arriano, Alex., VI e De reb. In-
dic. Infatti, secondo una tradizione prevalente, facente capo al romanzo di
Alessandro, e testimoniata da Plutarco, Alex., 64 e Lyc., 4, 8; Cicerone, Tusc. V,
27, 77; quindi, attraverso la patristica, con Girolamo, Ep. ad Paulinum (PL
XXII, 541), Damasceno, Romanzo di Barlaam e Josafat (PL LXXIII, 443), Filo-
strato, Apollonius, pseudo-Ambrogio, De moribus Brachmanorum (PL XVII, 1131-
46), Palladio, II, 15, 17, 27, 30, 42; e ancora Clemente Alessandrino, Origene,
Tertulliano, Agostino,316 fino a Beauvais, SH IV LXVI-LXXI, i ‘gimnosofisti’ erano
reputati dai Padri della Chiesa i depositari di una sapienza naturale e di una
morale affine a quella cristiana, ritrovandone tracce anche in testi come la Let-
tera del prete Gianni317 o l’Intelligenza.318 Finalmente i viaggiatori moderni, come
Niccolò de’ Conti o Odoardo Barbosa (Ramusio, II, pp. 812 e 633), descrivono
i loro costumi, pur con notevoli abbagli (la Trimurti scambiata per la Trinità: v.
n. 126.17-8); Varthema dedica un capitolo apposito ai “Bramini, zoè sacerdoti
de Calicut”, investiti dal re dello jus primae noctis con la regina (p. 126-7); il
Botero già citato che ha desunto tutto da Maffei, I, p. 80; e infine Persio: Apol-
lonio, discepolo di Pitagora, “pervenne ai Brachmani, per ascoltare il grande
Hiarca… il quale discorreva con pochi disciepoli delle cose della natura, de’
moti delle stelle, e d’altre cose celesti” (p. 67).
Quest’ultima testimonianza, per giunta di un telesiano, prova che a fine ‘500
era consolidata la credenza nell’esistenza di rapporti culturali fra pitagorici e
bramini, e non solo in generici scambi e corrispondenze fra induismo e pa-
ganesimo, corrispondenze su cui più insisteva la tradizione classico-cristiana.
Strabone (che è forse una delle fonti principali, da cui C. aveva tratto l’inte-
laiatura ‘antropologica’, cioè degli ‘usi e costumi’ dei suoi “Bragmani” – se
ne riparlerà più avanti) aveva colto, tra i primi, alcune affinità di pensiero: “I
Bracmani sono havuti in buon conto, percioché più s’accordano con l’ope-
nioni de i Greci”; e dopo aver paragonato la loro teoria dell’anima a quella
platonica, il bramino Mandani “gli domandò se tra i greci si parlava di questa
maniera. Et rispondendogli Onesicrito che Pitagora similmente diceva di
queste cose, et comandava che non si mangiasse di cosa animata” (XV [II, p.
205-12]). La Patristica (escluso forse solo S. Girolamo) poi non nascondeva
un debole per i Bramini, proprio per le affinità con quella parte del pensiero
pagano che sentiva più prossimo a quello cristiano; e così Agostino, affian-
candoli appunto a quei pensatori pagani che con la sola ragione più si erano
approssimati ai dogmi della Rivelazione, implicitamente li apparentava: “Si
chiamino questi filosofi platonici… o siano pure gli italici, grazie a Pitagora e

316
Cfr B. Breloer e F. Bömer, Fontes historiae religionum Indicarum, Bonn 1989, 105sg.
317
“Bragmani infiniti sunt et simplices homines, puram vitam ducentes. Nolunt plus habere
quam racio naturae exigit” (p. 80).
318
“È gente che non pregia argent’od oro… nul compera o vende; / dilettansi nel ciel
senz’altro adoro” (str. 227).
410 LA CITTÀ DEL SOLE

ai pitagorici…; o siano infine i sapienti e i filosofi riconosciuti… dagli India-


ni, noti per aver insegnato questa dottrina: ebbene, tutti questi noi li mettia-
mo al di sopra degli altri e li riconosciamo più vicini a noi” (CD 8, 9). Analo-
ghi accostamenti fra sfere sapienziali diversissime li opereranno Ficino319 o,
più sfumatamente, Maffei (I, p. 79-80).
Clemente Alessandrino (358 e 362) riferisce il parere di Alessandro Poliisto-
re (nel De symbolis Pythagoricis), secondo cui Pitagora sarebbe stato allievo del-
l’assiro Zoroastro “et vult praeterea Pythagoram Gallos audisse et Brachma-
nas” (Strom. I XV-XVI); anche Lattanzio (Div. Inst. IV, 2) favoleggia di viaggi
d’istruzione di Pitagora in Oriente; e Filostrato, nella vita di Apollonio (in
Fozio), dice che dai Bramini “impium dogma de transmigratione animarum
per Aegyptios ad Pythagoram hinc credunt emanasse” (cit. da Paolino, Viag-
gio, p. 297). Martinetti ricostruisce l’intera questione dell’esatta collocazione
storica del viaggio in Oriente di Pitagora, il quale avrebbe trapiantato lì le
sue teorie filosofiche: secondo gli storici più antichi, come Abideno e lo stes-
so Poliistore (En tois Indikois – perduto), già all’epoca di Romolo “Pitagora da
lunghi anni era penetrato nelle Indie, e già li Gimnosofisti e li Cabiristi inse-
gnavano le tradizioni pittagoriche sul numero ternario, settenario e nono,
già da gran tempo avevano formato il misterioso triangolo pittagorico, da cui
dicevano sortire la dea Bhavani, ossia la natura. Li Maghi e Bracmani indiani
erano già pienamente istruiti del dogma parimenti Pittagorico dell’immorta-
lità dell’anima, e specialmente della trasmigrazione, motivo per cui non uc-
cidevano verun animale e si astenevano dal vino, dalla carne e dalle fave…”
(II, p. 235-41 passim). Tutta la ‘querelle’ su ‘chi insegna a chi’ verrà ben pre-
sto a stemperarsi nella bonaria ironia di Vico verso la teoria di Ornio,320 se-
condo cui Pitagora avrebbe compiuto “tanti lunghi viaggi” in giro per il mon-
do, arrivando “da’ ginnosofisti nell’India”, e poi tornando “ricco di sapienza
barbarica” nella sua patria (II XXXIV).
L’unica fonte che parla di una setta pitagorica extra-europea si riferisce ai
“Bancani” africani: narra uno storico portoghese cinquecentesco che nel
porto di Melinde, nell’Africa sud-orientale, Vasco da Gama viene visitato, tra
gli altri, da “alcuni huomini che chiamavano Bancani del sangue gentile del
medesimo regno di Cambaia: gente così religiosa nella setta di Pithagora,
che fino alla immondicia che generano ne i propri corpi etiandio non l’a-
mazzano, né mangiano cosa viva. De’ quali copiosamente trattiamo nella no-
stra geografia” (Barros, 71r-v). Un’agevole correzione della traduzione (o del-
la corruzione testuale) permetterebbe di identificare nei Bancani di Cam-
baia321 i Bramini indiani.

319
Sacerdoti-sapienti sono gli Esseni fra gli Ebrei, i “Brachmani” in India, “la medesima con-
suetudine fu in Grecia… sotto Pitagora” (Relig., p. 6).
320
Ottone Van Heurne, Antiquitatum philosophiae barbaricae libri duo, Leida, 1600.
321
O Gujarat (Magini, II, 184v), cioè la regione intorno al golfo di Cambay, a metà Cinque-
cento invasa dai “Mogori” che vi distrussero Campanel (v. n. 4.59).
COMMENTO AL TESTO 411

Una volta provato che i “Bragmani pitagorici” non sono il parto della fantasia
campan., c’è da chiedersi: perché proprio loro? Domanda complessa, da
scindere in tre distinte sottodomande (e risposte):
a) perché far recitare a una setta reale, per quanto esotica, il ruolo di protago-
nista della sua utopia? In generale: la curiosa associazione di esotismo e clas-
sicismo si spiega anzitutto in base alle coordinate mentali con cui il Vecchio
aveva inquadrato il Nuovo Mondo: i popoli nuovi erano assimilati a ‘idolatri’
o ‘gentili’, “in quanto il paganesimo era la categoria dell’alterità più capace
e priva di ambiguità… Questi popoli al di fuori della Cristianità erano ‘simi-
li’ a quelli vissuti prima del cristianesimo” (Leed 1992, p. 193); in partic.:
agli occhi di C. i Bramini hanno le caratteristiche ‘antropologiche’ ideali
per recitare il ruolo di comunità ‘naturalmente’ proto-cristiana (o post-cri-
stiana…). Leggendo Strabone (XV [II, p. 205-12]), la lista di affinità con
(usi e costumi di) CS è sterminata: educazione con maestri sempre più ele-
vati; vegetariani (i Solari lo erano stati [88.5-6]); sputare come segno di vita
viziosa (90.21); poligamia, ma i sapienti si astengono; ‘per chi ha filosofato’,
la morte è la rinascita alla vera vita; l’astronomia: geocentrismo in un uni-
verso perituro; la fisica si basa su cinque elementi (oltre ai quattro, vi è una
sorta di quintessenza come sostanza delle stelle), ma la cosmogenesi diver-
ge; la metafisica prevede un Dio che pervade la natura; affinità con la nu-
merologia dei Pitagorici, a cui muovono l’unico rilievo di anteporre la legge
alla natura; cremazione (o rogo agevolato da sostanze infiammabili); comu-
nità di beni (ristretta al clan); distruzione del superfluo per avversione all’o-
zio; vestono di bianco e calzano una ‘cuffia’. In base al principio campan.
che si può travestire la verità, ma non è lecito sconvolgerla neanche nelle
finzioni letterarie (Poët. IV X, p. 997), è probabile che lui abbia scelto questa
popolazione proprio perché le loro usanze rispecchiavano meglio il suo mo-
dello di società naturale razionale e la specificazione ‘pitagorici’ serve ancor
più ad attestarne la quasi-cristianità (come ha detto nella nota incipitaria e
ribadirà estesamente a 134.5-9): “Universa ergo Christi lex minime impossi-
bilis, et maxime secundum naturam comperitur, quam perficit, et exaltat.
Cui et boni stoici, et socratici, et pythagorici [sott. mia], quin etiam platoni-
ci, et omnes veri philosophi ita consensere, ut doctissimis patribus videantur
propemodum christiani” (Atheismus, p. 85).
b) In secondo luogo, sulla pista dei Bramini può averlo istradato un’altra delle
fonti cardinali di questo dialoghetto: dal paratesto e dal testo di More pote-
va infatti ricavare due convergenti ispirazioni: per quanto riguarda il testo,
gli “influssi induisti… nelle preghiere e negli addobbi sacerdotali”,322 a sua
volta ricavati dal trattatello dello pseudo-Palladio; per quanto riguarda
l’‘epistolario’ che precede il testo: 1) nella quartina in lingua e alfabeto uto-
piani coniati da Gilles si legge per due volte “gymnosophaon”, “gymno-
sophon”, che significa ‘filosofia’ e ‘filosofica’, ma richiama più propriamen-

322
Firpo 1979 (p. 65-6) rinvia all’art. di J. Derrett, T. More and Joseph the Indian (1930).
412 LA CITTÀ DEL SOLE

te i ‘gimnosofisti’ indiani (p. 64); 2) il ‘pitagorismo’ è la variante ‘pagana’


del comunismo evangelico, come risulta dalla lettera di Budé: “Cristo, in-
stauratore e regolatore del possesso, aveva lasciato tra i suoi seguaci la carità
e un comunismo pitagorico” (p. 82).
c) Infine: ‘perché proprio loro?’ può implicare ‘chi c’è dietro di loro?’ C. non
si sottrae a questi travestimenti (es. il “popol moresco” del sonetto 55, qui di-
ventato giapponese, alluderebbe in realtà agli Spagnoli [v. n. 54.19-20]). Se
di travestimento si trattasse, questi pur nobili filosofi ‘Gentili’, che non si so-
no limitati a imbalsamare Pitagora nel loro pantheon (18.1), ma continuano
a mettere in pratica i suoi ‘riti’ (12.4), sono la controfigura di una comunità
molto meno remota: C. considera se stesso (e i congiurati) discendente dai
Greci delle colonie calabresi, dove, secondo lui, è nato Pitagora, per il quale
ha una riverenza speciale, perché “i Pitagorici derivarono il loro sapere dagli
Ebrei” (Apologia); allora i “Bragmani pitagorici” cacciati dai “Mogori” non
sarebbero altro che i congiurati calabresi del ‘99, che cercavano scampo dai
predoni spagnoli sul monte di Stilo.

64.16-8: transmigrationem… Dei;


Credendo che la materia non si distrugge, ma si trasforma, era quasi scontato
per C. aderire alla metempsicosi,323 senza arrivare a quelle tentazioni diaboli-
che di cui parla in Senso (p. 136): “Se ogni un ha l’anima immortale, bisogna di-
re che vadino di corpo in corpo, come i Pittagorici fanno” (Epilogo, p. 479-80).
Ma Astrol. già specifica meglio: noi diventiamo simili a quelli che imitiamo, dal-
l’animale al dio, e in questo senso “i Pitagorici dicevano che le anime degli uo-
mini passavano nelle bestie e negli angeli e nei demoni, non, uti vulgus intelli-
git, per transmigrationem” (VII II, p. 4). C. ritiene che “la stanza dell’uomo” (il
corpo umano) è più organizzata di quella di tutti gli altri esseri viventi; anche
se tutti sono dotati di senso, non è possibile adattarla a tutti i corpi, “né l’anima
di un elefante si può mettere in una zanzara”. Se l’anima trasmigrasse nei cor-
pi delle bestie, dovrebbe farlo anche nelle piante e nei sassi, anch’essi dotati di
vita: tutto questo accade o in Ovidio o nel Purgatorio, “ma questi sono giudizi
divini, né si ponno intendere come li faccia, e li detti di Pitagora includono
qualche religiosità; ma oggi è empietà asserirli per legge di natura, salvo se Dio
per giustizia lo facesse qualche volta, come li Demonii anco nei corpi umani e

323
“Morendo le cose, rinascon altre secondo l’idea che, con li strumenti universali di Dio, Fa-
to, Armonia e Necessità, si imprime sempre in ogni materia; talché si è trasmutazione e non
morte. Si finirà il mondo e sue trasmutazioni, quando ogni cosa sarà fatta ogni cosa; e co-
minciò quando da nulla cosa ancora era stata fatta nulla cosa. Vedi la Metafisica” e cfr anche i
rinvii di Giancotti, p. 28 in Poesie, 3, Esp. 21 e 24. Anzi, Firpo, commentando l’Esp. degli ulti-
mi versi di questa poesia – “tutte le cose sono immortali in idea, ed universalità e per succes-
sione. L’anime non muoiono, ma cambiano paese, od al Cielo ovvero all’Inferno” –, scrive:
“Questa è l’interpretazione ortodossa apposta nel 1613; ma i versi scritti dieci anni prima ave-
vano forse un senso pitagorico (con reminiscenze bruniane?), alludendo alla metempsicosi”
(per la sorte delle anime nell’aldilà v. n. 124.21-7).
COMMENTO AL TESTO 413

di bruti animali entra noi… La trasmigrazione è dannata dai Teologi” (Senso, p.


137-8).324
La metempsicosi è un altro dei punti di contatto fra induismo e pitagorismo
(Diogene, VIII, 4-5), com’è desumibile da vari luoghi platonici (Phaed. 81e,
Phaedr. 248-9, Resp. 614-21); e neoplatonici: Plotino, Enn., 3, 4, 2, 15-30; Porfi-
rio, Vita, 19, 26, 45; Ovidio, Metam. XV, 160-5 (cit. in Poët. VIII IV); Lattanzio,
Div. Inst. III XVII (PL VI, 406); Giamblico, Vita, p. 63. Agostino si associa alla di-
sputa anti-reincarnazione di Porfirio con il maestro Plotino (CD 10, 30; 12, 27;
13, 19); Damasceno, De haeres., 462HI l’attribuisce a pitagorici, platonici e stoi-
ci; da Pletone emergerebbe invece che l’artefice e il fulcro principale d’irrag-
giamento fu Zoroastro: “questo sapiente è il più antico di quelli noti” e le sue
teorie, fra cui la metempsicosi (“l’anima vaga da un corpo all’altro in vista del-
l’armonia universale” [p. 267]), furono “professate anche da Pitagora e Plato-
ne”, nonché da “altri legislatori che vennero a contatto con Zoroastro, come
quello degli Indiani, che fu Dioniso” (pp. 79 e 253-9); e infine Della Porta (Fi-
sonomia I IV, p. 45) attribuisce a Pitagora la credenza nella reincarnazione (sul-
la scorta di Orazio, Carm. I XXVIII, 10; ripresa anche da C., ad es., in Poët. V II, p.
1011): “Pitagora… disse di essere stato Euforbo ed Etalide per dimostrare la
trasmigrazione delle anime” (oltre a Orazio, lo riportano i cit. Diogene e Por-
firio).

64.18-20: nec abstinent… indignum.


Indegno di esser chiamato uomo originariamente era il “nemico della ragio-
ne” (T.64.21); e analogamente a 66.28 “contra contumaces iuris naturalis et re-
ligionis” (T.66.36: “son contumaci alla ragione”). Bobbio (p. 21) le considera
due delle poche aggiunte (e varianti) significative dell’edizione latina: in en-
trambi i casi infatti si è infiltrato il diritto (statuale o naturale) e la ‘ragione’ è
diventata ‘religione’. Si tratta davvero di una variante significativa?
Nel tardo C., in effetti, la religione (naturale e quindi cristiana) è la ragione, in
quanto “ratio prima Dei Deus est, a qua sumus omnes naturali principio ratio-
nales” (Astrol. VII, p. 6);325 e quindi essendo tutte le cose guidate dalla Ragione,
il ribelle alla ragione è un ribelle alla prima Sapienza, e “gl’infedeli… son
membra ribelli e sudditi ribellanti, e decisi chi [= che] s’hanno a perdere” (Let-
tere, p. 48). ‘Ragione e religione’ è dunque quasi una dittologia sinonimica (in
quanto esseri razionali non possiamo non dirci religiosi): “coloro in cui rifulge

324
Stessa condanna in Metaph. XIV IV, II; Quod rem. 2, p. 231; Quod rem. 3, pp. 65 e 105-6; è ipo-
tizzabile inoltre che l’esplicita presa di distanza contro la trasmigrazione delle anime serva a
marcare la divergenza dalla dottrina professata, seppur contraddittoriamente, da Bruno nel-
la Cabala del cavallo Pegaseo.
325
Quod rem. 4, 1; Disc. univ. V (p. 1127); v. n.104 (glossa) §4, punto 1, per la duplice opposta
deduzione evincibile da Atheismus (p. 190), e il postulato che i mezzi della salvezza non man-
cavano anche prima dell’Avvento, tranne che per i ribelli alla ragione stessa: “Nunquam
enim Christus defuit ante incarnationem, nec deest ulli homini in his, qui sunt necessaria ad
salutem, nisi sint rebelles luminum” (p. 85).
414 LA CITTÀ DEL SOLE

la religione e la virtù dell’anima razionale li numererei tra gli uomini, anche se


non ci sono simili nella figura. Quelli invece, in cui non si trova ragione e reli-
gione, non appartengono alla nostra specie” (Theol. IV [II, p. 141]), e sono per-
ciò “non solo indegni di Dio, ma anco di vivere con gli uomini, perché guasta
l’anima della vita civile” (Poetica XVII, p. 373), concordando stavolta con Ari-
stotele, che in “primo Pol. cap. 3” asserisce che quelli “qui enormiter naturae
leges violant, armis subiugari debere, sicuti et caeteras bestias” (v. n. 32 [glossa]
§ 3, punto 3).
L’intera frase di 64.18-20 implica: a) un’altra eccezione al costume braminico
(Firpo): non credono alla metempsicosi e neppure (“Nec”) alla non violenza,
anche nei confronti degli animali; b) l’avallo (reso ancor più esplicito dall’“ho-
stem… religionis”) dello sterminio dei ‘selvaggi’ ostinati a non convertirsi, pre-
dicato diffusamente in Mon. Messiae,326 in Rhet. VII III327 e in Disc. univ. (XI [p.
1142]: o la croce o la spada). Benzoni (citato da C. in Doc. Gall., p. 95) narra
che furono “certi Frati dell’Ordine di San Domenico”, che “notificarono al Re
Don Fernando la maniera di vivere di queste generationi bestiali” di Indios,
per cui dal re “senza altra consideratione fu concluso che gli Indiani di terra
Ferma fussero dati per ischiavi, se non volessino però lasciare sì gravosissimi er-
rori, e volessino esser christiani e da gli Spagnuoli imparare l’ordine del vivere
da huomini” (35r), e solo una Bolla di Paolo III nel 1543 impose agli Spagnoli
“che gli Indiani fossero restituiti in libertà” (37v).

64.21-2: Secundo… lustrant,


Platone, Leg., 829b (una volta al mese); More, 196, 260 (due volte al mese);
Agostini, p. 150 (una volta al mese).

64.25: curant legendas historias


Fra le tante fonti della ‘historia magistra vitae’, la più prossima, e non solo tem-
poralmente, è la dedicatoria di Ulloa premessa a Barros, quasi tutta volta a que-
sto tema, dove C. poteva leggere fra l’altro: “il Capitano trova [nella storia]
stratageme e fatti di valore e fortezza, de’ quali si serva e prevaglia nella occa-
sione, e gli mostra gli errori e i pericoli, acciocché sappia guardarsi da essi”.

64.25-6: Moysi… Machabeorum,


Quattro nuovi esempi (assenti in Città) tratti dalla Bibbia, da affiancare ai quat-
tro eroi pagani; tre dei quali, già immortalati nelle mura (v. n. 18.8-9), imper-
sonano, nella tassonomia dei “principes” per natura o per fortuna, coloro i

326
Ad es. I, 7: “in bello iusto contra eos tantum, qui dignos se fecerunt, ut subiicerentur per
vim servituti, sicut bestiales”; ma in partic. XVII, p. 84sg, con la scusa che sono ‘antropofagi,
sodomitici e idolatri’.
327
Per tante ragioni è lecito che “gli Spagnoli spadroneggino sugli Americani”, in partic. per-
ché “è un’opera buona ricondurre i selvaggi alla dignità umana anche con la forza, come
quando si riducono alla ragione i pazzi” (p. 801).
COMMENTO AL TESTO 415

quali lo sono per entrambi i motivi (Mon. Messiae I, 7-8), escludendo quindi
Pirro (18.9), che aveva conquistato il regno con la sola forza e perciò l’ha subi-
to perduto (Mon. Messiae I, 9).

64.37: in venatione
Senofonte, Cyrop. I, 2, 9-11 ecc.; Platone, Leg. 824a; Plutarco, Lyc., 24, 4; vice-
versa (condanna) Porfirio, Vita, 7; More, 152-3 (la definisce “bassa macelle-
ria”); Giamblico, Vita [Theodoreto], XXI, p. 100 (i Pitagorici non cacciavano).
Nei due luoghi testuali successivi in cui ricorre (76.10 e 84.12), la caccia è pri-
ma affiancata ai ‘ludi’ paramilitari e poi all’agricoltura, alla stregua di una del-
le sette arti meccaniche, com’era appunto considerata in epoca premoderna
(cfr ad es. SH I LIII e v. n. 62 [glossa]).

64.39-66.1: Praeterea… regibus;


‘Quattro regni’ potrebbe esser una reminiscenza biblica, prima e più che stori-
ca (v. n. 2.6 § II): “si sono dileguate le quattro monarchie, alle quali, secondo
Daniele, farà seguito la nostra [Dan., VII]” (Supplizio, p. 161); la stessa eco ri-
torna in un testo carico di millenarismo e di oscure allusioni sulle sorti della
Spagna (“se non farà alcune cose secrete, quali interpretarò io a bocca, e se-
condo il presente modo di governo, caderà a terra”), destinata a segnare la “fi-
ne delle monarchie”, quale preludio all’“imperio felicissimo de Santi e della
Chiesa, il che sarà finite le quattro monarchie e morto l’Anticristo, secondo
Lattanzio… l’abbate Gioachino e infiniti altri teologi, filosofi e poeti, come al-
trove dichiarai” (Mon. Sp.1, p. 24-5) – ‘altrove’ significa, secondo Ernst, p. 25,
nella Secunda delineatio defensionum, abbozzo dei futuri Art. proph. Si vuol dire
che l’eventuale dato storico-geografico dei “quattro Reggi” (T.64.39 – che più
appropriatamente dei “regna” possono provare ‘invidia’) di Taprobana è forse
secondario rispetto a quello messianico, che vede una Città trionfare sugli im-
peri terrestri del male. Lo “Stato ecclesiastico”, riorganizzato secondo i sugge-
rimenti campan., risplenderà “tanto che ogni popolo degli altri prencipi l’invi-
dii e desideri esser sotto la Chiesa” (Disc. univ. IX [p. 1135] e XXIV [p. 1162]).

66.4-6: superstitiones… priscorum.


Maffei, I, 436: uno dei Re di Taprobana [= Ceylon], “come quasi tutti gli altri
principi indiani, seguitava la disciplina dei Bracmani, ed egli stesso era Brac-
mane”; e questi Orientali, malgrado tanti loro buoni costumi, sono però idola-
tri dediti a “Deos lapideos colere” (Atheismus X IX, p. 131).

66.9: nihilominus… Solares.


I Solari vincono sempre grazie anche ai ritrovati bellici noti e segreti di cui a
84.33-6. “La bellicosità degli indiani continuò a intrecciarsi in maniera con-
traddittoria con le immagini di una condizione pacifica e paradisiaca. Nel pri-
mo libro che utilizza i racconti dei viaggi per fabbricare uno specchio nel qua-
le gli europei potessero guardarsi e analizzare i propri difetti, l’Utopia di Moro,
gli abitanti di Utopia non sono pacifici” (Leed 1992, p. 195).
416 LA CITTÀ DEL SOLE

66.10-2: insultum… tyrannide


Quelle qui elencate sono le ragioni che, secondo C., fanno di una guerra una
‘guerra giusta’ (v. n. 144.10), e coincidono con le cause di apertura delle osti-
lità (68.1-2; e così anche in More, 190, 196-7 e 253).

66.14-6: Ubi… optimum.


“Perché molte fiate nel corso della guerra il capitano si mette ad imprese assai
malagevoli, è bene per inanimire i soldati incomminciar da Dio, sì perché si sti-
ma communememente che li giovi le giuste imprese, sì ancora perché i suoi
prendano fiducia, la quale è la metà della gagliardia; e pertanto devono prece-
dere le solenni benedizioni del sacerdote, l’oracolo divino, i bandi della guer-
ra giusta, come usavano i Romani prudentemente” (Poetica XVII, p. 371-2).

66.23: Deum Sabaoth,


È un’aggiunta di P. per dare un tocco di ebraicità a pratiche e rituali bellici pre-
valentemente romani (il ‘fecialis’, il Podestà-Dittatore, l’accampamento, l’inco-
ronamento…). Ger. 11, 20: “Tu autem, Domine Sabaoth… videam ultionem
tuam ex eis” (“Signore degli eserciti… che io possa vedere la vendetta che farai
di loro”; e ancora Is. [es. 1, 9], 3Esd. 9, 46).
“Precor Deum Sabaoth atque regem Christum eius [sic] ut tempus nullum nec
latebra detur pavidis hostibus” (Lettere, p. 307). Doc. Gall. si conclude con una
esortazione ai Francesi a liberarsi dall’infezione ereticale, altrimenti “Deus Sa-
baoth ipse providebit”. A 106.22, invece, i Solari invocano “Deum misericor-
diarum” per espiare (cfr 2Cor. 1, 3).

66.29: iuris naturalis


“Come dice il Giureconsulto, «il diritto di natura [ius naturale] è ciò che la na-
tura ha insegnato a tutti gli animali»” (Quaest. pol. IV II, p. 105). Non è un’au-
rorale evocazione dell’istinto, ma s’intende la legge che governa la specie (su-
periore a quella dell’individuo), come si ricava dagli Aforismi, che fondano la
teoria dello stato sul concetto di bene naturale; vi sono infatti due tipi di stati,
quelli basati sul “dominio naturale” e quelli basati sulla forza. L’opposizione ra-
dicale e originaria è dunque “natura”/“vis” (“Imperium vel natura, vel vi con-
stat”); la prima forma sociale, l’unione di maschio e femmina, s’impernia sul
“ben reciproco naturale”, e, a sua immagine, si formano tutti i gradi statuali fi-
no all’“unione di tutti gli uomini sotto la specie umana” nel precetto: “Societas
et communio secundum naturam haec est cum inter se conveniunt et coniun-
guntur illae personae, quae mutuam operam sibi possunt praestare ad bene vi-
vendum” (Afor., 89-90). La natura è il bene, al solito (cfr Cicerone, De leg. I, 42-
3 e 56: ‘non possiamo distinguere la bontà di una legge se non in base a una
norma naturale’), anche se con un’importante specificazione: il mutuo bene;
la legge miliare della natura sarà dunque quella enunciata a 134.33-5. Imma-
nenza e Provvidenza della legge naturale è assioma scontato nella patristica:
“Natura enim leges dicit: scimus ex nobis ipsis quid bonum et quid malum. Po-
suit Deus in natura nostra legem non scriptam, quae illustret mentes nostras.
Nullus dicat: nesciebam legem”, perché ad es. un adultero “erubescit si adulter
COMMENTO AL TESTO 417

vocetur”, e viceversa: “Dic casto: Caste; et nomen agnoscens, de appellatione


non erubescit”; e del resto, quando Adamo o Caino peccarono, prima dell’isti-
tuzione di qualsiasi legge, non si vergognarono forse e fuggirono dal cospetto
del Signore?328

68.6: armamentariis
“‘Armarium’ locus est ubi quarumque artium instrumenta ponuntur. ‘Armen-
tarium’ vero, ubi tantum tela armorum” (Isidoro, XV). A differenza di altri uto-
pisti coevi (es.: Agostini, p. 150), Doni sceglie il pacifismo radicale (“non v’era
arme da offendere o da difendere”).

68.9: ministris
T.68.12: “archebugi”; tutti i mss di Città e le due edizioni di Civitas riportano in
effetti “artiglieri”; ma Firpo 1948 motiva così la scelta della lezione di T., mal-
grado sia l’unica e la più antica: “appare inverosimile che i serventi dei pezzi re-
stino in permanenza al posto di combattimento anche in tempo di pace” (p.
252).
Poco sotto – 68.11: “quae cannones vocantur” –, la precisazione (rispetto a
T.68.13) dipende dal fatto che ‘cannon, -is’ è un neologismo per il latino,329
mentre in italiano è attestato a partire almeno da Machiavelli (prima testimo-
nianza del GDLI). Tale precisazione manca per “bombarda” (usato molto più
spesso: 4.17, 18.22), perché ritenuto nome appropriato: “I nomi debbono sca-
turire dalle stesse cose cui vengono imposti, come ‘bombarda’ dall’ardente
rimbombo di tale strumento” (Gramm. III IV, p. 707), che “dà l’idea dello scop-
pio” (Poët. IV IV, p. 977; Salmodia 86, 47-8: il tuono “come bombarde, / rim-
bomba ed arde”); infatti C. consiglia di evitare neologismi, a meno che non sia-
no indicate con esse cose nuove, come la “bombarda” o l’“archibugio” (Rhet.
XII III, pp. 883 e 893).

68.14: et sic… praeliantur.


Solitamente “marciamo con la vanguardia e battaglia [= battaglione] avanti, do-
po le quali viene l’artiglieria con le sue munizioni, le bagaglie li succedeno ap-
presso, dietro alle quali segue la retroguardia, che chiude il campo”, ma questo
è uno schieramento molto vulnerabile alle scorrerie della cavalleria nemica; in-
vece sarebbe preferibile che le salmerie procedessero serrate dai carri posti in
quadrato e protette da archibugieri posti in mezzo, per cui è “come se fosse una
cittadella che caminasse dietro” all’esercito (Brancaccio, p. 58-60). Brancaccio è
contrario all’asserragliarsi in cerchio: “le battaglie tonde nulla vagliono per noi”
agli assalti della cavalleria, che facilmente si apre un varco fra le picche, “perciò

328
Crisostomo, De fide et lege naturae (III, 903AB); De creatione hominis (V, 116-7) – v. 64.28-31,
n. 104 (glossa) § 4, n. 134.5-14.
329
“Li stromenti da gettar arme di tratto, che Cesare chiama ‘tormenta’, servivano all’hora
come oggi a noi l’artiglierie” (Brancaccio, p. 50 [glossa]).
418 LA CITTÀ DEL SOLE

che se da una circonferenza voi tirate linee in fuora, per strette che le pongate
nel circolo onde nascono, si trovaran sì larghe quando saran tirate in fuora,
quanto è la lunghezza di due terzi di picca… che non solo fra due picche potrà
entrar facilmente un cavallo senza poter esser offeso, ma dui anco insieme” (p.
102-3). Per Brancaccio L., l’usanza di molti carriaggi in combattimento era con-
troproducente (per quanto si dirà a n. 68.35-70.7), e, pur non disconoscendone
l’utilità, proponeva almeno di limitarne il numero: “e ancor che i carri, che s’u-
sano in questo paese, siano utili, e quasi necessarii, per guarnire i fianchi dell’e-
sercito, come anche per tenervi sopra monizione e vettovaglie, contuttociò non
dovrebber passare il numero di 150 per fianco in una fila” (p. 144).

68.18-25: Mox… hostes.


Anche Machiavelli dava somma importanza alle bandiere, “mentre si tengono
piuttosto per fare bella una mostra che per altro militare uso. Ma gli antichi se
ne servivano per guida e per riordinarsi; perché ciascuno, ferma che era la ban-
diera, sapeva il luogo che teneva presso alla sua bandiera e vi ritornava sem-
pre… Però è necessario in uno esercito che vi sia assai corpi, e ogni corpo ab-
bia la sua bandiera e la sua guida” (II, p. 505). Tali segnali di guida e riconosci-
mento sono fondamentali nello schema di battaglia da lui suggerito e praticato
da “tutti i capitani eccellenti”: dopo aver disposto l’esercito in modo che il fian-
co più debole risultasse in corrispondenza del fronte nemico più forte e vice-
versa, bisogna ordinare alla schiera più debole di lasciarsi vincere e ritirarsi;
“questo genera due grandi disordini al nimico: il primo, ch’egli si truova la sua
parte più gagliarda circondata; il secondo è che, parendogli avere vittoria subi-
to, rade volte è che non si disordini” (III, pp. 512 e 539). Il segreto del loro suc-
cesso consisteva nel fatto che “le milizie romane erano ordinate sempre a un
modo… trovandosi ciascun sotto la sua insegna e nel suo costumato luogo”, al
contrario di quel che accade oggi, in cui “non solo un de’ nostri soldati, ma ne
anco una squadra intiera fusse collocata ben oggi come ieri a un modo istesso
nelle battaglie” (Brancaccio, p. 86). Circa la tattica di combattimento, Bran-
caccio avversa l’usanza diffusa della carica dell’intero battaglione di cavalleria
serrato in quindici, venti fila, perché in tal modo solo le prime due combatto-
no, e “a partire dalla terza e quarta indietro, non è sì sciocco uomo da cavallo,
che non veda chiaramente ch’è impossibile a poter mai arrivar con la sua lan-
cia a ferire il nemico, ma si ben le spalle delle fila de’ suoi compagni, che le sa-
ranno avanti” (p. 181; si veda la tecnica a file alternate dei Solari a 72.16); in-
vece è meglio frazionare il battaglione in tanti squadroni, “e venendosi a dar
dentro, chiara cosa è che caricarà la prima fila, e poi (se bisognarà) la seconda,
sostenendo in tanto l’altre… e dove e’ [= il nemico] si credeva inghiottirvi co ‘l
suo gran fronte, si trovarà impensatamente in mezo a forbici e tenaglie, che te-
se in tanto gli avrete in un baleno per li fianchi, restando sempre intiero, e più
che mai ordinato e fermo il vostro fronte col resto delle fila dietro per soccor-
so nei bisogni. Onde è forza che il nemico in luogo di sbarattarvi, com’ei pen-
sava, resti egli preso nella rete” (p. 187-8).
La finta ritirata è una tattica adottata anche dai Tartari (menzionati a 72.9), se-
condo Polo: “quando i Tartari combattono co’ nemici, mai si meschiano total-
COMMENTO AL TESTO 419

mente con loro, anzi continuamente cavalcano a torno qua e là saettando, e al-
le volte fingono di fuggire, e fuggendo saettano da dietro li nemici che segui-
tano, sempre uccidendo cavalli e uomini come se combattessero faccia a faccia;
e a questo modo i nemici credendo aver avuto vittoria, si trovano aver perso, e
allora i Tartari, vedendo avergli fatto danno, ritornano di nuovo contra di loro,
e quelli virilmente combattendo conquistano e prendono” (Ramusio, III, p.
140). Anche i Nairi, secondo Maffei, “confidano assai nella fuga… Con ugual
celerità e seguitano e si partono… ed ora con veloce corso assaltano il nemico,
ora facendosi indietro, quando il bisogno lo richiede, subito si ritirano, e fatta
una testudine o palvesata si cuoprono di maniera tutti sotto lo scudo, che non
vi resta alcun luogo di ferirgli” (p. 81-3).

68.21: cornua et agmina


“Alae in exercitu triginta equites esse dicuntur, quia tegunt pedites alarum vi-
ce. ‘Cornua’ vocata sunt extremitas exercitus, eo quod intorta sit. ‘Agmen’ di-
citur cum exercitus iter facit, ab agendo vocatus, id est eundo, ipsum est enim
exercitus ambulans [= schiera in marcia]. Nam agmen proprie dicitur quod in
longitudine directum est, quale solet esse cum exercitus e portis procedit; quic-
quid fuerit aliud abusive dicitur” (SD VII XIII). “Servono queste due corna a te-
nere tra quelle l’artiglierie quando questa battaglia ne avesse con seco, e i car-
riaggi”; è migliore una legione quadrata, “pure, volendo assicurare i disarmati,
quella cornuta è necessaria” (Machiavelli, II, p. 503). C. esorta gli aspiranti
poeti epici a dotarsi dei rudimenti della tattica militare, “dove si devono collo-
care i fanti, i cavalieri, le bombarde, i frombolieri… in che posto [il coman-
dante] deve sempre esser presente e disporre variazioni, mutando l’ordine del-
l’esercito in cunei, in cerchi, in rettangolo, in quadrato; dove si debbono collo-
care… le ali [= cornua] e il centro, le disposizioni a mezzaluna o d’altra forma”
(Poët. VIII IX, p. 1131).

68.26-7: Stratagematis… mortales;


Superiorità tecnico-tattica enunciata di nuovo a 84.32, senza esplicazione e an-
zi ricorrendo agli ‘arcana’.

68.27-9: castrametantur… mirifica.


Il ‘castrum’ romano, descritto da Vegezio (De re milit. I, 24) è “circondato da un
terrapieno alto tre piedi [= circa un metro] coronato da una fitta palizzata; il
fossato esterno doveva essere profondo da sette a nove piedi a seconda della vi-
cinanza del nemico” (Firpo 1979, p. 278). Fonti rinascimentali sulle tecniche
di costruzione degli accampamenti militari potevano essere: Machiavelli, VI, p.
572sg, e i “numerosi tentativi di ricostruire con disegni la ‘castrametatio’ de-
scritta da Polibio” (Kruft, p. 78), ripresi da Alberti V X, da Machiavelli stesso
(fig. 7, p. 630-1), nonché dallo stesso Brancaccio, che rinvia alle edizioni “in
volgare dello Strozzi e del Cavalcante” (p. 19).
Invece le macchine belliche, l’abilità dei genieri militari, il combattimento al-
l’ultimo sangue con la spada (72.19), la punizione ‘circense’ (74.16) o gli alle-
stimenti trionfali per la vittoria (72.21), sono tutti tratti da More, 201-20.
420 LA CITTÀ DEL SOLE

68.30-1: ligone… norunt.


I migliori soldati sono quelli del “contado”, perché sanno “adoperare il ferro,
cavare una fossa, portare un peso” (Machiavelli, I, p. 465). “Se fu mai homo
che sapesse ben servirsi della zappa e della pala, Cesare fu quel d’esso”; e noi
invece non abbiam imparato nulla da lui, compreso il “saperci ben servire del-
la zappa e della pala” (Brancaccio, p. 38, rimproverando il poco conto in cui
erano tenuti negli eserciti i “soldati guastadori”, cioè i genieri).

68.32: quinque aut octo aut decem


“Nelle città principali… far erigere cinque o otto o diece piazze o seggi di no-
biltà baronale, come son fatti in Napoli” (Mon. Sp., p. 124); l’espressione “otto
o diece” è usata spesso anche da Brancaccio (pp. 15, 150, ecc.). Machiavelli de-
scrive dettagliatamente l’organico di un battaglione in assetto di guerra: “uno
conestabile, quattro centurioni e quaranta capidieci; e di più un capo a’ veliti
ordinarii, con cinque capidieci. Darei alle mille picche estraordinarie tre cone-
staboli, dieci centurioni e tre capidieci… Ordinerei dipoi un capo generale di
tutto il battaglione” (II, p. 493); tutti questi capi sono indispensabili “perché
uno muro il quale da ogni parte inclini vuole piuttosto assai puntegli e spessi”
(II, p. 505).

68.35-70.7: Solent… amor.


Senofonte, Cyrop. IV, 3; Platone, Resp. 466e-468a, 471d e (quasi alla lettera)
537a; Tacito, Germania 7, 2. C. esorta la Spagna a “far seminarii apposta di tutti
li secondogeniti delli baroni [mandandoli] a noviziato in guerra, come vi andò
Annibale di nove anni” (Mon. Sp.1, p. 44);330 e, poco sotto (68.40), l’idea di far-
si accompagnare anche dalle donne gli è stata suggerita dalle stesse fonti gre-
che: “usavano gli antichi Persiani, per testimonio di Senofonte [III III, 67], me-
nar le donne in guerra per accender gli animi de’ soldati a gara di non esser su-
perati nell’armi da una donna, e per amor di quello [onore], il quale vivifica i
cuori, si eccitassero a maggior prodezze e tenessero a vergogna l’opere vilissi-
me. Questo punto essere molto necessario disse Platone [452a, 468c e 471d]
negli eserciti, e l’osservò la regina Isabella in Spagna, quando acquistò il regno
di Granata” (Poetica XVI, p. 368-9); le donne in battaglia “incoraggiano gli altri
con l’amore e l’emulazione, per non parere più deboli delle donne: l’amore
infatti rende fortissimo il guerriero di fronte alla donna amata” (Poët. VIII IX, 7;
Politica IX, 21), idea accolta anche a Utopia (More, 214). Invece Brancaccio L.
è contrario, per ragioni pratiche (ostacolano la marcia dell’esercito e lo rendo-
no più vulnerabile agli attacchi nemici) e proponeva, come fanno i Romani, di
lasciare i carriaggi in uno spazio fortificato: “non è cosa che sia più soverchia e

330
Esempio replicato in Poetica XVII, prendendo spunto dall’esempio di Ascanio ed Enea,
“acciò s’impari a mandare in guerra i figliuoli per farli venire gran capitani, come fu Anniba-
le appresso il padre Amilcare; e i Veneziani saviamente mandano i fanciulli con le galere per
imparare l’arte paterna della milizia navale” (p. 370; cfr anche Mon. Sp. XV, p. 144).
COMMENTO AL TESTO 421

che dia maggiore storpio a’ nostri esserciti che il molto bagaglio, che si condu-
cono appresso, com’anco la moltitudine di servitori, donne ed altre gente inu-
tili… non permettendo se non alcune donne per li servitii necessarii dell’eser-
cito” (p. 129-31).

70.7-14: In certamine… accipiunt.


Se per i Solari il denaro non ha alcun valore (e infatti già Platone [Resp. 468b,
Leg. 942c] e Plutarco, Lyc. 83 suggerivano l’identico dono simbolico), tuttavia
anche il re di Spagna verso i soldati valorosi “non deve esser solo remunerator
di denaro, ma anco l’onore significato con qualche corona d’oliva o di quercia,
come facevano i Romani, che questo importa più per non aver da spender tan-
to, e per averli più fedeli” (Mon. Sp.1, pp. 45 e 78 per i navigatori, replicato in
Mon. Sp. XV, pp. 150 e 98: v. n. 154.28-156.5). Quasi letteralmente in Disc. univ.
XV (p. 1149): il Papa dovrebbe premiare chi combatte gli infedeli: “a chi pri-
mo saglie le mura, una corona di gramigna; a chi conserva il vicino a sé com-
pagno, di quercia; a chi vince, di lauro; e usar che per tali premi e non per da-
nari guerreggino, perché la fede e potenza comparata per denari se revende
per danari ancora” (v. anche 72.27sg).
Machiavelli riassume così i premi dati dai consoli romani ai soldati: “a colui che
combattendo salvava la vita ad uno suo cittadino, a chi prima saliva sopra il mu-
ro delle terre nimiche, a chi prima entrava negli alloggiamenti de’ nimici, a chi
avesse combattendo ferito o morto il nimico, a chi lo avesse gittato da cavallo.
E così qualunque atto virtuoso era da’ consoli riconosciuto e premiato e publi-
camente da ciascuno lodato… delle quali cose converrebbe osservare la mag-
gior parte” (VI, p. 582-3). Anche a Sforzinda, dove pure regna l’economia mer-
cantile, la premiazione di chi si è distinto nelle varie gare ginnico-militari con-
sisteva in una “ghirlanda” (ad es. di gramigna a chi correva più veloce); e que-
ste ghirlande erano poi portate in processione al Tempio in dono (Filarete, p.
547-9). E del resto tale ricompensa onorifica era ancor vigente nel ‘500: Maffei
narra che un condottiero portoghese, Emmanuele Cernicio, malgrado fosse fe-
rito e fosse riuscito a porsi al riparo, avendo visto un suo compagno circondato
dai nemici, “tornò subitamente indietro”, pose in salvo l’amico “con sua gran-
de o mercede o gloria; perciocché per consenso di tutti meritò la corona civi-
ca” (I, p. 554). Si chiama ‘civica’ la corona “che un cittadino dà a un altro cit-
tadino che gli ha salvata in combattimento la vita e assicurata la salvezza. Essa è
di fronde di quercia, perché nei tempi antichi il cibo e il nutrimento erano
tratti dalle querce” (Gellio, V, 6).

70.16-9: pistolas… armaturam.


Quanto segue (“Nam si nequeat ferrea armatura… pistola forari”) è in con-
traddizione con la presente asserzione che questi semi-archibugi “penetrant
omnem ferream armaturam”. La storia testuale può forse aiutare a spiegare l’a-
poria: il solo T.66.23 riporta un generico “perciò fanno gran passata”, sostituito
fin da R. con “passano ogni armatura” (v. 70.21 e 26 in ‘Apparato delle varianti
di α’), che rende l’espressione più chiara, ma anche più decisa e quindi di-
422 LA CITTÀ DEL SOLE

scorde con la precedente. È strano che l’Au. non se ne sia accorto nelle succes-
sive revisioni testuali – salvo che quell’“omnem” vada preso non alla lettera, ma
sia idealmente attenuato da un ‘quasi’.
In seguito all’evoluzione della cavalleria dovuta all’introduzione delle armi
da fuoco, “anche l’uomo d’arme sentirà il bisogno di alleggerirsi, d’abban-
donare la lunga lancia divenuta troppo pesante e ingombrante, sostituendo-
la con due o più lunghe pistole all’arcione, e di porsi in linea coi suoi pisto-
lieri. Ma il prevalere di questa cavalleria si farà manifesto solo nella seconda
metà del sec. XVI, a partire dalla battaglia di San Quintino (1557)” (Pieri, p.
255; infatti la cavalleria utopiana è ancora priva di armi da fuoco [More,
220]). La pistola a ruota per i cavalieri, impugnata con una sola mano pur es-
sendo di notevoli dimensioni, fu il primo passo di un congegno da sparo
completamente meccanico: invenzione italiana risalente all’incirca al 1520,
era dotata di una canna di metallo particolarmente resistente per non incri-
narsi allo scoppio e di diametro costante; i primi esemplari a canna rigata ri-
salgono al 1525, impiegati a scopi militari solo nel 1631 in Germania da squa-
droni di cavalleria (St. della Tecnol. III, pp. 361 e 364): nessun cenno a canne
coniche. Brancaccio dice che tutte le cavallerie europee “portano general-
mente lancie, dal Thedesco e Boemo in fuora, che portano dui archibugietti
corti allo arcione del cavallo, de’ quali si servono in ogni occasione, che por-
tavano essi ancora gli anni a dietro, partendosi allhora la milizia de’ lor ca-
valli la metà in lancie con grave armatura e gran Cavalli, e la metà in archi-
bugietti ch’essi chiamavano, come fanno ancor oggi, Raitri e noi Ferraruoli”
(p. 177). Tuttavia, anche ammesso che non siano davvero esistite armi di que-
sto genere, non è accoglibile l’interpretazione di Amerio (“di piccolo cali-
bro”), perché il testo specifica solo che sono più strette “in orificio”. Pertan-
to potrebbe trattarsi di un’altra delle ‘invenzioni’ campan. (prive però di una
tecnologia matura per realizzarle) che si ispira agli strumenti quotidiani (co-
me le navi senza vele, i cui ‘motori’ si basano sul ventaglio o il filatoio [160.5-
19]); in questo caso il modello è la cerbottana, che sfrutta l’effetto Venturi
restringendo il tubo alla bocca d’uscita.

70.19-20: Macheram… pugionem.


“‘Machera’ est gladius longus ab una parte acutus… [è un grecismo, come atte-
stava già Macrobio, Saturn. VI, 4, 22]. ‘Pugio’, a pungendo et transfigendo voca-
tus est; est enim gladius parvus, bis acutus lateri adhaerens” (Isidoro, XVIII VI).

70.20-1: Alii… milites.


Che si tratti di cavalleria (e non di fanteria), oltre all’edizione Fr. (dove era
“equites” in luogo di “milites”), lo conferma il paragr. che segue. Il nerbo del-
l’esercito è dunque composto dalla cavalleria, leggera (con armi da tiro: pisto-
le e/o archibugi, lance, fionde) e pesante (con le mazze ferrate). Premesso che
per Machiavelli “il nervo e la importanza dello esercito è la fanteria” pesante,
egli comunque armerebbe così la cavalleria: “i cavagli leggieri vorrei che fusse-
ro tutti balestrieri con qualche scoppiettiere tra loro”, utile solo a seminare pa-
nico nelle file nemiche; mentre la cavalleria pesante, in analogia alla fanteria,
COMMENTO AL TESTO 423

è “armata di spade o picche” (II, p. 510; e cfr anche II, p. 485-93). Brancaccio
ricorda che, come nelle legioni romane vi erano “gli armati alla leggiera e gli
armati più gravemente, quelli per scaramucciare e attaccare alle volte un fatto
d’arme, e questi per serrare e dar dentro”, così oggi “le nostre cavallerie d’or-
dinanza sono partite generalmente in due qualità di soldati, l’una è d’uomini
d’arme, e l’altra di cavai leggieri; quei di grave e questi di leggiera armatura;
quei con gran cavalli e spesse volte barde, questi con mediocre e senza barde…
L’uomo d’arme [è] tenuto con ragione vera base e fondamento della guerra
fra le milizie cristiane” (pp. 19 e 179).

72.9: Tartaros
Tra il ‘95 e il ‘96, rinchiuso nel convento di S. Sabina, C. dedica il perduto Trat-
tato dell’arte cavaglieresca a Mario Del Tufo, presso i cui allevamenti pugliesi di
purosangue era stato ospite sei o sette anni prima; nel Trattato “è probabile che
si descrivesse l’artificio per il quale i soldati a cavallo potevano essere in grado
di adoperare «ambo le mani senza tener la briglia, e guidar bene il cavallo per
ogni verso meglio ch’i tartari»” (Formichetti 1999, p. 35).
Tutti i viaggiatori sono meravigliati della straordinaria abilità equestre dei Tar-
tari; a partire da Marco Polo: in battaglia “hanno li lor cavalli così ammaestrati
a voltarsi che ad un signo si voltan in ogni parte che vogliono, e in questo mo-
do hanno vinto molte battaglie”; Sigismondo di Herberstein: “Hanno le selle e
le staffe di legno… Nel cavalcare servano questo costume, che, contratti e riti-
rati in su li piedi, siedono nella sella, accioché più facilmente in l’uno e l’altro
lato si possano rivoltare; e se per sorta qualche cosa fosse caduta, e che biso-
gnasse torla su di terra, fermatisi nelle staffe senza fatica veruna la tolgono su,
nella qual cosa sono così esercitati che eziandio correndo velocemente li caval-
li fanno quel medesimo… Hanno li freni leggierissimi, e certi flagelli… in luo-
go de’ speroni usano” (Ramusio, III, p. 836); solo un accenno nella pur ricca
trattazione di Mandeville, CLVII: “elli sono tutti boni arcieri e così bene corre-
no le femine come li homini” a cavallo. Parlando della Grande Muraglia “dalla
banda de’ Tartari” e dell’esercito cinese, Maffei dice che i cavalieri “entrano in
battaglia molto ben guerniti e armati, e portano quattro spade che pendono
dall’arcione della sella, e combattono con due spade per volta con molta de-
strezza”.331 Comunque Botero riferisce che “sono i Tartari bonissimi a cavallo,
destrissimi nell’essercizio dell’arco”, che è “la loro arma principale… Nelle bat-
taglie non vengono alle strette co’ nemici, ma li combattono or di fronte or di
lato, con una perpetua tempesta di saette, alla guisa dei Parthi” (II II, p. 58-60 –
e anche l’uso dell’arco richiede entrambe le mani libere).

331
I, p. 389 – il che implica che le briglie non sono governate a mano: C. potrebbe aver asso-
ciato Cinesi e Tartari? In Lettere1 Cina e “Tartaria” sono adiacenti: “Far che le carra caminino
per terra… meglio che non s’usa nella China. Probabile. Far che li soldati a cavallo adoprino
ambe le mani senza tener briglia con quella, e guidar bene il cavallo per ogni verso, meglio
che non s’usa in Tartaria. Probabile” (p. 24).
424 LA CITTÀ DEL SOLE

72.14: hastis,
Brancaccio invece toglierebbe “via tutte le picche (in quanto alla campagna [=
battaglia campale]) e mi servirei talmente dell’archibugio con alcune poche
arme per tutti i fronti in luogo di picche”, malgrado siano considerate “il nervo
della guerra” (p. 106); e bisogna imparare a servirsi dell’“archibugio, per esser
la più fiera e tremenda arma (portabil, dico, e trattabile per man d’un uomo)
di quante se ne hanno inventate dalla creazion del mondo in qua; però quanto
ella è furiosa e orribile stando nel suo forte come è a dire alberi, siepi… e simi-
li altri siti malagevoli per i cavalli, altrettanto è debole e di poco momento in
campagna rasa” (p. 109 – l’archibugio non era dunque arma da cavalleria).

72.25: poëta vel historico,


La coppia è ampiamente collaudata (ad es. Lattanzio, Div. Inst. I VIII: “tam poe-
tae quam historici”). “Se leggi gli storici e i poeti che hanno scritto delle spedi-
zioni spagnole, ti sembrerà che essi siano andati quasi a caccia di indigeni”
(Mon. Messiae XVIII, p. 84). “Che differenza è… tra l’istoria e il poema?… Nel-
la forma dell’elocuzione… Dipinge la poesia con traslati e figurati, con epiteti
alti e risonanti, che fanno numero e piacevolezza al gusto accomodate, il che
non fa l’istorico, perché delinea solamente quello che narra” (Poetica V, p.
322); il poeta non differisce dallo storico, “come crede Aristotele, perché lo
storico tratta azioni particolari”, ma perché lo stesso evento “dallo storico è de-
scritto come fatto, dal poeta è usato come esempio”, e dunque ha una portata
universale (Poët. IV IX); ruolo, quello di storico, che in uno stato ideale dovreb-
be esser assolto da “buoni religiosi e predicatori”, i quali “notino in libro i gran
gesti di qualche soldato, e riferirli al Re al tempo della rimunerazione, perché
il mancamento di questo fa che si ritirino i baroni dalla guerra dicendo: Qui
non è presente il re mio, che vegga le mie prodezze, né voglio star soggetto al-
la relazione d’invidioso capitano” (Mon. Sp.1, p. 45; Mon. Sp. XV, p. 148).

74.3-4: quoniam… amicis.


Gli Spartani “si consideravano ininterrottamente al servizio non di se stessi, ma
della patria” (Plutarco, Lyc. 24, 1; v. 32.18-9).

74.8-10: nisi cum… recipiunt.


I militi “che sono delinquenti per man de tutti i soldati devono morire, e non del
capitano, per levar da sé l’odio, e spesso perdonarli a prieghi di tutti” (Mon. Sp.1,
p. 45; Mon. Sp. XV, p. 144), passo questo che richiama anche 100.25, dove pure la
collettività tutta, e non il singolo, si fa carico della funzione di giustiziere; in en-
trambi i passi, si tratta di ‘spersonalizzare’ l’esecuzione capitale: è l’intero corpo
che reseca il membro infetto (100.35). “Mai il principe infligga, in proprio nome
e con propria mano, male per colpa contro chicchessia; infligga tuttavia il male a
fin di pena, ma solo di quel tanto che i popoli desiderano, come spogliare gli usu-
rai e i magistrati rapaci…” (Politica XI, 9); inoltre al duce si richiede “la giustizia
distributiva degli premi e delle pene secondo i meriti” (Poetica XVI, p. 361).
Platone, Resp. 468a prevede invece la destituzione dei vigliacchi dal rango di guar-
diani a quello di lavoratori. Machiavelli ricorda che “i Romani punivano di pena
COMMENTO AL TESTO 425

capitale chi mancava nelle guardie, chi abbandonava il luogo che gli era dato a
combattere… se alcuno avesse per timore gittato via l’armi”; una di queste puni-
zioni consisteva in questo: dopo aver ricevuto dal console una leggera frustata, “al
reo era lecito fuggire e a tutti i soldati ammazzarlo: in modo che subito ciascuno
gli traeva sassi o dardi, o con altre armi lo percoteva… e radissimi ne campava-
no… Vedesi questo modo essere quasi osservato da’ Svizzeri, i quali fanno i con-
dannati ammazzare popularmente dagli altri soldati. Il che è bene considerato e
ottimamente fatto; perché, a volere che uno non sia difensore d’uno reo, il mag-
giore remedio che si truovi è farlo punitore di quello: perché con altro rispetto lo
favorisce e con altro disiderio brama la punizione sua quando egli ne è esecutore
che quando la esecuzione perviene ad uno altro”, col doppio vantaggio di “levare
i tumulti e far osservare la giustizia” (VI, p. 582-3; cfr anche Principe VII, l’episodio
di Ramiro de Lorqua, spesso menzionato da C.).

74.14: bestiis
‘Bestia’ sarà usato in seguito (80.36 e 82.16) nel significato di animale domesti-
co, mentre per ‘bestia feroce’ utilizzerà ‘fera’ (84.12); Isidoro avvertiva invece
che “‘Bestiarum’ vocabulum proprie convenit leonibus, pardis… ac caeteris
quae vel ore vel unguibus saeviunt, exceptis serpentibus… Ferae vero sunt ap-
pellatae eo quod desiderio suo ferantur naturali utentes libertate. Libere enim
huc illuc vagantur et quo animus duxerit eo feruntur” (in SN XIX I).

74.16: leones et ursos


“Vicino è il dì, che le cervici altiere / e i colli torti e le lingue bugiarde / farà
pasto di tigri, orsi e pantere” canta in un sonetto giovanile, certo della prossima
punizione dei tiranni (Poesie, p. 488).

74.26-7: exploratoribus… excubiis


“È necessario avere spie nella pubblica piazza, in chiesa, nei porti e nelle case
dei potenti, a maggior ragione presso le corti dei principi con vicini; promette-
re opportunamente premi, pene e indulgenza a coloro che forniscono infor-
mazioni” (Politica XIII, 29; v. n. 62.13-7). ‘Sentinelle e spie’ sono accomunate
anche in Garzoni: le “spie” sono “quelle sorte di persone che van secretamente
per gli esserciti, dentro alle città, esplorando i fatti de’ nemici, per riferirgli ai
suoi” (XCVII, p. 1127); “Capitan di Guide” è uno dei tanti “carichi militari”, di
cui tratta Brancaccio L., p. 203.

74.35: de stratagematis
Solo da T.74.42 (“delle stratagemme e altri”) si evince che originariamente sot-
tintendeva quei “magistri” in stratagemmi (62.25), soggetti allo “Stratagema-
rius” (98.12; v. n. 32.35).

76.15-8: Si muros… faciunt.


Per questo intero capoverso la sua memoria sarà andata ai celebri versi virgilia-
ni: “Tu regere imperio populos, Romane, memento. / Hae tibi erunt artes pa-
cisque imponere morem: / Parcere subiectis et debellare superbos” (Aen. VI,
851-3, cit. in Syntagma IV III).
426 LA CITTÀ DEL SOLE

“Chi occupa un altro regno deve eliminare i capi, mutare le leggi, abbattere le
rocche, estinguere la stirpe regale, e tutto quel che va fatto agli abitanti va fatto
‘subito ac simul, in eodem die victoriae, manibus et nomine militum et du-
cum’; invece i benefici vanno fatti lentamente, dopo la vittoria, a nome proprio
e con le proprie mani” (Aphor. e Politica XI, 8, che traduce l’Afor. 100; Mon. Sp.
XXVII, p. 292): effettivamente questo aforisma rende molto più scoperta la
subdola machiavelleria (v. n. 60.23-4, n. 74.8-10), che intuiva già Donno: “No-
nostante egli detestasse le idee politiche di Machiavelli, C. sembra riecheggiar-
ne una massima: ‘qualsiasi ingiuria un vincitore debba infliggere sul nemico
dovrebbe esser inflitta in un colpo solo se possibile’ (Il Principe, cap. 8)”. La
stessa rapidità, del resto, si ha nella conduzione processuale (v. 100.13-22).

76.19-21: non esse… extinguant.


More, 202, 206, 218, 221: la guerra a miglioramento e non annientamento del ne-
mico poggia anche su un imperativo religioso, che C. riporta in Quod rem. 4, 18:
“‘Deus vult omnes salvos fieri’, sicut ait Apostolus (II Tim. 2) et ‘quod non vult
mortem peccatoris, sed ut convertatur et vivat’, sicut ait Ezechiel (cap. 34)”, oltre
che imperativo filosofico: “‘procul esto ab homine potestatem habente occidendi
et non vivificandi’, dice il Savio… Dice Platone: ‘ideo punitur reus non quia pec-
cavit, sed ne amplius peccet ipse vel alius suo exemplo’” (Lettere, p. 19).

76.26: verbis,
‘Verbum’ sta qui per alterco, diverbio; secondo Aristotele, le “risse di parole”
(insieme a oltraggi e omicidi) sono difficilmente evitabili “per chi organizza
una comunità di tal sorta” (Pol. 1262a 25 – alludendo alla Resp. platonica; nelle
Leg. 866e si trova invece quasi alla lettera l’espressione campan.).

76.32: iustum
‘Iustum’ è termine tecnico:332 per dirimere una controversia legale, e quindi
‘far giustizia’, i Solari ricorrono di norma al codice, a volte a prove di valore in
battaglia, mai a duelli (più chiaro il “però” [= perciò] di T.76.39, che il “ve-
rumtamen”). Non bisogna ricorrere ai duelli “neppure per vincere liti giuste
[= ad lites iustas evincendas] giacché si tenterebbe Dio, mentre per dirimerle si
hanno i tribunali. Anche se non si avessero i tribunali, non si può sfidare a
duello, come è illecito al privato indire guerra: questo è funzione della comu-
nità e d’altronde il singolo è per lo più giudice ingiusto in causa propria”
(Theol. X [IV, p. 173]).

332
“Ius generale nomen est, lex autem iuris est species. Ius autem dictum, quia iustum” (Isi-
doro, V III); “constat autem quod iustum est obiectum iustitiae”, “ius sive iustum”, e che ‘se-
condo la definizione dei giurisperiti’, “est constans et perpetua voluntas ius suum unicuique
tribuens” (SM I III, XLVII); così anche C.: “Iustitia est generalis virtus: et omne opus virtutis di-
citur iustum, id est aequale [= equo]… Duplex autem iustum: aliud naturale, quod natura
dictat propter melius, eiusque transgressio est naturaliter culpabilis; aliud civile” (Quaest. oec.
II IV, p. 176).
COMMENTO AL TESTO 427

76.33: monomachiam
Propriamente il pugilato (Tommaso, ST II-II, 95, 8: “pugna pugilum quae mo-
nomachia dicitur”; SD VIII CII ‘De duelli prohibitione’: “Ex Summa de casibus:
Duellum est singularis pugna inter aliquos ad probationem veritatis; ita videli-
cet, ut qui vicerit probasse intelligatur. Et dicitur duellum, quasi duorum bel-
lum. Dicitur etiam vulgo in plerisque partibus iudicium, eo quod ibi Dei iudi-
cium expectatur. Dicitur etiam monomachia, quasi unica vel singularis pu-
gna”); il duello, tollerato solo per legittima difesa oppure per mandato comu-
nitario, come con gli Orazi e i Curiazi (Moralis V XII, p. 30: ‘De duello’), o al
massimo per la superiore salute pubblica (Theol. IX V, II: “per calmare le ire e
risparmiare la vita dei cittadini”), è condannato da Tommaso, se vi si ricorre
attendendosi una manifestazione della volontà divina (“si compie un atto per
arguire dal suo risultato qualche cosa di occulto”), rientrando in uno dei casi
vietati di ricorso ai sorteggi (“il combattimento privato… e le ordalie, si ridu-
cono a dei sorteggi: poiché con essi si indagano le cose occulte”), che rischia-
no di diventare sortilegi (v. n. 96.19-20). Tuttavia vi è quantomeno un distin-
guo, che sfuma nella tolleranza, per quanto riguarda i duelli, perché “qui ci si
avvicina di più al concetto ordinario del sorteggio in quanto non ci si aspetta
un effetto miracoloso”; ma certamente “Dio non entra con la sua provvidenza
nelle cose vane e peccaminose se non servendosi dei diavoli e perciò le sorti
affidate alla fortuna sono pericolose, perché generalmente il diavolo vi eserci-
ta il proprio potere”. Come si è visto (v. n. 76.32) anche C. lo condanna: più
recentemente il Concilio di Trento ha comminato la scomunica “contro i
prìncipi che concedono i duelli… ingiusti e non necessari, non ordinati a un
effetto che sia migliore e più ragionevole della guerra… Antonio della Miran-
dola, schiavo di Aristotele, nel libro sulla abolizione del duello sostiene che il
duello è lecito per diritto di natura, ma è vietato per diritto divino. Egli parla
così per favorire Aristotele, come se la natura razionale invece dei tribunali
avesse istituito i duelli che sono propri della natura brutale” (Theol. X [IV, pp.
163-5, 173-5]).333 In uno stato comunistico, poi, a maggior ragione non posso-
no e non debbono esistere questioni private, e, se dovessero insorgere, biso-
gna stemperarle, rivolgendo all’‘hostis’ quell’ira concepita contro l’‘inimicus’
(sebbene, secondo Amerio, è soluzione astratta e ingiusta “mutar ‘hostis’ in
‘inimicus’”). “Non è lecito duellare per fare ostentazione di forza, come fece
Golia, e neppure soltanto per non sembrar vile se non si raccoglie la provoca-
zione: questo infatti è il giudizio degli uomini volgari e non dei sapienti, e
inoltre si può mostrare la propria nobiltà combattendo in una guerra giusta”
(Theol. X [IV, p. 171]).

333
Allude al De eversione singularis certaminis, Basileae, 1562 (intit. anche: Disputationes… de
Monomachia (quam singulare certamen Latini, recentiores Duellum vocant)), di Antonio Bernardi
[1503-65] nato a Mirandola e diventato vescovo di Caserta, cit. anche in Politici, p. 127 e in
Apologia III, p. 24 (cfr su di lui nota di Lerner 2001, p. 225-6).
428 LA CITTÀ DEL SOLE

78.13-4: Artes… laudabiliores,


“Tutte le arti meccaniche sono nobili in quanto si tratta di arti, anche se l’eser-
citarle di continuo distoglie da occupazioni più elevate” (Quaest. pol. III, p. 99),
ma a quest’inconveniente i Solari hanno provveduto con la rotazione, per cui
tutti devono occuparsi delle attività ‘primarie’ per quattro ore al giorno
(56.11). Quest’esaltazione dei mestieri (più sono faticosi – L. aggiunge: “e uti-
li” –, più sono nobili) non è in contrasto con la reputazione di “viltà” che ha il
prestar servizi umili (su cui si era diffuso a 54.24sg); sono in causa due sfere
concettuali (sentite da C. come) diverse: il servire qualcuno e l’esercitare un
mestiere (v. n. 54.27-9).
In sede trattatistica (Phil. realis), sostanzialmente si mantiene la stessa gerarchia
delle arti: “ad nobilitatem Artis, materiae nobilitas et formae et ingeniositas et
utilitas videntur concurrere: et ubi plurima istorum, ibi nobilitas maior”: l’agri-
coltura e la pastorizia, malgrado “viles habentur” correntemente (e da Aristo-
tele, che esclude non solo dalla piena cittadinanza, ma anche dai più alti livelli
della virtù coloro che esercitano lavori manuali), sono arti quasi divine, la pri-
ma non solo perché ci procura il vitto, ma anche perché imita Dio, “seminales
virtutes elementis inferentem”, mentre “pastoralis [imita] Angelos custodien-
tes”; ed entrambe “mantengono la vita umana in compagnia” (Poetica XI, p.
343), ovvero: non solo sono attività primarie, ma fondano e si fondano su
un’organizzazione sociale. Inoltre ambedue fanno bene sia all’animo perché
lo distraggono a “fraudolentibus artibus” (quali la “negotiaria”), che al corpo
perché l’irrobustiscono; e infine sono quelle a misura d’uomo, nel senso che
attingere alla madre terra non è altro che un’estensione del succhiare la mam-
mella da parte dell’infante (Oecon. II IV, p. 194). In particolare, poi, “devono es-
sere molto considerati i costruttori di navi e di armi, i fabbri in ferro e in legno:
tutte le arti infatti hanno bisogno della loro competenza e, ovviamente, la mili-
tare, la nautica, l’agricoltura, l’edificatoria, che per utilità superano le altre”
(Politica IX, 12). Invece i più vili, come dice Aristotele, sono quelli che ‘sporca-
no’ il loro corpo: mimo, mercante, meretrice (v. n. 10.35-6 e n. 62 [glossa]).
Questo privilegiamento dei lavori pratici e socialmente utili è diffuso nella trat-
tatistica idealistica (da More [88] al missionario domenicano Bartolomeo Las
Casas [Maravall, p. 637]).

78.18-9: destructivum… modo.


Ricalca un’espressione neotestamentaria, che C. ha citato in Lettere (p. 49): “ad
aedificationem non ad destructionem vestram” (2Cor. 10, 8), entrata anche nel
lessico corrente (es. Doni, Mondi, p. 350: “fate che le vostre parolacce sien ge-
nerali, a utile del lettore e non a distruzione”). Lo stesso atteggiamento positi-
vo e non repressivo i Solari lo dimostrano verso i nemici assoggettati (76.20).

78.20: Nosse natare


Risponde a un’esigenza militare, come suggeriva Vegezio (De re mil. I, 10) ad
ogni giovane soldato, “perché gli inesperti al momento del bisogno, non si tro-
vino nei guai”. Invece nel Cinquecento non solo i soldati, ma anche i marinai
spesso non sapevano nuotare, per cui in More, 220 l’addestramento militare
COMMENTO AL TESTO 429

prevedeva allenarsi “a nuotare in assetto di guerra” (Firpo 1979, p. 278); ana-


logamente Machiavelli: “Vorrei ancora che [i soldati] gl’imparassero a notare:
il che è cosa molto utile, perché non sempre sono i ponti a’ fiumi, non sempre
sono parati i navigii” (II, p. 490). C. loda Venezia “per il fatto che la marineria
è praticata dai nobili… Al contrario Aristotele… non esige che i nobili impari-
no a nuotare” (Quaest. pol. III I, p. 382).

78.22: piscinae
“Solium balnei” oppure “Locus in quo piscatur, Stagnum” (Du Cange); la Cru-
sca accoglie ‘pescina’ o ‘peschiera’ quali traduzioni del lat. ‘piscina’: “ricetto
d’acqua per tenervi dentro de’ pesci”; invece Agostino esclude categoricamen-
te la presenza di pesci: “Piscina dicitur in balneis, in qua piscium nihil sit, cum
nihil piscibus simile habeat: videtur tamen a piscibus dicta propter aquam, ubi
piscibus vita est” (Dialect., cap. 5, cit. da Du Cange); SN V L (‘De piscinis et bal-
neis’) intende, sulla scorta di Palladio, stagni artificiali da ricavare “circa vil-
lam”: “pecoribus vel avibus aquaticis usui fit”, oppure dove “madefaciat virgas
et coria, lupinos, et si qua rusticitas infundere consuevit”. Dato il contesto (cioè
il legame causale [= hanc ob rem] con la proposizione precedente sul nuoto
obbligatorio), è quest’ultima l’accezione prevalente (anche se non è da esclu-
dere che le piscine, essendo all’aperto, avessero anche la funzione di peschiera
o di stagni artificiali per l’abbeveramento).

78.24: Mercatura… usum.


Dalla Città sono cancellati “l’avarizia, radice di ogni male… e il denaro, fatto
per i commercianti” (Quaest. pol. IV II, p. 106). Le riserve, se non proprio la dif-
fidenza, verso il mercante riposano su varie considerazioni: anzitutto di status:
il mercante esercita un mestiere che, “quamvis ars non sit, est tantum hone-
stum exercitium” (Quaest. oec. III I, p. 183-4); poi considerazioni religiose (l’u-
sura: contro cui in partic. si scaglia Quaest. oec. III I, p. 185-6), politiche (trat-
tandosi di una società comunistica, non è concepibile al suo interno un merca-
to privato), sociali (introducono corpi estranei e potenzialmente corruttori dei
costumi [v. n. 78.36-80.2]). Ma C. tenta anche una spiegazione più ‘scientifica’:
“non enim exercitium ex quo vivimus est Ars, sed illud proprie, quod in mate-
riam imprimit aliquam formam, imitando naturam, et tunc imitabitur, negotia-
tor si emit, ut meliorata revendat, sicut iecur chilum emit et in sanguine vertit,
revenditque” (Moralis III V, p. 22): se il mercante acquista dei ‘semilavorati’ e li
raffina, il suo compito ‘migliorativo’, epaticamente purificativo, diventa social-
mente utile e apprezzabile. Altrimenti è un parassita infettivo, perché non imi-
ta la natura, non imprimendo nella materia una forma: “Aristotele chiama que-
st’arte di comprare per rivendere, contro natura, perché non si fa per il biso-
gno proprio, che la natura ricerca, ma per il guadagno superfluo a sé e crude-
le al suo prossimo”, in quanto con l’aggiottaggio causa le ricorrenti carestie e
epidemie (Arbitrii, pp. 168 e 179); perciò il commercio dei prodotti finiti do-
vrebbe esser gestito dallo stato (Quaest. oec. III I, p. 184).
L’avversione per i commercianti risale (e forse proprio direttamente) al Pla-
tone delle Leggi, nostalgico dell’Atene pre-Salamina, cioè “non ancora inqui-
430 LA CITTÀ DEL SOLE

nata dal veleno della potenza marittima” (Bertelli, p. 306); ma anche in Re-
sp. 371c, 525d; in Aristotele, Pol. 1256b (una volta tanto citato laudativa-
mente da C.); in Cicerone, De off. I; in Plutarco, Lyc. 9, 5, e risuona anche tra
i Padri della Chiesa (come Ambrogio, IV IV, 19 e Agostino, Quaest. vet. et no-
vi Test.), rimbalzando nel pensiero medievale: SD XI CII ‘De Mercatura’
(“Mercatura, si tenuis est, sordida putanda est”). Vincoli al commercio li im-
pongono anche gli utopisti moderni: More, 121-2 e 171 (nessun freno alle
esportazioni, ma limitazioni per le importazioni); e Agostini, p. 156 (drasti-
ca riduzione).

78.27-33: Ex variis… pecunia.


“De Aethiopiae et Persiae finibus, et Assumitarum locis ibi [= a Taprobana]
mercatores emendi, vendendi, permutandique rei gratia conveniunt” (Pseu-
do-Ambrogio, in PL XVII, 1133); gli aborigeni “non usavano oro né argento
per commerciare o comprare”, ma barattavano le merci (Acosta, II, p. 410).

78.36-80.2: Nolunt… in portis.


In contraddizione con quanto precedentemente sostenuto (54.34), ma rispec-
chiando il suo reale convincimento, come emerge ad es. in Mon. Sp.: i popoli
del Nuovo Mondo “ci sono fratelli per la specie e umanità ch’han con noi, e
che tutti scendono come noi da Noè, e che non son bestie quei che non han
battesimo, come essi [= Spagnoli] dicono”; tuttavia “delli non convertiti [biso-
gna] farne schiavi assai… e di quelli che si convertono, farne artefici, lavorato-
ri, fabbri ecc., e insegnarli l’arti mecaniche” (XXXI, p. 346-8); e com’è ancora
replicato da Quaest. oec., dove fornisce i fondamenti teoretici: “Nec dominium
justum fundatur in aequalitate. Meliores enim deterioribus dominantur, ae-
qualis autem in aequalem non habet potestatem sed ius… Nego servitutem es-
se violentam post lapsum naturae. Sed naturale esse meliores deterioribus do-
minari, et qui vitam servare volunt, maximum naturae bonum, libertatem iac-
turam pati, minoris nimirum boni”; e quindi “coloro che sono catturati in una
guerra giusta, pur potendo esser uccisi, vengono risparmiati e ridotti a servitù
per diritto delle genti” (II IV, p. 178). Del resto le due principali fonti utopisti-
che non si regolano diversamente: Platone, Leg. 761a (schiavi per manutenzio-
ne strade – ripreso poi da Aristotele, Atheniensium respublica LIV, 1); More, 27
(lavori forzati). In Quaest. pol. I concede “tuttavia che alcuni uomini siano per
natura servi e strumenti di altri uomini, non però nello stato di natura pura,
ma nello stato di natura corrotto dopo il peccato” (II, trad. Amerio), che riflet-
te la posizione agostiniana.
Questo è il motivo per cui la città solare è costruita su un colle lontano dal ma-
re (80.7-9): “grazie alla lontananza dal mare evito la commistione di costumi
stranieri, per colpa dei quali gli isolani di solito si corrompono, imparando i vi-
zi di ogni popolo” (Quaest. pol. IV I, p. 102). Se la corruzione da parte degli stra-
nieri può esser generica e aleatoria, quella dei mercanti è certa e specifica-
mente connessa alla loro attività, non produttiva, ma meramente speculativa
(Quaest. pol. IV II, p. 106). Licurgo, avendo abolito il denaro, insieme ai mer-
canti aveva drasticamente ridotto l’accesso a Sparta ai saltimbanchi, lenoni e
COMMENTO AL TESTO 431

pataccari (Plutarco, Lyc. 9, 5 e 27, 6-9). Ma anche nazioni moderne, come la Ci-
na (v. 84.30), sempre per timore di veder corrotti i costumi, vietavano l’accesso
ai forestieri, “se non sono Ambasciatori. Per mare consentono che gli stranieri
surgano nelle loro isole, ove i naturali usano a vendere e a comprare” (Botero,
I II, p. 125); e nelle mappe cinquecentesche di Ceylon era ancora riportato un
“Solis portus” di tolemaica memoria.

80.12-18: Tribus diebus… custodiam.


Se la lontananza dal mare non bastasse a evitare che i Solari “non siano corrot-
ti dal commercio, si è provveduto con magistrati a ciò deputati” (Quaest. pol. IV
I, p. 103). Non esiste, nei pur reiterati elenchi di magistrature (10.41sg, 18.34sg
e, dettagliatamente e globalmente, 98.3sg), una carica preposta ai forestieri;
“viri deputati” di rigo 80.16 richiama certamente i magistrati platonici, in pole-
mica con la soluzione aristotelica che “non predispone regole per accogliere e
trattare gli ospiti forestieri in modo da evitare che la corruzione possa insi-
nuarsi nello stato, come temeva Platone, il quale per questo le [= città] collo-
cava in zone montuose. Quanto espone nel capitolo 6 per impedire l’accesso ai
forestieri,334 non è attuabile, perché questi contano all’interno su amici che
vorranno farli entrare, oppure bisognerà vietare ai cittadini di viaggiare”
(Quaest. pol. III, p. 381). Platone invece prescrive: “Riceveranno questi stranieri
nei mercati, nei porti, in edifici pubblici, fuori ma vicino alla città, i magistrati
preposti a questi luoghi e staranno in guardia a che qualcuno di questi stranie-
ri non faccia qualche innovazione” (952e-953a); in Sicilia e Sardegna “le robe e
le mercanzie permutandosi con Inglesi, Mori o Turchi, sempre abbia ad assi-
stere qualche religioso, per non contaminarsi alcuno con nuovi costumi di re-
ligione, perché l’isole sono soggette, per li vari costumi di gente trafficante con
loro, ad ogni mutamento, onde sempre furo nidi di tiranni, per tal paura”
(Mon. Sp. XXII, p. 236). Analoga diffidenza e sorveglianza verso i forestieri in
Roseo, Instituzione, p. 45; invece maggiore affabilità in More, 109 e 171, e Ago-
stini, pp. 149 e 197.
Affabilità che in CS arriva a tingersi addirittura di reminiscenze evangeliche
(Gv. 13, 5-11). Lavare i piedi ai padroni spettava agli schiavi, “come espressione
della massima dedizione”, non solo nel costume ebraico,335 ma anche in quello
greco (es.: Erodoto 6, 19; Plutarco, Pomp., 73); ma dopo il gesto ‘paradossale’
di Cristo (“il Signore glorioso che si china ai piedi degli uomini” [K. Weiss, in
GLNT XI, 25-6]), divenne, nelle leggi dell’ospitalità antica, uno dei tratti di ma-
gnificenza sovrana, com’è attestabile dalla Lettera del Prete Gianni (p. 69); o an-
che della normale carità cristiana: “Ingenti nempe hospes eget obsequio… Si,

334
Aristotele (Pol. 1327a 38-39) aveva suggerito di autorizzare alcuni cittadini a intrattenere
rapporti con gli stranieri.
335
Ad es. 1Re 25, 41; in Gen. 18, 4 e 19, 2 il primo gesto di ospitalità è offrire l’acqua perché
gli ospiti si lavino, da soli, i piedi (passi questi ultimi commendati da Damasceno, Parall. III
XCIX).
432 LA CITTÀ DEL SOLE

inquit, hospitio suscepit, si sanctorum pedes lavit… Noli hos prosequi copia re-
rum affluentes, sed afflictos incognitos, et qui a multis ignorantur. Qui fecerit,
inquit [Cristo], uni ex his minime, mihi fecit” (Crisostomo, In I Epist. Pauli ad
Timotheum V, Hom. XIV [IV, 1507-8]).

80.18: Republica Solis


“Republica” è un semplice sinonimo di ‘Città del Sole’ (e non lo stato di cui la
Città sarebbe la capitale), sinonimo cui ha dovuto far ricorso per evitare un’en-
nesima ripetizione di ‘civitas’ in un capoverso che, essendo dedicato all’acqui-
sto della cittadinanza, ne era già zeppo; così farà anche a 132.15-18: “redunda-
re in rempublicam [T.132.18-9: “redonda alla città”]… versari civitates”.

80.25-6: Observant… propitias.


“Gli accorti agricoltori, giudicorno esser necessario alle piante il corso del
anno, el stato della Luna, di modo che questa parte [= astronomia] grande-
mente appartiene ad Agricoltura” (Della Porta, Magia I XV, c. 24r; v. 108.9-10
e n. 82.9-10).

80.29-30: cum buccinis… vexillo,


“Li omini di Calicut quando voleno seminare il riso servano questa usanza. La
prima cosa arano la terra con li bovi al modo nostro e, alora che seminano el ri-
so nel campo, de continuo tengono tutti li instrumenti della città sonando e fa-
cendo allegrezza. E similmente tengono X o vero XII omini vestiti da diavoli, e
questi con li sonatori fanno gran festa acciò ch’el diavolo produca assai frutto
da quel riso” (Varthema, 139): e forse anche in CS si adombra un rituale magi-
co-propiziatorio (meridionale?), oltre che di generico allietamento e allevia-
mento di fatica.

80.32-5: Carris… contra rotas,


Letteralmente: ‘ruote contro ruote’; Ez. 1, 16: “quasi rotae in medio rotae”, cit.
da Theol. XXV (p. 29) in altro contesto.336 Quest’invenzione dei Cinesi, era tra
le mirabilia ripetutamente promesse nei suoi memoriali (Lettere, pp. 28, 61,
174, 411).337

336
L’orologio cosmico nella visione di Ezechiele; in una lettera a Galileo lo esorterà a scopri-
re “li teatri e scene nelle quali rappresenta il Senno eterno tanti gran giochi di rote sopra
ruote” (Lettere, p. 177).
337
C. l’aveva appresa da Magini (II, p. 191) o Botero (I II, p. 125), entrambi indicanti in Bar-
ros (I II, p. 125) la loro fonte; o più probabilmente da Maffei: “cocchi e carrette parte [sono]
tirate da cavalli, parte ancora, dove le campagne sono così piane che lo permettano, vanno a
vela. E di vero i cocchieri non sono meno destri e intendenti, che i marinari a governare il ti-
mone e a voltare le vele con allentare o ritirare la fune di esse, secondo che richiede il biso-
gno per prendere i venti” (I, p. 376), e subito dopo segue l’accenno alla concimazione, come
qui a rigo 39.
COMMENTO AL TESTO 433

80.39-82.7: Stercoratione… exercent,


C. certo sapeva che la concimazione era universalmente praticata non solo dai
Romani,338 ma anche dai Cinesi che “degli escrementi e altre brutture si servo-
no per ingrassar il terreno” (Maffei, I, p. 376). Ma sapeva anche che vi era
un’altra scuola di pensiero: da Ambrogio, che lodava il sano “odore della terra,
semplice e sincero, non manipolato da nessun artificio, ma infuso dalla celeste
benevolenza” (III XVII, p. 72); a Ficino, che sconsiglia di cibarsi di animali alle-
vati dove “si ingrassi con letame il terreno, ma co ‘l suo naturale e nativo hu-
more vi si produchi ogni frutto… Egli è cattivissima cosa il concimare i cam-
pi… perché ciò che quivi nasce, è atto a doversi tosto corrompere… [Perciò] il
savio Hesiodo ragionando delle cose di contado, non fa mentione alcuna del
letame: egli come prudente attese più alla salubrità che alla fertilità” (Vita sana
II VII, p. 74-5).
C. è combattuto proprio fra salubrità e fertilità; tanto che quest’oscillazione si
ritrova all’interno della sua stessa opera. In Senso, infatti, parte da un presup-
posto medico: la velenosità (di un’erba, un composto) non dipende dal freddo
(il ghiaccio non è velenoso, la cicuta sì), ma “dal viscoso fumo e fetido che esa-
la da quest’erbe”, che soffoca gli spiriti; perciò tutte quelle cose che emanano
un’esalazione “grossa, nera, acre, viscosa [sono] fetide allo spirito umano e tut-
te venenose, perché il fetore è vapor grave e caldo più del nostro spirito”, e per-
ciò lo soffoca; ne consegue che “tutte le biade nate in sterco, in letame e a for-
za e non per natura, tanto arbori quanto frumento, erbe e tutti animali” (p.
244-6) che si nutrono di questi vegetali effimeri, e di cui ci nutriamo anche noi,
accorciano la vita. Stranamente poche pagine prima suggeriva proprio l’oppo-
sto: “però zappamo attorno le piante… e però sterco caldo e grasso apponemo
alle loro radici” (p. 214); e analoghi apprezzamenti li si ritrova in Theol. XVIII:
“persin lo sterco loda l’agricoltore, in quanto utile a ingrassare i campi” (II, p.
187); anche in Oecon. consiglia di tenere gli armenti su appezzamenti a pasco-
lo: “Sic enim utilitas non deerit omnino, ac sequentem in annum faecundabi-
tur eorum stercoribus longe melius” (II IV, p. 194).
L’apparentamento fra concimazione della terra e imbellettamento delle don-
ne, oltre che basarsi sull’archetipica equivalenza Terra/Donna (124.3), è un al-
tro dei casi di analogicità,339 che spiega appunto il sostrato magico su cui si fon-
da la società dei Solari, una società che si fa guidare dal principio delle corri-
spondenze nei più disparati settori: dalla pena dei sodomiti al colore delle ve-
sti, dal sacrificio espiatorio alle “similitudines” fra i regni naturali (14.13) e fra
i mondi (156.11). I Solari dunque credono davvero che l’equivalenza conci-
me/belletto non sia solo ‘per modo di dire’; e quindi, per la forza di questo

338
Lodata da Plinio, Nat. hist. 17, 50; Virgilio, Georg. II, 347; Columella, De re rust., cit. da C.
stesso in Quaest. pol. III, p. 99; anzi Agostino, CD 18, 15, ricorda che il suo presunto scoprito-
re “Sterce” o “Stercuzio” era un antenato dei Romani.
339
La caducità dei frutti e di chi se ne ciba dipende anche dal fatto che concimare è un ‘truc-
care la terra’, e quindi ‘rammollirla’, anziché ‘esercitarla’ (Medicina, p. 44; v. n. 52.4-8).
434 LA CITTÀ DEL SOLE

principio analogico, a prescindere dalla validità pratica della concimazione, la


terra non s’imbelletta.

82.9-10: Librum… Georgica.


“Dato che l’agricoltura esige conoscenza delle costellazioni, dei venti e delle
stagioni, talché i poeti scrissero delle Georgiche, mentre la pastorale è una se-
zione della filosofia che si occupa degli animali… i nobili [romani] erano te-
nuti a occuparsene” (Quaest. pol., p. 99; v. n. 80.25-6). Delle opere virgiliane (a
82.34 è citata anche una Bucolica), che lui metterebbe tutte all’Indice perché
menzognere, salva solo la Georgica (Poetica, XI e Poët. IV X; VII X; VIII I: “poiché
lo stato ha soprattutto bisogno di due arti” [p. 1057], “de agricultura ac pasto-
rali volumen proprium faciendum foret. At de his Virgilius Georgica scripsit Buc-
colicaque, utiliter magis illa, poëtice ista magis, Hesiodum imitatus Theocritum-
que” [Oecon. IV III, p. 205]).

82.19-20: Apponuntur… pecudum etc.


La ‘vis imaginativa’ delle gestanti (v. n. 42.19-21 e n. 44.23) vale anche per gli
animali: oltre alle influenze classiche (Plinio, Oppiano, Isidoro, Eliodoro,
Quintiliano), la fonte principale è l’episodio biblico di Giacobbe, “in tempore
Abrahae” (82.18) appunto (Gen. 30, 37-41: “Giacobbe prese dei rami… li sbuc-
ciò a strisce bianche… Poi piantò i rami così sbucciati a strisce negli abbevera-
toi, dove le pecore andavano a bere le une di fronte alle altre, e quando anda-
vano a bere entravano in calore. Così quelle che si accoppiavano in vista delle
verghe, figliavano agnelli striati, brizzolati e chiazzati”), e le sue esegesi (Giro-
lamo, super Gen. e Pietro Comestore, super Gen., cap. 78; Agostino, CD 18, 5 e De
Trinitate XI). Secondo queste interpretazioni è il doppio piacere – estinguere la
sete e l’ardore sessuale – che funge da potente catalizzatore dell’‘imprinting’,
modellato sul variare dei riflessi delle piante nell’acqua: infatti una postilla del
curatore seicentesco di SH I cxv specifica che il colore delle ombre delle pian-
te varia: “Ex virgis enim ibi positis varius erat color umbrarum”, ed era quello a
variare il manto delle pecore. Un’ultima fonte, certamente nota a C., ci pone
però un problema riguardante il testo italiano: Della Porta, prendendo spunto
proprio dall’aneddoto di Giacobbe, dedica il cap. XXII della Magia ‘A far che
le pecore o i cavalli nascano di varii colori colorati’: “Ha gran forza questa cosa
su cavalli, percioché coloro che hanno questa cura, quando hanno fatto mon-
tare le cavalle da i stalloni, in fatto le mettano in luogo dove fia belle tapezza-
rie, panni coloriti di diversi colori, di maniera che in questo modo le cavalle
fanno i cavalli di più forte colore coloriti” (91v). L’“imaginatio brutorum”, che
in Della Porta (e nella Bibbia) è circoscritta al solo colore, viene però estesa da
C., in analogia alle pratiche di concepimento eugenetiche umane, dal mantel-
lo all’intero aspetto e complessione animale. Il problema nasce dal fatto che,
mentre T.82.21-2 (ripreso in R. e L.) riporta: “e con modi li fanno venire al coi-
to”, tutte le altre redazioni recitano invece: “e con modi magici li fanno…”. Ciò
dipende da una svista del ms Berlinese trascinatasi inerzialmente (cfr Tornito-
re, p. 196), ma che tuttavia, proprio da questa Magia dellaportiana (nonché,
ovviamente, da quella campan., cit. in n. 83.1 [f.p.]), potrebbe trovare ulterio-
COMMENTO AL TESTO 435

re sostegno. Ritengo però che in questo contesto, per la derivazione biblica, il


richiamo alla magia, anche solo nel senso di ‘magia naturale’ (v. n. 10.35-6), sa-
rebbe stato rischiosamente e inutilmente equivoco, nonché fuorviante: “Tutto
quello che si fa dalli scienziati imitando la natura… dalla communità degli uo-
mini si dice opera magica… Ma, finché non s’intende l’arte, sempre dicesi ma-
gia, dopo è volgar scienza” (Senso, p. 241-2 – come si può, dunque, chiamare
‘magica’ un’arte nota dai tempi di Giacobbe?). Pertanto, se svista ci fu, fu quel-
la del copista dell’archetipo della famiglia di mss ß di Città, che scambiò un
presumibile “modi |tali|” con magici, aggettivo inesistente (o illeggibile) e quin-
di non testimoniato dall’archetipo comune di L. e di Civitas, e mai adoperato
altrove in CS.340

82.23: in atrio
Spesso si chiama “vestibulum” sia “partem domus primorem, quam vulgus
‘atrium’ vocat”, sia la prima stanza della casa, che comunemente viene detta
‘atrio’ (Gellio, XVI, 5 e Macrobio, Saturn. VI, 8, 15-6); invece il ‘vestibolo’ è un
grande spazio libero posto fra l’ingresso della casa e la strada. Ma in questo ca-
so (come già a 40.9) bisogna rovesciare il valore semantico dei termini e inten-
dere ‘atrio’ come ‘vestibolo’, cioè lo spiazzo antistante le stalle.

82.23-8: Observant… Pleiadibus,


Intende dire che ogni tipo di allevamento è astrologicamente regolato. “Consi-
dera formam signi… si feralis, [la costellazione avrà effetto] super feras; si ala-
tae, super aves; si reptilis super serpentes et reptilia” (Astrol., p. 83, p. 219: ‘De
electione in animalium generatione’); “Si vis equos fortes facere, pone Sagitta-
rium, vel Pegasum in horoscopo, aut in M.C. [= Medio Coeli] cum stella Mar-
tis… omneque signum quadrupedum eidem prodest. Si bonos optas tauros,
pone Lunam in signo quadrupedi… In caeteris animalibus propagandis, utere
signis illis corrispondentibus in coelo”, perché vi sono animali solari, lunari
(quelli marini), saturnini (serpenti), ecc. (Quaest. phys. XXVIII, p. 260). “Gli
astrologi ci riferiscono sulle configurazioni e sul fatto che le stelle della Gallina
giovano alle galline domestiche; quelle del Serpentario ai serpenti; quelle del
Toro e dell’Ariete alle cose campestri… se è vero tutto questo, è senza dubbio
evidente il consenso fra gli enti celesti e quelli terrestri” (Metaph. VI VII, I [II, p.
103]).

82.27-32: Habent… conficiunt.


La cura del pollame era una delle più tradizionali mansioni femminili: “galli-
nes educare nulla mulieris nescit industria” diceva Beauvais (SD VI XXV). Il trit-

340
Per storia e bibliogr. sul tema cfr Badaloni 1969, Angelini, Barberis e Angelini 1994; Ernst
2002 annota che “alla consuetudine” con gli allevamenti di cavalli di Mario Del Tufo si deve
“l’osservazione della Città del Sole che gli uomini prestano la più grande attenzione per la ri-
produzione di cani e cavalli, trascurando quella degli uomini” (p. 259).
436 LA CITTÀ DEL SOLE

tico caseario (ripreso a 88.3-4) era in Botero: “latte, butiri, cascio” (I III, p. 187);
i ‘latticinii’ sono genericamente i derivati del latte, come in Savonarola: “Dil
lacte e di lactecinii, come formagio, povine [= caciotte] e zunchata e buthiero”
(p. 79).

84.5: rex:
È lo stesso che dirige canti e balli dopo mangiato (108.34; v. anche n. 28.3-14,
n. 28.24-30.5, n. 28 [glossa], n. 78.13-4, n. 131.1 [f.p.]).
“Chiunque perviene al regno per virtù, domina non per il proprio interesse,
ma per quello dei sudditi. Questi si dicono re, perché antepongono il pubblico
al bene privato” (Politica III, 11); sonetto 17: ‘Non è re chi ha regno, ma chi sa
reggere’: si chiama infatti ‘re’ “a regendo, non a dominando” (Oecon. III I, p.
197), “poiché molti rappresentano e fanno officio di re, che nel dentro è servo
d’ogni vizio e degno d’esser comandato da chi egli governa” e viceversa ci sono
dei carcerati, “che son più liberi che li propri carceranti” (Politici, p. 107). “E
non è forse dotato ogni membro di una sua particella di virtù, che gli consente
di esercitare la propria funzione? Per questo Salomone giudica che ciascuno
sia re nella propria professione” (Quaest. pol. III, p. 384); ecco, dunque, la fon-
te (Ecli. 38, 35: “unusquisque in arte sua sapiens est”), parafrasata anche in
Mon. del Messia (p. 51); Oecon., p. 197 (e Politica XI, 2): “‘omnis artifex, quia sa-
piens in arte sua, rex est’: infatti il medico comanda al re [in senso dinastico,
stavolta] malato; e il marinaio, quando c’è tempesta, ordina a sacerdoti, con-
dottieri e principi: «Tu siedi qui, tu stai lì ecc.»” (gli esempi del medico e del
nocchiero sono di Diogene, VI, 30). “Et cavete [dice Dio agli uomini] ne quan-
do qui Agricola est a natura, fiat a vobis Rex nec Artifex etc. Omnia enim tur-
babuntur: tunc enim non sapientia, sed fortuna gubernabit” (Moralis XV, p.
61); “nella società tutti i danni derivano da questo abuso, giacché principi e sa-
cerdoti vengono fatti per lo più col favore dei potenti o del sangue o dell’in-
ganno, mentre quando i principi vengono eletti secondo la natura si ha un pe-
riodo aureo, che poi con la negligenza delle cose divine si cambia in argenteo,
in bronzeo, in ferreo e in argilloso” (Metaph. XVI VII, III [III, p. 259]), che è
l’età attuale, in cui contro i “Re per natura” si vedono levarsi “questi Re di for-
tuna, vestiti, come in comedia, di maschera reale” (Epilogo, p. 553).341

84.15-8: rates… perambulantes;


A 160.5 vi è la descrizione dettagliata del meccanismo propulsore, unica vol-
ta che la si ritrova in tutte le sue opere; invece accenni sommari come questo

341
Dove riporta pure un aneddoto: a uno che “si gloriava per nobiltà di sangue e sprezzava
un amico virtuoso”, C. disse: “gli alberi da frutti e non da radici si stimano”; battuta replicata
in Ateismo II (in Ernst 1997c, p. 622, che rinvia a Mt. [7, 16-20; 12, 33] e agli Adagia erasmia-
ni). Per il tema dello ‘smascheramento’ delle ‘finzioni’ mondane, v. n. 131.1 (f.p.), n. 128
(glossa) e cfr anche Atheismus VIII; Politici, p. 133; Quod rem. 3, 2; Poetica IX e XXI (pp. 331 e
405) e Poët. VIII XI (p. 1169).
COMMENTO AL TESTO 437

si trovano in Lettere, pp. 28, 160, 174, 411 e nell’‘Ecloga’, dove s’immagina i
superbi pini e abeti della Sila, battenti bandiera francese “solcare i mari con
le prore, / senza vento e senza rematori”, annotando: “Arcanum navigandi si-
ne vento et remigio aperitur in Civitate Solis ab autore” (169, 199-200; v. n.
160.3-4).

84.23-5: Dicunt… ipsorum:


Il nesso implicito con quanto precede potrebbe essere questo: dicendo che i
Solari sono pacifici, il Genovese intende dire che non sono né impotenti (co-
me dimostra anche la loro tecnologia bellica d’avanguardia), né prepotenti,
ma sono pacifisti per libera scelta – tanto, ‘fatalmente’, il mondo finirà con l’a-
deguarsi al loro standard di vita.342
“Risulta largamente provato come fra Tommaso non abbia voluto istaurare la
repubblica a proprio vantaggio, ma… volesse offrire quasi un esempio preli-
minare della grande repubblica universale che si deve preparare” (Supplizio,
p. 97). L’idea della riunificazione sotto un unico pastore (v. n. 122.10), e
dunque di un export (in questo caso), ma anche di un import (134.10-4) di
usi, costumi e specialmente credenze, risale all’auspicata libera circolazione
delle idee, com’è sintetizzata nell’ultimo verso della quartina scritta in ‘uto-
piano’ da Gilles (già cit.: v. n. 60.13-5), verso che giustamente Firpo 1979, p.
65 interpreta come aspirazione degli Utopiani di “veder diffuse nel mondo
intero le loro strutture sociali e la loro concezione religiosa (par. 103, 222,
269)”. E come Firpo 1957 diceva, le strutture sociali dell’utopia “solo appa-
rentemente sono cittadine, in realtà pervadono gli interi confini della mo-
narchia ecumenica” (134.18: “omnes nationes in unam legem congregen-
tur”); anche perché l’esito finale sarà il ritorno del secolo aureo: così s’inti-
tola il III cap. di Mon. Messiae ‘Foelicitatem Soeculi aurei existere, si totius
mundi unus sit modo Princeps Sacerdotalis, absque superiori, et unica reli-
gio vera erga unum Deum, sicut fuit ab initio; et sub Messia esse debet, con-
tra opinantes’, cioè “quando tutte le sette e le religioni spariranno, perché
sostituite dall’unica vera, tunc apparebit soeculum aureum” (Mon. Messiae V,
p. 21). Una prova indiretta di quanto sostiene Firpo, è l’unica opera spagno-
la, anzi frammento di opera, ascrivibile al genere utopico, tradotta all’epoca
in quasi tutte le lingue europee, e che ha potuto influenzare, quanto meno
indirettamente, C., con l’idea della missione, da parte della nuova monar-
chia, di restaurare una ‘civitas Dei’, regno della primitiva libertà naturale, se-
condo la linea del cosiddetto “socratismo cristiano”, concretizzantesi in “una
repubblica costituita corporativamente, con i suoi tre ordini tradizionali – sa-
cerdoti, guerrieri, lavoratori – e sopra tutti un re filosofo che governa secon-
do il diritto naturale”. Il vescovo spagnolo Guevara, elabora, nella Favola del
villano del Danubio (XVI sec.), “un programma politico per un imperatore

342
V. n. 104 (glossa) § 4, per il rapporto di questa frase con la successiva – ammirazione e at-
tesa del cristianesimo –, e per l’apparente contraddizione con 134.12-3.
438 LA CITTÀ DEL SOLE

[Carlo V] con gli elementi essenziali di questa linea umanistica, fare dell’im-
pero uno specchio delle virtù del villaggio; riuscire, per così dire, a trasfor-
mare in un immenso villaggio, – dal punto di vista morale e politico – quella
che era la grande repubblica cristiana, che per essere sempre più grande era
sempre meno cristiana” (Maravall, p. 633-5).

84.31: Siam, Caucacinae, Calicuti,


Fonti geografiche: Varthema, p. 123-44; svariati accenni nelle lettere di Andrea
Corsali (Ramusio, II, pp. 31, 39, 53…); Barros, I, 73 e 171v-172r; Maffei, I, p. 53;
Magini, II, p. 187; Botero, I II, p. 126 e II II, p. 69; inoltre nel 1631 il gesuita Cri-
stoforo Borri pubblicò la sua Relazione sulle missioni in Cocincina (Firpo 1954, p.
1302). C. voleva convincere il re di Spagna a confederarsi “con quei del regno
di Calecut, di Narsinga, di Camboia ecc.”, anche perché “quei di Calecut e Goa
sono cristiani nestoriani”.343

84.33: ignes artificiales


Alle tradizionali armi da fuoco, “gli Olandesi aggiunsero li petardi, li granati e
altri fuochi artificiali, e resisteno a tutti i paesi” (Mon. Fr., p. 396); e in partic. gli
abitanti della Fiandra sono maestri in “fuochi artificiali” ad uso bellico (Mon.
Sp. XXVII, p. 302).344
Già ai primi del Cinquecento si chiamano “foghi artificiali”345 oppure “fuochi
artificiosi” (Andrea Corsali [1527], in Ramusio, II, p. 39); Maffei chiama invece
‘pentola di foco’ un vaso di terracotta riempito di polvere da sparo con delle
micce: “Quando si viene a tirare quest’arme, la pentola tratta colle braccia su-
bito si spezza ed insieme accendendosi le faville dall’esca che v’è legata, leva la
fiamma inevitabile con maraviglioso danno de’ circostanti: la quale maniera di
dardo da prima fu usata solamente nelle battaglie navali, ma poi fu trasportata
ancora nelle terrestri” (I, p. 555). Anche Della Porta parla dei segreti di ‘Diver-
se compositioni di fuochi’ (Magia II X), tra cui una ‘Mistura, che arda sotto
l’acqua’, la quale “non si lassa spegnere dall’acqua e hora viene in cima del-
l’acqua, hora va al fondo girando”. Van Helmont a parecchie riprese (dal 1629
al 1631) scrive a Mersenne delle sue invenzioni di fuochi inestinguibili per l’ar-
tiglieria: “la grenade une fois allumee par derriere, son feu ne s’estainct, ny se
suffoque… J’estime cecy fort, [anche perché finora] il n’y a personne qui y soit
arrivé” (III, p. 58).

343
Mon. Sp. XXIX, p. 314-6. Sulle prime conoscenze europee dell’Estremo Oriente, cfr Broc,
p. 99-100.
344
“Le granate furono inventate nel 1536, e i petardi, costituiti da un involucro di metallo
rempito di polvere di cannone o materiali incendiari, furono utilizzati la prima volta nelle
Fiandre” (Ernst 1997, p. 397).
345
Gli abitanti della città indiana di Bisinagar del reame di Narsinga “sono grandissimi mae-
stri de far foghi artificiali”, per spaventare gli elefanti in battaglia (Varthema, p. 119).
COMMENTO AL TESTO 439

86.1-2: Ipsi… partium.


“Il buon governo umano deve mirar prima al bene del tutto che delle parti, e
indrizzar il tutto con le sue parti al bene universale” (Politici, p. 144); invece “la
ragion di Stato di questo secolo anticristiano consiste in stimar più la parte che
il tutto, più se stesso che la specie umana, e più che il mondo, e più che Dio.
Questi pensier vilissimi son figli dell’amor proprio, che dal diavolo cominciò,
per diabolici figli camina e nell’inferno ha da finire” (Schoppe, p. 23 e Lettere, p.
100); “pars est gratia totius, et non totum partis” (Quaest. pol. IV III, p. 112); e
più drasticamente ancora: “sprezzâr la parte per lo tutto” (28, Madr. 10, 7; v. n.
20.15-6, n. 32 [glossa] § 1, n. 50.7-9 e n. 54.27-9). Questa formula della ‘Canzon
d’amor secondo la vera filosofia’ si potrebbe definire il motto di C., per come
pervade l’intera sua opera.346 In questo contesto, l’espressione serve a giustifi-
care quanto immediatamente segue (l’oroscopo della Città) che altrimenti
suonerebbe non intonato con la domanda dell’Ospitaliero su ‘vita e vitto’ dei
Solari. Il Genovese con quella premessa maggiore vuol dire che qualità e quan-
tità della vita dei singoli dipende anzitutto da quella della città.
La formula topica (v. n. 100.23 e n. 100.32-6; cfr Rigotti, II II) risale al modello di
stato-sistema (rispecchiante sia il microcosmo347 che il macrocosmo, come prova
la terminologia uguale usata a 44.5-6), così come C. lo ereditava dal pensiero cri-
stiano (in partic. 1Cor. 12, 12-26 cit. a n. 54.27-9) e da quello greco, indicandone la
fonte: la Chiesa “persimilis est… corpori humano”, come “habetur Ephes. 4…
Idem Rom. 13… et Corint. 10… His similitudinis utitur etiam Plato in sua Repub. a
D. Clemente mirifice coelebrata, et Thales Milesius, et alii Phylosophi plures apud
Plutarchum” (Mon. Messiae XII, p. 45). Infatti la si ritrova:
A) sul versante peripatetico: Aristotele (Pol. 1253a 15): “Per natura lo stato è
anteriore alla famiglia e a ciascuno di noi perché il tutto dev’essere necessaria-
mente anteriore alla parte”; e quindi diffusissimo in Tommaso, Quodlib. I, 4, 3;
ST II-II, q. 58, a.5: “quanti sono raggruppati in una comunità, sono nei con-
fronti di essa come parti di un tutto: ora la parte, in quanto tale, è del tutto,
con la conseguenza che anche qualsiasi bene della parte è ordinabile al bene
del tutto”; e così II-II, q. 61, a. 1; q. 64, a. 2; 3SCG, 69 e 71: (“il tutto è sempre
migliore delle parti, ed è il fine di esse”);
B) sul versante neoplatonico: Giamblico, Misteri, p. 200 (Scutellius, p. 98:
“quanta excellentia sit totorum erga partes”); Stobeo, Hippodami, serm. CI

346
Poesie: 20, 1sg (“O tu, ch’ami la parte più che ‘l tutto / e più te stesso che la spezie uma-
na”); 30, Madr. 8, 15 (“ché noi siam parti per lo tutto fatte”); Lettere, p. 117 (a Pflug: “io bre-
vemente ti mostrai ch’era stolto pensiero onorar più la parte ch’il tutto”); Astrol. VII, p. 7; Epi-
logo, p. 423; Pöe VI v; Theol. I (I, p. 69); Papatus, p. 139: “il tutto in quanto tutto non deve sot-
tostare alla parte in quanto parte”.
347
“Quella bella parabola del ventre e delle membra” di Menenio Agrippa (Livio, II, 32) è
esposta in Poetica VI, p. 326, e spesso cit. (es.: Antiven., pp. 28 e 107; Mon. del Messia, p. 54-5;
Rhet., p. 837; Poët. IV IV; la Politica esordisce con la figura del ‘corpo sociale’: “La Prima Men-
te… congiunse gli uomini quasi in un unico corpo, nel quale alcuni facessero da guida, altri
fossero guidati…” (I, 1).
440 LA CITTÀ DEL SOLE

(663-4: uomo parte della società, e “prius est parte totum, non pars toto”); fino
a Ficino, Teol. II XIII (I, p. 215).
E così viene assunta
C) sia dalla filosofia cinquecentesca: la società raccoglie tutti i suoi membri in
un unico organismo, “come in un unico animale composto di molte e diverse
parti”, affinché “potesse sempre con le altre portare aiuto ad una qualsiasi di
esse che fosse affaticata… quasi allo stesso modo con cui le singole parti degli
animali promuovono la salute delle altre e comunicano ad esse tutte la propria
fatica e la propria opera” (Telesio, IX, 12 [III, p. 383-5], e la sua scuola: “Scias
itaque omnino partem propter totum, non autem totum propter partem esse
factum. Recte ergo hoc animadvertit Pletho Constantinopolitanus in Aristote-
lem” [Persio 1575, n°193]);
D) sia dal pensiero politico coevo: “i sudditi uniti col re sono considerati come
un tutto et un corpo del quale eglino sono particelle e ‘l re è capo; e però co-
me il tutto è per natura primo delle parti nella guisa che… le parti sono indi-
rizzate ad esso, e non per contrario. Così le parti debbono pigliare la regola
nelle operationi loro dal tutto, in modo che siano corrispondenti alla conser-
vatione & alla forma sua” (Albergati, La Republica regia, cit. da Zucchini, p.
301); o nel semiutopistico Belluzzi, ovvero la Città felice dello Zuccolo.

86.2-22: Idcirco… coniunctionem.


“Civitatem potest homo fundare quando voluerit. Pone ergo signa fixa in 4 an-
gulis, et Leonem in M.C. [= Medio Coeli] vel in horoscopo, et angulorum do-
minos in bono aspectu luminarium, faciesque Solem aphetam, vel aliquem pla-
netam ponderosum dominum temporis. Optimus est Saturnus in bono situ, si
ei Luminaria et Planetae omnes applicant. Significat enim durationem maxi-
mam, et quod regum, et populorum, divitiae, honores, et arma servient illi ci-
vitati. Iupiter consimiliter potens erit bonus. Omitte planetas leves, quoniam
parvi temporis sunt iudices. Mars in bono situ cum satellitio, et dignitate, victo-
riosam faciet civitatem” (Astrol., p. 220-1).348 La fondazione di una città rispon-
de al requisito della stabilità; questo è il valore assolutamente dominante, cui
far aderire e convergere tutte le componenti del profilo astrale. I quattro segni
fissi sono posti in relazione con l’Ascendente, “chiamato anche luogo delle
fondamenta, poiché è misura della vita e fondamento di tutto” (Liber Hermetis
XXVI, 1), con la stella fissa Algol e con due pianeti lenti, Saturno e Giove. Mar-
te modifica la sua posizione (infatti in Leone in Ascendente vi è il Sole prece-
duto da Giove; nel segno contiguo, Cancro, vi sono Mercurio e Venere, però in
posizione a loro prossima – entro i 10°, secondo la maggior parte degli astrolo-
gi antichi); e infine, rispetto a T.86.11-2, Marte è spostato dalla nona alla quin-
ta casa, adiacente a quella di Saturno, che è la IV, una casa angolare – e quindi
necessitante la precisazione che Saturno non inquina i Luminari, cioè non for-
ma angoli di 90° o 180° con essi (la IV casa è chiamata da Manilio ‘fundamen-
ta rerum’).

348
‘De regnis et civitatibus et republica’ (così anche Medicina, p. 58).
COMMENTO AL TESTO 441

Secondo Donno, i Solari “avranno dovuto attendere a lungo per trovarsi una
simile volta celeste. Shumaker suggerisce che C. poteva aver pensato ad una
sfera armillare sopra la quale i Solari ordinavano i corpi celesti nel modo che
essi giudicavano favorevole per la città”, utilizzando magari proprio i globi
celesti e terrestri posti poi sull’altare. E in effetti, se si bada all’incipit del cap.
cit. di Astrol., si tenderebbe ad avallare quest’ipotesi della liturgia astrologica:
come potevano infatti i Solari ‘porre’ i segni zodiacali, se non su una sfera ar-
millare? O vuol forse intendere che prima della fondazione disegnarono lo
schema oroscopico ottimale, e poi attesero il momento in cui la mappa cele-
ste fosse coincisa con quella tracciata?
Le procedure di fondazione della città erano dettate da un rigido protocollo
rituale: “la scelta del sito, quella del momento propizio, operate dall’‘ecista’
dopo aver sentito l’oracolo, l’orientazione, il tracciato del solco primigenio,
la localizzazione del ‘mundus’ nel centro della fondazione quadripartita, la
disposizione degli edifici pubblici attraverso l’‘aruspicina’” (Finotto, p. 133);
Assunto (p. 17-8), citando da Fustel de Coulanges (La cité antique, 1849),349 ri-
cordava gli autori classici che trattano i riti di fondazione della città: Erodoto,
V, 42; Tucidide, V, 16; Pausania, Descr. della Grecia XXVII, 7; Ovidio, Fasti IV,
827. Se Cicerone (De div. I, 98-9) ironizza sui pronostici fatti in occasione del-
la fondazione delle città, Vitruvio invece li prende molto sul serio (I I, p. 16);
la stessa disparità di pareri si replica nel Quattrocento: Alberti (II XIII e IV III)
segue l’esempio di Cicerone, mentre Filarete quello di Vitruvio: “Quando la
[= Sforzinda] fonderemo, allora ti dirò sotto che clima, e pianeto, e punto, e
ora” (II, p. 55), e infatti a p. 101-2 vi si diffonderà ampiamente (coincide la
scelta di un Luminare – in CS la Luna, lì il Sole – nel Toro, “segno fisso ter-
reo”). Dell’origine mitica di Fiesole, Giovanni Villani sottolinea proprio la va-
lenza astrologica: Atalante, su consiglio di Apollo suo maestro e astrologo,
cercò “in Italia per astronomia… per lo più sano e meglio asituato luogo che
eleggere si potesse per lui… e la detta città fu fondata sotto ascendente di tal
segno, e pianeta, che dà allegrezza e fortezza a tutti gli abitanti, più che in al-
tra parte d’Europia” (I VII, p. 12-3). J. R. Christianson racconta la storia di
Hven, un’isola fra Danimarca e Svezia, dove sarebbe nato “un giardino degli
dei, abitato da semidei che potevano penetrare tutti i segreti dei cieli e della
terra, muoversi attraverso le sfere e ricreare l’età dell’Oro”: sta parlando del-
la futura sede di Uraniborg, il Castello di Urania, dedicato alla Musa dell’a-
stronomia, di cui il suo fondatore e signore, Tycho Brahe, così descrive la ce-
rimonia di fondazione: la pietra angolare fu posta “l’otto agosto [1576] al
mattino, quando il Sole che si levava con Giove era nel Leone e la Luna era
nei cieli occidentali in Acquario” (On Tycho’s Island, Cambridge University
Press, 2000).

349
Ma cfr il riedito J. Rykwert, L’idea di città. L’antropologia della forma urbana nel mondo antico,
Milano, Adelphi, 2002 [1963I].
442 LA CITTÀ DEL SOLE

86.8: in quinta,
Sottint. ‘domo’ come in T.86.13 (dove però Marte era nella nona in Ariete),
esplicitata a 86.12.

86.14: Fortuna
Il punto di Fortuna è uno degli elementi oroscopici che non ha rapporto di-
retto con dati astronomici; lo si ottiene attraverso questo calcolo: la distanza in
gradi fra Sole e Luna va riportata sulla circonferenza a partire dall’Ascendente;
il punto raggiunto con quest’operazione è un punto virtuale detto “locus” o
“pars fortunae” o “Demone della nascita”, perché “produce il carattere di tutta
la vita” (Ficino, Sole V, p. 978-9), o punto di Fortuna,350 che significa ricchezza,
in otto combinazioni astrali favorevoli, la settima delle quali è la congiunzione
di Giove e Venere “vel cum capite Draconis, vel aliqua fixa benigna” (Astrol., p.
171; per le stelle fisse v. 44.11). C. mostra di seguire privilegiatamente il meto-
do tolemaico; altri astrologi invece differenziano la nascita diurna da quella
notturna con il calcolo Sole-Luna o Luna-Sole.

86.18: absidis,
Oltre la qualità, si valuta anche la quantità dell’influsso di un pianeta, che di-
pende da tre principali fattori: a) la sua amplificazione o depressione deriva
dalla posizione nel grafico oroscopico: se si trova in un segno, che ne è il do-
micilio o ancor più l’esaltazione, emette il massimo della sua potenza, e vice-
versa negli altri due casi (rispettivamente: esilio e caduta [v. n. 44.9]); b) al-
trettanto massima è la sua influenza in una delle quattro case angolari (v. n.
42.29); c) e infine la posizione del pianeta nella sua orbita completa: apsidi so-
no appunto l’apogeo e perigeo dei pianeti, come chiarisce Astrol.: i pianeti “in
quibusdam partibus elevantur, in quibusdam oppositis deprimuntur, et fiunt
nobis viciniores: dum sunt in parte superiori dicuntur esse in apogaeo, vel in
abside superiori; dum sunt in opposito dicuntur esse in perigaeo, vel in abside
inferiori. Mutantur autem absidum situs post saecula multa paulatim, ut Co-
pernicus observavit” (p. 16-7), e cioè sarebbero anticipati già di 34° (‘Ecloga’,
16).351 Di apsidi, dunque, ce ne sono due, ma l’apside per antonomasia è l’a-
pogeo, dove “sormontano i pianeti” (Disc. Cometa, p. 69) ed amano indugiare,
sia per la prossimità al Sole, sia per simpatia con le regioni superiori del cielo
(118.22-122.4; v. n. 114 [glossa] § 2.3); e infatti ragione di quest’indugio è che
“i pianeti sono più puri, più felici e migliori in apogeo, poiché sono più vicini
alle stelle” (Astrol., p. 17), e quindi anche le loro virtù astrologiche sono esal-
tate.

350
“Il punto di Fortuna viene calcolato sempre… sulla distanza angolare dal Sole alla Luna”
(Tolomeo, Tetrab. III, 11; e Feraboli spiega: “è il punto d’intersezione del raggio d’azione dei
due luminari” (p. 434).
351
Secondo Lettere [1628], p. 219 di “quasi trentasei gradi” (v. n. 131.3 [f.p.]).
COMMENTO AL TESTO 443

86.19-20: et cum… mendicat;


In base alla punteggiatura, annota Fiorato, sono possibili due interpretazioni:
“leur science étant ‘joviale’ [sous le signe de Jupiter] et non indigente” (p.
182); ed è questa la versione suggerita anche da Ernst 1996 (dov’è però anno-
tato che “il passo su Mercurio non è del tutto chiaro” [p. 75]) e 1997a: “ma sen-
do gioviale, la scienza loro, non mendica, poco si curâro d’aspettarlo…” (p.
37). Ma oltre al fatto che non c’è alcun nesso fra la ‘ricchezza’ della loro scien-
za e la mancata attesa delle congiunzioni mercuriali, il testo latino chiarisce
inequivocabilmente che “mendica” è predicato (non attributo), e che “iovialis”
si riferisce a Mercurio di 86.19, di cui sta enunciando una proprietà in relazio-
ne alla frase precedente, non alla seguente.352 Mercurio infatti è un pianeta
‘neutro’, che, cioè, si carica dell’influenza dell’astro con cui è in sistema. In
questo contesto, in cui sono strapotenti i segni del fuoco, con particolare rilie-
vo dato a Giove (orientale e angolare), Mercurio diventa ‘gioviale’, cioè eserci-
ta un influsso positivo, essendo Giove, pianeta non a caso chiamato ‘Fortuna
major’, “incrementum rebus conferens” (Astrol., p. 84). Se dunque il soggetto
della subordinata è Mercurio (e non ‘la scienza’), e l’attributo indica il pianeta
ad influenza dominante, in quanto principe della concentrazione di pianeti,
allora la frase vuol dire che la scienza è sotto la protezione di un Mercurio pro-
pizio ed efficace, per la sua prossimità a Giove (v. n. 146.17-8 e n. 147.2 [f.p.]).
Per Firpo la ‘mendicità’, cui subito dopo allude il testo, è una reminiscenza del
Simposio platonico: “Amore è filosofo, e in quanto tale sta in mezzo fra il sa-
piente e l’ignorante. Anche di questo la causa è nella sua nascita: è di padre sa-
piente e ingegnoso [Poro], ma la madre [Penia] è incolta e sprovveduta”
(203d-204b). Ma innumerevoli sono le testimonianze classiche, da Omero (Il.
XIII, 354) a Plutarco (Iside et Os., 351D: la superiorità di Zeus su Poseidone con-
siste nella sua sapienza e saggezza). Quindi non penserei a un rinvio anche im-
plicito (per giunta vago), ma, più semplicemente, a un suo modo di dire tipico
(che cela, al solito, un obbiettivo polemico): “Giuliano Apostata e ‘l Macchia-
vello non insultino sempre a noi Cristiani, che professando esser seguaci di Cri-
sto, Sapienza di Dio, mendicamo la sapienza dai gentili” (Lettere, p. 194).353
Garzoni gioca sulla paronomasia: “questi non son medici, ma mendici, furfan-
ti e sciagurati nelle loro azioni” (XVII, p. 285).

86.22-88.2: Observant… debet.


Il primo periodo rinvia a 42.26-44.10; il secondo è stato aggiunto nell’ed. Pari-
gina per parare eventuali censure ecclesiastiche, dopo la recente bolla papale
contro i pronostici (1631: v. n. 142.25-144.11); è quindi in pratica l’anticipazio-

352
Anche Fiorato qui fraintende: “mais s’il est ‘jovial’, leur science n’étant pas indigente, ils
se soucient peu d’attendre Mercure…”.
353
Cfr anche Lettere, pp. 228 e 383; Disc. univ. IX (p. 1135); Senso, p. 152; Theol. I (I, p. 319):
“in Dio si dà una scienza che non nasce dall’inopia delle cose, che egli non abbia in sé e deb-
ba intuire fuori di sé come noi, ma nascente dalla copia”.
444 LA CITTÀ DEL SOLE

ne della lunga discettazione (da 140.1 a 150.4 – anch’essa introdotta qui per la
prima volta) su libero arbitrio e astrologia, disciplina quest’ultima di cui ap-
punto distingue l’uso dall’abuso (142.27-36 e 154.16-7).

88.3 (glossa): De cibis


La dieta dei Solari si basa su un principio, o meglio su una virtù, la Sobrietà o
frugalità, che insieme all’Esercizio (24.28 e 90.19; v. n. 24 [glossa] § 2) è uno
dei pilastri “della scienza medicinale”,354 perché l’ingordo “patisce infiniti mali
per le crudità che in lui si fanno”: cioè lo spirito non è in grado di ‘cuocere’,
ovvero metabolizzare, eccessive quantità di cibo, e quindi “separar le feccie dal
buon humore, et poi a purgare esso humore fatto sangue dalla schiuma, dalla
feccia, dalla cenere et dalle fuligini”; in secondo luogo, la dieta è funzionale al-
le attività svolte, alla stagione e all’età: “dona cibi grossi a chi si fatiga il corpo,
delicati a chi l’ingegno essercita… Et di estate, nella vecchiezza et nell’infantia,
cibi pochi spessi et molli commanda, et nell’inverno et nella giovanezza assai et
grossi, et ne i mezzi tempi et età compartitamente” (Epilogo, p. 521). Lettere (‘A
Paolo V’ [settembre 1606]): “Romoaldo… e tanti altri eremiti vissero lunga vi-
ta con l’astinenza: la crapula l’abbrevia nelli sacerdoti d’oggi, e le piume ecc.; e
lo grasso spirito ‘nil celeste sapit’, dice san Geronimo allegando pur Galeno
medico” (p. 42).
Un elenco di cibi che molto si approssima alla dieta dei Solari è in Mandeville,
CLXV: nell’impero di Prete Gianni, “mangiano riso, miglio, lacte e formagio o
vero fructi”; Mandeville 1982 invece del “miglio”, riporta un più attendibile
“miele” (p. 183), che qui ritorna a 94.16, fra i cibi ricostituenti; e anzi Della
Porta considera, secondo la ricetta galenica, latte e miele il vero elisir di lunga
vita: “Galeno dice… che il latte di capra mangiato col mèle è il meglior cibo
che sia, per esser temperato; ché in esso il fresco non avanza il caldo, né l’umi-
do il secco… e da quel buon temperamento ne avviene ancora che [i Patriar-
chi] sono di lunghissima vita” (Fisonomia VI III, p. 945).

88.5-7: a principio… videretur;


Prima del peccato Adamo era vegetariano, perché non aveva bisogno degli
animali per cibo o vestito, “dal momento che gli uomini erano nudi e si sa-
ziavano mangiando dei frutti spontanei. Anche i filosofi pitagorici appresero
dai Giudei a nutrirsi così, e i poeti, celebrando il secolo aureo, dicono che gli
uomini bevevano acqua e si contentavano dei cibi dati spontaneamente dalla
terra” (Theol. IV [II, p. 163]): e così anche i primi Solari, coerentemente alla
loro duplice matrice ideologica, pitagorica e braminica, concordante sul ve-

354
La culinaria è una branca della medicina, come illustra Medicina, un cui cap. (II III) è
espressamente dietologico: ‘De alimentis eiusdem secundum substantiam’; e com’è intuibile
già da 36.26, dove si dice che i cuochi sono diretti da un Medico o dal Fisiologo (88.22); una
scienza da imparare con l’esperienza, in mancanza della scuola Solare: il cuoco deve cono-
scere la scienza della cucina “et si non ex scholis, quemadmodum ex civitate Solis faciendum
praecipimus, tamen ex usu et doctrina communi addiscit” (Quaest. oec. III I, p. 181).
COMMENTO AL TESTO 445

getarianismo, matrice superata dal pansensismo telesiano e dalla visione ge-


rarchica cristiana dei regni naturali, anche se con qualche remora, come af-
fiora dal lessico utilizzato in ‘Salmodia’ 83, 51-5: l’uomo “cuoce / vivanda
atroce; / vivanda atroce d’animai che guasta. / Latte ed acqua non basta, – e
ogn’erba e seme / per lui”; Esp.: “Mangiar carne è pasto fiero, disse Pitago-
ra”.
Circa la matrice pitagorica, tra le tante attestazioni:355 Lattanzio, Div. Inst. III
XIX (“Sed videlicet Pythagorae credidit, qui ut vetaret homines animalibus ve-
sci, dixit, animas de corporibus in aliorum animalium corpora commeare:
quod et vanum et impossibile est” [PL VI, 415]), Giamblico, Vita (97-8);356 e in
partic. questo divieto era ancor più forte nei confronti degli animali utili (v. ri-
go 13), che per Pitagora sono bue e ariete (Diogene, VIII, 20; Giamblico, Vita,
p. 106); “Se si mangia anche ogni dì carne… si causa una subita putrefatione.
Il perché Porfirio con la autorità de’ Pittagorici e degli antichi biasma molto il
mangiare delle carni degli animali. Hor non intendiamo noi che le genti che
vivevano lunghissimo tempo avanti al diluvio, s’astenevano di mangiare gli ani-
mali?” (Ficino, Vita sana II VI, p. 70). “Ai quattro libri compilati da Porphirio,
per titolo: Dello astenersi da gli animali” si richiama anche Persio, che dibatte le
due opinioni antitetiche, circa una dieta prevalentemente carnea (che però
rende gli uomini “d’ingegno grossolano”) o una vegetariana, che renderebbe
più sani e virtuosi, come mostrano le “vite de’ Brachmani, de’ Gimnosophisti et
de propheti” (p. 41-2).
Per la dieta braminica:357 in quest’isola crescono “dactylos, nuces quas Indicas
dicimus, grandes et minutas, odoriferas tamen, item et nuces quas corylos dici-
mus”, e si nutrono anche “pomorum, oryzae, et lactis cibo” (pseudo-Ambrogio
[PL 17, 1133]); il bramino Dandami dice ad Alessandro: “non mi nutro delle
viscere di animali, come i leoni, né si putrefanno carni di quadrupedi o di vo-
latili dentro il mio corpo, né sono sepolcro di morti, ma la provvidenza natura-
le mi somministra tutti i frutti come il latte la madre… Voi invece uccidete a
piacimento gli animali che la terra ha generato, e che a voi tanto hanno giova-
to” (ib., pp. 1140 e 1143); e ancora a proposito della sanità della dieta che pre-
serva dalle malattie: “mensam epulis oneramus innocuis: hinc est quod nulla
genera morborum” (in SH IV LXVII). Nella città indiana di Combeia o Cambaia

355
Cfr Ovidio, Metam. XV, 75-142 e 455-78, in cui Pitagora esorta a una dieta vegetariana e
condanna l’uccisione di animali utili come il bue; Symbola Pythagorae: “Ab animalibus abstine”
(Ficino, p. 1979); Diogene, VIII, 13; Porfirio, Vita, 39; Giamblico, Vita, pp. 107-8, 150; Palla-
dio, II, 24, 45-6.
356
Theodoreto XXIV, p. 105: ‘Ab quibusnam cibis Pythagoras in universum abstinuit et ab qui-
bus suos abstinere hortabatur…’, ad es. vietati i cibi “quibus corpus inflatur et venter turba-
tur”, inoltre “nequis quicquam unquam, quod vitam habuisset, ederet, nec vinum omnino bi-
beret, neque diis animalia immolaret” (e ancora XXXI, p. 177-9).
357
Tra le “molte superstizioni” che C. ha appreso sui Bramini, c’è anche “non occidere ani-
malia, maxima facere vaccas, in quas putant migrasse Maiorum animas” (Atheismus X IX, p.
131; cfr anche Theol. XI, p. 173).
446 LA CITTÀ DEL SOLE

“li Guzerati… non mangiano cosa che abia sangue né amazano cosa alcuna vi-
vente” – setta molto prossima al cristianesimo, tanto che “se avessero el batti-
smo tutti sariano salvi alle opere che fanno” (Varthema, p. 108); “queste genti
mangiano due volte al giorno: non mangiano pane né beveno vino, né man-
giano carne né pesce, se non riso, butiro, latte, zuccaro o frutti” (Pedro Alvarez
in: Ramusio, I, p. 643);358 Botero, a proposito delle idolatrie dei Narsingani:
“Non è lor lecito né amazzare, né veder amazzare cosa viva… Tengono le can-
dele accese dentro lanterne, affinché le farfalle non vi muoiano attorno” (III II,
p. 104); i malabaresi “non usano pane, né per legge mangiano carni, né bevo-
no vino. Le cose che mangiano sono oriza, orzo, butiro, latte, pesci, zucchero,
aromati, pomi e altri frutti” (Magini, II, p. 187).

88.8: sensum
‘Senso’ è sia ‘sensibilità’ (a conservazione dell’organismo) che ‘sensazione’: la
percezione “non avviene per ‘informazione’; vale a dire per accoglimento di
forme esterne – il ‘senziante’ si farebbe sole e terra, sentendo sole e terra –, ma
per ‘immutazione’, per le alterazioni percepite dallo spirito (“il senso esser
percipimento della passione”), alterazioni che, sebbene parziali, sono in grado
di fargli giudicare le qualità dell’oggetto esterno” (Ernst 2002, p. 46).
Confutando Aristotele che “nega il senso delle piante: e gli dà la vegetazione
che non si può fare senza senso di fatto, come Pitagora mostrò” (Epilogo, p.
318d; Senso, p. 213), C. si rifà presumibilmente ad Aristotele stesso, che nel De
plantis, 815a riferiva che i Pitagorici attribuivano alle piante un “sensum stupi-
dum” (= incosciente); ripreso da Lattanzio: “Pythagoras quoque unum Deum
confitetur dicens, incorporalem esse mentem, quae per omnem rerum natu-
ram diffusa et intenta, vitalem sensum cunctis animantibus tribuat” (Liber de ira
Dei XI [PL VII, 113]; id. in Div. Inst. I V [PL VI, 134]); e da Pico, Heptaplus I VI,
p. 219. Inoltre in Quod rem. (cit. in originale da Bobbio), C. esponeva a una set-
ta indiana questo stesso concetto: “Se non vi cibate degli animali, dovete aste-
nervi anche dalle piante: infatti le piante sono animate dal loro spirito sen-
ziente vegetale” (cfr anche Poesie, 25, Madr. 1, 8-10). “Qualcuno s’ingegna a
estendere il precetto [‘non ucciderai’] anche alle fiere e agli animali domesti-
ci, per cui sarebbe illecita anche la loro uccisione. E perché non anche gli er-
baggi e ogni vegetale conficcato nel terreno e nutrito dalle radici?” (CD 1, 20,
33); a differenza di C., però Agostino, crede che l’imperativo non vale per le
piante perché “mancano affatto di sensibilità”.

88.10-1: res… esse,


Espressione molto usata da C. (Metaph. II V, XIII [I, p. 287] e XI III, II [III, p.

358
Il fiorentino Andrea Corsali [1526]: in Cambaia “non si cibano di cosa alcuna che tenga
sangue, né fra essi loro consentono che si noccia ad alcuna cosa animata, come il nostro Leo-
nardo da Vinci: vivono di risi, latte e altri cibi inanimati” (Ramusio, II, p. 31), e così Barbosa
(Ramusio, II, p. 579; per altra affinità v. n. 158.15-6).
COMMENTO AL TESTO 447

21]) per un assioma scontatissimo:359 “Le cose più imperfette sono fatte per le
più perfette: onde le piante per li animali, l’animali per l’huomo, l’huomo per
gli angeli” (Epilogo, p. 324a; analogamente pp. 310, 320 e 553); ‘Salmodia’ 86,
131 Esp.: “l’erbe, le quali son fatte per gli animali, e questi per gli uomini, e
l’uomo per gli angeli, e questi per Dio”.
Fonti: Aristotele (Pol. 1256b 15: “le piante sono fatte per gli animali e gli ani-
mali per l’uomo”) e Tommaso, che, in base alle “parole della Genesi [1, 26-30]:
‘Facciamo l’uomo… e presieda ai pesci del mare… Ecco che io vi ho dato tutte
le erbe… perché siano di cibo a voi e a tutti gli animali della terra’”, sostiene
che “è lecito uccidere le bestie… perché l’ordine naturale le pone al servizio
dell’uomo, come l’imperfetto è in funzione di ciò che è perfetto” (ST II-II, 64,
2 e 66, 1; v. anche n. 12 [glossa] § 2).

88.15-19: Ter… natura.


“Tua in mensa exquisitos cibos non aggerabis, semel carnibus, semel piscibus,
semel leguminibus aut herbis cum aliquo ovo vesceris. Idem enim semper et af-
fluenter manducare nec sanitati nec marsupio commodum est” (Oecon. VIII, p.
210). Gli isolani di Iambulo in Diodoro si contentano “ogni giorno d’un cibo
solo, percioché un giorno è determinato a mangiar pesce, l’altro uccelli e alcu-
ne fiate animali terrestri” (II III [I, p. 121]). Ficino esorta a una dieta variata
(con carne, pesce, verdure, ma senza un’alternanza così rigida) e raccomanda
inoltre di “mangiare due volte il dì fra lo spatio di nove hore, e l’uno e l’altro si
vuol fare parcamente, ma assai più parcamente la cena” (Vita sana II VI).

88.21: pueri quater,


I fanciulli fino a sette anni, “ne lo estate et inverno voleno manzare come leva-
no, disnare, merendare e cenare, com’è pratica comuna” (Savonarola, p. 159).

88.22-4: Vivunt… ducentos.


“Platone nel dialogo sulla Temperanza assicura vita longeva a coloro di cui la
mente signoreggia il corpo e gli spiriti, non consentendo che si cibino od ope-
rino dentro in modo contrario alla ragione”; l’invecchiamento deriva dall’as-
sunzione di cibi nocivi che provocano malattie o da un malfunzionamento del-
lo spirito vegetativo, che fa sì che “il calore nativo assimila meno di quanto tra-
spira e si perde di continuo” (Theol. IV [II, p. 155-7]), inconvenienti che posso-
no entrambi esser evitati da un’anima sommamente razionale, com’era quella
dell’uomo prima del Peccato originale in stato d’innocenza. A ciò (secondo
Art. proph., p. 118) si potrebbe ancora rimediare vivendo sotto un’unica e vera
religione; infatti nella pace, che permette lo sviluppo delle scienze che inse-
gnano l’uso corretto della riproduzione, dell’alimentazione (Senso IV VII) e del-
l’astrologia, si gode lunga vita, come gli antichi patriarchi che conoscevano la

359
Ad es. per Della Porta Dio creò secondo i gradi “gli elementi, che le cose inferiori servis-
sero le superiori, per una legge fatale” (Magia I IV, 6r).
448 LA CITTÀ DEL SOLE

vera scienza e religione.360 Ma i Solari sono l’avanguardia della Gerusalemme


celeste, dove Isaia (66, 20) predice che là “chi muore a cent’anni, morirà gio-
vane, e non arrivare a cent’anni sarà una maledizione” (versetto che C. cita in
Art. proph., p. 88 e Theol. IV [II, p. 179]). Morir giovane non sarà più caro agli
dei (come sarà vergognoso aver certe malattie [90.20-4]), specialmente se si vi-
ve in una regione che è un paradiso terrestre; l’invecchiamento è infatti fun-
zione del clima, e quindi della latitudine: gli abitanti della regione equatoriale
vivono a lungo, perché sono dotati di un temperamento equilibrato, essendo
anche sottoposti alla dominazione di Giove (Astrol., p. 196).361
Per Plinio, l’India è il luogo delle meraviglie e questo grazie all’“ubertas soli,
temperies caeli, aquarum abundantia”; gli uomini sono di sana e robusta costi-
tuzione, “non expuere”, non sputano mai, e godono “un clima salubre, una
primavera perpetua”; secondo vari autori vivono fino a 130 o 140 anni, “senza
invecchiare, ma muoiono per così dire in piena maturità. Crates di Pergamo li
chiama Gimneti o Macrobioi [= Uomini dalla lunga vita]”. I Taprobanesi, in
partic., “vivono al minimo cento anni”, e anzi, “dice Artemidoro che nell’isola
Taprobana vivono lunghissima vita senza alcuna infermità di corpo”.362 Comu-
nemente si attribuiva ai popoli dell’India una durata di vita dai 120 ai 200 anni:
Erodoto, III, 17, 21, 23, 114; Aristotele, De long. vit., 465a, 466b (“le costituzioni
umide e calde sono le più longeve, ed esse si ritrovano nei paesi caldi”); Dio-
doro (gli abitanti dell’isola del Sole “vivono fin 150 anni, e per lo più senza ve-
runa infirmità”); Strabone, 3, 17, 97;363 pseudo-Ambrogio (PL XVII, 1133) e
Palladio, 4 (52): a Taprobana “i vecchi vivono fino a 150 anni a causa del clima
estremamente mite e di un imperscrutabile decreto divino”; replicato nel Me-
dio Evo da SH I LXXIX, in cui risuonano gli stessi toni vaticinanti di Isaia: “Aetas
illis [= Taprobanesi] ultra humanam fragilitatem prolixa est, ut immature pe-
reat, qui centenarius moritur”.
Con le scoperte geografiche il mito della longevità esotica si affievolisce, ma
senza scomparire del tutto; ad es. in una lettera dei Gesuiti del 1589 si ritrova
l’affine formulazione campan.: “bona incolae [di Santa Cruz] sunt omnes et in-
tegra valetudine, vita longissima, quam multi ad centesimum usque annum,
nonnulli decimum praeterea, extendunt”.364 E, tornando agli “Indi”, Niccolò
de’ Conti narra che i Bramini sono “di onesta e santa vita e di buoni costumi,
infra li quali dice di aver veduto uno ch’era di 300 anni” (Ramusio, II, p. 812);
Magini dice che vivono “quasi cento e trenta anni” (II, p. 185).

360
Concordano: Theol. XXVII, 2, art. 4; Apologia, p. 17; Art. proph., p. 88-9; Mon. Messiae III,
p. 15.
361
Compendio LII, 18, cit. a n. 36.3-4; cfr Lerner 2001, p. 207.
362
Plinio, VI, 24, 91 e [Domenichi] VII II, p. 187 – Agostino, CD 15, 10 reputa attendibili que-
ste affermazioni pliniane.
363
Cfr Desantis, p. 52; e ancora Solino, Marziano Capella, Fozio.
364
Cit. da Romeo, p. 171; l’espressione è presente anche in Galeno: “Unde non solum usque
ad ducentos vel trecentos annos…” (V, 133).
COMMENTO AL TESTO 449

In Occidente, invece, si moltiplicano le indagini e i suggerimenti per vivere a


lungo: Savonarola rivela quali sono le cause della brevità della vita odierna (ri-
spetto agli antichi): congiunzioni astrali infauste, alimentazione troppo raffi-
nata, sessualità sfrenata e fatta a stomaco pieno, “debilitando così la semenza”
(p. 192-5). Il II libro della Vita sana di Ficino, “nel quale si tratta del modo di
conservare la vita lungo tempo”, è rivolto esclusivamente agli “ingegni elevati”,
che per diventare tali, cioè sapienti, devono vivere lungamente; ebbene, il se-
greto sta tutto nell’alimentazione (ad es. cibarsi di animali longevi, come il cer-
vo); la vitalità è come la fiamma (= “calore naturale”) di una lucerna alimenta-
ta dal suo olio (= “l’humore aerio e grasso”). Della Porta, infine, attribuisce la
longevità alla complessione ‘secca’, all’opposto di quanto sostenuto da Aristo-
tele (Fisonomia I XVI, p. 111). Altri utopisti, meno fiduciosi nei miracoli della
dietologia, e più preoccupati dei guai della vecchiaia, propongono una forzosa
interruzione della vita superata una certa età: Roseo (p. 54-5) soppressione del-
le donne dopo i quaranta anni, degli uomini dopo i cinquanta, come nell’isola
di Iambulo dopo i 150 (Ramusio, I, p. 900).

88.25-31: In potu… apponunt.


Inviti alla moderazione nel bere si levano da: Platone, Leg. 637d, 671b (cui si
rifà esplicitamente Macrobio, Saturn. II, 8, 5); Giamblico, Vita, pp. 69, 97, 107;
pseudo-Ambrogio (PL XVII, 1146) e Palladio, II, 48-51 (un bramino tuona
contro l’ubriachezza: “l’ubriaco sembra vivere, ma per quanto riguarda la sa-
pienza è un morto”).
Medicina II II, III ed Oecon. III IV, p. 202 e VIII, p. 210 spiegano a chi e quando
conviene dare il vino: mai prima dei diciotto anni e mai alle donne (salvo per
ragioni di salute), perché il vino ravviva gli spiriti vitali, già per natura fin trop-
po ardenti a quell’età; dai diciannove ai quarant’anni bisogna berlo mescolato
con acqua, e soltanto nella maturità se ne può bere liberamente, ma sempre
moderatamente, altrimenti è dannoso (causa la podagra e la chiragra [Poët. II
IV, p. 941], di cui non a caso i Solari non sono affetti [90.14]). Quod rem. 4 cita
tra le sue ‘auctoritates’ i passi della Bibbia che ne autorizzano il consumo365 e
“similiter philosophi omnes et medici. Unde Plato de potu vini in sua lege post
18 annum multa docet, et Asclepiades libros integros de vini usu scribit” (p.
63). Questi precetti platonici (Leg. 645d, 666a), citati da Galeno (Quod an. mo-
res IV, 809), sono unanimamente condivisi dai moderni: Ficino, Vita sana II VII,
p. 78; Persio, p. 2; Della Porta, Fisonomia I, p. 21; mentre i peripatetici sono più
rigidi: Zimara, p. 186-7, rifacendosi a Probl. III di Aristotele disapprova anche il
vino annacquato.

88.32: Protomedico,
L’enfasi nell’assegnare a un ‘Protomedico’ una mansione apparentemente di
non così grave momento – stabilire il menu (“tassata” di T.88.42 è un latinismo

365
Cfr svariati loci commentati da Crisostomo, ad es. I, 233AB o Damasceno, Parall. III XII.
450 LA CITTÀ DEL SOLE

che sta appunto per ‘determinata’) – deriva dal fatto che l’Au. intende con
questo evidenziare che l’alimentazione non è soggetta alle esigenze della gola,
ma alle regole della dieta. Un riscontro lo si aveva a 40.26-7 dove pure era in
causa un “magnus… doctor” a disciplinare gli sfoghi sessuali, onde evitare an-
che in quel caso sospetti di sfrenatezze.

88.36-8: Idcirco… ariditatem,


Scrive una lunga epistola a Schoppe sul modo di evitare il calore estivo facendo
ricorso all’alimentazione vegetariana (Lettere, p. 124-9), quale poteva essergli
suggerita da Della Porta, Phytogn. VI XXVI: ‘Ad humanam naturam refrigeran-
dam, humida aestate Naturam genuisse’.

88.39-40: uvis… tristitiam


L’uva (e quindi il vino) come antimelanconico è già in SN XIV LXXXIII, che si
rifà a Isaac, In dietis III: “Melancholicos humores temperat, animum confortat
et laetificat”.
I medici distinguono due tipi di atrabile: naturale, cioè “una certa parte di
sangue e più secca e più densa del resto”; e quella adusta, originantesi dal-
l’accensione di uno dei nostri umori (e dunque è di quattro tipi), che ci ren-
de inizialmente furiosi (“i Greci chiamano questa spetie Mania; noi la chia-
miamo pazzia, e furore”), e che, una volta spentasi, lascia un residuo secco e
nero, “una sola fuligine oscura, che fa l’huomo stupido e stolto”; dunque so-
lo quella naturale “è di gran giovamento al giudicio e alla sapienza”, a patto
però che sia “sottilissima”, in modo che “accesa, risplenda e non arda… Per
questa cagione diventano così eccellenti e singulari i filosofi, massimamente
quando si ritruova l’animo astratto dal proprio corpo, e da i moti estrinseci,
e vicinissimo alle intelligenze celesti, e diventa uno istromento delle cose di-
vine” (Ficino, Vita sana, p. 6-15). C. invece nega “che nel corpo vi siano quat-
tro umori corrispondenti ai quattro elementi: infatti vi è un solo umore ed è
il sangue, come attesta anche Aristotele. Bile nera e flava bile sono feccia e
spuma del sangue, la linfa [= flegma] è sangue imperfettamente elaborato. E
i predetti umori si dividono in varie specie secondo i vari gradi di calore e le
varie disposizioni della materia” (Theol. III, p. 105).366 Dunque, a differenza
di una tesi corrente, per C. la malinconia non è un umore, ma è la “feccia”
del sangue (evidente l’analogia con il nero, feccia della materia: v. n. 54.18-9
e n. 94.6): la bile gialla è “sequestrata nella cistifellea, perché non abbia a in-
fettare il corpo, ma serve a stimolare la fortezza ed eccitare lo spirito e l’inte-
stino, perché mandino fuori i residui alimentari nocivi; la nera bile è feccia
del sangue sequestrata dalla milza… ad eccitare l’appetito nel ventricolo e di-
sporre lo spirito alla contemplazione e a proficui timori” (Theol. I [II, p. 191-
3]). Ma è ovviamente Medicina a riservare una particolare attenzione all’atra-
bile, per il suo legame con la profezia: “Costituita da un sedimento del san-

366
Così anche Compendio: “c’è un solo sangue e altre innumerevoli secrezioni” (XIII, p. 10).
COMMENTO AL TESTO 451

gue scuro e pesante, residuo dell’ardore e della cottura, la bile nera viene
raccolta nella milza come in un vaso per le impurità e serve come stimolo al-
la fame e quando necessario al timore. Se in modica quantità, può giovare al-
la contemplazione, ma non certo per il fatto che essa sia ‘sapiente e profe-
tante e meditante’ o causa diretta di queste attività, come ritengono erronea-
mente Aristotele e Galeno, vedendo che gli atrabiliosi sono atti alla sapienza
e alla profezia. Tale spiegazione fisiologica non è fondata: come infatti po-
trebbe una cosa insensata, si chiede C., originare la sapienza? È vero invece
che la presenza di questo umore è un segno dell’intenso calore dello spirito,
ciò che lo rende estremamente sottile e quindi particolarmente atto a riceve-
re l’impressione delle passioni. È dunque la sottigliezza dello spirito che ren-
de atti alla profezia, e non le sue fuliggini, che quando abbondano lo oscura-
no e lo atterriscono, ne interrompono il discorso e ne turbano le nozioni…
Di qui il delirio malinconico caratterizzato da costante tristezza, paura, avver-
sione per i rapporti umani, immaginazione turbata e desiderio di morte, che
può veramente sopravvenire quando l’oscurità invade completamente lo spi-
rito. Nei casi gravi i rimedi sono estremamente difficili… Sulla base di questa
concezione della bile nera, C. critica aspramente quanto afferma Aristotele
nei Problemata, che attribuisce proprio a questo umore l’ispirazione poetica e
le profezie delle Sibille, istituendo un’analogia con gli effetti indotti dal vino,
che C. ritiene superficiale e falsa… Ancora una volta apprezza di più le posi-
zioni di Ficino che non si limita a collegare bile nera e profezia, ma spiega le
modeste proporzioni in cui l’umore melanconico debba essere presente nel
sangue, per non danneggiarlo, e correttamente tiene conto dello spirito e
delle sue caratteristiche, che Aristotele ignora, attribuendo al vino e all’atra-
bile quello che è da attribuire alla sottigliezza dello spirito… L’atrabile, se-
gno e faex della tenuità, e non sua causa, non giova alla scienza se non perché
lo spirito, spaventato dalla nerezza, si ritira all’interno a contemplare… I ri-
medi contro i danni della saturninità saranno… soprattutto respirare l’aria
serena e aperta, passeggiare in giardini verdi pieni di fiori, ascoltare la musi-
ca, dedicarsi a cose liete e a giochi, ricorrere a tutto ciò che è della natura di
Venere e di Giove, nutrirsi di cibi bianchi, dolci, molli, contrari alla bile nera,
amara e secca” (Ernst 2002, p. 185-91).

88.41-90.5: Utuntur… thus;


Oltre che igienizzanti (deodoranti), gli odori sono dei curativi contro le feb-
bri effimere (90.38), ma addirittura combattono epilessie (v. n. 94.6) e con-
giunzioni astrali funeste (146.15). Come diceva Telesio, l’uomo è quel che re-
spira (“coloro che vengono generati e cresciuti sotto aria diversa differiscono
tanto tra loro per facoltà di intendere”); e di conseguenza per guarire le ma-
lattie “che si prendono per l’aria infetta”, resistenti a qualsiasi arte medica,
“non bisogna far uscire un qualche umore, come fanno i medici, ma deve es-
ser favorito lo spirito che ivi si trova e deve essere reso del tutto più tenue, e
ne deve essere generato dell’altro e in abbondanza e che sia tenue e puro. Il
che si può fare con odori, cibi e bevande appropriati, da cui possa essere trat-
ta subito un’evaporazione abbondante e tenue e pura. E quando talvolta que-
452 LA CITTÀ DEL SOLE

sto accade, quando cioè si genera molto spirito buono, le malattie vengono
superate” (V, 29 [p. 379]; concetti ripresi da C., tra l’altro, in Physiol. IX IV, p.
78-9).
La teoria (e terapia) degli odori risale ad Aristotele, che nel De sensu et sensib.
distingue due tipi di odori dilettevoli: ‘per altro’ (l’odore dei cibi) e ‘per sé’,
come quello dei fiori e “quod confert ad sanitatem… Cum enim odor fit
quaedam evaporatio, pertingit ad locum cerebri, ad quam pertingere non
potest substantia cibi”. Poiché la vita è legata agli spiriti, e gli odori sono fatti
di sostanze simili ad essi, si capisce la loro importanza terapeutica, che, riba-
dita da Gregorio Nisseno ad Alberto Magno (raccolti in SN IV CVIII), resta in
auge in tutta la modernità. In partic. Ficino, Vita sana VIII, 23, 25 (antidoto
ideale alla malinconia) e II XVIII (‘A che guisa s’habbia a nutrire lo spirito e a
conservare la vita per mezzo degli odori’), ritiene che “in alcune regioni cal-
de e piene tutte di molti odori”, costituzioni delicate si nutrano “quasi de-
gl’odori soli”; e Persio chiarisce fonte ed esatto significato di questa apparen-
te ‘meraviglia’: come insegna Aristotele, “‘l’anima si pasce nell’odorare, e il
soavissimo odore è il suo cibo’”; gli odori creati “dallo spirito universale del
mondo” sono simili al nostro spirito e infatti Venere penetra con gli odori, e
“accostandosi al nostro spirito, lo moltiplica anchor ella, e fa nascerne di
nuovo”, donde si capisce quello “che volle dir Plinio di certi popoli che vi-
veano d’odore. E non saria troppo disdicevole a credere che per l’abbondan-
za degli odori e tempratura d’aria la maggior parte de’ Napoletani, e di que’
di tutto il regno, come ho letto appresso alcuni scrittori, siino così vivi di spi-
rito, il quale destato da gli odori propii di Venere, gli doni aguto ingegno, on-
de amino ferventemente le loro amorose” (p. 100-8).
Per quanto concerne specificamente le pratiche mattutine, Medicina dedica
un capitolo (II III, III Append.) all’igiene orale: “Alzandoti la mattina, spazzo-
lerai i denti lavandoti” e inoltre “dentium corroboratione et constrictio per
salviam, myrtum… et huiusmodi extra confricata et ore detenta” (p. 312);
pratiche del resto ben note: Ficino, ad es., consiglia agli anziani di tenere
“del continovo in bocca la salvia, ch’è tanto ai denti e ai nervi amica” (Vita sa-
na II XVII, p. 112; cfr anche VIII, p. 23). Come, ovviamente, notissime, fin dal-
l’antichità sono le qualità confortative di queste piante: l’incenso “confert ra-
tioni et confortat ipsum [= capo]” (Avicenna, Canon II II [I, 152H-153AB]);
SN XIII CXI: “Intellectum acuit… memoriam quoque corroborat. Item masti-
catum cum origano staphysagria, dissolvit phlegma a capite extrahendo et
linguae gravedinem alleviat”; Ficino: “spesso masticare dell’incenso, perché
meravigliosamente giova al catarro, a tutti i sentimenti e alla memoria” (Vita
sana XIV, p. 35-6); la menta: “fricat cum illo asperitas linguae et removetur…
confortat stomachum et calefacit ipsum, et digerit, et prohibet vomitum
phlegmaticum” (Avicenna, ib. – nessuna allusione alla sua proprietà di profu-
mare l’alito); SN X XCIII: “Platearius: contra faetorem oris ex putredine gingi-
varum et dentium abluitur os ex aceto decoctionis eius, et post ex pulverae
mentae siccae fricetur… Constantinus, in libro graduum: os odoriferum red-
dit, lingua cum frondibus fricata omnem amittit asperitatem”; Savonarola
consiglia alle donne incinte “la matina quando levano… giova molto il masti-
COMMENTO AL TESTO 453

care di la menta” per farsi venire l’appetito (p. 89 - come già diceva Plinio,
XX); Ficino: “Amo molto la menta fresca salutifera per la mente e sicurissima
per lo spirito” (Amore II XIX, p. 119 - la paronomasia è molto eloquente); il fi-
nocchio: SN IX XCIX ‘De maraco et maratro’: sulla scorta di Dioscoride, non
menziona alcuna qualità dentifricia del finocchio, ma, al più, “confortat sto-
machum, oppilationem aperit et hepatis et vesicae et renum”; Ficino lo para-
gona al vino per la velocità ed efficacia di effetto nel ritemprare gli spiriti; il
prezzemolo: SN X CXIV: ‘De petroselino’ Isidoro decanta l’“odore aromati-
co”; anche se nessuno degli autori citati (e sono sei, da Plinio a Isaac) accen-
na a usi deodoranti, tutti concordano sulle sue qualità diuretiche e in genere
espulsive (compresi eventuali feti morti).

90.6-7: persimili… CHRISTUS.


È il “Pater noster” di T.90.8; e infatti, come il ‘Pater’ si conclude con il ‘fiat
voluntas tua’, la loro preghiera privata (112.30; v. n. 112.20-30) termina con
“Veluti Deo videtur optimum”. Preghiera all’Au. oltremodo cara, vista la pa-
rafrasi poetica e il ‘Sonetto trigemino’ che vi compone (Poesie, 46-9), dove
“adveniat regnum tuum” è esplicitamente connesso a quando “gli poeti ve-
dranno il secol d’oro da loro cantato, e gli filosofi lo stato ‘de optima repu-
blica’ da essi descritta”, ma “che in terra ancora mai non s’è trovato” (49,
Esp.), eppure “predetto da profeti in Gerusalem liberata, e desiderato, ‘ut
fiat voluntas Dei in terra sicut in coelo’, da tutte nazioni, sotto una greggia e
un pastore” (Lettere, pp. 172 e 190; Quod rem. 3, p. 144 – sulla numerologia del
Pater, imperniata sul sette, cfr Camillo, p. 58).

90.9-13: Deinde… accedunt.


Questo fervore, che significa insieme operosità collettiva ed organizzazione e
distribuzione del lavoro (v. n. 26.33-5), muoveva anche i Solari di Iambulo:
“Per turno attendono i diversi essercitij, che alcuni si servono l’un l’altro tra
loro; alcuni pescano; alcuni esercitano l’arti, e alcuni altri attendono ad altre
cose diverse all’uso della vita comode e necessarie. Alcuni poi, fuor che i vec-
chi, spartendosi scambievolmente tra loro l’opere, attendono a servire” (Dio-
doro, II XIII [I, p. 121]); Giamblico, Vita [Theodoreto] XX-XXI (p. 97-100) de-
scrive l’affaccendata giornata-tipo dei pitagorici; Ambrogio (V XXI, p. 69) e
Virgilio (Georg. IV) esaltano il brulichio non caotico delle api; e Doni, strin-
gatamente (p. 75), accenna a questa laboriosità disciplinata, che nella mo-
derna civiltà di massa si rovescerà in tratto caratteristico delle distopie (ad es.
Huxley, Il mondo nuovo, p. 10-1: “Nella Sala di Imbottigliamento, tutto era agi-
tazione armoniosa e attività ordinata”).

90 (glossa): De morbis Solarium et cura


Segue lo stesso tracciato discorsivo di Doni (p. 75): dopo la descrizione della
giornata-tipo, la preghiera, gli anziani, le malattie. Queste ultime sono tratta-
te con dovizia in Medicina VI V: ‘De morbis organicis a distillatione potesta-
tem operativam laedentibus aut impedientibus’; VI V, I: ‘De catarrho, poda-
gra, gonagra… chiragra’ (e così art. success.: II-V); XI, IV: ‘De spuitione’; XI, VI:
454 LA CITTÀ DEL SOLE

‘De inflatione ventriculi’; XII, VIII: ‘De triplici cruditate ventriculi’; VII ‘De fe-
bribus’. Contro i medici che li ritenevano morbi differenti, C. sostiene l’unità
della causa, cioè una flussione d’umore che procede dall’alto in basso (Janni,
II, p. 31-2; v. n. sg).
Il tratto saliente della medicina Solare sarà satirizzato nell’Erewhon [1872] di
Samuel Butler: gli abitanti di Erewhon considerano la malattia un delitto e il
delitto una malattia. La medicalizzazione pervade infatti tutte le principali
attività dei Solari: non solo, com’è ovvio, la cura delle malattie, ma anche
l’abbigliamento, l’alimentazione, l’igiene e naturalmente la sessualità; e in
più pervade l’etica e quindi la giustizia, che commina pene che sono ‘vere e
proprie medicine’ (104.15), per sanare o tagliare (‘resecare’ [100.36])
membra infette del corpo sociale, le quali membra resecande, ovvero i con-
dannati a morte, prima dell’esecuzione si conciliano con i loro accusatori
“tanquam medicis suae aegritudinis”. Addirittura la stessa musica può diven-
tare un mezzo terapeutico, direttamente (92.1, 146.18) o indirettamente: il
pranzo è accompagnato da canti e musiche, oltre che per allietare la convi-
vialità (36.36), anche probabilmente per agevolare la digestione: “poiché
nel canto c’è ritmo, il ritmo corrisponde ad un ordine, e l’ordine è in tutte
le manifestazioni della natura; infatti quando beviamo, ci nutriamo, lavoria-
mo con ordine, si mantengono e si accrescono le forze naturali, mentre un
disordinato regime di vita fa degenerare la natura e ne altera l’ordine” (Poët.
II I, p. 917).
Tale medicalizzazione spinta è una delle facce del poliedro razionale della
Città; e risponde al principio: ‘più sani, più buoni’; non è dunque ‘buoni-
smo’ di maniera, ma scientifico: ottenere/mantenere spiriti animali più puri
significa creare una società di sapienti e quindi di virtuosi (come si può de-
durre da 96.25-6 e dalla teoria generale di 132.6sg). Infatti, per C., se la fisio-
logia è alla base dell’etica (i ‘caratteri’ sono certe predisposizioni innate de-
gli spiriti animali), allora l’ozio non solo è una patologia della virtù contraria
(= l’Esercizio), ma è il padre di tutti i mali, “imperocché la maggior parte di
loro hanno origine dall’inflatione, dalla distillatione, dalla crudità, dalla
ostruzzione, dall’infiammazione e dalla putredine” (Epilogo, p. 528).
Se i fondamenti fisiologici della scienza medica sono enunciati principal-
mente in Medicina, vi sono però tracce più o meno cospicue anche in altre
opere: ad es. una sobria ma efficace sintesi è contenuta in una lettera a Sera-
fino Rinaldi (Lettere, p. 112-7); in Poët. II (p. 926-8) è esposta la teoria degli
spiriti; in Theol. IV (II, p. 153) si parla dell’assenza di malattie nello stato d’in-
nocenza prima del peccato originale; e ancora: Senso II XXX, Epilogo, Compen-
dio, Metaph., Physiol., Quaest. phys. La sua cultura medica fu molto precoce, ri-
salendo al noviziato in S. Giorgio Morgeto (1583-6): insoddisfatto delle lettu-
re aristoteliche, “decisi di leggere io stesso tutti i libri di… Galeno”; letture
che proseguono quand’era confinato ad Altomonte (1589), dietro sollecita-
zione dei medici G. Francesco Branca e Plinio Rolliano; le sue fonti sono Ip-
pocrate, considerato “il migliore degli antichi” e “la guida in medicina”, Ga-
leno (scadente nella teoria, “mirabile nelle dissezioni”), Celso, Avicenna, che
COMMENTO AL TESTO 455

“adotta un ordine stupendo e ha dato alla medicina un contributo rilevantissi-


mo”, oltre ai Tralliano, Rhasi e Fernel.367
La struttura fisiologica dell’organismo umano è costituita di liquidi (sangue,
umori), solidi (osseo-carnei) e una quintessenza, lo spirito animale (v. n.
44.23), che, analogamente all’anima (la ‘mens’), ma a un livello inferiore, si
compone primalitativamente (v. n. 126.18-128.2) di “potestativo, cognoscitivo
et volitivo” e consiste di una sostanza materiale [= “corpore”] “mortale, tenuis-
sima, trasparente, calda, mobile, in grado di potere, sentire e desiderare”; l’im-
perfezione o la malattia scaturisce quando manca una di queste qualità; se ven-
gono meno tutte, si ha la morte. Tre sono le sue funzioni principali: “cognitio
sensibilium et motio corporis et calefactio”, ovvero la percezione, il movimen-
to degli organi e (quindi) dell’organismo, la temperatura corporea. Non si
tratta di tre spiriti diversi (comunemente si credeva che esistesse uno spirito
animale, uno vitale e uno naturale, aventi come sede rispettivamente il cervel-
lo, il cuore e il fegato), ma è sempre e solo uno, che sta nel cervello, e che viag-
gia lungo le fibre e i vasi corporei; appena è mosso da “passione urgente”, ac-
corre, ne ha percezione e agisce di conseguenza (o meglio fa agire l’apparato
motorio – Medicina, p. 7-10). Tare o anomalie dell’organismo, alcune acciden-
tali, altre però dovute a vita viziosa, compromettono queste funzioni in manie-
ra più o meno grave. “La maggior parte delle malattie nasce dal fatto che” vi è
un’inefficace assimilazione delle sostanze nutritive, le quali perché in eccesso o
perché inadatte, devono essere espulse, altrimenti formano “un’ostruzione da
cui nascono delle malattie” (Compendio, XLVIII).
La frugalità e l’attivismo dei Solari li preserva dai primi tre morbi citati da Epi-
logo: infatti “l’inflatione avviene dal vapor grosso, che si genera dentro a qual-
che vaso. Non potendo essalare, perché l’essercitio non l’assottiglia nè gli apre
i pori, viene a tormentar in varij modi”; “la distillatione si fa di vapori grossi
ascendenti al cerebro e quivi condensati et moltiplicati: non espurgandosi per
le fogne ordinarie, vengono a basso… Se si fermano nelli piedi fan podagra…
se nelli articoli grandi delle coscie sciatica, se nelle mani chiragra… se poi ca-
sca la distillatione nelle fauci fa catarro” (Epilogo, p. 528-31: la gotta, quindi, sa-
rebbe causata dal fatto che gli umori eccessivi evaporati si condensano e scor-
rono nelle articolazioni e fibre muscolari, danneggiandole). I “fluores” gene-
ratisi dalla condensazione dei vapori che si concentrano tutti in alto, cioè nel
cervello, vengono normalmente espulsi attraverso le varie cavità della testa; al-
trimenti “scendendo verso il polmone per i nervi e i muscoli all’interno della
pelle, sono soliti procurare malattie… da distillazione” (Compendio XLIX, 7);
mentre, se restano nel cervello, provocano l’epilessia (di cui però i Solari sof-
frono: v. n. 94.6); la crudità è causata dall’eccesso di cibo ingerito che gli spiri-
ti animali non riescono a ‘cuocere’, cioè a separare le scorie che quindi entra-
no in circolo, danneggiando variamente l’organismo: “cruditas est officina ac
minera omnium… malorum” (Physiol., in Epilogo, p. 543). La medicina antica

367
Syntagma I I; II V; IV VII; su questi ultimi tre, cfr rinvii bio-bibliogr. di Ernst 1999, p. 396.
456 LA CITTÀ DEL SOLE

distingueva infatti quattro tipi di digestione, come chiarisce bene Marinone:


“prima digestione nello stomaco = trasformazione del cibo in succo; seconda
digestione ad opera del fegato = trasformazione del succo in sangue; terza di-
gestione nelle vene e nelle arterie = depurazione del sangue; quarta digestione
nelle membra = assorbimento del sangue depurato” (p. 772). Bisogna premet-
tere che da Galeno deriva la teoria che quanto più gli umori corporei sono flui-
di e sottili, tanto più sono puri e quindi ‘sani’ (psico-somaticamente): “Dice
Galeno che il cibo, venendo nel ventre prima divorato, poi corrotto e distratto
per le vene, fa gli umori del corpo, de’ quali se ne nodriscono le parti del cor-
po: il cervello, il core, il fegato. E mentre ciò si fa, si fan caldi e secchi, umidi o
freddi, secondo quello umore che avanza” (Della Porta, Fisonomia I XXVIII, p.
170-1); e VI, Proemio (p. 930): “con cibi, con bere e con esercizii mutar il tem-
peramento in meglio, et in bono temperamento giovar alle virtudi. Così cor-
rompersi li costumi dalla cattiva usanza: dal cibo, dal bere, e dall’esercizio”; VI
I, p. 935-7: “quegli animali che hanno il sangue così liquido e freddo sono più
savii; ma ciò non avvien loro per la freddezza del sangue, ma per la sottigliezza
e la sincerità; perché quello umor che è più sottile e più sincero ha più nobil
senso”. Il nesso fra pigrizia o crapula e febbre è chiarito in Epilogo: in situazione
normale vi è una condizione di equilibrio fra la sostanza nutritiva ingerita dal-
l’organismo e lo spirito animale destinato a metabolizzarla, ma “per debolezza
propria o soverchieria del nutrimento” si formano delle enfiagioni, dove ac-
corre “lo spirito dell’altre parti [del corpo] a cuocere con più calore quel so-
verchio, il qual comincia a marcirsi et putrefarsi per l’augumento del calore,
s’accende la febre, che è augumento del moto e del caldo dello spirito appa-
recchiato a scacciar la cosa molesta. Et le fuligini ritenute cagionano ancho fe-
bre, quando lo spirito poi vuol scacciarle” (p. 440-1).368 L’Esercizio è un’altra
virtù naturale che ci “è data per ventilare lo spirito, purgarlo dalle fuligini et
aumentarlo… di sangue assottigliato; et per purgare il sangue, et far la distri-
butione del cibbo a tutte le parti” (Epilogo, p. 527). Ludovico, 156v, 11 (p. 100):
“Nos autem et Ethicis probavimus, et mala corporis et animi pene omnia ab
otio originem trahere siquidem calor nativus per exercitium non ventilatus
marcescit, excrementa, ac fuligines non educit, cibos non vel prave coquit, san-
guinemque per membra non dispertit; hinc morbi qui ex cruditatibus fiunt;
item ex inflationibus et distillationibus, et obstructionibus, quos in 3° Medicinae
sigillatim explanavimus”.369 L’allusione a Moralis XV, 59 (= “Nos autem et Ethi-
cis…”), riguarda le contromisure che la natura stessa adotta nei confronti dei
vizi umani: il rossore di vergogna per aver commesso una colpa, “sicut natura
facit puniendo intemperatos podagra”.
Le malattie di cui soffrono più spesso i Solari sono invece prevalentemente ge-
nerate dalla putrefazione, che scatena varie specie di febbri: “la febre è un fer-

368
“Paucae fuligines efficiunt febrim diariam; multae hecticam” (Physiol. [1623 e 1637], in
Epilogo, p. 442n).
369
Ma anche in Senso è spiegato il nesso fra pigrizia e iperproduzione di fluidi (p. 252).
COMMENTO AL TESTO 457

vor d’esso spirito che s’accende et si move più velocemente et più spessamente
del solito contra il vapore et humor molesto” (Epilogo, p. 381; cfr anche Phys. IX
IV, p. 79). Ve ne sono di tre tipi, in base agli organi coinvolti:
1) “L’una si fa nelli spiriti”, ad es. “per tristitia et dispiacere, quando egli [= lo
spirito] si ritira e tralascia gli uffici del corpo et non scaccia le fuligini et si fa
crudità, dal che vedendosi oppresso fa far febre più che diaria” (Epilogo, p.
533 – questo spiega il ricorso all’‘allegria’ terapeutica [92.1]): è una febbre
effimera, ma violenta.
2) Se invece sono colpiti gli umori, si hanno due sottospecie di febbri: a) febbri
continue, se è interessato l’umore interno ai vasi, specie quelli prossimi al
cuore: gli spiriti animali, nel loro incessante movimento, lo riscaldano “fin-
ché non l’haverà stravasato”, cioè non ha espulso o volatilizzato l’umore pu-
trefatto intravenoso, e questo riscaldamento è appunto la febbre; b) “se poi
si fanno putredini fuori da i vasi… si fanno diverse sorti di febri, cioè quoti-
diana, terzana, quartana, quintana, sextana, ottana ecc. Imperocché quando
l’humore è grossetto et flemmatico, accendendosi lo spirito per scacciarlo lo
manda fuora consumato, ma non così totalmente che non resti reliquia di
lui… Quando l’humore è più sottile sì che tutto traspira nella prima accen-
sione et non resta attaccato nelli meati, si fa terzana… Le quartane poi si
fanno d’humor più grosso, et però tarda più a riaccendersi, et nuocono
manco, e per lo più di malinconia si nutriscono”. La terzana, quartana (di
cui ha sofferto quand’aveva quattordici anni: Syntagma I I) ecc. sono dunque
febbri che variano in base al tipo di umore (più o meno ‘grosso’ o fluido)
che è stato colpito.370
3) Infine le putrefazioni delle parti solide o carnose dell’organismo cagionano
le febbri etiche: a causa di mancanza di sangue, che nutre gli spiriti e irriga
il corpo, si è “disseccata l’humidità et essalato il calore”, e sono rimaste solo
“le parti salde aride con poco caldo in copia, ma molto in forza perché acu-
to e adurente” (Epilogo, p. 533-40).
È al soggiorno padovano, quando frequentava il “teatro anatomico” di Girola-
mo Fabrizi d’Acquapendente, che risale la felice intuizione che la febbre non è
una malattia, ma un rimedio (Formichetti 1999, p. 25); poi al repertorio di feb-
bri è dedicato l’intero VII libro di Medicina, perché per C., contrariamente alla
credenza corrente degli antichi (“dixerunt veteres febrem esse calorem nati-
vum conversum in igneum” [p. 595]: v. Galeno infra) e dei moderni medici,
che le ritengono “esse morbum per se”, considera le febbri “bellum contra
morbum, potestativa vi spiritus initum” (p. 598), una reazione degli spiriti vita-
li a un’ipersecrezione umorale (“fervore dello spirito sono contra l’umor pravo
tra vasi aggregato o a canto a loro” [Senso, p. 262]), e dunque un rimedio: ‘Fe-
brem non esse morbum, sed remedium et fieri brevem, longam, continuam,
remittentem et intermittentem…’. Così titola un paragr. di Medicina (VII II, I),

370
Circa la tipologia di febbri qui menzionate cfr Medicina: per le terzane, p. 673; quartane:
p. 675; quintane, settane, nonane: p. 680.
458 LA CITTÀ DEL SOLE

dove si dice appunto che le febbri consistono in realtà in una “spontanea, ex-
traordinaria spiritus agitatio, inflammatioque ad pugnam contra irritantem
morbificam causam: quam sic calefecit, agitat, digeritque, reddiditque espul-
sioni aptam, vel extinctioni, vel meliorationi”. La cura prevista invece da C.
per queste febbri “è l’humettar le parti et aprir la cute con bagni dolci, tepi-
di et nutrire il corpo con latte, principio dell’humidità radicale, et con lento
essercitio avvivare li spiriti” (Epilogo, p. 540); e in partic. per la febbre etica
“bisogna mutar tutto il temperamento, volendo sanarla. Onde è necessario
pensar molto a gli odori et all’aria” (Epilogo, p. 383).371

90.14-20: Inter eos… flatum.


Le relazioni di viaggio favoleggiavano dell’assenza di molte malattie nel Nuo-
vo Mondo (donde anche la strepitosa longevità); ne parlava già Niccolò de
Conti, a partire da quella che seminava il terrore in Occidente: “Non v’é mai
peste nell’Indie, né essi sanno gran parte di quelle malattie e infermità che
nelle parti nostre tormentano gli uomini, di che n’é cagione il modesto e
astinente vivere: e per tanto le genti e li popoli di quelli paesi sono infiniti, e
più di quel che l’uomo si possa immaginare” (Ramusio, II, p. 793-4).
L’eziologia patologica della medicina campan. consta di un processo termo-
dinamico: l’eccesso di cibo non viene adeguatamente metabolizzato (special-
mente con l’esercizio fisico),372 producendo dei vapori abbondanti e densi,
una parte dei quali sale al cervello, organo freddo, dove si condensano e pio-
vono giù fino ai piedi (dalla gotta alla sciatica, di cui soffrì C. a Napoli, nel
1591); mentre gli altri vapori, che non riescono a fuoriuscire, ingorgando e
rigonfiando l’organismo, causano i morbi inflattivi (e cioè le restanti “coli-
che, infiammazioni e meteorismi”). Occorre, pertanto, il sussidio di due
virtù, ‘frugalitas’ ed ‘exercitium’ (v. n. 24 [glossa], § 2), per combattere l’i-
persecrezione umorale, com’è ben chiarito da Sensu: “Otium producit crudi-
tatem, unde distillatio et inflatio: ex quibus oritur podagra, chiragra, gona-
gra, sciatica… nimius labor inflammationem, ariditatem, dissolutiones mem-
brorum… exercitio ergo, inter utrumque vitium medio, utendum” (p. 252n);
perciò “quelli che sputano troppo, fanno poco esercizio” (Medicina II, p. 52).
‘Podagra’ è la gotta ai piedi, ‘chiragra’ alle mani, cioè un “catarro freddo”,
indizio di “calor naturale debole” (Persio 1593, 63r): appartiene ai morbi “ex
distillatione, quoniam destillat ad pedes aliquid a capite” (Medicina, p. 361);
ma al solito il disordine fisico è indizio di disordine morale, come ammoni-

371
In Medicina ricorda di aver patito di febbre etica in due occasioni: una volta quand’era
ospite di Del Tufo, e un’altra molto più grave nel 1606, quando “gli sembrava di bruciare co-
me un tizzone ardente… ed aveva cominciato a stare un po’ meglio dopo un mese grazie a
un’alimentazione idonea a base di latte” (Ernst 1999a, p. 490; v. n. 94.11-4).
372
Precetto, questo, ben noto alla medicina antica: “Omnes exercitationes et carnium et adi-
pis et succorum abundantiam minuunt” (Galeno, De humoribus e In Hippocr. epid. l. VI comm.
III, XVIIB II, 8).
COMMENTO AL TESTO 459

sce Politica: “Ogni uomo servendosi di se stesso o delle altre cose contro il fi-
ne stabilito da Dio pecca ed è tenuto a renderne conto almeno a Dio, o a pa-
gare le pene prestabilite. La natura ammonisce di ciò quando premia con la
salute i sobri, punisce con la gotta gli ubriachi” (II, 16). Era opinione corren-
te anche nel ‘500 che la gotta attecchisse presso i signori, “percioché sono
avezzi a ber vino e a mangiar polli e delicate vivande” (Ramusio, I, p. 61); Zi-
mara articola dettagliatamente le cause di questa malattia della nobiltà: a) as-
sumono cibi diversi contemporaneamente (cosa che è sommamente vietata
dai medici);373 b) passano troppo tempo a tavola; c) e ancora eccedono: nel
bere vino assoluto, d) nell’oziare, e) nei piaceri venerei che abbattono la
virtù digestiva, per cui “crudi et mali humores oriuntur per articulos decer-
nentes” (p. 187).

90.20-4: Quapropter… ingluviei.


Crahay intende con excreare ‘vomitare’, significato che sembrerebbe quello
più appropriato, perché connesso alla ‘crapula’ (90.24) o alla profilassi.374
Ma C. altrove traduce ‘vomitare’ con una rosa di lemmi sinonimici, che non
comprende ‘excreare’ (Doc. Gall., p. 73: “O Gallia mea, daemonium intra vi-
scera tua inhabitat… excute illud, evome, expelle, resipisce!”). Ancora, per
Senso: “lo sputo [è] vapore escrementizio del ventre che in bocca si densa in
licore” (p. 151). Inoltre, la presumibile fonte di questo passo dice che presso
i Bramini “all’auditore non è lecito parlare, né starnutire, né pure spurgarsi
o sputare, altramente sarebbe cacciato della compagnia, per quel giorno, co-
me persona dissoluta” (Strabone, XV [II, p. 205-6]). Crisostomo collega il
gonfiore fisiologico alla gonfiaggine morale: “dall’ingordigia nasce ignea in-
flatio, che a sua volta provoca la febbre… Quod in corporis est inflatio, hoc
in animis est superbia” (De verb. Isaiae, Hom. III [I, 818B]); Macrobio: “Quan-
to agli spurghi frequenti, non è un indizio di molto umore, ma di umore mal-
sano. Ciò che viene espulso non è digerito né assimilato: fluisce fuori in
quanto malato e non ha sede propria ma è la natura che lo respinge in quan-
to nocivo e più freddo” (Saturn. VII, 7, 9); tale teoria la si ritrova negli ‘afori-
smi’ della Scuola Medica Salernitana, che descrive così i flemmatici: “Otia
non studio tribuunt, sed corpora somno, / Sensus hebes, rarus motus, pigri-
tia, somnus; / Hic somnolentus, piger, in sputamine multus” (Physiologica [XIII
sec.], 70).

90.26: Hecticas
La medicina scolastica è dominata, anche se non egemonizzata, dalle teorie pe-

373
Una dotta e articolata discussione in proposito l’aveva imbastita Plutarco nelle Quaestiones
conviviales (4, 1, 661a) e viene ripresa da Macrobio: “chiedo se sia più semplice digerire il ci-
bo semplice o quello composto”; dopo la tesi di Disario a favore del cibo semplice, parla Eu-
statio che espone “tutti gli argomenti a favore della varietà del cibo” (Saturn. VII, 4, 3sg).
374
“Ogni quindici giorni vuol un argomento [= un clistere], e ogni mese recie [= vomita]
(per mantenere lo stomaco netto) una volta” (Doni, Mondi, p. 315).
460 LA CITTÀ DEL SOLE

ripatetiche.375 Mutuandola da Platone (Resp. 405e-d: “flati e catarri” sono ver-


gognose malattie derivanti da un regime di vita ozioso), Aristotele sostiene che:
“essendo i corpi pieni di umori, hanno molti escreti, il che provoca le malattie”
(22 [p. 45]), specialmente se si conduce vita sedentaria e in bagordi; “ciò che è
fermo imputridisce, come l’acqua che ristagna, e imputridendo provoca malat-
tie” (52 [p. 73]). Circa le terapie, si occupa estesamente di febbri intermittenti
da curare con bagni, delle quartane (“bisogna non dimagrire” [57]), della tisi
(“si trasmette perché rende corrotto e grave il respiro” [8]), della stanchezza
alleviata da unzioni o da bagni (39). Il suo commentatore, Alessandro d’Afro-
disia, dichiara che oltre che “ex humorum putrefactione” (“calidus enim et te-
nuis humor acutam, brevem atque ardentem gignit febrim”), conta essenzial-
mente la cavità corporea in cui scoppia la febbre: se è ampia, febbre ardente
(ma breve); se angusta, febbricole ma persistenti (proprio come negli incen-
di): segue poi la casistica minuta dei tipi di febbre con luoghi e umori (in: Zi-
mara, p. 205-7).
“Febris est innati caloris ad statum praeter naturam eversio pulsibus… Vel fe-
bris est cordis arteriarumque calor praeter naturam vitale robur laedens…
Quidam autem sic: febris est naturalis spiritus ad calidiorem ac sicciorem sta-
tum degenerans… Febris continua est quae neque noctu neque interdiu in-
termittit” (Galeno, Def. med. V, p. 398-9), e secondo Alessandro d’Afrodisia
questa febbre deriva dall’infiammazione della “flava bili”, la quale a furia di
essere arsa dalla febbre diventa nera, arrivando a tingere anche la pelle di ne-
ro (Zimara, p. 249). “Febris ardens est quae cum fervore multo fit nullam re-
quiem corpori praebet, linguam assiccat, denigrat… et cum magna respira-
tione et calore corpus dolore afficit… Quotidiana febris est quae unoquoque
die ac nocte ut plurimum eadem hora invadit… Tertiana est febris quae uno
die vel nocte insultat, sequente intermittit, tertio repetit… Quartana est quae
uno die vel una nocte invadit, deinde biduum intermittit aut noctes duas,
quarto vero rursum accedit”; la Quintana è quando il ritmo è di quattro gior-
ni, “si modo febris ulla quintana fit; ipse enim nondum perspicue vidi neque
eum circuitum neque alium ultra quartanum” (De febr. diff. I [VII, p. 299]); la
febbre ‘ephemera vel diaria’: “lenti et crassi aut etiam copiosi humori, ubi
mediocri ostruxerunt, diariam aliquando febrem accendunt… Sane dicuntur

375
Dei Problemata medica aristotelici uscirono svariate edizioni dal 1497 al 1597. Cfr ed. crit. a
c. di Marenghi, che però non menziona la versione di Zimara, da noi anche consultata, per-
ché, essendo quasi un centone in pillole del sapere medico dell’antichità (Aristotele, Ales-
sandro di Afrodisia e in minimissima parte Plutarco), costituisce una sorta di ‘saggio’ della sa-
pienza o meglio di ‘idées reçues’ mediche cinquecentesche. Fa eccezione a questa schiac-
ciante egemonia peripatetica Paracelso, per le cui teorie astrologiche e corrispondenziali cfr
Bianchi, p. XXXVI-XXXIV; circa i giudizi contraddittori di C. su di lui (“Paracelso ha fatto
qualcosa nelle distillazioni e nelle medicine chimiche; nelle questioni teoriche spesso dice
sciocchezze e accoglie come ragioni delle non ragioni” [Syntagma II V]), cfr Lerner 2001, pp.
LXXVI e 185, e Lerner, ‘C. e Paracelse’, in: J.-C. Margolin et S. Matton (a c.), Alchimie et phi-
losophie à la Renaissance, Paris, 1993 (p. 379-93).
COMMENTO AL TESTO 461

idcirco ejusmodi febres omnes diariae, quia solvi, quod ex ipsis est, uno die
sunt aptae, conputata nimirum cum hoc una et nocte” (Meth. med. [X, p.
666]); le febbri ‘hecticae’: a differenza delle precedenti, “quaedam enim ex
iis putredine humorum accenduntur; aliae vero partes ipsas animalis solidas
occuparunt, atque appellant eas hecticas febres, vel quia stabiles sunt ac solu-
tu difficiles, quemadmodum habitus, vel quia ipsum corporis habitum occu-
parunt” (De febr. diff. I [VII, p. 305]).

90.29: Lues venerea


“Quem morbum Gallicum vocant” (Medicina, p. 229; in Poetica XX [ p. 392] ci-
ta la Syphilis di Fracastoro); Epilogo, p. 386e: “Il morbo venereo nasce da vapore
infetto penetrante allo spirito, et inficiente poi il sangue, e poi il resto”; anche
in Medicina si insiste sui lavacri, utilizzando il vino a fini disinfettanti, e ricor-
dando che la sifilide è un’altra figlia dell’ozio (“ocium luem veneream peperit”
[p. 64]) e delle stelle (“apparuit ex caeli constitutione” [p. 229]), e per questo
non alligna facilmente fra i Solari, e comunque ora è curabile “con la più gran-
de facilità” (Astrol. VII II, 3, 8).

92.1: brodio pingui


Molto usato (v. 94.13) nella medicina campan., compresa quella ‘magica’: con-
tro l’indemoniamento causato anche da “brutti cibi”, “rimedio dona Ippocra-
te… brodi grassi, che bianchi e lucidi spiriti e assai producono” (Senso, p. 201-
2). Era una ricetta raccomandata già dalla Scuola Medica Salernitana: “L’uova
fresche, il vin rosso e il brodo grasso / misto col più bel fiore della farina / del
miglior grano, sono un alimento / profittevol di molto alla natura”.

92.1a: sonis
La musica terapeutica ritorna anche a 146.18, per scongiurare avversi segni
stellari. L’allegria è una premessa terapeutica, legata com’è alla teoria degli spi-
riti (v. n. 44.23): infatti essendo di natura mobilissima, gli spiriti godono della
dilatazione e soffrono della costrizione, “quasi enim fugit a moestibilibus”
(Quaest. phys. XXXVIII IV, p. 393), come già sosteneva Telesio: “Chiaramente
infatti sentiamo che lo spirito da certi suoni viene esilarato e diffuso, mentre da
altri viene rattristato ed anche spinto alle lacrime, che cioè lo spirito dai suoni
viene agitato con quei moti con cui viene agitato quando è lieto e quando è tri-
ste” (VII, 36 [III, p. 149]).
Sugli effetti fisiologici della musica, si era già dilungato in Poetica e in Poët. (II
VI, p. 949: “la musica giova allo spirito, ventilandolo e dilatandolo”); di quelli
squisitamente terapeutici trattano Theol. X (IV, p. 77-81) e Medicina (II IV, II ‘De
Musica’ e VI I, III ‘Remedium contra morbos a sonis’): “il suono diletta lo spiri-
to, se non è né troppo acuto né troppo grave… piacciono i suoni medi e con-
sonanti, cioè ad sui mensuram editi”, e ogni tono ha un suo effetto sugli spiriti
vitali, che un medico deve dunque prendere in considerazione, “ut medicina-
les sint… Cum distortis curvatisque motibus afficeris [se si è afflitti da moti di-
sarmonici – spirituali e/o corporei]… adhibe Musicam, quae sedet motus ho-
sce… Sit tibi musica pro invitatione ad opera et omissiones utiles, non autem
462 LA CITTÀ DEL SOLE

pro exercitio” (p. 60-1).376 In Senso parla della virtù magica dei suoni: “può un
suono togliere l’affetto malo, movendo lo spirito d’altro modo che soleva. Così
Pitagora sanò li furiosi con moti dolci… [Come] quando si suona la gagliarda,
non si può ballare la spagnoletta, perché il suono muove lo spirito d’una fog-
gia, né lo lascia che possa il corpo egli muovere d’un’altra; e così si sana la fu-
ria col contrario suono, correndo gli spiriti alla testa per godere il suono” (p.
292-3). Nelle malattie in cui gli spiriti agitano disordinatamente il corpo, ritmi
musicali contrastanti (dolci per i furiosi) obbligano tali spiriti animali a ricom-
porsi, così come un certo ritmo musicale obbliga a danzare un determinato
ballo e non altri.
Sulle qualità esoterico-terapeutiche della musica: Porfirio, Vita, 30, 32; Giam-
blico, Vita, pp. 111, 224 (Theodoreto, p. 148: Pitagora “musicen magnopere
conducere iudicabat parandae sanitati, si quis justis et consentaneis modis uta-
tur”); Gellio: “Secondo i medici che curano con la musica, [i vasi sanguigni]
pulsano con un ritmo settenario che essi definiscono l’accordo di quarta”; e da
Teofrasto aveva appreso come “i dolori [sciatici] possano essere leniti suonan-
do un’aria dolce sul flauto”, donde il precetto galenico che il medico debba co-
noscere la musica per la sua professione (III, 10).

94.6: morbum sacrum


“Epilepsia quae sacer morbus et comitialis dicitur, quoniam in sacro capitis
membro, mentis templo et in sacris personis saepius fit et in comitiis solet infe-
stare” (Medicina, p. 360), cioè l’epilessia è “passion naturale di malinconia…
ascendendo il vapor nero in testa” (Senso, p. 202), derivato dalla distillazione
dell’atra bile. Furono gli ippocratici a rilevare per primi la connessione fra ma-
linconia ed epilessia (Klibansky, pp. 19 e 23 cita pseudo-Ippocrate, Epidem. VI,
8, 31); la stessa malattia è epilessia o malinconia se colpisce rispettivamente il
corpo o lo spirito, ed entrambe (insieme ad altre forme, che vanno dal mal d’a-
more alla licantropia [Galeno, De loc. aff. IV III, X]), per Avicenna, rientrano
“de aegritudinibus capitis”, che causano nocumento a “sensus et motus”; ma
c’è di più: “multoties quidem permutatur melancholia ad epilepsiam, et mul-
toties quidem mutatur epilepsia ad melancholiam”, dove l’epilessia si conside-
ra una sorta di grosso starnuto volto ad eliminare gli umori che otturano i mea-
ti cerebrali (e la schiuma che emettono gli epilettici è un sintomo appunto del
soffocamento che stanno per patire gli spiriti [Canon III, f. I, IV, 207G-209G]).
Da Ippocrate a Democrito è ritenuto morbo incurabile (Clemente Alessandri-
no, Paedagog. II, p. 226-7); e lo stato dell’arte medica non si modificherà nean-

376
I rimedi contro le turbe psicofisiche suggeriti in Medicina VI sono di matrice neoplatoni-
ca: “quanto credete che siano per giovare i canti, che già aerei sono, allo spirito del tutto ae-
reo, i canti armonici allo spirito armonico, i canti già caldi e vivi allo spirito vivo, i canti pieni
di sentimento e nati di ragione allo spirito sensitivo e rationale?… Mentre dunque tempera-
te le corde e il suon della lira e i toni della voce, crediate che si contemperi medesimamente
il vostro spirito dentro” (Ficino, II xv, p. 105).
COMMENTO AL TESTO 463

che alle soglie del ‘500, come provano i ‘Rimedi contro la malinconia’ propo-
sti da Ficino: “Vogliono Mercurio [Trismegisto], Pitagora e Platone che si deb-
ba uno animo dissonante e afflitto rasserenare e riporre su con una acconcia e
soave musica di stromenti e di voci” (Vita sana X e XVIII, p. 29).
La causa di tale alto tasso di epilettici deriva dalla superiorità della razza Solare,
come lascia intendere poi l’Ospitaliero (sulla scia del XXX Probl. aristotelico);
ma anche da ragioni fisio-ambientali, come chiarisce Della Porta: “Quelli che
abitano sotto l’Equinoziale” a causa dell’eccesso di calore sono divenuti malin-
conici (Fisonomia VI XI, p. 975). Ciò può dipendere sia da fattori astronomici
(l’avvicinamento progressivo del Sole, che ha reso torridi specie i tropici, ma
toccando “ex parte” anche l’equatore [v. n. 160.1-2, § 1.1, punto 4]); sia astro-
logici: Mercurio e Luna, se sono lesi da un astro malefico in angolo, causano
l’epilessia (Astrol., p. 155), specie se Mercurio si trova in Vergine (e questa con-
figurazione siderale è ricercata dai Solari nella generazione – perciò s’insiste
sull’accortezza di non avere malefiche in angolo: 44.3); e anzi questo male più
che altri è debitore degli astri (Astrol., p. 157).
Physiol. XIV, 8 e specialmente Medicina, p. 343-6 forniscono la patognomica e la te-
rapia del morbo sacro. Secondo la teoria classica è la malinconia a causare la ‘ma-
nia’, sia nel senso di follia che di mantica. Ad es. Della Porta distingue due tipi di
bile nera: “l’una è feccia del sangue, che è fredda e secca e di grossa sostanza, la
qual fa gli uomini ignoranti, attoniti e stupefatti; l’altra si chiama atrabile, o còle-
ra adusta, e questa è quella che fa gli uomini savii e dottissimi; e questa è ancora di
varii temperamenti… Aristotele disse che la malinconia fredda e secca era bona
per l’intelletto, la calda per il temperamento dell’imaginativa” (Fisonomia VI I, p.
933-4); e quest’ultimo tipo genera due forme di predizione: quella per malinco-
nia (di cui parla Aristotele), e quella per sincope, “cioè credendo l’uomo come
morto”, di cui “si scrive esserne stato Ercole intendentissimo” (I I, p. 29-30 – Erco-
le è infatti qui menzionato a 94.8). Invece secondo C., non è la malinconia a ge-
nerare dei folli geniali, ma la qualità dello spirito animale: “La malinconia ch’è
feccia nera di sangue arso, non è causa di sagacità e d’antivedere, come molti [in
partic. forse sta pensando al ficiniano De vita coelitus comparanda] si sforzano mo-
strare; il tetro e negro umore misto col sangue, genera spiriti orribili e se non si
purga il sangue, fa licantropia e paure e pensieri brutti… [La malinconia] è segno
di spiriti sagaci, ma non causa; causa è la sottilità e passibilità delli spiriti” (Senso III
X, p. 193-4). I melancolici, dunque, hanno gli spiriti più sottili degli altri uomini,
donde la loro sagacia e insieme la scarsità di memoria (per l’estrema volatilità del-
le ‘impressioni’), e la loro ipersensibilità fino a qualità profetiche, “quoniam pas-
siones futurarum rerum praehabent in causis… sicuti aves ex aëris passione plu-
viam”; qualità di cui l’Au. stesso si sente dotato: “guàrdati ch’io vedo ed antevedo
assai di lontano; e li guai miei mi fecero più acuto” (così ammonisce epistolar-
mente Pflug). Essendo ‘spiriti puri’, privi cioè di qualsiasi fuligginosità che li ot-
tunda, sono adatti “philosophiae et poëticae”. Tale sottigliezza e lucidità può di-
ventare anche la causa per nulla rara della loro sventura: infatti i residui di scarto
del sangue ‘adusto’, sia gassosi (i vapori dalla cui condensazione o ‘distillazione’
derivano gli umori), sia precipitati solidi (come l’atrabile), nuocciono enorme-
mente agli spiriti, intorbidandoli e, con l’ostruire i condotti cerebrali, imprigio-
nandoli e inducendoli così a confliggere tra loro: “Spiritus enim eos excutere vo-
464 LA CITTÀ DEL SOLE

lens, in caput confluit et conflictatur, proptereaque fiunt motus illi varii distorti et
tremores” (Medicina, p. 360). Particolarmente “le persone letterate” devono avere
grandissima cura degli spiriti animali, con lo sfuggire la Scilla dell’atra bile e la Ca-
riddi della pituita “che i Greci chiamano Flemma, e noi catarro… [e che] spesse
volte impedisce e soffoca l’ingegno” (Ficino, Vita sana III, 5).
Per quanto riguarda la terapia, invece, sono minime le divergenze con quella
tradizionale basata sull’irrobustimento degli spiriti animali. Sempre Della Por-
ta consiglia per la malinconia atrabiliare, l’anti-melanconico per eccellenza: “il
buon vino non solo giova alla umana natura, ma fa chiaro e purgato l’oscuro e
torbido ingegno, e scaccia quei caliginosi fumi che vanno al core, al cervello”
(Fisonomia VI I, p. 937); invece per l’epilettico: “Se sarà il cervello solamente of-
feso… con continui bagni, boni cibi et umidi, e così farlo stare sempre in alle-
grezza, si guarirà, se la malattia sarà nel principio. Ma se avrà pigliato forza, bi-
sogna usar rimedii più gagliardi… e quando va a dormire aceto fortissimo… Li
ungerai il capo di olio o di aceto rosato… Bagnalo spesso con bagni di acqua
dolce o di sero di latte per tre giorni” (VI IV, p. 948). Secondo C., per disostrui-
re le occlusioni dei “ventricoli” (= le circonvoluzioni cerebrali) causate dall’u-
more “malinconico e pituitoso [che] fa epilepsia”, bisogna ricorrere ai seguen-
ti rimedi: “l’essercitio et la rettificazione della testa e cibi e poti [= bevande]
sottili” (Epilogo, p. 531-2). Infatti gli spiriti, che sono lucidi, sottili e mobili, ven-
gono offuscati e bloccati dall’umore nero, che, travasato dalla milza, sua sede
naturale, circola nel sangue; per cui rischiano anche di esser posseduti dai de-
moni, che trovano in quelle fuliggini il loro humus ideale. Quando i malinco-
nici sono molto caldi, il loro calore interno riesce a cuocere quest’eccesso di bi-
le e quindi caliginosità del sangue, producendo una gran quantità di spiriti sot-
tili, che sono appunto la ragione della loro sagacità: come quando si accende la
legna, che inizialmente fa molto fumo, ma che poi, per l’aumento di calore, si
purifica, fino a diventare invisibile. Se invece gli spiriti non hanno calore suffi-
ciente a cuocere l’atrabile stravasata nel sangue, bisogna aiutarli, irrobustendo-
li. Gli spiriti si nutrono di odori,377 e dunque, oltre a un’adeguata alimentazio-
ne, occorrono buoni “odori” (T.94.14), che li ritemprano, per affinità di ‘stato
fisico’ (quintessenza volatile), come si deduce ‘e contrario’ da Diodoro: gli abi-
tatori di selve molto odorifere sono tanto indeboliti e smorti da questo eccesso
di buon odore che “fanno le suffumigationi con Asfalto e con Barba di Becco,
acciò questo cattivo odore venga a tor via in parte di quel buono”(III III [I, p.
156]).378

94.8-10: Signum… laborarunt.


Forse è nominato un esponente di ognuna delle arti superiori: un eroe, un teo-
logo, un filosofo, un poeta e un legislatore, sulla falsariga di una delle fonti, il

377
“Che lo spirito vitale sia alimentato dall’aria e dall’odore è cosa indubitabile” (Quaest.
phys., p. 449).
378
Sulla ‘malinconia’ si rinvia ai molti e autorevoli saggi: da Klibansky a Starobinski, da L.
Pinkus, Epilessia: la malattia sacra, Roma, 1992 a E. Borgna, Malinconia, Milano, 1992.
COMMENTO AL TESTO 465

celebre Probl. XXX I di Aristotele, dove per la prima volta viene posta l’equa-
zione ‘scientifica’ genialità=follia, e dove appunto è fatta una carrellata di di-
scipline ‘a rischio’: “Cur viros, qui claruerunt vel in studiis philosophiae, vel in
republica administranda, vel in carmine pangendo, vel in artibus exercendis,
melancholicos omnes fuisse videmus”, come fra gli antichi Ercole e “inter re-
centiores vero Empedoclem, Platonem, Socratem” e infine un poeta siracusa-
no, Maraco. Questo identico elenco lo si ritrova anche in altre opere campan.:
“Vero è che molti patiscono passion naturale di malinconia, come Socrate, Cal-
limaco, Scoto, Ercole e Macometto e spesso cadevano smorti d’epilessia, ascen-
dendo il vapor nero in testa, benché fossero acuti e ingegnosi nella sanità”
(Senso, p. 202); sulle ‘morti apparenti’ ritorna a p. 232, citando Scoto e “Maco-
ne”, aggiungendo in Sensu: “et Enarco”, che potrebbe esser un’altra deforma-
zione (su cui torneremo a proposito di Callimaco) del “Maraco” aristotelico.
Passiamo adesso ad esaminare le fonti da cui C. ha potuto desumere la malin-
conicità di ognuno di questi personaggi:
• ERCOLE: nel suo commento ad Aristotele, Pietro d’Abano, sulla scorta di Ga-
leno, attribuisce a costui l’origine dell’appellativo ‘morbo sacro’: “Nam vi-
sum est quod hic fuerit nature melancolice factus, unde morbos epilenticos
[sic] ab eo denominabant morbum sacrum eo quod heros fuerit sacer. Po-
test etiam dici sacer morbus eo quod in sacro et divino contingat membro
puta capite”.379
• DUNS SCOTO: C. stesso rinvia a “quello che dicono le istorie communemente”, e cioè
che fu scambiato per morto, dopo una di queste crisi, e seppellito; e, tornato “in sé e
gridando, non fu inteso e morse [= morì] rabiosamente”.380
• SOCRATE: Aristotele, Probl. XXX I.
• MAOMETTO: anche in questo caso C. indica la fonte: in Opusc. ined., p. 47-8 e
Quod rem. 4, p. 86: “Et dicit Ioannes de Mendeville quod erat epilepticus”; la
moglie di Maometto “poi ch’ebbe cognosciuto che Machometo cadeva del
morbo caduto ella si dolse assai averlo preso per marito e Machometo tosto
se sepe reparare e detti ad intendere che ogni volta che cadeva, l’angiolo
Gabriele gli veniva a parlare e per lo grande splendore de l’angelo el quale
non potendo la sua vista sostenire gli convenia cadere”.381
• CALLIMACO: come si è visto, C. l’attribuisce ad Aristotele; ma né nei Proble-
mata né nella restante opera di Aristotele è mai citato un Callimaco (il poe-
ta di Cirene, poi, è nato una dozzina di anni dopo la morte dello Stagirita).
Invece, in Probl. XXX I, si parla di “Maracus civis Syracusanus, poëta etiam
praestantior erat, dum mente alienaretur [= Maraco, cittadino Siracusano,
era poeta ancor più bravo ogni qualvolta usciva di senno]”; i melanconici,

379
Della melanconicità di Ercole accenna anche Della Porta: v. n. 94.6.
380
Cfr Theol. XIV, p. 228; Firpo e Firpo 1951, p. 47-8; Firpo 1982a, p. 389; Ernst 1991, p. 86;
Ernst 1996, p. 78.
381
Mandeville, CXIX (Amerio in nota, però, rinvia al Possevino, Biblioth. selecta II, p. 424); cfr
anche Barros, II, p. 218; Botero, III II, p. 112; Dionigi il Certosino (Contra Alchoranum, Colo-
niae, 1533): v. n. 18.3.
466 LA CITTÀ DEL SOLE

per il potente calore ‘medium’, verseggiano scioltamente, “et quanquam


aliqua in parte minus excedant, multis tamen in rebus caeteris sunt omni-
bus praestantiores, alii in studiis literarum, alii in artibus, alii in republica…
Hinc efficitur porro ut melancholici omnes non per morbum, sed per na-
turam sint ingenio singulari”. Questo Maraco, forse perché “mai più men-
zionato altrove” (così annota un editore contemporaneo: Louis, III, p. 33),
viene storpiato da molti lettori e traduttori di Aristotele (Antonio Guaine-
rio: “Marcus”; Pietro d’Abano: “Maniacus”; Cornelio Agrippa: “Malan-
chius”; Della Porta invece parla di “Euriloco”); ma l’ediz. che consultava
C.382 alla carta 245v riporta correttamente “Maracus civis Syracusanus” (e
non è l’unico: anche Celio, XVII I, p. 625 scrive “Maracus”). Dunque non
può trattarsi di una mediazione erronea del traduttore, anche perché in
Poët. cita così la “sezione XXX dei Problemi”: “Maracus Syracusanus poëta
era più grande poeta quando era preso da follia” (VI III, p. 1023). Perciò
non deve essere Aristotele la fonte indicata da C., il quale fa il nome di Cal-
limaco anche in Theol. I (I, p. 45) e XIV: “i predicatori del Verbo possono
provare le loro affermazioni adducendo i filosofi come autorità estranee,
non come maestri… con questa intenzione anche S. Paolo cita Arato, Calli-
maco ed Epimenide” (p. 35). Si riferisce ad At. 17, 28 e Tit. 1, 12, di cui ad
es. Crisostomo (In Epist. Pauli ad Titum I, Hom. III [IV, 1614A-D]) e Sisto
(II, 58) citano la fonte origeniana (Contra Celsum III [PG XI, 975]). Invece
in una lettera di Ficino a Pietro Divizio dell’8 giugno 1491, dedicata alle
‘Quattro specie del furore divino’ (cioè: “Amore, Poesia, Vaticinio e Miste-
rio”) si legge: bisognava “ricercare se un ingegno medesimo, da più Iddii,
per dir così, può esser concesso, e quindi da varii furori incitato. La quistio-
ne de l’Amore e de la Poesia non par che sia troppo difficile; perché noi
non dubbitiamo che Homero, Pindaro, Callimaco, Saffo, Marone non sia-
no in un tempo stati rapiti dal furore amoroso e poetico, e dal Vaticinio
Epimenide e la Sibilla” (I, p. 907): anche Ficino menziona Callimaco ed
Epimenide insieme, assenti nei Problemata, per cui è sospettabile una fonte
originaria comune.
Infine, l’Au. stesso ne aveva avuto un’esperienza diretta; sua cugina Emilia in-
fatti soffriva di crisi epilettiche, una delle quali, verificatasi sul cadere del seco-
lo, è da lui annoverata fra i vari prodigi preludenti a grossi sommovimenti:
“Emilia restò come morta per tre giorni, e tornò in vita, e descrisse le cose del-
l’aldilà, con gran stupore di teologi, prima che io da Roma mi recassi in Cala-
bria; come lo seppi, restai sbalordito della dottrina di questa donnetta igno-
rante” (Supplizio, p. 173; Senso, p. 202-3).

382
Quella curata da Teodoro di Gaza (Firpo 1954, p. 1414); recentemente De Vinci ha esa-
minato le edizioni di Aristotele presenti nella biblioteca del Convento di Nicastro, tra cui
l’ed. dell’Opera stampata a Lione nel 1549, con postille e sottolineature forse ascrivibili al gio-
vanissimo C.
COMMENTO AL TESTO 467

94.11-4: Dimicant… triticeae.


Si devono rinforzare e fluidificare gli spiriti che si trovano nei meati cerebrali
(loro sede naturale: v. n. 44.23), perché il loro ristagno o offuscamento può
causare attacchi epilettici; e ciò è possibile attraverso cataplasmi (“capiti cata-
plasma panis in mulsa [= idromele], cum calamentho [= tralci di vite], serpillo
vel mentha, confortant enim cerebrum et viam faciunt fuligini et cineri” [Medi-
cina, p. 363]); oppure ricorrendo a un ricostituente: vi sono “confortativa” per
ogni organo e funzione, e per ogni stagione; Medicina dedica un capitolo (V
VII, II) a quelli cerebrali: ‘Enumerantur medicinales res capiti conferentes vel
ad temperiem roborandam vel ducendum medicinas ad caput, vel evacuando
humores e capite…’; sono ricostituenti della testa “maiorana, serpillum, salvia,
thus… et quaecunque acuto, suavi et non gravante odore constant… Si tempe-
ries vertat ad calidum et siccum, confortant tunc caput folia myrti… Ad eva-
cuandam atram bilem a capite, valent senna cum cinamomo… quae omnia
manifestam habent cum praedicto humore sympathiam” (p. 283-4; v. n. 94.22-
4; per l’uso di cose acide v. Medicina, p. 282 cit. a n. 93.3 [f.p.]).
Fermo restando il principio della purgazione della testa dall’eccesso di umori
accumulatisi, i rimedi empirici variano secondo i casi: pur insistendo molto su-
gli odori (per la loro maggiore affinità con gli spiriti, essendo entrambi volati-
li, come sappiamo – v. n. 94.6), C. punta anche sui sapori (come Della Porta) e
sull’allegria (come Telesio). Infatti per irrobustire e ventilare spiriti eccessiva-
mente sottili per natura (o assottigliatisi per affaticamento naturale), bisogna
far ricorso, tra l’altro, “pinguibus brodiis carnis vitulinae et arietis castrati, in
quibus flos farinae et ova diluantur et vino generoso aqua frigida commisto…
et aquis ex floribus arantiorum et citriorum et rosarum utere in vino et epulis
et facie: spiritus lucidos et multos et moderatos in calore et dispositione gene-
rabis” (Medicina, pp. 309 e 348). Seppur d’altra natura, anche i rimedi della-
portiani puntano sui sapori: “Dice Platone che le pituite false e acri, et gli umo-
ri amari e biliosi che vanno vagando per il corpo e che mandano spesso vapori
al cervello infetti cagionano grossezza di cervello e dimenticanza… Per venir ai
rimedi, diremo che se il cervello sarà pieno di molta umidità, bisogna purgare
quel soverchio umore, acciò possa ben fare l’ufficio suo… Doppo bisogna abi-
tar in aere puro e secco… Poi usar cose che confortino il cervello… i cibi han-
no gran forza in far gli ingegni buoni… E questo dimostra Galeno con questi
argomenti. Il temperamento si muta col cibo, e dal temperamento poi il cer-
vello diventa più caldo, secco, freddo o umido che sia… Quali ricostituenti ce-
rebrali abbiamo a mangiare insegna la nostra Fitognomonica; cioè usar la lima-
tura dell’avorio nel mellicrato [= idromele], il cuor della simia brusciato e sec-
co… Molto vi giova la confezione anacardina… masticar mastice [= resina del
lentisco] e zenzero a digiuno stomaco, perché proibiscono i fumi che si eleva-
no al cervello; e purgano il capo da ogni umor flemmatico il muschio, uve pas-
se e mirabolani [= susine piccole] conditi” (Fisonomia VI I-III). Mentre Telesio
attribuisce somma importanza all’umore psichico: la tristezza deriva dalla scar-
sa mobilità dello spirito rinchiuso nelle cavità craniche, e tale stagnazione può
portare alla sua corruzione, cioè alla comparsa di ‘fuligginosità’, ovvero melan-
colie, umori neri, che lo aggravano e ispessiscono (e quindi immobilizzano e
468 LA CITTÀ DEL SOLE

putrefanno) ancora di più; donde il ricorso all’allegria, che è una specie di


tempesta ‘spirituale’ (diremmo ormonale), che vivifica e ripurifica queste fila-
mentosità ottundenti. Teorie che risalgono a Galeno (De melancholia: “E in tut-
te le perturbazioni dell’anima, se il timore e la tristezza perdurano, si deve rite-
nere che c’è in gioco l’atra bile, da cui sale allo spirito una esalazione nera e fu-
ligginosa”), di cui Telesio stesso si era occupato in un ‘libellum’ stampato a Ve-
nezia nel 1590 (II, p. 228), proprio adversum Galenum.

94.15: macim,
Questa definizione (spezia costituita dall’involucro carnoso della noce moscata
separato dal seme) è diventata quella corrente (Treccani; GDLI; GDU) solo da
circa mezzo secolo. Lo Zingarelli del 1932 infatti riporta: “Arillo carnoso della
noce moscata, o seme della noce moscata usato per lo più come condimento o
in profumeria”. E, pur non essendo univoca, era probabilmente in quest’acce-
zione che lo conosceva C. Infatti esso, già noto ai Romani (“maccis” in Tito
‘Maccio’ Plauto, Pseudolus 832; “matir” o “macir” in Plinio, XII; “machir” in Dio-
scoride [SN XIII LXXIV]), nel latino tardomedievale diventato ‘macis’ (Du Can-
ge, che lo considera ‘vox indica’ e lo definisce “Flos nucis aromaticae”, fornisce
come prima attestazione un documento del 1236; mentre la prima attestazione
italiana di ‘macis’ risale al 1390 [GDU]), è, secondo tali autori, un albero “cortex
rubens” o “corium ligni” rossastro proveniente dall’India; per il Thesaurus è in-
vece “resina arboris” rossa; Avicenna, Canon, 144 (II, p. 456) riporta il parere del
“filius Masauiae” o “Mesangae”, secondo il quale è la “cortex nucis muscatae”,
condiviso dal medievale De rerum nat. (in SN XIV LIIII). Invece è Platearius che,
confutando la definizione di “flos muscatae” fornisce la prima (a me nota) defi-
nizione affine a quella oggi corrente: “sunt cortices quidam, qui reperiuntur cir-
ca nuces muscatas” (SN cit.). Questa definizione passa a Mandeville, CXXXVIII,
e perciò è senz’altro nota anche a C.: nell’isola di Giava “la noce moscata pro-
duce il macis [= “el maci”]: proprio come una nocciola ha all’esterno una buc-
cia, nella quale rimane chiusa finché non è matura e poi ne cade fuori, così la
noce moscata ha il macis” (1982, p. 129). Era una spezia molto preziosa, perché
Savonarola lo mette nelle ricette per stuzzicare l’appetito alle gravide ricche,
mentre “per le poverete… tenere in buoca la noce moscata” (p. 89). Ficino, Vi-
ta sana XI, 30 e II IX, 83 suggerisce tra “le cose cordiali… la mace”. C. ne consi-
glia l’uso con altri “aromi” a scopo generalmente terapeutico: antiveleno, con-
tro le malattie veneree e la peste (Senso, p. 249; Lettere, p. 115).
Oltre Mandeville, numerosi sono i resocontisti e viaggiatori che trattano del
macis: Barros, I, 175v; Maffei, che descrive dettagliatamente la pianta “molto si-
mile al pero e il frutto in qualche parte s’assomiglia alla pesca” (I, 327); Varthe-
ma dedica un cap. all’isola Bandan dell’arcipelago di Sumatra, ‘dove nascono
noce moscata e macis’ (p. 169-70: prima attestazione segnalata dal GDLI); in
partic. Gastaldi in Tolomeo, Geogr. (Munster), a commento della nuova tavola
sull’Indocina, dice che a Sumatra (per lui Taprobana) si producono “grandis-
sima quantità de garofali e canella, noci, macis e ogni sorte di speciarie”. Dun-
que i Solari fanno molto uso di aromi, forse anche perché abitano a Taproba-
na, celebre per le sue spezie.
COMMENTO AL TESTO 469

94.18-20: Non bibunt… uti Chinenses;


Solo L., aggiungendo, dopo “annevato” di T.94.22, “come li Napolitani”, chia-
risce che i Cinesi hanno solo l’usanza di riscaldare le bevande.
L’usanza partenopea di raffreddare le bevande con la neve era diffusissima: i
Napoletani spendevano 15 mila ducati l’anno per l’acquisto della neve, stivata
d’inverno nelle caverne del Faito. Tale pratica era diffusa anche negli strati po-
polari, mentre “nelle case nobili e nei conventi femminili, il gradevole alimen-
to veniva trasformato in succosi sorbetti e spumoni” (Leone, p. 137). E C. stes-
so in gioventù dovette apprezzarli, forse troppo, come narra Firpo 1954: quan-
do era ospite a Napoli a casa Del Tufo (1590-1), C., a causa di strapazzi e anche
dell’abitudine di bevande ghiacciate, contrasse una sciatica che lo costrinse a
letto vari mesi (p. LXVIII). Sulla questione del raffreddare o riscaldare le be-
vande, “negli ultimi decenni del secolo si erano accese vivaci polemiche tra me-
dici e filosofi, che si interrogavano se, per estinguere la sete, soprattutto d’esta-
te, fosse meglio seguire l’uso moderno di aggiungere ‘neve’ alle bevande op-
pure berle tiepide, come usavano gli antichi e modernamente gli orientali. C.
si schiererà dalla parte dei sostenitori del ‘bever caldo’” (Ernst 2002, p. 17).
Perciò, quando lesse il Bever caldo di Persio 1593, non solo subito gl’inviò un
Apologeticum, ma scriverà (1607) anche lui ben due opuscoli (perduti): Contra
frigus inalpinum e De utilitate potus calidi, uno scritto ‘estemporaneo’ “contra
medicos” (Syntagma I III e IV).383 In Medicina C. sconsiglia le bevande ghiacciate:
rispondendo all’osservazione che bere freddo allunga la vita (così sperimenta-
rono “in Messana”), fa notare che invece “Neapoli novum morbum, qui dicitur
flatus nix invexit, praeter podagras et alia mala”; ai febbricitanti, che per la feb-
bre “hanno il gusto corrotto”, piace l’acqua fredda, che invece “è ciò che gli
noce” di più (Poetica X, p. 333), ed esorta i poeti a vituperare “l’ubriachezza
dannosa, le bevande rinfrescate con la neve” (Poët. VIII VII, p. 1089).
Invece per quanto riguarda il bere caldo, la posizione di C., come si evince già
dal titolo del secondo opuscolo, si distacca da quella dei Solari: ‘Utrum calidus
potus fuerit in usu apud veteres et modernas nationes, tamquam salubrior et
voluptuosior’: “sic bibunt Iaponenses et Chinenses, ut testatur Historia Iesuita-
rum et Lusitanorum”; vi si oppongono alcuni che dicono che i Giapponesi si
servono di bevande calde, “nisi medicinaliter ad pulverem Chia bibendum in-
de salubriter”; ma lui controbatte: “de Iaponensibus et Chinensibus absque
controversia est historia vera: et loquutus sum cum P. Rogerio Iesuita, qui 14
annis apud eos versatus est, idemque testantur similiter alii” (Quaest. phys. LVII
II, p. 552 - a riprova che C. si serviva anche di testimonianze dirette di missio-
nari); l’argomento è ripreso nel par. sg (III, p. 553: ‘Utrum salubrior sit sua-

383
Anche se in effetti contro le bevande fredde tuona quasi concordemente tutta la medici-
na occidentale (qualcuno si pronuncia a favore, ma limitatamente al periodo estivo: SD XII
IV): da Galeno a Gellio, da Macrobio ad Avicenna, da Ficino a Zimara, da Della Porta a Per-
sio, appunto (su quest’ultimo cfr L. Artese, A. Persio e la diffusione…, in: ‘Accademia toscana
di Scienze e lettere La Colombaria’[Firenze, Olschki, 1981, pp. 85-116]).
470 LA CITTÀ DEL SOLE

viorque potus frigefactus nive, quam calefactus igne, in corpore sano secun-
dum naturam temperato’), dove prende partito per le bevande calde, perché,
come diceva già in Epilogo, i Giapponesi così “smorzano la sete e viveno meglio”
(p. 366). Oltre che da fonti orali, aveva attinto anche da Persio 1593: “potrei
addurre l’essempio d’alcune nationi, le quali hoggi dì usano bever caldo, e ba-
sta per hora raccordarne [=ricordarne] una, laquale è grande e potente, cioè
quella de’ Giapponesi, de’ quali in particolar posso dir questo, che trovandomi
in Padova gli anni passati, sotto Papa Gregorio XIII di felice memoria, a cui
vennero a baciare i piedi come ognun sa que’ tre giovani Principi di detta na-
tione, vidi io che beveano nelle lor mense acqua calda; e Giovan Pietro Maffei
Gesuita nel VI Libro dell’Historie che scrive dell’Indie, dice di que’ della Chi-
na e de Giapponesi queste parole: ‘[un certo liquore] admodum salutaris no-
mine China calidus hauritur, ut apud Iaponios’ [I, p. 362: in luogo del vino be-
vono “un liquore molto sano, chiamato Chia, e lo beono caldo, come usano an-
che i Giapponesi… e vivono lunga vita quasi senza dolore e infirmità di veruna
sorte”]: di quei si può vedere che il bever caldo non è punto contra natura, né
contra l’uso di tutte le genti, ma salutevole e usato dagli antichi e da moderni”
(V, 24b e XIV, 53b).

94.22-4: sed hunc… praesertim.


Già nel Medio Evo si stupivano che sostanze così riscaldanti rinfrescassero:
“Quid autem miraris, si quod non est frigidum frigus facit… Allia, serpillum,
quae nemo dubitat esse calida, messores frigefaciunt” (SN XV XXVII). E tuttavia
anche C. adotta queste ricette per l’autorevolezza della fonte: sotto la canicola
(= sub Cane), “allia et herbas olentes laudo; quod Virgilius canit: ‘…rapido fes-
sis messoribus aestu / allia serpyllumque herbas contundit olentes’”;384 e infat-
ti i mietitori pugliesi “bibunt ergo aquam cui aceti parum addunt, et reficiun-
tur alliis contusis et herbis olentibus… Igitur quod experientia docuit et natu-
ra probat, probo et ego. Quamvis enim calidissimum sit allium, tamen roborat
calorem ventriculi et viscerum, et spiritus excitat et vivificat” (Lettere, p. 127).
Per quanto riguarda le altre piante: il basilico: “Constantinus, in libro gra-
duum: datum stomachum frigidum confortat et humidum… Platearius:…
haec herba ex aromaticitate virtutem habet confortandi” (SN X CIII); la menta:
oltre alle qualità odorifere (di cui v. n. 88.41-90.5), Platearius ricorda che “ha-
bet virtutem confortandi ex aromaticitate”; le sostanze ‘acetosae’ sono racco-
mandate “ad conservandam temperiem… et mane de syropo acetoso et ros de
fructibus acetosis est bibendum” (SD XII VI ‘De regimine corporis in aestate’).

94.24-7: Norunt… quidem.


Senso dedica un intero paragr. (IV VII) alla ‘Magia naturale di allungare e ab-
breviare la vita in universale’: “Ben scrive Giuseppe [Flavio] che gli antichi lun-

384
Bucol. II, 11: “per i mietitori stremati dalla rovente calura/ pesta l’aglio e il sermollino, er-
be dall’acuta fragranza”.
COMMENTO AL TESTO 471

ga vita vivevano per la fisica e Astrologia che bene intendevano. Or veder po-
trai che il Mago può allungare la vita con dette arti e con purgare a tempo le
feccie del sangue, delli spiriti e della carne, dentro purgando leggermente e di
fuori sudando e ungendo con olii preziosi, e di dentro vini e aromati blandi, in
modo che muti tutto il temperamento, secondo il secreto che qui non posso
scrivere”. Ne riparla in Theol. IV (II, p. 157): “È infatti manifesto che anche i
cervi ringiovaniscono, e ringiovaniscono le aquile, cibandosi di serpenti, e io
stesso posseggo un rimedio da prendere ogni sette anni e che conserva la vita
giovanile. Se poi questo mio rimedio fallirà, non però falliva quel frutto divi-
no”, cioè “il legno della vita” nell’Eden: “Quoniam quidem rarissimi ex ferro
aut ex aëre aurum faciunt, et hi quodam casu, nam repetere non noverunt; si-
militer rarissimi iuvenescunt aut non magis senescunt tandem”. Insomma, eli-
sir di lunga vita e pietra filosofale esistono, ma sono casi eccezionali; tuttavia a
Schoppe, C. confida di conoscere l’arcano della ‘rigenerazione’: “Habeo etiam
arcana naturae multa et medicinam admirabilem cui et fides hominum addit
vires. Ideo saepe desparates infirmitates curavi” (Lettere, p. 95). Forse C. aveva
rielaborato la teoria della rigenerazione degli spiriti del cervello, come la de-
scrive Telesio, riprendendo un’osservazione di Galeno circa il naturale, pro-
gressivo affievolimento dello spirito, a cui esso tenta di reagire attivando (cioè
muovendo più frequentemente, aumentandone le pulsazioni) l’arteria e il re-
ticolo vascolare cerebrale, “affinché da essa [arteria] si innalzi un’evaporazio-
ne più abbondante, da cui si sente rifare”; insomma lo spirito ripristina la sua
quantità vitale agitando il sistema di vasi del cervello, i cui vapori appunto si
trasformano in nuovo spirito (VI, 14 [II, p. 535-7]). Oppure, come ritiene Bob-
bio, si tratta di una panacea orientale presunta: “raccontava infatti in Medicina
[p. 66] di un certo medico arabo, che a settant’anni dimostrandone quaranta,
attribuiva la sua eterna giovinezza a un farmaco, la cui applicazione doveva es-
sere fatta ogni sette anni”.385 Ma la ricetta cui qui si allude (‘Pharmaca ad iu-
ventam’ dice la glossa, precisando altresì che “in iecore non in pulmone reti-
nenda iuventus”) prevede anzitutto determinate condizioni astrologiche (Sole
in Ariete ecc.), e poi una serie di erbe e radici, da mettere in un vaso a sua vol-
ta da conservare al caldo per novanta giorni, fino a che il Sole non entri in Can-
cro, e quindi da lasciar posare per sessanta giorni al sereno; la pozione va as-
sunta per quaranta giorni; “postquae lentum exercitium et hilare comede car-
nes salubrium animalium iuvenum, et pullorum, vitulorum…”, bere vino e un-
gere il corpo con un unguento (di cui pure si fornisce l’elaborata ricetta), che
va spalmato per nove giorni; “in decimo totum similiter ablues aqua vitae [soli-
ta potenza del significante]. Idem potest post septennium repetere, ac deince-
ps in caeteris septenariis, ut caro, et iecur rejuvenescant absque ullo periculo”

385
‘De retardando insigniter senio, et de reiuvenescentia’: “Dubitavimus enim in libro de
sensu rerum, an iuvenis queat se in iuventute servare, ut Arabs quidam Medicus, 70 annos na-
tus, vix 40 ex habitu corporis referens; iactabat se pharmaco in iuventa servatum; quod post
septem quosque annos sibi applicabat. Audivi, non vidi” (II V, I).
472 LA CITTÀ DEL SOLE

(p. 67-8), cioè uno dei segreti della giovinezza è mantener tenero il fegato. Ma
il motivo vero per cui la ricetta resta segreta è che sotto sotto potrebbe esserci
lo zampino del diavolo: “Può il diavolo anche prolungare la vita umana, rinno-
vando l’umore radicale, conservando e aumentando il calore innato, e può rin-
giovanire i vecchi, come avviene alle aquile e ai cervi. Un vecchio di Taranto
centenario, nel 1531, ritornò a giovinezza. E similmente un altro di Riva in Ca-
stiglia nella Spagna, narrato da Torquemada, una monaca di Sagunto, e un in-
diano, di cui narra nella Storia Lusitana Fernando Castaneda. Inoltre il Carda-
no e il Langio affermano che esiste nell’isola Brongia una fontana, la cui ac-
qua, più preziosa del vino, restituisce la giovinezza, e alcuni che ne bevvero, vis-
sero fino a 349 anni, ma infine morirono, poiché l’azione delle cose esterne e
la debolezza delle parti, come prova Galeno, non permettono di prorogare al-
l’infinito la vita” (Theol. XIV, p. 227).
Lasciando perdere le fontane, che ci porterebbero troppo lontano, segreti di
eterna giovinezza o almeno di prolungar la vita oltre il secolo, che potrebbero
in qualche modo (anche mediato)386 aver ispirato la formula campan., sono in
Pico (il ‘myrabolanus’ avrebbe proprietà longevizzanti [II, p. 449-51]), e in Fi-
cino, che dice a sua volta di rifarsi a un’antichissima regola caldaica: “È una re-
gola de Caldei da non farne per aventura poco conto, per ricuperare la gio-
ventù cioè che a poco a poco si purghino gli humori stranieri, che si trovino già
incorporati in noi; gli interiori per mezzo di convenienti medicine, gli esterio-
ri con fregagioni e bagni, e con provocargli sudore, rifacendo in questo mezzo
a poco a poco il corpo con cibi sani, e sustantievoli” (Vita Sana II XVII, p. 109).

94.30-1: sed… es,


La risposta del Genovese risulta meno impertinente, tenendo conto della pro-
posizione relativa presente solo in T.94.35; e comunque non si tratta di indi-
screzione, ma di apprezzabile ‘curiositas’ intellettuale, come ad es. in Mem.
ined., p. 208: “Verum, quoniam tam curiose et humaniter me compellas, inter-
rogabo prius…”.

94.32: novilunio ac plenilunio


Plenilunio e novilunio sono due delle loro festività (v. 110 [glossa]), che quin-
di vengono santificate prima di riunirsi a Consiglio (per il quale v. n. 28.20). In
Ez. 45, 21-46, 6 i rituali di feste e sacrifici pasquali (‘neomenia’ e ‘fase’ [SH II
XLVII]) sono scanditi lunarmente; in Platone, Leg. 828c la festa è mensile; in
More, 248 il primo e ultimo giorno del mese; in Doni (p. 74) settimanale.

386
Penso a quell’ebreo negromante, Abraham, che aveva conosciuto nell’88 a Cosenza, la cui
frequentazione gli aveva causato l’allontanamento nell’isolato Altomonte, e che l’anno dopo
forse l’avrebbe accompagnato a Napoli, “quasi a voler consegnare gli ultimi segreti di quella
passione per le scienze occulte…, la sua ‘recondita filosofia’, prima di sparire giustiziato co-
me eretico, non si sa se a Napoli o a Roma” (Formichetti 1999, p. 12).
COMMENTO AL TESTO 473

96.6: tredecim,
T.96.8: “che fan 40”, ridotti qui a tredici, ma sempre ordinati su moduli trian-
golari pitagorizzanti:

¤
Pon Sin Mor
111 111 111
111 111 111 111 111 111 111 111 111

Mentre la piramide ‘italiana’ (= Città) è a quattro livelli, quella ‘latina’ (= Civi-


tas) è solo a tre:

HOH
Pon Sin Mor
111 111 111

Questa riduzione può esser dipesa da varie cause: lacuna accidentale, semplifi-
cazione, sparizione dei quaranta sacerdoti divenuti erroneamente (v. n. 10.6-7)
quarantanove; e, anzi, per quanto ivi detto, quest’organigramma doveva esser
del tutto abolito, anche per la palese contraddizione con la lista stilata poco ol-
tre (98.3-17), assolutamente incongrua a questo modello, e con la profluvie di
altre cariche – ad es. ufficiali delle Virtù (24.24). Ma non è da escludere, da
parte di uno come C. così attento all’aritmologia, che il 13, formato da 1+12,
possa rinviare a un altro modello su cui si possono formulare almeno due ipo-
tesi:
• è un modello sacro, anzi il Modello: Cristo e i 12 Apostoli; modulo che ha
senz’altro ispirato altri organigrammi utopistici: da quello del capostipite in-
glese (anche a Utopia il numero di sacerdoti per ogni città è 13, cioè 12+1 [il
sommo sacerdote], che ricalcherebbe, secondo Firpo 1979, p. 296, il “con-
sesso dei 12 Apostoli presieduto dal Cristo”), a quello di Agostini, p. 146: “un
Principe da dodici consiglieri regolato” (v. n. 106.41-4); quest’ipotesi po-
trebbe esser suffragabile da Metaph. XVI I, IV: a proposito delle idee archeti-
pe tradotte in pratica da Mosè (le sette lampade, le vesti sacerdotali), vi è an-
che la struttura sociale: “egli poi costituisce la società con dodici prìncipi, in-
segnando che, quando l’Altissimo divideva le genti e il mondo, lo fece se-
condo il numero dei figli di Israele, cioè duodenario; un altro testo ha: ‘se-
condo il numero degli angeli di Dio’ (che sarebbero, secondo Trismegisto,
Giamblico ecc…) i principi governatori del mondo inferiore, i dodici segni
dello zodiaco… Sotto questi vi sono innumerevoli ministri… perché tu veda
che il mondo corporeo è simile a quello mentale [o archetipale], da cui vie-
ne governato; e la società e il governo debbono essere costituiti ad imitazio-
ne di esso” (III, p. 195). Naturalmente il modello duodenario non è solo
ebraico: anche in Platone sono 12 gli “interpreti” dell’oracolo di Delfi (Leg.
759d-e), perché riflettono la divisione in 12 parti della città e della regione
(745b-c); e a questo modulo, anche se non a questo numero, si ispira pure il
474 LA CITTÀ DEL SOLE

‘mondo’ di Doni, in cui ogni sacerdote alloggiato nel tempio centrale so-
vraintende a una delle 100 strade della città.
• Il secondo modello è quello schema ternario e piramidale pitagorico (la ‘te-
tractis’), che spesso si trova replicato in Ficino: il Sole è un perfetto emble-
ma della Trinità, intorno alla quale vi sono “tre gerarchie di angeli, ognuna
delle quali contiene tre ordini…” (Sole XII, p. 1001).387 Infatti anche ai
Triumviri fanno capo tre ordini di magistrature, così come prevede la tasso-
nomia delle arti stilata nell’Etica, che appunto si basa sulle primalità: “Aliae
Artes ex Potestativo eius proximius derivantur, eidemque deserviunt; aliae
ab appetitivo; aliae cognoscitivo. Potestativo est Militaris Ars… Cognoscitivi
et Manifestativi sunt Scriptura imitans mundum ex paucis elementis omnes
ideas divinas exprimentem, ipsumque Deum scriptorem”: è la parafrasi di
Sapienza, che si occupa della cultura dei Solari, sintetizzando tutto o in ‘bre-
vi definizioni’ murali o in un unico libro; “Appetitivi Artes sunt Agricultu-
ra… Coquinaria, Pastoralis, Medicina, Vestiaria…” (Moralis III V, p. 21).

96.10-1: decuriones… centuriones,


È un’istituzione mosaica: Dio a Mosè “scegli fra tutto il popolo uomini capaci,
timorati di Dio, sdegnosi del lucro; e stabiliscili nel popolo come capi di mi-
gliaia, capi di centinaia, capi di cinquantine e capi di decine, affinché rendano
giustizia al popolo in ogni occorrenza: e riferiscano a te soltanto le questioni di
maggior importanza, ma risolvano loro le cause più piccole” (Ex. 18, 21-2),388
passo commentato da C. in Theol. XVII, p. 73.

96.19-20: Non utuntur sortibus,


“È proibito il sorteggio nell’elezione dei superiori spirituali, conformememen-
te al decreto dei Sortilegi… I superiori temporali invece possono essere eletti
per sorteggio… Però a mio giudizio questo sorteggio deve essere affidato a
Dio, e vi si ricorre soltanto dopo aver fatto quanto è umanamente possibile: al-
trimenti si rischia di tentare Dio… Ma prima si sceglierà un congruo numero
di individui che risultino i migliori fra tutti, e allora si può sorteggiare tra di lo-
ro chi debba presiedere” (Theol. X [IV, pp. 111-3 e 167] – che è poi il modello
cristiano di At. 1, 23-6, dove prima si elegge e poi si affida a Dio il sorteggio del
dodicesimo Apostolo). Secondo Bobbio, non ricorrere alla sorte “è un indizio
dell’ordinamento razionale della Città. Il sorteggio era infatti giustificato come
un modo di manifestazione della volontà divina” (la sorte è esclusa, in effetti,
anche dagli accoppiamenti dei procreatori, seppur per altri motivi: v. 50.34).
Platone stesso, per quanto riguardava le magistrature pubbliche, era contrario
al sorteggio (Polit. 298e); invece Aristotele lo considerava caratteristica degli

387
Gerarchie derivate da Dionigi Areopagita e dettagliate in Relig. XIV, p. 73-4, con tutti i
compiti assegnati ad ogni ordine angelico.
388
Cfr anche 1Cron. 28, 1; nella Bibbia volgare (in GDLI): Mosè elesse “prìncipi del popolo,
tribuni e centurioni e quinquagenari e decani”.
COMMENTO AL TESTO 475

ordinamenti democratici: “è democratica l’assegnazione delle cariche a sorte,


oligarchica, invece, per elezione” (Pol. 1294b 10). Malgrado l’avversione ai sor-
teggi delle cariche sia spesso riscontrabile nel pensiero cristiano (es. Ambro-
gio, I XXI, 68: il re delle api “non è indicato dalla sorte, perché nella sorte do-
mina il caso… e spesso il più inetto è preferito a chi vale di più”), probabile
fonte di C. è Tommaso: in ST II-II, 95, 8 e in un Opusc. dedicatovi (De sortibus,
5), si ritrovano i due pericoli principalmente paventati: a) “videtur esse tentare
Deum”; b) “si commette offesa verso lo Spirito Santo, che istruisce il senso
umano a rettamente giudicare” (THOM III, 593-4); tuttavia ST cit. distingue “il
caso delle cariche civili, ordinate a disporre dei beni terreni, in quarum elec-
tione plerumque homines sortibus utuntur, come nella spartizione dei beni
temporali”.

98.1: architectus,
La terminologia è aristotelica, la tassonomia è platonica (Resp. X, 601),389 ma è
correntemente (Senso) utilizzata in ambiente telesiano: “quae [= la disciplina]
cum omnibus inferioribus artibus et scientiis, quae ad conservandam societa-
tem hanc pertinent, imperet, recte ab Aristotele Architectonica vocatur” (Per-
sio 1575, n° 470-1). C. considera l’‘architettonica’ prima tra le arti regolative
della nostra vita, perché: a) è volta al bene pubblico, b) “sa indrizzare l’altre ar-
ti al fine” (Poetica III, p. 319); c) è “la risultante della logica del conoscitivo, del-
la morale del volitivo e della matematica del potestativo” (Metaph. V I, V [I, p.
363]). Ma naturalmente Hoh è un ‘architetto’ essenzialmente in quanto Meta-
fisico: infatti “la principale delle scienze è la metafisica, la quale prova i princi-
pii loro [= delle altre scienze] e da questi assurge alle cose divine” (Theol. I [II,
p. 19]), e perciò sarà trattata a coronamento finale di CS (v. 126.2).

98.1-2: pudet… ignorare.


Altro esempio (v. n. 30.3) di attenuazione della corrispondente frase italiana,
qualunque delle due ‘lectiones’ si voglia adottare (T.98.3: “modo” [Firpo] o
“mondo” [Bobbio]).390 È probabile, vista una certa qual sentenziosità circolan-
te in Civitas (132.33, 148.8, 148.30), che sia la parafrasi meno superba del te-
renziano “humani nihil a me alienum puto”, risuonante anche in Astrol. VII,
11: “Utinam principes omissis antiquorum ridiculis scientiis nostrum seculum
foverent ingeniis: nihil enim erit, quod ratio humana non vincat” (che è anche
il picco più alto della sua fede nel progresso tecnico che risolverà ogni proble-
ma). Espressioni analoghe, del resto, non è raro trovarne fra i contemporanei:

389
Cui C. dichiara di ispirarsi per la gerarchia delle arti e scienze: al primo posto stanno quel-
le che riguardano la felicità pubblica “e si dice architettonica, come la legislatura di Licurgo
e di Solone e, più divinamente, quella di Mosè” (Poetica III, p. 319).
390
Ernst 1997a, p. 98 adotta “modo”, ma non lo segnala nelle varianti; in Tornitore (p. 197),
avevo proposto “mondo”, seppur dubitativamente, e perciò ho preferito mantenere la lezio-
ne di T.
476 LA CITTÀ DEL SOLE

il regno di Narsinga “abondantissimo è di tutte le cose per modo che in lui non
si desidera niente che appartenga all’uso humano” (Magini, II, p. 187-8).

98.4: Medicus,
L’elenco parallelo di 10.41-4 non comprende “Oeconomicus” (colui che si oc-
cupa del governo della casa), “Astronomus”, “Musicus”, “Prospectivus”, “Pic-
tor”, “Sculptor”; invece qui non è menzionato l’“Historiographus” di 10.42. La
compresenza del “Medicus” sia sotto Sapienza (98.4) che sotto Amore (98.9) si
chiarisce ricorrendo appunto a questo primo catalogo di magistrature, dove
“Medicus” e “Physiologus” (10.43-4) sono subordinati a Sapienza (presumibil-
mente sarà uno di loro ad eseguire l’anatomia sui cadaveri dei giustiziati
[132.22-4]); invece ad Amore, che sovrintende a ciò che riguarda l’autoconser-
vazione, individuale ed essenzialmente della specie, spetta la “medicina phar-
macopolae” (18.35) = (letteralmente) ‘medicina del farmacista’:391 così inter-
preto con Crahay, indotto dalla triplice coppia di soggetto+specificazione
(“educatio natorum, m. ph., satio et collectio frugum et fructuum” [18.34-6]) e
dal fatto che il “medicine speciarie”392 evidenzia chiaramente che l’Au. sta pen-
sando a un ‘medico speziale’ (o farmacista), lui che con una punta di nostalgia
ricorda come “il medico [= medicus], specie al tempo di Galeno, si preparava i
medicamenti – non come ora, che li provvede il farmacista [= pharmacopola]”
(Poët. IV V, p. 985). In pratica, il Medico soggetto a Sapienza si occupa di medi-
cina, il Medico soggetto ad Amore di medicine, cioè di preparati galenici.

98 (glossa): De… iudices


Sul sistema giudiziario alcune schematizzazioni sono state tentate con maggior
(Bobbio) o minor (Pirovano 1950, p. 45) successo: causa l’interferenza di più
fattori (dall’astrologia alla medicina, dalla legge del taglione, propria di una
società di natura, alla condanna a morte per le donne che si truccano), è diffi-
cile risalire a un organico ‘codice penale’ e quindi a una filosofia del diritto
‘ideale’; nel complesso il modello di ordinamento giuridico si ispira a quello
platonico (v. n. 100.1-6).

98.22-100.1: singuli… mulierum.


Replicando 26.1-5 per quanto riguarda le pene, viene qui specificato che i giu-
dici sono maestri delle arti (o delle virtù [104.5], cui sono eletti precocemente
[24.31]), preposti al primo grado di giudizio, cui ci si può appellare ricorrendo
ai Triumviri e infine, ma solo per chiedere la grazia, ad Hoh (100.9-11). Tale
modello è di derivazione elvetica: “le cause civili siano giudicate, in qualsiasi

391
V. Quaest. oec. III I, p. 183 cit. in n. 10.38; invece “pharmacopia” (34.20) = ‘farmacia’, nel
senso di arte della preparazione di medicinali.
392
T.18.29-30: anche qui da scrivere senza virgola – e forse con accento sulla ‘à’ –, e non, co-
me fanno tutti, “medicine, spezierie”, altrimenti avrebbe dovuto replicare la preposizione ar-
ticolata, come fa per i sostantivi adiacenti.
COMMENTO AL TESTO 477

quartiere, da un solo ottimo esperto nella stessa arte insieme a quelli che devo-
no essere giudicati, come è costume degli Svizzeri e dei Grigioni. Le criminali,
invece, da due magistrati comuni per ogni città, eletti dal popolo a tempo de-
terminato” (Politica XV, 3).

100.1-6: At cum… consilium.


Ex. 21, 24; Deut. 19, 11-3 e 21 l’impone nel caso di delitti di sangue premedita-
ti; e per questi reati è invocata anche da Agostino: la legge del taglione “com-
porta che si subisca ciò che si è commesso” (CD 21, 11). Qui è estesa anche al-
la calunnia (102.25; in T.54.25-7 pure alla superbia) ed è ventilata come rischio
nell’idolatria (118.8). Anche Platone, Leg. 872e l’adottava per delitti efferati
(parricidio), come pure dalle Leggi sono tratte le principali istituzioni giuridi-
che: istruire il processo (855e), comminare e scontare le pene (es. la lapidazio-
ne collettiva [873b]: tutti gettano pietre, ma sul cadavere, e poi seguono riti di
purificazione della città); e principalmente è tratto il modello referenziale
(ben più che metafora) del ‘corpo’ sociale: poiché la ‘patologia’ è una branca
della morale (i morbi sono un difetto della virtù dell’Esercizio: v. n. 24 [glossa]
§ 2), la giustizia è una medicina sociale (v. n. 100.23). Rispetto poi al sistema
penale di Utopia, prevalgono le divergenze, pur con qualche vaga analogia:
persecuzione pubblica dei sodomiti/adulteri [40.29/par.181] e loro condanna
a morte in caso di recidiva; un condannato può esser graziato dal magistrato
supremo [100.10/par.182] o dalla volontà popolare [74.8/par.182]).

100.6: rixa
“Decima filia irae est rixa”, e mentre la contesa o contenzioso è una controver-
sia verbale, “rixa importat quandam contradictionem in factis” (SM III XI, V).
Tommaso, ST II-II, 41, 1: “la rissa è la fattispecie di una guerra privata tra sin-
gole persone, non per l’intervento guidato da un’autorità pubblica, ma piutto-
sto per un impulso disordinato della volontà”; la sua gravità deriva da un du-
plice peccato: sociale, perché solo lo stato può usare la forza; ed etico, perché
si è soggiaciuti all’ira (41, 2).
“Se qualcuno in una rissa e in modo involontario ha fatto perdere un occhio,
non sembra che gli si debba togliere la vita, e forse neppure un occhio. Invece
a chi ha mutilato un uomo con dolo e con volontà piena sembra doversi to-
gliere la vita perché ha dato indizio di estrema malvagità e di incorreggibilità”
(Theol. X [III, p. 161]; v. n. 40.33). La distinzione fra omicidio volontario e pre-
meditato è contemplato in Deut. 4, 42 e 19, 11; e in Platone, Leg. 867c-d per la
difficoltà di legiferare in proposito: omicidi volontari possono essere meno
gravi di delitti colposi ma efferati. E modernamente, in ambito cattolico, ritor-
nano sull’opposizione ‘casu/voluntate’ Roberto Bellarmino, De controv. e Pos-
sevino XII, 10.

100.10: gratiam
Afor., 15: “la somma potestà è la potestà della spada, cioè della morte e della vi-
ta, che risiede in colui cui spetta l’ultimo appello della morte e della vita” (v.
10.22-3: le deliberazioni di Hoh troncano qualsiasi tipo di controversia). Don-
478 LA CITTÀ DEL SOLE

no: “Il Metafisico può ridurre la sentenza ma non può alterare il verdetto”. Il
Re “per farsi amabilissimo deve statuir un tribunal di grazia sopra tutti gl’altri,
al quale posseno i condennati a morte appellarsi ad gratiam regis, e spesso per-
donarli, e mandarli a combatter o a remigar contra i nemici” (Mon. Sp.1, p. 34
- ripreso in Mon. Sp. IX, p. 80 e XIII, p. 114); ma – continua Arbitrii, p. 208, do-
ve si replica all’incirca la stessa proposta – a questa grazia non devono accede-
re “gli eretici e pubblici rebelli ed enormi” assassini (come appunto si regolano
i Solari [100.39sg]).393 Inoltre l’attesa della grazia, come della sentenza, è mol-
to breve: “tertio die” (100.19); e ciò in base al principio che “allungare la lite…
è spezie di vittoria a chi mantiene il torto” (Lettere1, p. 24); con analoga celerità
i Solari puniscono i loro nemici, sia prima (66.24-8) che dopo la guerra (76.15-
8).

100.11: Carceres non habent,


Nell’‘isola’ di Monopotapa “il Re non tiene prigioni: perché la cause si decido-
no in quel punto che si commette il delitto, con testimoni” (Botero, I III, p. 171
- tratto da Barros [in Ramusio, II, p. 1084]). Gli architetti militari solevano in-
nalzare una torre-osservatorio, che serviva da carcere, nelle zone libere del
centro (Klein, p. 378).

100.13: libellus causae,


L’espressione torna quasi identica in Mon. Messiae: “ad examinandas omnes
causas et libellos, quos dicimus vulgo processus” (IX, p. 30). SD VIII CIX ‘De
modo accusationis’: “Ex Summa iuris: Qui vult aliquem accusare, prius debet ei
denunciare, et postea libellum scribere ac iudici porrigere. Quem ita demum
iudex recipit, si de lite prosequenda satisdederit. Itaque satisdatione praestita,
etiam in absentia rei libellus recipitur et eius nomen inter reos scribitur. Qui-
bus peractis, reus exhiberi iubetur, et non ante”.

100.23: tanquam medicis


Comparazione esplicita anche in 104.15, alla cui nota e anche a n. 86.1-2 si rin-
via. Per C. medicina/giustizia è una teoria, e non una metafora topica,394 lega-
ta all’idea di corpo sociale (v. n. 100.32-6); teoria derivata da Platone, Gorg.
472e, 478-9, Resp. 408d-409d, Leg. 853e, 857c (dove frequenti sono le compara-
zioni giudice/medico); Giamblico, Vita, pp. 172, 197 [Theodoreto, XXXII, p.
190: “viriliter vitium medicina tollere”]; Diogene, VIII, 20 (Pitagora “chiamava
l’ammonire ‘riformare’”); Agostino, CD 15, 6; Lett. CCXI, 11 (punire “come se
si trattasse d’una persona ferita da guarire” [PL XXXIII, 962]); Tommaso, ST I-

393
E come suggeriva Botero: “il far grazia appartiene veramente al prencipe, perché, essendo
i giudici tenuti a proceder legittimamente, egli solo può moderare il rigore e temperare con
l’equità l’asprezza delle leggi; ma non deve però usar grazia a chi si sia, con pregiudizio della
giustizia e della repubblica” (Ragion I XVIII).
394
Per la metafora cfr Rigotti, p. 75; Rigotti 1992, p. 54.
COMMENTO AL TESTO 479

II, q. 87, ad 6: il peccato originale ha corrotto i corpi, e di conseguenza gli ani-


mi, per cui il diritto penale diventa una branca (e non una metafora) della me-
dicina (o, nei casi disperati, della chirurgia: v. n. 100.32-6); Doni considera i de-
litti degli squilibri umorali, ‘guaribili’ con una presa di arsenico (non si capi-
sce, dato il tono serioso, se terapeutica o mortale); nel Proemio al VI libro del-
la Fisonomia Della Porta scrive: “A che dunque ci gioveria quest’arte [= la fisio-
gnomica], se, conosciuti i tuoi difetti, non potessi quegli convertirli in virtudi?
Ma ciò non con pensieri, immaginazioni o persuasioni di morali Filosofi, che
per lo più vani riescono; ma con purgazioni d’umori, naturali rimedi e virtù
d’erbe, pietre et altre cose”, e così, sulla scorta di Galeno, Platone, Esculapio il
‘fisico’ napoletano prescrive ricette da ‘Come l’uomo ignorante possa diventar
savio e prudente’ a ‘come un uomo ingiusto lo possiamo fer venir giusto’ e via
dicendo.

100.24-6: Nec quispiam… lapidetur,


Nell’età aurea tutti gli uomini della terra vivranno “in tale comunanza di ogni
cosa che chi riluttasse dal decreto della comunità potesse immediatamente,
dietro un cenno del Sommo Pastore, esser eliminato ad opera di tutti” (Theol.
IV [II, p. 165]; v. n. 74.8-10). La lapidazione s’ispira direttamente a Deut. 13, 10
e 17, 7: “La mano dei testimoni sarà la prima a scagliare pietre sopra di lui [= il
condannato], poi continuerà la mano di tutto il popolo: così devi estirpare il
male di mezzo a te”.

100.28-9: Aliis… mortis,


E così poco sotto (righi 36-9) l’autocritica coatta s’inquadra coerentemente
nella pedagogia anti-formale della società perfetta: “La giustizia vera non solo
riguarda le cose esteriori, ma reprime anche le interiori passioni. Infatti fa sì
che chi viene esiliato per un delitto, vada volentieri in esilio” (Theol. X [III, p.
33]). Ambrogio loda le api, che “si condannano da sole in segno di pentimen-
to, uccidendosi con la punta del proprio pungiglione. Si dice che le popolazio-
ni persiane conservino tuttora l’usanza di eseguire personalmente contro di sé
la sentenza di morte quale pena della colpa commessa” (V XXI, 68). Insieme al-
l’assenza di carceri e torture, questa ‘umanità’ delle pene pone C. in contrasto
“al modo di amministrare la giustizia delle società ‘reali’ dell’Europa moderna,
[dove] si registra un irrigidimento generale delle pene e la ricomparsa delle
punizioni corporali di ogni genere, che nel diritto feudale erano considerate
episodiche” (Cambi, p. 169); tuttavia C. non è un proto-Beccaria, e, pur aven-
dola subita sette volte, considera la tortura una normale pratica investigativa,
“testimone sufficiente per l’accusatore, specialmente quando la confessione è
per bocca del reo. Ma dalla sola tortura non si trae prova definitiva, poiché
spessissimo lo spasimo è falso testimone” (Rhet. VII VIII, p. 819).

100.32-6: Tota… resecandum.


Ancor più perspicuo a 102.17-8 (dove risuonano echi neotestamentari: “Come
abbiamo in un sol corpo più membra… così noi, benché in molti, formiamo
un sol corpo in Cristo e siamo membra scambievoli gli uni degli altri” [Rom. 12,
480 LA CITTÀ DEL SOLE

4]), il modello stato=corpo (Rigotti, II II) è tributario di Platone, Resp. 462c,


464b; Leg. 739c e Tommaso, ST II-II, 64, 2: “Per il benessere di tutto il corpo
umano si rende utile tagliarne un membro… è lodevole e salutare asportarlo…
lodevole e risanante ucciderlo, per tutelare il bene della comunità”; e che que-
ste siano le fonti probabili lo prova Lettere: “Platone e san Tomaso solo i mem-
bri inutili tagliano dal corpo della republica” (p. 80).395

102.12: Peccata fragilitatis et ignorantiae


Il re deve esser misericordioso “con chi peccò per ignoranza e fragilità, ma non
in tempo di guerra” (Mon. Sp.1, p. 35 e Mon. Sp. IX, p. 84); la coppia, pur non
essendo a rigore una dittologia, è però, come si vede, quanto meno topica, e di
probabile derivazione biblica (Ez. 45, 20: “chiunque abbia peccato per inavver-
tenza e leggerezza”). L’ignoranza è uno dei vizi, menzionato solo da T.104.11
(v. n. 24 [glossa] § 2), frequente fra i ricchi, degenerante spesso in presunzio-
ne (56.24-6), stigmatizzata da Platone, Leg. 732a.

102.19-24: si quis… fuisset.


Fonte platonica (Leg. 953), come ci dice Metaph. XVI VII, V (III, p. 283): “Socra-
te desiderava che nella società da lui vagheggiata questo [= la confessione
spontanea] fosse fatto da tutti alla presenza del giudice, senza aspettare l’accu-
satore e i testimoni. E questo è insieme sacramento di ammaestramento e di
medicina”. Mentre Lettere (p. 41) ci fornisce un’altra fonte, quella cristiana: “Se
noi ci privaremo da per noi, non ci privarà la creatura per flagello di Dio: ‘si
nos metipsos iudicaremus, non iudicaremur’” (1Cor 11, 31); e Crisostomo, De
pat. Iob, Hom. IV (I, 674B): “Omnis enim qui se ipsum accusat, iudicis iram mi-
tigat”.

102.26-32: Et quia… poenam.


“Secondo il diritto di natura si ritiene generalmente che bastino tre testimoni,
quante sono le primalità, oppure due in tutto, degni di fede e concordi” (Rhet.
VII VIII, p. 819); infatti Platone, Leg. 953e stabiliva prima cinque e poi tre testi-
moni; Mosè “prescrive che le pene si irroghino con la testimonianza di due o
tre persone e mai di una sola” (Theol. XIV, p. 113), come recita il Deut. 17, 6 (e
Num. 35, 30): “Il condannato non sia messo a morte se non sulla deposizione di
due o tre testimoni” e mai “di un testimonio solo”; e sarà accolta anche dal
Nuovo Testamento (Mt. 18, 16; 2Cor. 13, 1), e quindi dalla patristica (Ambro-
gio, IV II, 5: “ogni questione si decide sulle parole di due o tre testimoni”), per-
vadendo anche le regole monastiche, come quella agostiniana, che prescriveva
appunto a frati (Regula) e suore: “Quando uscite dalla casa, camminate insie-
me, e così pure rimanete insieme, quando arriverete nel luogo al quale vi reca-
te”; in tal modo, se qualcuna ha commesso una mancanza, dopo averla rim-

395
Così scrive, perorando la sua causa e la sua vita: “non son membro fracido e resecando dal
corpo della republica” (Lettere, pp. 25, 55, 157; e v. n. 100.23 e n. 104.14-5).
COMMENTO AL TESTO 481

proverata, “la indicherà ad una seconda o ad una terza consorella, affinché


possa essere accusata sulla testimonianza di due o tre persone” (Lett., CCXI, 11
[PL, XXXIII, 962]). Alla questione se ‘due o tre testimoni siano sufficienti’, SM
I LVII, III, sulla scorta del Deut., risponde che tre è numero emblematicamente
perfetto: infatti in base al principio che è più probabile che la verità stia in una
moltitudine anziché in uno solo, “omnis autem multitudo in tribus com-
prehenditur, scilicet principio, medio et fine”; tuttavia il diritto canonico pre-
vede che quanto più alta è la carica, tanto maggiori devono essere i testimoni:
da settantadue per un presule a sette per un suddiacono, perché coloro che
hanno il compito di giudicare gli altri, spesso hanno molti avversari, “unde non
est passim credendum testibus contra eos, nisi magna multitudo conveniat”.

102.33-4: Ipsorum… clarae,


“Leges optimae sunt si breves, si faciles, paucae numero”, invece le tiranniche
sono molte, oscure e difficili, “lacci” (“quasi laquei”) per i cittadini (Aphor. V, 9
[p. 164]); “Utili a tutti, chiare leggi e poche” (‘Fede naturale…’: Poesie, 3, 82);
“Far un deuteronomio brevissimo di tutto il Decreto, Decretale, Sesto, Cle-
mentine e Stravaganti, in volgar lingua, perché non sia bisogno di tanto tempo
e glosse a studiarlo ed il popolo non sia aggirato dai sofisti legisti” (Discorsi ai
Princ. XI); e cerca di coinvolgere Paolo V in questo progetto di ridurre tutto lo
sterminato, superato e contraddittorio ‘corpus juris’, abolendo anzitutto “la
legge civile, ché basta solo la canonica; e di questa che son tre tomi, e replica-
no lo stesso o ritrattano, se ne faccia uno solo, come il Deuteronomio, dove ba-
sta un libricello a tutte le cause” (Lettere, p. 43-4).396
Fonti presumibili: Platone, Resp. 425b-e; Plutarco, Lyc. 13, 4 e 20, 2; Numa 22, 3;
Giamblico, Vita [Ficino], p. 16 (“Rex Charillus, sciscitanti cuidam, cur pauca
admodum legum capita Lycurgus posuisset, respondit ‘Quoniam paucis uten-
tes legibus, non indigent legibus’“); [Theodoreto] XXII, p. 102: “Talis igitur erat
forma correctionis, quae apud eos [= i pitagorici] fiebat per sententias brevia-
que dicta, ad omnes simul virtutes ac universam vitam pertendens”; SH IV LX-
VII: il bramino Didimo dice ad Alessandro: “Iudicia non habemus, quia corri-
genda non facimus. Leges nullas tenemus, quas apud nos crimina proferunt.
Una genti lex est contra ius non ire naturae”; More, 58 e 188 (e in partic. la let-
tera di Budé, p. 81 sulla necessità di semplificare le leggi per stroncare i legu-
lei); Roseo, Instituzione, p. 54 (sono in tutto sette le leggi); nella città di Doni
niente processi e quindi niente legulei: “il mondo mi par tutto legge, ogni uno
ne fa, e quante più se ne publica tanto manco se n’osserva” (Mondi, p. 68-9);
Botero: “le leggi sono infinite”, e in più si trovano tanti cavilli per “oscurare il
vero e mettere in controversia il certo, che la giustizia non fu mai in peggiore
stato” (Ragion I XVIII).

396
Ancora vi ritorna in Mon. Sp. XI, p. 102; Syntagma IV VIII: ‘De legistis’; Quod rem. 4, 2; cfr L.
Sartorello, ‘Indiget communitas lege semper’. Teologia e politica in T. C., ‘B&C’ X/2 (2004, p. 333-
46).
482 LA CITTÀ DEL SOLE

102.36: in columnis;
Potrebbe imitare l’usanza pitagorica di incidere i precetti ‘in lettere di bronzo
esposte al pubblico’, “in quibus omnia breviter eius [= di Pitagora] dogmata
continentur” (SH III XXV); o forse s’ispira a passi salomonici,397 direttamente o
attraverso esegesi, come quelle di Giuseppe Flavio o Pietro Comestore: nel
tempio di Salomone “stabant columnae aequis intervallis dispositae, populum
extra stantem ad legem sanctimoniae praemonentes, aliae litteris hebraeis,
aliae graecis, aliae latinis” (SH II LXXX). Per Camillo le sette colonne della Sa-
pienza, “significanti stabilissima eternità”, sono “le sette misure della fabrica
del celeste e dell’inferiore, nelle quali sono comprese le idee di tutte le cose al
celeste e all’inferiore appartenenti” (p. 51). Non sono tuttavia da escludere in-
fluenze eteroclite: “Dogmata huius libri sunt… et ex columnis Mercurii in
Aegypto. Columnae Mercurii plenae doctrinis” (Giamblico, Misteri [Ficino], p.
5).398

104.1-3: quid… sale;


“Natura, da Signor guidata, fece / nel spazio la commedia universale / dove
ogni stella, ogni uomo, ogni animale, / ogni composto ottiene la propria vece.
// Finita questa, come stimar lece, / Dio giudice sarà giusto ed eguale; / l’arte
umana, seguendo norma tale, / all’Autor del medesimo satisfece” (Poesie, 15,
1); ecco il motivo della curiosa compresenza di Codice ed Enciclopedia nel
tempio: questo microcosmo sacro rispecchia l’ordine del cosmo progettato dal
Creatore, che da Lui sarà equamente giudicato alla fine dei tempi. Infatti l’e-
lenco delle definizioni adombra la gerarchia degli enti (“L’uom, la stella, /
l’angel, ogni fattura” [23, Madr. 5, 11]) nel ‘sistema dei mondi’, di cui tratta il
libro X della Metafisica, l’uno interno all’altro, l’uno retto dall’altro: Dio, “fon-
damento, causa e sostegno di tutte le cose”, contiene il mondo archetipo (o
delle idee), che sottende a sua volta il mondo angelico, il quale regge il mondo
matematico, ovvero lo spazio, a sua volta reggente il mondo corporeo, ovvero
la materia, che infine governa quello delle forme (il caldo e il freddo), creato-
ri dei singoli enti materiali, dalla stella alla pietra all’uomo (X I, V [II, p. 373-
5]). Quello dei Solari è dunque un modello di applicazione razionale del libro
della natura ‘nel governo politico’.399

397
In partic., Prov. 9, 1: “La Sapienza s’è costruita la casa, v’ha drizzato le sue sette colonne”;
1Re 7, 15 e 21 e 31: “Fuse due colonne di bronzo…, Salomone [le] fece poi innalzare davan-
ti al vestibolo del Tempio” con capitelli, fregi e rilievi in bronzo; “Se qualcuno avrà peccato
contro il suo prossimo… tu ascolta dal cielo e fa giustizia: giudica i tuoi servi, in modo che
l’empio sia condannato… mentre l’innocente venga riconosciuto senza colpa”.
398
I dogmi dei sacerdoti egizi “si trovano… sulle colonne dedicate a Mercurio. Pitagora e Pla-
tone si iniziarono alla filosofia studiando sulle colonne di Mercurio, in Egitto; le colonne di
Mercurio infatti sono piene di sapienza” (Boffino).
399
Il titolo del su cit. sonetto 15 suona appunto come monito alle società reali che invece
hanno addirittura sovvertito il modello: ‘Che gli uomini seguono più il caso che la ragione
nel governo politico, e poco imitan la natura’.
COMMENTO AL TESTO 483

Anche se la riflessione sull’ordine e struttura dei fondamenti universali è di-


battito squisitamente filosofico,400 non si escludono influssi ermetici: Yates 1981
cita proprio questo passo a dimostrazione della radice ficiniana della teoria
“della continuità del mondo celeste con quello angelico” (p. 407);401 nella tav.
riportata da Anzaldi (p. 171) il ‘Mundus archetipus’ contiene Dio, cui segue la
sfera angelica e il triangolo degli elementi, suddiviso a sua volta in quattro trian-
golini: in alto quello del ‘Coelum’ con ‘Angeli’ a sinistra e ‘Stellae’ a destra, nel
cerchio centrale l’‘Homo’. Ma C. poteva aver avuto sott’occhio anche una delle
illustrazioni della ‘scala intellectus’ (riportata ad es. in un’edizione cinquecen-
tesca del lulliano Liber de ascensu et descensu intellectus [Valencia, 1512]), la quale,
sia in schema circocentrico sia in forma di scala, permette di accedere alle por-
te di una città illuminata dal Sole (della sapienza?), secondo questi otto gradini:
le pietre, gli elementi, le piante, gli animali, l’uomo, il cielo, l’angelo e infine
Dio, ed ogni ‘voce’ è illustrata (v. fig. 5). Questa ‘scalarità’, con la sottesa ‘tabu-
la virtutum’ dell’Ars brevis, la si ritrova nelle Essenze, ricalcanti all’incirca lo stes-
so ordinamento lulliano,402 e poi nelle Virtù, al solito, sintetizzate per agevole
memorabilità in “definitiones”. Secondo Yates 1981 esse starebbero piuttosto a
indicare la dedizione dei Solari a pratiche magiche: tale scala fra microcosmo,
macrocosmo e Ultracosmo “rende perfettamente chiaro ai fedeli che essi si av-
viano ad accostarsi agli angeli e a Dio attraverso le stelle” (p. 406-7). Ma da
quanto su esposto, la loro presunta magicità è pura illazione.

104.4-8: Et iudices… extat;


Mentre i magistrati platonici (Leg. 752e: in tutto trentasette, e tutti ultracin-
quantenni) presiedono coralmente alle leggi, ogni magistrato solare è tale pro-
prio perché spicca in una data virtù, come ha detto a 24.22-31.
Vitruvio distingue due tipi di templi rotondi circondati da colonne: con e sen-
za cella; questi ultimi “hanno il Tribunale” (IV VII). Anche se Barbaro dice che
Vitruvio chiama così “tutto lo spatio che è [destinato] alla salita sul piano del

400
A partire, quantomeno da Pitagora, che “spiegava l’origine dell’immenso mondo e le cau-
se delle cose, et quid natura, docebat, quid deus” (Ovidio, Metam. XV, 67-9); cioè i pitagorici
usavano aforismi che “rispondono alla domanda ‘che cosa è?’ (Giamblico, Vita, p. 82); per
passare poi nel cristianesimo, anche nella forma della ‘disputatio’: “Sciendum est enim… in
omni disputatione quaeri ut quid verum falsumve fit… In Evangelio quidem et Deus, et An-
gelus, et homo, et terra, et aqua, et ignis, et aër, et Sol, et Luna, et stellae… et omnia denique
bona atque mala descripta sunt” (Damasceno, De imagin. III, 517G).
401
Tuttavia Walker sostiene che C. non conobbe il De vita coelitus comparanda ficiniano ante-
riormente al 1626 (p. 239-40); ma Ficino anche in Teol. III I (I, p. 219) parla della salita e di-
scesa per i cinque gradi dell’Essere, gradi che in Epist. II, 166v pone proprio in forma di que-
stione (‘Quid coelum, anima, angelus, Deus’), fornendo per ognuno definizioni molto strin-
gate, come ad es.: “diciamo il Cielo essere una certa luce sanza materia, e in un certo modo
corporale. L’anima una certa luce senza quantità grande; l’angelo una luce sanza moto velo-
cissima”.
402
L’Ars lulliana è divisa in tredici categorie, l’ultima delle quali è costituita dalle ‘Quaestio-
nes’, articolantesi poi in ‘Homo quid sit’, e così ‘Deus’, ‘Angelus’ ecc.
484 LA CITTÀ DEL SOLE

Tempio, se non m’inganno” (p. 197 – cioè la scalinata circolare d’accesso che
lo circonda), qui si tratta del tribunale giudicante, la cui localizzazione in uno
spazio sacro è tipico di tutte le tradizioni classiche, pagane,403 ed ebraiche: non
solo la reggia di Salomone (1Re 7, 6-7: “fece il vestibolo delle colonne… coper-
te da una tettoia. Costruì pure il portico del trono, dove giudicava le cause”),
ma anche uno degli atri del Tempio, a detta di Comestore, era circondato da
portici in cui risiedeva una ‘cattedra’ giudicante (v. n. 8.24 e n. 102.36). Infine
Alberti (VII I-III) sottolinea il nesso inscindibile fra basilica e tribunale: “a suo
parere la basilica, sede, in antico, dell’amministrazione della giustizia, è in
stretta relazione con il tempio. La giustizia è dono di Dio: l’uomo impetra la
giustizia divina attraverso la pietà, ed esercita la giustizia umana per mezzo del-
la legge e del diritto. Tempio e basilica pertanto, in quanto sedi della giustizia
divina e umana, sono intimamente connessi” (Wittkower, p. 12).

104.14-5: Condemnationes… medicinae


La confessione “è insieme sacramento di ammaestramento e di medicina… la
penitenza [è] il medicamento della infermità spirituale” (Metaph. XVI VII, V
[III, p. 283]); “Noi diciamo che nella società le pene sono medicinali. Il pecca-
to è infatti nell’anima e nel corpo sociale come il morbo è nell’organismo uma-
no. Il medico si sforza in tutti i modi possibili di sanare le membra del corpo,
ma le amputa soltanto quando un membro è così cancrenoso da rifiutare ri-
medio e da infettare le altre parti sane” (Theol. X [III, p. 161]); “Platone chia-
ma i filosofi ‘medici delle anime’, affidandosi al consiglio dei quali, i peccatori
smettono la loro pravità”; “come al medico bisogna menifestare tutto il male e
i suoi sintomi… così anche al sacerdote bisogna manifestare tutta la colpa… E
per questo i Padri dicono che la confessione è la manifestazione della ferita
con speranza di perdono. E tutti i Padri e gli Scolastici convengono e si fonda-
no in questa metafora” (Theol. XXIV [IV, pp. 97 e 101]).404 Che metafora, poi,
non è, come chiarisce Medicina: ci sono peccati contro i fini (anteporre l’Io: la
superbia) e peccati contro i mezzi, ovvero “affectiones et operationes et obiec-
ta”, cioè anima e corpo, moglie e figli, lo stato ecc., eccedendo o deficitando
nei quali, “palam est quod infirmitates producit”, in quanto “omne vitium [=
innato] et morbus [= sopravvenuto] animae redundat in corpus in praesenti vi-
ta vel in altera post resurrectionem” (p. 5). Del resto Galeno aveva scritto un ‘li-
bellus’ De cuiusque animi peccatorum dignotione atque medela (V, p. 58-103; v. n. 24
[glossa] §1, n. 100.23 e n. 100.32-6).

403
“Vicino ai templi la sede delle magistrature e i tribunali dove si riceveranno e si daranno
le sentenze ai cittadini, come in luoghi più che mai sacri, sia per la loro funzione che è atti-
nente a cose sante, sia perché sedi degli dèi preposti a quest’ultima, e fra questi soprattutto
quei tribunali in cui si giudicheranno… i delitti che si pagano con la morte” (Platone, Leg.
778d-779a).
404
Infatti Ambrogio, VI VIII, 50 parla del confessore come medico; Damasceno, De imagin.,
516r, addirittura di ‘Similitudo Dei et medici’.
COMMENTO AL TESTO 485

104 (glossa): De sacerdotibus… oratione


1. La religione dei Solari
I Solari abitano in un’isola antipodica, però la loro intraprendenza e curiosità
intellettuale li ha messi in contatto non solo con altre popolazioni asiatiche cir-
convicine (84.30-2), ma anche con la cultura occidentale, e quindi con la reli-
gione cristiana. Conoscono il cristianesimo e Cristo, e lo conoscono bene, per-
ché, considerando la Sua collocazione nell’enciclopedia murale, hanno dimo-
strato di averne colto il valore “supra homines” (18.8). Inoltre questi coltissimi
filosofi sanno anche Atti e Vita degli Apostoli (56.32, 84.28, 106.29) e ne cono-
scono la loro diffusione ecumenica (154.5), credono nelle loro profezie
(116.7) e nel peccato originale (132.5) che è poi alla base della Rivelazione;
pregano quasi allo stesso modo (90.5-7) una divinità che ha la medesima strut-
tura trinitaria (126.18). Eppure, malgrado tante affinità, sono rimasti Bramini
pitagorici (64.16). Il motivo di questa mancata conversione è da imputare al
fatto che essi non sanno ancora “le ragioni vive del Cristianesmo” (v. 60.11 in
‘Apparato delle varianti di α’). Infatti a chi tacciava C. di ‘opportunismo’ per
aver inserito in L. quella frase, Firpo 1986 ribatteva che tali critici “hanno una
imperfetta conoscenza della teologia, perché la frase che richiama le ragioni vi-
ve del cristianesimo significa che i Solari conoscono solo le ragioni morte, cioè
hanno contezza del cristianesimo come fatto storico, ma non lo conoscono co-
me evento spirituale di evangelizzazione” (p. 806-7). E si potrebbe aggiungere
che la cosa non sarebbe sprovvista neanche di fondamento ‘storico’: i Bramini
“onorano Dio e, sebbene possiedano una ‘gnosi’ non tanto profonda e non sia-
no tanto capaci di discernere le ‘ragioni della Provvidenza’, tuttavia pregano
continuamente” (Palladio, 11).405
Limitandosi alla sola CS, la questione, che implica e quindi investe una filosofia
e antropologia della religione prima che la teologia, si presenta molto più in-
garbugliata, come apparirebbe dai seguenti rilievi:
A)riscriviamo la frase in extenso, inserita in L.: “e quando sapranno le ragioni
vive del Cristianesmo, provate con miracoli, consentiranno, perché son dol-
cissimi. Ma fin mo trattano naturalmente senza fede rivelata; né ponno a più

405
Desantis annota a questa frase di Palladio: “la loro ‘sapienza’ o ‘scienza delle cose sacre’
(gnosis) non aveva piena chiarezza teologica e godeva solo parzialmente del carisma di di-
scernere le ‘ragioni della Provvidenza’. La terminologia usata è di marca evagriana” (p. 56n):
ciò potrebbe, seppur in minimissima parte, giustificare come mai i Solari, così ben informati
delle cose del cristianesimo, non si siano convertiti; un’altra giustificazione è, secondo Di Na-
poli che “CS era vista da C. come un ‘cathechismus Gentilium ad fidem christianam’”, con
quella società precristiana ideale che non ha “ancora avuto modo di pesare ‘le ragioni vive
del cristianesimo’”, e perciò colloca sullo stesso piano tutti i fondatori di religioni in una po-
sizione di parità nel sesto girone: “funzione della ragione non è razionalizzare l’eventuale da-
to rivelato, riducendo il mistero ai limiti della ragione, ma indagare e cogliere l’autenticità
della legazia divina del fondatore di una religione storica” (p. 27); perciò occorrono missio-
nari dottrinalmente ferrati. Comunque sia, il non-cristianesimo dei Solari non voleva essere
una concezione della religione naturale come sostitutiva del cristianesimo storico, bensì co-
me ad esso dispositiva.
486 LA CITTÀ DEL SOLE

sormontare”. Per passare dalla conoscenza ‘storica’ alla fede ‘religiosa’, oc-
correrebbero i miracoli: “come dice S. Bernardo, non si esige l’obbedienza
alla legge da chi non abbia udito prima la legge, e non soltanto l’abbia udi-
ta, ma ne abbia anche ricevuto le prove attraverso miracoli e dimostrazioni
vere della sua origine divina” (Theol. I [II, 271]; v. n. 134.5-14). Nondimeno
c’è da chiedersi: è credibile che una popolazione non solo così ferrata in sto-
ria del cristianesimo, ma che addirittura si basa sui ‘nostri profeti’ (136.5)
per i suoi pronostici, debba attendere i missionari che, con il racconto dei
miracoli, gli insufflino la fede? I Solari non sono dei traviati o dei selvaggi da
civilizzare e redimere, ma sono fior di filosofi. Beninteso, anche fior di filo-
sofi possono avere crisi religiose; però esse riguardano la sfera individuale,
mentre qui è in causa una conversione generale. Perciò o quella frase ha un
mero valore propiziatorio;406 oppure C. doveva pensare a delle ragioni ‘ob-
biettive’, in assenza di ostacoli psicologici (i Solari “son dolcissimi”, cioè, co-
me giustamente annota Firpo: “non sono ostinati”), le quali potrebbero
spiegare cosa mancava a dei filosofi ben informati e entusiasti (84.25-7) per
convertirsi – la Grazia: “non si può volar senza l’ali della grazia di Dio, né la
grazia si può meritar se non per grazia” (Poesie 73, Madr. 5, Esp.).407

406
Come pensa Bobbio: essa bastava a sottrarre “tutta l’operetta in blocco all’accusa di eresia,
senza dover modificare in nulla e tanto meno eliminare le affermazioni pericolose e senza
quindi venir meno alle proprie idee recondite” (p. 17); essendo impossibile sentenziare sul-
le idee recondite di C., non resta che attenersi ai fatti e ai testi. Amerio 1966 scrive che la do-
manda-chiave della biografia campan. è: “Perché mai egli rimase nella Chiesa? Non (come
stimò l’Amabile) affinché, portando perpetuamente maschera, egli potesse, mascherato,
operare la distruzione della Chiesa” (p. 164), ma perché era persuaso che “uno dei vincoli
più potenti che trattengono me e (credo) anche altri nella Chiesa di Dio è il fatto che il Cri-
stianesimo approva gli studi delle scienze” (Apologia, p. 26); dunque “egli è rimasto nella
Chiesa perché nella Chiesa, espansione storica del Verbo teandrico, egli ravvisava più ancora
che la società della salvezza, la società della ragione” (Amerio 1966, p. 165).
407
Riterrei debole, anche se non del tutto destituita di fondamento, l’ipotesi che l’incompiu-
ta cristianizzazione dei Solari sia dipesa dal mancato incontro con la parola ispirata e ‘viva’
dei missionari, almeno di certi missionari, come l’ordine clerico-militare che proponeva di
istituire per il re di Spagna (v. n. 2.e punto D), o meglio ancora come “il collegio Barberino
de propaganda fide, fondato nel libro del Reminiscentur [= Quod rem.]”, proposto nel 1630 al car-
dinale Barberini, per preparare “tanti scolari armati di dottrina, profezia, testimonianze e de-
siderio di martirio e notizia di tutte sètte e nazioni per buona istoria e geografia, affin di su-
scitar la fede quasi smorta tra cristiani e moltiplicarla dove non è” (Lettere, p. 228). A favore di
questa seconda ipotesi posso addurre soltanto un passo molto tardo, e per giunta in tradu-
zione, che però mostra in maniera sufficientemente netta come il termine ‘vivo’ possieda
una valenza specificamente connessa al grado di religiosità: “La conoscenza della verità di
una proposizione, per quanto essa influisca sulla volontà e sull’operare nostro, è detta cono-
scenza viva. Non si denomina così qualunque conoscenza che influisce sulla volontà; molti
possiedono la conoscenza della religione cristiana, che pure li induce a farsi beffe di questa;
anche i Turchi hanno una conoscenza di essa, e ne sono indotti a perseguitarla. A entrambi
non sarà da alcuno riconosciuta una conoscenza viva, quantunque la loro conoscenza influi-
sca sulla loro volontà. Ma colui che venera la religione cristiana per la sua verità, e la difende
COMMENTO AL TESTO 487

B)La frase è inserita solo e soltanto in L.; scompare nella prima traduzione la-
tina (= Fr.; perché il ms su cui fu esemplata la traduz. non fu L., o perché
l’Au. non la considerava così capitale?) e una sua pallida parafrasi riappare
nella parigina (60.25: “Vigor Evangelii non potest totus naturaliter nosci”);
la versione definitiva e autoriale è doppiamente marginale: anzitutto for-
malmente, in quanto appunto è una ‘nota a margine’ e non nel corpo del
testo;
C)in secondo luogo, contenutisticamente: questa postilla riguarda un aspetto
molto peculiare dell’organizzazione sociale dei Solari: la comunanza delle
donne; vi è una discrepanza macroscopica fra il loro regime comunitaristi-
co e il matrimonio, uno dei sette Sacramenti; in questo caso ragione e fede
collidono e, principalmente, l’Au. stesso non sa bene se propendere per la
natura o la Rivelazione, come vedremo (v. n. 134.5-14, n. 148.12-3). Dun-
que: l’altalenante presenza di quella frase e il suo riferirsi ad un solo aspet-
to, che non coinvolge tutta la visione religiosa del mondo, non sono requi-
siti ottimali per fondare ipotesi attendibili sul rapporto fra i Solari e il cri-
stianesimo.
D) Ancora: se la Città è in ‘dolce’ attesa del Verbo divino, come mai si procla-
ma che il mondo finirà con l’adottare costumi solari (84.23)? È la Città che
si cristianizzerà o il mondo che si ‘solarizzerà’?
E)Infine: dopo aver appena sostenuto, in apparente spregio alla coerenza con
quanto detto al punto precedente, che il cristianesimo dominerà su tutta la
terra, a 134.19 scrive che “questi filosofi” diventeranno nientemeno che “te-
stes veritatis, electi a Deo”. Premesso che vi sono due categorie di non cre-
denti o miscredenti: coloro i quali non hanno mai sentito parlare di religio-
ne cristiana, e li chiamerò ‘ignari’; e coloro i quali, pur avendone conoscen-
za, non vi aderiscono volontariamente, e sono quindi ‘infedeli’; premesso
ciò, i Solari appartengono al secondo gruppo, e quindi è ancor più singola-
re che Dio abbia eletto un popolo che, pur non brillando per fede, dovreb-
be esser il campione della verità – e di quale verità, poi?
In sintesi: è davvero la mancata conoscenza delle ‘ragioni vive’ a impedire o ri-
tardare la conversione dei Solari? Oppure nella società ideale di C. non c’è più
posto per la religione cristiana?
Queste domande fanno tutte capo a una matrice problematica comune: il cristia-
nesimo per l’Au. di CS. Problema spinosissimo, reso ancor più acuto dalle vicende
biografiche (la ‘conversione’ di Sant’Elmo intorno al 1606), nonché da un testo,
come CS, a volte laconico e a volte eccessivo, rischiando confusione e addirittura

e diffonde, costui ha di questa una conoscenza viva… Il più alto grado della conoscenza viva
si incontra nelle verità rivelate quand’esse portan con sé la conversione dell’uomo” (J. M.
Chladenius, Einleitung zur richtigen Auslegung vernünfftiger Reden und Schrifften [= Guida alla
giusta interpretazione di scritti e discorsi razionali], Lipsia, 1742, § 474 e 486; in: P. Szondi,
Introduzione all’ermeneutica letteraria, Torino, 1975, p. 51; Chladenius pubblicò opere di filoso-
fia e teologia, perciò è sospettabile un uso ‘tecnico’ del termine, anteriore evidentemente di
oltre un secolo e mezzo).
488 LA CITTÀ DEL SOLE

contraddizione, come si può vedere in piccola scala dall’andamento carsico di ag-


giunte che spariscono per poi ricomparire come postille a margine, alimentando
l’eterno sospetto di asserzioni strumentali e dissimulatorie.
Per ragioni di metodo prima che di opportunità, le pagine che seguono non si
occuperanno, pertanto, del cristianesimo di C., cioè dell’aspetto biografico (C.
era, o era diventato un vero cristiano?). Può darsi che nella cospirata Repub-
blica solare di Stilo, secondo delazioni o dichiarazioni, a volte estorte e a volte
interessate, ma quasi sempre sospette, C. avesse declassato Cristo a “uomo dab-
bene”, con solo cinque pianeti in Ascendente, e innalzato se stesso, vantando
un tema natale a sei pianeti, a “Messia venturo” che avrebbe istituito o restitui-
to una religione naturale solare. Deista? Il massimo specialista di questo pro-
blema, Romano Amerio, riteneva che per la “metanoia metafisica e religiosa
egli traslocò al Verbo rivelato il principio di verità che aveva prima individuato
nella ragion naturale… Poiché soltanto la ragione è quella che salva gli uomi-
ni, l’accessione di tutti gli uomini alla Ragione Prima, che è il verbo divino e,
incarnata, il Cristo, costituisce la condizione indispensabile dell’instaurazione
di tutti i valori del genere umano” (Amerio 1955, p. 5): questa asserzione con-
tiene almeno due importanti considerazioni:
a) vi fu una conversione da una fase ‘naturalista’ spinta, ad una in cui la ragio-
ne viene identificata con la primalità sapienziale di Cristo;
b) è proprio la caratteristica specifica di ogni uomo, la ragione,
1) il basamento su cui si fondano i valori, e dunque il fondamento dell’etica
e della giustizia, cioè della società - non potendosi per C. parlare di uomo
se non in quanto membro di una società;
2) il requisito minimale della salvezza: anche chi non è battezzato, ma vive
secondo ragione si salva, perché ogni religione positiva, in quanto tale,
non può che esser implicitamente e naturalmente ‘cristiana’;
3) a costituire il fondamento del suo apostolato, concretizzatosi in Quod rem.: ri-
trovare al fondo delle infinite sette e religioni positive che pullulano, questa
costante razionale, per tornare a ‘unum ovile et unus pastor’, preludio del
secolo aureo.408
Della conversione di Sant’Elmo abbiamo invece testimonianze autobiografi-
che, come le quattro canzoni intitolate Dispregio della morte, che riecheggiano
motivi ermetici e neoplatonici, e in partic. la toccante ‘Canzone a Berillo’
[1606], in cui l’Au. compie un atto di umiliazione e contrizione, per essersi ar-
rogato senza alcun esplicito investimento divino il ruolo di Legislatore: “Niuno
deve predicare novità o cose donde pensa che s’abbia a migliorare la repubbli-
ca, se da Dio visibilmente non è mandato e, come Moise, armato di miracoli e
contrassegni”. Il pentimento riguarda solo la presunzione intellettuale (“Io mi
credevo Dio tener in mano, / non seguitando Dio, / ma l’argute ragion del
senno mio, / che a me ed a tanti ministrâr la morte”, 80, Madr. 4), senza mai

408
Utili a delucidare questo punto sono: Firpo 1957; Di Napoli, pp. 41 e 160 e da ultimo
Ernst 1991, p. 26-7.
COMMENTO AL TESTO 489

però coinvolgere la dogmatica religiosa. Quindi, anche in vista dell’obbiettivo


ristretto postoci (Solari/cristianesimo), lasciamo da parte sia la conversione sia
l’ortodossia.409 Sovrapponendo tutte le red. di CS, è possibile individuare un
nucleo costante: “Iuppiter est quodcumque vides, quodcumque movetur” scri-
veva all’allievo Pflug in una lettera in cui si proclamava “per evidenza cristiano,
com’ero prima per fredda fede” (Lettere [1607], p. 118); Dio è sì immanente
(ma non equivalente!) alla natura, ma questo Dio della Natura è lo stesso Dio
della Scrittura (v. n. 16.28c). Dopo il 1606-7, uno dei suoi obiettivi cruciali è far
sì che religione ‘abdita’ (nascosta o innata) e religione ‘addita’ o ‘indita’ (rive-
lata dai Profeti e da Cristo) trovino una conciliazione: Theol. I (I, p. 61) segna
uno dei vertici teorici della riflessione teologica: “Si dà una duplice cognizione:
una innata e recondita [= “abdita”], per cui ciascun ente sa di essere e ama sé
stesso e il proprio Autore, di cui è partecipazione; un’altra illata e sopraggiun-
ta [= “addita”], per cui ciascun ente patisce ed è impressionato, e sente le cose
da cui è impressionato: mediante questa seconda notizia l’ente viene alienato
dalla notizia propria e di Dio, e quasi estrinsecato: ma Dio non è estrinseco a
nessun ente, e così neppure l’essere proprio a ciascun ente”. Ciò probabilmen-
te avrà anche contribuito a determinare una differenza, o meglio uno sbilan-
ciamento di pesi, nel rapporto istituito col Cristianesimo fra il C. di T. e quello
di Civitas ‘ne varietur’. Non sembra condivisibile pertanto l’opinione di coloro
che sostengono che dalla prima all’ultima stesura di CS il rapporto fra religio-
ne naturale e religione rivelata rimanga immutato (es. Bobbio, p. 21-2).410 In
sintetici punti programmatici, la filosofia della religione di C., solo relativa-
mente ai problemi sollevati da CS, ed evincibile da Aforismi, Atheismus, Lettere,

409
Amerio 1966 con chiarezza ne sintetizza i tratti salienti: “egli venne dal sensismo alla teo-
ria della mente, superò il naturalismo nell’ontologia primalitativa e trovò nella dottrina del
Cristo Prima Ragione il punto d’unione della filosofia colla dogmatica” (p. 167); invece una
pagina emblematica del sentimento di vera contrizione, a mio avviso, è l’incipit di Quod rem.
2, 1 (p. 1195).
410
Sottoscrivo invece pienamente la posizione che Ernst 2002 così sintetizza: “Nonostante le
indubbie affinità fra il tentativo calabrese e la successiva utopia, nelle pagine della CS sono
del tutto assenti le spregiudicate dottrine eterodosse. Nel dialogo campanelliano prevale in-
vece un casto naturalismo, decantato da ogni tono polemico o aggressivo. Anche se nel cor-
so degli anni il testo sarà sottoposto a un processo di attenuazione, fin dalla sua prima stesu-
ra non presenta nulla che non venga poi ripreso e spiegato dall’Au. in tempi successivi… Il
problema più delicato riguarda il rapporto fra cristianesimo e religione naturale. A questo
proposito, C. non esita ad affermare che non c’è contrasto fra i due livelli: il cristianesimo,
espressione della razionalità divina, non può che coincidere con la religione naturale, e l’ag-
giunta dei dogmi e dei sacramenti non ha il fine di distruggere la natura, bensì di perfezio-
narla. E questo è senza dubbio uno dei passaggi più sottili, difficili e allusivi del pensiero cam-
panelliano: il presentare il cristianesimo come l’espressione più alta e compiuta della razio-
nalità e della religione naturale, è, in verità, più che la costatazione di una realtà esistente,
un’implicita esortazione e indicazione della via da percorrere, di un compito da realizzare”
(p. 95).
490 LA CITTÀ DEL SOLE

Disc. univ. V, Metaph. XVI, Apologeticum (e le Poesie, come ad es. 3 [‘Fede natura-
le del vero sapiente’]), è così condensabile:
1. ‘Religione’ è il legame tra finito e infinito: “Religio est divina virtus, iustitia-
rum apex, religans homines Deo ita, ut nihil, quod Deo non placeat ope-
rentur, illique serviant ac iuxta eius praecepta vivant” (Quod rem. 4, p. 139);
2. Dio è il supremo Legislatore, Colui che, non solo ha creato, ma ha anche
marchiato il mondo secondo la Sua legge: crearlo a Sua immagine significa
emanarvi le doti primalitative (Potenza, Sapienza, Amore).
3. La Legge di Dio è la Ragione: è la Sapienza procedente dalla Potenza la qua-
le dunque regna su tutto e impregna di sé il tutto (parafrasando Hegel: ‘tut-
to ciò che è reale è Razionale’); è legge di natura, in tutte le sue manifesta-
zioni, fino al vertice umano. Corollari:
a) la legge di natura è inviolabile in assoluto (“Naturam voco ius, super po-
tentia, sapientia et amore bono iunctis” [Mon. Messiae, p. 8]); solo Dio
può trasgredirla, non come Sapienza (= Legislatore), ma come Potenza
(= Signore); gerarchicamente, dunque, secondo l’ordine di processione
delle Primalità, viene prima la Potenza, poi la Sua legge naturale, quindi
le leggi positive, a partire da quelle direttamente comunicate da Dio agli
uomini;
b) l’uomo è un animale razionale, in cui cioè la razionalità, patrimonio na-
turale universale, si estrinseca al massimo grado diventandone la diffe-
renza specificatrice: “infatti la ragione prima di Dio è Dio, in virtù della
quale siamo tutti razionali per principio naturale” (Astrol. VII II, 3 [trad.
Ernst]);
c) oltre la ragione, l’altro tratto di esclusiva pertinenza umana è una tensio-
ne o nostalgia dell’Infinito (richiamandosi alla Teologia platonica di Fici-
no), indizio di una ‘Mens’ (o anima) che aspira a ricongiungersi con la
sua origine: l’anima conosce Dio per “una innata tendenza seminale”,
non per una conoscenza illata: ‘Homo Sapiens’ e ‘Homo Sacer’ sono i
fondamenti della ‘religio abdita’.
4. Il primo uomo infranse tale legge naturale, anteponendo un bene minore a
uno maggiore, la parte egocentrica al tutto; di conseguenza si ebbe la corru-
zione della natura umana, che poté così anche tralignare dalla spontanea
aderenza alla legge naturale (per il peccato di Adamo, oggetto di una do-
manda ‘ad hoc’ dell’Ospitaliero, ma tangente a questo asse argomentativo:
v. n. 128 [glossa]).
5. Tra le forme di deviazione vi è anche la creazione di false religioni, causate
da ragioni:
• intrinseche alla natura umana: “tutto ciò che è potente o grande o bene
per noi, perché rappresenta una particella della divinità, crediamo che
sia Dio, per questo la religione posta da noi è imperfetta e talora falsa,
laddove quella innata è perfetta e vera” (Metaph. [III, p. 217]);
• ragioni estrinseche: falsi e cattivi profeti ingannano i creduli seguaci, fa-
cendosi passare per emissari della Divinità (come Maometto).
6. Tale tralignamento può condurre a forme di religioni positive molto lonta-
ne, addirittura antitetiche alla legge naturale (idolatriche): “La conoscenza
COMMENTO AL TESTO 491

aggiunta sopisce la conoscenza innata; la conoscenza aggiunta deriva dagli


oggetti; e come oggetti si offrono le cose sensibili; perciò i popoli han cerca-
to Dio nelle cose sensibili e si sono ingannati” (Metaph. [III, p. 225]); Dio,
dopo aver istruito gli uomini, “lasciò di pratticar con loro visibilmente… e
poi gli uomini pervertiti, parte per regnare sopra gli altri, parte per trascu-
ragine ignorantesca, fecero disconoscere il ‘Tata’ [= Padre] al fanciullesco
genere umano… e ognuno disse: «Io sono il ‘Tata’»– come fe’ Giove, Satur-
no, Mercurio, Amida e altri. Altri dissero il ‘Tata’ è il sole, altri il cielo… però
fu bisogno che Dio s’incarnasse nella sua Sapienza, Verbo e Ragione, a scan-
cellar gli errori e sodisfare alla pena” (Disc. univ., X [p. 1137]; Quod rem. 2,
2); perciò:
a) Dio deve intervenire direttamente a ristabilire la Sua legge con la Rivela-
zione: è la ‘religio superaddita’ ad un popolo eletto;411
b) se anche Dio non interviene, l’uomo può salvarsi lo stesso, non solo se ha
seguito la legge naturale, ma anche se vi ha deviato innocentemente e in-
consapevolmente; come spiega Metaph. (e 128.13-4), per commettere un
peccato occorre che l’uomo possa, sappia, ma essenzialmente voglia (“di-
samore” [T.128.11]) commetterlo;
c) il cosmo viene scambiato per caos, cioè retto dal caso e non dalla ragione;
invece, basta un’occhiata al più minuscolo e oscuro organismo naturale
per ricavare tre imperativi basilari della legge naturale:
• gnoseologico: studiare il Libro di Dio, dalla cui armonia si deduce l’in-
trinseca razionalità, e dunque l’esistenza di una Mente ordinatrice;
• etico: non far agli altri quel che non vorresti fosse fatto a te;
• teologico: onora l’Autore di questo magnifico ordine.
Basta seguire questi precetti per essere salvi.
7. Una volta, però, che Dio è sceso a ristabilire la Sua legge, l’uomo non ha più
alibi, perché la Rivelazione sussume e supera la legge naturale. Tuttavia tale
legge, veicolata da e a uomini storicamente determinati, contiene intorno a
un nucleo eterno e invariabile, uno strato superficiale contingente e quindi
mutabile: ad es. il divieto di mangiar carne di maiale da parte di Mosè, era li-
mitato a quando esso era (reputato) veicolo di lebbra; analogamente dicasi
per le decisioni papali. Ciò può comportare un duplice movimento incro-
ciato: la religione cristiana deve liberarsi da quelle scorie ramificatesi sul
tronco sano; la religione naturale deve esser integrata dai dati della Rivela-
zione, razionali anch’essi.
8. Ma come si fa a dire che proprio il cristianesimo è la religione vera? A ta-
cer del resto (“miracoli, riscontri, testimonianze e martiro”), la veridicità
del cristianesimo sulle altre religioni storiche si basa proprio sulla sua per-
fetta aderenza alle leggi di natura. Anzi si arriva a una intercambiabilità:

411
La legge naturale partecipa della Legge “con la quale Dio guida tutte le sue creature a de-
terminati fini… la quale essendo oscurata, fu dichiarata poi a Mosè da Dio stesso e poi mi-
gliorata dall’istessa sapienza fatta huomo nel Vangelio” (Mon. del Messia, p. 51-2).
492 LA CITTÀ DEL SOLE

“Isidorus, citatus a Gratiano, inquit: ‘lex naturalis est, quae continetur in


lege et Evangelio’” (Atheismus, p. 132); per esser naturale una legge deve
esser anzitutto evangelica (“la legge di natura… della quale il Vangelo è il
modello, il fiore e lo splendore” [Theol. XXV, p. 195]); tutti i popoli e “fi-
losofi stoici, platonici, pitagorici, gimnosofisti, brahmani” testimoniano la
natura razionale della religione e “dunque la religione è massimamente
secondo la natura” (Metaph. [III, p. 213]); e siccome la legge di natura è
unica perché dipendente dall’unica legge eterna, tutte queste religioni ‘in
certo modo sono cristiane’: “sono stupito quando considero che gli uomi-
ni, che lo vogliano o no, sono sottoposti a Cristo, a loro noto o sconosciu-
to” (Atheismus, p. 190); parafrasando Croce: ‘in quanto esseri razionali non
possiamo non dirci cristiani’, e solo in quanto cristiani siamo razionali:
“come è detto nel capo I dell’Ecclesiastico: ‘Ogni sapienza viene dal Signore
Iddio, la radice della sapienza è il Verbo di Dio’. Dunque quelli che sono
cristiani sono per ciò stesso sapienti e razionali. Infatti, il verbo di Dio è la
somma ragione e, noi partecipando di quella, siamo detti razionali” (Apo-
logia III, p. 24).
9. Operativamente, riformare la religione cristiana significa: sfoltire il farragi-
noso apparato legislativo; ritornare alla povertà e semplicità originaria; con-
vocare un conclave universale in cui, acclarata la naturalità e quindi la veri-
dicità del cristianesimo, su questo denominatore comune razionale, riunifi-
care tutte le ‘sètte’; viceversa combattere senza pietà i ‘machiavellisti’, che
considerano la religione un’impostura, utile solo come ‘instrumentum re-
gni’, arrivando a mettere sullo stesso piano Mosè, Cristo e Maometto.412
Esaminiamo adesso le differenze nel rapporto religione naturale/rivelata tra le
diverse revisioni di CS.
2. La religione nelle prime redazioni di Città (T. ed R.)
I Solari “dicono che il mondo si riducerà a vivere com’essi fanno, però cercano
sempre sapere s’altri vive meglio di loro” (T.84.28-32). Il loro modello filosofi-
co di vita è l’‘avanguardia’ (a)storica, suscettibile di ulteriore perfezionamen-

412
Da Boccaccio, Decam. I, 2 all’anonimo autore del De tribus impostoribus, ascritto anche a C.,
che si scagionò dall’accusa dimostrando che esso circolava già 30 anni prima della sua nasci-
ta (v. n. 60.23-4); oggi, però, questa “vera e propria bibbia del libertinismo” la si ritiene un
“fantomatico testo” mai esistito (Muresu, p. 915; Popkin, in: Berti). Secondo Muresu, C. (con
Bruno) fu uno dei rappresentanti italiani del ‘libertinismo’: a leggere almeno gli atti del pro-
cesso, “C. avrebbe sostenuto la teoria della religione come impostura, praticato la magia,
espresso opinioni democritee… identificato la natura con Dio, disconosciuto i miracoli di
Cristo, negato l’immortalità dell’anima individuale e l’esistenza dell’inferno, contestato i
dogmi dell’incarnazione, della transustanziazione e della Trinità, equiparato gli uomini agli
esseri bruti, sostenuto posizioni relativistiche riguardo a culti e cerimonie religiose, inveito
contro papi, re e cardinali, affermato la piena liceità dell’amore carnale” (p. 914-5). Ma in
partic. fu la fortuna e l’uso, per quanto capzioso e spregiudicato, dell’Atheismus da parte de-
gli ambienti libertini a far propendere per una risposta affermativa alla domanda posta in ti-
tolo da Ernst (Campanella libertino? in: Ricerche sulla letteratura libertina, p. 231-41; cfr, oltre ai
documenti ritrovati recentemente da Spruit, anche Baldini-Spruit).
COMMENTO AL TESTO 493

to, ma a cui in definitiva tutto il mondo si adeguerà perché il ‘modus vivendi’


solare è quello più autenticamente e coerentemente naturale. Invece il cristia-
nesimo, pur essendo il frutto di un riallineamento divino dopo le distorsioni
conseguenti allo sbandamento Originale, ha subito nella sua storia terrena ul-
teriori “abusi” (T.134.15), per la debolezza congenita dell’uomo, a partire pro-
prio dai servi del Signore (come dimostra l’avidità del clero attuale: T.22.6-12).
Dunque i Solari sono “testimoni della verità, eletti da Dio” (T.134.22), per due
ragioni: a) testimoniare come anche senza Rivelazione si possa accedere alla
religione vera, servendosi della sola ragione; b) fungere da specchio pulito in
cui possano riflettersi (e ci aiutino a riflettere) tutte le deviazioni che in 1600
anni il Cristianesimo ha patito.
Allora la diagnosi dell’Ospitaliero (“Se questi, che segueno solo la legge della
natura, son tanto vicini al cristianesmo, che nulla cosa aggiunge alla legge na-
turale se non li sacramenti, io cavo argomento da questa relazione che la vera
legge è la cristiana, e che, tolti l’abusi, sarà signora del mondo” [T.134.7-16])
non è in contraddizione con la solarizzazione planetaria prossima ventura: poi-
ché il punto di riferimento è la Sapienza, da cui direttamente discende la legge
naturale, e ridiscende attraverso la Rivelazione, mentre i Solari, privati della Se-
conda, hanno attinto direttamente alla fonte originaria della “prima Ragione”
(T.160.8), i cristiani sono stati capaci di abusare anche della Rivelazione. Quin-
di tocca principalmente ai cristiani compiere dei passi in direzione della fede
naturale, molto più, almeno, di quanto tocchi compierne ai Solari per diventa-
re cristiani – specie se si pensa cosa è diventato il cristianesimo. Insomma, nel-
la partita doppia fra cristianesimo e religione naturale, è molto più gravosa la
voce ‘togliere abusi’ dal Cristianesimo, che quella ‘aggiungere Sacramenti’ al
naturalismo solare.
3. La religione nelle successive redazioni di Città 1606-11 (L.)
Prescindendo dalle motivazioni – conversione o propiziazione? –, che hanno
indotto C. ad inserire la frase delle “ragioni vive” (v. 60.11 in ‘Apparato delle
varianti di α’), e al di là di quanto si è già variamente detto (n. 60.25-6: sulla
portata ristretta a un costume matrimoniale; n. 60.13-5: sul rispecchiamento
delle testimonianze dei missionari, che, un po’ ottimisticamente e un po’ pro-
pagandisticamente, dicono che il Nuovo Mondo aspetta a braccia aperte la Pa-
rola di Cristo), nella red. L. vi è un deciso sbilanciamento a favore della reli-
gione cristiana: pur restando invariati gli altri passi, la religione Rivelata acqui-
sta nettamente il primato, in quanto vengono evidenziati i limiti della ‘religio
indita’, che non può “a più sormontare”, cioè non ha dominio nella sfera tra-
scendentale. Perciò si potrebbe concludere che a quest’altezza temporale (o
redazionale), il Cristianesimo è il porto di pacificazione in cui anche il credo
solare troverà, dopo tante ricerche, un approdo finale convinto. C’è da chie-
dersi, però, perché questa tappa terminale e risolutiva venga abbandonata in
seguito (Fr.), o surrogata da una postilla variamente marginale, come già detto
(v. n. 60.25-6). Forse bisogna preliminarmente distinguere due livelli del pen-
siero (e discorso) di C.:
a) sul piano specifico: la poligamia è effettivamente il punto di maggior frizio-
ne fra ragione e Rivelazione, e senza possibilità di mediazione: tanto sono
494 LA CITTÀ DEL SOLE

solide le pretese eugenetiche della ragione, quanto prive di sostegni dottri-


nali e patristici (la batteria di Autorità pagane ha scarso peso), il cui unico
spiraglio è sì Autorevole (perché Clemente è un Santo), ma di dubbia inter-
pretazione (58.12-60.1). A livello personale, C. reagì con un atteggiamento
del tipo: ‘non capisco ma obbedisco’,413 e lo confinò in una vaga dimensio-
ne ‘utopica’, cioè ottimale da un punto di vista ideale, ma impraticabile, al-
meno a breve, perché in conflitto sia con il dogma che con la radicata tradi-
zione matrimoniale. Con un atto di Fede egli mette così a tacere la sua ra-
gione, che continua a chiedersi perché debba esser vietato congiungersi con
donne sterili (v. n. 60.11-3). In quanto Au. di CS invece gode del grosso van-
taggio che i Solari sono pre-cristiani (che vorrebbero diventare proto-cristia-
ni…). Pur con i doverosi tentennamenti, vi sono dei segnali forti che indica-
no chiaramente che la comunanza delle donne è un regime privilegiato, e
nient’affatto il retaggio di una costumanza in via di estinzione o di evoluzio-
ne verso la coniugalità: anzitutto l’adozione di un tale regime richiede un al-
tissimo livello di razionalità, perché evidentemente si presta a facili degene-
razioni (infatti è precluso alle città confederate: 60.8); in secondo luogo tut-
ta la disquisizione sulla liceità di una struttura non matrimoniale risultereb-
be superflua (58.6-11) e quindi non in grado di convincere l’aristocrazia del
mondo (cioè, i filosofi) ad adottarla.
b) Sul piano generale: proprio per la crucialità di questa dissonanza, essa può
assurgere a paradigma dell’universale rapporto tra fede e ragione; allora in
questo contesto assume tutto il suo giusto rilievo il richiamo alle “ragioni vi-
ve”. Tali “ragioni” indicano almeno tre ambiti ad importanza e pregnanza
crescente: 1) teologico: scarsamente significativo, perché, come detto, l’atto
di fede mette in causa il singolo e il privato; 2) politico-ecclesiastico: l’impli-
cita esortazione all’invio di missionari preparati è un aspetto, che può esser
preso in considerazione, perché era un’esigenza piuttosto avvertita all’epoca
(da Cortés a S. Francesco Saverio: v. n. 22.8 e il paragr. sg); 3) di gran lunga
più importante è ‘ravvivare’ il cristianesimo: esso è come un gioiello che le
circostanze storiche e le debolezze umane (“gli abusi”) hanno appannato;
occorre ripulire la religione dalle scorie di glosse erronee (magari in base al-
l’assunto [Aforismi] che quel certo comandamento ha una parte ‘mutabilis’,

413
“In conclusione il comunitarismo sessuale non va contro la legge di natura, specie nella
particolare forma in cui l’ho posto, ma anzi è assolutamente conforme ad essa. Perciò non è
eresia professarla nello stato di natura, ma soltanto a seguito di una legge di Dio o del diritto
ecclesiastico positivo, come non è peccato [ad es.] per il diritto naturale mangiare carne tut-
ti i giorni” (Quaest. pol. IV III, p. 109). S. Tommaso (4Sent. 33, 1) enunciava il triplice fine del
matrimonio: 1) la prole; 2) la convivenza pacifica; 3) simbolizzare l’unione di Cristo e della
Chiesa; osservando che “il primo fine conviene all’uomo in quanto è animale; il secondo in
quanto è uomo; e il terzo in quanto è cristiano”; e concludendo che “la poligamia non toglie
il primo fine; nemmeno il secondo, ma lo rende più difficile da conseguire; e infine annien-
ta del tutto il terzo”. Un ordinamento sessuale come quello Solare andrebbe quindi “soltan-
to contro la legge positiva evangelica, come pensano Durando, l’Abulense e altri dottissimi
teologi” (Quaest. pol. IV III), e non contro la legge naturale.
COMMENTO AL TESTO 495

storicamente limitata e superata, e che va quindi aggiornata), riattingere al-


le fonti originarie del suo credo e del suo agire, restituirlo alla semplicità e
‘naturalità’ della primitiva vita comunitaria degli Apostoli; se infatti si pren-
de quella a modello,414 traendone tutte le debite conseguenze, non si può
che pervenire, se non si vuol estinguere la razza umana, a una messa in co-
mune anche dei mezzi di riproduzione.
4. La religione in Civitas (1637)
Una delle varianti ritenute più significative dell’ormai stabilizzato processo di
‘ortodossia’ di Civitas rispetto a Città, è la sostituzione di “nemici della ragione”
con “nemici della religione” (v. n. 64.18-20). In realtà, come ormai dovrebbe
esser chiaro, poiché la specie ‘Homo’ si caratterizza oltre che dall’essere ‘Sa-
piens’, anche dall’essere ‘Sacer’ (o ‘Religiosus’), questa sostituzione è scarsa-
mente significativa (sul piano della sostanza; avrà al più un certo qual peso for-
male). Altrettanto poco indicativa è la nuova inserzione della ‘glossa’ che allu-
de a un ‘vigor Evangelii’ (60.25), inattingibile con la sola ragione naturale. Il
mondo ideale di C. continua a contemplare canoni eretici, quali un’interpre-
tazione molto poco ortodossa del peccato originale e l’estensione della salvez-
za a degli ‘infedeli’.415 Se si pensa che per molto meno i censori hanno fatto
strame di Atheismus,416 si può capire che questa autodifesa in merito proprio al
punto in cui è stata inserita quella postilla (60.13), è forse sorta da reali ripro-
vazioni mosse probabilmente alla Fr., dove era assente la frase comparsa già in
L. Ecco come il Filosofo si difende: “La nostra Città non è presentata come da-
ta da Dio, ma come frutto di teorie filosofiche, e insomma della ragione uma-
na, ad illustrazione del fatto che la verità del Vangelo è conforme alla natura
umana. Se poi deviamo, o sembriamo deviare dal Vangelo, non è da ascriversi
ad empietà, ma alla debolezza umana, che, priva di rivelazione, ritiene giuste
molte cose, le quali dopo [la rivelazione] non risultano tali, come abbiamo det-

414
Come già in T.56.35-7: “E molto laudano in questo [= la messa in comune dei beni mate-
riali] le religioni [= gli ordini religiosi: cfr Disc. univ. VI (p. 1131n)] della cristianità e la vita
dell’Apostoli”.
415
Il problema della salvezza dei ‘selvaggi’ è il nodo cruciale che ha portato la Chiesa a rifiu-
tare la dottrina dell’esistenza degli Antipodi: il dubbio, già dantesco (Par. XIX, 58), viene ri-
proposto da Rinaldo al diavolo Astarotte nel Morgante XXV, 232, ma con soluzione positiva: la
salvezza attende “le genti che non hanno conosciuto la parola di Cristo, ma praticano la loro
religione con fede profonda e purezza di cuore” (Zatti, p. 157-8, dove, oltre al passo pulcia-
no, si discutono passi analoghi del XV del Furioso e della Liberata).
416
Cfr Ernst 1991, p. 81-5, Frajese, p. 29-30, Angiuli e ultimamente Ernst 2004, per le traver-
sie subite da Atheismus, accusato di pelagianesimo – probabilmente derivatogli da Francesco
Pucci, il cui progetto di una repubblica cristiana ebbe notevole influenza sul C. (per l’incon-
tro con C., cfr L. Firpo, Processo e morte di F. Pucci, in ‘Rivista di Filosofia’, XL, 1949, p. 371-93;
Ernst 2002, p. 31sg e p. 263, in cui fornisce una bibliogr. aggiornata di e su Pucci) –; ecco l’ac-
cusa mossagli da padre Riccardi: “facendo tutti cristiani, l’autore abolisce Cristo e il Vangelo,
in quanto ognuno può conseguire la legge in ogni setta, purché viva in modo conforme alla
legge di natura”, e, come dicevano i commissari più maliziosi, così è assicurata “la salvezza
[anche] ai Turchi”.
496 LA CITTÀ DEL SOLE

to a proposito della comunanza delle mogli. Perciò abbiamo immaginato que-


sta Città pagana, che aspetta la rivelazione di una vita migliore, e merita debi-
tamente di conseguire la salvezza, poiché vive in base al modello che le detta la
ragione naturale” (Quaest. pol. IV I, p. 101).417 Come si vede, è anzitutto un
commento della glossa 60.25; ma non solo: Civitas Solis non è Civitas Dei, per-
ché basata su presupposti puramente razionali; tuttavia i sogni della ragione
non producono soltanto mostri (teologici). Vi saranno delle ‘debolezze’ impu-
tabili alla natura umana (come il regime non coniugale), la quale ha bisogno
di esser sorretta dal divino; tutto sommato, però, l’esperimento è riuscito. In
quel laboratorio a cielo aperto si è voluto costruire a tavolino un modello so-
ciale basato esclusivamente su principi razionali (i Solari praticano la filosofia
campan.), privi di ‘idola’ e altri condizionamenti, ma anche di Rivelazione. Il
risultato è stato che essi ‘naturalmente’ hanno adottato una religione assai
prossima al Cristianesimo, salvo i sacramenti (ma hanno la confessione e una
visione trinitaria di Dio), tanto da esser reputati alla stregua di ‘catecumeni’ (v.
n. 2.29).
A dimostrazione della ‘sperimentalità’ del messaggio di CS, occorre aprire una
parentesi. Da Croce a Treves, da Bobbio a Romeo, si è teso a sottovalutare l’im-
patto che le scoperte geografiche hanno avuto nel pensiero campan., quando
ad ogni passo egli contrappone la tradizione vista a quella letta, sia pur quelle
di un Padre e di un Santo come Lattanzio e Agostino che negano gli antipodi,
smentiti da un “marinaro che gli ha fatti bugiardi col testimoniar de visu”.418 È
vero che i modelli sociali di CS sono platonici e patristici; ma proprio la rifles-
sione e rivalutazione della religione naturale è una delle principali ‘ricadute’
di quello sconvolgimento della coscienza e dell’immaginario europeo, che fu
la scoperta dell’Altro. Altri autori invece (da De Mattei 1927 a Zoli, p. 74-5)
hanno insistito proprio sul fatto che il colpo decisivo che sbloccò la riflessione
sui mondi possibili fu quello inferto alle dottrine tradizionali dalla scoperta
che esistevano altri uomini non sfiorati dalla Rivelazione – e proprio fra questi
popoli l’utopia moderna localizzava di preferenza le società perfette. La molla,
che ha fatto risorgere il genere utopistico, è scattata proprio quando si è posto
il problema: quale società potrebbe mai fondare un popolo dotato solo di reli-
gione naturale? A questo problema antropologico, si associa una motivazione
contingente, qui pure sfiorata (134.10-8; ma che sarà approfondita principal-

417
Sia i pagani moderni che quelli antichi, vissuti prima dell’avvento di Cristo, “si secundum
legem naturae vixerunt, salvos esse” (Apologeticum, p. 581); invece, concordemente ad Agosti-
no, coloro “i quali, pur avendo conosciuto la verità, non la onorarono”, meritano “di non ri-
cevere la fede soprannaturale” (Apologia III, p. 25; Theol. I [I, p. 31]); per non parlare dei
bambini morti non battezzati, che, comunque e dovunque siano vissuti, non subiranno alcu-
na pena eterna (Atheismus, p. 87; Lettere, p. 358: “i fanciulli non batizati perdeno solo la beati-
tudine sopranaturale, non la naturale in Dio, come prova san Tomaso”).
418
Così nella cit. lettera al Querenghi: il marinaio è Colombo, esplicitamente citato in un
passo analogo nel Proemio di Metaph. I; e mi pare superfluo ricordare che un marinaio ge-
novese è il protagonista di CS.
COMMENTO AL TESTO 497

mente nel Quod rem.):419 le sterminate masse di ‘ignari’, che la Scoperta scara-
ventava sulla coscienza degli Occidentali, rischiava di aprire pericolose crepe
nell’edificio teologico, in cui si insinuavano gli eretici con i loro devastanti que-
siti: perché Dio ha permesso che per millenni gli abitanti dell’altro emisfero
fossero tenuti all’oscuro della Sua venuta? Non si tratta solo di estendere i mar-
gini di salvezza, come si vede, ma anche di fugare l’inquietante sospetto che le
forze del male fossero di gran lunga più potenti di quelle divine, visto l’esiguo
numero di eletti rispetto alle legioni di dannati: “Pare inconveniente che sen-
do il mondo grande quanto un corpo umano (a comparazion ragionando), e ‘l
Cristianesmo quanto un dito, che Dio voglia salvar solo un dito dell’opere sue,
e ‘l resto perdere… E come [Dio] non providde a quei del mondo novo di sa-
lute, e a tanta gente prima che ei nascesse in 3000 e più anni… Di più, se vi era
l’altro emisfero del mondo novo, come Mosè parlando de la moltiplicazione
de le genti non fece menzione di esso? E che providenza hebe Dio di loro mai,
se li lasciò in tanti errori?” (Ateismo II, 3-4 [in Ernst 1997c, p. 624-5]).
L’urgenza e la gravità di questi problemi era vissuta in primo luogo dai missio-
nari, i quali, per giunta, entrati a contatto con popoli e, in specie, religioni evo-
lute, avevano dovuto, fin da subito, elaborare un’armatura concettuale che
permettesse al cristianesimo di competere con quelle altrettanto complesse e
assestate ideologie. Ed infatti è proprio un missionario, e un santo (non so-
spettabile quindi di eterodossie), Francesco Saverio, a testimoniare circa mez-
zo secolo prima che si procedeva per ‘esperimenti’ analoghi: “dimostrammo
loro [= ai Giapponesi] che la Legge di Dio è la prima fra tutte, dicendo questo:
prima che le leggi della Cina arrivassero in Giappone, i Giapponesi sapevano
che uccidere, rubare, dire falsa testimonianza e agire contro i dieci comanda-
menti era male; provavano già dei rimorsi di coscienza come segno del male
commesso, poiché fuggire il male e fare il bene erano cose scritte nel cuore de-
gli uomini. Così, la gente conosceva già i comandamenti di Dio senza che nes-
sun altro glieli avesse insegnati, se non il Creatore di tutti i popoli. Se avevano
dubbi in proposito, potevano fare questo esperimento: prendere un uomo cre-
sciuto nei boschi, ignorante di ogni legge… Dovevano quindi chiedere a que-
st’uomo cresciuto lontano dalla civiltà, se uccidere, rubare… era un peccato.

419
In Quod rem., come osserva Amerio 1955, “si riflette in modo perspicuo l’idea della missio-
ne, germogliata attivamente nei secoli XVI e XVII in seno alla Cristianità, dopo che le sco-
perte geografiche ebbero svelati interi mondi viventi in religioni non cristiane e imposto il
problema della loro salvezza” (p. 5); invece per Ebrei e Maomettani non c’è scampo: “scitote
omnem infidelem contrarie [= che avversa esplicitamente il Cristianesimo] damnari… Infi-
deles autem privative [= privi della Rivelazione], sed mitius, ut qui cognoscunt Christi verita-
tem et propter alios respectus non fiunt Christiani, etiam si moraliter bene vivunt. Negative
vero, ut qui praedicationem de Christo non audivit et ignorantia invista laborat, excusatur a
peccato infidelitatis, nec damnamus propter illam, sed propter legis naturalis violationem,
quae est a Christo auctore naturae, quam qui observat rationaliter vivendo, Christianus est
vel implicite in animi praeparatione” (Quod rem. 4, 61-2 – si noti la distinzione fra chi sa, ma
non crede, come i Solari, e chi ignora del tutto, ma segue le leggi di natura che sono auto-
maticamente morali).
498 LA CITTÀ DEL SOLE

Dalle risposte di quest’uomo, per quanto barbaro e privo di istruzione, si sa-


rebbero resi conto con chiarezza che costui conosceva la legge di Dio. Chi dun-
que gli aveva insegnato il bene e il male, se non Dio che l’aveva creato? E se
una tale conoscenza esiste nei barbari, esiste a maggior ragione nella gente do-
tata di saggezza. Così dunque, ancor prima che ci fosse una Legge scritta, la
Legge di Dio era scritta nel cuore degli uomini”. Commenta Lacouture, p. 184
(che riporta il passo tratto dalla Correspondance, pp. 368-72): “Il fascino esercita-
to da Francesco doveva essere grande, come la forza di convinzione e l’ardore
che metteva nelle sue parole, perché un simile ‘ragionamento’ non si volgesse
contro di lui…”. In realtà, se si dimostra che solo il cristianesimo si approssima
fino a coincidere con la religione naturale, il ‘ragionamento’ tiene, perché il
cristianesimo è l’‘arché’, e tutto il resto è solo emanazione/deformazione di
una comune radice conficcata nel cuore di ogni uomo. Con un giro argomen-
tativo analogo, i Solari, cioè l’equivalente (raffinato) del ‘buon selvaggio’ save-
riano (cfr anche Cro, p. 50sg), esemplificano che alla religione cristiana non ci
si arriva solo per miracoli o atti di fede (‘credo quia absurdum’), ma ‘natural-
mente’, per via razionale, proprio perché i dogmi cristiani non confliggono
con l’essenza dell’uomo, la ragione.
Ma la vera peculiarità di Civitas rispetto a tutte le altre red. consiste in un’insi-
stita allusione al modello di vita apostolico: ad esso si accenna ben cinque vol-
te, una sola delle quali già presente in T.54.37 (e successive red.), e che tuttavia
viene qui accentuata (“e la vita dell’Apostoli” diventa a 56.32: “maxime autem
vitam Apostolorum”). Gli altri passi aggiunti sono: 2.29: “catechismum Genti-
lium ad politiam et fidem Christianam pure apostolicam” (la glossa è capitale
per chiarire il senso totalmente inedito che ha acquistato il progetto della Città
per il C.: attraverso la sola ragione, si può ricreare lo stesso modus vivendi del
cristianesimo aurorale e quindi ‘puro’);420 22.13: “sicut erant tempore Aposto-
lorum” (a integrazione, e anche a correzione di una eccessivamente severa
condanna del clero in T.22.6-12); 56.38: “iuxta institutum apostolicum” (l’uni-
ca autorità patristica – S. Clemente – adducibile a conforto della tesi dell’indi-
visione dei beni produttivi e riproduttivi); e infine, e fondamentalmente, a
84.27: “Admirantur Christianam institutionem et vitam apostolicam in se et in
nobis expectant”. Questa è l’aggiunta veramente cruciale, che segna una svolta
decisa e decisiva, rispetto al progetto presumibilmente consegnato e sotteso a
T., e che si era un po’ perso con L. Intanto vediamo cosa contiene questa frase
di tanto eccezionale, tenendo conto di queste replicazioni sempre ammirative
per il sistema di vita protocristiano:
• in questa frase non è in causa un singolo aspetto di tale sistema (come a
22.13-4 o a 56.32 e 38), ma l’intero modus vivendi;

420
“Proponendo l’esempio di questa città, da un lato insegno ai pagani a vivere in modo ret-
to, se non vogliono che Dio non si curi di loro; dall’altro persuado i cristiani che la vita di Cri-
sto è conforme a natura: la stessa cosa ha fatto S. Clemente Romano richiamandosi alla re-
pubblica socratica, e così Crisostomo e Ambrogio” (Quaest. pol. IV I, p. 107).
COMMENTO AL TESTO 499

• in che modo, però, concretamente esso è in causa? ‘Ammirano l’istituzione


cristiana’, cioè il cristianesimo in quanto religione positiva; ‘e aspettano un
modello di vita analogo a quello praticato dagli apostoli’: in sintesi, apprez-
zano teoria e pratica del cristianesimo; ma quell’et, specie se si pensa alla po-
sizione chiastica del predicato della correlativa, assume una coloritura avver-
sativa, quasi sottintendendo un ‘tuttavia’; l’atteggiamento dei Solari è: am-
mirazione sì per il Cristianesimo, ma anche attesa di un ritorno all’origina-
rio modello apostolico. Ponendo in relazione questo passo con la glossa di
2.29, dove si dice che questo breviario ‘gentile’ è l’accesso alla “fidem chri-
stianam pure apostolicam”, se ne ha la controprova; ovvero: il regime solare
è l’anticamera ideale di un’ortodossa ed esemplare vita cristiana.
• “in se et in nobis expectant”: i Solari aspettano che i Cristiani stessi restauri-
no la vita apostolica; entrambi sono carenti: ma stanno peggio i Cristiani,
che l’hanno persa, dei Solari che non l’hanno ancora raggiunta (ma ne pos-
seggono tutti i presupposti).
Ecco allora quale nuovo atteggiamento si è delineato in Civitas: il cristianesimo
deve ritornare alle origini, mentre i Solari devono abbracciare “l’istituzione cri-
stiana” – ovviamente, una volta che essa stessa si sia purificata, e rivitalizzata al-
la luce catartica del modello apostolico. Le “ragioni vive” del cristianesimo ri-
posano nella sua aurora celeste, quando il messaggio evangelico era ancora pu-
ro, e non aveva subìto una progressiva degenerazione: la vita comunitaria cri-
stiana, originariamente diffusa in tutto il popolo, si è conservata poi nel solo
clero, e successivamente nei soli monaci, e oggi… il quadro odierno di ambi-
zioni e corruzione trapela con sufficiente chiarezza a 22.7sg e, a livello genera-
le, a 128.38sg, dove si fa esplicito richiamo alla perdita delle “vere ragioni su-
periori” (in T.128.44: “l’uomini si reggono follemente e non con ragione”). In-
somma tutto il mondo ha subìto uno stravolgimento, compreso il cristianesi-
mo, perché non si basa più sulla ragione, ma sul suo contrario; i Solari non
hanno fatto altro che raddrizzarlo, rifondandolo sulla base della ragione natu-
rale.
In sintesi le tre tappe principali della ‘visione del mondo religioso’ scandite nel
corso delle redazioni di CS sono:
• T.: tendenzialmente il movimento era: cristianesimo→ religione naturale (i
Cristiani devono solarizzarsi); riformare il cristianesimo significa razionaliz-
zarlo, con l’aggiunta dei sacramenti;
• L.: religione naturale→cristianesimo: la ragione, per quanto sbocciata dalla
Sapienza, è insufficiente; occorrono però “ragioni vive”, cioè liberate dalle
sedimentazioni e deformazioni che, nel corso umano della sua storia, posso-
no aver offuscato il comunque inossidabile messaggio cristiano;
• Civitas: la fase precedente si può considerare una sorta di tappa intermedia
del ribaltamento che si verifica in questa edizione: se nella prima stesura è
presumibile che C. pensasse che dovessero essere compiuti più passi da par-
te dei Cristiani verso i Solari, e nella seconda, per amor di simmetria, l’in-
verso, nell’edizione terminale ha identificato quello che è l’obiettivo comu-
ne di Cristiani e Solari – la ‘naturalità’ evangelica –: i cristiani devono rifor-
marsi, ritornando alla loro radice e matrice (“in nobis expectant”); i Solari
500 LA CITTÀ DEL SOLE

devono temprare la pur valida ragione al “vigor Evangelii” (60.25), assogget-


tandosi alla “Christianam institutionem” (84.27).
Pertanto gli interrogativi posti all’inizio di questa nota (come possono gli ‘infe-
deli’ Solari salvarsi? Cosa aspettano a convertirsi? A testimonianza di quale ve-
rità sono stati eletti da Dio?), trovano una loro ricomposizione in questo qua-
dro intratestuale unitario: occorre un doppio movimento congiunto, per avere
la perfezione, che non è né di questo mondo (occidentale cristiano), né del-
l’altro mondo (Solare): ai Solari per esser perfetti mancano i Sacramenti, i Cri-
stiani invece eccedono in abusi, tralignando quindi dalla retta via evangelica. E
quei due passi, che sembrano tra loro in contraddizione (84.23: il mondo adot-
terà i costumi solari; 134.12: il cristianesimo sarà signore di tutto il mondo – al-
lora, sotto quale legge sarà riunificato il mondo, quella cristiana o quella sola-
re, visto che sono entrambi popoli, seppur ad opposto titolo, “eletti”?), se si
adotta il denominatore comune ad entrambe le visioni del mondo, ovvero il
modello di vita protocristiano, quei due passi, dunque, dicono la stessa cosa
una volta dalla parte della radice naturale della ragione, e un’altra dalla cima
rivelata della Religione. I Solari insomma non si convertono, non perché non
hanno fede, ma perché essi ‘mandano a cercare’ (60.13) un modello di cristia-
nesimo che non è quello del 1637, ma dell’anno zero (o dell’anno ‘mille e non
più mille’); sono cioè in attesa di un messaggio (e magari di un esempio) evan-
gelico, un apostolato apostolico. Questi ‘catecumeni’, cioè pre-cristiani sono
forse più avanti, più cristiani dei cristiani attuali, per cui sono semmai questi ul-
timi che prima devono ‘svellere ed estirpare’ (138.2) gli abusi, per poi recupe-
rare l’età perduta dell’innocenza evangelica. Si direbbe che anche le utopie si
fabbrichino utopie; ma questa è in effetti una profezia perché il ritorno del-
l’età aurea è promessa dall’Apoc., per cui, nell’interesse generale (‘nostro e lo-
ro’), non bisogna farsi trovare impreparati “sicut fur in nocte” (116.11), in
quanto i segnali celesti e terrestri, come l’unificazione del mondo in un unico
ovile (136.13), indicano che tale ritorno è ormai prossimo. Pertanto i Solari,
che nel frattempo hanno provveduto a innalzare un piedistallo a Cristo sia nel-
le mura che nel loro cuore (“ut supra homines” [18.8]), sono già pronti per il
giudizio universale, e non si faranno sorprendere nel sonno della ragione.
Possono dire altrettanto i cristiani? I loro costumi sono altrettanto incorrotti?
O la loro religione è travagliata da abusi, come basterebbe a provarlo 22.7sg (e
altri errori, imputabili all’umana debolezza della ragione, come gli svarioni di
Agostino sugli antipodi o sulla predestinazione, che suggerirebbero implicita-
mente di azzerare la patristica e riattingere direttamente alla Fonte evangeli-
ca),421 il cui miglior commento è in Quod rem. 4, 1 (‘Legazione a tutti i Cristia-

421
Cfr Disp. in Bullas XI, 11 (p. 1142) e nota di Amerio. Budé nella lettera premessa a More,
era stato chiarissimo in proposito: “se volessimo mettere a raffronto il diritto con la norma
della verità e col precetto della semplicità evangelica, nessuno sarebbe tanto ottuso da non
capire… la divergenza tra ciò che è legale secondo i decreti pontifici e ciò che è veramente
lecito… fra i precetti di Cristo, instauratore delle regole dell’umana condotta e i comporta-
COMMENTO AL TESTO 501

ni’), che esordisce sintomaticamente: “Perché, o creature di Cristo, noi che sia-
mo più vicini a Dio nella cognizione che tutti gli altri terrestri, nell’amore e
nell’azione ci troviamo ad esserne i più lontani?”; e 4, 2 (‘Quali rimedi si do-
vrebbero trattare in tutto il clero cristiano utilissimi per fare un gregge e un pa-
store mediante la reminiscenza’): molti di questi ‘rimedi’, fondati sulla ‘remi-
niscenza’ (ricordo della purezza originaria), sono correntemente usati dai So-
lari (primato della sapienza sul blasone, disprezzo della ricchezza ecc.).
Ma essenzialmente la tabe che aveva corroso le fondamenta del cristianesimo
era il machiavellismo (v. n. 60.23-4). In un’altra lettera di quegli anni cruciali
per la sua tormentata biografia interiore (8 luglio 1607) scriveva a Monsignor
Querenghi: “fatta essamina di tutte le sètte e religioni che fûro e sono nel
mondo, ho, come spero, assicurato più me stesso e tutti gli uomini delle verità
cristiane e della testimonianza apostolica, e vendicato il cristianesimo e libera-
to quasi dal machiavellismo e dall’infiniti dubbi che pungeno il cuore umano
in questi secoli oscuri… tanto ch’al Boccaccio par che non si possa discerner
per sillogismo qual sia più vera legge tra la cristiana e la macometana e l’e-
braica” (Lettere, p. 134-5): l’allusione a Decam. I, 2 è molto significativa, perché
la morale di quella favola è che il giudeo, che, per convertirsi, era voluto an-
dare a Roma a constatare di persona “i modi e i costumi” del Vicario di Cristo
e della sua corte, e che aveva visto nefandezze di ogni genere, paradossalmen-
te proprio per questo si converte: se, malgrado quel che ha visto, la religione
cristiana continua a espandersi, “meritamente mi par discerner lo Spirito San-
to esser d’essa, sì come di vera e santa più che alcuna altra, fondamento e so-
stegno”.
Perciò l’apparente aporia su evidenziata si può risolvere così: quando in un
non lontano e luminoso futuro, i Solari si cristianizzeranno e i cristiani si sola-
rizzeranno, il prodotto di questa fusione (complementare) sarà una terza via
che oggi non c’è; ma c’è stata un tempo e ora, a costo di dolorose potature di
privilegi e preconcetti, va ripristinata. Ritornare alle origini significa sì restau-
rare i costumi dei primi cristiani, che rivivono solo in alcune comunità conven-
tuali, ma essenzialmente temprare il cristianesimo alla fiamma della religione
naturale, che non è per nulla in disaccordo con i principi cristiani, anzi li fon-
da e ne testimonia la veridicità. Infatti, come già scriveva a Paolo V il 13 agosto
1606: “la pura legge della natura è quella di Cristo, a cui solo li sacramenti son
aggiunti per aiutar la natura a ben operare con la grazia di chi l’ha dati, e che
son pur simboli naturali e credibili” (Lettere, p. 15).

menti dei suoi discepoli da un lato, e dall’altro le sentenze e le norme di quanti ritengono
che la meta e il colmo della felicità debbano essere i cumuli di ricchezze di Creso e di Mida…
Cristo instauratore e regolatore del possesso, che aveva lasciato fra i suoi seguaci la carità e
un comunismo pitagorico [ha] abrogato, almeno tra i suoi fedeli, i cavillosi volumi dell’inte-
ro diritto civile e di quello canonico”, mentre Utopia “per una miracolosa ventura (se così
dobbiamo credere) ha adottato in pubblico e in privato i costumi e la genuina sapienza cri-
stiana”, e annota Firpo 1979 che quella ‘miracolosa ventura’ altro non è che “la naturale vo-
cazione cristiana, implicita nella mente umana non degradata” (p. 81).
502 LA CITTÀ DEL SOLE

L’esperimento può dirsi così riuscito: con l’ausilio della sola ragione l’uomo
approda a una religione che non è altro che cristianesimo allo stato nascente.
E appena la religione cristiana sarà restituita alla purezza evangelica, facilmen-
te tutti i popoli della terra non avranno difficoltà a riconoscere in essa quella
‘religio indita’ (o naturale) a cui ognuno di loro, dietro le svariate epifanie pe-
culiari e parziali delle “sètte” (‘religio addita’ o storica), tende inconsapevol-
mente. Di questa “verità”, dunque, sono testimoni, ignari e indiretti, i filosofi
solari: dell’aurorale ‘cristianità’ di ogni popolo che vive secondo ragione, ovve-
ro secondo natura.422 Questo dice C. in CS, a suffragio di quella che considera
una delle principali sue missioni sociali, l’ecumenismo (la cui attuazione prati-
ca è affidata a Quod rem.): convincere della naturalità e insieme ineluttabilità
della chiamata a raccolta di tutte le genti sotto l’unico Pastore romano; nella
fattispecie: ricucire le lacerazioni delle religioni. Le sue scritture, compresa CS,
sono volte a dimostrare che l’intersezione comune a tutti gli uomini, indipen-
dentemente dalle differenze epifaniche, è la ragione naturale e che essa ragio-
ne è lo spirito del cristianesimo. Tutte le religioni (cristianesimo incluso) han-
no tralignato da questa radice divina e, essendo ormai giunti al penultimo atto
rappresentato in questo gran teatro del mondo, è ora che gli uomini si ‘conci-
lino’, per iniziativa papale o per intervento di un Eroe dalla capacità e lungi-
miranza planetaria. Pur con qualche sfumatura, è da sottoscrivere quanto a tal
proposito diceva Walker: “per realizzare il suo progetto millenarista era neces-
sario che egli riuscisse ad usare il potere della Chiesa e perciò che restasse nel
suo ambito; ma vi sono pochi dubbi sul fatto che la religione a cui si accingeva
a convertire il mondo era ben lungi dall’esser ortodossa… Con i suoi scritti re-
ligiosi sperava di trasformare il cattolicesimo e di convertire e unire tutte le re-
ligioni e le nazioni del mondo” (p. 247). C. cercava un’intersezione fra le reli-
gioni storiche, che aveva sia un aspetto di ricerca di una radice comune con le
altre fedi positive (il sostrato naturale, come terreno di dialogo), sia di riforma
del cattolicesimo. Tale programma forse originariamente era tinteggiato di
‘naturalismo’, ma, almeno a partire dal 1607, si proponeva di risalire alla radi-
ce evangelica anche del cristianesimo, prosciugandolo della proliferazione di

422
Nello svolgimento del pensiero metafisico e religioso di C., vi è una costante: la presup-
posizione di una religione innata (razionale-naturale) a fondamento della religione rivelata;
mentre fino alla ‘conversione’ questa religione rivelata non era altro che una epifania della
prima (se non addirittura una sua deformazione e corruzione nelle religioni storiche), dopo
la conversione la religione rivelata diventa la guida, che porta alla luce e sistematizza le in-
tuizioni religiose innate. E allora Cristo, come incarnazione della Ragione più alta, e in quan-
to tale, cioè in quanto Sofia, nota a tutti gli uomini indistintamente, deve diventare (Quod
rem.) la loro Luce soprannaturale. Ciò significa che i Solari (come i pagani, gli ebrei, i mus-
sulmani) – sia quelli del 1602 che quelli del 1636 – sono ancora fermi al primo stadio, cioè a
una conoscenza razionale di Cristo (e del cristianesimo), e compito del cattolicesimo mili-
tante (e se del caso, militare), è farli passare al secondo stadio, perché solo la Rivelazione, al
di là dei sacramenti, dà una risposta sistematica a quel mero afflato di infinito, che caratte-
rizza l’‘homo sacer’ (cfr Asor Rosa, p. 229-31).
COMMENTO AL TESTO 503

privilegi, oltre che di un mare di glosse, pandette e canoni superati, che lo sta-
vano vieppiù soffocando e restringendo alla sola Italia e Spagna (154.7).
“Un’unione intima fra ragione e fede è possibile; quello che ha potuto fare un
popolo pagano, perché un popolo cristiano non potrebbe realizzarlo ancora
meglio? In altre parole la Chiesa non si oppone alla legge naturale, ma la tra-
scende. Né comunista, né ateo, né deista, C. forse è più un conciliatore… in-
compreso che un eterodosso” (Trousson, p. 58).
A complemento di quanto sopra (che non è poco, perché – come rileva Ernst
1991, p. 104 –, in piena Controriforma C. proclama con S. Giustino che “la re-
ligione è seminata in tutto il genere umano, mentre gli altri pensano che sia
piantata soltanto nei loro giardini privati” [Syntagma IV IX]), bisogna tener pre-
sente anche questi altri elementi, per aver una visione non unilaterale del pen-
siero religioso, quale emerge da CS:
1. i nemici della ragione – o della religione, tanto pari sono – vanno persegui-
ti: perché essi non rifiutano solo una certa fede ‘positiva’, ma essenzialmen-
te rifiutano di essere uomini, si rivoltano contro la specie, perdendo auto-
maticamente qualsiasi diritto di ‘umanità’; e in tal caso da bruti vanno trat-
tati e, se pericolosi, eliminati.423 Sedersi intorno al tavolo di un Conclave
universale non significa dialogare; nessuna apertura al ‘diverso’, alle ragioni
dell’altro, alle altre ragioni; tutto ciò che non rientra nei canoni occidentali
della ragione è automaticamente liquidato come sub-umano, e trattato di

423
Ficino stesso, che era ancor più tollerante, su questo punto è inflessibile: Dio permette “in
diversi luoghi e tempi osservarsi vari modi d’adoratione, che forse questa varietà nell’univer-
so per ordine divino partorisce mirabile ornamento. Uno re grande tiene più cura d’essere
in vero honorato, che d’essere con tali o tali gesti honorato… benché più accetta [= gradita]
una cosa che un’altra gli fusse… ma estermina e forte tormenta quegli che sono ingrati e vo-
lontariamente impii, e da Dio al tutto ribelli… Adunque se alcuno si truova al tutto da ogni
religione alieno, essendo costui alienato dalla natura della spetie humana, seguita che egli è
da principio huomo monstruoso” (Relig., p. 11-2). C., invece, assume un atteggiamento am-
biguo, frutto di un’inferenza contraddittoria: “In Atheismus C. definiva le linee teoriche della
religione naturale attribuita ai Solari. All’obiezione degli atei e dei machiavellisti che dalla
constatazione della diversità delle religioni deducevano l’equivalenza di ognuna di esse, C.
opponeva una dottrina della naturalità della religione e dell’esistenza di una religione natu-
rale. Tutti i popoli concordano nella religione naturale, ma differiscono in quella sopranna-
turale… Da tale teoria potevano essere dedotte due conseguenze opposte che C. deduceva
entrambe allo stesso tempo:” se si fa la religione naturale regola della religione cristiana, si
perviene “ad una equivalenza sostanziale di tutte le religioni e ad una larga tolleranza”
(com’è testimoniabile, ad es., da questo passo di Metaph. XVI VII, III [III, p. 261]: “ogni uomo
possiede il lume della legge eterna, cioè la legge naturale… Chi si serve della legge naturale,
si salva per i beni naturali di Dio… Se Egli diede agli altri una legge particolare e scritta, aven-
do essi disimparato a leggere il codice della natura, non per questo Egli ha lasciato qualcuno
senza un aiuto e una legge veramente sufficiente, mediante la quale molti fra tutti i popoli si
salvano, e tutti lo possono”); se viceversa la religione cristiana si assume come criterio della
religione naturale, allora il cristianesimo diventa “misura del grado di razionalità presente
nelle altre leggi e si deduce un’assoluta intolleranza” (Frajese, p. 28; e cfr Frajese 1998, p.
337-42).
504 LA CITTÀ DEL SOLE

conseguenza; è vero che condanna le violenze della ‘conversione’ spagnola


nel Nuovo Mondo, ammonendo che bisogna andare ‘in partibus infidelium’
come agnelli fra i lupi, mentre in America era successo il contrario; ma C. è
anche colui il quale si rammaricava machiavellisticamente che non si era sa-
puto approfittare della presenza di Lutero alla Dieta di Augusta per elimi-
narlo (v. n. 60.23-4 e n. 154.13).
2. La colonizzazione del Nuovo Mondo è inoltre presa ad esempio della supe-
riore provvidenzialità divina: “hinc agnosco nos nescire quid agamus, sed es-
se Dei instrumenta; illi, cupiditate auri et divitiarum, novas quaeritant regio-
nes, Deus autem finem altiorem intendit” (134.20). È vero che il piombo dei
cannoni spagnoli diventa oro nelle mani della Provvidenza, che sublima un
mezzo vile (l’avidità) in uno scopo divino (la salvezza di masse di infedeli);
ciò non toglie però che, con tutta la divina ragione, gli uomini non siano al-
tro che ‘ignari strumenti nelle Sue mani’. Non si tratta soltanto di doverosa
umiltà della creatura nei confronti del Creatore, ma di una radicale svaluta-
zione della libertà umana, in netta antitesi con le pagine che seguono, in cui
si difende il libero arbitrio dal determinismo astrale (culminando a 158.20:
“l’uomo è talmente libero, che può anche bestemmiarLo”). Anche stavolta
forse non bisogna confondere due piani, che C. non perde mai occasione di
distinguere: “la parte”, cioè quello della libertà individuale (che è totale) e
“il tutto”, quello della progettualità umana generale, che invece è inscritta in
un Piano Divino, che l’uomo deve sforzarsi di conoscere, essenzialmente per
assecondarlo e affidarvisi; ponendosi in questa prospettiva più alta, si com-
prende tutta la relatività del male (che è poi il tema da cui è partita la rifles-
sione sulle ‘due religioni’, e su cui si chiude): ‘mors tua’ diventa ‘vita mea’ e
il tutto è ‘gloria Sua’; cioè mentre il vorace ‘conquistador’ crede di assecon-
dare solo la sua avidità, in realtà sta inconsapevolmente contribuendo al Su-
perbo Spettacolo di cui soltanto il Grande Burattinaio regge le fila.

104.24-37: Itaque… remediis.


Vi è un duplice regime confessionale: tutti confessano segretamente le proprie
colpe all’ufficiale-sacerdote di grado superiore, tranne Hoh che, non avendo
altri sopra di sé, trasforma la piramide in cerchio, confessando tutto a tutti.
Nelle redaz. precedenti si ripete per due volte (T.104.34-106.1 e 106.7-8) che
Hoh confessa pubblicamente a dio anche i suoi peccati, insieme a quelli del
popolo; nell’ultima Civitas scompare tutte e due le volte l’accenno ad una con-
fessione pubblica di Hoh.424 Tale omissione può esser dipesa o dal fatto che il
Principe Sacerdote, nell’officiare il sacrificio, è un mediatore ‘neutro’ e ‘asso-

424
Perciò non ritengo che possa trattarsi di refuso la duplice omissione di “deinde sua publi-
ce confitetur”, come forse hanno pensato Bobbio e Crahay, p. 182, che hanno mantenuto la
versione Fr. – curiosamente però in nota Crahay (o il curatore Jodogne?) riconosce la volon-
tarietà: “ces corrections tendent sans doute à dissiper l’idée que le chef suprême pourrait
n’être pas impeccable” (v. qui la ‘Nota al testo latino’).
COMMENTO AL TESTO 505

luto’ fra la Città e dio, per cui non può esser parte in causa; o dal fatto che è
privilegiata la funzione di controllo sociale (come conferma Atheismus, p. 12);
o, infine, per autocensura di una pratica eterodossa: la confessione pubblica fu
vietata da S. Leone Papa nell’Epist. 80, c. 2 “Ad Episcopos Campaniae”, e ciò af-
finché il fedele non si allontani dal sacramento, per vergogna, o per timore
che le sue colpe arrivino alle orecchie dei nemici (cit. in Baronio, Annales I,
421). Per questa pratica confessionale, C. poteva essersi ispirato a Lev. 16, 20-4:
Aronne “confessi su di lui [= un capro espiatorio] tutte le colpe dei figli di
Israele… e faccia l’espiazione per sé e per il popolo una volta all’anno”; e an-
che More, 70 e 252 parla di una confessione generale annuale; Botero: “L’Inga
confessava i suoi peccati non a’ sacerdoti, ma al Sole” (IV I, p. 10), pratica che
C. discute diffusamente in Quod rem. 2, p. 265sg e in Atheismus II, p. 175, “dove
si mostra più incuriosito che scandalizzato quando sottolinea l’analogia che in-
tercorre fra i sacramenti cristiani e le rozze cerimonie degli indigeni america-
ni, che possiedono forme umbratili di confessione e di eucarestia” (Ernst 1991,
p. 103).
Questa idea della confessione segreta (unita forse all’idea del ‘libro d’oro’
[10.13-4] e/o ‘degli eroi’ [112.8]) gli suggerirà una versione laica ad ‘istru-
mentum regni’: per evitare discriminazioni o scontenti nei nobili, consiglia al
sovrano: “ordinerai che due volte all’anno, nelle singole città, tutti coloro che
avranno escogitato qualcosa per il bene del regno, [lo] rivelino davanti al ve-
scovo e ai maggiorenti, e lo mettano per iscritto. Poi tutti gli scritti, se gli auto-
ri non vogliono recarvisi [personalmente], si esibiscano ai senatori della città
regia; un senatore o il parlamento, darà al re, tramite un cancelliere, una sin-
tesi [redatta] dal consiglio segreto; allora il re abbonderà di consigli, trarrà a sé
tutta la prudenza e l’amore dei sudditi, e attraverso ciò penetrerà i segreti degli
animi, e comprenderà i delitti e le necessità del regno e dei suoi, e nello stesso
tempo dalle cospirazioni meditate contro lo stato inviterà a pensare a vantag-
gio dello stato” (Politica XIII, 18).

106.14: Sacrificium est huiusmodi:


“Il sacerdote, che è la mente, sacrifica il popolo a Dio con la potenza… ma sic-
come il popolo non può darsi tutto a Dio in totale servizio… viene compiuto
pubblicamente un sacrificio” dal sacerdote (Metaph. XVI V, I [III, p. 229]), che
non può essere uno qualsiasi, “sibbene il migliore” (106.17: “sanctior”). Oltre
questo, nella Città si praticano non meglio specificati sacrifici prima del Consi-
glio (94.34) e dopo l’esecuzione di una condanna a morte (102.10); è presu-
mibile che in tali casi non si tratti di questo sacrificio, né del sacrificio perpetuo
(108.26), il primo perché, coinvolgendo anche le province (solo in Civitas:
106.10), è fatto una volta all’anno, il secondo, viceversa, è permanente; ma si
tratti invece di una “publica oratio”, come descritta a 112.31 (per la preghiera
cfr Theol. X [IV, p. 47-57]; per il sacrificio ib., p. 87-9 e v. n. 106.24-5).

106.18: quadrata tabula


Per la tavola, ancora una volta (v. n. 8 [glossa], n. 10.1-6, n. 10.6-7, n. 102.36, n.
106.41-4 e n. 112.32-4), si potrebbe pensare che si sia liberamente ispirato a
506 LA CITTÀ DEL SOLE

uno degli arredi del tempio di Salomone, il carrello portabacini, che “si move-
va su quattro ruote di bronzo… Ai quattro angoli del carrello vi erano quattro
montanti” (1Re 7, 27-34). Invece, per la funzione sacrificale, non è ben chiaro
se C. si ispirasse liberamente a riti o eventi analoghi; o se invece avesse in men-
te una cerimonia ben precisa: Macrobio, Saturn. III, 13, 8 cita Sallustio, Hist. 2,
70, che racconta che durante un sontuoso banchetto offerto a Quinto Metello
tornato vincitore dalla Spagna, “veniva calata dal soffitto mediante funi una sta-
tua della Vittoria che gli metteva in testa una corona” – questo solo per dire
che fin dall’antichità era nota questa pratica dell’‘ascensione’ (e il suo simme-
trico). I disegni di Bartoli all’ed. di Alberti (VI VIII, p. 176-8 [p. 484-5 ed. Porto-
ghesi], dove tratta di sistemi di carrucole per sollevare pesi nelle costruzioni),
illustrano figure di statue di angeli che, per il loro contenuto sacro, potevano
suggerire l’idea di sollevare qualcuno in alto su un tempio (anche se l’intento
era prettamente tecnico). Un’altra celebre, ma spirituale ascensione è quella
narrata in At. 10, 10-16: S. Pietro “fu rapito fuori dai sensi, e vide dal cielo aper-
to scendere qualcosa come un’ampia tela che per le quattro cocche, veniva ca-
lata sulla terra, e dove erano tutti i quadrupedi e i rettili della terra e gli uccelli
del cielo. E una voce gli disse: ‘Pietro, alzati, uccidi, e mangia’. Ma Pietro ri-
spose: ‘No, o Signore, perché io non ho mai mangiato niente di profano e di
immondo’… Questo accadde per tre volte, poi subito quella tela fu ritirata in
cielo”. Crahay invece annota assennatamente che il rito solare si richiama per
molti versi a quello cristiano (l’invocazione a Dio, l’astinenza e la preghiera, la
volontarietà del sacrificio, la morte simbolica della vittima e sua ‘rinascita’ sa-
cerdotale ecc.) e “cette symbolique de l’élévation est également présent dans la
liturgie de la messe” (l’ostensione [p. 185]); ed in effetti anche in More, 254 è
presente l’idea, seppur solo mistica, dell’‘innalzamento’.
Ma C. poteva pensare ad una funzione, che prevedeva un’ascensione reale nel
cielo della chiesa; nel Duomo di Milano, ad es., vi è un meccanismo in forma di
nuvola per l’elevazione della reliquia detta del Santo Chiodo; essa fu collocata
il 20 marzo 1461 sulla sommità della volta absidale del Duomo, però la sua de-
vozione si affievolì forse proprio per la troppo elevata collocazione. Ma duran-
te la peste del 1576, S. Carlo Borromeo l’espose sull’altare, “ordinando una
‘stazione’ di quaranta ore, con predica a ogni ora sui misteri della Passione, e
disponendo dei turni di adorazione con avvicendamento di fedeli in modo che
la preghiera fosse ininterrotta”; e da quell’epoca “stabilì che ogni anno, al 3
maggio, festa dell’Invenzione (cioè del ritrovamento) della Croce, il Santo
Chiodo fosse solennemente recato in processione dal Duomo”. Il rito consiste-
va nel fatto che alcuni sacerdoti “ascendevano con la ‘nivola’ fino alla nicchia,
dalla quale estraevano il Chiodo montandolo su una croce di legno dorato… e
la mostravano subito al popolo, in mezzo a torcieri accesi. Poi, durante il canto
di Terza e Sesta, la nivola calava al piano del presbiterio ove il Chiodo era subi-
to incensato dall’arcivescovo” (Ruggeri, 3200-1). Alla fine della cerimonia del-
le quaranta ore (il 5 maggio, dunque), il chiodo veniva riposto in alto nella sua
nicchia attraverso la stessa ‘nivola’ (ideata da Leonardo, secondo Amoretti), il
cui disegno si può vedere nella Tav. XLVI in Zuccari (p. 104): vi sono quattro
funi che tirano su un meccanismo a forma di nube con panneggi. Infine, l’ele-
COMMENTO AL TESTO 507

vazione della vittima potrebbe ispirarsi non a una cerimonia sacra, ma a un ri-
to profano: a Napoli la messa alla berlina di un malfattore consisteva nell’issar-
lo “per le braccia a circa dieci metri da terra con una grossa carrucola” (Leone,
p. 51).

106.24-5: humanum… faciunt.


La distinzione canonica, almeno secondo Comestore (In Levit., cap. 3 [in SH II
XVI e sg]), è fra sacrificio necessario (in seguito a un voto) e sacrificio sponta-
neo o volontario.
‘Non immolare animali’ era un precetto sia braminico (Dandami rivendica ai
Bramini “in honorem divinum pecudes innocuas non mactamus… Non susci-
pit Deus sacra sanguinea; cultum diligit incruentum” [in SH IV LXIX]), che pi-
tagorico (Diogene, VIII, 20 e 22; Giamblico, Vita, p. 97-8 [Theodoreto XXIV, p.
105: “neque diis animalia immolaret”]); che infine cristiano: Eusebius, p. 147-8
(contro i sacrifici animali); Crisostomo, In epist. Pauli ad Hebr. VI, Hom. XI
(1736-7): “in coelis habemus sacrarium… talia etiam nos offeramus sacrificia,
quae in illo sanctuario possint offerri. Non jam pecudes vel boves, non iam san-
guinem et vaporem: omnia haec soluta sunt et pro eis introductum est rationa-
bile obsequium [cioè] quae per animam, quae secundum spiritum efferun-
tur… Quanto enim melior est pecore homo, tanto hoc sacrificium melius est il-
lo. Hic enim animam tuam oblationem offers”. Tuttavia in questo caso è più
probabile che sia sottesa una rete di richiami biblici: poiché a proposito delle
vesti sacerdotali di Hoh, si fa il nome di Aronne (v. n. 113.1 e n. 112.37-8), è
possibile che l’Au. avesse in mente proprio il Levitico, quasi tutto dedicato al sa-
cerdozio e ai rituali sacrificali ed espiatori con vittime animali; e quindi quella
specificazione (“non ferinum”) è in implicita polemica con il rituale ebraico,
oltre che rivendicante la nobiltà del libero arbitrio umano (Lettere, p. 45: “far
bene per forza è proprio delle bestie”): terminata l’espiazione, “faccia avvicina-
re il capro vivo. Aronne gli posi le due mani sopra la testa e confessi su di lui
tutte le colpe dei figli di Israele, tutte le loro trasgressioni e tutti i loro pecca-
ti… Il capro porti dunque sopra di sé tutte le loro colpe, in una terra disabita-
ta” (Lev. 16, 20-1 e 34). Il capro espiatorio viene cioè disperso nel deserto, co-
me il volontario Solare viene isolato, rischiando la sua vita (106.39). E infatti C.
rinfaccia agli Ebrei Talmudisti, a proposito del sacrificio personale di Cristo:
“vos autem, qui elegistis ceremonias pro veritate, non intrastis in veritatem nec
offertis vos ipsos Deo, sed bestias, et sic a Deo recessistis vero et salvatore”. Con
la messa cristiana, la precedente ritualità sacrificale pagana ed ebraica era to-
talmente ribaltata. In effetti in Rom. 12, 1 Paolo esorta i cristiani “ad offrire i vo-
stri corpi, quale ostia viva, santa, gradita a Dio, come vostro atto di culto, se-
condo la ragione. E non vogliate conformarvi al mondo presente…” (parafra-
sato da Agostino, CD 100, 6, dove si sottolinea l’opposizione tra il sacrificio per-
sonale cristiano, e le usanze del ‘secolo’). “Una ‘oratio sublata’ del sacramen-
tario Veronese [uno degli antichi sacramentari romani] suona: ‘Munus populi
tui, Domine, placatus intende, quo non altaribus ignis alienus, ne inrationabi-
lium cruor effunditur animalium, sed Sancti Spiritus operante virtute sacrifi-
cium iam nostri corpus et sanguis est ipsius sacerdotis’… In questa azione del
508 LA CITTÀ DEL SOLE

popolo credente non si offre più un sacrificio imperfetto, un semplice sacrifi-


cio cruento di animali, bensì il sacrificio (del corpo e del sangue) del sacerdo-
te Cristo” (Neunheuser, pp. 1246 e 1291). Così Doni, Mondi: “Nello spazioso
luogo, che era inanzi al Tabernacolo, stavano i popoli che portavano a sacrifi-
care… In questo ampio atrio del mondo noi attendiamo alle preci del Sommo
Sacerdote, che ha fatto sacrificio di sé medesimo e offerto il suo corpo e il suo
sangue, che è stato di più efficacia che non fu quello de’ vitelli” (p. 192).

106.41-4: Insuper… coram Deo,


Bobbio, Firpo, Amerio ritengono che siano ventiquattro in corrispondenza al-
le ore del giorno, in quanto ognuno a turno deve celebrare nel tempio il sacri-
ficio; la redazione italiana sembrerebbe avallare questa spiegazione: “In tem-
pio a basso sempre ha d’essere uno che faccia orazione a Dio, e ogni ora si mu-
ta” (T.108.21-4); le ragioni testuali a favore sono due: la turnazione oraria cor-
rispondente al numero di sacerdoti, e il fatto che il pronome personale del pe-
riodo precedente si riferisca inequivocabilmente a “loro” (T.108.18); la ragio-
ne extratestuale riposa in Theol. XXV: “24 ore che corrispondono ai 24 vegliar-
di, e in essi si perpetua la lode di Dio” (p. 81). Ma anche in Città vi sono suffi-
cienti ragioni per dimostrare che C. pensava non ad “uno” dei sacerdoti, ma
dei Solari: a) l’ortografia: L.: “…del mondo. / In tempio abasso”; l’a capo indi-
ca un netto stacco con quanto precede; b) quell’a capo vuole indicare anche
l’opposizione spaziale alto/basso: prima descrive cosa c’è e avviene “sopra il
tempio” (T.106.40), e poi quanto accade “in tempio a basso” (T.108.21-2); c)
dice espressamente che i sacerdoti “non vengono a basso”, se non per i bisogni
naturali, e lo stesso Metafisico ogni giorno sale “in alto” (T.108.18); d) infine il
rito cristiano delle quarant’ore, a cui è paragonato il sacrificio perpetuo (v. n.
118.3), implica solo l’esposizione permanente ai fedeli del Sacramento, non la
continua celebrazione di un rito (che implicherebbe la presenza di un sacer-
dote): dunque sono in causa i fedeli (che possono adorare continuamente),
non i sacerdoti. E infine Civitas scioglie ogni residuo dubbio con “unus de po-
pulo” (108.22).
Dunque ventiquattro sono i sacerdoti-sacerdoti, abitanti nelle cellette
(106.30), e distinti dalla quarantina di ufficiali-sacerdoti (‘religiosi’) occu-
panti le celle inferiori (v. n. 10.6-7), essenzialmente per le loro funzioni pret-
tamente sacrali e sapienziali: “Coloro che invece sono mediatori tra Dio e gli
uomini, questi sono da considerare la parte migliore dello stato e religiosi sa-
pientissimi e stimatissimi” (Politica IV, 16). Il loro numero (così esiguo, e per-
ciò in evidente contrasto rispetto alla “turba oziosa” [More, 95] di chierici
che affliggeva l’Europa) è derivato direttamente dai vegliardi dell’Apocalisse
4, 4;425 a questo passo del resto C. allude nella sua Esp. al sonetto 55: “Dall’A-

425
La Città è la prefigurazione del millennio aureo e dunque è nei testi profetali che si ritro-
vano i suoi principi ispiratori: anche in Ez. 8, 16 si parla di “quasi viginti quinque viri”, che
“adorabant ad ortum solis” nel Tempio di Salomone.
COMMENTO AL TESTO 509

pocalisse: ‘in stolis albis’ ventiquattro seniori e gli compagni dell’esercito del
Verbo di Dio”; e in 1Cron. 24, 1-19 si descrive come i figli di Aronne furono
divisi in 24 classi “per prestare il loro servizio nel Tempio del Signore”.426
Inoltre, sempre nel libro di Ezechiele, si allude a un duplice ordine clericale:
a proposito del Tempio della Gerusalemme promessa, il profeta dice che vi
saranno due ordini di sacerdoti, quelli “incaricati del servizio del Tempio” e
quelli “addetti al servizio dell’altare”, occupanti ognuno due distinte camere
(40, 44-6).
Tali ordinamenti e ritualità erano per giunta testimoniate anche da civiltà ex-
traeuropee: circa il duplice ordine clericale, Botero, IV I ‘De sacerdoti e reli-
giosi’ (messicani): come i sacerdoti solari “il loro perpetuo essercitio era l’in-
censare agl’idoli, il che facevano al levare e al tramontare del sole, e a mezodì
e a mezanotte”; poi vi era “un convento di giovani di 18 in 20 anni, che si
chiamavano Religiosi: questi portavano certe chieriche simili a quelle dei fra-
ti… Servivano alla Guaca [= il Tempio] e ai Sacerdoti”; circa i quattro mo-
menti della giornata in cui pregano: i religiosi buddisti “si levano a mezza-
notte a far orazione, il che fanno cantando per spazio di mezza ora, e ritor-
nano a dormire insino all’aurora; allora si levano di nuovo a dire l’altre ora-
zioni; il simile fanno quando si leva il sole e a mezzogiorno e all’ora della se-
ra, nella qual ora fanno un segno che tutto il popolo s’inginocchia e leva le
mani al cielo, come facciamo noi” (dalle lettere dei missionari in Giappone,
in: Ramusio, II, p. 1012).

108.7-8: ut possint… praedicere.


Questo tentativo di accreditare all’astrologia lo statuto di scienza sperimentale
(ipotesi-verifica-tesi) è un’implicita risposta al durissimo attacco sferrato da Pi-
co (XI I), secondo cui ‘risulta non essere l’astrologia fondata su esperienze’,
per mancanza di fondamenti epistemologici: secondo gli astrologi, anche am-
messo che non si conoscano le cause delle forze sideree, bastano le prove spe-
rimentali a comprovarne la fondatezza scientifica; e anche se non si verifica
un’identica ripetizione di una certa situazione celeste, a furia di ripetute osser-
vazioni, “raccolti gli esperimenti, potranno trarne fondati pronostici”; Pico ri-
batte però “che sono impossibili gli esperimenti sui fenomeni celesti”, perché
si possono ripetere solo situazioni particolari, mentre un oroscopo si fonda sul
complesso delle interazioni celesti, il quale “non si ripete mai… o solo dopo
molte migliaia di secoli” in maniera assolutamente identica, e dunque non si
arriverà mai a una legge, ma, al più, a una sequela disorganica di casi singoli
(II, p. 459-63; v. n. 42.26-44.11 e n. 44.2-6).

426
Sisto, II, 58 riporta le principali esegesi sui ‘24 seniori’, tra cui quella di Ruperto – rappre-
senterebbero i 12 giudici “priores” e i 12 “posteriores”, ovvero gli apostoli – e di Galfrido: i 24
patriarchi.
510 LA CITTÀ DEL SOLE

108.9-10: dies… vindemiae,


Il nesso astrologia/meteorologia era indissolubile (a prova di Bolla papale an-
tiastrologica: v. 144.12); l’astrologia araba l’aveva rilanciato,427 anche se con no-
tevoli complicazioni e confusioni, denunciate ad es. da Pico (VII IV), che pur
era un convinto assertore della loro interdipendenza. Resta comunque preva-
lente l’impostazione tolemaica, cui aderisce anche la corografia coeva: “Tolo-
meo con ragione disse che la conoscenza delle stelle fisse verticali” (cioè che si
trovano sul meridiano passante per un dato luogo in un certo istante) è neces-
saria “per cognoscere i mutamenti dell’aura, e le calamità che occorrono in
qual si voglia luogo, come sono le pioggie, le grandini, le nevi, i venti, i tuoni,
l’inondationi dell’acque, la carestia, la fame, la peste, il terremoto… le quali
pendono tutte, per il più, da varij congressi de’ pianeti fra sé, e con le stelle fis-
se… percioché quelle [= stelle], che una volta il giorno diventano perpendico-
lari d’alcuna città o d’alcun luogo hanno con quel luogo gran forza e familia-
rità”; ad es. “quando Saturno, che di sua propria natura è freddo pianeta, pas-
sò per mezzo il cielo compagnato da detta stella [= capo di Medusa], cagionò
l’anno 1559 in quei luoghi [= Napoli e Toledo] gelido e asprissimo verno, co-
me narra Giovanni Stadio, benché altrove fosse assai piacevole e clemente”
(Magini, 6r; v. n. 144.12-5 e n. 152.17-8).

108.14-17: Deorsum… medicinam.


Analoghe funzioni e restrizioni ai sacerdoti, in Platone, Resp. 485e (v. n. 44.15-
9).

108.32-4: Canuntur… sui.


Le primalità corrispondono anche ad omologhe virtù (v. n. 24 [glossa] § 1):
“Conciosiaché si trovino nel compimento d’ogni essere la possanza, la sapienza
e l’amore, et ognuna di queste virtù dir si possa, ma la possanza ne ha prima
questo nome: non però senza l’altre due, perché tutte insieme conservano l’es-
sere, che è il più gran bene de gli enti”; ma relativamente all’uomo, il primato
ce l’ha la sapienza: “l’huomo, non havendo l’essere potentissimo come Dio né
possente come il sole, non può vincere le cose averse né conservare l’essere se
non con sapienza: però a lui questa è sola virtù delle virtudi” (Epilogo, pp. 510 e
512).

110.7-9: unum velum… formam.


In una Relatione anonima sulla tentata “sollevatione”, si legge che C. ordinava ai
congiurati “che non si dovessero portare cappelli in testa dicendo che denota-
vano soggezione e che erano cagione di poco vita per l’aria che dentro si rin-
chiudeva, e perciò si portassero alcuni coppulini legati con una ligazza in fron-
te ben stretti” (Arch. Segr. Vaticano, p. 248 – cit. da Ditadi, p. 82); nella sua de-

427
Garin 1952 (p. 548) riporta un passo di Messahallach (o Messahala), De ratione…, che in-
segna come prevedere astrologicamente i mutamenti meteorologici.
COMMENTO AL TESTO 511

posizione Felice Gagliardo dichiara infatti che la divisa dei congiurati prevede-
va anche “un capolecchio, legato a modo di turbante di turco” (Palermo,
p. 422).
Il copricapo corrente dei Solari, frutto di una duplice esigenza – sociale: parità
fra cittadini che non hanno più necessità di scappellarsi; igienica: areazione
della testa (“biretrum eo utilius quam levius” [Medicina, p. 65]) –, è dunque
uno zucchetto, sormontato da un cappuccio. A questa uniforme sono previste
tre eccezioni, due funzionali e una semiotica: a) una ‘paglia’ per ripararsi nei
lavori agresti; b) in ambito domestico, una specie di cuffia (a rete, o doppia re-
te, ovvero berretta) degli stessi colori adottati nel vestiario, bianco (di giorno)
o rosso (di notte o fuori città); c) simbolo gerarchico nel copricapo delle ma-
gistrature.

110.15-6: mundi cardines


Svariate volte C. riporta i versetti biblici (Gb. 38, 6) cui risale quest’immagine:
“et stridebant cardines templi”, “percutiet cardinem, movebuntur superlimina-
ria” (Lettere, p. 63; Theol. XXV, p. 203), ispirata al modello di firmamento come
di una calotta sostenuta da quattro colonne; e la usa sempre per indicare che si
avvertono già i sinistri scricchiolii di questa macchina/edificio che si sta scardi-
nando (v. n. 156.10-1): “ab originalibus sitibus basis universitatis rerum, quod
spatium immobile incorporeumque intelligimus, machinae mundi ac partes
suae recedunt” (Art. proph., p. 261).
Questi quattro segni “hanno rivendicato a sé la dignità di cardini del cielo [cae-
li cardines], perché in quei luoghi il Sole determina i mutamenti delle quattro
stagioni e perché passando nell’Ariete e nella Libra segue un corso medio nel-
l’ascesa e nella discesa equilibrando il giorno con la notte” (Ficino, Sole VII, p.
987-9). Tale “dignità” è acquisizione recente, perché SN II I, citando Isidoro,
chiama i quattro punti “‘climata’, idest plagae”, mentre (più logicamente)
“cardines mundi duo sunt, scilicet septentrio et meridies: in ipsis enim volvitur
caelum”. Infatti così li definiva Isidoro, Etym. III ‘De partibus Coelum distin-
guentibus’: i cardini “sunt extremae partes axis, sic dicti, quia per eos vertitur
caelum”, i quali assi celesti, “sic dicta quia sunt axium cicli ex usu plaustro-
rum”, sono Borea, il settentrionale, e Austronoto, il meridionale (v. n. 4.7-9, n.
44.1a e n. 44.3).

110.19: festum
Tra i vari festeggiamenti del capodanno cinese, vi sono recite di “commedie e
tragedie con grande spesa fatte, o di favole finte di nuovo, o d’azioni prese dal-
le antiche Istorie” (Maffei, I, p. 371; v. n. 94.32).

110.28-112.1: Non potest… fingit,


Invece questo secolo corrotto è infestato da falsi poeti, perché, non credendo
ai profeti veraci, “Deus misit poëtas mendaces et pseudoprophetas adversus
nos” (Lettere, p. 73); il sonetto ‘Ai poeti’ (in cui si scaglia contro i “finti eroi, in-
fami ardor, bugie e sciocchezze” [3, 6]) è così autocommentato: “Come scrisse
l’Autore nella sua Poetica, i poeti moderni hanno con le lor bugie perniciose
512 LA CITTÀ DEL SOLE

contrafatto la virtù, e ornato i vizi con la veste di quelle. E grida lor contro, che
tornino al prisco poetare”. Capitale, infatti, per capire quale sia la missione
educativa del poeta, è Poetica VI: “il poeta deve essere istromento del legislato-
re e aiutarlo a drizzare il mondo a ben vivere mediante il diletto del sacro poe-
ma” (p. 325); il poeta con i poemi e il legislatore con le leggi hanno lo stesso
compito di rendere i cittadini buoni e felici (Poët. IV V, p. 985); di converso il
poeta mendace, che così corrompe i buoni costumi, non “è degno di essere ac-
cettato da nessuna repubblica, se non tirannesca, dove si comprano le bugie
per fare ignorante il popolo” (Poetica III, p. 320); infatti “se ai poeti è lecito ca-
lunniare i buoni, lodare i malvagi, falsare la storia… la virtù e la verità saranno
oppresse, l’ignoranza, i delitti, l’empietà favoriti, infine l’ateismo si diffonderà
ovunque”; perciò “se la potenza del poeta è così grande, le si deve porre un fre-
no”; la delicatezza della sua missione impone una censura sociale, e quindi “fa
bene Platone a escludere Omero dalla sua Repubblica” (Poët. IV X [p. 999] e VI
V); anzi “li poeti bugiardi e lascivi si devono estinguere a fatto” (Disc. univ. XI,
p. 1044; Poetica XIII, p. 351). Proprio come diceva Agostino, CD 1, 4; 7, 18; 7, 26
e in partic. a 2, 14: “Si deve piuttosto dare la palma al greco Platone che, figu-
rando con la ragione uno Stato ideale, ritenne che i poeti si devono cacciare
dalla città come nemici della verità” (allude a vari passi di Leg. e Resp., ad es.
377d-e). Così anche Doni, p. 79.

112.1-5: hancque… avaritia.


La Città del Sole realizza sulla terra quel che accadrà nella Città di Dio: “Là vi
sarà una gloria vera, perché nessuno sarà lodato per errore o per adulazione
da chi lo loda; vi sarà un onore vero, negato a nessuno che lo meriti e non at-
tribuito a nessuno che non lo meriti” (Agostino, CD, 22, 30, p. 1154).

112.6-11: In nullius… contulerit.


È un precetto prudenziale di Ecli. 11, 30 [28]: “Ante mortem ne laudes homi-
nem quenquam”, variamente ribadito dalla patristica (Damasceno dedica II XI
dei Parall. a ‘quod nemo ante mortem beatus censeri debeat’, riportando passi
di Basilio e Nazianzeno), anche per evitar rischi idolatrici. Si possono “far sta-
tue a chi more per la religione, o scriverli in un libro sacro” (Disc. univ. XV, p.
1149), perché “non enim idola colimus nos [= Cristiani], sed Deum, qui in
imagine praesentatur ex quo, factus homo, habuit figuram depingibilem”
(Quod rem. 3, p. 43); ed anzi anche agli eroi civili e militari, come Cortés, “pri-
mo premio sia l’onore, con farli trionfare all’usanza romana… e con farli una
statua” (Mon. Sp. XXXII, p. 362).
L’iscrizione al libro degli eroi (il libro [a lettere] d’oro di 10.13-4) sostituisce la
venerazione, perché ‘eroe’, “secondo la tradizione greca, è colui che riceve un
culto da vivo (‘consecratus est vivus’)”,428 e tale culto consistette appunto nel-

428
Così Schilling, commentando Plinio 7, 47, 152 a proposito del pugile Eutimo, cui, “su or-
dine dell’oracolo di Delfi, fu tributato un culto quand’era vivo e vegeto”.
COMMENTO AL TESTO 513

l’erigergli due statue. Perciò Agostino ammonisce sul pericolo idolatrico delle
immagini: in epoche più recenti, pur smettendo di venerare come divinità de-
funti illustri, “non si cessò per questo di venerare e stimare come dèi quelli che
erano stati stabiliti come tali dagli antichi. Anzi facendone le immagini, si ac-
crebbe la seduzione di una vana ed empia superstizione” (CD 18, 24, p. 839);
ed infatti è solo nel Rinascimento che si ritorna a erigere statue secondo l’uso
antico, fin lì osteggiato per ragioni morali.429
Al culto degli eroi dedicano pagine sia Platone, Resp. 540b, e Leg. 942c, dove
parla proprio di un libro degli eroi per “virtù militari” (aveva già precisato
[802a] che per onorarli era meglio aspettare “che ognuno abbia percorso fino
in fondo la sua vita e vi abbia collocato una fine degna di nota”); e sia More,
186 (ma non specificando se solo dopo morti).

112.12: cremantur,
La cremazione, vietata dalla Chiesa, è praticata sia per ragioni igieniche430 sia
per la duplice ascendenza culturale dei Solari: non c’è relazione di viaggio dal-
l’India che non menzioni il rituale di cremazione, accompagnata spesso dalla
pratica induista del ‘sati’, l’autodafé della vedova;431 il Pitagora di Ovidio esor-
tava a non temere la morte, perché “quando il vostro corpo sarà stato divorato
dal fuoco o decomposto dal passare del tempo, non soffrirà nessun male” (Me-
tam. XV, 156-7); tuttavia Giamblico, Vita [Theodoreto] narra che i pitagorici
vietavano la cremazione per lo stesso motivo per cui la praticavano i Solari:
compartecipazione di qualcosa del divino (p. 141).432 In More, 233 sono sot-
terrati quelli che muoiono disperati, e cremati quelli che muoiono in letizia.
Doni: “La creatura elementale, come da più ampia e più perfetta, comincia dal
fuoco. Il fuoco, simbolo del caritativo amore, sempre ascende… Ogni minima
scintilla del mio fuoco… al fine mio, che è il Cielo Essenziale, per naturale in-
stinto come a sua spera ritorna” (Mondi, p. 196-7).
In effetti anche nella Città non tutti i cadaveri vengono bruciati (infatti quelli
dei giustiziati sono anatomizzati: 132.23): fanno eccezione alcuni condannati a
morte, per la cui esecuzione il testo menziona quattro forme (la prima facente
capo a sentenze di tribunali militari; le ultime tre dei civili, includendo anche
la legge del taglione [100.4]): è divorato dalle belve (74.14); muore per mano

429
Cfr Crahay (p. 189) per il caso di papa Giulio II a Bologna nel XVI sec.
430
Una delle cause della peste è quando “post bellum multa remanent cadavera” (Physiol. IX
IV, p. 79), tema ampiamente trattato in Medicina VI II.
431
Ad es. Mandeville, CLXXIV: in un’isola del regno del Prete Gianni i morti “li gittano in
uno gran foco ardente, e quelle che amano li loro mariti… si gittano nel focho cum loro e li
fioli e dicono che lo focho li purgarà da ogni immonditia e de ogni vitio e puro e netto se ne
andarà ne l’altro mondo”.
432
Pitagora “mortuorum corpora ad magorum imitationem exuri non sinebat, utpote qui no-
luerit quemquam de mortalibus divinos honores consequi” (e così Giamblico, Misteri V XII, p.
214 – per Sodano, p. 332-3 la teoria dell’incinerazione come elevazione a fuoco mistico è cal-
daico-egizia).
514 LA CITTÀ DEL SOLE

dei concittadini o viene lapidato (100.25); infine sceglie di che morte morire, e
la scelta cade sempre sul rogo (100.28-31).

112.15: idololatriae
Prima delle cinque forme di superstizione, “si commette o lodando o sacrifi-
cando a creature o invocandole come se fossero divinità… [Idolatri] erano
quelli che stimavano e adoravano come dèi Giove e Mercurio ed Ercole, che fu-
rono semplici uomini” (Theol. X [IV, p. 133-5]). Agli Ebrei che accusano i Cri-
stiani di esser idolatri, C. ribatte: “Neque marmora et picturas adoramus latria,
sed Deum. Sanctos eius in figuris adoramus dulia… Multas adorationes in
Scriptura habemus… Figuras autem pingi posse testatur Moyses sculpens in ar-
ca testamenti Cherubinos… Deus vobis propensis idolatriae prohibuit pictu-
ras… Christiani autem satis eruditi sunt, et quod repraesentant picturae, ado-
rant, non picturas” (Quod rem. 3, p. 126).
Nella disputa iconoclastica la chiesa di Roma si era attenuta alla deliberazione
conciliare nicena del 787: “si può tributare alle immagini un affettuoso saluto
ed una venerazione fatta di onori: non l’autentica venerazione della nostra fe-
de, che è dovuta soltanto alla divina natura”. Ma la questione era rimasta aper-
ta, per l’implicita pericolosità delle immagini, che in sé non erano un idolo,
ma potevano diventarlo se usate scorrettamente; pertanto le si potevano utiliz-
zare nelle chiese, quale sussidio visivo per gli analfabeti, come suggeriva Gre-
gorio Magno, con l’implicito sottinteso che “se non si è analfabeti, sarebbe me-
glio trarre le proprie occasioni di meditazione dalle scritture e non dalle pittu-
re” (Eco 2004).

112.20-30: Orationes… optimum”.


C. promette a Dio che, se tornerà libero, “Né a’ tetti, ch’avvilisce / fulmine o
belva, dir canzon novelle, / per cui Siòn languisce. / Ma tempio farò il cielo,
altar le stelle” (75, Madr. 5, 13-6), così autocommentato: “Nota che Dio si de-
ve adorare in spiritu et veritate, e non in tetti di fango, che i fulmini e gli nidi
d’uccelli scherniscono. E così Dio disse ad Isaia: «quam domum aedificabitis»
ecc., e san Stefano. Ma la Chiesa di Cristo tiene questi [templi], non perché
Dio sia legato in loro, ma perché s’unisca il popolo in carità per la conoscen-
za e culto comune. «Beato chi intende come s’adora!» dice san Bernardo” (v.
n. 8 [glossa]).
I Solari, privi di Rivelazione ma non idolatri (118.3), mimano nelle quattro ri-
petizioni dell’orazione nelle quattro direzioni cardinali (esemplate architet-
tonicamente in grande scala dalla pianta urbana della Città e, in piccola, dal-
l’altare, come si vedrà poco oltre), l’universalità ‘cruciale’, il loro volgersi ‘ur-
bi et orbi’, impetrando ogni bene ‘omnibus gentibus’.
Bobbio e Firpo 1954, p. 1341 ricordano la deposizione di Felice Gagliardo nel
1606, che accusava C. di avergli insegnato in carcere pratiche negromantiche,
di averlo esortato a pregare il Sole all’alba e al tramonto, fissandolo il più a
lungo possibile, così: “‘O sacrosanto sole, lampa del cielo, padre della natura
portatore delle cose a noi mortali e conduttieri della nostra simblea’”; e poi
“voleva che io, quando haveva da adorare Dio, in piedi… tenendo la mia fac-
COMMENTO AL TESTO 515

cia voltata al cielo, dicendo alcuni salmi”, li concludessi non con un “gloria
patri, et filio et spiritui sancto… perché né esso [= C.] né io credevamo al spi-
rito santo et al figlio”, ma con: “io te prego et supplico, per lo fato, armonia et
necessità, per la potentia, sapientia et amore, et per te medemo, et per il cie-
lo, e per la terra, et per le stelle erranti e fisse”.433 Dopo la parentesi eretica
con Gagliardo, in assoluta ortodossia C. respinge ogni mistica del luogo di
culto: “aliam haeresim superstitiosam” reputa un passo del Talmud da lui ri-
portato: “‘si quis oraverit ad meridiem conversa facie, sapientiam conseque-
tur, ad septentrionem vero divitias’. Mirabile arcanum: ergo ne locus corpo-
rum dat gratias et situs, an Deus super omnia, quem nec coelum et coelum
coeli capere possunt” (Quod rem. 3, p. 106). Anche circa il numero delle pre-
ghiere diarie, trancia netto: “frivola est quaestio, nam et David… in Ps. 54 ait:
‘Vespere et mane et meridie annunciabo laudem Domini’; sed neque nume-
rus commendat nos Deo, sed devotio et praecepti observatio… neque enim
in numero virtus, sed mysterium inest” (Quod rem. 4, p. 120).
Circa la lunghezza, a 112.26 e 30, implicitamente ma chiaramente, si dice che
l’orazione privata è breve, e deve esserlo “per due cause…: primo, per non
mostrar diffidenza appresso la divinità… secondo, per non trattare la divinità
ignorante, che non sappia intender quello che si dice con l’intimo del cuo-
re”, come suggerisce lo stesso “Cristo: ‘Cum oraveritis, nolite multum loqui’
[Mt. 6, 7]” (Poetica XX, p. 392-3; è in quel passo di Mt. che Cristo insegna il
‘Pater’).
Per il contenuto, sembra di ravvisare nella raccomandazione paolina il mo-
dello di riferimento: “orationes… gratiarum actiones pro omnibus homini-
bus… ut quietam et tranquillam vitam agamus in omni pietate et castitate.
Hoc enim bonum est coram Deo, il quale vuole che tutti gli uomini siano sal-
vi e giungano alla conoscenza della verità” (1Tim. 2, 1-4; per il destinatario, il
Sole, v. n. 2.a e n. 118.1-3).
Circa la formula clausolare: “Dico che questo Stato e il secolo aureo è nei de-
sideri di tutti, ed è chiesto a Dio, quando si prega che sia fatta la sua volontà
così in cielo come in terra” (Quaest. pol. IV I, p. 103); Lettere1: il mondo “s’ha
da unire tutto sotto una monarchia de una legge vera in una greggia e un pa-
store, con quella felicità che i poeti cantano del secolo aureo… e li sancti di-
ranno orando ‘ut fiat voluntas Dei in terra sicut in coelo fit’, e tutte le nazioni
aspettano” (p. 58). L’explicit della preghiera dei Solari, oltre che formula bi-
blica ricorrente,434 è parafrasi del versetto del Pater, ad indicare appunto l’at-
tesa ecumenica di tutti i popoli del regno celeste – e proprio al Pater il Geno-
vese aveva paragonato “l’orazione brevissima a levante” che i Solari elevano
ogni mattina (T.90.6-8; v. n. 90.6-7).

433
Amabile, Congiura III, p. 587-8; C. ricorda questo “scelerato” in varie Lettere (pp. 30, 36, 39)
senza però mai nominarlo, e senza mai accennare a questa preghiera ‘solare’.
434
Ad es. Ecli. 39, 5-6: “Di buon mattino, con tutto il cuore, si rivolge al Signore che l’ha crea-
to, e dinanzi all’Altissimo fa la sua preghiera… Se lo vorrà il grande Iddio…”.
516 LA CITTÀ DEL SOLE

Infine, circa altre fonti e/o suggestioni, secondo Crahay, C. ricollocherebbe il


trito adagio di Giovenale (X, 356) nel suo giusto contesto: il saggio null’altro
deve chiedere agli dèi se non “mens sana in corpore sano” (p. 191). Par più
probabile semmai la reminiscenza di modi di orazione esotici, narrati dai viag-
giatori: Benzoni, 166v per gli Aztechi, che al Sole “domandano ciò che hanno
bisogno”; e, meglio, Botero: “I Tartari Cataini… tengono due dèi, uno del cie-
lo e l’altro della terra: da quello (a cui incensano ogni giorno) non chiedono
se non buono intelletto e sanità” (III II, p. 159).

112.32-4: Idcirco altare… interviis,


Queste integrazioni descrittive dell’altare (8.25), la cui forma vuol rappre-
sentare il cielo (112.32) e/o il Sole ([118.13] con le quattro strade =
assi/raggi ‘cardinali’), lo fanno curiosamente somigliare alla descrizione di
un tempio di Konarak, in India, opera del progettista di Akbar, che fu ap-
punto colui che completò l’impero del Gran Mogol: “il magnifico palazzo di
Fatehpur aveva un trono circolare che rappresentava il Sole, da cui si stacca-
vano in direzione dei punti cardinali quattro corridoi diagonali con colonne
simbolizzanti i pianeti” (Singh, p. 82). Ma è più probabile che C. avesse in
mente una simbolica della struttura analoga a quella applicata correntemen-
te al tabernacolo, come detto in Apol. ad lib.: “Il penetrale o ‘Sancta sancto-
rum’ [del tabernacolo] rappresentava il mondo angelico o mentale, di cui
parlano Platone nel Timeo, S. Basilio nell’Esamerone e altri dottissimi padri:
non entrava nel ‘Sancta sanctorum’ se non il sommo sacerdote una volta al-
l’anno, portando in fronte il nome di Dio Geova, perché ivi solo Dio con gli
uomini divini e gli angeli abita il mondo mentale e sopraceleste” (p. 325 – v.
n. 8.25-34 e n. 8.41-2).

112.37-9: Vestimenta… artem.


Se la probabile fonte è Sisto da Siena (v. infra), tale rappresentazione ‘cosmo-
logica’ risale però a Filone, Mosis II, 117 (“l’insieme è una riproduzione e imi-
tazione dell’universo e i differenti elementi corrispondono ognuno a una par-
te di questo universo”, la tunica violetta rappresenta l’aria, le dodici pietre lo
zodiaco ecc.); ancora Giuseppe Flavio, Antiq. Jud. III, 7-10; Giamblico, Misteri,
p. 184 (sugli abiti simbolici nel cerimoniale teurgico cfr Sodano, p. 321-2); Gi-
rolamo, De Veste sacerdotali; Comestore, super Genes., col. 66 (in SH II XXIV); Mo-
re, 255; e finalmente Sisto porta come esempio di ‘Arte sciographica’ (v. n. 12
[glossa] § 4 punto A) una raffigurazione di Aronne solennemente addobbato
(III, p. 169-70), che C. menziona ricopiandone la bibliografia posta a chiusura
della voce ‘pontificalis’ (II, p. 93): sul Sinai (Ex. 25, 9sg) Dio mostrò a Mosè
“tutte le cose celesti, sopracelesti e sublunari, e quindi fece… le vesti sul loro
modello, come insegnano Filone Ebreo, Giuseppe, Clemente Alessandrino, S.
Girolamo e Sisto da Siena nel terzo libro, e la stessa Sapienza di Salomone, nel
cap. 18, insegna che ‘nella veste del sacerdote Aaron era raffigurato tutto il
mondo’: i quattro colori delle vesti significavano infatti i primi quattro corpi
del mondo chiamati elementi, come insegna Sisto da Siena nel lib. 2, alla voce
Pontificalis, con S. Tommaso, nella Summa I-II, q. 102, art. 5 ad 9: i femorali si-
COMMENTO AL TESTO 517

gnificavano la terra, il mantello il cielo sidereo, le due pietre di onice i due


emisferi; le dodici gemme nel pettorale i dodici segni dello zodiaco, poiché in
essi sono contenuti le ragioni delle cose terrene” (Apol. ad lib., p. 323; quegli
stessi cinque teologi in quello stesso ordine sono menzionati anche in Apologia,
p. 50).
Sull’onda di questa tradizione sacra, vennero fatti anche mantelli ‘cosmici’ lai-
ci, come testimonia quello forse indossato da Enrico II per la sua incoronazio-
ne imperiale (nel 1015 circa), e conservato nella cattedrale di Bamberga: “l’im-
peratore portava il mantello ‘cosmico’ come raffigurazione del suo potere. Le
costellazioni apparivano sotto la Maestà del Signore, la cui testa era scortata ai
lati dai due astri maggiori del cielo” (Saxl, p. 177 e fig. 108).

114 (glossa): De astronomia… temporibus civilibus435


Al contrario di come sono correntemente reputate,436 le p. 114-60 sono il cuo-
re e il motore del trattatello (e, forse, del senso di una esistenza). Anzi, biso-
gnerebbe così rovesciare l’ordine del discorso, per ristabilire la crono-logicità:
i Solari, astronomi/-logi provetti, hanno capito dalle anomalie celesti e dalle
configurazioni astrologiche che sono prossime sventure e rivolgimenti; per cui
hanno instaurato nell’‘isola felice’ una civiltà, i cui costumi, sintonici a quelli
dell’aurea età ventura che precederà la fine del mondo (116.12-3), si diffonde-
ranno in tutta la terra (84.23).
L’astronomia, dunque, insieme all’astrologia e alla profezia, è uno dei pila-
stri su cui si fonda l’ideologia campan. Comprenderne la struttura non è
dunque erudita ricognizione di un paradigma superato – di qualche interes-
se, al più, per lo storico della scienza. È una scienza ‘militante’, che motiva la
sua battaglia antiaristotelica e antimachiavellica, come lotta religiosa e politi-
ca insieme. Lo stesso dicasi per l’astrologia: la lunga questione sulla sua li-
ceità (138.14-154.21), non è solo una digressione per un personale proble-
ma di censura ecclesiastica (neanche tanto secondario, dati i tempi); ma è
una strenua difesa contro la reiterata scomunica papale di una scienza che
C. considera uno strumento più marcatamente operativo, perché previsiona-
le, dell’astronomia: l’astrologia non contribuisce soltanto a programmare
nascite eugenetiche, ma serve a leggere correttamente il libro della Natura
attraverso cui Dio ci parla, e dunque a ispirare e regolare la nostra vita, per-
sonale e collettiva (per le connessioni astrologiche e le ricadute profetali v.
n. 160.1-2).

435
È opportuno integrare un “et” fra “temporibus” e “civilibus”. Questo paragr. ha molte affi-
nità con Ficino, Sole IV ‘Conditiones planetarum ad Solem’.
436
Ad es. da Bobbio: “le ultime pagine… sono una vera e propria appendice, in cui l’autore
si sfoga a dire cose di nessun conto… o del tutto estranee al contenuto della narrazione”
(p. 13).
518 LA CITTÀ DEL SOLE

Dio, Autore dell’universo, si serve di cause naturali per determinarne i muta-


menti, a tutti i livelli – da quelli fisici a quelli umani. Ne conseguono due co-
rollari non trascurabili: a) l’Autore utilizza la natura in generale, e il cielo in
partic., come libro in cui ‘scrivere’ i Suoi messaggi agli uomini;437 b) se il cosmo
è un libro, non possiede regole autocompositive (in questo non somiglia a un
orologio, che, una volta costruito e caricato, cammina per conto suo), ma è
l’Autore che in ogni istante lo regge e lo scrive, secondo un canovaccio che so-
lo Lui conosce (Agostino, CD 7, 30, 304: “Dio fissa il passo della Luna, Egli as-
segna i percorsi in cielo e in terra per gli spostamenti nello spazio”). Da queste
due premesse si può comprendere come vada affrontato lo studio dei fenome-
ni celesti (studio che comunque è indispensabile fare, non dovendoci arresta-
re dinanzi all’insondabilità dei progetti divini, perché Dio vuole che noi impa-
riamo a leggere nel Suo Libro: sarebbe un Dio insensato se per comunicare
con le sue creature usasse dei geroglifici indecodificabili): le leggi di natura so-
no comunque epifenomeni (giochi di simulazione – per riprendere la metafo-
ra delle ‘fiches’ di 114.19-116.3), da subordinare I) alla loro aleatorietà: Dio in-
terviene e stravolge come e quando vuole, e, come le anomalie conclamate
stanno a dimostrare, in barba a qualsiasi legge matematica; II) all’indagine di
quel ‘canovaccio’ profondo, metafisico, e che rispecchia del resto la natura e il
destino finale dell’uomo, che non è di questo mondo, ma metafisico appunto.
Fatte queste doverose premesse, possiamo esaminare l’astronomia dei Solari,
com’è esposta da 118.22 a 122.22. Ivi sono affrontati due problemi: uno espli-
cito e diffusamente spiegato (le apparenti anomalie orbitali planetarie) e uno
implicito e frammentariamente accennato (la struttura dell’universo). Proprio
per la sua frammentarietà e complessità, nonché importanza,438 riteniamo in-
dispensabile far riemergere anzitutto il reticolo congetturale soggiacente, di
cui ovviamente le anomalie orbitali sono solo un capitolo della meccanica ce-
leste (le eccezioni apparenti).
C. si dedica intensamente agli studi astronomici parallelamente alla stesura di
Città; nel 1603-4 attende ai quattro libri dell’Astronomia, ripresa, in occasione
del Nuncius galileiano, nel ‘10, e dei Progymnasmata di Tycho divorati in venti

437
In un testo a lui noto di H. Wolf, compreso nelle Ephemeridum di Leowicz (v. n. 130.25), C.
poteva leggere: “Egli ha istoriato il cielo con una mirabile scrittura, e se noi fossimo capaci di
leggerla perfettamente saremmo perfettamente sapienti” (cit. e tr. di Ernst 1991, p. 258-9). Il
desiderio di conoscenza è innato nell’uomo, e in partic. della conoscenza di Dio; ma Dio è
inattingibile in sé, per cui l’uomo deve risalire dagli effetti – la natura – alla causa; e, come
Profeti e Padri ripetono, il mondo è un libro; poiché di tutto il creato sono le cose più mira-
bili a rappresentare Dio, allora lo studio del cielo è la scienza suprema, e del resto l’uomo, a
differenza degli animali, fu dotato di un volto eretto verso l’alto (Apologia III, p. 15-7).
438
Per il tentativo disperato che fece quest’uomo di salvare una delle ultime ‘weltanschauun-
gen’, termine quanto mai usurato, ma qui quantomai appropriato per indicare le ‘opere-
mondo’, i pensieri totali e globali; e nello stesso tempo, per non chiudere gli occhi alla realtà
che il telescopio squadernava - proprio lui che per primo, come sappiamo, esortava a tener
conto più del Libro vivo della Natura che di quelli morti della cultura.
COMMENTO AL TESTO 519

giorni del marzo 1611; ma quest’opera non vide mai la luce, perché gli fu se-
questrata in una perquisizione del maggio di quell’anno.439 Tuttavia le sue teo-
rie, sostanzialmente geoeliocentriche, anche nelle ‘eclettiche’ formulazioni
più tarde, improntate sempre all’esigenza primaria di salvare il suo sistema fisi-
co dai nuovi dati sperimentali, si sono tramandate (e aggrovigliate) nelle ope-
re principali. Malgrado questa grave lacuna e la frammentarietà e contraddit-
torietà delle sue congetture, cercherò di tracciare ‘brevi cenni sull’universo’
delle cosmologie campan. Il plurale è giustificato dalle due redazioni di CS, ov-
viamente. Ma a guardarle bene esse divergono, nella sostanza, solo per l’ag-
giunta di alcune righe (122.17-22), per di più dubitative, scritte forse non solo
per compiacere il suo primo curatore, l’Adami (Bobbio, p. 22),440 ma anche
per una personale intima convinzione (v. infra [§ 3, punto 2] il passo di Syntag-
ma II II e v. n. 122.17-22).
Ciò nonostante si può tracciare un profilo di massima: essendo la sua astrono-
mia una derivata della sua fisica, non poteva che essere geocentrica, pur non
essendo aristotelico-tolemaica; per l’esattezza essa è una ‘variante’ del geoelio-
centrismo, risalente ad Eraclide Pontico (allievo di Platone), rilanciata da Mar-
ziano Capella (V sec. [Lerner 1992, p. 92]) e, a fine XVI sec., ripresa da Ursus
(Fundamentum astronomicum, Strasburg, 1588) e principalmente da Tycho: in
sostanza “la Terra veniva di nuovo posta al centro del mondo, ma i cinque pia-
neti giravano attorno al Sole che a sua volta ruotava intorno alla Terra” (Koe-
stler, p. 293).441 Su quest’asse dominante, che sarà il filo celeste del suo pensie-
ro, si innesta una diramazione o meglio un’alternativa, a cui avrà potuto co-
minciare a riflettere nei primi mesi del 1611: l’eliocentrismo copernicano.
Non sappiamo, a causa della grossa lacuna di L. (v. 116.18 in ‘Apparato delle
varianti di α’), se per la redazione italiana avesse apportato sensibili modifiche;

439
Syntagma I III: ivi C. stesso si premura di assicurare che “haberi tamen potest positionis no-
strae sensus ex Physiologia et Metaphysica” (in partic. III XI-XIII; VII I, VII); a cui si può aggiun-
gere: Senso, pp. 31-4 e 168-75; il I Libro dell’Epilogo; Compendio IX-XII; Phil. realis I, p. 17-30;
Art. proph. V-VI e partic. XVII; Theol. III III-VII; Theol. XXV; Astrol., p. 18; Apologia; Quaest. phys.
XI, p. 105-25; Lettere, Memoriali (es. pp. 23, 64-5, 218-25, Disc. Cometa), tra cui spiccano quel-
lo a Galileo e a Urbano VIII (p. 218-25); Comment., p. 734-6; e naturalmente CS. Questa è una
mera bibliografia di riferimento, che si è voluta richiamare solo inizialmente e limitatamente
a questo excursus sull’astronomia campan., onde evitare aggravi o divagazioni in una materia
ardua; per le stesse ragioni – cercar di enucleare con sinteticità e chiarezza il pensiero del Fi-
losofo – è ridotto all’indispensabile ogni riferimento extra-autoriale.
440
Firpo 1968 accenna agli incontri Adami/Galilei a Firenze nel 1613 (p. 32).
441
Al saggio di Koestler si rinvia per una storia più dettagliata di questo modello cosmologi-
co, la cui paternità fu rivendicata da ognuno dei tre Autori su menzionati (per C. v. infra §
3), e il cui principale vantaggio fu quello di “offrire un compromesso fra il sistema di Co-
pernico e il sistema tradizionale. Si raccomandava a tutti coloro che esitavano a contraddire
la scienza ufficiale e al tempo stesso volevano ‘salvare i fenomeni’: era destinata ad avere un
grande ruolo nel caso Galileo. In effetti il sistema di Tycho fu ancora scoperto da un terzo
astronomo Eliseo Roeslin: è quel che succede spesso con le invenzioni che ‘sono nell’aria’”
(p. 293-4).
520 LA CITTÀ DEL SOLE

tenderebbero ad escluderlo le seguenti constatazioni: il capoverso superstite di


L. (corrispondente a T.114.1-116.17) è privo di varianti significative; le reda-
zioni latine sono identiche a quella italiana, salvo un fugacissimo e dubbioso
accenno (“an Sol sit centrum inferioris mundi” [122.18]).
Sarà necessario delineare questo sostrato geoeliocentrico, rispetto al quale mi-
surare gli scarti (e i dubbi) successivi.
1. Cosmogonia e fisica
Sintetizziamo anzitutto le premesse meta-fisiche campan. in quattro punti:
1) Dio è il creatore del mondo; dimostrazione: il mondo è formato di compo-
sti; i componenti precedono i composti, e siccome da soli non potevano
unirsi in un disegno così organico e armonioso, bisogna per forza presup-
porre l’intervento, al minimo unificante, di una Mente superiore.
2) Il mondo è stato creato dal nulla negativo (non esiste, a rischio di autocon-
traddizione e impossibilità logica, un nulla positivo o sostanziale [v. n. 126.7-
8]); dimostrazione: il mondo è composto di materia, che è il sostrato comu-
ne indifferenziato di cui sono costituiti gli enti distinti (la materia è pura po-
tenzialità, come cera indefinitamente plasmabile), e dunque la materia, non
derivando da altra materia (altrimenti si cade in un processo infinito), non
può che derivare dal nulla.
3) Il mondo non è eterno perché è stato creato dal nulla; prova: qualunque co-
sa si fa da ciò che prima non era, come il fuoco dal legno (il legno era non-
fuoco, eppure è diventato fuoco); se il cosmo è nato dal nulla vuol dire che
non è eterno, perché è nato in un certo istante (prima, infatti, era non-co-
smo); altra prova della finitezza del mondo è desumibile dalla dialettica tut-
to/parte: “o il mondo è sempre stato, o è cominciato ad essere, risultando
dall’unione dei contrari. Ma non è sempre stato, perché consta di parti com-
ponenti, e le parti, specialmente se sono contrarie [come appunto il caldo e
il freddo], precedono la composizione del tutto (né infatti il tutto produsse
le parti dividendo e difformando sé stesso, ma il tutto risultò dalle parti):
dunque il mondo è cominciato, non però da sé stesso” (Theol. I [I, p. 65]).
4) Il mondo è stato creato da Dio per emanazione (come la luce deriva dal So-
le, ma non è il Sole); corollari: Dio infinito (una retta) non può essere una
natura finita (un segmento – ecco perché non vale il ‘Deus sive Natura’!); e
quindi il reciproco: non potendo esistere due infiniti, e non potendo essere
finito il creatore e infinita la creatura (Atheismus, p. 65: “nessun effetto si ele-
va al di sopra della propria causa”), la materia e lo spazio potranno essere in-
definiti (una semiretta), ma la natura sarà finita (un segmento).442

442
Il mondo è “quasi infinito” (Atheismus, p. 80); anche Galileo ammette “un mondo solo e
questo in un unico cielo pressocché infinito” (Apologia IV, p. 50); per Copernico lo spazio fra
Saturno e le fisse è “simile all’infinito”; a fine ‘500, il cosmo veniva considerato immenso, ma
finito, anche se immaginato sempre più cavo, in cui cioè il vuoto era nettamente superiore al
pieno (v. n. 125.4 [f.p.]); ma “è solo verso la fine della prima metà del secolo successivo che
la palla del mondo esploderà, e che l’universo perderà ogni limite immaginato dall’uomo”
(Lerner 1992, p. 59-72).
COMMENTO AL TESTO 521

In breve: l’universo è un macro-organismo corruttibile e finito sia spazialmen-


te che temporalmente, in quanto perirà per fuoco.
1.1. Genesi
Dio, dunque, creò anzitutto “uno spazio presso che infinito” (Epilogo) incorpo-
reo, neutro, isotropo, cioè privo di luoghi naturali (in senso aristotelico), in cui
collocare il mondo, cosa che avvenne all’inizio di quella durata che chiamiamo
tempo, e che è a sua volta l’immagine dell’eternità dalla quale il tempo fluisce;
lo spazio è immortale, inalterabile, indivisibile, ‘immenso’ (v. n. 124.29-126.1).
Poi creò la materia immortale, alterabile e divisibile (infatti la materia è com-
posta di atomi), dentro cui introdusse i principi attivi, il caldo e il freddo, mor-
tali, alterabili e divisibili.443 Questi furono dunque gli ingredienti-base della
formula ‘universale’: due principi passivi (spazio e materia) e due cause agenti
(calore e freddo: il primo è la virtù naturale espansiva, riscaldante, attenuativa,
motrice e illuminante – e dunque derivato dal fuoco –; il freddo è refrigerante,
condensatore, statico, oscurante – perciò costitutivo della terra). Il supremo Al-
chimista iniettò contemporaneamente gli opposti termici nella materia bruta
che giaceva amorfa nello spazio, provocando una violenta conflagrazione e
una brusca scissione da cui nacque, insieme al tempo, il cielo e la Terra (il pia-
neta, non l’elemento), dotati delle seguenti opposte caratteristiche:
cielo: la parte di materia originaria volatilizzata dal calore si diresse in alto per
fuggire il freddo, costituendo il cielo, una sostanza ignea cristallina ed eterea
più opaca; il cielo è caldissimo, luminoso (perché quando il calore si congrega
diventa luce), rado (è così tenue che esso sta all’aria come l’aria sta all’acqua),
dotato di moto di rotazione (per evitare il freddo, la sostanza ignea salì in alto,
ma l’universo è finito e allora, non potendo né salire oltre né ridiscendere a
causa del freddo inferiore né star fermo perché l’essenza del calore è il moto,
prese a ruotare;444 in secondo luogo, perché ruotando intorno all’ammasso

443
“Dio, in primo luogo, fece il luogo, nel quale collocò la causa materiale. Nella materia fe-
ce le cause attive, il caldo e il freddo, le quali, volendo occupare ognuna la materia, se la so-
no suddivisa nei due elementi. Il caldo, in quanto più potente, occupò la maggior parte del-
la materia, attenuandola e spargendola ovunque, e trasformandola in ciò che noi chiamiamo
cielo. Il freddo, invece, circondato per ogni dove dal caldo, contenne al centro la restante
materia, condensandola in ciò che chiamiamo terra, e questa è la forma della loro genera-
zione… Il caldo e il freddo sono potestà attive, pertanto diffusive e moltiplicative di se stesse”
(Compendio II, 7 e VII, 6).
444
Il moto come operazione del calore è teoria che risale quanto meno al platonismo, come
si può evincere da questa sintesi plotiniana fatta da Macrobio: “la perpetuità di questa so-
stanza [celeste] è inerente al suo movimento; perché non si può concepirla sempre esistente
senza concepirla sempre in movimento, e reciprocamente. Così, il corpo celeste che essa ha
formato e a cui si è associata, immortale come lei, è mobile come lei e non si arresta mai…
Questo movimento del cielo è necessariamente un movimento di rotazione; perché, siccome
la sua mobilità non ha sosta, e visto che non esiste nello spazio alcun punto fuori di lui verso
il quale possa dirigersi, deve ritornare incessantemente su se stesso… Terminiamo qui questo
estratto degli scritti di Plotino sulla rotazione misteriosa delle sostanze celesti” (Somnium I
XVII).
522 LA CITTÀ DEL SOLE

freddo lo poteva contrastare da ogni parte); e, infine, il cielo è omogeneo, cioè


non è suddiviso in sfere distinte.445
Terra: il freddo solidificò la materia residua in un globo gelido, oscuro, denso,
immobile e centrale (arroccarsi in una sfera compatta fu un’inevitabile strate-
gia di difesa/offesa contro il calore),446 eterogeneo (è un ‘sistema’, cioè una
mescolanza dei quattro elementi: fuoco, aria, acqua, terra, che a loro volta non
sono altro che i derivati primari dell’interrelazione cielo/Terra, costituitisi se-
condo l’ordine di progressiva diminuzione della quantità di calore presente), e
infine passivo e femminile.447
In questo modo sono implicitamente determinati i luoghi e i moti naturali: un
centro immobile, una periferia dotata di moto circolare uniforme. Questa era
dunque la situazione agli albori del cosmo: tutto in alto, ma disperso, il calore;
tutto in basso, concentrato nella Terra, il freddo. A causa della rarefazione il
cielo è però poco mobile e poco incisivo nella sua azione di contrasto alla ne-
mica Terra. Allora il calore adottò la stessa strategia del suo nemico: poiché il
freddo si era conglobato in una sfera per essere più potente, anche il calore,
per contrastarlo, si agglomerò in ammassi stellari, confinati però agli estremi li-
miti dell’universo, perché il freddo della Terra era troppo potente, non essen-
doci ancora il Sole a contrastarlo. Le stelle fisse, fatte della stessa materia del
cielo (come le macchioline bianche che si formano nelle unghie e che sono co-
munque costituite della stessa sostanza delle unghie – è un’immagine di Impe-
rato [XI XIX, p. 296]), sono però tanto lontane da non recar danno alla Terra.
Dopo le stelle fisse, si formarono quelle ‘vaganti’ (i pianeti), sempre meno cal-
de e veloci a mano a mano che si scende verso il centro. Tranne una: il ‘quarto
pianeta’ fu composto in seguito a un immane sforzo di unione del fluido calo-
rico per poter ostacolare più validamente delle lontane stelle e dei blandi pia-
neti il gelo della parte bassa dell’universo.
Era l’alba dell’equinozio (probabilmente) autunnale (forse) di 5562 anni fa
(rispetto al 1600 dopo Cristo [v. n. 116.6, n. 136.10 e n. 160.1-2 § 1]) e l’orolo-

445
Fra il 1570 e il 1600, “le sfere planetarie che popolavano il cielo spariranno, almeno per
gli autori illuminati”; contro di esse vi erano due argomentazioni: a) la luce dovrebbe subire
una rifrazione passando attraverso un cielo cristallino convesso; b) le comete devono potersi
muovere in un mezzo privo di resistenza. In partic. è Roberto Bellarmino a discostarsi dalla
teoria aristotelica, in sintonia alla lettera biblica, teorizzando un cielo elementare (e non in-
corruttibile): per lui (come per Patrizi o Pontano), “gli astri si muovono da sé come uccelli
nell’aria” (Lerner 1992, p. 74-80).
446
Oltre al modello di tattica militare, descritta a 68.14-8, potrebbe aver influito anche l’age-
vole e topica suggestione di quello della ruota, il cui centro è il luogo in cui la velocità ango-
lare tende a zero.
447
“Il cielo e la terra sono contrari per quattro motivi: il cielo è infatti caldo, lucido, tenue e
mobile; la terra, invece, è fredda, scura, densa e immobile… Ogni contrarietà fisica dipende
dal caldo e dal freddo. Il calore infatti produce la rarefazione, l’umidità, la luce e il moto; il
freddo, invece, la densità, la secchezza, la durezza, il buio e l’immobilità” (Compendio II, 8 e
VII, 4).
COMMENTO AL TESTO 523

gio cosmico cominciò a battere il tempo residuo della sua morte. Il Sole quel
giorno sorse sull’emisfero australe, perché in quel settore del cielo vi erano
meno astri, e vi si soffermò a lungo, come si può notare dalla prevalenza di
oceani, dovuta appunto al fatto che lì il Sole ha liquefatto quasi tutte le terre.
Adesso invece il Sole indugia più sul nostro emisfero, per recuperare il tempo
perduto originariamente. Dall’interazione fra il calore celeste, notevolmente
rafforzato dall’apporto solare, e l’algida materia terrestre si è formata la scala
degli esseri (v. n. 12 [glossa] § 2), secondo un progetto divino e non certo di
quelle cieche forze impegnate solo in un conflitto permanente, anche se fino
ad ora equilibrato (v. n. 124.11-8). Al centro del cosmo vi è la madre Terra (e
scavandola in profondità essa risulta sempre più fredda, oscura e compatta),
un immenso utero perpetuamente fecondato dal padre Sole, e che partorisce
l’interminabile gamma degli enti dei tre regni naturali: l’acqua che si raccoglie
nelle concavità marine e che raffinandosi e innalzandosi diventa fluido aereo,
la parte più spessa del cielo (o più rarefatta dell’acqua); sopra l’atmosfera vi è
l’etere igneo, solcato dagli astri; il calore solare, infatti, impregnando la mate-
ria terrestre, in base alla quantità dell’una e alla sottigliezza e purezza dell’al-
tro, produce per trasmutazione i liquidi (come il mare), le pietre e i metalli, le
piante, il cui corpo vegetale racchiude un fluido calorico mobile, ma non al-
trettanto puro e dinamico come quello degli animali che appunto sono dotati
anche di locomozione e di sensibilità (grazie agli spiriti animali, che non sono
altro che fluido calorico puro [v. n. 44.23]). E in questo gran teatro della natu-
ra Dio ha collocato l’uomo a recitare la sua parte da protagonista (è l’unico en-
te dotato di scintilla ultraterrena) nella commedia e tragedia del creato: “il Pri-
mo Senno ordina la comedia universale con tante maschere di corpi” (Poesie,
77, Madr. 5, Esp.).
2. Cosmologia
2.1. Statica
Questo sistema del mondo è triplicemente bipolare: strutturalmente
(caldo/freddo), spazialmente (centro/periferia) e dinamicamente (immobi-
le/ruotante). Il vortice igneo etereo in cui sono immersi gli astri, anch’essi gru-
mi di fuoco, è una sfera incardinata nello spazio. Cosa ci sia fuori della sfera ce-
leste, da un lato è dubbio (di certo non c’è il nulla; forse altri mondi?), e dal-
l’altro è di pertinenza di altre scienze che oltrepassano la fisica. Possiamo inve-
ce azzardare delle ipotesi su cosa ci sia dentro la sfera. Essa è ignea, come si di-
ceva, e quindi isotropa, perché non è concepibile che una sostanza così sottile
e omogenea possa stratificarsi in sfere dentro sfere, “come una cipolla” (Quae-
st. phys., p. 125). Tutt’al più si può parlare di regioni celesti. Ma scendiamo nel
dettaglio. In questa sfera albergano dunque tre entità principali:
1. il continuum celeste igneo etereo (ovvero il cielo)
2. gli astri, agglutinazione di fluido calorico
3. la Terra, un sistema di elementi composti.
Tra i primi due non vi è una differenza qualitativa o sostanziale (oggi diremmo:
chimica), ma solo quantitativa (= fisica) fra stati della materia (raro/denso);
ovvero: è la stessa materia ignea a diversa densità. Gli astri a loro volta sono cor-
pi a diverso grado di calore e luminosità, proporzionale alla grandezza e alla
524 LA CITTÀ DEL SOLE

distanza (dalla Terra), e dotati di moti differenti (anche per questo si posso-
no distinguere, ma solo in teoria, delle regioni celesti).
2.2. Dinamica
Simplicio obiettava che se il cielo fosse tutto igneo, gli astri non potrebbero
permanere sempre allo stesso posto, ma si muoverebbero al suo interno “co-
me pesci nel mare” (Quaest. phys. X I, p. 76); C. rovescia quest’obiezione in
una suggestione: molto più rapidamente, ma altrettanto liberamente degli
uccelli nell’aria si muovono gli astri, non essendo confitti nella sfera eterea,
secondo la dottrina aristotelico-tolemaica, “come i nodi del legno nelle tavo-
le”.448 Dentro questa palla ignea gli astri ruotano liberamente e autonoma-
mente. È proprio la differenza di densità di calore, infatti, a impedire che i
corpi celesti si muovano solidalmente al mezzo in cui sono immersi, perché
viaggiano a velocità diversa (maggiore il denso del raro). Il fatto che le stelle
ruotino liberamente e autonomamente non significa che:
• si muovano a casaccio: a differenza di pesci e uccelli, non sono spinti dal
bisogno o da passioni;
• cadano, perché non esiste un alto/basso (essendo il cosmo sferico), e per-
ché ogni corpo tende al luogo che è il centro del suo sistema;
• siano spinti dagli angeli, ivi dimoranti; tuttavia c’è una Regìa superiore che
orchestra l’intero complesso:449 il cosmo è un macro-corpo, regolato da Fa-
to, Necessità e Armonia (i tre mediatori fra le Primalità divine e la realtà
naturale), per cui ogni ente dell’universo sta al suo posto come le membra
di un organismo: siamo al crocevia fra teologia trinitaria, teoria classica dei
‘luoghi naturali’ e la moderna attrazione gravitazionale. Infatti, esplicita-
mente esclusa la gravità universale (Theol. III, p. 151), i moti naturali sono
considerati come il tendere di un qualsiasi corpo al centro del suo sistema,
il quale diventa così il suo luogo naturale (e non in assoluto, come, per
Aristotele, ad es., l’‘alto’ per il fuoco): si ha gravità sia quando un pezzo di
legno posto sott’acqua tende a portarsi in superficie, sia quando posto in
aria tende a cadere per terra.450 In natura non esiste un sopra e un sotto,
ma soltanto un centro, dato a ogni aggregato di elementi per la sua con-
servazione affinché le parti tendano a saldarsi organicamente ed assicuri-

448
Sulla metafora del nodo cfr M.-P. Lerner, ‘Sicut nodus in tabula’: de la rotation propre du soleil
au XVIe, in: ‘Journal for the History of Astronomy’, 1980.
449
Come sosteneva anche Tycho: “la macchina del cielo non è un corpo duro e impenetrabi-
le riempito di diversi orbi realmente esistenti, come ciò è stato creduto fino ad oggi dalla
maggioranza degli autori, ma questo corpo del cielo, perfettamente fluido e semplice, è
aperto da ogni verso e non offre il minimo ostacolo alle libere circolazioni dei pianeti che si
compiono senza l’aiuto o l’avanzamento di sfere reali, ma sono governati da una scienza in-
fusa di origine divina” (De mundi aetherei recentioribus phaenomenis, VIII, cit. e tr. Lerner 1992,
p. 93-4).
450
La meccanica celeste si basa sul principio che non esistono ‘gravi’ (e dunque gravità), ma
ogni corpo è come se “in medio aëris esset”, e dunque “nec a centro nec ad centrum mobilia,
sed circa centrum” (Quod rem. 4, p. 125): perciò gli astri non si avvicinano alla Terra.
COMMENTO AL TESTO 525

no così al tutto unità e durata: il mio cuore non va ad occupare il posto del
tuo (i corpi collocati al loro posto non gravitano più, e la gravità è la spin-
ta verso il centro: “gravitas est erga centrum, non ad alteram partem”); tut-
te le cose si stabiliscono sul loro proprio centro e lì si mantengono e go-
dono dell’affinità che accomuna le loro parti. Gli enti lunari tendono al
centro della Luna, quelli di Mercurio al centro di Mercurio e fuori della
loro sfera non avvertono alcunché che possa dare loro condizione miglio-
re (Apologia III, p. 29 e IV, p. 51).451
Le forze che governano i moti astrali sono:
1) il calore: si è accennato che il fuoco è per essenza mobile, cioè o si muove
o non è; la stasi è connaturata al freddo, come il moto al calore, secondo la
legge fondamentale della fisica (telesiana); dunque il motore primordiale
di ogni ente, celeste o terrestre che sia, è la sua parte ignea, e quanto mag-
giore essa è, tanto più aumenta la dinamicità del corpo che l’ospita; su sca-
la cosmica, poi, il moto della sostanza ignea eterea è circolare, a) per asse-
diare d’ogni parte il freddo; b) per mancanza di alternative: non potendo
né salire né scendere, al calore non restò altro moto che quello di rotazio-
ne;
2) la ‘sympathia’: definire questo termine creò problemi anche a Della Porta
(Magia I, 9, 13r-v); essa ha due valenze: fisica: attrazione del simile verso il
simile (il calore cerca il calore e fugge il freddo); metafisica: corrispon-
denza, richiamo, attrazione verso enti soprannaturali (120.36-122.4; v. in-
fra § 2.3);
3) la luce: la virtù luminosa del Sole è la principale fonte energetica dei corpi
celesti, un impulso che li ricarica di energia dinamica.452

451
Anzitutto è Dio a dare al mondo “essentiam et situm et ordinem”, e così la Terra è sospesa
in mezzo al cielo, come il tuorlo nel bianco dell’uovo, tanto che se la si traforasse da parte a
parte e si gettasse nel foro diametrale un sasso, “cum venerit ad medium, quiescat et non
transibit ad aliam telluris partem, quoniam ascenderet a centro et non descenderet”, perché
ogni corpo tende all’“unitionem” (Quod rem. 4, p. 30-4). La sospensione della Terra nello spa-
zio è spiegata, secondo la fisica telesiana, “ab inimicitia caeli, quod undique refugit et coit in
globum” (Metaph. III XVI, XVI, III). De centro gravitatis solidorum se n’era da poco e a lungo oc-
cupato, da un punto di vista matematico, il Commandino, ma senza compiere alcun sostan-
ziale passo avanti rispetto alla teoria aristotelica dei luoghi naturali, com’è sintetizzata da Ma-
crobio: “‘La terra è immobile’: infatti è centro, e in ogni corpo sferico il punto centrale è fis-
so. Ed è necessario che sia così, perché è intorno a questo punto che si muove la sfera. ‘La
terra è in basso’: in una sfera la parte più lontana dalle estremità ne è anche la parte più bas-
sa; se dunque la terra è la sfera più bassa, ne segue che Cicerone fa, con ragione, gravitare
tutti gli altri corpi verso di lei, perché tutti i gravi tendono naturalmente a scendere. È a que-
sta proprietà dei gravi che il nostro globo deve la sua formazione” (Somnium I XXII); e in età
medievale SN VI VI così spiega ‘Qualiter terrae globus in medio aëris sit libratus’ e, nel VII, ri-
porta una lettera di Adelardo che proporrà proprio l’es. fatto poi da C.: ‘Quorsum iniectus
lapis erit casurus si perforatus sit ei terra globus’: “in medio vero loco quiescet”.
452
“A quo [= Sole] etiam per radiorum impetum moveri puto omnes, nedum illustrari” (Me-
dicina, p. 271); Apologia IV, p. 42 appoggia quest’ipotesi a Plinio, II IV, 4: il Sole “fa muovere i
pianeti lungo le loro orbite con la sua luce”; ma senz’altro tiene conto degli Arabi, come ave-
526 LA CITTÀ DEL SOLE

La composizione di queste forze dà origine a una meccanica celeste suffi-


cientemente semplificata (rispetto alle tipologie vieppiù complicatesi da Eu-
dosso a Copernico), che interessa tutti gli oggetti siderei – esclusa la Terra
ovviamente –, seppur in forme e aspetti diversi:
VELOCITÀ: è funzione
• per tutti i corpi: a) della massa termica (più è grande il corpo igneo più è
veloce); b) della distanza dalla Terra (più è distante più è veloce);
• per i soli pianeti: a) dell’angolo formato con il Sole (da 0° a 90° e da 270°
a 0° la massima vicinanza fornisce loro un impulso energetico); b) della di-
stanza dalle stelle fisse (più sono vicini ad esse, più rallentano).
NUMERO: la sfera celeste ha un movimento (forse due) di rotazione intorno al
suo asse; i corpi celesti contenutivi, oltre a partecipare del moto generale del-
l’intera macchina universale, possono avere due moti. In dettaglio:
a) il fluido etereo (il cielo in cui sono tuffati i corpi) gira secondo modalità
proprie a noi impercepibili, data l’esilità del mezzo;
b) le stelle fisse hanno due moti (si chiamano fisse, non perché immobili, ma
perché la loro orbita e velocità è costante, e quindi non varia la loro di-
stanza reciproca): intorno alla Terra da Est a Ovest ruotano di 360° in 24
ore; poi ruotano intorno al proprio asse, come denuncia il loro brillio (già
Macrobio, Somnium II XI: tutte le stelle “si muovono su se stesse, e questo
movimento è così lento” da esser quasi impercettibile);
c) “Le stelle erranti sono sette: Saturno, Giove, Marte, il Sole, Venere, Mercu-
rio e la Luna… I pianeti hanno due moti: uno con il primo mobile, da
oriente a occidente, l’altro da sud verso nord e al contrario nei tropici”
(Compendio X, 6 e 11): le sette stelle erranti o pianeti, che si trovano sotto
le stelle fisse, oltre al trascinamento subìto dal vorticare di quelle stelle, so-
no dotate di un moto di rivoluzione, avente la Terra come suo fuoco infe-
riore, gli apsidi (apogeo e perigeo) come suoi estremi; tali orbite sono si-
tuate su un piano obliquo rispetto all’equatore terrestre di circa 23°30’ per
rendere più efficace e omogeneo il loro lavorio di trasmutazione della ma-
teria terrestre in cielo; il tempo di rivoluzione è naturalmente anche fun-
zione della loro distanza dalla Terra, rispetto alla quale sono così collocati,
a partire dal più estremo: Saturno (30 anni), Giove (12), Marte (2), Sole
(circa 365 giorni), Venere (347), Mercurio (334), Luna (circa 27). E tutti i
pianeti ritornano al punto di partenza dopo 532 anni.453
Fanno eccezione:
SOLE: come e per le stesse ragioni delle stelle fisse (eccesso di calore che lo ren-

va fatto anche Ficino: “quando i pianeti guardano in faccia il Sole e la Luna, quasi rivolgen-
do a loro un saluto, nuovamente ottengono un rinnovato vigore, chiamato dagli Arabi ‘al-
mugea’” (Sole VIII, p. 989).
453
“Ex imagine mundi: Omnes autem planetae 532 annis circulos suos peragunt, et eosdem
ut prius repetunt” (SN XV XXV).
COMMENTO AL TESTO 527

de iperdinamico), è dotato di un moto di rotazione intorno al proprio asse,454


oltre che di rivoluzione intorno alla sola Terra.455
LUNA: ruota solo intorno alla Terra, cui presenta sempre la stessa faccia; essen-
do il corpo celeste più vicino alla Terra, è il più opaco (come provano le eclis-
si); e infine ha la Terra al centro e non ad un fuoco della sua orbita (v. § sg).456
2.3. Anomalie apparenti
Agli occhi degli osservatori terrestri i pianeti sembrano intrecciare nello spazio
delle strane danze prive di quella regolarità e armoniosità che ci si attendereb-
be dalla perfezione di siffatti corpi. Dalla Terra noi vediamo che l’intera volta
celeste ci ruota intorno in 24 ore (in 24 ore le stelle fisse percorrono 360° del-
l’equatore celeste, Saturno 359°28’ e via decrescendo fino ai 346°57’ della Lu-
na). Ma mentre il Sole in un anno percorre un’orbita quasi circolare nella fa-
scia zodiacale, gli altri pianeti percorrono delle orbite assai complesse: scattano
in avanti, rallentano e poi tornano indietro, con improvvise accelerazioni e de-
celerazioni, la cui risultante finale è comunque ciclica. Quel che per il model-
lo eliocentrico è la semplice composizione del moto orbitale dei pianeti con
quello terrestre, per il sistema tolemaico rappresentò uno dei capitoli più spi-
nosi e ardui della meccanica celeste: per poter dar conto di tutti i moti appa-
renti, fece fiorire figure geometriche tanto astruse quanto insoddisfacenti.457
C. avanza allora una teoria che semplifichi quella sontuosa efflorescenza di or-
bitali, deferenti, cicloidi ecc. che intersecavano lo spazio come onde di un lago
sotto la grandine, distinguendo anomalie apparenti planetarie e lunari:
• planetarie: il problema è risolto con la diversa velocità posseduta dai piane-
ti, secondo questo schema (i trattini sono i vettori di velocità orbitali geo-
centriche, raffrontate con la velocità costante di un giro in 24 ore delle stel-
le fisse [120.8-13]):

CIELO DELLE STELLE FISSE: Est ————- ***** Ovest


Pianeta STAZIONARIO: ” ————-— S ”
Pianeta RETROGRADO: ” ————————— R ”
Pianeta DIRETTO: ” ------- D ”

454
“Il Sole infatti si muove circolarmente su se stesso, come si evince dal movimento delle nu-
bi intorno ad esso” (Compendio X, 8; Apologia IV, p. 43).
455
“Il Sole girando intorno alla Terra produce il giorno; l’ombra della Terra causa la notte”
(Compendio XII, 2).
456
“Il mio conterraneo Timeo da Locri, discepolo di Pitagora, dimostrò matematicamente il
moto diurno della Terra; Filolao da Crotone quello annuo; Copernico vi ha aggiunto quello
di librazione (come ho mostrato nelle mie Quaest. phys.)” (Apologia V, p. 56); non ci si lasci in-
gannare: C. riferisce, senza condividerle, teorie geodinamiche, sull’onda evidentemente del-
la difesa d’ufficio della causa galileiana.
457
“Che nemmeno Tolomeo sia pervenuto alla verità, lo dimostrano i nuovi fenomeni, dei
quali non è possibile dare spiegazione mediante le sue asserzioni, né eliminare le discordan-
ze tra le apparenze celesti” (Apologia III, p. 19).
528 LA CITTÀ DEL SOLE

I moti dei pianeti non sono circolari uniformi per due ordini congruenti
di ragioni: a) posizione rispetto a Terra e Sole: in perigeo accelera e ac-
corcia l’orbita, schiacciandola molto per effettuare il transito presso il
corpo freddo il più rapidamente possibile (viceversa quand’è in prossi-
mità del Sole, da cui riceve un impulso luminoso corroborante); b) posi-
zione rispetto alle stelle fisse: quando si accosta ad esse (cioè è in apo-
geo), il pianeta rallenta per una misteriosa simpatia con la zona più alta,
e quindi più pura e nobile, del cielo; anzi è probabile che intrecci segrete
corrispondenze con enti soprannaturali (ricordiamo che le stelle, se non
sono mosse, sono però abitate dagli angeli [v. supra § 2.2. punto 2 e n.
118.16-21]).
• Lunari: la Luna si allontana dalla Terra nei diametri (0° e 180°), e si avvicina
nelle quadrature (90° e 270°); cioè, a differenza dei pianeti, la Luna è in
apogeo non solo quando è in congiunzione, ma anche quando è in opposi-
zione col Sole; questa peculiarità di innalzarsi anche alla massima distanza
dal Sole è dovuta a due cause: a) avendo poca luce propria, basta che ne sia
investita da un fascio diretto, per rimbalzare in su; b) la Luna è già troppo vi-
cina alla Terra, per potervisi accostare ulteriormente senza rischiare di esse-
re danneggiata dal gelo terrestre.
3. Modello cosmologico
La struttura del sistema dell’universo, fondato su corpi e leggi fisiche finora de-
scritte, è il seguente (v. fig. 10): questo schema si trova in una nota della Physiol.
(III V, p. 18), contenuto nello stesso tomo della Phil. realis dove si trova pure la
presente ed. di Civitas. Esso rappresenta due ipotesi cosmologiche come furo-
no descritte in Theol. III, p. 159; le due ipotesi non sono equivalenti, nel senso
che una delle due è accettata con riserva, subordinata alla prima e in attesa di
ulteriori riscontri (ed è ovviamente quella tratteggiata).
Il modello cosmologico principale è quello geoeliocentrico, o meglio geoelio-
statico, perché è bicentrato:
1° centro: Amore – il Sole intorno a cui girano i pianeti, tutti (comprese le stel-
le fisse) di natura ignea;
2° centro: Odio – la Terra: il sistema Sole+pianeti a sua volta le gira intorno per
distruggerla.
“Tutti i pianeti si muovono con il Sole intorno alla Terra centro dell’odio per
incendiare la Terra, e in questa guerra il Sole è condottiero. Nello stesso tempo
tutti i pianeti si muovono intorno al Sole, centro dell’amore, dal quale attingo-
no la virtù” (Compendio X, 6). Tale modello è identico a quello proposto da Ty-
cho:458

458
Tranne i satelliti: “gli astronomi assegnano quattro lune a Giove e due a Saturno, che ruo-
tano, come fanno Mercurio e Venere attorno al Sole” (Apologia IV, p. 41); quest’ultimo pun-
to era postulato anche dall’astronomia classica: “Mercurio e Venere ruotano attorno al Sole,
di cui sono satelliti assidui” (Macrobio, Somnium II IV).
COMMENTO AL TESTO 529

Fig. 10 - Il sistema cosmologico campanelliano (in: Phil. realis)


530 LA CITTÀ DEL SOLE

Fig. 11 - Il sistema cosmologico ticoniano (da Lerner 1992, fig. 13)


COMMENTO AL TESTO 531

“La teoria che faceva del Sole il centro dei movimenti circolari di Mercurio e di
Venere, risale a Eraclide Pontico (IV sec. a. Cr.)… Anche Macrobio (In somn.
Scip. I, 19) espone minutamente l’ipotesi di Eraclide, e da tali fonti platoniche
la teoria passò… a Guglielmo di Conches [= Thierry de Chartres]” (Garin
1946, p. 658), e a Pico, III IX, p. 236 (cfr P. Duhem, Système du monde III, p. 3).
L’obiezione più valida, all’epoca, contro questo modello è che la ‘nova’ di Cas-
siopea, sorta da vapori,459 e la natura montuosa della Luna (vista al telescopio)
dimostrano che l’universo è composto dai quattro elementi, come già sostene-
va Thierry de Chartres (in SN XV XVII: “Corpora stellarum ex quatuor elemen-
tis facta esse potest probari ratione”), e non dal solo fuoco (come riteneva Pla-
tone: “Platonis opinio est omne corpus… ignem esse a lunari circulo sursum”
[SN XV XIX]) o da un quinto elemento (come Aristotele e Albumasar sosten-
gono: “Stellae sunt ex natura corporis quinti, quia positae sunt in eo fixae” [SN
XV XVIII]), e che i pianeti non sono ignei; anzi, addirittura, le macchie fanno
pensare che neanche il Sole sia tutto purissimo fuoco; e poi il fatto che anche
altri pianeti siano dotati di satelliti, significa che esistono corpi celesti che non
hanno la Terra come loro centro: quattro lune a Giove e due a Saturno (Apolo-
gia IV, p. 41).
Il secondo modello è a un solo centro (eliocentrico), quello dell’Amore: tutti i
pianeti sono corpi misti, composti di elementi, come la Terra, i quali, attratti
dalla luce del Sole, gli girano intorno, come falene, finché non ne saranno di-
strutti. Per preservare la fisica telesiana, bisogna far intervenire la metafisica:
cioè se la dinamicità connaturata al fuoco si mantiene (fisicamente) attraverso
il moto circumassiale del Sole, per giustificare la mobilità, incompatibile con la
fredda Terra (e con i pianeti, se ritenuti anch’essi corpi elementati), bisogna ri-
correre a quegli angeli, di cui era stato precedentemente (Epilogo, p. 223) ne-
gato un intervento diretto: “se i pianeti sono fuoco, il calore produce il moto,
ma sono gli angeli governanti quelli che danno regola e senso al movimento.
Se poi i pianeti non sono ignei, sebbene siano mossi dal Sole, ma sistemi [= ag-
gregati dei quattro elementi], è però un angelo quello che dà regola e finalità

459
“La straordinaria importanza” della scoperta fatta da Tycho l’11 novembre 1572 della nuo-
va stella in Cassiopea “veniva dal fatto che era in contraddizione con la dottrina (di Aristote-
le, di Platone e del cristianesimo), la fondamentale dottrina secondo cui ogni cambiamento,
ogni generazione, ogni corruzione erano confinati nelle immediate vicinanze della Terra,
nel mondo sublunare, mentre lassù l’ottava sfera, quella delle stelle fisse, rimaneva immobi-
le fin dalla creazione… Ciò che distingue una stella da un pianeta, da una cometa o da una
meteora è il fatto che è fissa” e Tycho con i suoi formidabili strumenti dimostrò che lo era:
“L’Europa fu sconvolta dalle interpretazioni a un tempo cosmologiche e astrologiche dell’e-
vento”, e, nel tentativo di salvare l’immutabilità dell’ottavo cielo, si fece ricorso a svariate ipo-
tesi ‘ad hoc’: si trattava di una cometa priva di coda dotata di movimento lentissimo; era una
cometa formata dai vapori del peccato e illuminata dall’ira divina… “Tycho deplorò la cecità
di questi spettatori del cielo: ‘O coecos coeli spectatores…’ Cinque anni dopo, Tycho Brahe
dava il colpo di grazia alla cosmologia aristotelica dimostrando che la grande cometa del
1577 non era un fenomeno sublunare e che la sua distanza dalla Terra doveva essere ‘alme-
no sei volte’ quella della Luna” (Koestler, p. 285-7).
532 LA CITTÀ DEL SOLE

al loro moto. Anche la Terra, se si muove, ha un angelo per motore, e non il


freddo” (Theol. III V [= ‘Utrum caelestia corpora sint animata secundum Scrip-
turas’], p. 169 – anche Tycho assegnava la meccanica ‘gravitazionale’ alla prov-
videnza divina).
Senza entrare in problematiche complesse circa i guasti che le osservazioni ga-
lileiane arrecherebbero al suo sistema, le quali per la prospettiva qui adottata
sarebbero di dettaglio,460 quel che conta rilevare è:
1) che la questione principale è il rovesciamento della natura degli opposti ter-
mici: il fuoco per essenza mobile è concentrato nel Sole statico, e viceversa
la gelida Terra, per natura immobile, ruoterebbe; la ragione per cui deve ri-
correre a dei correttivi ‘ad hoc’ (il fuoco infernale nel suo centro o gli ange-
li origeniani o l’‘anima mundi’ [v. n. 132.35-134.3]), anziché abbracciare la
teoria copernicana ‘sic et simpliciter’, è molto semplice: il modello geostati-
co adottato è un modello forte, supportato com’è da una fisica (telesiana)
coerente e, ancor più e meglio, dalla teologia (su base biblica: Ec. 1, 4-5; Is.
38, 8; Ps. 92, 1 e 103, 5).461 Infatti il rimprovero mosso dai Solari alle due
principali scuole cosmologiche rivali (114.17sg) è di esser delle ipotesi ma-
tematiche meramente descrittive, ma il cui impianto strutturale è privo di
una giustificazione naturale. Ed in effetti l’eliocentrismo elaborerà una teo-
ria fisica (l’attrazione gravitazionale) solo quando quella benedetta mela ca-
drà in testa a Newton. In secondo luogo C. pensò di poter limitare i danni
con due facili aggiustamenti: spostare il centro (dall’Odio all’Amore) e ri-
scrivere soltanto la cosmogenesi, cioè la fisica celeste, lasciando invariata
quella che in fondo più gli premeva, cioè la ‘fisiologia’ terrestre (ovvero ‘So-
le padre e Terra madre’): dopo la grande conflagrazione iniziale, la materia,
anziché essersi scissa in due sostanze separate, è ‘esplosa’ in tutto il volume
della sfera (se non addirittura creando la sfera), formando da un lato gli ag-
gregati misti stellari e planetari, e dall’altro una concentrazione di calore
nel Sole, unico motore dell’universo.
2) In Civitas vi è un’aggiunta a 122.17: i Solari sono incerti “an Sol sit centrum
inferioris mundi et an fixae sint aliorum centra planetarum et an planetae
aliis lunis, sicut tellus nostra, ambiantur”. Questa ‘incertezza’ è figlia delle
speculazioni galileiane, come si evince da un passo analogo di Apologia: “Ga-

460
Vi ha dedicato un intero paragr. Quaest. phys. X IV dall’eloquente titolo: ‘Utrum posito et
non concesso, sicut novus Sacer Index movet, quod verae sint conclusiones Pythagoricorum,
et quas tandem Copernicus, et Galilaeus ex suis observationibus tradiderunt: permaneat
adhuc nostra philosophia, an corrigenda, et in quibus et qua ratione’.
461
L’elenco e commento di essi in Apologia I e II. “Il 24 febbraio 1616 i consultori del Sant’Uf-
fizio con voto unanime, dichiararono che la tesi dell’immobilità del Sole al centro delle or-
bite planetarie era ‘assurda e falsa in filosofia e formalmente eretica’, in quanto contrastava
espressamente col senso letterale di molti passi della Scrittura; la tesi complementare, che la
Terra giri sul proprio asse e attorno al Sole, fu giudicata altrettanto” eretica (Firpo 1968, p.
18; cfr Paolo Ponzio, Copernicanesimo e teologia. Scrittura e natura in C., Galilei e Foscarini, Bari,
Levante, 1998).
COMMENTO AL TESTO 533

lileo… per mirabilia instrumenta stellas, olim occultas, nunc manifestat, do-
cetque, planetas persimiles lunae esse, & accipere a suo sole lucem, & alios
rotari circa alios, & in coelo mutationes elementorum fieri, & vapores ac nu-
bes in stellarum ambitu, multaque systemata inveniri”, e non c’è alcun cano-
ne della Chiesa – prosegue – che neghi l’esistenza di altri mondi (p. 50). Si
pongono due questioni: a) una relativa all’eliocentrismo: non necessaria-
mente il fatto che il Sole sia il centro della regione ‘inferiore’ (rispetto a
quella ‘superiore’ delle stelle fisse), implica che esso debba essere anche im-
mobile: basta ricorrere ad un modello geoeliostatico (alla Tycho Brahe); e
che il Sole si muova spiraliformemente (frutto della combinazione di due
moti, uno verticale verso e uno circolare intorno alla Terra), lo aveva detto a
T.114.6-7 (il Sole “facendo più stretti circoli”) e replicato a 114.7 (“pera-
grando circulos angustiores”); b) l’altra questione riguarda la ‘misura’ del-
l’universo: l’aggiunta di 122.17sg dice chiaramente che gli eventuali altri si-
stemi planetari sono interni alla sfera cosmica (perché avrebbero per centro
una delle stelle fisse); ma poco oltre i Solari manifestano un altro dubbio:
“se ci siano altri mondi fuor di questo, ma stimano pazzia il dire che non ci
sia niente, perché il niente né dentro né fuori del mondo è” (T.124.37-42,
tradotto quasi alla lettera a 124.28-31); se per “mondi” si intende ‘cosmi’
esterni alla sfera delimitata dalle stelle fisse, questo passo sarebbe in con-
traddizione con la sua teoria che l’universo è appunto unico e finito (per C.
non esistono né universi paralleli, né un universo infinito e immenso, né fi-
nito e immerso nel nulla);462 ‘uni-verso’, dunque, tutt’al più suddivisibile in
regioni: “Io invero mi accordo col Crisostomo che dice esservi un unico cie-
lo: poiché infatti tutto il cielo risulta di materia tenue, diremo che esistono
non più cieli, ma più regioni di un unico cielo, cominciando dalla sfera stel-
lata fino a noi” (Theol. III VII, II). Invece se per ‘mondi’ si intende sistemi pla-
netari, saremmo in presenza di una ripetizione con quanto già dichiarato a
p. 122, sfuggita, o più probabilmente lasciata apposta per escludere appun-
to anche l’ipotesi di una sfera immersa nel nulla.
In conclusione: I) ‘mondo’ sta per sistema planetario formato ognuno da
una delle stelle fisse, interna dunque all’unica sfera celeste esistente, con an-
nesso corredo di pianeti e satelliti; II) la questione di altri ‘sistemi elementa-
ti’, cioè relativa all’esistenza di pianeti composti dai quattro elementi anzi-
ché di solo fuoco etereo, fu resa possibile e attuale dal fatto che l’universo
galileiano può esser finito e a-centrato insieme, e quindi può essere esporta-
to, come microstrutturalmente dimostrano i Medicei, anche in altre regioni
dello spazio: se intorno al Sole gravitano dei pianeti, e intorno ad essi dei sa-
telliti, e se le stelle fisse sono dei Soli, allora anch’esse potrebbero avere un

462
Metaph. (III e XI XVIII [v. n. 118.16-21]) esclude che vi siano altri mondi fuori del nostro.
Questa suggestione bruniana (Cena delle ceneri, p. 110-1), tuttavia, sembra esser stata accolta
altrove da C. – ad es. in Physiol. VII VII, o in Compendio X, 3: “Nec propterea mundus est fini-
tus, quoniam possunt alia systemata esse extra gyrum coeli nostri”.
534 LA CITTÀ DEL SOLE

loro sistema planetario; a tale questione, dunque, C. dà una risposta affer-


mativa, non solo per influsso della dottrina pitagorica,463 ma anche per l’ap-
parizione di nuove stelle, ed essenzialmente per il loro diverso colore, indi-
zio della loro natura ‘elementare’; e dunque chi cercava nuovi Soli scopre
l’esistenza di altre Terre.
A detta di C., lui e Tycho sono arrivati agli stessi risultati parallelamente, ma
indipendentemente, avendo potuto leggerne l’opera solo “postquam Me-
taph. scripsimus, et compendium Physiol.” (Quaest. phys. II II, p. 7). Poiché
l’inserzione nel corpo del testo di T.120.21 (“scriverò altrove meglio”), può
alludere al fatto che stesse attendendo a studi astronomici, è probabile, da
quel che si può dedurre dall’astronomia dei Solari (ad es. la soluzione delle
anomalie orbitali apparenti), che effettivamente egli avesse elaborato un
modello geoeliocentrico, anche se ancora non aveva messo mano all’Astro-
nomia. Dopo il primo trimestre del 1611, in seguito alla lettura delle opere di
Galileo e Tycho, deve aver cominciato a riflettere su possibili soluzioni di
compromesso (non sappiamo, a causa della lacuna di L., se e quali riflessi
ebbero sull’ultima red. di Città - probabilmente nessuno); il doppio modello
infatti appare in Theol. III [1614] e, in forma interrogativa, in Civitas di Fr.
(tradotta all’incirca in quello stesso periodo). Il periodo fra l’11 e il ‘16 è
certamente quello di massima approssimazione, se non proprio adesione, al
galileismo, culminato con Apologia: “credo che difficilmente oggi si possano
confutare tutti gli argomenti avanzati in favore di Galileo”, come quello del-
la natura elementare e non ignea del cielo; “ma dopo le osservazioni di Ty-
cho e Galileo… mi viene il sospetto che non tutti gli astri siano di fuoco…
Le stelle che ruotano attorno a Giove e a Saturno non permettono forse di
dire che c’è un unico centro di attrazione, il Sole, e uno unico di repulsione,
cioè la Terra. Di contro i colori delle stelle fisse, assai simili a quelli degli al-
tri pianeti, rendono poco plausibile l’opinione di Galileo e di altri riguardo
alla molteplicità dei soli. Perciò sospendo il giudizio e mi limito a risponde-
re agli argomenti in favore di Galileo, pronto a sottostare alle decisioni della
Chiesa e al giudizio di chi più ne sa” (V, 54; nella prima lettera a Galilei “rie-
mergono le tesi sulle quali” Bruno si era impuntato: “la pluralità dei mondi,
l’universo infinito, l’anima mundi” [Firpo 1968, p. 12]). Non è da escludere
che una ‘riserva’ eliocentristica sia potuta permanere ben al di là di Apologia,
come dimostrerebbe, ad es., questa frase del 1623: per la misurazione del
tempo ci riferiamo naturalmente al Sole “poiché il Sole è il primo dei pia-
neti e tutti gli altri girano attorno ad esso” (Theol. XXV, p. 33). Ma quando le
tesi galileiane saranno definitivamente condannate, C., in un ‘Postfactum’
alla Quaest. phys. X IV su cit., scriverà: “Cinque anni dopo aver scritto questo

463
“Pythagoras… posuit singulas stellas esse systemata, composita ex terra, aqua et aëre et cir-
culo nebuloso, ex quibus lux solis reflexa facit eas videri lucentes… Hanc philosophiam auxit
Philolaus Crotoniata”, mentre Copernico, pur seguendo l’eliocentrismo, “de his tacet” (Quod
rem. 4, p. 42).
COMMENTO AL TESTO 535

paragrafo, ho udito che a Roma, otto giorni prima che pervenisse al cardinal
Bonifacio Caetani la mia disputa su questa materia [= Apologia], è stata con-
dannata la teoria del moto quotidiano della Terra perché contrario alle Sa-
cre Scritture. Dunque è stata accettata la nostra Fisica [= “Physiologiam”] e
non quella copernicana, né quella bruniana, e io mi attengo al dettato dei
Padri, come ho scritto altre volte prima, nec mutor” (p. 106). Cinque anni
dopo il 1616, Galilei irrimediabilmente compromesso, lui ‘non cambia’ opi-
nione, il che starebbe a dire che ritorna alla posizione geoeliostatica origi-
naria in accordo totale con Telesio e i “Padri”: “Il Sole girando intorno alla
Terra produce il giorno; l’ombra della Terra causa la notte” (Compendio XII,
2). In realtà quel quasi invisibile tratteggio dello schema della fig. 10 lascia
intendere che, ancora all’epoca della Civitas parigina, il modello alternativo
è rimasto comunque su uno sfondo ipotetico (tralasciando il non lieve peso
censorio, dopo l’abiura del ‘33), per cui si potrebbe ipotizzare una dissimu-
lazione per forza maggiore (v. n. 122.17-22). I Solari della ‘seconda genera-
zione’, continuano così a restare in bilico fra un modello a linea continua ed
uno a linea tratteggiata, fra Tycho e Galileo: “Quando una proposizione ti
apparirà impossibile, ad es., che il Sole stia fermo al centro e la Terra ruoti,
non volerla subito ritenere e diffondere come impossibile; ma trattieni il tuo
consenso, finché, ricercate da ogni parte le cause, avrai scoperto la verità”
(Syntagma II II), appunto.464
3) In effetti tutte queste ‘querelles’ sulla natura dell’Universo sono tanto capi-
tali quanto inutili. L’impianto astronomico, come si è già potuto constatare
dai cenni sparsi, è variamente legato attraverso mille fili al soprannaturale:
astri abitati (Senso, p. 173) o mossi da Spiriti, specie se questi astri non sono
ignei, la recondita regia delle tre Influenze Magne, la ‘simpatia’ con enti ce-
lestiali, ecc. Se a tutto ciò si somma quanto si diceva inizialmente circa il co-
smo come Libro di cui il Creatore, privilegiatamente ed espressamente (Mt.
24, 29), si serve per dialogare con le Sue creature, allora emergerà chiara la
strumentalità delle teorie cosmologiche. Non bisogna leggere il Libro del
Mondo per tentare di ricavarne la grammatica (vana arroganza!), ma solo
per capirlo, cioè per interpretare correttamente dai segni celesti la volontà
del Creatore – o meglio Crematore prossimo venturo.465 Il resto sono vuoti
ghirigori di orbitali ed emicicli, grotteschi arabeschi. “Il cielo non si muove
secondo le nostre misure, sempre falsificate, ma secondo quelle della divina
provvidenza… sed in Dei mensura occulta, et per revelationem discenda”

464
Cfr per ‘Astrologia e profezia in C. e Galilei’, Ernst 1991, p. 237-54; per i modelli cosmo-
logici tardocinquecenteschi, Lerner 1992, che riporta gli originali schemi aristotelico-tole-
maici (di Apianus), di Copernico, Keplero e Tycho (per quest’ultimo v. fig. 11).
465
Geremia si lamenta che la tortora, la rondine, la cicogna sanno quand’è giunto il loro
tempo, e invece “populus meus non cognovit iudicium Domini”; perciò bisogna imparare a
leggere nelle profetiche stelle, lettere divine, non solo gli eventi naturali, ma anche “iudi-
cium Domini”; dobbiamo quindi abbracciare l’astronomia/-logia come la scala per la profe-
zia (Astrol., p. 213).
536 LA CITTÀ DEL SOLE

(Astrol., p. 55). È vero che Dio ha creato il mondo in numero, peso e misura;
certo non con un colpo di dadi, ma neppure con quelle presunte leggi ma-
tematiche umane – solo Lui conosce le vere regole e finalità del suo Grande
Gioco. Allora la funzione prioritaria dell’astronomia consiste nell’imparare
a leggere l’orologio cosmico, onde pre-determinare l’ora in cui si arresterà,
come Cristo, da ultimo, ha chiaramente detto: “Vi saranno dei segni nel So-
le, nella Luna e nelle stelle” (Lc. 22, 25). Invece oggi tutti, ‘stoltamente’ (co-
me le vergini evangeliche), si ostinano ad ignorare, o peggio, come i peripa-
tetici e i machiavellisti, a irridere chi vuol smascherare “la tacita congiura di
scienziati nel nostro secolo fatta ad oscurar la verità evangelica” (Lettere, p.
218; Apologia III, p. 17), come quel Copernico, che sta a baloccarsi con le sue
fave e favolette, facendo i conti senza l’Oste, cioè senz’esser capace di ad-
durre uno straccio di prova reale per quelle irregolarità orbitali da poco in-
sorte, dicendo che sono sempre esistite o trovando fittizie spiegazioni ad
hoc; o come quel Galilei che sostiene, seppur dubitativamente, che il Sole è
ingrossato “mangiando vapori” (Lettere, p. 219; Theol. XXV, p. 175), ma come
dimostrato nell’Astronomia, “quod promittunt ex fictis causis eliciunt”, per
cui “bene prophetavit Apostolus, quod dies Domini superveniet his tam-
quam fur” (Art. proph., p. 71).466 L’astronomia, le nuove scoperte e osserva-
zioni, da Copernico a Tycho, da Cardano a Galilei, vengono sussunte e as-
servite al suo più vasto disegno profetico: comparare i loro dati con quelli
degli antichi, non per saggiare le ipotesi cosmologiche, ma per dedurre
eventuali anomalie che indichino il destino del mondo e quindi i disegni di-
vini. Questi scienziati hanno avuto il merito di farci vedere cieli nuovi e ter-
re nuove, ma hanno creduto di poter rivoluzionare il mondo, mentre invece
è il nostro modo di vivere, individuale e sociale, che bisogna radicalmente
rinnovare, perché quelli sono segnali forieri dell’approssimarsi del Giorno
del Giudizio. E di contro gli astronomi hanno avuto il demerito di coalizzar-
si con i peripatetici (ma è un’altra astuzia della Provvidenza, che in tal modo
vuole “che si verifichi la profezia che ‘il giorno del Signore arriverà come un
ladro’”), e “per spiegare le esorbitanze fuori delle profezie, essi adducono le
non-cause come cause, cioè nuovi circelli, nuove sfere, il moto della Terra,
un superfluo accrescimento del Sole ad opera dei vapori [palese l’allusione
a Galileo], e molte altre teorie che sono sfatate da loro stessi. Altri [= Coper-
nico] dicono che il Sole tornerà al suo luogo dopo 1717 anni, e che in un
numero doppio di anni ritorneranno l’obliquità e gli equinozi: ma l’espe-
rienza insegna invece il contrario giacché si trova che il Sole ebbe sempre un
moto di discesa verso la Terra. E non perché Copernico immagina il circello
dell’eccentrotete, si verificherà davvero la reversione. Perciò nei nostri libri

466
Capitale, e chiarificatrice anche delle vere intenzioni del capitolo astronomico di CS, resta
la lettera a Urbano VIII appena menzionata, e di cui completiamo la citaz.: Dio “per mante-
nerci in vigilanza sopra i suoi giudìci, sovente muta i movimenti e sito de corpi lucenti, come
appar dall’anomalie scritte da tutti gli astronomi”.
COMMENTO AL TESTO 537

di Astronomia abbiamo confutato i loro argomenti fallaci, mostrando che es-


si da una proposizione particolare e accidentale [allude ad un’unica osser-
vazione, ed anche dubbia, di Copernico circa l’arretramento del Sole] rica-
vano una proposizione universale e necessaria e credono di poter dare le
cause vere dei fenomeni naturali muovendo da ipotesi immaginarie con pe-
tizioni di principi non mai provati” (Theol. XXV, p. 185-7). “Gli astronomi os-
servano nel cielo i fenomeni ordinari, non quelli straordinari, e confondo-
no gli straordinari con gli ordinari, e vogliono argomentare intorno al so-
prannaturale dei fenomeni ordinari, perciò si ingannano, prendendo per
cause le non cause e per segni i non segni; e anche quando prendono i segni
come segni, non li interpretano secondo il loro significato” (Theol. XIX, p.
139). Quod rem. 4, p. 133-5: nell’Astronomia “scripsi contra astrologos assi-
gnantes non causas pro causis et addentes iterum cum Copernico libratio-
nes et novos epyciclos praeter illos, quas et quos Thebith Babylonius et rex
Alphonsus Hispanus posuerunt, non advertentes haec esse Dei signa et
symptomata et aegritudines mortis mundi per ignem”, segnali apparsi intor-
no all’avvento di Cristo, e registrati da Ipparco, “qui primam fixarum retro-
cessionem notavit… Manifestum est quod caeli non nostra mensura et natu-
rae semper eiusdem numeris, sed Dei arbitrio, prout opus est ad rerum gu-
bernatum, moventur”: i moti astrali, per C., “non avvengono secondo leggi
matematiche, ma sono, momento per momento, effetto del divino arbitrio,
che li varia irregolarmente, per significare agli uomini vigilanti i suoi dise-
gni” – annota opportunamente Amerio.
In definitiva C. è molto più interessato alla e preoccupato dalla scoperta di una
nuova stella in Cassiopea, che da quella delle macchie solari o dei satelliti Me-
dicei. Infatti tutti i segnali della prossima combustione terrestre stanno a signi-
ficare che, mancando poco alla fine del mondo, sta per esser di nuovo instau-
rata l’età dell’oro, quella cioè che i Solari hanno già quasi realizzato nella loro
Città. E dunque l’Astronomia è solo una ‘ancilla prophetiae’, riservata solo “a
chi vigila sopra li giudìci divini” (Lettere, p. 225), come colui che si firma con l’i-
deogramma di una piccola campana, sempre vigile e pronta a squillare il ritor-
no del Signore (v. n. 116.7-11).

114.1-5: Tempora… istud.


Il motivo di questa complessa macchina calendariale non lo si coglie ricor-
rendo solo a suggestioni passate 467 o prossime, 468 o spazialmente lonta-

467
Damasceno, Orth. fidei II, 205A ricordava il calendario ebraico con il mese intercalare:
l’anno lunare è di 354 giorni, per cui ogni tre anni solari debbono introdurre un 13° mese;
Pletone proponeva lo stesso computo del tempo: “Si seguirà per i mesi e per gli anni l’ordine
indicato dalla natura, cioè si faranno i mesi lunari e gli anni solari” (p. 59).
468
Gregorio XIII aveva riformato nel 1582, cioè appena vent’anni prima, il calendario giulia-
no, intercalando “dieci giornate all’anno civile, per accordarlo con la retrocessione dell’an-
no astronomico” (Disc. Cometa, p. 70); ed anch’essa è altra testimonianza che l’universo non
è immobile, e quindi eterno (Lettere1, p. 58).
538 LA CITTÀ DEL SOLE

ne,469 o addirittura utopiche: anche gli Utopiani, pregregoriani, lo aveva-


no adottato (More, 248). La riforma calendariale dei Solari, come per
ogni ‘visione del mondo’ assolutamente radicale, che cioè vuol cambiare
l’uomo a partire dalle sue coordinate spazio-temporali, si basa su una ‘vi-
sione del cosmo’ originale, che ha conseguenze sul piano sia socio-religio-
so che tecnico-scientifico. Secondo C., infatti, il Sole si sta avvicinando alla
Terra, e quindi la sua orbita non è circolare, ma spiraliforme (v. n. prec. e
n. 114.5-6); in secondo luogo, l’intera sfera celeste si sta ‘scardinando’
(156.11), creando generale scompiglio nel moto celeste. Questo accavallar-
si di anomalie ha richiesto 470 e richiederà che anche il calendario reale
“sarà spesso bisogno reformarlo” (Lettere, p. 220 a Urbano VIII [v. n. prec. e
n. 122.17-22]). Dunque: la variabilità delle rivoluzioni del Sole, sia in senso
spaziale (orbite sempre più strette) che temporale (la velocità di avvita-
mento non è costante), impone un altro parametro di riferimento, il quale
non può che esser planetario (essendo le stelle [ritenute] fisse), e precisa-
mente di quel ‘pianeta’ a noi più prossimo e più agevolmente osservabile:
la Luna. Ad es. la latitudine si misura più facilmente con i pianeti che con il
Sole, perché “qualunque sia il modo in cui il Sole interseca l’equatore [ce-
leste], così i pianeti intersecano l’orbita solare” (Astrol., p. 29).
Ma ben altra rilevanza hanno per il mondo queste anomalie celesti, perciò C.
resterà molto deluso che nel Dialogo galileiano “non si trattano cose da me de-
sideratissime: com’è l’anomalie dell’obliquità ed eccentricità… e molte altre
cose ch’io stimo inarrivabili mentre Vostra Signoria le tace” (Lettere, p. 240): es-
se sono segnali che l’orologio cosmico sta diventando una bomba a orologeria
che fra breve esploderà. Perciò i Solari “notant” attentamente gli scostamenti
fra anno tropico e sidereo: non solo e tanto per ragioni di calendario, ma per
ben più pressanti prospezioni sulla fine del mondo, che avverrà quando quella
palla di fuoco che per ora ci illumina, cadendo sulla terra, ci incinerirà (per le
anomalie v. n. sg, n. 114 [glossa] § 2.3, n. 114.17-8, n. 117.3 [f.p.], n. 131.3
[f.p.], n. 156.6-158.5, n. 156.10-1, n. 156.13-158.5, n. 160.1-2 § 1).

114.5-6: Opinantur… appropinquare:


“Contra ptolemaici e coperniciani ed altri astronomi e fisiologi e macchiavelli-
sti”, i quali, “consentendo a quel che dice Aristotele nel primo De coelo” sull’e-
ternità, immutabilità e incorruttibilità del mondo, con le loro ridicole teorie
sulle anomalie celesti,471 cospirano contro le profezie antiche (es. Crisostomo,

469
Maffei decanta il calendario lunare dei Cinesi (I, p. 371); Celio ricorda che gli Indiani “lu-
nae cursu tempora metiuntur” (XVIII XXXI, p. 716).
470
“Come avvenne a Roma sotto Giunio Bruto e Giulio Cesare, e più tardi sotto il Papa Gre-
gorio XIII” (Theol. XXV, p. 59).
471
Ad es. l’ingrandimento del disco solare dipende dal suo avvicinamento alla Terra, “e non
perché il sole ingrossò mangiando vapori, secondo dubitosamente pensa il Galileo”; o gli ag-
giustamenti ‘ad hoc’ quali l’eliocentrismo o “l’ecentrici ed epicicli” (T.118.20).
COMMENTO AL TESTO 539

Sermone: “ti ricordi spesso di quel giorno ultimo, nel quale i cieli saran distrutti
dal fuoco…”) e moderne sulla prossima apocalisse ignea; contro costoro, dun-
que, e i danni sociali che arrecano (ateismo, tirannia ecc.), “il cane fidelissimo
contra tutte mali bestie mal conosciuto” lancia a Urbano VIII un monito e una
campanella d’allarme (disegnata a mo’ di firma [v. n. 116.7-11]), scrivendogli
che “la tacita congiura di scienziati del nostro secolo fatta ad oscurar la verità
evangelica” è stata da lui smascherata in un trattatello posto in appendice alla
sua Astronomia [1604], il De symptomatis mundi per ignem perituri (o interituri [Let-
tere, p. 219]), anch’esso andato perduto (Firpo 1940, p. 184; C. ne accenna
spesso: es. Art. proph., pp. 46 e 54).
La ‘fine del mondo’ (116.10) avverrà dunque per fuoco, come ribadisce 134.24
e implicitamente 156.7-11 (v. n. 156.6-158.5), e questo segnerà la fine della
contesa originaria fra Caldo e Freddo (sono i principi della fisica telesiana), in
quanto il moto spiraliforme di Sole e pianeti ha la Terra come suo centro e ber-
saglio, avvicinandosi in media di 1/6 di secondo di grado all’anno (però “que-
sta discesa farsi irregularmente” [Disc. Cometa, p. 69]); e perciò la fascia inter-
tropicale si restringe, mutano le eclissi, equinozi e solstizi sono anticipati di cin-
quanta secondi all’anno e gli apogei dei pianeti cambiano di posto (Physiol. III
V, p. 14), arretrando di “quasi trentasei gradi” (Lettere [1628], p. 219).472 La ne-
cessità di continuare a indagare sulla data fatidica della “fin delle cose”
(T.116.13) dipende, oltre che dall’incertezza sull’età del mondo, anche dalla
variabilità delle anomalie, parametri indispensabili per dedurre il tempo resi-
duo dell’Universo: ad es., il C. del 1599 calcolava che “dai tempi di Tolomeo ai
nostri il Sole si è avvicinato di circa settantamila stadi” alla Terra (Supplizio, p.
87); mentre in Metaph. XI III, II dice che dalla venuta di Cristo fino a noi la di-
stanza si è ridotta “11.000 milliaribus” (= miglia); invece altrove parla quasi
sempre di 110.000 miglia,473 per una media, che non è affatto costante, di “10
terzi di grado” all’anno (Physiol. III V, p. 14 – un grado è 60x60x60 = 216.000
terzi). Al di là delle misure, occorre ribadire che questo ‘dato’, prima che astro-
nomico, voleva esser profetico, e che probabilmente gli fu comunicato da
Francesco Pucci nelle galere romane: secondo Pucci fra i segnali sibillini del
compimento delle profezie vi è anche il fatto che “il sole si avvicina alla terra”
(Cantimori 1949, p. 381). “Questa interpretazione apocalittica è comune agli
intellettuali di tutta Europa, compresi gli scienziati. L’umanista e giurista olan-
dese Ugo Grozio crede di aver trovato la giustificazione scientifica del progres-
sivo e inesorabile avvicinarsi della Terra al Sole; partendo proprio dalle teorie
copernicane ricorda infatti che «il mondo non è più sorretto da quelle forze

472
Per tali anomalie cosmiche e annesse note di rinvio v. nn. preced.
473
Disc. univ. V (p. 1127) e XXIII (p. 1161): “più che centomila miglia”; ma da Mon. Sp., p. 20
a Lettere, pp. 23 e 219, da Lettere1, p. 122 a Disc. Cometa, p. 69 (“cento e diece mila migliaia”),
da Art. proph., p. 67-8 a Quod rem. 3, p. 84, fino all’ultima opera, l’‘Ecloga’ (169, 9): “myria-
dem undecimam millenorum (aspice!) passuum”, cioè: 10.000x11.000=110.000.000 passi, ov-
vero 110.000 miglia, non “undicimila”, come traducono Firpo e Giancotti.
540 LA CITTÀ DEL SOLE

che lo avevano sostenuto prima» e che «il suo tramonto è atteso dalla prova
delle cose che vanno declinando». Si tratta di previsioni della durata del mon-
do elaborate dai maghi caldei e che Callistene, impegnato nella spedizione in
Oriente di Alessandro Magno, aveva trasmesso al suocero Aristotele: da lui poi
erano entrate nella grande tradizione culturale occidentale riprese da Ovidio e
Lucano” (Formichetti 1999, p. 55).

114.16-7: Qua… astronomiam.


C. prometteva al cardinale Farnese di “componer l’astronomia di nuovo, ché
tutto il cielo è mutato di Cristo in qua, e figurar nelle ignote stelle del mondo
novo gli eroi della conquista… e scoprir la mortalità del mondo per fuoco, con-
tro Aristotele, Tolomeo, Copernico, in favor del Vangelo; e migliorar il calenda-
rio” (Lettere, p. 27-8; per le “stelle del mondo novo” v. 156.1 e n. 154.28-156.5);
sta alludendo ai “quattro libri di Astronomia nova” (Lettere, p. 220), dove “no-
vum systema construximus et recentiorum phoenomenum rationes reddidi-
mus, e uno descensu Solis incessabili, sed irregulari, ad Telluris (quae est cen-
trum odii, sicut Sol est centrum amoris) combustionem” (Syntagma I III). Ma è
principalmente da Galilei che si aspetta novità decisive e definitive, esortandolo
reiteratamente a ‘fondare una nuova astronomia’: “rogo ut… astronomiam no-
vam ita cudas ut nemo meliorem possit conficere” (Lettere, p. 164).474 Della ‘nuo-
va astronomia’ Solare (replicato a 154.29) abbiamo un saggio proprio nella teo-
ria delle anomalie planetarie reali (v. n. 117.3 [f.p.]) e apparenti (118.22-
122.4),475 che lascia salvo l’impianto generale geocentrico.476 Firpo 1968 riassu-
me chiaramente e correttamente l’ipotesi cosmologica campan., dopo il rivolu-
zionario Nuncius galileiano: “la rivoluzione copernicana sconvolge l’assetto” te-
lesiano della natura; “C. ne sentì l’incompatibilità profonda e, nell’intimo, non
si convertì mai alla nuova astronomia, anche se in questa epistola del 1611 [Let-
tere, p. 163], sotto l’impressione vivissima del Nunzio sidereo, la sua adesione sem-
bra spontanea e la filosofia telesiana gli appare non compromessa: basta, egli di-
ce, rovesciare l’ipotesi, collocando al centro, nel Sole, il principio del caldo, e al-
l’esterno l’orbita della gelida Terra, assegnando così al Sole e al suo vitale calo-
re anche la funzione di motore delle orbite planetarie” (p. 13).477

474
E inoltre Apologia II, 3; Gentilismo 21, 2; Disc. univ. IX e XI.
475
È significativo, del resto, che la perduta Astronomia fosse inserita in un elenco del 1609 col
titolo De motibus astrorum libri 4 contra physiologos et astronomos (Lettere, p. 162).
476
E non il copernicano, come, ad es., sembrava al Magini, riportato e condiviso da Ernst
(1977, p. XXXIX; 2002, p. 80), basandosi su un’affermazione di Art. proph., p. 264 – “Coper-
nicum super omnes acceptissimum pronunciavi” –, che riguarda solo il computo dell’età del
mondo; per un C. inclinante “apertamente alle idee copernicane”, si pronuncia anche Vaso-
li, p. 347-50, che nelle pp. preced. ha ricostruito i rapporti fra Copernico e la cultura italiana
coeva.
477
Neppure quando scrisse l’Apologia, qualche anno dopo, si batteva per l’eliocentrismo – in-
fatti a p. 29 scriveva che la Terra “nunc pensilis apparet in medio mundi” (cfr però Lerner
2001, p. 234) –, ma si batteva “in ultima analisi, per la libertà di ragione” (ib., p. 19).
COMMENTO AL TESTO 541

114.17-8: Laudant… Copernicum,


“Circa coelestia bene Ptolemaeus numerat mensuratque, sed clarior acutior-
que Copernicus” (Syntagma IV VI). L’avversione alle due teorie cosmologiche
rivali, espressa nella perduta Astronomia (“in nova Astronomia declaravimus
contra Ptolomaeum et Copernicum” [Art. proph., p. 281]) consiste, sostanzial-
mente, per dirla con Firpo 1968, nel fatto che “egli rifiuta di studiare il mondo
come un puro meccanismo, senza riconoscervi – indecifrato, ma eloquente –
un disegno di Dio” (p. 14 - ad es. l’avvicinamento del Sole alla Terra, che nes-
suno dei due scienziati aveva preso in considerazione); e come bastano a pro-
varlo queste poche righe di Theol. XXV: “il moto dei corpi celesti dura per vo-
lontà di Dio, al quale tutto il creato è soggetto, come canta Davide, e che non
si può assegnare al mondo una durata determinata, come pretendono fare gli
astronomi e fisici; e che non tutte le anomalie possono essere notate perché
Dio vuole che noi stiamo incessantemente attenti ai suoi giudizi e non ci affi-
diamo alle tavole [= tabulis] di Ipparco o di Tolomeo… o di Copernico, ma ci
fondiamo soltanto sulle rivelazioni divine e la sua storia sacra” (p. 59).
A grandi linee l’impianto cosmologico della ‘nuova astronomia’ è simile a
quello ticoniano, cioè è geo-eliocentrico; così si salverebbero insieme, secondo
C., apparenze fenomeniche e “veritatem evangelicam” (Physiol. III V, p. 15, gl.
Z). Ma lui stesso è il primo a titubare, di fronte all’incalzare delle scoperte gali-
leiane: non sono certe “le spiegazioni dei fenomeni celesti che Tolomeo ricava
dagli epicicli e dagli eccentrici o quelle che Filolao e Copernico traggono dal
moto della terra, o quelle che noi svolgiamo ponendo un duplice centro di
amore e di odio” (Theol. II, p. 19).

114.18: Aristarchum ac Philolaum


I due astronomi sono menzionati insieme già da Vitruvio, quali esempi di “uo-
mini di tanto ingegno… come furono un tempo Aristarco di Samo, Filolao e
Archita Tarantini” (I I, 17). Il curatore di Ocellus, T. Gale, in una Epistula ad
Adamum Fumarum (Append., p. 35), menziona, fra gli uomini illustri italici che
scrissero in greco, Filolao, il quale è incluso, insieme a Pitagora, nell’elenco dei
‘prisci theologi’ di Ficino, alla cui autorità si richiama lo stesso Copernico nel-
le prime pagine del De revolutionibus (Yates 1981, p. 172-4 – circolavano infatti
dei precetti morali, come gli Aurea carmina, attribuiti a Filolao); e infine Barri
gli dedica un’estesa bio-bibliografia: “Philolaus Pythagorae discipulus, prae-
ceptor Platonis et Architae fuit, veluti Cicero libro tertio de Orat. insinuat…
Opinatur Philolaus omnia harmonia et necessitate fieri. Terram juxta primum
circulum moveri dicit” (p. 325-6); e, come tramandano Plutarco (De plac. philos.
II), pseudo-Galeno, Hist. philos. (XIX, p. 265), Aristotele, De coelo 293a-b, non
solo la Terra, ma anche il Sole e la Luna girano obliquamente intorno a un
‘fuoco centrale’ (“totius naturae focum ac meditullium”).
Di Aristarco, invece, Federico Commandino aveva da poco pubblicato De ma-
gnitudinibus et distantiis Solis et Lunae, con interessanti indicazioni circa le di-
mensioni dell’universo e dei tre astri, derivandolo presumibilmente da Archi-
mede: “Aristarco di Samo suppone che le stelle fisse e il Sole restino immobili,
che la Terra giri intorno al Sole, percorrendo un’orbita circolare, di cui il Sole
542 LA CITTÀ DEL SOLE

occupa il centro, e che le sfere delle fisse, che si estendono intorno allo stesso
centro dov’è il Sole, abbiano una grandezza tale che il rapporto del cerchio, sul
quale la Terra girerebbe, alla distanza delle stelle fisse è paragonabile al rap-
porto del centro della sfera con la sua superficie” (I, p. 135).
Per C. citare questi autori italici (menzionati ancora insieme in Comment., p.
735) è anzitutto un gesto di patriottismo culturale (“in quanto filosofo natu-
ralmente amo l’Italia, patria mia, e il suo splendore” [Schoppius, p. 80; e Lette-
re, p. 56]), contro le presunte scoperte di scienziati stranieri venute dopo
(identico sciovinismo per Colombo: v. n. 134.16-7): “Philolao Crotoniatae
etiam nostrati” (così anche Art. proph., p. 53: “conterraneo nostro”) spiega
con il solo moto della Terra una serie di presunte anomalie astrali, così come
“Aristarchi Samij” fu maestro ideale di un altro maestro italiano reale (= Do-
menico Maria Novara) di Copernico.478 Theol. III ne riporta compiutamente
la teoria: “Filolao di Crotone poi ammaestrato da Pitagora, vuole che il cielo
stellato sia stato chiamato firmamento perché è assolutamente immobile, e
non è vero che le stelle fisse si muovano da occidente a oriente insieme con
tutto il cielo in 24 ore. Se così fosse, esse percorrerebbero in un batter di ci-
glia quasi diecimila miglia, la quale cosa è impossibile. E perciò egli pensò
che la Terra si muova da occidente a oriente in 24 ore circolarmente e che le
stelle fisse e i pianeti sembrino perciò muoversi in senso inverso nello stesso
tempo” (p. 147). C., riprendendola da Tycho, aveva attaccato questa teoria in
Physiol., obbiettando che se il fuoco della polvere pirica si accende istanta-
neamente, un cielo fatto quasi di sola luce può benissimo compiere quel per-
corso in 24 ore: “ma dopo che fu scoperta nel cielo stellato una nuova stella
[in Cassiopea: v. n. 136.23], ed ebbi considerato la varietà di colore delle stel-
le fisse, la quale è indizio di opacità [e quindi di materialità], cominciai ad
abbandonare questa teoria… In tutte queste questioni sono ancora esitante”
(Theol. III, p. 147), esattamente come i Solari (122.18). Invece proprio questa
argomentazione aveva convinto astronomi come Keplero ad abbracciare l’e-
liocentrismo (Lerner 1992, p. 61).

114.20-116.3: alterum numeros… reali


Se si pensa alle comuni basi magico-naturalistiche e, per di più, al comune af-
flato ‘profetale’, non è una mera coincidenza che anche Bruno avesse rimpro-
verato a Copernico “di aver interpretato la sua teoria [eliocentrica] solo dal
punto di vista matematico, mentre egli, Bruno, ne ha compreso i più profondi
significati religiosi e magici” (Yates 1981, p. 176). Pure Galilei, su basi speri-
mentali non ‘provvidenziali’, accusava le principali scuole cosmologiche di ten-
tare artificiosamente di salvare le apparenze (Op. V, p. 297): le loro non sono

478
Quaest. phys. XI I, p. 106; Lettere, pp. 93 e 177; Apologia IV, 40; Comment., p. 581; Poët. VII II,
p. 1037, così annotato da Firpo: “nell’additare in Timeo di Locri e Filolao da Crotone, disce-
poli di Pitagora, due precursori di Copernico, non nasconde il suo orgoglio per la comune
patria calabrese” (p. 1425).
COMMENTO AL TESTO 543

descrizioni o spiegazioni, ma finzioni della realtà.479 È però Lerner 1992 (p. 11-
26) ad aver chiarito la ragione storica profonda, più della matrice esoterica,
che è sottesa a questa frase: anzitutto quel che i Solari ammirano in Tolomeo è
il geocentrismo, e in Copernico la scoperta delle anomalie; invece la polemica
contro le “ipotesi” dell’astronomia (cioè le costruzioni di circoli per salvare i
moti planetari) implica una distinzione di ambiti di competenza: “all’astrono-
mo non spetta riconoscere che cosa è per natura in stasi e quali siano i corpi
mobili; egli invece introduce ipotesi, per le quali alcuni corpi sono fermi, altri
in moto, e poi indaga con quali ipotesi i fenomeni celesti si accordano. Ma de-
ve riprendere dal fisico i principi, cioè che i movimenti degli astri sono sempli-
ci, uniformi e regolari”. Alla luce di questa gerarchia professionale si capisce
perché C. bacchetti le presunzioni degli astronomi o ‘matematici’, i quali sono
dei misuratori di fenomeni celesti, su cui possono avanzare delle ipotesi, ma ta-
li ipotesi devono poggiare sulle e insieme devono esser corroborate dalle teo-
rie di filosofi naturali e teologi: “Manifestum est quod caeli non nostra mensu-
ra et naturae semper eiusdem numeris, sed Dei arbitrio, prout opus est ad re-
rum gubernatum, moventur” (Quod rem. 4, p. 135); nella prima celebre lettera
a Galileo, che faceva seguito al Sidereus, tronca la discussione sui mondi abitati,
scrivendo: “questo è problema metafisico e l’ho già discusso ampiamente: da te
invece aspettiamo la soluzione dei problemi matematici” (Lettere, p. 165). Inve-
ce Galileo “rifiutava la distinzione aristotelica tra fisica e matematica, che di fat-
to collocava questa su un piano inferiore a quella. Per lui matematica ed espe-
rienze conducevano alla verità attraverso un continuo scambio fra loro”; la sua
rivoluzione scientifica consiste essenzialmente nella “‘riduzione di un caos di
fatti in un sistema matematico semplice e armonico’ [W.R. Shea]. In questa lu-
ce la riduzione della dottrina copernicana a mera ipotesi matematica senza
corrispondenza nella realtà non era più un avveduto espediente: era una scioc-
chezza ridicola” (Spini, p. 46-7). Viceversa per C. “le proposizioni matematiche
non esprimono un ente o un processo reale, ma solo misurano le grandezze in
gioco. E non importa se si pongano così o altrimenti, come non importa se si
adoperi un palmo o un cubito per misurare un panno. Copernico che muove
la Terra fa lo stesso calcolo di Tolomeo che muove il Sole: ‘astronomus ponit
tot sphaeras quot motus varietates videt, non tamen ita esse dicit, si sobrius est’ [Me-
taph. I I, IX]. Per tale degradazione delle matematiche, opposta alla dignifica-
zione fattane da Aristotele e Galileo, le nuove scoperte astronomiche restano
suscettive di questo o quello schematismo matematico, ma per il C. il loro si-
gnificato oltrepassa la fisica. Esse sono il simbolo profetale del destino escato-
logico dell’universo, poiché nell’imminenza del secolo aureo, come già avven-
ne nell’imminenza dell’Incarnazione, Dio muove il cielo e la terra in modi

479
Ancora nel Dialogo (Op. VII, p. 44), Galileo, con l’ipotesi di un intervento diretto di Dio
nella cosmodinamica planetaria posteriore alla Creazione, sottintendeva una possibilità illi-
mitata di interventi divini.
544 LA CITTÀ DEL SOLE

nuovi ad nutum per significare i segni dei tempi” (Amerio 1966, p. 166-7; cfr an-
che R. Amerio, Galileo e C., Milano, 1942, p. 314-9).
Tuttavia Hagengruber (p. 84-5) invita a riflettere sulla critica epistemologica
che C. muove alla nuova scienza, la quale, fidando assiomaticamente sulla cer-
tezza della matematica, lascia insoluto il rapporto fra ente reale e ente raziona-
le, fondato, secondo C., su una relazione di similitudine. A mio avviso, C. è
semplicemente ancorato alla posizione platonica, com’è espressa in Resp.
533bc, di cui riecheggia il finale: le ‘arti’ sussidiarie che “colgono parzialmente
ciò che è (intendo la geometria e le discipline affini), vediamo che nello studio
dell’essere procedono come sognando e non riescono a scorgerlo con perfetta
lucidità finché lasciano immobili le ipotesi di cui si servono, essendo incapaci
di renderne ragione” (sull’atteggiamento ‘ambivalente’ di C. verso la matema-
tica v. n. 26.28).
Alle volte bisogna onorare qualcosa “non per quel che è, ma per quel che rap-
presenta, come s’onora una petruccia o una fava per scudo, quando si gioca
alle carte, e si metton le fave per conto de scudi” (Titoli, p. 293). In Gentilismo
(p. 73) ritorna quest’immagine della circolazione di moneta falsa preferita a
quella vera (nello specifico: l’aristotelismo contro la veritiera filosofia dei no-
vatori); in Metaph. [Ponzio] I IX, XI (p. 465): “Gli astronomi seguono in cielo i
fenomeni apparenti e fissano cause ipotetiche poiché misurano i movimenti
dal nostro punto di vista; per noi il numero dieci indica la stessa quantità nel-
le fave e nelle pietre [= “nobis autem idem est numerus denarius in fabis et in
lapidibus”]. Così accade per quanto riguarda l’epiciclo, l’eccentrico e il moto
della terra e del sole”; o quando utilizziamo vocaboli come ‘tempo’, ‘eternità’
in cospetto del divino: “come coloro che giocano ai dadi adoperano invece
del denaro festuche e lapilli… così che se alcuno volesse adoperarli come co-
se reali anziché come segni, sarebbe ridicolo. E dunque non è da stupire, se
questi vocaboli non significano poi le cose, che vorremmo significare” (Theol.
I [II, p. 353]). Invece in Metaph. XI XV, IV (III, p. 36), sembra che sotto la pa-
rola ‘calculum’ si nasconda un gioco di parole: “Quapropter videtur Coperni-
cus ad calculum respexisse, non ad naturas rerum” (= Pertanto pare che Co-
pernico abbia badato ai calcoli/pietruzze e non alle nature/valori delle cose):
‘calculus’ come pietruzza e insieme come ‘conto’, ma in senso spregiativo: di
chi cioè è più preoccupato che i suoi conticini tornino, anziché dei fatti (è la
stessa accusa che muove ai vuoti sillogismi aristotelici a 116.19). Infatti, ricor-
dava anche Firpo, “il pio Copernico”, per salvarsi da censure ecclesiastiche, so-
steneva che il suo eliocentrismo fosse “una mera ipotesi matematica”, e non
un modello cosmologico. “Ergo errat per fallaciam petitionis principii, et po-
nendo non causas pro causis, sicut Mathematici omnes ponentes Epicyclos et
excentricos, et motum in Terra ad salvanda phenomena” (Physiol. III V, p. 15
glossa Z).480 Ciò vuol dire che C. considera l’eliocentrismo uno degli espe-

480
A commento e integrazione di questa glossa cfr Theol. XXV, p. 185-7; Disc. Cometa, p. 77;
Lettere, pp. 220 e 351: “questi scienziati fanno il conto senza l’oste e peccano di petizion di
COMMENTO AL TESTO 545

dienti, alla stessa stregua degli eccentrici ed epicicli o della postulazione di


cieli anastri, usati dagli astronomi, per salvare l’impianto cosmologico tradi-
zionale, non riconoscendo sia la sua (prossima) peribilità sia il fatto che il suo
funzionamento non è legato a leggi naturali, ma Supernaturali: invece tutto
torna, riconoscendo semplicemente che l’Universo sta implodendo verso la
Terra, in accordo con “li regni [sic: ma è ‘segni’] ‘in sole et luna et stellis’ dati
dal Messia per il secondo avvento”, e profetizzati da Aggeo: “Adhuc modicum
movebo coelum et terram” [Agg. 2, 12]).
La metafora è d’origine platonica (Resp. 487b-c: paragone con giochi di “pie-
truzze” ingannevoli); ma la usa anche Diogene, II, 59 ed è ancora lui a parla-
re delle fave, usate per il sorteggio degli oligarchi secondo Aristotele (VIII,
34); e infine sarà usata quasi solo in senso derisorio, come testimonierebbe
Giamblico, Vita, p. 260; e più di recente Pico, III XVI (I, p. 333): “quel mese di
Galeno [= i giorni climaterici] è del tutto fittizio, né battuto in moneta di na-
tura”.

116.3-4: Idcirco… valde


Sulla necessità di dedicarsi agli studi astronomici si diffonde in ben sei punti la
Secunda hypothesis di Apologia III, e in partic. il Corollario (p. 16-7), dove si allude
anche ai segni celesti annuncianti il ritorno di Cristo (116.7-13).

116.5: mundi constructionem et fabricam


Poiché con ‘constructio’ si può intendere sia la creazione sia l’armonica dispo-
sizione (così a 132.21), l’intera espressione può intendere o due sezioni distin-
te dell’astronomia (cosmogenesi e cosmologia), oppure è una dittologia sino-
nimica rafforzativa (rispetto a T.116.7, dove manca il primo sostantivo), come
si può notare dall’intercambiabilità con cui adopera questi termini in due con-
testi quasi identici: “La fabbrica del mondo e di sue parti / e delle particelle e
parti loro / … noti chi vuol sapere” (25, Madr. 3, 1 – cit. in extenso a n. 30.3);
e Quaest. phys.: “Quod autem Deus mortalia curet, notissimum est considerare
volentibus rerum ordinem, usus, costructionem et finem” (XXIV IX, App., p.
237; v. n. 156.10-1).
La casa-cielo si trova già in Ovidio: Giove, dopo l’incidente di Fetonte, “ingen-
tia moenia caeli / circuit et, ne quid labefactum viribus ignis / corruat, explo-
rat” (Metam. II, 401-3); e Damasceno chiama Dio “rerum omnium parentem et
architectum” (Orth. fidei IV, 309D).

116.6: num periturus sit necne et quando.


Dopo l’equivalente “quando” italiano, il solo L. aggiungeva: “e la sostanza del-
le stelle e chi ci sta dentro a loro” (v. 116.8 in ‘Apparato delle varianti di α’),

principio e rendono non cause per cause”, e cioè “Copernicus solem stare, alii novas sphae-
ras et circellos statuere” (così Lettere1, pp. 57-8 e 123).
546 LA CITTÀ DEL SOLE

omesso in latino; non è in causa l’ortodossia, perché il concetto è replicato po-


co sotto (118.17-8 – ennesima prova che la traduzione non fu esemplata su L.).
A volte C. si mostra scettico che l’uomo possa fissare la durata dell’universo in
base ai suoi calcoli (infatti poco sotto [116.12]: “saeculi renovationem, forte et
finem”);481 tuttavia, l’età più probabile gli pare 7000 anni, anche perché è ri-
masto colpito dal fatto che i “Brachmani, philosophi Indi” attribuissero al mon-
do 8000 anni, 6000 dei quali già trascorsi, e “da essi avesse tratto belle argo-
mentazioni circa il fatto che i corpi celesti si muovessero ora più lentamente
ora più velocemente secondo la volontà divina” (Art. proph., p. 54; Disc. Cometa,
p. 78; Lettere, p. 224). Se a ciò si aggiungono anche le motivazioni addotte dai
Padri della Chiesa e da Apoc. 20 (Cristo regnerà per mille anni dopo l’Anticri-
sto), “non immerito post 6000 annos fieri regnum aureum in septimo millena-
rio; quoniam die septimo requievit Deus… in octavo vero millenario incipien-
te transferendum regnum in coelum… et si ipse [= Cristo] in octavo millenario
mundi finem iuxta computum suum statuit, veluti et Brachmanis Indiae vide-
tur”, stanno per verificarsi le cose che sono prossime alla fine dei secoli, senza
dar troppa importanza ai numeri (Art. proph., p. 60; cfr anche Theol. XXV, p. 59
citata in n. 114.17-8).
Tuttavia, pur con alcuni lapsus, che rendono approssimative le datazioni di
opere,482 C. generalmente (Metaph. XI III, II [III, p. 13]; Theol. III; Theol.
XVII V, II ecc.) fissa così la data d’inizio del mondo: “al presente anno 1623
in cui scriviamo… siamo nell’anno 5583”, per cui “alla fine o alla rinnova-
zione del mondo, aspettata dopo la caduta dell’Anticristo, ci rimangono 417
anni” (pp. 63 e 161-3). Il che concorderebbe con l’età mercuriale astrologi-
ca (v. n. 130.9-17). Tale datazione si basa sulla corrispondenza col numero
dei giorni della Creazione, “ita sex millibus annis durabit mundus et in sep-
timo millenario quies paradisi” (Quaest. pol. III, p. 68). Se Dio ha creato il
mondo in sette giorni e vi ha posto sette pianeti a governare le cose (Astrol.,
pp. 214-6 e 228), quel numero, proprio perché marchio originario e simbo-
lo di totalità (Comment., p. 764), lo si ritroverà anche nei “progressus, fines
et res”, e quindi dovrebbe esser una delle ragioni per cui la probabile dura-

481
Nel tardo Syntagma, infatti, criticava Vecchietti, autore di un De anno primitivo ab exordio
mundi, che “volle correggere il numero degli anni in base alle eclissi e ai cicli lunari che si ri-
trovano nelle storie dei più antichi autori; ma poiché prima di Erodoto e di Giustino non ab-
biamo nulla di ciò, non ha potuto ben raccogliere e correggere gli anni precedenti ai tempi
di Nino. Aggiungi che le cronologie sono tanto diverse fra Ebrei, Greci e Latini, e anche fra
i singoli autori, che alcune oltrepassano molti cicli, altre ne sono oltrepassate, e mancano del
tutto delle ipotesi su cui stabilire saldi fondamenti. Inoltre presuppone il corso degli astri
sempre identico, mentre i fenomeni più recenti, ma anche quelli antichi, mostrano che è
molto variabile nelle anticipazioni dei tropici, degli apogei, delle eclissi…” (IV IV); tuttavia le
‘Tabulae maiores’ della cronologia di Vecchietti, che computa 5549 anni trascorsi dalla Crea-
zione al 1600, si arrestano appunto al 6000, che corrisponde al 2051 dalla Natività.
482
Ad es. la composizione del Compendio, in base a IV XI (5582 anni) e ad Art. proph., p. 262
(nel 1603 gli anni erano 5565), “risalirebbe al 1620” (Ponzio 1999, p. 11); ma riferito alla
Theol. XXV, da Ponzio stesso citata, slitterebbe al 1622.
COMMENTO AL TESTO 547

ta del mondo sia di 7000 anni (seimila quasi trascorsi e mille in cui ritornerà
l’età aurea), portando di conseguenza ad escludere i calcoli dei passati
astronomi, “non avendo tutti la medesima misura, e non essendo segnati di-
stintamente dal senario e dal settenario” (Theol. XXV, p. 33). Sisto ricorda
infatti che Girolamo nell’Epistola a Cipriano “deducit omnem praesentis
saeculi durationem ab orbe condito usque ad diem iudicii, sex millium an-
norum spacio concludi… et postea venire septenarium numerum et octona-
rium, in quo verus exercetur sabbatismus”; inoltre, tra i Padri che la pensa-
vano in quel modo, menziona Lattanzio (Inst. VII VII), secondo cui “apud
Ethnicos autem eadem prodidisse Hydaspen, Mercurium Trismegistum, ac
Sibyllas” (V, p. 399-400); mentre secondo Beda sarebbero trascorsi 5199 an-
ni, “quem etiam usualiter tenet Ecclesia” (SH VI LXXXVIII); Crisostomo, In ca-
put III Ad Cor., Hom. IX (IV, 390D): “Pensa quanto tempo il genere umano è
nel peccato originale: quinque milia annorum et amplius praeterierunt, ne-
que mors adhuc soluta est”.483

116.7-11: Et prorsus… comprehendet.


Il paragone con il ladro notturno, frequentissimo nelle sue opere (es. Disc. Co-
meta, p. 68; Lettere1, pp. 57, 123), è una citazione neotestamentaria, di cui Lette-
re, p. 222 indica quasi tutte le fonti: “questi scienziati scrivono tante mostruosità
per eternar il mondo”, e così “levano il mondo da questa vigilanza perché ‘dies
Domini sicut fur in nocte nos comprehendat’, come profetò l’Apocalisse [3, 3 e
16, 15] e San Pietro [2Pt. 3, 10-3] e San Paolo; perché questi segni non han
d’essere noti a tutti se non a chi vigila sopra li giudìci divini, come disse san
Paolo, Ad Thessalonicenses, 5 [1Thess. 5, 2]: ‘non autem nos sumus filii noctis ne-
que tenebrarum quos dies Domini sicut fur in nocte comprehendat, sed vigile-
mus’”. La profezia di Cristo sul Suo secondo avvento è testimoniata anche da
tutti gli altri Evangelisti: Mt. 24, 29; Mr. 13, 24 e Lc. 21, 25.
Secondo Firpo 1957, in seguito alla ‘conversione’ nella fossa di Castel Sant’El-
mo (1604-7), segnata da un ritorno di C. al cristianesimo positivo, in CS “astri,
prodigi e numeri fatali ritornano al loro significato di simboli annunciatori,
non più cause efficienti del mutamento cosmico”. Il dettato di T.116.8-13,
però, è sostanzialmente analogo; e inoltre anche 156.6-158.5 è affine a
T.154.19-158.6, in partic. è affine l’identica prospettiva astrologica (e non solo
palingenetica) con cui sono viste le anomalie: si può forse dire che è un caso di
perfetta aderenza fra il Libro di Dio (l’“oraculum Christi”) e il Libro della Na-
tura (il ‘decreto’ della grande congiunzione), annuncianti il prossimo sovverti-
mento mondiale.
La sua idea di ‘renovatio’ (116.12) prevede che prima della fine del mondo ri-
tornerà l’età dell’oro, con istituti analoghi a quelli che hanno adottato i Solari
e che il frate voleva impiantare nella repubblica stilese, come appare svariate

483
V. n. 122.10-4, n. 136.10 e cfr L. Bianchi, L’inizio dei tempi. Antichità e novità del mondo da Bo-
naventura a Newton, Firenze, 1987.
548 LA CITTÀ DEL SOLE

volte nelle carte processuali e non.484 L’afflato millenaristico, che gli fa vedere
segni e presagi ovunque, costituirà da un lato il cruccio principale di C., per es-
ser deriso e perseguitato da quelli “che vanno affermando trattarsi di cose na-
turali e deridono quelli che stanno alle vedette” (Supplizio, p. 161); e dall’altro,
per quanto profondamente e sinceramente sentito, è un alibi oggettivo per la
sua causa processuale, in quanto lui si è limitato a lanciare un allarme, e al po-
sto dei ladri, hanno imprigionato il cane da guardia – così ama spesso ripetere.
Giocando infatti sul nome del suo ordine (Domenicani = “Domini canes”), si
firmerà “sentinella” o “spia delle opere dell’Altissimo” (Lettere, da 15 a 82 [v. n.
114.5-6]). Una sentinella che deve anzitutto neutralizzare con trecento pagine
di Art. proph. ‘aristotelici e macchiavellisti’ che svalutano i segni celesti, per far-
ci sorprendere “come i figli delle tenebre” (Apologia, p. 17; Disc. Cometa, p. 67-8
e cfr Ernst-Salvetti, p. 61-2); e poi esporre in dettaglio ‘La profezia di Cristo’
(Theol. XXV IV, V: ‘Notantur quae signa adsunt in sole et luna et stellis’), per
evitare quanto minacciato nella stessa Apoc. 3, 3 a chi non vigila; e infine per
convertire popoli vecchi e nuovi: “perché tutte nazioni concordando che ci so-
no queste esorbitanze e nessuna sapendo rendere la ragione se non Cristo Dio
nostro che le predisse, perché l’avea da fare, son forzati a venire alla nostra fe-
de; massime quelli del regno di Fez e di Persia e del Cataio e Chinesi che filo-
sofano ogge sopra queste dissorbitanze e non san trovarne la ragione, se non
vengono ad impararla dalla scola di Cristo” (Lettere, p. 222).
Questi stessi accenti e referenti si ritrovano, strepitosamente, nella seconda
metà del Seicento, presso un altro scienziato, Isaac Newton: “Perciò è tuo do-
vere imparare i segni dei tempi, perché tu possa sapere come vigilare, ed esse-
re in grado di distinguere quali tempi stanno giungendo sulla terra dalle cose
che sono già passate… Ma se, ignorando i segni… il tuo Signore verrà in un
giorno in cui non l’aspetti e in un’ora che non sai… Perciò non scandalizzarti
del biasimo del mondo, ma consideralo piuttosto come un segno della vera
Chiesa” (Trattato sull’Apocalisse).485

116.14-8: Aiunt… ab aeterno.


“Nos autem credimus mundum esse factum, et non casu quodam, nec necessi-
tate cogente, sed a potentissimo, sapientissimo et optimo factore, et non ab ae-

484
Lettere; Supplizio; Schoppius: “Ora infine [cioè dopo la fallita sollevazione del ‘99] mi consi-
derano ribelle ed eretico, poiché predico i segni nel sole e nella luna e nelle stelle contro Ari-
stotele che considera eterno il mondo e contro tutti gli altri che gli attribuiscono età spropo-
sitate… et abstuli violentiam coelo, et eccentricos et epiciclos, et ostendi symptomata mundi
per ignem perituri” (p. 76-7).
485
Scritto fra il 1660 e il 1680 (a c. M. Mamiani, Torino, 1994, pp. 7-11). Per le matrici tardo-
rinascimentali del millenarismo, a partire dal De orbis concordia di Postel [1543], cfr Pittaluga,
p. 66; e più recentemente e distesamente: M. Miegge, Il sogno del re di Babilonia, Milano, 1995,
che arriva appunto fino a Newton; Millenarianism and Messianism in Early Modern European
Culture, Dordrecht-Boston-London, Kluwer Academic Publ., 2001 (il sogno della ‘renovatio’
suggerita dalle “esorbitanze” celesti ritorna a 136.25 e 158.5: v. n. 160.1-2).
COMMENTO AL TESTO 549

terno, sed noviter; et non ex materia praecedenti, neque ex ruinis alterius


mundi, sed ex nihilo. Et dissolvendum esse aliquando, sed non in nihilum, sed
in meliorem formam instaurandum; necdum enim ad sui perfectionem deve-
nit” (Metaph. III XI, III, II); passo così commentato da Accietto-Gualtieri, e che si
attaglia perfettamente a questo capoverso di Civitas: “La posizione di C. in me-
rito alla produzione del mondo comporta l’inammissibilità sia della tesi aristo-
telica dell’eternità del mondo, sia di quella epicurea della sua formazione ad
opera del caso. La conservazione non può perciò essere ridotta ad una conse-
guenza assolutamente necessaria della causa produttrice, né – analiticamente –
ad una casualità indeterminata. Nell’uno e nell’altro caso si supporrebbe inde-
bitamente una parità ontologica tra la causa degli enti, loro fonte prima, e gli
enti stessi, e sarebbe impossibile intendere la conservazione del mondo come
attività di un essere potentissimo, sapientissimo e ottimo, con la diretta conse-
guenza di negare anche la Provvidenza e la bontà del creatore. Se il mondo è,
come vuole Aristotele, di per sé incorruttibile, non ha bisogno di un conserva-
tore esterno, giacché è conservato da Dio in quanto sua parte” (p. 18-9). Per
C., invece, “coelum esse igneum… ab ipso contrarium suum destructum iri, et
mundum dissolvi”, in base al principio logico (e stoico) che, essendo le parti
del mondo periture in quanto si trasformano le une nelle altre, anche il tutto
(cioè il mondo) è perituro (“mundi partes generantur et corrompuntur, ergo
et totum” [Metaph., ib.]).
Varie sono le ipotesi sull’origine dell’universo:486 le tre qui esaminate sono
creazioniste, e sono rispettivamente quella cristiana, empedoclea e anassago-
rea.487 Se si nega un Creatore e si nega l’eternità del mondo, bisogna per forza
supporre che esso sia sorto da un nulla sostanziale (C. nega l’esistenza di un
nulla positivo, mentre presuppone un nulla negativo: v. n. 126.7-8), il che è al-
trettanto impossibile, perché tutto nasce da un altro ente materiale; allora, se-
condo Empedocle, bisogna ripiegare “ex ruinis alterius mundi” (Metaph. XI III,
II [III, p. 16]), come accade con quegli animali che nascono dalla putrefazione.
Ma anche questa strada si rivela impraticabile: infatti o questa rinascita avviene
per casuale rimescolamento dei materiali precedenti, riproponendo così l’as-
surda dottrina atomistica democritea; o bisogna ricorrere all’intervento divino,
perché Dio né sbaglia né (quindi) si corregge (“quoniam quae bona Deus fa-
cit, non destruit, nisi seipsum emendet”).
Platone, Anassagora, Timeo propongono “Mundum esse factum ex Chaos
[sic]”: ma perché mai gli enti avrebbero dovuto sonnecchiare in questo stato

486
Riportate in: Art. proph., p. 44, Metaph. III, Theol. III, Theol. XXV, p. 53 e in partic. Quaest.
phys. II II, p. 7-11.
487
Queste ultime due cit. insieme da Aristotele in Phys. (187-9) e De Coelo; altre fonti possono
essere quelle patristiche come Damasceno, Orthod. fidei 176GH (“sicut enim finita est molis,
ita et suapte natura finitae durationis”); Ambrogio, I, 1; Agostino, CD 12, 12 e 18, 41; e, re-
centemente, per limitarsi agli utopisti, Doni, Mondi, p. 58-9, plagio di Agrippa, Vanità delle
scienze, 68r.
550 LA CITTÀ DEL SOLE

caotico per un tempo infinito? E perché proprio in quel dato istante Dio avreb-
be dovuto decidere di trasformarlo in Cosmo?488 Allora “ex nihilo facta esse
omnia oportet… Ergo totum ens ex toto non ente simpliciter”; questo non-en-
te, questo “commune niente da cui le cose nacquero” (Senso, p. 5), non essen-
do sostanziale, vanifica l’obiezione secondo cui un agente immateriale non
può produrre materia. Infatti il nulla che è qui in causa, è di natura formale:
qualunque cosa si fa da ciò che prima non era, come il fuoco dal legno (il le-
gno era non-fuoco eppure è diventato fuoco).
Possiamo così riassumere le dottrine cosmogenetiche in un unico prospetto (una
sintesi poetica nella ‘Salmodia’ 84; prosastica in Compendio): l’universo è sorto
• per la casuale combinazione di atomi: Democrito e gli Epicurei (ma il primo
credeva nell’esistenza di un mondo solo, gli altri in infiniti);
• dai frammenti di precedenti universi collassati, ma ricombinati “per provi-
dentiam et necessitatem” (e non: a caso): Empedocle;
• perché una mente originaria avrebbe plasmato il cosmo a partire da uno sta-
to caotico degli elementi (Anassagora, Ovidio);
• da un solo elemento variamente riplasmatosi (Diogene, Talete, Eraclito);
• dal nulla formale: “Religio christiana ex nihilo mundum producit” (Tom-
maso, 2SCG, 38);
• il mondo è eterno, dunque non ha avuto alcuna origine (Aristotele [v. n.
116.19] e Ocello).
Pur restando cautamente incerti, i Solari di sicuro escludono la prima e l’ulti-
ma ipotesi (non creazioniste), che rendono superflua una Mente ordinatrice,
con tutte le pericolose potenziali deviazioni; infatti è la sua matrice materialista
la principale difficoltà ad accettare l’esistenza di altri mondi (124.27): fu infat-
ti uno degli atomisti, Democrito, il primo che “plures posuit mundos”, perché
gli atomi dispersi nel caos possono crearne un’infinità in eterno. Secondo C.,
l’eternità del mondo era sostenuta, prima che da Aristotele (Lettere, p. 41), an-
che da Platone (Supplizio, p. 89) e da Ocello (Astrol., p. 45); invece lui reputa ‘Il
mondo essere animale mortale’ (Senso I XIII), che, come ha avuto un inizio co-
sì avrà una fine (ignea). Ammettere l’eternità del mondo, come fa Ocellus,489
seguito in ciò dagli altri filosofi, significherebbe che il cosmo è sorto “casu quo-
dam… ex atomorum iactatione”, cosa altrettanto probabile quanto che da una
casuale mescolanza di lettere possa scaturire un’Eneide (Quaest. phys. II II, p. 7-
11). Poiché però le stelle “furon riputate immobili dalli Caldei” e da tutti gli
antichi, “Aristotele nel I De coelo, dall’osservazioni di Caldei, si mosse a metter il
mondo immortale” (Disc. Cometa, p. 70-1). Infatti lì (I, 270b) Aristotele discute
dettagliatamente le cosmogonie precedenti, concludendo che “il cielo nella

488
“Item cur nunc, et non prius? Et cur Deus otiosus? Et Chaos otiosum?” (Quaest. phys., 8 e
Metaph. VII V, IV [II, p. 279] – sono le obiezioni di Origene, riprese da Girolamo nell’Epist. ad
Avito, a cui aveva risposto Agostino, Conf. XI, 12: il mondo è nato insieme con il tempo [Si-
sto, V, p. 405]).
489
“Universum quidem ut ego arbitror, nec interiturum unquam est, nec ullum aliquando
habuit ortum” (p. 7 – al tempo di C., Ocello era ritenuto contemporaneo di Pitagora).
COMMENTO AL TESTO 551

sua totalità non è generato, e non s’ammette che possa corrompersi, ma è uno
ed eterno” (II, 283b 25sg) – eterno, perché etereo. Per C., invece, il cielo è fat-
to di fuoco, e dunque, in quanto materia, è finito spazio-temporalmente (è sta-
to creato e perirà; per quanto immenso, è circoscritto): “è falso dire che il cie-
lo è incorruttibile perché conserva sempre il medesimo sito e movimento, poi-
ché anche se noi non vediamo le sue corruzioni interne, tuttavia le comete pro-
dotte nel cielo insegnano questo, e la medesima cosa ci attestano la mutazione
dei tropici, dei solstizi, degli apogei e delle obliquità. Il cielo è di materia fini-
ta, altrimenti non giungerebbe a termine il moto della sua circonferenza che si
conclude in 24 ore” (Compendio IX, 14; X, 2; contro l’eternità del mondo cfr an-
che Quaest. phys. II II).
Prende le distanze pure da Eraclito ed Empedocle, in quanto ritengono che
molte volte l’universo fu creato e distrutto, con il rischio di una catena indefi-
nita.
E respinge infine anche la dottrina del cosmo nato dal caos in Metaph. XIII I, II
(III, p. 73), perché tutti gli enti hanno avuto origine da un primo ente: la ma-
teria; tuttavia a quest’idea aderiva ancora negli anni di composizione di Città
quando già manifestava dubbi (T.116.16), come dimostra una canzone compo-
sta nell’intorno 1603-7 (28, ‘Madr 2’, 1sg): “Il perfetto animal, ch’or mondo è,
pria / era confusion, quasi un grand’uovo, / in cui la Monotriade alma paren-
te, / covando, espresse il gran sembiante nuovo”; Esp.: “Mostra che il caos ha
preceduto, almeno d’origine, se non di tempo, e che Dio Monotriade lo ridus-
se ad ordine e fece il mondo”. È ipotizzabile che inizialmente tendesse ad iden-
tificare materia originaria e caos, come dimostrerebbe Phil. sens.: il caos è uno
dei modi con cui è chiamato l’ammasso originario e transitorio della creazio-
ne, la materia amorfa bruta non ancora forgiata dalle forme, e in partic. dai
due principi del caldo e del freddo: “Itaque chaos hoc principium cum formis
confusum appellatum est, abyssus, tenebra et infinitum ab Anaxagora, Platone,
Trismegisto, Pythagora, Moyse Hebraeo etc… Anaxagoras Clazomenius posuit
chaos omnium rerum principium materiale, in quo omnia latitabant; dehinc
intellectum immixtum omnia separasse ac mundum ordinasse pronunciat
[pseudo-Galeno, De philos. hist. XIX, p. 250 ‘De Deo’]. Cui sententiae se sub-
scribunt omnes fere poetae theologizantes, ut Hesiodus, Musaeus et Orpheus;
Ovidius etiam in Metamorphoseon primo dicens: ‘Ante mare et terras… Unus
erat toto naturae vultus in orbe,/ Quem dixere chaos’ [I, 5-8]” (pp. 26 e 285);
e recentemente: Pico nelle Conclusiones; Doni, Mondi;490 Ficino, Amore, in cui fa
una carrellata bibliografica: da Mercurio Trismegisto,491 a Parmenide, a Plato-
ne: “Chaos Platonici informem mundum vocant”, che è tripartito (gli angeli,

490
“Chi rimirassi il chaos, quella materia confusa che creò il magno Iddio, nella quale era il
cielo e la terra, gli Angeli, le anime e tutto insieme, e di quella ne fece tre parti…” (p. 62 -
passo probabilmente derivato dall’Idea di Camillo, secondo la curatrice).
491
“Chaos ante mundum posuit, et ante Saturnum, Iovem, caeterosque deos” (v. 130.17); se-
guito da Orfeo nelle Argonautiche (In Conv. I II [Op., p. 1321]).
552 LA CITTÀ DEL SOLE

l’anima del mondo, la “machina” universale), e quindi “tria et chaos conside-


rantur” (I II-III, 9-14).
Di contro: i divinissimi Pitagora, il Trismegisto, Timeo ritengono il mondo
creato da Dio e perituro; “et nos Christiani Deum mundum ex nihilo creasse
ponimus per exemplar consubstantiale sibi” (Metaph. III XI,I-III; e così Art.
proph., p. 46), e la sua creazione è paragonabile a un’emanazione: “come la lu-
ce emana dal sole e non è il sole, così le cose emanano da Dio e non sono Dio”
(Theol. III, p. 17). La prova che il mondo non è eterno, perché ha avuto un ini-
zio, starebbe nel fatto che “le parti componenti, specialmente se son contrarie,
precedono lo stesso composto, e siccome non poterono da sé stesse converge-
re e congiungersi per la costituzione del mondo, è necessario che il mondo sia
stato costituito da un autore potentissimo e sapientissimo” (Metaph. VII I,VII [II,
p. 259]). Per dimostrare poi che la creazione è avvenuta dal nulla,492 bisogna
porre la materia inderivata (sostrato di pure potenzialità), come del resto fan-
no tutte le scuole filosofiche: tutte le cose sono accidenti di un unico ente – la
materia – da cui derivano; e la materia non deriva da niente: “dunque essa dal
nulla, altrimenti, se si producesse da un’altra materia, si avrebbe un processo
infinito” (Theol. III, p. 13-5).
Se il cosmo è nato dal nulla, vuol dire che non è eterno, perché se ha avuto un
principio (prima, infatti, era non-cosmo), allora avrà una fine, che non sarà
però l’annichilimento (“in nihilum non resolvit” [Art. proph., p. 45]), ma una
catarsi ignea (“mundum non interiturum, sed renovatum iri per ignem”), co-
me si sa dalla più remota antichità: “antiquissima sententia est mundum per
ignem interiturum, apud Hebraeos et Chaldeos. Heraclitus philosophus idem
docuit... sanctus Petrus ibidem” (Art. proph., p. 45-6 [citando 2Pt. 3, 7-12]). Su
tale base neotestamentaria, l’idea cristiana che il mondo sia transeunte C. l’ha
trovata corroborata in Crisostomo, Agostino, CD 11,4,452 e 12,10 e Tommaso,
che esortava a evitare “diversos errores gentilium philosophorum, quoniam
quidam posuerunt mundum aeternum” (2SCG, 38); sul piano filosofico, poi,
Telesio stesso sosteneva che Dio “creò dal nulla cielo e terra” (I, 10 [p. 95-7];
IV, 27-9 [II, p. 189-205]; v. n.126.7-8), come pure Galilei (Op. I, p. 22sg); e infi-
ne furono proprio i Bramini a ritenere che “Mundum habere tempus initiale
tendereque in interitum” (Celio, XVIII XXXI, p. 716). Se il cosmo è un orologio
creato per segnare l’ora della sua morte, alle scienze astrali tocca allora un so-
lo compito: determinare il quando.

116.19: oderunt, quem logicum appellant,


In una Lettera a Paolo V il Filosofo incarcerato così si sfogava: “Ecco, Santo Pa-
dre, questo Aristotele mi ha angustiato nella mia religione e mi rese sempre

492
“L’autore della natura può fare ogni cosa da ogni cosa, e anche dal nulla” (Theol. IV [II, p.
141]); “Il mondo è stato fatto da Dio mediante un atto di creazione. Creare è produrre da
nessuna materia e dal nulla, e questo lo fa solo Dio. Generare è produrre da una qualche ma-
teria anche di entità esigua, e questo lo fa la natura. Fare è produrre da molta materia, e que-
sto è proprio dell’arte” (Compendio III, 3-4).
COMMENTO AL TESTO 553

odioso [agli altri], e i prelati della santa chiesa mi odiarono per causa sua, a me
che per primo ho mostrato mundi symptomata per ignem perituri [titolo di
una Appendice dell’Astronomia, entrambe perdute, circa l’apocalisse ignea immi-
nente] contro lui stesso e contro Tolomeo” (p. 66). Ma C. sapeva da tempo (lui
che “scrisse contra Aristotele di 18 anni” [cit. da Formichetti 1999, p. 9]) che
l’antiaristotelismo all’epoca non pagava: nella Lettera, p. 7 (13 agosto 1593) si
giustificava con Ferdinando I, da cui sperava vanamente una cattedra nell’ate-
neo pisano: “ché saper me più dell’aristotelica le platoniche, da’ suoi avi ama-
te, e le pitagoriche e altre moderne, non deve diminuirmi grazia o favore appo
lei”; anzi come chiarirà quarantacinque anni dopo a Ferdinando II: “io ed ogni
ingegno egregio portamo grande obligo ai prìncipi medicei, che facendo com-
parir i libri platonici in Italia, fur cagione di levarci dalle spalle il giogo di Ari-
stotele” (Lettere, p. 388); cita spesso (indirettamente, come ad es. in Apologia, p.
25) un’invettiva antiaristotelica tratta da un capitolo dei censurati Paradossi di
Ortensio Lando (Lyon, 1543), intitolato: ‘Che Aristotele fosse non solo un
ignorante, ma anche lo più malvagio uomo di quella età’; ma omette sempre la
fonte per “ragioni prudenziali”.493
Dunque l’uso di un verbo così marcato (‘odiare’) potrebbe essere spiegabile
anche con le sole ragioni biografiche; ma esse sono nettamente minoritarie ri-
spetto a quelle ideologiche: proprio al fatto che Aristotele sia l’‘auctoritas’ vi-
gente nel pensiero ecclesiastico del tempo (e domenicano segnatamente, per
l’influsso tomistico), C. attribuisce tutti i mali della società e specialmente del-
la Chiesa. Dopo aver ricostruito le storia della fortuna moderna di Aristotele,494
risultano più chiare le ragioni della sua avversione, variamente espresse495 e ar-
ticolate da Disp. in prol. in 14 punti: i punti qualificanti sono 1°, 8°-11° (“Dio
non è creatore del mondo e il mondo è eterno”, e non esiste aldilà, immorta-
lità dell’anima individuale, ecc.); 2° e 5° (non esiste divina provvidenza, e quin-
di il mondo è in preda a caso e fortuna); ed essenzialmente il 7° (“la religione
è arte di regnare e di tenere i popoli nel dovere e nell’obbedienza”), perché
quello è la radice di tutti i futuri mali politici riassumibili in ‘machiavellismo’
(v. n. 60.23-4): “partorì i Ghibellini, i Machiavellisti, i libertini e i nuovi eretici.
Noi insorgiamo contro questo nuovo idolo” (p. 74), per colpa del quale il mon-

493
Ernst 1996c, p. 128; Ernst 2002, p. 173-4; Lerner 2002, p. 227 con bibliogr. su Lando o
Landi, i cui Paradossi hanno avuto un’ed. moderna a c. di A. Corsano, Roma, 2000.
494
Distrutta dai barbari la cultura classica, Alberto Magno, dovendo rifondare le scuole, non
poté che ricorrere agli Arabi, tramite i quali lo Stagirita è stato reintrodotto in Occidente e
poi dagli Scolastici rilanciato; e così la civiltà cristiana ha perso tutto il retaggio non solo filo-
sofico – ad es. il platonismo –, ma principalmente patristico, trovandosi per giunta contami-
nata da germi pericolosi: bisogna pertanto far piazza pulita di tutte le filosofie pagane, e ri-
tornare ai due libri divini, Natura e Scrittura (Lettere, p. 149-50), specialmente adesso che le
nuove scoperte – di mare, cielo e terra – mostrano tutte le lacune e le pecche di quella dot-
trina (Theol. I [I, p. 7]).
495
Qui v. 62.2-3 e n. 30.26-31; cfr anche Mon. Sp. X, p. 96; Gentilismo, pp. 25-8, 40-3; Apologia,
p. 32-3; Politici, p. 127-9.
554 LA CITTÀ DEL SOLE

do, illusosi eterno, è diventato “antichristianus” e “così allevata la gioventù…


pensano che ’l Vangelio sia cosa d’astuto o di malinconico sciocco” (Lettere, p.
41), che la religione sia invenzione dei preti e oppio dei popoli (=“illusio po-
pulorum”), e, per giunta, irridono e perseguitano coloro i quali cercano di
metter sull’avviso che i segni celesti annunciati dal Vangelo sono comparsi. Il
canale privilegiato di penetrazione della tabe aristotelica a-religiosa era l’uni-
versità (Spini, p. 34), che aveva eletto suoi cavalli di battaglia la triade nefasta
Alessandro d’Afrodisia-Averroè-Machiavelli.496 E perciò C., nella sua impari lot-
ta contro il peripatetismo regnante, ama ripetere (Lettere, p. 253; Disp. in prol.;
quattro volte nell’art. 2 di Gent.) l’adagio di “Melchior Cano, gran tomista… in
libro decimo De locis:497 ‘habemus Aristotelem pro Christo, Averroem pro Pe-
tro, Alexandrum pro Paulo’”. Dunque “Aristotele dev’essere bandito dalle
scuole cristiane… perché è artefice di machiavellici e di atei” (Rhet. VII II [SL,
p. 797]), e se proprio “si dovesse intronizzare alcuno, quello sarebbe Platone”
(Lettere, p. 257).498
Passiamo ora al “logicum”, che sostituisce per autocensura il “pedante” di
T.116.22:499 tale variazione, secondo Yates 1981 (p. 406), sarebbe uno dei po-
chi segnali di ‘normalizzazione’ (cioè di correzione in senso ortodosso) del
dialogo. La logica è ancillare alla metafisica: “il logico non considera altro che
l’essenza delle cose e la verità o falsità delle proposizioni formulate su di esse;
perciò parla di tutte le cose, poiché il metafisico, maestro delle scienze, tratta
di tutte le scienze con tale strumento ch’è fatto per lui” (Rhet. I I, p. 717); per-

496
Da un passo di Atheismus: “Narratque ejus [=Aristotele] ex doctrina ortum esse in Italia
Macchiavellismum contra Dei providentiam, et contra animorum immortalitatem et religio-
nis veracitatem” (II, §3), si evince che “ces quatre points fondamentaux, à savoir la négation
de la providence de Dieu, qui implique un monde que le principe peut mouvoir mais ne
peut ni connaître ni diriger dans la singularité de ses choses ni changer en son ordre, deuxiè-
mement l’Eternité du monde qui découle de cette première immutabilité, ensuite l’immor-
talité de l’âme, enfin la négation de la réligion… définissent pour C. l’aristotélisme. Cette in-
terprétation de l’aristotélisme… se réfère à la lecture averroïste d’Aristote que l’humanisme
de la Renaissance a adoptée de façon privilégiée, en particulier grâce à l’enseignement at au
rayonnement intellectuel de l’Université de Padoue à travers toute l’Europe. Pour C., Ma-
chiavel tire les conséquences politiques et pratiques de la conception averroïste du monde”
(Caye, p. 341-2; cfr anche Frajese 1998 per l’attribuzione in Atheismus ai ‘machiavellisti’ delle
tesi ereticali da C. abbracciate fino alla conversione).
497
Melchiorre Canusiano [1509-60], De locis theologicis, Salamanca, 1536 (in realtà: libro IX,
cap. 9; su questo teologo del Concilio di Trento cfr Lerner 2001, p. LXIX).
498
Ciò non toglie che C. non sappia riconoscergli i meriti: “Aristotele giustamente è da tutti
considerato genio di natura: infatti le sue conoscenze sono più ampie e profonde di quelle di
chiunque altro dopo di lui; ma poiché, come ha detto benissimo Orazio, ‘non c’è nulla che
sia perfetto in ogni parte’, anche in lui si possono ritrovare néi, appannaggio della condizio-
ne umana” (Syntagma IV I).
499
Bersaglio costante della commedia cinquecentesca: da Il Pedante di Belo al Candelaio di
Bruno; Doni, Mondi, p. 33: “fece congregare una turba di pedanti, idest una mandria di quel-
li animali selvatichi che… dan consiglio, tengon conti e vanno dietro a’ fanciulli”; e, di con-
verso, a p. 211: “O che cattivo loico!”.
COMMENTO AL TESTO 555

ciò l’appellativo ‘logico’ facilmente finisce per connotare un astratto e vano


raziocinare,500 già abbondantemente stigmatizzato a 30.26sg, dov’è esplicitata
l’opposizione ‘res/verba’, appunto ‘scienza’ e ‘logica’ (o ‘grammatica’: in Syn-
tagma IV I lo accusa infatti “in Metaphysicis [Aristotele] potius est grammaticus
quam philosophus”): dalla stabilità degli astri e dalla costanza dei loro moti,
“Aristoteles immortalitatem Mundi probat in primo Caeli physico argumento
(nam caeterae rationes, quod deretur [sic] motus ante motum et tempus ante
tempus, sunt Logicae et inanes)” (Atheismus XIV XXII, p. 206).501 ‘Logico’ inol-
tre è sinonimo di ‘sofistico’ (“mostro Aristotile essere sofista” [Politici, p.
128]), uno dei vizi contrari alla Sapienza (e dunque alla scienza), e che consi-
ste nell’“imaginarsi che la scienza delle parole sia tutto il senno” (Epilogo, p.
511). In sostanza, Aristotele non solo non è uno scienziato, ma è anche uno
pseudo-filosofo; se infatti i veri filosofi sono quelli “che stan nella lege della
natura, come elli capir la ponno”, in tutta la storia umana ce ne sono “a pena
25, perché io mai nel numero di filosofi quelli ho scritto chi studiaro per ven-
der la dottrina nelle scole o nelli tribunali: perché invero son tutti sofistici,
scienziati in apparenza, contenziosi, e di avarizia e ambizione oppressi a non
poter verità intendere”, e in partic. “la filosofia di Aristotele ch’oggi regna, la
trovai sofistica per lo più” (Ateismo, I, p. 6 e II [in Ernst 1997c, pp. 620 e 622]).
Nell’‘Index’ della Metaph. (Parisiis, 1638), alludendo sempre alla Metafisica
aristotelica, scrive: “Et Aristoteles non tradidisse Metaphys., sed Logicam in XI
libris”, l’ultimo dei quali è per giunta ‘eretico’; e al suo dedicatario (Claudio
Bullion de Bonelles), scrive orgogliosamente: “quicumque ante me metaphy-
sicam aggressi sunt, potius eos logicam et grammaticam insulsam et inordina-
tam tradidisse quam metaphysicam, non ego, sed quibus et meam videre da-
tum est, testantur” (Lettere, p. 395).

118.1-3: Solem… adorant.


“Ammira il sol, le stelle e cose elette / per statue di Dio vive e cortigiani: / ado-
ra un solo Dio, ch’un sempre stette”; Esp.: “La natural legge ammira il cielo e
le stelle come divine, ma un solo Dio vero conosce” (Poesie, 3, 88-90). Contro il
Motore immobile aristotelico, C. dice che “converrebbe che Dio fosse l’anima
di tutto il mondo piuttosto che l’anima di una sola sfera, e piuttosto del Sole,
donde proviene ogni energia” (Theol. I [I, p. 97]).
Impossibile ripercorrere, anche solo in nudo elenco bibliogr., il culto delle di-
vinità solari attingibili da C.; basta, del resto, rinviare a Della Porta, che nella

500
“Ratio peripatetica est logicalis” e “Aristoteles philosophatur nimis logice” (Theol. III, pp.
92 e 94); “Aristotele in 11 libri non ci ha offerto una metafisica, bensì una logica” (Metaph.,
‘Proemio’, p. 75).
501
Anche Art. proph., p. 261; Mon. Sp.: “Aristotele come ignaro di cose grandi e savio di logica
e minutezze le [= anomalie] neghi” (p. 20); ma principalmente Theol. I: “Manifesto è infatti
che la metafisica di Aristotele non è che una logica vana, come riconoscono gli Scotisti, e che
non apre nessuna verità divina” (I, p. 9).
556 LA CITTÀ DEL SOLE

sua Magia (I XV, 23r) ne fa un rapidissimo excursus, da Orfeo a Plotino.502 In-


fatti, “come dice Plotino (Enn. 5, 6, 4) in accordo con Platone, gli antichi vene-
ravano il Sole come Dio. Gli antichi teologi gentili collocarono nel Sole tutti i
numi” (Ficino, Sole XIII; cfr anche Agostino, CD, 10, 2); e neoplatonici come
Giamblico, imbevuto di misteri egizi, sostengono che “il sole, la luna, i corpi vi-
sibili nel cielo sono tutti dèi” (Misteri I, 50-2 [p. 88-9]). Così anche nei paradisi
terrestri pagani la divinità per antonomasia è quella solare: gli isolani di Iam-
bulo “nei sacri giorni della festa cantano inni di laude degli dei, massimamen-
te del Sole, a cui hanno se stessi e le isole dedicati” (Diodoro, I, p. 901). Mal-
grado l’interdizione cristiana (v. n. 118.3), il Sole tornò in onore (se non in ve-
nerazione) a partire dal tardo Medio Evo: S. Francesco e il suo Cantico del Sole,
re delle creature (“Tu, buon Francesco…” [Poesie, 10, 12]); Gioacchino da Fio-
re, il quale “aveva stabilito che i suoi cenobiti cantassero il sole in lode della
creazione” (Di Napoli 1947, p. 155-6); la leonardesca ‘Lalde del Sole’ (cfr Va-
soli 1977, p. 285-311); il ficiniano De Sole;503 fino al naturalismo telesiano, sorto
parallelamente alle prime ipotesi sull’eliocentrismo: Persio chiude il suo volu-
me “con pregare quel vero, unico e trino Sole, il quale per Sua imagine ha da-
to il Sole, che ci illumina visibilmente…: O chiarissimo, unico e trino Sole, il
quale infallibilmente prometti a’ tuoi divoti adoratori in terra il ritorno alla ce-
leste patria… Dacci, ti preghiamo, che con la scala de’ terreni e umani soli per
gradi al celeste e intellettual Sole, e a te producitor di tutti questi, ne vegnia-
mo, se prima da te prestata ci sarà tanta baldezza e forza, quanta si ricerca da
umana natura… O celestial Sole… con perpetua legge moderi e governi, te
dissero gli antichi esser il cuor del cielo, il fonte del celeste lume e l’anima del
mondo, la quale empiendo tutta quanta la tua sfera fa che per lo detto igneo
globo, come per cuore, diffondi i raggi che han guisa di spiriti e indi per tutto
all’universo piovi, infondi vita, senso e moto” (p. 123-9).
E naturalmente anche il telesiano C. non può esimersi, dal buio della segrega-
zione carceraria, a elevare il suo inno nell’elegia ‘Al Sole’: “La giusta preghiera
/ drizzola a te, Febo, ch’orni la scola mia”; così annotato da C.: “Il Sole è inse-
gna della semblea d’esso Autore” (89, 2); e da Firpo 1954: “La ‘scola’ è quella
del primo Senno, di cui C. si faceva banditore: il sole (centro del calore, prin-
cipio agente della fisiologia telesiana) ne era il simbolo… La ‘semblea’ è la col-
lazione ecumenica delle genti ispirata ai princìpi della Città del Sole e della Mo-
narchia dei Cristiani… Ispiratore di questa poesia (e simbologia), sarebbe [se-
condo Feo, p. 371] il ficiniano De Sole” (p. 1341 - il Sole come ‘insegna’ ritorna
in T.118.8, mentre in Civitas diventa un aggettivo, forse per evitare la ripetizio-
ne ravvicinata del vocabolo).

502
Per gli sterminati richiami del culto solare in area moderna, invece, cfr almeno AAVV
1965, con le osservazioni di Zambelli.
503
Per il Sole nella magia di Ficino, fondata su Asclepius, p. 29, che lo proclama “secondo dio,
che governa tutte le cose”, cfr Yates 1972, p. 140-2; Yates 1981, pp. 84sg, 164-77.
COMMENTO AL TESTO 557

118.2: statuas
Il giovane C. utilizzava lo stesso modello cardiaco di Persio,504 che è simbolo di
luogo centrale e insieme vitale – com’è appunto il tempio e l’altare -–, collega-
to all’altro grande topos del mondo=organismo vivente (v. n. 124.9-10): “Et
profecto si unum sit animal coelum et sol sit cor, ut Ptolemaeus et Albertus,
Averroem dicere oportet Deumque in sole esse” (Phil. sens., p. 414). Al model-
lo biologico (mondo:animale=Sole:cuore), all’epoca di Città probabilmente, si
affiancò il modello architettonico (Sole-statua), che diventerà la figura topica
nelle sue opere successive, a partire dal sottotitolo di Senso: ‘Parte mirabile
d’occulta filosofia dove si mostra il mondo esser statua di Dio viva e bene co-
noscente…’; nella ‘Salmodia’ 84, 13-4 è “il mondo, statua altèra e degna / di
lui che sempre regna – e gran trofeo”; e in Compendio III, 2 precisa: “Nella no-
stra filosofia naturale chiamiamo il mondo ‘statua di Dio’, poiché rappresenta
perfettamente la potenza, la sapienza, la bontà e l’essere di Dio, ed è da esso, e
non dai libri degli uomini, che attingiamo le scienze”.
La fonte primitiva dichiarata è origeniana: “Sol nobilissimum corpus Mundi est
et vocatur… Origeni statua Dei… cum simillimus Dei sit” (Quaest. phys. XI I, p.
106). Ma la fonte prossima e prioritaria505 è Ficino, che s’ispira a sua volta al De
divinis nominibus dello pseudo-Dionigi: ‘Sol statua Dei. Comparatio Solis ad
Deum’:506 Platone “pensò anche che il Sole fosse la statua visibile di Dio posta
da Dio medesimo in questo tempio del mondo perché da ogni parte tutti la
ammirassero sopra tutto” (Sole XIII). E infatti la metafora è diffusa in Platone
(Epin. 984a; Resp. 508b-c) e neoplatonici (Giamblico, Misteri, 57 [I, LIV]; Proclo,
‘Inno al Sole’: “Or degli Iddii o ottimo / di fuoco incoronato, inclito Nume, /
simulacro del padre universale” [tr. di A. M. Salvini]). Yates 1972: “figure delle
stelle come ‘statue’ infuse di magia” (p. 277) era immagine anche di Bruno
(del De imaginum, cit.), che scrisse un Lampas triginta statuarum (circa 1587, co-
piato da un suo discepolo a Padova nel 1591 – lo stesso anno in cui vi soggior-
nava C.).507
Nel mondo-statua, si saldano tre temi: il mondo come specchio di Dio; quello
dell’Artefice che glorifica se stesso con la sua opera, ovvero un autoritratto tri-
dimensionale materiale, fabbricandosi “cioè alcune statue et imagini rappre-
sentative di tanto suo bene, nelle quali noi l’andiamo contemplando et ammi-
rando et laudando” (Epilogo, p. 187);508 e infine il tema della immutabilità
(‘nihil novi sub sole’): “Iob [37, 18] dice esser fuso come solido rame il cielo,

504
V. n. prec.; ma esso risale a Macrobio: “Il suo nome di intelligenza del mondo risponde a
quello di cuore del cielo che gli hanno dato i fisici” (Somnium I XX).
505
Perché anche per questa figura si può invocare il Somnium di Macrobio: v. n. sg.
506
Ficino, Sole IX, p. 991: questo passo, ispirandosi al Salmo 18, 5 – “Dio diede nei cieli un pa-
diglione al Sole” –, è un commento del VI libro della Resp. platonica.
507
In Favaro vi è un accenno alla compresenza a Padova di C., Bruno e Galilei (p. 9).
508
Il Dio-Artefice, Fabbro o Architetto [v. n. 116.5] è, insieme al Dio-Orologiaio [v. n. 156.10-
1], una delle topiche metaforizzazioni.
558 LA CITTÀ DEL SOLE

non perché sia duro, ma sta d’un modo come statua, non mutando sito, ma
sempre nel medesimo luogo e ordine” (Senso III, 1; ripreso anche da Theol. III,
p. 161 e XXV, p. 74, e in varie poesie, ad es., oltre alla cit. (in incipit della n.
prec.) 3, 89, anche 6, 1-4: “Il mondo è… vivo tempio / dove… di statue vive [il
Senno Eterno] ornò l’imo e ‘l superno”).

118.2a: templa altariaque


La metafora del cielo/tempio (implicita in 112.32-4, e ripresa poco sotto ai ri-
ghi 15-6) è paolina,509 ripresa anche da Agostino, CD 12, 9: la “Città di Dio… è
contemporaneamente il suo sacrificio vivo e il suo tempio vivo”; e da Dante, Pa-
rad. XXVIII, 53-4: “in questo miro e angelico templo / che solo amore e luce
ha per confine”.
Secondo Macrobio, l’espressione risalirebbe a Cicerone: “Quanto al nome di
tempio di Dio, che Cicerone dà all’universo, egli segue in ciò l’opinione dei fi-
losofi che credono che Dio non è altro che il cielo e i corpi celesti soggetti alla
nostra vista. È dunque per farci intendere che l’onnipotenza divina può esser
compresa molto difficilmente, che egli designa tutto ciò che vediamo attraver-
so il tempio di colui che l’intelletto solo può concepire; vuol dirci che questo
tempio merita il nostro rispetto, che il suo fondatore ha diritto a tutti i nostri
omaggi e che l’uomo che abita questo tempio deve mostrarsene il degno cul-
tore” (Somnium I XIV). Per Ficino, il solare “lumen est quasi numen quoddam
in mundano hoc templo Dei similitudinem referens”; Dio “in Sole posuit ta-
bernaculum suum” (Epist. II, 182v e VI, 30r,in: Opera, pp. 720 e 826). Il tempio
celeste illuminato dall’unica lampada solare sarà la figura-chiave del De revolu-
tionibus copernicano, posta a riprova dell’eliocentrismo: “Quis enim in hoc pul-
cherrimo templo lampadem hanc in alio vel meliori loco poneret, quam totum
simul possit illuminare?” (I x, 9v). Secondo Agrimi (p. 130-1) è questa metafo-
ra del mondo “Dei templum” che ha fatto compiere un salto di qualità e se-
gnato la fortuna rinascimentale dell’altra figura del ‘theatrum mundi’.510 “Dio
la vita più e la gloria e beatitudine mostra in cielo che altrove” (Senso III, p.
167); l’idea del cielo come tempio metaforico (preferibile alle pallide imitazio-
ni edificate dagli uomini: v. n. 112.20-30) è realizzata dai Solari nella struttura
del Tempio come cielo metaforico (v. n. 8.41-2).

118.3: honorant, non autem adorant.


Anche privo di Rivelazione, l’uomo ‘naturalmente’ è portato ad onorare gli
astri, e in partic. il più splendente fra di essi, ma a adorare soltanto il loro uni-
co Fattore. ‘Adorare’ è sì in sistema con ‘onorare’, ma l’avversativa serve anche
a rimarcare le differenze tra un popolo assolutamente ‘naturale’, e i popoli del

509
Tra i vari luoghi, Eb. 8, 2 è citato proprio da C. in Apologia: “Nam dicit Apostolus Heb. 8 lo-
quens de coelo, quod sit tabernaculum sacerdotis Christi” (p. 36).
510
“Nel teatro del mondo ammascherate / l’alme da’ corpi…” (Poesie, 14, 1; cfr nota introd.
di Giancotti, p. 65-6 per fonti e raffronti con altri passi campan.).
COMMENTO AL TESTO 559

Nuovo Mondo, che, pur fascinati ‘naturalmente’ dal Sole, hanno pervertito la
loro venerazione in adorazione (= idolatria), siano essi i pur evoluti Cinesi e
Giapponesi (Maffei, I, p. 396 e III, p. 74 [cit. in n. 118.6-9]) o gli Amerindi
(Benzoni, 76v e 166v [quest’ultimo passo è riportato in n. 109.6]). Pure l’Occi-
dente non si esime da culti eliolatrici. Come prova l’etimologia stessa del nome
di Dio (seguendo Giovanni Damasceno, C. fa derivare ‘theos’ da ‘aìthein’= ar-
dere), “gli antichi da principio pensarono che il sole ardentissimo e il cielo
stesso fossero Dio e così il nome passò dal significare un effetto magno di Dio a
significare Dio stesso” (Theol. I [I, p. 181]). Una fonte cit. dall’Au. stesso è Sa-
lomone (Sap., 8), che “accusa i Gentili di adorare il cielo e le stelle e di non
aver pensato di argomentare da quelli a un nume infinitamente più alto e più
buono e più pieno” (Theol. I [I, p. 161]); un’altra fonte, esplicitata in Senso, p.
234, è l’Epinom. (984), dove “Platone dice che li filosofi non credono se non un
Dio, ma se altri adorar si devono, meglio è le stelle adorare che gli uomini mor-
ti”: meglio onorare un astro che idolatrare una creatura.
Il cristianesimo rinforzò l’interdizione dei culti solari, già presente nel Deut. 4,
19 (“Ne videns Solem, et Lunam et omnes Stellas et omnem ornatum Coeli, er-
rore deceptus adores ea”): Gc. 1, 17, Rom. 1, 25 (non bisogna servire alle crea-
ture, ma al Creatore), com’è variamente sottolineato dai Padri: Eusebio, 704B-
D, commentando il Tim. platonico; Crisostomo, Comment. ad Ephesios IV, Sermo
XII (IV, 1031-2); Agostino, Lett. LV, 11 (PL XXXIII, 210): “non adoramus… nec
solem nec lunam”, sebbene siano spesso usati come figure simboliche per rap-
presentare e far comprendere misteri sacri.

118.5: latriae adoratione


“I titoli che non penden d’arte né da gesti, ma dall’ufficio, son più apparte-
nenti alla dulia, seu osservanza, detta da san Tommaso in 2 2ae, tract. De iustitia
[ST II-II, 80 e Quaest. 54], e vuol che sia atto di giustizia dar a tutti il titolo che
si conviene: a Dio di latria, agli uomini di dulia e osservanza. Alla beata Vergine
d’iperdulia sopra d’osservanza” (Titoli, p. 293; Comment. all’ode ‘Poesis pro-
bis…’: la ‘latria’ è riservata solo a Dio quale principio dell’essere e dell’ordi-
ne); inoltre Tommaso in Opusc. IX (Pia. XXVIII, f. 260) chiarisce che anche gli
angeli che muovono gli astri non devono esser adorati con “latria”, ma con
“dulia”, come servi di Dio che trasmettono i Suoi doni. Termine spesso usato e
analizzato già da Agostino (cfr Carena, p. 1226 per lista dei passi); in partic. CD
10, 1, 392: ‘douléia’ è “il servizio reso agli uomini”, mentre (19, 17, 929) “la
Città celeste non conosce che un solo Dio degno di culto, e con la sua fedele
devozione giudica di dover servire solo a Lui, con quel servizio che i Greci chia-
mano ‘latréia’ e che è dovuto soltanto a Dio”. Damasceno, De imagin. III, 516H:
“Huic soli [= Dio] deservio. Huic soli latriae cultum exhibeo” (cfr anche
504Bsg e 520E; v. n. sg, n. 46 [glossa] e n. 112.15).

118.6-9: ideoque… talionis.


Chi serve le creature (e non il Creatore), per contrappasso sarà dominato da
creature: “Chi è santo dominerà gli astri, mentre il peccatore ne è schiavo. È in-
fatti giusto che chi non ha voluto sottostare al migliore, sia schiavo del peggio-
560 LA CITTÀ DEL SOLE

re” (Theol. XVII, p. 21). La schiavitù può esser una punizione divina per i pec-
cati in genere (“Quando l’uomo s’imbestia per sue malvagità, spesso Dio facit
hominem dominum hominis ad punitionem eius” [Mon. Messiae I, 6]), ma è
specificamente la pena per contrappasso nel caso d’idolatria: “diventiamo ser-
vi di colui cui prestiamo culto, e chi pecca, dice il Signore, è servo del peccato”
(Comment., p. 793); invece “ribellandosi da Dio, ch’è la prima Sapienza, tutte le
cose sottoposte a lei [ragione] si ribelleriano da lui [uomo] per la pena della
pariglia naturalissima in tutti i dominii e azioni umane” (Mon. Sp.1, p. 32 e
Mon. Sp., p. 70).511
In Rom. 1, 23-26, S. Paolo dice che Dio ha abbandonato i pagani alle loro “tur-
pi passioni”, perché “hanno adorato e servito le creature, anziché il Creatore…
ricevendo in se stessi la mercede meritata dal loro pervertimento”; versetto
comm. da Damasceno, De imag., 516v; Ambrogio, I VI, 24: “A noi basta per la sal-
vezza… ut serviamus creatori potius quam creaturae”; Agostino, CD 4, 29 e 8,
23: “l’uomo merita di perdere il suo Creatore quando prepone a se stesso le
sue creature”, compiangendo l’infelicità somma “dell’uomo dominato dalle
sue stesse invenzioni” idolatriche.
Esempi coevi di idolatri/schiavi glieli offriva la letteratura di viaggio: Benzoni
narra che i Peruviani idolatrano il Sole e gli impetrano la grazia, “e così al pre-
sente quando gli Spagnuoli li trattano male, gli adorano come il Sole, pregan-
doli che siano misericordiosi” (166v); Maffei: “O sventurati Giapponesi che
adorate come Dio quelle stesse cose, che Iddio ha fatte per vostro servizio!”,
cioè “il Sole e la Luna, le quali cose a quelli che conoscono Gesù… sono serve
e ministre” (III, 5).

118.11-3: per quam… bona.


“Et videtur sane mihi id quod calidum [il Sole è principio e simbolo del calore]
vocamus immortale esse, et cuncta intelligere, et videre, et audire, et scire om-
nia, tum praesentia, tum futura” (Ippocrate, Carni I, 14, cit. in Poët. VI III, p.
1025). Platone, Resp. 509b: “agli oggetti visibili il Sole conferisce non solo la fa-
coltà di essere visti, ma anche la generazione, la crescita e il nutrimento” (per
la trinitarietà della divinità solare v. n. 126.17-8).

118.16-21: et implorant… fatentur.


“Le stelle sono celle dell’anime beate, che non ritengono né il moto né la vista,
ma più l’aiutano. La Galassia essere fatta per via de’ santi spiriti, fu opinione

511
Cfr anche: Politici, p. 137; Atheismus IV XXXIX; Mon. Messiae XVII, p. 78; concetto replicato
spesso in Antiven. (pp. 8, 30, 76-8, 115): “dovunque entra opinione, che nega Dio, o la provi-
denza, o la immortalità dell’anima, o l’altro secolo, o il libero arbitrio, è forza – come io mo-
strai nella Politica [= Aphor., 116-9] – che in quel paese si faccia mutazione e che di più peg-
giori, perché tali opinioni sfrenano le conscienze e fan li prìncipi tiranni per conseguenza e
li popoli sediziosi… Quanti paesi apostatano dalla religione nativa sempre diventano schiavi
di tiranni – dicit Dominus – perché imparino che differenza è tra il servire a Dio e servire agli
uomini”.
COMMENTO AL TESTO 561

anche di Pitagora; e ‘nvero senza tal fine non par che di lei si possa dire cosa
probabile” (‘Salmodia’ 85, 51-6, Esp.). Ancor più chiaramente Metaph. ci fa ca-
pire quali sono le origini e i bersagli polemici sottesi a questa credenza dei So-
lari: “Se tutti gli astri sono riflessioni di luce, e soltanto il Sole brilla di luce pro-
pria, ciò induce il forte sospetto che essi siano costituiti da cose diverse dal so-
lo fuoco, e che siano sistemi e mondi, come mi disse Stigliola, e altrimenti il
Nolano, e i Pitagorici, in passato, che gli sembrava irrazionale che corpi tanto
più grandi della Terra… siano soltanto fuoco ozioso, e non piuttosto tutti gli
elementi e piante e animali e uomini, come riteneva il nostro conterraneo Fi-
lolao. Ma a me risulta agevole eludere questa argomentazione: anzi mi chiedo
con stupore per quale ragione Dio abbia fatto nel nostro sistema la terra, le ac-
que, gli animali sottoposti a mali perpetui, esposti alla generazione e alla mor-
te: per cui ritengo che le stelle siano piuttosto gli insiemi delle cose immortali
e le sedi degli angeli che conoscono e lodano Dio. Nel nostro sistema infatti
dominano l’ignoranza e l’infelicità e l’inganno, si bestemmia Dio, non gli si
presta fede né lo si riconosce. Pertanto se Dio avesse fatto altri sistemi infelici
di questo genere più che la sua bontà, sembrerebbe avere mostrato la sua ira”
(III, p. 52). Come si vede, C. polemizza proprio con i ‘neo-pitagorici’, ovvero
con i copernicani napoletani prima, e i galileiani poi, a cui, poco oltre, però,
concede l’ipotesi dell’esistenza di altri sistemi planetari, di cui le stelle sareb-
bero i centri (122.18-22 e 124.27-8).
Invece, sicuramente le stelle sono abitate dalle anime dei beati: una volta ab-
bandonato il corpo “questo opaco antro (così pinge Platone il corpo e lo stato
nostro)… lo spirito nostro aereo si farà aria e cielo, e così si fa continuamente
esalando, né torna a noi più, ché gli piace meglio la libertà, e si fa una cosa con
l’aria. Ma l’immortale mente [= anima] non resta aria, ma sale fin alle stelle, se
dall’infezione del corpo non è macolata, e quivi si deifica e glorifica”. Infatti “il
moto dell’anima esser circolare Averroè pur disse, ben che il corpo glie lo fac-
cia variare; dunque è celeste”, cioè è coessenziale alla materia delle stelle (“non
senza ragione filosofi dicono che l’anima sia parte di etere” – v. n. 64.13, n.
64.16-8, n. 142.36-144.3). E dunque nella loro sede siderea possono accedere
alle visione beatifica, grazie alla duplice circostanza che, come detto, non sono
più serrate dal nostro corpo opaco e che, trovandosi oltre la regione aerea,
non sono obnubilate dai vapori sollevati dalla perpetua guerra tra calore e ter-
ra; e così “l’anime beate, stando dentro a case sì vive e lucenti magioni, tutte
cose naturali e idee divine mirano, e han poi il lume più glorioso che l’alza al-
la visione sopranaturale beatifica”; ma già la visione stessa del cielo, che ora ci
è impedita dal nostro ingombrante apparato sensoriale e dalla cappa di nuvole
più o meno dense, sarà uno spettacolo straordinario, perché “è verissimo che
Dio in cielo fa gran mostra di sé” (Senso, p. 171-5).

118.22-122.4: Negant… erigi.


Il corrispondente passo di T.118.20-122.4 (che Firpo si limita a riportare in no-
ta senza più), non solo diverge da Civitas, ma anche dagli altri mss, e per giun-
ta è ‘alquanto oscuro’. Partiamo proprio da quest’inciso: “alquanto oscura, ma
contiene il vero e par bugia; scriverò altrove meglio” (T.120.19); inciso, che
562 LA CITTÀ DEL SOLE

nell’originale doveva essere una glossa a margine, che il copista ha surrettizia-


mente introdotto nel testo (e così è passato anche in R.); questa postilla, cru-
ciale, perché permette a Bobbio di datare la prima redazione anteriormente al
1603, anno in cui fu scritta la perduta Astronomia, in mss posteriori al 1604 (il
Napoletano I) fu sostituita da quest’altra postilla a margine: “Di questa senten-
za a lungo ne dice la nostra Astronomia”, nella quale “rifiutati gli eccentrici e gli
epicicli di Tolomeo, nonché i moti della terra e le librazioni di Copernico, i
cerchi omocentrici di Aristotele e di altri, e i cerchi giranti aggiunti alle dottri-
ne di Calippo ed Eudosso, ho elaborato un nuovo sistema, in cui davo ragione
dei più recenti fenomeni unicamente sulla base del moto, progressivo, ma ir-
regolare, di discesa del sole, che finirà per incendiare la terra, la quale è il cen-
tro dell’odio, come il sole è il centro dell’amore” (Syntagma I III).
L’oscurità congenita alla materia può poi esser stata aggravata da una corru-
zione del testo, dovuta a una posposizione di frasi. Anzitutto sintetizziamo i
passaggi salienti del brano di T.118.22-122.4: orbite e velocità reali dei cinque
pianeti, loro tragitto apparente (visti dalla Terra), il diverso comportamento
reale e apparente della Luna, e infine retrogradazione di Saturno, Giove e
Marte (è presumibile che il Sole invece si muova di moto quasi ellittico unifor-
me). Anche ad una lettura sommaria, gli ultimi due righi (“e cossì pur nel ca-
lare si fanno retrogradi perché non correno col primo cielo, ma abbassano, on-
de restano adietro li tre pianeti primi”) risultano sospesi, perché la frase prece-
dente è sufficientemente conclusiva dell’asserzione (o meglio: negazione) ini-
ziale, pur riferendosi stavolta alla Luna e non ai pianeti: “Negano l’ecentrici ed
epicicli… e cossì si vede che né epicicli né ecentrici…”; inoltre le ultime paro-
le (“li tre pianeti primi”) si riferiscono ai primi tre corpi celesti elencati ben ot-
to righi prima (ma tali anche nell’ordine siderale, e chiamati perciò ‘pianeti
superiori’, perché la loro orbita sarebbe esterna a quella solare); infine si co-
glie un netto parallelismo (rovesciato) fra “e nel’alzare paiono gire adietro”
(T.120.9) e “pur nel calare si fanno retrogradi” (T.122.1). È allora ipotizzabile
uno scambio di frasi (forse per un inserto anch’esso a margine nell’antigrafo)
del testo originario, così restaurabile a partire da T.120.9:
… fann’alto circolo e nel’alzare paiono gire adietro e cossì pur nel calare si fanno retro-
gradi perché non correno col primo cielo, ma abbassano, onde restano adietro li tre piane-
ti primi, e cossì si veggono, perch’il stellato cielo corre velocemente in ventiquattro ore, ed
esse ogni dì restano più a dietro talché sendo passate dal cielo paiono tornare; ma la Lu-
na velocissima in congiunzione ed opposizione non par tornare ma solo tardare, perch’il
primo cielo non è più di lei veloce, onde non pare retrograda, ma solo tarda: e cossì si ve-
de che né epicicli né ecentrici ci voleno a farl’alzare e retrocedere.
In questa forma, il senso scorre più spedito: prima si esamina il regime dei pia-
neti, e in partic. dei tre superiori, poi della Luna; perciò una sua parafrasi sin-
tetica complessiva potrebbe essere la seguente:
‘i pianeti sembrano arretrare quando si muovono verticalmente, e cioè, in det-
taglio: quando tutti si alzano in apogeo, Saturno, Giove e Marte, pianeti più di-
stanti e (quindi) più lenti a completare l’orbita, sembrano andare indietro,
perché, mentre il cielo delle stelle continua a ruotare a velocità (un giro in un
giorno) e direzione (“di levante a ponente”, dirà R.) costante, il loro moto si
COMMENTO AL TESTO 563

sviluppa lungo l’asse verticale (“abbassano”); la Luna invece, poiché non altera
la traiettoria della sua orbita, non sembra retrocedere, ma, al più, ritardare;
donde l’inutilità di ricorrere ai macchinosi epicicli’.
Però questo stato caotico di T., trascinatosi in parte anche in R. (v. 120.4 in ‘Ap-
parato delle varianti di α’), deve aver condizionato anche la traduzione, dove
permangono questi andirivieni testuali, in partic. per quanto riguarda il caso
della Luna (120.15: “Lunam vero…”; 120.24: “Lunam tamen…”), pur essendo
mutati alcuni parametri del modello descrittivo. Fra T. e le successive redazioni
vi è infatti, tra l’altro, una differenza molto significativa: secondo T., il compor-
tamento orbitale dei pianeti è analogo a quello che rispetterà (a partire da R.)
la Luna, e cioè le loro orbite vanno tracciate in funzione della distanza angola-
re col Sole: a 0° e a 180° i pianeti sono in apogeo, a 90° e 270° sono in perigeo;
invece la Luna non varia la velocità (e, presumibilmente, la traiettoria), per cui
la sua orbita è assimilabile a una circonferenza percorsa con moto uniforme
quasi sincrono a quello del cielo e quindi non soggetto al fenomeno apparen-
te della retrogradazione.

118.23: Copernicianos.
Pur nella generale oscillazione grafica, in Phil. realis vi è indifferenza fra ‘Ptole-
maicus’ o ‘Ptolomaicus’, mentre vi è una netta predominanza di ‘Coperni-
caeus’ (“motu Coperniciano” solo in Quaest. phys., p. 126).

118.23-4: unum… coelum,


Anche Astrol. preferisce la forma ‘coe-’ a quella più classicamente corretta
‘cae-’. “S. Chrys. et S. Theo. ponunt coelum unicum non sectum in sphaeras
sicuti et ego” (Physiol. III V, 12 glossa E); in ebraico ‘cielo’ è un nome plurale,
come noi diciamo “orbis terrarum” per l’unica Terra (Senso, p. 173). L’unifi-
cazione fisica dell’universo, avversando la teoria aristotelica della separazione
fra cielo etereo e mondo elementato sublunare, è l’unico punto di contatto
con la cosmologia galileiana (come provano le macchie solari e le comete);
comunque il cielo è, per C., di natura ignea, in base appunto alla sua teoria fi-
sica (124.3-5).

118.23-120.1: Asserunt… moveri


È appena adombrata la questione d’origine aristotelica (De Coelo VIII; Metaf.
LV) della natura del moto degli astri. Aristotele ritiene che, come ogni mobile
è mosso da un motore separato (la pietra dalla mano; il corpo dagli spiriti), co-
sì le Intelligenze governano le sfere celesti, con moto contrario a quello divi-
no;512 ma per C. “questa [è] una sciocchezza” (Senso, p. 171). Infatti il motore
separato vale solo per i moti naturali (= terrestri) violenti, non per quello cele-
ste. In secondo luogo, il cielo, essendo unico (non separato in sfere), si muove
in virtù solo della propria natura ignea: il fuoco, infatti, è per essenza mobile
(come la terra è per essenza statica), e non potendo né scendere in basso, né
salire più in alto, si è messo a ruotare circolarmente (v. n. 114 [glossa] § 1.1).

512
“Secondo Aristotele, gli intelletti muovono in senso contrario a Dio da occidente a levan-
te, mentre Dio muove [le sfere] da levante a occidente” (Theol. I [I, p. 101]).
564 LA CITTÀ DEL SOLE

Ciò non esclude che gli angeli possano, forse, muovere le stelle, ma “ut mo-
deratores motuum potius quam ut motores” (Sensu, p. 173n). Cioè “in quan-
to si muovono intrinsecamente, le stelle si muovono naturalmente, in quanto
si muovono secondo un determinato disegno, esse son mosse (credo) intel-
lettualmente da cause esterne” (Theol. I [I, p. 103]).513
La teoria delle Intelligenze sideree, ben sintetizzata da Isidoro (Etym., De Nat.
Rer., XXVII [PL LXXXIII, 1000]: ‘Utrum sidera animam habeant’), risale in ef-
fetti a Platone (Leg. 898c; Tim. 36e, 41ab), passa poi ad Aristotele e peripatetici
(in partic. Alessandro di Afrodisia), è discussa da Agostino (CD 4, 11; 7, 15 e,
dubitativamente, 13, 17, 558; e Gen. ad litt. II), ereditata dal tomismo,514 per ap-
prodare alla Theologia platonica di Ficino.515

120.11: vulgares astronomos,


Chiama “vulgares” quegli astronomi che, definendo i pianeti ‘retrogradi’, con-
tinuano a sostenere che essi alle volte arretrino. Dunque ‘volgare’, nel senso di
‘vulgato’ fra gli astronomi, assume anche il significato di ‘inappropriato’, se ri-
ferito, per ipallage, al moto planetario “retrogrado”, in quanto non cambia la
direzione, ma la velocità dei pianeti rispetto alla volta celeste. Quando i piane-
ti sono a circa 180° dal Sole, diventano talmente veloci da superare le stelle:
“ita ut fixas praecellere videantur in anteriora, quod Ptolemaeus vocat retro-
gradationem, nos velocitatem, quia angustiorem circulum describunt, et faci-
lius peragrabilem”; e poco oltre ribadisce che “Astrologi hunc esse motum pro-
prium planetarum putaverunt, cum secundum nostra dogmata secus dicen-
dum videatur, sed loquendum ut plures” (Astrol., p. 18-9).

120.17: eo quod sub Sole sit.


Letteralmente: “per stare sotto il Sole”, ma con valore causale, non finale, co-
me si evince da Senso: la luna “non cala nell’opposizione come gli altri [piane-
ti] perché sta di sotto del sole [aggiunta in Sensu: “citima nobis”] et è di poca
luce sua e tutta dal sole la riceve, e quando più ne ha, più si alza in ogni sito”
(p. 170). Quando si trova dunque in linea retta sotto il Sole, sia in congiunzio-
ne che in opposizione, è colpita in pieno dai raggi solari, e non di traverso; e
poiché quanto più luce riceve tanto più s’innalza (indipendentemente dalla di-
stanza, che, comunque, in congiunzione, secondo C. [Lettere, p. 169], è più

513
La cautela – “credo” – è forse dettata dal fatto che l’anima motrice cui sta pensando è
quella origeniana (cfr Firpo 1968, p. 12 e Theol. V, dov’è diffusamente discusso “se gli angeli
muovano le stelle”).
514
Sisto, riportando la tesi di Basilio (contraria) e di Damasceno (favorevole), sembra aderire al-
la soluzione tomistica (ST I, q. 70): “Sidera ceteraque coelestia corpora esse animata, sive ani-
malia, bifariam intelligi potest”: o come anima ‘informante’ [= che dà forma al corpo], o “anima
assistente, quae corpori uniatur, non tamquam forma, sed tamquam movens mobili”.
515
In generale, per il tema delle intelligenze demiurgiche e mediatrici nella speculazione teolo-
gico-astrologica precedente, cfr Gregory 1996, p. 9sg, e, specificamente per C., Walker, p. 256-7.
COMMENTO AL TESTO 565

prossima all’astro che al nostro pianeta), i suoi apsidi sono in funzione dell’a-
spetto col Sole: a 0° e 180° = apogeo; a 90° e 270° = perigeo (Astrol., p. 18).
Ficino: “I pianeti superiori, quando il Sole si avvicina ad essi, ascendono; quan-
do invece si allontana, discendono. Congiunti col Sole, sono sommi nell’epici-
clo; in opposizione sono infimi; nella quadratura sono medi per altitudine. La
Luna nell’un caso e nell’altro raggiunge il punto più alto del deferente; nella
quadratura invece discende… Se essa procede in alto anche quando è in op-
posizione al Sole, non dobbiamo meravigliarci. Che cosa è infatti la luce della
Luna se non la luce stessa del Sole ripercossa dallo specchio lunare? Luce che
nel plenilunio si riflette faccia a faccia nel Sole? Del resto si vede scendere an-
che la Luna nella quadratura, perché allora guarda torva il proprio signore”
(Sole IV, p. 977-9).

120.28-9: primum coelum


Non è in contraddizione con quanto ha appena affermato (118.23) ed ha va-
riamente ribadito altrove (opponendo alla metafora aristotelica dei
pianeti/nodi nelle tavole/sfere quella dei pianeti/pesci che si muovono libe-
ramente nell’immenso mare celeste); ma continua a usare, coerentemente, la
terminologia ‘vulgaris’, cioè tolemaica, alludendo alla regione delle stelle fisse,
quelle sì incastonate nella volta celeste con cui girano solidalmente; infatti le
stelle si chiamano ‘fisse’, perché permangono per lunghissimo tempo nello
stesso tipo di moto e nello stesso luogo, cioè non cambia la loro posizione rela-
tiva nell’ottava regione, ritenuta immobile dai pitagorici (‘firmamento’), mo-
bile dai tolemaici (v. n. 44.10-1).

122.1: sympathiam
Sympathia, come corrispondenza tra enti naturali e forze celesti, “manifeste e
secrete, da le basse alle alte” – per dirla con Doni, Mondi, p. 177 –, è un capo-
saldo del ficinianesimo ricavato dal De sacrificio et magia di Proclo.
“Qualità occulte, influssi, attrazione hanno a che fare con il mondo delle sim-
patie e antipatie, con l’idea che il mondo sia rappresentabile come un organi-
smo vivente e sia retto da principi simili a quelli che servono a interpretare e
spiegare le azioni umane. Il quadro del mondo tracciato dal meccanicismo si
oppone con forza al quadro antropomorfico del mondo che è caratteristico
del mondo magico e della tradizione ermetica, così fiorente nella cultura del
Rinascimento che Galilei ha alle spalle” (Rossi 1994), e che C. invece incarna
alla perfezione.516
Nello stesso equivoco di identificare apogei ed esaltazioni sono incorsi, secon-
do Pico, certi astrologi leggendo un passo di Plinio: “‘C’è un’altra ragione del-
le sublimità [= esaltazioni], perché hanno le absidi altissime dal loro centro in
quei segni…’ Di qui si può inferire che, o una volta fu così, o così pensavano

516
Oltre alla teoria dei moti ‘simpatetici’ dei pianeti e, più in generale, degli influssi astrali,
che regolano la vita dei Solari, con ampia discettazione sulla sua ortodossia a 140.1-158.34, vi
è la teoria del mondo animale/animato (124.9), della lotta fra Terra e Sole ovvero Freddo e
Caldo (134.24), ecc. (v. anche n. 14.12-6).
566 LA CITTÀ DEL SOLE

quelli che si dedicavano alla scienza degli astri, che le stelle poste nelle parti ri-
cordate si muovevano nel luogo più alto dal centro delle loro absidi, onde quei
gradi o parti si chiamavano anche altitudini. Ma con ciò fu data occasione ai
genetliaci [= astrologi] a che, conservato il nome di altitudine, come se l’altitu-
dine non fosse un luogo, se ne servissero quasi indicasse la natura e la potenza”
(II, p. 99). Insomma, secondo Pico, gli astrologi moderni chiamano esaltazioni
(conferendo loro un potere) quelle che per gli antichi astronomi erano apsidi
(che sono dei semplici luoghi di massima distanza dal centro). “Riassumendo:
‘exaltatio seu altitudo planetae apud astrologos non intelligitur de situ locali
seu distantia a terra vel ab alio puncto quali imaginatione deceptus est Plinius
[II, 16], sed de parte signiferi, quam cum stellae adeptae fuerint, maximam
mutationem in aëre atque reliquis rebus inferioribus ostendunt’ (Nabod, in Al-
chab., p. 38)” (Garin 1952, p. 544).

122.5: plaga
‘Plaga’ è propriamente una delle cinque fasce in cui la Terra risulta divisa dai
due Tropici e dai due Circoli polari, dette zone astronomiche (da non confon-
dere con le climatiche: v. n. 10.13). Primavera ed estate durano 186 giorni nel-
l’emisfero boreale contro i 179 dell’australe.

122.10-4: Quapropter… opinantur.


Il periodo in cui fu creato il mondo costituiva un problema, come risulta già in
SN II XXX (‘Quo tempore creavit Deus hunc mundum’) e in SH I XXV (“Arabes
et Aegyptii incipiunt a septembre, quia in creatione mundi leguntur arbores
fructum habuisse. Romani vero a ianuario, quia tunc Sol incipit nobis appro-
pinquare, vel paulo ante. Iudaei a martio, quia in eo Sol factus est”); ma so-
stanzialmente due erano le ipotesi dominanti: equinozio d’autunno o di pri-
mavera. La tradizione cristiana è nettamente schierata per la primavera, infe-
rendo dal versetto della Genesi (1, 12: “La terra produsse erbe, piante che fan-
no seme secondo la loro specie, alberi che danno frutti”) che un tale rigoglio
di vegetazione non poteva aversi che in primavera: come “Virgilio, Dante e S.
Ambrogio” (Theol. III, p. 171-3), così Cirillo, Catechesis XIV (Bibl. Patrum II,
146b-c), Agostino, Quaest. ex utroque mixtim, CVI e Quaest. ex Novo Testam., LV
(PL, XXXV, 2252 e 2317), Damasceno, Orthod. fidei II, 203I, Beauvais (SN XV
XXXIV) e Ficino, Sole X, p. 995.
Invece per gli antichi Ebrei il mondo fu creato in autunno: commentando il
su cit. passo di Damasceno, De Billy scrive: “Attamen nonnulli sentiunt potius
mundum esse creatum in Septembri et aequinoctio autumnali, quoniam Dei
(inquiunt) perfecta sunt opera, et prima cuiusque speciei individua produxit
in sua plenitudine et consummata perfectione… Tempus autem maturitatis
fructuum et frugum est in Septembri et aequinoctio autumnali: Quare tunc
coniectant factum esse mundum” (205K – tesi, per inciso, da cui lui si dissocia,
perché l’equinozio autunnale non è il punto iniziale, ma mediano del corso
del Sole). “Mentre nell’antico calendario giudaico [il capodanno] cadeva in
autunno (primo di ‘tisrî’ [= settembre-ottobre]), al principio dell’era cristiana
i Giudei osservavano ambedue i giorni, il primo di nîsan [= marzo-aprile] co-
COMMENTO AL TESTO 567

me inizio dell’anno ecclesiastico e il primo di tisrî come inizio dell’anno civi-


le” (Miegge, s.v.). “Gli Ebrei facevano cominciare l’anno dal mese di settem-
bre, quantunque il calendario sacro lo faccia cominciare in primavera, perché
in primavera fu data loro la Legge. Non mancano Rabbini che stanno per la
nostra opinione” (Theol. III, p. 173). Uno di questi rabbini è cit. nel commen-
to di De Lyra a Gen. 1, 12: “Dicunt aliqui, videlicet Rab[inus] Eliezer et sui se-
quaces quod factus est mense septembri, quando fructus sunt in arboribus
maturi et habentes semina in semetipsis: et haec opinio communius tenetur
ab Hebraeis tanquam rationabilior” (cit. da Bobbio). Molto diffuso era anche
il calendario di Alfragano [= al-Farghani], già noto a Restoro d’Arezzo e Dan-
te, a cui si rifà ad es. in Vita nova XXIX, 1: “secondo l’usanza di Siria… lo pri-
mo mese è ivi Tisirin primo, lo quale a noi è Ottobre” (annota Contini:
“Tis(i)rin prior (l’ebraico, dal babilonese Tisrî)”). Anche Pico, VII VI (III, p.
187): tra gli Ebrei, “taluni sostengono che [l’anno] è cominciato a primavera,
altri d’autunno; e se una opinione va preferita, essi sono inclini a supporlo fat-
to in autunno”, perché, salvo la Pasqua in aprile, “tutte le altre cose comincia-
vano dal settembre”, com’è “confermato dalle antiche consuetudini degli
Ebrei” (e riporta le opinioni di Beda, Giuseppe Flavio e S. Girolamo, “che
commentando Ezechiele, dice primo mese l’ottobre”). Scaligero confermava
appunto che gli Ebrei antichi “in Libra conditum volunt… Recentior opinio
eorum, qui mundi conditum in aequinoctium vernum conferunt: quia, in-
quiunt, tunc omnia germinant, quae contra in autumno marcescunt” (Opus V,
p. 368-9). Vecchietti, VIII, frontesp.: ‘Initium temporis’: “29 Octo[ber]”, “quia
Primus dies Creationis in ipsomet die fuit Novilunij Autumnalis, et in primo
die hebdomadis quem Dominicam noncupamus” (I XI); “De anni autem tem-
pore particulari in quo vere et proprie Mundus fuerit creatus, scimmus et nos
quam plurimos esse qui vulgaris illius credulitatis… ipsum creatum fuisse in
principio Vernalis temporis. At magnopere decipiunt ipsi… Et tametsi nobi-
scum sint Hebraei omnes et magna Doctorum nostrorum pars; Auctoritates
tamen posthabendo, tribus hoc probabimus validissimis argumentis… Pri-
mum est quia scriptum legimus in 2 Genesis: ‘Plantaverat autem Dominus Deus
paradisum voluptatis a principio in quo posuit hominem quem formaverat.
Produxit D. Deus de humo omne lignum pulchrum visu et ad vescendum sua-
ve’ [seguono altre cit. in cui si parla dei ‘frutti’ maturi nell’Eden, pronti ad es-
ser mangiati]… At in arboribus cunctis fructus tantum in Autumno maturi re-
periuntur, quos vescantur homines, non autem in Vere; ergo in Autumno pri-
mum Deus creavit mundum. Secundum est hoc. De prima solemnitatis Pa-
schalis institutione, legimus in 12 Exodi: ‘Dixit quoque Dominus ad Moysen et
Aaron in terra Aegypti: Mensis iste vobis principium mensium, primus erit in
mensibus anni’. At mensis ille, mensis fuit vernalis temporis, qui postea Nifan
appellatus est. Et si iam ab initio Aevi talis erat, ad quid ergo iussit Deus ut in
futurum principium mensium fuisset, et primis in mensibus Anni? Non certe
ad aliud quam ad hoc, quod sicuti tunc ipse ab Aegyptiorum servitute liberare
volebat populum suum, et ipse mensis Septimus erat, ob mirabilium rerum
memoriam quae eodem mense per agenda erant redemptionis humanae, vo-
luit ut ab illo tempore primus esset in posterum. Et ab ipso Anni Sacri semper
568 LA CITTÀ DEL SOLE

inciperent ab Exodo, quorum in perpetuum successura series usque ad finem


per omnes generationes erat continuando. Tertium est, quod in Opificio
Creationis… prima opera patrata notantur a Deo in primo die hebdomadis.
At si dies acciperetur Novilunii Vernalis, inveniretur fuisse in die 24 Aprilis, et
incidisset in feriam tertiam et non in Dominicam, quod esset contra Scriptu-
rae Sacrae auctoritatem. Fuit igitur vere primus dies Creationis in Dominico
die, in Novilunio Autumnali, et in 29 Octobris, Annos supra Aeram Caesaris
3907 et diebus 63” (I XII - e chi osa contraddirlo è o un empio o un ‘animal
brutum’).
C. ha espresso il suo pensiero a tal proposito in varie opere (Epilogo, p. 252;
Theol. III, p. 171-3; Physiol. III V, p. 14; Quaest. phys. XX III, p. 189), ed è stato
sempre fautore della nascita autunnale del mondo, e “non perché in autunno
maturano i frutti” (Theol. III, p. 171), ma in base alla fisica telesiana: dopo che
le forze del caldo e del freddo ebbero scisso l’ammasso di materia amorfa ori-
ginaria in due elementi primi antitetici, fuoco e terra, questi, respingendosi e
combattendosi, diedero vita all’universo, in partic. alla Terra e al Sole.517 Poi-
ché l’emisfero australe è prevalentemente marino, come diceva Botero,518
vorrà dire che inizialmente il Sole batteva di più sull’emisfero meridionale, tan-
to da liquefarne buona parte della massa solida (v. n. 124.5-9), “mentre nelle
nostre regioni si formavano dai densi umori monti altissimi”; perciò “ritengo
che il sole sia stato creato all’equinozio e che sia prima declinato verso sud”
(Theol. III, p. 171), ovvero il 21 settembre.519 Una volta avviata ed avanzata la
sua opera di liquefazione dell’emisfero australe, adesso il Sole sta quasi sette
giorni “più in Cancro che in Capricorno e questo gli rimase per sua natura”
(Epilogo, p. 261). A tale fenomeno, reputato da Botero uno dei segni “della pre-
minenza grandissima della parte Artica del mondo sopra l’Antartica” (I IV, p.
200), C. “addidit causas” (Physiol. III V, p. 17), che sono quelle qui (122.5) e al-
trove spiegate: “gli enti di questa nostra parte che sono più duri abbisognano
di molto Sole per compensare il difetto iniziale” (Theol. III, p. 173). In tal mo-
do si concilierebbero le due ipotesi equinoziali antitetiche: il mondo ha avuto
origine sì in primavera (“fateri oportet mundum creatum esse quando aequi-
noctium vernale fiebat in gradu 18 Tauri stellati… et credo aprilem fuisse, teste
Hieronymo” [Art. proph., p. 263-4]), cioè quando la forza e durata dei suoi rag-
gi comincia ad aumentare, ma nella primavera australe, che corrisponde ap-
punto all’‘autunno nostro’.

517
“Il Sole si muove velocissimamente di due moti, così da non poter agire sulla medesima
parte in modo costante; la terra, invece, si difende con il freddo e con la densità” (Compendio
IX, 12).
518
“Sotto la zona Torrida v’è molto più mare che terra; come nella zona nostra molto più ter-
ra che mare” (I IV, p. 198).
519
Il passaggio da “settembre” di T.122.11 ad “autumno nostro” non è una perdita di specifi-
cità; al contrario: poiché quell’espressione allude proprio all’equinozio autunnale, è precisa-
to addirittura il giorno dell’inizio del mondo.
COMMENTO AL TESTO 569

122.14-5: Itaque… amiserat,


Questa sorta di antropomorfizzazione dello scontro fra elementi era già in Ma-
crobio, Somnium II X, dove la lotta fra l’acqua e il fuoco comporta una ciclica
successione di inondazioni e incendi: “ben presto l’ardore divorante del fluido
igneo si trova rallentato, e l’acqua recupera insensibilmente le sue forze… e
durante questa crescita delle acque, il fuoco si rimette dalle perdite che ha su-
bito”.

122.17-22: Cum hoc… veritatis.


Come già accennato (v. n. 12.5 e n. 118.16-21), “in giovinezza C. aveva discusso
questa ipotesi [della molteplicità dei mondi] con Colantonio Stigliola, secon-
do il quale era irrazionale supporre gli astri come solo ‘ignis ociosus’, e non
piuttosto come mondi simili al nostro, e aveva ribattuto ai suoi argomenti so-
stenendo che, al contrario, gli sembrava irrazionale moltiplicare anche su altri
mondi l’ignoranza, l’infelicità, l’inganno, le bestemmie del nostro, e che pre-
feriva invece considerare le stelle esenti da corruzione e dolore, e sede degli
spiriti angelici (Metaph. III). Ma le scoperte di Galileo sull’irregolarità della su-
perficie lunare, le fasi di Venere, le ‘nuvolette’ attorno al Sole riaprono il di-
scorso e gli fanno dubitare delle sue certezze di un tempo: al punto che non
esclude neppure che gli astri, anziché da spiriti beati siano popolati da abitan-
ti, anche se differenti da noi per la diversità delle condizioni ambientali (Quae-
st. phys., p. 99)” (Ernst 2002, p. 168). Non appena, infatti, lesse le stupefacenti
‘novità’ del Sidereus (1611), C. ne fu talmente entusiasta da sfiorare l’ingenuità:
chiede a Galilei – forse pensando che siano visibili col cannocchiale –, se i “pla-
netae habitatores, quorum singulos [pianeti] oportet esse plenos, ut… tellus”,
sono beati o mortali come noi, se coltivano le scienze cosmologiche, che tipo
di organizzazione sociale hanno, e se, essendo la circonferenza dell’universo
vastissima, anche loro si ritengono collocati al suo centro (Lettere, p. 163-4). Da
Platone (Tim. 42b-d) a Bruno (De innumerab. II VIII, p. 379), svariati autori po-
stulavano l’esistenza di extraterrestri, lo stesso Keplero, anch’egli stimolato dal-
la lettura dell’opera galileiana, nella Dissertatio cum Nuncio sydereo (Praga, 1610,
p. 27) sostenne: “veri non absimile non tantum in Luna, sed etiam in Jove ipso,
incolas esse” (cfr Waard, III, p. 69; v. n. 138.8-10). Se dunque quella di C. non è
la prima domanda scientifica (= né mitologica né teologica) sui Seleniti, è però
la prima volta che C. postula l’esistenza di altri corpi celesti analoghi alla Terra.
Ma questo postulato, se fosse verificato, segnerebbe la fine sia della sua astro-
nomia che della sua fisica e metafisica. Se infatti si tengono presenti i termini
principali della questione, la perplessità dei Solari è ampiamente giustificata: la
cosmologia campan., infatti, basata sulla fisica dei contrari termici assoluta-
mente incompatibili, prevede una sfera ignea punteggiata da nuclei di calore
(stelle e pianeti) avente soltanto al suo centro una pallina ‘elementata’ (la Ter-
ra), composta cioè dagli elementi scaturiti dal perenne scontro caldo/freddo.
Inoltre ci sono le riserve teologiche, che C. così riassume in Apologia: “dall’opi-
nione di Galileo consegue che innumerevoli sono i mondi e le terre e i mari,
così come ritiene Maometto, e che vi abitano uomini, se è vero che nelle stelle
si ritrovano i quattro elementi, come nel nostro mondo: se infatti ogni stella si
570 LA CITTÀ DEL SOLE

compone di tutti e quattro gli elementi, ogni stella di certo è un mondo… Non
si dica poi di rigurgiti eretici, laddove si reputa che Cristo sia morto anche su
altre stelle per la salvezza di quegli uomini”; di contro, “le macchie solari e le
nuove stelle del cielo sidereo e le comete al di là della luna indicano chiara-
mente che gli astri sono mondi” (pp. 8 e 11). Dunque: su un fronte Maometto
e l’evidenza del telescopio; sull’altro Aristotele e l’autorità Scritturale: “Se Ari-
stotele aveva dedotto l’eternità del mondo dalla fissità delle figure celesti e dal-
la regolarità dei moti astrali, i nuovi fenomeni smentiscono nel modo più evi-
dente l’inalterabilità e la perpetuità di tale ordine e del mondo stesso. I cardini
della ‘machina mundi’ in verità si spostano: le costellazioni non sono fisse co-
me si riteneva, e non lo sono gli apogei dei pianeti; l’obliquità solare va re-
stringendosi e il Sole si avvicina inesorabilmente alla Terra, che finirà per esse-
re incendiata, risultando vani tutti gli espedienti matematici cui ricorrono gli
astronomi, e lo stesso Copernico [114.18], per regolarizzare i moti e gli sposta-
menti nello spazio degli astri” (Ernst 2002, p. 183). Perciò il cosmo campan.
collassa, e il Filosofo resterà sospeso in (cauta?) attesa di nuove scoperte gali-
leiane e di nuovi orientamenti della Chiesa: “At siqui contendantur alia corpo-
ra esse extra caelum nostrum, et aquas et terras, id non negem, dum tamen sa-
cris literis aut revelationibus comprobetur” (Quaest. phys. X I, p. 91); “sia che
nel centro dell’universo si trovi la Terra, sia che si trovi il Sole, tutte le stelle
ruotano con un’arte mirabile”, per forgiare con l’elemento terrestre tutti gli
enti e fenomeni fisici (Theol. I [I, p. 69]); in Syntagma II II esortava il Naudé a
non scartare ogni proposizione che sembra impossibile, “ut quod Sol stet in
centrum et Tellus rotetur”, ma bisogna sospendere il giudizio, “donec undique
conquisitis rationibus veritatem erueris” (cit. ‘in extenso’, v. supra n. 114 [glos-
sa], §3, punto 2).
Pertanto questo periodo (122.17-22), anche se è stato giustapposto, più che ag-
giunto, per compiacere Adami e per mostrare che i Solari erano aggiornati sul-
le ultime scoperte scientifiche,520 testimonia, dietro il ‘vigile’ (“invigilant”) at-
tendismo, 1) una ‘impasse’: l’incapacità di C. di adeguare (o abbandonare) il
suo paradigma scientifico alle evidenze telescopiche (strumento noto anche ai
Solari: 138.8); 2) un eccesso di prudenza: forse l’anziano filosofo esiliato era
stanco e frustrato dalle vane battaglie dell’Apologia, memore della sorte di Gali-
lei e più ancora del malumore di Urbano VIII per il suo Comment.,521 in cui ave-
va dovuto interpolare tutta la sua ‘gioia’ per la messa al bando dell’eliocentri-
smo e ripudiare esplicitamente la sua Apologia: “Non pensi Vostra Beatitudine
ch’io sia con Copernico già che si vede che io scrissi quattro libri [= la perduta

520
Come vuole Bobbio, p. 22; in effetti una glossa di Quaest. phys. X IV spiega: “Additus est hic
art. ad instantiam Rodulfi Binae et Tobiae Adami, post congressum ipsorum cum Galilaeo:
ad quem direxit Auctor pro novis observationibus” (p. 100).
521
Nel 1620, ancora cardinale, Maffeo Barberini aveva dedicato in segno di grande stima a
Galilei l’ode latina Adulatio perniciosa, poi raccolta nei Poemata, e anch’essa quindi commen-
tata da C. nella sez. III, senza però condannare esplicitamente la dottrina di Copernico, cosa
che indispettì parecchio il Papa (Spini, p. 52-4).
COMMENTO AL TESTO 571

Astronomia] contra lui e Tolomeo ed altri astronomi… e quando scrissi quello


apologetico Pro Galilaeo [= Apologia]… nella terza parte della Metaph. e nella
Physiol. io aveva pur reprobato questa opinione, e si vede che sono stampate
avanti… E [in Comment., 734-6] dico che ho fatto l’apologetico ad istanza del
cardinale Bonifacio Gaetano ‘pro Copernico et Galilaeo’, quando si disputava
in Santo Offizio la lor opinione s’era eretica o no. E questo solo punto si con-
trovertia – già che l’esser falsa io lo presupponevo da quel che scrissi in tanti li-
bri: e però disputai ‘ad utranque partem’ circa l’eresia o non eresia di quest’o-
pinione solamente, e mi remisi a quel che la Santa Congregazione avea a de-
terminare… onde dissi: ‘forsan non pugnat cum sanctis’ [= forse non è ereti-
ca]… Ma dopo il decreto della Congregazione io scrissi ch’era eresia, come ap-
pare nelle mie Questioni fisiologiche, e mi rallegrai che fu determinato in favor
mio”; l’eliocentrismo “si può tener ‘hypothetice’… mettendo questa condizio-
nale: se si movesse, seque etc., ‘et conditionalis non ponit in esse’, per regola
logicale… Poiché in vero era necessario tener Copernico, perché la riforma
del calendario ha testimonianze vere e potenti dalle sue osservazioni ma non
dall’opinioni, e perché serve assai gli astronomi, e con dir ‘hypothetice si può
tenere’, provide Vostra Beatitudine alla chiesa e a’ scienziati, e levò l’errore…
Ma, di più, io mostrai modo di salvar l’apparenze” e che bisognerà frequente-
mente riformare il calendario (v. n. 114.1-5), “perché il cielo non camina come
pensò Copernico, né Tolomeo, né come Aristotele, né come Platone e gli altri:
ma come vole Dio. Il quale per mantenerci in vigilanza sopra i suoi giudìci, so-
vente muta i movimenti e sito de corpi lucenti, come appar dall’anomalie” (Let-
tere, p. 223-4). La lunghezza di questa citaz. della lettera a Urbano VIII del 10
giugno 1628 può esser in parte giustificata dalla chiarezza ed esaustività con cui
è delineata la posizione ‘ufficiale’ di C. su un tema quanto mai delicato e scot-
tante, posizione così sintetizzabile:
• avversione all’eliocentrismo come ipotesi scientifica reale
• dubbio se sia anche un’eresia (Apologia)
• dubbio sciolto affermativamente (in Quaest. phys.) dopo la condanna gali-
leiana
• l’ipotesi copernicana è riducibile solo a un periodo ipotetico (irreale) utile
solo a far funzionare il calendario
• anche questa funzione sussidiaria dovrà esser presto rimossa, perché il cielo
è un orologio ‘caricato’ dal Sommo Orologiaio, non per scandire banal-
mente il tempo, ma per segnare l’Ora fatale del Suo ritorno e della sua
esplosione.
Quattro anni dopo, letto il Dialogo galileiano, scrive allo scienziato pisano: “Io
difendo contra tutti come questo libro è in favor del decreto Contra motum tel-
luris etc., perché qualche litteratello non perturbasse il corso di questa dottri-
na; ma i miei discepoli sanno il misterio. Io oso a dire che se stessimo insieme
in villa per un anno, s’aggiusteriano gran cose… e farei molte dubitazioni non
peripatetiche né volgari circa i primi decreti della filosofia… Queste novità di
verità antiche di novi mondi, nove stelle, novi sistemi, nove nazioni etc. sono
principio di secol novo” (Lettere, p. 241). È un palese caso di onesta dissimula-
zione: difesa ufficiale dell’ortodossia del pensiero galileiano, complicità uffi-
572 LA CITTÀ DEL SOLE

ciosa con orecchie fidate; ma ciò non toglie che permanga una divergenza sui
fondamenti primi, non di matrice aristotelico-tolemaica, ma trascendentali, co-
me s’intuisce dalla frase finale: la scoperta di Nuovi mondi, celesti e terrestri, è
ancora una volta interpretato da C. come un segnale escatologico dell’avvento
del Mondo nuovo (2Pt. 3, 13: “novos caelos et novam terram expectamus, in
quibus iustitia habitat”).

124 (glossa): De physica


Riguardo ai fondamenti metafisici e poi fisici (dal suo punto di vista Ontologi-
co è questo l’ordine corretto), “unde tota doctrina pendet” (Quod rem. 4, p.
116), molti filosofi hanno posto pochi elementi primi, se non addirittura sol-
tanto una coppia di contrari: “Pythagorici… ponunt par et impar… Empedo-
cles litem et amicitiam” (Quaest. phys. VIII, p. 42),522 Platone (“Deum, ideam et
materiam”), Aristotele (“materiam, formam et privationem”), Telesio (“calo-
rem, frigus et corpoream molem”), “ego physicorum calorem, frigus, mate-
riam et spatium, basim existentiae, horumque principia metaphysica, ens et
non-ens, entis primalitatis potentiam, sapientiam et amorem, nonentis impo-
tentiam, insipientiam et disamorem” (Quod rem. 4, p. 116; e così: Epilogo, p. 250;
Theol. XVI, p. 31-9). C. si pone tra coloro i cui pro-principi sono due opposti: al-
la base c’è l’Essere, il quale crea dal nulla (= il principio metafisico contrario)
spazio, tempo e materia, caldo e freddo (= elementi primi fisici); l’Essere poi è
dotato di tre primalità (Metaph. II II, 1-4 [I, p. 219]: “primalità è ciò da cui l’en-
te è primieramente essenziato”), Potenza, Sapienza, Amore, tra loro reciproca-
mente interdipendenti: “Nulla cosa si appetisce se non si conosce, né si cono-
sce se non si può, né si può se non è” (Epilogo, p. 335); l’altro pro-principio, il
non-essere, è dotato delle tre primalità corrispondenti negative (Impotenza,
Insipienza e Disamore). Le primalità, spirituali, per poter agire sul mondo fisi-
co, si servono di influenze magne (rispettivamente: Fato, Necessità e Armonia
[v. n. 28.41-3]); perciò non solo qualunque ente naturale e spirituale ha la stes-
sa struttura triadica, ma la loro azione permea ogni evento naturale e umano, e
dunque sono all’origine del bene le primalità dell’Essere, e del male quelle del
nulla: “Io credo in Dio, Possanza, Senno, Amore, / un, vita, verità, bontate, im-

522
Ai Pitagorici, però, si attribuiva correntemente anche la postulazione delle due forze ter-
miche contrarie: ad es., per il pitagorico Ocellus sono gli opposti termici a render possibile le
mutazioni nella materia, e precisamente: caldo e freddo sono la causa efficiente, secco e umi-
do la materia ‘passibile’ (p. 26); e questa teoria, variamente testimoniata in età presocratica
(Archelao, maestro di Socrate, “sosteneva che due sono le cause del divenire, il caldo e il
freddo” [Diogene, II, 16-7]), è certamente diffusa anche in età moderna: un Alberti, che non
era filosofo di professione, ricordava che “tra i princìpi fondamentali che governano l’uni-
verso, i due che, soprattutto secondo il parere della scuola pitagorica, sono detti maschili, so-
no il caldo e il freddo: la natura e l’azione del caldo consistono nel penetrare, nel dissolvere,
nel rompere, nel portar via i liquidi per cibarsene; mentre è proprio del freddo comprimere,
restringere, indurire e dar forma” (X VI, p. 908).
COMMENTO AL TESTO 573

menso, / primo ente, re degli enti e creatore… Lo abborrito niente fa il duel-


lo, / il mal, le colpe, le pene e le morti”.523

124.1-3: Duo… matrem.


“I primi contrari non possono essere più di due, poiché all’unità segue imme-
diatamente il due. Pertanto due sono sufficienti a trasformare una sola materia
prima, e se fossero di più sarebbero due materie prime” (Compendio VII, 9); se
i principi attivi sono due (caldo e freddo), ne consegue che anche gli elementi
devono essere due, il fuoco e la terra (VIII, 6): “Il fuoco è caldo e tenue, mobi-
le e luminoso… L’aria è calda e umida, a causa del calore blando. L’acqua è
umida e calda a causa del calore debole. La terra è freddissima e secchissima”
(VIII, 8).524 È vero che la teoria aristotelica dei quattro elementi è quella ege-
mone, ma: a) da un lato la distanza con la fisica telesiana non è abissale, perché
in fondo C. non fa che ridurli (o riportarli) da quattro a due, e poi perché lo
stesso Aristotele sosteneva che “i corpi più lontani e più puri sono il fuoco e la
terra” (De gener. et corr. 330b 30), tanto che C. giudica lecito porre il quesito:
‘Utrum etiam Aristoteli sicut nobis sint calor et frigus et materia naturalium
principia’ (Quaest. phys. VIII VI); b) d’altro canto C. ricorre al sostegno delle
(poche) ‘Auctoritates’: “Che gli elementi siano due è asserito da S. Basilio [In
Exam., Hom. I, 7-10, 29AC (cielo e terra)], Lattanzio Firmiano [Div. Inst. III, c.
12; Opif. Dei II X e XIII (“calor et frigus”)], Parmenide [Aristotele, De gener. et
corr. 330b]… e Giustino martire” (Compendio VIII, 10); ma naturalmente i refe-
renti principali sono Telesio (I, 1 e II, 28 [p. 371]) e i telesiani: “Il Sole caldis-
simo essendo, talmente rivolta le parti della Terra, e dalle il suo caldo, che ha-
vendo poi quelle in certe parti fatte tenui, non solo da lei tira vapori tenuissimi,
ma ne forma l’istesse anime degli animali (non dico la mente, che quella è for-
mata da Dio)” (Persio, p. 38).
“Il Sole è Padre, la Terra Madre, la Luna è nutrice, le stelle mutano la totalità del-
le cose sulla nostra terra… Il Sole genera di giorno introducendo il calore semi-
nale nella Terra; la Terra concepisce di notte, unendosi a lui con il freddo” (Com-
pendio XII, 3 e 4): quest’immagine reale (per nulla metaforica, anzi, semmai, la-
tamente magica) del connubbio Sole-Terra, che C. fa risalire al Crisostomo,525

523
‘Fede naturale…’, 3, 1-3 e 16-8 e cfr la ‘Salmodia’ 86; per la fisica v. anche n. 114 (glossa)
§ 1. e 1.1; per la metafisica primalitativa v. n. 126.18-128.2; sulla filosofia naturale di C. cfr P.
Ponzio, T. C. Filosofia della natura e teoria della scienza, Bari, Levante, 2002.
524
“L’ente misto non si risolve ultimamente nei quattro elementi, ma nel fuoco e nella ter-
ra… Non sono quattro neanche gli umori negli animali corrispondenti ai quattro elementi:
ma c’è un solo sangue e altre innumerevoli secrezioni. Né le stagioni dell’anno sono quattro,
ma due, l’estate e l’inverno, così come la notte e il giorno sono le due parti del giorno; il mat-
tino e il vespro, la primavera e l’autunno sono termini intermedi del tempo” (Compendio
XIII, 9-10).
525
“Il Crisostomo nell’Omelia 18 sull’Epistola agli Efesini chiama il cielo marito della terra,
giacché la feconda col proprio calore ed essa poi partorisce tutti gli enti secondi, umori, mi-
nerali, pietre, animali ecc.” (Theol. III, p. 109).
574 LA CITTÀ DEL SOLE

era, secondo lui, già iscritta nel Genesi: il primo giorno “viene creato il cielo, che
è maschio, e la terra, che è femmina, e la terra è ancora informe, e lo Spirito
del Signore si libra sopra le acque conferendole la virtù generativa. E in queste
due cose, da cui lo Spirito che è amore trae tutto, si celano tutti gli enti del
mondo, come negli elementi si celano tutti gli elementi elementati” (Theol.
XXV, p. 75).
Ma i referenti magico-astrologici più prossimi e pressanti sono Pico, che nelle
Conclusiones, “difendendo la magia naturale, parlerà di nozze: le nozze del cie-
lo con la terra (‘magicam operari non est aliud quam maritare mundum’)”
(Garin 1976, p. 48); e soprattutto Ficino, in cui l’immagine ricorre con altret-
tanta frequenza che in C., e che, con quest’esempio, dimostra contempora-
neamente quanto essa sia diffusa, e insieme distorta: “Coelum terrae maritus
non tangit (ut communis est opinio), terra cum uxore non coit, sed solis side-
rum suorum, quasi oculorum, radiis undique lustrat uxorem, lustrando foe-
cundat procreatque viventia” (Apologia [1489I] in App. al De vita coel. comp.
[Opera, p. 574]).

124.3: Tellurem
‘Tellus’ è il lemma meno frequente (6 occorrenze, di cui 3 volutamente ravvi-
cinate: 8.27; 28.29; 82.6; e 122.21, 124.3 e 6), rispetto a ‘terra’, ‘orbis’ e ‘mun-
dus’; in totale una cinquantina di casi, che devono spartirsi un campo semanti-
co articolato in almeno cinque dominii: uno dei due elementi; il suolo fertile;
il Pianeta nella sua globalità; la superficie terrestre; quanto vi è sopra questa su-
perficie.
“Quando tutte le cose furono agitate nel caos [originario], la maggior parte
del calore s’innalzò verso la circonferenza esterna… La seconda parte della
materia, collocata in basso, si chiama terra, elemento freddo, secco e pieno di
moti” (Ippocrate, Carni II, 1-2); “Terra est corpus simplex, cuius locus naturalis
in medio totius universi consistit”, la cui natura è fredda e secca, e per la sua ro-
tondità anche “orbis dicta est” (Avicenna, Canon I); infine, mentre per Alberto
Magno “aliter sumitur terra videlicet pro informi materia”, invece Isidoro di-
stingue: “‘terra’ dicitur a superiore parte quae colitur; ‘humus’ ab inferiore, vel
humida, terra, ut sub mari; ‘tellus’ autem, quia fructus eius tollimus” (in: SN VI
I-II, VIII). ‘Tellus’, dunque, satura principalmente la valenza ‘fertilità’, valenza
attribuitale anche da C., il quale, dovendo tradurre il passo di Epilogo (“…che
la terra sia madre…” [p. 245 – v. n. prec.]), ricorre a “Tellus” – con tanto di
maiuscola, che la rende ancor più prosopopeica Madreterra.

124.5-9: Mare… animalium.


Già in Phil. sens.: “mare secundum ponimus corpus… quod oritur a retento ca-
lore e terra combusta liquefactaque” (p. 535-6); del mondo-animale (v. n. sg) il
mare può esser uno dei tre liquidi fisiologici: “Mare congregat aquas, quae flui-
tabant in terrae superficie, tanquam eius sudor, ait Empedocles, vel sanguis, ut
ait Basilius, Lactantius vero, ut terrae portionem factum mare putat ex sacris li-
teris…; de terra erupit mare iussu Dei, sicut de vulva urina salsa et amara, Hier.
docet” (Quaest. phys. XX I, p. 181-3):
COMMENTO AL TESTO 575

IL SUDORE: come un qualsiasi organismo accaldato, la Terra suda, e il suo sudo-


re è il mare (in virtù di questo pattern mentale C. sottostima di molto la di-
mensione dei mari: 1/6 della superficie terrestre e profondi non oltre 1/2 mi-
glio): “Il mare commandò Dio che prima nascesse… sudando essa terra in
abondanza per essere di tanto calore appresa, et quel sudore le rimaneva ad-
dosso” (Epilogo, pp. 251, 254, 259; ‘Salmodia’ 86, 35-6); un accenno in Aristote-
le, Probl. XXIII, 30;
IL SANGUE: figura derivata dall’in Hexaem. III, 6 (PL XXIX, 66) di S. Basilio (co-
me dichiara in Senso, p. 33, Rhet. I III [p. 733], Quaest. phys. XX cit.); ma anche
Plutarco, Marius, 18 si chiede se scavando nel terreno l’acqua vi sgorghi come
sangue da una ferita o come latte da una mammella; tale comparazione riguar-
da tutte le acque, in partic. le fonti, che spicciano dal suolo “doppo che sono di
vapori spessati in acqua generati… come il sangue lo spirito che esce dalla ve-
na segata”: quando si recide una vena, esala anzitutto lo spirito sottilissimo e
dietro di lui, “per ragion di vacuo e di similitudine”, sprizza il sangue; le fonti
del mare sono ‘salse e amare e grosse’, “ristoro a essa terra, come il sangue nel
fegato et nelle vene all’animali, e copula del cielo e della terra” (Epilogo, p.
256);526 questa similitudine ha anche una base fisiologica, secondo la medicina
greca (Aristotele, Probl. XXIII, 35-7; ma lo si ritrova anche in Agostino, super Ge-
nes. V: nel quinto giorno Dio creò le acque, “quia coelo aerique coniungitur”),
che esige un mediatore fra eterogenei: come nel corpo umano il sangue è il
mediatore fra le parti solide e gli spiriti animali, la stessa funzione adempie il
mare fra la terra e il cielo;527
L’URINA: la terra è un “utero” da cui, per combustione interna operata dal calo-
re solare, fluisce copiosa l’urina (Physiol. VI I, p. 28; Quaest. phys. XX I, p. 181:
“aquas, quae erumpebant de terrae visceribus adustis sicut urina de vulva, ut
Iob dicit”); l’immagine è biblica (Dio a Giobbe: “Quis conclusit ostiis mare,
quando erumpebat quasi de vulva [trad.: utero] procedens?” [Gb. 38, 8]), e di
essa C. conosce il commento di Girolamo, In Job, 38: “Duas magnas Deus de
nihilo fecit Mundi partes, caelum et terram: caetera vero ex eis. Nam mare de
vulva terrae fecit: vulvam maris sinum terrae dictam existimo, ut de ea mare
progenitum noverimus etc.”. La salinità del mare, che né piogge né fiumi han-
no addolcito, dimostra che il mare è il liquido vitale terrestre che, formatosi
per combustione, sgorga dalle sue viscere salate.
Telesio tratta diffusamente dell’origine del mare, chiosando e confutando Ari-
stotele, Meteor. II, in partic. 2, 354b-355a, non solo in un opuscolo (De mari, Na-
poli, 1570), ma nei primi tre libri del De rerum natura, come ad es. in I, 12 (p.
111): “anche se non si può vedere il modo come il sole fonde la terra in acqua,

526
Mare-fegato irrigatore in Beda (SD XV XXXII) e in SN V IIII; mare-polmone in Leonardo
(cod. A, fol. 55v).
527
‘Salmodia’ 86, 37-44; Theol. III, p. 107: “lo spirito è il cielo, il corpo la terra, il sangue poi è
il legame tra lo spirito animale e il corpo, come il mare è il legame tra il cielo e la terra ed è
l’alimento di entrambi”.
576 LA CITTÀ DEL SOLE

tuttavia si deve affermare che essa è fatta di terra dal sole”. Quest’ipotesi del
mare come liquefazione della terra era stata confutata da Imperato: volendone
spiegare la salinità, dice: “Altri dicono che la terra scaldata dal sole sudando
causi il mare; e che perciò sia salso: percioché la salsedine è propria del sudo-
re; et altri che la terra dia la salsezza all’acqua…, colando l’acqua per essa” (VII
V, p. 177); secondo lui invece, in base al principio che il simile nasce dal simile,
il mare non può essersi formato “dal bruciamento della terra”, ma l’esalazione
secca e vaporosa della terra ha formato le nubi, e “quel che con l’acqua vien
giù forma la salsezza” (VII XII, p. 182-3).

124.9-10: Mundum… ingens,


É un altro tratto pitagorico di questi ex-bramini (v. n. 64.16, n. 64.16-8; Per-
sio, p. 37: “Non è tanto cattivamente detto da’ philosophi Indiani che il mon-
do è vivo in ogni luogo. Il che apparisce dal movimento, e dalla generatio-
ne”), ed è insieme molto più che metafora macrocosmica e molto meno del
pampsichistico ‘Deus sive natura’ (v. n. 132.35-134.3). Infatti tra le innume-
revoli volte (ad es.: Theol. I (I, p. 109); Metaph. VI VII, I [II, p. 101]), in cui C.
l’usa, sono spesso indicate le sue fonti: “Pitagora dice che [la Terra] animal
grosso sia, e li suoi peli e capegli son l’erbe e arbori, le pietre ossa, gli anima-
li come pidocchi a noi” (Senso III VII; questo passo si trova in effetti nel fici-
niano De vita coelitus comparanda III, 11); Theol. I (I, p. 299): “i Platonici vo-
gliono che il mondo sia animale, il che viene insegnato esplicitamente dal
Trismegisto”; Quaest. phys. X I, p. 78: “Tellus videtur animal esse, ut Ovidius
canit cum Pythagoricis et Seneca consentit et Origenes”, e ancora nella Lette-
ra a Galilei del 13.1.1611 menziona Origene, con cui polemizzerà in Quaest.
phys.: “negamus terram esse animal, qualia sunt quae ex terra a Sole gene-
rantur: haec enim quia a Sole constituuntur spiritu calido vivunt… Plantae et
animalia sunt in terra sicut pili et pediculi in capite humano” (X I, p. 93):
non bisogna considerare il mondo un essere vivente come quelli sorti dall’in-
terazione Sole/Terra.
Questa sequela di fonti è già indizio che il mondo-animale più che un’immagi-
ne, è un archetipo, condiviso da quasi tutte le scuole di pensiero. C. stesso, co-
me si è visto, attribuisce a Pitagora questa credenza, probabilmente in base a
un frammento attribuito al filosofo greco e riportato da vari autori classici528 e
da autori cristiani, come Lattanzio, Div. Inst. I V (PL VI, 134), “Pythagoras ita
definivit quid esset Deus: ‘Animus, qui per universas mundi partes, omnemque
naturam commeans atque diffusus’”. Ma naturalmente all’origine di tutto vi è
il pampsichismo (il mondo è un essere vivente ragionevole e animato), rivalu-
tato dai naturalisti cinquecenteschi, d’origine stoica,529 ma già annunciato dal-

528
Cicerone, Plutarco, Galeno, Diogene; in partic. Ovidio, da lui stesso evocato, in Metam.
XV, 342 fa dire a Pitagora: “est animal tellus et vivit”.
529
Alessandro d’Afrodisia, De Mixtione, 216, 16; Diogene, VII, 142-3, l’attribuisce a Crisippo,
della Provvidenza I.
COMMENTO AL TESTO 577

la lingua semi-figurale del Timeo platonico,530 che ebbe grande risonanza pro-
prio in ambito gnostico, ermetico e neoplatonico; Plotino parafrasa le parole
del Timeo, ma caricandole anche di valenze astrologiche: “Tutto avviene nell’u-
niverso come in un animale, in cui si può, in grazia dell’unità del principio, co-
noscere l’una parte dall’altra… Tutte le cose dipendono l’una dall’altra; com’è
stato ben detto, tutto cospira” (Enn. II, 3, 7); “Rammentiamo la nostra tesi: il
mondo è un animale unico; perciò… non esiste il caso ma un’armonia e un or-
dine unico” (Enn., IV 4 [28], 32 e 35); passo questo, che Giamblico riprenderà
spesso nei Misteri (V, 66: “Mundus unum animal”, noi viviamo “quasi in uno
corpore animalis”; 102, 207), e Ficino commenterà, ricavandone esattamente
la stessa morale dei Solari (v. n. 124.11-20). Anche Agostino tratta distesamen-
te e criticamente la dottrina (porfiriana, in partic.) dell’‘anima mundi’: CD 13,
17-8, con esplicito richiamo (e confutazione) del Timeo (“Secondo Platone…
questo mondo è un essere vivente, grandissimo, felicissimo ed eterno”). E così
lo si ritrova in Ficino, Teol. IV I: “la terra fa crescere anche pietre, a mo’ quasi di
denti… E chi potrebbe sostenere che manchi di vita il grembo di questa donna
che tanti feti spontaneamente procrea e alimenta, che da sé stesso si sostiene,
sul cui dorso spuntano e denti e vello [= la vegetazione]?” (sono le stesse figu-
re usate da C.). SN III XXIV-XXVI riporta le tesi a favore,531 quelle contrarie (lo
stesso Aristotele, nel De anima prova che nessun corpo semplice può esser ani-
mato), e infine suggerisce quale posizione, in linea con l’ortodossia cattolica, si
debba assumere circa questa questione: “cum sacris doctoribus confitemur
coelos animas non habere nec esse animalia”, se si prende ‘anima’ nell’acce-
zione propria; i Padri cristiani, cercando di evitare “caelos animalia dicere”,
tuttavia concedono che alcune intelligenze, ovvero Angeli, “movent caelum et
sydera nutu Dei” (v. n. 118.16-21). La Chiesa infatti non si lasciò sedurre dal-
l’archetipo macrocosmico, per gli evidenti rischi magico-naturalistici: un opu-
scolo di Telesio che s’intitolava Quod animal universum, fu posto all’Indice nel
1596 da Clemente VIII (Firpo 1954, p. 1327). Per cui al tardo Cinquecento
non restava che ironizzarci su: pare che “anche in quell’alta antichità fosse sta-
to creduto animale il Mondo, ma con curioso piacere mi certificai della loro
confusione” (Scilla, p. 34); “Io neanche so se questo animalaccio del Mondo
(al parere di alcuni, che tale lo stimano, e gli hanno osservato sino il moto del-
le budella)…” (Scilla, p. 129); e Doni, Mondi, p. 19: “mondo primo animale e
mondo l’uomo secondo animale”.

530
“Questo mondo è veramente un animale animato e intelligente generato dalla provviden-
za di dio… del quale sono parti gli altri animali considerati singolarmente e nei loro generi.
Perché quello ha dentro di sé compresi tutti gli animali intelligibili, come questo mondo
contiene noi e tutti gli altri animali visibili” (30b-d; 39e).
531
Aristotele, De coel. II e i suoi comment., Rabano, Avicenna, de Naturalib. 5: “caelum habet
animam et phantasiam, cui obedit universa materia mundi, sicut corpus animalis obedit ani-
mae ipsius”.
578 LA CITTÀ DEL SOLE

124.10-1: nosque… nostro.


C. apprezzò molto la ‘favola’ ariostesca di Ruggero nel ventre della balena
(Cinque canti, app. al Furioso IV, 32sg), “in cui trovò tutto ciò che vi è nel mon-
do… perché ci ammonisce che gli uomini vivono nel ventre di un mondo ani-
mato… e che siamo come i vermi nel nostro corpo, che ignorano noi, la nostra
anima e dove essi stessi sono. Non so se l’Ariosto pensò a questo, però raggiun-
ge lo scopo della verità” (Poët. VIII IX, p. 1101). Di certo e di più gli piacquero i
versi danteschi (Purg. X, 124-6: “O superbi cristian… non v’accorgete voi che
noi siam vermi / nati a formar l’angelica farfalla, / che vola a la giustizia senza
schermi?”), che cita nelle Lettere (pp. 324 e 372): io sto “intra il ventre del mon-
do riposto come un verme ‘nato a formar…’”. La condizione di limitatezza e
cecità degli uomini, paragonati a vermi chiusi nel corpo-formaggio, è talmente
diffusa nella sua produzione,532 che Tobia Adami così aprirà il ‘Saluto’ di proe-
mio all’Apologia: “Per noi, miseri uomini, che viviamo in questo mondo chiuso
tutt’intorno come vermi nel formaggio…” (p. 3). Il fatto che a quest’immagine
vi avesse già fatto ricorso Menocchio, il mugnaio analfabeta studiato da Carlo
Ginzburg, dimostra la capillarità della sua diffusione, radicatasi anche nella
cultura popolare.533

124.11-20: Idcirco… tenemur.


Par di avvertire il richiamo a una formula canonica, usata per confutare l’a-
strologia giudiziaria: “Vitam quippe hominum solus conditor qui creavit ad-
ministrat. Neque enim propter stellas homo, sed propter hominem stellae
factae sunt” (SN XV L); e replicata dalla Bolla Sistina del 1586, emanata per
condannare le pratiche magico-astrologiche (v. n. 142.25-144.11): “non l’uo-
mo è stato fatto per le stelle, infatti, ma le stelle per gli uomini” (in Ernst
1991, p. 256). La fonte del passo è comunque Ficino: “Un ordine così mera-
viglioso del cielo mostra che il mondo ha tratto origine non dalla fortuna, ma
dalla provvidenza. Così questo rapporto di tutto il cielo ad uno solo, mostra il
Signore regolatore di tutto… ed al quale le nostre anime devono obbedire
molto di più” sia per la provvidenzialità di Dio, che per la nostra riconoscen-
za, maggiore nei Suoi confronti rispetto a ogni altra creatura; mentre nel pe-
riodo finale vi è un’eco neotestamentaria: “per noi non c’è che un Dio solo,

532
Poesie, 4, 3-4; 64, 5: “marmeggio” (Esp.: “Marmeggi sono i vermi nati dentro il cacio, che si
pensano non ci esser altra vita né paese che ‘l lor cacio”); Epilogo, p. 95; Schoppe, 23 (ed i rin-
vii di Ernst 1996b, p. 23); Politici, 106 (ed Ernst 1996c, p. 106n); Metaph. VII I, VII (II, p. 265);
Lettere, p. 100; Theol. I (I, pp. 61, 109…); Theol. XVII, pp. 23…
533
Secondo Menocchio, originariamente “tutto era un caos, cioè terra, aria, acqua et foco in-
sieme; e quel volume andando così fece una massa, apunto come si fa il formazo nel latte, et
in quel diventorno vermi, et quelli furno angeli (…) fece poi Adamo et Eva, et il populo in
gran moltitudine per impir quelle sedie delli angeli scacciati” (Ginzburg, p. 71; cfr anche Do-
menico Scandella detto Menocchio, a c. di A. Del Col, Pordenone, Bibl. dell’Immagine, 1990; e
Lerner 2001, p. 170-1, per la bibliogr. sul tema cosmogonico).
COMMENTO AL TESTO 579

il padre da cui tutto proviene, mentre noi viviamo per lui [1Cor. 8, 6]” (Sole
VII, p. 989).

124.13-8: respectu… destinati.


Una riprova di questa teoria (apparenza umana/Realtà divina; caso terre-
stre/Necessità celeste) C. la ritrovava in quello che considera il motore prin-
cipale delle Scoperte geografiche, come chiarisce a 134.14-136.3 (passo con-
cludentesi anch’esso, ed esplicitamente, con una lode al Signore). Physiol. V
VII ne è il miglior commento: (è Dio che parla) “Igitur ex providentia mea et
casu eorum respectu simul mundus temperabitur… Ego enim omnia exco-
gitavi ac volui. Igitur mei respectu, causae nimirum universalis, nihil casu
fiet, sed omnia ex arte, quam nec effugiunt peccantes contra legem meam”
(p. 27): quel che agli uomini appare come caso, è dal punto di vista divino
provvidenza, come chiarisce l’esempio campan.: se dico a un servo di scava-
re sotto un certo albero, dove ho nascosto un tesoro, per il servo è una sco-
perta dovuta al caso, ma non certo per me (Quaest. phys. XXIV IX, App., p.
237).
L’intero periodo sembra contenere (come concordemente notavano Bobbio,
Firpo e Amerio), un’implicita presa di distanza dal determinismo astrologi-
co, che si espliciterà a 140.1 e 158.9sg. Invece il senso (e l’obbiettivo polemi-
co) di questa frase è un altro, evincibile da Art. proph.: “Cristo disse a Brigida
che, se conosceremo il corso dei pianeti e i giudizi occulti di Dio, nihil casu
fieri, sed ordine iuncta pernosceremus” (p. 279); non è tanto in causa il libe-
ro arbitrio, quanto l’osservazione e la comprensione, attraverso “gli strumen-
ti” naturali, segnatamente celesti, dei nascosti disegni divini; intuìti i quali,
ciò che ci appare come arbitrio, casualità, anomalia, riacquista un senso e
un’armonia. Chi si arresta alla sapienza mondana scambia il cosmo per caos
“viderique mundum casu regi” (132.20), mentre chi accede a quella divina,
anche da deboli segnali naturali, come la struttura di una pianta, non può
che riconoscervi una sapienza e dunque una Provvidenza superiore. La vera
presa di distanza, allora, è da Aristotele che crede “che gli enti inferiori vada-
no secondo il caso e la fortuna, che Dio non guardi alle cose degli uomini, e
che come un padre di famiglia tratta i figli, così Dio provveda agli enti celesti,
mentre tratta gli uomini come gli schiavi, ai quali si lascian fare molte cose ir-
ragionevoli… Questa teoria l’abbiamo già rigettata nella II Parte della Me-
taph. e in Theol. I, perché attribuisce le colpe e i dolori degli uomini alla ne-
gligenza o all’impotenza di Dio” (Theol. XVI, p. 35).

124.21-7: Procul dubio… discrepant.


Come possono dei Bramini, per quanto pitagorici, avere credenze oltramon-
dane simili alle nostre (v. n. 64.16-8)? Anzitutto per la ‘naturalità’ della loro re-
ligione: “li filosofi che stan nella lege della natura, come elli capir la ponno, e
pensano… che la legge della natura a tutti comune è la vera e certa… e che, si
dopo morte ci è altra vita, alli filosofi più si conviene, che non si ostinano alle
sette umane e credenza delli dei, ma solo servino alla prima causa con l’affetto
buono e opere oneste e benefiche al genere umano” (Ateismo I, 6 [in Ernst
580 LA CITTÀ DEL SOLE

1997c, p. 620]);534 in secondo luogo perché, in effetti, questa bipartizione del-


l’oltretomba è di marca pitagorica, teste Ficino, Relig. XIV, 75: “Il fine de’ cam-
pi Elisi è la Luna, la quale secondo i Pithagorici, è il confino della vita e della
morte. Qualunche cosa è sotto lei, alla morte e allo inferno si deputa”.
Ma poi, a ben vedere, originariamente le due visioni non erano poi così simili,
come dimostra T.124.21-36, al cui confronto Civitas appare subito più conciso:
a) per ragioni stilistiche: elimina, ad es., l’inutile ripetizione della credenza ne-
gli angeli e demoni (T.124.24 e 33); poi omette l’attesa da parte dei Solari di
messaggi celesti (T.124.35): se quell’avversativa (“ma quello che sarà di lo-
ro…”) implica il passaggio dal destino individuale a quello generale, allora
non si tratta di autocensura, ma del taglio economico di una superflua e in-
congrua ripetizione di quanto già detto (116.8) e dirà (154.1, 156.13) sui
‘segni del cielo’ forieri di grandiosi rinnovamenti universali. Di contro, for-
nisce una spiegazione ‘razionale’ (non teologica, essendo privi di Rivelazio-
ne) sulla destinazione ultraterrena, fondata sul principio che ‘i simili si at-
traggono’ (che è poi la cifra di un’ideologia pervasa di “similitudines”:
14.13, 28.40, 92.9), di marca platonica (Timeo) e neo-platonica: ogni anima
“a quello ordine e a quello spirito sì come a sua stella sale, al quale in vita si
fece simile” (Ficino);
b) essenzialmente per eliminare alcune sporgenze eterodosse (inutilmente pe-
ricolose perché in parte superate), collegate ai due dubbi irrisolti dei Solari:
• l’esatta collocazione dell’aldilà: “sol l’alme vanno d’uno in altro mondo, /
secondo i merti, più opaco o più terso, / finito in questo ognuna il proprio
tondo, / u’ gli spiriti sciolti han le lor vie / che portan del fatal ordine il
pondo, / ed il giudicio aspettan del gran die”; Esp.: “L’anime non muoio-
no, ma cambiano paese, od al Cielo ovvero all’Inferno. Tocca alli angeli gui-
dar l’anime… e l’anime aspettano il giudizio universale, come argomenta
Atenagora, per ragion di providenza e di giustizia” (Poesie, 3, 104-9); non so-
lo le esplorazioni geografiche, ma anche le scoperte astronomiche hanno
stravolto fisica e metafisica: “S. Tommaso pensa che il paradiso si trovi in
qualche paese o isola nascosta, ma avendo i valenti navigatori moderni visi-
tato tutte le isole dell’Oceano Australe, non vi hanno trovato il paradiso…
Tutti convengono nel ritenere che il paradiso sia stato traslato, ma non se
ne trova il luogo… [Perciò] preferisco astenermi da ogni affermazione cir-
ca il sito e la qualità del paradiso. Se infatti tra le stelle c’è una Terra, come
Galileo e i pitagorici credono, forse il paradiso è stato trasportato in essa…
Il luogo particolare del paradiso Dio solo lo sa” (Theol. IV [II, p. 185-91]);535

534
Analogamente gli Utopiani credono nell’esistenza dell’anima immortale e dell’aldilà
(More, 140 e 230).
535
Così anche Theol. I (I, pp. 5 e 11, da cui si evince che C. non crede che l’inferno stia sot-
toterra o il Paradiso “nelle isole fortunate, oppure in Arabia o nei monti della luna, come si
legge nelle vite dei Padri, oppure nelle isole sotto l’equatore come vuole Durando”) e Quod
rem. 4, p. 30.
COMMENTO AL TESTO 581

• l’eternità delle pene: C., nella giovanile fase origeniana (Princ. 1, 6, 2; 2, 3,


5; 3, 5, 7), ne aveva messo in dubbio l’eternità; ma qualcosa di quell’ete-
rodossia riaffiora nel ben più responsabilizzante Theol. I (II, p. 295): alcu-
ni “stimano che dopo il presente ciclo mondano [= saecula nostra] vi sa-
ranno altri mondi, nei quali coloro che sono attualmente puniti all’infer-
no, divenuti più buoni, vivranno una vita migliore… Questa opinione si
trova in Origene, non difesa, ma esposta come un’opinione che si rimette
al giudizio della Chiesa; anche San Girolamo ebbe talora dei dubbi circa
l’eternità delle pene, ma poi affermò la loro eternità, come sta in Matteo,
cap. 24”.
Alla confluenza di questi due punti giace la secolare questione dell’esistenza
del Purgatorio: se la sua ‘nascita’ era stata molto travagliata,536 la sua esisten-
za è ancor più periclitante sotto i colpi dottrinali dei protestanti (ne aveva ac-
cennato nel Dialogo contro Luterani); e poiché quello era il pubblico cui prio-
ritariamente s’indirizzava la prima Civitas (= Fr.), e poiché l’Au. stesso aveva
(avuto?) idee eterodosse in merito, la soluzione migliore era glissare sull’in-
tera questione.

124.27-8: In ancipiti… sint,


Il senso di questa interrogativa indiretta si coglie cercando di ricostruire il filo
di tutto il ragionamento del Genovese: partendo dalla cosmogonia, anch’essa
dubbia, salvo il fatto che l’universo è temporalmente finito (116.17-8), si passa
alla dinamica celeste e alla cosmologia, pure questa problematica, sia riguardo
al sistema elio-/geocentrico sia circa la pluralità di tali sistemi all’interno del
nostro universo (118.22-122.22); quindi si esamina il nostro pianeta e il suo
principale abitante, un ‘verme’ all’interno del cosmo/corpo (da cosmo=‘ani-
male’ scaturiscono due corollari: a) il cosmo è un tutt’uno; b) è ‘animato’, do-
tato di sensibilità, al pari degli organismi viventi [124.1-11]); all’interno del co-
smo, infine, trova(va)no ospitalità anche i luoghi oltremondani, secondo la to-
pologia ‘classica’ (solo T.124.28-9). Una volta descritta la sfera dell’universo,
immensa ma finita, sorge l’interrogativo (indiretto e, anch’esso, in parte inso-
luto): cosa c’è oltre e fuori del nostro cosmo? Delle tre possibilità ventilate, due
sono decisamente scartate (le esamineremo nelle due note immediatamente
successive), ed una è dubbia: è possibile che al di là del nostro universo ci sia-
no altri universi (questa domanda non è in contraddizione con l’asserzione di
118.23 che “unum esse modo coelum”, perché lì intende dire che il nostro co-
smo non è fatto a strati – le sfere – ma è un’unica palla ignea omogenea, den-
tro cui nuotano o galleggiano gli astri).
Una volta capito dal contesto il senso della domanda (“mundi” di 124.28 signi-
fica ‘universi’ – e non pianeti o sistemi planetari come a 122.19), occorre ades-

536
Agostino, CD 21, 25, 1068: le anime “se non saranno mai in possesso del regno dei cieli, sa-
ranno inchiodate al supplizio eterno; non esiste un luogo mediano” (ma sul tema cfr La nais-
sance du Purgatoire di J. Le Goff [Torino, 1982]).
582 LA CITTÀ DEL SOLE

so capire i motivi dell’incertezza dei Solari.537 Per comprendere tali motivi, bi-
sogna tener conto che l’ipotesi di altri cosmi era minoritaria, e per giunta tale
minoranza era quanto mai squalificata sia agli occhi di C. che della Chiesa.
L’ipotesi di una pluralità di mondi, che C. fa risalire a Metrodoro e Lucrezio
(Theol. XVI, p. 37), e che era stata a volte impiegata strumentalmente per pro-
vare l’infinita potenzialità divina,538 viene rilanciata dal De l’infinito, universo e
mondi (1583-4) bruniano (e da lui “appresa durante i giovanili colloqui col Bru-
no nel carcere romano” [Firpo 1968, p. 12; anche Ernst 2002, p. 31]). Tale ipo-
tesi è condivisa, pur con qualche cautela, dal C. di Senso, p. 32: “Io certo non
credo che Dio abbia finita la sua possanza in questa picciola palla… ma stimo
altre cose poter essere fuori, e Dio infiniti mondi poter fare di varie forme. Ma
se ci sieno non si può sapere, se Dio non lo rivela”. Successivamente le cautele
aumentano (Metaph. XVIII VII, I-IV: quel che è fuori del mondo esula dalle com-
petenze delle scienze umane), sia perché nelle “Scritture di un solo mondo im-
mobile si parla” (Apologia, p. 11), in quanto, avendo Dio fatto il mondo a Sua
immagine, ed essendo Dio unico, non può averne creato né due né infiniti, ma
per forza uno solo (come poteva suggerirgli il Timeo platonico); e sia perché
ammettere un infinito corporeo avrebbe comportato gravi conseguenze fisiche
e metafisiche: “possono, volendo Dio, esserci più mondi, ma non più Dei… Co-
me un tempo pensavamo che i pianeti fossero sette, mentre ora si trovano in
numero più grande, così può darsi che Dio abbia creati altri mondi a noi igno-
ti, tutti però sotto un unico governo contenente tutte le sfere, così che tutto l’u-
niverso sia ordinato a un unico Dio” (Theol. I [I, pp. 119 e 275]).
L’altro quesito teologico, tanto cruciale quanto insolubile, è il seguente: per-
ché Dio ha creato proprio questo universo, “quando molte altre cose e innu-
merevoli mondi sono possibili: perché dunque invidia egli loro l’essere? Noi
tutti rimettiamo al divino beneplacito la soluzione del problema. Ma siccome
Dio non agisce mai irrazionalmente, egli deve aver fatto queste cose, e non le
altre possibili, o per sé o per altri. Se per altri, egli è soggetto ad altri, se per sé
egli è bisognoso. S. Tommaso dice che creò, perché era conveniente. Ma per-
ché non è conveniente creare altri mondi?” C. risponde con un’altra doman-
da, da cui si evince che egli tenderebbe a credere nell’esistenza di altri mondi,
indotto anche dalle recenti scoperte di Galileo, e in un universo indefinito, an-
che se non infinito: “come sai tu che non esistano altri mondi, contenuti entro
un’unica immensa sfera, e secoli innumerevoli oltre i nostri sistemi? Io per me
credo col Crisostomo e con Origene che sopra i cieli stellati esistono innume-
revoli enti e nelle stelle molteplici mondi a noi ignoti, come le recenti osserva-
zioni vanno mostrando. Ma coloro che vogliono restringere Dio al solo mondo
nostro non sanno quel che dicono. Io ritengo che, se conviene che Dio faccia

537
Malgrado il dettato di 124.27-8 sembri coincidere con quello di T.124.36-8, è probabile
che l’incertezza del C. di Città sia di natura diversa da quella del C. di Civitas.
538
Ad es. da Crisostomo, In Epist. ad Cor., Hom. XVII (IV, 453): “Deo facile est innumeros
mundos facere”.
COMMENTO AL TESTO 583

qualcosa che non sia Dio, conviene che esso sia non inferiore a quel che la no-
stra immaginazione concepisce, e che, sebbene finito, sia tuttavia simile all’in-
finito” (Theol. I [II, pp. 75 e 77]). Per la somma di queste ragioni (ed altre di
opportunità, che potrebbero essergli state dettate dal ricordo dei destini varia-
mente tragici di Bruno e Galilei), la sua posizione diventa meno radicale: dalla
pluralità infinita dei mondi passa ad un mondo “quasi infinito” (Atheismus, p.
80) e finalmente a un solo cosmo grandissimo composto di vari ‘sottomondi’,
come si è appena visto: poiché “nei canoni ecclesiastici in nessun caso si trova
un decreto il quale affermi che non ci sono più mondi”, allora “ammettere più
mondi piccoli in uno solo e massimo, ordinati da Dio, non è per nulla contra-
rio alla Scrittura, bensì solo ad Aristotele” (Apologia, p. 51), o piuttosto all’ateo
Democrito e alla teoria atomistica di un’infinità di mondi sparsi a caso in uno
spazio infinito. Del resto dalla Chiesa “nostra Physiol. acceptatur, et non coper-
nicea, neque Nolana”.539
C. dunque si ripiega su una struttura chiusa del nostro universo, opta cioè per
una pluralità di sistemi coordinati in un tutto unitario, lasciando impregiudi-
cata la situazione dell’extra-mondo diventata irrinviabile, dopo che l’eliocen-
trismo aveva fatto passare gli uomini da una visione di un cosmo chiuso a quel-
la di un universo infinito: “se il mondo geocentrico medievale era una sfera di
circa 40000 raggi terrestri di diametro” fino al cielo delle stelle fisse (di dimen-
sioni ignote), “si doveva accettare l’idea che il mondo eliocentrico fosse quasi
infinito”; per Copernico lo spazio fra Saturno e le fisse è “simile all’infinito”; il
cosmo era insomma immenso, ma finito, immaginato sempre più cavo, in cui
cioè il vuoto era nettamente superiore al pieno, ma “è solo verso la fine della
prima metà del secolo successivo che la palla del mondo esploderà, e che l’u-
niverso perderà ogni limite immaginato dall’uomo”.540

124.29-126.1: furoris… negant.


In questo brano sono intrecciate due questioni: a) il nulla sostanziale non esi-
ste; b) e neppure un infinito corporeo; corollario di a)+b): l’universo per
quanto grande possa essere, non è né infinito (come pensa ad es. Bruno) né,
come “crede Aristotele, limitato dall’avere il nulla fuori di sé” (Theol. I [I, p.
133]). Questa negazione di un ‘infinito corporeo’ (assente in Città) sottende
dunque una polemica e insieme un’indecisione dell’Au. circa l’estensione (fi-
sica e temporale) dello spazio: il creato è finito o infinito? Non è infinito; dun-
que, se è finito, com’è fatto? È un solo cosmo (uni-verso) o è costituito da più
(ma non infiniti!) ‘mondi’? Al di là e al di fuori del nostro universo, ci potreb-
bero essere altri “mundi”: la cosa è dubbia, ma non impossibile (v. n. prec.).
Comunque, unico o plurimo che sia l’universo, cosa c’è fuori di esso? Di certo

539
Una delle rarissime volte in cui è citato Bruno; un’altra è nel Comment. all’‘Adulatio per-
niciosa’ sez. VIII (Spini, p. 53).
540
Lerner 1992, p. 59-72, che rinvia per la questione delle dimensioni del mondo dall’anti-
chità al sec. XVII ad A. Van Helden, Measuring the Universe, Chicago-London, 1984; v. n.sg.
584 LA CITTÀ DEL SOLE

non il nulla; forse vi è spazio ‘puro’: lo spazio sì potrebbe essere infinito, pur-
ché incorporeo, cioè a patto che non sia considerato un ente fisico. La conce-
zione campan. dello spazio come sostanza priva di accidenti è debitrice di Te-
lesio (Schuhmann, p. 141-67): lo spazio “è la base intrinseca che penetra tutte
le cose, essendone insieme penetrata, e che circonda tutte le cose, a niuna es-
sendo contraria”; invece “circa l’infinità e l’eternità dello spazio io sono ancora
in dubbio” (Theol. I [I, p. 89]), e il dubbio non deriva da ragioni teologiche:
“De infinitate spatii et aeternitate dubito adhuc… At vero neque si sit infinitum
(quod non affirmo) erit Deus, sicuti neque linea infinita est Deus: requiritur
enim totalitas entitatis ad infinitum simpliciter, cuiusmodi Deum ponimus,
istae autem secundum quid infinitates” (Theol. I III, p. 88). Dio è in tutto e per
tutto infinito, una retta invece è infinita soltanto in base a un aspetto – la di-
mensione –, e dunque uno spazio infinito non intaccherebbe l’infinità “simpli-
citer” e ‘totaliter’ divina, in quanto non “è infinita la sua entità e non ci posso-
no essere due entità così… perché un infinito non può esser creato, dato che
la sua generazione non si sarebbe potuta compiere mai” (Theol. I [I, p. 217]).
Tuttavia C. sembra propendere per uno spazio finito, per quanto sterminato,
in base alle seguenti ragioni:
1. basta vedere l’aggettivazione che accompagna ‘spazio’ nelle Poesie: 3, 11:
“smisurato”; 28, Madr. 5, 5: “tondo”; 76, Madr. 3, 1: “gran”; 31, Madr. 1, 9:
“immenso”,541 e ‘immenso’ è proprio l’attributo più utilizzato (57, 1; 81, Ma-
dr. 5, 12: “immenso vase”); invece non usa mai ‘infinito’;542
2. il cosmo non può essere infinito per ragioni sia fisiche che metafisiche:
• il motivo fisico è che il cielo, per quanto igneo, non potrebbe percorrere
in ventiquattr’ore uno spazio infinito, “idcirco mundum infinitum haud
esse puto” (Quaest. phys. XI I, p. 112). Gli argomenti a favore della finitez-
za dell’universo addotti invece dai Peripatetici “sono ridicoli”;543 le princi-
pali correnti cosmologiche contemporanee infatti li confuterebbero subi-
to: “coloro che ammettono infiniti mondi, suppongono che si muovano
quale in un luogo e quale in un altro, e non pretendono che tutto il cielo

541
Madrigale, quest’ultimo, la cui Esp., in un contesto molto affine a quello di CS, esplicita
l’obbiettivo polemico sotteso alla recisa presa di posizione anti-infinitistica dei Solari: “L’Es-
ser universale… perch’è infinito, non può dentro né fuor di lui stare il Niente. Dunque, nul-
la cosa s’annichila per morte, ma si trasmuta solo. Poi mostra che la base dell’esser creato sia
lo spazio universale, tenuto da certi Arabi [sott. mia] per Dio, e ‘l quale, secondo noi, è in
Dio”; infatti – chiariva l’Esp. di 3, 11 –, “come gli enti sono nello spazio, base dell’essere, così
questa [= la spazialità è] in Dio”; e, ancor meglio, Esp. di 31, Madr. 2: “Dio, simile allo spazio,
che penetra tutte le cose, e ‘n lui sono internamente tutte. Ma Dio, non come luogo, né co-
me locato contiene le cose, o è nelle cose, ma in certa maniera eminentissima, dalla quale il
luogo prende l’esser luogo, e la materia l’esser materia, e gli composti l’idea della composta
loro”.
542
Al più, altrove, “quasi infinito”: v. n. 114 (glossa) § 1.1.
543
Il primo dei quali è che il moto circolare quotidiano degli astri “non giungerebbe mai a
compimento” (Theol. I [I, p. 217]).
COMMENTO AL TESTO 585

infinito si muova” (implicita allusione a Bruno); “i Copernicani provano


inoltre che la sfera stellata è immobile e che il Sole si muove”; e infine “al-
tri affermano che le stelle fisse sono Soli intorno ai quali errano altri pia-
neti, come intorno al nostro Sole e come intorno a Giove girano quattro
pianeti e intorno a Saturno due e intorno alla Terra uno”.544
• Le ragioni metafisiche della finitezza del creato sono due:
I. “infinità di tempo, di luogo e di vigore in Dio” solo possono darsi (3,
Esp. 8), perché non possono sussistere due infiniti: Dio creò il mondo
“non tuttavia dalla propria sostanza, perché allora Dio e il mondo sa-
rebbero ugualmente infiniti e eterni; d’altra parte non vi può essere
che un solo infinito e un solo eterno” (Metaph. XI III, II [III, p. 17]);545
II. “Da lui, per lui e ‘n lui [= Dio] vien stabilito [= reso stabile, cioè è la ‘ba-
se’ della loro essenza/esistenza] / lo smisurato spazio e gli enti sui, / al
cui far del nïente si è servito”: proprio in quanto creature, “le cose non
sono infinite, ma mancano di Dio, partecipano il non essere e la divi-
sione” (3, 10 e 15 Esp.); pertanto è impensabile, teste S. Tommaso, un
infinito creato, “perché ogni cosa creata ha un’esistenza dotata di
un’essenza di un certo genere; quindi è priva di tutti gli altri generi: e
dunque ciò che manca di qualcosa, non è infinito” (Quaest. phys. III, p.
38); anche lo spazio, in quanto creato, prima non c’era, e perciò, par-
tecipando del non-essere (essendo ‘fatto’ di ente e niente), non può
essere infinito; in sintesi: “due infiniti ripugnano alla ragione” (Theol. I
[I, p. 231]).
Per quanto riguarda l’inesistenza del nulla ‘materiale’ (o ontologico), essa si
prova col fatto che “Dio non può dare o fare il nonente, essendo egli il sommo
ente scevro da ogni nichilità, non potendo dare ciò che non ha”; per cui egli
non dà il nonessere, ma cessa “dal dare l’essere: infatti tutte le cose tendono al
nulla, se il primo ente non conserva l’essere, che fu loro largito”; e di esso nes-
suno, compreso Dio, può farsene un’idea, ma può esser conosciuto solo attra-
verso l’idea dell’ente; e perciò sarebbe “scorretto dire ‘il niente è’: il niente in-
fatti non è essenziato dall’essere, ma dal nonessere e non dal nonessere pro-
prio, ma dal nonessere altrui”, perciò dicendo ‘il nulla è’ gli si attribuirebbe

544
Allusione a Galileo, la cui teoria, si badi, accolta anch’essa dubitativamente dai Solari
(122.17sg), è qui – e a Theol. I (II, p. 191) – ben distinta dal copernicanesimo; nonché
dall’“ipotesi di Democrito ed Empedocle di più mondi fatti e rifatti” in successione tempora-
le infinita (Theol. I [I, p. 213]).
545
A differenza di Bruno, che nella Cena delle ceneri, p. 110-1 postula un cosmo infinito, per
C., appoggiandosi sull’autorità dei Padri (Basilio, Crisostomo, ecc.), l’universo è finito (o gli
universi sono finiti), perché “l’infinito è unico: non si possono dare più infiniti” (Quod rem. 4,
p. 122); se, ad es., il fuoco fosse infinito, “non ci saria la terra, sua nemica” (Senso, p. 32), per-
ché il fuoco, in quanto infinito, non può che occupare tutto, altrimenti verrebbe a cessare la
sua infinità; “sic ergo est in spiritualibus: si Deus infinitus, non datur aliud esse infinitum,
nam finiretur ab illo” (Quod rem. 4, p. 122), cioè ad un infinito “mancheria l’entità dell’altro,
e saria finito da quello” (Politici, p. 114).
586 LA CITTÀ DEL SOLE

l’essere; ma neanche “prima della costituzione del mondo vi era il nulla assolu-
to, ma soltanto il nonessere del mondo in questa esistenza, poiché in Dio il
mondo era vita. E anche se Dio annientasse il mondo, non si troverebbe il nul-
la assoluto, ma il nonessere di una determinata entità” (Theol. I [I, pp. 285, 303
e 325; II, pp. 43, 55-7, 87]; per le due tipologie del ‘nulla’ v. n. sg).

126.7-8: ex nihilo et ente


“Dio di niente si dice aver fatto il mondo, perché di nulla materia preesistente
e di nulla forma l’ha creato, ma dal suo essere per semplice emanazione a que-
sto essere l’ha recato” (Senso, p. 32), “cioè dal nulla materiale, ha prodotto tut-
te le cose” (Metaph. XI III, II [III, p. 17]), per cui, “perché Dio è, ogni ente è per
conseguenza, come per candela lucente è lo splendore conseguente: non per
natura, ma per volontà di Dio e come in Dio. S’ascondono in Dio quando
paion non esser, e si rivelano a noi quando hanno l’essere sensibile”, e dunque
“gli enti tutti son raggi d’esso Ente” (Esp. a 31, Madr. 2 e 4, 9 – innumerevoli sa-
rebbero i raffronti su questo tema nelle Poesie).
Come conciliare questa asserzione (= tutto deriva da ente e niente) e quella di
116.15 (creazione dal nulla), con quella precedente (124.29: il nulla non esiste)?
La contraddizione è apparente, perché sono in causa due diverse accezioni di
‘nulla’: il nulla ‘essenziale’, cioè dotato di reale esistenza, è quello respinto dai
Solari (v. n. 125.4 [f.p.]). Ben altra cosa è il nulla ‘esistenziale’, cui alludono gli
altri due passi: “Nonostante la loro opposizione radicale, ente e non-ente si tro-
vano insieme nelle cose create, perché sono i principii, o piuttosto i pro-princi-
pii, di tutti gli enti finiti. Tutte le cose sono infatti composte di un’affermazione e
di una negazione. L’affermazione è finita e significa l’ente; la negazione è infini-
ta e significa il non-ente. Così l’uomo è essenzialmente e necessariamente un ani-
male razionale, che è un’entità limitata; ma è anche essenzialmente e necessaria-
mente un non-asino, una non-pietra, un non-Dio, e così via, il che è un’infinita
non-entità… Perciò dell’uomo si può dire che è composto del suo proprio ente
e del non-ente dell’asino, della pietra e di un’infinità di altre cose, in quanto que-
sto ente limita realmente la sua entità di uomo” (Bonansea, p. 44). C. in Theol. I
(I, p. 258) distingue il nulla “materialiter” da quello “absolute”: il primo non esi-
ste, perché, come dicono “gli antichi, dal nulla nulla nasce” (I, p. 259) e perché
“se il nulla fosse, nemmeno Dio sarebbe” (II, p. 125). Una cosa dunque è il nulla
assoluto ed entificato, ed altra è il “commune niente onde le cose nacquero”
(Senso, p. 5); tale nonentità è necessaria e coessenziale alla creazione, perché
“quando Dio dà l’essere, non potendo il suo essere comunicarsi tutto al di fuori,
rimane nelle cose, insieme coll’essere che ricevono, il nonessere, che già aveva-
no” (Theol. I [I, p. 79]), in quanto nonessere-ancora/più qualcosa: un malato
non è più sano, un seme non è ancora un frutto;546 “Dio invero, facendo l’uomo,
gli dà simultaneamente di non essere asino o bue o stella o alcun altro ente. Ma

546
Si ha ‘mutatio’ passando dal nulla all’essere, mentre si ha ‘generatio’ passando da un cer-
to nonessere ad un certo essere, come appunto fiore→frutto (Metaph. II VIII [I, p. 305]), che
COMMENTO AL TESTO 587

se l’uomo fosse tutte queste cose, non sarebbe uomo assolutamente uno, ma sa-
rebbe multipla congerie di tutte le cose… Onde risulta che Dio per limitare le
nature in vista della bellezza dell’universo si serve del nulla e questo nulla costi-
tuisce il nonente negativo dei logici” (Theol. I [II, p. 125]). Una cosa dunque è la
negazione dell’essere, ed altra è l’essere della negazione. Vi sono infatti due tipi
di negazione: la negazione negante, per cui l’uomo non può esser anche non-uo-
mo; e la negazione infinitante, per cui il non-uomo non è puro nulla, giacché
non-uomo può esser predicato di infinite cose. Come ben dice Bobbio: “il niente
non è alcunché di positivo, ma è… alcunché di negativo”, ed è necessario alla di-
stinzione delle cose: “Ogni ente finito, in quanto ente, risulta costituito e struttu-
rato di queste stesse primalità che lo essenziano secondo modalità e proporzioni
differenziate. In quanto poi distinto e limitato, ogni ente risulta composto da gra-
di finiti di entità e grandi infiniti di non entità. Il niente non esiste né in Dio né
fuori di Lui, ma Egli se ne serve per costruire la finitezza e la distinzione degli en-
ti” (Ernst 2002, p. 134).
Il tema del nulla è approfondito sistematicamente in Theol. I (I, p. 123-37) e
Metaph. VI I-III (II, p. 5-57), chiarendo la distinzione fra l’Essere di Dio assolu-
to,547 ingenerato e quindi privo di nonessere; e l’essere degli enti inferiori (pie-
tre, uomo, ecc.), che è costituito di essere finito più infinito nonessere, in
quanto creati, e cioè in quanto prima non erano o erano altro. In sintesi: “ogni
realtà, fuori di Dio, è finita per il fatto che è e non è qualche cosa. Quel limite
tra l’essere e il nonessere quantifica l’essenza” (Metaph. II XV, III [I, p. 339-41]);
ovvero: come “argomenta Parmenide in Platone”, tutte le cose “in quanto so-
no, sono uno; in quanto non sono, sono più” (Theol. I [I, p. 77-9]).
La distinzione tra due forme di nulla è telesiana; Telesio, citando Aristotele,
Phys. I, 71sg (187a, 191b), precisa: “In due modi si può intendere che dal non
ente si produce qualcosa; cioè o per sé stesso e in quanto esso esiste come non
ente, o per accidente e in quanto in esso si trova la privazione… Nel primo mo-
do certamente è impossibile che qualcosa si produca dal non ente, mentre nel
secondo modo è possibile” (III, 5 [p. 421-3]). Ma la distinzione tra ‘ciò che è’ e
‘ciò che è e insieme non è’ si considera uno dei fondamenti, se non il fonda-
mento del platonismo.548 Questa dicotomia fu cristianizzata da Agostino,549 e

è la radice del divenire, e quindi del tempo: se non esistesse il nulla le cose non potrebbero
mutarsi, perché divenire non significa altro che essere dopo quel che non si era prima.
547
“Egli è tutto”, salvo la particolarizzazione e il nulla: “Dio differisce dalle cose non in quan-
to sono enti, ma in quanto sono nonenti, cioè in quanto una cosa è questa cosa in guisa da
non essere quell’altra” (Theol. I [I, p. 123]).
548
Soph. 241b-2b; Phaed. 78b; Resp. VI-VII; Tim. 27d-9e: “Prima di tutto si devono distinguere que-
ste cose:… quello che sempre è e non ha nascimento… e quello che nasce sempre e mai non è”.
549
Ad es. CD 12, 2, 499: “l’unica natura opposta a Quella esistente in sommo grado, che fa esi-
stere tutto ciò che esiste, è quella inesistente. L’inesistente è di certo l’opposto dell’esistente;
perciò nulla che esista si oppone a Dio, esistenza somma e autore di ogni e qualsiasi esisten-
te”; 14, 11 e 13: “tutta la materia terrestre deriva assolutamente dal nulla, come dal nulla fu
creata l’anima che Dio diede al corpo quando l’uomo fu creato”.
588 LA CITTÀ DEL SOLE

aristotelizzata da Tommaso che la trascodifica nei termini di Atto puro e po-


tenza materiale,550 per riapparire in un dettato più prossimo al campan. in Fi-
cino, Teol. II VII (I, pp. 159 e 165): “a tutti gli aspetti della realtà è appunto co-
mune l’essere, onde l’essere, in ogni e qualsiasi sua manifestazione deriva da
Dio… Oltre a ciò si dovrebbe osservare che i corpi inferiori, nel mondo, mi-
grano dal nonessere all’essere e dall’essere di nuovo passano al nonessere, lad-
dove i corpi superiori passano da un essere all’altro”.551

126.9-17: Item… converso.


C. enuncia stringatamente tre concetti:552 a) il male è un ‘vizio’ originario del-
la generazione stessa (secondo il principio tomistico: “Generatio unius est cor-
ruptio alterius” e viceversa [SCG]), la quale poggia su due elementi, appunto la
sostanza e il nulla: dall’essere deriva la causa efficiente, dal nonessere la causa
deficiente, ovvero il male: “la privazione può intervenire o nella moralità quan-
do manchi all’azione o all’effetto il debito ordine, e si chiama colpa e peccato,
oppure nella natura, quando per es. accade mostruosità” (Theol. I [II, p. 125-
7]); b) tale causa deficiente è di tre specie: “impotenza, insipienza e disamore”
(T.128.10); una sola però è peccato (le altre, impotenza e insipienza, sono ‘di-
fetti’ – nel senso con cui diciamo che un certo manufatto è uscito ‘difettoso’):
il “nolle” agostiniano, che corrisponde appunto al ‘defectum voluntatis’: “non
lo condanna ignoranza o impotenza, / ma voglia mal oprante in quel che cre-
de” (‘Fede naturale…’, 3, 50-1); c) il male, non solo “non ha essenza”, in quan-
to è “mancamento di bene”, ma per giunta è anche relativo, ovvero: “male non
ci sarà se non respettivo ma non essentiale, perché tutto è bene dal primo Be-
ne… La morte d’una cosa, essendo vita di molti, mala non è… muore il pane
per farsi sangue, e ‘l sangue muore per farsi nervi”.553

550
2Sent. 25, 1: “ex ente autem et nihilo constat omne finitum ens”; 2SCG, 30: “più una cosa
dista da colui che è l’essere per se stesso, ossia da Dio, più si avvicina al nonessere… Le cose
già esistenti sono vicine al nonessere per la loro potenza a non essere”; tale potenzialità deri-
va dal loro essere materia, che è “un ente in potenza, e ciò che è in potenza ad essere lo è pu-
re a non essere”, perché nelle cose in cui “la forma non esaurisce tutte le potenzialità della
materia, rimane in quest’ultima la potenzialità di altre forme”.
551
La quaestio de nihilo sarà variamente dibattuta in tutto il XVII sec. per la sua rigogliosa po-
livalenza: dall’atomismo al vuoto (per C. ‘natura horret vacuum’: “Il luogo ama così tanto il
locato da non voler stare senza di esso: pertanto in natura non si dà il vuoto” [Compendio V,
10; e cfr Quaest. phys. VI II]), dalle riflessioni sullo spazio a quelle sullo zero; non mancarono
concettuose esercitazioni barocche, che videro coinvolte più o meno direttamente amici e
corrispondenti di C. (come Gaffarel e Naudé), e per le quali cfr l’esemplare Introduzione e
antologia curata da Ossola.
552
Più diffusamente lo fa in: Epilogo, p. 248-9; Politici V; Metaph. II VI, III, art. 1-8; Theol. I (I, p.
37; II, pp. 43, 125-7).
553
Epilogo, p. 248-9; Theol. I (I, p. 81); Quaest. phys.: se la ‘generatio’ implica la ‘corruptio’,
“nullum esse malum ens in mundo essentialiter, sed respective”, e gli stessi mostri e scherzi
della natura sono “respectu causarum particularium, non universalis, cui nihil est impraeme-
ditatum” (II II, p. 11) – teoria quest’ultima presente già in Pico: “Che altro sono i mostri se
COMMENTO AL TESTO 589

Il punto qualificante dei tre (il male non esiste in quanto essenza), senza di-
sconoscere, come si vedrà anche successivamente, i debiti con l’Aquinate (ad
es. 3SCG, 7: “Il male non ha altro essere che come privazione del bene”), è di
derivazione eminentemente agostiniana; il problema del male pervade ossessi-
vamente quasi tutte le opere di Agostino: tutto ciò che è, partecipa, anche in
misura minima, del Creatore, e dunque è necessariamente un bene; il male
non è una sostanza, ma una privazione, che corrompe; il male non consiste
nell’amare le cose cattive che non esistono, ma nell’amare male le cose buone:
così l’avarizia non è un vizio dell’oro, ma dell’uomo che ama disordinatamen-
te l’oro, abbandonando la rettitudine;554 il male morale dunque, ovvero il pec-
cato, non ha una causa efficiente (tutte le cause efficienti implicano un essere,
e qualunque essere, in quanto emanazione dell’Essere, è buono, e dal bene
non può scaturire il male), ma una causa deficiente; come dice in CD 12, 7: cer-
care una causa del male è come voler vedere le tenebre o ascoltare il silenzio. Il
male in sé non esiste, è “privatio boni”, eppure, come il silenzio e le tenebre, è
percepibile ma non come forma, bensì come privazione della forma. E il latino
della conclusione del passo cit. restituisce meglio l’aderenza della lettera cam-
pan. al dettato agostiniano: gli enti, in quanto hanno l’essere, “nulla ex parte
posse deficere, et ea posse deficere, quae ex nihilo facta sunt. Quae tamen
quanto magis sunt et bona faciunt… causas habent efficientes; in quantum au-
tem deficiunt et ex hoc mala faciunt, causas habent deficientes”. Cioè: la diffi-
coltà di comprendere la ‘deficienza’ del male è la stessa di comprendere la
creazione dal nulla: in quanto creata dal nulla la volontà è defettibile, il nulla
le imprime il suo marchio negativo, per cui essa può volere o non volere.

126.17-8: Hic… Trinitate,


In Metaph. VI XI, IV (II, p. 163), basandosi su Ecli. 1, 1-9 e 24, 9, applica le pri-
malità alla Trinità: “la sapienza viene generata dalla potenza, e da entrambe
procede l’amore, come insegnano S. Ambrogio, Origene e S. Vittore, e… indi-
cano il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, un Dio del tutto uno”. Naturalmente
i Solari, privi di Rivelazione, non possono andare oltre una concezione razio-
nale della monotriade (v. 60.25 e 128.4), che è comunque reputato uno dei
fondamenti della religione naturale; infatti “naturali sono quei veri che sono
conformi alla natura sebbene si conoscano per rivelazione soprannaturale. Il
primo di tali veri è il dogma della santa Trinità, la quale è così consentanea al-
la natura, che nessuna verità può sussistere senza di esso” (Theol. XVIII [I,
83]).555

non i peccati della natura? Nessun filosofo mai li attribuì alla causa efficiente… ma tutti li ri-
feriscono alla materia… mal plasmabile e ribelle all’artefice” (I, p. 375).
554
Per Tommaso il male è un’inversione di gerarchie: ci facciamo guidare dal senso, “perché
le cose sensibili per noi sono più conosciute”, privandoci spesso dei beni d’ordine superiore;
ad es. chi mira al bene particolare del gusto del vino, comunque rinuncia – ecco il ‘deficit’ –
al “bene di ordine razionale” della lucidità (3SCG, 6 e 7).
555
Così Theol. I (I, p. 25: “Io penso pure che la notizia della santissima Trinità sia in sé stessa,
590 LA CITTÀ DEL SOLE

Tale ‘naturalità’ del dogma però non è per nulla scontata - donde l’eventuale
‘stupore’, cui accenna il Genovese). Infatti ad un Agostino (al cui De Trinitate ri-
sale il concetto primario della costituzione trinitaria dell’ente), che nell’adora-
zione della ternarietà dei pitagorici e in alcuni passi platonici (nel Convito, nel-
la lettera a Corisco ecc.) vi vede un’aurorale intuizione del culto trinitario, e ad
un Damasceno che dice che alcuni filosofi provarono “divinam onnipotentis
Trinitatis fidem” per quanto “exiliter et perobscure” (De fidel. defunctis, 352I), si
oppone Tommaso, il quale “giudica non potersi in nessun modo naturale co-
noscere la Trinità”, perché non è riflessa nelle creature. Ma Tommaso, osserva
sempre C. – “non aveva letto né i Platonici né Trismegisto, non ancora al suo
tempo voltati in latino”, per cui “non è da stupire che dia di questi testi delle in-
terpretazioni non convenienti”; infatti “Trismegisto parla… di Dio trino crea-
tore del mondo… Parimenti insegna che Dio generò col Verbo una terza Men-
te [= mentem], che è insieme Dio, Spirito e Nume” (Theol. II, p. 12-4; Yates
1981, p. 408-9).
“Spesso si suole attribuire al Padre la potenza, al Figlio la sapienza e allo Spiri-
to la bontà”, scriveva Pier Lombardo (in: SN I X); e infatti, oltre che nelle fonti
patristiche su cit. da C., lo si ritrova nel Psalterium gioachimita (235b-c; cit. in
Gioacchino, p. 274n): “Pater dictus est potentia, quia faciens iudicium de pec-
catoribus, semper se ostendit invictum; Filius dictus est Sapientia, quia noluit
potentia vincere, sed humilitate. Spiritus sanctus dictus est amor, quia qui ple-
ne amat aliquem, dat ei quem diligit et se et omnia sua”.
A complemento delle fonti dottrinali, i resoconti di viaggio. I primi viaggiatori
moderni in India erano rimasti colpiti dalle affinità (del tutto apparenti) con
la Trimurti induista: Odoardo Barbosa (v. n. 64.16): “Hanno questi Bramini
imagini che figurano la santa Trinità; onoran molto il numero trinario”, am-
mettono “che la sua deità è tre in una sola persona” (Ramusio, II, pp. 579 e
632); Barros già intuisce che la somiglianza è ingannevole: i Bramini del regno
di Calicut “nella religione che havevano della trinità di tre persone e un solo
Dio, che appresso i Christiani era il fondamento di tutta la lor fede, si confor-
mavano con essi, ma per altra via molto differente” (I, 77v); Botero non coglie
più alcuna affinità con gli Indiani (III II, p. 105: i Bramini “adorano un certo
Parabramma e i tre suoi figliuoli”), quanto con gli Amerindi: i Peruviani “con-
trafacevano ancora il misterio della Santissima Trinità, perché adoravano tre
statue del Sole, e le chiamavano l’una il Padre Sole, l’altra il Figliuol Sole e la
terza il Fratel Sole” (IV I, p. 10); e C. in Quod rem. 2, p. 265 ricorda proprio que-
sta credenza monotriadica sudamericana, che gli sarà rimasta impressa, per al-
meno due motivi: a) anzitutto perché essa appartiene a un retaggio consolida-
to e autorizzato;556 b) e poi, perché tale retaggio era stato accolto anche in am-

non per noi, più chiara nella natura, segnatamente intellettuale, che nella Sacra Scrittura”) e
Lettere, p. 186.
556
Damasceno, De imagin. 519r: “Videmus praeterea imagines in rebus procreatis, quae nobis
obscuras rerum divinarum significationes praebent. Ut cum dicimus Sanctam omnique prin-
COMMENTO AL TESTO 591

bito telesiano: a chiusura del suo Trattato, come si è detto (v. n. 118.1-3), Persio
eleva una preghiera al sole, visto in forma trinitaria: “O sole tu se’ la vera e fe-
dele imagine di Dio, peroché la tua possanza, o sole, e il tuo infocato e vita, ras-
sembra il possente e vivificante padre: la tua luce che dallo ‘nfocato si genera,
e quasi vien partorita, rappresenta il lucente figliuolo; e quell’ardore che indi
procede e spira, all’ardente spirito s’assomiglia, e è del vivo, possente, lucido e
ardente sole fattura e imagine” (p. 123-9).

126.18-128.2: dicentes… recedit.


“S’è provato in Metafisica che queste primalità si trovan l’una nell’altra, benché
procedan l’una dall’altra” (Poesie, 23, Madr. 1, Esp.). Le tre primalità procedo-
no l’una dall’altra secondo un preciso ordine: “L’amore infatti procede e dalla
sapienza e dalla potenza, giacché ciò che è ignoto e impossibile ad amarsi non
viene amato; e procede con la sapienza e con la potenza; difatti non potrebbe
procedere l’amore dalla potenza e dalla sapienza, se la potenza e la sapienza
non avessero l’amore… Vi è dunque l’amore nella potenza e nella sapienza;
dunque esso non si stacca dalla potenza e dalla sapienza, quando ne procede
[= Ergo a potentia et sapientia non recedit cum procedit]. Allo stesso modo la
potenza e la sapienza immangono necessariamente nell’amore, giacché emana
solo ciò che è oltremodo simile, e quindi oltremodo uno… La sapienza non
procede dall’amore, bensì dalla potenza; difatti noi non sappiamo ciò che non
possiamo; tuttavia sappiamo che non amiamo, e tuttavia il procedente non si
stacca [= et tamen procedens non recedit]: giacché la potenza non dà una sa-
pienza che essa non abbia… Da queste tre primalità gli enti vengono essenzia-
ti, senza alcuna divisione nell’essenza” (Metaph. II II, IV [I, p. 227]).557 La diffe-
renza fra la ‘processione’ e la ‘produzione’ (o ‘creazione’) è che nella proces-
sione vi è ‘toticipazione’ (cioè tutto il procedente passa, si emana nel procedu-
to), mentre nella produzione vi è ‘partecipazione’ (soltanto una parte del pro-
duttore passa nella sua creatura.558
Il dettato è assolutamente ortodosso, fin nella dipendenza terminologica, al to-

cipio superiorem Trinitatem, per Solem, et lucem et radium declarari”; Pico, I, p. 387: la lu-
ce delle stelle “ci indica l’occulto mistero della divinità, raffigurando la potestà nel movi-
mento, la sapienza nella luce, nel caldo l’amore, con cui tutto è mosso” da Dio; Ficino, Sole,
XII ‘Similitudo Solis ad Trinitatem divinam…’: “nulla si trova nel mondo che più del Sole ras-
somigli alla divina Trinità… La fecondità indica il Padre, la luce simile all’intelligenza rap-
presenta il Figlio concepito secondo intelligenza, il calore lo Spirito d’amore”, trinitarietà
questa, che Camillo (p. 66) attribuiva proprio ai pitagorici.
557
Cfr anche II VI, V-XV; Quod rem. 3, p. 33; Theol. I, cap. 8-13, dove sono analizzate le singole
figure primalitative, a partire dalla potenza, che è condizione indispensabile per l’esistenza
(I, p. 261), cui, aggiungendo le “ragioni formali” si ottiene che “in quanto l’essere si riferisce
alla potenza si chiama ente, in quanto si riferisce alla sapienza si chiama vero, in quanto si ri-
ferisce all’amore si chiama bene” (II, p. 105).
558
L’argomento è svolto con analoga profondità e acribia in Theol. IV (II, p. 117) e partico-
larmente in Theol. II (I, I-VI), dettato da necessità polemiche contro i greco-ortodossi, che so-
stengono che lo Spirito santo procede solo dal Padre (Lettere, p. 183).
592 LA CITTÀ DEL SOLE

mismo (lo dichiara del resto in Theol. II I, p. 55: “il nostro sistema concorda an-
che con gli Scolastici”): la distinzione fra ‘processio’ e ‘generatio’ era posta già
da Damasceno, Orth. fidei I, sebbene “quis huius differentiae modus sit, prorsus
nos fugit” (179H); nella teologia trinitaria di Tommaso, con “processio” s’in-
tende l’origine di una persona da un’altra; la processione è immanente (‘ad in-
tra’, come quando ad es. l’intelletto genera un’idea), cioè il soggetto che pro-
cede rimane immanente al proprio principio; ST I, 27, 3: “In Dio ci sono due
processioni”, una appartenente all’intelletto, l’altra alla volontà: “Secondo l’a-
zione dell’intelletto si ha la processione del verbo. Secondo poi l’operazione
della volontà si ha… l’amore… Sebbene in Dio la volontà non differisca dal-
l’intelletto, tuttavia la volontà e l’intelletto richiedono che le processioni ab-
biano tra loro un ordine. Infatti non si dà processione d’amore se non in rap-
porto a quello del verbo [mentale]: perché la volontà non può amare se non
ciò che è appreso dall’intelletto”.

128.3-6: ut in lege… et a se.


Per la triplicazione formulare v. n. 134.3-4; per i rapporti fra i Solari e il Cristia-
nesimo v. n. 104 (glossa), n. 128 (glossa) e n. 134.5-14.

128.24-9: Idcirco… declinamus.


L’argomentazione è di marca tomistica: “le azioni cattive in quanto tali non de-
rivano da Dio, bensì dalle cause prossime deficienti; invece per quello che esse
hanno di efficienza e di entità bisogna che derivino da Dio”; il male consiste
dunque in due cause: una causa prima, in quanto ha un’essenza e un’azione, e
questa, come qualsiasi entità e causalità, dipende da Dio (che è la causa delle
cause); e una causa seconda, che è l’unica che può esser deficiente: ad es. lo
zoppicare, per quanto riguarda la capacità dinamica [= “virtute motiva”] di-
pende dal moto, ma in quanto attiene al difetto, dipende dall’incurvamento
della gamba (3SCG, 71).559 Se l’argomentazione è scolastica, comunque il lessi-
co (‘deordinatio’) è agostiniano: “haec vero quae tendunt ad esse, ad ordina-
tionem tendunt… Ordinatio ergo esse cogit. Inordinatio non esse” (De Morib.
Manichaeorum, in: SN II XCV).

128.31-4: Profecto… discessero.


Le richieste del Genovese a lasciarlo partire si ripeteranno più avanti (138.4,
158.6), sempre dettate dall’urgenza d’imbarcarsi. Ciò può implicare due con-
seguenze: quel “metu” (T.128.36: “paura”), sebbene irrelato, è da collegare so-
lo e soltanto con il timore di perdere la nave e non, ad es., di poter esser per-
seguitato per aver divulgato chissà quali altre “mirabilia”? In secondo luogo,
dall’imbarco urgente si potrebbe inferire (ma è più un’illazione che un’ipote-

559
Quest’esempio è variamente replicato in Theol. I (ad es.: II, p. 179), dove s’insiste pure sul
fatto che il male in sé non esiste, ma, come per il nulla da cui deriva, è evincibile solo dall’i-
dea di bene (II, p. 43).
COMMENTO AL TESTO 593

si) che il dialogo tra i due si svolga in una città portuale – Genova, Napoli? (v.
n. 54.36-56.9).

128 (glossa): De causa mundanorum malorum


A riprova che le glosse sono autoriali, questa è uguale a (parte di) un titolo di
Theol. XVI (I, II: ‘Varie teorie false e insufficienti di filosofi, di teologi e dei pa-
gani intorno all’origine dei mali dell’uomo’), e alla 10a questione da dibattere
per la conversione degli infedeli (Quod rem. 2, 2); in Mon. Sp. esamina le ipote-
si sull’“origine del male” di epicurei, manichei, libertini e calvinisti (XXVII, p.
300); in Ateismo II, 4 (in Ernst 1997c, p. 625): “come Dio lascia nel mondo fare
tutti a suo modo, non provede alle guerre, carestie, pestilenze?… Se Dio è buo-
no, onde viene tanto male? Perché soprabonda al bene? Se ciò viene dal pec-
cato originale, che colpammo [sic] noi in quello dove non consentimmo e che
colpa han le bestie che patiscono li medesimi guai?”.
Dalla risposta del Genovese fino alla successiva replica dell’Ospitaliero (128.38-
136.3) si dipana, pur tra divagazioni e sottese implicazioni, un unico filo di
pensiero: l’affinità della spiegazione ‘naturale’ circa il male nel mondo con il
dogma del Peccato originale è un’ennesima prova: a) del prossimo e definitivo
Avvento: “la filosofia cristiana ricorre al peccato dell’uomo primo, permesso da
Dio per scherzo e gioco, finché dura il periodo di alcuni secoli in cui si fa la co-
media e la falsa (dicono in Calabria), non il serio governo e la vera, che ne suc-
cedenti secoli aspettamo” (Politici, p. 110; anche Lettere, p. 190-1); b) dell’equi-
valenza fra ‘religio abdita’ e ‘indita’, che è poi l’obbiettivo dichiarato di que-
st’opera: “immagino la mia Città non come data da Dio, ma come il frutto di
ragionamenti filosofici e nei limiti della ragione umana, a riprova della confor-
mità tra verità del Vangelo e verità di natura… Perciò ho immaginato questa
Città pagana che aspetta la rivelazione di una vita migliore, e che merita debi-
tamente di conseguire la salvezza, poiché vive in base al modello che le detta la
ragione naturale” (Quaest. pol. IV I, p. 101).560
Tornando alla domanda dell’Ospitaliero, essa risulta quantomeno singolare: è
vero che può scaturire per spontanea associazione dalla precedente trattazione
metafisica del peccato; ma cosa potrebbero dire di attendibile, su un tema così
squisitamente cristiano, dei pagani? In realtà, anche se i Solari indirettamente
esprimeranno un inedito parere sul Peccato originale, il Genovese interpreta
così la domanda: ‘cosa pensano i Solari della Causa originaria dei mali del
mondo?’ E infatti passa in rassegna alcune ipotesi per cui il cosmo è diventato
un caos (platonica; ‘diabolica’; susseguirsi di età planetarie vieppiù regressive –
v. n. 130.9-17), per concludere che i Solari non credono a nessuna di esse. Co-
me pure non credono che tutto il male derivi dal padre di tutti i peccati, non-
ché degli uomini. Infatti da Adamo deriva la pena, ma non la colpa, esatta-
mente come da una pessima generazione ed educazione derivano figli malvagi,
che, pur innocentemente, diventando pessimi cittadini, saranno causa della ro-

560
Quest’ultimo periodo coincide quasi con le parole dell’Ospitaliero a 134.5-14.
594 LA CITTÀ DEL SOLE

vina collettiva - donde lo sfascio attuale. Dalla negazione della trasmissibilità


della colpa derivano due conseguenze: A) esplicita: il male non dipende da
cause preternaturali, ma naturalissime, fisio-pedagogiche (dunque il rapporto
genitori/figli non solo funge da esempio per illustrare l’idea che l’Au. ha del
peccato originale, ma funge anche da spiegazione della situazione drammati-
camente negativa in cui versa il mondo); B) implicita: la domanda dell’Ospita-
liero sottintende infatti un’altra questione cruciale (e per questo è meno pere-
grina di quanto possa apparire a prima vista): vista la loro teoria del peccato,
implicante il concorso necessario di tutte e tre le primalità negative, e in partic.
della ‘noluntas’ o “disamore” (126.13; T.114.39), i Solari come giustificano
quel marchio negativo che bolla l’umanità da quando è apparsa sulla faccia
della Terra, e che ha richiesto un secondo intervento (e sacrificio) divino? Con
la risposta che ne segue, si deduce che:
1. l’umanità continua a pagare per una colpa non direttamente sua, e questa
innocenza di fondo dovrebbe evitarle il castigo eterno, anche se è priva del
messaggio del Salvatore: è il grosso problema delle masse di ‘insipienti’ e
‘impotenti’ (piuttosto che ‘nolenti’), che la Scoperta ha scaricato sulla co-
scienza dell’Occidente; da un lato ciò riattizzava le polemiche degli eretici,
che facevano rilevare come il diavolo fosse più potente di Dio, visto l’esiguo
numero di chi si salvava rispetto alle legioni di dannati ‘innocenti’ che in
quindici secoli hanno vanamente atteso nell’altra faccia del mondo quel bat-
tesimo purificatore;561 e dall’altro, a volerli salvare tutti, si corre il rischio di
passare per eretico pelagiano. È proprio questa infatti l’accusa mossa, tra gli
altri, da padre Riccardi ad alcune proposizioni di Atheismus X, che tendeva-
no a dimostrare che ogni uomo in quanto razionale è perciò stesso cristiano
(e quindi potenzialmente suscettibile di salvazione, anche privo di Rivelazio-
ne);562 ma se così fosse, Cristo sarebbe venuto e morto inutilmente: “non è
vero che Dio non dia a tutti la grazia sufficiente per non esser dannati” –
controbietta ai riformati, osservando che il battesimo è una “grazia efficace”
supplementare –; “ai bambini morti… è stato provveduto mediante l’incar-
nazione di Cristo, il quale, essendosi accomunato a tutti gli uomini nella na-
tura, riparò la natura più che non l’avesse guastata Adamo… E quando un
recente Tomista argomenta che i bambini non battezzati devono essere con-
dannati, non sa quel che dice. Infatti l’alienazione del bene incommutabile,
secondo S. Tommaso in 2SCG, priva della sola visione di Dio… Inoltre nel
Salmo 147 Dio diede a tutte le nazioni soltanto la legge naturale, ed esse
possono salvarsi di fatto… Quanto agli uomini abbandonati nelle Americhe

561
C. stesso sintetizza l’argomentazione dei riformati che tendono così a dimostrare che Dio
ci ha già predestinati: Dio “afferma di volere che tutti si salvino, e tuttavia vuole che i bambi-
ni morti senza battesimo si dannino… e così [pure] tutti quelli che nelle Americhe lasciò
senza rivelazione” (Theol. I [II, p. 91]).
562
Cfr Ernst 1991, p. 102; e, in generale, su questa tolleranza pelagianizzante di C., cfr R.
Amerio, Introduzione alla teologia di T.C., p. 23sg.
COMMENTO AL TESTO 595

dico parimenti che potevano salvarsi con la legge naturale e la grazia suffi-
ciente, e che molti si salvarono effettivamente, i quali poi condanneranno
noi nel giorno del giudizio, come Dante dice degli Etiopi e del troiano Ri-
feo, mentre scioglie questa questione” (Theol. I [II, pp. 91-5, 223, 269-73]; cfr
anche Avvertenze, p. 462). Ed è proprio per parare questa grave accusa che,
come L. aveva aggiunto la celebre frase delle “ragioni vive del Cristianesmo”
(v. 60.11 in ‘Apparato delle varianti di α’), anche Civitas aggiunge una glos-
sa a 60.25 di tenore analogo. Ma essenzialmente C. copre di sottintesi pro-
prio le pagine che stiamo scorrendo: quale destino ultraterreno attende una
popolazione ideale, ma ignara della Rivelazione, come i Solari?
2. Nel prosieguo del testo si dice che la malvagità del mondo fa ritenere che es-
so sia un caos,563 da una cui costola discendono i ‘machiavellisti’; invece i So-
lari, che leggono il Libro della Natura, il primo Libro composto direttamen-
te da Dio, dalla sua armonia hanno dedotto quelli che sono i tre imperativi
fondamentali di una religione naturale: gnoseologico (uomo/natura), etico
(uomo/altri uomini: rispettare il prossimo), teologico (uomo/Dio: onorare
il Creatore): “a chi osserva la legge di natura, ignorando quella della grazia,
non si nega il Paradiso” (Poesie, 3, 60, Esp.); la grazia è appunto un dono, per
cui noi siamo razionali per natura “e per dono cristiani… Perciò i Padri ri-
tengono cristiani tutti coloro i quali vivono razionalmente, anche se nulla
abbiano udito della Ragione incarnata; anzi, dice Cristo, chi non è contro di
noi è per noi” (Metaph. XVI IX, App. [III, p. 297]). Allora i Solari sono un po-
polo scelto da Dio (134.20) a testimoniare che la ragione è un requisito suf-
ficiente per la salvezza; oltre che, e principalmente, a insegnare altre due co-
se: costruendo solo con la ragione una visione del mondo, la religione coin-
ciderà quasi con il cristianesimo; in secondo luogo, se tutte le religioni sono
germogli (o tralignamenti) dall’unico tronco della religione naturale, allo-
ra, riducendo tutto alla religione naturale, quindi al cristianesimo, non sarà
difficile (come non lo è per i Solari, che, per convertirsi, aspettano solo che
i cristiani restaurino l’originaria vita apostolica), riunificare tutto il mondo
sotto un’unica Legge.
Questa posizione Theol. XVI (l’intero tomo è dedicato alla trattazione del pec-
cato originale) la chiarisce partendo dall’eresia pelagiana, da cui sono fioriti
tre tronconi eterodossi: da Abelardo agli Anabattisti (negazione dell’eredita-
rietà del peccato originale); da Erasmo a Zwingli (“si contraggono da Adamo le
pene, non però la colpa”); e il terzo è il calvinismo (se i genitori sono battezza-
ti, i figli non possono nascere nel peccato); a questo tentativo di liquidazione o
quanto meno di ridimensionamento in senso erasmiano del peccato originale,

563
O sia retto da leggi casuali, come vorrebbero “li Epicurei e Democratici [= Democritei]”
(Politici III, p. 109 – buona parafrasi, con esplicita valenza profetale, di questo passo è ap-
punto il capit. di quest’opera intitolato: ‘I scompigli e disordini del governo umano esser da
tutti confessati e la cagion cercata, ma solo nel Cristianesimo esser nota, e questo esser argo-
mento d’un altro secolo ottimo, successivo a questo disordinato’).
596 LA CITTÀ DEL SOLE

C. deve aver aderito inizialmente (e non solo inizialmente – come dimostra


Atheismus e specialmente questo passo di CS rimasto immutato), cercando suc-
cessivamente una conciliazione con l’ortodossia (es. Quod rem. 3, p. 121), ma al-
quanto pasticciata: “S. Tommaso stima che perché l’uomo contragga il pecca-
to, basta che nasca dal seme di Adamo, del quale Adamo gli uomini sono come
parti e membra cospiranti con lui nel bene e nel male. E come il peccato della
mano non si imputerebbe a tutto l’uomo, se la mano fosse separata dal corpo,
così il peccato originale non si imputerebbe all’uomo, se l’uomo non fosse del
seme di Adamo. Ora invece le membra godono e patiscono tutte insieme nel
corpo, e così pure gli uomini in Adamo, nella volontà del quale essi peccarono,
pur contraendo soltanto un minimo di volontà… Il peccato originale è volon-
tario non della volontà propria”, come quando si contrae un’“infezione”, per
cui nei discendenti manca “la colpa dell’atto peccaminoso di Adamo” (ib., p.
113-5); curiosamente questa dovrebbe essere la ‘Risposta agli argomenti dei
Pelagiani… antichi e moderni per provare che il peccato originale passa nei
posteri di Adamo soltanto come infezione o come pena o per imitazione e non
come colpa’ (ib., p. 107). Tale sottile distinzione colpa/pena non vale però per
gli altri peccati, spirituali e corporali, come esplicitamente sostiene Theol. X
(III, p. 163-5), sulla scorta di Ez. 18, 19: ‘il figlio non porterà l’iniquità del pa-
dre né il padre l’iniquità del figlio’: “nel temporale invece il figlio porta la pe-
na del peccato paterno, sebbene non porti il peccato paterno… [Perciò] la pe-
na si estende dai genitori ai figli perché essi sono qualche cosa dei genitori, e
come i figli ereditano i beni, così anche i mali. Però la colpa ridonda general-
mente e più ragionevolmente dai figli ai genitori, perché i genitori non hanno
generato o educato i figli in modo corretto. Circa il peccato originale parlere-
mo in altro modo in altro luogo”. Per ritornare a CS, i Solari non considerano
il peccato originale ‘originale’, e quindi soggetto a un peculiare regime puniti-
vo (è probabile che la sottile distinzione a difesa del dogma risultasse in effetti
troppo impalpabile anche all’Au. stesso).

128.39-130.2: multam… dominari,


Probabile reminiscenza biblica (oltre che autobiografica): “Io non li [= a Que-
renghi] voglio dire quel di Salomone: ‘vidi iustos quibus mala proveniunt tan-
quam opera egerint impiorum, malos autem qui ita securi sunt ac si bene egis-
sent’, perché io non mi conosco giusto” (Lettere, p. 135); il versetto di Ec. 8, 14
cit. da C. comincia: “il peccatore commette il male cento volte e si vede pro-
lungata la vita… Ma sulla terra si ha però questa delusione”. Non si tratta solo
della replica di lagnanze comunemente ricorrenti (dallo Iuppiter lucianeo all’e-
pistola proemiale al Mondo savio e pazzo del Doni) contro l’ingiustizia ancora
dominante;564 si tratta probabilmente del frutto di una riflessione conseguente

564
Ma non per molto ancora, come ammonisce Rom. 1, 9sg, spesso citato nelle Lettere, veden-
dovi ritratta la sua condizione e la speranza del suo riscatto: “Si manifestò infatti dal cielo la
collera di Dio contro ogni empietà e ogni ingiustizia degli uomini, che tengono ingiusta-
mente imprigionata la verità”.
COMMENTO AL TESTO 597

alla catastrofe del ‘99, in cui l’opposizione ‘buoni/malvagi’ non è altro che la
duplicazione, resa estrema e generica (come nel sonetto 13: ‘Senno senza for-
za… forza de’ pazzi’), di quella ‘profeti’/’politici’: “A Napoli avevo scritto un
Trattato [perduto] su ‘Perché coloro forniti di sapienza e virtù illustre, benefat-
tori del genere umano, nei periodi critici dei tempi incorrono in una morte
violenta sotto il pretesto di lesa maestà divina e umana, ma poi tornano a vive-
re nel culto e nella gloria’” (Syntagma II IV).565

130.9-17: Et primo… reputant.


I Solari, ignari di dogmi sul Peccato originale, non possono che avanzare ipo-
tesi ‘naturalistiche’ sui mali del mondo, anzi di un mondo scandalosamente ro-
vesciato, in cui a soffrire sono i buoni e a godere i malvagi. Le ipotesi qui con-
siderate sono tutte contemplate nel Polit. (269-72) platonico:
a. l’inversione dei moti siderali: “Il fatto che il moto del tutto ora si svolge nel-
la direzione del suo ruotare attuale, ora nel senso opposto… è, fra tutti i
mutamenti… il più grande e il più completo… e in tale circostanza si verifi-
cano pure i massimi mutamenti in noi che viviamo all’interno di quell’uni-
verso tutto… È quindi necessità che in tale circostanza avvengano le più
gravi distruzioni degli altri animali, e così anche il genere umano sopravvi-
ve soltanto in piccolo numero di suoi rappresentanti”. “Ma se questo fosse
vero – commenta Theol. XVI, p. 39 –, non sarebbe stato taciuto da Mosè,
che è il più antico degli storici”.
b. Il mondo animato e retto da demiurghi: originariamente dio “reggeva la ro-
tazione stessa e la curava nella sua totalità… E in quel tempo le parti del co-
smo erano universalmente suddivise sotto la direzione di un congruo nume-
ro di divinità”. Di demiurghi, semidei sussidiari aiutanti e mediatori della di-
vinità, Platone parla anche in altre opere;566 e oltre che da Platone “geni
buoni e cattivi sono riconosciuti anche da Talete, da Pitagora, dagli Stoici,
da Empedocle, da Eraclito, dagli Egiziani” con Trismegisto (Theol. XVI, p.
33). Sterminata la bibliografia su queste entità, e le loro varie epifanie: dalle
divinità teurgiche (Giamblico, Misteri VIII III; Plutarco, Is. e Osir.) alle “so-
stanze separate” di Tommaso (ST I, 106, 3), fino alle intelligenze celesti fici-
niane (Theol. IV, 1). C., sulla scorta di Agostino (es. CD 12, 25-7) non condi-
vide che queste entità siano in grado di creare, e che abbiano un’iniziativa

565
“Quando la società è dominata dalla follia e dall’inversione dei valori, i profeti, scomodi
portatori di un messaggio di verità, non possono che venire perseguitati e talora messi a mor-
te. La distorsione del loro messaggio e la persecuzione sono opera dei ‘politici’, che irridono
la profezia e tacciano di ribellione i sapienti, in quanto… dominati dall’esclusiva logica del
potere, ritengono che ogni iniziativa umana sia dettata da personali ambizioni di dominio”
(Ernst 2002, p. 77-8).
566
Segnatamente Tim. 28a, 41a-4a; Leg. 713d-e, passo a cui si rifà in Mon. Messiae I: nell’età di
Saturno, il dio “prepose a noi quella stirpe che era migliore di noi, i dèmoni; essi di noi pre-
sero cura senza molta fatica per loro e senza peso per noi e ci portarono la pace… Per tutti
gli stati cui non conduce un dio ma un mortale non c’è scampo ai mali e alla faticosa pena”.
598 LA CITTÀ DEL SOLE

autonoma; tuttavia, in sede dottrinale, il suo pensiero si discosta alquanto da


quello dei Solari, considerando i demoni esecutori materiali dei fulmini di-
vini: “anche il Crisostomo e altri Padri dottissimi insegnano che tutte le pu-
nizioni, anche in questo secolo, Dio le infligge per mezzo di angeli malvagi,
ai quali però presiede un angelo buono, come pensa S. Agostino” (Theol.
XVII, p. 167).567
c. Avvicendarsi dei dominii planetari: molti hanno “udito parlare del regno
che Crono resse”, in cui agli uomini “si offriva spontanea soddisfazione dei
bisogni… le stagioni erano tutte ben temperate”, insomma l’età dell’oro;
“questa invece, che si dice essere del tempo di Zeus, tu stesso la conosci per
diretta esperienza”; quest’argomentazione platonica è condivisa da Quod
rem. 4, 2 e Astrol., p. 229: “Puto ergo in primo millenario praefuisse Saturnus,
unde saeculum aureum sub eo celebrant scriptores; in secundo Iuppiter; in
tertio Mars; in quarto Sol [quando è venuto il Messia]; in quinto Venus; in
sexto Mercurius, in quo nunc sumus; in ultima Luna, quando omnia varia-
buntur”, e dopo l’Apocalisse la ruota del tempo ricomincerà a girare secon-
do la precedente scansione; ma essa viene posta fortemente in dubbio in
Theol. XVI: “l’affermazione che il mondo inferiore fosse da principio gover-
nato dal pianeta Saturno e che gli sarebbe successo Giove e a questo Marte,
è puramente congetturale e arbitraria. Non è infatti una verità astronomica
così assodata da poter costituire il fondamento di una spiegazione delle col-
pe e dei mali del mondo. D’altronde Saturno non cessa di operare, anche
sotto il regno di Giove” (p. 39).568 CS si allinea a questo punto di vista sfavo-
revole (130.17sg): i Solari, infatti, condividono sì la partizione delle età del
mondo in sette millenni secondo la serie planetaria (come si fa per i giorni
della settimana o per le età dell’uomo), ma si dissociano dall’idea di un’in-
fluenza dominante esercitata da quel pianeta, perché non accettano una fi-
losofia della storia regressiva (il passaggio da un’età aurea ad una plumbea,
in realtà, si scontra con la prospettiva messianica cristiana); e poi per ragio-
ni ‘scientifiche’: Saturno è astrologicamente un pianeta funesto rispetto a
Giove, quindi il secondo millennio avrebbe dovuto esser migliore del pri-
mo;569 e infine perché gli altri pianeti non dominanti non cessano per ciò
stesso di essere attivi e influenti sulle cose del mondo (infatti l’attuale età

567
Politici, V; nel cap. succ., Ernst 1996c, p. 122n fa notare però che “secondo C., anche Pla-
tone ammette un ordine provvidenziale del mondo umano, in polemica con quanti riteneva-
no che il filosofo delegasse la cura del mondo inferiore agli astri e ai demoni”, rinviando a
Metaph. II IX, X, 2 e Atheismus V, 44.
568
Condividendo, si direbbe, la posizione di Pico: è una ‘favola’ “sostener che Giove presiede
ora alle cose terrene, e negli anni precedenti vi presiedette Saturno [si corregge il “Mercu-
rio” del testo, evidente lapsus], a cui Giove segue secondo l’ordine delle sfere” (II, p. 197).
569
Secondo Firmico, infatti, per gli astrologi egizi a Saturno toccava l’epoca “selvaggia e ter-
rificante” dell’origine del mondo; “dopo Saturno, è Giove ad esser diventato signore dei tem-
pi, affinché, superata la fase agreste e primitiva, un genere di vita più civilizzata fosse propo-
sta a un’umanità dai costumi purificati” (III, 12-4).
COMMENTO AL TESTO 599

mercuriale [130.25] è traversata e alterata da varie anomalie astrali [v. n.


114.1-5]).
La causa dei mali del mondo è sì naturale, ma non riposa negli astri, bensì nei
poco giudiziosi accoppiamenti umani, che, come il peccato originale, penaliz-
zano figli innocenti, che corromperanno l’intero organismo sociale (v. n.
132.3-6 e n. 132.6-13).

130.12: orientem dicimus,


Sotto questa apparentemente superflua precisazione si nasconde quello che
poteva essere un diverso sistema di orientamento dei Solari, rispetto alle con-
venzioni correnti: secondo lo (pseudo-)Galeno (De hist. phil. XIX XI, p. 269
‘Quaenam sit dextra pars mundi’), infatti, “Pythagoras et Plato et Aristoteles
orientalem partem esse dextram mundi dixerunt, a qua motus incipit, occi-
dentalem vero sinistram”; invece, per C., fermi restando i quattro punti cardi-
nali, bisognava però porsi con la faccia a Ovest, anziché a Nord, privilegiando
l’asse O-E, e immaginare così di seguire il percorso del Sole; e quindi il Polo
Nord, “per aver più stelle lucenti, si può chiamare destro del mondo, e l’oppo-
sto sinistro” (Epilogo, p. 208 e Physiol. II, 2).
La questione dell’orientamento del mondo risale quanto meno all’aristotelico
De coelo 285a-b, per il quale l’oriente è la destra, ripreso da Leone Ebreo nei
Dialoghi d’amore (p. 87-8: “la destra nostra sarebbe la loro sinistra”, visto che
quando nell’emisfero boreale è autunno nell’australe è primavera - cfr Fallisi,
p. 582-3).

130.17-21: Ac stultius… planetarum.


Parlando dell’età di Saturno, C. cita il Polit. (271d-272b) di Platone (Mon. Mes-
siae II, 12 e Quod rem. 4, 12: “Sub Religiosi Saturni temporibus (ait Plato in Ci-
vili) vivebat saeculum felix” – ma Platone ne parla anche in Simp. e Leg.), o i
“Saturnia regna” virgiliani (Buc. IV, 6-7; in ‘Ecloga’, 169, 3). Ciò non toglie che
conosca altre fonti: forse Omero ed Esiodo; certamente Ovidio, che, non solo
codificò le quattro età metalliche (oro, argento, bronzo, ferro): “Quando Sa-
turno fu precipitato nel Tartaro tenebroso, mentre Giove regnava nell’univer-
so, venne l’età dell’argento”; ma rilanciò l’idea (già esiodea e poi oraziano-vir-
giliana) del regressivo scadimento dell’uomo a mano a mano che si allontana-
va dalle sue origini divine (Metam. I, 89-150: tema sontuosamente illustrato nel
Rinascimento dalle tele di Cranach, ed esaustivamente trattato da Levin). I no-
stalgici della ‘favolosa’ (già Alberti usava questo termine: VII I [p. 530]) età del-
l’oro, come Figliucci, “ritrovarono essempi di giustizia fin dai tempi di Saturno,
li quali per la semplicità e bontà de gl’uomini che allora si ritruovavano, so-
gliono chiamare secoli d’oro”, a cui seguì “il regno di Giove, come affermò Ci-
cerone [De rep. e Macrobio, Somnium II X]”.570

570
De la Politica, Venezia, Somascho, 1583, in: Curcio 1944, p. 208-9 – il quale Curcio ha trac-
ciato alle p. 197-200, una breve ma densa storia del mito dell’età aurea; mentre Frajese, p. 18-
600 LA CITTÀ DEL SOLE

130.22-3: post mille… sexcentos


Il ‘mille’ è retaggio di due tradizioni di pensiero:
a. astrologico: secondo gli Arabi, tra tutte le grandi congiunzioni (v. n.
118.10), la “massima è quella di Giove e Saturno nell’Ariete”, che “evenit cir-
ca 1000 annos” e da cui ci “si aspetta il cambiamento delle religioni, il muta-
mento dei regni e l’avvento dei profeti” (Pico, I, p. 543-5 riassume il pensie-
ro di Albumasar, e Garin 1946, p. 636 lo integra con i commentari al Quadri-
partitum tolemaico di Messahallach e Ibn Ezra, pubblicati in Italia all’inizio
del XVI sec.);
b. ‘mille e non più mille’: nella tradizione apocalittica, il millenarismo appun-
to (versione cristiana dell’ebraico messianismo), si attende il ritorno di Cri-
sto dopo “mille anni”, quando verrà la fine del mondo, per il compimento
del ‘grande anno’: l’ansia di determinare questo ‘millennio’, malgrado le
cautele suggerite da esegeti come Crisostomo,571 scatenerà ogni sorta di pro-
fezie, condannate dalla Chiesa.
Il 1600, come numero fatale, invece è coniazione campan. anteriore e condi-
zionatrice della congiura stroncata appunto alla vigilia di quel secolo, perché si
trova già in Mon. Sp.1 e Mon. Sp., p. 20: “L’Imperio cristiano… sta nel numero
1600, che è composto del nono e settimo centenario, numeri fatali d’ogni mo-
narchia, come scrisse Pitagora e Platone”; e poco oltre: “Dio in numero ogni
cosa fece. Dunque è indizio di gran mancamento e augumento o variamento di
tutte le cose, questo tempo”. Un suo celebre contemporaneo così si esprime a
proposito della congiura: “Anno 1598 Calabriam repetit ubi per biennium spe
futurae libertatis Regno captivitatem molitur. Sed anno 1600 quem Regno fata-
lem praedixerat, sibi funestum expertus est, cumque alienam libertatem aucu-
paretur, perdidit suam” [Barri, p. 255 – Thomae Aceti, Annotationes]). Memore
del diluvio universale (Quod rem. 3, 18: “Deus dixit ad Noe circa annos mundi
1600, qui inventus est iustus coram eo, ut aedificaret arcam…”), in seguito ad
alcune terribili inondazioni che avevano devastato addirittura Roma, C., nelle
deposizioni processuali,572 si paragona a (o cerca di farsi passare per) un no-
vello Noè che tenta di porre in salvo coloro i quali non furono insensibili alle
sue prediche sui presagi della prossima fine del mondo.573

23 l’ha percorsa negli scritti e testimonianze di C. anteriori a Mon. del Messia (1606), che lo
fanno coincidere con il regno sacerdotale (v. n. 10.18-9).
571
In caput Matthaei XVIII, Hom. LXII: “millies infinite designat, plerunque multa indefinite
atque indistincte denotatur” (II, 515A).
572
Fra Silvestro aveva sentito dire che “nell’anno 1600 si doveano vedere gran cose e revolu-
tioni di Stati”; a Pizzoni avrebbe confidato che Brigida, Caterina, Gioacchino e Savonarola
“hanno prophetato che nell’anno seicento [sic] dovevano essere gran romori rebellioni e
sollevationi di populi e mutationi di stato” (Amabile, Congiura III, pp. 143 e 200 - per altre te-
stimonianze v. n. 136.14-25, n. 144.27-146.2 e n. 156.13-158.5).
573
C. insiste molto “nel distinguere profezia e iniziativa politica, ed è molto attento a respin-
gere ogni sospetto di aver voluto aspirare a esercitare un personale potere politico. La stessa
accusa che aveva colpito Savonarola, e traspariva dal famoso giudizio di Machiavelli sui pro-
COMMENTO AL TESTO 601

La fatalità del numero 1600 poggia dunque su due ordini di motivazioni:


• astrologico: secondo un calcolo lievemente diverso, cui inclina maggior-
mente C., “le congiunzioni magne [= dei pianeti maggiori]… durano in
ogni tri[go]no ducento anni incirca”, per cui, essendo quattro i trigoni, ed
essendo le grandi congiunzioni ritornate nel I trigono alla nascita di Cristo,
esse vi ricompariranno appunto nel 1600 (v. n. sg, n. 133.1 [f.p.], n. 136.22,
n. 156.13-158.5, n. 160.1-2 § 2);
• aritmologico (è la motivazione su cui batte di più): sempre a proposito della
congiura, infatti, erano state verbalizzate queste sue dichiarazioni: “Che nel
1600 si debba verificare una trasformazione nelle cose umane si deduce”
dall’influenza del sette, del nove e loro composti, come fu rilevato già da Pi-
tagora, “e anche Platone scrisse che tutti i regni si trasmutano nei periodi
contrassegnati dal sette e dal nove [Resp. 546b], e ne diede riprova l’autore
del Metodo storico [Jean Bodin (Paris, 1566) – è all’Indice, e ne tace per pru-
denza il nome]… Dovendo dunque accadere queste cose, parve credibile
dovessero accadere nel 1600, visto che si compone di 900 più 700, e coinci-
de col Giubileo, quando Cristo ritorna a prender possesso della sua eredità
secondo il Levitico”, dopo l’avvento dell’Anticristo: insomma tutto testimo-
nia della crucialità e del profondo “mutamento” in atto di quel momento
(Supplizio, p. 167-71).
Passato (tragicamente) il 1600, l’attesa si sposterà al 24 dicembre del 1603, in
cui i numeri hanno perso in rotondità ma guadagnato in fatalità (con il “tre,
numero perfettissimo” [Poesie, 56, Esp.]). Il motivo per cui ancora in Civitas ab-
bia mantenuto questa frase (e quindi conservato questa fiducia nel 1600), mal-
grado le tragiche controevidenze, può aiutarci a chiarirlo questo passo: sebbe-
ne, per la scoperta del Nuovo Mondo, “Serafino Firmano ponga una vendem-
mia d’uomini nell’anno 1600 (questo numero, composto di un settenario e di
un novenario di secoli, numeri che congiunti hanno una grande virtù, come
abbiamo insegnato nei Carmi Pitagorici, potrebbe favorire quest’opinione),
tuttavia non abbiamo ancora veduto [nel 1623] alcuno dei fatti che aspettia-
mo, e l’Anticristo non si rivela ancora… Ma l’argomento di questo teologo era
fondato sui numeri, non sulla realtà e sulla numerazione di eventi distinti”
(Theol. XXV, pp. 163, 169).574

130.25: magnis coniunctionibus


Una particolare congiunzione è la grande congiunzione (“congiunzione ma-
gna” [T.154.25]), dotata delle seguenti caratteristiche: a) è la congiunzione dei
soli pianeti maggiori lenti (Giove e Saturno), l’effetto dei quali viene valutato
in funzione del trigono (v. n. 44.9) in cui si verificano, “durando in ogni

feti disarmati” (Ernst 2002, p. 82-3 sul giudizio reticente, ma senz’altro positivo, per il suo
sfortunato confratello, di cui non manca di citare l’Oracolo della renovatione della Chiesa).
574
Cfr Bobbio per altri luoghi testuali, cui si può aggiungere Afor. 20 e 97; Politica III, 13; Mon.
Sp.1, p. 24; Mon. Sp. XII, p. 110.
602 LA CITTÀ DEL SOLE

tri[go]no duecento anni incirca” (Antiven., p. 132); b) il destinatario degli in-


flussi (e quindi dell’indagine oroscopica) non è un singolo individuo (animato
o inanimato – es. la città), ma le nazioni del mondo (si parla perciò di ‘astrolo-
gia mundialis’ o universale): “Qui ad siderum synodos magnos respicit et mo-
res saeculorum, videbit certas conformitates inter illa” (Astrol., p. 67). Gli astro-
logi “nel predire i mutamenti universali sono soliti procedere per tre vie, o dal-
le grandi congiunzioni dei pianeti superiori, o da quelle eclittiche dei lumina-
ri, o dalla disposizione del cielo quando il Sole entra nei primi minuti dell’A-
riete, che hanno stabilito esser principio dell’anno (Pico, VII IV, p. 173). In la-
tino, come si è appena visto, C. le chiama modernamente anche ‘sinodi’, ter-
mine con cui Tolomeo indicava invece le congiunzioni o le opposizioni fra i so-
li Luminari;575 ad es. nella lettera a Galilei del 1611, scrive: “in magna synodo
1603… celebrata est synodus in Sagittario”.
La grande congiunzione è una configurazione astrale codificata dall’astrologia
araba, e passata in Occidente con le traduzioni medievali di Albumasar:576 “in-
trecciata a volte col profetismo gioachimita… si afferma la dottrina sistematiz-
zata da Alkindi ed esposta soprattutto da Albumasar, di una connessione stret-
ta fra taluni fenomeni celesti – reciproche posizioni dei pianeti – e grandi mu-
tamenti nella storia dell’umanità: crisi storiche decisive, quali i mutamenti del-
l’egemonia di popoli e di civiltà, l’avvento o il tramonto di religioni, l’afferma-
zione e il crollo di regni e imperi… Orbene, le congiunzioni planetarie in ge-
nere, e in partic. quelle di Saturno, Giove e Marte, stanno al mondo come l’o-
roscopo all’uomo: sono i segni (e le cause) dei grandi eventi della storia; [e ci-
tando Ibn Khaldun:] ‘La Grande congiunzione è l’incontro dei due pianeti su-
periori nello stesso grado del firmamento, il che avviene dopo 960 anni. La
Grande congiunzione è segno di grandi eventi’” collettivi, non individuali (Ga-
rin 1976, pp. 18 e 23-4; Boll, p. 72: sono “apportatrici di sciagure, guerre, care-
stie e sovversioni religiose”). C. conosce sia i trattatisti arabi antichi (cita Albu-
masar e Alkindi in Astrol.), che quelli occidentali moderni: Gagliardo depone
che tra il 1602 e il 1605 C. gli aveva dato da studiare “le Ephemerides del Maggi-
no [= Magini], Cardano e altri simili” (Amabile, Congiura III, p. 589); in Suppli-
zio menziona “l’efemeridi di Cipriano Leovizio per li gran eclissi” (p. 54), cioè
l’Ephemeridum novum atque insigne opus (Augustae Vind., 1557) del boemo
Leowicz (o Leowitz), autore anche del De coniunctionibus magnis insignioribus su-
periorum planetarum, solis defectionibus et cometis in quarta monarchia (Laugingae,
1564), le cui opere finirono all’Indice a causa di un suo Prognosticon (Firpo

575
“Quel che noi diciamo congiunzione in greco si dice ‘synodos’, espressione che in senso
assoluto si intende sempre a proposito dell’incontro del Sole e della Luna, quando non si ag-
giunga esplicitamente di quale altra congiunzione si tratti”, ma è stato frainteso dai posteri
che l’hanno adoperato per tutti i pianeti (Pico, I, p. 555 - lo stesso dice Pontano [cit. da Ga-
rin 1946, p. 636]).
576
Le sue opere principali, il De magnis coniunctionibus et annorum revolutionibus ac eorum pro-
fectionibus e l’Introductorium maius in astronomiam furono pubblicate molto precocemente nel
1489 ad Augusta e pochi lustri dopo a Venezia.
COMMENTO AL TESTO 603

1985, p. 55); in Astrol., invece, si basa fondamentalmente su Cardano, che asse-


gna somma importanza alla presenza di Mercurio nelle grandi congiunzioni:
associato a Marte ha segnato il trionfo della legge maomettana, violenta e cru-
dele, con Saturno di quella ebraica, turpe e avida, mentre con Giove, che pre-
siederebbe al sacerdozio, favorirà la riscossa cristiana.577

132.1-2: anomaliarum… possideant.


Il manifestarsi delle anomalie (v. n. 114.1-5) non è costante: in alcuni periodi
(come nell’intorno della nascita di Cristo: v. n. 118.8) accelerano, in altri ral-
lentano o scompaiono del tutto. Oltre ad esser indizio che la macchina del co-
smo è teleguidata non dalla fisica ma dall’inscrutabile Volontà del Suo Autore,
questa loro irregolarità sta a significare che esse sono anche messaggi celesti
preludenti eventi straordinari: “secondo Platone, benché Aristotele… le neghi,
significano mutazione grande… o di diluvio, o di incendio universale, o di mu-
tazione di monarchie le più grandi del mondo, ma secondo l’Evangelio, a cui
Seneca accorda, sono segni della fine del mondo” (Mon. Sp., p. 20):578 l’avven-
to di una nuova monarchia è infatti presagita a 136.23-4, in seguito all’anoma-
la apparizione di una ‘nova stella’ (v. n. 136.23).
T.132.2 non le menziona; R. e T. aggiungono: “e l’anomalie han gran forza fa-
tale”; Civitas inserisce ancora “regressus”=‘ritorni’, che può significare due co-
se opposte: ‘andare indietro’, e quest’accezione (‘regresso’ ovvero rallenta-
mento) sembrerebbe suffragata da un passo di Mon. Fr.: “l’anomalia… era ve-
loce in suo tempo [= età carolingia], e or è tarda, con doppio vantaggio nella
sua rinovazione in casa Borbona, dopo la sua depressione in casa Valesia nel
trigono quarto, in cui la Spagnola ebbe principio” (p. 478; v. n. 160.1-2 § 2.2.2);
oppure può significare ‘tornare di nuovo’, e dunque ‘ricorrenza’, ‘ripresa’ ov-
vero accelerazione, come intratestualmente conferma 158.1: “in restauratione
anomaliorum”. Anche per quanto su detto (v. n. 114 [glossa]), propendiamo
per la seconda interpretazione, senza escludere tuttavia che sia potuto interve-
nire un ripensamento dell’Au., donde l’anodinità della traduzione.

132.3-6: Demum… perturbatio.


Il problema del peccato originale, come si è detto (v. n. 128 [glossa]), è affron-
tato in Theol. XVI estesamente e tormentosamente, come ben sintetizzato da
Ernst 2002: “Da un lato la dottrina cristiana della caduta di Adamo offre una
spiegazione e dà conto dello ‘scompiglio’ della storia dell’umanità, vale a dire
dell’infrangersi dell’armonia fra uomo e natura, fra uomo e ragione, derivan-
dolo dalla superbia di Adamo, che perverte il corretto rapporto fra ragione e
sensualità. Ma la questione di fondo più tormentosa e irrisolta resta quella del

577
Ernst 1991, pp. 32-3, 206, 242 e 259; cfr G. Cardano, Come si interpretano gli oroscopi, trad. a
c. di O. Pompeo Faracovi e T. Delia, Ist. Edit. e Poligr. Internaz., Pisa-Roma, 2005.
578
Allude a Tim. 41c-d e Polit. 269c; per [pseudo-]Seneca: Octavia, 378; per la profezia evan-
gelica v. n. 114.5-6, n. 114 (glossa) § 2.3, n. 156.6-158.5 e n. 160.1-2 § 1.
604 LA CITTÀ DEL SOLE

perché e con quali finalità Dio, infinitamente buono, abbia permesso un gua-
sto così grande, da cui sarebbe conseguita la dannazione della stragrande mag-
gioranza dei propri figli. C., come di consueto, respinge la dottrina che acco-
muna Maometto e i fautori della Riforma, secondo la quale Dio è causa dei ma-
li e dei beni, al fine di poterci punire e manifestare la propria giustizia. A suo
parere a nessun titolo Dio può volere né causare il peccato, che ha origine, in-
vece, dal fatto che l’uomo è limitato, defettibile e libero. Ma anche le argo-
mentazioni più sottili di dottori illustri quali Agostino, Crisostomo, Ambrogio,
che vengono analizzate e discusse minutamente, non riescono a risolvere il no-
do di fondo: ‘tuttavia non è ancora chiarito da questi santi dottori perché, se il
mondo sarebbe stato migliore senza reprobi e dannati e pene infernali e cala-
mità della presente vita, Dio permise il peccato dal quale il mondo è stato così
deteriorato’. La questione è tanto più grave in quanto la rovina eterna di tanti
uomini è irrimediabile anche in seguito all’incarnazione stessa di Cristo: colo-
ro che saranno condannati al supplizio eterno, sono infatti assai più numerosi
di quelli che godranno della beatitudine. Qui la tentazione di aderire all’auda-
ce soluzione di una salvezza progressiva e universale, proposta da Origene, ‘il
quale insegna che i dannati ritornando in questo mondo più e più volte, lungo
un altro giro di secoli, si procacceranno i meriti per salire alla gloria e che da
ultimo, dopo tanti mali, tutti, uomini e diavoli saranno salvati’ (Theol. XVI, p.
69)” (p. 162).

132.6-13: Opinantur… instruxeruntque.


“Dio manda permissive l’infermità: dunque non dovremo curarla con medici-
ne e diligenze? Absit [= non sia mai], ché quel che sarà male solo di pena, noi
lo facciamo male anche di colpa, e peccato sopra peccato” (Arbitrii, p. 195):
dunque il male/pena è quello involontario; il male/colpa volontario.579 Esiste
un male che si fa peccando (= colpa), e un male che si subisce penando: “il ma-
le della colpa Dio non lo ama in nessun modo né direttamente né indiretta-
mente… i mali penali invece [Dio] li fa e li vuole indirettamente” (Theol. I [II,
p. 89]). Un altro esempio C. lo ricavava dall’episodio di Babele, in cui il gesto
d’orgoglio dei padri significò, “volente Iddio che al peccato segua la peniten-
za” (Epilogo, p. 417), la ‘confusione delle lingue’: così la colpa dei padri arro-
ganti è stata punita con una pena che ancor oggi, noi figli incolpevoli, conti-
nuiamo a scontare (cfr testo ed Esp. di ‘Fede naturale…’ 3, 40).
L’argomento della trasmissibilità di colpa e pena è diffusissimo; fra i teologi
maggiori: Agostino, CD 13, 3; De bapt. parvul. con. Maximinum III (dove porta
l’esempio del chicco di grano ben pulito dalla paglia da cui nasce di nuovo gra-
no con paglia), e Tommaso: “ex malo culpae fit aliquis malus, non autem ex

579
Invece tradizionalmente – es. SN II XCVI ‘De malo duplici, scilicet culpae et poenae’; SM
III XIV, III – ‘l’anima eredita la colpa, la carne la pena’.
COMMENTO AL TESTO 605

malo poenae… secondo il detto di Dionigi: ‘Il male non è esser puniti, ma il di-
ventare degni di punizione’”.580
Per quanto riguarda invece la necessità di un’accorta politica matrimoniale e
educativa,581 il referente ideale è il platonico Polit. 310-1: “solo in coloro che fin
da principio nati di nobile indole sono stati allevati secondo la loro natura, so-
lo in essi quel legame si può ingenerare mediante l’aiuto delle leggi”, e quindi
bisogna combattere “la caccia alla ricchezza e alla potenza” nei legami coniu-
gali, e perseguire invece ‘legami corretti’ fatti “in funzione della procreazione
dei figli”, ‘tessendo’ insieme i temperamenti ‘valorosi’ con quelli ‘decorosi’,
per realizzare in questo modo ‘concordia e amicizia’ nello stato, come presup-
posto fondamentale per la felicità dei cittadini (v. n. 48.11-3).

132.13-21: Idcirco ipsi… regi.


Quasi alla lettera in More, 230; ma Civitas sottende qualcosa in più: il ‘caso’ è il
risvolto negativo del Fato, che è l’influsso di una delle tre primalità, la Sapien-
za (v. n. 28.41-3); quindi la mancata conoscenza dei progetti divini, cui si acce-
de per rivelazione o attraverso una teologia della natura, causa abbagli colossa-
li (v. n. 124.13-8).
T.132.20-2: “però non si vedeno bene e par ch’il mondo si regga a caso”; con-
vincente l’ipotesi di Firpo (rispetto a Bobbio: “non scorgono alcun bene”, ed
Amerio, che sospetta “un guasto nel testo”): “Oggetto di ‘si vedeno’ è ‘la pena
e la colpa’: C. vuol dire che questa inesorabile concatenazione delle colpe dei
padri e delle pene dei figli non è palese, e sembra perciò che la cieca sorte go-
verni il mondo”; Civitas inserisce tra la causa (pessima generazione/educazio-
ne) e l’effetto (il mondo sembra un caos) un’attualizzazione del problema: si
constata quotidianamente una sovversione tale dei valori da chiamar bene il
male, ma – prosegue – non bisogna disperare della Provvidenza.
Il soggetto sottinteso di “vocare pacem” sono i “filosofi machiavellisti”, per i
quali “hoc saeculum aureum reputatur”; infatti secondo loro, all’uomo, che è
un composto dei quattro elementi contrastanti, sono congenite per natura le
guerre, le malattie, la morte; perciò il male è inestirpabile, perché è ‘naturale’
(Art. proph., p. 118). Prescindendo dalla ‘vis polemica’, questa stessa argomen-
tazione era stata adottata da C. stesso nella Metaph., dove però sosteneva che i
“moltissimi mali” che affliggono “tutti i popoli… derivino dalla guerra fra il cie-
lo e la terra, la quale non può cessare se l’uno non avrà vinto l’altro” (XI III, II

580
ST I, 48, 6: ‘Utrum habeat plus de ratione mali poena quam culpa’; mentre in I-II, 81, 1-3
e 82, e 4SCG, 50-2 confuta le possibili obiezioni contro la trasmissibilità del peccato originale
(su questo tema cfr C. Tugnoli, La magnifica ossessione, B. Mondadori, Milano, 2005).
581
Ampiamente trattata a 40.13-46.14, e che si basa su tre presupposti e pratiche: a) scelta di
partner idonei psicofisicamente; b) scelta di luogo e tempo opportuno; c) educazione ‘pub-
blica’, come ben sintetizzato in Politica IV, 12 e 13: “La corruzione domina ancor maggior-
mente, a causa di una generazione fortuita, senza rispetto del tempo, del luogo e delle atti-
tudini al congiungimento, e a causa di una cattiva educazione, affidata a genitori ignoranti e
senza un pubblico precettore, o reggitore” (v. n. 18.39).
606 LA CITTÀ DEL SOLE

[III, p. 19]; v. n. 130.9-17): contraddizione, o invece due livelli di discorso, il fi-


sico e il teologico, nel senso chiarito poco oltre di ‘teologia della storia’?
Nel finale della risposta del Genovese è sottesa l’intera teologia della natura e
della storia, come è più compiutamente espressa in Atheismus: premesso che pre-
domina la finzione, quindi il nonessere (130.3: “annihilatio”), donde il vivere in
un mondo capovolto (il male diventa beatitudine), si formulano alcune ipotesi
su come si è giunti a questo stato di cose (130.6-132.21); e poi si passa alla ‘pars
construens’: ogni più piccolo organismo, o addirittura ogni membro di un orga-
nismo, la cui apparente piccolezza non lo rende meno indispensabile, mostra
che la natura è manifestazione del divino, e dunque da essa si può, col solo senso
e discorso (senza Rivelazione), ricavarne l’intrinseca ‘religiosità’. Essendo natu-
rali ragione e religione, non può che esserci una sola religione, la più natura-
le/razionale (ovvero il cristianesimo [134.7]), che oltre ad esser etimologica-
mente vincolo sociale (= ‘re-ligare’) ed eticamente una critica dell’irrazionalità
presente, si pone qui essenzialmente come fulcro per espandere il progetto poli-
tico dall’Urbe ideale all’“Orbe” totale (134.13 e, meglio: 136.13).582

132.21-7: At vero… confiteri.


V. n. 28.41-3 e 124.13 per la provvidenza divina; cfr anche il celebre passo di
Lettere, p. 134 (rimasto invariato quasi trent’anni dopo in Lettere, p. 318): “io im-
paro più dall’anatomia d’una formica o d’una erba (lascio quella del mondo
mirabilissima) che non da tutti i libri che sono stati scritti dal principio dei se-
coli sino a mo, dopo ch’imparai a filosofare e a legger il libro di Dio”; la Prov-
videnza della “Prima Ragione… si fece nota non solo nella fabrica mirabile del-
l’universo” ma anche “nella mirabile costruzione degli animali e delle parti e
particelle loro, e nei mirabili usi ed offici, rilucenti d’industria tale, quale nel-
l’ordine delli tempi e delli movimenti celesti prima si addita” (Antiven., p. 8;
quasi identica in Politici, p. 109); e Lettere, p. 239 contro il casualismo epicurei-
stico di Pierre Gassendi: “Praeterea mundi constructio et animalium et planta-
rum et partium usus et vis et notio satis superque declarant virtutem hanc pri-
mam quam vocamus Deum” (cfr ‘Sonetto [82] della Provvidenza’ e le successi-
ve ‘Salmodie’).
In un quadro ortodossamente dottrinale583 si staglia nettamente la matrice ago-
stiniana: fra i tanti passi adducibili (Super Gen. I; De Gen. c. Man. 1, 16, 26), CD

582
Per la polemica, in CS solo implicita, con il corto e illusorio respiro della politica machia-
vellica, cfr Ateismo I, 5: la causa principale dei mali presenti sono proprio i germi d’incredu-
lità sparsi dai “macchiavellisti”, secondo i quali la religione sarebbe “arte di vivere trovata da
gente astuta, e che in vero non ci sia Dio, o che non mira alle cose umane, o che parte del
mondo si regge a caso, parte a ragione, e che ognuno deve esaltar se stesso quanto può a drit-
to o a torto, come avvien tra bruti, che li lupi mangian le pecore”; e purtroppo “questa sen-
tenza… camina assai tra prencipi e cortegiani e governatori e giudici iniqui. E sta fondata su
l’amor proprio, onde è difficilissimo a levarla” (cfr Ernst 1991, pp. 60-1 e 95-104).
583
Ad es. Rom. 1, 20: “le sue invisibili perfezioni, come la sua eterna potenza e la sua divinità,
appariscono chiare dal mondo creato, quando si considerino nelle sue opere”.
COMMENTO AL TESTO 607

5, 11: la “Provvidenza” divina “non soltanto il cielo e la terra, non soltanto l’an-
gelo e l’uomo non lasciò senza una rispondenza fra le loro parti… ma anche
gli organi più interni del più piccolo e più vile animale, il fiorellino di un’erba
o la foglia di un albero”. In forma di corrispondenza micro-/macrocosmica in
Paracelso, Paragrano II, p. 99: “come il cielo è in sé, così è l’uomo nella sua ana-
tomia. Da ciò procede l’anatomia umana”.
La dissezione dei corpi, ritenuta profanatoria alla luce di considerazioni etico-
religiose,584 fu proibita e surrogata da quella degli animali, fino alla ripresa de-
gli esperimenti avviati in pieno Rinascimento, per opera di scienziati come
Leonardo, Iacopo Berengario, Gabriele Falloppio, Bartolomeo Eustachi, An-
dreas Vesalio e il suo celebre De humani corporis fabrica libri septem (Basilea,
1543).585 C., non solo era al corrente (secondo Ernst 1995, p. 89) del “sodalizio
di Della Porta con il boia napoletano” per poter studiare la ‘chirofisionomia’
degli impiccati, ma aveva sezionato occhi di bue per questioni di rifrazione ot-
tica (Quaest. phys. XLVIII II, p. 459) e forse aveva anche assistito alla dissezione
di cadaveri nel ‘Teatro’ padovano;586 pertanto non si comprende perché, se-
condo Crahay, la dissezione dei cadaveri da parte dei Solari “garde une conno-
tation négative” (p. 211).

132.32: probe philosophatur


Filosofo è colui che legge entrambi i Libri – della scienza e della Sapienza –, e
non sillogizza astrattamente (come Aristotele che infatti “logicum appellant, non
philosophum” [116.19]); ‘filosofare correttamente’ significa cercare di concilia-
re i due dati, della Ragione e della Rivelazione, sull’esempio degli intellettuali-sa-
cerdoti Solari: essi, appunto attraverso questo duplice Linguaggio, “per astrolo-
giam” e “ex nostris quoque prophetis” (123.2), antevedono quella ‘renovatio’ fu-
tura che i nostri stolti e ciechi, ma cristianissimi, contemporanei si ostinano a ne-
gare e irridere, seppellendo e dimenticando nella fossa più profonda di un car-
cere l’unica Campanella d’allarme (quella fossa che l’aveva fatto desistere dal
suo presunto ruolo di messia, ma non di profeta: è naturalmente il suo alter ego
quel “philosophus magnus” solare torturato ma irriducibile a 158.12).

132.33-5: Quod tibi… illis.


Questo apparente distico, di cui già nella redazione italiana (T.132.38-41) Fir-
po aveva intravisto “due faticosi endecasillabi di ignoto autore: forse è il C. stes-

584
“Con solerzia crudele alcuni medici, anatomisti li chiamano, hanno sezionato corpi di
morti o anche di gente che periva sotto le mani di chi li stava sezionando ed esaminando”
(Agostino, CD 22, 24).
585
Frequentemente citato da C. – ad es. Syntagma IV VII; cfr Lerner 2001, p. LXXVI; D. Lau-
renza, La ricerca dell’armonia. Rappresentazioni anatomiche nel Rinascimento, Firenze, Olschki,
2003.
586
Nel Syntagma I II ricorda “un Apologetico sull’origine delle vene, dei nervi e delle arterie e sulla pul-
sazione” (perduto), scritto a Padova nel 1593 in difesa di un opuscolo telesiano criticato dal
medico veronese Andrea Chiocco.
608 LA CITTÀ DEL SOLE

so” e che Crahay (p. 213) attribuisce ad un poema didascalico cristiano del V
sec. (Commonitorium I, 197-8 di Orienzio in: PL LXI, 982: ‘Nec facias aliis quid-
quid fieri tibi non vis, Idque aliis facias quod tibi vis fieri’”), è invece apposita-
mente diviso in due parti, perché, secondo C., la prima regola, esposta nel-
l’Antico Testamento (Tb. 4, 15: “Quod ab alio oderis fieri tibi, vide ne tu ali-
quando alteri facias”), appartiene alla legge di natura; mentre la seconda,
enunciata da Cristo (Mt. 7, 12; Lc. 6, 31), appartiene alla Legge divina: “At na-
tura docet: quod tibi non vis, alteri ne feceris. Et Christus addit: ‘quaecumque
vultis ut faciant vobis homines, et vos facite illis’” (Quod rem. 4, 141). Questo
precetto gli è molto caro, come confida a Galileo (Lettere, p. 178), perché per la
felicità universale basterebbe quest’unica legge ‘Ama Dio e il prossimo tuo co-
me te stesso’, in quanto in essa si compendia e si contempla tutto.587
La ‘naturalità’ di questo precetto era già stata riconosciuta da Crisostomo, In
Epist. ad Cor. VIII, Hom. XVIII (IV, 805BC: “‘Nam quaecunque volueritis…’ Vi-
disti quomodo ostendit naturae legem esse et non egere nos externis legibus et
doctoribus: quae enim volumus pati vel non pati a proximis, ea ipsa impere-
mus nobis et sic legem nobis ponamus”); e sancito nel Decretum di Graziano:
“In prima parte dist. 1: Ius naturae est quod in lege et in Evangelio continetur:
quo quisque iubetur alii facere quod sibi velit fieri” (in SD VII XLI); e ripreso,
tra gli altri (ad es. Tommaso, ST I-II, 94, 4), da Telesio: alla base della virtù del-
la Giustizia, “non solo Dio ottimo massimo… ma anche la natura stessa… am-
moniscono che ognuno deve fare agli altri quello che vuole che dagli altri gli
venga fatto” (IX, 12 [III, 387]). Invece secondo SN XXX XXXII, va tenuta di-
stinta la “negativa” di pertinenza “de naturali iure”, dall’“affirmativa”, evangeli-
ca.588 A confermare poi l’universalità di quest’aureo precetto contribuiva il suo
asserito rinvenimento in tempi e spazi lontani; per limitarci all’Oriente: è la
nona proposizione di saggezza del Sindbad (p. 106); Mandeville racconta che i
Bramini isolani “non hanno alcun peccato, e fanno ad altrui quelo che e’ vo-
gliono sia fatto a loro, e egliono adempiono tutti e dieci comandamenti” (II, p.
179); Varthema, a proposito dei Guzerati della città indiana di Combeia, scrive:
“se avessero el battismo tutti sariano salvi alle opere che fanno, perché ad altri
non fanno quello che non vorriano fussi fatto alloro” (p. 108).
La massima, in varie formulazioni aforistiche, ebbe notevole fortuna nel corso
del Cinquecento: la si ritrova addirittura nello stemma nella pagina del titolo
di Giamblico, Misteri [Ficino] dell’editore Tournes di Lione, dove all’interno di
una specie di ‘8’ formato da due serpenti che cercano di mangiarsi reciproca-
mente, si legge il motto: “Quod tibi fieri non vis alteri ne feceris”, un motto che

587
“In qua explicatur lex, et ratio legis totius simul, et omnis” (Atheismus, p. 116); Quaest. oec.
III I, p. 187-8; il Dialogo politico contro Luterani contiene oltre alla traduzione prosastica (p. 82),
anche per due volte (p. 65 e 69) la forma poetica endecasillabica: “Quel che per te non vòi,
non far ad altri” (cfr Giancotti, p. 670, dove cita alcune remote ricorrenze di questo precetto:
Isocrate, Girolamo, Agostino, Elio Lampridio).
588
Sulle implicazioni e riflessioni dei vari Agostino (ad es. CD, 14, 8), Tommaso e Alberto Ma-
gno su questa ‘regola aurea’, cfr s.v. Petit Dictionnaire d’Ethique, Paris, Editions du Cerf, 1994.
COMMENTO AL TESTO 609

è, quasi alla lettera, la morale della ‘favola’ di Doni, p. 74 (Doni, Mondi, p. 69n
lo considera addirittura il principio fondamentale del mondo utopico), ed in-
sieme il rovescio dell’unica ‘regola’ vigente in un’altra città-convento, Thélè-
me: “Fa’ quello che vuoi” (I, 57).

132.35-134.3: Unde… Deo


Dio è la causa prima, ma non è la natura. La pervasività di Dio, in quanto esse-
re, esclude solo e necessariamente il nonessere, che è invece il limite ontologi-
co delle cose: questa è la ragione teologica che fa scartare l’equazione ‘Deus si-
ve natura’ o la presenza di un’‘anima mundi’ (Theol. I [I, p. 93-5]; v. n. 124.9-
10); tuttavia la teleologicità della natura, ignota alla causa strumentale, implica
che debba essere “insita nella natura una virtù intellettuale, sia essa l’anima del
mondo [= anima mundi], come vogliono Platone, Galeno, Basilio e altri; siano
essi gli angeli i quali sono ideatori delle cose naturali e usano della materia ele-
mentare e del calore e del freddo come strumenti attivi, secondo S. Agostino,
S. Girolamo e Origene” (Theol. I [II, p. 39]). “L’amor che Dio porta alle sue
creature [è] più che noi alli nostri figli” (Antiven., p. 9); “Deo nihil damus, cum
omnia sint illius, et nos ipsi, ut dicit David in 2 Paralip.” (Mon. Messiae XIV, p. 73
– in effetti è 1Cron. 29, 14: “Tutto proviene da Te, e noi non facciamo altro che
restituire a Te quello che la Tua mano ci ha dato”).

134.3-4: a quo… in saecula.


“Solo Dio è beato, perché dà a tutte le cose e non ha bisogno di nessuna. Per
gli altri enti, per i quali l’essere non si identifica con l’essere beato, la beatitu-
dine può essere trovata solo in Dio, da cui hanno l’essere. Solo Dio è ciò da cui,
in cui e a cui le cose sono rese beate…” (Accietto-Gualtieri, p. 30). La triplica-
zione formulare, con variante preposizionale (già presente a 128.6, riferita alla
Trinità), è una replica di At. 17, 28, e Rom. 11, 36 (ma cfr anche Coloss. 1, 16),
versetti che C. associa dichiaratamente in Metaph. VI IX, VI (II, p. 141): “ebbene
‘noi viviamo, ci muoviamo e siamo in Dio’, dice Arato, canonizzato in questo
detto dall’Apostolo, il quale aggiunge: ‘da esso, mediante esso e in esso’”. Tale
formula è frequentissima nelle sue opere: Poesie 3, 10 (“Da lui, per lui e ‘n
lui…”) e 31, Madr. 1, 12; Theol. I VI, p. 222; Theol. III, p. 19; Theol. XXV, p. 67;
Metaph. II IX, II (I, p. 317), opera, quest’ultima, la cui epigrafe posta in cima al
frontespizio dell’ed. parigina suona proprio: a Claudio Bullion, “ex quo om-
nia, per quem omnia, in quo omnia”. È anche utilizzata spesso da Agostino
(es.: “Deus supra quem nihil, extra quem nihil, sine quo nihil est. Deus sub quo
totum est, in quo totum est, cum quo totum est” [PL XXXII, 871]); e il De vera
religione ne fornisce una versione espansa: “Deus Pater, a quo sunt omnia, a quo
Filius et Spiritus Sanctus… Deum patrem, a quo sumus, et Filium, per quem, et
Spiritum Sanctum, in quo sumus” (in: SN XXIX XXV). C. cita, per altri versi, al-
trove (Theol. XIV, p. 35) l’omelia di Crisostomo al versetto degli At., omelia che
contiene un’utile precisazione: “Et non dixit ‘per illum’, sed quod propius fue-
rit, ‘in illo’” (De Trinit. Serm. III, 917A).
La lode a Dio (replicata a 136.3 anche dall’Ospitaliero) invece è anche topica
formula di congedo: Ambrogio così chiude il sermone del 3° giorno: “cui est
610 LA CITTÀ DEL SOLE

honor laus gloria perpetuitas a saeculis et nunc et semper et in omnia saecula


saeculorum amen”.

134.5-14: Profecto… sperant.


“Il Vangelo non aggiunge alla legge naturale che il cerimoniale dei sacramen-
ti, mediante i quali ci si applica la grazia, affinché possiamo adempiere la leg-
ge, ma Dio può e vuole dare la grazia anche senza sacramenti. Infatti, come di-
ce S. Bernardo, non si esige l’obbedienza alla legge da chi non abbia udito pri-
ma la legge, e non soltanto l’abbia udita, ma ne abbia anche ricevuto le prove
attraverso miracoli e dimostrazioni vere della sua origine divina” (Theol. I [II, p.
271]).589 Pertanto “sbaglia chi afferma che la legge naturale è diversa da quella
evangelica: il Vangelo infatti contiene la pura legge di natura additis solum Sa-
cramentis, ut possimus illam servare” (Mon. Messiae XIV, p. 67). Esiste una sola
fede vera, “che contiene la legge di natura innocente, e secondo quella dob-
biamo vivere, e infine, viste tutte [le altre fedi] ho appreso che è la legge di Cri-
sto, superaddita vero lege naturae tantummodo sacramenta quae et ipsa sunt
symbola naturae… [sacramenti] che ci forniscono anche la grazia per poter os-
servare quei [precetti] che la legge naturale mostra”; perciò, “relicta barbarie
assumptaque rationalitate… universus mundus erit christianus” (Lettere, p. 63),
in quanto, fra le religioni positive, il cristianesimo è la religione più ‘razionale’,
cioè la più ‘naturale’, come dice qui.590
Che la religione cristiana non sia altro che la religione naturale più i sacramenti
era assunto largamente condiviso all’epoca, secondo De Mattei 1982 (p. 100);
Amerio 1939 sostiene che due delle tesi teologiche campan. più importanti ed
ortodosse sono: il cristianesimo è la religione più razionale (= naturale), cui sono
aggiunti solo i sacramenti; restaurata questa sua originaria razionalità, ridiventa-
to apostolico, il cristianesimo da romano diventerà cattolico (= ecumenico) es-
sendo la razionalità il denominatore comune naturale umano (pp. 378-81 e 385;
cfr anche Ernst 1991); Frajese 1998, dopo aver riportato le testimonianze dei
congiurati sull’ateismo/deismo di C. (p. 316-26), espone le teorie sulla religione
(naturale) e i sacramenti contenute in Atheismus: l’intrinsecità di Dio nel mondo;
l’identificazione di Cristo con la ragione universale; “il cristianesimo come reli-
gione dispiegata e le altre leggi religiose come cristianesimo implicito… Tutti i
popoli concordano nella religione naturale, ma differiscono in quella sopranna-
turale: nelle leggi positive, nei riti e negli oggetti di culto” (p. 338-9), per cui:

589
Queste mancate prove potrebbero in parte spiegare la non ancora avvenuta conversione
dei Solari, che pur conoscono ed effigiano Cristo (18.5).
590
E altrove, testimoniando un personale travaglio: “Arrivai al vero della nostra legge, che in
lei sta solo la purità della legge naturale, e solo vi son aggionti li sacramenti per aiutare ad as-
sicurar la legge della natura” (Lettere, pp. 15 e 30); dalle deposizioni nei processi del ‘99 ri-
sulta una critica campan. “razionalisticamente assai spregiudicata degli aspetti soprannatura-
li e sacramentali del cristianesimo… i sacramenti ‘non sono stati ordinati da Cristo’, ma sono
stati introdotti per ragion di stato, e cioè per indurre paura e obbedienza nei popoli” (Ernst
2002, p. 71).
COMMENTO AL TESTO 611

a) “tutti i buoni filosofi sono quasi cristiani” (v. 2.29, 134.19), donde si ricava che
“Cristo, come prima ragione, fosse operante anche prima dell’incarnazione”; b) il
cristianesimo è la pietra di paragone della razionalità delle altre religioni, c) ed è
“il fine e la tendenza implicita in ogni legge religiosa cui ognuna giungerà nel
millennio felice dove tutti gli uomini saranno resi vivi dalla legge cristiana… in-
terpretata da C. come una costituzione comunitarista, priva di proprietà privata
e di potere politico, secondo la regola dei tempi apostolici e degli ordini mendi-
canti nei quali vige la comunità dei beni” (p. 340-1); e infine “C. pensa i sacra-
menti come il suggello di operazioni naturali… conformi alla ragione naturale e
ai costumi di tutte le nazioni”, pertanto i popoli che “osservano i precetti della
legge naturale si salvano nella propria religione, perché la legge naturale è il Cri-
sto stesso, somma ragione, e, attraverso di esso, in ogni legge religiosa opera la
sua grazia” (p. 341-2). Alla base di queste teorie ci sono i colloqui avuti nel carce-
re del Sant’Uffizio con Francesco Pucci: “Pucci esercitò su C. un influsso profon-
do e di lunga durata, sia per quanto riguarda punti dottrinali e specifici, come il
ruolo dei Sacramenti istituiti per ampliare e non per restringere la via della sal-
vezza; l’estensione della salvezza anche ai bambini morti senza battesimo; l’opera
universalmente redentrice del Cristo; sia per le aspettative di un imminente radi-
cale rinnovamento”; ma dopo la conversione affiora con chiarezza la superiorità
del cristianesimo, riconosciuta dai Solari, rispetto alle altre religioni, com’è testi-
moniato in Atheismus IX: “Il cristianesimo non è una sètta fra le sètte, ma, in
quanto esplicazione del Verbo, coincide con la religione naturale integrata e per-
fezionata da credenze soprannaturali, dogmi e aspetti cerimoniali che a loro vol-
ta non risultano alieni dalla razionalità e dalla naturalità. Le altre religioni, inve-
ce, monoteistiche o pagane, manifestano una evidente inferiorità dal punto di vi-
sta sia dei principi etici, che dagli aspetti sacramentali e dei misteri soprannatu-
rali. La religione cristiana sia per la semplicità e l’universalità del suo messaggio
morale; sia in quanto il suo apparato cerimoniale non è contro la natura, ma la
completa e la perfeziona, risulta la più conforme a natura, e di conseguenza la
più universalizzabile” (Ernst 2002, pp. 32 e 124-5; v. n. 2.19, n. 66.29, n. 84.23-5,
n. 104 [glossa] e n. 148.12-3).

134.14-6: Aiuntque… invenisse


C. infatti ascrive la grandezza della Spagna alla “invenzion del Novo Mondo per
Cristoforo Colombo” (Mon. Sp.1, p. 22). A favore della missione ecumenica della
Spagna, C. aveva scritto Mon. Sp.; e a favore della non strumentalità di questi
scritti, come sosteneva prima Diez591 e poi Ernst (1989; 1991, p. 41-50; 1997), ci
sono le testimonianze non sospette di missionari, che restituiscono il clima di at-
tesa dell’epoca per la riunificazione delle genti in un unico ovile, che C. inter-
pretava come ultima tappa prima della fine del mondo (v. n. 136.13 e n. 160.1-2
§ 2.1), riunificazione agevolata, secondo i missionari, da una facile conversione
di questi nuovi ‘gentili’, già ‘naturalmente’ cristiani: “tutto Giapan avrà piacere

591
Vi è “una somiglianza formale evidentissima tra la concezione politica del C. e l’effettiva
struttura universalistica, federativa e missionaria della Monarchia spagnola” (p. 320).
612 LA CITTÀ DEL SOLE

di farsi cristiano, perché tengono nelli suoi libri scritto che tutta la legge deve es-
ser una, e che aspettano un’altra più perfetta della sua” (Ramusio, II, p. 1016).

134.16-7: (quamvis… genuensis)


La parentetica contiene almeno tre sottintesi:
a. italianità (“noster” [v. n. 135.2 (f.p.)]): “Cristoforo Colombo, audace inge-
gno” esordisce il 2° Madr. della Canzone ‘Agl’Italiani…’ a lui dedicato (36,
2, 1); Quod rem. 4, 30: “Christophorus Columbus italus alterum hemisphae-
rium terrae invenit”; già Botero faceva notare la duplice matrice italiana del-
la Scoperta, “con l’uso della calamita, ritrovato nella costa d’Amalfi… gli
Spagnuoli, condotti da un Italiano, hanno scoverto un Mondo nuovo” (I I);
italianità messa in dubbio o deprezzata, come provavano “le fole che l’invi-
dia per siffatta scoperta aveva suscitato in Spagna” (Benzoni, p. 12); donde il
monito a Galilei: “Come Colombo al nuovo mondo che aveva scoperto non
impose il proprio comando né il proprio nome, ma cedette agli Spagnoli il
dominio e ai Fiorentini la denominazione, così tu vedi di non assegnare a
Tycho o ad altri l’onore della nuova astronomia” (Lettere, p. 166; per lo scio-
vinismo campan. v. n. 114.18);
b. irriconoscenza della Spagna verso i suoi benefattori: “solo avertisco che li Spa-
gnoli non ascoltano volentieri le virtù di stranieri” (Lettere, p. 80); “Colombo,
che donò a loro un mondo, lo onoraro con metterlo in carcere, e il Gran Ca-
pitano loro l’infamaro di latrone… e il C., che scrisse tanto mirabilmente del-
la Monarchia di Spagna e il Panegirico ai principi d’Italia, per stabilimento di quel-
la, tennero in carcere ventisei anni, e poi uscì con miracolosi modi, sempre da
loro perseguitato” (Mon. Fr., p. 454; tradotto alla lettera in Cons. aph., p. 110);
c. la Spagna, mero strumento della Provvidenza, non ha alcun merito né nelle
Scoperte né nelle Conquiste: “Ipse [= Dio] C. Columbum suscitavit, non hi-
spanum, ut novum orbem tibi [= Spagna] inveniret” (Quod rem. 1, p. 76-8);
“Iddio ha concesso loro [= Spagnoli] di regnare con un miracolo, di guisa
che fosse il fato ad agire per tramite loro e non il loro fiacco valore. Posseg-
gono infatti… l’America grazie alla scoperta dell’italiano Colombo; dunque
non hanno acquistato per arte e forza propria neppure un palmo di terra”
(Mem. ined., p. 221); il dominio mondiale della Spagna è voluto da Dio, che
si è servito di un non spagnolo che portava impresso già nel nome il Suo di-
segno: “fece ponte a Cesare e a Cristo questo Cristoforo di passar dall’un
mondo all’altro” (Disc. Princ., p. 122); “Christophorus Columbus iter primus
fecit nutu Dei. Ex nomine Christophorus, interpretatur enim ferens Chri-
stum, et ut Columbus, Columbam Ecclesiam” (Mon. Messiae XVIII, p. 87);
inoltre “s’è scoperto nuovo mondo dal Columbo e novo cielo dal Galileo, se-
gnali posti da Esdra e da Santa Brigida” indicanti l’approssimarsi del Secon-
do Avvento (Disc. Cometa, p. 75).592

592
Ancora: Ethica; Mon. Sp. II, p. 12; Poesie, 36, Madr. 2, 1; Mon. Fr., p. 418; Art. proph. VIII (v.
n. 136.13 sull’‘unum ovile’; v. n. sg e n. 160.1-2 § 2.1 sul ruolo ‘provvidenziale’ della Spagna).
COMMENTO AL TESTO 613

134.21-4: illi,… intendit.


“Dio, che fa trovar tante miniere d’oro e di pietre preziose in questi due gran
viaggi di levante [Portoghesi] e ponente [Spagnoli], pose cupidigia agli uomi-
ni d’andar cercando sempre nuovi paesi”, per asservirla ai suoi scopi provvi-
denziali; ma, come dice S. Paolo: “Che importa? Ad ogni modo, purché Cristo,
sive per veritatem sive per occasionem, venga annunciato, io ne godo” (Fil. 1,
18 [cit. in Mon. Fr., p. 394]); “talché si vede questo regno esser fatale, poiché li
Spagnuoli fanno proprio quello che è profetato… e non lasciano palmo di ter-
ra dove non piantino l’Evangelio, almeno per ragion di Stato. Dunque Dio si
serve di loro, o lo pensino o no, a questo gran fine” (Disc. Princ., pp. 122 e 131);
anche se “la causa di non aver fatto più gran progressi nel Mondo nuovo” è
proprio la loro “avarizia manifesta dell’oro” (Mon. Sp. XIII, p. 116). Anzi lo
stesso Las Casas, “quamvis Hispanus”, denuncia “quantus sit ipsorum atrox ani-
mus ad delendum genus humanum” (Doc. Gall., p. 95). Nel volume di Benzoni
c’è una figura a illustrazione del seguente passo: quando gli Indios catturavano
qualcuno degli Spagnoli, “spetialmente i Capitani, legategli le mani e i piedi,
gettatigli in terra, colavano loro dell’oro [fuso] in bocca, dicendo: ‘Mangia,
mangia oro, Christiano!’” (p. 49); questa ‘auri sacra fames’ tragicamente lette-
rale verrà stigmatizzata anche da Mon. Fr.: “onde a Crasso diedero i Parti oro a
bere, e nel Mondo nuovo un spagnolo patì il medesimo” (p. 392).

136.4-6: O si scires… venturo,


Di autorità profetali è costellato Art. proph. (specialmente XII e XVII; e Disc. Co-
meta, p. 72-80); un estratto di quelle a lui più care è nell’‘Ecloga’ (v. n. 144.27-
146.2 e n. 160.1-2) - a tacer del fatto che le due sante profetesse, Caterina e Bri-
gida, le ha incorniciate nel titolo di redazioni seriori di Città (v. ‘Introduzione’,
punto b), e che fra questi “prophetis” nostrani è da includere anche l’Au. stes-
so. Si noti il duplice ritocco operato da Civitas: eliminazione dell’accenno ai
profeti non cristiani; aggiunta di un “de saeculo venturo” circa l’ambito della
predizione, ovvero l’età aurea.593 Damasceno, Orth. fidei II I ‘De seculo’: “secu-
lum quoque dicitur non tempus, nec temporis pars ulla Solis cursu definita,
hoc est per dies ac noctes conflata, sed ille velut temporalis quidam motus ac
spatium, quod una cum iis rebus, quae aeternitate praeditae sunt, protendi-
tur”; chiosa De Billy, 192FK: con ‘secolo’ “quaevis duratio sive principium ha-
bens et finem, sive sortita principium sine fine, sive carens utroque, exprimi et
significari comperitur; enimvero seculum pro vita praesenti, quae principio et
fine clauditur, frequenter in sacris litteris accipitur”, ad es. Lc. 20, 34-5; e infine
l’ultima accezione, quella pertinente a questo contesto: “seculum sumitur pro
aetate mundi, id est temporali duratione inter duas insignes atque notabiles

593
Non certo il XVI sec. (v. n. 2.f), come crede Crahay (p. 215), interpretando tutto il passo
che segue (136.4-7) come un pronostico Solare, “suivant une pratique commune à beaucoup
de prédictions, celle-ci utilise, en guise de confirmation, des événements déjà réalisés” (= le
tre scoperte); come in 116.12, ‘saeculum’ significa (età millenarie del) mondo.
614 LA CITTÀ DEL SOLE

hominum mutationes intercepta”, per un totale di sette, o, secondo altri, di sei


età (v. n. 148.9-10 e n. 160.1-2 § 1).
Il “quid” di 136.4 traduce probabilmente un ‘cosa’, attestato nei testimoni di ß
(es. nel ms Berlinese); e che forse era presente anche nell’antigrafo di L. (che
in questo luogo è lacunoso); T. ed R. invece riportano “così”. È indecidibile se
si tratti di corruzione o di correzione, perché la frase ha senso compiuto in en-
trambe le lezioni: nel secondo caso (= “così”), significherebbe ‘pure’, ‘analoga-
mente’, riferito a quanto ha appena detto l’Ospitaliero, e cioè che quel che i
cristiani attribuiscono al disegno Provvidenziale, i Solari lo ricavano dall’astro-
logia e dalla profezia.

136.7-9: plus historiae… pluresque libri


Allo storico è indispensabile la brevità, “perché tanto vasta è la storia dei fatti…
specialmente quella che si è andata sviluppando da cento anni in qua, dopo la
scoperta del nuovo emisfero” (Hist. I I, p. 1229). “Sant’Agostino considera iper-
bole la frase di Giovanni [21, 25]: ‘il mondo non conterrebbe tutti i libri che
dovrebbero essere scritti’” (Rhet. XII IV, p. 895).

136.10: quinque milibus;


Non si tratta di un lapsus o un’indecisione rispetto all’immediatamente prece-
dente “quatuor milibus”: ‘cinquemila anni’ alluderà all’attuale età complessiva
del mondo (come fa ad es. Crisostomo: “quinque milia annorum et amplius
praeterierunt…”), sebbene spesso tenda ad arrotondarla al migliaio successi-
vo;594 a proposito, invece, del ‘quattromila’, Pico, II, p. 475 ritiene “chiaramen-
te attestato che coloro che hanno insegnato la scienza celeste non possono ave-
re avuto osservazioni anteriori a quattromila anni” (è nella sostanza la stessa os-
servazione che C. muove al trattato di Vecchietti [v. n. 116.6]).

136.10-1: de inventione… magnetis,


C. aveva riconosciuto in queste invenzioni della modernità, menzionate altre
tre volte (18.22, 142.21 e 152.25), oltre e primariamente a quella di sintomi e
acceleratori della prossima fine, una somma importanza strategica: tra ‘le cau-
se dell’Imperio Spagnolo’ Mon. Sp.1 annovera “l’invenzion delle stampe e de-
gli archibugi” (p. 22); in Mon. Fr. dice che “quando Dio intende far novo Im-
perio, fa comparir nova sorte d’armi… a Spagnoli gli archibugi, che tonan co-
me Giove… L’uso della calamita per navigar al novo Mondo, e della stampa
per propagar la legge e dottrina, né si può cosa più a proposito trovare per al-
tri”; ma nessuna delle tre è “invenzion di Spagna, e pur Spagna se n’onora di
quelli per tutto il mondo”, ed è grazie ad esse “ch’in 100 anni ha occupato più
paesi che non i Romani in 700”, per cui come tutte le cose precoci, il suo im-

594
Ad es.: Poesie 64, 1: “Ben seimila anni in tutto ‘l mondo io vissi”; e così 75, Madr. 3, 16
(Giancotti rinvia a Metaph. III XI, III, II).
COMMENTO AL TESTO 615

pero “è certo che sia subito per cadere e spezzarsi” (pp. 386, 462-4; cfr anche
Senso, p. 318-9; ‘Ecloga’, 169, 77).
Le fonti sono: principalmente (per l’identica forma retorica impiegata), Per-
sio, che, tra le meraviglie dell’ingegno umano e la superiorità dei moderni, an-
novera l’“uso della calamita… non diciam [poi] della bombarda, non della
stampa” (p. 10); e Botero: l’Europa supera gli altri continenti anche per meri-
to “della nobilissima arte della Stampa e dell’inestimabile invenzione dell’Arti-
gliaria” e “l’uso della calamita, ritrovato nella costa d’Amalfi” (I I).
C., generalmente ritenuto un paladino del moderno (es. Rossi 1971, p. 69-70;
Firpo 1970, p. 382-3), pur non disprezzandolo affatto, lo interpretava però pre-
valentemente in chiave escatologica, considerandolo non tanto il segno del
progresso della Ragione, quanto della fine della Storia – concordando con Co-
lombo, forse per la stessa matrice gioachimita, il quale sognava che “la reden-
zione degli ultimi popoli e la liberazione della Città Santa di Gerusalemme che
deve presto succedervi sono segno certissimo della prossima fine dei tempi”
(Moretti [p. 13], che cita dal Libro de las profecias: “avvengono grandi cose nel
mondo, ed è il segno che Nostro Signore affretta la fine dei tempi: me lo dice
la predicazione del Vangelo in tante nuove terre in così poco tempo” [p. 124]).

136.13: unum ovile


Il concetto era già implicito a 134.18: ‘un solo ovile sotto un solo pastore’ è me-
tafora biblica (Gb. 10, 12; Ez. 37, 22; nonché il versetto di Gv. 10, 16, esplicita-
mente cit. come fonte di una delle metafore della Chiesa in Mon. Messiae XII,
p. 45 e Papatus, p. 140, interpretato sullo sfondo di Gen. 10, 2-5), e rinvia alla
profezia già agostiniana, ma recentemente ripresa da Annius, secondo cui il
mondo perirà quando il messaggio evangelico sarà predicato ovunque:595 gli
abitanti del Nuovo Mondo sono “le pecore di cui Cristo diceva che ‘non sono
di questo ovile’, aggiungendo: ‘è necessario che io le riporti, e allora ci sarà un
solo ovile e un solo pastore’“ (Metaph. XI III, II [III, p. 13]); profezia che è un re-
frain delle sue opere (v. n. 84.23-5): a partire dalla perduta Monarchia Christia-
norum [1593], accompagnata da un trattato (Sul governo della Chiesa) diretto al
pontefice, per suggerirgli “con quali mezzi, senza suscitare le proteste dei prin-
cipi di tutto il mondo, e con le sole armi ecclesiastiche potesse realizzare l’uni-
co ovile sotto un solo pastore” (Syntagma I II; Politica X, 21); tale trattato, “per-
duto anch’esso nella stesura originaria, fu ricomposto in forma aforistica nei

595
Johannes Viterbensis, noto anche come Annius o Nannius o Giovanni Nanni, menzionato
nel Syntagma, era un domenicano che, avventuratosi in un’interpretazione dell’Apocalisse e
dei cicli (millenari!) astrologici, profetizzò la sconfitta dei Turchi, per intervento divino, “po-
st cuius occisum intrabit ad fidem plenitudo gentium et omnis Israel salvus fiet: eritque om-
nis mundus unus ovile et unus pastor” (cap. XX), e poi verrà “celum novum et terra nova sub
forma civitatis Sanctae Jerusalem”, cioè un ‘nuovo stato’ di cose rispettivamente della chiesa
e dei laici, i cui “mores ben instituti ad sancte vivendum et reducendum fere ad mores qui
fuissent in statu innocentiae” (cap. XXI-XXII; cfr anche Vasoli, pp. 26-7 e 66-8 e, per la persi-
stenza del tema in Nesi, cfr Toussaint).
616 LA CITTÀ DEL SOLE

più tardi Discorsi universali” (Ernst 2002, p. 27), in cui la metafora biblica è nel
titolo e, di converso, in Quod rem. 3 è nell’explicit; e poi: Lettere, pp. 25-6, 29, 74,
95; Lettere1, pp. 23, 58, 61; Supplizio, p. 137; Atheismus VIII; Disc. Cometa, p. 78;
Politici, p. 147; Theol. IV (II, p. 163) e Theol. XXV, p. 139; e infine, in Art. proph.
VIII, oltre a ricordare i passi delle Revelationes di S. Brigida sulla riunificazione
delle genti sotto un’unica fede e la comparsa di un riformatore universale, a p.
116 cita, a memoria, l’inno a Carlo V nel Furioso (XV, 26 – lo stesso canto in cui
Ariosto nomina Taprobana): “sotto questo imperatore / solo una greggia fia,
solo un pastore”; fino al De Regno Dei Consideratio (in Phil. real. IV): “Cum domi-
nabitur unus Dei Vicarius, et erit unum ovile et unus Pastor, cessabunt bella…
et conflabunt gladios suos in falces. Item cessabunt schismata… Cessabit enim
fames quoniam non potest in omni climate simul fieri sterilitas… Cessabit et
pestis per transmigrationem ex locis corruptis ad incorruptis et per communi-
cationem scientiarum et medicinalium remediorum. Et haec omnia praedixit
Isaias et Prophetae alii palam omnes, a quibus poetae acceperunt saeculum au-
reum” (p. 213), passo così commentato da Guerrini 2002, cui si rinvia anche
per l’ottima aggiornata bibliogr. sulla teocrazia universale in C.: “In queste pa-
gine campanelliane vive un’ispirazione fantastica straordinaria, per certi aspet-
ti analoga a quella che infonde colore ed espressione al quadro idealizzato del-
la città solare” (p. 396; per il nesso invenzioni/ecumenicità v. n. 139.1 [f.p.]).

136.14-25: et qualiter… renovatio.


CS non rivela mai con esattezza cosa si aspettassero davvero i Solari da questo
ritorno delle congiunzioni del IV al I trigono. Si parla infatti vagamente per il
“saeculo venturo” (136.5) di ‘novità’ e ‘riforme’ sul terreno politico-religioso,
che saranno di giovamento alla “nazione santa”: ma quale sarà la “monarchia
nova” o la ‘renovatio’ (136.25) non lo dice neanche la ripresa (158.5). Curio-
samente infatti ogni volta che accenna alla profezia, il Genovese adduce la fret-
ta (138.4, 158.6), come utile diversivo per rinviare ad altro (le invenzioni, in
entrambi i casi) e ad altra volta (158.6, 160.1) –, che significa poi un’altra ope-
ra. Secondo l’opinione concorde di Firpo e di Ernst 1977 (p. XLIII), 160.1 al-
lude ad Art. proph. (in T.160.1-2 al solo Pronostico, che costituisce, probabilmen-
te, l’ultimo degli articoli di quell’opera). Ma perché non affiancare ad uno di
questi passi una stringata glossa bibliografica (come farà con la nota di
T.120.21, specificando in successivi mss, che si tratta dell’Astronomia, non anco-
ra redatta all’epoca di T. – per non parlare di Civitas che si apre con un’auto-
referenza bibliografica: le Quaest. pol. di 2.27)? Una possibile risposta è: per ra-
gioni di opportunità
• formale: i pronostici congetturali erano stati vietati dalla Chiesa recente-
mente (la Bolla di Sisto V Coeli et terrae del 1586 sarà reiterata da un’altra di
Urbano VIII nel 1631, tanto che Civitas dovrà esplicitamente adeguarvisi [v.
n. 144.27-146.2]);
• sostanziale: i pronostici sono per giunta molto infausti, nel breve periodo, per
la Chiesa; il contenuto dei pronostici (ricavabile appunto da Art. proph.) è sin-
tetizzato sibillinamente in quell’“evelli et extirpari” (138.2), che allude alla
spietata falce di un anticristo (l’ultimo), che eseguirà una pulizia radicale de-
COMMENTO AL TESTO 617

gli ‘abusi’ (134.12) della Chiesa, restituendola alla purezza evangelica (22.13-
4, 84.28), alla ‘nationi sanctae’, che sostituisce il “Cristiani” usato a partire dal
ms T. fino all’ed. Fr., perché, come ottimamente scrive Crahay (p. 217n), “con-
vient aussi bien aux Solariens, une fois ouverts à la Révélation, qu’aux chré-
tiens, une fois débarrassés des abus” (S. Pietro così apostrofa i primi cristiani:
“Voi però siete stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione sacra, popolo tratto in
salvo, affinché annunziate le meraviglie” di Cristo [1Pt. 2, 9]).
Quindi Art. proph. è l’indispensabile lettura propedeutica e complementare di
CS; è anzi il piedistallo su cui poggia ed insieme il motore che ha prodotto la
sontuosa costruzione ideale (negli intenti del Congiurato però doveva essere
reale): i segni della Terra e del cielo indicano, con l’approssimarsi della fine,
l’ineluttabile avvento dell’Eden, preceduto da un effimero trionfo dell’Anticri-
sto utile solo per igiene del mondo – paradiso terrestre, che, quando s’instau-
rerà, avrà le caratteristiche della Città del Sole, la quale vivrà ormai solo in at-
tesa della Città di Dio (v. ‘Introduzione’ e n. 160.1-2).

136.22: synodos magnas


In T. non si parla di grandi congiunzioni; in R. le si annuncia come imminenti
(“presto che…”), e in L. presenti: “le congiunzioni magne tornando alla tripli-
cità prima” (v. n. 133.1 [f.p.]); in Civitas le “prime” sono ormai passate, senz’al-
cun cenno al I trigono (formato da Ariete, Leone, Sagittario - nel trigono del
fuoco a partire dal 1603, avrebbero dovuto verificarsi le congiunzioni di Satur-
no e Giove). Quel che emerge dal cfr T./altre red. è che mentre la configura-
zione delle congiunzioni è aggiornata sistematicamente, quella dei transiti degli
apsidi stranamente resta invariata dal 1602; eppure, se gli ingressi nei segni do-
vevano verificarsi nel 1615 e nel 1630, non avrebbe dovuto lasciare invariato,
quantomeno per la stampa del 1637, quel “cum mox intraverit…” di 136.19
(forse la correzione adiacente l’ha distratto, forse credeva di aver sbagliato i cal-
coli: in Theol. XXV, in effetti, C. riconosceva che gli eventi annunciati dai segna-
li tardavano a manifestarsi [v. n. 130.22-3 e n. 156.6-158.5]). Se P. fosse stato
pubblicato soltanto un anno dopo, è probabile che il pronostico sarebbe stato
diverso. Domenica 5 settembre 1638, infatti, lo stesso giorno della settimana e
del mese, in cui, giusto 70 anni prima, era nato a Stilo il figlio di un oscuro cia-
battino, Parigi salutava la nascita del tanto atteso (23 anni!) erede di Luigi XIII
e Anna d’Austria. In quel momento, però, chi in Francia gioì più di tutti fu for-
se l’anziano frate esule, il quale cominciò a credere che aveva antevisto tutto
giusto, salvo il calcolo degli anni, sbagliato di 70 anni esatti esatti (per il cfr fra
T.136.24-8 e i passi paralleli di R., L. e Civitas [136.19-25] v. n. 160.1-2 § 2.2.2).

136.23: novae stellae in Cassiopea,


C. racconta la storia di questa scoperta in Art. proph. VII, in Astrol., p. 94-5 e in
Quaest. phys. X I, p. 78: un nuovo corpo celeste fu osservato da Tycho Brahe596

596
Il Tycho Brahe di J.L.E. Dreyer (Edinburg, 1890) è stata per quasi un secolo l’opera di base
618 LA CITTÀ DEL SOLE

ai primi di novembre del 1572, situato nel seggio di Cassiopea, long. 53° e latit.
62°.597 Dapprima fu una stella gioviale (superiore alla prima magnitudo), poi
sempre più piccola fino a sparire 18 mesi dopo. È un segnale celeste inequivo-
cabile, sia per ragioni astronomiche598 che onomastiche (“Cassiopea, regina
etiopissa, moglie di Moisè gentile, tipo di santa Chiesa moglie di Cristo dal gen-
tilismo raccolta” [Disc. Cometa, p. 70]); e quindi è lecito attendersi “totius mun-
di mutationem”, perché “stellae novae aliquid maximi plusquam cometae indi-
cant, et super omnia”. A tale stella C. ascrisse enorme importanza, sia teorica
(ritenendo che essa si sia formata dai vapori, ne deduceva che il cosmo è ‘ele-
mentato’, a confutazione della teoria aristotelica che l’universo sia etereo, e
quindi eterno e immutabile [Theol. III, p. 189; Apologia IV, p. 49]), che positiva-
mente profetica: “Cristo mostrò segno universale per advertirci nell’anno 1572
con la nuova stella, non data agli angioli né alle bestie per segno, ma agli uo-
mini, né fatta a caso e senza fine [= scopo] da l’Autor de la natura, che né una
ogna senza fine [= unghia senza scopo] produsse: quanto più sì gran mole di
consistenza” (Lettere1, p. 58); “secondo alcuni astrologi in questo tempo
[(1620) i Turchi] si divideranno in due fazioni, il che conferma la stella nova
dell’anno 1572” (Supplizio, p. 261); per Theol. XXV, p. 157 essa è il sicuro prean-
nunzio del “saeculum aureum” del settimo millennio; per Mon. Fr., pp. 400 e
472, dopo la ‘nova’ di Cassiopea “e l’altra nova nel Cigno nel 1603… le cose di
Spagna andaro sempre in peggio”, perché “la ribellion d’Olanda contra Spa-
gna andò innanzi”; la stella è sorta “in meridiano et polo Moschoviae, mirificas
abs te [= ‘granduca de’ Moscoviti’] novitates portendens”, cioè che si converta
e “in Tartaros dissemines. Neque enim nova stella casu quodam fulsit sed divi-
no opificio” (Lettere [1617-8], p. 188). L’ultima volta in cui ne accenna, mo-
strando una navigata disinvoltura nel maneggiare segnali celesti, la nuova stel-
la diventa annunciatrice della nascita del Delfino: “un tale eroe io rivelo per
noi nascente, che finalmente reca segni certi e fatali del suo avvento, io, inda-
gatore di fati a tutto il mondo ben noto, già da tempo posto sull’avviso dalle
nuove stelle apparse in Cassiopea e nel Cigno” (‘Ecloga’, 169, 20-3 [per questo
passo, opto per la traduzione di Firpo, in SL, p. 287-9]). Anche questa valenza
astrologica deriva da Tycho: secondo Brahe la ‘novità’ della stella (un cui uni-

per la sua biografia, stilata dal curatore dei suoi Opera omnia; oggi bisogna consultare V. E.
Thoren, The Lord of Uraniborg. A Biography of Tycho Brahe, Cambridge, 1990; un’ottima sintesi
complessiva è nel pur datato Koestler, p. 280-330, alcuni dei cui passi più pertinenti sono cit.
in n. 114 (glossa) § 3 nota; per il giudizio di C. su di lui v. n. 144.26-7.
597
E brillerà fino al marzo 1574, dando “luogo a una letteratura molto abbondante in tutta
Europa: almeno 50 trattati”, molti dei quali noti e discussi da Brahe nei suoi Progymnasmata
(per tale disamina cfr Lerner 1992, p. 73-104), libro che C. ebbe da Persio nel 1611 e lesse in
20 giorni (Art. proph., p. 300); uno di tali trattati è appunto il De nova stella del 1573.
598
“Perché non era cometa né sublunare né tra le sfere dei pianeti, ma proprio nell’ottavo
cielo, nel segno di Cassiopea, antevista dalla Sibilla Tiburtina e Babilonica” (Disc. Cometa, p.
80 - Ernst 2002, p. 80: “C. trascrive dai Progymnasmata di Tycho Brahe la profezia della Sibilla
Tiburtina, che acquista un particolare rilievo dopo la comparsa della stella nuova del 1572”).
COMMENTO AL TESTO 619

co precedente sarebbe stato osservato circa 1700 anni prima da Ipparco [Pli-
nio, II]) le dà un carattere e una significazione trascendente.599

138.2-3: at prius… plantari, etc.


In Mon. Fr., p. 512-4, Mon. Messiae XII, p. 53 e Papatus, p. 141 il versetto di Ger.
1, 10 è cit. ‘in extenso’ (e replicato parecchie volte): “Ecce posui te super gen-
tes et Regna, ut evellas et destruas; aedifices et plantes etc.”; ma più spesso lo ri-
porta abbreviatamente, come in Lettere, p. 42 (a Paolo V): “è necessario, per
meglio piantare, che primo ‘evellat et destruat et postea aedificet’”. Diversa-
mente attribuito appare invece nel tardo Ludovico, 95, 4 (153v): “Quemadmo-
dum Simon Petrus / ad Simonem Magum teste Sancto Clemente dixit, virtus /
et veritas plantari non potest, ubi prius vitiorum radices extirpatae non fue-
runt”;600 in Art. proph. XI e XIII e Theol. XXV, p. 203 cita una profezia di Brigi-
da, “l’autorità più citata a conferma della catastrofe di Roma, ‘la più illustre
delle Sibille’, le cui Revelationes, a quanto C. stesso dichiara, sono state una tap-
pa importante nella sua biografia intellettuale e spirituale” (Ernst 2002, p. 82):
“Roma è un campo su cui cresce la zizzania, e perciò prima deve essere mon-
dato con un ferro tagliente, poi purgato col fuoco e poi arato da due buoi ag-
giogati. Io farò con voi come chi trapianta da un terreno all’altro”. Con queste
parole “rivoluzionarie, C. esce dal campo immaginario dell’utopia, e fa posto
alla speranza della sua realizzazione storica” (Jean, p. 49) – o alla sua allucina-
zione palingenetica?

138.6-8: Hoc tamen… videbatur,


Doni ancora si chiede: “chi sa che non si trovi il modo di salire ne’ cieli, sì co-
me s’è trovato la via d’andare a gli Antipodi?” (p. 6-7). Della Porta lo riteneva
fattibile, previo precoce e opportuno allenamento: fin da piccoli si può impa-
rare a volare, applicandosi delle ali alle spalle (come Icaro o meglio l’Icarome-
nippo lucianeo), o attaccandosi ad un aquilone; al “Drago volante overo stella
cometa”, infatti, si usa normalmente appendere di tutto: lanterne accese, pol-
vere da sparo che la faccia esplodere in aria, cani, gatti; per cui “di qua, un
ch’abbia ingegno, pigliarà i principi in che modo l’huomo anchora possa vola-
re, attaccandosi l’ale grandi alle gombita, et al petto” (Magia II XIIII,70r-71r).
C. menziona spesso precedenti esperienze volatorie, come quella di Dedalo e
“pure un calabrese presso Castrovillari”, che aveva fatto però la fine di Icaro
(Metaph. XI III, II [III, p. 11]; Senso, p. 240; Atheismus, p. 59); anche per lui, im-

599
Sulle dispute fisico-cosmologiche e la ripresa di profezie causate dall’osservazione di que-
sta stella e poi di una cometa apparsa tra il 10 novembre 1577 e il 7 gennaio 1578, cfr (oltre
ai cit. Lerner e Koestler) Vasoli, p. 361-9 e Paolo Ponzio, La disputa delle comete nelle Quaestio-
nes physiologicae di T. C., ‘B&C’ II (1996, p. 195-213).
600
Replicato in Lettere: “scrivo contra gli altri… per sveller le spine, volendo seminare… ben-
ché questa metafora sia di san Pietro rispondente a Simon mago appo san Clemente roma-
no” (p. 323).
620 LA CITTÀ DEL SOLE

parare a volare è solo questione di allenamento e di ingegnosità: i circensi han-


no l’allenamento (“Deest ars volandi, quae facile innotesceret, si funambulis
quid sapientiae adderetur” [Astrol. VII, p. 11]); gli Spagnoli sono portati per
natura, e facilmente scopriranno loro (conseguendo così l’assoluta egemonia
tecnica) “l’arte di volare, la quale alla leggerezza loro conveneria” (Disc. Princ.,
p. 127). Infine 154.21-8 spiega astrologicamente perché proprio i Solari pote-
vano scoprirla – e del resto mai come in quest’arte la benignità del cielo è re-
quisito indispensabile (su C. e il volo, cfr Bruers 1942, p. 3).

138.8-10: et in proximo… harmonia.


Tutto il passo è assente in T. e successive red. fino a L., perché del telescopio ne
ha avuto notizia solo alla fine del 1610 (al 13.1.1611 risale la prima lettera a Ga-
lilei, con cui si congratula per ‘tam mirificum organum’, il “perspicillum”).601
Qualche mese prima della morte di C., apparve su una rivista parigina un tra-
filetto anonimo che riferiva di osservazioni fatte dal Filosofo per mezzo di un
telescopio di eccezionale capacità ingranditiva, che gli faceva vedere la Luna
“deux fois aussi grande que la place Royale”, e altre amenità del genere. Nul-
la di vero. C. presumibilmente non ha mai messo occhio dietro un cannoc-
chiale (così scriveva Mersenne ad Haack), e tutta la fola era nata in parte in
seguito all’‘Ecloga’, in parte per un equivoco, sorto da una lettera che veniva
da Napoli, dove Francesco Fontana vantava la costruzione di un telescopio
dotato di straordinarie performance (tutta questa storia è ben narrata da
Lerner, p. 91-100). Eppure non si può non restare perplessi di fronte ad
un’asserzione come la seguente, in cui il plurale potrebbe riferirsi tanto a
‘noi Italiani’, quanto, come spesso usava, a se stesso (com’è ribadito dal pos-
sessivo “noster”): “Tandem fecimus nobis oculare mirificum, quo occultas
stellas et secreta caeli penetramus, quorum inventor Galilaeus Florentinus
amicus noster: nec tamen circa solem nisi nubeculas quasdam dissipabiles vi-
demus” (Quod rem. 4, p. 37-8).

138.9: occultae stellae


Così risponde a Galilei, che annunciava di aver scoperto col telescopio i Me-
dicei: “S. Clemente per bocca di San Pietro spiega esserci un altro cielo e al-
tre stelle a noi invisibili, perché lo strato dei vapori terrestri della Terra ce lo
nasconde, e avverte che si mostreranno soltanto alla fine del mondo” (Lettere,
p. 166): quella che sarebbe una prova indiretta dell’esistenza di altri mondi
(124.27), invece da C., al solito, viene inquadrata in un paradigma escatolo-
gico, così come la scoperta del telescopio è un segnale divino per aiutarci a
decodificare i Suoi segni: “né senza gran fine [= scopo], ma per più advertir-
ci, l’amoroso padre Dio ci donò il telescopio del Galileo” (Lettere1, p. 58).

601
Due o tre anni dopo lo chiama: “telescopius Galilaei” (Theol. I [I, p. 198]), “quale a te in-
ventum est”, con cui pretenderebbe che s’indagasse tra l’altro “de republica quam vivunt in
astris habitatores, sive beati sive quales nos” (Lettere, p. 163-9).
COMMENTO AL TESTO 621

138.9-10: auricularia… harmonia.


È naturale per i pitagorici Solari credere nell’‘harmonia mundi’: “Pitagora ben
disse che i moti celesti fanno harmonia” (Epilogo, p. 413a).
Secondo Alessandro, in Arist. Metaph. 38, 10 (in: Pitagorici III, 67-9) infatti il cie-
lo è costruito secondo numeri e rapporti armonici, dati dalla velocità e dalla di-
stanza dal centro dei corpi celesti: perciò il numero è il principio dell’universo
e il movimento è un accordo musicale; secondo Porfirio, Vita, 30-1 e Giambli-
co, Vita, p. 65, questa musica era percepibile dal solo Pitagora; invece per Cice-
rone, De rep. VI, 18-9 (Macrobio, Somnium II IV-VI), non la percepiamo per l’e-
norme potenza di quei suoni cui le imperfette orecchie umane non sono ade-
guate; Pico confuta la teoria di Albumasar “delle consonanze musicali, secon-
do la quale dicono che i raggi dei pianeti ora sono all’unisono ora discordano
secondo una certa somiglianza con le armonie musicali” (II, p. 65); Ficino,
Amore, 4: Pitagora con gli strumenti musicali imitava “sphaerarum harmoniam”
(capitale il saggio di Spitzer sull’Harmonia mundi).
Aristotele sosteneva (Pol. XVII; De Coelo, 9), contro i pitagorici e Platone (Tim.
35b; Resp. 617b), che i cieli si muovevano, ma senza emettere suoni, altrimenti
il loro immenso frastuono ci avrebbe assordato (Quaest. phys. XI II, p. 117).602
C., poiché respinge la teoria che i pianeti siano incapsulati nelle sfere dei cieli
‘come nodi nelle tavole di legno’, ma si muovono liberamente, controbatte in
Epilogo603 “che tutto il Mondo è armonia, perché per tutto vi è un moto, ed ogni
moto nel farsi si chiama moto e nel sentirsi si chiama suono; e che i cieli si mo-
vono armonicamente… Ma noi non sentiamo quelli suoni nelli quali siamo na-
ti” (pp. 406-7 e 413b), anzitutto perché ci siamo assuefatti, come un mugnaio
dal fragore del suo mulino, e poi perché ce lo impedisce il rumore di fondo
terrestre (basta far con le mani padiglione alle orecchie per percepire il rumo-
re continuo dell’aria);604 se ci elevassimo sopra lo strato impuro dell’aria (cosa
che accadrà all’anima), udremmo subito la soave armonia celeste, la quale, a
differenza di quel che credono Platone e Pitagora, è totalmente diversa dalla
nostra (Poët. II II, p. 931-3).

138.11: Hem! Ah, ah, ah,


Gramm. I XI, III ‘De expressionibus notionum’: le interiezioni proprie della fa-
coltà conoscitiva in latino si esprimono per “chi si stupisce” con “‘pape’,

602
Contrari anche Ambrogio: “noi che udiamo i tuoni provocati dall’urto delle nubi, non
udiremmo la rotazione di così immense sfere…?” (II II, 6-7); e Beauvais: SN XV XXXII ‘Falsa
opinio de concentu coeli’.
603
E anche: Physiol. XI VI, p. 86; Quaest. phys. XLIX I, p. 474-5; Poesie, 25, Madr. 5, e 85, 3-20;
Moralis III V, p. 21; Theol. XIV.
604
Cosa che aveva appreso da Telesio: la sfera dell’aria è in perenne seppur impercettibile
movimento, come prova “il suono, che vien percepito meglio quando si mette la mano od un
corno all’orecchio” (I, 7; VII, 34).
622 LA CITTÀ DEL SOLE

‘hem’”; quelle dei sentimenti (I XI, IV) si rendono con “‘ah, ah’” (interiezione
triplicata ib. I III, II: “uno che ride esclama ‘ah, ah, ah’” (v. n. 16.19).

140.1: causam
“Causa est id ad quam sequitur effectus, et sine qua effectus sequi non potest”
(Quaest. phys. III I, p. 13); “causa è ciò da cui qualcosa è fatto… L’occasione è il
motivo della causa, per causare, e ciò da cui le cause hanno di causare così e
non altrimenti”, ad es. la vicinanza della stoppa al fuoco perché questa s’incen-
di; “la prima causa invece non ha bisogno di occasione… e neppure di applica-
zione, perché è dovunque, ed è causa previa e intima a tutto… ed è per sé. Ef-
fetto si dice ciò che è prodotto fuori della causa” (Metaph. II II, I [I, p. 219]). Da
Dio “causa remotissima”, “causa causarum”, derivano le altre cause via via più
prossime: il cielo, i principi primi contrari, gli enti (Quaest. phys. III I, p. 13-15;
per la loro tassonomia v. n. 142.1-4).

140.2: immediate, non immediatione


Derivato dal lessico tomistico (L. Schutz, Thomas-Lexicon, Paderborn, Schönin-
gh, 1895; Busa, s.v. per le ricorrenze; v. il comm. del Ferrariensis a n. 140.15)
‘immediate’ è sinonimo di ‘directe’, privo di intermediari, ed è entrato nel les-
sico corrente coevo (ad es. Doni, Mondi, p. 196: da Dio “immediate ogni esser
dipende”): “il Cielo non ha mica un potere diretto [= directum] sulla mente
umana per il fatto di averlo sul corpo governato da lei, ma ce l’ha indiretto [=
“indirectum”]… Idem D. Thomas 3 cont. Gent., cap. 84 usque ad 89 docet quod
Coelum agit in corpus per se, in potentias organicas per accidens quia infor-
mat corpus, in intellectum vero indirecte, quoniam nullius corporis est actus”
(Mon. Messiae XIII, App., p. 64: “indirecte” è “multo minus” che “per acci-
dens”); “Dunque diremo che le stelle sono delle cose divine segni e cause qual-
che volta strumentali, e dell’umane naturali son cause naturali dirette, e del-
l’arbitrarie, indirette, in quanto mutano li sensi e, per quelli, l’intelletto” (Anti-
ven., p. 130). In Civitas sta a indicare la peculiarità dell’immediatezza causale
divina rispetto a quella delle cause particolari: mentre le cause seconde devono
essere contigue al loro effetto, Dio vi agisce direttamente in quanto Essere e in
quanto Motore universale: “la causa prima, che è Dio, produce primieramente
l’essere e secondariamente questo o quello” ente determinato, cioè limitato
dal niente (Metaph. VI VI, II [II, p. 71]); Dio “dà ad ogni causa virtù operativa”
(Quaest. Eth. II I, p. 25-30), essendo lui la causa delle cause; perciò “ogni atto
appartiene a Dio, senza l’imperfezione” (Metaph. IX VI, III [II, p. 347]; a questo
tema delle cause seconde è dedicato Theol. VI: cfr Muccillo 1999, p. 550).

140.4-9: non enim… divinae.


Già Senso polemizzava con il teologo Gabriele Biel, che sosteneva che “non il
Sole luce, ma Dio nel Sole; né l’uomo parla, ma Iddio nell’uomo; né si muove
il fuoco, ma Iddio nel fuoco” (p. 14); e di rincalzo Metaph. IX XIII, I (II, p. 363):
“Così pure quando l’uomo stende la mano per rubare, Dio agisce insieme in
quell’atto; perché allora egli non pecca, mentre noi pecchiamo se cooperiamo
col ladro?” La risposta è nel De potentia di Tommaso (opera poco sotto [140.16]
COMMENTO AL TESTO 623

cit.): “poiché la causa prima influisce sull’effetto di più della causa seconda, al-
lora quanto di perfetto vi è nell’effetto va ricondotto alla causa prima, quanto
vi è di difetto alla causa seconda, quae non ita efficaciter operatur sicut causa
prima” (q. 3, art. 8). Perciò “è più biastemma dire che Dio ci fa fare il peccato,
che dire il peccato non è peccato, ché questa scusa Dio, che ci lo fa fare, e la
prima lo fa tiranno e traditore, che ne dice: – Fate bene –, e ne comanda quel
che non potemo, ed egli poi ci fa fare il male per sua malignità e spasso” (Anti-
ven., p. 80). “Ogni causa contingente modifica l’effetto della necessaria, per-
ché l’effetto deriva dalla causa più potente, ma l’ecceità dell’effetto dalla causa
più prossima. Dunque l’albero fiorisce per ragioni contingenti in primavera,
malgrado il Sole in quel periodo lo riscaldi in modo necessario per la fioritura
e non possa esser impedito, e invece la fioritura può esser impedita” da un
qualsiasi fattore contingente (Theol. I [II, p. 21]).605 Quanto sopra significa che
nella catena (sequenziale e gerarchica) causale, l’effetto finale della causa pri-
ma e più potente (= necessaria) può esser modificato dall’interferenza di una
causa meno potente (= contingente), ma più prossima all’effetto.
‘Pietro’ è nome proprio correntemente utilizzato anche da C., per indicare ge-
nericamente ‘un uomo’ (Gramm. III II, p. 689: “Si chiaman proprii i nomi degli
individui… come ‘Pietro’ uomo”), e non tanto in omaggio a un suo confratel-
lo, Pietro Presterà (come pur parrebbe da un ‘exemplum’ di Poët. IX V: “‘vel
Petrus est clericus, vel est monachus’”), ma principalmente per l’analogo uso
che ne fa Tommaso, ad es. in 2Sent., dist. 38, q.2, a.1, ad 2: “Aeque enim neces-
sarium, vel contingens est, me dicere Solem oriturum, vel Petrum nasciturum”,
e diventato usuale (es. Doni, Mondi, p. 360).

140.10-4: Idem… quam secundae,


“S. Thomas reprobat opinionem Macometistarum afferentium non lucere So-
lem, sed Deum in Sole” (Astrol., p. 66), cioè: alcuni “teologi arabi pensano che
Dio agisca immediatamente insieme a tutte le cose in modo che le cose non ab-
biano altra funzione che quella di conduttrici dell’azione di Dio. Dio dunque
rifulge nel sole, si muove nei venti o muove i venti ecc.” (Metaph. VI VII, II [II,
107]; più estesamente in Quod rem. 4, 29-30, 159, 163). Tommaso, in 3SCG, 69
aveva confutato l’ipotesi di Averroè (In Metaph. IX, 7; XII, 18) e di Avicebron
(Fons Vitae II, 9; III, 44-5), portate all’estremo da Mosè Maimonide (Doctor Per-
plex, P. I, c. 73), secondo cui “nessuna creatura esercita un influsso nella pro-
duzione degli effetti naturali: cosicché non sarebbe il fuoco a scaldare, ma Dio
causerebbe il calore all’appressarsi del fuoco”; ecco una delle prove addotte a
palesarne l’incongruenza: “se le cose non avessero nessun influsso nel produr-

605
Immagine e argomentazione analoghe qui a 142.1-6 e v. n. sg. A coloro che ipotizzano una
medesima causa incorporea sia per i fenomeni celesti che per gli avvenimenti umani, Pico
obietta: “come potrà evitare la difficoltà che siano compiute dalle menti divine quelle opere
che gli uomini non fanno senza colpa, come lo spingere l’uno all’omicidio, l’altro all’adulte-
rio, l’altro al furto? E tralascio che ad ogni filosofia ripugna che le cose corporee siano de-
terminate da cause incorporee senza un intermediario corporeo”.
624 LA CITTÀ DEL SOLE

re gli effetti, ma fosse Dio a compiere ogni cosa immediatamente, sarebbe inu-
tile che Egli si servisse di altre cose per produrre degli effetti”; ma sarebbe in-
compatibile con la Sua sapienza creare un mondo di cose inutili.
La stilettata anti-maomettana è solo la punta di una più vasta polemica relativa
al problema del male nel mondo, da un lato contro coloro che negano la Prov-
videnza e dall’altro contro quelli che negano il libero arbitrio (v. n. 142.28): al-
cuni “dissero che Dio ci è, ma non ha provvidenza nelle cose nostre… o perché
non puole [sic], come dice Aristotele… o perché non sa a tutto sovvenire, co-
me dice Plinio… onde spesso erra e fa mostri… o perché sa e può, ma non vuo-
le, il che avviene o, come dicono li Stoici, perché non ha voluto toccar la libertà
umana… o non vuole, come dice Lutero e Calvino con Maometto, perché è Si-
gnore e fa tutto a suo capriccio… perché nascemo giudicati, non giudicandi”
(Politici, p. 112), il che, oltre che empio, è “contro ogni civiltà, come che i ma-
gistrati castighino negli uomini non il loro peccato, ma il difetto di Dio” (Disc.
Paesi B., p. 85).
Gli ultimi anni della sua vita videro C. impegnato in una battaglia volta a libe-
rare San Tommaso non solo dalle grinfie di eretici ed ateisti, ma anche da teo-
logi “sconscenziatissimi”; perciò si mise a compilare un centone tomistico (De
Praedestinatione [in Atheismus, Paris, 1636, pp. 64-326]), da cui doveva risultare
che, al contrario di quel che si diceva, era proprio l’Aquinate a fornire le armi
intellettuali più affinate contro la predestinazione, che era la causa principale
della ‘rovina di questo secolo’. L’argomentazione ricorrente dei fautori del
‘servo arbitrio’ era “o Dio è o non c’è. Se non ci è, viviamo, regniamo, facciam
quel che ci piace per forza, per sofismi, per ippocrisia. S’Egli è, o ci ha prede-
stinati o reprobati ‘ab aeterno’, come dicono li pseudotomisti ‘de mente’ di
San Tomaso, e ci spinge ‘in tempore’ ad ogni atto pio e peccaminoso in modo
che non potemo far se non quel a che Dio ci move… E contra questo argo-
mento io combatto” (Lettere, pp. 260 e 310).

140.13: operationem
“Sebbene la parola ‘operazione’ indichi originariamente un atto che trapassa
in un’opera e agisce all’esterno, tuttavia teologi e metafisici sogliono assumer-
la a significare un atto immanente che non si esplica al fine di acquisire un og-
getto esterno, o di perderlo, o di operare alcunché (ciò infatti riguarda l’azio-
ne), ma per manifestare e conservare la propria entità; per questo il suo nome
appropriato è ‘atto’ e il suo verbo è attuare”, e un esempio di ‘attuazione’ può
essere ‘io amo d’amore’ (Gramm. II II, p. 619). Il concetto è sviluppato in Phys.
IV I ‘De Operatione’; in Metaph. (I II, X [I, p. 277]; II X, I-VI [I, p. 321-31] e VI V,
I [II, p. 65]); e in Theol. I (I, p. 261): “l’operazione è l’attualità interna della co-
sa, mediante la quale essa ci conserva nell’essere e persevera ad essere… e l’o-
perazione [a differenza dell’azione] non finisce, perché finirebbe l’essere”:
operatio, pertanto, “è attività intrinsecamente legata alla costituzione dell’ente,
per la quale l’ente si conserva in se stesso; l’actio invece, intesa come manifesta-
zione ‘ad extra’, consiste nella relazione dell’ente coll’oggetto delle sue azioni,
che non conserva l’agente in se stesso, ma nell’ente che patisce l’azione” (Ac-
cietto-Gualtieri, p. 15-6); e infine la ‘passione’, “ricevimento della sembianza
COMMENTO AL TESTO 625

d’altri” (Epilogo, p. 226), è di due tipi: naturale, “come quando la terra che pa-
tisce dal sole diventa calda; o artificiale, come, con un illuminante paragone, il
libro che l’Autore sta scrivendo è simile non alla penna con cui scrive, che è un
semplice ‘agente istrumentale’, bensì all’idea e alla sapienza che lui, T. C.,
agente principale, ha nella propria mente” (Ernst 2002, p. 45).
‘Operatio’ è termine filosofico: Ambrogio rende con “operatorius” il ‘poie-
tikòs’ di Filone, intendendo il terzo principio attivo, insieme a materia e forma
(I, 1, cfr nota 5); “il termine ha nel Medioevo il significato di attività in genera-
le, ed è usato come traduzione del greco ‘energeia’ che vale attualità o attività.
Questo è il senso in cui adopera la parola S. Tommaso (ST II I, q. 3, a. 2), per il
quale vale il principio che ‘il modo di operare di ciascuna cosa segue il suo mo-
do d’essere’” (Accietto-Gualtieri, p. 15) e in 3SCG, 69 la definisce “essere in at-
to”; Telesio, come azione propria solo a quell’ente (ad es. II, 18 [p. 313]: “Il
moto è un’operazione propria del caldo, prodotta solo da lui e non da qualche
altra natura”). In questo contesto l’Ospitaliero confuta i Maomettani che riten-
gono che quando vi è una relazione di causa-effetto stretta (es. fuoco/calore),
per cui si può considerare il calore un’operazione del fuoco, allora è Dio ad
agire, e non una causa seconda; egli obietta che la causa universale agisce in
quanto causa prima, e non per il contatto, che è requisito indispensabile di tut-
te le cause derivate.

140.14: attingentia
Parola non registrata dai principali lessici (Thesaurus, Forcellini, Du Cange…),
né da altri minori (es. Blaise, Dict. lat.-fr. des auteurs chrétiens) e neanche nell’In-
dex tomistico; è possibile che sia stata coniata da C., che è incline ai neologismi,
per caso (es. T.132.2: “intravariano”) e per necessità: “il C., che non era sicuro
del proprio latino e riconosceva di creare di proposito neologismi, onde elu-
dere l’indisponibilità della lingua latina per i concetti astratti” (Di Napoli, p.
6), si rivolge a Schoppe per farsi correggere “vocabula quae de industria con-
fingo” (Lettere, p. 144). Coniato in analogia a un sostantivo composto derivato
da ‘tango’ (es.: ‘contingentia’), ‘attingentia-ae’ (quattro righi sotto vi è il geni-
tivo in ‘-ae’; lo si ritrova anche in Metaph. [II, p. 360]: “non immediatione at-
tingentiae, sed principii”) si può tradurre con ‘contatto’.
In Quaest. phys. si chiede se agente e paziente ‘debeant se mutuo tangere’, con-
tro l’opinione corrente (l’amore, come gli astri e lo stesso Dio, agiscono anche
a distanza, senza contatto diretto); forte dell’autorità di Tommaso, “probat
quod Deus agit omnia in omnibus immediatione suppositi et virtutis per se-
cundas causas”: affinché vi possa essere azione, occorre che agente e paziente
stiano insieme, cioè si tocchino; gli enti corporei si toccano fisicamente, gli in-
corporei immaterialmente, e così anche nei casi misti: pure Dio “tangit tactu
virtuosissimo, eminentissimo; Angeli vero eminenti” (XVI VI, p. 139).
L’imprescindibilità del “contatto” fra agente e paziente è in Aristotele: “Le co-
se che non si toccano reciprocamente non hanno la possibilità, in senso pro-
prio, di agire e di patire… Possono essere in contatto reciproco soltanto quelle
cose che, avendo una determinata grandezza e occupando una posizione, ven-
gono a coincidere alle proprie estremità” (De gener. et corr. I, 6, 322b-323a).
626 LA CITTÀ DEL SOLE

140.15: 3 Contra Gentiles cap. 70,


Le citazioni tomistiche sono spesso afflitte da vari errori, come si è visto nella
‘Nota al testo latino’: la confutazione dei filosofi maomettani è in 3SCG, 69; nel
cap. 70 Tommaso dichiara che ogni agente agisce con una virtù (ad es. il fuoco
con il calore), che dipende dalla virtù dell’agente a lui superiore (ad es. il So-
le) e così via: “e come l’agente più basso è immediatamente operante, così è
immediata nella produzione dell’effetto la virtù del primo agente”; quindi “l’i-
dentico effetto viene attribuito sia alle cause naturali che a Dio, non nel senso
che in parte viene prodotto da Dio e in parte dall’agente naturale; ma esso de-
riva tutto e dall’uno e dall’altro, però in maniera diversa”; se paragoniamo la
causa prima all’ingegno dell’artefice e la causa seconda agli strumenti e mate-
riali impiegati, il manufatto è prodotto da “entrambi immediatamente sebbene
in maniera diversa”.
A proposito di questo capitolo III, 70 (Pia., vol. VI, ff. 315r-6r), il Ferrariensis,
rinviando proprio a De pot. q. 3, art. 7 e al I libro del In Sent., dist. 37, q. I, art. 1,
annota: quando l’Aquinate qui scrive che Dio agisce “immediate” intende due
cose: a) nel produrre degli effetti, una virtù non ha “ante se aliam virtutem a
qua moveatur”, ovvero è il ‘primo principio’ “et primum principium dicitur im-
mediatum, quia ex propriis terminis virtutem habet”; b) Dio agisce “immedia-
te immediatione suppositi” (direttamente attraverso l’applicazione diretta del-
la causa inferiore), cioè la Sua virtù è onnipresente in quanto fornisce l’essen-
za e la capacità alle cause seconde, che però è quella direttamente causante,
perché ‘immediatamente’ aderente (potremmo dire: ‘attigua’ o ‘attingente’)
all’effetto (v. n. 140.2).

140.15a: 2 Sententiarum dist. 37,


La q. 2 della dist. 37 è dedicata a “de causa peccati”, che si apre a due quesiti:
“utrum ipsius peccati Deus causa sit, absolute loquendo; utrum sit causa actio-
nis in qua deformitas culpae consistit, secundum quod actio est”; e nell’art. 2 di
questa q. 2, Tommaso si chiede “se il peccato, in quanto azione, derivi da Dio”,
e risponde: “in quanto atti, tutti gli atti discendono da Dio; ma in quanto con-
tengono una deformità discendono dall’uomo o dal diavolo”. Se qualcuno
zoppica non è colpa della virtù “gressiva”, ma della tibia rotta. Dio ha creato la
volontà suscettibile di esser difettosa. “Perciò un atto, in quanto atto, e in quan-
to ente deriva sì da Dio, ma in quanto deficiente deriva dalla causa seconda,
cioè la volontà, che diventa così la causa prima”; come aveva chiarito poco pri-
ma (1, 1, 3), una causa esterna può inclinare, non costringere al peccato, per
aversi il quale è necessario il concorso dell’interno arbitrio.

140.16: De Potentia quaest. 1, art. 3 et 5,


Per la prima indicazione (q.1, a.3) non ho trovato corrispondenza significativa;
se però la si corregge in ‘q. 3, a.7’ (supponendo che il proto abbia invertito i
numeri, dopo aver scambiato un 7 per un 1), in questo art. 7 (= ‘Utrum Deus
operetur in operatione naturae’) Tommaso ribadisce che Dio dà alle cose la
virtù ad agire, senza per questo agirvi Lui direttamente come invece ritengono
i filosofi arabi: “quidam enim loquentes in lege Maurorum, ut rabbi Moyses
COMMENTO AL TESTO 627

narrat, ‘omnes huiusmodi naturales formas accidentia esse: et cum accidens in


aliud subiectum transire non possit, impossibile reputabant quod res naturalis
per formam suam aliquo modo induceret similem formam in alio subiecto’;
unde dicebant quod: ‘ignis non calefacit, sed Deus creat calorem in re calefac-
ta… Avicenbron etiam in libro fontis vitae dicit: quod ‘nulla substantia corpo-
ralis agit, sed vis spiritualis penetrans per omnia corpora agit in eis’”. Invece
per Tommaso “Deus est causa omnis actionis rei naturalis. Quanto enim aliqua
causa est altior, tanto est communior et efficacior, et quanto est efficacior, tan-
to profundius ingreditur in effectum”. Per quanto riguarda gli accidenti parti-
colari, “nihil agit ad speciem in istis inferioribus nisi per virtutem corporis coe-
lestis, nec aliquid agit ad esse nisi per virtutem Dei… Sic ergo Deus est causa
omnis actionis, prout quodlibet agens est instrumentum divinae virtutis ope-
rantis. Sic ergo si consideremus supposita agentia, quodlibet agens particulare
est immediatum ad suum effectum. Si autem consideremus virtutem qua fit ac-
tio, sic virtus superioris causae erit immediatior effectui quam virtus inferioris;
nam virtus inferior non coniungitur effectui nisi per virtutem superioris… Sic
ergo oportet virtutem divinam adesse cuilibet rei agenti, sicut virtutem corpo-
ris caelestis oportet adesse cuilibet corpori elementari agenti. Sed in hoc dif-
fert; quia ubicunque est virtus divina, est essentia divina; non autem essentia
corporis caelestis est ubicunque est sua virtus”.
La seconda indicazione bibliogr. (= “et 5”) è da interpretare come ‘q. 5 [art.
8]’, che è lo stesso articolo cit. da Apol. ad lib., p. 323: “ogni azione intenziona-
le [deriva] dall’azione intenzionale del motore celeste, ut dicit in Pot., q. 5, 8”.

140.17: Opusculis 9, quaest. 38,


Responsio ad Magistrum Joannem de Vercellis de Articulis XLII (in THOM è: ‘Respon-
sio ad lectorem vercellensem de articulis CVIII sumptis ex opere Petri de Ta-
rantasia’): “Deus in anima agit non solum causando in ea aliquem habitum,
puta gratiae vel virtutis, sed etiam inclinando liberum arbitrium ad hoc vel ad
illud; quod non proprium dicitur influere, sed magis movere ad actum”.

142.1-4: Deus dedit… operentur.


Le cause naturali (142.12), o seconde (perché prima di loro c’è sempre un’al-
tra causa, fino a quella divina, che è l’Artefice dell’intera catena causale), sono
legate al cielo; si distinguono, in base alla diversa gradazione di ente e nonen-
te contemperatovi (Theol. I [II, 97]), in: universali o necessarie, che non posso-
no non essere (come il sorgere quotidiano del Sole); altre sono contingenti, i
cui effetti possono essere o non essere (che sono di due specie: prevalenti e
probabili: il fiorire degli alberi in primavera; aleatorie e improbabili: il piovere
d’estate), e altre libere, che pertanto possono agire diversamente da come
“movet libere Deus”, cioè diretto al sommo bene, e “modificare motionem Dei
ad malum suum” (Quaest. Eth. II I, 29-30). Le contingenti (specie le aleatorie) e
le libere sono le cause particolari di tutto ciò che di ‘accidentale’ si verifica in
natura (non rispetto alla volontà divina, “cui nihil est impraemeditatum”
[Quaest. phys. II II, 11]). Le cause libere (142.8-9), di esclusivo appannaggio del-
l’uomo (v. n. 142.28), hanno di diverso, rispetto alle cause naturali, solo “de-
628 LA CITTÀ DEL SOLE

terminationem actuum”, che Dio “relinquit in manu consilii sui [= dell’uo-


mo]” (Quaest. Eth. II I, 29-32, da cui è evincibile lo schema dell’intero impianto
causale:

prevalenti
particolari
(Dio=)CAUSA PRIMA→ cause seconde: universali aleatorie
libere

Al terribile ‘aut aut’ posto da Simon Mago in S. Clemente (“o avviene tutto ciò
che Dio vuole e come egli vuole, oppure no: se sì egli vuole il peccato, se no,
egli è impotente”), C. obietta che “Dio non vuole il peccato, ma vuole che noi
siamo liberi per meritare, potendo trasgredire e non trasgredendo”, essendo il
peccato partecipazione del nulla (incompatibile con Dio); ma lo permette,
“perché egli permette la libertà e ordina i peccati a un altro fine” (Theol. I [II,
p. 97]), cioè il male è largito a fin di bene, “poiché come insegna il Crisostomo
nel libro della Provvidenza nel V tomo, la cecità, la claudicazione e le malattie
avvengono negli uomini in quel membro, pel quale avrebbe peccato, e Dio
prevedendo il peccato infligge per misericordia l’impotenza” (Theol. I [II, p.
127]).

142.6-8: Tempora… operamur.


Secondo la concezione aristotelica, il cosmo è incorruttibile, mentre il mondo
sublunare è alterabile e mutabile; poiché mutazione implica passaggio dalla
potenza all’atto, quest’impulso non può che provenire dal luogo dell’assoluta
immutabilità: “Omnia enim, quae renovantur in mundo inferiori… habent
suas causas efficientes in mundo superiori inalterabili et incorruptibili” (SN XV
XLIII); “cause universali sono i corpi celesti” (Tommaso, 3SCG, 76): concetti che
risalgono ai classici, come ricorda Della Porta: Aristotele disse che “per il cami-
no e ritorno, che egli [= il Sole] fa nel circolo Zodiaco, si generano et corrom-
pono le cose, et si causano le stagioni de’ tempi. Platone dice che… il sole è go-
vernatore e rettore de’ tempi, el reggimento della vita” (Magia I XV, 23r).

142.10-2: Nam… Sole.


“I mali universalissimi non si possono evitare in modo universalissimo, bensì in
modo particolare, perché vengono ricevuti secondo la disposizione di chi li ri-
ceve. Chi dunque si disporrà contro o a favore di tali eventi, potrà evitarli o cat-
turarli. Ad es. quando il cielo, in assenza del Sole, fa discendere la notte, non
possiamo produrre il giorno in tutto il nostro emisfero, ma possiamo provve-
dere nelle nostre case, accendendo lampade in sostituzione del Sole, grazie a
quell’arte che possiamo chiamare ‘pirotecnia’” (Astrol. VII II, p. 2 [trad.
Ernst]). “Ad citriorum vitam in Lombardia ignes accenduntur prope arbores
eiusmodi in hyeme” (Quaest. phys. X I, p. 85); Metaph. XIV II (III, p. 93): l’uomo
“facit de nocte diem per lucernam, pinguedinem arborum et animalium, reti-
nendo ignem” (del resto “noi creiamo la lucerna sul modello del Sole” [Theol.
I (II, p. 39); v. n. 8.38-40]).
COMMENTO AL TESTO 629

Segreti ben noti a Della Porta (Magia II I: ‘I fiori e i frutti, come s’habbiano a
far nascere primaticci e tardiuoli’); orizzonte figurale (= alterazione del pro-
cesso vegetale) e argomentazione (= causa universale → cause seconde parti-
colari) sono invece tomistici: “in floritione arboris cujus causa remota est mo-
tus solis, proxima autem virtus generativa plantae. Floritio autem potest impe-
diri per impedimentum virtutis generativae, quamvis motus solis invariabilis sit.
Similiter scientia Dei est invariabilis causa omnium; sed effectus producuntur
ab ipso per operationes secundarum causarum” (1Sent., dist. 38, q. 1, a. 5; per
il tipo di argomentazione sottesa v. n. 140.4-9).

142.17-9: Et sicut… mane,


Sembra il rovescio della pag. 19 della Vita sana, in cui Ficino esorta i sapienti a
lavorare di giorno e dormire di notte: “Il giorno è dato al vegliare, la notte al ri-
poso e al sonno” (ma uno che ha consumato più olio di lucerna, di quanto un
chierico vino, non poteva apprezzare la massima che le ore del mattino hanno
l’oro in bocca); il richiamo più pertinente è a Lattanzio, De ira Dei XIII [PL VII,
115sg]: ‘De mundi et temporum commodo et usu’.

142.23-5: et sic… in martio etc.


È indispensabile aver conoscenza del momento opportuno e propizio per le at-
tività umane: se il medico non conosce i giorni critici (v. n. 148.6-7), uccide
l’ammalato; se il marinaio si mette in mare d’inverno e in una lunazione nega-
tiva, naufraga (v. n. 144.12-5); e tu, contadino, “nec putabis vites in Decembri,
sed in Februario; nec plantabis eas in Septembri, sed in Martio… Recte dixit
Salomon ‘Omnia tempus habent’” (Astrol., p. 212).

142.25-144.11: Nec possunt… moliuntur.


Questo capoverso e la risposta dell’Ospitaliero sono fondati su argomentazioni
(e, inevitabilmente, espressioni linguistiche) tomiste, solo in parte esplicitate;
inoltre il dialogo spezza, per movimentare una materia ardua e arida, anche se
all’epoca molto viva, la sistematicità del filo discorsivo, che si ritrova in sede
trattatistica. Anche in questo caso è indispensabile un sintetico sguardo d’as-
sieme, sia storico che dottrinale.
Con la Inscrutabilis Urbano VIII riconfermò nell’aprile del 1631 la Bolla Coeli et
terrae creator, promulgata nel 1586 da Sisto V contro l’astrologia giudiziaria
(142.26-7), vietando, in partic., e con pene severissime, le predizioni sulla mor-
te del papa e dei suoi congiunti.606 È almeno a partire dal primo Concilio di To-
ledo (nel 400) che la Chiesa reiteratamente sconfessò le pratiche astrologiche.
Finalmente nel Tridentino (Quaest. phys. XXIV IX, App., p. 236), si fece una di-
stinzione fra pronostico probabile (accettato) e certo (vietato). Il motivo di
questo recente inasprimento fu dovuto in parte a ragioni di carattere ‘propa-

606
I testi delle due Bolle si trovano nel Magnum Bullarium Romanum II, 515-7 e V, p. 173sg: cfr
Walker, p. 240-1; Ernst 1991, pp. 217, 255-79; v. n. 136.14-25.
630 LA CITTÀ DEL SOLE

gandistico’ (Cantimori), come lascerebbe intendere anche qui C. (il quale ne


fu direttamente coinvolto, come adesso vedremo), e in parte a ragioni dottri-
nali, che il Filosofo menziona in un’aggiunta all’ed. lat. di Senso (p. 317n):
“Pontifex iudicia astrologica vetat, in eo sensu quo vetantur ab Isaia: quando
scilicet opponitur divinae prudentiae, non quando supponitur”.607
Al sequestro del suo Atheismus, avvenuto per ordine di padre Riccardi (il fami-
gerato Padre Mostro)608 a metà del 1631, C. reagì con la Disp. in Bullas, pubbli-
cata nella ristampa parigina dell’Atheismus ([1636] p. 253-73), subito dopo una
‘Appendix’ in cui ne ricostruisce un po’ sinteticamente e un po’ cripticamente
la storia: “Sei mesi dopo la pubblicazione di Atheismus, il Papa, lettolo, m’impo-
se di cancellare ‘prognosticum astrologicum de Ecclesia instauratione’. Obbe-
dii” per non passare per testardo. Ma parallelamente insorse una turba di emu-
latori [= padre Mostro], presi da analogo prurito censorio (=‘aemuli prurito
eius tangendo’), a cui però l’Au. non volle dare soddisfazione, per la ragione
opposta (“tollere nolui, ne servus nequam invenirer”).609 Ma sotto c’era anche
del marcio, fatto di invidie e corruzioni all’interno del Palazzo;610 fu l’inizio di
un’altra serie di guai, che, complici altri avvenimenti napoletani (le confessio-
ni di Pignatelli), si conclusero con il suo definitivo esilio parigino (v. n. 156.9-
10). Tuttavia non è solo per questioni biografiche che l’argomento premeva
tanto a C.: “egli protesta che si mostri maggiore severità contro gli astrologi che
contro gli eretici (e come dar torto a chi mormora che al Papa sta più a cuore
la propria tranquillità personale e quella dei propri familiari che la fede e il
culto divino?)” (Ernst 1991, p. 278). Invalidata e vietata l’astrologia, infine, gli
veniva a cadere la ragion d’essere di tutta la sua teologia della storia, fondata su
profezie in buona parte di marca astrale.
Quanto sopra per spiegare non solo il lungo inserto ‘pro-astrologia’ aggiunto
alla Civitas parigina, ma l’insistenza con cui la ‘vexata quaestio’ riaffiora ogni
qual volta se ne offra (o meno) il destro (Quaest. phys. XXIV IX, App., p. 236-40;
Metaph. XVI XI, V).

607
Non è Isaia, bensì Ger. 10, 2: “a signis caeli nolite metuere, quae gentes timent” [= non te-
mete i segni del cielo che spaventano i pagani], versetto spesso cit. da Tommaso (es.: 3SCG,
85); e quel “divinae prudentiae” sarà la ‘provvidenza’, a cui si ‘oppone’ chi pensa di poter in-
terferire con i Disegni Celesti e non chi vi si ‘sottomette’, e dunque li agevola.
608
Così Filippo III aveva soprannominato il Maestro del Sacro Palazzo, il genovese padre do-
menicano Niccolò Riccardi, “non si sa se per la notevole eloquenza o per la straordinaria
obesità” (Formichetti 1999, p. 221); “Acre e subdolo avversario di C., lo osteggiò a Roma in
mille modi e non cessò di perseguitarlo nell’esilio di Francia”, così Firpo 1951, p. 11n; ma il
giudizio della critica recente su Padre Mostro è più sfumato: v. n. 144.27-146.2 e n. 154.9-10.
609
In Lettere è più esplicito: “Non ci è cosa che osta [alla ristampa di Atheismus], se non dui
versi che spiaceno a Nostro Signore [= Urbano VIII], pensando che fossero contro la sua bul-
la; perché quelli altri ch’il Mostro notò contro la bulla, sono notati falsamente, come sa Fa-
villa e ‘l padre maestro Marino” (p. 310).
610
Come testimoniano le Lettere, pp. 234, 250, 258… o la trappola tesagli l’anno prima, sem-
pre dal solito Riccardi, pubblicando a sua insaputa il VII di Astrol. e facendolo pervenire al
papa (Syntagma I IV).
COMMENTO AL TESTO 631

Dopo essersi inchinato all’autorità papale (“nam Papa omnia potest pro verita-
te, et nihil contra veritatem”), adduce tre ordini di contro-argomentazioni: al-
tre Autorità, la ‘Ratio’ e l’‘Experientia’ (così le glosse a p. 236-7). Per quest’ul-
tima s’avverte anche un sussulto di orgoglio: “quoniam ipse expertus sum in
cunctis hisce signis plurima, et fallacias demonum detexi. Nec loquor, ut stulti
et femellae solent, decepti immaginatione, sed sensata experientia, et vere,
quidquid Athei indocti et ad pauca respicientes obloquantur”. Le Autorità
principali sono la Bibbia (ad es. il “IESU CHRISTI ORACULUM” [116.7] nella
sua maiuscola rilevanza) e Tommaso (v. n. 42.38-40, n. 140.2, n. 144.12-5). La
‘Ratio’ richiede appunto una più distesa trattazione.
Nel rivendicare, pur entro certi limiti, la liceità dell’astrologia, C. non poteva
che rifarsi a Damasceno (Orth. Fidei II, 204F: “sidera [non] causam esse, verum
signa potius”, che non sfiorano la parte razionale dell’uomo soggetta al libero
arbitrio), e principalmente a Tommaso – e non solo perché Santo e domenica-
no, e autore di almeno due Opusc. (IX e XXII) e di 3SCG, 82-6 e 104-6, ma an-
che per i favorevoli commenti di De Vio. Lunga sarebbe invece la lista degli op-
positori illustri (in parte ricordati proprio dal commentatore di Damasceno:
De Billy, 206HI): da Ambrogio, IV IV, 13-7 (tra le varie fasi della nascita e la re-
gistrazione dell’oroscopo scorre un lasso di tempo sufficiente a falsarlo) ad
Agostino: Lett. LV, 13-5 (PL XXXIII, 210-2), De Gen. ad litt. 2, 17, 35 (PL XXXIV,
278), CD 4, 30 (che esordisce: “Cicerone, pur essendo augure, schernisce le di-
vinazioni…”), 5, 4 (la celebre questione della diversa costituzione e sorte dei
gemelli Esaù e Giacobbe in Gen. 25, 25) e particolarmente ‘De fato’ in Quaest.
ex utroque (PL XXXV, 2347-59); da Pico, Disputationes allo stesso More, 235.
L’azione (= le cause) che esercita il cielo (= gli astri) sulla terra, come si sa
(142.1; v. n. 142.1-4), può essere di tre tipi:
1. universale: il problema della liceità delle previsioni qui non si pone, perché
si tratta di cause certe; altrimenti sarebbe anche vietato prevedere che do-
mani sorgerà il Sole;
2. contingente: analogamente dicasi per questi eventi che oggi diremmo alta-
mente (im/)probabili, per cui il ‘pronostico congetturale’ è lecito in medi-
cina, agricoltura e per la navigazione (v. 144.14, teste Tommaso, Opusc., De
judiciis astrorum [THOM III, 594]);
3. libera: queste sono le cause che fanno problema, perché implicano la vo-
lontà umana, la quale è una funzione della ‘mens’ (= l’anima). Secondo
Tommaso (3SCG, 85) l’uomo è composto da corpo, spiriti e anima (C. inve-
ce si approssima di più al dualismo ‘res cogitans’ [= corpo+spiriti] e ‘res ex-
tensa’ [= anima]); ebbene, gli astri hanno un’influenza:
• sul corpo: “directe et per se”, cioè lo plasmano (ad es. il sole ci scalda);
• sugli spiriti, cioè le facoltà inferiori: “directe sed per accidens”, renden-
doci proclivi a certe passioni: “vediamo infatti che i frigidi sono di costu-
mi pigri e ottusi, i caldi iracondi, i malinconici cogitabondi; perciò il cielo
e le medicine mutando le qualità generano le passioni” (Rhet. IV IV, p.
761);
• sull’anima “indirecte et per accidens”: anzitutto, in quanto nessun corpo
materiale può lasciar tracce ‘dirette’ su un ente spirituale (come un sigil-
632 LA CITTÀ DEL SOLE

lo sull’acqua); e in secondo luogo perché ciò che è “per accidens” (cioè


non è un ente), non ha una causa;611 tuttavia può lasciar tracce “indirec-
te”: “indirecte” significa che le stelle offrono delle occasioni (142.32),
esteriori (es. l’assenza del Sole provoca il freddo e quindi spinge a riscal-
darsi) o interiori (stimolando le passioni), che però “l’uomo con la ragio-
ne può assecondare o contrastare” (144.2-3), “sebbene le passioni del-
l’appetito irascibile abbiano una certa forza d’inclinare la volontà”.
Il cielo, dunque, per i Tommasi, ha un’azione diretta limitatamente alla fisiolo-
gia (carne e spiriti), così come agisce sulla terra, l’acqua e l’aria; sull’anima in-
vece non agisce direttamente, ma solo indirettamente e accidentalmente:
• indirettamente, perché è l’azione sugli spiriti che può condizionarla;
• accidentalmente, perché l’anima (con le funzioni superiori dell’intelletto e
della volontà) può liberamente assecondare o soggiogare le passioni indotte
dagli influssi astrali – e C. ha sperimentato personalmente la forza della vo-
lontà umana (158.12; v. n. 158.9-34).
Di norma però gli uomini si lasciano sopraffare dalle passioni, perciò la maggior
parte delle predizioni sono veritiere. Invece i sapienti resistono a queste inclina-
zioni, come dice Tolomeo: “l’uomo saggio domina gli astri”.612 C. ricalca le stesse
orme: i fenomeni celesti “son cause esecutive in parte delle cose naturali… ai
corpi umani son cause universali realmente e direttamente, ma delle arbitrarie
azioni umane son cause dispositive, e per accidente e indirettamente. Vero è che
la plebe a queste cause, vivendo sensualmente, per lo più si soggetta. Li sapienti
di tali cause si serveno, non si soggettano. Li santi a tali cause commandano in
virtù del Creatore. E questa dottrina si cava dalla santa Scrittura, da San Tomaso
e da tutta la vera filosofia umana” (Disc. Cometa, p. 66; v. anche n. 140.2).
In conclusione: alla domanda “an liceret iudiciis astrorum”, S. Tommaso ri-
sponde “non bisogna temere i segni del cielo, tuttavia il diavolo, per perderci,
si intromette nelle opere di quelli che si occupano di astrologia giudiziaria”; e
comunque “pro certo tenendum est, grave peccatum esse, circa ea quae a vo-
luntate hominis dependent, iudicio astrorum uti” (Opusc. XXII: ‘De jud. astr.’).
Pure C., dal canto suo, plaude al provvedimento papale: il Papa ha fatto bene a
vietare l’astrologia, anzitutto ai sacerdoti: attribuendo virtù fatali agli astri si ri-
schia l’idolatria; poi ai sapienti: non si può prendere per certo quel che è dub-
bio, se non proprio falso; quindi ai prìncipi: dar per scontato il probabile può
metter a repentaglio la stabilità dello stato;613 e infine a tutte e tre queste cate-

611
Ad es.: c’è una causa se un uomo è bianco, nero ecc.; c’è sempre una causa se è musicista,
marinaio ecc.; ma non c’è nessuna causa del fatto che sia un musicista bianco, “perché tale
aggregazione per natura non costituisce né un ente né un’unità”, ma un composto acciden-
tale.
612
Sul noto aforisma del Centiloquium cfr Gregory, p. 313sg, e Gregory 1996, p. 17.
613
Come si diceva all’inizio, è qui adombrato il motivo profondo, che in un papa, come Ur-
bano VIII incline alla superstizione, fece scattare l’interdetto, e cioè un uso a dir poco spre-
giudicato (v. n.144.27-146.2) dell’astrologia giudiziaria; un accenno già più esplicito in un
passo parallelo di Quaest. phys. XXVIII I, p. 259: i pontefici condannano “chi se ne serve per
COMMENTO AL TESTO 633

gorie, in quanto si lede il libero arbitrio. Ma i pronostici congetturali non lo le-


dono, e infatti furono autorizzati dal Concilio Tridentino, regola IX, che vieta-
va solo quelli certi (lo ribadiscono con chiarezza i commentatori della ST in
Pia., come il De Vio [t. IX, p. 237v-r]). “At Sixtus V vetuit etiam prognosticum
coniecturale [con la Coeli et terrae nel 1586]. Non quia nobis negat coniecturas
concessas a Physicis et Theologis, sed negat themata coelestia, natalia, et ex-
temporanea ad certos eventus, quoniam perniciosa sunt conscientiis et Reipu-
blicae… At Urb. 8 vetuit etiam non odo et coniecturales figuras Astrologicas,
sed etiam si fiant aut teneantur aut dicantur, etiam cum protestatione et recita-
tive, ut si dicat: hoc dicit Astrologia, sed ego non credo, et protestor me non
credere” (Quaest. phys., p. 239-40). Pur continuando a praticarla anche ad altis-
simi livelli,614 C. ha capito, come rilevava Ernst 1991 (p. 279), che quella batta-
glia era persa, perché la decisione di Urbano era una decisione ‘politica’
(Ernst 2002 cit. in n. 144.16-21): prima che false, sono dottrine pericolose
(144.20) che fanno osare ai prìncipi azioni che turbano lo stato (146.1-7).

142.28: liberarbitrii
Il ‘libero arbitrio’ in cui credono i Solari di T.158.13 è solo lessicalmente ugua-
le a quello di cui si parla qui; Amerio 1969 ha appunto mostrato l’evoluzione
del credo campan. su tale questione: C. nasce molinista,615 in seguito diventa
un tomista rigoroso,616 e nell’ultimo decennio della sua vita, quando la rifles-
sione sul tema assorbirà quasi tutte le sue energie (il che spiega anche l’esten-
sione di questa aggiunta di P.), ritorna molinista, seppur con qualche lieve di-
stinguo. Schematicamente la posizione di Molina e S. Tommaso su grazia e pre-
destinazione è la seguente:
TOMMASO: premesso che “si parla di libero arbitrio rispetto a quelle cose che
uno vuole non per necessità, ma spontaneamente” (1SCG, 88), Dio produce
ogni specie di causa, comprese le cause libere, perciò la volontà umana è dono
divino; il peccato originale ha dannato l’intera razza umana, per cui l’onni-
scienza divina ha trascelto apriori chi si doveva salvare, con un criterio inson-
dabile per la nostra debole ragione, ma comunque non ingiusto, perché, con il
Peccato appunto, il destino dell’uomo era segnato.
MOLINA: il libero arbitrio, in quanto decisione autonoma dell’uomo, prescinde
dalla catena causale divina; Dio chiama tutti alla salvezza, e lascia ognuno libe-
ro di aderire o meno alla sua chiamata.

profetizzare la morte certa di un uomo, specie se di rango, arrecando gravi sconvolgimenti


nello Stato”.
614
Lo prova l’oroscopo al Delfino (Lerner, p. 83-4) – per tacer dei riti magico-astrologici pra-
ticati con e per lo stesso Papa (v. n. 146.7-20).
615
Luis de Molina, gesuita spagnolo, è autore di un Concordia liberi arbitrii cum gratia divina
(1588).
616
Nella seconda metà di agosto del 1598 a Stilo “scrive cinquanta articoli contro il gesuita
spagnolo Luis de Molina, contrapponendo al molinismo la teoria della predestinazione se-
condo San Tommaso” (Giancotti, p. LVIII).
634 LA CITTÀ DEL SOLE

All’altezza di Civitas la posizione di C. è sintetizzabile in due punti:


• ci sono due predestinazioni: una per grazia divina, cui siamo chiamati tutti,
ed una seconda per merito individuale (per inciso, qui vi è anche la divari-
cazione col pelagianesimo, secondo il quale invece Dio prima sceglie chi
sarà beato, e poi gli procura i meriti); la predestinazione universale salvifica
è una Sua liberalità, che dopo il Peccato originale, richiede una predestina-
zione particolare in base ai meriti e demeriti, i quali “tuttavia non sono la
causa della predestinazione, che c’era già per tutti, ma della permanenza
nella predestinazione e dello scadere da essa, che si chiama riprovazione.
Dunque la riprovazione è nella volontà conseguente [umana], mentre la
predestinazione è nella volontà antecedente [divina] e nella volontà conse-
guente. In questo modo si salvano tutte le sentenze di tutti i Padri… Infatti
la predestinazione è un condurre alla gloria mediante i mezzi: fra gli altri
mezzi si trova la nostra libertà, che Dio non viola: dunque dalla libertà di-
pende l’effetto della predestinazione” (Theol. I [II, pp. 235 e 243]);
• ponendosi in una prospettiva eterna (cioè divina), dove non esiste più il pas-
sato e il futuro, ci si accorge che è solo dal nostro erroneo e limitato punto
di vista che diciamo che Dio ‘predestinerà’ o ‘predestinò’: “tolti di mezzo
questi vocaboli non rimane più nessuna difficoltà per accordare la predesti-
nazione e la provvidenza col libero arbitrio… Se infatti non si dà futuro o
passato in Dio, si dovrà dire ‘predestina’ o piuttosto: ‘destina’, perché nel-
l’eternità non c’è neanche futuro. E predestina quando la cosa è, né prima
né dopo, e quindi simultaneamente colle opere e con noi… Dunque dob-
biamo senza dubbio procurare di essere predestinati, perché questo avviene
non prima di noi, ma simultaneamente con noi” (Theol. I [II, p. 353-5]: v. l’e-
sempio del centro occhiuto di un cerchio a n. 10.19); quel che è e resta un
arcano, per C., non è la decisione divina a monte, ma quella umana di ade-
rire o meno alla Sua chiamata.617
Per quanto poi riguarda la causa libera, a 142.1 si proclama Dio reggitore del-
l’intera catena causale; a tutti i generi di causa, infatti, Egli dà “essere, forma e
virtù”, ma, mentre predetermina l’azione delle cause naturali, invece affida la
messa in atto di quelle libere alla decisione dell’uomo. Orbene, carattere pro-
prio del libero arbitrio “è di muoversi da se stesso e non di essere mosso dalle
cause seconde (quanto alla causa prima è un’altra questione)” (Theol. IV (II, pp.
111 e 123); perciò esso è appannaggio esclusivo dell’uomo, non in quanto ente
qualsiasi, ma “ut particulare ens est (intellige)”, ente speciale perché ‘libero’, at-

617
Forse potrebbero esserci echi platonico-agostiniani in questa teoria della predestinazione:
se il male è corruzione della vita felice, senz’altra causa che il nulla, esso non può essere co-
nosciuto se non in quanto ente sconosciuto; quindi Dio non prevede e dunque non prede-
stina nessun male, perché il niente, non potendo appunto esser conosciuto, non può esser
predestinato; e infine, essendo Dio fuori del tempo, non ha senso parlare di eventi futuri da
Lui pre-conosciuti e predestinati (queste tesi furono sostenute nel De praedestinatione liber di
Giovanni Scoto Eriugena: cfr l’ed. crit. a c. di E. S. N. Mainoldi, Firenze, Ed. del Galluzzo,
2003).
COMMENTO AL TESTO 635

to cioè “ad volendum et operandum” (Quaest. Eth. II I, p. 27), e che pertanto di-
venta soggetto etico. Perciò, all’obiezione topica che all’onniscienza di Dio non
sfugge nulla, e dunque, qualunque sia la nostra scelta, Egli la conosce già in anti-
cipo, per cui: a) non siamo davvero liberi; b) Dio è sommamente ingiusto, sa-
pendo e perciò predestinando chi alla salvezza e chi alla perdizione eterna; a ta-
le obiezione, dunque, C. risponde così: A) Dio non ci costringe servilmente, “sed
paternaliter, idest ad imaginem patris; nam homo blasphemat Deum et aliquan-
do odit” (Quaest. Eth. II I, p. 24; v. n. 158.9-34); B) il libero arbitrio si configura co-
me autonoma elezione del bene, e spesso la scelta del male deriva da un’errata o
precipitosa valutazione del vero bene (“perché con meno fatiga l’acquista et più
presto” [Epilogo, p. 513]). Perciò fare il male non deriva dal libero arbitrio, che è
un Suo dono, ma, come sappiamo, deriva dal Nulla, che non appartiene a Dio:
“unde radix peccati remota est Nihilum ex quo nati sumus” (Quaest. Eth. II I, p.
29-30). “Dunque agli atti fisici Dio muove l’anima e tutte le cose fisicamente; agli
atti volontari Dio muove metafisicamente e liberamente così che l’operazione di
Dio nell’anima e coll’anima aumenta piuttosto che togliere la libertà. Dunque la
volontà può anche contraddire a Dio, ma questa possibilità è un difetto ed ema-
na dall’impotenza che Dio non sopprime. Perciò S. Anselmo insegna giustamen-
te che la potenza di peccare non è parte del libero arbitrio e non viene data da
Dio (ché sarebbe qualcosa che egli non ha, ed è a lui opposta), ma deriva dalla
partecipazione del nulla” (Theol. I [II, p. 211]). Negare la libertà è un sofisma pu-
ramente verbale analogo al paradosso di Zenone, che negava il moto, “et Alvis
ait: ‘Tu dici motum non dari labia movendo’. Sic nemo potest neque libertatem
negare nisi libertate” (Quaest. Eth. II I, p. 26; idem Theol. I [II, p. 205]). E per
giunta negare il libero arbitrio ha conseguenze nefaste per la società: “fa li prìn-
cipi tiranni e traditori, imitatori d’un tal Dio, e di più fa li popoli sediziosi, per-
ché, sapendo essi, che Dio li fa far male, dicono che non ponno osservare la leg-
ge, ma che peccano per fato e fanno ogni poltroneria escusandosi con Dio: e se
non in pubblico, per paura, in segreto almeno: o negano Dio” (Disc. Princ., p.
140).618

142.36-144.3: Cum ergo… et dissentire.


Per quanto riguarda il contesto generale, passi paralleli si trovano in Senso, pp.
226 e 268, Astrol., p. 4; in Quaest. phys. XXIV IX, App., p. 236 si legge quasi un
commento di questo periodo: “Cum enim ait D. Thom. 3 Cont. Gent., sidera di-
recte agant in corpora et in sp[i]ritum sensitivum corpulentiae alligatum et or-
ganis; unde succedit voluptas, ira, timor, et aliae passiones, a quibus mens or-
gano non alligata accipit notiones et affectiones sensibiles, quibus potest per
suam libertatem assentire et dissentire, et operari secundum illas et contra”.
Walker ritiene che la distinzione anima/spirito in C. è molto aleatoria, con ov-

618
Così anche Cons. aph., p. 139; su libero arbitrio e predestinazione cfr anche Theol. XVIII (I,
p. 101sg); Theol. I (II, p. 11-21); e R. Amerio, Introduzione alla teologia di T.C., Torino, 1948, p.
13.
636 LA CITTÀ DEL SOLE

vie conseguenze per il libero arbitrio: “dobbiamo ricordare che lo ‘spirito’ di


C., come quello di Telesio, rappresenta le funzioni del percepire, del conosce-
re e del desiderare, ed è realmente un doppione lievemente inferiore dell’ani-
ma e della mente da cui differisce quasi soltanto per il fatto che è corporeo.
Così gli influssi planetari sullo ‘spirito’ possono in alto grado determinare il ca-
rattere della mente” (p. 249; v. Mon. Messiae XIII cit. in n. 140.2; per gli spiriti
animali v. n. 44.23 e n. 64.13).

142.37: indirecte et per accidens,


Questo passo intendeva segnalare un parallelismo (‘come il Sole invita…, così
gli astri agiscono indirettamente…’), fondato sul presupposto che il libero ar-
bitrio è immune da influssi siderali, i quali invece marcano il corpo e le sue
funzioni psico-fisiche inferiori. Ma a questo punto il parallelismo cessa e diven-
ta una possibile interdipendenza, perché, se è vero che l’anima non è raggiun-
ta direttamente dalle forze astrali, è però sensibile alle informazioni e passioni
provenienti dai suoi terminali organici; perciò ‘indirettamente e accidental-
mente’ può risentirne, anche se comunque a lei e solo a lei spetta la decisione
finale di assenso o meno (v. n. 142.28).
Il traduttore moderno di S. Tommaso rende ‘per accidens’ in due modi distinti,
seppur non distanti tra loro: causa “indiretta”, e “senza intrinseca necessità, ma
come fatto contingente” (ST I, 115, 4, 83 e 85); è un modulo linguistico diffusis-
simo nelle Summae, spesso accompagnato dal suo contrario ‘per se’ (= “di prima
intenzione” [Firpo 1954, p. 1340]; “formale” [ST I, 115, 4]), ma in alcuni casi, co-
me ad es. ST I, 115, 6: “le due espressioni sono pressoché intraducibili”.
L’origine della coppia oppositiva ‘per se’/‘per accidens’ risale alle traduzioni
latine di Aristotele, Phys., 186b come lo troviamo cit., ad es., da Telesio: “In due
modi diversi si dice che l’ente agisce o patisce, per se stesso e accidentalmente”
(III, 5: “«Ens» inquit [Aristotele] «pati aut agere bifariam dicitur, per se et per
accidens»”).

144.10: iustum bellum


Una guerra “perché sia lecita richiede tre condizioni. Prima: che sia giusta, de-
stinata, cioè, a vendicare le offese fatte alla comunità o al genere umano o a
qualche cittadino di insigne merito o a Dio, oppure miri a resistere agli invaso-
ri, anche se hanno la giustizia dalla loro parte. La seconda condizione è che la
guerra venga condotta con intenzione retta, non allo scopo di far bottino… La
terza condizione è che la guerra sia ordinata dal principe” (Theol. X [I, p. 127-
9]). Una delle tre condizioni di liceità della guerra, è dunque la sua ‘giustezza’:
Poetica XIV enuncia “quante volte la guerra è giusta e da giuste cagioni mossa”,
e cioè “quando un uomo tiranneggia il suo paese… il diffendersi da color che
ci averan per ambizion ingiusta guerra mossa… sovvenire agli oppressi che vi
chiamano… sovvenire alli confederati oppressi” (p. 356).619

619
Cioè la stessa casistica di 66.10-3, che è rinvenibile altresì in Poët. VIII IX, 6; Theol. XI, p.
COMMENTO AL TESTO 637

Se per Agostino le guerre giuste sono semplicemente quelle “non empie né ini-
que” (CD 4, 15), in effetti la loro ‘giustizia’ (14, 10) era soggetta a una detta-
gliata casistica, come si evince dalla Summa de casibus: “Nota quod quinque exi-
guntur ad hoc ut bellum sit iustum, scilicet persona, res, causa, animus et auc-
toritas” (in: SD VII XXVIII).

144.12-5: Divus Thomas… astrologiam,


Oltre a quelli indicati in nota (144.28-9: ST I, 115, 4 e 3SCG, 85), a cui C. si rifà
spessissimo,620 gli svariati luoghi tomistici dedicati a un argomento così scot-
tante sono elencati sotto l’art. 4 della ST I, 115.
Per l’esclusione di agricoltura, medicina e nautica cfr Opusc.: ‘De judiciis astro-
rum’ (cit. a n. 142.25-144.11); accenni anche in: ST II-II, q. 95, a. 1 e 1Sent.
(THOM I, 102), dist. 38, q. 1, a. 5. E del resto è la stessa Bolla papale ad esenta-
re dal divieto le tre arti.
Già Cicerone considerava le congetture elaborate da queste tre categorie di
artigiani del tutto estranee alla divinazione: “Multa medici, multa gubernato-
res, agricolae etiam multa praesentiunt, sed nullam eorum divinationem vo-
co” (De div. I, 112); Virgilio dedica ampie sezioni delle Georg. (I, 204-86 e 351-
462) all’influenza degli astri in agricoltura (con accenni alla nautica); con-
cetto ripreso puntualmente da Giamblico (Misteri III, p. 163); Agostino, Epist.
LV, 15, (PL XXXIII, 211); SN XV LIV (“Ex libro de Praesagiis tempestatum”).
L’antichissima ‘medicina astrologica’ (sistematizzata da Galeno, Sui giorni cri-
tici) si basa sulla posizione della Luna al momento dell’inizio della malattia
per determinare prognosi e anche indicazioni chirurgiche; Garzoni ricorda-
va che essa si fonda tra l’altro “sopra l’astrologia (tenendo considerazione
delle lune e de’ tempi buoni e cattivi da salassare e da dar le medicine)”
(XVII, p. 280); Ristoro d’Arezzo: “noi vedemo la coniunzione de stelle inu-
medire l’aere e mutare in pluvia (e questo è manifesto, e specialemente a li
marinari che usano lo mare)” (II, 5, 8); Pico: “Non c’è bisogno di parlare del-
la medicina, dell’arte nautica, dell’agricoltura: ad esse non solo [l’astrologia]
predice il futuro, ma volge ai fini terreni le forze del cielo” (I, p. 45); 621 Ma-
gini, 6r (cit. in n. 108.9-10).
Navigazione, agricoltura (tra i compiti dei sacerdoti solari vi è quello di stabili-
re i giorni adatti ai vari lavori nei campi [108.9-10]) e medicina quali arti in cui
normalmente si fa ricorso a previsionalità celesti, sono spesso menzionate nel-

173; Disc. univ. aggiunge: “contra li fautori d’eretici e d’infideli” (XII, p. 1144); e Mon. Mes-
siae: “quando iniuria afficiuntur ipsi, magis autem si populus, possunt bellum inferre” (XVII,
p. 81).
620
Ad es. Astrol. VII I, 1, 3; 2, 1 e 6; Mon. Messiae XIII, cit. in n. 140.2; Disc. Cometa, p. 66 cit. in
n. 142.25-144.11; Titoli: “Ci sono anche in cielo i segni di venti e pioggie, e delle qualità cor-
porali dell’uomo nascente, come prova san Tommaso nel 3 Contra Gent. e Tolomeo nel 3
Quatripar., et altri, e tutti questi son segni naturali” (p. 290).
621
Sul tema ritorna svariate volte: I, pp. 285, 299-305, 323, 337 e III XIX è intitolato ‘Perché i
marinai, i medici, i contadini, predicano il vero più spesso degli astrologi’.
638 LA CITTÀ DEL SOLE

le opere campan.: Astrol.: “neque enim agricola et nauta et medicus oraculis et


miraculis utuntur, sed physica peritia” (p. 2); Metaph. XVI X, II (III, p. 305);
Quaest. phys. XXVIII I, p. 259; Disp. in Bullas, p. 262.

144.16-21: qui… periculosa.


‘Conjectura’ è correntemente utilizzato da Tommaso, come sinonimo di cono-
scenza ipotetica versus certa, che è invece “cognosci in causis suis” (De Malo, 16,
7); spesso legata all’astrologia (ST II-II, 95, 1) o alla divinazione, in alcune for-
me non è peccato.622 La distinzione fra congettura (ipotetica) e pronostico
congetturale (certo) è fatta “per salvaguardare il libero arbitrio” (Crahay, p.
223): non si possono fare previsioni date per certe, in specie (come dirà poco
sotto) riguardo la sorte di papi, principi ecc.
Nella Disp. in Bullas, fingendo di “replicare alle critiche di ipotetici avversari, fa
di tutto per fornire un’interpretazione mitigata, denunciando il rischio che si
possa dire che il papa mostri maggior rigore contro gli astrologi che contro gli
eretici e gli scismatici, e che abbia più a cuore il proprio interesse personale e
della propria famiglia che il bene comune. Consapevole che la messa al bando
dell’astrologia rappresenta una condanna tutta politica, C. afferma che la sag-
gezza del padre comune può condannare, con le dottrine false, anche quelle
pericolose, in grado di provocare turbamenti analoghi a quelli dell’anno pre-
cedente, quando pronostici vani e superstiziosi riguardanti il papa e la chiesa,
spregiudicatamente diffusi e utilizzati dai politici e dai principi avevano susci-
tato gravi disordini” (Ernst 2002, p. 214-5).

144.24-5: Arbace… Archelao,


La risposta dell’Ospitaliero è la sintesi di un passo di Disp. in Bullas: “Astrologi-
smo usus Arbactes, et Belochus regnum Sardanapalo abstulerunt. Exempla alia
et quid Emilianus et Agatocles et Drusus eclipsis occasione fecerunt, taceo” (p.
267-8).623 Machiavelli ricordava che gli antichi capitani erano afflitti anche dal-
la superstiziosità della truppa: “s’egli scurava il sole o la luna… era interpretato
da’ soldati sinistramente, e generava in loro tanta paura… E però gli antichi ca-
pitani, tosto che un simile accidente nasceva, o e’ mostravano la cagione di es-
so e lo riducevano a cagione naturale, o l’interpretavano a loro proposito” (VI,
p. 592).
ARBACE: “Quando Arbace, prefetto della Media, insieme con Beloco, satrapo di
Babilonia, si sollevarono contro Sardanapalo, ultimo re d’Assirii, per astrologia
guidati, benché nella battaglia prima perdessero, s’animaro con le stelle, pro-

622
“Accipere conjecturam ab avibus, vel avium motibus, vel aliorum animalium, non est pec-
catum” (in Isaiam 2, 2, 86 – questo testo, forse ignorato da C., perché appartiene all’ediz.
Leonina, ha però il vantaggio di esprimere concisamente quello che Tommaso trattava diste-
samente nel De sortibus, 5).
623
Sempre, e solo, i primi tre nominativi, “et alii”, ‘tentati dagli astri’, in Quaest. phys. XXIX
IX, p. 240.
COMMENTO AL TESTO 639

seguiro l’impresa e vinsero” (Mon. Fr., p. 474);624 la fonte è Diodoro: Arbace,


della Media, “pieno di virtù e coraggio era prefetto delle truppe che si manda-
vano alla città di Nino”; divenuto amico di un caldeo, questi gli predisse che egli
sarebbe diventato imperatore a posto di Sardanapalo; allora, prendendo a pre-
testo la corruzione del sovrano, si mise a capo di una sollevazione, ma venne
sconfitto tre volte, e, ferito, decise di tornarsene a casa. Ma “Belese [il caldeo],
stando la notte per la campagna, osservando i corsi delle stelle predisse a colo-
ro, che partirsi volevano, come fra pochi giorni erano per muoversi genti di lo-
ro proprio volere a venir loro in aiuto, e che le cose loro erano per andare mol-
to meglio. E che gli Dei per mezzo delle stelle questo dimostravano” (II, 7 [I, p.
98-9]). E infatti la sorte si capovolge, il re è assediato e, sconfitto, in seguito si uc-
cide; e così l’impero degli Assiri durato 14 secoli fu rovesciato dai Medi.
AGATOCLE: è il tiranno di Siracusa (317-289 a. Cr.), che fece una spedizione in
Libia e fu sul punto di conquistarla (Plutarco, Pyr. 14, 10); “Agatocle si valse di
un’eclissi per incoraggiare i soldati a passare in Africa” (Rhet. IX I, p. 839); “Ali-
quando ex credulitate… fiducia elati aggrediuntur sedulo quod sperant; sic…
fecit Agatocles ex Lunae eclipsi Carthaginem navigando” (Disp. in Bullas, p.
264). Diodoro, dopo aver narrato i vari prodigi che avevano accompagnato la
nascita di questo tremendo tiranno (XIX [II, p. 161]), racconta dettagliata-
mente anche di questa spedizione contro i Cartaginesi, durante la quale seguì
“un tal oscuramento di Sole, che si poteva fermamente dire, che fosse venuta la
notte, perché si vedevano per tutto lucere le stelle. Là onde giudicando le gen-
ti d’Agatocle, che per fino dal cielo gravi pericoli loro si minacciassero, si tro-
vavano di quanto doveva succedere molto maggiormente nell’animo loro tra-
vagliati”, e invece l’eclisse (15 agosto 310) ad Agatocle sembrò di felice augurio
e infatti sconfissero l’armata cartaginese (XX V [II, p. 251]).
DRUSO: “Si valse di un’eclissi” anche “Druso contro le truppe ribelli, alle quali
disse che la luna si rattristava per colpa loro” (Rhet. IX I, p. 839);625 allude a
Giulio Cesare Druso figlio di Tiberio, inviato in Pannonia a domare la rivolta
delle legioni, il quale si servì astutamente di un’eclissi di Luna avvenuta la not-
te del 27 settembre del 14 d. Cr. e che aveva lasciato interdetti gli ignari solda-
ti, per riprendere in mano il controllo della situazione (Tacito, Annales I
XXVIII).
ARCHELAO: tra i tanti personaggi storici con questo nome, qui è in causa il re
dei Macedoni (dal 413 al 399 a. Cr.), di cui narra Seneca: questo re era talmen-
te digiuno di cose astronomiche, “che un giorno in cui si verificò un’eclisse,
egli fece chiudere il suo palazzo e, come si usa per un lutto o una calamità, fe-
ce tagliare i capelli a suo figlio” (De Beneficiis V VI, 3-5); e Seneca finge che So-
crate gli avrebbe spiegato il mistero tutto fisico dell’evento (secondo Beauvais,

624
Subito prima aveva parlato del “re di Suecia” (v. n. sg); l’episodio è tradotto da Art. proph.
XVII, p. 270 e Disp. in Bullas, p. 268; un cenno in Mon. Sp. I, p. 6.
625
Insieme ad Agatocle è nominato anche in Poetica, XVII, p. 373, e prima ancora nel perdu-
to Del governo ecclesiastico.
640 LA CITTÀ DEL SOLE

SH III LXII, che pure riporta l’aneddoto senechiano, Archelao “et vestem lugu-
brem induerit, putans mundum defecisse”).

144.26-7: in aliquo… prognosticon,


C. tornerà spesso a interrogarsi su “chi sarà de’ regni cristiani che ha da con-
gregar tutto il mondo sotto una greggia e un pastore… Poi che Ticon errò,
pensando che fosse uno duca di Finlandia, che fu poi re di Suecia: già ch’i Tur-
chi e gli eretici son esclusi nella sacra Scrittura, se non come disposizione”; la
nuova stella di Cassiopea “portava il suo effetto nel 1632”, quando Gustavo “po-
se ruina e scompiglio nell’Imperio austriaco, e proprio da Finlandia, come
quarant’anni avanti avea stimato Ticone grande astronomo, nella cui predizio-
ne posta nelli Progimnasmati troppo fidato il Re non si credea poter essere ucci-
so” (Mon. Fr., pp. 380 e 400).626 In Quaest. phys., da quest’episodio argomenta-
va, sintonicamente alla conclusione dell’Ospitaliero: “Propterea mirificus Urb.
VIII prognostica de Papatu et religione arctissime inhibuit, tum quia non sub-
sunt astris nisi valde per accidens: de his autem quae per accidens fiunt non est
scientia” (XXIV IX, App. p. 237).
C. adotta il suo modello geo-eliocentrico (ma non riconoscendogliene il debito:
v. n. 114 [glossa] § 3), elogiandolo con qualche riserva: anche se rispetto a To-
lomeo e Copernico, “Tycho vero solertior et diligentior, sed minus ad iudican-
dum per percepta observataque idoneus, praeterquam stilo lutulento fluit, non
distincto resolutoque, qualis est in Copernico et Ptolemaeo” (Syntagma IV VI).

144.27-146.2: in pontifices… decepti.


Tra i tanti pronostici infausti sul destino della Chiesa,627 sospetti di aver avuto
effetti destabilizzanti, molti sono quelli senz’altro noti a C., come il De eversione
Europae prognosticon [1534] di Antonio Arquato,628 medico ferrarese, su cui
Cantimori 1975 (da cui attingo queste notizie) diceva di star preparando uno
studio per il Warburg Institute: “esso rientra in una sottospecie di pronostici
criticati dal Nifo: quelli che prevedono grossi e gravi cambiamenti in seguito al-
le congiunzioni in Piscibus”, interpretato anche “come pronostico che, preve-
dendo che avvenisse ciò che si desiderava avvenisse, predisponesse alla Rifor-
ma” (p. 170). In esso si dice, per gli anni 1526-7, che “veniet ex septentrione

626
Cfr anche Disp. in Bullas, p. 268; ‘Ecloga’, 169, 120-3: “E quella città meravigliosa, che
prende il nome dal Sole e che invano ambisce edificare il re di Svezia…”, così annotata da C.:
“Il re di Svezia, ingannato dalle lucubrazioni astrologiche di Ticone, si credette chiamato ad
erigere la Città del Sole, da me descritta in un mirabile libretto”.
627
Il plurale “pontifices nostros” può esser segnale di genericità/maestà [= il papato], oppu-
re di molteplicità di Papi coinvolti, alcuni dei quali certamente recenti (da Sisto V a Urbano
VIII).
628
Si tratta di un rifacimento ‘post eventum’ dell’ignoto originale del 1480, intitolato Prono-
stico divino fatto dello anno 1480 al sereniss. Re d’Ungheria delle cose che succederanno fra i Turchi et i
Cristiani, et della Revolutione delli Stati d’Italia, indirizzato appunto al re Mattia Corvino e ripe-
tutamente tradotto e ristampato nel Cinquecento.
COMMENTO AL TESTO 641

heresiarcha magnus” [= Lutero], Roma sarà espugnata dall’esercito dell’impe-


ratore, il Papa fuggirà o sarà fatto prigioniero, i cardinali saranno perseguitati
e spogliati e “ad pristinam paupertatem reducti”; Garin 1961, p. 484 riferisce
anche di una “rara stampa” del Judicium eversionis Europae, in cui si reputa che
“horum [= sacco di Roma e Lutero] causam esse debere eclypsim factam in do-
mo religionis”.629
C. ha menzionato spesso Arquato altrove: Mon. Sp.1, p. 25; Mon. Sp. IV, p. 26;
Art. proph., da p. 75 a p. 285 dodici volte; Mon. Fr., p. 326; Quod rem. 2, 3 (p.
1221): “Un astrologo ferrarese scrisse che nella presente epoca il clero rovi-
nerà nell’avarizia e nell’ambizione e non avrà più cura alcuna delle cose spiri-
tuali; ma certo questa profezia egli non la dedusse dalla considerazione degli
astri, ma… mosso da malevolenza”; nell’‘Ecloga’ al Delfino, citandolo in un fit-
to elenco di testi profetali, muterà opinione: “Dopo il flagello degli eretici e dei
Turchi, Antonio Arquato e Cardano aspettano una rinnovazione del secolo,
che deve essere effettuata in questo tempo da un grande eroe, secondo i segni
predetti e la grande congiunzione nel primo trigono” (169, 20 Esp.). Altre pro-
fezie di tenore analogo (cioè molto infauste per la Chiesa) le aveva pronuncia-
te Paolo Scaligero, anche lui inserito nell’‘Ecloga’ tra le autorità profetali non
contrastanti le Bolle pontificie, il quale prevedeva che dopo un periodo di di-
sastri per il clero e i cattolici, alla decima età “surgent autem duo viri, quos nul-
la vis obruere poterit, hi restaurabunt veri puri Dei cultum. Decimo quidam
imperator, cui universum mundum morem geret… Unitatem Ecclesiae cele-
brabit, Concordia, Pax… Machometistae convertuntur ad Christum, sancta
item terra vera religione dotata recuperabitur” (Scaligerus P., IV XV, 169r-170v
[‘De futurorum decem seriebus’]).
Ma nella cerniera fra i due secoli si andarono addensando proprio le divina-
zioni pro- o anti-papali, com’è testimoniato da Paolo Sarpi nell’Istoria dell’Inter-
detto, che narra le paure, le cautele e i consulti di astrologi sentiti da Paolo V
nel 1605-6 in seguito alla predizione di un astrologo fiammingo, che diceva
che doveva succedere a Clemente VIII un Leone, poi un Paolo che sarebbero
morti in breve tempo. E in effetti in Art. proph. nomina spesso (cinque volte;
ma anche in Lettere, pp. 63-4, 97) uno degli autori della raccolta di Giovannini:
l’abate Giovanni, che C. chiama “Ioannes Episcopus”, “profetizzò che dopo il
papato di Clemente VIII si sarebbero manifestati” i segni celesti del ritorno di
Cristo,630 “in quo ego vi fatali Deo urgente illa consideravi, alio in papatu ma-
nifestaturus, prohibitus sub Clemente loqui” (p. 66-7). Di questa edizione fu-
rono censurati i brani alludenti alla prossima venuta dell’Anticristo, e alla com-
parsa dei segni celesti (Ernst 1977, p. 66), ma qualcosa era rimasto (leggibile),

629
Bologna, Nani, circa 1493; Firpo 1954 dice del Pronostico che “se ne possiede una stampa
s.l. con la data del 1480, ma impressa invece ‘post eventum’ nel 1536”; cfr anche Vasoli 1977,
p. 21-5 per la bibl. sul profetismo millenaristico tardoquattrocentesco.
630
“Saranno i segni del Sole e della Luna, quando si creerà l’uomo forte sopra tutti i Princi-
pi” (XXIX); “Et si rinoverà il volto della Chiesa, in questo tempo sarà conculcato l’Antichristo.
Et sarà nell’universo la fede, e la pace dell’Altissimo” (XXX).
642 LA CITTÀ DEL SOLE

perché C. scrive: “Beatus Ioannes episcopus… in proximo papa post Clemen-


tem 8 ponit signa in Sole, et Luna et Stellis, et casum Antichristi, et aureum sae-
culum sub monarcha quodam universali, et nullum deinde papam; at Beatus
Aegidius franciscanus [Egidio Polono, altro autore della miscell.] ponit duos
subinde papas, et ibi finem” (Art. proph., p. 254).631
Quanto sopra per i Pontefici passati (nulla di inedito: a Pico, leggendo in Se-
neca che “ogni anno gli astrologi annunciavano che Claudio sarebbe morto…
sono venuti in mente i nostri profetastri che, anch’essi, seppelliscono ogni an-
no il Romano Pontefice” [I, p. 167]). Ma C. ha vissuto in prima persona una se-
rie di gravi eventi recentissimi, che, dietro lo schermo dell’astrologia, sembra-
no far sospettare una macchinazione mortale contro l’attuale Papa.632 Scritta a
Roma nell’ultimo trimestre del 1631 (Firpo 1940, p. 109), Disp. in Bullas spiega
i motivi politici reali, prima che dottrinali, che hanno indotto Urbano VIII a
proibire, “prognostica de vita et morte Pontificum et de statu Ecclesiae”, per-
ché falsi e pericolosi insieme (144.20-1): pericolosi, in quanto “nessuno ignora
quanti disordini si preparavano l’anno scorso in seguito a vaniloqui di astrolo-
gi e a menzogne di quei superstiziosi che pronosticavano sulla vita del Pontefi-

631
Morto Clemente VIII il 3.4.1605, il pontificato di Leone XI durerà 17 giorni; e nel settem-
bre del 1606 C. scrive al nuovo Papa, Paolo V: “Seppi ancora ch’al clero soprastà gran pro-
cella di sangue e sarà ruina nel papato, e poi surgerà un papa divino ed altri spiriti buoni e
ch’averan lo spirito santo manifesto come gli apostoli, e convocheranno il mondo tutto ad
una legge, e li turchi e settentrionali correranno alla fede vera; ed assai altre cose di ciò e del-
l’Anticristo”; tali ferali pronostici, oltre che da congiunzioni astrali, gli provenivano da prati-
che rivelatesi diaboliche, come avrà il candore di confessare allo stesso Papa: “or son tre an-
ni, avendo interrogato il demonio che si facea angelo e dio, e compariva ad una persona da
me instrutta a pigliar l’influsso divino [= Felice Gagliardo: v. n. 112.20-30]… di Roma disse
ch’al 1607 il pontefice perderà gran parte d’autorità, e che alli 1625 sarà scisma di due pon-
tifici, e si struggeranno l’un l’altro ed abbasseranno il papato assai. Poi sarà fatto un papa da
gente meschina e povera e poca, fuor di Roma, fiacco e di valor languido, e questo poi in bre-
ve sarà spento: e qui finirà tutta la pontifical dignità e ‘l senato di cardinal sarà annichilato”
(Lettere, p. 39).
632
E indirettamente contro di lui? Può darsi che l’amicizia e i favori del Papa per C. avessero
suscitato invidie e gelosie, sufficienti a renderlo un personaggio scomodo alla Curia; a pre-
scindere dal suo passato, forse C. sapeva troppo, e non si tratta solo di erudizione come par-
rebbe dalla lettera-denuncia del 1635 (v. infra); o forse scalpitava troppo: la prodigiosa asce-
sa da eretico conclamato alla soglia della porpora cardinalizia, per aver abbindolato Urbano
VIII con un Comment. sfrontatamente adulatorio e con pratiche magiche, aveva allertato i
due Niccolò, Ridolfi e Riccardi, che, in quanto ‘Domini canes’, “credettero opportuno met-
tere il Vicario di Cristo in guardia contro le trovate estrose di fra’ Tommaso” (Spini, p. 55).
Per gli anni romani di C., cfr: Amerio, Di un punto meno noto del periodo romano del C., in ‘Rivi-
sta di filosofia neoscolastica’, XXIV [1932]; M. Miele, Un opuscolo inedito ritenuto perduto di T.C.
Il De praecedentia religiosorum, in ‘Archivum Fratrum Praedicatorum’, 52, 1982 (p. 267-
323), per i suoi rapporti, che non furono sempre burrascosi, con il generale dell’ordine; For-
michetti, p. 17-8, e Formichetti 1993, p. 114-7 (ripresi e rifusi in Formichetti 1999, p. 218sg)
s’interroga se l’“insidiosus frater” cui allude Syntagma I IV sia il Ridolfi o il Riccardi – è que-
st’ultimo, secondo Ernst 2003, p. 32 –, ma dando per certa la mente organizzatrice: il “cardi-
nale nipote” Francesco Barberini.
COMMENTO AL TESTO 643

ce e sullo stato della Chiesa; e quanti animi sconfortati, quanti entusiasti… e


quanti cardinali in seguito a ciò vennero a Roma; e tutti sanno che principi ma-
lintenzionati sono soliti ricorrere a false profezie per istigare la plebe, e fo-
mentare guerre, sedizioni, scismi” (p. 267-8). Ernst 1991 (p. 274-9)633 narra
gl’intrighi politico-astrologici ai danni di Urbano VIII, iniziati nell’autunno del
1606 (Politici, p. 138) e culminati nell’arrivo dei cardinali da tutta Europa, con-
vinti che al papa restasse poco da vivere; il papa, irato, ordina di perseguire se-
veramente i colpevoli di questa congiura del Palazzo più che del cielo, e nell’a-
prile del 1631 emette la Bolla Inscrutabilis, in cui condanna sia l’empia curiosità
per i misteri celesti, sia l’arroganza di volerli spacciare per sicuri, “con disprez-
zo di Dio, turbamento dello stato e pericolo dei principi”. Come scrive Ernst
1997b: a C. “pienamente consapevole che la messa al bando dell’astrologia è
stata una condanna tutta politica, non resta che accettare il fatto che la saggez-
za del padre comune possa condannare oltre alle dottrine false, anche quelle
pericolose” per la sicurezza dello stato (p. 310).
Ed ecco come C., al sicuro in Francia, racconterà quei fatti, che lo videro coin-
volto a vario titolo, in una celebre lettera-denuncia a Urbano VIII del 9 aprile
1635 dove svelava tutte le trame ordite a danno della Chiesa da Niccolò Ridol-
fi. Tutto ebbe inizio, “quando io ero carcerato per il palazzo del Santo Offizio,
il Rodolfi [sic], essendo maestro del sacro palazzo, mi visitava spesso, solo per
l’astrologia… [Una volta] mi venne con certi giudìci [= pronostici] fatti d’altri
sopra la vita di Vostra Beatitudine che dicean ch’a settembre del 1628 avea a
morire. Io li provai che non era vero, e feci uno scritto contra; poi vedendo lui
che avevo accertato [= indovinato], mi mostrò la sua natività”. Firpo 1954 attri-
buisce al maggio 1628 la dettatura di “una confutazione astrologica alle voci di
nuovo correnti sulla imminente morte di Urbano” (p. XCI). Ma già nel settem-
bre del 1626 “Urbano VIII giaceva infermo e conturbato dalle diffuse predizio-
ni della sua morte imminente” (Firpo 1940, p. 98 – e da questa circostanza nac-
que il VII libro di Astrol. con tutto quel che seguì a C. [v. n. 142.25-144.11]). Al-
la metà del 1628, dunque, C. stilò per il futuro generale del suo ordine un oro-
scopo, che venne studiato da altri astrologi, i quali “conclusero ch’avea da esser
papa per un satellizio in occidente… e questo l’ha fatto baldanzoso, come il
pronostico di Ticone al re di Svezia chi [= che] non credea poter esser vinto né
morire. Si fece colleggio fra tutti astrologi di Roma, quando io ero infermo, in
Santa Prassede, con intervento di Ludovico Rodolfi [sic] e del [Padre] Mostro
[= Niccolò Riccardi] e suo compagno [= fra Raffaele Visconte], il qual promet-
te il papato al Rodolfi ed al Mostro, un dopo l’altro. E perché chi ne sa assai di
quest’arte, ci crede poco, e chi poco, assai; essi s’ingolfâro nella credenza che
Vostra Beatitudine avesse a morir l’anno [16]30 in febraro, non ostante lo scrit-
to ch’io avevo fatto in contrario nel Santo Offizio”, spargendo così tanto la vo-
ce che a Napoli la successione era data per certa (si noti il collegamento con la

633
E ancora: Ernst 1996c, p. 138; Ernst 1997, p. 477; Ernst 1997a, p. 64-5; Ernst 1997b, p. 303-
11.
644 LA CITTÀ DEL SOLE

predizione fallace di Brahe, come in Civitas). Formichetti 1993 riporta il con-


tenuto di un dispaccio del 20 ottobre 1629 del Residente di Modena conte di
Molza: il Papa, stupito delle “opinioni [di] coloro che predicavano dovesse mo-
rire in questo mese”, ordina a un cardinale incontrato per caso nei giardini di
Castel Gandolfo “che lottasse seco, con minaccia che se non adoperava tutte le
forze che aveva, se ne pentirebbe, per che voleva far prova delle proprie delle
quali restò sodisfatissimo” (p. 117). L’imbarazzante ‘affaire’ si chiuse confinan-
do in provincia, per penitenza, l’incauto astrologo fra’ Raffaele, e “con il pro-
cesso e la morte in carcere dell’abate di S. Prassede” don Orazio Morandi, “con
sospetto di veleno”634 – il convento era “uno dei centri più attivi di pronostici e
conciliaboli, nel quale le pratiche astrologiche si intrecciavano agli intrighi po-
litici” (Ernst 1997a, p. 64). “Del resto in questi anni il clima della corte pontifi-
cia è certamente saturo di tensioni e di forti preoccupazioni. Anche all’interno
dello Stato della Chiesa esisteva un forte dissenso nei confronti della gestione
urbaniana: la feroce tassazione, che aveva chiamato alla contribuzione perfino
gli ecclesiastici, per irrobustire l’esercito, aumentava i contrasti con gli Spa-
gnoli sospettosi delle mire espansionistiche del papa verso il Regno di Napoli”
(Formichetti 1999, p. 223).
Nella stessa lettera C. allude a un secondo fatto analogo: nel dicembre 1633,
ammalatosi il papa, Ridolfi “con [il cardinale] Borgia ed altri fecero di notte il
novo papa”, adducendo “dicerie di streghe e di sante finte e d’astrologi mossi
per un ecclisse [sic] che si facea sopra la direzion del sole di Vostra Beatitudi-
ne”, scomodando addirittura “li cardinali di Spagna per far novo papa” il Ri-
dolfi; ma “io scrissi contra quelli, e come l’arte è fallace ed essi pur l’ignorava-
no. Perché Mercurio interregnante era in favor di Vostra Beatitudine” (Lettere,
p. 284-8 – ed “eclipsis non salubris” sono appunto in causa a 146.10). C. ritor-
nerà su questo secondo e più grave episodio in varie occasioni;635 limitiamoci
all’ultima testimonianza, apparsa nello stesso tomo di Phil. realis che ospita Ci-
vitas: “cum pernicie Reip. etenim venere propter Astrologismum minantem
Pontifici mortem, Cardinales ab Hispania ad novum Papam eligendum anno

634
Ernst 2002, p. 214; cfr anche G. Ernst, Scienza, astrologia e politica nella Roma barocca. La bi-
blioteca di don Orazio Morandi, in: Bibliothecae selectae. Da Cusano a Leopardi, a c. di E. Canone, Fi-
renze, 1993 [p. 217-52]; B. Dooley, Morandi’s Last Prophecy and the End of Renaissance Politics,
Princeton U.P., 2002.
635
Ad es. in Mon. Fr.: “li Spagnoli dissero ch’il Papa si salvò da quelli influssi per aver usato
quel rimedio ch’il C. pose nel libro De fato siderali vitando… E si serveno di tossico e d’astro-
logia e d’incantesimi ancora, per far morire il Papa presente… come in Roma s’è scoperto, e
persequitaro con nova persecuzione il C.” (pp. 476 e 542); nell’epistolario vi sono altri ac-
cenni a “quel ch’han macchinato con gli astrologi contra la vita di Nostro Signore” (Lettere,
pp. 259, 267, entrambe, ingenuamente, al cardinale Francesco Barberini), e in Sensu (p.
217), la cui fugacità, par di capire, dipenderebbe sia dalla notorietà del fatto che dalla caute-
la: “Quae, mala ex prognosi, Romae accidère nemo ignorat”. Nessuno ignora, dunque, che
cosa è successo a Roma, per colpa di un cattivo pronostico. Ed è la gravità del sospetto (o del-
la calunnia) che induce alla cautela.
COMMENTO AL TESTO 645

1633, et omnes principes in Astrologismo confisi cogitabant novitatem facere


et movere. Saepeque accidit ut venenis et insidiis et bello appetant eos, quos
Astrologus morituros affirmat” (Quaest. phys. XXIV IX, p. 24). C. allude qui ad
un uso perverso dell’astrologia, che doveva esser diffuso all’epoca, come rileva-
va Bonifazio Vannozzi: “per non parere di dire cose del tutto a vento, certo è
che per accelerar la morte di qualche Imperadore Romano, si serviva alcuno di
sparger voci che le stelle promettevano il principato a taluno che essi conosce-
vano atto a dover, con sì fatto pretesto, insurgere contro al dominante, et acce-
lerar a se stessi la successione, con l’acceleratione della morte di lui” (Della sup-
pellettile…, Bologna, 1609, p. 97). Dunque il bersaglio reale dell’invettiva cam-
pan. più che i ‘ciarlatani’, sarebbe la strumentalizzazione ‘propagandistica’
(documentata da Cantimori 1975, p. 169-74) dell’astrologia, asservita agli intri-
ghi dei “principi”, che, come scriveva in Disp. in Bullas su cit., “sono soliti [= so-
lent]” ricorrere a queste pratiche per sommosse e congiure di palazzo (v. n.
sg).636

146.7-20: Imo… dissolvantur.


‘Sul modo di evitare il fato siderale’ è titolo del VII libro di Astrol., dove (II IV)
si era già occupato ‘De eclipsium indicationibus et affectione’, e nel capit. suc-
cessivo delle comete. Le eclissi solilunari sono anche accompagnate da pianeti
che fungono da ‘qualificatores’, alcuni dominanti, altri non dominanti secon-
do una meticolosa casistica e gerarchia: un’eclisse è evento infausto quando il
dominatore è Marte o Saturno, fausto quando lo è Giove o Venere (Astrol., p.
83-5).
I rimedi contro gli influssi negativi dell’eclisse, invece non dovettero essere no-
ti a C. prima del 1625, perché non ve n’è traccia prima di Astrol. VII IV, I, p. 11-
3 ‘De vitandis malis ab eclipsis imminentibus’ (quello che divenne, non per vo-
lontà dell’Au., il VII libro di Astrol., fu scritto nel 1626; i primi sei nel 1613-4).
Quando è imminente un’eclisse negativa, e che sparge “semina tibi pestifera in
aëra [sic]”, bisogna fare sette cose: vivere secondo ragione (cioè non assecon-
dando le ‘inclinazioni’ istintuali) e in stato di grazia, pregando Dio; chiudersi
in casa, sigillandola e aspergendola di “aceto rosaceo, et aromatum odoribus”
facendo bruciare il lauro, il mirto, il rosmarino, il cipresso e altri odori (Apol.
ad lib., p. 315: “legna di terebinto, di alloro, di mirto”): la purificazione dell’a-
ria è il rimedio più efficace;637 vestirsi di seta bianca e addobbare la casa “ramis

636
Secondo Walker la predizione astrologica fu una montatura ordita per colpire la sua poli-
tica filofrancese (p. 240-6 – e così Yates 1981, p. 405); Ernst 1991 (p. 255-79) ricostruisce ‘Dal-
la Bolla «Coeli et terrae» alla «Inscrutabilis»’, e di converso Spini sostiene che la persecuzio-
ne per “colpa delle mene degli invidiosi” è una versione di parte “sicuramente non disinte-
ressata” e che “non regge gran che ad un esame critico” (p. 52-5), come quello di A. Eszer,
Niccolò Riccardi, ‘padre Mostro’ (1585-1639), ‘Angelicum’, LX, 1983 (p. 428-61), secondo il qua-
le C. sarebbe stato manipolato da due confratelli di Riccardi; su Ridolfi, infine, cfr M. Miele,
Un opuscolo… su cit.
637
“Che l’aceto, le acque distillate odorose e i profumi aromatici e i fuochi purifichino la ma-
646 LA CITTÀ DEL SOLE

faelicibus [sic]” (Apol. ad lib., p. 315: “con drappi tersi e candidi, per contrasta-
re l’oscurità dell’eclisse”); accendere due candele e cinque fiaccole, che funga-
no da sostituto dei Luminari e dei pianeti, così come la lucerna di notte sosti-
tuisce il Sole (v. n. 8.38-40, n. 148.21-3): tali fiammelle, in cui brucino essenze
aromatiche, vanno sospese in alto, disegnando invece a terra approssimativa-
mente il cerchio zodiacale; circondarsi di amici, che, grazie al loro oroscopo,
non siano colpiti da quell’eclisse, e con essi conversare lietamente di cose con-
trarie a quelle minacciate dall’evento astrale; farsi accompagnare da una “mu-
sicam iovialem et veneream”, sempre per fugare gl’influssi malefici; e infine
circondarsi di pietre, piante, colori, odori e sorseggiare liquori, le cui corri-
spondenze astrali siano contrarie all’eclisse. Queste procedure vanno eseguite
tre ore prima e tre ore dopo il sinodo planetario, “quando i luminari e pianeti
angolari patiscono… affinché quanto è negativo nell’aria esterna risulti positi-
vo entro la stanza grazie ai loro sostituti” (Apol. ad lib., p. 331).
Il significato e lo scopo di queste pratiche magiche, desunte dal De vita coelitus
comparanda ficiniano (Astrol. VII, p. 13 rinvia anche a Metaph. e Medicina per
quanto riguarda appunto ‘il modo di regolare la vita secondo gli influssi cele-
sti’), era di sostituire “il mondo celeste esterno che, per l’eclissi, si deteriora; i
cieli reali si sono guastati e dunque costruiamo noi stessi un altro piccolo, nor-
male, indisturbato cielo propizio”, operazione possibile, perché basata non più
sulla cosmologia aristotelica che prevedeva un cielo quintessenziale, bensì su
quella telesiana, in cui la sostanza dei cieli era costituita da fuoco o, addirittu-
ra, dopo le ultime osservazioni astronomiche, dai quattro elementi. E inoltre
quelle pratiche possono essere considerate “come un atto di culto, o almeno di
riverenza, indirizzato alle stelle viventi, identificate con gli Angeli”; in pratica,
“i riti magici di C. intendevano operare in due modi nello stesso tempo: in
quanto modello in miniatura dei cieli e in quanto cerimonia religiosa indiriz-
zata agli angeli dei pianeti e, anzitutto, al Sole-Angelo… Lo scopo principale
della sua magia era pertanto preventivo; nella stanza sigillata le torce e le can-
dele rappresentavano un normale, indisturbato mondo celeste, che doveva bi-
lanciare gli effetti della realtà esterna” (Walker, pp. 240-1, 255-9, 266). Se di
‘magia’ si deve parlare, comunque la ‘magia’ qui in causa è, secondo C., quella
“vera”; “la filosofia occulta” che “i Persiani chiamano magia” è di due tipi: “una
vera a cui ricorrono filosofi, re e principi, applicando le cose attive a quelle pas-
sive e le cose celesti a quelle terrestri; un’altra falsa, che ricorre ai demoni con
patto espresso o tacito”, qui assente (Apol. ad lib., p. 317).638
“È pressoché certo” che Urbano VIII, in occasione delle nefaste eclissi del 1626
e del 1628 quando alcuni astrologi cominciarono persistentemente a far circo-

lignità dell’aria, e dissolvano o tengano lontani i semi della pestilenza e degli influssi nocivi,
lo provano tutti i medici: soprattutto Marsilio Ficino… nel libretto Sulla peste [Consilio contro
la pestilenza], dove allega tutti i medici che concordano su questi punti” (Apol. ad lib., p. 317).
638
Per la ‘magia naturale’ v. n. 10.35-6, n. 28.24-30.5, n. 148.21-3; per la superstizione diabo-
lica v. n. 146.24-6.
COMMENTO AL TESTO 647

lare predizioni di una sua prossima morte (il papato è sotto l’egida del Sole),
avesse chiamato C. per attuare questi riti propiziatori;639 e dai rapporti diplo-
matici di quegli anni risulta che spesso il Papa e C. si chiudevano ermetica-
mente in una stanza, celebrando “riti notturni con candele accese” (Walker, p.
240). Perciò, una volta apparso l’inopinato De siderali fato vitando, “tutti poteva-
no leggervi quanto si vociferava già da tempo fosse accaduto nelle stanze del
Quirinale”, svelando le pratiche astrologiche di un Papa acerrimo persecutore
dell’astrologia.640 Tutta la questione (intrighi di curia, pratiche magico-astrolo-
giche, ecc.) è ancora piena di molte ombre, tanto che non è chiara nemmeno
la vicenda editoriale di Astrol.: secondo Grillo (Questioni campanelliane, Cosen-
za, 1961), la stampa del VII libro di Astrol. fu fatta a Roma da Brugiotti; Formi-
chetti 1999 ritiene che l’intera Astrol. fu stampata a Roma: “Per colpire C., Ri-
dolfi e Riccardi fanno in modo che il De siderali sia stampato ed anzi costituisca
l’ultimo libro di quell’opera astrologica che C. aveva inviato a Lione per la
stampa. Danno quindi incarico ad Andrea Brugiotti, stampatore della Reve-
renda Camera Apostolica, di mettere sotto i torchi tutta l’opera compreso il
trattatello che aveva suggellato l’amicizia tra C. e Urbano VIII. Così viene fatto:
nel frontespizio figura, però, lo stemma dello stampatore lionese [Prost] per
evitare sospetti, e il libro, fresco di stampa, è dato al papa” (p. 221). Tale ipote-
si a Ernst 2003 “non sembra sostenibile, e sarebbe suffragata da un solo passo
campanelliano, che allude a una stampa a Roma di notte: ma tali cenni sem-
brano volti, più che a sostenere una stampa nell’urbe, a denunciare le respon-
sabilità tutte romane dell’edizione dell’opuscolo, ad opera dei due domenica-
ni con la complicità dell’infido editore Brugiotti, che ebbero cura di far perve-
nire il testo a Lione, per farlo annettere ai libri astrologici una volta venuti a sa-
pere che erano in corso di stampa” (p. 33-4; sul testo degli Astrol. cfr anche
Guerrini).
Comunque sia, con quell’abile mossa ‘editoriale’ i due Niccolò (a capo del par-
tito filospagnolo della Curia) volevano forse sbarazzarsi di due presenze varia-
mente ingombranti: a) far cadere in disgrazia C. agli occhi del pontefice; b) ed
essenzialmente, falliti i tentativi di spaventarlo ‘a morte’ con le predizioni
astrologiche sventate da C., indebolire Urbano VIII, che non aveva mai celato
la sua avversione alla Spagna, minandone l’autorità e la credibilità col divulga-
re i suoi riti magici.
Ma C. subì anche in prima persona eventi, causati, secondo lui, dall’influsso
delle eclissi: nessun dubbio che comete, grandi congiunzioni ed eclissi che

639
Firpo 1940, p. 98; Yates 1981, p. 405; Ernst 1991, p. 272-3; Formichetti 1999, p. 218-20.
640
“Molto versato nell’astrologia la proibì agli altri”, annotava in quegli anni G. Gigli, Diario
romano (1608-70), Roma, 1958, p. 253, cit. da Ernst 1991, p. 218n; cfr anche Formichetti (p.
12-4), Formichetti 1993 (p. 115) e Formichetti 1999 (p. 223-30); grazie a quelle pratiche
magiche, “liberato dalla paura di morire, Urbano VIII… si convinse che C. non era eretico
affatto. Il processo si chiuse pertanto nel 1629 con un proscioglimento completo” (Spini, p.
54-5).
648 LA CITTÀ DEL SOLE

avvengono nei luoghi afetici possono mutare o addirittura troncare un’esi-


stenza (“vitae cursum mutare, aut truncare”), come quella particolare confi-
gurazione astrale (l’ingresso di Saturno in direzione del Sole e di Venere in
Bilancia nel 1599), che gli costò la detenzione in carcere “annis quindecim,
necdum finis” (Astrol., p. 206 – e ne occorreranno quasi altrettanti prima di
vederne la fine). Invece nel 1607 ci fu un’eclissi solare, con certe caratteri-
stiche astrali a lui così favorevoli che “secuta est eductio de ferro, et carceris
fossa, et dona, et pecunia multa a proceribus, et auxilia” (Astrol., p. 87 allude
evidentemente alla liberazione dall’“orrida fossa” di Sant’Elmo). Ma l’eclissi
veramente determinante per il suo destino C. l’aveva anche prevista, senza
però poterla raccontare: “nel maggio [1639] le configurazioni astrali… gli
preannunciano grave pericolo, connessa all’eclisse prevista per il 1° di giu-
gno; caduto malato, invano tenta di scongiurare con riti propiziatori… il
malefico influsso” e il 21 maggio spira nel convento parigino (Firpo 1954, p.
XCIX).641

146.15: aceto roseo


Rosaceo o rosato è l’aceto in cui sono stati posti a macerare petali di rose
[GDLI], che serve generalmente come stimolante o tonificante: contro la fatica
o il caldo Ficino esorta a “bagnare le mani e ‘l viso con molta acqua rosa e po-
co aceto rosato” (Vita sana II VII, p. 77; per la sua funzione anti-epidemiale cfr
il Consiglio contro la pestilenza, cap. VIII).

146.17-8: iovialem musicam


Medicina (p. 60-1) consiglia l’uso di musica solare (“musica apollinea”) per rin-
vigorire lo spirito dei melanconici e nel V libro ci sono vari articoli (III-VI [pp.
261-82]) dedicati alle corrispondenze fra i pianeti e il resto delle cose (celesti,
umane, animali, vegetali, pietre, colori, sapori, odori…), ma nessuna allusione
alla musica – cosa doppiamente strana, perché è in causa tutta la gamma sen-
soriale. Di ‘iovialia’ generici si riparla anche a proposito della cura per l’atrabi-
le (p. 348: “Adsit musica, res laetae, ludi nullius attentionis et omnia venerea et
iovialia”). Per C. “l’accordo musicale non è determinato dalla semplice razio-
nalità matematica di due o più onde sonore o di due corde vibranti, ma è una
qualità interamente relativa, determinata dalla conformità dei suoni musicali
ad un dato genere di spirito”; poiché non aveva conoscenze musicali, e poiché
era negata “l’identità di proporzione fra suono musicale ed i cieli… la musica
non poteva agire che ponendo, in modo assai generale e incerto, il soggetto in
una condizione ‘spirituale’ e fisica adatta a ricevere un influsso planetario, e
poteva forse purificare l’aria” (Walker, p. 262-4).

641
Flamigni, p. 249-50 descrive le pratiche magico-astrologiche per evitarla, ma invano; Yates
1981, p. 405 dice che furono le stesse che aveva adoperato per il papa; cfr O. Pompeo Fara-
covi, Sull’oroscopo di C., ‘B&C’ III/2 (1997, p. 245-63).
COMMENTO AL TESTO 649

146.24-6: sed obstat… superstitionem.


“L’avversario potrebbe dire: anche se… i liquidi e i fuochi sono utilizzati in mo-
do medicinale per correggere l’aria e dissolvere i semi pestilenziali (i corpi in-
fatti influiscono in modo corporale, non spirituale)”, tuttavia “un solo fuoco
grande e una sola fiaccola o due” potrebbero lo stesso “produrre l’effetto desi-
derato: se ne richiedi proprio sette, ritieni che nel numero vi sia una virtù ope-
rativa che non possiede; allora incorri nella stoltezza; allora si tratta di una os-
servanza vana e superstiziosa; allora può intervenire il demone” (Apol. ad lib., p.
317-9). “Si ha superstizione quando affidiamo o sottoponiamo il nostro compi-
to o impresa ai demoni, ‘ut coquus ollam igni’, e non alle stelle” (Astrol., p.
213). La Bolla di Sisto V (II, 516) e la ‘IX regula’ dell’Indice del Concilio di
Trento (Index librorum prohibitorum…, Romae, 1596, p. 32) elencano in detta-
glio le pratiche superstiziose, fra cui invocazioni diaboliche “accendendo can-
dele, tributandogli sacrifici, suffumigi e ogni genere di rito sacrilego” (Ernst
1991, p. 255-6).

146.27-148.2: Profecto… superstitiose;


“In questa pratica il settenario non è posto in modo superstizioso, né in quan-
to significante, né in quanto causante. In primo luogo, perché si potrebbe ne-
gare che il numero non causi o concausi un qualche effetto, dal momento che
la dottrina di Pitagora, secondo la quale nei numeri è insita una specifica virtù,
non è mai stata condannata in alcuna costituzione dei pontefici e dei concilii…
Lo stesso si può dire di chi attribuisce la causazione al settenario, come insegna
S. Tommaso II IIae, q. 96, art. 2 al primo: dice infatti che non si tratta di super-
stizione, sia nel caso che si ritenga abbiano una virtù naturale, sia che la abbia-
no in realtà. E benché i sacri canoni, causa 2. 2, q.1, condannino coloro che ri-
pongono la speranza dell’effetto richiesto in un determinato numero di can-
dele o di orazioni, questo è vero quando si attribuisce a quei numeri un effetto,
il quale non può che derivare da Dio. Perciò se qualcuno dicesse che la messa
non è valida se non si accendono quattro o cinque candele, costui sarebbe dav-
vero superstizioso… [I censori] accusino allora Dio che ha fatto sette pianeti,
non noi uomini, che rappresentiamo i sette pianeti e cerchiamo di attrarre le
virtù loro: soprattutto dal momento che l’autore dichiara nel secondo libro di
collocare le virtù nelle cose numerate, non nei numeri, come Pitagora” (Apol.
ad lib., pp. 319 e 331).642
Giamblico, Vita [Theodoreto, XXIX, p. 14]: tra gli apoftegmi di Pitagora: ‘cunc-
ta decente numerum’ (a tutto si addice il numero), e la Tetractis, “quod nu-
merum quaternarium significat”, numero sacro su cui si fondavano i giura-
menti (XXVIII, p. 138); XII, p. 65: il numero nell’organizzazione del cosmo;

642
In quest’ultimo periodo prende le distanze da Pitagora, con cui invece ha sempre solida-
rizzato: Mon. Sp., p. 16: “i filosofi più saggi cercaro Dio nella natura, come Pitagora nelli nu-
meri, che sono ragione di Dio seminata nel mondo”; Antiven, p. 126: “li Pitagorici nella forza
de’ numeri, misure di Dio”, si basano per i loro pronostici (comunque v. n. sg).
650 LA CITTÀ DEL SOLE

XXVIII, p. 134: il numero nella teologia, desunta dagli Orfici: “Orphea… dixisse
numeri substantiam aeternum prorsus esse principium totius coeli terraeque”,
e ‘radice degli dei’; ‘divinità del numero dispari’: nel costruire i templi, Pitago-
ra stabilì che si doveva entrare da destra e uscire da sinistra: “ac dextrum qui-
dem locum, initium eius, quod in numeris impar dicitur, et divinum” (p. 142);
e nella divinazione: “Faciebat autem per eosdem numeros etiam admirabilem
praenotionem, et cultum divinum, iuxta numeros quam maxime cognatum”
(p. 135-6). A Pitagora attinsero sia Platone che Aristotele; rifiorì in età romana
– nei Theologumena arithmetica confluirono sincreticamente stoicismo e pitago-
rismo –, Filone e Clemente Romano la cominciano a usare nell’esegesi biblica
prima di Origene ed Eusebio (519D: nelle 7 vocali ebraiche è occultato il te-
tragramma divino), e fu poi Agostino a consegnarla al Medioevo cristiano, con-
vivendo con le parallele speculazioni cabalistiche. Tale pratica sarà ripresa, in
Occidente, a partire almeno dal Medioevo: “Wickersheimer ha fatto notare la
presenza, in mss altomedievali, di sfere associate ai nomi di Petosiride e Pitago-
ra: si tratta appunto di oracoli che si voleva predicessero il corso di una malat-
tia per mezzo delle lettere dell’alfabeto (al giorno del mese in cui la malattia
era iniziata veniva aggiunto un secondo numero dedotto dalle lettere che com-
ponevano il nome del paziente)” (Saxl, p. 49-50): e su tutti questi aspetti Celio
riporta fedelmente la testimonianza degli antichi (s. vocibus: ‘pythag-’); e G. Po-
stel, anche lui alla ricerca dei segni celesti e terrestri che preannunciassero la
prossima palingenesi, a metà Cinquecento compose a Venezia il De admirandis
numerorum platonicorum secretis,643 fondendo la tradizione platonica del Timeo e
della Repubblica con la cabbala ebraica.

148.2-3: nec… fundantur.


“Quando poi si utilizza un certo numero per la comodità dell’effetto, per il fat-
to che, se anche non causa, tuttavia concausa, non si tratta di vana osservan-
za… Così il medico dà al malato sette pillole e non quattro; anzi è normale ri-
correre ad un numero dispari senza superstizione, soprattutto quando si imita
la natura. Pertanto il fatto di utilizzare sette fiaccole, perché in tal modo con-
seguono un effetto più efficace al tempo dell’eclisse, non è superstizione, ma
un’osservanza fisica medicinale… Perché il terzo, il quinto e l’ottavo numero
della voce consuonano, mentre il secondo, il quarto e il settimo risultano dis-
sonanti? Nei numeri c’è pertanto una virtù, che non è quella di scaldare, che è
del calore; non di umidificare, che è dell’umore, né di altre qualità e corpi:
perciò [hanno] una propria virtù specifica, che non consiste solo nel distin-
guere le cose, ma nell’offrire anche determinate utilità” (Apol. ad lib., p. 319-
21). Ampia trattazione del nesso numerologia/medicina in Medicina IV, Senso,
p. 324-5; mentre in Epilogo, p. 441 si accenna alle trasformazioni delle membra
del corpo, alcune delle quali “si mutano, mentre altre ne eshalano et altre se
ne generano dal nutrimento”, mutamenti che avvengono “per lo più nelli set-

643
Des admirables secrets des nombres platoniciens, par. J.P. Brach, Paris, Vrin, 2001.
COMMENTO AL TESTO 651

tennarij et novennarij (numeri fatali)”, e probabilmente è sfruttando questa ci-


clicità naturale eptadica, che i Solari hanno scoperto il segreto dell’eterna gio-
vinezza (94.24-7).

148.4: Nulla superstitio:


Nell’Apologeticus ad libellum ‘De siderali Fato vitando’, buttato giù in fretta, per ar-
ginare la collera papale in seguito alla pubblicazione di Astrol. con il VII libro
(il De siderali appunto), C. cerca di dimostrare la non superstiziosità dei rimedi
contro astri sfavorevoli perché perfettamente naturali, e senza alcun ricorso al
demoniaco.644

148.6-7: Imo… crisibus.


Il concetto di ‘krìsis’ appartiene alla medicina ippocratica, ma fu resa celebre
dal De diebus decretoriis (= Sui giorni critici) di Galeno, in partic. il III libro dove
ipotizza un ritmo matematico preciso nel decorso delle malattie, rifiutando
però la tesi pitagorica di un’influenza dei numeri in sé, ma legandolo ai moti
celesti, specialmente lunari;645 e più in generale sulla corrispondenza astrolo-
gia-medicina si diffonde Medicina (a ‘De crisibus’ è dedicato praticamente l’in-
tero libro IV, in partic. il cap. ‘Correctio Iatromathematicae Hermetis et Gale-
ni’); Metaph. III XI, VIII, IV, e anche Comment., p. 769, la cui curatrice rinvia al De
diebus criticis di Nifo (Venezia, 1519).
Il problema dei ‘giorni critici’ era molto grave, per i riflessi immediati sulle te-
rapie e anche sugli interventi chirurgici, che richiedeva appunto competenze
astrologiche; Fracastoro fu il primo a dissociarsene, sebbene già Pico dicesse
che bisognava aver rispetto del Galeno medico “quando stabilisce quali sono i
giorni critici” (I, p. 337), ma non quando pretende di cercarne le cause occul-
te. Infatti, secondo Galeno (De diebus decretoriis IX III), vi è una duplice influen-
za: una dipendente dal Sole, che illumina la Luna; e l’altra dai segni zodiacali
attraversati dalla Luna durante il suo moto; nelle quadrature (cioè quando il
disco lunare è dimezzato) e nelle opposizioni (quando c’è Luna piena) muta-
no le condizioni dell’aria (rispetto ai segni la casistica è più varia; se ad es. nel-
l’oroscopo un infermo aveva le stelle propizie in Ariete, tutte le volte che la Lu-
na passerà in Ariete vi sarà un miglioramento nella malattia). Perciò sono criti-
ci il 7° e il 14° giorno della malattia, quando la Luna eccita delle crisi – saluta-
ri, se la malattia è benigna, mortali se è perniciosa. In questo modo Pico sinte-
tizza la posizione galenica; ma lo fa proprio “per mettere in guardia, perché la

644
V. n. 146.7-20, n. 148.21-3, n. 149.4 [f.p.], n. 148.30-1 e n. 150.3; cfr Ernst 1991, pp. 21 e
273; Ernst 1997b.
645
Donde l’importanza del numero sette: “Il momento di maggior pericolo nelle malattie si
ritiene si verifichi nei giorni multipli di sette, e soprattutto quei giorni più pericolosi degli al-
tri che i medici chiamano ‘krisìmoi’ cadono alla fine della prima, seconda e terza settimana”
dice Gellio, III, 10 sulla scorta di Varrone proprio a proposito “della potenza e influenza di
quel numero”. In Astrol. (p. 218) C. però scrive che i giorni critici vanno calcolati non in ba-
se ai numeri, ma agli aspetti (v. n. 42.31).
652 LA CITTÀ DEL SOLE

sua autorità non induca ad accogliere una superstizione… Del resto questo
processo di sette in sette noi lo osserviamo anche altrove nelle opere naturali,
dove non v’è sospetto alcuno di influssi lunari o solari, come anche nei periodi
delle malattie, quando – come scrive Avicenna – mentre le acute sogliono ter-
minare il settimo giorno, le croniche invece nel settimo mese… Io non appro-
vo quelli che danno a questi numeri un significato superstizioso, ma dico che il
corso della natura si compie in genere così, non a causa delle costellazioni con-
nesse a tali tempi, che non si trovano, ma per proprietà e condizioni nascoste
di quelle cose nelle quali ciò in genere si verifica” (III XVI [I, p. 323-49]).

148.8-9: omnia… mensura,


Sap. 11, 21, versetto citato innumerevoli volte da C. (es. Epilogo, pp. 239, 242;
Apologia V VI; Theol. III), come innumerevoli sono le citazioni nelle Duo Summae
tomistiche o nel Super Genesim e CD agostiniani (da Dio “derivano ogni misura,
numero, peso e tutto l’esistente in natura” [CD, 5, 11]). Il caos diventa cosmo
attraverso numero, peso e misura, che non sono altro rispettivamente che la
specie, l’ordine e il modo, e derivano dalle primalità: “la misura infatti è la po-
tenza ad essere in tal grado. La specie è prole della sapienza, poiché sappiamo
mediante le forme o le informazioni o le ragioni. Il peso appartiene all’amore,
che gravita verso l’altro” (Theol. I [II, p. 125]).

148.9-15: et in… commendantur.


L’ermeneutica della profezia apocalittica implicita in questo brano costituisce
il nucleo portante di Theol. XXV cap. II, art. VI e cap. III: la pervasività del sette
nella Scrittura sta a indicare che “qui è nascosta la vera sapienza”; se Dio ha sta-
bilito il numero sette all’origine delle cose (“in exordio rerum”), questo ‘mar-
chio originale’ lo si deve ritrovare in tutto quel che è derivato da quella setti-
mana di creazione, ad es. i sette pianeti, ognuno dei quali avrà potestà su uno
di quei giorni: “Primum enim diem Solem, secundum Lunae… Unde Deus in
septem diebus dicitur mundum creasse, quos planetis dicat” (Astrol., p. 228; co-
sì anche Apol. ad lib., p. 325). Con questo catalogo di nove serie di sette ele-
menti (numeri fatali), C. vuol dimostrare di essere in grado di interpretare cor-
rettamente anche i segni del Libro di Dio (oltre che di quello della Natura): al-
ludendo ad Art. proph., scrive: “ostendi clavem scripturae sanctae et naturae per
septimanas creationis, secula mundi, aetates synagogae et ecclesiae et per sigil-
la, phialas…” (Syntagma I III; Lettere, pp. 155 e 193).

148.9-10: septem… mundi,


Crisostomo, De Iephte Homilia dice che le età del mondo sono sei come quelle
dell’uomo, perché sei sono i giorni della creazione: “sexagenarius iste sacratus
semper invenitur, eo quod per sex dies Deus constituit omnia quae in mundo
sunt, et sex aetates esse voluit, id est infantiam, pueritiam, adolescentiam, iu-
ventutem, gravitatem et senectutem” (I, 571B); invece De Billy, 340F correg-
gendo anche Damasceno, sostiene che non è vero che “septenarius numerus
(ut assert hic Damascenus) omne praesentis vitae tempus insinuat, quod…
mundus ipse ab exordio sui usque ad consumationem septem aetates complec-
COMMENTO AL TESTO 653

titur… Octonarius vero futurae resurrectionis significat diem, et aeternam re-


quiem, quae post mundi finem est futura”; infatti a 192IK aveva appunto ripor-
tato sia la teoria canonica dei ‘sette secoli’ del mondo (da Adamo a Cristo: “Oc-
tavum vero a consummatione seculi sempiternum durabit”), sia quella delle
‘sei età’, nella sesta delle quali Cristo ci ha redento “sicut et sexta die fuerat ho-
mo conditus”, e “septimum vero a die iudicii usque in sempiternum, perpe-
tuam beatorum requiem continet, quemadmodum septimo die requievisse
Deus” (C. inclina per la prima ipotesi: sei età ‘secolari’, la settima aurea e l’ot-
tava celeste, scandite in millenari: v. n. 116.6, n. 136.4-6).

148.11: in septem fialis,


Le sette ‘fialae’ sono le “ampolle dell’ira divina contro gli anticristiani” (Theol.
XXV, p. 71).

148.12-3: septem… Spiritus,


Per i “sette sacramenti”, cfr Tommaso, ST III, 65, 1: ‘Utrum debeant esse sep-
tem sacramenta’: “i sacramenti della Chiesa mirano a due scopi: a perfeziona-
re l’uomo… e a fornire i rimedi contro il peccato. Per entrambi gli scopi è op-
portuno il numero di sette sacramenti” (numero che per Tommaso rappresen-
ta la totalità: ST II-II, 102, 5). Ai sette doni dello Spirito Santo (Is. 11, 2-5) Am-
brogio collega i sette giorni della creazione e i sette pianeti: “anche secondo
quel settenario circuito di virtù spirituali… vediamo creato un certo ministerio
settenario di pianeti” (Epist. ad Hor. [PL XVI, 1136]); per Agostino (nell’Epist.
a Massimino cit. da Sisto, II, p. 118), “septem sigilla, septem sunt Spiritus Sancti
dona”; ST I-II, 68, 4: ‘Utrum convenienter septem dona Spiritus Sancti enume-
rentur’,646 raffigurati in BS (I, 745-6) proprio dalle sette “facies” del candela-
bro, in un’allegoria complessa illustrata da SH VII XIV: “sicut in candelabro
erant septem lucernae, septem infusoria et septem emunctoria… ita quod hoc
sermone dominico [= Discorso della Montagna] distinguntur tres septenarii,
quibus petuntur septem dona Spiritussancti, septemque virtutes et septem bea-
titudines. Per septem lampades intelliguntur septem virtutes quae lucent in ta-
bernaculo Ecclesiae sanctae coram Domino…” (v. n. 8.38-40, n. 8.41-2 e n.
148.21-3).

148.15: Augustinus,
“A causa della perfezione del numero sei si narra nella Scrittura che queste
opere sono state condotte a perfezione in sei giorni che sono il medesimo gior-
no ripetuto sei volte… Mediante il sei è stata indicata la perfezione del creato.
Il numero sei è infatti il primo ad essere compiuto dalle proprie parti, cioè la
sesta, la terza parte e la metà, che sono l’uno, il due e il tre e che addizionati
danno il sei… E in esso [sei] Dio ha compiuto le sue opere… Della perfezione

646
Evocato in Comment., p. 764 e Theol. XII II ‘Numero dei doni e loro connessione e dignità
in confronto con le virtù…’: dei sette doni, quattro appartengono alla ragione, cioè sapien-
za, scienza, intelletto e consiglio, e tre alle potenze appetitive, cioè fortezza, pietà e timore.
654 LA CITTÀ DEL SOLE

del numero sette si possono dire molte cose… È sufficiente ricordare che il pri-
mo numero totalmente impari è il tre e che il primo totalmente pari è il quat-
tro e che dai due per somma risulta il sette. E per questo spesso si usa nel sen-
so di un tutto. Ad es. si ha: ‘Il giusto cadrà sette volte e si rialzerà’, cioè ogni vol-
ta che cadrà, non si perderà… Per questo motivo col medesimo numero si in-
dica talora lo Spirito Santo, di cui il Signore ha detto: ‘Vi insegnerà ogni ve-
rità’… Lì è il riposo di Dio [‘il settimo giorno si riposò’]… nel tutto, ossia nel-
la totale completezza, sta il riposo, mentre nelle parti vi è fatica” (CD 11, 30-1
[tr. Gentili]; per questi e altri ‘loci’ agostiniani cfr Carena, p. 1303).

148.16: Hilarius
Tractatus super Psalmos CXVIII XXI, 5 (PL IX, 637): “‘Septenarius numerus’. Ac
non ambiguum est, cur laudis hic numerus sit. Haec enim eadem, vel in die,
vel in puero, vel in terra, vel in anno atque annis, sub sanctificatione hujus nu-
meri continentur: cum usque ad illam quinquagesimae aeternam requiem,
quod est sabbata sabbatorum, septenus numerus expleatur… Multa autem de
numeri huius sanctificatione sunt cognita: ut ipsa dierum constitutio, ut ange-
lorum throno Dei adstantium electio, ut spiritualium potestatum et requie-
scientium gratiarum in Domino plenitudo. Certe judicia justiciae Dei hoc in
numero laudari a Propheta convenit, per quem et in quo earundem justifica-
tionum virtus et constitutio continetur”.

148.16a: Origenes
“Che nei numeri siano insiti virtù e misteri lo insegnano spesso anche i teologi,
come Origene, che ovunque, e in partic. nell’omelia 2 sulla Genesi, nell’omelia
16 sul Levitico, nella prima omelia e nelle seguenti sui Numeri, si sofferma sul-
l’utilità e i misteri dei numeri” (Aphor., p. 321). In effetti nei luoghi cit. da Apol.
ad lib., Origene parla della virtù di altri numeri presenti nella Bibbia (quali le
dimensioni dell’Arca, ecc.). Del sette e del sei insieme, invece, ne parla In li-
brum Iesu Nave, Hom. X (221B): “Septenarius numerus legem significat man-
datorum. Senarius vero numerus, mundi huius tenet figuram”; chi è sapiente
delle cose di questo mondo, non può non incorrere nel peccato: “cum vero ad
septenarium numerum, id est ad legis scientiam, veneris, tunc require liberta-
tem tuam, et redi ad nobilitatem paternam”, ossia divina; in Comment. in Matth.
XIV (PG XIII, 1194): “Senarius ergo numerus operosus videtur esse et laborio-
sus; septenarius autem cessationem et requiem continere”; e ancora In Exodum,
Hom. XI (PG XII, 365), solo relativamente al “septenarius namque numerus le-
gem significare solet, pro multis septenarii numeri sacramentis”.

148.18: septenario
Città di 7 miglia di diametro (4.3), con 7 gironi (4.5), intervallati da circa 70
passi (4.24), e al vertice un Tempio con 7 lampade (8.38): il secondo numero
più diffuso in CS (v. n. 4.7-9) è già carico di valenze astrali (7 pianeti); a cui si
aggiungono quelle aritmologiche: il 1600 è anno cruciale, perché composto da
700+900 (v. n. 130.22-3, n. 148.9-15 e n. 160.1-2 § 2.2.2 punto b).
Per C. il sette, che, ortodossamente, simbolizza l’universalità (Mon. Messiae XII,
COMMENTO AL TESTO 655

45: “septenarium enim universitatem significat, ex Gregorio et Augustino”) è


“numero fatale”: politico, per le monarchie (Mon. Sp.1, pp. 24 e 39); medico,
per le febbri cicliche, le fasi critiche (Epilogo, p. 441), nonché le età dell’uomo;
astronomico: a proposito del nome dei sette giorni della settimana che deriva
dai sette pianeti, “questo valore del numero sette è tanto manifesto che non so-
lo i Giudei, ma un tempo anche Caldei, Egizi, Greci, Romani e tutte le nazioni
avevano la settimana… Anche i pitagorici che filosofano sui numeri lo prova-
no” (Theol. III, p. 191). Invece non ho trovato alcuna allusione al numero sei.
Una lista di teologi che ha trattato della simbologia dei numeri (oltre quelli ci-
tati qui e a proposito del candelabro: v. n. 8.41-2), è stilata in Apol. ad lib., p.
321: “Riccardo di S. Vittore, p. 1, lib. 2, tranne il cap. 5, rivela i nove significati
dei numeri, e molti altri nel patto del tabernacolo, e nella prima parte del lib.
2 Dell’educazione dell’uomo interiore, cap. 29, dice molte cose sul settenario. S.
Gregorio Magno nel commento a Ezechiele, in tutto il libro secondo, dove trat-
ta della costruzione del tempio, dice cose mirabili dall’omelia 13 fino alla 22.
Ma che il settenario designi la totalità delle cose l’ha affermato nell’omelia 33
sopra i Vangeli, e nella 34 aggiunge molte altre riflessioni filosofiche… San Gi-
rolamo nei commenti a Isaia e a Ezechiele, attribuisce ai numeri virtù forse
maggiori che non facciano i Pitagorici, i quali, a quanto affermano Calcidio e
Ficino, rivelavano i misteri dei numeri soltanto ai più religiosi. S. Ambrogio,
nel commento a Luca e nel libro su Noè e l’arca, rivela molti misteri e utilità dei
numeri” (per la bibl. ‘in extenso’ di questi teologi cfr Ernst 1997b, p. 332-3).
Ma già Girolamo, in Amos (PL XXV, 1037-8), dopo averne proclamata la santità
(“septenarium numerum esse sanctum, etiam sabbatum probat, in quo requie-
vit Deus ab omnibus operibus suis”), traccia una breve storia della fortuna pa-
gana del numero sette: Galeno, Ippocrate, il Timeo platonico e il Somnium Sci-
pionis ciceroniano (De Rep. VI, 12), ripreso da Macrobio, I V e II IV; e infine Gel-
lio, III, 10 che cita Varrone a proposito della pericolosità di questo numero. Al-
tri ‘bibliografi’ della numerologia sono Clemente Alessandrino, Strom. VI, 290-
1 (p. 810-4), Crisostomo, In caput Geneseos IV, Hom. XIX (138B), Isidoro, Liber
numerorum (PL LXXXIII, 184-8).

148.21-3: Imitantur… lucernas.


Anche le lucerne nel tempio si ispirano allo stesso ‘modello’ (8.37-42: v. n.
8.38-40 e n. 8.41-2), dettato dall’Autore della Natura e della Legge (Astrol., p.
231); dunque utilizzare sette fiaccole/pianeti è pratica “philosophica, non su-
perstitiosa, ut vulgus arbitratur” (Astrol. VII, p. 12), perché è un’operazione
(ana)logica (“di notte è la lucerna a fare le veci del Sole” [ib.; e così Apol. ad lib.,
p. 329]) e fisica: “che non sia superstizioso accendere le sette fiaccole per pur-
gare la malignità dell’aria nociva risulta anche dal fatto che tale numero corri-
sponde ai sette pianeti che, come insegnano i matematici e i fisici, e S. Tom-
maso conferma nel terzo Contro i Gentili…, soprastanno alle cose inferiori nel
circolo obliquo e inviano a noi le virtù, concentrate insieme, delle stelle fisse:
ogni forma, sostanziale e accidentale, e ogni moto è dal cielo, e ogni azione
reale deriva da un’azione reale del cielo: ogni azione intenzionale dall’azione
intenzionale del motore celeste” (Apol. ad lib., p. 323). L’intero filo logico è
656 LA CITTÀ DEL SOLE

dunque il seguente: notoriamente il fuoco serve a purificare dall’infezione


(astrale); allora, visto che “si devono accendere dei fuochi, è meglio imitare il
numero dei fuochi celesti che farlo…, come si dice popolarmente, ‘a capric-
cio’”, anzitutto perché si imita l’opera di Dio ispirata sempre a ‘numero e peso
e misura’; e perché si attrae “la virtù dai sette pianeti e dai sette angeli motori,
dai quali deriva ogni azione reale e intenzionale nel mondo inferiore”, respin-
gendo contemporaneamente “l’angelo malvagio che dirige contro di noi l’in-
flusso dell’eclisse” (Apol. ad lib., p. 323-5).
C. si preoccupa di fugare ogni sospetto di magia (non solo di numerologia, ma
anche di pratiche magiche legate all’uso di lampade, per le quali era stato re-
centemente attaccato da padre Niccolò Riccardi a proposito sia dei suoi esperi-
menti magico-astrologici col Papa, che di Astrol. [v. n. 144.27-146.2, n. 146.7-20
e n. 156.9-10]); perciò ribadisce ogni volta, attraverso il conforto di Auctorita-
tes acclarate, l’assoluta ortodossia del suo intento. Che tale non era. La simbo-
logia planetaria delle sette fiamme appartiene infatti alla mistica ebraica, testi-
moniata dalle Antiq. jud. III VI, 7 di Giuseppe Flavio e da Filone Alessandrino,
ma respinta dal cristianesimo (“Giuseppe e Filone y voient à tort le symbole des
sept planètes”, Dictionnaire de la Bible, s.v. ‘chandelier’ [v. n. 8.41-2]).

148.30-1: Et… Virgilium.


La frase è passata in proverbio (francese e spagnolo [Tosi, p. 675]), forse già a
partire dal Medio Evo (Elinando, De cognitione sui VI [PL CCXII, 728]: “Et quo-
niam omnis numerus impar vinculo quodam mediationis ligatus est, per impa-
rem numerum pacem et concordiam puto significasse vatem Mantuanum,
cum dixit: ‘Numero Deus ecc.’”). Riappare nel In Conv. ficiniano, dove, con-
cordemente al dettato pitagorico, si magnifica il numero tre: “Hinc Maronis il-
lud Deus impare gaudet” (II, p. 1323); invece Alberti, IX V la rievoca a propo-
sito di un altro celebre numero dispari: “Del sette poi, com’è noto, si compiace
particolarmente il Sommo Dio creatore” (p. 818).647
C. invece, anche se qui è orientato mentalmente sul tre (per trascinamento
della fonte), pensa in generale al numero dispari;648 e pensa in partic. al sette:
“questo numero delle lucerne celesti ed ecclesiastiche in verità risulta odioso e
terribile ai diavoli, ed è come un segno, poiché rappresenta Dio, che dispone

647
Anche Camillo pensa al sette, ma il passo virgiliano è un altro: “questo settenario è nume-
ro perfetto, percioché contiene l’uno e l’altro sesso, per esser fatto di pari e di dispari, onde
volendo dir Virgilio ‘perfettamente beati’, disse ‘Terque quaterque’” (p. 51).
648
Quod rem. 3 riporta un passo del Talmud: “‘nihil’ aiunt ‘debet numero pari comedi [= man-
giare], sed impari: hoc enim numero maxime delectatur Deus’. Hanc sententiam philo-
sophicam Pythagoreorum ipsi [= Farisei] superstitiose intelligunt. Profecto si virtus tanta est
in numero et non in numerato, tunc utilius erit comedere tres scorpiones quam duos tur-
dos”; se Dio allora si compiace del numero dispari, è perché “in Dio fonte delle cose vi è un
numero dispari produttore delle cose”, che è appunto il tre, in quanto C. vede nelle prima-
lità il riflesso [= “emanatio”] di Dio uno e trino (pp. 106 e 125).
COMMENTO AL TESTO 657

ogni cosa secondo il sacro settenario. Tanto più che Filone nel primo libro Sul-
l’opificio del mondo, e Gemma Frisio nel primo Sull’arte ciclognomica, e Fabio Pao-
lini nel settimo delle Settimane [Hebdomades] affermano che nel settenario viene
rappresentato Dio stesso: pertanto questo numero sarebbe un segno non per i
demoni, ma contro i demoni” (Apol. ad lib., p. 327). Sull’imitatività scimmiesca
del diavolo, anche Mon. Messiae: “Diabolus… ut sibi divinum cultum arripe-
ret… qualis debetur Deo… quoniam ipse aemulator honores Dei, sicut simia il-
lius” (XV, p. 74).

148.33-4: Iudices… Marinus.


Al padre Giovan Battista Marini, “secretario dell’Indice” (Lettere, p. 310; Lerner
2001a, p. 422 lo chiama “Giambattista De Marinis”), allude in Quaest. phys.:
mentre era in galera a Napoli, “simulato crimine”, il Maestro del Sacro Palazzo
di allora (Giovanni Maria Guanzelli, un cui decreto del 7 agosto 1603 poneva
all’Indice l’opera di C.), decise, senza averli letti, che poiché l’autore era in pri-
gione, dovevano essere sequestrati anche i suoi libri.649 Liberato il 6 aprile del
1629 per ordine di Urbano VIII, furono liberati anche i libri: “Quod P.M. Ioan.
Baptista Marinus, Congregationis Sacrae Indicis Secretarius, iubentibus ss. Car-
din. executioni mandavit, infamiamque iniustam ex indice delevit” (‘Praef.’,
1). Nelle Lettere, da cui (pp. 271, 282…) traspare che C. lo stimava, vi è un ac-
cenno alla questione qui sottesa: C. denuncia al Papa tutte le passate angherie
ed intrighi del Generale dei Domenicani Niccolò Ridolfi, ultimo dei quali: “al-
li spagnoli ch’aspettavan la morte di Vostra Beatitudine, disse ch’io feci il libro
De fato siderali vitando [= Astrol. VII] per Vostra Beatitudine; e colligato col [Pa-
dre] Mostro [v. n. 144.27-146.2, n. 156.9-10] a cui io avea imprestato il libro, lo
fecero stampare per mettermi in disgrazia di Vostra Beatitudine e de nepoti e
de spagnoli. E però io dimandai giudici a Vostra Beatitudine tanto per veder
s’il libro contiene superstizione, quanto per chiarirsi ch’essi l’hanno stampato
per via del Brugiotti, e non io; e fu giudicato per me in tutti dui i punti, come
il padre Marino giudice sa” (Lettere, p. 286-7).650
“Francesco Tontoli, della congregazione dei Somaschi, nacque a Manfredonia
e fiorì nel XVII sec. Uomo di portentoso ingegno e di profondi studi, fu pro-
curatore generale del S. Officio in Roma, teologo qualificatore, e consultore
della Congregazione dell’Indice. Fu eletto Vescovo d’Ischia nel 1638 da Urba-
no VIII. Vuolsi abbia scritto molto di teologia, ma nulla è pervenuto ai tempi

649
Cfr E. Canone, L’editto di proibizione delle opere di Bruno e C., ‘B&C’, I (1995, p. 43-61); J. M.
De Bujanda e E. Canone, L’editto di proibizione delle opere di Bruno e C. Un’analisi bibliografica,
‘B&C’, VIII/2 (2002, p. 451-79).
650
Con questa subdola macchinazione volevano impedirgli di esser nominato qualificatore
del S. Uffizio; C., preso in contropiede, nell’ottobre 1629 scrive Apol. ad lib. (v. n. 148.4) “e lo
sottopone ai censori ecclesiastici G. B. Marini e Francesco Tontoli, che lo approvano” (Firpo
1954, p. XCIII; Firpo 1947, p. 155-69; Ernst 1991, pp. 21 e 273; Ernst 1997b, p. 306; cfr Syn-
tagma II IV; e v. n. 146.7-20).
658 LA CITTÀ DEL SOLE

nostri” (Villani C., Scrittori e artisti pugliesi, antichi, moderni e contemporanei, 1904,
in DBIt). Esaminò e approvò anche Comment. nel 1629 (Amerio, p. 1005; Bol-
zoni 1977, p. 61; Spini, p. 54), custodendone copia del secondo volume, di cui
C. chiese ripetutamente e vanamente a Urbano VIII di rientrare in possesso
(Lettere, pp. 270 e 377).

150.3: vide Theologiam


In P. è abbreviato in “Theol.”, e l’abbreviazione non rinvia a generici “theolo-
gos” (Crahay, p. 226), ma alla sua Theol. XIV IX, IV ‘An in caracteribus, literis,
imaginibus sculptis et scriptis insit vis magica miraculosa et unde’: “Io penso
che i caratteri, le lettere, e le immagini, impresse in sigilli, in anelli e in lamine,
non abbiano nessuna virtù di produrre effetti fisici, in modo da conciliare la sa-
nità, la malattia, l’acume intellettuale… dunque quando si applicano con l’in-
tenzione di ottenerne un effetto oltrepassante la loro virtù naturale, quell’ef-
fetto deriva dal diavolo, come dimostrarono Taziano, e poi S. Agostino e S.
Tommaso e molti altri… Circa la magia dei numeri… qui basta sapere che i nu-
meri e le figure appartengono alla causa ideale, e che la causa ideale è ineffi-
cace, se non viene applicata dall’ideatore alla materia corporea. Perciò non ri-
sulta dai numeri alcuna magia, se non relativamente alle cause e ai fini cui esse
si applicano. Tuttavia non è superstizione fabbricare le cose in un determinato
numero, come la natura ha fatto le dita in numero di cinque e i pianeti in nu-
mero di sette. Anche i medici tengono conto dei numeri, e i ritmi delle cose
naturali provano il fondamento di queste considerazioni. E non ci sono canoni
che condannino questa considerazione dei numeri tranne che quando essi si
confondano con le cause, e in questo anche i medici sbagliano” (pp. 191-3,
205), ma “non c’è affatto colpa”; c’è invece superstizione “quando si adopera-
no per ottenere la sanità cose che non cagionano la sanità, come figure, lega-
ture, imprecazioni, incantesimi, pietre e erbe raccolte colla sinistra anziché
con la destra” (Theol. X [IV, pp. 139, 143]); mentre semmai giovano ai malati
ausili astrali, come “laminas astrologicas”, consigliate da “Plotinus et Arabes et
Albertus” (Medicina, p. 282).651
Contro i talismani, Tommaso, De sort., 5: “se un malato prende una medicina
che può sanarlo da una malattia, non è superstizione; ma se qualcuno si ap-
pende al collo un qualche cosa che non ha nulla a che vedere con il male o la
cura, anche secondo il parere dei medici, questa è una futile superstizione”. Fi-
cino nel De vita coelitus comparanda aveva tentato di “coinvolgere Tommaso d’A-
quino nell’approvazione dell’uso dei talismani… e il cardinale Gaetano [= De
Vio], nella sua edizione delle opere dell’Aquinate pubblicata nel 1570, difende
nei commenti la legittimità dei talismani. C. usò l’ed. del Gaetano, poiché si ri-
ferì ad essa nella sua difesa della magia astrale” (Yates 1981, p. 409); tale coin-
volgimento era possibile, perché nel De fato, ritenuto all’epoca uno dei suoi

651
In Apol. ad lib. sostiene però che, malgrado autorevoli avalli, “l’autore del libro astrologico
[= Astrol.] ha scritto di non aver il coraggio di approvarli [= gli amuleti]” (p. 331).
COMMENTO AL TESTO 659

Opusc. (il XXVIII, in: Pia., XVII, f.203; invece è di Alberto Magno), si sostiene
la legittimità dei talismani. Anche Ernst 2002 commenta questo passo dell’A-
pol. ad lib., ma con alcuni dettagli divergenti: “Oltre a un significato simbolico
e mistico, le sette torce che rappresentano i pianeti e i luminari acquisiscono
dagli astri anche una ‘vis physica’, e per sostenere questo punto C. non esita ad
affrontare la delicata questione delle immagini astrologiche. Riprendendo le
autorità cui già aveva fatto appello Ficino nelle pagine più discusse e proble-
matiche del De vita coelitus comparanda, lo Speculum astronomiae attribuito ad Al-
berto Magno e testi più sfumati e cauti di S. Tommaso, egli aggiunge un’abilis-
sima pagina del commento del Gaetano alla Summa tomista, in cui questi rie-
sce, con abilità ermeneutica molto sottile, a mostrare come talune affermazio-
ni dell’Aquinate apparentemente in contrasto risultino in verità conciliabili
(ed. Leonina, IX, p. 331-3), per concludere che le immagini astronomiche,
purché prive di caratteri (i soli elementi palesemente superstiziosi), non risul-
tano condannabili” (p. 213-4).

150.12-4: sicuti Amazones… Monopotapam,


In questo caso è possibile indicare con certezza la fonte, perché al nome della
regione (perché esotico e perché è quasi uno scioglilingua) ogni autore, che
ne ha trattato, attribuisce una grafia diversa: Barros: “stato di Benomotapa”,
mentre una glossa notava: ‘Costumi e vivere delle genti di Monomopata’, e po-
co oltre: “Questo principe che noi chiamiamo Benomotapa o Monomotapa è
come fra noi l’Imperadore: percioché questo significa il suo nome appresso lo-
ro” (I, 187r); quest’ultima è una delle grafie più diffuse: Acosta, p. 25; Maffei,
II, p. 546; Mercatore nella sua carta dell’Africa (cfr Nuovo Atlante Storico 1998
della Zanichelli, p. 171); Magini dal canto suo offre un altro ventaglio onoma-
stico: le Amazzoni oggi sembra che risiedano nell’“ampissimo regno di Beno-
motana o di Benomotassa o di Monopotape” (II, 167v). Invece solo Botero lo
chiama generalmente Monopotapa, salvo qualche variante, che sembra più un
refuso: “Monopotama” (I III, p. 153), “Monomopata” (I III, p. 173).
C. utilizza appunto quasi sempre la grafia boteriana nelle sue opere: “Foeminas
enim Africanas masculeas esse et viragines contestantur Amazones, quae Mo-
nopotapae in militia serviunt vivuntque liberae et in armis” (Oecon. I I, p. 190-1;
e così in: Atheismus, p. 131; Quod rem., p. 253-6; Quod rem. 3, p. 15; Theol. IV [II,
p. 137]); uniche eccezioni: in Quaest. pol. II IV, p. 88 vi è un “Monopatapa”, che
parrebbe un refuso; e in Disc. Princ., p. 125: “Monomotapa”, che potrebbe esser
un’uniformazione alla grafia corrente da parte del curatore moderno.652
Per quanto riguarda queste Amazzoni nere, C. le reputa dotate di un’istituzio-
ne comunitaria analoga a quella dei Bramini, per il prevalere dell’interesse co-

652
Firpo infatti annotava al “Monopotapa” di Città (T.150.12): “rectius Monomotapa”;
Crahay: “Monomotapa, che C. scrive per errore Monopotapa, è il nome, deformato dai Por-
toghesi, di un sovrano bantù” (p. 229), che ha dato il nome ai suoi stati; questo regno ereditò
nel XVI sec. la fama del Prete Gianni, per le miniere d’oro, e perché ritenuto essere l’antico
paese di Ofir da cui re Salomone faceva venire ogni ben di Dio (cfr Broc, p. 94-5).
660 LA CITTÀ DEL SOLE

mune su quello del singolo; per il resto sono “virago”, “masculeas” utilizzate co-
me mercenarie dal re del Monopotapa; sono uno dei popoli più incivili della
Terra, insieme ai Tartari, ed erano “Asiaticae olim, et nunc Africanae” (Astrol.,
p. 62-3). In realtà la loro collocazione geografica era molto dubbia: se per Stra-
bone II XI (14-5) sono caucasie, per Beroso, 21r sono ‘libiche’; Diodoro653 par-
la di un remoto insediamento di Amazzoni “in un paese verso Ponente ne gl’e-
stremi termini del mondo”, sconfitte da Ercole, “quando dirizzò la colonna
nella Libia”, e lì finirono. Poi parla però (III IV [I, p. 160-3]) di un altro rag-
gruppamento nel Ponto della Scizia, “vicino al fiume Thermodoonte”, che ave-
va esteso il suo dominio fino al fiume Tanai (= Don), anch’esse sbaragliate da
Ercole (per il mito greco delle Amazzoni cfr Graves, pp. 100sg, 131sg, 164sg).
Per il Medio Evo, alto (Giustino, Jacques de Vitry, il De natura rerum [in: SN
XXXI CXXIV e SH I XCVI]) e basso (Lettera del Prete Gianni, p. 77; Mandeville,
CXXI e CXXVI), le Amazzoni sono asiatiche, seppure in non univoca colloca-
zione: “alii, in Sauromatica Scithia habitarent… sive de longe antiquioribus in
Libya, inter quas fuere Gorgones” (Celio, IX XII, p. 327). I viaggiatori moderni
le ricollocano in Africa (Alvarez nell’Etiopia sud-occidentale “andando verso
mezzogiorno è un regno governato da femine che si potriano chiamare Ama-
zoni” [in Ramusio, II, p. 337]); altri nell’India orientale (regno di Cambaia
[Ramusio, II, p. 729]); Ortelius, che nella mappa del regno del Prete Gianni le
colloca in prossimità del lago Zaire, in Ortelius, Synonymia invece dice che “ho-
die adhuc tale genus apud Americanos ad flumen quod Hispani ab illis ‘Rio de
las Amazones’ vocant, degere scribunt qui regiones illas nuper inventas perlu-
strarunt” (s. v. ‘Amazones’).

150.14-152.4: regnavit Russa… Isabella in Hispania,


Non è più menzionata “Camilla” Peretti (T.152.5), la sorella di Sisto V (come
stabilì Firpo), contemporanea di C., e influentissima in Roma dal 1585 al 1590,
che invece conclude l’identico elenco in Senso, p. 319 e Art. proph., pp. 252,
273, dove appunto fa risalire ad Is. 3, 1sg e agli oracoli sibillini la profezia del
“saeculum femineum”. Infatti dalle Responsiones che seguono l’Epistola antiluthe-
rana si può apprendere che fu Francesco Pucci ad allertare C. (durante la co-
mune prigionia romana) che “il tempo profetato è vicino: abbiamo avuto il re-
gno della femmina, del quale parla l’oracolo sibillino” (Cantimori 1949, p.
381). La Monarchia spagnola si è estesa “per matrimonio a tempo del secol
femminile, sotto il trigono quarto feminino Cancro, Scorpione, Pesci (quando
per tutto il mondo regnaro femine, come scrisse il C. nella Città), segni acquei
atti alla crescenza presta, e per navigazione e in mare” (Mon. Fr., p. 416). Tutti
i mali trionfano quando ‘mulierum licentia viget’ “et rempublicam mollitie af-
ficiunt” (Aphor. IV, p. 161); “i buoni reggitori introducono buone consuetudi-
ni; cattive, i cattivi, e dunque le donne” (Politica V, 19). L’espressione usata in

653
II XI (I, p. 113), da cui C. aveva tratto l’aneddoto della regina delle Amazzoni che ebbe un
figlio da Alessandro Magno (Quod rem. 3, p. 15).
COMMENTO AL TESTO 661

Città (T.150.7) la si ritrova nella Magia di Della Porta: “se di virtù saranno più
gagliarde” (I XIIII: passo cit. in esteso in n. 12.41).
La legge Salica non è propria solo dell’Impero romano-cristiano, ma di Assiri,
Persiani, Ebrei, Egizi, Greci, Latini, “qui feminas ab imperio longe repulerunt.
Nec ita pridem Arragonii Petronillam, Castillii Isabellam, Mantuani Mathil-
dem, Neapolitani Ioannam utranque, Norvegi Margaretam, deinde Navarri et
Lotharingi ad feminas quoque summum imperium detulerunt”, e per ultimo
gli Inglesi, che prima sempre avevano aborrito la ginecocrazia, “nuper Mariam
eiusque sororem regnare permiserunt, in quo sane violantur non modo divi-
nae leges, quae feminas imperio virorum diserte subiecerunt, sed etiam ipsius
naturae, quae masculis imperandi, iudicandi, concionandi, belligerandi pote-
statem dedit, feminis ademit” (Bodin, p. 257; cfr anche Les six livres de la Répu-
blique, Paris, 1583, VI, p. 1002). Condivide l’avversione alla ginecocrazia, per in-
compatibilità naturale fra femminilità e politica (a prescindere da qualsiasi va-
lutazione morale e ideologica), anche G. Postel, La Loy Salique, livret de la pre-
mière humaine verité, Paris, 1552; e: Les très-merveilleuses victoires des femmes du nou-
veau-monde, Paris, Ruelle, 1553 (cfr Conti Odorisio 1990, p. 740-3).

152.5-7: Et poëta… amori;


Ovviamente è l’Ariosto ed è l’incipit del Furioso ad esser preso a emblema del-
l’effeminatezza dei tempi presenti. Anche Doni citava quest’incipit, ma come
segno di fama imperitura: “Uno di quegli che avrà vita fia colui che cantò:
‘D’arme, d’amor, le donne, i cavalieri’” (Mondi, p. 138). Malgrado altrove an-
che C. avesse apprezzato l’esordio del Furioso, “contenendo l’azione tutta de-
scritta in breve” (Poetica XX, p. 398), tuttavia aveva anche sollevato forti riserve
morali sull’Ariosto, accusandolo di lascivia (quanto segue fu scritto nel 1596):
“Ne lice ancora dir male dell’Ariosto, per aver… lodato tanto il puttanesmo, e
Rinaldo dire, che maladetta sia quella crudel legge, che punisce l’amanti adul-
teri, e altre novelle impossibili; ma invero fu egli al tempo del secolo femmini-
le; però comminciò da ‘Le donne’ e le difende quanto può. Ma il Tasso è più
da biasimare…” (Poetica X, p. 337). In Poët. II III, p. 935 e Art. proph., p. 273 lo
include fra i “poeti svergognati, lascivi… come Aretino, Molza, Franco, Berni”,
a cui, nelle Censure al padre Riccardi, aggiunge finanche “Rabeles buffone” (p.
40), attribuendo alle loro satire e invettive antipapali la colpa dello scisma lute-
rano. Tuttavia è poeta a lui molto caro, e, nella polemica Tasso-Ariosto, C. è
schierato con il secondo,654 anche se meno nettamente di un Galilei, che, nelle
sue Considerazioni sull’Ariosto e sul Tasso, terminate proprio a Padova, aveva stra-
pazzato il “bigottismo untuoso ed effeminato” della Gerusalemme gesuitica, con-
siderata “in certo modo il poema ufficiale della Controriforma” (Spini, p. 27;
cfr Bolzoni 1977, p. 18 e Ernst 2002, p. 40).

654
“Ariostus vero utrumque [=“scientiam” e “imitationem”] complexus est, ut etiam Tassus,
licet minori longe genio ad imitationem, sed maiori ornatu ac eloquentia, quam supra caete-
ros adiunxit” (Syntagma IV II); e pure nella “fabula” Ariosto prevale (Poët. VIII IX, p. 1103).
662 LA CITTÀ DEL SOLE

152.13: Vossignoria.
Lo rivolgeva usualmente anche l’Au., ad es. in Mon. Sp.: “come V.S. dice” (p.
142) rivolgendosi a don Alonso Marthos de Gorostiola, giureconsulto spagno-
lo e reggente della Vicaria, cui l’opera è dedicata nel Proemio.

152.13-4: Et in Africa… praevalet,


Già per Manilio (IV, pp. 758, 778-80), l’Africa, terra di bestie feroci, è sotto la
dominazione di Cancro e Scorpione.
Per quanto riguarda la distribuzione degli influssi astrali mondiali, C., allo
schema classico tolemaico della suddivisione del mondo in quattro quadranti
ottenuti dagli assi cardinali (Africa, Europa, ‘Scythia’ [= Russia asiatica] e
Asia), sostituisce quello basato sulla partizione per fasce comprese fra paralleli
(Astrol., p. 59), ognuna poi soggetta a un trigono (Senso, p. 318-9: “Sub Cancro
haereses… Africani” [v. n. 160.1-2 § 2.2.2]). L’Africa è posta sotto l’influenza di
Cancro, Capricorno e Pesci, con Venere e Marte nel quarto triangolo, che li
renderebbe “proclives in mulieres… muliebri habitu gaudentes… perversos”;
il che oggi, osserva C., si addice “Mauris, Feritis et Marochitis”, non alle popo-
lazioni che stanno sotto i tropici. Per quanto riguarda i segni, Cancro li rende,
tra le altre cose, “mulierosos, ut Carthaginenses olim, foeminas vero imperio-
sas, contentiosas, laboriosas” (così come “Luna orientalis foeminas facit viriles,
imperiosas, contentiosas, laboriosas, ut Amazones… [Luna] occidentalis, viros
molles, effoeminatos, imperio mulierum subditos”); e anche Scorpione è causa
della loro bellicosità e impudicizia (Astrol., p. 61-3).

152.15-7: in Fez… innumerae,


Fez, la città santa e sceriffato del Marocco, è un altro (con l’impero indiano del
Gran Mogol) dei “sette regni che presero origine da Maometto” elencati
nell’‘Ecloga’ (169, 127, Esp.; v. n. 155.1 [f.p.]).
In Art. proph., p. 274 e in Atheismus, p. 209 si dice che “Lupanaria puerorum…
in Serifi regno, sunt semina Praeceptoris sui”, cioè di Maometto. Ma è in Quod
rem. 4, pp. 144 e 167 che si scaglia più violentemente contro questi “scelestissi-
mos concubitus puerorum”, pratica diffusa “inter Turcas et Mauros… Emunt
ad hoc ipsum pueros, quos insuper castrant, ut possint ipsorum levi mento frui
et pudendis impubibus, qua in re certant crudelitas et libido. In regno autem
Fez lupanaria cinaedorum tanquam foeminarum publica extant, et tamen non
vos pudet dicere quod animas nostras Deo offertis, cum adulescentulos nostros
castratis et impudicissimo dedicatis ministerio”.
Non è chiaro da dove abbia attinto queste notizie. Botero descrive sobriamen-
te “i ricchi regni di Fessa e di Marocco” (I III, pp. 153 e 185-6), senza accennare
alla prostituzione infantile, menzionando Leone Ebreo,655 il quale invece, in

655
Che non ho mai trovato citato da C.; è possibile però, come suppone Ernst 1997a (p. 57n)
che l’abbia letto nella raccolta di F. Sansovino, Del governo dei regni e delle repubbliche così antiche
come moderne, Venezia, 1561.
COMMENTO AL TESTO 663

una ‘Minuta e diligente descrizione della città di Fez’, dedica un paragrafo sul-
le ‘Osterie’, “circa a dugento”, i cui proprietari “vanno vestiti d’abiti feminili e
ornano le lor persone a guisa di femine: si radono la barba e s’ingegnano d’i-
mitarle per insino nella favella. Che dico favella? Filano anco. Ciascuno di que-
sti infami uomini si tiene un concubino, e usa con esso lui non altrimenti che
la moglie usi col marito… e in dette osterie vi praticano di continovo tutti gli
uomini di pessima vita, chi per imbriacarsi, chi per sfogar la sua libidine con le
femine da prezzo, e chi per quell’altre vie illecite e vituperevoli”; e lo stesso ac-
cade a Tunisi (in: Ramusio, I, p. 168-9). Un’altra fonte potrebbe esser stata Ma-
gini, che però parla della Persia, non del Marocco: “I Persiani anco sono con-
tra l’antico lor costume molto dediti alla voluttà e alla lascivia… e se ben pren-
dono più mogli, nondimeno s’innamorano de’ fanciulli, come i Turchi, e a
questi nefandi piaceri hanno i proprii luoghi destinati, ne’ quali serbano essi
fanciulli a satietà della loro libidine” (II, 199v). Ma la pedofilia prezzolata forse
si praticava proprio nella medesima città in cui viveva C.: infatti ancora un se-
colo più tardi, lo stesso Sade inorridisce alle molteplici testimonianze di prosti-
tuzione infantile: “Una madre vi offrirà indifferentemente quello dei suoi figli
– il maschio o la femmina – che più stuzzicherà le vostre inclinazioni” (p. 215).
In tal caso saremmo in presenza di un altro es. di finto parlar d’altri (come nel
caso degli Spagnoli che spuntano dietro i Giapponesi di 54.20).

152.17-8: ad quas… cogit.


È sottintesa una teoria astro-meteorologica, e non una generica “congiuntura
generale”:656 ‘temperies Signorum’ è la combinatoria di caldo/freddo con sec-
co/umido, con cui si quadripartiscono i segni zodiacali, “iuxta qualitates ele-
mentorum” (SN III XIX), per cui ad es. Ariete, Leone e Sagittario sono caldi e
secchi; e questi rapportati alla tipologia dell’aria determinano i costumi degli
abitanti (chiamata ‘mundialis’, proprio per distinguerla dal ‘temperamento’
individuale: v. ad es. Persio in n. 46.5).
L’avvicendarsi delle civiltà è dovuta al cambiamento dei costumi in seguito alle
variazioni del clima, a loro volta dipendenti dal progressivo avvicinamento del
Sole alla Terra; i popoli, che, a causa di spiriti fuligginosi provocati dall’eccessi-
va temperatura o inerti per il troppo freddo, sono scarsi d’ingegno, cadono fa-
cilmente preda delle tirannidi; perciò “deve la legge conformarsi al costume…
e nel Mondo Nuovo deve il Re vedere sotto che clima stanno; perché quelli del-
l’equinoziale vogliono temperata legge; quelli delli tropici severa e dura”
(Mon. Sp., p. 119), come appunto le popolazioni nordafricane. Nei tardi scritti
teologici, invece, C. mostra una certa insoddisfazione verso questa teoria: dopo
aver ribadito le “esatte ragioni” di Astrol. circa la migrazione della civiltà al va-
riare del clima sulla Terra, “tuttavia non trovo che i luoghi migliori siano abita-

656
Come traduce Crahay; è invece preferibile una traduz. letterale, visto che ad es. in Lettere
scrive: “tutte le campagne trovai verdeggianti e fiorite sin a Parigi: segno di gran bella tem-
perie” (p. 262).
664 LA CITTÀ DEL SOLE

ti dagli uomini migliori o più felici. I miei Calabresi sarebbero altrimenti supe-
riori a tutte le altre nazioni per dominio e per virtù, dal momento che son su-
periori a tutte per la terra e per il clima, e vincono il resto d’Italia di quanto l’I-
talia vince gli altri paesi del mondo” (Theol. IV [II, p. 191]).
La teoria dei climi è di derivazione bodiniana (Methodus, République), forse me-
diata da Botero (accenni in Maffei, II, p. 203), e comunque sorretta da una ro-
busta tradizione classica: Platone, Leg. 707d, 747d-e (la qualità degli abitanti di-
pende dalla natura del luogo, donde oculatezza nella scelta del sito di fonda-
zione di città); Aristotele, Probl., XIV (‘Influenza del clima sul temperamento’:
i popoli che abitano regioni troppo fredde/calde sono incivili); Hist. anim.
606b; Pol. 1327b; Tolomeo, Tetrab., II libro; Galeno, Quod an. mores… IV VIII, p.
798sg e De temperam. I, p. 509sg; Palladio, II, 32; Beroaldo (‘De inventione litte-
rarum’) si chiede come mai solo pochissime nazioni conoscono le lettere alfa-
betiche, e così risponde: “causa esse creditur aeris videlicet subtilitas atque
temperies. Non enim temere dixit Heraclitus: ‘Aer siccior anima prudentior et
melior’” (per la corografia astrologica v. n. 108.9-10, n. 160.1-2 e cfr almeno Pi-
co, I, p. 289 e VII IV-V con annessa bibliogr. di Garin 1952, p. 548).

152.19-156.1: Non tamen… Capricornus, etc.


Oltre all’effeminamento generale (dovuto al fatto che il Sole transitava in Can-
cro, segno femminile), di cui ha appena parlato, e oltre alle scoperte e inven-
zioni,657 la prima triplicità fa fiorire profeti falsi e lascivi, regni basati sulla for-
za, ed essendo in quadratura, cioè in aspetto malefico col primo trigono, quel-
lo di Cristo, favorisce la nascita di sètte particolarmente avverse al cristianesi-
mo. Infatti è il trigono per eccellenza di Maometto, lo pseudoprofeta libidino-
so e ingannatore,658 di Lutero e di “Ismael Sophius et Seriphus pseudoprophe-
tae Macometani, ille in Perside et iste in Africa, et Mogor [correggo un “Ma-
gor”, adeguandolo al “Mogor” di p. 273] Magnus in India… et Machiavellismus
omnium sectarum pessimus” (Art. proph., p. 271-4). Oltre a tutto ciò, vi sono
stati però anche eventi positivi, proprio per il fatto che non sono le stelle a ob-
bligare, ma gli “affectus” sensibili dei soggetti recettori, cui la volontà razionale
può assoggettarsi o ribellarsi: contemporaneamente ad eretici e lussuriosi sono
sorti infatti anche Gesuiti, Cappuccini, Minimi, Colombo e Cortés, che hanno
provveduto a diffondere la religione cristiana (154.5-15 e 158.26-34; così pure
Antiven., p. 130-1; Politici, p. 137-8).
Anche l’elenco di eventi storici che segue è una testimonianza che i fattori ce-
lesti ne sono un’‘occasione’ agevolante, e non causa diretta del loro accadi-
mento. Infatti questo passo (salvo il ‘pronostico’ del cristianesimo: 154.3-21)

657
Di cui sta per parlare (v. n. 153.4 [f.p.]), ma che ha precedentemente trattato (136.10-9: v.
n. 137.1 [f.p.], n. 160.1-2 §§ 2.1 e 2.2.2).
658
La religione islamica, “quae sub trigono Martis coepit et Veneris et Lunae, plena est luxu-
riis et impudicitia et variabilitate” (Astrol., p. 229), secondo la topica associazione di Marte
con la bellicosità, Venere con la lussuria e della Luna con la volubilità.
COMMENTO AL TESTO 665

costituisce il cap. III di Astrol. VII, in cui esorta i re a coltivare la scienza e la tec-
nica, perché è nell’“ingegno dell’uomo” che riposa la soluzione “contro tutti i
mali”. Passando quindi a elencare le scoperte della “nostra età”: per la naviga-
zione, la bussola, “gloria di Flavio di Amalfi”; contro i ‘barbari’ riottosi, l’arti-
glieria; “contro la dimenticanza e l’ignoranza, la stampa. Si è di recente ag-
giunto il telescopio, per ascendere ai regni celesti e conoscere, grazie alla
scienza astrale dei mondi conosciuti, quelli extra-celesti finora ignoti… Ri-
splende una nuova scienza della natura, una nuova astronomia e si conosce or-
mai quella metà del mondo che era sconosciuta. Manca l’arte di volare, che si
conseguirebbe con facilità se si perfezionasse l’abilità dei funamboli”; auspica,
dopo il cannocchiale, come sappiamo (v. n. 139.2 [f.p.]), la scoperta di un “au-
ricolare organum”, perché “non c’è nulla che la ragione umana non possa vin-
cere. Ma le scuole sono occupate da sofisti incapaci di ritrovare cose nuove, e
pronti solo a perseguitare chi ricerca la verità” (trad. Ernst). Dunque, in un te-
sto dedicato all’astrologia, le scoperte tecnico-scientifiche sono ascritte al meri-
to della ragione umana; e così in questo passo di CS lo stesso concetto è soste-
nuto in forma negativa: il progresso scientifico non (solo) alle stelle è debitore,
perché il cielo inclina ma non obbliga.

154.3-5: de consensu… moralibus,


È sottesa la teoria delle corrispondenze (‘similitudo’ a 14.13 e 32, ‘sympathia’ a
122.1, ‘symbolum’ a 156.11), cioè un circolo continuo fra cielo e terra, teoria
espressa in maniera semplice ed efficace dalla “bibbia degli alchimisti… attri-
buita a Ermete Trismegisto” (Yates 1981, p. 170), la Tabula smaragdina: “quod
est inferius est sicut quod est superius, et quod est superius est sicut quod est
inferius” (cit. da Garin 1976, p. 137); o da Plotino: “Tutte le cose dipendono
l’una dall’altra; come è stato ben detto, ‘tutto consente’” (Enn. II, 3, 7; v. n.
14.12-6, n. 12.41 e n. 122.1).

154.6-9: de eius… Pannonia,


È una lamentazione che attraversa l’opera, dalle prime Lettere: “siamo cristiani
per parentado e commodità. Siamo ridutti ad Italia e Spagna: e qui regna il
Machiavello e la mortalità dell’anima, l’eternità del mondo, la providenza
sproveduta di fisici e astronomi, contro li quali io mi armai; ed ecco m’hanno
vinto e posto nel lago di Ieremia” (a Paolo V, p. 56; a Schoppe, p. 101 e Schoppe,
p. 24…); fino alla Mon. Messiae XII, p. 55: se non ci sarà una Grande Coalizio-
ne sotto il Papato, “procul dubio in manus hostium tradentur Italia et Hispa-
nia, quae remanserunt in Christianismo Catholico”, reputandolo anche questo
un avviso divino circa la prossima fine del mondo (Disc. Cometa, p. 79).

154.9-10: quarum… volo,


È un chiaro caso di autocensura (una denegativa: si noti infatti l’aggiramento
del divieto attraverso l’astuto artificio retorico della “preterizione, quando fin-
giamo di non voler dire ciò che tuttavia diciamo, e passiamo ad altro argomen-
to” [Rhet. XI II, p. 867]), rispetto, non solo alla redaz. italiana (T.154.1-17), ma
alla stessa ediz. Fr. (che la ricalcava), forte dell’insegnamento cavato dall’inci-
666 LA CITTÀ DEL SOLE

dente in cui era incappato nel 1631 con Atheismus (cfr Firpo 1940, p. 101-2; Fir-
po 1951, p. 167-8; Firpo 1954, p. XCIV). Agli inizi del 1631, C., dopo mille tra-
versie, ottenne le autorizzazioni ecclesiastiche e riuscì a stamparlo. Ma quando
il libro era pronto per la diffusione, gli fu negato il ‘publicetur’, non certo dal
“sapientissimus Papa”, ma dalla ‘longa manus’ del confratello e rivale Padre
Mostro, con cui c’era una vecchia ruggine.659 Per evitare, dunque, la totale di-
struzione dell’opera, l’Autore fu costretto a emendarla in più punti, il princi-
pale dei quali, come dichiara C. stesso nell’‘Appendix’ ad Atheismus, è “il pro-
nostico astrologico della Chiesa” (p. 252; v. n. 142.25-144.11 e cfr Lettere, p. 234-
367 passim): una stessa configurazione astrale “indicavit Lutherum, Serifum et
Sophium, per religionem falsam seducentes orbem, et simul sanctum Ignatium
cum Iesuitis et Capucinis et Cortesium” (Atheismus [ed. 1631], fol. 146); questa
frase (quasi identica in Astrol., p. 68, e qui ripartita fra 154.11sg e 158.26sg) gli
viene contestata dalla censura perché “nimis in particulari asserit de constella-
tione indicante Lutherum, Iesuitas et Capuccinos” (Risposte alle censure dell’‘Atei-
smo triunfato’, in: Opusc. ined., p. 47-51), dove, richiamandosi ai noti passi di
Tommaso circa la già esaminata questione che gli astri ‘inclinano ma non co-
stringono’ (donde l’ampia parentesi sulle ‘cause’ di 142.1-146.2), ribadisce
due concetti: a) la stessa causa può produrre effetti diametralmente opposti
(come un medesimo fenomeno meteorologico è benedetto dai marinai e ma-
ledetto dai contadini); b) con i pagani bisogna utilizzare argomenti pagani,
per poterli meglio “convinci ex eorum principiis”. Invece in Art. proph., mal-
grado la precedente bolla di Sisto V, non lesina giudizi astrologici sul Papato e
il cristianesimo, ristretto alla sola Italia e Spagna, “ubi praevalet trigonus Chri-
stianismi; ma trovo che nel 1587 l’apogeo di Mercurio migrò dallo Scorpione
arabo in Sagittario spagnolo” (p. 278), donde la ‘revanche’ spagnola sull’isla-
mismo. Otto anni prima, cioè nel 1623, e scrivendo in quanto teologo e non
astrologo, interprete dei Profeti e non degli astri, aveva dedicato l’intero ulti-
mo capitolo di Theol. XXV a una ‘apocalittica’ profezia circa le sorti della Chie-
sa, elencando implacabilmente ben 19 profezie avverse: ‘Plurimae prophetiae
contra Romam et papatum quo pacto intelligendae sint in sexto sigillo com-
plendae [= che devono adempiersi]’; e indicando proprio l’anno preciso della
sua rovina: “l’Anticristo ucciderà la Chiesa… nel 1632, quando l’apside di Sa-
turno entra nel luogo dove si trovava il Sole alla nascita di Cristo” (p. 161; v. n.
160.1-2 § 1).
In sintesi, il “nec recitare volo” di Civitas è una implicita allusione alla censura
della pag. 146 dell’ed. 1631 dell’Atheismus, ovvero p. 209 dell’ed. 1636: in XIV
XXVII C. traccia una storia astrologica dei ‘legislatori’ divini, a dimostrare che le
stelle non sbagliavano: Mosè e Cristo sono nati sotto costellazioni benefiche, vi-
ceversa a partire da Maometto, sorto “sub trigono Martis” e in procinto di en-
trare in Scorpione, erano chiari gli indizi di “Prophetas falsos, impios, crude-

659
L’anno prima C., per vendicarsi delle continue persecuzioni, aveva scritto le Censure sopra
il libro di Padre Mostro (ora edite a c. di A. Terminelli [Roma, Ed. Confortane, 1998]).
COMMENTO AL TESTO 667

les, fabulosos, ponentes ius in armis… et sub eodem trigono fuit Lutherus et
Calvinus, et Serifus, et Sofius, et haeresis Anglicana”; donde sarebbe possibile
anche inferire, per via astrologica, la sorte della Chiesa nel prossimo futuro –
“Scripseram in hoc Astrologicum prognosticum pro Eccle. non discordans a
vatilinio [sic] S. Vincen. Brigid. Cath. Carthusiani: sed prudentia summi ponti-
ficis iussit deleri quamvis cum protestatione ne demus ansam Astrologiae, et se-
que horemus pretiosum a vili, ut patet in Disp. in Bullas. Nec propterea Deus
res non faciat, quia in stellis cernuntur. Sed magis certiore de sua reddimur
providentia, quo magis cernimus eum illius ordinem metitum esse in secundis
causis eius instrumentis et hoc ipse dixit S. Brigida: ‘Quod si homo siderum
motum consideraret, de providentia Dei nil dubitaret’” (Atheismus, p. 209): ap-
punto il passo censurato nel 1631.

154.11-2: Xerifi et Sofii


C. parla dell’origine della setta del Sofì in Quod rem. 4: “Scimus enim ex histo-
riis arabicis et latinis” che “nel 1369 trovandosi i Maomettani senza califfo (si
erano infatti estinti in Mustaceno), un principe di nome Soffio [= Soffius], si-
gnore della città di Ardevel, persiano del sangue di Alì, ricostituì la setta di Alì
e il regno di Persia abbattuto dai saraceni” (p. 108-9, tr. di Amerio). Lo Sceriffo
e la dinastia es-Sufi costituiscono gli anticristi maomettani, che “si mordono re-
ciprocamente la lingua… e ci sono tra loro varie sètte che si combattono con le
armi e con la lingua proprio come fanno i nostri eretici” (Theol. XXV, p.
121);660 mutar religione, infatti, ha come conseguenza “una mutazione del go-
verno e Persia modernamente mutò principe con la setta; e così il regno di Fez
e di Marocco dalli prìncipi loro naturali passarono allo Seriffo” (Antiven., p. 76;
Politica X, 15).
Oltre a Giovio, che ne tratta ampiamente (I XIV e sg: Ismaele fu educato a studi
sacri “ut vetere Magorum et Brachmanorum”, e in seguito appunto a una tale
formazione “ambitiosum Sophi cognomen susceperat”), a Maffei (I, p. 202:
“Ismael soprannominato Soffì di Persia”), il “Soffi” era menzionato da Leone
Ebreo (Ramusio, I, p. 415), Andrea Corsali (Ramusio, II, p. 30), Varthema, p.
105, Machiavelli, IV, p. 543, Barros, II, p. 220, Magini, II, 179r; ma la fonte più
probabile è il Botero (e quindi Barros, plagiato da Botero), non solo delle Re-
lationi (II II, p. 90 e II III, p. 115 cit.: v. n. 155.1 [f.p.]), quanto della Ragion, do-
ve, a parte il resto, i due scismatici sono affiancati come in CS: “tutti quelli qua-
si che hanno voluto fondare nuovi imperi, hanno anco introdotto nuove sette
o innovato le vecchie, come ne fan fede Ismaelle, re di Persia, e ‘l Seriffo, re di
Marocco” (p. 137).

660
La proliferazione universale delle eresie iniziata con Lutero in Occidente, e in Oriente
“quando il Seriffo in Africa e Sofio nella Persia introdussero novità ed eresie nel Corano”,
prepara l’avvento dell’ultimo spaventoso Anticristo, per cui è la prova che “siamo senza dub-
bio” alla fine del sesto millennio (Theol. XXV, p. 145-9).
668 LA CITTÀ DEL SOLE

154.13: Wiclef et Us et Lutherus


Anch’essi sono citati insieme perché l’“haereticismus”, secondo l’archetipo dei
Gog e Magog apocalittici, “semper duali constat… ideo in Macometo habes
duos monachos haereticos et duos iudaeos, in Bohemia Huss et Wiclef, in Ger-
mania Lutherum et Calvinum” (Lettere, p. 148); sempre in coppia li ritroviamo
in Mon. Messiae VI, p. 22 e Antiven., p. 20: “Bordello è Germania, stuprato da
Lutero… da Giovanni Hus, da Vuicleffo”, l’ultimo dei quali anticipa Lutero
nella progenitura delle eresie moderne: “da Wicleff in qua per cento quasi an-
ni soli si trovano più eresie e sette nuove che non in 1500 anni da Cristo a lui”
(Disc. Cometa, p. 75; Theol. I [I, p. 3]). L’inglese John Wyclif, in effetti, fu consi-
derato l’anticipatore di istanze riformiste già da C.: “Ioannes Vuiclef et deinde
Lutherus, contra papatum insurgens, primo abstulit caput visibile ab Ecclesia
et omnes episcopos posuit aequales Papae” (Cons. aph., p. 129; Avvertenze, p.
452), e poi invalidò le indulgenze, inutili in quanto la nostra sorte ultraterrena
è predestinata da Dio, e quindi vanificò il libero arbitrio; inoltre tradusse la
Bibbia in inglese, disconobbe alcuni sacramenti, ed essenzialmente rifiutò l’au-
torità del Pontefice (Mon. Messiae VI, p. 22), combatté il potere e le ricchezze
dei chierici (Antiven., p. 99) e, in generale, la proprietà privata. Duramente
perseguitati, i suoi seguaci (Lollardi), poveri predicatori itineranti, si saldaro-
no con l’evangelismo della Riforma e l’anabattismo (cfr Firpo 1979, p.
285n).661
Alle sue idee si ispirarono sia Hus che Lutero. Jan Hus era nato a Husinec, in
Boemia, nel 1369; rettore dell’università di Praga, condannò anche lui i vizi e
l’avarizia del clero; secondo Botero, “la principal loro heresia è che la commu-
nione ‘sub utraque specie’ sia necessaria così ai laici come ai sacerdoti” (III I, p.
22); scomunicato da Alessandro V, fu mandato al rogo a Costanza nel 1415; C.
ne accenna ancora in Art. proph., p. 277; Quaest. pol. IV II, p. 104; Mon. Messiae
VI, p. 22 e in Atheismus, p. 116 (in questi ultimi due passi ‘Hus’ è scritto con
l’H): “Conc. Const. damnavit Ioannem Hus, afferentem clericos non posse
proprium quid possidere”; più dettagliatamente Botero: “Fu Giovanni Hus ab-
brugiato l’anno 1417 [sic], con Geronimo da Praga, suo collega, a Costanza,
dove era venuto a Concilio sotto la parola di Sigismondo imperatore. Ma i Pa-
dri, vista la loro ostinazione, stimarono maggior inconveniente lasciar impuni-
ti due eresiarchi che il non mantener la parola data loro dall’imperatore a cui
esso concilio sovrastava” (ib.).
Anche per Lutero bisognava seguire l’esempio di Hus: il “primo” e più grave
errore “fu il lasciar vivo Lutero nella dieta d’Augusta, donde seguì poi che [i
principi tedeschi] si mantennero in libertà di signoria, non obedendo né al Re
né al Papa” (Mon. Sp.1, p. 63; Mon. Sp. XXVII, p. 280); precursore dell’Anticri-
sto, “arundine agitata, nemico di sacramenti, di penitenze e di modestia, e d’o-

661
Sulle sue vicende – condannato dopo morto dal Concilio di Costanza, le sue ossa furono
disseppellite e bruciate (1428) – e sulle sue teorie, cfr John Wyclif: logica, politica, teologia, a c.
di M. T. Fumagalli Beonio Brocchieri e S. Simonetta, Firenze, Ed. del Galluzzo, 2003.
COMMENTO AL TESTO 669

gni ridicola furbaria maestro, [è] opposto a San Giovanni Battista” (Lettere, p.
51). C. inaugurò precocemente la sua attività pubblicistica antiluterana: al
1595 risale il Dialogo politico contro luterani, calvinisti ed altri eretici,662 rifuso poi
(nel 1613) nell’Epistola antilutherana, a sua volta confluita in Quod rem. Ma il
nocciolo della sua avversione a Lutero è rintracciabile in Theol. XXV: Lutero è
l’anticristo della quinta età dell’Apocalisse (10, 11), peggiore di Maometto
(Supplizio, p. 159), venuto per aprire “il pozzo in cui erano sepolte tutte le ere-
sie, e le risveglia… Lutero infatti spalancò i monasteri; vietò e vituperò la vita
eremitica… abolì il celibato, la verginità e la penitenza; egli, monaco, prese in
moglie una monaca, per propagare con la parola e con i fatti la sua dottrina an-
ticristiana e antigiovannea; abrogò la messa e i sacramenti; sparse di menzogna
le Sacre Scritture e le storie per eliminare il Papato, che è il regno di Cristo;
mutò opinione e si contraddisse come una canna agitata dal vento; e vestì vesti
morbide, non di pelo di cammello, e abitò nelle case dei principi secolari, non
nel deserto come Giovanni” (p. 119).663

154.14: Minimi ac Cappuccini


Il ‘Sacer Ordo Minimorum’ fu fondato da S. Francesco di Paola nel 1435 a Co-
senza (e proprio travestito da frate minimo, C. era riuscito nel 1634 a riparare
in Francia); i Cappuccini sono un ramo dei conventuali, autonomizzatosi nel
1525, secondo la riforma di Matteo Bassi di Montefiascone che voleva aderire
più rigorosamente alla regola di S. Francesco d’Assisi: ai Veneziani, in luogo
dei malvisti Gesuiti, consiglia di “pigliare Cappuccini, che non vogliono beni
stabili” (Antiven., p. 117-8).

154.15-7: quomodo… in malum,


La stessa frase è anche in Art. proph., p. 272.

154.17-21: quamvis… voluntatem.


Nella Fr. la frase “ac proinde… voluntatem” è replicata due volte: una è la pa-
rallela traduzione del testo italiano (omesso nell’ed. P. perché palesemente ri-
petitivo); e l’altra è in una lunga glossa a margine: “Et quum haeresis est opus
carnis, teste Apostolo, a carnali enim prudentia mens movetur ad haeresim.
Propterea super corpus et sensum sidera agentes sunt causa etiam haeresium,
prout affectus pravitati se homo dedicat”. Il senso del passo è: l’eresia sembra
un atto della ragione e della volontà (‘mislettura’, si direbbe oggi, di testi sacri
e conseguenti ‘arbitrii’); e quindi come tale non dovrebbe esser condizionata

662
La voce protagonista del dialogo è proprio Giacomo di Gaeta, e “Lutero era la pentola che
bolle nella regione settentrionale, da cui si sparge nel mondo ogni male” – figura analoga a
T.158.24-5 (il distico latino, n° 92 delle Poesie, che è un’interpretazione della visione di Gere-
mia, 1, 13-4, è incluso nel Dialogo nonché nell’Apologia).
663
V. n. 158.27-8; e cfr G. Currà, Il falso profeta: Lutero negli scritti di T. C., Editoriale Progetto
2000, 1989.
670 LA CITTÀ DEL SOLE

dalle stelle; invece S. Paolo ci dice (Gal. 5, 19-20) che essa non è opera della ra-
gione, ma è ‘opera della carne’, dove le stelle agiscono ‘directe et per se’ (sem-
pre ferma restando, s’intende, la libertà individuale di resister loro); perciò ne-
gli individui ‘sensuali’, poco razionali, questa inclinazione siderale dei tre pia-
neti ‘pericolosi’ (il terzo è Venere, non Mercurio, come erroneamente trascri-
ve Crahay, p. 233) diventa coazione.
Non c’è contraddizione con le professioni di obbedienza dichiarate a 154.9-15:
mentre è vietato affermare che la religione cristiana si mantiene pura solo in
Italia e Spagna per gli influssi benefici di Sole e Giove, invece è lecito sostene-
re che il dilagare dell’eresia dipende dal fatto che, essendo un prodotto del
senso e non della ragione, le stelle avverse hanno potere d’influenzare la mas-
sa che è irrazionale; la legittimità poggia non solo sul pensiero di S. Tommaso,
ma anche sul fatto che ci si limita a descrivere un fenomeno naturale, e non s’i-
poteca il destino della religione al volere delle stelle.

154.28-156.5: Namque… in subpolaribus.


Non solo i Solari hanno stilato una ‘nuova astronomia’ (come aveva già detto a
114.16-7), ma anche un’astronomia per il Nuovo mondo: il loro Au. del resto
nei memoriali prometteva di “far un libro d’astronomia per il Mondo nuovo, a
cui manca, e figurar in quelle ignote stelle gli eroi della conquista” (Lettere1, p.
25), stelle che ammontavano a ventuno costellazioni “nel sito settentrionale” e
sedici in quello meridionale (Compendio X, p. 15). Astrol. dedica vari capitoli al-
le configurazioni astrali visibili nelle altre regioni della Terra (i Poli e gli altri
emisferi), come ad es. I VII, art. 3, p. 35: ‘De domibus Planetarum erga subpo-
lares et aequinoctiales et aequidistantes nobis ab aequatore incolas’ (v. n.
114.16-7); in Mon. Sp. esortava a dar i nomi degli eroi alle costellazioni australi,
“perché così s’imparasse insieme l’astrologia con memoria locale e si sublimas-
sero con venerazione gli uomini illustri loro” (p. 98; v. n. 70.7-14).
La fonte è Cardano, che, in Commentariorum in Ptolemaeum de Astrorum iudiciis
Libri IV, cap. 16, “aveva sostenuto che si dovessero invertire le dignità planeta-
rie dei temi eretti per l’emisfero Sud”.664

156.6-158.5: Evax!… orbis.


Salvo l’interiezione iniziale, che esprime la “gioia” (Poët. IX IV), è uno dei passi
più ritoccati nelle successive stesure (v. n. 134.26 in ‘Apparato delle varianti di
α’, e n. 156.13-158.5). Le variazioni di questo brano registrano, secondo Firpo,
le frustrazioni per i mancati rinnovamenti attesi, e costantemente rinviati fino
all’ultimo suo scritto significativo, la più volte cit. ‘Ecloga’, dove questi segni
astronomici della conversione del mondo stanno a preannunciare che “un
eroe sommo sarebbe sorto” (169, 7-26; v. n. 136.23 e n. 160.1-2 § 2.2.2). Co-
munque l’elenco dei “signa in sole et luna et stellis” (alludendo a Lc. 21, 26) è

664
Fallisi, p. 581-5 - cui si rimanda per l’intera questione, e da cui è stata tratta la traduz. di
Astrol. I VII, art. 3 riportata in n. 157.1.
COMMENTO AL TESTO 671

uno dei refrain che punteggiano l’intera opera di chi amava firmarsi ‘Squilla
del Signore’: “Stavamo tutti a vegghiare nella tenebrosa notte di questo seco-
lo… il sonno dell’ignoranza… ed io, sendomi detto che vigilassi, accesi un lu-
me, e me lo smorzarono, e mi flagellarono e serrarono nelle tenebre… Affac-
ciai per un pertugio fuori e mirai il cielo: vidi mutato tutto il suo volto, confusi
li luoghi delli celesti animali, li pianeti e ‘l sole calati in terra, mutati gli apogei
ed eccentricitati ed equinozi e solestizi; e questo si faceva irregolarmente, mo
più veloce, mo più tardo, secondo piace a Chi scende dalle stelle per avvisarci;
ho voluto ragguagliare il portinaro [= il Papa] e non fui inteso, mi dissero che
io era imbriaco e bugiardo; ed io, comandato dal Cielo a vigilar meglio, udii
stridi, lamenti, urli e pianti, e dissi: – Dove? Dove? – Vox in Roma audita est – mi
fu risposto…” (Antiven., pp. 41-3, 135-6; per le anomalie v. n. 114.1-5).

156.10: in spatio immenso,


“Del spazio immenso a’ siti originali / del ciel stellato…” è l’incipit del secon-
do (n° 57) sonetto dedicato alla ‘congiunzione magna’ del 24 dicembre 1603;
e prosasticamente: “figuras signorum in coelo situm permutare… in spatio im-
menso universarum excurrentibus cardinibus ad alium situm… et tota coeli
machina novam adepta positionem nova parturit saecula” (Art. proph., p. 266).
La teoria sottesa è la seguente: vi è un graduale scorrimento del cielo delle stel-
le fisse in senso antiorario, e di conseguenza dei quattro cardini;665 ma allorché
una costellazione zodiacale invade un altro seggio astrologico, accadono gran-
dissime mutazioni nel mondo: ad es., quando, al tempo di Alessandro Magno,
Ariete cominciò a entrare in Toro, l’Europa, soggetta ad Ariete, invase l’Asia,
prima con i Macedoni e poi con i Romani.

156.10-1: mundi machina nutante,


“Mundi machina” (per la cui traduzione seguo quella che Firpo fa della stessa
espressione al v. 17 dell’‘Ecloga’ [SL, p. 284]) forse adombra una possibile me-
moria lucreziana:666 “ruet moles et machina mundi” (‘cadrà l’edificio, cadrà la
mole del mondo’ [V, 96]), associata ad una virgiliana: “Adspice convexo nutan-
tem pondere mundum…” (Bucol. IV, 50: ‘Guarda il mondo che scuote la curva
mole’ [trad. Canali]). L’espressione era diventata topica nel Medio Evo (da
Thierry de Chartres: “Manet ergo mundi machina inconvulsa” [in SN II XII], a
Cusano, De ludo globi I; da Doni, Mondi, pp. 61, 67, a Ficino, Teol. II IV [I, p. 142]);

665
Equinozi e solstizi sono “tornati a dietro di 28 gradi in circa… e s’è diminuita di più la
quantità dell’anno” (Disc. Cometa, p. 70); l’equinozio è ciascuno dei due punti nei quali l’e-
clittica interseca l’equatore celeste, per cui in tutta la Terra il giorno è uguale alla notte; il
punto vernale (21 marzo), regolato all’epoca di Ipparco (ca. 130 a. Cr.), coincideva con 0° di
Ariete; oggi, per la precessione degli equinozi, il Sole entra in Ariete il 20 o 21 aprile, mentre
il 21 marzo entra in Pesci; analogamente dicasi per l’equinozio d’autunno.
666
Anche per la stessa posizione nell’esametro, come nota Giancotti, in Poesie, p. 656 (rin-
viando ad altre due occorrenze in Manilio e Lucano); in giovane età C. aveva composto una
Philosophia Pythagorica, carmine Lucretiano instaurata (cfr Lettere, p. 29), perduta.
672 LA CITTÀ DEL SOLE

in italiano la metafora è inflazionata (già Garzoni la usa in senso astratto “tutta


la machina delle sue fatiche [= pedagogiche] restarebbe distrutta e ruinata”) e
tuttavia ancor viva nel 1670 (Scilla, p. 34: “gran machina della Terra”).667 Con es-
sa C. intende la sfera celeste, come mostrano passi paralleli: “Num caeli machi-
na universa cum suis Polis moveatur, ignotum est sensui nostro; at exorbitantiae
ostendunt ipsius quandam instabilitatem in machina mundi fortasse et aliorum
systematum extra mundum nostrum, nobis ignotum” (Physiol. III V, p. 12: ‘la
macchina dell’universo con i suoi Poli’ è una sfera; passo interessante anche per
altre ragioni: in tarda età egli attribuisce le esorbitanze [= uscire dal tracciato
della propria orbita] a un’instabilità, dunque oscillazione, della “machina mun-
di”, che conterrebbe ‘altri sistemi a noi ignoti’).
Tra i ‘modelli’ topici dell’universo, i più ricorrenti sono quello dell’universo-
edificio (‘fabrica’: v. n. 116.5 e n. 118.2a) e quello dell’universo-macchina: “fa-
cile est ut quod ait Apostolus Petrus, terra et opera, quae in ea sunt, exurantur
nutu Dei, hanc machinam regentis” (Physiol. III V, p. 14: è spontaneo andare
con la mente a uno dei tanti dipinti in cui una divinità regge in mano la sfera
celeste). Una variante è espressa in Metaph.: “Dio si serve delle stelle quasi co-
me il fabbro si serve di molti martelli, innalzandole, abbassandole, accelerando
o ritardando i loro moti, percuotendo sull’opificio quelle rette e quelle obli-
que, per giovare alla sua idea. E Dio muove martelli di questo genere non con
mano materiale, ma con il piacere e l’amore della loro conservazione e il timo-
re della loro distruzione” (III, p. 32).
L’altro tipo di ‘machina’ più spesso evocato è notoriamente l’orologio, il si-
gnore del tempo, per il suo meccanismo complesso, che s’incepperebbe a una
qualsiasi pur minima mutazione: “Tanto bene è aggiustato l’universo, ch’un so-
lo atomo mutandosi, tutto si scompiglierebbe, come un orologio” (Poesie, 31,
Madr. 9, Esp.); “Mundus enim instar horologii pulcherrimi constructus, quid-
quid novi accidi priorem mutat ordinem, et novum orditur” (Quaest. phys.
XXIV IX, App., p. 236); e pertanto non tollererebbe una qualsiasi addizione o
sottrazione: “sitque mundus instar horologij bene ordinatus, palam est, quod
additio luminis aliquid plus facit, turbatque ordinarias actiones cursumque re-
rum” (Astrol., p. 94; Metaph. III XI, VIII, art. 4; Theol. I [II, p. 165]).
Da ‘nutare’ è derivato in italiano un termine dal significato tecnico molto spe-
cifico (oscillazione dell’asse terrestre) e qui assente: la ‘nutazione’ indica, in
questo contesto, infatti lo spostamento angolare dell’asse dell’universo (causa
della precessione degli equinozi di cui al rigo precedente), attraverso il moto
oscillatorio della sfera celeste intorno al suo asse. Nel passo su cit. di Physiol., in-
vece, il termine è usato nel suo senso letterale di ‘muovere il capo in su e in
giù’ (donde l’‘oscillazione’), quando si acconsente: Dio non solo può interve-
nire direttamente sul corso delle stelle (es. ‘fermati o Sole’), “sed symptomata
praesentia in obliquitate, excentricitate et cardinum anticipatione irregulari

667
Cfr G. Baroncini, Note sulla formazione del lessico della metafora ‘Machina mundi’, ‘Nuncius’, 4,
1989, pp. 3-30.
COMMENTO AL TESTO 673

ad Dei nutum, ut In prophetalibus evicimus” (in partic. Art. proph., p. 54): non so-
lo le anomalie cosmiche obbediscono alla volontà divina, ma la frase biblica
(cit. a 148.8) “Coeli enarrant gloriam Dei…” è interpretata ficinianamente
(Th. pl. XIII V [Op., p. 304]), e non galileianamente, e cioè: “Le anomalie inse-
gnano che la macchina cosmica si muove per volontà di Dio, non in base ai no-
stri calcoli” (Astrol., p. 75; Disc. Cometa, p. 76). Dio non gioca né a dadi né con
le tavole pitagoriche, o tolemaiche o copernicane. Il che implica retrospettiva-
mente quattro cose:
1) C., cancellando non solo quindici secoli di speculazioni fisiche e filosofiche
(in partic. Scolastiche), ma anche gli ultimi rivoluzionari lustri post-coperni-
cani, si ricongiunge alla prima patristica; la sua posizione rispecchia infatti
alla lettera quella di Ambrogio: “Non ha mostrato chiaramente Iddio che
tutto sussiste per la sua maestà, non per il numero, il peso, la misura? Non è
la creatura che si dà la legge, ma la riceve e ricevutala, la osserva”; la Terra è
immobile non “perché si trova al centro dell’universo, ma perché ve la co-
stringe la maestà di Dio con la legge della sua volontà… Quindi dobbiamo
intendere non la misura del centro… ma la misura della potenza, della giu-
stizia e della sapienza… Per la volontà di Dio la terra rimane immobile e…
conforme al volere di Dio, si muove e nutat [= ondeggia? obbedisce?]” (I VI);
2) si chiarisce meglio che cosa intenda dire a 116.20sg: i nostri principali mo-
delli cosmologici sono dei giochini puerili, rispetto al segreto disegno e go-
verno divino del mondo;
3) e che interpretazione dà della frase biblica cit. a 148.8: è vero che il Libro
della Natura e quello dei Profeti è intessuto di numeri; ma ciò non significa
che sia un linguaggio matematico: è la Sua “mensura”, e non è affatto detto
che essa sia la povera, svalutata moneta di conto che usiamo noi;
4) e infine che tutti questi segnali anomali che provengono dal cosmo non so-
lo sono la migliore testimonianza che il mondo non ha leggi sue, ma solo
Sue, cioè è Dio che lo regge e lo guida (in sostanza: non esistono leggi fisi-
che), ma significano e comportano anche grandi mutamenti sulla Terra.
Dunque quest’‘oscillante’ macchina dell’universo connota due cose: a) la sua
peribilità: è oscillante perché è vacillante; b) l’ubbidienza a Dio: l’oscillazione
‘su e giù’ è il movimento che la Grande Testa sferica del cosmo fa per dimo-
strare il suo perenne assenso al Suo, e solo al Suo Signore (e non ai meschini
‘calcoli’ umani). Per cogliere, oltre alla denotazione (= moto ciclico angolare a
escursione limitata), le due connotazioni sottese a questo verbo (vacillare, an-
nuire), basta rifarsi a Lettere, p. 220, in cui il contesto astronomico-profetale è
identico: le anomalie, elencate qui a partire da 156.7, sono segnali divini, pre-
sentiti dal profeta Aggeo (2, 6), quando “si cominciò questa mutazione insen-
sibilmente, consentendo e scommovendosi tutta la machina del mondo alla
novità e preparamento dell’umanazion del Verbo eterno suo autore” (v. n.
160.1-2 § 1.2, punto 1).

156.13-158.5: et quantum mutationis… orbis.


L’intero periodo, che sintetizza le attese dei grandi rivolgimenti di cui C. vole-
va esser prima il maieuta e poi il profeta, cruciale per la vita prima e per l’ope-
674 LA CITTÀ DEL SOLE

ra poi del Filosofo, subisce nell’iter redazionale due principali variazioni, la


prima voluta e la seconda accidentale:
- vOLONTARIA:
T.154.25: la congiunzione magna che sarà in Sagittario
R./Civitas: e quanto seque di mutamento dopo la congiunzion…
Tale variante non indica solo che la congiunzione nel nuovo trigono era solo
attesa all’atto della stesura (dell’antigrafo) di T. (che è quindi anteriore al di-
cembre 1603), per cui nelle redaz. posteriori bisognava aggiornare i tempi ver-
bali, ma consiste anche nella sparizione dell’allusione a Sagittario, segno di
Spagna (T.154.15), perché lascia in sospeso il pronostico su quale nazione rea-
lizzerà la “monarchia universale” preannunciata dagli astri; dopo T., il testo di
CS diventa assolutamente anodino circa il soggetto storico pronosticato: è un
testo astrologicamente ‘aperto’, come i migliori oracoli (‘ibis ac redibis
non…’) – verrebbe da parafrasare: ‘Franza o Spagna purché se cagna [= pur di
cambiare]’. A prestar fede al cap. V di Mon. Fr., scritto da un autoesiliato nel
paese ospite, ‘L’astrologia non favorisce alla Monarchia di Spagna’, la quale eb-
be il massimo fulgore nel ‘500, “quando le congiunzioni magne si faceano nel
quarto trigono”; ma il 1603 è l’anno della svolta per il cambio di trigono, “dun-
que… facilmente si può stimare che la Francia stia per ristorarsi e impedir la
fortuna di Spagna” (p. 398). E il Sagittario? “Se ben il Sagittario è segno di Spa-
gna, non però è contra Francia” (p. 474).
- INVOLONTARIA: riconfrontiamo le tre stesure principali di questo passo:
• T.156.1-158.4: “e perché segueno dopo la congiunzione magna l’eclissi in
Ariete e Libra… faran cose stupende in confirmar il decreto della congiun-
zione magna”
• L.: “e quanto seque di mutamento dopo la congiunzion magna e l’eclissi,
che sequeno dopo la congiunzion magna, in Ariete e Libra… faran cose stu-
pende in confirmar il decreto della congiunzion magna”
• 156.13: “et quantum mutationis sequatur post synodum magnam in Ariete et
Libra… quae stuporis plena sequantur post magnam coniunctionem in con-
firmatione decreti eius”.
In Civitas (già dalla Fr.) è ipotizzabile una lacuna testuale, dovuta o a malinte-
so,668 oppure, più probabilmente, a fortuito omoteleuto: la parte sottolineata
di (R./)L., compresa com’è fra due espressioni uguali (= “dopo la congiunzion
magna”), è fatalmente esposta all’omissione, complice anche l’oscurità, forma-
le e sostanziale, del dettato.
Anzitutto la grande congiunzione si è verificata in Sagittario e non “in Ariete e
Libra”,669 come lui stesso ripetutamente dichiara, ad es., nel ‘Sonetto sopra la

668
Ritenere, cioè, “congiunzion magna” un’inutile triplice ripetizione a distanza ravvicinatis-
sima, presente in tutta la tradiz. manoscritta da R. a L., e quindi anche nell’antigrafo della
traduzione, come dimostrerebbe appunto la sostituzione dell’ultima sua occorrenza con il
possessivo “eius”.
669
Sarebbe anche un palese errore, perché ogni congiunzione, in quanto distanza angolare
COMMENTO AL TESTO 675

congiunzion magna, che sarà l’anno 1603 a’ 24 di dicembre’ (56, 1-4: “i primi
erranti lumi, [= i pianeti maggiori Saturno e Giove] / … insieme in Sagittario
/ raccozzarsi, a mutar legge e costumi”). La grande congiunzione è però solo
un segnale generalissimo, una sorta di progetto di massima della prossima mu-
tazione epocale; ma chi è che poi concretamente lo porta a compimento, cioè
è la causa agente e specificatrice dei singoli eventi ‘rivoluzionari’, è un’altra se-
rie di fenomeni celesti: eclissi e comete.670 Per C., esistono due tipi di eventi
astrali: il primo è l’‘annuncio’ generico di qualcosa (di grande) che avverrà (=
il Progetto della Legge Divina); il secondo tipo, che segue a breve distanza dal
primo, determina (= spiega+causa) i micro-eventi promotori della ‘renovatio’
(= le Circolari applicative).671 La stessa cosa è accaduta dopo la comparsa nel
1572 della nuova stella in Cassiopea: in seguito infatti spuntarono “le due gran
comete nate nel 1618, che metteno in atto quel che la stella di Cassiopea, e l’al-
tra nova del Cigno nel 1603 [significarono], quando pur cominciarono le con-
giunzioni magne nel primo trigono a tornare” (Mon. Fr., pp. 400 e 474). Pro-
prio per l’impossibilità di determinare con sicurezza a quali fenomeni celesti
successivi alla grande congiunzione C. potesse pensare intorno al 1636 (eclissi,
comete…), l’integrazione della pur certa lacuna non può che esser ipotetica, e
quindi inaccoglibile nel testo.

158.9-34: Hoc tamen… propagavit.


“Entrambi gli aspetti, individuale e generale, dell’astrologia sono poi ricor-
dati in stretta connessione nelle battute finali della CS, in cui l’Au. tiene a sot-
tolineare che le credenze astrali dei Solari non risultano in conflitto con la li-
bertà dell’arbitrio. A conferma del permanere della libertà pur entro il con-
testo degli influssi celesti, da un lato egli rievoca la terribile tortura della ‘ve-
glia’ di recente patita – a prova che se un condizionamento fisico estremo
non riesce a scalfire la libertà di volere, tanto meno lo potrà il condiziona-
mento di gran lunga più debole e lontano operato dalle stelle, e che solo chi
segue più il senso che la ragione è sottoposto alle stelle –; dall’altro fa rileva-

tendente a zero della posizione reciproca di due pianeti, non può che verificarsi in un solo
segno, altrimenti cessa di esser congiunzione.
670
Premesso che “semper igitur fere observatum est eclipses ac cometes synodorum magna-
rum decreta specificare ac in actu ponere”; dopo la congiunzione del 1603, nel 1605 “tres
eclipses apparebunt in Ariete et Libra signis novarum legum et rituum et sacrorum, et inci-
piet haec omnia ex parte promulgari” (Art. proph., p. 292); “seguitano poi nell’anno 1605
due eclissi lunari in Libra e Ariete, segni mobili significanti mutamento di legge e nuove ro-
vine in cristianità, sollecitamenti, zizzanie, avarizie di prìncipi, carestie” ecc. (Antiven. III II, p.
141); le grandi congiunzioni, dunque, stabiliscono i lineamenti generali delle causalità, e le
eclissi e comete le applicazioni nel concreto e nel dettaglio.
671
Tale metafora non è che una libera parafrasi della seconda quartina del sonetto su cit.: “E
te, Mercurio, che l’impresa assumi / di promulgar, qual pronto segretario, / quel che poi leg-
gi nell’eterno armario / già statuirsi ne’ possenti numi”, in cui si allude all’apogeo di Mercu-
rio in Sagittario, che specifica le caratteristiche della nuova epoca, segnata dal cambio di tri-
gono delle grandi congiunzioni, come epoca di rinnovamento delle scienze.
676 LA CITTÀ DEL SOLE

re come in tempi assai ravvicinati, eppur sotto aspetti astrali analoghi, siano
nati personaggi quali Ignazio di Loyola, Lutero, Fernando Cortés, che risul-
tano per un verso accomunati dall’impulso al rinnovamento, per l’altro al-
quanto lontani per le diversità delle situazioni e dei contesti” (Ernst 2002, p.
177-8).672 Così già in Senso: “Libera è la volontà, ma non l’azioni esteriori, e
san Tommaso acutamente dice, in 3SCG, che gli Astrologi per lo più indovi-
nano, perché gli uomini vivono secondo il senso alterato delle stelle… Dun-
que le cose naturali ciò fanno e le stelle, senza pregiudizio del libero arbitrio,
poiché trovi un uomo sostenere quarant’ore di tormenti, più tosto che dire al
Giudice quel che cerca. Se questa violenza non può vincere la volontà, man-
co ponno le stelle [aggiunta lat.: suaviter moventia]” (p. 316). C. ha in men-
te forse anche il commento del Ferrariensis (Pia., t. VI, f. 335r) a 3SCG, 85:
“Occasiones eligendi ex corporibus caelestibus provenientes, sive interiores,
sive exteriores, non sunt causa necessaria electionis. Probatur quia experi-
mento hoc cognitum est, eo quod homo per rationem potest eis resistere, vel
obedire, quanvis plures sint qui tales naturales impetus prosequuntur, pauci
autem, sed soli sapientes, non sequantur”. In molte opere della maturità è
presente questo tema dell’enorme capacità di resistenza della volontà umana
di contro alla levità degli influssi astrali, con allusioni più o meno esplicite al-
la tortura subita nel 1601: Antiven., p. 131; Astrol., p. 3; Quaest. Eth. I, p. 8 e II
I, p. 28; Cons. aph., p. 141; Theol. I (II, p. 209); Metaph. IX V, VIII: ‘La volontà
umana non può venir necessitata in quanto volontà, salvo che essa voglia sce-
gliere il peggio come meglio’: “un certo uomo [= quidam vir], interrogato
per 40 ore in mezzo ai tormenti, non poté venir costretto (mirabile a dirsi!) a
dire ai giudici una sola parola; che se atroci e tanto lunghi tormenti non co-
stringono la volontà, neppure le stelle quindi o altra qualunque cosa possono
costringere l’uomo, se egli non vuole venir costretto” (II, p. 337; cfr anche
De Mattei 1969, p. 151). Non solo le stelle, non solo le torture, ma addirittu-
ra Dio stesso non può coartare la volontà umana; per cui è meglio “ricono-
scere che ignoriamo il nesso della provvidenza divina colla nostra libertà, co-
me suggerisce acutamente il Gaetano [= De Vio], che negare il senso e far
dell’uomo una bestia. Inoltre Dio stesso, il quale conosce questo nesso e le
modalità del suo operare con noi, proclama [es. Is. 65, 2] che noi siamo libe-
ri talmente da poter contraddire a Dio stesso” (Theol. I [II, p. 207]): quale mi-
glior prova della divinità dell’anima razionale, o ‘mens’, “che non cede a nes-
sun flagello o tormento dei tiranni e delle cause corporee, né si preoccupa
della morte del corpo fiduciosa nella divinità della propria natura”? (Compen-
dio LX, 5; v. n. 142.25-144.11 e n. 142.28).

672
Queste righe di T.158.12-30, cui in effetti rimanda la Ernst, in Civitas risultano, dopo il
lungo inserto latino ivi contenuto (138.14-150.4), un’ennesima ripetizione del principio del-
l’autonomia della volontà dagli influssi astrali, ravvivato solo dalla tragica esperienza auto-
biografica.
COMMENTO AL TESTO 677

158.15-6: eo quod silere statuerat ex animo;


Curiosa coincidenza nel dettato con quanto si legge, a proposito di Bramini del-
la Cambaia (la stessa in cui vi è la città di Campanel), in una relazione di viaggio
portoghese riassunta da Ramusio: “Le genti di questo regno di Goa non confes-
sariano cosa che facciano per tormento che se gli possa dare, e più presto voglio-
no morire che confessar quello che determinano di tacere” (II, p. 743).

158.22: Nunquid divisus est Deus?


É un calco di 1Cor. 1, 13, com’è confermato da Mon. Messiae: “Et primo Chor.:
‘Nunquid Christus divisus est?’” (IX, p. 45).

158.27-8: de haereticorum… eduxit,


Mentre in T.158.23 aveva scritto “la costellazione che da Lutero cadavero cavò
vapori infetti”, qui il nome del moderno anticristo sfuma nel generico ‘haereti-
cus’; Bobbio, p. 25n attribuisce all’Adami l’espunzione del nome di Lutero e la
sostituzione, nella Fr., con: “constellatio, quae de haereticorum cadavere vapo-
res”; precisata meglio da P., che evita il possibile equivoco che si prenda per
reale il ‘cadavere’ degli eretici.673 A partire, infatti, da 152.17 (“ad quas tempe-
ries…”) fino a 156.6 (“…ex vi naturae”) Fr. era lievemente diversa, e in partic.
non si menzionava mai Lutero, per non urtare la suscettibilità dei lettori d’ol-
tralpe, i quali lettori, anziché “quo tempore Wiclef et Us et Lutherus religio-
nem labefactarunt apud nos” (154.13), si trovavano di fronte a questo passo:
“Sed et in Germaniam, Galliam, Angliam et totum fere Aquilonem Europaeum
haeresis grassatur, dira libidinis et bestialitatis amica”. È vero che non si fanno
nomi, ma un pubblico riformato, tedesco anzitutto, sarebbe rimasto indiffe-
rente di fronte ad espressioni così sprezzanti? Non è dunque solo e tanto la
sensibilità dei protestanti, ma quella comune che non va urtata: quando si fan-
no nomi, non bisogna usare espressioni ingiuriose – per ‘pietas’ cristiana o
semplice buona educazione. Come illustra questo aneddoto: in Atheismus, fol.
162 aveva chiamato Machiavelli “nobilis, sed bastardus” e l’aggettivo gli viene
censurato (da due domenicani) perché “potest id alicui esse iniuriosum” (Ri-
sposte… in: Opusc. ined., p. 51).674

673
La metafora può essergli stata suggerita anche da un passo di Botero: l’“empietà Luthera-
na… come da una sentina piena di puzza e di fetidezza uscì, e si dilatò in breve tempo il mor-
bo e la pestilenza per Alemagna” (III I, p. 9).
674
“Quando C. dovrà difendersi dall’accusa di essere stato offensivo e ingiurioso per l’allu-
sione, nell’Atheismus, alla nascita illegittima del Segretario, egli preciserà di avere avuto
l’informazione a Firenze, da una fonte sicura [“da buonissima parte”], vale a dire proprio da
Baccio Valori, il ‘cavaliere vecchio’ e bibliotecario di S. Lorenzo che l’aveva accompagnato
nella visita [alla Biblioteca Medicea]: ‘e quando mi mostrò li libri secreti dentro un camerino
dove nessuno può entrare, mi fe’ vedere li libri di Macchiavello scritti di propria mano e, par-
lando di lui, disse che era nobile, ma bastardo, e mi narrò la vita sua’ [Risposte, p. 53], notizia
confermata da Giovanni Battista Bracceschi, un anziano domenicano presente al colloquio”
(Ernst 2002, p. 22).
678 LA CITTÀ DEL SOLE

Per una parafrasi di tutto il passo in Atheismus v. n. 156.9-10; una variante sul te-
ma in Antiven., p. 58: “Anco dalle parole mie [= Crisostomo] gli eretici cavano
tanti sensi pravi: l’aromati, al sole posti, più odorano, li cadaveri più spuzzano:
ognuno cava fuor quel che ha nel cuore”; e proprio in Crisostomo, Comm. in
Epist. Pauli ad Hebr. VI, Hom. XI (IV, 1737C) poteva aver trovato l’espressione
analoga: i sacrifici dei martiri “odorem suavitatem habent maximum” (v. n.
48.8-11).

158.29: ex fundatoribus Iesuinae religionis


Si tratta dei Gesuiti (come confermano altri luoghi, ad es. Atheismus, f. 146 [v.
n. 154.9-10]); e non “Gesuati, chiamati anche Gesuatini, membri di un ordine
religioso dedito alla preghiera e alla carità”, come ipotizza Donno.
Altrove, però, C. mostra di non apprezzare né il nome dell’ordine: “Vorrei che
si distinguessero etiam gl’ordini de religiosi, perché li Gesuini… non solo son
confusi d’abiti… ma anche nei vocaboli della famiglia, sì che non si sa che cosa
è Teatino in Spagna, perché così chiamano il Giesuino… Però ognuno si deve
denominar dal suo capo, con dire non Giesuini, ma Ignaziani da sant’Ignazio”
(Titoli, p. 300-1); e neppure le loro opere, non solo per ragioni autobiografiche
– per le persecuzioni da lui subite dal Sant’Offizio –, ma ad es. anche pedago-
giche: “i fanciulli scolari di Giesuiti si mostran dotti con recitar quelli argo-
menti e i versi e orazioncelle che loro danno i maestri, e poi, fatti grandi, resta-
no bestialotti e senza frutto” (Mon. Fr., p. 464).675
L’annosa questione (risalente a metà Settecento, con Muratori) se le ‘riduzio-
ni’ dei Gesuiti in Paraguay si ispirassero a Platone o addirittura (Gothein) al-
l’utopia campan., è stata risolta da Armani in questi termini: “Quest’ipotesi è
del tutto fuori della realtà” (p. 12). I Gesuiti sbarcarono in Perù nel 1568 e nel
1585 in Paraguay, dove cominciarono a costituire le prime riduzioni nel 1609.
Più in generale, la storia e la martirologia dei Gesuiti nelle Indie, specie orien-
tali, C. l’aveva trovata descritta in Maffei, II (a partire dal Libro XIV, p. 351sg;
cfr Leed 1996, ‘Le spedizioni dei Gesuiti’, p. 99-143).

160.1-2: Quae… tibi.


I segnali naturali che Dio adopera per annunciarci le Sue intenzioni sono side-
rei (e astronomicamente rilevabili), astrali (e astrologicamente rilevabili) e in-
fine sono prettamente terrestri – questa partizione è stata fatta a fini didascali-
ci; nell’argomentare campan. invece ‘tout se tient’, cioè l’una spiegazione
rafforza e integra l’altra, come la profezia di queste righe, in cui si mescolano
presupposti fisici, astronomici e astrologici, può meglio dimostrare: per la pre-

675
Cfr anche Antiven. (pp. 75, 119), dove attribuisce ad essi il merito del successo delle mis-
sioni estremorientali e “il grand’utile al cristianesimo” grazie alle loro scuole pubbliche, ma
nel contempo consiglia come “rimedio buono per Venezia… di non tenere Gesuini nello sta-
to, poiché sempre furon sospetti e mal visti in quella repubblica” (p. 117; per altri passi ana-
loghi cfr Bobbio, p. 113n).
COMMENTO AL TESTO 679

cessione antioraria (rispetto all’orologio zodiacale) degli equinozi, il cui slitta-


mento procede a una media di meno di un grado e mezzo ogni secolo,676 il I
trigono (= Ariete-Leone-Sagittario [Astrol., p. 63-4]), che, nella partizione
astrologica del mondo, pertiene all’Europa, nel 1737 scivolerà nel III (= Ge-
melli-Bilancia-Acquario), “a cui soggiace Tartaria e Asia settentrionale”, alle
quali regioni “si vedrà il cristianesimo dilagare” perché il Sole, ancor più avvi-
cinatosi, scioglierà i ghiacci e renderà praticabile l’ignoto passaggio a Nord-Est
(= “iter ignotum per mare septentrionalem”).
Il Libro di Dio è pieno di espliciti moniti a tener d’occhio il cielo: la cremazio-
ne del mondo è preconizzata da Cristo stesso (Mt. 24, 29-30: “stellae de coelo
cadent”) e poi dal Suo successore (2Pt. 3, 7); i segnali del cielo sono annunzia-
ti sempre da Cristo (Lc. 21, 25; Mt. 24, 43, che ha narrato anche la parabola del
‘ladro di notte’, ripresa spesso nelle Lettere degli Apostoli (1Thess. 5, 2; 2Pt. 3,
10-1: “caeli et terra… igni reservandi in diem iudicii… Veniet autem dies Do-
mini ut fur, in quo caeli magno impetu transcurrent, elementa autem ardentia
resolventur et terra et quae in ipsa sunt opera exurentur”), passo commentato
e confermato da Crisostomo (Quaest. phys. X I, p. 89) e Agostino, CD 20, 18 (cit.
in Lettere, p. 15; Apologia, p. 144; Metaph. XI III, II). Ma anche l’altrettanto sacro
Libro della Natura è gravido di segni fatali che non erano sfuggiti ad un con-
gruo numero di pagani (“Seneca ad Martham [= De consol.], et Lucanus, et
Sibylla, et Hydaspes, et Heraclitus” [Astrol., p. 70]), nonché alle osservazioni
degli astronomi: da Timocari a Ipparco, da Menelao a Tolomeo, da Albategnio
ad Arzachel, dal Regiomontano a Copernico; tutti coloro che osservarono le
stelle dal 120 a. Cr. al 1525 d. Cr., “aggiungendovi le concordanze di Plinio, di
Columella, di re Alfonso”, riconobbero le svariate anomalie celesti, e in partic.
“l’imminente dissoluzione [della Terra] attraverso il fuoco” (Metaph. XI III, II
[III, p. 21-3]). A suffragio della prossima apocalisse ignea, infine, si levano alte
le voci profetiche di santi e indovini: in Art. proph. ve n’è una selva sterminata,
fra cui spiccano, per costanza di presenza in altre opere (fino all’‘Ecloga’, 169,
20, Esp.), le due sante Brigida e Caterina, invocate non a caso in un sottotitolo
di Città quanto mai eloquente circa le reali intenzioni ‘profetali’ del dialoghet-
to (“Ricordatevi le minacce delle mirabili sibille, Brigida e Caterina” [Antiven.,
p. 53]); e poi Antonio Arquato, Paolo Scaligero, Cardano, Gioacchino da Fio-
re, Serafino da Fermo, Raimondo Capuano, Dionigi il Certosino, Bernardino
da Siena, Cusano, G. Savonarola, Vincenzo Ferrer.
1. Anomalie siderali reali
“Se avessimo la data certa della nascita del mondo, potremmo fare stupefacen-

676
Calcolo desunto da Art. proph. (p. 262): 77° in 5565 anni (v. infra); da Theol. XVIII, p. 71 si
capisce con chiarezza che non esiste un dato costante: “secondo il calcolo di Ipparco in 100
anni l’equinozio anticipa di un grado… secondo Tolomeo l’anticipazione è di un grado ogni
70 anni… oppure poco più come vuole Albategnio. E siccome in quel tempo [= nascita di
Cristo] l’anomalia era nei suoi valori medi, come osserva Copernico, noi incliniamo al siste-
ma di Ipparco”.
680 LA CITTÀ DEL SOLE

ti previsioni”, ma le varie tradizioni del testo biblico e i diversi e oscuri compu-


ti degli anni ivi segnati ce lo impediscono (“occultam facit chronologiam”: Sen-
so, p. 327n). Non sapendo con esattezza quando fu creato, non sappiamo nean-
che quando finirà.677 È certo, però, che non è eterno, come ritiene Aristotele
(e neppure semi-eterno): come è stato creato, sarà distrutto, in una catastrofe
ignea. Quel che invece è probabile è che: a) il mondo durerà in tutto 7000 an-
ni;678 b) nel 1600 “iamque sumus in 5562 ab orbe condito” (Art. proph., p. 257;
Disc. Cometa, p. 72: “secondo il minimo computo, 5581”), cioè nel sesto millen-
nio. Dio infatti l’ha creato in sei giorni e il settimo si riposò, e siccome ai Suoi
occhi mille anni è come fossero un giorno (Ps. 89, 4; 2Pt. 3, 8 cit. ad es. in Art.
proph., p. 59), siamo nella sesta era (Eb. 4, 3-4), secondo “quella sentenza di pa-
dri antichi e di Rabbini, che alle sei giornate della creazione corrispondeno sei
millenarii della vita del mondo” (Disc. Cometa, p. 73), ovvero il sesto sigillo
(Apoc. 6, 12sg, cit. in Supplizio, p. 85), oppure nella decima o undicesima “parte
dell’era divisa in dodici da Esdra” (Supplizio, pp. 87 e 159, riferendosi alla quin-
ta visione del non canonico 4Esdr. 12, 14, ma presente nella BS). Dunque, man-
cano circa quattro secoli al compimento della sesta era, iniziata nel 1050 con
San Bernardo;679 ma poiché sono tante le mutazioni che devono ancora inter-
venire, è agevole ritenere che esse comincino a manifestarsi fin da subito. La
Chiesa stessa, come confermano concordemente i profeti (da Gioacchino, Ex-
posit. III, 133 e Santa Brigida, Revel. VI, 67 fino ai contemporanei, come “il B.
Giovanni vescovo, li cui Vaticinii sono stampati in Venezia l’anno 1600” [Disc.
Cometa, p. 73]), sta per entrare o è appena entrata nella sesta età (quella in cui
nasceranno i “riformatori del mondo” [Art. proph., p. 41]), scandite dalle tragi-
che piaghe dell’Apocalisse, ognuna cioè contraddistinta da un suo peculiare An-
ticristo (il precedente, l’Anticristo della quinta età, era Lutero); dopo quello
che sta per sorgere e che sarà l’ultimo e il più tremendo, e sarà il messia giudeo
atteso dagli ebrei, così come domenica Dio si riposò, anche l’ecumene avrà
quiete, e verrà la Pasqua d’oro terrestre, che precederà l’ottava, e ultima, l’Al-
leluia celeste. Perciò, nell’immediato, bisogna attendersi secoli bui, bagnati di
lacrime e sangue: ‘estote parati’, perché “post 400 annos expectamus interitum
mundi, vel renovationem” (Art. proph., p. 59).680

677
“Cum mundi aetas sit incertissima” (Astrol., p. 75); “non si può assegnare al mondo una
durata determinata”, perché “tutti questi calcoli sono incerti tanto dal canto del moto degli
astri quanto dal canto dei numeri della Bibbia” (Theol. XXV, pp. 59 e 181).
678
Astrol., p. 74; Theol. XVIII (I, p. 11-3): “il mondo ha da durare sei millenni nei travagli e un
settimo millennio nella pace”; bisogna accogliere “la sentenza dei Rabbini che attribuiscono
alla vita del mondo seimila anni seguendo le parole di Elia profeta divinissimo, che molti ri-
gettano come apocrife” (Theol. XXV, p. 33).
679
Le precedenti cinque ere vanno da Adamo a Noè; da Noè ad Abramo e Giacobbe; da Gia-
cobbe ad Elia; da Elia alla distruzione di Gerusalemme sotto Vespasiano; da S. Giovanni a S.
Bernardo (Theol. XXV, pp. 75, 83, 89, 99, 109, 125).
680
La profezia apocalittica dei secoli avvenire, contenuta in Theol. XXVI (‘De Antichristo’), è
anticipata e sintetizzata da un capoverso di Theol. XXV: “Al sesto sigillo appaiono l’Anticristo
COMMENTO AL TESTO 681

1.1. Sistema solare


L’avvicinamento del Sole, pur essendo compatibile con i principi fisici telesiani
(e quindi più che un’anomalia, sarebbe da considerare un quarto tipo di moto
planetario), da principale sorgente della vita, dei movimenti e dei mutamenti
terrestri, col tempo diverrà anche la causa della sua distruzione (Quaest. phys. II
II: “Cum ergo caelum sit terra robustius, et sidera terrestribus”). “Tutto viene
dalla calata continua che fa il Sole” (Antiven., p. 135): segnali ed effetti di que-
sto graduale, anche se incostante, avvicinamento, sono:
1. riduzione dell’eccentricità: il rapporto fra la parabola solare e il suo fuoco
(= Terra) era all’epoca di Ipparco (ca. 130 a. Cr.) di 417 parti (una parte =
1/10.000 del raggio terrestre), “mentre sotto Copernico è di 265” (Theol.
XXV, p. 173);
2. restringimento dell’orbita solare: si è quindi accorciato l’anno (Metaph. III,
9 e 19), e l’angolo fra l’equatore celeste e il piano dell’orbita solare; in pra-
tica la fascia dei Tropici che era larga 23°51’20” all’epoca di Aristarco e To-
lomeo, adesso Copernico ha constatato esser ridotta a 23°28’30” (Art. proph.,
p. 68; Disc. Cometa, p. 69: 23°52’55”→ 23°28’31”);
3. spostamento degli apogei, intervenuto dopo l’avvento di Cristo di circa 36°:
“quel del sole era a quattro di Gemini ed or [= 1628] si trova in dieci di Can-
cro” (Lettere, p. 219; v. punto 2 del § sg);
4. accorciamento del cono d’ombra durante le eclissi, e di quella degli gnomo-
ni;
5. evoluzione della civiltà: cultura e colture (come quella della vite in Germa-
nia) si sono spostate dall’equatore verso Nord e da Est verso Ovest (Disc.
Princ., p. 132-3; Theol. XXV, p. 173-5);
6. infine si sono anticipati gli equinozi e solstizi - oltre che per lo slittamento
della fascia zodiacale, di cui si va a parlare.
1.2. Sistema stellare
Le anomalie che riguardano il resto dell’universo sono:
1) La regione delle stelle fisse, quella più estrema, ruota in senso antiorario,
mentre nell’antichità si muoveva in avanti (Theol. XXV, p. 177: perciò “le
stelle che erano a nord dell’equatore, si trovano adesso a sud e viceversa”),
mediamente in ragione di 1° ogni 66 anni (Astrol., p. 71); mediamente, per-
ché anche questo slittamento è incostante, e non c’è sempre stato (Astrol., p.
74-7), ma è iniziato “subito dopo la profezia di Aggeo”, cioè “500 anni prima

e le Bestie anticristiane, e si vede sorgere la città del demonio che siede come la meretrice so-
pra la Bestia. Cristo, che è il Sole, si oscura, perché la fede degli uomini in lui viene oscurata
per opera dell’Anticristo, come la fede di Adamo fu oscurata dal demonio, e Eva, la Luna,
che è la Chiesa, è insanguinata per le stragi inflittele dagli Anticristi… Dal cielo della Chiesa
cadono le stelle, cioè i Dottori. Il Cielo, che è la Chiesa, si ritira nel Nuovo Mondo, oppure
nelle caverne, arrotolandosi come un libro che non si legge” (p. 131); finalmente ritornerà
Gesù, “per stabilire sulla terra nel settimo millennio [intorno al 2000] un regno che nell’ot-
tavo dovrà poi essere trasferito al cielo dei cieli. Infatti avremo forse un paradiso di delizie in
tutto l’orbe fino al momento in cui sarà distrutta la coda dell’Anticristo” (ib., p. 125).
682 LA CITTÀ DEL SOLE

di Cristo”.681 A partire da allora, sempre più rilevanti divergenze furono no-


tate dagli astronomi posteriori (da Menelao e Tolomeo un secolo dopo Cri-
sto, fino a Copernico e Tycho: Theol. XVIII [I, p. 53]), per cui le stelle, che
erano a 0° di Ariete, sono ormai arrivate a lambire i Gemelli; e così via le al-
tre (156.9), con conseguente precessione degli equinozi (114.11-2; 156.7),
che hanno indotto il Pontefice a riformare il calendario.682 Per spiegare tali
“esorbitanze”, gli astronomi hanno fatto ricorso anche al “moto ‘in posterio-
ra’ nell’ottava sfera” (Lettere, p. 220), completato in 36000 anni (secondo To-
lomeo: v. infra § 2, punto 1): in base al principio aristotelico, per cui a ogni
moto semplice doveva corrispondere un corpo semplice, ogni moto nuovo
delle stelle doveva esser attribuito ad una sfera particolare. Allora gli astro-
nomi hanno postulato l’esistenza di un ulteriore cielo ‘fisso’ superiore a
quello delle stelle fisse, “perché ritengono che debbano necessariamente
ammettere la nona sfera tutti coloro che abbiano osservato che l’ottava si
muove da occidente a oriente” (Pico, II, p. 229).683 Ma C., reputando che la
precessione non è nata con l’Universo, ma è iniziata 5 secoli prima della ve-
nuta del Messia (i cardini si erano già spostati di 5° nell’anno 0), proprio co-
me segnale divino presagito da Aggeo (v. supra nota 680), respinge l’esisten-
za di cieli ‘anastri’: “lo spostamento dei cardini era soprannaturale, signifi-
cava l’avvento di Cristo, e non ebbe mai luogo prima del tempo di Aggeo,
come abbiamo dimostrato contro gli Astronomi e contro Pico. Né i cardini
stellati furono mai distinti da quelli non stellati, come pensa falsamente il
Cardano” (Theol. XIX, p. 139).684 E dunque è a causa della precessione dei
segni, oltre che del restringimento delle loro orbite, che si ha lo spostamen-
to degli apsidi planetari; in partic. gli apogei anticipano di oltre 30° (Theol.
XVIII [I, p. 53]), per cui ad es. Mercurio che sotto Tolomeo aveva il suo apo-
geo nel 7° della Bilancia, adesso è a 0°25’ di Sagittario; “l’apogeo del Sole
dal quarto dei Gemelli e ora nel 1600, secondo Ticone, si trova nell’ottava
parte del Cancro” (Theol. XVIII [I, p. 53]); Saturno che era a 23°3’ di Scor-

681
“Adhuc modicum et movebo caelum et terram, et veniet desideratus cunctis gentibus”, ov-
vero il Messia (Agg. 2, 7-10, cit. in Lettere, p. 220). In Astrol. ritiene che è a partire da Ipparco
che “il Sole è incessantemente, seppur irregolarmente, sceso verso la Terra, tanto che l’equi-
nozio non avviene più nel primo grado dell’Ariete, ma nel secondo dei Pesci” (pp. 22, 29 e
69-70); nel successivo Theol. XXV invece: “solstizi ed equinozi anticiparono sempre dal tem-
po dell’astronomo Metone che visse nel 433 a. Cr.” (p. 57).
682
Gregorio XIII fece seguire al 4 ottobre 1582 il 15 ottobre (Art. proph., p. 69-70).
683
“Secondo il Werner del De motu octavae sphaerae, era necessario postulare un terzo cielo
anastro [= privo di astri] per spiegare una nuova variazione… nel ritmo della precessione”
(Lerner 1992, p. 55).
684
Da Aggeo “in qua s’avvicinò il sole a terra… le figure celesti permutate e altre varietà mi-
rabili, le quali non furo avanti, come Pico malamente contra li Caldei, de inerzia conden-
nandoli, asserisce” (Lettere1, p. 58).
COMMENTO AL TESTO 683

pione al tempo di Tolomeo, ora è a 29°27’ di Sagittario (Theol. XXV, p. 177);


Marte era a 25°30’ di Cancro ora è 28°6’ di Leone.685
2) In secondo luogo vi è l’apparizione di una nuova stella, annunciata dalla Si-
billa Tiburtina ed effettivamente osservata da Tycho nel 1572 nel seggio di
Cassiopea (136.23),686 cui poi se ne aggiungeranno altre (nell’‘Egloga’ si ri-
corda quella “nel petto del Cigno” [169, 23, Esp.]); in Theol. XVIII (I, p. 55)
e Theol. XXV (pp. 131-3 e 185) è chiarita l’importanza profetica di questa
stella, ponendo quest’equazione: come la stella di Ipparco annunciò la ve-
nuta del Messia, “per ammonire che i mortali dovevano considerare questi
segni nelle stelle… allo stesso modo nell’imminenza del suo secondo avven-
to Dio accese non una cometa, ma una stella nuova che è situata nell’ottavo
cielo stellato, come dimostra la mancanza di parallasse, nel sedile di Cassio-
pea, moglie etiopica di Mosè, tipo della Chiesa sposa di Cristo, come dice
Origene. Questa stella nuova fu descritta da moltissimi astronomi e segnata-
mente da Ticone, nuovo Ipparco, nel novembre del 1572… Bisogna anche
notare che l’apparizione di questa nuova stella fu profetata dalla Sibilla Ti-
burtina, come appare da un’iscrizione marmorea trovata l’anno 1520 nelle
viscere del Monte Tauro tra gli Svizzeri, come attestano Gemma Frisio e Ti-
cone Danese: dopo questa stella afferma Ticone che si deve aspettare la fine
del mondo e le esorbitanze delle stelle, precedute però da un regno mirabi-
le in una parte di tutto il mondo. Questo regno si intende dover venire dopo
la caduta dell’Anticristo”.
2. Astrologia mondiale
Premesso che le stelle inclinano ma non determinano gli eventi, comunque le
configurazioni astrali sono alla base delle mutazioni terrestri, sia individuali
che generali. La loro previsionalità si basa sul principio dell’analogia, che a sua
volta riposa sull’ontologia unitaria. Ovvero: “la somiglianza è influsso dell’u-
nità, e siccome tutti gli enti numerosissimi derivano dal primo ente, che è uno
e sommamente uno, così essi sono simili tra di loro”; poiché tutto deriva dal-
l’uno, tutto si somiglia, secondo una “triplice somiglianza: la prima è quella tra
i principii di una cosa e il loro sviluppo; la seconda è quella tra cosa e cosa; la
terza è quella fra parte e tutto. Il seme infatti porta in sé l’idea dell’albero, e il
pomo di quest’anno assomiglia al pomo dell’anno venturo; il giorno assomi-
glia all’anno e l’individuo alla città” (Theol. XXV, pp. 29 e 31). Dunque l’analo-
gia e la ciclicità dei fenomeni naturali, compresi quelli celesti, permette la pre-
visionalità, sebbene l’altra regola generale dei fenomeni astrologici è che
quanto più essi sono rari, diuturni e numerosamente concentrati, tanto più so-
no forieri di cambiamenti radicali:
1) Una delle teorie più antiche per giustificare la precessione degli equinozi e

685
Si notino le dissimmetrie tra Astrol., p. 69 e 136.14-22; mentre concorda con T.154.21:
“l’abside di Giove era a 10° e 2’ della Vergine e ora è a 6°52’ della Bilancia”.
686
In L. essa è considerata il segnale del cambio di trigono (v. 136.16 in ‘Apparato delle va-
rianti di α’).
684 LA CITTÀ DEL SOLE

lo slittamento delle figure zodiacali è “metter moto ‘in posteriora’ nell’otta-


va sfera, il quale si complisse in trentaseimila anni, secondo Tolomeo e Ip-
parco: e dopo questo circuito aspetta Albumassar ed altri il fin del mondo,
perché invero non convien dire che si finisca il mondo pria che si finisce
una circulazion almeno del primo mobile” (Lettere, p. 220). A tale teoria
(che risale a Platone, Tim. 41c-d e agli stoici) in un primo momento aderisce
anche C.: “quando tutti questi moti di stelle fisse et erranti torneranno al lor
principio, sarà finita la trasmutatione d’ogni cosa e ‘l corso della vita mon-
diale, et fia quello che appar buono et bello alla Ragione eterna” (Epilogo, p.
218). Successivamente nutrirà dei dubbi (Astrol., p. 75: “hanc in incerto reli-
quo”), a seguito delle troppe variabili aleatorie: incertezza sull’età del mon-
do (“mancano del tutto delle ipotesi su cui stabilire saldi fondamenti” [Syn-
tagma IV IV: v. n. 116.6 per il contesto esteso di questa citaz.]) e sul fatto che
la precessione ci sia sempre stata (i Caldei non l’hanno mai registrata). Infi-
ne la rifiuterà senza mezzi termini: “Quando, dice Albumasar, i moti di tutte
le sfere e di tutti i pianeti saranno tornati nel punto donde cominciarono,
tornerà la stessa faccia del mondo e risorgeranno i morti, uomini e cose pas-
sate: e questo si può provare dal pensiero di Platone nel Politico e nel Fedro…
Ma al contrario noi abbiamo mostrato nell’Astronomia e nella Metafisica che
questa reversione simultanea di tutte le cose è impossibile sia perché la per-
petua variazione degli astri e delle sfere si svolge in linea retta e non circola-
re, sia perché i pianeti calano a noi incessantemente, sia perché le loro ano-
malie non si corrispondono vicendevolmente. Infatti non perché il giro an-
nuo del Sole e il giro mensile della Luna ritornano nello stesso punto si darà
reversione di tutti i corpi celesti” (Theol. XXV [1623], p. 55; ma anche Theol.
XXVIII I, V e Quod rem. 4, p. 158). Già in Lettere [1606], p. 23 riteneva che al-
lorquando i solstizi slitteranno “al proprio quatrato”, cioè lo Zodiaco scor-
rerà di 90°, si avrà un ribaltamento cosmico, sia per ragioni astrologiche (ne-
gatività delle quadrature) che temporali: i 36000 anni calcolati da Tolomeo,
in ragione appunto di 1° ogni secolo, sono troppi rispetto ad altri dati (es. la
velocità di avvicinamento del Sole alla Terra); più attendibili sembrano inve-
ce i calcoli di Copernico, secondo i quali, supponendo che la sfera delle stel-
le sia sfalsata già di 77°, occorrono circa 1000 anni per arrivare a 90°, cioè al-
la quadratura completa, che corrisponde a 12° di Acquario, “indicem mortis
saeculorum et vitae novi mundi” (Art. proph., p. 264; Lettere, p. 65).
2) Lo spostamento degli apsidi avviene ogni 1500 anni per il Sole, “in caeteris
planetis diversis temporibus, ut e Copernico et Thycone adnotatur” (Astrol., p.
72; a 130.22-3 si parla di 1000 o 1600 anni). In Theol. XXV è ancor più generi-
co: “le reversioni degli apsidi [si verificano] in periodi molto maggiori” (p.
29); con ‘reversione’ si intendono due cose: la ‘recessione’, cioè l’arretramen-
to di apogei e perigei planetari, in seguito al restringimento delle orbite;687 e il

687
“Gli apogei, che per molti secoli sembrarono stabili, si sono ritirati [= recesserunt] di qua-
si 28 gradi” (ib., p. 131).
COMMENTO AL TESTO 685

loro ‘spostamento’ [= motus], “scoperto recentemente da Copernico”, rispet-


to ai segni (v. supra § 1.2).
3) Ogni 795 anni le grandi congiunzioni fra i pianeti superiori ritornano allo
stesso trigono, il primo dei quali è quello di fuoco (Ariete-Leone-Sagittario).
4) Un sottoinsieme del caso precedente: passaggio delle grandi congiunzioni
da un trigono all’altro ogni 199 anni circa. “Però anche in questi periodi esi-
stono delle anomalie con rallentamenti e accelerazioni propri che, secondo
Copernico, tornano ogni 1717 anni (ma Ticone calcola altrimenti)” (Theol.
XXV, p. 29).
Seguono poi una decina di altre circostanze astrali significative, tra le quali il
transito di Giove in un segno equinoziale (come Bilancia), ogni 30 anni. Inve-
ce caso a sé, e di notevole risonanza, è l’apparizione di una nuova stella, come
quella nel seggio di Cassiopea. Quest’ultimo può essere addirittura il segnale
dell’inizio di un grande sconvolgimento: analogamente a come una nuova stel-
la (cometa) annunciò la nascita di Cristo e dell’impero Romano, così una stel-
la di ottava grandezza proprio in alto nel cielo, e quindi visibile da tutti, non
può che annunciarci il Suo ritorno e l’avvento di una nuova monarchia (Art.
proph., p. 75-7).
Una cometa o un’eclisse generalmente annunciano l’avvicendarsi bisecolare
dei trigoni, secondo quanto insegnava l’astrologia araba a partire da Albuma-
sar e Alkindi (Art. proph., p. 272). In partic. la qualificazione (positiva o negati-
va) dell’eclisse, comunque di breve durata (al massimo 30 mesi), varia princi-
palmente in base al segno in cui si verifica: se è equinoziale (Ariete, Bilancia)
ha particolare efficacia sulle cose sacre e le religioni; se la forma del segno è
umana (es. Vergine), ha effetto sugli uomini, e così via per i segni notturni, ma-
schili ecc. Tra i pianeti, i Luminari (Sole e Luna) sono gli autori degli eventi,
come signori; i restanti pianeti sono qualificatori e tra essi Mercurio si caratte-
rizza per la sua impetuosità in tutto, in specie nelle cose attinenti la religione, i
sacerdoti, la mutazione di leggi e costumi.
Dopo aver chiarito il quando si può verificare un evento, bisogna adesso stabili-
re il dove. Infatti ogni regione del mondo ha una sua sfera astrale di influenza.
La Terra è suddivisa in tre fasce principali, secondo i paralleli, per ognuno dei
due emisferi: equatoriale, temperata,688 boreale (= artica); queste tre fasce a lo-
ro volta si suddividono così: la prima zona di 23° circa vede Giove dominare sul-
la regione equatoriale, Venere sulla striscia intermedia, e Saturno su quella de-
limitata dal tropico del Cancro; la seconda zona, che chiamo modernamente
temperata, è anch’essa tripartita: da 23° a 38° Venere, in mezzo Giove, e quindi
la corona circolare prossima ai 70° è dominata da Marte; la terza fascia, invece,
il Circolo polare artico (70°-90°), è totalmente sotto l’egida dell’algido Saturno.
Le anomalie astronomiche però incidono e alterano questi fattori astrologici:
• A causa della progressiva diminuzione di distanza pianeti-Terra, è variata sia
l’intensità (la quale oltre che della distanza, è funzione della variazione del-

688
“Extra tropicos usque ad 70 gradus priores” (Astrol., p. 78).
686 LA CITTÀ DEL SOLE

la velocità di avvicinamento) che il loro rispettivo cono d’influenza, per cui,


ad es., Venere, che incideva sulla regione nordafricana, adesso domina l’Ita-
lia, mentre Giove ci ha abbandonato spostando i suoi benefici effetti su Gal-
lia e Germania. E così sono mutati anche i climi: la prossimità del Sole ha
surriscaldato le zone circumtropicali e reso più miti quelle settentrionali; la
ristretta fascia equatoriale (per l’identica durata giorno/notte) continua a
mantenere il suo clima temperato.
• La precessione degli equinozi sconvolge anche i trigoni: quando infatti un
trigono entra in un altro (cioè tutte le stelle di Ariete entrano in Toro, di
Leone in Vergine, di Sagittario in Capricorno), il che avviene circa ogni mil-
le anni, si hanno potenti sconvolgimenti (ad es. la regione posta sotto quel
trigono invade quella posta sotto l’altro: l’Europa invade l’Asia); e così, na-
turalmente, vale per i singoli segni: ad es. quando fra 600 anni Regolo, la
stella centrale del Leone, passerà in Vergine, forse l’Italia perderà la sua li-
bertà (Astrol., p. 72).689
2.1. Il passato
Alla luce di questi dati siderei, è possibile reinterpretare il palinsesto della sto-
ria umana passata, che permetterà di capire il presente, e, principalmente, di
prevedere le tappe probabili del (poco) cammino che ancora ci resta.
In relazione al progressivo avvicinamento del Sole, si sono succedute le civiltà:
nella prima età, quando l’Astro era molto più distante, le zone intorno ai Tro-
pici erano temperate, mentre quelle settentrionali erano più fredde; grazie a
questa mitezza dei raggi, gli spiriti animali degli uomini ivi viventi (gli Etiopi)
erano molto puri, e dunque si poté sviluppare una civiltà molto fiorente. Inve-
ce le regioni nordiche, molto più rigide di adesso, non permisero un’analoga
maturazione delle forze vitali, e di conseguenza erano molto arretrate. A mano
a mano, però, che il Sole si avvicinava, i Tropici (e non la fascia equatoriale,
che, per le ragioni espresse nel nome stesso [equi-noziale], gode di una peren-
ne primavera) si sono isteriliti, come pure gli spiriti dei loro abitanti che han-
no cominciato a tralignare (la Prudenza è divenuta astuzia, ecc.), fino a tra-
sformare le loro terre in deserti e a bruciare anche i loro corpi che sono diven-
tati neri. Di converso a Nord, il clima diventava sempre più temperato, provo-
cando così la migrazione delle religioni, leggi, arti e scienze prima agli Egizi e
Caldei, poi agli Ebrei, Greci, Romani, quindi, nella nostra era, ai Galli, e final-
mente agli Spagnoli. Questa ascesa della luce della civiltà Sud→Nord è perfet-
tamente equivalente (o equipollente) al movimento del progresso Est→Ovest
(il corso del Sole), e ciò spiega perché gli Spagnoli siano gli ultimi civilizzati (e
civilizzatori mondiali) della storia; per l’equivalenza Oriente/Mezzogiorno (e
Occidente/Settentrione), infatti la civiltà, e in partic. la religione è nata in

689
All’inizio dell’età moderna era “nozione generalmente accettata dai dotti che la ‘circola-
zione’ [“orbis maximus”] di ogni segno zodiacale dura per un periodo di mille anni e che, al
mutare del suo influsso, corrisponde la variazione della fortuna degli stati e delle ‘sectae’”
(Vasoli 1977, p. 46).
COMMENTO AL TESTO 687

Oriente e si è arrestata a quelli che erano i confini occidentali del mondo; ma


la Spagna, sulla punta dei suoi pennoni e delle sue spade, ha scoperto la via oc-
cidentale per propagarla al Mondo nuovo, da dove, via Giappone e poi Mar
Rosso, ritornerà dond’è venuta, cioè a Gerusalemme (lei, e non Roma, sarà la
capitale del mondo unito in ‘unum ovile’).
L’avvicinamento del Sole è il motore principale dell’alterna fortuna delle Ci-
viltà, non solo spaziale, ma anche temporale: “secondo quest’avvicinamento ir-
regolare il dominio, l’organizzazione statuale, la religione, le arti e i costumi
degli uomini, e le coltivazioni agricole, progredirono, perché così progredì la
temperatura dei corpi e della terra in modo congruo al genere umano” (Art.
proph., p. 281). L’accelerazione del suo moto implica anche un’accelerazione
del volano del progresso, come si vede nell’ultimo secolo, in cui in Germania,
nazione fino a non molti secoli or sono barbara – se non proprio sub-umana, a
sentire gli storici romani –, sono state inventate la stampa, le bombarde e gli
orologi, invenzioni di cui hanno goduto specialmente gli Spagnoli, per le con-
giunzioni astrologiche a loro favorevoli. Questo boom delle scienze e delle sco-
perte sta a indicare, oltre ad altri segnali, la brusca impennata che il moto di
traslazione del Sole sta compiendo verso la Terra. Dunque la fine è prossima.
Sempre da un punto di vista geopolitico, quel che ancora manca al completa-
mento dei segnali divini è ‘un solo pastore in un solo ovile’, cioè la riunificazio-
ne di tutte le genti sotto un’unica religione (136.13; Lettere, p. 15). Bisogna dar-
si da fare per ottemperare a quest’altro segnale del Libro di Dio (all’appello
ecumenico mancano ancora la fascia artica e antartica, le regioni settentrionali
dell’Asia e quelle interne all’Africa). A ciò provvederà la Spagna. Non solo poi-
ché all’orizzonte (doppiamente ristretto per chi è rinchiuso in galere spagnole)
non si profilano altre potenze imperiali;690 ma essenzialmente per la posizione
estrema, di ‘finis terrae’, della penisola iberica: dove mai potrebbe trasferirsi più
l’arca della civiltà? Il suo tragitto da Sud a Nord si arresta alle colonne d’Ercole,
per riprendere di slancio e di volata da Ovest a Est. Chi è alla fine del mondo
dominerà un mondo ormai alla fine: sarà il monarca di Spagna che convocherà
il concilio di tutte le religioni, sconfessandole e quindi convincendo, con la pa-
rola dei frati predicatori e (ove non bastasse) con la spada, tutti i popoli a con-
gregarsi sotto il Papa. A quel punto la storia è finita. Comincia l’Eternità.
2.2. Il futuro
All’incirca nel 500 a. Cr., in base alle osservazioni degli astronomi dell’epoca, si
iniziarono a registrare quelle stranezze orbitali sopra descritte; bisogna infatti
tener presente che tutte le anomalie è come se fossero un’unica anomalia, cioè
se si attiva una, si attivano tutte (Art. proph., p. 279). In effetti sotto Giulio Cesa-
re, anche lui ‘Pontifex Maximus’, vi fu una riforma del calendario, proprio co-
me con Papa Gregorio XIII: cioè queste anomalie, iniziate lentamente, subiro-

690
Mai nominata la Francia, forse perché ritiene che dopo Carlo Magno abbia chiuso il suo
ciclo sullo scacchiere mondiale; escluse per motivi geografici e religiosi Svezia, Inghilterra e
Olanda.
688 LA CITTÀ DEL SOLE

no una brusca accelerazione, che culminò nel 600, con Maometto e Carlo Ma-
gno. Poi nuovo rallentamento, il che vuol dire che forse il prossimo scossone
delle fondamenta dell’universo non sarà solo un sinistro scricchiolio, ma quan-
do i segni cardinali raggiungeranno e invaderanno le sedi poste alle loro qua-
drature, il cosmo ritornerà caos.
Poiché mancano pochi secoli a quest’ora fatale691 e molte sono ancora le cose
che le profezie hanno preannunciato (ad es. l’avvento del più temibile fra gli
Anticristi), è lecito supporre che i cieli e la terra debbano portare traccia di
sconvolgimenti così clamorosi. La settima età, nella quale dovrebbe instaurarsi
il secolo aureo, “può esser incominciata col Concilio Tridentino, oppure l’anno
1603, quando, passati tutti i trigoni, le grandi congiunzioni tornarono al primo
punto in cui cominciarono la legge di Cristo e di Mosè” (Theol. XXV, p. 157).
Infatti, secondo gli astrologi, come Cardano, a partire dal 1583, oppure, secon-
do i profeti, come Serafino da Fermo, a partire dal 1600, o forse proprio dal
1572, quando apparve la nuova stella in Cassiopea, ci si sarebbe dovuto atten-
dere un monarca universale e una generale riforma delle leggi. Ma la data fati-
dica pare proprio il 1603, ‘annus mirabilis’ per più versi, a partire dal numero
stesso formato “di sette e nove centinaia, numeri fatali, e del tre, numero per-
fettissimo” (Poesie, 56, Esp.), anno in cui le grandi congiunzioni tornano dopo
800 anni nel I trigono, e proprio il 24 dicembre: “e tali segni io vedo in cielo e
in terra che stupirà il mondo tutto” (Lettere [1606], p. 21). Ma procediamo con
ordine. Distinguiamo anzitutto questi segnali divini, appunto in terrestri e ce-
lesti, e poi vediamo quale scenario lasciano scorgere.
2.2.1. Segnali terrestri
Alcuni segnali sono naturali, altri sono preternaturali; beninteso, anche la na-
tura è sempre “Dei instrumentum et ars”; ma i segnali naturali, anche se hanno
cause strumentali fisiche, sono pure segni divini, come l’arcobaleno, che è cau-
sato dai raggi del Sole contro le nubi, ma che tuttavia “est signum foederis in-
ter Deum et homines” (Art. proph., p. 258). Analogamente i seguenti fenomeni
sono indicati dal Vangelo come segni del giudizio universale: “sendo stato que-
sto anno grandi inondazioni in Roma e Lombardia e gran terremoti in Sicilia e
in Calabria, io predicai in Stilo, secondo l’Evangelio, che queste cose significa-
no mutamento nelle cose umane…” (Supplizio [1599], p. 54). Prima che dal
Vangelo, l’ispirazione può essergli venuta, ancora una volta, dal suo compagno
di cella del Sant’Uffizio romano, un nome ‘indicibile’, data la fine che aveva
fatto: Francesco Pucci infatti preconizzava un imminente radicale rinnovamen-
to (l’“aspettata nova redenzione”: Poesie, p. 477); sosteneva che “il tempo pro-
fetato è vicino: abbiamo avuto il regno della femmina, del quale parla l’oraco-
lo sibillino; la cometa del 1577 ha annunciato quel che sta per avvenire; il sole

691
“Poiché si adempia la profezia dell’Apocalisse si richiedono 40 anni oltre i 2000 che devo-
no passare dopo Cristo, e siccome ci troviamo ormai nel 1623… ci rimangono 417 anni”
(Theol. XXV, p. 63); a cui poi vanno aggiunti i 1000 anni, “come si ricava dal cap. 20 dell’A-
pocalisse”, che corrisponde al riposo di Dio e quindi della Chiesa, che vivrà un periodo aureo.
COMMENTO AL TESTO 689

si avvicina alla terra… Sisto V doveva essere l’ultimo pontefice della cristianità,
e la sua elezione fu accompagnata da sinistri auguri: il Tevere uscì dal suo letto
e inondò la città” (Cantimori 1949, p. 381).692
Il brusco avvicinamento del Sole è la causa di incendi, terremoti, inondazioni
ed epidemie: infatti, riscaldando fortemente la Terra, provoca un’intensa eva-
porazione anche nelle sue viscere, e questi vapori sono la causa di tutte e tre le
calamità (gli incendi sono causati direttamente): non potendo fuoriuscire,
squassano o dirompono la terra, donde le grandi piogge e conseguenti allaga-
menti (l’inondazione del Tevere fu talmente rovinosa che non si celebrò nean-
che la messa di Natale [Art. proph., p. 295-6]); e i vapori mefitici, a causa del-
l’eccessivamente rapido, e perciò imperfetto, processo di combustione, provo-
cano la peste. Infine la scoperta del Nuovo Mondo avvera un’altra profezia
evangelica, secondo cui il Mondo Nuovo (cioè rinnovato) si avrà solo quando
ci sarà ‘un solo gregge e un solo pastore’, cioè, come già detto, quando il Van-
gelo sarà predicato a tutti (Art. proph., p. 72).693
Di dubbia natura (preternaturale o naturale) è un’invasione inaudita di caval-
lette (Supplizio, p. 89); mentre decisamente preternaturali sono “visiones dirae
in aere” (Art. proph., p. 257), come quelle che precedettero la distruzione di
Gerusalemme: “a Stilo nel luglio del 1599 si vide una grande cometa e una sca-
la nell’aria che recava in cima un cipresso”; e i “prodigia” (Art. proph., p. 258)
della cugina Emilia, una popolana ignorante, che, morta da otto ore, risuscitò
e cominciò improvvisamente a disquisire di teologia e a profetizzare come una
sibilla (Supplizio, pp. 90, 163-73);694 e ancora lo scatenamento delle potenze in-
fernali: attraverso le pratiche negromantiche con il compagno di cella Felice
Gagliardo (v. n. 112.20-30, n. 144.27-146.2), furono evocati demoni spacciatisi
per angeli, che interpretarono falsamente i segni celesti, e fu proprio la cugina
Emilia a svelargli gl’inganni diabolici (Lettere, p. 37-40). Infine vi è un’altra se-
rie di profezie annunciate dall’Apoc. e da Gv. 2, 28, cioè l’avvento di un Anticri-
sto: non ci sono stati mai tanti eretici come in questi ultimi duecento anni, cioè
dopo Wyclif (154.13), il principale dei quali, nonché penultimo Anticristo, è
Lutero (Art. proph., p. 73-4).695

692
In SH XXXI CVII, sono elencati i sette segni forieri della fine del mondo, e in CXII si di-
chiara che essa avverrà per fuoco: il fuoco “faciem huius mundi comburet, peribuntque coe-
lum et terra, non secundum substantiam, sed secundum speciem, quae mutabitur in melio-
rem – coelum dico aereum non aethereum”.
693
“Fra Tommaso, mosso da profezie naturali e divine, disse che presto il mondo sarebbe sta-
to distrutto… Ora io vedo i segni… oltre l’intiepidirsi della carità e gli scismi, è stato infatti
predicato il Vangelo al Nuovo Mondo” (Supplizio, p. 85-7; questo tema è approfondito in
Mon. Messiae).
694
Anche in questo caso la congiuntura fisiologica – la cugina era affetta da mal caduco, causato
da una maligna configurazione astrale e dalla disposizione degli umori melanconici (Senso, p.
202-3) – viene sussunta a specchio e strumento a servizio di una Volontà trascendente.
695
La fonte sarebbe una profezia di Serafino da Fermo (Theol. XXV, pp. 161 e 169: v. n.
130.22-3 e § sg).
690 LA CITTÀ DEL SOLE

2.2.2. Segnali celesti: la Grande congiunzione del 1603


Il ritorno delle grandi congiunzioni dal IV al I trigono (136.15, 142.22) era
considerato un evento di somma importanza, in base al principio generale che
un fenomeno astrale quanto più è raro tanto più è influente: “or sa ciascuno
che non si fan più congiunzioni magne nelli detti trigoni, né anco in quello di
Cancro… ma si finirono l’anno 1583 in quello, ed or si fanno nel trigono d’A-
riete… sotto cui nascono le monarchie, sendo il Sole e Giove pianeti principi
del cielo… e Marte è come loro alguazile [= ministro]” (Antiven., p. 134-5). In
seguito a colloqui avuti sul finire del XVI sec. con scienziati napoletani, C. ori-
ginariamente forse si aspettava che tale congiunzione si sarebbe verificata in-
torno al 1599-1600 (il che spiegherebbe anche l’anno della congiura e l’im-
portanza attribuita a quel numero fatidico): “ho atteso a diverse professioni de
scienza, e in particulare alla profezia… Pertanto, avendo considerato per l’isto-
rie vecchie quello ch’avea ad essere nel regno de Napoli… m’entrò in pensiero
che dovesse patire presto mutazione… Dopo, ragionando con diversi astrologi
(in particulare con Giulio Cortese napoletano, con Colantonio Stigliola, gran
matematico, e con Giovan Paulo Vernaleone),696 ho inteso da loro che ci dove-
va esser mutazione di Stato; e di più l’efemeridi di Cipriano Leovizio per li
gran eclissi, che cominciaro da due anni in qua e c’hanno d’essere sin alli
1605, mostrano gran novità, sendo che le mutazioni nelle cose magne signifi-
cano quelle che seranno fra gli uomini” (Supplizio [1599], p. 54). Successiva-
mente (entro il 1602, comunque) apprende che invece la grande congiunzio-
ne si verificherà il 24 dicembre 1603. Una sua dettagliata descrizione è in Art.
proph.: è la prima nel I trigono al 10° di Sagittario, “Mars in occidente in 7 Li-
brae” con Saturno, Giove e Mercurio tra nona e ottava casa (p. 285). E questa
data gli sembrerà ancor più fatidica della precedente, per quest’elenco di ra-
gioni (vi si sofferma lungamente in Art. proph. XVI-XVII e vi dedica due sonetti
[56 e 57]):
a) loro ritorno al I trigono (e precisamente nel Sagittario, segno di Spagna)
dopo 800 anni;697 tale ritorno era stato già preannunziato e potenziato da al-
tri segnali celesti: la ‘nova’ in Cassiopea (v. supra § 1.2 punto 2 e n. 136.23);
le eclissi comparse già nel 1600-1;

696
A Napoli nel ‘90 C. aveva fatto parte dell’‘Accademia degli Svegliati’, fondata da Giulio
Cortese, “letterato di cui sono state messe in luce le sorprendenti analogie e gli indubbi echi,
sia sul piano filosofico che politico, sul pensiero di C., che ne farà uno degli interlocutori nel
Dialogo contro Luterani” (Ernst 2002, p. 18, che rinvia a studi della Bolzoni e, più recentemen-
te, di W. Eamon, Natural magic and utopia in the Cinquecento: C., the Della Porta circle and the re-
volt of Calabria, ‘Memorie domenicane’, XXVI, 1995 [p. 369-402]; Formichetti 1999, p. 40-1;
M. Slawinski, La poetica di G. Cortese tra C. e Marino, ‘B&C’, VII, 2001 [p. 127-53]; Ernst 2003,
p. 9-10 sottolinea come in seguito alle conversazioni con questi tre ‘astrologi’, ma soprattutto
con Giovan Vincenzo Della Porta, C. passò dalla giovanile avversione anti-astrologica ad una
sua convinta accettazione).
697
L’800 è dato dal prodotto di 200x4: 200 è il numero di anni in cui Giove e Saturno si con-
giungono all’interno dello stesso trigono; 4 è il numero dei trigoni.
COMMENTO AL TESTO 691

b) “Il 1603 si compone di sette e nove centinaia, numeri fatali, e del tre, nume-
ro perfettissimo” (Poesie, 56, Esp.); il 1603 diventa numero doppiamente fa-
tidico: infatti è formato dal 1600 (che, ad es., fu l’anno del diluvio universa-
le: “Deus dixit ad Noe circa annos mundi 1600… ut aedificaret arcam”
[Quod rem. 3, 18]), composto a sua volta da 900 e 700 (il 7 e il 9 demarcano
cicli biologici e sociali cruciali), più 3, “numero perfettissimo”;
c) “Dall’anno 1603 a’ 24 di dicembre cominciano le congiunzioni magne nel
primo [trigono], ed è notorio fra gli astrologi, che ogni potestà sta per tor-
nare sotto un principe, come fu a tempo d’Augusto imperatore, nascendo
Giesù Cristo quando si facevano le dette congiunzioni magne nel primo tri-
gono, dove durarono duecento anni” (Antiven., p. 135); proprio la stessa
notte di dicembre di 1603 anni prima nasceva il Messia, e anche allora le
grandi congiunzioni erano appena ritornate al I trigono (e poi vi ritornaro-
no nell’800 d. Cr., quando la croce di Carlo Magno offuscò la mezzaluna);
dunque questo fatto strepitoso non può esser una mera coincidenza, specie
in presenza di altre coincidenze come ad es. la riforma del calendario nel
1582; “questa configurazione è la stessa che apparve alla nascita del Mes-
sia… e mai più si ripresentò da allora. Itaque magnam habet significationem
renovationis in lege sua” (Art. proph., p. 285);
d) per l’eccezionale concorso di pianeti: Giove e Saturno in Sagittario, insieme
a Mercurio in apogeo in posizione particolarmente dignificata (e per giunta
quel 24 dicembre 1603 era un mercoledì, giorno di Mercurio);
e) infine, per il successivo corredo di fenomeni astrali che fungono da specifi-
catori e attuatori dei decreti genericamente delineati dal quadro generale
della congiunzione di Saturno e Giove: ad essi (in partic. alle eclissi) allude-
va già nel passo di Supplizio prima cit.; nel 1604 “una gran cometa… la quale
io non ho potuto vedere per i guai miei”; nel 1605 “due eclissi lunari in Li-
bra e Ariete”, che sono segni equinoziali, cioè cardinali, posti a 180° sullo zo-
diaco, e perciò particolarmente potenti (v. n. 157.5 [f.p.]); “di più, quest’an-
no 1607 si fa un ecclisse [sic] in Pisces… Segue un’altra in Vergine” (Antiven.,
p. 136-43); e alla fine del 1618 tre fenomeni celesti, il principale dei quali fu
“una spettacolare cometa, con una coda che si estendeva per più di quaran-
ta gradi” (Ernst-Salvetti, p. 58), sulla quale C. scrisse immantinente un opu-
scolo a sfondo astrologico-profetale (= Disc. Cometa).
Se, dunque, gli influssi dei triangoli zodiacali sono ulteriormente potenziati,
non solo dal ritorno delle Grande Congiunzione, ma anche da altre configura-
zioni astrali ivi compresenti e sincroniche, allora questo è un segnale certo di
mutazioni sconvolgenti.
Che cosa annunciavano queste congiunture celesti? Quali conseguenze avreb-
bero avuto sulla terra? All’epoca della congiura, C. credeva di essere il novello
Noè (se non addirittura un Messia), traghettatore dei superstiti dell’immane
flagello prossimo venturo verso la nuova età dell’oro, che, una volta fatta puli-
zia generale del clero e dello stato corrotto, avrebbe regnato in tutto il mondo.
C. non avrà l’ardire (o la spudoratezza) di fare simili dichiarazioni per iscritto
(al massimo si possono tentare delle illazioni su certe strane reticenze: v. n.
136.14-25).
692 LA CITTÀ DEL SOLE

Volendo cercare di colmare queste lacune volontarie di CS, dobbiamo sforzar-


ci di abbracciare i 35 anni che separano Città da Civitas. Si vede allora che, in
seguito probabilmente allo scacco di una previsione a cui il materiale umano
restava sordo (perché lui marciva in galera e l’alba del secolo d’oro era ben
lungi dall’affacciarsi), C. reagisce nei due unici modi in cui il paradigma astro-
logico, cui è pervicacemente votato, glielo permette: a) rettificare e perfezio-
nare l’oroscopo, scrutando più a fondo ‘i segni delle stelle’; b) migliorarne
l’interpretazione, che, nel caso specifico, consiste nell’identificare esattamente
chi sarà il soggetto investito da questa missione rinnovatrice. Perché, che deb-
ba esserci una radicale rivoluzione che, per mano di un monarca/condottiero,
porterà al Mondo Unito, è l’unica, incrollabile certezza che non l’abbando-
nerà mai fino alla morte.
Il quadro oroscopico, anzitutto. Confrontiamo le redaz. dei mss T. R. L. e l’e-
diz. P. (ognuno confrontato con il suo immediato antecedente):

T.136.24: Ma entrando l’asside di Giove in Libra, pur segno di mutazione, sarà gran
monarchia nova e di leggi reforma.
R.(/T.): Ma entrando l’asside di Saturno in Capricorno e di Mercurio e di Marte
in Vergine presto che congiunzioni magne in primo trigono, sarà grande mo-
narchia nova e di leggi riforma e d’arti e profeti e rinovazione.
L.(/R.): Ma entrando l’asside di Saturno in Capricorno, e di Mercurio in Sagittario, e
di Marte in Vergine, e le congiunzioni magne tornando alla triplicità prima dopo
l’apparizion della stella nova in Cassiopea, sarà grande monarchia nova, e di leggi
riforma e d’arti, e profeti e rinovazione.
136.19(/L.): At cum mox intraverit Saturni absis in Capricornum, et Mercurii
in Sagittarium, et Martis in Virginem post primas synodos magnas et visionem
novae stellae in Cassiopea, monarchia nova insurget et reformatio legum, ar-
tium, et prophetae et renovatio.

Due differenze spiccano soprattutto:


1. in T. non si accenna alle grandi congiunzioni; in P., di converso, le prime
congiunzioni appartengono ormai al passato;
2. il quadro oroscopico di T. puntava sull’avvento dell’apogeo di Giove in Bi-
lancia; al suo posto ci sono quelli di Saturno in Capricorno, di Mercurio in
Sagittario (in R. deve esserci una lacuna), e di Marte in Vergine.
Nel complesso le varie versioni di CS indicano l’insorgere di tre tipi di cambia-
menti: a) alcuni eventi astrali indicati come di là da venire in un certo momen-
to, sono dati, in stesure successive, come effettivamente verificatisi (es. la Gran-
de Congiunzione); b) invece altri eventi astrali presunti non accadranno (in-
gresso di Giove in Bilancia); c) infine cambia il peso di alcuni fattori della ‘con-
stellatio’ stimata rispetto a quella poi effettiva (ciò riguarda il ruolo dei feno-
meni celesti che accompagnano la Grande Congiunzione), oppure se ne in-
cludono alcuni ignorati precedentemente (come l’apparizione di una nuova
stella in Cassiopea). Questi ritocchi dell’oroscopo mondiale poi sono condizio-
nati anche dall’evoluzione dell’orizzonte storico (individuale e sociale): il cam-
biamento del destinatario di questa missione universale impone di rivedere di-
COMMENTO AL TESTO 693

versamente alcune variabili della configurazione astrale e di ridistribuirle o ‘ta-


gliarle’ a misura del nuovo soggetto potenzialmente suscettibile di esserne in-
vestito. C. “credeva, in base ai portenti, che fosse scoccata l’ora per un simile
rinnovamento dei tempi; i calabresi e i domenicani dovevano prepararsi ad es-
so fondando la città ideale in Calabria, da dove si sarebbe irradiato nel resto
del mondo. Quando la rivolta fallì, non gli passò neanche per la mente che i
portenti lo avevano ingannato (egli infatti seguitò a parlarne per tutto il resto
della vita, in partic. della discesa del Sole), ma pensò che toccasse a lui modifi-
care le proprie idee e trovare qualche monarca disposto a costruire la città nel
suo regno, si trattasse del sovrano spagnolo, del papa visto come monarca, op-
pure del re di Francia” (Yates 1981, p. 417).
Schematicamente, la Grande Congiunzione è solo il principale di un comples-
so di fenomeni distribuiti nel tempo e nello spazio (celeste):
• la costante: il 24 dicembre 1603 Giove e Saturno si trovano vicinissimi ai con-
fini fra ottava e nona casa nel 10° di Sagittario: è la prima volta, dopo 800 an-
ni, che i due pianeti maggiori tornano a congiungersi nel I trigono;
• le variabili: se vogliamo considerare la Grande Congiunzione come una leg-
ge-quadro, gli altri corpi e luoghi oroscopici nodali sono una sorta di sue cir-
colari applicative ed esecutive (la metafora è campan.); se la Grande Con-
giunzione dice in generale che avverranno grandi mutamenti, gli altri astri e
relazioni fra essi particolarizzeranno questi generici annunci, specificando
come, dove e quando avverranno tali sommovimenti tellurici; tali variabili
sono: a) Mercurio; b) gli apsidi dei tre pianeti maggiori; c) eclissi, comete e
in genere irruzioni di nuove entità astrali, quali la ‘nova’ in Cassiopea;
• le variazioni: elenchiamo i principali cambiamenti intervenuti nel corso de-
gli anni rispetto al quadro oroscopico:
1. la grande congiunzione si verifica non nella cerniera di secolo, ma alla fi-
ne del 1603 (in Antiven., però, scrive che essa si è verificata “sul principio
del 1604” [p. 136]);
2. essa è stata preannunciata dall’apparizione di una nuova stella in Cassio-
pea (come apprende da Tycho solo nel 1611);
3. da Copernico invece apprenderà che i calcoli astrologici di Cardano sono
errati: non è l’apside di Giove che sta entrando in Libra (T.154.21), per-
ché già all’epoca di Copernico esso era a 6°;698 è però il passaggio dell’a-
pside di Mercurio da Scorpione (136.15-6) a Sagittario (136.21), atteso
per il 1615, a costituire il fenomeno davvero cruciale, che apporterà “no-
vità di dottrine”.
Tutta questa già complessa macchina oroscopica, poi, è ulteriormente ‘intrava-
riata’ (T.132.2) dalle anomalie astronomiche, causate dalla progressiva caduta
del Sole sulla Terra (114.5-6), le quali, dopo un periodo di latenza, hanno ri-

698
E anche quando vi aveva fatto il suo ingresso, cioè era all’apice della sua potenza – a 1° in
Bilancia –, nel mondo impazzava Gengis Khan, che sarà pure ‘figlio del Sole’ (Atheismus), ma
era pure un flagello di Dio.
694 LA CITTÀ DEL SOLE

preso ad accelerare: “la mescolanza delle figure celesti, per la mutanza degli
equinozi ed obliquitati ed eccentricitati – il che tutto viene dalla calata conti-
nua che fa il Sole – trasferiscono le sedie degli imperi” (Antiven., p. 135).
Ma quel che varia profondamente e significativamente, in relazione al nostro
punto di vista, è l’interpretazione di questo mobile e articolato quadro astrale;
e, fatto ancor più importante, di tale variazione non c’è nessuna traccia nelle
successive revisioni di CS. Ciò significa che in CS è presente solo il teorema
astrologico (non la soluzione), e che tale teorema è giudicato dall’Au. sempre
valido, qualsivoglia soggetto concreto andrà poi ad applicarlo. Perciò, passan-
do da Città a Civitas non ci si accorge affatto che il destinatario ideale e reale di
quel pronostico nel frattempo è radicalmente mutato, almeno nelle intenzioni
di C.
Che cosa dunque si aspettava C. da quel quadro astrale fin qui sommariamen-
te ricostruito?
Dopo la pervicace e ansiosa interrogazione delle stelle, occorre infatti ritorna-
re sulla terra in cerca dell’Eletto: chi è il designato dal cielo (e quindi dal Cie-
lo), venuto a riportare il mondo dalle tempeste del ‘saeculum’ alla ‘pax chri-
stiana’, preludio di quella ultraterrena?
Non è escluso che C. inizialmente abbia condiviso, insieme al quadro orosco-
pico, anche quello anamnestico di Cardano. Cardano si aspettava l’avvento di
una “lex super omnes leges” (= legge delle leggi [Art. proph., p. 276]), dunque
un legislatore divino (e armato); fino al 1606 avanzato, C. probabilmente deve
averlo interpretato come un pronostico della sua stessa missione. Le testimo-
nianze non mancano: già Pietro Presterà, il suo compagno di cella, prima con-
ventuale e poi carceraria, confessava che non aveva mai sentito C. chiamarsi
Profeta o Messia, ma Monarca sì, perché, come gli aveva confidato lui stesso,
“tutti gli altri homini che di niente erano venuti a qualche dignità o imperio,
haveano havuti solamente tre pianeti ascendenti favorevoli, ma che esso [C.]
n’havea sette e che per questo aspettava la Monarchia del mondo”; ma anche
oltre quella data (1599), Schoppe, “parlando di lui nel marzo del 1607 scrive:
‘Gli amici dello Squilla dicono che non è prudente lasciarlo libero, perché è ar-
rivato a tal segno di follia da credersi il novello legislatore del mondo, eletto da
Dio, e non ha ritegno di posporre a sé Cristo medesimo, in quanto Cristo ha so-
lo cinque pianeti nell’oroscopo, mentre egli ne ha sei’” (Amabile, Congiura III,
p. 230). Ma poi C. scopre che Cardano ha sbagliato i calcoli: “nec bene mensus
est cursus absidis Iovis” (Art. proph., p. 276); e di conseguenza anche l’interpre-
tazione: ci sarà una riforma (“reformatio legum”: 136.24), e non una “nova lex
super omnes leges”, perché una legge che soppianta le precedenti leggi impli-
ca una ‘rivoluzione’ politica; “sed deceptus est”, perché il ricominciare da ca-
po, dal I trigono, e in un segno mobile come Sagittario, non significa l’appari-
zione di una legge ‘ex novo’, come ai tempi di Cristo e Mosè, ma appunto una
“reformatio legum”; e del resto la stessa rivoluzionaria legge di Cristo non è al-
tro che perfezionamento, “non eversio” di quella mosaica.
Ammesso pure che, convinto dai calcoli copernicani o spezzato dalla torturan-
te detenzione nell’“orrida fossa” di Sant’Elmo, abbia abdicato al ruolo di lea-
der della Grande Riforma, ciò non significa affatto che abbia rinunciato del
COMMENTO AL TESTO 695

tutto al Progetto annunciato dalla Grande Congiunzione. Semmai si sarà rita-


gliato un ruolo di eminenza grigia, o di pungolatore di colui che sarebbe stato
il vero designato; infatti C. comincerà, più modestamente, a riempire le sue let-
tere di pseudonimi (v. n. 116.7-11), alludenti al suo nome (‘campanella [d’al-
larme] di Dio’) o al suo status di domenicano (‘cane del Signore’).
La leadership, dunque, passa alla Spagna (ovemai non lo sia sempre stata, co-
me C. si ostinerà a sostenere fino alla soglia della morte: v. infra ‘Ecloga’ [169,
95-119]). È lei, del resto, quella nazione le cui avide mire espansionistiche so-
no state sottomesse dalla Provvidenza a disegni di ben altra portata e levatura
(134.15). Su di lei convergono i segnali celesti: “Sagittario può assai nelli mari,
secondo gli Arabi, ed è segno de’ Spagnuoli, che, se sosterran bene l’influsso,
sariano signori di questo secolo: ma sarà mutanza e riforma grande in Spagna”,
perché il Sole si trova in Capricorno, “dove appunto era quando nacque Cristo,
che oltre lo significar cose stupende e con certezza al cristianesimo, significa
anche mutanza di leggi e di costumi” (Antiven., p. 136). Il passaggio dal IV tri-
gono, di Cancro, segno dell’Africa, al I, di Ariete, con Sagittario, segno di Spa-
gna, e Leone, segno d’Italia, le uniche due nazioni che sono rimaste “nella bel-
lezza della legge cristiana pura” (T.134.20-4), comporterà il cambio di mano
dell’egemonia mondiale dai Mussulmani ai Cristiani, con la spada spagnola
che sottometterà il resto del mondo, per poi affidarlo al pastorale romano. Sa-
turno e Giove sono forieri di novità in ambito legislativo e religioso, e Mercurio
è il pianeta nel suo massimo fulgore astrale, che si preoccuperà di promulgar-
le, e il cui apside inoltre, essendo transitato da Scorpione, costellazione africa-
na, a Sagittario, prelude alla rivincita spagnola sui Mori. Le eclissi e le comete
che seguono la Grande Congiunzione comunque specificheranno meglio le
grandi linee di tendenza disegnate da quella triade planetaria (v. n. 156.13-
158.5); e in ogni caso già si può prevedere che fra quindici anni (Astrol., p. 73),
quando l’apside di Giove svetterà in Capricorno, bisognerà aspettarsi la venuta
dell’Anticristo. Ecco, dunque, cosa annunciano nel breve periodo questi astri:
disastri, prima di tutto (“prius quidem evelli et extirpari”: 138.2). Questo è il
duro scotto da pagare, perché possa esser poi piantata e forgiata l’umanità
nuova. È la funzione più ardua e dolorosa per un profeta, vestire i panni di Cas-
sandra – per giunta quando sa che questi flagelli si abbatteranno ‘in primis’
sulla Chiesa.
Ciò spiega, ad es., le ripetute reticenze del Genovese: anzitutto per il veto pa-
pale posto a qualsiasi pronostico congetturale, in partic. sulla Chiesa e le sue
gerarchie (154.10), e poi per il loro contenuto altamente infausto: la scia di
sangue che si lascerà dietro l’ultimo colpo di coda dell’Anticristo sarà di un in-
tenso color rosso, intriso com’è di porpore cardinalizie e papali. Così com’è ac-
caduto con la Grande Congiunzione di 1600 anni prima, la venuta del profeta
armato e l’espansione del cristianesimo saranno accompagnati inizialmente
dallo stesso grande spargimento di sangue di martiri. Perciò il Genovese deve
mordersi ripetutamente la lingua. Cos’è infatti quell’“etc.” di 138.3 se non il
primo degli ‘omissis’, camuffato sotto un’improbabile fretta di partire (138.4)
– improbabile, perché da lì alla fine di Civitas manca ancora circa 1/9 del testo
totale: uno spazio più che sufficiente, per soddisfare la curiosità dell’Ospitalie-
696 LA CITTÀ DEL SOLE

ro, che ha un bell’implorare affinché prosegua a dirgli “quello, che mi pro-


metti, adesso che è tempo” (T.160.12-3). Non è una questione di mancanza di
tempo, semmai di audacia: addirittura negli stessi Art. proph., cui implicitamen-
te rinvia T.160.1-2 (e 160.1), è costretto a dire: “Hic autem celo multa tempore
suo et loco dicenda, quae adhuc sapientibus nationum clam fuerunt” (p. 181).
L’allusione a questi ‘sapienti’, che non sono poi altro che i profeti apocalittici,
come quel Serafino da Fermo che prevedeva una gran “vendemmia d’uomini
nell’anno 1600” (Theol. XXV, p. 163), non lascia dubbi (v. n. 144.27-146.2, n.
156.9-10). La ‘pars destruens’ della profezia (illustrata in dettaglio da Art.
proph.) prevede che al passaggio dal IV al I trigono cadranno tutti i regni fem-
minei;699 nel frattempo tutte le scoperte geografiche e tecniche, che i suoi (= di
Cancro: v. n. 123.1 [f.p.]) segni d’acqua e pianeti (come Mercurio) hanno ar-
recato, avranno permesso alla Grande Potenza, che se n’è saputa servire (e di
cui Dio si è servito per i Suoi disegni di apostolato ecumenico), di riunificare il
mondo. E un ruolo di non scarso rilievo l’avrà appunto l’avvicinamento del So-
le, che sciogliendo i ghiacci artici, permetterà di scoprire il passaggio di Nord-
Est, e quindi di catechizzare una delle ultime grosse regioni che ancora ignora
il messaggio cristiano, la Scizia. Il ritorno alla prima triplicità, accompagnato
dall’apogeo di Mercurio e dalla riforma del calendario, lasciano supporre che
“ci dobbiamo aspettare una monarchia ancora più universale di quella impe-
riale di Cesare” (Art. proph., p. 281); in base alla legge sottesa (ad ogni astrolo-
gia, magia…) dell’eterno ritorno, quel che si è verificato alla nascita di Cristo si
verificherà probabilmente quando la stessa configurazione astrale si ridise-
gnerà nei quadranti cosmici: “questa è la chiave della natura e della profezia:
quel che fu sarà” (Lettere, p. 43).
La Chiesa, in specie le sue gerarchie, sarà ridimensionata e riportata allo stato
di comunità apostolica, in cui era appunto all’epoca del primo trigono. Ciò
comporterà molti sacrifici, e al sangue dei martiri della grande espansione, si
mescolerà anche quello di un clero che ha perso di vista la semplicità e povertà
evangelica: “l’Europa vedrà morire i suoi principi, la Chiesa i suoi prelati e,
presto, anche molti pontefici, perché il Sole in perigeo offeso da Marte sta ad
indicare vilipendio del clero e ritorno alla primitiva povertà e santità; la rivolta
contro il clero partirà dalle regioni nord-occidentali. I ribelli, quasi Ecclesiam
reformaturi, prevarranno, ma per poco; la Chiesa fuggirà verso Occidente, nella
Spagna saldamente rinforzata dai segni angolari. La Spagna, infatti, auspice la
grande congiunzione con Mercurio come al tempo di Cristo, congregherà un
concilio universale, e vincerà. In gran conto saranno tenuti i predicatori, i pro-
feti e le arti divinatorie. Tutte queste trasformazioni cominceranno a delinear-
si appena appariranno comete, o sopraggiungeranno le future eclissi (le quali
attuano i decreti significati dalla prima congiunzione), come quelle che nel

699
Nel IV trigono, governato da Venere e Marte, le Grandi Congiunzioni avevano propiziato
sovranità femminili e popoli marziali (150.5-154.3).
COMMENTO AL TESTO 697

concilio di Costanza decretarono la rovina dell’impero” (Art. proph., p. 287-95,


passim; v. n. 144.27-146.2).
Questo per il breve termine (la predizione si arresta al 1610, perché “desunt
ephemerides, et calculum memoria nunc perficere non valeo” [Art. proph., p.
294]). È possibile delineare appena quel che avverrà fra molti secoli. I prossimi
duecento anni saranno ferali per le repubbliche, in quanto Giove e Sole sono
propizi alle monarchie (Art. proph., p. 291). Nel settimo millennio (già iniziato,
secondo alcuni, col Concilio di Trento; secondo altri calcoli, cui C. sembra più
concordare [Theol. XXV, p. 145], a partire dal 2000), l’Ecumene unita vivrà in
pace un periodo aureo, finché non sarà traslata in cielo, dopo che lo squillo
della settima tromba aprirà il giudizio universale, e la Terra sarà squarciata dai
terremoti e nelle sue viscere infernali saranno gettati i demoni, e infine, dopo
che tutto il sistema solare si sarà ripiegato sulla Terra, la sfera cosmica si scardi-
nerà (Art. proph., p. 69: “ipsi quoque cardines mundi e suis sedibus convulsi
sunt omnes”).
Dagli ultimi anni del XVI sec. fino agli ultimi giorni di vita, C., la “sentinella” o
la “squilla” di Dio, non cesserà di investigare e quindi di accumulare sempre in-
dizi e prove a favore della sua escatologia. Nel rifacimento del 1635, quando
sdoppia gli ultimi due libri della Metaph., aggiorna l’elenco sterminato di que-
ste spie della patologia mortale del cosmo: “già molte esperienze sulle macchie
del Sole e in Giove, e l’alterazione di Venere decrescente e crescente, le quali
anche nel mondo stellato sono mostrate dalla nuova stella scoperta in Cassio-
pea da Tycho Brahe nel 1572, l’altra scoperta in Cigno nel 1600 e quella sco-
perta nel Serpentario nel 1604… avvertono che quando il Sole ritirerà la sua
somma luce, tutte le stelle, che da esso ricevono la luce e il continuo movimen-
to, e da esso vengono tenute nel sito e nell’ordine determinati, necessariamen-
te cadranno da quell’ordine, si confonderanno, urteranno le stelle con le stel-
le… il mondo situale finirà nel caos, e di nuovo sarà rinnovato” (XVIII I, III [III,
p. 337]); restaurato il mondo, “tutte le cose ritorneranno alle loro origini, e se-
guiranno secoli di ordine migliore”, dove il tempo sarà cambiato in eternità e
la morte in vita (‘Epilogo’ [III, p. 347]).
Passiamo ora alla ‘pars construens’ della profezia, al “s’edifica e pianta”
(T.138.3-4): oltre all’ingresso dell’apside di Saturno in Capricorno, che pro-
durrà tutti gli sconquassi che si è detto, il transito di quello di Mercurio in Sa-
gittario (136.21) arrecherà “nuove scienze celesti” (Lettere, p. 169 a Galileo),
“nuove scoperte, la rovina di aristotelismi e machiavellismi, l’avvento di nuovi
poeti sacri, come fu Dante, e la riforma delle leggi”, semplificate e riunificate
in un’unica silloge, preludio all’unificazione delle genti. Infine Marte in Vergi-
ne, anch’esso come i precedenti pianeti, in una posizione dignificata, “addit il-
lis [= riformatori] virtutem”, ispirando solo “guerre giuste” (Art. proph., p. 269),
mentre nel precedente trigono (136.15) favoriva regni conquistati con la forza.
Infine Giove e Saturno decretano l’insorgere di novità nella religione, nelle
leggi e nel governo dello stato, decreti che appunto Mercurio si preoccupa di
far promulgare, cioè di mandare ad attuazione.
Il nucleo intorno a cui gravita tutto il pensiero politico, utopico e non, cam-
pan. è “un grande, impossibile sogno”, cui resterà fedele per quasi tutta la vita:
698 LA CITTÀ DEL SOLE

“questa generosa utopia è l’unione ecumenica delle genti in un solo ovile e sot-
to un solo pastore, che altri non può essere se non il pontefice romano, vicario
di Cristo in terra” (Firpo 1945, p. 11). Tale sogno rimonta alla prima giovinez-
za, e cioè alla Monarchia dei Cristiani e al Governo ecclesiastico, due trattati risa-
lenti al 1593 e non pervenutici (Syntagma I II; Ernst 2002, p. 28), e per la sua
realizzazione lotterà e scriverà fino alla morte (il De regno Dei è del 1636). Mal-
grado le apparenze (una Città-stato in un’isola…), CS è funzionale a questo
progetto: l’utopia sociale reagisce alla divisione della proprietà come l’utopia
politica reagisce alla divisione degli stati. L’artefice di quest’utopia non sarà
però un pugno di filosofi, profughi su un’isola, ma l’imperatore di mezzo mon-
do: il re di Spagna deve far “predicare la fine del mondo vicina e che sarà
‘unum ovile’ sotto il Papa, e che egli è posto come Ciro a congregarlo” (Mon.
Sp. [1598] VI, p. 52); nella congiunzione della vigilia di Natale del 1603, “in
meridiano Hispaniae, et in Sagittario, signo Hispaniae, ubi et Mercurius eo-
rum [gli altri pianeti in congiunzione] est praesens” entrò dallo Scorpione dei
Mauritani al Sagittario degli Iberici, indicando chiaramente che nascerà “ab
Hispania monarcham et prophetas et renovationem Ecclesiae”, sorgeranno
“imperi giusti e universali che arrecheranno la pace… e Marte, in buon aspet-
to, li [= alla Spagna] fornirà di una forza buona rivolta solo a giuste cause” (Art.
proph. [1603-6], pp. 183 e 269). “Ma di più la sua [= della Spagna] forza oggi si
vede nelle stelle, ché già cominciano a far l’effetti della congiunzione magna
fatta in Sagittario, segno di Spagnuoli, e per ducento anni sempre il mondo
corse ad una gran monarchia” (Disc. Princ. [1607], p. 133). E ancora nel 1618
scrive al Papa che “questo braccio [armato]… è il re di Spagna, come ognun
vede ed io dimostrai” (Lettere, p. 191).
È intorno al primo quarto di secolo che si verifica in C. un ripensamento circa
la leadership spagnola nel suo progetto universale. A tale ripensamento sarà
stato indotto senz’altro dall’affacciarsi sullo scacchiere mondiale di altre po-
tenze nordeuropee, dal contesto politico-sociale sempre più degradato e quin-
di dalla disillusione circa un’evoluzione positiva della politica spagnola; ma vi
sarà stato indotto anche da una nuova interpretazione del quadro oroscopico.
Il quale quadro di riferimento resta sempre lo stesso: infatti P. non presenta si-
gnificative variazioni nei passi di astrologia mondiale (come si è visto; e anche
v. n. 156.13-158.5). C., non so quanto convintamente, aveva sondato, in verità,
anche l’ipotesi veneziana: per distogliere Venezia da una paventata alleanza col
Turco, le ricorda “quel che gli astrologi dicono, che in questo tempo sarà un
monarca tanto grande, che ogni cosa reggerà a suo modo in Europa, per le
congiunzioni magne che sono tornate al primo trigono d’Ariete europeo, po-
tria per te nel Clavo [= il Timone] verificarsi” (Antiven. [1606], p. 92).700 Suc-
cessivamente (alla sua liberazione) forse ha anche accarezzato l’idea di coin-

700
Cfr G. Benzoni, C. e Venezia: qualche appunto, qualche spunto, ‘Filologia e critica’, XXV II-III,
maggio-dic. 2000 (p. 263-80).
COMMENTO AL TESTO 699

volgere direttamente il Papato quale leader, attraverso una crociata, il cui ner-
bo fosse costituito dai futuri allievi del collegio clerico-militare barberiniano da
lui sognato. Senz’altro invece ha scartato la designazione ticoniana, quell’ereti-
co di Gustavo Adolfo di Svezia, cui anche qui si accenna (144.26), proprio per
ricordarne la tragica fine nella battaglia di Lutzen del 1632; ma il fatto stesso
che lo menzioni, seppur per respingerlo, indica che quella investitura è quan-
to meno degna di attenzione (v. n. 144.26-7). Ma dopo il trasferimento a Roma
(1626), dove regnava un Papa certamente non filoispanico come Urbano VIII,
il suo interesse si va sempre più concentrando sull’unica altra potenza cattolica
europea. Se non ancora astrologicamente, certo la barra politica campan. co-
mincia a puntare sulla Francia, perché il colosso spagnolo da ormai troppo
tempo stava rivelando i suoi piedi di argilla. All’Oratio pro Rupella recepta (1628)
si fa risalire una delle prime testimonianze certe del suo avvicinamento alla
Francia (Ernst 2002, pp. 224-8 e 235-44). Mon. Fr. del 1635 sarà solo l’ultima
tappa,701 in cui razionalizzare e sistematizzare i motivi del rovesciamento del
paradigma predittivo, senza neppure dover cambiare di una virgola il quadro
oroscopico. Può sembrare stupefacente: ma lo stesso schema oroscopico, in cui
C. vedeva una Spagna panegemonica, adesso gli fa dire con ugual sicumera
che all’epoca di Carlo V [1520] “le Congiunzioni magne si faceano nel quarto
trigono che è di Cancro, Scorpione, Pesci, e poi l’anno 1603 le congiunzioni
magne tornaro nel trigono primo nemico del quarto… e le cose di Spagna an-
darono sempre peggio”, rinnegando, quindi, quanto sostenuto in Mon. Sp.: “si
può affirmar con non minor certezza che li Spagnoli stanno per ruinare, e che
la Monarchia di Cristo non sarà da essi in tutto il mondo stabilita ma d’altre
Nationi, alle quali essi fan preambolo”; perciò “esso C. apporta molte profezie,
che questo principe universale”, che dovrà “congiunger tutte le nazioni sotto
una greggia e un pastore… sarà del sangue di Pepino [= Pipino]” (Mon. Fr., pp.
388 e 468). Non sono dunque gli astri a ingannare, è l’astrologo che ha scam-
biato un semplice apripista per il vero campione del cristianesimo universale;
malgrado la Spagna sembrasse “rinforzata dal cielo”, le sue vicende “andarono
sempre in peggio: dunque le stelle a lor son contrarie”; e non solo le stelle di
quel cruciale 1603, anche “la obliquità poi del Zodiaco consente che li France-
si vincano” (Mon. Fr., p. 478: v. n. 132.1-2 per il restante passo)702. Il braccio se-

701
La penultima, considerando ‘Gli ultimi scritti politici di T. C.’, pubblicati da Firpo (in ‘Ri-
vista storica italiana’, LXIII, 1961 [p. 772-801]), e da Ernst (es. Papatus), e definiti da Ernst
2002 “la palinodia rispetto ai Discorsi ai principi d’Italia, esortati in gioventù ad assecondare il
progetto universalistico dell’impero spagnolo” (p. 242; cfr anche l’epistolario di quegli anni,
in partic. la lettera n° 32, oltre alla 33 indirizzata a Luigi XIII [Lettere1, p. 122-30]; nonché: F.
Yates, Considérations de Bruno et de C. sur la monarchie française, in: “L’art et la pensée de Léo-
nard de Vinci’, Paris-Alger, 1953-4; Lerner; F. Favino, T. C. antispagnolo in un dispaccio di F. Pic-
colini, ‘B&C’, III/2 [1997, p. 345-7], e il saggio di J.-L. Fournel, C. et la Monarchie de France: em-
pire universel et équilibre des puissances, in: T. C. e l’attesa del secolo aureo, Firenze, Olschki, 1998
[p. 5-38]).
702
Di questo capovolgimento di fronte l’unico segnale, per quanto fievole, in Civitas potreb-
700 LA CITTÀ DEL SOLE

colare della Chiesa Universale, che resta il soggetto principale della profezia
solariana (T.136.28: gli astri promettono “a’ cristiani… grand’utile”; 138.1: “na-
tioni sanctae emolumentum magnum”), deve perciò diventare la Francia, esor-
tando senza mezzi termini il Papa a ‘svellere’ la corona imperiale dalla Spagna
e ‘piantarla’ in Francia, dove nascerà “il monarca universale” (Mon. Fr., p. 376-
400; v. n. 132.1-2).
La sua pervicacia sarà premiata e pacificata, come lui stesso annuncerà (“trove-
ran pace allora le mie veridiche parole”): dopo un’attesa di 23 anni, la Francia
aveva il suo Delfino, “un tale eroe io rivelo per voi nascente, che finalmente re-
ca segni certi e fatali del suo avvento, io, indagatore di fati a tutto il mondo ben
noto”. È “nato di domenica, il 5 settembre 1638. Anch’io nacqui di domenica, il
5 settembre 1568”. Così canta il povero Battista, nato giusto settant’anni prima
in una patria che l’ha sempre e solo perseguitato; e nel suo ultimo canto, levato
al tanto atteso messia, tutti i segnali apocalittici, astrologici e astronomici di Art.
proph. e i progetti di CS (ah, se P. fosse stata pubblicata solo un anno dopo!), er-
roneamente riposti un tempo nell’impero asburgico, sulla scorta di una lunga
teoria di profeti medievali e indovini moderni, vengono interpretati come fo-
rieri dell’avvento non più di un ‘heresiarcha magnus’, ma di un “maximus he-
ros” sorto a “cunctos populos conflaret in unum / Christiadum”: “Quegli stru-
menti per conseguire l’impero universale, che un tempo, ignaro, allestivo pei re
di Casa d’Austria, e le superbe grandezze or riconosco che spettano” al futuro re
di Francia. “Redeunt Saturnia regna… Ecco riporta l’età dell’oro il nuovo ange-
lo che viene dall’eccelsa stella di Marte, il lume dei giusti della Chiesa, il loro di-
fensore e capitano, l’amante della Ragione espressa dall’eterno Nume… Ora
fuggo lontano dalla patria, ma non senza volere dei Numi. Mentre vaticinavo il
fatale vacillare delle mura del mondo, la Spagna atterrita (beata lei, se avesse
porto orecchio alle mie parole!) mi tormentò per sei lustri, ingannata da inde-

be essere un capovolgimento di forma verbale, dall’attivo ad un passivo privo d’agente: “li Spa-
gnuoli trovâro il resto del mondo... per unirlo tutto ad una legge” (T.134.16-21) diventa:
“...Hispanos novum orbem invenisse... ut omnes nationes in unam legem congregentur”
(134.15-7). Quando il mondo sarà diventato un solo “ovile” (136.14), il braccio armato lo con-
segnerà nelle mani dell’unico deputato ad esser pastore ecumenico, il papa. Questo preciso
compito del papa di prendere in consegna il Mondo Unito mi porta a dubitare che C., dopo
la Spagna e prima della Francia, avesse puntato sullo Stato della Chiesa, la cui croce sarebbe
dovuta tramutarsi in una spada imperialista (malgrado i suoi progetti di un ‘Collegio barberi-
niano’, dove si doveva forgiare la nuova milizia di Cristo), come credeva Blanchet, ripreso da
Walker, p. 240 (e dalla Yates 1981, p. 416-7): dopo esser stato rilasciato dagli Spagnoli, “le spe-
ranze escatologiche di C. erano ora largamente incentrate sul Papa, così come erano state una
volta incentrate sul re di Spagna, e lo sarebbero state in seguito sul re di Francia. Se avesse po-
tuto convincere il Papa del lento avvicinarsi del Sole e degli eventi che ciò preannunciava, dei
missionari preparati da C. sarebbero stati inviati da Roma per convertire il mondo intero ad
un cattolicesimo riformato, ‘naturale’, che avrebbe introdotto il ‘millennium’, cioé la Città del
Sole universale”; questo è apostolato, missione religiosa parallela ma distinta dalla Conquista,
che è appannaggio esclusivo di un potentato laico: perché la riunificazione è presupposto e
insieme segnale del ritorno di Cristo, il Signore del mondo che verrà a riportare nella sua Ge-
rusalemme celeste i cittadini buoni della Città terrestre.
COMMENTO AL TESTO 701

gni ministri (nulla ho fatto di male agli Spagnoli, a favore dei quali, ingannan-
domi, molto ho scritto…) e invano, ahimé, la discorde Italia piangeva il suo
rampollo”. Oltre che l’autobiografica (quasi un film mentale da morituro), l’al-
tra corda che vibra appassionatamente in quest’ultimo canto è l’ossessione pa-
lingenetica: quella stessa ‘renovatio’, che assilla i Solari (136.25, 158.5), trapun-
terà anche l’‘Ecloga’, il cui ‘eroe’, non foss’altro per il sincronismo anagrafico,
“rinnoverà il secolo”, così come l’Au. “rinnovò tutte le scienze secondo la natu-
ra e la scrittura”. ‘Ecce homo’, anzi “portentose puer” (26), nelle cui mani ben
più giovani e potenti, certo, ma ‘fatali’ come le sue, poter passare il testimone
pochi mesi prima di morire: “Ed ecco tu risplendi, speranza nostra, o fanciullo”
(35), e “quella città meravigliosa, che prende il nome dal Sole… proclamo dal
profondo del cuore che a te l’ho assegnata” (121-2):703 dopo tante illusioni e de-
lusioni, il cielo aveva finalmente mandato l’uomo della Provvidenza - non lui
(né Filippo, Urbano, Richelieu). Di lì a pochi mesi C. chiuderà gli occhi per
sempre nel convento parigino di Saint Jacques: un’eclisse, cui tentò di opporsi
con le note pratiche magiche, stavolta gli fu fatale (v. n. 146.7-20). Ma mi piace
immaginare che stavolta non s’impegnò molto per evitarla; e non lo fece (se
non lo fece), per due opposte ragioni, proprio lui che aveva superato ben altre
e più tremende congiunture e torture. Perché si era finalmente acquietato, una
volta che il principe solare e fatale, sempre auspicato, si era da ultimo incarna-
to; e dunque, esauditi i suoi voti, poteva anche riposare pacificato e soddisfatto
di non aver patito, ‘squillato’, ‘abbaiato’, insomma vissuto invano.704 Oppure, al
contrario, perché la sua profezia anche stavolta si era rivelata sbagliata, e il Del-
fino era un’altra sirena ingannevole: le stazioni della marcia trionfale dell’‘Eclo-
ga’ sono solo ‘poesia’, cioè ennesima cortese dissimulazione di un esule nei con-
fronti della Monarchia che l’aveva ospitato e spesato; l’amara realtà è invece
contenuta in un oroscopo in ‘prosa’, almeno così come lo ha trascritto un ano-
nimo, riportato, anche fotograficamente [doc. 9], da Lerner: “Erit puer ille [=
Luigi XIV] luxuriosus sicut Henricus quartus, et valde superbus. Regnabit diu,
sed dure, tamen feliciter. Desinet misere et in fine erit confusio magna in Reli-
gione et in Imperio”. Delle tante ‘mirabilia’ annunciate dall’‘Ecloga’, non re-
sterà altro che un nome (ironia o potenza della sorte?), il nome con cui l’Euro-
pa ricorderà questo Luigi: “Le Roi Soleil”.

160.3-4: Hoc… remigio?


È una curiosità che all’Ospitaliero può esser insorta fin da 84.15-7, ma che è
stata rinviata in finale (totalmente mutato rispetto a quello della Fr., che in so-

703
Sorvoliamo sulla fugace profferta fatta poco tempo prima all’Eminenza grigia: “Civitas so-
lis, per me delineata ac per te [= Richelieu] aedificanda… splendescat semper” (Lettere, p.
374).
704
“Tre canzon, nate a un parto / da questa mia settimontana testa, / al suon dolente di pen-
sosa squilla, / ch’ostetrice sortilla, / ite al Signor… Né sia chi rieda a darmi altra novella /
dal Rettor delle sfere / che ‘l fin promesso dell’istoria bella / (sia stato falso o vero il mes-
saggere), / cantando: – Viva, viva Campanella! –” (75, Madr. 9, 1sg).
702 LA CITTÀ DEL SOLE

stanza era la traduzione di T.160.4-10), forse perché così sarebbe rimasto più
impresso nel lettore, o forse perché dovuto ad una decisione tardiva dell’Au. ri-
spetto allo stato di avanzamento della composizione tipografica del testo, per
cui non aveva più la possibilità di inserirlo lì (84.15) dove sarebbe stato più per-
tinente.
Circa poi la decisione di svelare tale segreto, dopo averne variamente accenna-
to in più occasioni (a partire proprio da T.84.20-3: v. n. 84.15-8), essa può esser
stata presa in seguito al fatto che C., ormai vecchio e libero, non aveva più bi-
sogno di barattarlo con la sua vita e la sua libertà – e forse anche per dimostra-
re che le sue promesse non erano ‘utopiche’. Infatti è almeno dal 1606 che
prometteva nei suoi memoriali di realizzare tutte le principali scoperte attri-
buite ai Solari – dalle mura dipinte ai nuovi tipi di finimenti, dai carri a vela al-
le navi senza vele –, “per levar la macchia che mi fu data nel Santo Officio”,
cioè il processo per eresia del 1600.705 Ma l’accoglienza riservata alle sue pro-
messe invenzioni, se e quando ci fu, dovette essere quantomeno diffidente, co-
me testimonia questa lettera dell’11 agosto 1606 di Deodato Gentile, vescovo
di Caserta, al Cardinale Arrigoni, commissario dell’Inquisizione romana,706 a
cui C. aveva consegnato “un foglio scritto di sua mano d’appellatione et di mol-
te pretensioni”: riferendosi dunque a questo documento, scrive che “e’ vorria
uscir da quelle carceri promettendo castelli in aria, e gran cose, sì bene non
manco io da questo istesso suo scritto andar subodorando alcuni vestigii di
quell’empietà ch’ho sempre gagliardamente suspicato non tenghi rinchiusa
nell’animo”.
Il primo sistema, alquanto ingenuo, consisterebbe nel soffiar aria alle vele con
una grossa ventola (‘flabello’ è un ampio ventaglio: “contro la mancanza di
vento costruiamo ventagli e flabelli” [Astrol. VII II, p. 2]); Telesio stesso l’avreb-
be sconsigliato, perché “se qualcuno spinge la nave dall’esterno appoggiando-
si all’albero o a qualsiasi sua altra parte, la muove con poca fatica; al contrario,
se costui che vuol far ciò si trovasse sulla stessa nave, non la smuoverebbe nean-
che se a spingere fosse lo stesso Tizio o a soffiare dalla stessa nave fosse Borea,
anche se questi potesse soffiare nel modo come lo dipingono i pittori quando
lo ritraggono nell’atto di soffiare. Poiché, sia che emetta il soffio leggermente
e sia che lo emetta così forte da produrre un vento enorme, non riuscirà mai a
smuoverla; perché certamente, affinché uno possa spingere e muovere un’al-
tra cosa, è necessario per primo che si appoggi a qualche sua parte, e di poi an-
che che questa parte stia ferma rispetto a qualcosa di esterno” (V, 18 [II, p.
319]); ma secondo C., ciò “è possibile, s’i molini col vento e li spiedi col fumo
si voltano… contra il giudizio di tutta l’antichità” (Lettere1, p. 62). Il secondo,
ingegnoso invece, si basa su tre principi in possesso della tecnologia del tempo,
e anzi alla portata anche di un profano come C.: a) il principio della ruota a pa-

705
Lettere, p. 28; Lettere1, pp. 24 (cit.: v. n. 72.9) e 62, dove però tali invenzioni non vengono
garantite per certe, ma solo come “probabili”.
706
Pubblicate da V. Frajese in ‘Studi storici’ XL [1999], ma qui riprese da Ernst 1999a, p. 488.
COMMENTO AL TESTO 703

le (il mulino); b) la demoltiplicazione ruota grande/ruote a pale piccole, con


trasmissione incrociata, “per far sì che le due ruote in acqua girassero nel me-
desimo verso” (Firpo); c) la ruota grande, con associato un probabile effetto
volano, ha una propulsione a manovella per la trasformazione di un moto ret-
tilineo alterno (come nel sistema ‘a ventola’) in un moto circolare (il filatoio, i
‘manubri’ della pompa delle fontane: 38.38); ma naturalmente all’epoca non
si disponeva di un propulsore sufficientemente potente da attivare un simile
congegno.
Le invenzioni navali erano tenute in grandissimo conto, per l’importanza stra-
tegica della marineria: il cap. XXXII di Mon. Sp.1 e Mon. Sp. tratta ‘Della navi-
gazione’ e della sua importanza per uno stato come la Spagna, “perché chi
fu… signore del mare, fu anche della terra” (Mon. Sp. XV, p. 150). C. scrive a
Galilei (il quale a sua volta nel giovanile De Motu si era occupato dei sistemi di
propulsione nelle imbarcazioni), affinché raccomandi al Granduca di Toscana
“fra Pietro di Nocera, uomo di sagace giudizio, ch’ha fatto un mirabil vascello
resistente ad ogni vento e artiglieria” (Lettere, p. 180 [3.11.1616]); è forse lo
stesso frate cui allude Janni: “si direbbe un presagio della navigazione a vapore,
se non fosse un proposito bislacco, suggeritogli del resto da un altro frate” (II,
p. 16). Anche il bolognese Fioravanti ha scoperto come ‘Fare navilii, che mai
possono perire nel mare, ne manco in terra’, che s’ispira all’arca di Noè (III
XVIII, 283r-v), con una specie di zatterone rinforzato sopra cui si costruirebbe
una nave uguale alle altre (il progetto è sommariamente abbozzato e, sempre
per motivi criptografici, le parti più esplicite sono scritte a rovescio, cioè capo-
volgendo l’ordine delle lettere). Invece una nave azionata da una ruota a pale
risale al 370 d. Cr., ed era probabilmente ispirata dal mulino idraulico (Storia
della Tecnologia II, p. 616; a p. 662 inoltre è riportato il disegno di una barca a
pale azionata da manovelle, contenuto in un ms del 1335). Infine nell’ed. Ce-
sariana di Vitruvio vi è l’illustrazione di una nave con propulsione analoga (X
XIV, carta LXXIV).
Al Museo della Scienza di Milano è esposta una macchina leonardesca consi-
stente appunto in una grossa ala, posta su un asse e con un braccio a leva, che
però serviva a determinarne la portanza da fermo (secondo l’interpretazione
di V. Somenzi e A. M. Soldatini: “Attrezzo per la prova di ali battenti”). E anco-
ra Leonardo aveva progettato un congegno che attraverso leve e manovelle
muove la ruota a pale di una nave (foglio 12650r Windsor).
NOMI PRESENTI NEL TESTO*

Abramo 82.21; 82.18 86.12; 110.16; 110.17; 142.23;


Achille 70.29; 70.24 156.3; 156.14
Acquario 154.30; 154.31 <Ariosto, Ludovico> 152.6; 152.5
Adamo 128.41; 128.37; 132.6; 132.5 Aristarco 114.22; 114.18
Africa 152.12; 152.13; 154.2 e 4; Aristotele (-ico) 20.43; 20.39 e 44;
154.12 30.26; 30.27; 116.21; 116.18
Agatocle 144.24 Aronne 112.43; 112.38
Agostino, Aurelio 22.15; 60.1 e 22; Asia 154.2
148.15 Atene 78.5; 78.5
Alessandro Magno 18.4; 18.9; 64.29;
64.27; Belgio 152.3
Algol 86.15 Bianca = v. Capello
Allah (Alle) 154.7 Bilancia 38.21; 38.22; 110.17; 110.17;
Amazzoni 64.5; 150.11; 150.12; 136.25; 154.21; 156.3; 158.1
152.13; 152.14 Bona Sforza 152.1; 152.1
Annibale 18.9; 64.30; 64.27 Brahe = v. Tycho
Apostoli(-co) 2.30; 18.3; 18.6; 22.14; Bramini 64.17; 64.16; 66.7; 66.5
56.38; 56.33 e 38; 84.28; 154.18
Arabico 32.17 Calabria 160.18
Arbace 144.24 Caldei 122.14; 122.13
Archelao 144.25 Calicut 84.36; 84.31
Archimede 12.17; 12.20 Callimaco 94.11; 94.9
Ariete 38.21; 38.21; 82.33; 82.26; Camilla = v. Peretti

* I nomi propri, di persona o di cosa, reale o immaginaria (esclusi: quelli Solari; ‘Dio’ e ‘Ter-
ra’), sono stati sussunti sotto il corrispondente nome italiano contemporaneo, per evitare
una proliferazione di doppioni; quelli compresi fra <> si riferiscono ad Autori impliciti; i ri-
ferimenti sono: pagina.rigo per Città; pagina.rigo per Civitas.
706 LA CITTÀ DEL SOLE

Cancro [costell.] 38.20; 38.22; 86.10; Fiandra 152.4; 152.3


86.6; 110.16; 110.16; 136.17 e 19; Filolao 114.22; 114.19
136.15; 138.11; 138.12; 142.23; Finlandia 144.26
152.13; 152.13; 152.18; 152.19; Foroneo 18.2
154.28 Fortuna [punto astrol.] 86.18; 86.14
Capello (o Cappello), Bianca 152.3 Francia 152.4; 152.3; 154.10; 160.18
Cappuccini 154.15; 158.30
Capricorno 38.21; 38.22; 110.17; Gaeta, Giacomo di 62.1 e 44
110.17; 136.20; 156.1 Gallia = v. Francia
Caronda 18.1 Genova 54.39
Cassiopea 136.23 Germania 154.9; 154.8
Caterina de’ Medici 152.3; 152.2 Gesù Cristo 18.2; 18.5; 90.8; 116.10;
Catone Uticense 58.9; 58.13 116.7; 158.33
Cesare 18.4; 18.8; 64.29; 64.26 Gesuiti 158.25; 158.29
Cigno 70.30; 70.24 Giapponesi 54.23; 54.20
Cina (-ese) 18.14; 18.21; 84.33; 84.30; Giosuè 64.25
94.23; 94.20 Giove [pianeta, salvo il primo] 16.30;
Clemente Romano 56.42; 56.37; 16.28; 42.30; 82.32; 82.25; 86.8;
58.13 86.5; 120.6; 130.21; 130.18; 136.21
Cocincina 84.35; 84.31 e 25; 152.19; 152.20; 154.4,13,21 e
Colombo Cristoforo 134.19; 134.16; 27
158.32
Copernico (-ani) 114.21; 114.18; Hus, Jan 154.13
118.21; 118.23
Cortés, Fernando 158.28; 158.32 Ilario di Poitiers 148.16
Costanza [concilio di] 60.22 India 20.12; 20.12
Cristiani (-esimo) 56.37; 56.32; 58.3; Inghilterra 152.3; 152.2; 154.10;
84.27; 108.31; 108.30; 128.3; 132.4; 154.8
132.3; 134.9 e 14; 134.7 e 11; Isabella di Castiglia 152.4
142.26; 154.5 Ismail es-Sufi (Sofi) 154.7; 154.12
Cristo = v. Gesù Italia 154.13; 154.7

Davide 64.26 Leone 86.7-8; 86.6; 154.15


Di Gaeta = v. Gaeta Libra = v. Bilancia
Drago (Capo del – [astron.]) 114.18; Licurgo 16.29
114.15 Luna 42.37; 42.31; 86.14 e 24; 86.9,
Druso 144.25 13 e 18; 94.38; 94.32-3; 110.10;
110.19; 114.14; 114.12; 116.9;
Ebrei 108.31; 108.30; 122.14; 122.13; 120.16; 120.15 e 24; 136.21; 136.17;
136.6 138.12; 138.13; 152.10; 152.21;
Elisabetta Tudor 152.2; 152.2 152.21; 154.5 e 12; 154.23 e 31
Ercole 94.10; 94.9 Lutero, Martin 154.13; 158.24
Euclide 12.16; 12.20
Europei 150.13; 150.14 Maccabei 64.26
Maometto (-ani) 16.31; 18.3; 94.11;
Fez 152.14; 152.15 94.10; 140.12
NOMI PRESENTI NEL TESTO 707

Margherita d’Austria 152.4; 152.3 72.24; 72.22; 78.5; 78.4; 94.2;


Maria d’Asburgo 152.2; 152.1 148.23; 152.6
Maria Stuart 152.5; 152.4 Rosselana (Rossa) 150.13; 150.14
Marini, Giovan Battista 148.33
Marocco 152.14; 152.15 Sagittario 82.30; 82.24; 86.8;
Marte 42.35; 42.30; 44.4; 44.9; 44.15; 136.21; 154.15 e 26
82.32; 82.25; 86.11; 86.7; 120.7; Saturno [pianeta] 42.36; 42.30; 44.3;
136.21; 136.17 e 21; 152.20 e 26; 44.9; 44.15; 120.6; 130.20; 130.17;
152.21-2 e 25; 154.6 e 11; 154.19 136.20; 154.23; 154.20
Medusa [astrol.] 86.19 Scandinavia 154.8
Mercurio [pianeta, salvo il primo] Sceriffo (Serefo) [del Marocco]
16.31; 16.29; 42.32; 42.28; 86.9, 16 154.5; 154.11
e 22; 86.6, 10 e 17; 120.7; 130.28; Scipione 64.30; 64.27
130.25; 136.17; 136.15 e 21; 152.25; Scorpione 136.16; 152.14
152.25; 154.23; 154.23 Scoto Duns 94.9
Messico 158.30 Scozia 152.5; 152.4
Minimi [ordine relig.] 154.14; 158.30 Siam 84.35; 84.31
Mogori [Tartari] 20.14; 20.13 Socrate 56.40; 58.9; 58.12; 94.10; 94.9
Monopotapa 150.12; 150.13 Sofì = v. Ismail es-Sufi
Mosè 8.41; 16.30; 16.28; 64.25; Sole [pianeta] 38.20; 38.21; 40.11;
40.10; 42.33 e 36; 42.28 e 31; 86.7,9
148.22
e 17; 86.5,11 e 13; 110.16; 110.15;
112.14; 112.14-5 e 22; 114.5 e 15;
Napoli 54.38
114.5 e 13; 116.8; 118.1,5,8,11,13 e
Nicolaiti 60.3
18; 118.1,4,9,13,14 e 20; 120.2;
Nubia 150.12; 150.13
120.1,5 e 17; 122.5; 122.5 e 18;
Numa Pompilio 16.29 124.2,4 e 6; 124.3,5 e 12; 134.29;
134.24; 142.5,12 e 33; 152.20;
Origene 148.16 152.21; 154.4,14 e 27; 154.24 e 31
Osiride 16.30; 16.28 Solone 18.1
Soto, Domingo de 60.19
Pannonia 154.9 Spagna (-oli) 134.16; 134.15; 152.4;
Paolo di Tarso 160.5; <154.18> 154.13; 154.8
Peretti, Camilla 152.5 Spartani 42.5; 64.4
Persia 154.6; 154.12
Pirro 18.4; 18.9 Taprobana (-se) 2.6; 2.6; 66.7
Pitagora (-ico) 12.3; 12.5; 18.1; 64.17; Tartari 72.10; 72.9
64.16; 146.27 Tertulliano 58.1; 58.2
Platone 20.44; 20.39; 50.26; 56.39; Tolomeo 114.21; 114.17; 118.21;
58.10; 58.13; 60.17; 130.11; 130.10 118.22
Pleiadi 82.36; 82.27 Tommaso d’Aquino 42.38; 50.15;
Polonia 32.17; 152.1; 152.1 60.21; 140.12; 144.13 e 28
Pompilio = v. Numa Tontoli, Francesco 148.33
Toro 82.33; 82.25; 86.15; 86.10
Roma (-no) 18.5; 18.11; 22.5; 22.4; Toscana (Etruria) 152.3
48.20; 48.17; 66.31; 68.28; 68.28; Turchia 150.13; 152.1
708 LA CITTÀ DEL SOLE

Tycho Brahe 144.27 Vergine [costell.] 44.1; 44.1; 86.23;


86.17 e 21; 88.1; 136.22
Ungheria 152.1; 152.2 Virgilio 148.31
Us = v. Hus
Wicleff (Wyclif), John 154.13
Venere [pianeta] 40.29; 42.32; 42.28; Xerifus = v. Sceriffo
86.9; 86.6 e 11; 120.7; 138.12;
138.12; 152.21; 152.10 e 22; 154.23; Zaccaria 148.14
154.20 Zamolxi 18.1
NOMI DI PERSONA PRESENTI NEGLI APPARATI*

Aaron = v. ARONNE ABRAHAM [o Abramo, rabbino cono-


ABAMMONE [presunto sacerdote egi- sciuto da C. a Cosenza nel 1588,
zio, cit. nel titolo dell’op. di GIAM- forse giustiziato come eretico nel
BLICO]: 48n. 1590]: 471n-2n.
ABATE, Gianfranco: 17n. Abramo [primo patriarca ebraico]:
Abdel = v. GRAN MOGOL 109, 210, 256-7, 434, 680n.
ABELARDO, Pietro (1079-1142): 595. Abu Ma‘shar = v. ALBUMASAR
ABIDENO [storico greco autore di una ABULENSE [Afonso Tostado o A., teo-
Storia dell’Assiria d’incerta datazio- logo di Avila, presente al Concilio
ne]: 410. di Basilea, dove nel Defensorium

*
Secondo consuetudine non sono stati schedati i nomi di Dio e dell’Autore (= Campanella,
<campan->).
Fra parentesi quadre si riportano essenziali indicazioni biografiche dei soli ‘minori’ (desun-
te da IBB, DBIt e da dizionari enciclopedici generali - Treccani, prevalentemente -, e speciali-
stici, nonché da Internet), e/o eventuali loro menzioni nelle opere campan.; fra parentesi
tonde gli estremi anagrafici (esclusi gli autori novecenteschi), in cui non si indica il riferi-
mento convenzionale avanti/dopo Cristo, perché evincibile dall’ordine delle date; nei casi
invece di un riferimento al solo secolo [= ‘s.’] o della mancanza di un estremo biografico, so-
no specificati solo quelli avanti Cristo [=‘a.Cr.’], sottintendendo che gli altri appartengono
all’era volgare.
I nomi propri in corsivo si riferiscono a personaggi mitici o immaginari. Il n° di pag. posto fra
parentesi rinvia a menzioni dell’opera principale, da cui si ricava l’autore (vale solo per Dan-
te, Boccaccio, Rabelais). Sono state schedate anche le voci costituite dall’aggettivo derivato
dal cognome dell’autore, che è stato riportato congiuntamente al cognome principale rac-
chiuso fra <> (es.: Ovidio <ovidian->).
La ‘n’ sta per ‘nota’: ‘57 e n’, ad es., significa che l’occorrenza si trova sia nel testo che in no-
ta di p. 57; ‘57n’ l’occorrenza è solo in nota; invece la ‘n’ in esponente, che a volte si trova af-
fiancata all’ultima notazione di pag., indica il rinvio al corrispondente numero della nota
presente nella ‘Bibliografia’ di questo volume; quindi ‘57n’ rivia alla nota n° 57 della Biblio-
grafia.
710 LA CITTÀ DEL SOLE

trium conclusionum difese la sua or- 288, 295, 314, 326-7, 414, 417, 430-
todossia contro TORQUEMADA] 1, 473.
(?1400-55): 494n. AGOSTINO <agostinian->, Aurelio
ACCATTATIS, Luigi (1838-1916): 405n. [Santo] (354-430): 23, 25, 61, 109,
ACCETTO, Torquato [napoletano; il 117, 145, 149, 164, 166, 168, 171,
suo Della dissimulazione onesta 189, 223n, 248, 251n, 254, 256-62
(1641) è allineato con la morale (passim), 274-6 e n, 290, 300-1,
controriformista] (prima metà 309n, 311-3, 330, 336, 341n, 347,
XVII s.): 291n. 377, 380-1, 386, 394, 396, 398n-9,
ACCIETTO-GUALTIERI, Maria Giovanna: 406, 409, 413, 429-30, 433n-4, 446,
300, 549, 609, 624-5. 477, 478 e n, 480, 496 e n, 500, 507,
ACETI, Tommaso [cosentino, vescovo, 512, 518, 549n-50n, 552, 556, 558-
arcade] (1687-1749): 600. 60, 564, 566, 575, 577, 581n, 587-
Achille [eroe omerico]: 71. 90, 592, 597-8, 604, 606-9 e n, 614-
ACHITOFEL [nativo di Gilo, ministro di 5, 631, 634n, 637, 650, 652-5, 658,
re Davide, poi lo tradisce] (?-1033 679, 40n.
a.Cr.): 61. AGRICOLA, Georg [G. Bauer, detto A.;
ACOSTA, José de [missionario in Ame- cit. in Syntagma II II] (1490-1555):
rica Latina, autore di una Historia 239, 330.
natural y moral de las Indias, 1590] AGRIMI, Jole: 558.
(?1539-1600): 174n, 275, 376, 430,
AGRIPPA <menenioagrippian->, Mene-
659.
nio (V s. a.Cr.): 214, 320, 386,
ACQUAVIVA, Rodolfo [gesuita, missio-
439n.
nario e martire in India, fu beatifi-
AGRIPPA di Nettesheim, Heinrich Cor-
cato] (1550-83): 271.
nelius [cit. come falso mago in Syn-
ADAMI, Tobia (1581-1643): XI, XVIn,
225n, 240, 519 e n, 570 e n, 578, tagma II II] (1486-?1535): 209n,
677. 466, 549n.
Adamo [mitico progenitore]: 61, 210 Ahura Mazdah [divinità suprema del-
e n, 221, 232, 297n, 309n, 313, lo zoroastrismo, religione dell’Iran
329n, 337, 389, 393, 417, 444, 490, preislamico]: 202.
578n, 593-6, 603, 653, 680n-1n. AKBAR (1542-1605): 21, 270-1 e n, 516.
ADELARDO [Aethelhard] di Bath ALBATEGNIO [al-Battani, astron. ara-
(?1070-?1160): 525n. bo] (858-929): 679 e n.
ADELE di Blois [o di Champagne, regi- ALBERGATI, Fabio [letterato bologne-
na di Francia] (?-1206): 231n. se, legato pontificio; nei Discorsi po-
Adolfo = v. GUSTAVO A. litici (Roma, 1602) confuta la Répu-
Aegeria = v. Egeria blique di BODIN] (1538-?1606): 253,
Aemilianus = v. EMILIANO 276, 298, 440.
AGATOCLE [tiranno di Siracusa] (317- ALBERTI, Leon Battista (1404-74): XL-
289): 638, 639 e n. VIIIn, 41, 183-4, 188n-9, 191, 194,
AGAZZI, Alberto: 186, 210n. 196-7, 199 e n, 207-8, 238, 240, 253-
AGGEO [profeta ebreo] (VI s. a.Cr.): 4, 293, 330-1, 341, 381, 404, 419,
131, 157 [pseudo-A.], 545, 673, 681- 441, 484, 506, 572n, 599, 656.
2 e n. ALBERTO Magno [Albertus] (1193-
AGOSTINI, Ludovico (1536-1609): 196, 1280): 180 e n, 241, 247 e n, 248-9,
NOMI DI PERSONA PRESENTI NEGLI APPARATI 711

251n, 324n, 333, 341, 358, 367n, [Purg.]), 212, 218, (233 [purgato-
452, 553n, 557, 574, 608n, 658-9. riali]), 256, 319, 337, 366, 495n,
ALBOHAZEN [Haly Abenragel, astrol. 558, 566-7, 578, 595, 697.
originario della Tunisia, attivo in- ALKINDI [al-Kindi, iracheno, è consi-
torno al 1040]: 352n. derato il primo filos. musulmano,
ALBUMASAR [filos., medico e astrol. af- la cui op. più famosa in Occid. è
gano; il suo De magnis coniunctioni- Sull’intelletto] (801-?873): 602, 685.
bus fu tradotto in latino nel XII sec. ALMEIDA, Lorenzo de [figlio di Franci-
da Giovanni da Siviglia e più volte sco; portoghese, scopritore moder-
rist. fino al XV s.; è ora disponib. no di Ceylon] (?-1508): 179.
l’ed. crit. a c. di Yamamoto e Bur- ALSTED, Johann Heinrich [teol. prote-
nett (Leiden, 2000)] (?772-886): stante; nel Tractatus de mille annis
200, 344n, 360, 531, 600, 602, 621, apocalypticis (1626) sostiene che il
684-5. regno di CRISTO avrebbe avuto ini-
Alcina [person. dell’Orlando Furioso]: zio nel 1694] (1588-1638): 220n,
177. 225n.
ALDOBRANDINI, Tommaso [tradutt., Altaselva = v. GIOVANNI di A.
menzionato nel 1568-94]: 43n. Altomonte [person. dell’Orlando Furio-
ALDROVANDI, Ulisse [cit. in Syntagma II so]: 374.
II] (1522-1605): 242, 244, 249,
ALVAREZ, Pedro [esploratore] (1478-
341n.
?): 446, 660.
ALESSANDRO di Afrodisia [filos. peri-
Alvis [presunto interlocutore di ZE-
patetico, attivo tra il 198 e il 211]:
NONE di Elea]: 635.
368, 460 e n, 554, 564, 576n, 74n.
AMABILE, Luigi (1828-92): XIn, XII,
Alessandro di Tralles = v. TRALLIANO
252n, 263 e n, 338, 400n, 486n,
ALESSANDRO Magno (356-323): 171n,
212, 257, 263, 271, 303, 317n, 371, 515n, 600n, 602, 694.
374, 376, 379, 391-2, 409, 445, 481, Amazzoni: 63, 151, 163, 394, 402, 403 e
540, 660n, 671. n, 659, 660 e n.
ALESSANDRO POLIISTORE [erudito di AMBROGIO <ambrosian-; pseudo-A.>
Mileto, vissuto a Roma nel I s. [Sant’] (330-97): 15, 35, 171n, 175,
a.Cr.]: 410. 179, 188, 222, 233, 247-8, 250, 274,
ALESSANDRO V (Pietro di Candia, papa 303, 337, 376, 379, 387n, 391, 395,
nel 1409-10): 668. 397, 409, 430, 433, 445, 448-9, 453,
ALFONSO X il Saggio [re di Castiglia e 475, 479-80, 484n, 498n, 549n, 560,
di Leon; nel 1252 furono raccolte 566, 589, 604, 621n, 625, 631, 653,
dagli astronomi di corte le ‘tavole 655, 673, 28n.
alfonsine’] (1221-84): 344n, 537, AMBROSINI, Bartolomeo [medico, filo-
679, 62n. sofo] (?1588-1657): 249, 341-2n.
ALFRAGANO [o: Alfragani; Alfergani; AMELIO, Gianni: XII.
Al-Farghani; cit. in Syntagma II VI] AMERIO, Romano: XVIIn, XXIIn, 71,
(?-820): 208, 567. 171, 188, 196, 209n, 220 e n, 225n-
ALÌ [genero di Maometto] (?600-61): 6, 260, 262n, 271, 289, 294n, 306,
667. 322n, 334, 348, 360, 392, 396n,
ALIGHIERI, Dante <dantesc-> (1265- 400-1, 403, 422, 427, 430, 465n,
1321): 105, 178, 179 e n, 195, (203 486n, 488-9n, 497n, 500n, 508,
712 LA CITTÀ DEL SOLE

537, 544, 579, 594n, 605, 610, 633, Aquinate = v. TOMMASO d’Aquino
635n, 642n, 658, 667, 18n, 34n, 71n. ARATO [poeta greco di Soli in Cilicia,
AMIDA [su Amida/Buddha cfr Maffei, cit. in Disp. in Bullas (OA, p. 236)]
II, p. 262-3] (?565-486): 202, 255, (?320-dopo 240): 257, 466, 609.
491, 509. ARATO, Franco: 171n.
AMILCARE Barca [padre di ANNIBALE] ARBACE o ARBACTES [leggendario ge-
(270-28): 420n. nerale dei Medi, rivoltatosi contro
AMMIRATO, Scipione (1531-1601): SARDANAPALO, avrebbe espugnato
165n. Ninive nel 612 a.Cr.]: 639.
Ammone [divinità egizia]: 257. ARCHELAO [ateniese, maestro di SO-
AMORETTI, Carlo [agostiniano, biblio- CRATE] (V-IV s. a.Cr.): 572n.
tecario dell’Ambrosiana] (1741- ARCHELAO [re dei Macedoni dal 413
1816): 506. al 399, sospettato da ARISTOTELE di
ANASSAGORA <anassagore-> (499-428): soffrire di malinconia, a causa dei
549-50. suoi audaci interventi nei fatti di
ANDREÄ, Johann Valentin [amico di Sparta e Atene]: 639-40.
ADAMI; pastore luterano, moralista, ARCHIMEDE (287-212): 236, 541.
autore della Reipublicae Christiano- ARCHITA di Taranto [scienz. e filos. di
politanae Descriptio (1619)] (1586- scuola pitagor. della prima metà
1654): XII, XXIII, 225 e n, 237. del IV s. a.Cr.]: 541.
ANDREOTTI, Davide Loria (XIX s.): 51. ARDOINO, Giovan Battista [poeta co-
ANGELINI, Massimo: 435n. sentino del XVI s.]: 405n.
Anghiera = v. PIETRO Martire d’A. Ares: v. Marte
ANGIULI, Vito: 495n. ARETINO, Pietro (1492-1556): 661.
ANNA d’Austria [o d’ASBURGO, regina ARIOSTO, Ludovico (1474-1533): 71,
di Francia] (1601-66): 617. 177, 186, 382, 578, 616, 661 e n.
ANNIBALE (246-183): XLIVn, 63, 263, ARISTARCO (III s. a.Cr.): 115, 157, 238,
420 e n. 541-2, 681.
Annius = V. NANNI ARISTIDE, Elio [retore greco] (?129-
ANSELMO d’Aosta [filos e teol., Santo] 199): 190.
(1033-1109): 635. ARISTOFANE (?445-?385): XIV.
ANTONIO da Padova [Santo, france- ARISTONICO [fratellastro di Attalo III
scano, portoghese, autore di nu- di Pergamo; promotore di una ri-
merosi sermoni] (1195-1231): 305. volta antiromana fu sconfitto e poi
Antonio della Mirandola = v. BERNAR- ucciso] (?-128 a.Cr.): 165.
DI, A. ARISTOTELE <aristotelic-> (384-322):
ANZALDI, Antonino: 483. XIV, 21, 23, 25, 51, 61, 95, 105, 125,
APIANUS, Pietro [Peter, geogr. e 127, 141, 145, 180-4n (passim), 187-
astron.] (1495-52): 535n. 8, 190, 207, 210n, 213-4, 219n, 224,
Apollo [divin. pagana]: 253-4, 258-9, 226, 230, 242n, 249-50, 253, 260-1,
375, 441, 556. 266-8, 274n, 276-8 e n, 282-3n, 286,
APOLLODORO [filol. greco; la sua ope- 289, 293-4, 298, 301, 303-6 e n, 310-
ra Sugli Dei è ricca di notizie mito- 1, 316, 318, 321, 327, 330, 333 e n,
logiche] (?180-?115): 262. 338-41n, 352, 363, 368, 370-1, 377-
APOLLONIO di Perge (III s. a.Cr.): 119, 8, 384, 386-7 e n, 394, 399 e n, 402-
409-10. 3 e n, 407n, 414, 424, 426-31 e n,
NOMI DI PERSONA PRESENTI NEGLI APPARATI 713

439-40, 446-52, 454, 460 e n, 463, ASOR ROSA, Alberto: 502n.


465-6 e n, 474-5, 517, 519, 521-5n ASSUNTO, Rosario: 271, 441.
(pass.), 531 e n, 535n, 538, 540-5 Astarotte [nome di un diavolo nel Mor-
(pass.), 548-55 e n (pass.), 562-5 e gante]: 495n.
n, 570-3, 575, 577 e n, 579, 583, Astolfo [person. dell’Orlando Furioso]:
587-8, 599, 603, 607, 618, 621, 624- 177, 186, 382.
5, 628, 636, 646, 650, 664, 680, 682, Atalante [o Atlante, mitico fondatore
697, 29n. di Fiesole, secondo VILLANI, ripreso
ARMANI, Alberto: 330, 389, 678. dal BOCCACCIO]: 441.
ARNALDO da Villanova [medico, alchi- ATENAGORA [ateniese, filos. e apologi-
mista e teol. catalano, tradutt. di sta cristiano del II s.]: 580.
AVICENNA e GALENO] (?1240-1311): ATENEO (Athenaeus) di Naucrati
364. [erudito greco del II-III s.]: 245.
ARONNE [Aaron, fratello maggiore di ATHANASIUS RHETOR [filos. cipriota,
MOSÈ]: 113, 202n, 230, 505, 507, vissuto a Parigi] (?1571-1663): 263.
509, 516, 567. Atlante [uno dei Titani ribellatisi a
ARQUATO, Antonio [medico e astrolo- Giove]: 258 e n.
go di Ferrara; l’attribuitogli De ever- Atreo [figlio di Pelope e Ippodamia,
sione Europae prognosticon, scritto gemello di Tieste, con cui contese
prima del 1490, fu stampato forse vittoriosam. il trono di Micene]:
nel 1522 ad Anversa; ancora attivo 131.
nel 1494]: 137, 640-1, 679. AUBOYER, Jeannine: 270.
ARRIANO, Flavio [storico greco di fede AUGUSTO, Caio Giulio Cesare Ottavia-
stoica, imitatore di SENOFONTE] no (63 a.Cr.-14 d.Cr.): 375, 691.
(?95-?175): 408-9. Aulo Gellio = v. GELLIO
ARRIGONI, Pompeo [cardinale, fece Averlino [o Averulino], <averlinian->
parte della Congregazione dell’In- = v. FILARETE
dice e del Propaganda Fide] (1552- AVERROÈ <averroist-> [Ibn Rushd]
1616): 702. (1126-98): 253, 259, 319, 402n, 554
ARTEMIDORO di Efeso detto Daldiano e n, 557, 561, 623, 74n.
[letter. greco, autore del celebre AVICEBRON [Ibn Gabirol] (1020-
Onirocriticon] (II s.): 448. ?1058): 623, 627.
ARTESE, Luciano: 469n, 60n. AVICENNA <avicennian-> [Abu Ibn Si-
ARZACHEL [az-Zarqali, astronomo ara- na; elogiato in Syntagma IV VII]
bo di Spagna dell’XI s.]: 679. (980-1037): 93, 151, 180, 248-9,
ASBURGO <asburgic-> [dinastia impe- 340-1, 367n, 369 e n, 370-1, 452,
riale austriaca dal 1438]: 700. 454, 462, 468, 469n, 574, 577n,
Ascanio [figlio di Enea]: 420n. 652.
ASCLEPIADE di Prusa [medico origina- AVITO, Marco Mecilio Eparchio [im-
rio della Bitinia, visse ad Atene e perat. rom. del V s.]: 550n.
poi a Roma, dove fu anche maestro
di retorica e amico di CICERONE] Baal = v. Belo
(?130-?40): 449. Baber [o Babur] = v. GRAN MOGOL
Asclepius [testo sapienzale attribuito Bacco [dio romano del vino]: 197,
ad ERMETE Trismegisto]: 258 e n, 258.
301, 556n. BACONE <baconian-> da Verulamio,
714 LA CITTÀ DEL SOLE

Francesco [Francis Bacon] (1561- BARTOLOMEO da Brescia [giurista, cor-


1626): XI, XII, 240, 251. regge e completa l’apparatus di G.
BACONE, Ruggero (1214-94): 307. Teutonico al Decretum Gratiani po-
BADALONI, Nicola: XVn, 242, 435n, steriore al Conc. Laterano del
27n. 1215] (?-1258): 59.
Baer = v. URSUS Barttema = v. VARTHEMA
BAKHOUCHE, Béatrice: 62n. Bascio, Bassi = v. MATTEO da B.
BALDELLI, Francesco [letter., accade- BASILIO [San] (330-?379): 274, 387n,
mico e tradutt. dal latino; nato a 407n, 512, 516, 564n, 573-5, 585n,
Cortona e attivo nel XVI s.]: 253. 609.
BALDINI, Ugo: 492n. BATTAGLIA RICCI, Lucia: 234.
BARBARO, Daniele [umanista venezia- BATTISTA, Pierluigi: 170n, 181.
no, patriarca di Aquileia e rappre- BAUDRI de Bourgueil (1046-1130):
sentante di Venezia al Concilio di 231n.
Trento] (1513-70): 483. Bauer = v. AGRICOLA
BARBERINI, Francesco [fiorentino; si BAUSANI, Alessandro: 236n.
laureò ‘in utroque jure’ nell’anno Beatrice = v. PORTINARI B.
in cui lo zio Maffeo divenendo pa- BEAUVAIS, Vincent de [teologo france-
pa URBANO VIII lo nominò cardina- se domenicano] (?1190-1264):
le] (1597-1679): 486n, 642n, 644n. 249, 312, 314, 409, 435, 566, 621n,
Barberini, Maffeo = v. URBANO VIII
639.
BARBERIS, Luca: 435n.
BECCARIA, Cesare (1738-94): 479.
BARBOSA, Odoardo (1483-1521): 111,
BEDA il Venerabile (672-735): 547,
405, 409, 446n, 590.
567, 575n.
BARCIA, Franco: 12n.
BELESE [caldeo]: 639.
BARDESANE di Edessa (153-222): 109,
408. Bellarmino = v. ROBERTO B.
BARIGAZZI, Iacopo [I. Berengario o I. Bellonius = v. BELON
da Carpi, medico, anatomista] Belo [grecizzazione del semitico Baal:
(?1460-?1530): 607. nella mitol. assiro-caldaica è il si-
BARONCINI, Gabriele: 672n. gnore di tutta la Terra; nella triade
BARONIO, Cesare [storiogr., cardinale teogonica babilonese è la seconda
preposto alla Bibl. vaticana, autore persona (Anu, Bel, Ea), nonché
degli Annales Ecclesiastici] (1538- fondatore di Babilonia e padre di
1607): 505. NINO; nella mitol. pagana è un leg-
BARRI, Gabriele [sacerdote calabrese, gendario re d’Egitto, figlio di Posei-
nato agli inizi del XVI s.]: 260, 395, done e Libia]: 257, 32n.
541, 600. BELO, Francesco [commediogr. roma-
BARROS, Giovanni di [João de B., con- no del XVI s., autore de Il Pedante
sigl. del re del Portogallo; cit. in (1529)]: 554n.
Quod rem. 4, 42] (1496-1570): 174- BELOCO [Belochus, 18° re degli
6, 238, 374, 405, 410, 414, 432n, Assiri]: 638.
438, 465n, 468, 478, 590, 659, 667, BELON, Pierre [francese; intraprese i
31n. primi viaggi scientifico-naturalisti-
BARTOLI, Cosimo (1503-72): 188n, ci] (?1517-64): 244.
194, 197, 199n, 404, 506. Belzebù: 250.
NOMI DI PERSONA PRESENTI NEGLI APPARATI 715

BEMBO <bembian->, Pietro (1470- Bhavani [divinità indiana della natu-


1547): 236. ra]: 410.
BEN SIRACH, Jesus [autore ebreo BIANCHI, Lorenzo: 57n.
dell’Ecclesiastico, composto intorno BIANCHI, Luca: 547n.
al 180 a.Cr.]: 390. BIANCHI, Massimo Luigi: 369n, 460n.
BENZONI, Gino: 698n. Bibbia <biblic-; Scrittur->: 111, 149,
BENZONI, Girolamo [cit. in Documenta 165n, 173 e n, 187, 189, 191-2, 194,
ad Gallorum Nationem insieme a LAS 197, 202n, 207, 211, 219, 221-3, 231
CASAS] (1519-72?): 164, 324n, 414, e n, 233, 243, 248, 250, 266-7n,
516, 559-60, 612-3. 294, 305-6, 310n, 326, 328, 355n,
Berengario = v. BARIGAZZI 376, 407, 414-5, 434-5, 449, 474n,
BERILLARI (Berillo), Basilio [confesso- 480, 489, 507, 511, 515, 522n, 532 e
re di C. nella ‘fossa’ di Sant’Elmo n, 535, 553n, 570, 575, 582-3, 589n,
nel 1604-8: cfr GIANCOTTI, p. 378- 596, 615-6, 631-2, 640, 650, 652,
9]: 488. 654, 668-9, 673, 680 e n.
BERNARDI, Antonio [nato a Mirando- - Libri dell’Antico Testamento:
la, vescovo di Caserta, autore di un 1Cron. [Primo Libro delle Cronache]:
saggio sui duelli, cit. da C. in Theol. 326, 474n, 509, 609.
X] (1503-65): 427 e n. 1Re [Libro primo di Samuele o Primo
BERNARDINO da Siena [San] (1380- dei Re]: 173n, 191, 194n, 203, 207,
1444): 679. 257, 431n, 482n, 484, 506.
BERNARDO di Chiaravalle [San] (1090- 3Esd. [Terzo libro di Esdra – non ca-
1153): 285n, 292, 486, 514, 610, nonico]: 416.
680 e n. 4Esd. [Quarto libro di Esdra – non
BERNI, Francesco (1497-1535): 661. canonico]: 680.
BEROALDO, Filippo il Vecchio [erudito Agg. [Aggeo]: 545, 682n.
e docente bolognese, curat. di clas- Dan. [Daniele]: 109, 415.
sici lat.] (1453-1505): 260, 363, Deut. [Deuteronomio]: 103, 369, 477,
384, 664. 479-81, 559.
BEROSO [in Historia, p. 1137 considera Ec. [Ecclesiaste]: 328, 532, 596.
reale e degno di fede questo sacer- Ecli. [Ecclesiastico]: 385, 390-1, 436,
dote babilonese, in polemica con 512, 515n, 589.
Melchior CANO che nel 1563 dubi- Ex. [Esodo]: 9, 109, 113, 202 e n.,
tava della sua attendibilità; in Syn- 203, 236, 256, 369, 474, 477, 516,
tagma IV III è più cauto: “non tra- 567, 654.
scurare B. e i frammenti di Ennio Ez. [Ezechiele]: XLVIIIn, 111, 186,
(sic: ma ANNIO), anche se c’è il so- 189, 191, 194, 203, 233, 382n, 426,
spetto che siano apocrifi”; astrol., 432, 472, 480, 508n-9, 567, 596,
autore dei Babilonikav, massime 615, 655.
moralistiche e astrolog. dedicate Gb. [Giobbe]: 511, 575, 615.
ad Antioco I] (III s. a.Cr.): 115, Gen. [Genesi]: 109, 133, 149, 180n,
237, 257, 660, 32n. 189, 221n-2, 243, 248, 250, 314,
BERTELLI, Lucio: 188, 430. 341, 395, 431n, 434, 447, 516, 566-
BERTI, Silvia: 253n, 492n. 7, 574-5, 615, 631, 654.
BERTOLUCCI, Piero: 57n. Ger. [Geremia]: 416, 619, 630n,
BEZZA, Giuseppe: 305n. 669n.
716 LA CITTÀ DEL SOLE

Gs. [Giosuè]: 165n, 192. Coloss. [Lettera ai Colossesi]: 380n,


Is. [Isaia]: 109, 165n, 185, 192, 211, 609.
233, 256, 340, 416, 448, 532, 597, Eb. [Lettera agli Ebrei]: 185, 202,
630 e n, 655, 660, 676. 558n, 680.
Lev. [Levitico]: 202n, 505, 507, 601, Ephes. [Lettera agli Efesini]: 439,
654. 573n.
Num. [Numeri]: 109, 480, 654. Fil. [Lettera ai Filippesi]: 613.
Prov. [Proverbi]: 192, 482n. Gal. [Lettera ai Galati]: 155, 267n,
Ps. [Salmi]: 185, 217, 243, 337n, 670.
515, 532, 557n, 594, 680. Gc. [Lettera di Giacomo]: 559.
Sap. [Sapienza]: 113, 218, 222, 516, Gv. [Vangelo di Giovanni]: 431, 615,
559, 652. 689.
Tb. [Tobia]: 608. Lc. [Vangelo di Luca]: 309n, 399,
Zc. [Zaccaria]: 149, 328-9. 536, 547, 608, 613, 655, 670, 679.
- Libri del Nuovo Testamento Mr. [Vangelo di Marco]: XLVn, 547.
<Vangelo; evangelic-; neo-testa- Mt. [Vangelo di Matteo]: 436n, 480,
mentar->: XIV, XVIn, XXII, XLVn, 515, 535, 547, 581, 608, 679.
137, 172, 187, 197, 203, 281n, 299, Rom. [Lettera ai Romani]: 311, 386,
402, 412, 428, 431, 479-80, 483n, 439, 479, 507, 559, 560, 596n,
487, 491n-2, 494n-5 e n, 499, 500 e 606n, 609.
Tit. [Lettera a Tito]: 466.
n, 502-3, 536, 539-41, 547, 552, 554,
BIDEZ, Joseph (1867-1945): 165n.
578, 593, 603 e n, 608, 610, 613,
BIEL, Gabriel [tedesco di Spira, teolo-
615, 617, 655, 688-9n, 696.
go e filosofo occamista] (?1410-
1Cor. [Prima Lettera ai Corinti]: 111,
95): 622.
311, 322, 386 e n, 406, 439, 579,
Bina, Binau = v. BÜNAU
677. BLAISE, Albert: 625.
1Pt. [Prima Lettera di Pietro]: 210, BLANCHET, Léon: 700n.
379, 617. BOBBIO, Norberto: XII, XXV-VI e n,
1Thess. [Prima Lettera ai Tessalonice- XLI-IV e n, XLVn, XLVII-L e n, 3,
si]: 547, 679. 41, 57, 73, 103, 119, 161, 165n, 172,
1Tim. [Prima Lettera a Timoteo]: 322, 183, 196, 198, 204, 209n, 211, 267,
379, 515. 293, 296, 308, 322n, 332, 348, 388,
2Cor. [Seconda Lettera ai Corinti]: 390, 394n, 403, 413, 446, 471, 474-
416, 428, 480. 6, 486n, 489, 496, 504n, 508, 514,
2Pt. [Seconda Lettera di Pietro]: 177, 517n, 519, 562, 567, 570n, 579,
536, 547, 552, 572, 679-80. 587, 601n, 605, 677-8n, 32n.
2Tim. [Seconda Lettera a Timoteo]: BOCCACCIO, Giovanni (1313-75): (XL-
426. VIIIn), (236), (371-2), (404),
Apoc. [Apocalisse]: 149, 185-6, 191-2, 492n, 501.
201, 210, 262, 328-9n, 382, 396, BOCK, Gisela: 322n.
500, 508-9, 546-8, 615n, 669, 680, BODIN <bodinian->, Jean (1530-96):
688n, 690. 317n, 394, 601, 661, 664.
At. [Atti degli Apostoli]: 23, 25, 59, BOEZIO <boezian->, Anicio Manlio
248, 274, 312, 386, 397, 466, 474, Torquato Severino (?480-525):
485, 506, 609. 327.
NOMI DI PERSONA PRESENTI NEGLI APPARATI 717

BOFFINO, Anna: 482n, 49n. BRACCIOLINI, Poggio (1380-1459):


BOLL, Franz: 602. 247.
BOLZONI, Lina: 63, 179, 213, 219, 224- BRACH, Jean Pierre: 650n.
6, 229n, 231-3, 235 e n, 242, 260, BRAHE, Tycho <ticon-> (1546-1601):
312n, 322n, 405n, 658, 661, 690n. 123, 131, 137, 145, 170, 344n, 441,
BÖMER, Franz: 409n. 518, 519 e n, 524n, 528, 531-6 e n,
BONA Sforza [figlia di Gian Galeazzo] 541-2, 617-8 e n, 640 e n, 643-4,
(1494-1557): 153. 682-3, 685, 693, 697, 699.
BONANSEA, Bernardino M.: 586. Brahma [una delle divinità della sacra
BONAVENTURA, Federico [poligrafo; Trimurti indù]: 590.
scrisse la Ragion di Stato in polem. BRANCA, G. Francesco (1567-1621):
con BOTERO] (1555-1602): 252, 454.
391. BRANCACCIO, Giulio Cesare [napoleta-
BONINI, Giacomo [di S. Giorgio Mor- no, militare di professione] (1515-
geto, storico del diritto, attivo nel ?86): 193 e n, 264, 417 e n, 418-20,
XVI s.]: 252. 422-4.
BORBONE [dinastia che, con ENRICO BRANCACCIO, Lelio (?1560-1637): 167,
IV, regnò in Francia a partire dal 193 e n, 405, 418, 420, 425.
1589]: 603. BRANCACCIO, Marco Antonio [nipote
BORGIA y Velasco, Gaspare [cardina- di LELIO, balì gerosolimitano, capi-
le] (1580-1645): 644. tano dell’eserc. spagnolo, forse
BORGIA, Cesare [duca Valentino] coinvolto nella tentata congiura di
(1475-1507): 401. PIGNATELLI] (?1570-?1650): 167.
BORGNA, Eugenio: 464n. BRELOER, Bernhard: 409n.
BORRI, Cristoforo [nobile, gesuita, BRIGIDA di Svezia [Santa] (?1303-73):
matematico, esploratore, cit. in XX e n, 218, 305, 579, 600n, 612-3,
Poët. III, p. 963] (?1560-1632): 438. 616, 619, 667, 679-80.
Borromeo = v. CARLO B. BROC, Numa: 177, 181n, 439n, 659n.
BOSCO, Domenico: 57n. BROEK, Roelof van den: 248n.
BOSIO, Giacomo [piemontese, geroso- BRUCIOLI, Antonio (?1498-1566):
limitano] (1544-1621): 168, 262. XIVn, 163, 185, 268, 276, 278, 371,
BOSSA, Renato: 35. 377, 391.
BOTERO <boterian->, Giovanni (1540- BRUERS, Antonio: 242, 620.
1617): 15, 21, 63, 151, 155, 159, BRUGIOTTI o Brogiotti, Andrea [stam-
165 e n, 168, 171n, 174-5, 178, 180, patore e libraio romano] (?1586-
188, 191, 193, 212, 216, 264 e n, 1648): 647, 657.
265, 270, 273, 288, 291n, 294, 373, BRUNI, Leonardo (1370-1444): 191.
382n, 384-5, 388, 404, 408-9, 423, BRUNO <brunian->, Giordano [o No-
431-2n, 436, 438, 446, 465n, 478 e lano] (1548-1600): XVIIIn, 166,
n, 481, 505, 509, 516, 568, 590, 612, 224-5, 229n, 238, 413n, 492n, 534,
615, 659, 662, 664, 667-8, 677n. 542, 554n, 557 e n, 569, 582, 583 e
BOURDETTE, Véronique: 12n. n, 585 e n, 37n, 74n.
Bourgogne = v. MANDEVILLE BRUTO, Marco Giunio (86-42): 59,
BRACCESCHI, Giovanni Battista [dome- 261, 538n.
nicano, poeta, matem., astrol.] (?- Buddha <buddist-> = v. AMIDA
1612): 677n. BUDÉ, Guillaume [parigino; erudito
718 LA CITTÀ DEL SOLE

classico, bibliotecario e segretario 1544): 192, 203 e n., 229n-30 e n,


del re] (1467-1540): 161, 275, 295, 235n, 453, 482, 551n, 591n, 656n.
310, 412, 481, 500n. CANALI, Luca: 671.
BULFERETTI, Luigi: 7n. Canapicio = v. JAVELLI
BULLION DE BONELLES, Claudio [consi- CANO, Melchior [teologo domenica-
gliere del Re di Francia e soprin- no castigliano] (1509-60): 554 e n.
tendente alle Finanze] (?1580- CANONE, Eugenio: XIn, 369n, 644n,
1640): 555, 609. 657n, 46n.
BÜNAU, Rudolf von [nobile sassone, CANTIMORI, Delio: 23, 390, 539, 630,
di cui fu precettore ADAMI, con il 640, 645, 660, 689.
quale, all’età di circa 17 anni Canusiano = v. CANO
(1613), visitò in carcere il C., che CANZIANI, Guido: 302n.
dedicò loro i sonetti 69 e 70]: CAPACCIO, Giulio Cesare [letter. e po-
570n. ligrafo] (1552-1634): 388n.
BUONTALENTI, Bernardo (1536-1608): CAPASSO, Bartolomeo (1815-1900):
164. 111.
BUSA, Roberto: 622. Capella = v. MARZIANO C.
Busiride [mitico re egizio]: 188n. CAPELLO [o Cappello], Bianca (1548-
BUSLEYDEN, Hieronimus (1470-1517): 87): 153.
161. CAPPELLI, Antonio (1818-87): 233n.
BUTLER, Samuel [scrittore satirico in- Capuano = v. RAIMONDO da Capua
glese] (1835-1902): 454. CARAFA, Carlo Maria [del ramo Carafa
Branciforte, principe di Butera,
CAETANI, Bonifacio (1568-1617, car- polit., erudito, mecenate] (1651-
din. dal 1606): 535, 571. 95): 332.
Caetano, Caietanus, Gaetano = DE CARDANO, Girolamo (1501-76): 137,
VIO 139, 247, 249, 254n, 342n, 344n,
Caino [mitico fratello di Abele]: 417. 472, 537, 602, 603 e n, 641, 670,
CALASSO, Giovanna: 236n. 679, 682, 688, 693-4.
CALCIDIO [tradutt. di PLATONE del IV CARENA, Carlo: XII, 300n, 559, 654.
s.]: 655. CARILLO [re spartano della dinastia
CALIPPO o Callippo di Cizico [perfe- degli Euripontidi, sotto cui legi-
ziona il sistema cosmolog. delle sfe- ferò LICURGO] (914-854): 481.
re di EUDOSSO] (IV s. a.Cr.): 562. CARLO BORROMEO [San] (1538-84):
CALLIMACO di Cirene (310-?240): 95, 506.
257, 465-6. CARLO EMANUELE I di Savoia (1562-
CALLISTENE [storico greco, aut. delle 1630): 171n, 264n.
Gesta di Alessandro] (370-?327): CARLO MAGNO <carolingi-> (742-814):
540. 178, 603, 687n-8, 691.
CALONGHI, Ferruccio: 356. CARLO V [imperatore di Spagna]
CALVINO, Giovanni [Jean Calvin o (1500-58): 153, 401, 438, 616, 699.
Cauvin] (1509-64): 624, 667-8. CARONDA (VII-VI s. a.Cr.): 253, 255,
CALVINO, Italo: 305n. 261.
CAMBI, Maurizio: 229n, 336, 479. CARRER, Luigi [poeta e letter. venezia-
CAMILLO, Giulio Delminio (?1480- no] (1801-50): 44n.
NOMI DI PERSONA PRESENTI NEGLI APPARATI 719

Carthusianus, Cartusiano = v. DIONIGI e architetto, pubblicò la I ed.


C. dell’Architettura di VITRUVIO nel
CASAUBON, Isaac [umanista ginevrino, 1521] (?1475-1543): 208, 703, 72n.
curatore di classici greci] (1550- CESARO, Antimo: 260, 1n.
1614): 258n, 43n. Charillus = v. CARILLO
Cassandra [mitica profetessa di sven- CHIOCCO, Andrea (1562-1624): 407n,
ture]: 695. 607n.
CASSIOPEA [regina etiopica]: 618, 683. CHLADENIUS, Johann Martin (1710-
CASTANEDA, Fernando de [Castanhe- 59): 487n.
da Fernao Lopes, storico portoghe- CHRISTIANSON, John Robert: 441.
se, autore della Storia della scoperta e Cicala = v. SINAM BASSÀ
conquista delle Indie] (1500-99): 472. CICERONE <ciceronian->, Marco Tullio
CASTELLI, Patrizia: 185n, 242n, 247n, (106-43): XLVn, 59, 67, 163, 184,
251. 202, 213, 252, 254, 257, 258n-9,
CASTELVETRO, Lodovico (1505-71): 261, 272, 292, 303, 313, 367, 382,
229n. 409, 416, 430, 441, 525n, 541, 558,
CASUBOLO, Marco: 383n. 576n, 599, 621, 631, 637, 655.
CATERINA da Siena [Santa] (1347- Cicno o Cigno [un figlio di Ares e uno
1380): XX e n, 275 e n, 600n, 613, di Poseidone aventi lo stesso nome]:
667, 679. XLIVn, 71.
CATERINA de’ Medici (1519-89): 153. Cimone [personaggio decameronia-
Cath. = v. CATERINA da S. no]: 371-2, 404.
CATONE, Marco Porcio detto l’Uticen- Cinghi = v. GENGIS KHAN
se (95-46): 23, 59, 257-8n, 276. CIPRIANO [San] (?200-258): 547.
CAVALCANTI, Bartolomeo [o Cavalcan- Cipriano Leovizio = v. LEOWICZ
te, uomo polit. e letter. fiorentino; CIRILLO di Gerusalemme [San] (315-
nei Trattati volle conciliare le idee 86): XVIn, 187 e n, 566.
di PLATONE, ARISTOTELE e POLIBIO, CIRO il Grande (?600-529): XXIn,
di cui curò un’ed. in volgare] 236, 367, 698.
(1503-62): 419. CITOLINI, Alessandro [discepolo di
CAYE, Pierre: 166, 214, 402n, 554n, 1n. CAMILLO, menzionato da BRUNO
CÉARD, Jean: 26n. nella Cena] (?1500-83): 232.
CEBÀ, Ansaldo (1565-1623): 252. CLAUDIO, Tiberio Druso Nerone [im-
CELIO Rodigino [Ludovico Ricchieri perat. romano dal 45 al 54]: 642.
di Rovigo, menzionato in Syntagma CLÉMENT, Jacques [frate domenicano;
IV X] (1469-1525): 99, 408, 466, uccise Enrico III di Valois nel
538n, 552, 650, 660. 1589]: 401.
CELSO, Aulo Cornelio (I s.): 454. CLEMENTE Alessandrino [San] (?150-
CERBO, Anna: 405. 215): 187, 202n, 247, 254, 260n,
CERNICIO, Emmanuele [condottiero 292, 379, 409-10, 462, 516, 655.
portoghese del XVI s.]: 421. CLEMENTE I Romano [Santo; papa nel
CESARE <giulian->, Caio Giulio (?100- 88-97; gli furono attribuiti scritti
44): 226, 263-4, 361, 375, 398n-9, oggi ritenuti apocrifi]: XVIn,
417n, 420, 537n-8n, 568, 612, 687, XLVn, 59, 278n, 315, 394, 397, 439,
696, 36n. 494, 498 e n, 619 e n, 620, 628, 650.
CESARIANO, Cesare [milanese; pittore CLEMENTE VIII [Ippolito Aldobrandi-
720 LA CITTÀ DEL SOLE

ni, papa nel 1592-605]: 109, 275, CORONELLI, Vincenzo Maria (1650-
277, 577, 641, 642n. 1718): 220n.
Codro [mitico re di Atene]: 259, 401. CORSALI, Andrea [esploratore] (1480-
COHEN-SAFIR, Claude: 322n. 1540): 173, 175-6, 438, 446n, 667.
COHN, Norbert: 214. CORSANO, Antonio: 323n, 553n.
COLLO, Paolo: 174n. CORTÉS, Hernan [Cortese, Cortesius]
COLOMBO, Cristoforo (1451-1506): (1485-1547): 159, 178, 494, 512,
135, 159, 170 e n, 171, 173n-4n, 664, 666, 676.
178, 182, 314, 496n, 542, 611-2, CORTESE, Giovan Battista di Pizzoni
615, 664. [confratello e amico di C. a Nica-
COLONNA, Francesco (?1432-?1527): stro, promotore della congiura,
71, 194, 199n. morì in seguito alle torture nel car-
COLUMELLA, Lucio Giunio Moderato cere napoletano] (1564-1601):
[spagnolo del I s.; di lui ci resta il 600n.
più completo trattato antico di CORTESE, Giulio [sacerdote e astrol.
agricoltura, il De re rustica]: 330, napoletano] (?1530-1598): 690 e n.
433n, 679. Corvino: v. MATTIA C.
COMENIO [Komenskj, Jan Amos] COSIMO I de’ Medici (1519-74): 164-5.
(1592-1670): XII, 225 e n. COSTANTINO l’Africano [medico della
Comestore: v. PIETRO C. Scuola Salernitana, benedettino,
COMMANDINO, Federico [o Comandi- tradusse a Montecassino molte
no, medico e matem. urbinate] opere greche di medicina] (XI s.):
(1509-75): 525n, 541. 452, 470.
COMPARETTI, Domenico (1835-1927): COULIANO [CULIANU], Ioan Petru:
233. 230n, 269n.
CONTE, Gian Biagio: 15, 178, 327. COUZINET, Marie-Dominique: 369n.
CONTI ODORISIO, Ginevra: 317n, 661. CRAHAY, Roland: XLI e n, XLII-III,
CONTI, Niccolò dei [esploratore] (?- XLIVn-VIn, XLVII e n, XLVIII-L,
1469): 111, 173n, 247, 298, 409, 23, 73, 95, 99, 111, 123, 135, 139,
448, 458. 149, 172, 198, 200, 207, 209n,
CONTINI, Gianfranco: 567. 212n, 236, 251, 260n, 265, 324n,
COOKE, Brett: 327. 459, 476, 504n, 506, 513n, 516,
COPERNICO <copernican->, Niccolò 607-8, 613n, 617, 638, 658-9n,
[Nikolaj Kopernik] (1473-1543): 663n, 670.
87, 115, 117, 119, 131, 157, 294, CRANACH, Lucas il Vecchio (1472-
442, 519 e n, 520n, 526-7n, 532-44 1553): 599.
e n, 558, 561-3, 570 e n, 571, 583, CRASSO, Marco Licinio (?115-53): 613.
585 e n, 640, 673, 679 e n, 681-2, CRATES o CRATETE di Mallo [filos. stoi-
684-5, 693-4. co, capo della scuola di grammati-
CORIOLANO, Gaio Marcio (V s. a.Cr.): ca di Pergamo, trasferitosi a Roma
67. intorno al 168 a.Cr.]: 448.
CORISCO [di Scepsi nella Troade, di- CRESO [ultimo re della Lidia] (?560-
scepolo di PLATONE, che gli invia la ?546): 501n.
VI Epistola]: 590. CRISIPPO di Soli [secondo fondatore
Cornelio = v. AGRIPPA della sc. Stoica] (281-?204): 371n,
CORNELIUS, Paul: 239n. 576n.
NOMI DI PERSONA PRESENTI NEGLI APPARATI 721

Crisostomo = v. GIOVANNI C. 288n, 296, 298, 314, 391, 404 e n,


Cristo = v. GESÙ 496, 610, 676, 9n.
CRO, Stelio: 324n, 498. De Molina = v. MOLINA
CROCE, Benedetto (1866-1952): XII, DE PLINVAL, Georges: 39n.
308-9n, 492, 496, 506. De Rinaldis = v. RINALDIS
Crono = v. Saturno DE ROSA, Luigi: XVIIIn.
CROVETTO, Pier Luigi: 174n. DE ROSSI, G. G. (XVI s.): 63.
CRUCÉ, Emeric [parigino; nel Nou- DE SILVESTRIS, Francesco (?1474-
veau Cynée (1622 o 23) propone 1528) [nato a Ferrara (perciò: Fer-
un’utopica lega europea] (1590- rariensis); Generale dei Domenica-
1648): 390. ni, teol., filos., commentat. della
CURCIO, Carlo: 599n. Summa, menzionato ad es. in Lette-
Curiazi [v. anche Orazi]: 427. re, p. 177]: 622, 626, 676.
CURRÀ, Gaetano: 669n. DE VINCI, Antonella: 264n, 466n.
CUSANO, Nicola [Nikolaus Chrypffs o DE VIO, Tommaso [al secolo Giaco-
Krebs] (1401-64): 671, 679. mo, originario di Gaeta (donde:
Cyrillus = v. CIRILLO Caietanus, Caetano o Gaetano);
teol., diplomatico e Generale dei
D’ANCONA, Alessandro (1835-1914): Domenicani, celebre per aver ten-
XII, 187n, 233 e n, 234. tato invano di far ritrattare a Lute-
ro le sue tesi (Piazzi, p. 219), e per
d’Evoli = v. EVOLI
il comm. della Summa; menzionato
Da Vinci = v. LEONARDO
ad es. in Syntagma II IV] (1468-
DAIRI [o Vò, nome proprio (o comu-
1534): 317, 397, 400, 631, 633,
ne?) di imperat. giapponese anter.
658-9, 676.
XVI s.]: 212.
Dedalo [mitico architetto ateniese]:
DALLA VIGNA, Pierre: 52n. 619.
Damasceno = v. GIOVANNI D. Del Buffa = v. SACCARO D.B.
Dandami = v. Didimo DEL COL, Andrea: 578n.
DANIELE [quarto dei profeti maggiori, DEL TUFO, Mario [marchese di Lavel-
deportato a Babilonia nel ?605 lo, ospitò a Napoli nel 1590-2 il C.,
a.Cr.]: 415. che gli dedicò Phil. sens.] (1547-?):
Dante = v. ALIGHIERI 423, 435n, 458n, 469.
DARMON, Pierre: 338n. Delfino (di Francia) = v. LUIGI XIV
DAVID [re d’Israele] (XI o X s. a.Cr.): DELIA, Teresa: 603n.
185, 217, 243, 326, 355n, 515, 541, DELLA PERGOLA, Giuliano: 192n.
609. DELLA PORTA <dellaportian->, Giovan
DE BILLY, Jacques de Prunay [erudito Battista (1535-1615): 15, 71, 93,
franc., teologo benedettino] 151, 184, 209n, 225, 232, 240-1,
(1535-81): 185, 207, 213, 566, 613, 260, 269, 298, 321, 339, 342, 347,
631, 652. 363, 369, 378, 380, 413, 432, 434,
DE BUJANDA, Jesus Martinez: 657n. 438, 444, 447n, 449-50, 456, 463-
De Jode, G. = v. HONDIUS 5n, 466-7, 469n, 479, 525, 555, 607,
De Lyra = v. NICOLAS De L. 619, 628-9, 661.
De Marinis = v. MARINI G. B. DELLA PORTA, Giovan Vincenzo [fra-
DE MATTEI, Rodolfo: 183, 210n, 252, tello di Giovan Battista, letterato,
722 LA CITTÀ DEL SOLE

alchimista, astrol., mise a disposi- Disario [uno degli interlocutori dei


zione di C. la sua ricca biblioteca] Saturn. di MACROBIO]: 459n.
(?1530-?1603): 690n. DITADI, Gino: 329, 381, 510.
DELLA ROVERE, Francesco Maria II DIVIZIO o Dovizio, Pietro [o Bibbiena,
(1574-1631): 199. fratello di Bernardo; cancell. di
Delminio = v. CAMILLO LORENZO de’ Medici, Nunzio Apo-
DELUMEAU, Jean: 186n. stolico di Leone X] (?-1514): 466.
DEMOCRITO <democrite-> di Abdera DOMENICHI, Lodovico [o Luigi; giuri-
(?460-?370): 117, 287, 368, 462, sta, poligr., tradutt.] (1515-64):
492n, 549-50, 583, 585n, 595n. 173, 175, 247 e n, 341, 448n.
DERRETT, J. Duncan M.: 411n. DONI, Anton Francesco (1513-74):
DESANTIS, Giovanni: 109, 448n, 485n. XXIII, XXIX, 161, 164, 169 e n,
Di Gaeta o De Gaeta = v. GAETA 184, 191, 197, 201, 203, 211, 226,
DI LISO, Saverio: 400n. 236, 238, 241, 254, 258n, 261-2,
DI NAPOLI, Giovanni: 213, 260, 485n, 269, 273 e n, 275-6, 288, 292, 294-5,
488n, 556, 625. 298, 313, 320, 325-6, 328-30, 337,
Didimo [o Dandami o Mandani, il pre- 371 e n, 376, 381, 387, 390-2, 402,
sunto bramino interlocutore di 404, 407n, 417, 428, 453, 459n,
ALESSANDRO Magno]: 271, 303, 472, 474, 479, 481, 508, 512-3,
317n, 376, 392, 409, 445, 481, 507. 549n, 551, 554n, 565, 577, 596,
Didone [person. dell’Eneide]: 225, 233. 609-10, 619, 622-3, 661, 672.
DIEZ DEL CORRAL, Luis: 231, 296, 611. DONNO, Daniel J.: 221, 362, 426, 441,
DIODORO Siculo [?80-?20]: 79, 81, 165 477, 678.
e n, 177 e n, 179, 181, 196, 211, DOOLEY, Brendan: 644n.
214, 252-3, 256-7, 259, 261-2, 273-5, DRACONE (VII s. a.Cr.): 255.
278, 298, 328-9, 370, 382-3, 408, DREYER, John Louis Emil: 145, 617n.
447-8, 453, 464, 556, 639, 660. DRUSO, Giulio Cesare (?15 a.Cr.-23
DIOGENE di Sinope o Cinico (?-?323 d.Cr.): 638-9.
a.Cr.): 273, 277, 391. DU CANGE, Charles Du Fresne (1610-
DIOGENE Laerzio [elogiato in Syntag- 88): XLIVn-XLVn, 99, 167-8, 218,
ma IV IV] (II-III s.): 25, 59, 115, 363, 429, 468, 625.
254, 260 e n, 261, 264, 268-9, 274, DÜBNER, Friederic (1802-67): 29n.
277n, 292n, 294, 300, 303, 358, DUHEM, Pierre: 531.
384, 413, 436, 445 e n, 478, 507, DUMÉZIL, George: 214.
545, 550, 572n, 576n. DUNS SCOTO, Giovanni (1270-1308):
DIONIGI [pseudo-] Areopagita [tratta- 95, 338, 341n, 363, 465.
tista greco, forse filosofo neoplat. DURANDO di San Porziano, Guglielmo
di origine siriana, a cui è attribuito [o Durandus de Arvernia, Durand
il Corpus Dionysiacum] (V-VI s.): d’Auvergne, teol. Domenicano; il
474n, 557, 605. suo comm. alle Sent. tomist., anter.
DIONIGI de Leewis il Certosino [o al 1308, è cit. in Quaest. pol. IV III]
Carthusianus] (1402-71): XXn, (?1270-?1334): 180, 334, 402, 494n,
XXII, 465n, 667, 679. 580n.
Dioniso [divinità greca]: 413. DÜRER, Albrecht (1471-1528): 325.
DIOSCORIDE [o Dioscuride] (I s.): 151,
453, 468. EAMON, William: 209n, 690n.
NOMI DI PERSONA PRESENTI NEGLI APPARATI 723

Ecate [divinità pagana degli Inferi]: ENRICO II [re di Francia] (1519-59):


149. 153, 517.
ECO, Umberto: 165, 239n, 514. ENRICO IV [re di Francia] (1553-
EFREM Siro [di Nisibi in Siria, diaco- 1610): 701.
no, Dottore della Chiesa, Santo; Ephrem = v. EFREM
cit. da C. in Quod rem. 4, 30 circa la EPICURO <epicure-> (341-271): 117,
collocaz. del Paradiso su un mon- 277n, 549-50, 593, 595n, 606.
te] (?306-373): 207. EPIMENIDE [sacerdote, cosmologo e
Egeria [ninfa, segreta consigliera di profeta cretese del VI-V s. a.Cr.; cit.
NUMA, cui appariva nel bosco sacro spesso da C. insieme ad ARATO e
presso Porta Capena]: 253, 259. CALLIMACO]: 466.
EGIDIO Polono [francescano, beato; Era [sorella e sposa di Zeus, Giunone
incluso nella raccolta di pronostici per i Romani]: 262n.
sui Pontefici del GIOVANNINI]: 642. ERACLIDE Pontico (I s.): 519, 531.
EGIDIO Romano dei Colonna (?1243- ERACLITO (?550-?480): 550-2, 597,
1316): 276, 403. 664, 679.
ELIA [profeta ebreo] (IX s. a.Cr.): ERASMO <erasmian-> da Rotterdam
207, 680n. (?1466-1536): 247, 275-6, 310,
ELIADE, Mircea: 260n. 436n, 595.
ELIANO, Claudio [sofista e poligrafo Ercole: 71, 257, 463, 465 e n, 514, 660,
687, 22n.
romano] (?170-?235): 193, 247,
Eriugena = v. SCOTO E.
261.
Ermes o Ermete Trismegisto <ermetic->
ELIAV-FELDON, Miriam: 336.
[nome greco del dio egizio Thoth,
ELIEZER [rabbino]: 567.
presunto autore del Corpus Hermeti-
Elinando = v. HÉLINAND
cum risalente al neoplatonismo]:
Elio Aristide = v. ARISTIDE 210n, 213, 224, 229n, 248, 253,
Elio Lampridio = v. LAMPRIDIO 256, 258 e n, 259, 297, 301, 344n,
ELIODORO [romanziere greco del III o 362, 463, 473, 482 e n, 483, 488,
IV s., famoso per le Etiopiche]: 434. 547, 551-2, 565, 576-7, 590, 597,
ELIOGABALO o Elagabalo [imperatore 665, 49n, 62n.
romano nel 204-222]: 99. ERNST, Germana: XIn, XIVn, XVn,
ELISABETTA I Tudor (1533-1603): 153. XVIn, XVII e n, XXIn, XXV e n,
ELLERO, Maria Pia: 225. XXVIn, XXX, 15, 23, 59, 63, 109,
ELYOT, Thomas [umanista e diploma- 115, 151, 161, 164, 172, 181, 187 e
tico inglese] (?1490-1546): 219n. n, 193n, 209n, 219n, 231n, 263,
EMILIA [cugina di C.]: 466, 689. 267, 272, 275n-7, 284n, 287n,
EMILIANO, Publio Scipione o Africano 289n, 298 e n, 302 e n, 305n, 324n,
minore (185-129): 374, 638. 331n, 337n, 366, 381n, 385-6n,
EMPEDOCLE <empedocle->(492-432): 392, 399n-402n, 407n, 415, 435n-
117, 342, 368, 465, 549-51, 572, 6n, 438n, 443, 446, 451, 455n,
574, 585n, 597. 458n, 465n, 469, 475n, 488n-9n,
Enarco [forse deformazione di ‘MARA- 490, 492n, 495n, 497, 503, 505,
CO’]: 465. 518n, 535n, 540n, 548, 553n, 555,
Enea [protag. del poema virgiliano]: 569-70, 578-9, 582, 587, 593-4n,
225, 233, 420n. 597n-8n, 600n, 603 e n, 606n-7,
724 LA CITTÀ DEL SOLE

610 e n, 611, 616, 618n-9, 625, 628- 339): 184, 256, 260, 262, 273, 325,
30, 633, 638, 641-51n (passim), 655, 338, 396n, 403, 507, 559, 650.
657n, 659, 661-2n, 665, 676 e n, EUSTACHI, Bartolomeo [o Eustachio;
677n, 690n-1, 698, 699 e n, 702n, anatomista] (?1500-74): 607.
5n, 12n, 15n. Eustatio: [uno degli interlocutori dei
ERODOTO (484-428): 191, 247, 251n, Saturn. di MACROBIO]: 459n.
259-60, 390n, 409, 431, 441, 448, EUTIMO di Locri [pugile greco, vinci-
546n. tore per tre volte a Olimpia dal 484
ESAÙ [figlio di Isacco e Rebecca, ca- al 474, ricevette un culto eroico]:
postipite degli Edomiti]: 631. 512n.
Esculapio [nome lat. del dio greco del- Eva [mitica progenitrice]: 313, 337,
la medicina Asclepio]: 479. 578n, 681n.
ESDRA o Ezra [profeta del V s. a.Cr.]: EVAGRIO <evagrian-> Pontico [scritt.
612, 680. greco crist. che influenzò la spiri-
ESIODO (VII s. a.Cr.): 71, 433-4, 551, tualità monastica orient.] (?346-
599. 399): 485n.
ESTIENNE, Henri [parigino; figlio di EVEMERO (IV s. a.Cr.): 254-5.
Robert, filol. e umanista, è il più EVOLI, Cesare d’ [capitano, matem.,
celebre degli stampatori degli letterato, filos.] (1532-98): 193.
Estienne] (1528-98): 257. EZECHIELE [profeta ebreo del VI s.
a.Cr.]: 189, 194, 203, 231, 426, 509,
ESZER, Ambrosius: 645n.
655.
Etalide [figlio di Ermes, dotato dal pa-
dre di straordinaria memoria]:
FABIO MASSIMO, Quinto [generale ro-
413.
mano detto il ‘Temporeggiatore’]
EUCLIDE (III s. a.Cr.): 236.
(?275-203): 374.
EUDES DE L’ETOILE [Eudo o Oddone FABRI DE PEIRESC, Nicholas-Claude
De Stella, nobile bretone divenuto [erudito cosmopolita, umanista e
predicatore itinerante in rotta con filosofo, ospitò C. a Aix nel novem-
la Chiesa che lo arrestò nel 1148 e bre 1634] (1580-1637): 169.
in quello stesso anno morì]: 214. FABRIZI o FABRICI[US], Girolamo di Ac-
EUDOSSO di Cnido [matem. e astron. quapendente [chirurgo e docente
greco, che ipotizzò un cosmo a sfe- a Padova] (?1533-1619): 457.
re omocentriche] (?400-?347): FABRY, Nathalie: XXIn.
526, 562. FAILLA, Pietro Giacomo [o Favilla, for-
Euforbo [eroe troiano, ucciso da Me- se calabrese, allievo di C. nel 1612,
nelao; reincarnazione di ETALIDE, rimastogli amico fino agli anni pa-
secondo una tradizione pitagorica rigini]: 630n.
riferita da DIOGENE Laerzio]: 413. FALCONE, Giuseppe (XIX s.): 405n.
EUGENIO III [discepolo di S. BERNAR- FALCONER, William Armistead: 38n.
DO, papa dal 1145 al 1153]: 292. FALLISI, Joe: 599, 670n.
EURILOCO [allievo del filos. Pirrone; FALLOPPIO, Gabriele [chirurgo e ana-
di un suo improvviso accesso d’ira tomista] (1523-42): 607.
accenna DIOGENE Laerzio (IX, 68)] FANTI, Sigismondo [poeta, filos., ma-
(IV-III s. a.Cr.): 466. tem., menzionato nel 1526]: 229n.
EUSEBIO vescovo di Cesarea (265- Faracovi = v. POMPEO F.
NOMI DI PERSONA PRESENTI NEGLI APPARATI 725

FARANDA VILLA, Giovanna: 59n. poi fattosi domenicano; senese]


FARNESE, Odoardo [creato cardinale (1518-95): 328, 333, 599, 64n.
da Gregorio XIV nel 1591] (1573- FILARETE [Averlino Antonio, detto il
1626): 219-20, 540. F.] (?1400-?1469): 164, 191, 194,
FATTORI, Marta: 369n. 208, 215, 253-4, 262, 271, 292, 327,
FAUQUIER, Frédéric: 62n. 331, 333n, 337, 421, 441.
FAVARO, Antonio: 557n. FILIPPO II [re di Spagna] (1527-98):
Favilla = v. FAILLA 164.
FAVINO, Federica: 699n. FILIPPO III [re di Spagna] (1578-
Febo = v. Apollo 1621): XXI, 630n, 701.
FEDERICI VESCOVINI, Graziella: 68n. FILOLAO (V s. a.Cr.): 115, 119, 300,
FEDERICO II Hohestaufen [imperatore 527n, 534n, 541, 542 e n, 561, 45n.
dal 1220] (1194-1250): 401n. FILONE di Alessandria detto Ebreo
FELICI, Giovanni Sante (XIX s.): 407n. [cit. in Gramm. III I, I, p. 678] (10
FEMIANO, Salvatore: 187. a.Cr.-50 d.Cr.): 59, 202-3n, 516,
FEO, Michele: 556. 625, 650, 656.
FERABOLI, Simonetta: 346, 442n. FILOSTRATO [sofista greco del II s.]:
FERDINANDO d’Aragona detto il Catto- 247, 409-10.
lico (1452-1516): 153, 414. FINLEY, Moses I.: 165n.
FERDINANDO I de’ Medici (1549-1609, FINOTTO, Francesco: 182, 184, 325,
Granduca dal 1587): 553. 441.
FERDINANDO II de’ Medici (1610-70, FINTONI, Monica: 290-1n.
Granduca dal 1621): 553. FIORATO, Adelin Charles: 443 e n.
FERNEL, Jean (?1497-1558): 342n, 455. FIORAVANTI, Leonardo (1518-68): 254,
Ferrariensis = v. DE SILVESTRIS 380n, 703.
Ferrer = v. VINCENZO F. FIORE, Tommaso: 56n.
FESTO, Sesto Pompeo [cit. in Titoli, p. FIRMICO MATERNO, Giulio [retore lati-
289] (II s.): 163. no del IV s.]: 598n.
Fetonte [figlio del Sole, fulminato da FIRPO, Luigi: XIn, XII, XIV, XXV e n,
Giove]: 545. XXVI, XXIX, XLI e n, XLVIn, XL-
FICINO <ficinian->, Marsilio [“canoni- VIIn, 7, 15, 41, 57, 61, 73, 87, 115,
co fiorentino, grande teologo e fi- 155, 161, 164-5n, 167, 170n, 172-4,
losofo” (Apol. ad lib., p. 317)] 177 e n, 185n, 187-8, 193n, 196,
(1433-99): 164, 209n, 253, 258-9, 206, 209n-12n, 216n, 219, 221n,
261, 290, 301, 303, 327, 340n-1n, 260, 263n, 267, 271, 276n, 302,
364, 368, 369 e n, 370, 408n, 410, 306, 328, 337 e n, 371, 385, 388-90,
433, 440, 442, 445 e n, 447, 449-53, 398n, 400n, 403-4, 408n, 411n-2n,
462n, 463-4, 466, 468-9n, 472, 474, 414, 417, 419, 429, 437-8, 443,
481-2, 483 e n, 484n, 490, 503n, 465n-6n, 469, 473, 475, 485-6,
511, 517n, 525n, 541, 551, 556-7 e 488n, 495n, 501n, 508, 514, 519n,
n, 558, 564-6, 574, 576-8, 580, 588, 532n, 534, 539 e n, 540-1, 542n,
590n, 597, 609, 621, 629, 646 e n, 544, 547, 556, 561, 564n, 577, 579,
648, 655-6, 659, 671, 673, 48n, 49n, 582, 602, 605, 607, 614, 616, 618,
62n, 64n, 71n. 630n, 636, 641n, 642-3, 647n, 648,
FIGLIUCCI, Felice [Alessio da secolare, 657n, 659n, 660, 666, 668, 670-1,
726 LA CITTÀ DEL SOLE

698-9n, 703, 9 n, 12 n, 33 n, 35-7 n, 40 FREEDBERG, David: 341n.


n
, 42 n, 46 n, 69n. FROBEN <frobenian->, Johann [o Fro-
FLAMIGNI, Adriana: 172, 294, 329, benius, stampatore e libraio a Basi-
338n, 648n. lea] (1460-1527): 239.
Flavio = v. GIUSEPPE F. FRONTINO, Sesto Giulio [politico e
FLEURY, Philippe: 72n. scrittore romano] (30-?103): 307n.
FLUDD, Robert (1574-1637): 229n. FROSCHOVERUS, Christophorus [Chri-
FONTANA, Francesco [matem., stoph Froschauer, editore e amico
astron.] (1575-1656): 620. di GESNER] (?1490-1564): 249.
FORCELLINI, Egidio (1688-1768): FULCO, Giorgio: 269, 405.
XLVn-VIn, 99, 217, 307, 625. FUMAGALLI BEONIO BROCCHIERI, Maria
FORMICHETTI, Gianfranco: XVII, Teresa: 668n.
170n, 193n, 207, 242, 271, 337n, FUSTEL DE COULANGES, Numa-Denis
369, 390, 400n-1n, 423, 457, 472n, [storico francese] (1830-89): 441.
540, 553, 630n, 642n, 644, 647 e n,
690n. Gabriele [arcangelo]: 254, 262, 465.
Foroneo [mitico progenitore degli Ar- GAETA, Giacomo di [o Jacopo da; giu-
givi]: 253-5, 261-2. reconsulto e filos. telesiano, acca-
FOUCAULT, Michel: 369n. demico cosentino e poeta del XVI
FOURIER <fourierist->, Charles [socia- s.]: 63, 402-3, 405, 669n.
lista utopista franc.] (1768-1830): Gaetano (il) = DE VIO
XI. GAFFAREL, Jacques [dotto sacerdote
FOURNEL, Jean-Louis: 322n, 334, provenzale, astrol. ed ebraista, bi-
338n-9n, 368, 402, 699n. bliotecario di RICHELIEU; incontrò
FOZIO [erudito bizantino, patriarca di C. a Roma nel 1628, e curò la stam-
Costantinopoli, autore della Biblio- pa dei suoi Medicinalium a Lione]
teca] (?820-?891): 410, 448n. (1601-81): 588n.
FRACASTORO, Girolamo [letterato, me- GAGLIARDO, Felice [C. l’incontra la
dico e scienziato veronese] (?1478- prima volta nel carcere di Monaste-
1553): 461, 651. race, partecipa alla rivolta del ’99 e
FRAJESE, Vittorio: XXIIIn, 187n, 210n, a Castel Nuovo (1603-4) si dedica
255, 263, 495n, 503n, 554n, 599n, con lui a pratiche di magia che co-
610, 702n. steranno la vita a un ragazzo]
FRANCESCO d’Assisi [San] (1182- (1577-1606): 305, 382n, 396, 511,
1226): 231n, 556, 669. 514-5, 602, 642n, 689.
FRANCESCO di Paola [San] (1416- GALASSO, Alfredo: 388.
1507): 669. GALE, THOMAS (?1635-1702): 541.
FRANCESCO I de’ Medici (1541-87): GALENO <galenic-, pseudo-G.>, Clau-
153. dio (129-201): 151, 201n, 207, 218,
FRANCESCO I di Valois (1494-1547): 293-5, 321, 339, 341 e n, 344, 369,
193. 403, 407 e n, 444, 448n-9, 451, 454,
Francesco Maria di Ferrara = v. DE 456-8n, 460, 462, 465, 467-9n, 471-
SILVESTRIS 2, 476, 479, 484, 541, 545, 551,
FRANCESCO Saverio <saverian-> [San] 576n, 609, 637, 651, 655, 664.
(1506-52): 494, 497-8. GALEOTTO MARZIO da Narni [guerrie-
FRANCO, Niccolò (1515-70): 661. ro, letterato, medico, filos., dedica
NOMI DI PERSONA PRESENTI NEGLI APPARATI 727

a LORENZO de’ Medici il De doctrina GEMMA, Cornelius Frisio [Gemma


promiscua (1489)] (1427-90): 344. Reiner, figlio del famoso matem. e
GALFRIDUS [o Gaufredus Allievani, cosmogr. Gemma Frisio; medico,
carmelitano, dottore in teologia noto per l’Arte cyclognomica (Anver-
oxoniense attivo intorno al 1340]: sa, 1569) e il De naturae divinis cha-
509n. racterismis (1575), cit. in Art. proph.,
GALILEI <galileian->, Galileo (1564- p. 75] (1508-55): 230n, 656, 683.
1642): XIII, 119, 166-7n, 194, 219, GENGIS KHAN (1155-1227): 254-5,
237, 266, 295, 304-5n, 306 e n, 332, 260n, 270, 693n.
360, 432n, 518, 519n-20n, 527n, GENTILE, Deodato [domenicano ge-
532 e n, 533-6, 538 e n, 540-2, 543 e novese, vescovo di Caserta, Nunzio
n, 551, 557n, 561, 563, 565, 569, Apostolico a Napoli nel 1604-16]
570 e n, 571, 576, 580, 582-3, 585n, (1560-1616): 702.
602, 608, 612, 620 e n, 661, 673, GENTILI, Domenico: 654.
697, 703. GEREMIA [secondo dei maggiori pro-
GAMA, Vasco de (1469-1524): 85, 169, feti veterotestamentari] (VII-VI s.
374, 410. a.Cr.): 535n, 665, 669n.
GAMBIN, Marie-Thérèse: 177n. Gerolamo, Geronimo = v. GIROLAMO
Gargantua [protagonista dell’omoni- GESNER, Konrad [cit. in Syntagma IV
mo romanzo di RABELAIS]: 332. V] (1516-65): 242 e n, 244-5n, 246-
GARIN, Eugenio: 115, 225n, 293, 297, 7, 248n-9, 251.
305 e n, 344, 346, 350, 353n, 510n, GESÙ CRISTO [in tutte le sue appella-
531, 566, 574, 600, 602 e n, 641, zioni: Figlio, Messia, Salvatore, Ver-
664-5. bo]: XIV, XVI e n, XXII, XLII, 3, 7,
GARZONI, Tommaso (1549-89): 99, 59, 109, 113, 117, 131, 135, 139,
174n-5, 216n, 218, 226, 237-8, 425, 164, 179, 185-6, 187 e n, 197, 206,
443, 637, 672. 210, 221, 223n, 235, 253-6, 259,
GASSENDI, Pierre (1592-1655): 606. 262-3n, 270, 276n, 297, 309-10,
GASTALDO, Iacopo [o Giacomo Gastal- 313, 328, 331, 344n, 361, 383, 392-
di, cartogr. piemontese, cosmo- 3, 396, 398n-401n (passim), 411-3n,
grafo della Repubblica di Venezia] 416, 431-2, 437, 443, 466, 473, 479,
(?1500-66): 238, 468. 485-502 e n (pass.), 507-9, 514-5,
Gatholonabes = v. OATALONABOS 522, 534-8 (pass.), 543-7, 554, 558n,
GAZA, Teodoro di [umanista bizanti- 560, 570, 579, 589, 590 e n, 594-604
no chiamato in Italia dal card. Bes- (pass.), 608-17 (pass.), 641, 642 e n,
sarione] (1398-1475): 242n, 466n, 654, 664, 666, 668-9, 673, 677, 679-
30n. 85 (pass.), 688 e n, 691, 694-700n
GELASIO I [San] (papa dal 492-6): 23. (pass.).
GELLIO Aulo (?130-175): 59, 67, 95, Ghibaudi = v. ROTA G.
274, 294, 335, 421, 435, 462, 469n, GIACOBBE [terzo dei patriarchi ebrei,
651n, 655. figlio di Isacco e Rebecca]: 434-5,
GEMISTO PLETONE, Giorgio [umanista 631, 680n.
bizantino; venuto per il concilio di Giacomo di Gaeta = v. GAETA
Ferrara, fece conoscere alla cer- GIAMBLICO (280-330): 219, 256, 260 e
chia medicea il pensiero di PLATO- n, 261, 268, 274, 278, 290, 292n,
NE] (?1355-1450): 413, 440, 537n. 298, 300, 312, 327, 333, 338, 340,
728 LA CITTÀ DEL SOLE

377, 383-4, 413, 415, 439, 445 e n, 498n, 507, 533, 538, 547, 553, 560,
449, 453, 462, 473, 478, 481-3n, 563, 573 e n, 582 e n, 585n, 598,
507, 513 e n, 516, 545, 556-7, 577, 600, 604, 608-9, 614, 628, 652, 655,
597, 608, 621, 637, 649, 48n, 50n. 678-9.
Giambulo = v. IAMBULO GIOVANNI DAMASCENO [Santo, padre
GIANCOTTI, Francesco: 87, 188, 239n, della Chiesa in lingua gr.] (675-
258n, 263n, 357, 412n, 539n, 558n, ?750): 103, 143, 207, 222n, 229,
608n, 614n, 633n, 671n. 274, 300, 328, 396, 409, 413, 431n,
GIANNANTONI, Pompeo: 29n. 449n, 483n-4n, 512, 537n, 545,
GIGLI, G. (XVII s.): 647n. 549n, 559-60, 564n, 566, 590 e n,
GIGLIONI, Guido: 341n, 343 e n. 592, 614, 631, 652.
GIL, Juan: 174n, 179n. GIOVANNI DI ALTASELVA [Jean de Haut-
GILLES, Pierre [naturalista francese] seille, monaco cistercense lorene-
(1490-1555): 161, 239, 271, 291n, se, che nel 1184-5 traduce il Dolo-
398n, 411, 437. pathos]: 233.
GILSON, Etienne: 300n. GIOVANNI DI DIO [João Ciudad Duar-
GINZBURG, Carlo: 578 e n. te; sac. portoghese, fondatore degli
GIOACCHINO <gioachimit-> da Fiore Ospedalieri; Santo] (1495-1550):
[cit. spesso da C. per i suoi scritti 167-8.
profetici] (1130-1201): XXIIn, GIOVANNI EVANGELISTA [San]: 186,
329, 415, 556, 590, 600n, 602, 615, 309n, 329n, 376, 382, 396, 614.
679-80. GIOVANNI GARBELLA da Vercelli [do-
GIOBBE [patriarca veterotestamenta- menicano, Maestro dell’O.P.] (ini-
rio, o forse solo mitico prototipo di zi XIII s.-1283): 627.
uomo giusto]: 256, 575. GIOVANNI LIDIO [Joannis Laurenti Ly-
GIOIA, Flavio [leggendario amalfitano di, bizantino del VI s., autore del
del XIII-XIV s. inventore della bus- Liber de Ostensis]: 301.
sola]: 665. GIOVANNI XXIII [Angelo Roncalli, pa-
GIOSUÈ [condottiero ebreo del XIII s. pa]: 400.
a.Cr.]: 149. GIOVANNINI, Girolamo [Gioannini da
GIOVANNA I e II d’Angiò (1326-82, re- Capugnano, domenicano] (?-
gina dal 1343; 1371-1435, regina di 1604): 641.
Napoli dal 1414): 661. Giove [suprema divinità dell’Olimpo
GIOVANNI [abate, beato; d’incerta pagano]: 131, 212, 241, 253-4, 255
identificaz.: incluso nella raccolta e n, 257-9, 409, 443, 489, 491, 514,
di pronostici sui Pontefici del GIO- 545, 551n, 598 e n, 599, 614.
VANNINI (De Summ. Pontificibus, a GIOVENALE, Decimo Giunio (?50-
Martino Quinto usque ad Antichri- ?140): 516.
stum, cc. 19r-24r)]: 641-2, 680. GIOVIO, Paolo (1483-1552): 249, 667,
GIOVANNI <giovanne-> BATTISTA [San] 31n, 51n.
(?7 a.Cr.-30 d.Cr.): 669, 680n. GIQATILLA Yosef ben Avraham [uno
GIOVANNI CRISOSTOMO [padre della dei protagon. della qabbalah spa-
Chiesa in lingua gr.; Santo] (?345- gnola; vissuto a Segovia, si occupò
407): 111, 185 e n, 260, 274, 286, del simbolismo dei nomi di Dio e
309 e n, 335, 337, 374, 379-80n, delle sephirot] (1246-?1325): 363.
397, 417n, 432, 449n, 466, 480, GIROLAMO [San] (?347-420): 123, 259,
NOMI DI PERSONA PRESENTI NEGLI APPARATI 729

408-9, 434, 444, 516, 547, 550n, GREGORIO NISSENO [Santo; padre del-
567-8, 574-5, 581, 608n-9, 655. la Chiesa di lingua gr.] (?335-95):
GIROLAMO da Praga [riformatore, dif- 407n, 452.
fusore delle tesi di WYCLIFF in Boe- GREGORIO XIII <gregorian-> (Ugo
mia, arso sul rogo insieme ad HUS] Boncompagni, papa nel 1572-
(?1365-1416): 668. 1585): 468n, 470, 538 e n, 682n,
GIUDA [progenitore del regno ebrai- 687.
co] (VI s. a.Cr.): 193. GREGORY, Tullio: 564n, 632n.
<giulian-> = v. CESARE GRIFFERO, Tonino: 341-2n, 363.
GIULIANO, Flavio Claudio, detto l’A- GRILLANDO, Paolo [giurista abruzzese,
postata [imperatore, nipote di Co- giudice a Roma, attivo nella prima
stantino] (331-63): 263, 443. metà del XVI s., cit. in Apol. ad lib.,
GIULIO II [Giuliano della Rovere, pa- p. 317]: 297n.
pa nel 1503-13]: 513n. GRILLO, Francesco: 647.
GIUSEPPE FLAVIO (?37-103): 203n, 470, GROS, Pierre: 72n.
482, 516, 567, 656. GROZIO, Ugo [Huig van Groot, uma-
GIUSTINO [Santo; scrittore greco, mar- nista e giurista olandese] (1583-
tire] (?100-165): 202, 259-60, 395, 1645): 539.
503, 546n, 573, 660. GUAINERIO, Antonio [medico e farma-
GOELZER, Henri: 149. cologo, poi docente a Pavia dove
Gog [bestia dell’Apocalisse]: 668.
morì intorno al 1440]: 466.
Golia [gigante filisteo sconfitto dal pa-
GUALTERUZZI <gualteruzzian->, Carlo
store Davide]: 427.
[letterato di Fano, esecutore testa-
GONZALES de Silveyra (XVI s.): 151.
mentario del BEMBO] (1500-77):
GORETTI, Paola: 53.
236.
Gorostiola = v. MARTOS DE G.
GOTHEIN, Eberhard: 678. Gualtieri = v. ACCIETTO G.
GUANZELLI, Giovanni Maria [da Brisi-
GRAN MOGOL [o Mogor: Zahir al-Din ghella, predicatore domenicano,
Muhammad, della dinastia Mo- vescovo di Polignano, mise all’Indi-
ghul discendente di TAMERLANO, ce i libri di BRUNO e C. (1603)]
regnante in India dal 1526]: 270, (?1557-1619): 657.
664. GUERRINI, Luigi: XIn, 239, 616, 647,
GRANGER, Frank: 72n. 4n.
GRASSI, Liliana: 325. GUEVARA, Antonio de (1480-1544):
GRAVES, Robert: 71, 660. 254, 262, 288, 371, 382, 437.
GRAZIANO [monaco camaldolese, Guglielmo di Conches = v. THIERRY DE
maestro a Bologna, autore del Con- CHARTRES
cordia discordantium canonum (o De- GUIDONI MARINO, Angela: 332.
cretum Gratiani) del 1140] (XII s.): GUIDORIZZI, Giulio: 262n.
58, 230, 394, 492, 608. GUNDEL, Wilhelm: 52n.
GREGORIO I Magno [Santo; papa] GUSTAVO II [G. Adolfo di Svezia]
(?540-604): 230, 514, 655. (1594-1632): 145, 170, 640, 699.
GREGORIO NAZIANZENO [Santo; padre GUZZO, Augusto: XXIIn.
della Chiesa di lingua gr.] (329-
90): 512. HAACK, Theodore [rectius HAAK, letter.
730 LA CITTÀ DEL SOLE

inglese di origine tedesca] (1605- IBN KHALDUN [massimo storico arabo]


90): 620. (1332-1406): 602.
HAGENGRUBER, Ruth: 306n, 544. Icaro [mitico figlio di DEDALO, invola-
HALL, Joseph [prelato e scrittore in- tosi da Creta e precipitato in ma-
glese] (1574-1676): XI, XII. re]: 619.
Hannibal = V. ANNIBALE IDASPE o ISTASPE [sovrano dei Persiani,
HEADLEY, John M.: XIn. padre di Dario I; cit. anche in Disp.
HELDEN, Albert van: 583n. in Bullas, p. 240, dove C. rinvia alla
HÉLINAND de Froidmont [monaco ci- fonte: Lattanzio, Div. Inst. VII,15]
stercense] (?1160-dopo 1229): 656. (522-485): 547, 679.
HENSE, Otto: 312. Ieremia = v. GEREMIA
Hermes = v. Ermes IGINO, Caio Giulio [cit. in Syntagma II
HEURNE, Ottone van (1577-1652): 410 II] (fine I s. a.Cr.): 262 e n.
e n. IGNAZIO di Loyola [Santo, fondatore
Hieronymus = v. GIROLAMO dei Gesuiti] (1491-1556): 666, 676,
Hilarius = v. ILARIO 678.
Hippocrates = v. IPPOCRATE ILARIO di Poitiers [Santo, scritt. latino
HOFF van ‘T, Bert: 55n. cristiano] (?315-67): 654.
Hondius = v. IODOCUS H. IMPERATO, Ferrante [collezionista di
Host = v. ROMBERCH ‘naturalia’ e ‘mirabilia’, creatore a
HUARTE, Juan de San Juan [scritt. spa- Napoli di un museo di storia natu-
gn. del XVI s., il suo Examen è del rale, almeno da com’è ritratto nel
1575]: 402. frontespizio della sua opera il sof-
HÜBNER, Wolfgang: 52n. fitto tappezzato di animali, in spe-
HUET, Pierre-Daniel [erudito france- cie marini; C. lo reputa uno dei
se, amico di NAUDÉ ; gesuita, ve- massimi scienziati naturalisti (Syn-
scovo, prima sostenitore e poi av- tagma II II)] (?1550-1631): 15, 208,
versario di Cartesio] (1630-1721): 232, 240, 242, 245n, 331, 522, 576.
186n. Inaco [mitico dio-fiume dell’Argolide,
HUS, Jan (1369-1415): 61, 398n, 668, figlio di Oceano e Teti, padre di
677. FORONEO]: 19, 261.
HUXLEY, Aldous Leonard (1894- INGOLI, Francesco [ravennate, sacer-
1963): 453. dote, giurista, segret. di Propagan-
Hydaspes = v. IDASPE da Fide, sostenitore della pubbli-
caz. delle opere di C.] (1578-
IAMBULO [un siriaco che nel 120-100 1649): 239.
a.Cr. avrebbe raggiunto un’isola Iob = v. GIOBBE
prossima a Ceylon e avrebbe “scrit- IODOCUS HONDIUS [de Jode G., colla-
to molte meraviglie che si trovano boratore e continuatore dell’opera
nel gran mare, benché finse bugie di MERCATORE] (1563-1612): 174.
da tutti riconosciute” (Luciano, IONE di Chio [poligrafo gr., autore di
Storia vera, I)]: 165, 177, 179n, 181, un poema sulla fondaz della sua
447, 449, 453, 556. città] (?490-422): 301.
IBN EZRA, Abraham [filos., poeta e IPPARCO di Nicea (161-126): 115, 119,
scienz. ebreo spagnolo] (1055- 537, 541, 619, 671n, 679 e n, 681-
1140): 600. 2n, 683-4.
NOMI DI PERSONA PRESENTI NEGLI APPARATI 731

IPPOCRATE <ippocratic-> (?460-?370): Johannes episcopus = v. GIOVANNI


184, 363, 365n, 368, 378, 454, 461- (abate)
2, 560, 574, 651, 655. Johannes Vercellensis = v. GIOVANNI
Ippogrifo [cavallo alato, nell’Orlando DA VERCELLI
Furioso]: 177. Johannes Viterbensis = v. NANNI
ISAAC Judeus [o Ysaac, o Ishak al-Israi-
li; il suo De dietis universalibus fu tra- KEPLERO (Kepler), Johannes (1571-
dotto in latino da Costantino l’Afri- 1630): 131, 535n, 542, 569.
cano] (?-995): 450, 453, 548. KERN, Hermann: 192, 198.
Isabella [person. dell’Orlando Furioso]: KIMBLE, George H. T.: 181n.
71. KIRCHER, Athanasius (1602-80): 125.
ISABELLA di Castiglia (1451-1504): KLEIN, Robert: 193, 478.
153, 420, 661. KLIBANSKY, Raymond: 462, 464n.
ISAIA [primo profeta ebreo] (VIII-VII KNEALE, William Calvert e Martha:
s. a.Cr.): 340, 448, 514, 616, 630 e 229n.
n, 655. KOESTLER, Arthur: 519 e n, 531n,
Iside [divinità egizia]: 255n-6, 262. 618n-9n.
ISIDORO di Siviglia [Santo] (560-636): Komenskj = v. COMENIO
XLV, 99, 163-5n, 182, 198-9, 201, Kremer = v. MERCATORE
207-8, 213-4, 216, 247, 249, 253, KRISTELLER, Oskar: XXVn.
255n, 258 e n, 259, 262, 288n, 326, KRUFT, Hanno-Walter: 186, 325, 419.
417, 422, 425-6n, 434, 453, 492,
512, 564, 574, 655. LACOUTURE, Jean: 271, 404n, 498.
ISMAIL ES-SUFI I [discendente dello LAMPRIDIO, Elio [Aelius Lampridius,
shaik Safì ad-Din, noto in Occid. uno degli Au. della Historia Augu-
come il Sofi o Sophi, è il fondatore sta] (IV s.?): 608n.
della dinastia dei Safawidi; nel LANCIONI, Tarcisio: 178.
1502 assunse il titolo di Sciah di Landi o Lando = v. ORTENSIO L.
Persia] (1487-1524): 155, 309, 664, LAS CASAS, Bartolomé de [mission.
666, 667 e n. domenicano spagnolo, cit. in Doc.
ISNARDI PARENTE, Maria: 322n, 56n. Gall., p. 95] (1474-1566): 314, 324
ISOCRATE [oratore ateniese] (436- e n, 428, 613.
338): 608n. LATTANZIO Firmiano, Lucio Cecilio
(III-IV s.): 171, 247, 254, 257-8n,
JACQUES de Vitry [cardin. di Acri, cro- 410, 413, 415, 424, 445-6, 496, 547,
nista delle Crociate] (?1165-1240): 574, 576, 629.
660. LAURENZA, Domenico: 607n.
JANNI, Ettore: 367, 369n, 454, 703. LE GOFF, Jacques: 581n.
JAUSS, Hans Robert: 266n. LE MOLLÉ, Roland: 193 e n, 197.
JAVELLI, Giovanni Crisostomo [teolo- LE TESTU, Guillaume [esploratore e
go domenicano, inquisitore] cartografo francese, nonché pirata
(?1470-?1538): 23. con Fr. Drake, autore di una Cosmo-
JEAN, Georges: 619. graphie universelle selon les naviga-
Jehan de Bourgogne = v. MANDEVILLE teurs tant anciens que modernes
Jode (de) = v. IODOCUS (1556-7)] (?1509-72): 271n.
JODOGNE, Pierre: XLIn, 504n. LEED, Eric J.: 271, 411, 415, 678.
732 LA CITTÀ DEL SOLE

LEIBNIZ, Gottfried Wilhelm (1646- LORENZO de’ Medici (1492-1519):


1716): 214, 229n. 175.
LEONARDO <leonardesc-> da Vinci LORINI, Buonaiuto (?1540-?1611):
(1452-1519): 446n, 506, 556, 575n, 193.
607, 703. LOUIS, Pierre: 268, 466, 30n.
LEONE Ebreo [Jehudah Abravanel, LUCA [evangelista, Santo]: 609.
medico, filos., poeta ebreo porto- Lucano Ocello = v. OCELLO L.
ghese] (?1463-1523): 331, 599, LUCANO, Marco Anneo (39-65): 257,
662, 667. 540, 671n, 679.
LEONE I Magno [Santo; papa dal 440 LUCIANO <luciane-> di Samosata
al 461; nel 459 scrisse ai vescovi del- (?120-?): XIV, 79, 178, 596, 619.
la Campania per ribadire “l’uso LUCREZIO <lucrezian-> Caro, Tito
della confessione segreta”]: 505. (?99-?55): 582, 671.
LEONE XI [Alessandro de’ Medici, pa- LUGLI, Adalgisa: 15, 219, 232.
pa per alcuni giorni nel 1605]: 641- LUIGI II [re d’Ungheria] (1506-26):
2n. 153.
LEONE, Nino: 35, 53, 99, 111, 167, LUIGI XIII (1601-43): 617, 619n.
169, 388n, 469, 507. LUIGI XIV, il Re Sole, Delfino di Fran-
LEOWICZ (o Leowitz), Cipriano [ma- cia (1638-1715): 197, 389, 618,
tem. boemo e astrol. del conte Pa- 633n, 641, 700-1.
latino] (1524-74): 518n, 602, 690. LULLO <lullian->, Raimondo [Lull,
LERNER, Michel-Pierre: XVIn, XLIII, Ramon] (?1232-1315): 226 e n,
172, 180n-1n, 182, 186n-7, 193n, 227-8, 229 e n, 301, 483 e n.
262n-3, 267n, 306n, 337n, 427n, LUPI, Filiberto Walter: 17n.
448n, 460n, 519-20n, 522n, 524n, LUPICINI, Antonio [architetto militare
530, 535n, 540n, 542-3, 553n-4n, del XVI s.]: 307.
578n, 583n, 607n, 618n-9n, 620, LUPSET, Thomas [londinese, erudito,
633n, 657, 682n, 699n, 701, 3n. curò a Parigi la seconda ed. dell’U-
LESTRINGANT, François: 176. topia] (?1496-1530): 275.
LEVIN, Harry: 599. LUTERO <luteran->, Martin (1483-
LEWIS, Arthur O.: XVn. 1546): XXIIn, 159, 401, 504, 624,
Liber Hermetis [v. 52n]: 344, 351, 361-2, 641, 661, 664, 666-7n, 668, 669 e n,
440. 676, 677 e n, 680, 689-90.
LICURGO [C. rinvia alla sua legislaz.
come riportata da PLUTARCO] (IX s. MACHIAVELLI <machiavell->, Niccolò
a.Cr.): 252-5, 259-61, 268, 389, 401, (1469-1527): XV, 61, 77, 187, 190n,
430, 475n, 481. 195-6n, 259, 263-4, 288-90, 400-1,
Lidio = v. GIOVANNI L. 402 e n, 404-5, 417-22, 424-6, 429,
LIPSIO, Giusto [Joost Lips, filol. fiam- 443, 492, 501, 503n-4, 517, 536,
mingo, editore di class. latini] 553, 554 e n, 595, 600n, 605-6n,
(1547-1606): 303. 638, 664-5, 667, 677 e n, 697.
LIVIO, Tito (59 a.Cr.-17 d.Cr.): 67, MACROBIO Ambrogio Teodosio (IV-V
260n-1, 264n, 292, 439n. s.): 201-2, 211, 213, 252, 256-7, 370,
LOMAZZO, Giovanni Paolo [trattatista 384n, 423, 435, 448-9, 459 e n,
d’arte milanese] (1538-1600): 267. 469n, 506, 521n, 525n-6, 528n,
Lombardo = v. PIER L. 531, 557n-8, 569, 599, 621, 655.
NOMI DI PERSONA PRESENTI NEGLI APPARATI 733

Madanjeet = v. SINGH poema didascalico] (I s. a.Cr.-I s.


Madonna = v. MARIA VERGINE d.Cr.): 440, 662, 671n.
MAFFEI, Giovanni Pietro [storico, ge- MANNI, Domenico Maria (1690-
suita, professore al Collegio Roma- 1788): 168.
no] (1536-1603): 111, 163, 168, MANUZIO, Aldo (1450-1515): 49n.
174n, 176, 179, 182, 188, 194, 255, MAOMETTO (571-632): XXII, XLIVn,
265, 271, 288, 325, 330, 384-5, 404- 187, 253-6, 259, 262 e n, 270, 369,
5, 408n-10, 415, 419, 421, 423, 401n, 465, 490, 492, 569-70, 604,
432n-3, 438, 468, 470, 511, 538n, 624, 662, 664, 666, 668-9, 688.
559-60, 659, 664, 667, 678. MAOMETTO II [detto il Conquistatore,
MAGELLANO [MAGALHÃES], Ferdinan- espugnò Costantinopoli e ne fece
do (1480-1521): 137, 177n. la capitale dell’impero ottomano]
MAGINI, Giovanni Antonio (1555- (1430-81): 291n.
1617) [docente di matematica a MARACO [poeta siracusano del IV s.
Bologna; C. gli spedisce i perduti “altrimenti ignoto” (J. Pigeaud,
Prognosticum astrologicum nel 1604 L’homme de génie et la mélanconie, p.
(Giancotti, p. LXV) e l’Astronomia 21)]: 95, 465-6.
(Lettere)]: 5, 163-4, 168, 174n-5, MARAVALL, José Antonio: 275, 314,
177, 182, 200, 216, 237-8, 264-5, 324, 398n, 428, 438.
270n, 372, 397n, 408, 410n, 432n, MARCIA [moglie di Catone] (I s.
a.Cr.): 59.
438, 446, 448, 476, 510, 540n, 602,
MARCO [San] (?-68): 59.
637, 659, 663, 667.
MARENGHI, Gerardo: 460n.
Magog [bestia dell’Apocalisse]: 668.
MARGHERITA d’Austria duchessa di
Maia [la maggiore delle Pleiadi, figlia
Parma e Piacenza (1522-86): 153.
di Atlante, amata da Giove, generò
MARGHERITA d’Austria duchessa di Sa-
Ermes]: 258 e n. voia (1480-1530): 153.
MAIMONIDE Mosè [filos. e medico MARGHERITA regina di Danimarca e
ebreo, che cercò di conciliare giu- Norvegia (1352-1412): 661.
daismo e aristotelismo] (1138- MARGOLIN, Jean-Claude: 460n.
1204): 623, 626. MARIA d’Asburgo (1505-58): 153.
MAINOLDI, Ernesto S. N.: 634n. MARIA Stuart [Maria Stuarda] (1542-
MALTESE, Enrico V.: 235. 87): 153, 661.
MALUS, Daniele: XXIX, XXX. MARIA VERGINE: 559.
MAMIANI, Maurizio: 548n. MARINELLI, Giovanni [medico e uma-
Mandani = probab. corruz. di Danda- nista modenese del XVI s.]: 380n.
mi: v. Didimo MARINI, Giovan Battista [o Marino, o
MANDEVILLE, John [o Mandavilla, ma De Marinis; domenicano, segreta-
in realtà Jehan de Bourgogne, me- rio dell’Indice] (XVI-XVII s.):
dico, cit. in Quod rem. 4, p. 86] (?- 630n, 657 e n.
1372): 168, 171, 179n, 211, 232, MARINONE, Nino: 456.
239, 247, 265, 423, 444, 465 e n, Marone = v. VIRGILIO
468, 513n, 608, 660, 54n. MARRONE, Caterina: 239n.
MANFREDINI, Mario: 65n. MARTA [destinataria del De consolatione
MANGANI, Giorgio: 176n. senechiano]: 679.
MANILIO, Marco [autore latino di un MART(H)OS DE GOROSTIOLA, Alonso
734 LA CITTÀ DEL SOLE

[reggente della cancelleria a Napo- MENELAO [astronomo] (II s.): 679,


li, ispiratore della Monarchia di Spa- 682.
gna nel 1589]: 662. <menenioagrippian-> = v. AGRIPPA M.
Marte [dio della guerra]: 71, 258, 297. MENOCCHIO [soprann. di Scandella
MARTINETTI, Giuseppe Gaetano (XIX Domenico, mugnaio friulano, de-
s.): 410. nunciato al Sant’Uffizio nel 1583,
MARTINI, Francesco di Giorgio (1439- condannato e bruciato in occasio-
1502): 193. ne del Giubileo] (1532-1600): 578
MARX <marxian->, Karl (1818-83): e n.
XIII. MERCATORE [Gerhard Kremer, men-
MARZIALE, Marco Valerio (?40-104): zionato in Syntagma IV VI] (1512-
XLVn. 94): 174, 176, 199 e n, 237, 659,
MARZIANO Capella (V s.): 87, 448n, 55n.
519. Mercurio [dio dei commerci]: 253-4,
Marzio = v. GALEOTTO M. 258, 491, 514.
MASAUIA [o Mesanga]: 468. Mercurio Trismegisto = v. Ermes
MASSIMILIANO I d’Asburgo (1459- MERSENNE, Marin (1588-1648): 218n,
1519): 153. 438, 620.
MASSIMILIANO Transilvano [segret. MESSAHALLACH [Messahala o Mâ-
dell’Imperatore d’Asburgo] (sec. shâ’Allâh, astrologo ebreo di Basra
XV-XVI): 176. del IX s.]: 510n, 600.
MATEOS, Agustin: XII. METELLO PIO, Quinto Cecilio [gen.
MATILDE di Canossa (1046-1115): 661. romano, seguace di Silla, combattè
MATTEI: 235-6. in Spagna contro il generale Mario
MATTEO DA BASCIO [francescano, la Sartorio] (?- 64 a.Cr.): 506.
cui riforma diede origine ai Cap- METONE [astron. greco, che deter-
puccini] (?1495-1552): 669. minò il ciclo astron. di 19 anni] (V
MATTIA CORVINO (1440-90, re d’Un- s. a.Cr.): 115, 682n.
gheria dal 1458): 640n. METRODORO di Lampsaco [“fra i molti
MATTON, Sylvain: 460n. di tal nome è probabile si alluda
Mazda = v. Ahura M. qui (Poesie, 5,5) a quello di Lam-
MAZZETTI, Antonio (1781-1841): XX- psaco (331-278), discepolo di Epi-
VIn. curo” (Firpo 1954)]: 582.
MAZZONI, Jacopo [nobile cesenate, Mida [mitico re della Frigia]: 501n.
letter. e prof. di filos.] (1548-98): MIEGGE, Giovanni: 548n.
185n. MIEGGE, Mario: 567.
MCCLUNG, William Alexander: 186. MIELE, Mario: 642n, 645n.
MELA, Pomponio [geografo romano MIGLIORI, Maurizio: 372n.
originario della Spagna] (I s.): 257. MILLER, Peter: 169n.
Melchiorre Cano = v. CANO Minerva [dea della sapienza]: 254,
MELCHISEDEC [re e sacerdote ebreo]: 261, 297, 303, 368 e n.
109, 210. MINIERI RICCIO, Camillo (1813-82):
Melia [ninfa dei frassini, madre di FO- 405n.
RONEO]: 19. Minosse [mitico re cretese, figlio di
MENANDRO (342-291): 190. Europa]: 253, 255-7, 258n-60.
Mendeville = v. MANDEVILLE Moghul = v. GRAN MOGOL
NOMI DI PERSONA PRESENTI NEGLI APPARATI 735

MOLINA, Luis de [teologo gesuita spa- 551, 567, 597, 666, 683, 688, 694,
gnolo] (1536-1600): 633 e n. 62n.
MOLLIA, Franco: 192, 196. Mosè Maimonide = v. MAIMONIDE
MOLZA, Camillo [conte di M., residen- Mostro (padre) = v. RICCARDI N.
te di Modena a Roma, letterato] (?- MOTTA, Uberto: 304n.
1631): 644. MUCCILLO, Maria: 622, 18n.
MOLZA, Francesco Maria [poeta mo- Muller = v. REGIOMONTANO
denese] (1489-1544): 661. MUNSTER, Sebastian [Sebastiano Mun-
MONET, Claude: 1n. stero, umanista ed erudito tedesco,
MONETI CODIGNOLA, Maria: 79. geografo] (1488-1552): 238, 468.
MÖNNICH, Michael W.: 369n. MURATORI, Ludovico Antonio (1672-
MONOMOTAPA [o Monopotapa, nome 1750): 308, 678.
di un sovrano africano del XVI s.]: MURESU, Gabriele: 492n.
151, 659 e n, 660, 51n. MUSEO [poeta greco del V s. autore
MONTAIGNE, Michel Eyquem de del poemetto Ero e Leandro]: 551.
(1533-92): 341n. MUSSO, Cornelio [predicatore, lette-
MONTI, Vincenzo (1754-1828): 405n. rato] (1511-74): 167.
MONTONERI, Luciano: 50n. MUSTACENO (ultimo sovrano mussul-
MORANDI, Orazio [abate di Santa mano persiano del XIV s.): 667.
Prassede] (?1570-1631): 644.
More = v. MORO NABOD, Valentin [prof. di matem. a
MORETTI, Gabriella: 615. Colonia, soggiornò a Padova; nel
MORINO, Alberto: 208. 1560 pubblicò l’Enarratio elemento-
MORLEY, Henry (XIX s.): XII. rum astrologiae, influenzato da Alca-
MORO <morean->, Tommaso [Tho- bizio e TOLOMEO] (1527-93): 566.
mas More; Santo] (1477-1535): NALLINO, Carlo Alfonso [studioso to-
XII, XIV, XV, XXIII, 23, 79, 89, rinese dell’Islam, tradutt. dall’ara-
133, 161, 169, 171 e n, 176-81, 184, bo in latino dell’Opus astronomicum
189, 194, 197, 207, 210n, 239, 264- di ALBATEGNIO] (1872-1938): 353n.
5, 269, 271, 275-6, 278, 291n-6 (pas- NANNI, Giovanni [ps. di Annius o
sim), 298, 303, 310, 313-4, 325-30 e Nannius, cit. da C. nei Processi (pp.
n, 333, 338, 363, 371-2, 376, 379, 130 e 200); domenicano, teologo e
381, 383, 385, 387, 389-91, 397n-8, orientalista viterbese, curò le Anti-
403-4, 411, 414-6, 419-20, 422, 426, quitatum variarum volumina XVII di
428, 430-1, 472, 481, 500n, 505-6, BEROSO, comprendenti frammenti
508, 513, 516, 538, 580n, 605, 631, e testi storici a suo dire antichissi-
56n. mi, ma in realtà frutto di abili falsi-
MORPURGO, Piero: 231n. ficazioni (ed. virtuale SNS, Pisa,
MOSÈ [marito della regina etiopica 2006)] (1432-1502): 615 e n, 32n.
CASSIOPEA]: 618. NAUDÉ <naudean->, Gabriel [erudito
MOSÈ <mosaic-> (XIII s. a.Cr.): 9, 103, e bibliofilo, bibliotecario del card.
113, 185, 202-3, 207, 210, 231n, F. BARBERINI nel 1631, quando fre-
237, 248, 250n, 253-255, 256 e n, quenta C. che gli detterà la perdu-
259, 260n-1, 263, 296, 308, 336, ta Vita Campanellae e il Syntagma]
369, 401 e n, 473, 474-5 e n, 480, (1600-53): XVn, 259, 268, 272, 404,
488, 491 e n, 492, 497, 514, 516, 570, 588n, 74n.
736 LA CITTÀ DEL SOLE

Nazianzeno = v. GREGORIO N. OATOLONABOS [o Gatholonabes, cioè


NEGRI, Luigi: 240. Veglio della Montagna, nome dato
Nembrot [o Nembrod, o Nimrod, ni- in Occidente al capo della setta
pote di Cam, mitico fondatore di ismailita degli assassini (‘dediti al-
Ninive]: 257. l’hashish’), attiva nel vicino Orien-
NESI, Giovanni [accademico della fi- te nel XII-XIII s.]: 232-3.
ne del XV s.]: 615n. OCELLO LUCANO [uno dei presunti se-
Nettuno [dio del mare]: 71, 443. guaci di PITAGORA del V s. a.Cr.]:
NEUBER, Wolfgang: 225, 237. 261, 268, 301, 333, 338 e n, 340,
NEUNHEUSER, Burkhard: 508. 358, 377, 541, 550 e n, 572 e n.
NEWTON, Isaac (1642-1727): 532, 548 OMERO (VIII-VII s. a.Cr.): 125, 443,
e n. 466, 512, 599.
NEZAMI o NIZA- MI-, Elya- s Abu- Muham- ONESICRITO [filos. e storico greco, se-
mad [poeta persiano] (1141- guì ALESSANDRO in India, scriven-
?1204): 236n. done una biografia] (IV s. a.Cr.):
NICCOLI, Sandra: 341n. 409.
NICOLA [uno dei sette diaconi ordina- OPPIANO di Siria [autore di un poema
ti dagli Apostoli]: 397. didascal. Sulla pesca] (III s.): 434.
NICOLAS DE LYRA [francescano di Lyre ORAPOLLO [scrittore egizio nato a Ni-
in Normandia, esegeta bibl.] lopoli, identificabile con un con-
(?1270-1349): 236, 267n, 567. temporaneo dell’imperatore Zeno-
NIFO, Agostino [medico, filos. aver- ne (474-91); i suoi Hieroglyphica fu-
roista avverso a Pomponazzi, do- rono portati a Firenze nel 1422]:
cente a Padova, secondo alcuni na- 212, 247.
to a Joppolo in Calabria, secondo Orazi [leggendari fratelli trigemini ro-
altri a Sessa Aurunca] (?1473- mani che uccisero i tre fratelli Cu-
?1545): 640, 651. riazi di Albalonga nel 642 a.Cr.]:
NIGRO, Salvatore Silvano: 178, 389. 427.
NINO [re assiro, successore di SARDA- ORAZIO <orazian->, Quinto O. Flacco
NAPALO, marito di Semiramide, (65-8 a.Cr.): 413, 554n, 599.
fondatore di Ninive intorno al 900 ORDINE, Nuccio: XIIIn.
a.Cr., cit. in Syntagma IV IV]: 257, Orfeo [mitico cantore e poeta tracio fi-
546n, 639. glio di Apollo e di Calliope]: 551 e
Nissa [di], Nisseno = v. GREGORIO N. n, 556, 650.
NOBREGA [missionario del XVI sec.]: ORIENZIO [autore cristiano della Gal-
314. lia della seconda metà del V sec.]:
Noè [patriarca biblico]: XVII, 115, 608.
231n, 257, 430, 600, 655, 680n, ORIGENE <origenian-> (?185-?253):
691, 703. 189n, 345, 406, 408-9, 466, 532,
Nolano = v. BRUNO 550n, 557, 564n, 576, 581-2, 589,
NOVARA, Domenico Maria [astron. 604, 609, 650, 654, 683.
ferrarese, docente di matem. e fi- Orlando [protagonista del Furioso]:
los. a Bologna] (1454-1504): 542. 374, 382.
NUMA Pompilio (715-673): 253-7, Ornio = v. HEURNE
258n-9, 260 e n, 261. Orpheus = v. Orfeo
ORTELIO, Abramo [Abraham Or-
NOMI DI PERSONA PRESENTI NEGLI APPARATI 737

tels/Ortelius, geografo menziona- PANCINO, Claudia: 341.


to in Syntagma IV VI] (1527-98): 85, PAOLINI, Fabio [medico, filos., oratore
174, 176-7n, 237, 265, 660. e poeta friulano, cit. in Apol. ad
ORTENSIO LANDO [predicatore agosti- lib.] (1535-1605): 230n, 656.
niano con il nome di fra Geremia PAOLINO da San Bartolomeo [Ivan Fi-
da Milano, aderì al luteranesimo, lip Vezdin, carmelitano scalzo di
rifugiandosi all’estero; poligrafo, orig. croata, pioniere dell’indolo-
curò la prima trad. it. dell’Utopia] gia e della filol. indoeuropea; se-
(?1512-dopo 1555): 302, 553 e n. gretario del card. Stefano Borgia]
ORTENSIO ORTALO, Quinto [oratore (1748-1806): 173n, 176, 410.
latino, console nel 69 a.Cr., avver- PAOLO <paolin-> di Tarso [San] (?5-
sario e poi collaboratore di CICERO- ?67): 155, 202, 263, 269, 311, 322,
NE] (114-50): 59. 369, 379, 385-6, 406, 426, 466, 507,
Osiride [divinità egizia]: 211-2, 253, 515, 547, 554, 558 e n, 560, 613,
256-7. 669-70.
OSSOLA, Carlo: 588n. PAOLO III [Alessandro Farnese, papa
Ottaviano = v. AUGUSTO nel 1534-49]: 414.
OTTAVIANO, Carmelo: 281n-2n, 47n. PAOLO V [Camillo Borghese, papa nel
OTTONE [segretario di FEDERICO II 1605-21]: 167, 277, 444, 481, 501,
Hohenstaufen]: 401n. 552, 619, 641-2n, 665.
OVIDIO <ovidian-> Nasone, Publio (43 Parabramma = v. Brahma
a.Cr.-18 d.Cr.): 71, 174, 233, 241, PARACELSO [Philipp Theophrast Bom-
247, 259-60n, 412-3, 441, 445n, bast von Hohenheim] (1493-
483n, 513, 540, 546, 550-1, 576 e n, 1541): 341, 460n, 607.
599. PARMENIDE (V s. a.Cr.): 551, 573, 587.
PASSERINI, Gian Battista (XIX s.): XII,
PALERMO Francesco (XIX s.): 305, 187n, 7n.
382n, 396, 511. PATRIZI, Francesco [letter. e filos. neo-
Pallade = v. Minerva platonico] (1529-97): 185 e n,
PALLADIO di Galazia [in Asia minore, 254n, 294, 314, 327, 333, 340n,
monaco ritiratosi nel deserto poi 376, 522n.
divenuto vescovo, allievo di EVA- PAUSANIA il Periegeta (II s.): 19, 262 e
GRIO Pontico, parteggia per GIO- n, 441.
VANNI CRISOSTOMO e viene esiliato Peiresc = v. FABRI
in Egitto] (363-?423): 109, 179, PELAGIO <pelagian-> [monaco celtico,
303, 381, 409, 411, 429, 445n, 448- che sosteneva la non ereditarietà
9, 485 e n, 664. del peccato originale] (?360-?):
PALLAVICINO, Ferrante [patrizio pia- 495n, 594 e n, 595-6, 634.
centino, romanziere barocco, anti- PELLEGRINI, Guido: 52n.
barberiniano, convertitosi al calvi- PELLEREY, Roberto: 239n.
nismo fu decapitato ad Avignone] PELLETIER, Monique: 177n.
(1616-44): 335. PELLIZZARI, Patrizia: 258n.
PALMIERI, Matteo [politico e letterato PERETTI, Camilla (XVI s.): 170, 660.
fiorentino, au. di Città di vita (ant. PÉREZ-JEAN, Brigitte: 62n.
1469)] (1406-76): 252. PERSIO, Antonio [abate, filos. telesia-
PALUMBO, Margherita: XI. no, accademico dei Lincei] (1542-
738 LA CITTÀ DEL SOLE

1612): 93, 163, 239, 254-5n, 260, gne, teol. domenicano, rettore del-
267n, 338n, 342, 244, 259, 368n-9, l’Università di Parigi] (?-1304):
380, 407n-8n, 409, 440, 445, 449, 352.
452, 458, 469 e n, 470, 475, 556-7, Pietro da Ravenna = v. TOMAI P.
573, 576, 591, 615, 618n, 663, 30n, PIETRO di Nocera [frate domenicano
60n. XVI-XVII s.]: 703.
PETOSIRIDE [ritenuto uno dei ‘prisci’ PIETRO di Tarantasia [savoiardo; si
astrol. babilonesi del VII s. a.Cr.; prodigò per la riunificazione delle
ma il Trattato di Nechepso e P. pare ri- Chiese separate; eletto papa nel
salga ad epoca alessandrina, cioè al 1276 (Innocenzo V), fu beatifica-
II s.]: 650. to] (1224-76): 627.
PETRARCA, Francesco (1304-74): 177. PIETRO MARTIRE d’Anghiera [politico
PETRONILLA [regina aragonese nel e geografo italiano, divenuto cap-
1137-1162]: 661. pellano di ISABELLA di Spagna,
PFISTER, Friedrich: 260n. narrò la storia delle scoperte di CO-
PFLUG, Christoph [nobile sassone, LOMBO] (1457-1526): 173n, 182,
scolaro a Siena, incontrò C. a Ca- 274, 314.
stel Nuovo nel 1603]: 270, 367, PIETRO SIMONE [apostolo]: 177, 188,
439n, 463, 489. 210, 256, 263, 270, 379, 506, 536,
PIAZZI, Alessandro: 260. 547, 552, 554, 617, 619 e n, 620,
Picatrix [v. 62n]: 242, 256, 297, 62n. 672.
PICCIRILLI, Luigi: 65n. PIGAFETTA, Antonio (?1480-?1534):
PICO, Giovanni P. della Mirandola 176.
(1463-94): XLVIIIn, 147, 165n, PIGNATELLI, Tommaso [al secolo Gio-
203n, 208-9n, 216, 250, 301, 343- vanni Francesco P.; domenicano,
4n, 347, 350 e n, 352-3 e n, 355, allievo di C. nel 1623-4, imprigio-
357-8n, 365n, 369n, 446, 472, 509- nato e giustiziato per sospetta con-
10, 531, 545, 551, 565-7, 574, 588n, giura antispagnola] (1605-34):
590n, 598n, 600, 602 e n, 614, 621, 630.
623n, 631, 637, 642, 651, 664, 682 e PINDARO (518-438): 466.
n. PINKUS, Lucio: 464n.
Piemontese = v. RUSCELLI PIO V [Antonio Ghislieri, papa nel
PIER LOMBARDO [teol. novarese, vesco- 1566-72; Santo]: 19n.
vo di Parigi, autore dei Libri quat- PIPINO I il Vecchio [capostipite della
tuor Sententiarum] (?1095-1160): dinastia carolingia] (?580-640):
590. 699.
PIERI, Piero: 422. PIROVANO, Luigia: 196, 312n, 476.
Pierre de la Ramée = v. RAMO PIRRO [re dell’Epiro] (318-272): 63,
PIETRO Comestore <comestorian-> 415.
(sec. XII): 109, 165n, 191n, 194n, PISSAVINO, Paolo: 291n.
197-8, 201, 203n, 256, 262, 434, PITAGORA <pitagoric-> (570-490): 19,
482, 484, 507, 516. 25, 59, 115, 125, 147, 149, 151,
PIETRO d’Abano [medico, docente di 179n, 204, 219, 241, 253, 255-6,
astrol. e medicina a Parigi e Pado- 259-64 e n (passim), 269, 271, 276n-
va] (1257-1315): 180n, 465-6, 30n. 7n, 290, 292, 294, 300-1, 310-1, 323,
PIETRO d’Alvernia [Pierre d’Auver- 327, 338, 358, 382, 384, 394-5, 406,
NOMI DI PERSONA PRESENTI NEGLI APPARATI 739

408-13 e n, 415, 444-6 e n, 453, 462- (204-270): 271, 413, 521n, 556,
3, 473-4, 478, 481-5 e n (pass.), 492, 577, 658, 665.
501n, 507, 513 e n, 527n, 532n, 534 PLUTARCO <plutarchian-> di Chero-
e n, 541, 542 e n, 550n-3, 561, 565, nea [elogiato con qualche riserva
572 e n, 576 e n, 579-80, 590-1n, in Syntagma IV IV] (?50-?120): XII,
597, 599-01, 621, 649 e n, 650-1, 29, 59, 202n, 211, 220n, 256, 259-
655, 656 e n, 673, 58n. 60n, 261, 264n, 268, 292, 312, 325,
PITTALUGA, Maria: 548n. 327-8, 338, 341n-2, 368, 376-7, 389,
Pizzoni = v. CORTESE 391, 403, 409, 415, 421, 424, 430-1,
PLASTINA, Sandra: 170n, 172, 185n. 439, 443, 459n-60n, 481, 541, 575-
PLATEARIUS, Matteo [Plateario, discen- 6n, 597, 639.
dente di Trotula de Ruggero, auto- Poggio = v. BRACCIOLINI
re del De medic. simplicibus, attivo Poimandres [o Pimandro, testo sapien-
nella Scuola Medica Salernitana ziale attribuito a Ermes Trismegisto]:
nella metà del XII s.]: 452, 468, 223, 248, 258 e n, 301, 71n.
470 POLIBIO di Megalopoli (II s. a.Cr.):
PLATONE <platonic-> (427-347): XIV, 419.
XV e n, XVIII, XXIII, 19, 21, 25, POLO, Marco (1254-1324): 208, 418,
59, 63, 81, 105, 109, 131, 133, 166- 423, 67n.
7, 169, 177, 182-4, 187-90, 195, 210 Polono = v. EGIDIO P.
e n, 214, 252-3, 257-78 e n (passim), POMPEO FARACOVI, Ornella: 603n,
281, 290-6, 298, 301-4, 308-11 e n, 648n.
314, 316, 318-22n, 325 e n, 326-8, Pompeo Festo = v. FESTO
330, 333, 338-40, 358, 363-4, 368n, Pompilio = v. NUMA
370-9 e n (pass.), 382n, 387, 389-91, PONTANO, Giovanni o Gioviano (1429-
394, 396n, 400, 402-4 e n, 409, 413- 1503): 522n, 602n.
5, 420-1, 424, 426, 429-31, 439, 443, PONZIO, Dionisio [nel 1586 conosce e
447, 449, 460, 463, 465, 467, 472-84 diventa amico di C. nel convento
e n, 496, 510, 512-3, 516-7, 521n, di Nicastro, di cui diventerà priore;
531 e n, 541, 544-5, 549-61 e n è uno dei capi della congiura; arre-
(pass.), 564, 569, 571-2, 576-7, 580, stato, evade rifugiandosi a Costan-
582, 587, 590, 593, 597-601 e n, tinopoli, dove si fa musulmano e
603, 605, 609, 621, 628, 634n, 650, muore ucciso in una rissa] (?1567-
664, 678, 684, 62n, 64n. 1604): XIV, 263n.
PLAUTO, Tito Maccio (?259-?184): PONZIO, Paolo [XX s.]: 532n, 544,
468. 546n, 573n, 619n, 12n.
Pletone = v. GEMISTO P. PONZIO, Pietro [fratello di DIONISIO,
PLINIO <plinian-> Secondo, Gaio, det- intimo amico e sodale di C., ne rac-
to il Vecchio (23-79): XLVIn, 15, coglie alcune poesie nel carcere,
147, 165n, 173-6, 178, 240-3, 247, da cui fu liberato nel 1603] (1569-
249, 252, 262, 268, 327, 341 e n, ?): XVII, 252n, 337-8n.
361 e n, 433n-4, 448 e n, 452-4, POPKIN, Richard H.: 253n, 492n.
468, 512n, 525n, 565-6, 619, 624, PORCIA [figlia di Catone] (I s. a.Cr.):
679. 59.
PLOTINO <plotinian-> [massimo rap- PORFIRIO <porfirian-> [filos. neoplato-
presentante del neoplatonismo] nico, discepolo a Roma di
740 LA CITTÀ DEL SOLE

PLOTINO] (?232-dopo 300): 260-1, PROST, Jacques e Pierre [stampatori a


271, 274, 408n, 413, 415, 445 e n, Lione nel 1624-54]: 647.
462, 577, 621. Ptolemaeus = v. TOLOMEO
PORTINARI, Beatrice o Bice di Folco P. PUCCI, Francesco [fiorentino; eretico,
(?-1290): 179. dopo aver girovagato per l’Europa,
PORTOGHESI, Paolo: 506, 24n. nel 1594 venne rinchiuso nel car-
Poseidone = v. Nettuno cere romano del Sant’Uffizio dove
POSSEVINO, Antonio [cfr L. Balsamo, conobbe BRUNO e C.; condannato,
A.P. S.I. bibliografo della Controrifor- fu bruciato a Campo dei Fiori]
ma, Firenze, 2006: la sua Bibliotheca (1543-97): 390, 495n, 539, 611,
(1593), ‘selecta’ secondo la ‘ratio 660, 688.
studiorum’ gesuita, si opponeva al- PULCI <pulcian->, Luigi (1432-84):
la Bibliotheca universalis (1545) del 257, 495n.
riformato K. GESNER] (1553-1611):
465n, 477. QUARTA, Cosimo: 324n.
POSTEL, Guillaume [orientalista] QUERENGHI o QUERENGO, Antonio [se-
(1510-81): 203n, 548n, 650, 661. gret. del Collegio cardinalizio, cui
POULET, George: 125. scrive nel 1607 per farsi liberare
POZZI, Gianni: 71. dalla ‘fossa’ di Sant’Elmo] (1546-
PRADO, Jéronimo de [gesuita ed ese- 1633): 304, 496n, 501, 596.
geta spagnolo, firma solo il I tomo QUINTILIANO, Marco Fabio (?35-?95):
delle Explanationes, perché la mor- 225, 434.
te lo coglie a Roma] (1547-95): Quinto = v. FABIO
189. QUIROGA, Vasco de [avvocato spagn.,
PRENDILACQUA, Francesco [biografo nominato ‘oidor’ del Messico, da
di VITTORINO da Feltre] (?-1422): dove inviò a CARLO V la denuncia
327. della schiavizzazione degli indios]
PRESTERÀ, Pietro [amico d’infanzia e (?1470-1565): 398n.
poi confratello di C. nel convento
di Stilo, promotore della congiura, RABANO MAURO [teol. tedesco, scrisse
scarcerato nel 1605] (1572-?): 623, un’enciclopedia universale] (?784-
694. 856): 195, 371n, 577n.
PRESTINACE, Giovanni Jacovo [depose RABELAIS, François [nelle Censure al
contro C. nelle indagini condotte RICCARDI: “R. buffone” (p. 40), e
da Sirleto]: 338. sempre spregiativamente in Com-
PRETE GIANNI [leggendario sovrano ment., p. 889] (?1494-1553): 194,
medievale dell’Etiopia, di cui parla 218, (233), 307, 310, 329-30, (332),
Marco POLO]: 179n, 211, 289-90, 390, 609, 661.
431, 444, 513n, 659n,-60, 51n. RACHELE [moglie prediletta del pa-
Priapo [divinità pagana della fecon- triarca GIACOBBE]: 383n.
dità]: 15. RAIMONDO da Capua o Capuano [Ge-
PROCLO [neoplatonico ateniese, di- nerale dei domenicani, maestro e
resse l’Accademia] (412-87): 557, poi seguace di S. CATERINA] (1330-
565, 49n. 99): 679.
Prometeo [semidio, fratello di Atlante]: RAMELLI, Agostino [ingegnere milita-
19. re a servizio degli Angiò, pubblicò
NOMI DI PERSONA PRESENTI NEGLI APPARATI 741

nel 1588 il trattato Diverse e artificio- RICCI, Matteo [gesuita, fondatore del-
se machine] (1531-1600): 330. le missioni cattoliche in Cina]
RAMIRO [o Remigio] DE LORQUA (1552-1610): 270, 404 e n.
[maggiordomo e poi luogotenente RICHELIEU, Armand Jean du Plessis
del VALENTINO, fu da questi fatto duca di (1585-1642): 325, 701 e n.
squartare nella piazza di Cesena RIDOLFI, Niccolò [domenicano fio-
nel 1502: cfr Il Principe, cap. VII]: rentino, prima Maestro del Sacro
425. Palazzo e dal 1629 Generale del-
RAMO <ramist->, Pietro [Petrus Ra- l’Ordine] (1578-1650): 642n-4,
mus, Pierre de la Ramée; umanista, 645n, 647, 657.
proponeva una nuova logica antia- Rifeo [person. dell’Eneide]: 595.
ristotelica; fu ucciso nella notte di RIGOTTI, Francesca: 439, 478n, 480.
S. Bartolomeo] (1515-72): 225n. RINALDI, Serafino da Nocera [maestro
RAMUSIO <ramusian->, Giovanni Batti- domenicano, legato da costante
sta [umanista e geografo veneto] amicizia per C., che lo menziona in
(1485-1557): 111, 173n, 175-7, 247, varie lettere] (?-1626): 454.
298, 331, 376, 405, 409, 419, 423, RINALDI, Teresa: 11n.
438, 446 e n, 448-9, 458-9, 478, 509, RINALDIS, Maurizio de [nato a Guar-
590, 612, 660, 663, 667, 677. davalle; capo secolare dei congiu-
RATKE, Wolfgang [alchimista, pedago- rati, fu giustiziato a Napoli] (1572-
gista influenzò COMENIO] (1571-
1600): 263.
1635): 225n.
Rinaldo [person. del Morgante e del
RAZI [Abu Bakr Muhammad ibn
Furioso]: 495n, 661.
Zakaryyia al-Razi (o al-Rasi), med.,
ROBERTO BELLARMINO [teologo gesui-
filos., matem. e alchimista attivo a
ta, Santo] (1542-1621): 262, 296,
Baghdad] (?865-?923): 455.
REDI, Francesco (1626-98): 251n. 477, 522n.
REGIOMONTANO, Giovanni [ps. di Rodigino = v. CELIO R.
Johannes Muller, matem. e astron. Rodomonte [person. del Furioso]: 71.
tedesco, che curò la prima stampa ROESLIN, Eliseo [medico, professore,
dell’Almagesto] (1436-76): 679. astronomo; difese la priorità del
Reimers = v. URSUS modello geo-eliocentrico di BRAHE
RESTORO (Ristoro) d’Arezzo [mona- contro URSUS] (1544-1616): 519n.
co; scrisse la prima opera astron.- ROGERIUS [missionario gesuita] (XVI-
geograf. in volgare nel 1282]: 208, XVII s.): 469.
567, 637. ROGLIANO o ROLLIANO, Plinio [telesia-
Rhasi = v. RAZI no, medico di Rogiano] (1566-
RICCARDI, Niccolò [domenicano, 1640): 454.
Maestro del Sacro Palazzo, detto ROMBERCH, Johannes [Johann Host,
Padre Mostro] (1585-1639): 495n, domenicano di Romberg in West-
594, 630 e n, 642n-3, 645n, 647, falia, si formò in Italia, dove inse-
656-7, 661, 666. gnò teologia] (?1480-?1532): 224.
RICCARDO di San Vittore [teol. scozze- ROMEO, Giovanni: 263.
se, tra i maggiori esponenti del mi- ROMEO, Rosario: 314, 448n, 496.
sticismo medievale] (?1110-1173): ROMOALDO [o Romualdo, monaco be-
589, 655. nedettino, fondò l’eremo di Ca-
742 LA CITTÀ DEL SOLE

maldoli presso Arezzo; Santo] cessore di ISMAIL (Abbas I) nel


(?952-1027): 444. 1603 riportò una vittoria contro gli
ROMOLO [presunto fondatore di Ro- Ottomani e conquistò tutto il terri-
ma] (753-716): 253-4, 259, 272, torio fino a Baghdad (1629)]: 155.
310, 375, 401. SAFFO (VII-VI s. a.Cr.): 466.
RONDELET, Guillaume [naturalista, Saiditi = v. SA’DIANA
medico francese] (1507-66): 243-6, SALLUSTIO, Crispo Gaio (86-35): 23,
245n, 249. 182, 293, 506.
ROSEO, Mambrino [di Fabriano, no- SALOMONE <salomonic-> [re d’Israe-
taio nel 1526, ma anche poeta e le] (970-930): 113, 173 e n, 186,
storiografo alla corte di Malatesta 192, 194, 197-8, 203, 207, 219,
IV]: 275, 277, 290, 292, 310n, 389, 231n, 234, 328, 367, 390, 436, 482 e
431, 449, 481. n, 484, 506, 508n, 516, 559, 596,
ROSSELANA [Khurrem Sultan, favorita 629, 659n.
di SOLIMANO I, forse di origine sla- SALSANO, Alfredo: 225n, 228-9n.
va, madre di Selim II] (?1505-?58): SALVETTI, Laura: 548, 691.
153. SALVINI, Antonio Maria [letterato]
ROSSELLI, Cosma [domenicano, filos.] (1653-1729): 557.
(?-1575): 226, 229n- 30n, 238. SAMARITANI, Antonio: 68n.
ROSSI, Paolo: 224-5n, 229n, 239n, 305, SANSOVINO, Francesco (1521-86): 216,
322-3 e n, 332, 565, 615. 237, 264n, 281n, 331n, 662n.
ROTA GHIBAUDI, Silvia: 12n. SAPEGNO, Maria Serena: 392.
RUGGERI, Fausto: 506. SARAIS, Ugo di [frate Ospitalario del
Ruggero [person. dell’Orlando Furioso]: XVI s.]: 168.
578. SARDANAPALO [nome greco di Assur-
RUNTE, Hans R.: 233 e n. banipal, re assiro] (668-626): 638-
RUPERTO di Deutz [teol. benedettino 9.
belga] (?1075-1130): 509n. SARPI, Paolo [“teologo cantambanco
RUSCELLI, Girolamo [poligrafo viter- del demonio” è l’epiteto affibbiato-
bese, vissuto a Roma e Venezia; sot- gli da C. negli Antiveneti] (1552-
to lo ps. di Alessio Piemontese pub- 1623): XV, 167 e n, 168, 641.
blica una raccolta di segreti magi- SARTORELLO, Luca: 481n.
ci] (?1500-66): 164, 174n, 209n. SASSO, Luigi: 165.
RYKWERT, Joseph: 441n. Saturno [dio agrario italico]: 254, 310,
491, 551n, 597n, 598 e n, 599, 700.
SA’DIANA [o Saiditi, in arabo Banu Saverio = v. FRANCESCO S.
Saad, dinastia mussulmana, che, SAVONAROLA, Girolamo [giudizio cau-
sotto la guida di Ahmad Al-Man- to, ma nettamente positivo in Syn-
sour, sconfisse i Portoghesi e regnò tagma IV III] (1452-98): 600n, 679.
sul Marocco nel 1549-1654]: 155. SAVONAROLA, Michele [professore a
Sabaoth [appellativo divino]: 416. Padova dov’era nato, medico di Ni-
SACCARO DEL BUFFA, Giuseppa: XVn. colò d’Este a Ferrara dove morì]
SADE, Donatien Alphonse François de (1384-1468): 333, 340n-1n, 368,
(1740-1814): 663. 370, 436, 447, 449, 452, 468.
SAFAWIDI [dinastia sciita regnante in SAXL, Fritz: 199, 230, 258n, 267, 517,
Persia nel 1502-1722; il quarto suc- 650.
NOMI DI PERSONA PRESENTI NEGLI APPARATI 743

SCALIGERO, Josephus [eminente filol., niano di Trento, tradutt.] (?-1542):


figlio di Giulio Cesare S.] (1540- 439.
1609): 248, 567, 32n. SEGRE, Cesare: 233n-4.
SCALIGERO, Paolo [Paolo Scalichius SÉGUIER, Pierre [cancelliere di Fran-
von Lika, astrol.] (?-1577): 641, cia] (1588-1672): 105.
679. Seleucus = v. ZALEUCO
SCAMOZZI, Vincenzo [architetto vene- SEMERYON [o Symerion o Semurion,
to] (1553-1616): 182-3, 191. “philosophus” lo chiama lo ps.-AL-
Scandella = v. MENOCCHIO BERTUS]: 248.
SCERIFFO [discendente di MAOMETTO; SENECA <senechian->, Lucio Anneio
tale appellativo fu rivendicato da (?50 a.Cr.- ?40 d.Cr.): 207, 277, 399,
varie dinastie, fra cui la SA’DIANA]: 576, 603 e n, 639-40, 642, 652, 679.
155, 662, 664, 666, 667 e n. SENOFONTE (430-355): 257, 415, 420.
SCHEDEL, Hartmann [incisore] (XV SERAFINO Firmano [Serafino Aceti de’
s.): 186. Porti, canonico lateranense, poeta,
SCHIAVONE, Michele: 258n. nato a Fermo; Santo] (1496-1540):
SCHILLING, Robert: 512n. 601, 679, 688-9n, 696.
SCHOPPE, Kaspar [o Schopp, italianiz- Serapide [divinità egizia d’età ellenisti-
zato in Scioppio, e latinizzato in ca]: 258n.
Schoppius; grammatico e contro- Seriffo = v. SCERIFFO
versista, diplomatico al servizio del- SERVIER, Jean: 214.
l’arciduca Ferdinando d’Asburgo, SERVIO (IV-V s.): 257.
in contatto con C. a partire dal Seth [divinità egizia, fratello di OSIRI-
1607] (1576-1649): XXVI, 61, 159, DE]: 256.
163, 270, 303, 305n, 400 e n, 450, Sforza Bona = v. BONA S.
471, 625, 665, 694. SGUALDI, Vincenzo [abate, autore di
SCHUHMANN, Karl: 584. scritti politici, come La republica di
SCHULZ, Juergen: 176n. Lesbo, L’aristocratia conservata (Ve-
SCHUTZ, Ludwig (1838-1901): 622. nezia, 1634)] (?-1652): 253, 276.
SCIASCIA, Leonardo: 189n. SHEA, William Robert: 543.
SCILLA, Agostino [pittore siciliano, ac- Shimas [prot. del Libro omon.]: 236.
cadem. della Fucina detto ‘lo Sco- SHUMAKER, Wayne: 441.
lorito’, paleontologo, geologo e Sibilla <sibillin-> [PLATONE ne elenca
pioniere ital. dello studio dei fossi- cinque, VARRONE dieci, tra cui la Ti-
li: ‘contro i superstiziosi delle paro- burtina e la Cumana che offrì i Li-
le di ARISTOTELE’ demolisce la tesi bri Sibillini a Tarquinio il Superbo;
della ‘crescenza naturale’ dei me- chiamata Deifobe da VIRGILIO, Aen.
talli nelle miniere] (1629-1700): VI, 36, forniva responsi ispirata da
15, 464, 577, 672. Apollo; tra le molte Sibille, ne esi-
Scipione = v. EMILIANO steva una ebraica, originaria della
SCOTO ERIUGENA, Giovanni [filos. ir- Palestina, figlia di BEROSO: “alcuni
landese, elaborò una metafisica la chiamano S. babilonese, altri
d’impronta neoplatonica] (810- egiziana” (Pausania, X 12,9)]: 451,
77): 336, 634n. 466, 539, 547, 616, 618n-9, 660,
Scrittura (Sacra) = v. BIBBIA 679, 683, 688.
SCUTELLI (Scutellius), Nicola [agosti- SIGISMONDO di Herberstein [sloveno,
744 LA CITTÀ DEL SOLE

consigl. di MASSIMILIANO I, da di- nel 1585-90]: 170, 578, 616, 629,


plomatico visitò la Russia e ne dise- 633, 640n, 649, 660, 666, 689, 28n.
gnò la carta geogr.] (1486-1566): SLAWINSKI, Maurizio: 690n.
423. SOBEL, Dava: 332.
SIGISMONDO di Lussemburgo [fece SOCRATE <socratic-> [(P.) è il Socrate
convocare il concilio di Costanza dei Dialoghi platonici] (469-399):
che pose fine allo Scisma d’Occi- XVIn (P.), 59, 61 (P.), 95, 276,
dente] (1368-1437): 668. 278n, 327, 367, 394, 399, 404, 437,
SIGISMONDO I Jagellone [re di Polo- 465, 480, 498n (P.), 572n, 639.
nia] (1467-1548): 153. SODANO, Angelo Raffaele: 513n, 516,
SIGNORINI, Rodolfo: 327. 48n.
Silvestri, Silvester o Sylvestris = v. DE Sofì, Sofius, Soffius, Sophi = v. ISMAIL-
SILVESTRIS ES-SUFI
SILVESTRO di Lauriana [o Silvestro SOLARI, Gioele: 324n.
Melitano, domenicano a Stilo, pro- SOLDANIERO, Giulio [partecipa alla
motore della rivolta, scarcerato nel congiura, ma nel luglio del 1599
1605] (1571-?): 600n. denuncia i congiurati al priore
SIMON Mago [taumaturgo samarita- D’Amico; arrestato, viene scarcera-
no; convertitosi, propose a S. PIE- to nel 1602]: 252n, 263.
TRO di vendergli i doni dello Spiri-
SOLDATINI, Alberto Mario: 703.
SOLIMANO I il Magnifico [Sulaiman,
to Santo (simonia)] (I s.): 619 e n,
sultano ottomano] (1494-1566):
628.
153.
SIMONETTA, Stefano: 668n.
SOLINO, Gaio Giulio [autore latino di
SIMPLICIO [Santo, papa nel 468] (?-
un compendio di geografia] (III
483): 23, 397.
s.): 176, 240, 247, 257, 448n.
SINAM BASSÀ [corruzione di Sinan Pa- SOLMI, Edmondo: XII.
scià ovvero Scipione Cicala; cattu- SOLONE (?640-560): 105, 252-6, 259,
rato dai corsari adolescente, diven- 261-2, 475n.
ne capo della flotta ottomana che SOMENZI, Vittorio: 703.
avrebbe dovuto appoggiare la con- SONNERAT, Pierre [naturalista, viaggia-
giura del 1599] (?1544-1606): 168. tore in Cina ed Estremo Oriente]
Sindbad [o Syntipas, filosofo al quale (1748-1814): 176.
il re CIRO affida l’educazione del fi- SORBELLI, Albano: XXVn.
glio; protag. della raccolta di novel- SOTO, Domingo de [Firpo 1945, p.
le persiane medievali Il libro di S.]: 233: “D. Francesco de S., nato a Se-
234, 236. govia nel 1494 da famiglia poveris-
SINGH, Madanjeet: 202, 270, 516. sima, studiò dapprima da solo, poi
Sirach = v. BEN S. ad Alcalà e Parigi; nel 1525 vestì
SISTO da Siena (XVI s.) [Ernst 1997d, l’abito Domenicano e nel ‘32 fu
p. 307: “il domenicano di origini chiamato a professare teologia a
ebree convertitosi al cattolicesimo” Salamanca; tredici anni dopo CAR-
cit. in Apol. ad lib., p. 322]: 202, LO V lo inviò come suo primo teo-
230-1, 466, 509n, 516, 547, 550n, logo al Concilio di Trento, nel qua-
564, 653. le ebbe larga parte come assertore
SISTO V <sistin-> [Felice Peretti, papa di dottrine tomistiche; non avendo
NOMI DI PERSONA PRESENTI NEGLI APPARATI 745

voluto seguire il Concilio a Bolo- nel 1612] (1546-1623): 193 e n,


gna, fu prescelto come confessore 219, 561, 569, 690.
dall’Imperatore e riprese l’inse- STOBEO, Giovanni [così comunem. ci-
gnamento, attendendovi sino alla tato dalla città natale, Stobi in Ma-
morte (1560). Fra le molte sue cedonia, compilò un’antologia di
opere, il De iustitia et iure, compen- passi poet. e pros. di circa 500 au-
dio di lezioni universitarie, appar- tori] (V s.): 248, 312, 439.
ve postumo a Salamanca (1566) ed STRABONE [storico e geogr. greco, la
ebbe frequenti ristampe anche in cui Geografia è cit. da C., ad es. in
Italia”] (1494-1560): 61, 394, 397, Antiv., p. 106] (?63 a.Cr.-?24 d.Cr.):
398-400 e n. 165 e n, 409, 411, 448, 459, 660,
SPAMPANATO, Vincenzo: XIIIn. 70n.
SPINASATUS, Albanus [giureconsulto STROZZI, Tito Vespasiano [umanista
aquitano del XVI s., autore dei Poli- ferrarese al servizio degli Estensi]
ticorum libri (Parisiis, 1547)]: 163, (1424-1505): 419.
188, 274, 276. STRUVIUS, Burcardo Gotthelf [Struvio
SPINI, Giorgio: 380, 543, 554, 570n, o Struve, bibliotecario dell’Univer-
583n, 642n, 645n, 647n, 658, 661. sità di Jena, prof. di storia, autore
SPINOLA, Cornelio [Console di Geno- degli Acta litteraria] (1671-1738):
va a Napoli dal 1621 al 1647]: 388. 400n, 16n.
SPIRIDIONE [vescovo]: XLVn.
SVETONIO, Tranquillo Gaio (I-II s.):
SPITZER, Leo: 621.
264n.
SPRUIT, Leen: 337n, 492n.
Syntipas = v. Sindbad
STADIO, Giovanni [Johannes Stadius,
SZONDI, Peter: 487n.
Jean Stade, astrol. belga, insegnò
matem. a Lovanio; autore del De
fixis stellis commentarius (Coloniae TACITO, Lucio Cornelio (?54-?120):
Agrippinae, 1560)] (1527-79): 510. 247, 420, 639.
STAROBINSKI, Jean: 464n. TALETE di Mileto (?624-545): 439,
STÄUBLE, Antonio: 190n. 550, 597.
STEFANO [uno dei sette diaconi ‘elle- TAMERLANO [signore dei Mongoli]
nisti’ della chiesa di Gerusalemme, (1336-1405): 270.
primo martire cristiano cit. in At.; TASSO, Torquato (1544-95): 401, 661 e
Santo] (?-35): 514. n.
Stephanus = v. ESTIENNE TASSONI, Alessandro (1565-1635):
Sterce [o Stercuzio, mitico antenato 252.
dei Romani inventore della conci- TAZIANO [scrittore siriaco cristiano]
mazione]: 433n. (II s.): 658.
STIGLIOLA, Nicola Antonio [o Stelliola TELESIO <telesian->, Bernardino
Colantonio, architetto, astron., fi- (1509-88): 63, 93, 121, 135, 180,
los. e matem. nolano di grande va- 212, 249, 252, 255n, 260, 282-6 e n,
lore e vasti interessi magico-esoteri- 301, 303-4, 311, 319, 333 e n, 338n,
ci, autore di una perduta Encyclo- 340, 342n, 363, 366-9 e n, 384, 395,
paedia pythagorica; conobbe C. nel 405, 407 e n, 409, 440, 445, 451,
carcere romano del Sant’Uffizio 461, 467-8, 471, 475, 525 e n, 531-2,
nel 1595; accademico dei Lincei 535, 539-40, 552, 556, 568, 572-3,
746 LA CITTÀ DEL SOLE

575, 577, 584, 587, 591, 607n-8, smo e dell’anima]: 527n, 549, 552 e
621n, 625, 636, 646, 681, 702. n.
TEOCRITO [poeta siracusano] (?310- TIMOCARI [astronomo alessandrino
?250): 434. del III sec. effettuò le prime misu-
TEODORO di Tarso [arcivesc. di Can- razioni sulla precessione degli
terbury, filos., teol. e canonista, ma equinozi]: 679.
non santo come scrive erroneam. TODOROV, Tzvetan: 324n.
C.] (?602-90): 563. TOLOMEO <tolemaic->, Claudio (II s.):
TEOFRASTO (372-287): 240, 462. 3, 45, 87, 115, 119, 121, 133, 137,
TERENZIO <terenzian->, Afro Publio 173-6 e n, 179-81 e n, 216, 238, 273,
[commediogr. latino] (?190-?159): 294, 343-4n, 345-7, 350, 352, 353 e
475. n, 359, 362, 431, 442 e n, 468, 510,
TERMINELLI, Antonino: 666n. 519, 524, 527 e n, 535n, 538-41,
TERTULLIANO, Quinto Settimo Fioren- 543, 553, 557, 562, 571-2, 600, 602,
te [padre della Chiesa] (?160- 632, 637n, 640, 662, 664, 673, 679 e
?220): 31, 59, 278, 291, 327, 394, n, 681-4.
409. TOLOMEO DA LUCCA [domenicano, au-
Testu = v. LE TESTU tore del De regimine principum at-
THEBIT Babylonio [Thabit Ibn Qur- trib. a S. TOMMASO] (?1236-1327):
rah, nato in Turchia, famoso per 61, 399, 403.
TOMAI o TOMASI, Pietro [giureconsul-
gli studi di meccanica, astron. e
to e poeta ravennate] (metà XV s.-
matemat.] (836-901): 537.
dopo 1508): 229.
Theo. = v. TEODORO
Tommaso [pseudo-] = v. TOLOMEO DA
THEODORETO, Iohannes Arcerius
LUCCA
(XVI s.): 219, 260-1, 274, 290,
TOMMASO <tomistic-> d’Aquino [San]
292n, 298, 312, 327, 333, 338, 340, (1225-74): XLVIIn, 105, 139, 143,
377, 383, 415, 445n, 453, 462, 478, 145, 149, 180 e n, 202, 221n, 252,
481, 507, 513, 649, 50n. 260, 272, 276, 283n, 290, 302n,
THIERRY de Chartres [Bernardo Silve- 306n, 311, 314, 317-9, 322, 325,
stre o Guglielmo di Conches, teol., 334-5, 338n, 342, 352, 381, 386,
docente, erudito] (?1110-?1150): 391, 397-400, 427, 439, 447, 475,
201, 340, 531, 671. 477-8, 480, 494n, 496n, 516, 550,
THOREN, Victor E.: 618n. 552-4, 559, 564n, 580, 582, 585,
Thoth [o Tot, o Theut, divinità egizia]: 588-92 e n, 594, 596-7, 604, 608 e n,
258 e n, 259. 622-38 e n, 649, 652-3, 655, 658-9,
TIBERIO, Claudio Nerone [imperatore 666, 670, 676, 74n.
romano] (14 a.Cr.-37 d.Cr.): 401, TOMMASO apostolo: 177.
639. TONTOLI, Francesco [frate somasco,
Ticon(e) = v. TYCHO revisore del S. Uffizio; insieme a
Tieste [gemello di Atreo, figlio di Pelo- padre Candido approva i Comm. e
pe e Ippodamia, contese col fratel- il Quod remin.; vescovo di Ischia dal
lo il regno di Micene]: 131. 1638 al 1663]: 657 e n.
TIMEO di Locri [presunto pitagorico, TORNITORE, Tonino: XIn, XXV e n,
modello dell’omon. dialogo pla- 209n, 434, 475, 27n.
ton., autore di Sulla natura del co- TORQUEMADA, Juan de [teol. domeni-
NOMI DI PERSONA PRESENTI NEGLI APPARATI 747

cano e cardinale] (1388-1468): VALADÉS, Diego [francescano, procu-


472. ratore generale e missionario apo-
TOSCANELLA, Orazio [erudito fiorenti- stolico a Roma, attivo nel XVI s.]:
no, latinista, traduttore, attivo nel 231.
XVI s., morto a Venezia]: 229n. Valentino [il] = v. BORGIA
TOSI, Renzo: 656. VALERIO Massimo [storico romano del
TRALLIANO [medico greco] (527-565): I s.]: 374.
455. VALESIA o VALOIS [dinastia francese,
TRAMATER [nome di una soc. tipogr. ramo cadetto dei Capetingi, che
napoletana, che pubblicò sotto la regnò dal 1328 al 1589]: 604.
direz. di R. Liberatore il Vocabolario VALIGNANO, Alessandro [di Chieti, stu-
Universale Italiano (1829-40), che ri- diò a Padova; missionario gesuita a
produce, arricchito, quello della Goa e poi in Estremo Oriente]
Crusca]: 245. (1539-1606): 404.
TRAPÉ, Armand: 22n. VALORI, Baccio [bibliotecario dei Me-
TREVES, Paolo: 165, 496. dici, incontra C. nel 1592, e, pur
TRIFILLO [chierico]: XLVn. ammirato dalla sua cultura, sconsi-
Trismegisto = v. Ermes glia al Granduca di affidargli inca-
TRÖBST, Christian Gottlob (XIX s.): richi] (1535-1606): 677n.
XI Van ‘T Hoff = v. HOFF
TROUSSON, Raymond: 503. Van del Broek = v. BROEK
TUCIDIDE (?460-?400): 441. Van Helden = v. HELDEN
TUGNOLI, Claudio: 605n. VAN HELMONT, Jan Baptiste [chimico
TURNÈBE, Adrien [umanista franc., e filos. belga] (1578-1644): 438.
dotto filol., docente al Collegio Vangelo = V. Bibbia (Nuovo T.)
Reale] (1512-65): 303. VANNOZZI, Bonifazio [dottore pistoie-
Tycho, Ticone = v. BRAHE se] (1540-1621): 645.
VARRONE, Marco Terenzio (116-27):
UBALDINI (Baldini), Vincenzo [stilese, 67, 99, 199n, 254, 308, 369, 651n,
contemp. di C., s’incarica di riordi- 655.
narne gli scritti profetici]: XVII. VARTHEMA, Lodovico de [bolognese,
UGO di San Vittore [teol. e mistico fece un viaggio extraeuropeo dura-
scozzese] (?1096-1141): 215, 358. to sei anni] (?1465-?1517): 174 e n,
ULLOA, Alfonso de [letter. e trad., na- 175-6, 384-5, 409, 432, 438 e n, 446,
to a Toro (Zamora), vissuto e mor- 468, 608, 667.
to a Venezia] (?-1570): 414. Vasco de Gama = v. GAMA
URBANO I (papa dal 222 al 230): 314. Vasco de Quiroga = v. QUIROGA
URBANO VIII <urbanian-> [Maffeo VASOLI, Cesare: 203n, 230n, 540n,
Barberini, papa nel 1623-44]: 207, 556, 615n, 619n, 641n, 686n, 73n.
277, 570 e n, 633 e n, 640 e n, 642- VAUDEMONT [forse Luigi, figlio di Re-
4, 701. nato di Lorena, conte di V. intorno
URSUS [Reymers Baer o Nicolaus Rai- al 1520]: 167.
marus detto U., di Ditmar; in gio- VECCHIETTI, Girolamo [storico fioren-
ventù guardiano di porci, divenuto tino, teologo e matem. attivo nel
poi ‘mathematicus’ imperiale, co- XVII s.]: 546n, 567, 614.
nobbe TYCHO] (1551-1600): 519. VEGEZIO, Renato Flavio [autore latino
748 LA CITTÀ DEL SOLE

dell’unico manuale di arte militare menicano spagnolo, Santo] (1350-


dell’antichità pervenutoci] (IV-V 1419): XXn, 667, 679.
s.): 193, 419, 428. VIRGILIO <virgilian-> Marone, Publio
Venere [dea dell’amore]: 194, 199n, (70-19): 35, 149, 170, 177, 194,
368. 196, 249, 257, 259, 274, 303, 425,
VENTURI, Giovanni Battista [fisico] 433n-4, 453, 466, 470, 566, 599,
(1746-1822]: 422. 637, 656 e n, 671.
VERDELLI [cavalier] (XVI s.): 167. VISCONTE, Raffaele [o Visconti, dome-
VERNALIONE (Vernaleone), Giovan nicano, amico di C.] (XVII s.): 643-
Paolo [matem. e filos. di Galatina, 4.
amico dei DELLA PORTA, partecipò VITRUVIO <vitruvian-> Pollione (I s.
all’Accademia degli Svegliati e for- a.Cr.): XLVIn, 184, 191, 193, 203,
se alla congiura del ’99; cit. da C. 208, 238, 330, 441, 489, 541, 703.
nel Memoriale di Castelvetere]: Vittore (San) = v. RICCARDO di San V.
690. Vittore = v. UGO di San V.
VERNAT, Philibert [di Utrecht, cavalie- VITTORINO da Feltre [educatore e
re di S. Marco; arrestato a Napoli umanista, fondò a Mantova una
nel 1619, chiese un oroscopo a C. e scuola ispirata agli ideali umanisti-
gli parlò dei programmi del RATKE: ci pervasi di spirito cristiano]
cfr Gilly] (1593-?): 225n. (?1378-1446): 293-4, 327.
Vitzilpuitzli [idolo Inca]: 193.
VESALIO, Andreas [anatomista fiam-
VIVES, Ludovico [Juan Luis V., di Va-
mingo, insegnò a Padova] (1514-
lencia, prof. di latino a Lovanio e
64): 607.
Oxford] (1492-1540): 149.
VESPASIANO, Tito Flavio (9-79): 680n.
Vò = v. DAIRI
VESPUCCI <vespuccian->, Amerigo
Vuiclef(fo) = v. WYCLIF
(1454-1512): 171, 274, 376. Vulcano [dio del fuoco]: 233.
Vesta [dea del focolare]: 254, 261.
VICO <vichian->, Giovanbattista WAARD, Cornelis de: 569.
(1668-1744): 272, 394, 410. WALDBAUM, Serge: XXIn.
VICTORIUS, Ioannes Nicolaus [Jean-Ni- WALKER, Daniel Pickering: 230n,
colas V., francese, attivo nel XVI 369n, 483n, 502, 564n, 629n, 635,
s.]: 175. 645n-8, 699n.
VILLALPANDO, Juan Bautista [gesuita WALLENSTEIN, Albrecht Wenzel Euse-
di Cordoba, morto a Roma] (1552- bius von [capitano di ventura di-
1608): 189. ventato generale degli eserciti im-
VILLANI, Carlo (1858-?): 658. periali] (1583-1634): 145.
VILLANI, Giovanni [cit. in Politici, p. WEISS, Karl: 431.
135] (?1280-1348): 169, 441. WERNER, Johannes [chierico di No-
VILLEGARDELLE, François [teor. sociali- rimberga, famoso per aver affinato
sta fourierista] (1810-56): XI. le proiezioni geogr., che presero il
VILLIERS, Christophe de [fisico e mu- suo nome] (1468-1528): 682n.
sicologo] (?1585-?1650): 218n. Wesdin, Johann Philipp = v. PAOLINO
Vincent o Vincenzo di Beauvais = v. da San Bartolomeo
BEAUVAIS WICKERSHEIMER, Ernest (1880-1965):
VINCENZO Ferreri [Vicente Ferrer, do- 650.
NOMI DI PERSONA PRESENTI NEGLI APPARATI 749

Wicleff, Wicleffe, Wicleffius = v. WY- ZARKA, Yves Charles: 302n.


CLIF Zarqali (az-Z.) = v. ARZACHEL
WIDMAR, Bruno: 210n. ZATTI, Sergio: 495n.
Wird Kahn [person. del Libro di Shi- ZENONE di Elea [filosofo e matem.
mas]: 236. greco] (V s. a.Cr.): 635.
WITTKOWER, Rudolph: 199, 484. ZIEGLER, Karl: 40n.
WOLF, Hieronymus [umanista tede- ZIMARA, Marcantonio [medico e fi-
sco] (1516-80): 518n. los. pugliese, morto a Padova]
WYCLIF, John [riformatore inglese, (1460-1523): 151, 339-40n, 363,
fondò il movimento dei Lollardi, 368, 377n, 384, 449, 459, 460 e n,
condannato dal concilio di Costan- 469n.
za] (?1320-84): 668 e n, 677, 689. ZINGARELLI, Nicola (1860-1935): 468.
ZOLI, Serena: 496.
YATES, Frances A.: XVIIIn, 213, 224-7 ZOPPI GARAMPI, Silvia: 225n, 307.
e n, 229n, 297, 301, 483, 541-2, ZOROASTRO [o Zarathushtra, profeta
554, 556n-7, 590, 645n, 647n-8n, iranico del mazdeismo] (tra il IX e
658, 663, 693, 699n-700n. il V s. a.Cr.): 202 e n, 410, 413.
ZUCCARI, Fermo (1807-69): 506.
ZACCARIA [profeta ebreo] (VI s. a.Cr.): ZUCCHINI, Giampaolo: 276n, 298, 440.
328-9. ZÙCCOLO, Ludovico [faentino, tratta-
ZALEUCO [legislatore di Locri cui fu tista politico] (?1568-1630): 252,
attribuito il primo codice di leggi 276, 291n, 313-4, 390-1, 394, 404,
scritte nel mondo greco] (VII s. 440.
a.Cr.): 19, 253, 255-6, 259, 261. ZWINGLI, Huldrych [riformatore sviz-
ZAMBELLI, Paola: 556n. zero, distaccatosi da CALVINO, fu
ZAMBRINI, Francesco (1810-77): 54n. ucciso nello scontro con i cantoni
ZAMOLXI (V s. a.Cr.): 253-6, 260 e n, cattolici a Kappel] (1484-1531):
261. 595.
NOMI DI LUOGO PRESENTI NEGLI APPARATI*

(ABISSINIA) <abissin->: 211. 510, 525n-6n, 525n-6n, 553n, 566,


ADAM [pico de A. a Ceylon]: 174, 580n, 584n, 600, 602, 623, 626,
408n. 658, 666-7, 685, 695.
ADRIATICO: XLVI. ARAGONA: 661.
AFRICA <african->: 151, 155, 163, 208, ARDEVEL [città persiana]: 667.
238, 249, 275, 398, 402, 410, 639, ARGO: 19, 261-2.
659-64 (passim), 686-7, 695. ARGOLIDE: 262.
Alemagna = v. GERMANIA ASIA <asiatic->: 85, 165, 174, 238, 402,
ALESSANDRIA d’Egitto: 164, 258. 402, 404, 485, 660, 662, 671, 679,
ALTOMONTE: 229n, 374, 454, 472n. 686-7.
AMALFI: 612, 615, 665. (ASSIRIA) <assir->: 257, 638-9, 661, 48n.
AMAUROTO: 164, 182. ASSISI: 669.
AMERICHE [o Indie occidentali] <- ATENE <atenies->: 59, 169, 191n, 253-
american->; <amerindi>; <indi->: 5, 361, 429.
170n, 231, 245, 274, 299, 323-4, AUGUSTA: 504, 602n, 668.
314, 323-4, 374, 376, 414 e n, 448, Australe = v. OCEANO A.
458, 504-5, 559, 590, 594 e n, 612-3, AUSTRIA <austriac->: 153, 617, 640,
660, 678. 700.
AMSTERDAM: XXVn, 182.
ANTICTONI [Terra degli]: 178. BABELE: 373, 604.
ANVERSA: 163, 178, 182, 199. BABILONIA <babilones->: 123, 567,
AQUINO: 658. 638.
ARABIA <arab->: 87, 137, 165n, 196, BACCALAOS: 179n.
247, 258-9, 344n, 367n, 471 e n, BAMBERGA: 517.

*
Le parentesi tonde poste ad alcune località stanno ad indicare che negli apparati sono pre-
senti solo occorrenze del derivato segnato a fianco; ad es.: ‘(Assiria) <assir->’ significa che ri-
corrono solo ‘assiro’, ‘assiri’ ecc. I nomi di luogo in corsivo sono località fittizie.
752 LA CITTÀ DEL SOLE

BANDAN [isola]: 468. CEYLON: 3, 63, 85, 172-9 e n, 182, 188,


BENGALA [golfo e regno]: 174, 271n. 408n, 415, 431.
Benomotapa = v. MONOPOTAPA CHIO: 301.
BERGAMO: 193n. CHRISTIANOPOLIS: 237.
BISINAGAR: 438n. CINA <cines->: 85, 163, 172, 194, 211n,
BOEMIA <boem->: 422, 602, 668. 265, 288, 404n, 423 e n, 431, 469-
BORISTENE [Sarmazia, la regione attra- 70, 497, 511, 516, 548.
versata dal Dnieper]: 208. CIRENE: 465.
BORNÒ [BORNEO?]: 373. Coa = V. GOA
BOTHSVANA: 176. Cocincina = V. CAUCACINA
BRASILE: 238. CONGO: 176.
BRESCIA: 59. CONSOLINO [monte di STILO]: XVII,
BRONGIA [isola]: 472. 182.
CORI [promontorio indiano]: 175.
CALABRIA <calabres->: XIV, XVII, COSENZA <cosentin->: 51, 405, 472n,
XXII, 53, 186, 378, 390, 412, 466, 669.
489n, 542n, 593, 600, 619, 664, COSMOPOLI: 164.
688, 693. COSTANTINOPOLI: 211.
(CALDEA) <calde-/caldaic-> [altro no- COSTANZA [città]: XXVn, 61, 398n,
me della BABILONIA]: 123, 211, 257, 668 e n, 697.
CREMONA: 199.
472, 513n, 540, 550, 639, 655,
CRETA <cretes->: 255-7 e n, 403n.
682n, 684, 686, 48n.
CROTONE: 115, 163, 219, 255, 260,
CALICUT [O Caliquit]: 85, 173, 176,
395, 527n, 534n, 542 e n.
177 e n., 409, 438, 463, 490.
CUZCO: 193.
CAMBAIA [o Cambay]: 270, 410 e n,
438, 445-6n, 608, 660, 677. DANIMARCA <danese>: 137, 441, 683.
CAMBOGIA: 85. DELFI <delfic->: 259, 473, 512n.
CAMPANEL (città della Cambaia): 165, DONG [fiume asiatico]: 85.
191, 270, 410n, 677.
CAMPANIA: 505. ECBATANA: 191.
CANANOR: 382. EFESO <efesin->: 396, 573n
CARIDDI: 464. EGITTO <egizi->: 123, 151, 165, 211n-
CARTAGINE <cartagines->: 255, 261, 3, 253-62 e n (passim), 410, 482 e n,
639, 662. 513n, 556, 566-7, 597-8n, 655, 661,
CASERTA: 427n, 702. 686, 48n.
CASTIGLIA: 153, 472, 661. ELIOPOLI [o Solis Urbs]: 165 e n, 193,
CASTIGLIONE: 293. 247 e n.
CASTROCARO: 165. ELLESPONTO: 208.
CASTROVILLARI: 619. EREWHON [città utopica dell’omonima
Catachoras = v. AFRICA opera di Butler]: 454.
Cataio = v. CINA ESTREMO ORIENTE: 438n.
CATANIA <catanes->: 19, 261. ETIOPIA <etiop->: 157, 173, 211, 247,
CAUCACINA: XLVIn, 438. 430, 595, 618, 660, 683, 686.
CAUCASO <caucasi-> [regione e mon- EUROPA: XII, 3, 139, 172, 177n, 232-3,
te]: 270, 400, 660. 238, 265, 273, 392, 408, 415, 422,
NOMI DI LUOGO PRESENTI NEGLI APPARATI 753

437-8n, 441, 479, 496, 508, 531n, GOA: 173 e n., 438, 677.
539, 554n, 615, 618n, 643, 662, GRAMMICHELE: 332.
671, 677, 679, 686, 696, 698-9, 701. GRANADA: 420.
EVANDRIA [l’utopistica repubblica di GRECIA <grec->: 218, 253, 255, 257,
Zuccolo]: 276, 391, 404 e n. 260 (Magna G.), 261-2, 274 (Ma-
gna G.), 307, 335, 374, 394, 408-10
FAITO [monte]: 469. e n, 412, 450, 464, 482, 546n, 559,
FATEHPUR: 516. 655, 661, 686.
FERRARA <ferrares->: 157, 640-1. (GRIGIONI) <grigion->: 477.
FEZ [o Fessa, città e regno]: 155, 273, GUJARAT: 410n.
331, 548, 662-3, 667.
FIANDRE: 438 e n. HAITI: 173n, 182.
FIESOLE: 441. Hierusalem = v. GERUSALEMME
FINLANDIA: 145, 640. HORMUZ: 179n.
FIRENZE <fiorentin->: XI e n, XXV, HUSINEC: 668.
191, 193, 446n, 519n, 612, 677n. HVEN [isola svedese]: 441.
FLORIDA: 179n.
FORTUNATE [Isole]: 173, 186, 580n. <indoeurope->: 214, 318.
FRANCIA <frances->: XII, XLVIIIn, Ierné = v. IRLANDA
153, 168, 194, 231n, 233n-4, 260, INDIA <indian->: 3, 85, 111, 164-5, 171-
395, 416, 437, 459, 461, 617, 630n, 7 e n (passim), 202, 213, 247-9, 270
643, 645n, 656, 669, 674, 677, 686, e n, 271, 273, 298, 381-2, 394, 405,
687 e n, 693, 699, 700 e n., 74n. 408-10 e n, 412-3, 415, 438n, 445-6,
FRANCOFORTE <francofortes->: XI-XII, 468, 470, 472, 513, 516, 538n, 550,
XLIV, 4n. 576, 590, 608, 660, 662, 664.
FRIULI: 273n. INDO [fiume]: 175, 270.
INDOCINA <indocines->: 85, 172, 468.
Gallia = v. FRANCIA INDONESIA <indonesian->: 173.
GANGE: 270. INGHILTERRA: XII, 153, 677, 687n.
GAOGA: 151. IPPONA: 25.
GARAN [deserto africano]: 151. IRLANDA: 173.
GENOVA: 135, 168, 170, 171 e n, 182, ISCHIA: 657.
388, 496n, 593, 630n. Isole Fortunate = V. FORTUNATE
GERICO: 192. ISRAELE: 113, 192-3, 369, 473, 505,
GERMANIA <tedesc->: 139, 249, 253, 507, 615n.
395, 400n-1n, 408, 422, 668, 677 e ITALIA <italian- (riferito solo alla na-
n, 681, 686-7. zion.)>: 5, 53, 109, 135, 173, 422,
GERUSALEMME: 109, 164, 167, 185-6, 492n, 540n, 542, 612, 74n.
189, 191, 194, 202, 233, 296, 328,
448, 453, 509, 615, 680n, 687, 689, JENA: 225n.
700n. JONIO: 183.
GIAPPONE <giappon-, nipponic->: 169,
172, 212, 255, 288, 384-5, 394, 412, KONARAK [città indiana]: 516.
469-470, 497, 509, 559-60, 611, 663, KOZHIKODE: 85.
687.
GIAVA: 468. (Lazio) <latin- (riferito solo alla na-
754 LA CITTÀ DEL SOLE

zion.)>: 5, 257-8, 273, 307, 373, MOSCOVIA: 618.


546n, 661. MOZAMBICO: 151.
LIBIA <libic->: 639, 660.
LIMPOPO [fiume]: 151. NAPOLI <napoletan->: 5, 15, 35, 53, 99,
LIONE: 466n, 608, 647, 4n. 111, 163, 167, 169, 171 e n, 178,
LISBONA: 163, 169, 199. 182, 209n, 216n, 219-20n, 232, 241,
LOCRI: 19, 527n, 542n. 295, 302, 308, 378 e n, 387-9 e n,
LOMBARDIA: 238, 273n, 628, 688. 420, 452, 458, 469, 472n, 479, 507,
LOTHARINGIA: 661. 510, 561, 593, 597, 607, 620, 630,
LUCCA: XXV. 643-4, 657, 661, 690 e n.
LUGANO: 187n. NARNI: 344.
LÜTZEN: 145, 699. NARSINGA <narsingan->: 381, 408, 438
e n, 446, 476.
MACEDONIA <macedon->: 171n, 257, (NAVARRA) <navarr->: 661.
639, 671. NICASTRO: 264n, 466n.
MADABAR: 270. NICEA <nicen->: 119, 514.
MALABAR <malabares->: 85, 446. NILO: 247n, 256.
MALTA: 3, 167-9. (NORVEGIA) <norveges->: 661.
MANFREDONIA: 657. NUBIA: 151, 373.
(MANTOVA) <mantovan->: 656, 661. NUOVA FRANCIA: 179n.
MAR ROSSO: 173, 687.
MARCHE: 273n. OCEANO AUSTRALE: 580.
MAROCCO: 155, 273, 662-3, 667. OCEANO INDIANO: 174, 176 (‘Eous’),
MATERA: 260. 177 e n, 275.
MAURITANIA <mauritan->: 155, 662, OFIR [Ophir] [isola]: 173n, 659n.
698. OLANDA <olandes->: 324, 438, 539,
MAZZARINO [com. in prov. di Caltani- 618, 687n.
setta]: 332. OLIMPO: 185.
MEDIA <Medi>: 273, 638-9. Oriens = v. HORMUZ
(MEDITERRANEO) <mediterrane->:
202, 239, 253, 331, 408. PADOVA <padovan->: 167n, 193, 231n,
MEKONG: 85. 337, 407n, 457, 470, 554n, 557 e n,
MELINDE: 410. 607 e n, 661.
MEROE: 208. PALMANOVA: 193.
MESOPONTO: 208. PANARA [città nell’isola di PANCAIA]:
MESSICO <messican->: 159, 179n, 231, 213, 274.
314, 509. PANCAIA: 211, 213, 247 e n, 274, 329,
MESSINA: 469. 409.
METAPONTO: 260. PANNONIA: 639.
MILANO: 506, 703. PAOLA [città]: 669.
MIRANDOLA: 210n, 427 e n. PARAGUAY <paraguaian->: 330, 389,
MODENA <modenes->: 380n, 644. 678.
MOLUCCHE: 212. PARIGI <parigin- (riferito a nazion.)>:
MONOPOTAPA alias MONOMOTAPA: 151, XI, 61, 617, 620, 630, 648, 663n,
478, 659 e n, 660. 701.
MONTEFIASCONE: 669. PARMA: 153, 332.
NOMI DI LUOGO PRESENTI NEGLI APPARATI 755

PAVIA: 203. SAN QUINTINO [Saint-Quentin, città


PERGAMO: 448. della FRANCIA settentrionale): 422.
PERGE: 119. SANTA CRUZ: 448.
PERSIA <persian->: 155, 175, 188, 212, SARDEGNA: 431.
233-4n, 236n, 271n, 307, 309, 430, SCILLA: 464.
430, 479, 548, 646, 661, 663-4, 667 SCIZIA (= Russia asiatica): 181, 254-5,
e n. 260, 271n, 660, 662.
PERÙ <peruvian->: 181, 314, 560, 590, SFORZINDA: 164, 193n-4, 215, 271, 325,
678. 327, 331, 421, 441.
picco di Adamo = v. ADAM SICILIA <sicilian->: 19, 167, 332, 388n,
(PISA) <pisan->: 553, 571. 431, 688.
POLONIA: 153, 243-4. SILA: 437.
PONTO DELLA SCIZIA: 660. SINAI: 516.
PORTO DEL SOLE [a Ceylon]: 431. SION [monte]: 185.
PRAGA: 668. SIRACUSA <siracusan->: 95, 211n, 465-
PRATO: 199. 6, 639.
SIRIA: 233, 567.
QUITO: 231. SPAGNA <spagnol->: XII, XLVIIIn, 53,
109, 111, 135, 153, 157, 164, 168,
RIO DELLE AMAZZONI: 660. 171n, 173, 179n, 216, 231, 252,
271, 307, 323-4, 328, 338n, 371,
RIVA [di Castiglia]: 472.
383, 385, 388n, 412, 414 e n, 415,
RODI: 167-8, 208, 262.
420-1, 424, 430, 437-8, 472, 486n,
ROMA <roman->: XVIIIn, XXII, 23,
503-4, 506, 560, 603, 611-4 e n.,
25, 59, 61, 67, 109, 159, 163, 165,
618, 620, 633n, 644 e n, 647, 656-7,
170 e n, 176, 179, 186, 199, 211n,
660-6 (passim), 670, 674, 678, 686-
234, 238, 253-5, 258-9, 262-4, 270, 7, 690-703 e n (pass.).
273, 276n-7, 291, 293, 296, 312, SPARTA <spartan->: 188, 253-5, 259-60,
361-2, 373-4, 383, 401n, 416, 418-25 312, 338, 402, 403 e n, 424, 430.
(passim), 433 e n, 434, 466, 468, STILO: XVII, 167, 182-3, 412, 488, 617,
472n, 501-2, 507, 512, 514, 535, 633n, 688-9.
538n-9, 566, 582, 600, 610, 614, STIRIA: 249.
619, 630n, 641-5 e n, 647, 655, 657, SUMATRA: 3, 85, 172-7 e n, 468.
660-1, 666, 671, 685-8, 695, 698- SVEZIA: 145, 170, 441, 639n-40 e n,
700n, 702, 4n. 643, 687n, 699.
ROMAGNA: 273n. (SVIZZERA) <svizzer-; elvetic->: 184 e n,
270, 425, 476, 683.
SABA [città araba]: 79, 196. SYENE: 174.
SAGUNTO: 472.
SALAMANCA: 61, 69n. TANAI [fiume DON]: 660.
SALAMINA: 261, 429. TAPROBANA <taproban->: 3, 157, 161,
(SALERNO) <salernitan->: 327, 459, 163, 166, 172-8 e n, 180, 265n, 271,
461. 273, 302, 415, 430, 448, 468, 616.
SAMARCANDA: 270. TARANTASIA: 627.
SAMO: 115, 541-2. TARANTO <tarantin->: 472, 541.
SAN GIORGIO MORGETO: 454. TARTARIA <tartar->: 21, 73, 255, 270 e
756 LA CITTÀ DEL SOLE

n, 271, 418-9, 423 e n, 516, 618, URBANIA: 199 e n.


660, 679. UTOPIA [isola] <Utopian->: 161, 164,
TAURO [monte in SVIZZERA]: 683. 169, 173, 177-9, 182, 188, 271, 298,
TEBE: 188n. 310, 389, 398n, 415, 420, 437, 473,
TERRACINA: 23. 477, 501n, 538, 580n.
TEVERE: 689.
THAILANDIA: 85. VATICANO [monte]: 383n.
THARSIS [città]: 173n. (VENETO) <venet->: 234, 270.
THÉLÈME [abbazia]: 194, 216, 233, VENEZIA <venezian->: XXVn-VI,
329-30, 332, 390, 609. XXIXn, 53, 67, 167, 193n, 201,
THERMODOONTE [fiume della Scozia]:
203n, 230n, 233, 264, 296, 369,
660.
385n, 387, 392, 420n, 429, 468,
THULE [Ultima T., Islanda?]: 177.
602n, 650, 669, 678n, 680, 698.
TOLEDO: 163, 352, 510, 629.
(TORINO) <torines->: XXV e n. (VERONA) <verones->: 407n, 607n.
TOSCANA: 153, 165n, 234, 238, 273n, VIETNAM: 85.
703. VITERBO: 615n, 32n.
TRENTO: XXV,XXVI e n, 427, 554n, VITRY-LE-FRANÇOIS: 193.
649, 697.
TROIA <troian-; iliac->: 71, 233, 595. ZAIRE [lago]: 660.
TUNISI: 663. ZAMBESI: 151.
Zeilan = v. CEYLON
UNGHERIA: 153. ZIMBABUE: 151.
URANIBORG: 441. ZIMBABWE: 151.
BIBLIOGRAFIA*

Opere di C.

Afor. = Aforismi politici [redazioni italiane, 1601-7], a c. di L. Firpo, Torino, Giap-


pichelli, 1941 (p. 89-142)1
Aforismi = Afor. e/o Aphor. [Aforismi politici italiani e/o latini]
Antiven. = Antiveneti [1606], a c. di L. Firpo, Firenze, Olschki, 1945
Aphor. = Politica in aphorismos digesta [redazioni latine, 1614-37] (ibid., p. 143-
245)
Apol. ad lib. = Apologeticus ad libellum ‘De siderali fato vitando’ [1629], in: Amabile,
Castelli, II, p. 172-9; nuova ed. a c. di G. Ernst, in: ‘B&C’,2 III, 1997, 2 (p. 314-
31); poi raccolto e tradotto in TC (p. 687-703) e infine in OA (p. 136-73)
Apologeticum = Apologeticum. Resposta all’opposizioni del Bellarmino non sue, ma refe-
riteli d’altri... [1621], a c. e con intr. di G. Ernst, in: ‘Rivista di storia della fi-
losofia’, 3, 1992 (p. 565-86)
Apologia = Apologia pro Galileo, Francofurti, Tampachii, 1622 [rist. anast. con
trad. e c. di L. Firpo, Torino, Utet, 1968 (Strenna 1969); ed. a c. di S. Femia-
no, Milano, 1971; ed. a c. di G. Ditadi, trad. di A. Lotto, Este, Isonomia,
1992; ed. e tr. a c. di P. Ponzio, Milano, Rusconi, 1997]3

* La bibliografia citata ‘in extenso’ negli apparati essendo, di solito, solo citata e non consul-
tata, non è qui riportata.
Le cit. e abbreviaz. dei libri biblici seguono, di norma, quelle indicate nella Sacra Bibbia [cur.
vari], ed. Paoline, 1960.
Salvo diversa indicazione, tutte le collocaz. delle Cinquecentine e delle ed. Sei-Settecente-
sche sono della Biblioteca Nazionale Braidense di Milano.
1
Edizioni successive: Aphorismes politiques, trad. de P. Caye et C. Monet; avant-propos et notes
de P. Caye, Caen, Centre de philosophie politique et juridique, 1993; Aforismi politici, a c. di A.
Cesaro, Napoli, Guida, 1997.
2
‘B&C’ = ‘Bruniana & Campanelliana’.
3
L’indicazione bibl. nelle mie Note di commento si riferisce a capit. e pag. dell’ediz. origi-
758 LA CITTÀ DEL SOLE

Arbitrii = Arbitrii sopra l’aumento delle entrate del Regno di Napoli [1608]: v. Disp. in
prol. (p. 167-216)
Art. proph. = Articuli prophetales [1603-6], ed. crit. a c. di G. Ernst, Firenze, La
Nuova Italia, 1977
Astrol. = Astrologicorum libri VII in quibus Astrologia omni superstitione Arabum
et Iudaeorum eliminata physiologice tractatur, secundum S. Scripturas et
doctrinam S. Thomae, et Alberti et summorum Theologorum; ita ut absque
suspicione mala in ecclesia Dei multa cum utilitate legi possunt, Lugduni,
Prost, 1630 [C XII 9,016]4
Ateismo = Ateismo trionfato, overo riconoscimento filosofico della religione universale
contro l’anticristianesimo macchiavellesco [1607], cap. I e II, a c. di G. Ernst, in:
‘Rivista di storia della filosofia’, LII, 1997 (p. 618-27)5
Atheismus = Atheismus triumphatus, seu reductio ad religionem per Scientiarum veri-
tates, Parisiis, Tussanum Dubray, 1636 (‘Index’ 4 pp. n.n. + 1-252)6 [G IV 34]
Avvertimenti = Alla Serenissima Repubblica di Venezia. Avvertimenti intorno ai dogmi e
opinioni teologiche, in particolare De praedestinatione et reprobatione, in quan-
to importano alla politica [1636], in: G. Ernst, Ancora sugli ultimi scritti politici di
C. II. Gli Avvertimenti a Venezia del 1636, ‘B&C’, V/2 (1999, p. 447-65: 452-
65)
Barb. = Memoriale al Card. F. Barberini, in: R. De Mattei, Un memoriale di T.C. al
Card. Francesco Barberini, Accademia dei Lincei, Rendiconti morali, 1976, s.
VIII, v. XXXI, fasc. 7-12 (p. 403-12)

Civitas = Civitas solis, vel De Reipublicae idea, in: Phil. realis (p. 145-69 [=P.])
Città = La Città del Sole
CS = La Città del Sole o indifferentemente Civitas Solis;
se invece ci si riferisce a un’ediz. particolare, vi sono 3 casi:
_ con T., R., L. s’intendono i mss Trentino (T. seguito da numero pagina.rigo),
Riccardiano e Lucchese;
– tre principali edizioni moderne, i cui curatori sono Bobbio, Firpo, Amerio
(e se ci si riferisce a loro note testuali, i nomi dei curatori non sono seguiti
dal numero di pagina);
– altre ed. consultate di Città, sono le seguenti, a c. di:
Edmondo Solmi, Modena, Tipo-Lit. ‘Della Provincia’, 1904

naria; invece per la traduz. ci si rifà alle ediz. moderne, riviste alla luce della nuova ediz. e
trad. di M.-P. Lerner, Apologia pro Galileo / Apologie de Galilée, Paris, Les Belles Lettres, 2001.
4
La prima edizione lionese [1629], riporta in frontespizio Astrologicorum libri VI, ma, a stam-
pa già ultimata, arrivò da Roma l’opuscolo De siderali fato vitando, che fu aggiunto al volume
con numerazione separata, e che portò le successive edizioni – Lione e Francoforte – a ritoc-
care il titolo in Astrologicorum libri VII; il De fato è stato pubblicato con traduz. in TC (p. 655-
86) e in OA (p. 64-133); cfr Guerrini.
5
Non si è potuto tener conto del ritrovamento del ms della red. italiana: L’Ateismo trionfato,
vol. I, ed. del testo inedito, a c. di G. Ernst; vol. II: riprod. anast. del ms Barb. Lat., Pisa, Edi-
zioni della Normale, 2004.
6
Prima ediz.: Roma, Zannetti, 1631.
BIBLIOGRAFIA 759

Giuseppe Paladino, Napoli, Giannini, 1920


Corrado Alvaro, in: Le più belle pagine di T.C., Milano, Treves, 1935
Aldo Testa, in: Opere, Milano, Garzanti, 2 vol., 1941-51
Luigia Pirovano, Milano, Unione Tipografica, 1950 [=ed. Bobbio]
Rodolfo De Mattei, Roma, Colombo, 1953 [= ed. Firpo]
Alberto Agazzi, Siracusa, Ciranna, 1958 [=ed. Firpo]
Adriano Seroni, Milano, Feltrinelli, 1991 [1962I] [=ed. Amerio]
Bruno Widmar, Milano, BUR, 1963 [=ed. Firpo]
Franco Mollia, Milano, Mondadori, 1991 [= ed. Bobbio; con antologia di lette-
re e poesie]
D. Sala, Sommacampagna, Demetra, Acquarelli, 1993 [= ed. Bobbio; con para-
fr. in italiano moderno a fronte]
Massimo Baldini, Roma, TEN, 1995
Germana Ernst, Milano, BUR, 1996 [= ed. Firpo; con testo e trad. integrale di
Quaest. pol. IV]
L. Firpo, nuova ed. a c. di G. Ernst e L. Salvetti Firpo, postf. di N. Bobbio, Bari,
Laterza, 1997 [contiene anche l’apparato delle varianti dei 17 mss noti]
La Cité du Soleil, trad. et intr. par Alexandre Zévaès, Paris, Vrin, 1950
La Cité du Soleil, intr., éd. et notes par L. Firpo, trad. par A. Trepet, Genève,
Droz, 1972
The City of the Sun: A Poetical Dialogue, transl. with intr. and n. by D. J. Donno,
University of California Press, Berkeley-Los Angeles-London, 1981
La Cité du Soleil, in: La cité heureuse, par A. Ch. Fiorato, Quai Voltaire-Edima, Pa-
ris, 1992

ALTRE EDIZIONI/TRADUZIONI CONSULTATE DI Civitas:


Civitas Solis Poetica. Idea reipublicae philosophicae, Ultraiecti, Waesberge, 1643 [B
X 4,832: 1a edizione a sé stante di Civitas]
La città del Sole, trad. dal lat., Lugano, tip. G. Ruggia, 1836; ristampa [con l’ag-
giunta della trad. di Quaest. pol. IV]: Lugano, Tip. della Svizzera Italiana,
18507
La Città del Sole, in: Opere scelte, ordinate e annotate da A. D’Ancona, Torino,
Pomba, 1854, 2 vol.
Utopia, ovvero… La Città del Sole…La Storia del Reame degli orsi [di C. Gozzi]…
Questioni sull’ottima repubblica, a c. di S. E. Camerini (Teoli), Milano, Daelli,
1863
La Città del Sole, pref. di C.E.A., Milano, Sonzogno, 1932 [trad. dal latino, se-
guita dalle Questioni sull’ottima repubblica]
La cité du soleil, tr. latin de l’éd. de Paris, 1637, ét., tr. et comm. par R. Crahay,
ouvr. publ. sous la responsabilité de P. Jodogne, Académie Royale de Bel-
gique, Classe des Lettres, 1993

7
Traduz. anon., ma: G.B. Passerini, sul quale cfr L. Bulferetti, Socialismo risorgimentale, Torino,
1949 (p. 120-34).
760 LA CITTÀ DEL SOLE

La Città del Sole, introd. di L. Bolzoni, trad. a c. di C. Carena, Milano, Silvio Ber-
lusconi Ed., 1997

Comment. = Commentaria [alle poesie latine di Urbano VIII, I vol. (1627-8)], ed.
parz. in: Opere letterarie
Compendio = Compendio di filosofia della natura [1620 circa], a c. di G. Ernst e P.
Ponzio, Milano, Rusconi, 1999
Cons. aph. = Consultationes Aphoristicae [1635]: v. Opusc. ined. (p. 107-42)
Disc. Cometa = Discorso di Fra Tomaso Campanella sopra la cometa e trave apparsi di
novembre 1618 [1618], a c. di Ernst-Salvetti, ‘B&C’, II, 1/2, 1996 (p. 66-82)
Disc. Paesi B. = Discorso sui Paesi Bassi [1593-641]: v. Disc. Princ. (p. 65-88)
Disc. Princ. = Discorsi ai Principi d’Italia ed altri scritti filoispanici [1607], a c. di L.
Firpo, Torino, Chiantore, 1945 (p. 91-164)
Disc. univ. = Discorsi universali del Governo Ecclesiastico per far una gregge e un pasto-
re [1631], in: Opere (p. 1117-65)8
Discorso sul modo delle fortificazioni usate a’ nostri tempi [1592-3], a c. di L. Firpo,
‘Giornale critico della filosofia italiana’, XVIII, V-VI (sett.-dic. 1939, p. 477-
80)9
Disp. in Bullas = Disputatio contra murmurantes citra et ultra montes in Bullas S.S.
Pontificum Sixti V et Urb. VIII adversus Iudiciarios editas..., Parisiis, Tussanum
Dubray, 1636 (Append. di Atheismus, p. 255-73)10 [G IV 34]
Disp. in prol. = Disputatio in prologum instauratarum scientiarum, premessa a Phil.
realis (p. 9-38; e v. Gentilismo)
Doc. Gall. = Documenta ad Gallorum Nationem [1635]: v. Opusc. ined. (p. 55-105)
Epilogo = Epilogo magno [1595-1607], a c. di C. Ottaviano, Roma, R. Accademia
d’Italia, 1939
Gentilismo = De Gentilismo non retinendo [1609; 1a ed. Parigi, 1636; poi con ritoc-
chi: Instauratio magna scientiarum, Parigi, 1638], trad. di R. Amerio: Della ne-
cessità di una filosofia cristiana, Torino, SEI, 1953 (ediz. cui qui si fa riferimen-
to)
Gramm. = Grammaticalium libri tres, in SL (p. 434-713)
Hist. = Historiographia, in SL (p. 1221-55)
Lettere = Lettere [1591-1639], a c. di V. Spampanato, Bari, Laterza, 1927
Lettere1 = Lettere 1595-1638 non comprese nell’ediz. Spampanato, a c. di G.
Ernst, Pisa-Roma, Ist. Edit. e Poligr. Internaz., 2000
Ludovico = De Sancto Ludovico [dai Commentaria], a c. di C. Ferri, Roma, Bulzoni,
1990
Mathem. = Mathematica, a c. di A. Brissoni, Reggio Calabria, Gangemi, 1989

8
Tradotti col titolo De regno Dei chiudono la Phil. realis (p. 212-21) insieme al Pro conclavi ad-
monitio (p. 221-3).
9
Firpo 1947, concordando con De Mattei, propone “che esso venga espunto dalla bibliogra-
fia dello Stilese”; l’opera non è cit. nelle presenti Note di commento.
10
La Disputa sulle Bolle è anche tradotta in OA (p. 176-249).
BIBLIOGRAFIA 761

Medicina = Medicinalium juxta propria principia libri septem, Lugduni, ex officina I.


Pillehotte, sumptibus I. Caffin et F. Plaignard, 1635 [A I 111]
Mem. ined. = Due memoriali inediti [1636], testo e trad. a c. di L. Firpo, ‘Il pensie-
ro politico’, XIX, 2 (maggio-agosto 1986, p. 207-21)
Metaph. = Universalis Philosophiae, seu Metaphysicarum rerum, iuxta propria dogma-
ta, partes tres, Parisiis, 1638 [B XVII 6,149]; trad. e cura di G. Di Napoli, Bo-
logna, Zanichelli, 3 vol. [scelta antolog.] (ediz. cui di solito qui si fa riferi-
mento)
Metaph. [Ponzio] = Metafisica. Liber I,11 present. di A. Lamacchia; ed. e trad. a
c. di P. Ponzio, Bari, Levante, 1994
Mon. del Messia = La Monarchia del Messia [1606], a c. di V. Frajese, Roma, Ed. di
Storia e Letteratura, 1995
Mon. Fr. = Monarchia di Francia, in: Monarchie d’Espagne et Monarchie de France, éd.
et ann. par G. Ernst, trad. par N. Fabry et S. Waldbaum, Presses Universi-
taires de France, Paris, 1997
Mon. Messiae = Monarchia Messiae, Aesii, apud Gr. Arnazzinum, 1633 [UC BF-
1019]12
Mon. Sp. = Monarchia di Spagna, in: Mon. Fr. (p. 1-371)
Mon. Sp.1 = La Monarchia di Spagna. Prima stesura giovanile [1593-5], a c. G.
Ernst, Napoli, Ist. Ital. per gli St. Filosofici, 1989
Moralis = Morales Quaestiones e Ethica, in: Phil. realis (pp. 1-60 e 1-70)
OA = Opuscoli astrologici. Come evitare il fato astrale. Apologetico. Disputa sulle bolle,
Introd., trad. e n. a c. di G. Ernst, Milano, BUR, 2003
Oecon. = Oeconomica, in: Phil. realis (p. 189-211)
Opere = Opere di G. Bruno e T. C., a c. di A. Guzzo e R. Amerio, Milano-Napoli,
Ricciardi, 1956
Opere letterarie, a c. di L. Bolzoni, Torino, UTET, 1977
Opusc. ined. = Opuscoli inediti (Risposta alle censure dell’‘Ateismo triunfato’ [1631];
Documenta ad Gallorum nationem... [1635]; Consultationes aphoristicae geren-
dae... [1636]; Compendium veritatis catholicae et falsitatis sectariorum... de praede-
stinatione [1637]), a c. di L. Firpo, Firenze, Olschki, 1951
Papatus = De Papatus bono ad principes orationes [1636], in: G. Ernst, Ancora sugli
ultimi scritti politici di C. I. Gli inediti Discorsi ai principi in favore del papato,
‘B&C’, V/1 (1999, p. 131-53: 139-53)13
Phil. realis = Philosophia Realis, Parisiis, Houssaye, 1637 [B XVII 6,149]

11
Nel 2000 è apparso il liber XIV, a c. di T. Rinaldi (Bari, Levante).
12
Biblioteca dell’Università Cattolica. Rist. anast. di quest’op. rarissima, a c. di L. Firpo, Tori-
no, Bottega d’Erasmo, 1973; poi in ediz. latino-francese: Monarchie du Messie, notes et introd.
par P. Ponzio, trad. par V. Bourdette, P.U.F., Paris, 2002; annessa come cap. XVIII e ultimo
della Mon. Messiae la trad. del Discorso…, la cui originaria versione italiana è in: G. Ernst, Mo-
narchia di Cristo e Nuovo Mondo. Il ‘Discorso delle ragioni che ha il Re Cattolico sopra il nuovo emisfe-
ro’ di T. C., in: Studi politici in onore di L. Firpo, a c. di S. Rota Ghibaudi e F. Barcia, Milano, An-
geli, 1990 (vol. II, p. 22-31).
13
Il titolo latino è quello presente nell’Elenco degli opuscoli che avrebbero dovuto costitui-
re il X vol. dell’Opera omnia.
762 LA CITTÀ DEL SOLE

Phil. sens. = Philosophia sensibus demonstrata [Neapoli, 1591], a c. di Luigi De


Franco, Napoli, Vivarium, 1992 (La filosofia che i sensi ci additano, Napoli, Li-
breria Scient., 1974I)
Physiol. = Physiologia Epilogistica, in: Phil. realis (p. 1-124)
Poesie = Le Poesie, ed. completa, a c. di F. Giancotti, Torino, Einaudi, 1998 [Scelta
d’alcune Poesie filosofiche di Settimontano Squilla, s. l. (Köthen), 1622]14
Poët. = Poëticorum liber unus iuxta propria principia [1613], in: SL (p. 905-1219)
Poetica = Poetica (red. ital. [1596]), in: SL (p. 317-430)
Politica = De politica, ed., trad. a fronte e introd. a c. di A. Cesaro, Napoli, Guida,
2001 [1637, in: Phil. realis (p. 113-44)]
Politici = Politici e cortigiani contro filosofi e profeti [1627], a c. di G. Ernst (p. 104-
52)15
Quaest. Eth. = Quaestiones in Ethicam. De summo bono, in: Phil. realis (p. 2-60)
Quaest. oec. = Quaestiones Oeconomicae, in: Phil. realis (p. 170-88)
Quaest. phys. = Quaestiones Physiologicae, in: Phil. realis (p. 3-570)
Quaest. pol. III e IV = Quaestiones politicae, in: Phil. realis (pp. 72-99 e 100-112)
[QP III: trad. e note a c. di L. Firpo, C. contro Aristotele in difesa della Città, ‘Il
pensiero politico’, 1982, 2 (p. 379-89); i passi di QP IV sono citati di norma
dall’origin. e da me tradotti, ricontrollandoli sulla trad. di Ernst acclusa a
Città 1996]
Quod rem. = Quod reminiscentur et convertuntur ad Dominum universi fines terrae
(psal. XXI) [1615-8], ed. e tr. parz. in: Opere (p. 1293-341)
Quod rem. 3 = Per la conversione degli Ebrei (Quod reminiscentur, libro III [1615]), a
c. di R. Amerio, Firenze, Olschki, 1955
Quod rem. 4 = Legazioni ai Maomettani (Quod reminiscentur, libro IV [1615]), a c.
di R. Amerio, Firenze, Olschki, 1960
Rhet. = Rhetoricorum liber unus iuxta propria dogmata ([1612] Paris, 1638), in: SL
(p. 715-903)
Schoppe = A Gasparo Schioppio, filosofo e cavaliero dell’eterna Sapienza... [1607], a c.
di G. Ernst 1997b (p. 23-32)
Schoppius = Ad Casparum Schoppium; lettera-dedicatoria a K. S. datata ‘Kalendae
Iunii, 1607’, “in Caucaso” (in Lettere, p. 100-11), contenuta in: Acta litteraria
ex manuscriptis eruta atque collecta, fasc. II, cura Burcardi Gotthelffii Struvii, Ie-
nae, Ioannem Bielckium, 1705 [XC V 95]16
Scritti scelti di G. Bruno e T.C., a c. di L. Firpo, Torino, Utet, 1949 (Città: p. 405-
63)
Senso = Del senso delle cose e della magia [1604-17], a c. di A. Bruers, Bari, Laterza,
1925

14
Le poesie campan. sono citate di solito con il loro n° sequenziale.
15
Il titolo è curatoriale: è forse identificabile con il De technis aulicorum; ora in appendice a: G.
Ernst, Il carcere, il politico, il profeta, Pisa, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, 2002, p.
281-301.
16
La lettera occupa le pag. 47-91, cui Struvius aggiunge alcune pag. (92-6) per un confronto
tra il ms della ‘Bibliotheca Salana’, secondo lui autografo, dell’Atheismus e l’ed. Dubray
(1636).
BIBLIOGRAFIA 763

Sensu = De sensu rerum et magia libri 4… Tobias Adami recensuit, et nunc pri-
mum evulgavit, Francofurti, apud Egenolphum Emmelium, impensis Gode-
fridi Tampachij, 1620 [B.14.5696]; Parisiis, Apud Dionysium Bechet, 1637
[B.XIII.5557]17
SL = Tutte le opere di T. C. Scritti letterari, a c. di L. Firpo, Milano, Mondadori,
1954
Supplizio: v. Firpo 1985
Syntagma = De libris propriis et recta ratione studendi syntagma [Paris, 1642], a c. di
V. Spampanato, Bestetti e Tumminelli, Milano, 1927; in traduz.: Sintagma dei
propri libri e sul corretto modo di apprendere, in: TC (p. 381-407)
TC = Tommaso Campanella, testi a c. di G. Ernst, introd. di N. Badaloni, Roma,
Ist. Poligrafico e Zecca dello Stato, 1999
Theol. = Theologicorum libri XXX [1613-24], a c. di R. Amerio, Edizione naziona-
le dei classici del pensiero italiano, II serie (salvo Theologia I), Roma, 1949-18
Theol. I = Dio e la predestinazione, Firenze, Vallecchi, 1949-51, 2 vol.
Theol. II = De sancta Monotriade, 1958
Theol. III = Cosmologia, 1964
Theol. IV = De homine, 1960, 2 vol.
Theol. V = Le creature soprannaturali, 1970
Theol. VI = De conservatione et gubernatione rerum, ed. crit. con note e trad. ital. a
c. di M. Muccillo, 2000
Theol. VII = Della beatitudine, 1971
Theol. X = Delle virtù e dei vizi in particolare, 1976-84, 4 vol.
Theol. XI = De virtutibus supernaturalibus quibus ad beatitudinem homo regitur, a c.
di R. A. e O.M. Nobile Ventura, 1988 (insieme a Theol. XII)
Theol. XII = De donibus et fructibus Spiritus Sancti. De beatitudinis, 1988 (insieme a
Theol. XI)
Theol. XIV = Magia e Grazia [1616], 1957
Theol. XVI = Il peccato originale, 1960
Theol. XVII = De remediis malorum, 1975
Theol. XVIII= Cristologia, 1958, 2 vol.
Theol. XIX = Origine temporale di Cristo, 1972
Theol. XX = De ceremonialibus Iesu Christo observatis, testo crit. e note di M. Muc-
cillo, tr. di R. Amerio, 1993
Theol. XXIII= De dictis Christi, 1969
Theol. XXIV = I sacri segni, 6 vol., 1965-8
Theol. XXV = La profezia di Cristo, 1973
Theol. XXVI = De Antichristo, 1965
Theol. XXIX = [e XXX] Escatologia [1623], 1969
Titoli = De’ Titoli [1624], in: G. Ernst, Segni, virtù e onore nell’opuscolo De’ Titoli di

17
I rinvii a Sensu nelle Note di commento si limitano alle note di varianti presenti in Senso,
che è stato recentemente riedito a c. di F. W. Lupi, introd. di G. Abate, Soveria Mannelli, Rub-
bettino, 2003.
18
L’ediz. dei Theol., dopo la morte di R. Amerio, è affidata a M. Muccillo: v. Muccillo 1999.
764 LA CITTÀ DEL SOLE

T. C., ‘Filologia e critica’, XXV II-III, maggio-dicembre 2000 (p. 281-301: 288-
301)

Sigle di Opere di altri Autori


BS = Biblia Sacra cum Glossa ordinaria, con post. di N. De Lyra (o Lyranus), agg.
di P. Bourgensis, Lugduni, Regnauld [A Sisto V], 1590, 7 vol. [F XIII 12/1-7]
CD = Civitas Dei: v. Agostino
DBIt = Dizionario Biografico degli Italiani
DELI = Dizionario Etimologico della Lingua Italiana
GDLI = Grande Dizionario della Lingua Italiana, a c. di S. Battaglia & al., Tori-
no, Utet, 1961-2004
GDU = Grande Dizionario italiano dell’Uso, a c. di T. De Mauro, Torino, Utet, 2003
(CD-rom)
GLNT = Grande Lessico del Nuovo Testamento, ed. it. a c. di F. Montagnini & al.,
Brescia, Paideia, 1965-92, 16 vol. (Theologisches Woerterbuch zum Neuen Testa-
ment, hsg G. Kittel e G. Friedrich, Stuttgart, 1933I)
IBB = Index bio-bibliographicus notorum hominum, ed. J.-P. Lobies, Biblico Verlag,
Osnabrück, 1976-
OOCC = Thomae de Vio Caietani, Opera omnia, Lugduni, Sumpt. I. & P. Prost,
1639, 3 t. [F XIII 18/1-3]
Piana = Thomae Aquinatis D.A., Opera omnia, Romae, [editori:] I. Accoltum,
heredes A. Bladii, I. Osmarinum Liliotum, 1570-1, 15 vol. [F XI 76/1-15]19
PG = Patrologia graeca, a c. di Migne
PL = Patrologia latina, a c. di Migne
SCG = Tommaso d’Aquino, Somma contro i Gentili, a c. di T.S. Centi, Torino,
UTET, 197520
SD = Speculum Doctrinale (v. SQ, t. II)
SH = Speculum Historiale (v. SQ, t. IV)
SM = Speculum Morale (v. SQ, t. III)
SN = Speculum Naturale (v. SQ, t. I)
SQ = Vincentii Burgundi ex O.P. venerabilis episc. Bellovacensis [Vincent de
Beauvais], Speculum quadruplex [o Maius]..., Op. et st. Theol. Benedictino-
rum collegii Vedastini, Duaci, Balt. Belleri, 1624, 4 vol. [XB 12 22-5]21
ST = Tommaso d’Aquino, La Somma Teologica, trad. e comm. a c. dei Domenica-
ni d’Italia su testo lat. dell’ed. Leonina, Firenze, Salani, 1971
THOM = Thomae Aquinatis, Opera omnia, cur. R. Busa S.J., Frommann-Holz-
boog, Stuttgart (Milano, 1974-1980), 7 vol.

19
Quest’ediz. è chiamata ‘Piana’, perché fu patrocinata da Pio V, ex frate domenicano.
20
SCG è preceduta dal n° del Libro e seguita dal n° del capit.; ad es. 3SCG, 69 significa: Libro
III, cap. 69.
21
Ci si limita a indicare, dopo la sigla specifica dello Speculum in causa, solo libro e capitolo
in numeri romani.
BIBLIOGRAFIA 765

Opere consultate di altri autori

AAVV 1965 = Le Soleil à la Renaissance. Sciences et mythes, Paris-Bruxelles, PUF e


PUB
AAVV 1969 = T.C. (1568-1639), Napoli, Fiorentino
Accattatis = L. A., Le biografie degli uomini illustri delle Calabrie, Cosenza, Tip. Mu-
nicipale, 1869-77, 4 vol.
Accetto = Torquato A., Della dissimulazione onesta, a c. di S.S. Nigro, Torino, Ei-
naudi, 1997
Accietto-Gualtieri = M. G. A.-G., La conservazione come concetto metafisico-teologico
nel pensiero di T. C., ‘B&C’ VI/1 (2000, p. 9-33)
Acosta = J. de A., Epistolarum liber I, in: Rerum a Societate Iesu in Oriente gestarum
volumen, Neapoli, apud H. Salvianum, 1573 [OO V 32]
Agazzi: v. Città 1958
Agostini = Ludovico A., Struttura e spiriti della Repubblica immaginaria, dai Dialo-
ghi [1575-80], in: Curcio 1944 (p. 119-72)
Agostini, Rep. = L. A., La republica immaginaria [IV parte de L’infinito, 1585-90],
in: Curcio 1941 (p. 143-207)
Agostino = Augustinus Aurelius, Opera omnia, in: PL, vol. XXXII-XLVII22
Agostino, CD = A. A., La Città di Dio, tr. e c. di C. Carena, Torino, Einaudi-Galli-
mard, 199223
Agostino [Gentili] = A. A., La Città di Dio, a c. di D. Gentili, Roma, Città Nuova,
1965-6, 3 vol.
Agricola = G. A., De re metallica Libri XII, quibus officia, instrumenta, machinae, ac
omnia…, Froben, Basileae, 1556
Agrimi = J. A., Fisiognomica: nature allo specchio ovvero luce e ombre, ‘Micrologus’,
Brepols, IV, 1996 (p. 129-78)
Agrippa = H. C. A. von Nettesheim, Della vanità delle scienze, trad. per Lodovico
Domenichi, Venetia [Giovanni Farri & frat.?], 1552 (1547I)
Albergati = F. A., La republica regia del Signor A…, Bologna, Vittorio Benacci,
1627
Alberti [Bartoli] = Leon Battista A., L’Architettura, trad. in lingua fiorentina da
Cosimo Bartoli, Firenze, Torrentino, 1550 [C XVII 9.569]
Alberti = L.B. A., L’Architettura [De re aedificatoria], testo e trad. di G. Orlandi, in-
tr. e note di P. Portoghesi, Milano, Il Polifilo, 196624
Alberto Magno = Alberti Magni, Opera omnia, cur. Institutum A. Magni

22
Per le opere ripubblicate, le traduz. ital. sono tratte da: Opere di Sant’Agostino, ediz. lat.-ital.,
a c. della Cattedra Agostiniana, dir. A. Trapé, Roma, Città Nuova, 1965-. L’ed. ‘canonica’ plu-
riedita nel ‘500 è quella erasmiana (Basilea, Frobenius, 1506, 10 vol.); tuttavia è probabile
che C. avesse sottomano altre ediz., perché Erasmo scopre l’apocrificità del Liber de fide ad Pe-
trum, che è una fonte della teoria del male derivato dal nulla.
23
Nelle mie cit. da quest’opera, il primo n° indica il libro, il secondo il capitolo, il terzo,
quando occorre, la pagina.
24
Editio princeps: Firenze, 1485; segnalate 8 ediz. nel XVI sec. (Portoghesi, p. XLVIII).
766 LA CITTÀ DEL SOLE

Coloniense, ed. P. Hossfeld, Monasterii Westfalorum, in aedibus Aschen-


dorff, 23 vol., 1952
Albertus, De animal. = Albertus Magnus, De animalibus libri XXVI, hrsg. von H.
Stadler und C. Baeumker, 2 vol., Münster, Aschendorff, 1916-20 (Venetiis,
Scotus, 1519 [AB XIV 30])
Albertus [pseudo-] = De secretis mulierum, seu de secretis secretorum, Lugduni, Mar-
corellius, 1571 [B VII 4,318]25
Aldrovandi = Ulisse A., De piscibus libri V…, Bononiae, Bellagamba, 1613 [D
XVIII 11.123/7]
Aldrovandi, Monstrorum = U. A., Monstrorum Historia cum Paralipomenis Historiae
omnium animalium. Bartholomaeus Ambrosinus… labore et studio volumen
composuit, Marcus Antonius Bernia in lucem edidit, Bononiae, typis Nicolai
Tebaldini, 1642 [D XVI 11.049/11]26
Alessandro d’Afrodisia, Problemata: v. Zimara
Alfragano = Al-Farghani, Liber de aggregationibus scientiae stellarum, a c. di R.
Campani, Città di Castello, 1910 [esistono almeno tre ed. di fine XV-XVI
sec.]
Alunni = Charles A., Codex Naturae et Libro della Natura chez C. et Galilée,
‘Ann. della Sc. Normale Sup. di Pisa – Classe di Lettere’, III, 12 (aprile 1982,
p. 189-239)
Amabile, Congiura = Luigi A., Fra T.C., la sua congiura, i suoi processi e la sua paz-
zia, Napoli, Morano, 1882, 3 vol.
Amabile, Castelli = L. A., Fra T.C. ne’ castelli di Napoli, in Roma ed in Parigi, Napo-
li, Morano, 1887, 2 vol.27
Ambrogio = Sancti Ambrosii, Opera. Exameron/Opere esegetiche I. I sei giorni della
creazione, rec. C. Schenkl, a c. di G. Benterle, Roma, Città Nuova, 1979
Ambrogio [pseudo-] = Giulio Valerio Polemo, De moribus Brachmanorum, in: PL,
t. 17, colonne 1131-4628
Amerio: v. C., Città, in: Opere
Amerio 1935 = Romano A., Il sistema delle scienze e la economicità delle matematiche
nella filosofia di T. C., ‘Rivista di filos. neo-scolastica’, XXVII suppl. (luglio
1935, p. 99-105)
Amerio 1939 = R.A., Il problema esegetico fondamentale della filosofia campanelliana
nel terzo centenario del filosofo, ‘Rivista di filos. neo-scolastica’, XXXI (lug.-set.
1939, p. 368-87)
Amerio 1942 = R.A., Galilei e C.: la tentazione del pensiero nella filosofia della riforma
cattolica, in: Nel terzo centenario della morte di Galilei, Milano, Vita e Pensiero (p.
299-326)

25
Altra ed. consultata: De secretis mulierum, item De virtutibus herbarum, lapidum et animalium,
Amstelodami, apud Henricum et Theod. Boom, 1669 [25 14 C 24].
26
Rist. anast. con prefaz. di J. Céard, Torino-Parigi, Aragno-Les Belles Lettres, 2002.
27
Entrambe ristampate anastaticam. con pref. di N. Badaloni e introd. di T. Tornitore, Tori-
no-Parigi, Aragno-Les Belles Lettres, 2006, vol. 3+2+Indice.
28
Inclusa però come opera di S. Ambrogio in: Ambrosius, Opera, cura Felicis Card. de Mon-
talto, postea Sixti V, Romae, Baja, 1580, 2 t.
BIBLIOGRAFIA 767

Amerio 1947 = R.A., T. C., Brescia, La Scuola


Amerio 1953 = R.A., Un’altra confessione dell’incredulità giovanile del C., ‘Rivista di
filos. neo-scolastica’, XLV (gen.-feb. 1953, p. 75-7)
Amerio 1955 = R.A., ‘Premessa’ a Qu3 (p. 5-10)
Amerio 1960 = R.A., ‘Introduzione’ a Qu4 (p. 5-9)
Amerio 1966 = R.A., L’enciclopedia delle scienze nel pensiero di T.C., ‘Filosofia’, XVII
II, apr. 1966 (p. 157-80)
Amerio 1969 = R.A., La teologia campanelliana della grazia dagli scritti giovanili al-
l’ultima polemica parisiense, in: ‘Atti del Convegno C. e Vico’, Accademia Na-
zionale dei Lincei, anno CCCLXVI, quad. 126 (p. 161-79)
Amerio 1972 = R. A., Il sistema teologico di T.C., Milano-Napoli, Ricciardi
Andreä = V. A., Descrizione della Repubblica di Cristianopoli [1619] e altri scritti, a
c. di Luigi De Mas, Napoli, Guida, 1983
Andreotti = D. A., Storia dei Cosentini, Napoli, Marchese, 1869, 3 vol. [rist. anast.:
Cosenza, Brenner, 1987]
Anfossi = Anna A., La città indiana, in: Modelli di città, a c. di P. Rossi, Torino, Ei-
naudi, 1987
Angelini = M. A., La strana immaginazione degli animali, ‘Abstracta’, V, 49, giu-
gno 1990 (p. 64-9)
Angelini 1994 = M.A., Il potere plastico dell’immaginazione nelle gestanti tra XVI e
XVIII secolo. La fortuna di un’idea, ‘Intersezioni’ XIV,1 (p. 53-69)
Anghiera: v. Petri Martyris ab A.
Angiuli = V. A., Ragione moderna e verità del cristianesimo. L’Atheismus triumpha-
tus di T. C., Bari, Levante, 2000
Annio: v. Beroso (nota 32)
Annius = Johannes Viterbensis [ovvero: Giovanni Nanni], De futuris Christiano-
rum triumphis in Turchos et Saracenos, Genuae, Bapt. Cavallus Carmel., 1480
[AO XVI 26]
Anzaldi = A. A. e L. Bazzoli, Dizionario di astrologia, Milano, BUR, 1988
Arato F. = Franco A., ‘Genoa, del mondo donna’. Intorno a un sonetto di T.C., in:
Omaggio a Franco Croce, Roma, Bulzoni, 1997 (p. 149-62)
Archimede = A., L’arenaria [=Psammites], texte ét. et tr. par Ch. Mugler, Paris,
Les Belles Lettres, vol. II, 1971
Aristarco = Aristarchus, De magnitudinibus et distantiis Solis et Lunae, cum Pappi
Alexandrini explic. quib., a Federico Commandino urbinate in lat. conv. a
comm. illustratus, Pisauri, apud Camillum Francischinum, 1572 (38 carte)
[C XI 8 855]
Aristotele = Opere, a c. di G. Giannantoni, Bari, Laterza, 1973, 11 vol.29
Aristotele, Hist. Anim. = Histoire des animaux, texte ét. et tr. par P. Louis, Paris,
Les Belles Lettres, 1962, 2 vol.

29
Altra ed. utilizzata, specie per le opere non comprese nell’ed. di Giannantoni: Aristote-
les, Opera omnia graece et latine..., cur. F. Dübner..., Paris, Firmin-Didot, 1848-1874, 5 vol.+ 1
Indici.
768 LA CITTÀ DEL SOLE

Aristotele, Probl. = Problemi di medicina, a c. di G. Marenghi, Milano, Istituto edit.


italiano, (s.d., ma 1965)30
Armani = A. A., Città di Dio e Città del Sole. Lo stato gesuita dei Guarani (1609-
1768), Roma, Studium, 1977
Asclepius = Corpus Hermeticum, par A. D. Nock et A.-J. Festugière, Paris, Les
Belles Lettres, 1945, t. II
Asor Rosa = Alberto A.A., La cultura della Controriforma, Bari, Laterza, 1979
Assunto = Rosario A., La città di Anfione e la città di Prometeo, Milano, Jaca Book,
1984
Auboyer = J. A., Voyage dans l’Inde Moghole, ‘L’histoire’, 1982-6 (Viaggio nell’India
mogol, in: I viaggi della storia, Bari, Dedalo, 1988)
Averlino = Antonio A. detto il Filarete, Trattato di Architettura, a c. di Anna Ma-
ria Finoli e Liliana Grassi, Milano, Il Polifilo, 1972, 2 vol.
Averroè = A., Il trattato decisivo sull’accordo della religione con la filosofia, a c. di M.
Campanini, Milano, Rizzoli, 1994
Avicenna = Avicenna Latinus [Ibn Sina], Liber de anima, éd. crit. de la trad. lat.
médiév. par S. van Riet, intr. de G. Verbeke, Louvain-Leiden, Peeters-Brill,
1968-72, 2 vol.
Avicenna, Canon = Avicennae Liber Canonis, de medicinis cordialibus et Cantica, a
Gerardo Carmonensi ex arabico sermone in latinum conversa, postea ab An-
drea Albago Bellunensi... correctis..., Index... Iulio Palamede Adriensi Medi-
co auctore, Venetiis, apud Iuntas, 1555, 3 vol. [A XVII 2733 1/3]

‘B&C’ = ‘Bruniana & Campanelliana’


Bacone = Francesco B. da Verulamio, La Nuova Atlantide e altri scritti, a c. di P.
Rossi, Milano, U.E.-Coop. del Libro Popolare, 1954 (London, 1627I)
Badaloni = Nicola B., I fratelli Della Porta e la cultura magica e astrologica a Napoli
nel ’500, ‘Studi storici’, I, 1959-60 (p. 677-711)
Badaloni: v. C., TC
Badaloni 1965 = N.B., T.C., Milano, Feltrinelli
Badaloni 1969 = N.B., La questione della ‘imaginatio’ nella Metafisica di C., in:
AAVV 1969 (p. 1-24)
Baldini = Artemio Enzo B., L. Firpo e C.: Cinquant’anni di ricerche e di pubblicazio-
ni, ‘B&C’ II (1996, p. 325-58)
Baldini 1992 = Botero e la Ragion di Stato, Atti del Convegno in mem. di L. Firpo,
a c. di A.E. Baldini, Firenze, Olschki
Baldini M.: v. C., Città, 1995
Baldini-Spruit = Ugo B. e Leen S., C. tra il processo romano e la congiura di Cala-
bria. A proposito di due lettere inedite a Santori, ‘B&C’ VII/1 (2001, p. 179-88)
Balzelli: v. Diodoro

30
Ediz. coeva consultata: Problemata Aristotelis..., cum dupl. transl. Th. Gaze, cum expos. Petri
Aponi [= Pietro d’Abano]..., Venetiis, ap. Bonetum Locatellum, 1501 [AB XIV 18]; la sua au-
tenticità era messa in dubbio nel Cinquecento (Persio 1593, 45v: “Aristotele ne rendesse an-
che la ragione ne suoi problemi, se pur esso ne fu l’Autore”). Ediz. recente consultata: Pro-
blèmes, texte ét. et tr. par P. Louis, Paris, Les Belles Lettres, 1991-4, 3 vol.
BIBLIOGRAFIA 769

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brei, come Greci, et Latini, che trattano delle stesse materie, tradotte, di-
chiarate, et con diverse utili e necessarie annotationi illustrate, da M. Fran-
cesco Sansovino, Vinegia, Altobello Salicato, 1583 [Dis. C 393]32
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Città ideale nella tradizione classica e biblico-cristiana, a c. di R. Uglione, Torino,
Regione Piemonte (Atti del Convegno, 2-4 maggio 1985)
Berti: v. Trattato

31
Nel 1549 “io non volsi essere avaro, ricordandomi che nella penna e stile di questo dottis-
simo Giovio le mie fatiche rimanevano in edificio di perpetua memoria”, non essendo lui
portato per la scrittura, e quindi gli dettò le sue memorie, e nel 1552-63 apparvero le Décadas
de Asia (Barros, I, 170v).
32
Altre ediz. consultate: In fragmentum Berosi Babylonii, sacerdotis Beli ex Libro III rerum Chal-
daicarum (in append. a: Scaligero, Opus); Berosi Babylonii Antiquitatum Libri V, in: Fragmenta
vetustissimorum auctorum, Basileae, Io. Deb., 1530 [8.18.E 14]; I 5 libri di Antichità di Beroso
con lo commento di Gio. Annio [sic] di Viterbo, con l’aggiunta di altri autori…, Venezia, Co-
stantini, 1550 [AA VII 15].
770 LA CITTÀ DEL SOLE

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cibus extrahendi liber, Tiguri, apud Andream Gessnerum, 1559 [B VIII 4,443]
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Bianchi M. L.: v. Paracelso
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ed. a c. di G. Ernst e L. Salvetti Firpo, Bari, Laterza (p. 105-9)
Bobbio1 = N.B., ‘Nota critica per il testo della Città del Sole’, bozza dattil.33
Bodin = Joannis [Jean] Bodini, Methodus ad facilem historiarum cognitionem, ac-
cur. denuo recusus, Lugduni, apud. I. Mareschallum, 1583 [AA VII 8: copia
expurgata a mano]
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Boll = F. B., C. Bezold, W. Gündel, Storia dell’astrologia, Roma-Bari, Laterza, 1985
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1969 (p. 27-58)
Bosio = G. B., Dell’istoria della sacra religione et ill.ma militia di S. Gio. Gierosolimita-

33
Il compianto prof. N. Bobbio mi aveva permesso di consultare il dattiloscritto della prefa-
zione che avrebbe dovuto accompagnare la nuova ed. einaudiana della Città del sole, edizione
che non vide più la luce perché nel frattempo Firpo aveva pubblicato la nuova edizione criti-
ca, in cui aveva tenuto conto del ms T., che era noto anche a Bobbio.
BIBLIOGRAFIA 771

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Quarto et ultimo libro de philosophici Dialogi; tra essi: Dialogo della republica
(1526I; rist.: Napoli, 1983)] [25 15 O 1]
Bruers: v. C., Senso
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poli, Cacchij, 1572] in: Curcio 1944 (p. 177-194)
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Busa 1984 = R.B., De voce spiritus in operibus S. Thomae Aquinatis, in: Spiritus (p.
191-222)

34
La prima ed. apparve a Roma, dall’ed. Giorgio Ferrari nel 1591, mentre la prima ed. com-
pleta a Bergamo nel 1596; numerose ristampe.
35
La dedica e il ‘publicetur’ è del 1611; ma da Firpo 1945, ‘Introd.’, si sa che è del 1607.
36
È questo l’Autore menzionato da C. in Poëtica, non il successivo, come riteneva Firpo 1954;
della sua opera esiste anche un’ed. aldina del 1585: Disciplina & vera arte militare del Brancatio
libri VIII, ne’ quali… secondo i precetti di Cesare… si dimostra con quanta facilità… possa
ogni Principe difendersi [AO.XVIa.26].
37
Altra ed. consultata: Giordano Bruno e T. C., Scritti scelti, a c. di L. Firpo, Torino, UTET; per
la Cabala…si è consultato anche: La Cabale du cheval pegaseen, VI vol. Oeuvres Complètes, Paris,
Les Belles Lettres, 1994.
772 LA CITTÀ DEL SOLE

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dano Bruno, con una nota di M. Ciliberto, Napoli, Liguori
Camillo = Giulio C., L’idea del theatro, a c. di L. Bolzoni, Palermo, Sellerio, 1991
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Cantamessa = Leandro C., Astrologia. Le opere a stampa (1472-1900), Firenze, Ol-
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Cantimori 1975 = Umanesimo e religione nel Rinascimento, Torino, Einaudi
Cappelli: v. Libro [Il]…
Cardano = Gerolamo C., De la subtilité et subtiles inventions..., trad. du latin en fr.
par R. Le Blanc..., Rouen, La Veuve du Bosc, 1642
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38
Altra ed. consultata: De senectute, De amicitia, De divinatione, by W.A. Falconer, The Loeb
Classical Library, London-Cambridge, 1952.
39
Il testo è stato raffrontato con: De legibus, texte ét. et tr. par G. De Plinval, Paris, Les Belles
Lettres, 1959.
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tianisme’, ed. par J. Marx (n° 15, p. 103-31)

40
Il testo è stato raffrontato con: De republica, libri sex quae manserunt, rec. K. Ziegler, Lipsiae
Teubner, 1955. C. non poté conoscere direttamente quest’opera, ma solo attraverso la me-
diazione di Agostino, CD (Firpo 1945, p. 230).
774 LA CITTÀ DEL SOLE

Crisostomo = Divi Ioannis Chrysostomi, Opera, excud. Erasmus da Rotterdam,


Basileae, Frobenius, 1547, 5 vol. [F XII 55]41
Crisostomus = G. C., Sermone, in: Simolachri, historie e figure de la morte, Lyone, ap-
presso Giovan Frellone, 1549 [25.13.G.37; pp. non num.]
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Croce 1951 = B. C., Sulla storiografia socialista. Il comunismo di T. C., in: Materiali-
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Crucé = Eméric C., Il nuovo Cinea, a c. di A. M. Lazzarino Del Grosso, Napoli,
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Curcio 1941 = Utopisti e riformatori sociali del Cinquecento, a c. di C. C., Bologna,
Zanichelli
Curcio 1944 = Utopisti italiani del Cinquecento, a c. di C. C., Roma, Colombo

Da (o De, o Di) Gaeta = Gaeta


Damasceno = Ioanni Damasceni, Opera… per D. Iacobum Billium [J. De Billy],
Parisiis, Chaudière, 1577 [F XVI 60]42
D’Ancona: v. C., Città 1854
D’Ancona = Alessandro D’A. (a c.), Il libro dei Sette Savj di Roma, Pisa, Nistri,
1864
De Billy: v. Damasceno
De Franco: v. C., Phil. sens.
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ma, Beni culturali, 1992
Della Porta, Magia = Giovan Battista D. P., De i miracoli et meravigliosi effetti dalla
natura prodotti, libri IIII nuovam. trad. di lat. in lingua volg., Venetia, Lud.
Avanzi, 1560 (Magiae naturalis, 1558I) [BC F VET 367]
Della Porta, Fisonomia = Della fisonomia dell’uomo, a c. di M. Cicognani, Milano,
Longanesi, 1971 (De humana Physiognomonia, Vico Equense, 1586)
Della Porta, Phytogn. = Phytognomonica, octo libris contenta..., Neapoli, Hora-
tium Salvianum, 1588 [A XIV 2,506]
Della Porta, Celeste = Della celeste Fisonomia, libri sei..., Padova, P.P. Tozzi, 1627
(1623I, come si ricava dalla dedica) [B XIV 5786]

41
Nelle mie cit. il n° romano indica il tomo, l’arabo la colonna; Theol. I (I, p. 353): “tutti i li-
bri suoi, che io ho tutti studiati”.
42
Ed. utilizzata da C., secondo Firpo 1945 (p. 131n); la Vita SS. Barlaam et Iosaphat, è stata
controllata anche in: PL 73, 440sg e PG, 857-1240; la Vita è menzionata in Antiveneti, p. 131.
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Ephrem: v. Efrem

43
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44
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45
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collegit”.
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46
Le traduz. e note riportate nelle Note di Comm. s’intendono sempre opera di Firpo; inte-
grato dal saggio del 1939 e dall’articolo del 1950 (La proibizione delle opere di C.), si trova ora
in: I processi di T. C., a c. di E. Canone, Roma, Salerno, 1998.
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47
Nelle citaz. il numero romano indica il tomo; Ottaviano (p. 361n) ipotizza che l’ed. usata
da C. sia stata: Omnia quae extant Opera, Venetiis, apud Iuntas, 1576.
782 LA CITTÀ DEL SOLE

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Garin 1984: v. Spiritus (‘Relazione introduttiva’)
Garin 1986: v. Bolzoni
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Gesner, Secretis = K.G., De secretis remediis liber aut potius thesaurus, Evonymo Gesne-
ro Philiatro authore… Accedi iam recens Iacobi Bessoni Galli De absoluta ratio-
ne olea et aquas e medicamentis simplicibus extrahendi liber, Tiguri, apud A. Ges-
snerum F., 1554 [B VIII 4,443]
Giamblico, Misteri = Giamblico, I misteri egiziani. Abammone, Lettera a Porfirio, a c.
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Lugduni, Tornaesium, 1570 [DIS E 10]49
Giamblico, Misteri [Scutellius] = Iamblichus, De mysteriis Aegyptiorum, int. Nico-
lao Scutellio, Romae, A. Bladi, 1556 [B XIX 6,442]

48
Sodano attribuisce quest’opera non a Giamblico, ma alla sua scuola, e ritiene il sacerdote
egizio Abammone il suo vero ispiratore; nella bibl. menziona l’ed. ficiniana lionese del 1552,
e in Introd. (p. 8) l’ed. manuziana del 1497; le citaz. in ital. di Giamblico, sui misteri degli
Egizi, dei Caldei, degli Assiri derivano da questa edizione.
49
È probabilmente una ristampa dell’ed. di Aldo Manuzio del 1497, accresciuta anche di al-
tri testi misteriosofici: Proclo, Mercurio Trismegisto etc.; essa è stata tradotta in italiano da A.
Boffino: I misteri... secondo la versione latina di M. Ficino, Milano, Sebastiani, [s.d. ma 1946],
“in molti luoghi emendata e confrontata con quella di Tournes, Lione, 1552”.
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50
Annota il compilatore del catalogo antico della Braidense: “Arcerii [Theodoreto] versio
male habetur a criticis”; pertanto, per la traduz., ho confrontato l’ed.: Iamblichus, Vita Pita-
gorica, a c. di L. Montoneri, Bari, Laterza, 1973.
51
Escluderei che sia fonte di CS, perché pur non credendo a Preteianni (XVIII, p. 303sg),
non accenna a nessun Monopotapa; e inoltre perché in Hist. (p. 1233), raccogliendo una dif-
fusa calunnia, C. lo giudica un bugiardo adulatore: “Scelleratamente il Giovio, spesso adula-
tore, osò scrivere che lo storico non deve aver paura di mentire, poiché di qui a cento anni le
menzogne non si conosceranno”.
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gna, tr. e n. di G. Pellegrini, Milano, Mimesis, 1991).
53
La maggior parte delle citaz. sono tratte dall’Arte della guerra [1521] (I, p. 445-631).
54
L’autore è in realtà Jehan de Bourgogne morto nel 1373; altra ediz. consultata: I Viaggi di
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apocrifa. Dopo aver letto il De natura, C. dice che “aveva in animo di scrivere una filosofia pi-
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60
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pendice è pubblicata l’anastatica di Persio 1593.
61
“Scholam Salernitanam, quae medicinam carmine tradit” (C., Poëtica IV II).
62
Recentemente è stata pubblicata una nuova edizione: Picatrix. Un traité de magie médieval,
trad., intr. et n. par B. Bakhouche, F. Fauquier, B. Pérez-Jean, Turnhout, Brepols, 2003. È
un’opera di magia astrale anteriore all’anno Mille, fatta tradurre da Alfonso X, attribuita er-
roneamente a Ermete Trismegisto, ma che invece fu influenzata dal Corpus Hermeticum, tanto
che Ficino l’antepose alla traduzione delle opere platoniche, ritenendo l’autore addirittura
contemporaneo di Mosè. In essa si suggeriscono i modi di messa in corrispondenza con il
mondo superiore, veicolando gli influssi stellari per operazioni magiche, nonché come pro-
curarsi dei talismani. Circolò in forma manoscritta nel Rinascimento, e in partic. nel XVI sec.
63
Un passo di quest’op. è cit. da C. in Medicina (p. 111), probabilmente tratto dall’ed. del-
l’Opera del 1601.
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65
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66
Altra ed. consultata: Dialogi de prodigiis, Basileae, 1552.
67
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72
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73
Il capit. ‘C. e la magia’ (da me consultato) in: Vasoli (p. 239-67); cfr la recente trad. it.: To-
rino, Nino Aragno ed., 2002.
74
Questo fisiologo peripatetico è inserito in un lungo elenco di filosofi italiani, che va dal-
800 LA CITTÀ DEL SOLE

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([1625], p. 41-75)
Zuccolo, Città felice = L.Z., Il Belluzzi o vero della Città Felice, in: Zuccolo (p. 77-91)
Zuccolo, Aromatario = L.Z., L’Aromatario o vero della Republica d’Utopia, in: Zucco-
lo (p. 95-118)
Zuccolo, Guardino = L.Z., Il Guardino overo della eminenza della pastorale, in: Dialo-
ghi, Venezia, Ginammi, 1625

l’Aquinate a Bruno e C., con cui Naudé (De Augustino Nipho Iudicium, Parisiis, 1645) voleva
dimostrare che l’Italia era più versata della Francia in filosofia; C. lo considerava un epigono
di Averroé e di Alessandro di Afrodisia (Disp. in prol.).
INDICE DELLE ILLUSTRAZIONI

Fig. 1 XXVII
Fig. 2 XXVIII
Fig. 3 LI
Fig. 4 LII
Fig. 5 227
Fig. 6 228
Fig. 7 244
Fig. 8 246
Fig. 9 246
Fig. 10 529
Fig. 11 530
INDICE

Nota editoriale VII


Abbreviazioni IX
Introduzione XI
Nota al testo italiano XXV
Nota al testo latino XLI

La Città del Sole. Civitas Solis 1

Commento al testo 163

Nomi presenti nel testo 705


Nomi di persona presenti negli apparati 709
Nomi di luogo presenti negli apparati 751
Bibliografia 757
Indice delle illustrazioni 801

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