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I N D I C E

Prefazione - Giorgia Meloni 7


Introduzione - Adolfo Urso 16

Prima parte
IL SENTIMENTO DEGLI ITALIANI. SONDAGGIO 23
Arnaldo Ferrari Nasi 24
Giuseppe Cecere 38

Seconda parte
UNA MINACCIA PER L’EUROPA. ANALISI 51
Francesco Alberoni 52
Alessandro Meluzzi 55
Mario Ciampi 63
Renato Cristin 69
Giulio Terzi di Sant’Agata 77
Isabella Rauti 92

Terza parte
LE LINEE DELLA FRONTIERA. CASI DI STUDIO 101
Camilla Trombetti 102
Andrea Delmastro Delle Vedove 122
Guerino Nuccio Bovalino 128
Centro Alti Studi “Averroè” 138
Souad Sbai 151
Dario Caselli 164
Gianluigi Cesta 170
Si ringrazia
l’Ufficio Studi di Fratelli d’Italia – Senato
guidato da Giovanbattista Fazzolari
per la preziosa collaborazione
nella realizzazione del rapporto.
P R EFAZI O N E

LA NOSTRA IDENTITÀ
GARANZIA DI FUTURO
di Giorgia Meloni

«Chi controlla i bambini controlla il futuro». È uno dei passaggi centrali,


tra i più inquietanti ma anche tra più importanti, di Sottomissione, il romanzo
di Michel Houellebecq che nel 2014 si è rivelato come il pugno sullo stomaco,
quanto mai salutare, nel dibattito asfittico e falso sull’Islam e il suo rapporto
con l’Europa.
Già, è stato necessario l’intervento shock di uno scrittore anticonformista
e “visionario” (ma in realtà lucidissimo e attento alla prossimità) per trovare
veicolato su un mezzo di comunicazione di massa – il romanzo è diventato
un best-seller, non solo per la “coincidenza” della sua uscita con la strage
di Charlie Hebdo ma proprio per la forza escatologica del racconto – un
passaggio di verità sulla strategia di penetrazione reale dell’Islam, nello
specifico quello salafita delle monarchie del Golfo, nella nostra patria
continentale.
Voglio sottoporvi un passaggio. Poche righe ma divinatorie: «Non
mettono al centro di tutto l’economia – il riferimento è ai leader
dell’immaginario partito della Fratellanza musulmana in trattativa con la
sinistra francese per battere alle elezioni presidenziali del 2022 il candidato
della destra -. Per loro l’essenziale è la demografia, e l’istruzione; il sottogruppo
demografico che dispone del miglior tasso riproduttivo, e che riesce a
trasmettere i propri valori, trionfa; per loro è tutto qua, l’economia e la stessa
geopolitica non sono che fumo negli occhi: chi controlla i bambini controlla
il futuro».
Altro che distopia o fantapolitica. Si tratta della fotografia di ciò che il
“Rapporto annuale sull’islamizzazione d’Europa” che avete tra le mani ha
analizzato, decrittato e sistematizzato: la sopravvivenza di una civiltà è
legata prima di ogni altra cosa al tasso di natalità e al sistema di valori che
grazie a questa riesce a trasmettere.
E cosa dicono i dati? Che una donna musulmana, qui in Europa, ha un
tasso un tasso di fertilità superiore, il doppio, di quello di una donna non

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musulmana. Se i flussi migratori dei musulmani nel Vecchio Continente
dovessero proseguire al ritmo di come li abbiamo conosciuti negli ultimi
anni? Tra soli trent’anni gli islamici in Europa saranno più che raddoppiati: si
parla della percentuale clamorosa di incremento del 125%. E a quel punto
chi “controllerà” il nostro futuro? Con quale scala di valori? E in nome di
quali istituzioni?
Ecco, noi speriamo invece che nessuno controlli alcuno: né un governo
“multinazionale” né una holding islamista. Lo speriamo proprio nel nome di
quei valori – uguaglianza e democrazia – che un certo storicismo crede
inevitabili, che Francis Fukuyama ottimisticamente indicava come «fine
della storia», ma che in realtà appartengono a quella dimensione
complessa, alimentata da una precisa direttrice, che conosciamo
organicamente soltanto come e nella civiltà occidentale.
Ecco perché l’argomento dell’islamizzazione dell’Europa ci interessa in
maniera specifica e problematica e su questo abbiamo predisposto,
accanto e a sostegno della battaglia politica, un serrato e attrezzato
dibattito scientifico e accademico. Perché temiamo che la “profezia” di
Houellebecq, se l’Europa, e l’Italia per ciò che ci riguarda da vicino, non
deciderà di disporre politiche e strumenti per preservare se stessa, possa
tramutarsi inevitabilmente in realtà.
A fronte di un disinteresse “complice” da parte della narrazione ufficiale,
ci interessa eccome studiare e denunciare il rischio dell’islamizzazione
perché la difesa del nostro “futuro”, la sua stessa possibilità, è intimamente
connessa alla salvaguardia del nostro “passato”. Proprio così: tutto ruota
attorno alle radici, la cui preservazione – credetemi - tutto è tranne che un
fatto “archeologico”. L’identità europea – attraversata e permeata da due
sostrati, classico, inteso come greco-romano e giudaico, e cristiano – si
impone infatti come entità viva principalmente per due elementi
caratterizzanti di natura filosofica, identitaria, più che religiosa, che la
distinguono da tutte le altre.
Il primo è la laicità dello Stato; per il banale motivo che la separazione fra
i “poteri” è contemplata fin nei testi sacri della cristianità, alla ricerca di
un’armonia che ha sempre interrogato il pensiero politico europeo e italiano
su tutti, come dimostra il De Monarchia di Dante Alighieri che considerava
“due soli”, l’Impero e la Chiesa, come «duplice guida, in relazione al duplice
fine; e cioè il Sommo Pontefice, che conducesse il genere umano alla vita
eterna secondo la Rivelazione, e l’Imperatore, che dirigesse il genere umano
alla felicità temporale secondo gli insegnamenti della filosofia».

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Il secondo grande elemento è proprio questo, il rapporto dinamico tra
fede e ragione come dispositivo per la formazione dell’identità europea. È
ciò che emerge dal grande dibattito (condito da polemiche e da attacchi
strumentali) che suscitarono le parole di Papa Benedetto XVI nella celebre
lezione di Ratisbona. Proprio l’incontro fra fede biblica e logos, come spiegò
in quell’occasione fondamentale il Papa emerito, «al quale si aggiunge
successivamente ancora il patrimonio di Roma, ha creato l’Europa» e
«rimane il fondamento di ciò che, con ragione, si può chiamare Europa».
Dall’altro lato, invece, la religiosità islamica non solo per sua natura è
trascendente, non solo nel Corano non è concepita la separazione fra fede
ed entità statuale (e nella guerra civile interna all’Islam vengono combattute
dall’Isis guarda caso proprio quelle Nazioni, come la Siria, legate al
socialismo arabo e quindi di impronta laica) ma in alcuni Stati – come
l’Arabia Saudita – la sharia addirittura rappresenta in toto la “Costituzione”.
L’Europa, dunque, è plasticamente tutt’altro che un’espressione
geografica. È un’identità determinata dalla sintesi dei propri connotati di
origine: ed è su questa che poggia la sua sinderesi. Se perde ciò,
semplicemente, non è più Europa. Potrà essere “riempita” da altro. Potrà
tramutarsi in un contenitore. Ma non rappresenterà mai più la stessa
formula; e soprattutto non svelerà più lo stesso contenuto.
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L’osservazione che viene fatta a questo punto, molto spesso a opera di
decostruzionisti celati e tutt’altro che disinteressati, è nota: tutto questo
potrebbe non rappresentare un problema qualora avvenisse la piena
integrazione dell’Islam in Europa. Tradotto: se gli immigrati diventano
cittadini europei di formazione ma di religione islamica il nodo è sciolto. Una
sorta di pantheon 2.0.
È così? Ingegneria (virtuale) sociale a parte, tutta la discussione riguardo
a un Islam “europeo”, quello che risolverebbe a monte il problema
dell’integrazione, a oggi si scontra con il dato della realtà.
Quale? I due principali punti di riferimento del proselitismo islamico nel
mondo – il Qatar e l’Arabia saudita –, anche se in serrata competizione fra
loro, sono anche quelli che svolgono da anni in modo scientifico e articolato
la più grande azione di penetrazione religiosa e culturale straniera in
Europa. Non solo tramite il finanziamento di moschee, di centri islamici, di
associazioni culturali ma anche puntando dritto al cuore delle élite e dei
suoi interessi economici, attraverso l’esercizio del cosiddetto soft power. Un
esempio facilmente intellegibile arriva dalle sponsorizzazioni dei più

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importanti club di calcio europei - con una copertura delle principali
capitali (Roma, Madrid e Parigi) - che scendono in campo con i colossi e le
compagnie di bandiera del mondo arabo sul petto.
Incredibile il caso del Real Madrid, con il club – sponsorizzato da Fly
Emirates - che ha scelto anni fa, come vero e proprio atto di “sottomissione”
dissimulato dall’opportunità di marketing, di celare la propria identità
togliendo la croce dalla parte sommitale del simbolo della squadra per la
vendita delle magliette negli Stati arabi: tutto questo per “non turbare” la
sensibilità dei supporter di religione islamica. La stessa scelta, vergognosa e
ben più scellerata, che il governo Renzi fece ai Musei Capitolini,
nascondendo con le tendine le nudità dei capolavori dell’arte italiana per
non disturbare la vista del presidente iraniano Rohani.
L’OPA ideologica araba nei confronti dell’Europa non si esaurisce di
certo sul rettangolo di gioco. Ancora più pernicioso è lo “shopping
finanziario” di aziende e assetti nazionali a opera dei ricchissimi fondi sovrani
delle petrolmonarchie: lo vediamo dagli hotel di lusso a Roma a palazzo
Turati a Milano passando per le filiali italiane della Deutsche Bank e del
Credit Suisse e così via.
Ciò ha fatto sì che il cosiddetto Islam europeo, tanto nella sua veste
istituzionale (la Grande Moschea di Roma sorta e sostenuta dai sauditi, ha
avuto fino a qualche tempo fa l’ambasciatore dell’Arabia Saudita come
presidente del Consiglio di amministrazione) quanto in quella “comunitarista”,
sia interamente un Islam che fa riferimento alle dottrine più integraliste
provenienti dai Paesi del Golfo.
Il risultato? Un’Europa non solo vittima dell’attacco “nichilista” del
terrorismo islamista di prima e seconda generazione – che ha prodotto 729
morti e quasi cinquemila feriti – ma un continente che è diventato a sua
volta centrale di formazione e destabilizzazione internazionale.
Come ha avuto modo di verificare e denunciare Soud Sbai, presidente
delle donne marocchine in Italia, il fenomeno ha assunto forme pericolose
anche per le stesse Nazioni del Nord-Africa e del Medioriente. Un dato
indicativo e sorprendente, infatti, è quello testimoniato da Stati con un Islam
moderato e abituato al confronto con l’Europa, come Tunisia e Marocco.
Negli ultimi anni è accaduto un fatto preoccupante: che cittadini tunisini e
marocchini si siano radicalizzati proprio in Europa, tornando in patria poi a
“praticare” integralismo religioso e politico. Tutto questo sotto gli occhi pigri,
quando non complici, delle istituzioni europee.

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Un caso di scuola è Molenbeek, il quartiere “no-go zone” di Bruxelles:
fucina di radicalizzati e combattenti dell’Isis, da qui sono partiti i terroristi
che hanno colpito e sterminato al teatro Bataclan di Parigi e hanno
attaccato lo stesso aeroporto della capitale belga. Come si è arrivati a
questo? Grazie ad un patto che alla fine degli anni ‘60 Re Baldovino strinse
con l’Arabia Saudita per la fornitura di petrolio a buon mercato.
L’”appalto” di ritorno? L’esclusiva sul proselitismo a Bruxelles, a partire
dalla costruzione della Grande Moschea in uno spazio concesso per
novantanove anni dal governo belga. Questo ha generato nel tempo
legami sempre più stretti dei membri della comunità con i predicatori salafiti
e un vero e proprio percorso di indottrinamento fanatista per i più giovani
che, dopo essersi formati o essersi convertiti, hanno ingrossato le file dei
foreign fighters per la Siria e l’Iraq al servizio dei gruppi jihadisti. E dove si
troverà mai l’edificio religioso, vero hub del fondamentalismo? Nel Parco del
Cinquantenario, ironia della sorte a due passi dal Palazzo Schuman, il cuore
politico dell’Unione Europea...
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A questo punto è più che lecito chiedersi se tale processo di islamizzazione
sia davvero inevitabile. I dati ufficiali indicano che l’Europa è un continente
che in termini demografici sta morendo. Il tasso di fertilità è dell’1,3 figli per
donna, quando quello minimo per scongiurare la decrescita di una data
popolazione è di 2,1. Un calo demografico, dunque, che in modo
semplicistico e propagandistico viene dato come ineluttabile, irreversibile e
che, di conseguenza, apre alle tesi che propongono soluzioni grottesche e
pericolose secondo le quali – cito testualmente Emma Bonino, l’aedo
dell’immigrazionismo - occorrerebbe coltivare «il giardino d’infanzia»,
quell’Africa che abbiamo «a 300 chilometri sotto di noi mentre l’Europa è
segnata dal declino demografico».
Deliri propagandistici a parte, sempre le statistiche – come abbiamo
indicato prima - spiegano che i cittadini islamici presenti in Europa hanno
un tasso di fertilità più alto dei non musulmani. L’elemento in più è che
questo risulta comunque abbastanza basso, trattandosi di 2,6. Che cosa
significa? Che da solo sarebbe insufficiente a determinare un processo di
islamizzazione dipendente interamente dalla natalità. O almeno ci
vorrebbero centinaia di anni. Qualcosa in più del «futuro» immaginato da
Houellebecq. O dalle parole grosse del presidente turco Recep Tayyip
Erdogan che ha incitato i musulmani nel continente a fare figli: «Non fate tre
figli, ma cinque. Perché voi siete il futuro dell’Europa. Questa sarà la migliore

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risposta all’ingiustizia che vi è stata fatta». Al di là del fascino di alcuni
concetti, insomma, i numeri dicono che la realtà, almeno fino ad ora, è
diversa.
Lo è per un motivo semplice: perché gli immigrati che arrivano in
Occidente assumono velocemente diverse abitudini occidentali, inclusa la
tendenza al mettere al mondo un numero minore di figli. Ciò non significa
che ci stiamo preoccupando per nulla. Esattamente il contrario. Sempre i
dati illustrano altri due scenari a proposito della questione immigrazione.
Quando si analizza quella legale, ad esempio, risulta che se le Nazioni
europee fossero interessate solo da questa - essendo equilibrata tra
musulmana e non - non ci sarebbe un processo pervasivo di islamizzazione
dell’Europa (il 46% dei migranti regolari è di religione islamica). I numeri però
ci dicono anche un’altra cosa: che per quanto riguarda l’immigrazione
illegale, invece, questa negli ultimi anni è stata in gran parte di origine
islamica (il 78% dei richiedenti asilo è composto da musulmani). Eppure i
cristiani sono la prima minoranza religiosa perseguita nel mondo (sono
circa 245 milioni): sarebbe legittimo, quindi,aspettarsi un numero consistente
di rifugiati cristiani giungere in Europa. Che cosa comporta, invece, l’attuale
situazione? Che se il trend dovesse proseguire come è stato in questa
stagione, nell’arco di poco più di un secolo la popolazione islamica
supererà quella non islamica. Il futuro, dunque, semplicemente non sarà
più un problema nostro perché non ne faremo quasi più parte.
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Dopo questa lunga ma necessaria premessa, che fare dunque? Come
pensiamo di governare questo enorme fenomeno storico? Alla luce di un
quadro complesso e con “agenti provocatori” presenti sia nel deep state
italiano che nei network globalisti, le politiche e la visione di chi vuole
difendere l’identità millenaria europea, per ciò che ci riguarda, sono molto
chiare. Per Fratelli d’Italia, come abbiamo sempre ripetuto, prima di ogni
altra cosa è necessario stringersi attorno all’unica cosa che può assicurare
il futuro: i nostri figli. Ossia alle politiche di incentivo alla natalità e di sostegno
alla famiglia naturale. È uno scandalo – rivelatore di una visione distorta
della sua funzione politica e della distanza con le istanze reali dei popoli -
che tra tutte le priorità indicate dall’UE non sia mai entrata la questione
della promozione della natalità.
Per noi invece questo è stato il primo punto del programma con cui ci
siamo proposti agli italiani alle elezioni Politiche. Altri hanno presentato
provvedimenti come il reddito di cittadinanza e Quota 100: temi

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probabilmente più spendibili in campagna elettorale, ma noi siamo fatti
così, guardiamo sempre e comunque ai grandi fenomeni che interessano
la nostra Nazione. Non ci siamo preoccupati, tutt’altro, di porre questo a
fondamento e orientamento della nostra azione politica. Lo abbiamo fatto
con una proposta più che concreta, opposta e contraria all’assistenzialismo,
come il reddito di infanzia: un assegno mensile importante per i figli dai zero
a sei anni (e poi un sostegno fino ai diciotto anni) con cui lo Stato potrebbe
dimostrare fattivamente la volontà di voler investire sul proprio futuro.
A questo punto, però, non intendo di certo eludere un’osservazione
sensata: sempre i numeri ci dicono che l’Europa può aver bisogno
effettivamente di una quota di immigrazione. Vero, lo richiedono lo sviluppo
industriale, le nuove esigenze sociali (cresce comunque il numero degli
anziani) ma anche un dato che fa parte del nostro milieu, visto che il nostro
continente è stato sempre crocevia di incontri e scambi fra culture.
Questo vuol dire, però, che occorre parlare di immigrazione e affrontare
il fenomeno in modo serio, a partire dal consentire l’ingresso solo per via
legale, sì da poter gestire sia la quantità che la specificità, la qualità,
dell’immigrazione in entrata.
Sotto questo aspetto i dati smontano la narrazione ufficiale: se, come si
dice, il problema principale dell’Europa è quello demografico, significa
allora che si rende necessario l’ingresso specifico di donne e di nuclei
familiari. E invece la maggior parte degli ingressi è appannaggio di uomini
che arrivano da soli. Con una battuta, potremmo dire che quando
nell’antichità i romani si trovarono ad affrontare un problema demografico
finì con il celebre “ratto delle Sabine”. Se avessero compiuto il “ratto dei
Sabini” sarebbero stati certamente all’avanguardia per i loro tempi ma si
sarebbero inevitabilmente estinti.
Con questo che cosa intendo? Semplice: che, come dimostrano le stime
ufficiali del Viminale, nel periodo degli sbarchi massicci – fra il 2012 e il 2017,
con una percentuale bassissima di profughi veri - circa il 90% erano
composto da uomini. Anche sotto l’aspetto demografico, dunque, possiamo
parlare di una truffa a tutti gli effetti.
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C’è un aspetto, a tal proposito, sul quale le proposte di Fratelli d’Italia
hanno sollevato ulteriore e grande polemica. Quando abbiamo parlato –
proprio per venire incontro alle necessità di una quota di arrivi fisiologica - di
immigrazione “compatibile”. Che cosa intendiamo? Diciamo, intanto, che
la categoria dell’immigrato non esiste. O meglio non è per nulla neutra: non

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si può immaginare, cioè, che sia indifferente la provenienza e la cultura di
riferimento di chi arriva in Europa; che sia indifferente se abbiamo davanti
un’immigrazione di massa sudamericana o nigeriana. E allora, se è
necessaria una certa quota di immigrazione, noi non abbiamo mai avuto
alcun problema a chiedere di favorire chi ha origini italiane ed europee.
Si stima che nel mondo ci siano decine di milioni di nostri connazionali
che non hanno la cittadinanza italiana, pur avendone diritto. Se l’Italia ha
bisogno di immigrazione la cosa più sensata è favorire allora proprio l’arrivo
di chi ha le nostre stesse origini. L’esempio banale è il caso Venezuela: più
di 20 milioni di abitanti di cui due milioni sono di origine italiana. Nello stato
sudamericano vige il caos e in tanti soffrono la fame e le persecuzioni da
parte del regime comunista di Maduro. Perché allora non prendere gli
immigrati che dovessero servirci da lì? Lo stesso dovrebbe valere su scala
continentale: favorire, quando necessario, l’immigrazione di origine
europea e, in seconda battuta, un’immigrazione proveniente da Stati che
hanno dimostrato di non creare problemi di integrazione o di sicurezza.
Insomma, non proviamo alcun imbarazzo a dire, grazie anche alle
parole importanti del cardinale Biffi pronunciate con grande coraggio
quasi vent’anni fa, che dovremmo caldeggiare l’accoglienza di popolazioni
di origine cristiana: «Preferire i cristiani», spiegava il cardinale, perché «i
musulmani più o meno dichiaratamente, vengono a noi ben decisi a
rimanere sostanzialmente “diversi”, in attesa di farci diventare tutti
sostanzialmente come loro». I motivi li abbiamo spiegati abbondantemente
in questo dossier ma ancora grazie a Biffi ripercorriamo le tracce: «Hanno
una visione rigorosamente integralista della vita pubblica, sicché la perfetta
immedesimazione tra religione e politica fa parte della loro fede indubitabile
e irrinunciabile, anche se aspettano prudentemente a farla valere, di
diventare preponderanti».
Tutte tensioni, provenienti soprattutto dall’Islam fondamentalista e
intimamente anti-occidentale, che sono state dibattute con grande
scrupolosità su queste pagine. Eppure i governanti europei rimangono
sostanzialmente sordi e ciechi dinanzi a segnali così evidenti. Non a caso il
cardinale temeva con grande lungimiranza e attualità, ancora di più
dell’invasione, «la straordinaria imprevidenza dei responsabili della nostra
vita pubblica» e «l’ inconsistenza dei nostri opinionisti».
Gli stessi che si scandalizzano e alzano gli scudi davanti alle nostre
proposte.

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Perché, la domanda è pertinente, lo fanno? Perché il disegno globalista
ha come primo obiettivo quello di distruggere le identità. Un’immigrazione
di massa che non scardina l’identità non è più funzionale a questa
dinamica. Prendiamo il caso della Polonia, governata dai sovranisti. L’UE ha
attaccato la Polonia perché rifiuta di prendersi quote di immigrati arrivati in
Europa provenienti dall’Africa e dal Medioriente. I polacchi hanno risposto:
abbiamo dato ospitalità ad un milione di ucraini. Lì c’è una guerra civile e
ci sono, davvero, migliaia di persone che scappano dal conflitto, di certo
più di molti africani. La risposta qual è stata? «Non contano». Già, sono
europei. Il problema della Polonia dunque non è che non accoglie rifugiati,
ma è che trattandosi di europei, cristiani, assimilabili tranquillamente allo
stile di vita dei polacchi, quelli che vengono accolti non sono funzionali
all’opera di destrutturazione. Ed è lo stesso motivo per il quale i buonisti che
hanno sempre una parola buona per chiunque, non dicono nulla sul
Venezuela e i suoi perseguitati: già, non sentiremo mai gli immigrazionisti
part-time spendere una parola nemmeno per loro.
Alla fine tutto ruota attorno alla nostra identità: elemento vivificante e
distintivo. Per questo Inserire un richiamo alle nostre radici classiche e
cristiane come cornice e paradigma nei trattati dell’Unione Europea risulta
un atto di affermazione necessario e fondamentale, non solo per dare
un’anima all’architettura comunitaria ma anche per fornire uno schermo di
protezione contro tutti i tentativi di colpire dall’esterno (o svuotare dall’interno)
l’impianto della civiltà europea, il suo diritto al futuro. «Non si recidono le
radici sulle quali si è cresciuti», esortava non a caso un gigante della storia
come Giovanni Paolo II a proposito del sostrato d’Europa. Da sradicati a
sottomessi, infatti, il passo è più breve di ciò che si pensi.

Giorgia Meloni
giornalista, deputato, presidente di Fratelli d’Italia

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INTRODUZION E

NÉ DISCRIMINAZIONE,
NÉ SOTTOMISSIONE
di Adolfo Urso

11 settembre è una data che ricorre nello scontro tra civiltà. Ieri, come
oggi. Nella storia e nella cronaca. La data più recente è da tutti ricordata,
ha segnato la nostra generazione, cambiato costumi e paradigmi, le regole
della sicurezza e la nostra vita quotidiana. Quella più lontana non lo ricorda
più nessuno, eppure gli eventi che si verificarono, alle porte di Vienna,
salvarono la civiltà cristiana ed europea dalla dominazione islamica,
quando ormai in pochi ancora vi speravano e in molti anche allora si erano
rassegnati.
11 settembre 2001, a New York, nella capitale dell’Occidente di oggi, il
drammatico attentato alle Torri Gemelle segnò la fine del sogno globalista,
evidenziando come il nuovo “nemico” fosse il fondamentalismo islamico a
lungo tollerato e qualche volta persino utilizzato. È allora che si conclude la
breve speranza di un mondo pacifico e di una crescita illimitata, descritti
nella “fine della storia” di Francis Fukuyama, mai tanta profezia così presto
smentita!
Il processo in atto in questi giorni negli Stati Uniti, intentato dalle famiglie
delle vittime nei confronti dell’Arabia Saudita, che tanto imbarazzo suscita
proprio alla Casa Bianca, ci farà capire quale sia stato il vero ruolo della
potenza sunnita nel terrificante attentato che ha cambiato gli assetti del
Mondo. Fatto tanto più importante alla luce degli avvenimenti odierni nel
Golfo Persico che dovrebbero farci riflettere su chi siano i veri “nemici” e
quali i potenziali “amici”. Il recente rapporto delle Nazioni Unite sul terrorismo
ci ricorda come il pericolo sia ancora molto presente e lancia il suo allarme
all’Europa su nuovi terrificanti attentati ad opera dell’ISIS, ricordando come
l’organizzazione possa ancora contare su 30.000 foreign fighters molti dei
quali rientrati nella nostra Unione e pronti a colpire.
Peraltro, che l’Europa e l’Italia siano accerchiate lo dimostrano gli
avvenimenti che si succedono in tutto il Mediterraneo ed anche nei Balcani.
In Libia, si combattano le potenze sunnite: da una parte Arabia Saudita ed

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Emirati, che possono contare sull’Egitto di Al Sisi e soprattutto sulla Francia
di Macròn nel sostegno al generale Haftar; dall’altra Qatar e Turchia che
sostengono le milizie di Tripoli che insieme con Misurata sono arroccate a
difesa del governo di Al Serraj. L’Italia è orami fuori gioco in Libia, teatro di
prioritario interesse nazionale per una serie di fattori strategici e vitali per il
nostro Paese: energetici ed economici, culturali e politici e certamente sul
fronte della sicurezza, come dimostra la cronaca e tanto più la storia.
La situazione è compromessa anche in Medio Oriente, in Siria e in Libano,
area dove eravamo il primo partner commerciale e spesso politico, e
persino in Turchia e nei Balcani, con il regime di Erdogan che ripropone
l’Impero Turco sia nell’espansione a Sud, sia soprattutto nella penetrazione
in Europa, teorizzata persino con l’arma della natalità e quindi della
demografia.
Nel Balcani emerge in tutta evidenza un conflitto che vede in campo, in
un intreccio di interessi con la Turchia, anche e soprattutto Russi, Americani,
Tedeschi e Francesi. I Russi a difesa dei Serbi e con la antica aspirazione di
raggiungere lo sbocco nel Mediterraneo; gli Americani a difendere il nostro
e loro Mare, al fianco degli Albanesi, in Albania ma anche in Kosovo e in
Macedonia, e nel sostegno a Dukanovic in Montenegro; la Germania che
sin dal riconoscimento della Croazia ha ripreso la sua espansione nel
Balcani, con la Francia che anche in questo caso, si fa sentire persino a
Belgrado. Italia in arretramento su tutta la linea, rischia di apparire
estromessa persino in quella terra così segnata dalla nostra storia e dalla
nostra cultura.
L’esodo dei cristiani dalla Bosnia e in qualche modo anche dal resto
della Regione e nel contempo il sostegno di Arabia Saudita e Qatar alla
locale comunità islamica, anche attraverso il finanziamento delle Moschee,
evidenzia quando caldo sia il fronte persino dentro l’Europa e lungo la
frontiera della integrazione. I conflitti politici esasperati all’interno di questi
Paesi, le manifestazioni anche violente, qualche episodio di guerriglia e
certamente la incombente minaccia della migrazione clandestina che
qualcuno maneggia come “bomba demografica” da far esplodere contro
il nostro Continente sin dai campi profughi Siriani in Medio Oriente, così
come dalle nuove rotte dell’immigrazione, sono elementi di ulteriore
preoccupazione.
Peraltro, i simboli ricorrono sempre: i leader di Ungheria, Polonia e
Cecoslovacchia, scelsero di realizzare la nuova Alleanza nella città-castello
ungherese di Visegrad, il 15 febbraio del 1991, pochi mesi dopo la liberazione

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dal gioco sovietico, proprio per evocare il luogo dove si svolse nel 1335 il
congresso medievale di Boemia, Ungheria e Polonia che molti storici
richiamano quando evocano la reazione Cattolica alla Islamizzazione
d’Europa.
In questo contesto, davvero plumbeo per il nostro Paese, si inserisce il
conflitto in atto nel Golfo Persico con gli Stati Uniti, nostro principale alleato,
schierati a sostegno del regime feudale di Riad, nello scontro tra la coalizione
sunnita e l’Iran sciita che, comunque, ha combattuto in Siria e in Iraq, al
nostro fianco, contro l’ISIS, così come aveva fatto contro Al Qaida.
La “guerra” si combatte in tutta la Regione ed ha raggiunto l’apice della
sofferenza nello Yemen, dove secondo le Nazioni Unite si sta verificando la
più grande attuale tragedia dell’umanità, le cui principali vittime sono
proprio i bambini, massacrati dalle bombe della coalizione sunnita che
colpiscono scuole ed ospedali per terrorizzare le popolazioni.
Peraltro la minaccia del fondamentalismo islamico è in atto ormai da
decenni, le cui prime avvisaglie erano già presenti nel conflitto - etnico,
religioso e civile - che ha dilaniato i Balcani, così come nella drammatica
guerra civile in Algeria, nella guerriglia in Afghanistan, in Pakistan, in
Indonesia, soprattutto nell’espansionismo lungo la frontiera “verde”
nell’Africa nera. Ci sarà tempo e luogo per esaminarlo in modo più
appropriato.
In questo primo Rapporto abbiamo preferito focalizzare lo stato di
conoscenza del fenomeno e accertare quale sia l’atteggiamento degli
italiani rispetto alla possibile islamizzazione d’Europa, nuova e più grave
minaccia, dopo quella che come europei abbiamo evitato appunto quasi
cinque secoli fa, sempre nella medesima giornata.
È l’11 settembre 1683 quando le forze cristiane riescono finalmente a
spezzare l’assedio turco alla città di Vienna, che segna la fine
dell’espansionismo islamico. La Turchia ieri come oggi, attraverso i Balcani,
coniuga religione e nazione in una miscela esplosiva, carica di minacce.
A Vienna fu decisiva la mobilitazione dell’Europa centrale che, anche
grazie alla partecipazione dei contingenti italiani allora sotto il dominio
austriaco, vinse la battaglia, malgrado il doppio gioco a lungo praticato
proprio dal Regno di Francia di Luigi XIV. La Francia era anche allora
nascostamente alleata dei Turchi, perché riteneva di beneficiare di un
ulteriore indebolimento dell’Austria, e solo per le ripetute insistenti pressioni
papali fece finta di schierarsi contro gli Islamici, inviando una missione
navale di fronte ad Algeri, ben lontana dal fronte caldo di Vienna!

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La storia si ripete, con gli stessi attori che ripropongono le stesse divisioni
e contrapposizioni, mentre ieri come oggi sarebbe necessaria la massima
unità di intenti della nostra Europa.
L’11 settembre del 1683 come l’11 settembre del 2001, l’attacco giunge
nel cuore dell’Occidente, che nel frattempo non è più Vienna, ma New
York. Data emblematica che vogliamo ricordare non come memoria, ma
come contributo per definire il futuro, nella piena consapevolezza che
siamo ancora una volta nel crinale della storia.
Questo rapporto, curato dalla Fondazione Farefuturo con il contributo
dell’Ufficio Studi di Fratelli d’Italia, si pone l’obiettivo di rilevare, anno per
anno, se, come e in che modo si stia realizzando una nuova minaccia di
islamizzazione d’Europa, con quali strumenti e obiettivi e se, nel contempo,
esistano politiche pubbliche di difesa efficaci e quali possano essere
realizzate in sede statuale, negli organismi europei e in quelli internazionali.
Il rapporto si rivolge innanzitutto agli attori pubblici, con una analisi
rigorosa, scevra da pregiudizi ma anche da freni inibitori, che individua
alcuni indicatori statistici e sociali, nel proporre soluzioni e linee di intervento
a breve e medio periodo, ma intende, nel contempo, anche contribuire a
sviluppare una più consapevole percezione del fenomeno, di quale sia la
reale posta in palio e di quali siano gli attori in campo, così che si possano
sviluppare i necessari anticorpi nel tessuto culturale e sociale, nazionale ed
europeo. Se manca la consapevolezza di quale sia lo penetrazione islamica
in Europa non si possono misurare a quale stadio sia giunto lo scontro in
atto e le possibili reazioni. Per reagire all’assedio di Vienna fu necessaria la
mobilitazione della migliore aristocrazia europea che, superate le ancestrali
divisioni, accorse infine in battaglia nell’ultima linea di difesa possibile,
quando ormai le armate turche erano nel cuore d’Europa.
Siamo oggi nelle stesse condizioni? La penetrazione islamica è già nel
cuore d’Europa? E quali sono le armate turche? A quali nazioni
appartengono? Quali strumenti utilizzano? Oggi come allora, la minaccia
appare lontana eppure è ormai vicinissima.
Oggi come allora, la linea di difesa non può essere ristretta a chi è in
prima linea, a chi subisce l’offensiva ma riguarda la civiltà europea
comunemente intesa, anche quella che appare lontana dal fronte.
Oggi come l’11 settembre del 2001, la reazione deve essere comune e
consapevole.
Stavolta prima culturale e poi semmai militare. Perché proprio
l’Afghanistan insegna che la reazione militare è priva di efficacia se non

19
accompagnata anche da una reazione culturale. Diciotto anni dopo, le
truppe dell’Alleanza sono ancora a Kabul, costrette a trattare con i Talebani,
perché non si combatte solo sul terreno né con Al Qaida, né tanto meno
con l’ISIS, ancorché avesse proclamato il Califfato proprio in quella che era
la Mesopotamia, culla della civiltà dell’uomo. Si combatte nei cuori e nei
cervelli, tanto più in Europa.
Questo Rapporto contiene anche un’indagine demoscopica, con
indicatori misurati nel tempo, che evidenzia tra l’altro lo sviluppo del
sentimento popolare su alcuni temi chiave e la percezione della situazione
in atto, così come misura il grado di consenso di alcune politiche di cui si
dibatte in Italia e in Europa, spesso senza alcun raffronto statistico o per lo
meno demoscopico. Si avverte, in tutta evidenza, la consapevolezza della
minaccia, ancorché permane la speranza di una convivenza pacifica tra
Cristianità e Islam anche e soprattutto in Europa e nel Mediterraneo. È
diffusa la percezione che la convivenza sia possibile e che, malgrado la
crescita della radicalizzazione islamica, la gran parte dei cittadini europei
di religione islamica sia tuttora propensa ad una pacifica integrazione.
Emerge, soprattutto, il ruolo della donna, percepita come la principale
vittima del fondamentalismo e nel contempo come il principale attore di
una politica di integrazione, in quanto moglie e soprattutto madre, fattore
già rilevato alcuni anni fa in una precedente analisi della nostra Fondazione,
quando la minaccia del fondamentalismo appariva ancora lontana dai
confini europei.
In generale il nostro sondaggio evidenzia una visione degli Italiani non
preclusiva nei confronti degli Islamici in Europa, verso i quali vi è ancora
fiducia sulla loro capacità di integrarsi, anche se emerge in tutta evidenza
la consapevolezza di quanto sia grave la sottomissione della donna nella
cultura Islamica, questione che sembra la più rilevante e comunque
emblematica. Gli Italiani in larghissima misura sono contrari a realizzare
“eccezioni legislative” per venire incontro alle esigenze degli Islamici, ad
esempio consentendo la poligamia, ed esigono anzi “il rispetto totale delle
leggi in vigore”, senza eccezioni. Accettazione, quindi; tolleranza,
convivenza, integrazione ma non “sottomissione”.
Gli Italiani avvertono l’importanza di nuovi più efficaci interventi sul fronte
della sicurezza, della legalità e della tutela della nostra cultura e dei nostri
costumi, ma sono assolutamente scevri da atteggiamenti xenofobi, che
condannano senza infingimenti. Desiderano, ad esempio, che sia introdotto
“uno speciale reato per chi predica odio tra le religioni e giustifica gli atti di

20
terrorismo”, così come chiedono che “sia reso obbligatorio che le prediche
nelle moschee avvengano in italiano, in modo che possano essere capite”.
Aumenta la contrarietà alla “ius soli” ed è forte la richiesta che “gli immigrati
facciano un corso di lingua italiana e di educazione civica prima di essere
integrati”, mentre appare ancora minoritaria la proposta di gestire le quote
dei migranti in favore dei cattolici, discriminando gli Islamici.
Non vi è, peraltro, piena consapevolezza di quale sia la reale condizione
dei Cristiani e degli ebrei nei paesi Islamici e di come l’espansionismo
Islamico si sia realizzato nel passato, lacune che devono far riflettere a fronte
delle persistenti notizie di cronaca, talvolta drammatiche, sinora
evidentemente ancora non pienamente percepite.
Emerge evidente su tutto quanto sia forte, radicata, condivisa la natura
degli “Italiani brava gente”, popolo mediterraneo, aperto e inclusivo, erede
della civiltà imperiale romana, che nemmeno la minaccia islamica potrà
mutare. Vi è l’accettazione piena dell’altro, purché questo “altro” non
pretenda di cambiare la nostra vita, ma accetti di integrarsi rispettando le
nostre leggi come appunto nell’era romana. Nessuna discriminazione ma
anche nessuna sottomissione: questo ci appare l’elemento prioritario che
emerge dalla nostra indagine.
Il rapporto è, inoltre, suffragato con analisi e commenti dei componenti
del Comitato scientifico che definiscono alcuni aspetti cruciali della
questione islamica, sempre frutto di una rigorosa interpretazione
professionale rispettosa della realtà e priva di pregiudizi, che offre al lettore
e certamente anche allo studioso ulteriore materiale per arricchire il proprio
bagaglio culturale, spesso mettendo in discussione luoghi comuni ormai
percepiti dai più come superati.
Siamo consapevoli che questo primo Rapporto abbia ancora alcune
lacune nella raccolta dei dati e altri limiti interpretativi; sarà nostro impegno
integrarlo nelle successive edizioni con indicatori ancora più specifici,
soprattutto per quanto riguarda gli aspetti economici, sociali e legislativi
del fenomeno islamico in Europa.
Siamo, però, altrettanto convinti che il fatto stesso di aver realizzato un
Rapporto specifico sul tema sia di per sé “rivoluzionario” proprio perché
colma una lacuna non più giustificabile a fronte della portata
dell’espansionismo islamico nel nostro Continente, come se ci fosse davvero
una sorta di sottomissione culturale, tanto più pericolosa di quella reale,
soprattutto nella società virtuale in cui predomina l’apparenza.

21
La sottomissione è la prima “catena mentale” non ancora materiale che
l’Europa dovrà spezzare se intende davvero reagire alla “decadenza”,
riaffermando i valori della propria civiltà, cosa necessaria per sé ma utile
per il mondo intero.

Adolfo Urso
presidente della Fondazione Farefuturo,
senatore, vice presidente del Comitato parlamentare
per la Sicurezza della Repubblica

22
PRIMA PARTE
IL SENTIMENTO DEGLI ITALIANI.
SONDAGGIO

23
ITALIANI CREDONO NELLA INTEGRAZIONE
MA ALLE NOSTRE REGOLE.
I RISULTATI DEL SONDAGGIO
di Arnaldo Ferrari Nasi

Il sondaggio di seguito presentato è stato commissionato dalla Fondazio-


ne Farefuturo con l’intento di comprendere quale fosse, nella cittadinanza
italiana, la percezione ed il giudizio su alcuni aspetti relativi al fenomeno del-
la sempre maggiore presenza di popolazione di fede islamica sul territorio
nazionale.

La rilevazione è stata eseguita nel luglio 2019 su un campione rappresen-


tativo di 800 italiani adulti ed il questionario è stato appositamente redatto
dal Comitato Scientifico del presente Rapporto sulla Islamizzazione in Europa.
Da sottolineare l’impiego di domande appositamente ideate per la ricerca
e di identiche domande già utilizzate negli scorsi anni dal programma di
studio AnalisiPolitica, in modo da poter apprezzare gli eventuali mutamenti di
opinione nel tempo rispetto ai fenomeni osservati.

Se l’obiettivo principale che ha guidato la costruzione del modello d’inter-


vista è stato il tentativo di capire riguardo alla possibilità di fattiva integrazione,
gli indicatori realizzati grazie all’ampio ventaglio di domande hanno eviden-
ziato anche temi trasversali. Ad esempio, il giudizio generale sulla religione
islamica; il grado di conoscenza “base” della stessa da parte dei rispondenti;
le differenze culturali avvertite; l’attenzione ed il controllo per eventuali profili
di pericolosità.

Iniziando l’analisi proprio su quest’ultimo aspetto, i risultati ci indicano


come, rispetto a dieci anni fa, il timore percepito nei confronti dei residen-
ti islamici in Italia sia sensibilmente cambiato. Escludendo gli albanesi, che
sono fortemente caratterizzati e intesi come tali, e aggregando le altre popo-
lazioni di fede musulmana, ovvero nordafricani, subsahariani e pakistani, no-
tiamo che il grado di attenzione nei loro confronti triplica, passando dall’11%
del 2008 al 28% di oggi. Non si può non rilevare che, escludendo alcuni valori
residuali, siano solo i musulmani a fare registrare questo dato - negativo - in

24
aumento [Tavola 1]. È dunque comprensibile come una netta maggioran-
za di italiani (59%) richieda che vengano fatti speciali controlli sui residenti
islamici in Italia, pur se regolari, un dato, di per se stesso, molto significativo
[Tavola 2].

In ogni caso, gli italiani danno fiducia. Se il 27% ritiene che l’Islam sia fon-
damentalmente una religione violenta ed intollerante, il 40% dice che lo è
stata solo in passato, ma oggi sia potenzialmente “pacifica e tollerante”, men-
tre tout court il 23% lo indica così, positivamente. [Tavola 3]. Questi due dati,
sommati, danno all’incirca lo stesso valore, 62%, di chi ritiene che la maggior
parte dei fedeli islamici, in Italia, sia moderata [Tavola 4].

Se pensiamo agli italiani come diretti eredi di Roma e della sua cultura,
questo è coerente. Roma governava su tre continenti e più di uno dei suoi
imperatori più grandi fu di origine provinciale: l’iberico Adriano; l’illirico Diocle-
ziano; il libico Settimio Severo, moro! Ma è vero che se l’Impero era multietnico,
non era certo multiculturale: se si aveva il privilegio di esserne o diventarne
cittadini si doveva vivere secondo la legge ed i valori di Roma, pur tenendo
la propria religione, ma adattando le proprie usanze. Anche in questo caso,
gli italiani sono sulla stessa linea degli antichi progenitori: l’85%, che significa
quasi la totalità, ritiene che: “gli immigrati, in ogni caso, dovrebbero fare un
corso di lingua italiana e di educazione civica prima di essere regolarizzati”
[Tavola 5]. Ancora più esplicito è il 64% che esige il rispetto totale delle leggi
italiane in vigore, proprio come tramite per l’ottenimento della piena integra-
zione. Non è però trascurabile quel 20%, uno su cinque, che permetterebbe
deroghe motivandole col rispetto delle esigenze religiose dei musulmani; ad
esempio, negli ospedali, far visitare le donne islamiche solo da medici donne,
con buona pace dell’Articolo 3 della Costituzione che garantisce pari digni-
tà sociale a tutti i cittadini, senza distinzione di sesso, razza e via dicendo. E
addirittura, vi è un 11% che vorrebbe leggi specifiche per le nuove comunità
di immigrati, come una legge sulla poligamia [Tavola 6].

Un’ampia maggioranza è conscia che esistano differenze culturali da


tempo superate in Italia ed ormai difficilmente accettabili. Ad esempio, il 60%
ritiene che il velo indossato dalla maggior parte delle donne musulmane, sia
una coercizione imposta dalla famiglia e dai retaggi [Tavola 7]. Proprio sull’a-
spetto del rapporto uomo/donna, una percentuale ancora maggiore, il 78%,
correttamente sa che la legge islamica (alla base della maggior parte delle
norme laiche dei Paesi a maggioranza musulmana) ritenga le donne inferiori

25
rispetto agli uomini, ovvero che abbiano meno diritti e più doveri [Tavola 8].

Su altri aspetti della conoscenza di base della religione islamica, invece,


vi è meno competenza. Solo il 21% dice correttamente che secondo la stessa
legge islamica, la shari’a, gli ebrei e i cristiani possono vivere in un Paese isla-
mico solo essendo sottoposti ad un regime discriminatorio. Il 36% pensa che
le due confessioni siano uguali davanti alla legge, al pari dell’Islam; il 26%
ritiene che siano invece obbligati a convertirsi [Tavola 9].

Allo stesso modo, solo il 12% ritiene che la diffusione dell’Islam nel Mediter-
raneo arabo sia avvenuta mediante conquiste militari, come effettivamente è
stato, e non con la predicazione. Il 64% indica ”in entrambi i modi, a seconda
dei periodi storici” [Tavola 10].

Il 55%, la maggioranza, ritiene che la maggior parte dei musulmani qui in


Italia voglia integrarsi nella società, vivendo “da italiano” pur mantenendo la
propria identità musulmana. Di converso, un non trascurabile 27% resta con-
vinto che lo scopo principale dell’islamico sia, sì, vivere in Italia, ma seguendo
le proprie leggi separate. L’11%, uno su dieci, è addirittura convinto che ci sia
una volontà di islamizzazione, per quanto non esplicitata. È da dire, quindi,
che in questo caso il campione rimane abbastanza diviso, con solo pochi
punti di scarto tra chi ha una visione possibilista e chi no [Tavola 11].

È sicuro, però, che l’italiano non consideri inaccettabile qualsiasi tipo di


estremismo e fanatismo legato all’aspetto religioso. L’80% chiede ed è dun-
que una richiesta forte, l’introduzione di “uno speciale reato in Italia, per chi
predica odio tra le religioni e giustifica gli atti di terrorismo” [Tavola 12] e per
il 56% bisognerebbe addirittura che la lingua liturgica delle prediche nelle
moschee diventi l’italiano “in modo che possano essere capite” [Tavola 13].

Infine, all’incirca la stessa quota di quanto visto in precedenza, il 54%,


ritiene che il musulmano possa integrarsi, in Italia, al pari di altri e che la
responsabilità per fare questo sia del tutto personale, del singolo, “perché
ogni persona fa storia a sé”. Addirittura, una piccola ma non insignificante
percentuale, l’8%, ritiene che lo possa fare meglio di altri, per via delle co-
muni radici mediterranee e storiche. Rimane oltre un terzo di italiani (35%)
che invece sottolinea la troppa differenza culturale, di mentalità, e che ritiene
l’inserimento nella nostra società come meno fattibile e comunque più diffi-
coltoso [Tavola 14].

26
Si può sostenere che una giusta sintesi di tutto quanto visto in precedenza
la dia l’ultima domanda presentata, sul tema dello ius soli. Solo un terzo del
campione, il 35%, ritiene che il figlio nato in Italia da entrambi i genitori stranie-
ri debba “essere considerato italiano in automatico”. Per i rimanenti è neces-
sario un non breve periodo di tempo per comprovare la vera possibilità di di-
ventare italiani: molti anni. Al diciottesimo dalla nascita e solo su sua richiesta,
per il 31%, come prevede la legge attuale; o a sedici anni, in automatico, ma
solo dopo aver frequentato con successo le scuole dell’obbligo [Tavola 15].

Per concludere, individuando una chiave di lettura per quanto visto, viene
disegnato il contesto di un’Italia non fobica, non preconcetta, verso l’Islam;
questo, a mio modesto parere, è un grande punto d’onore, che ancora una
volta dimostra quanto l’italiano sia impregnato di quella cultura classico-u-
manistica che altri popoli/nazioni occidentali, difficilmente potranno rag-
giungere.

Allo stesso modo, però, vi è un alto livello di attenzione, plebiscitario in


alcuni importanti aspetti, ed una forte richiesta, per il soggetto ospitato, di un
grande sforzo per attenersi al percorso tracciato dalla cultura ospitante, non
certo il contrario; e che questo sforzo sia gestito e controllato.

Ne consegue che, nel giudizio degli italiani, una possibile integrazione


può essere solo non teorica, non ideologica, ma pragmatica. A quest’ultimo
punto occorre ancora dare risposta.

Arnaldo Ferrari Nasi


sociologo, dirige il centro studi AnalisiPolitica.
Membro della Società Italiana di Scienze Politiche,
già professore a contratto di Analisi della Pubblica Opinione
presso l’Università di Genova

27
DOSSIER
SULL’ISLAMIZZAZIONE

Milano, luglio 2019

28
TAVOLA 1
Parliamo delle diverse nazionalità/gruppi etnici che vivono in Italia e che
talvolta danno problemi con la sicurezza e l’ordine pubblico. Quali sono tra
questi quelli che lei teme di più? Ne indichi al massimo due.

20081 2019

Nordafricani
7 13
(come Marocchini, Tunisini)
Africani neri
3 11 13 28
(come Senegalesi, Nigeriani)
Pakistani 1 2

Albanesi 36 11

Rumeni 33 20
Slavi
9 4
(come Ucraini, Moldavi)
Cinesi 3 4
Latinoamericani di lingua spagnola
(come Equadoregni, Peruviani, 1 3
Venezuelani)
Brasiliani 0 1

Zingari 39 25

Non so 29 40

Totale 161 136

29
TAVOLA 2
Può dirci se è d’accordo o non d’accordo con questa affermazione che
abbiamo sentito da altri?
“Bisogna fare controlli speciali sui musulmani in Italia, anche su quelli
regolari che risiedono qui da anni”

2019

Molto 24
59
Abbastanza 35
Poco 24
38
Per nulla 14
Non so 3

Totale 100

TAVOLA 3
Ecco alcune frasi sull’Islam ed i musulmani, che abbiamo sentito da altri
intervistati. Può dirci per favore quali si avvicinano di più alla sua opinione?
"L’Islam è fondamentalmente...”

2019

Una religione di pace e tolleranza 23


Una religione violenta e intollerante 27
Una religione che è stata anche violenta, ma
40
potenzialmente pacifica e tollerante
Non so 10

Totale 100

30
TAVOLA 4
Può dirci se è d’accordo o non d’accordo con questa affermazione che
abbiamo sentito da altri?
“In Italia, la maggior parte dei fedeli islamici è moderata”

2019

Molto 16
62
Abbastanza 46
Poco 21
28
Per nulla 7
Non so 10

Totale 100

TAVOLA 5
Può dirci se è d’accordo o non d’accordo con questa affermazione che
abbiamo sentito da altri?
“Gli immigrati, in ogni caso, dovrebbero fare un corso di lingua italiana e di
educazione civica prima di essere regolarizzati”

20092 2019

Molto 47 49
77 85
Abbastanza 30 36
Poco 10 12
17 14
Per nulla 7 2
Non so 6 1

Totale 100 100

31
TAVOLA 6
Secondo lei, l’integrazione degli immigrati musulmani in Italia si favorisce
più efficacemente...

2019

Esigendo il rispetto totale delle leggi italiane in vigore 64


Applicando le leggi italiane, ma con alcune eccezioni motivate
dalle differenze religiose e culturali, ad esempio facendo
20
visitare le donne islamiche negli ospedali solo da medici
donna
Modificando alcune leggi italiane per integrarle a quella delle
nuove comunità di immigrati, ad esempio creando una legge
per i musulmani che hanno più mogli, anche per proteggere i 11
bambini di quei matrimoni
Non so 5

Totale 100

TAVOLA 7
Ecco alcune frasi sull’Islam ed i musulmani, che abbiamo sentito da altri
intervistati. Può dirci per favore quali si avvicinano di più alla sua opinione?
“Una donna che indossa il velo in Italia...”

2019

Principalmente lo fa come una sua scelta personale 27


Principalmente lo fa per via di imposizioni familiari, culturali 60
Principalmente lo fa come rifiuto verso i valori dell’Occidente 6
Non so 7

Totale 100

32
TAVOLA 8
Ecco alcune frasi sull’Islam ed i musulmani, che abbiamo sentito da altri
intervistati. Può dirci per favore quali si avvicinano di più alla sua opinione?
“Secondo la legge islamica (shari’a), le donne sono...”

2019

Uguali agli uomini di fronte alla legge


13
(hanno gli stessi diritti e doveri)

Inferiori rispetto agli uomini


78
(hanno meno diritti e più doveri)

Superiori rispetto agli uomini


2
(hanno più diritti e meno doveri)
Non so 7

Totale 100

TAVOLA 9
Per favore, risponda, secondo le sue conoscenze, a questa domanda che
abbiamo posto anche ad altri intervistati:
“Secondo la legge islamica (shari’a), gli Ebrei e i Cristiani possono vivere in
uno stato islamico?”

2019

Sì, possono e sono uguali ai Musulmani di fronte alla legge 36


Sì, possono ma sono sottoposti ad un regime di
21
discriminazione
No, non possono, a meno che non si convertano all’Islam 26
Non so 17

Totale 100

33
TAVOLA 10
Ecco alcune frasi sull’Islam ed i musulmani, che abbiamo sentito da altri
intervistati. Può dirci per favore quali si avvicinano di più alla sua opinione?
“L’espansione dell’Islam nel Mediterraneo fuori dalla Penisola Araba è
avvenuta prevalentemente:”

2019

Principalmente attraverso conquiste militari 12


Principalmente attraverso la predicazione 10
In entrambi i modi, a seconda dei diversi periodi
64
storici
Non so 14

Totale 100

TAVOLA 11
Ecco alcune frasi sull’Islam ed i musulmani, che abbiamo sentito da altri
intervistati. Può dirci per favore quali si avvicinano di più alla sua opinione?
“La maggior parte degli immigrati musulmani in Italia vorrebbe:”

2019

Integrarsi nella società e vivere pienamente “da


55
italiano” pur restando musulmano

Vivere in Italia ma seguendo leggi separate, di


27
tipo islamico
Islamizzare la società italiana 11
Non so 7

Totale 100

34
TAVOLA 12
Può dirci se è d’accordo o non d’accordo con questa affermazione che
abbiamo sentito da altri?
“Bisogna introdurre uno speciale reato in Italia, per chi predica odio tra le
religioni e giustifica gli atti di terrorismo”

2019

Molto 46
80
Abbastanza 34
Poco 9
16
Per nulla 7
Non so 4

Totale 100

TAVOLA 13
Può dirci se è d’accordo o non d’accordo con questa affermazione che
abbiamo sentito da altri?
“È giusto obbligare che le prediche nelle moschee italiane avvengano in
italiano, in modo che possano essere capite”

2019

Molto 25
56
Abbastanza 31
Poco 22
40
Per nulla 18
Non so 4

Totale 100

35
TAVOLA 14
Ecco alcune frasi sull’Islam ed i musulmani, che abbiamo sentito da altri
intervistati. Può dirci per favore quali si avvicinano di più alla sua opinione?
“In generale, gli immigrati musulmani in Italia”

2019

Possono integrarsi al pari di altri, anche perché ogni persona


54
fa storia a sé
Possono integrarsi meno bene di altri, anche perché vi sono
35
differenze di mentalità/cultura troppo grandi
Possono integrarsi meglio di altri, anche perché ci sono comuni
8
radici “mediterranee”e storiche
Non so 3

Totale 100

TAVOLA 15
Si parla molto dei figli nati in Italia da entrambi i genitori stranieri. A quale di
queste tre proposte si sente più vicino?

20143 2019

Deve essere considerato italiano in automatico 42 35


Deve essere considerato italiano, ma solo dopo
aver frequentato con successo le scuole 27 29
dell'obbligo in Italia
Potrà diventare cittadino italiano al diciottesimo
27 31
anno e solo su sua richiesta
Non so 4 5

Totale 100 100

36
METODOLOGIA
Universo popolazione italiana adulta
Campione rappresentativo, 800 casi
Committente Fondazione Farefuturo
Realizzazione AnalisiPolitica.it
Rilevazione 22-24 luglio 2019

Note

1 Fonte: AnalisiPolitica 2008.

2 Fonte: AnalisiPolitica 2009.

3 Fonte: AnalisiPolitica 2014.

37
L’ISLAMOFOBIA:
MALATTIA DELL’IMMAGINARIO
O MALATTIA IMMAGINARIA?
di Giuseppe Cecere

1. ITALIA ISLAMOFOBICA: UNA DIAGNOSI DA RIVEDERE?

La società italiana contemporanea è malata di islamofobia? A giudicare


dalle rappresentazioni prevalenti nel discorso pubblico (in vasti settori dei
media, dell’accademia, del mondo politico ed associativo, delle istituzioni
civili e religiose), la diagnosi parrebbe evidente: l’Italia di oggi sarebbe
preda di una sempre più forte avversione pregiudiziale (anzi, di una “paura
irrazionale e infondata”, come suggerito dal termine fobia)1 verso l’Islam e i
musulmani. Una vera e propria “malattia dell’immaginario (collettivo)”,
parte di una più vasta trasformazione della nostra società in senso
xenofobico e razzistico, attestata da una varia ed inequivocabile
sintomatologia che culminerebbe nel crescente sostegno dell’opinione
pubblica alle forze genericamente definite come “populiste”. Cause
principali di tale patologia sociale, sarebbero la diffusa ignoranza delle
culture “altre” e l’ancora insufficiente esposizione della popolazione
autoctona alla convivenza con persone provenienti da tali culture.2 Nel
caso specifico della islamofobia, il quadro clinico sarebbe ulteriormente
aggravato dalla diffusa circolazione, nel corpo sociale, di stereotipi anti-
islamici di vecchio e nuovo conio - espressione, rispettivamente, di forme di
religiosità reazionaria o di laicismo esasperato - e dagli effetti devastanti di

1 Tale aspetto patologico è esplicitamente affermato, senza alcuna remora di carattere


epistemologico, in un documento di natura istituzionale, il Kit Anti-Discriminazione pubblicato
dall’UNAR (Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali) nel 2012: “Il suffisso “fobia” conferisce al
termine una valenza psicopatologica: se la paura può essere interpretata come una reazione
adeguata ad un pericolo reale, il termine fobia indica, al contrario, una reazione sproporzionata
ed inconsapevole ad un pericolo immaginato” (AA.VV., Io dico No alla violenza. Strumento di
sensibilizzazione, informazione, formazione. Roma: UNAR, 2012, p. 68). Sebbene tale precisazione
sia inserita nella definizione del termine xenofobia (ibid.), risulta evidente che essa valga anche
in relazione al termine islamofobia, definito, nella stessa pagina, come “una paura irrazionale o
un pregiudizio nei confronti dell’Islam o dei musulmani” (ibid.).

2 Sul pensiero dell’altro come cifra dominante della filosofia contemporanea, prodotto della
convergenza tra le “principali linee di forza della cultura accademica”, si veda Renato Cristin, I
padroni del caos, Macerata: Liberilibri, 2017, in particolare pp. 49-113.

38
una paradossale alleanza implicita tra due opposti estremismi: da un lato,
quello che viene spesso chiamato “islamismo radicale”, dall’altro, le destre
che vengono dette “xenofobe” - due campi di forze evidentemente
contrapposti ma che sarebbero entrambi impegnati, per finalità differenti
ma con esiti convergenti, in una sistematica opera di manipolazione della
paura delle popolazioni autoctone - alimentata dalla diffusa ignoranza in
materia di Islam - e della “retorica dello scontro di civiltà”; il tutto, allo scopo
di alimentare il conflitto tra “diversi” e rendere così impossibile la serena e
pacifica integrazione delle persone e delle comunità di fede musulmana
nelle società occidentali. Questo, in estrema sintesi e con le semplificazioni
che le sintesi spesso comportano, sembra essere il senso (nella duplice
accezione di “significato” e “direzione”) del discorso pubblico prevalente sul
tema della islamofobia: da un lato, si tende a negare il carattere
potenzialmente problematico della massiccia diffusione di un sistema
valoriale “altro” all’interno delle società europee, attribuendo caratteri
“fobici” - e talvolta “razzistici” - a qualunque discorso critico sul tema;
dall’altro lato, si afferma la necessità, per superare i residuali conflitti indotti
dagli opposti estremismi, di moltiplicare la conoscenza dei “caratteri
autentici dell’Islam” (auspicio condivisibile in astratto, ma che resta privo di
senso senza una adeguata problematizzazione della nozione di Islam e
della stessa nozione di “autenticità”) e, soprattutto, di incrementare la
presenza demografica e la “rappresentatività” culturale e politica dei
musulmani nel nostro Paese come nel resto dell’Unione Europea. Se
“l’ignoranza” è causa della patologia, la “conoscenza” - delle culture e
delle persone concrete- è insomma l’unica efficace terapia per contrastarla.
Senza ovviamente contestare in alcun modo i pericoli dell’ignoranza ed
il positivo valore della conoscenza reciproca nei rapporti tra persone e
gruppi di culture differenti, sembra tuttavia opportuno compiere un tentativo
di problematizzare alcuni aspetti del sistema di rappresentazioni sin qui
descritto, che appaiono di assoluto rilievo a livello epistemologico.
Preliminare alla progettazione di un qualunque percorso terapeutico, è
infatti la possibilità di formulazione di una diagnosi corretta. Ora, è proprio
su questo punto che le rappresentazioni della islamofobia nella società
italiana sembrano richiedere una attenta verifica - e forse anche una
profonda revisione - per un duplice ordine di motivi.
In primo luogo, nella valutazione dei “sintomi” non si può prescindere da
una adeguata valorizzazione di indicazioni, anche statistiche, che sembrano
porsi in contrasto con l’immagine, sin qui evocata, di una società
islamofobica.

39
In secondo luogo, la definizione stessa della “patologia” qui presa in
esame è ben lungi dall’essere oggetto di unanime accordo sia in sede
scientifica che in sede di pratica applicazione (incluse le prassi sociali e
istituzionali). Infatti, per alcuni osservatori la nozione di islamofobia andrebbe
riferita, in linea con l’etimologia del termine, esclusivamente a forme di
“paura infondata” o di “avversione pregiudiziale” contro la religione e la
cultura islamica (è questa, ad esempio, la definizione del lemma nel
Dizionario Treccani)3. Per molti altri tale nozione include, come si è detto,
forme di razzismo contro le persone che praticano la fede musulmana o
provengono da quella cultura (come nei già citati documenti dell’Ufficio
Nazionale Anti-Razzismo, UNAR). Per altri ancora, essa sembra doversi
estendere, di fatto, a qualunque critica - anche razionalmente argomentata
- nei confronti della religione e della civiltà islamica o di particolari aspetti di
essa, in quanto ciò sarebbe comunque espressione di una tendenza ad
affermare gerarchie di valori tra le diverse culture (è stato questo, ad
esempio, il ragionamento alla base del processo disciplinare per islamofobia
avviato, nel 2014, dall’Ordine dei Giornalisti contro Magdi Cristiano Allam,
conclusosi peraltro con una piena assoluzione4). Infine, nel ricorrente
dibattito sull’identità culturale europea e sulle diverse identità nazionali,
sono emerse posizioni tendenti a squalificare come islamofobica qualunque
rappresentazione identitaria che non contempli l’esplicita inclusione
dell’Islam tra i fattori costitutivi - anche in proiezione storica - di tale identità:
un esempio tra molti, le critiche espresse dall’intellettuale musulmano
francese Abd Al Malik, in nome tanto della laicità quanto del contrasto alla
islamofobia, contro l’affermazione della originaria connotazione “giudaico-
cristiana” dell’identità francese5; una linea sulla quale si è spinto
recentemente, con esiti paradossali, anche un analista politico italiano
generalmente sobrio come Antonio Polito, il quale, in un articolo apparso
sul Corriere della Sera dopo la strage alla moschea di Christchurch, ha
ridotto la battaglia navale di Lepanto, e la stessa impresa di Carlo Martello
a Poitiers, a simboli della islamofobia contemporanea6.

3 http://www.treccani.it/vocabolario/islamofobia/

4 https://www.magdicristianoallam.it/editoriale/io-assolto-perche-l-islamofobia-non-esiste.html

5 Cfr. Abd Al Malik, Place de la République. Pour une spiritualité laïque, Bouziques: Indigènes
éditions, 2015, p. 9.

6 https://www.corriere.it/opinioni/19_marzo_15/quei-limiti-invalicabili-2d41ab3a-4760-11e9-93fb-
6bb49234797c.shtml

40
Per queste molteplici ragioni, appare necessario spingere l’analisi più a
fondo, per verificare se la società italiana sia realmente affetta, o anche
solo insidiata, da una “malattia dell’immaginario” definibile come
islamofobia, o se questa non debba piuttosto ritenersi come una “malattia
immaginaria”.
Ovvero, se la diagnosi di islamofobia non sia a sua volta il prodotto di
una fobia - ispirata da considerazioni di natura ideologica - che rischi di
paralizzare, nelle spire del politicamente corretto, il discorso pubblico sul
rapporto con l’universo materiale e simbolico dell’Islam - nelle molteplici
accezioni che il termine comporta: come visione religiosa e sistema di
pensiero; come civiltà storicamente articolata in una pluralità di forme di
vita sociale e culturale e in una varietà di realtà politiche e statuali ispirate
ad un comune costellazione di principi; come complessa tradizione
giuridica; come rete di organizzazioni nazionali ed internazionali; come
riferimento identitario e valoriale - variamente inteso, declinato e
problematizzato - delle singole persone di fede musulmana.

2. ISLAMOFOBIA E IGNORANZA: UN BINOMIO NECESSARIO?

Come già accennato, le rappresentazioni dell’Italia come Paese malato, o


quanto meno “soggetto a rischio”, di islamofobia trovano ampio spazio nelle
più varie sedi di elaborazione culturale e di formazione dell’opinione pubblica.
In primo luogo, sono ricorrenti gli allarmi dei media sul dilagare di
atteggiamenti islamofobici nella società italiana. Già nel 2015, ad esempio,
dopo gli attentati islamisti di Parigi, il Corriere della Sera denunciava una
crescita della islamofobia in Europa, presentandola come uno degli obiettivi
perseguiti dalla stessa Isis al fine di polarizzare le società occidentali e
spingere i musulmani europei a radicalizzarsi7. Sul finire dello stesso anno, il
sito di informazione Stati Generali definiva l’Italia “capitale europea
dell’islamofobia”, asserendo che “il 63%” della popolazione avesse
“un’opinione sfavorevole dei musulmani presenti nel nostro Paese”8, sulla

7 Cfr. Alessandra Coppola, “Con gli attacchi di Parigi torna l’islamofobia. Ma questa è la
strategia dell’Isis”. Corriere della Sera online, s.d.. https://www.corriere.it/esteri/speciali/2015/
islamofobia/
(consultato online in data 05/08/2019).

8 Cfr. Gabriele Catania, “Italia capitale europea dell’islamofobia: il 63% di noi è ostile ai
musulmani”, Gli Stati Generali, 1 dicembre 2015 (consultato in data 03/08/2019). https://www.
glistatigenerali.com/integrazione/islamofobia-sei-italiani-su-dieci-sono-ostili-ai-musulmani/.
In realtà, il dato indicato nella ricerca del PEW Center indica una percentuale di “opinioni
sfavorevoli” leggermente inferiore: 61% e non 63%.

41
base di un’indagine condotta in diversi Paesi europei dal think-tank
statunitense PEW Research Center 9. Da allora, il PEW ha prodotto diverse
analisi sul sentiment verso i musulmani, spesso affermando l’esistenza di
una correlazione inversamente proporzionale tra la consistenza demografica
della “presenza” musulmana in un dato Paese europeo e l’indice di ostilità
anti-musulmana nella popolazione autoctona (ossia: meno numerosi sono
i musulmani, più numerosi sarebbero gli islamofobi). In particolare,
un’indagine condotta nel 2018 in quindici Paesi europei dimostrerebbe
come chi abbia una conoscenza diretta di persone di fede islamica tenda
più di altri ad avere un’opinione favorevole nei confronti dei musulmani e
dell’Islam10. L’islamofobia sarebbe quindi determinata, o comunque
alimentata, essenzialmente dall’ignoranza.

3. ISLAMOFOBIA: TEORIE CONTEMPORANEE E STORIA DEL TERMINE

L’affermazione di un nesso costitutivo tra islamofobia ed ignoranza è uno


dei pilastri di quella che potremmo definire la “teoria dell’islamofobia”
contemporanea (cioè del complesso sistema di rappresentazioni di cui
abbiamo accennato i tratti salienti nella sezione precedente). Questa teoria
trova molteplici espressioni in una bibliografia sterminata11, prodotta
soprattutto negli ultimi due decenni, sulla scia del celebre rapporto
Islamophobia: A challenge for us all, pubblicato nel 1997 dal think-tank
britannico Runnymede12 - una fondazione che presenta come sua mission
prioritaria il sostegno alle politiche di “uguaglianza razziale” (race equality)
per la costruzione di una Gran Bretagna multi-etnica nella quale “tutti i
cittadini e tutte le comunità possano sentirsi valorizzati”13.

9 Cfr. “Italians Most Critical of Muslims”, PEW Research Center, June 1, 2015: https://www.
pewresearch.org/global/2015/06/02/faith-in-european-project-reviving/eu-report-06/
(consultato in data 03/08/2019).

10 Cfr.Scott Gardner & Jonathan Evans, “In Western Europe, familiarity with Muslims is linked to
positive views of Muslims and Islam”, PEW Research Center, July 24, 2018:
https://www.pewresearch.org/fact-tank/2018/07/24/in-western-europe-familiarity-with-
muslims-is-linked-to-positive-views-of-muslims-and-islam/

11 Per un primo, sommario elenco di opere sull’islamofobia che insistono sul nesso tra questo fenomeno
e l’ignoranza e/o distorsione della cultura e della religione islamica, si rinvia al seguente link
https://www.google.com/search?q=islamophobia+books&rlz=1CAKEFG_enIT721IT721&oq=i-
slamophobia+books&aqs=chrome..69i57j0l4j69i60.6975j0j7&sourceid=chrome&ie=UTF-8

12 Cfr il report al seguente link:. https://www.runnymedetrust.org/uploads/publications/pdfs/


islamophobia.pdf

13 Cfr. https://www.runnymedetrust.org/about.html

42
Molto probabilmente, il 1997 rappresenta un “punto di svolta” nella storia
- in parte ancora dibattuta - del concetto di islamofobia. Da un lato, occorre
precisare che le prime attestazioni note di tale nozione precedono di circa
un secolo la pubblicazione del report della Fondazione Runnymede. Infatti,
contrariamente ad alcune ricostruzioni che imputano l’elaborazione di tale
nozione all’ayatollah Khomeini o ad intellettuali vicini alla Fratellanza
Islamica14, il termine islamophobie risulta già presente nel lessico intellettuale
francese del primo Novecento, sia pure con una circolazione assai limitata.
Come hanno dimostrato recentemente Abdellali Hajjat e Marwan
Mohammed15, alcuni studiosi e funzionari delle amministrazioni coloniali
(due ruoli spesso sovrapposti, all’epoca, in una medesima persona) usano
il termine islamophobie, nei primi anni del XX secolo, per contestare, tra
l’altro, i timori degli ambienti governativi in ordine ad un possibile ruolo
eversivo dell’Islam - come sistema di valori e come rete organizzativa - nei
territori colonizzati; in particolare, si segnala La politique musulmane dans
l’Afrique occidentale française (1910) del giurista Alain Quellien, in cui la
“difesa” dell’Islam si basa peraltro, in larga misura, su argomenti di chiara
connotazione razzista, come l’idea che la morale islamica sia più adatta di
quella cristiana alle popolazioni “nere” in quanto più conciliante nei
confronti degli istinti naturali16. Pochi anni più tardi, come segnala Vincent
Geisser in uno studio del 2003, il termine è utilizzato dal pittore “islamofilo”
Etienne Dinet per ironizzare sull’atteggiamento delle istituzioni cattoliche nei
confronti dell’Islam17. Tuttavia, bisogna altresì rilevare che l’uso generalizzato
del termine nella lingua inglese e, soprattutto, la particolare curvatura
concettuale “antirazzista” che esso ha ricevuto nel dibattito culturale
contemporaneo, sembrano da ricondurre, in larga misura, proprio
all’impatto, sul dibattito culturale, del report pubblicato dalla Fondazione
Runnymede nel 1997.
Nella legione di pubblicazioni apparse dopo quella data, sembra
opportuno segnalare almeno, per complessità di costruzione, il volume
Islamophobia: Making Muslims the Enemy di Peter Gottschalk e Gabriel

14 Cfr. ad es., Caroline Fourest & Fiammetta Venier, “Islamophobie?”, ProChoix 26-27 (2003); Pascal
Bruckner, La tirannia della penitenza. Saggio sul masochismo occidentale, (tr. it.), Parma:
Guanda, 2007.

15 Abdellali Hajjat e Marwan Mohammed, Islamophobie comment les élites françaises fabriquent
le “problème musulman”, Paris: La Découverte, 2013.

16 Alain Quellien, La politique musulmane dans l’Afrique occidentale française. Paris: E. Larose,
1910.

17 Vincent Geisser, La nouvelle islamophobie, Paris, La Découverte, 2003.

43
Greenberg18 ed i molti lavori dello statunitense John Esposito19, per non dire
della vasta produzione legata a Tariq Ramadan e agli ambienti intellettuali
della Fratellanza Islamica (un tema sul quale ci permettiamo di rinviare al
saggio di Mario Ciampi sull’Islam europeo nel presente volume). In ambito
italiano, una posizione decisamente originale è espressa da Enrico
Galoppini20, che si allontana significativamente dalla dominante lettura
“progressista” della islamofobia: in linea con una particolare visione positiva
dell’Islam che caratterizza diverse correnti di pensiero “anti-moderno” - in
particolare, controversi pensatori della Tradizione come Guénon ed Evola-
Galoppini vede nell’ostilità anti-islamica non soltanto il prodotto di presunte
manipolazioni occidentali volte a giustificare pretese egemoniche e guerre
imperialistiche ma anche il risultato di un confronto tra il solido sistema di
valori spirituali che egli ritiene incarnato dall’Islam ed una modernità
“liquida” insofferente verso tali valori e verso il senso del divino:
“La “cultura islamica” ci mette di fronte ad una delle menzogne
fondamentali del “laicismo”: che non sia possibile coniugare la “modernità”
con la “tradizione”. Se con “modernità” s’intende semplicemente l’esserci
qui ed ora, non tutto l’ambaradam dei cosiddetti “diritti umani” di conio
occidentale che, postulando di fatto l’inesistenza di Dio, i musulmani
coerentemente rigettano”.21

4. ISLAMOFOBIA E “DISCORSI D’ODIO”

Nelle università italiane, soprattutto in ambito antropologico e


sociologico, sono molteplici le iniziative di ricerca tese a definire e valutare

18 Peter Gottschalk and Gabriel Greenberg, Islamophobia: Making Muslims the Enemy, Plymouth,
UK: Rowman & Littlefield Publishers, 2008.

19 Si veda, in particolare, John Esposito & Ibrahim Kalin (eds.), Islamophobia: The Challenge of
Pluralism in the 21st Century, New York: Oxford University Press, 2011. Significativamente, Esposito
ha intitolato Ignorance and Islamophobia una conferenza del 2012, pubblicata (in formato
video) nel sito The Muslim Times nel 2013:
https://themuslimtimes.info/2013/08/03/video-john-l-esposito-ignorance-and-islamophobia/
(consultata online in data 04/08/2019). Per una lista completa delle pubblicazioni d Esposito,
si rinvia alla sua pagina docente nel sito della Georgetown University: http://georgetown.
academia.edu/JohnEsposito/CurriculumVitae

20 Si veda, in particolare: Enrico Galoppini, Islamofobia. Attori, tattiche, finalità, Edizioni all’insegna
del Veltro, Parma 2008. Appare utile segnalare, in quest’opera di un autore che si colloca nel
campo della “Tradizione”, la presenza di una postfazione dovuta ad un pensatore marxista
quale Costanzo Preve.

21 Enrico Galoppini, “La censura è solo islamica?”. Arianna Editrice, 06/04/2014: https://www.
ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=48088 (consultato online in data 05/08/2019).

44
le caratteristiche e l’intensità della islamofobia e di altre fobie22 nei confronti
delle diversità etniche, culturali, religiose, sessuali. Tra le più note, la Mappa
dell’Intolleranza, realizzata annualmente dall’associazione VOX -
Osservatorio Italiano dei Diritti in collaborazione con l’Università Statale di
Milano, l’Università di Bari, La Sapienza di Roma e il Dipartimento di sociologia
dell’Università Cattolica di Milano, per monitorare qualità, quantità e
distribuzione geografica dei “discorsi d’odio” (hate speech) nelle reti social.
Giunta nel 2019 alla sua quarta edizione, la Mappa dedica da sempre
spazio al tema dell’islamofobia, considerata sia come fenomeno in sé, sia
come parte di una generica ostilità contro le persone “considerate aliene”.
Quest’ultima viene valutata sommando i dati relativi a tre diverse categorie:
musulmani, ebrei e migranti23 (un procedimento, invero, suscettibile di
qualche obiezione epistemologica, poiché sembra non tener
adeguatamente conto delle complessità specifiche delle diverse categorie
implicate e delle loro possibili interazioni: basti pensare, ad esempio, che
l’antisemitismo colpisce anche ebrei italiani e può essere praticato anche
da musulmani italiani o da migranti - sia musulmani sia cristiani - oltre che
da xenofobi e/o antisemiti autoctoni). Anche per i responsabili di VOX, in
ogni caso, l’intolleranza è fondamentalmente legata alla non-conoscenza
delle persone “considerate diverse”:
“Oggi l’odio si concentra contro le persone considerate diverse, per
appartenenza a culture differenti dalla nostra [...]. Ma dalla rilevazione
emerge un altro aspetto importantissimo. I tweet intolleranti diminuiscono,
dove è più alta la concentrazione di migranti, dimostrando quindi una
correlazione inversa tra presenza sul territorio e insorgere di fenomeni di
odio: come a dire, conoscersi promuove l’integrazione”24.

5. ELEMENTI PER UNA “DIAGNOSI” ALTERNATIVA

Secondo le rappresentazioni sin qui evocate, gli orientamenti


dell’opinione pubblica sarebbero pervasi di crescente ostilità pregiudiziale
verso la “religione e la cultura islamica” e verso le persone di fede islamica.
In questo quadro, la nozione di islamofobia si presenterebbe come una

22 Sulla connotazione ideologica di quest’uso estensivo del termine fobia, cfr. supra, nota 1.

23 Cfr. Mappa dell’Intolleranza anno 3: http://www.voxdiritti.it/la-mappa-dellintolleranza-anno-3-la-


nuova-radiografia-dellitalia-che-odia-online/

24 Ibid.http://www.voxdiritti.it/la-mappa-dellintolleranza-anno-3-la-nuova-radiografia-dellitalia-
che-odia-online/

45
forma specifica di razzismo25. Tuttavia, una tale “diagnosi” dello stato della
società italiana sembra prestarsi a qualche seria obiezione.
In primo luogo: se la realtà sociale del Paese fosse così inquietante, si
dovrebbero poter trovare tracce evidenti di islamofobia non soltanto in studi
selettivi condotti su realtà “patologiche” per definizione, come i citati
campioni di “discorsi d’odio” - peraltro definiti sulla base di liste di parole-
chiave la cui scelta, con tutte le cautele epistemologiche che si possano
adottare, risulta pur sempre, inevitabilmente, influenzata anche da una
componente soggettiva e aprioristica-, ma anche in analisi condotte su
campioni rappresentativi della generalità della popolazione.
Come spiegare, allora, i risultati emersi dell’approfondita indagine
statistica inferenziale condotta nel luglio 2019 (e dunque in una fase di
grande successo delle forze “populiste” e “sovraniste”) da Arnaldo Ferrari
Nasi e da lui commentata in questo stesso volume? Rinviando ovviamente
all’articolo in questione per una analisi dettagliata di tale indagine, in
questa sede sembra comunque opportuno esprimere alcune considerazioni
generali suggerite dagli esiti di quella rilevazione. In estrema sintesi, si
osserva che dalle numerose domande in cui si articola la ricerca, rivolte ad
un campione rappresentativo di differenti ambiti sociali, culturali e geografici
della popolazione italiana, emerge il quadro di un’opinione pubblica
decisamente non “fobica” nei confronti dell’Islam e delle persone di fede
musulmana. In particolare, i due terzi degli intervistati ritengono possibile
una positiva integrazione degli immigrati musulmani, e una maggioranza
altrettanto ampia concorda sull’idea che la maggior parte dei musulmani
presenti in Italia sia “moderata”. Analogamente, molti degli intervistati
dimostrano di non avere ostilità preconcette verso l’Islam come religione:
un’ampia maggioranza ritiene che questa religione, pur avendo vissuto
anche periodi storici di violenza e intolleranza, sia però suscettibile di
interpretazioni aperte alla tolleranza e al dialogo, mentre una parte
minoritaria ma assai cospicua (circa un quarto) degli intervistati definisce
tout court l’Islam come “una religione di pace e di tolleranza”. In
quest’ambito, inoltre, risulta da segnalare il numero straordinariamente
basso (12%) di quanti ritengono che l’Islam si sia diffuso principalmente
attraverso le conquiste militari - e ciò, sia consentito sottolinearlo, risulta in
parte sorprendente, se si considera come tali conquiste abbiano segnato
proprio le fasi iniziali della storia islamica e contribuito allo sviluppo di un

25 Cfr. Lorenzo Declich, Islam in 20 parole, Bari: Laterza, 2016.

46
immaginario collettivo in cui (anche per numerosi asceti e mistici sufi) lo
“sforzo (jihâd) sulla via di Dio” si concretizza spesso - benché non sempre e
non esclusivamente - in pratiche di combattimento militare.26
A distanza di quattro anni dal citato rapporto del PEW Research Center,
dunque, i risultati sembrano esattamente invertiti rispetto a quelli che
avevano indotto qualcuno a dichiarare, forse frettolosamente, l’Italia
“capitale europea dell’islamofobia”: saremmo passati, cioè, da un 61% di
“opinioni sfavorevoli” sui musulmani presenti in Italia, ad oltre il 60% di
“opinioni favorevoli”. Una inversione di tendenza a dir poco sorprendente, in
un Paese in cui la islamofobia sarebbe in vertiginoso aumento.
Peraltro, anche le opinioni - minoritarie- che nel sondaggio potrebbero
essere qualificate come “negative” non sembrano mai fondate su ostilità
preconcette ma sulla valutazione, magari pessimistica ma non per questo
“pregiudiziale”, di specifici aspetti legati alla concretezza dello sviluppo
storico dell’Islam e/o alla consapevolezza della potenziale problematicità
delle relazioni interculturali in un contesto sociale determinato. Anche questi
dati, dunque, sembrano portare una significativa smentita alle
rappresentazioni di una vasta diffusione della islamofobia, che per essere
tale dovrebbe appunto fondarsi su forme di “avversione pregiudiziale”.
Ovviamente, un solo sondaggio non basta ad invertire un quadro che
sembra fondarsi su una mole di indagini precedenti. Tuttavia, l’indagine
demoscopica condotta da Ferrari Nasi ha prodotto una serie di evidenze
statistiche con le quali non sarà possibile non confrontarsi, nel prosieguo
del dibattito pubblico sul tema della islamofobia. Lasciando agli studiosi di
scienze statistiche e sociologiche una più approfondita valutazione dei
dati, non possiamo non rilevare, in questa sede, come l’indagine di Ferrari
Nasi segnali la necessità di coltivare, quanto meno, un ragionevole dubbio
rispetto all’esistenza di una epidemia di islamofobia nell’Italia di oggi.
In effetti, simili dati mostrano semmai un notevole grado di apertura
della società italiana nei confronti delle persone di religione e di cultura
islamica (purché, come indicano alcuni aspetti della rilevazione, tale
presenza sia inserita in un contesto di certezza dei riferimenti giuridici comuni
e di rispetto di alcuni elementi della cultura nazionale). In taluni casi, essi
sembrano anzi indicare una notevole incidenza, presso settori cospicui

26 Cfr. Michael Bonner, Jihad in Islamic History: doctrines and practice, Princeton: Princeton University
Press, 2006. Sul rapporto tra sufismo e jihad, si veda anche Giuseppe Cecere “The Shaykh and
the Others - Sufi Perspectives on Jews and Christians in Late Ayyubid and Early Mamluk Egypt”,
Entangled Religions (2018), pp. 34-94.

47
dell’opinione pubblica, di stereotipi positivi e di rappresentazioni che
affermano una metastorica “essenza irenica” dell’Islam, anche in potenziale
contraddizione con la complessità delle realtà storiche che ne hanno
segnato lo sviluppo.
In questa rilevazione, si riscontrano dunque, da un lato, atteggiamenti di
equilibrio e di apertura che evidenziano a nostro avviso le conseguenze, di
lungo e medio periodo, di una vasta e articolata serie di positivi sforzi
prodotti condotti da uomini e donne dell’accademia, della cultura, delle
istituzioni civili e religiose, sin da tutto il secolo scorso, sul terreno della
conoscenza storica obiettiva del complesso universo islamico, della
comprensione interculturale, del dialogo interreligioso; dall’altro, si registrano
anche atteggiamenti di simpatia “pregiudiziale” per il mondo islamico,
legati all’ampia diffusione nel discorso pubblico, almeno dall’ultimo quarto
del XX secolo, di rappresentazioni ideologiche di derivazione “post-
coloniale” ed “anti-occidentale” che - a partire dalle letture, di impronta
sartriana o fanoniana, dei “dannati della terra” come nuovo proletariato
rivoluzionario27, e dalla critica all’orientalismo elaborata da Edward Said28
(che opera una radicale decostruzione dell’etnocentrismo della cultura
occidentale, ma omette - consapevolmente- di applicare lo stesso sguardo
critico alle costruzioni etnocentriche elaborate dalla cultura islamica e, di
fatto, da qualunque altra cultura storica) - hanno contribuito a produrre
immagini stereotipate dei rapporti tra “Occidente” e “Islam”, ridotti a termini
fissi di una relazione tra oppressore ed oppresso, laddove la storia dimostra
una pluralità di situazioni complesse - fatte di scambi, intrecci, conflitti - in
cui i ruoli si sono tante volte invertiti o sovrapposti.
Proprio la diffusione, nei più diversi ambiti di formazione dei saperi e delle
opinioni del Paese, di tali diversi sistemi di rappresentazioni - quelle, più
connotate nel senso dell’obiettività scientifica, della ricerca orientalistica di
stampo “tradizionale” e quelle, ideologicamente connotate in senso
variamente “filo-islamico”, prodotte dalle rivoluzioni epistemologiche che
hanno trovato la loro data-simbolo nel 1968 - sembra aver agito, peraltro,
come un fattore determinante per la costruzione di un efficace sistema
“immunitario” contro l’emergere e il diffondersi della islamofobia negli
ambienti colti del Paese.

27 Frantz Fanon, Les damnés de la terre. (Avec préface de Jean-Paul Sartre), Paris: Maspero, 1961

28 Edward W. Said, 1978. Orientalism. New York: Pantheon Books, 1978.

48
6. CONCLUSIONI

Se considerazioni di vario genere sembrano suggerire che tanto gli


ambienti colti quanto la generalità della popolazione siano sostanzialmente
immuni, almeno nelle loro componenti largamente maggioritarie, da forme
di ostilità preconcetta contro l’Islam e contro i musulmani, che cosa giustifica
le reiterate e diffuse rappresentazioni della società italiana come
islamofobica?
La risposta ad un tale quesito richiede senza dubbio un lavoro analitico
di lunga lena. Tuttavia, già ad una prima valutazione degli elementi sin qui
emersi, un fattore cruciale sembra essere rappresentato dalle diverse
sensibilità con cui, come già accennato, viene interpretata, e applicata, la
nozione di islamofobia.
Se il termine viene riferito alle sue valenze etimologiche di “paura
infondata” o “avversione pregiudiziale” contro la religione e la cultura
islamica e/o contro i musulmani, non si può parlare di una diffusione
significativa dell’islamofobia nella società italiana; anche se resta
ovviamente alta la necessità di contrastare qualunque espressione di
effettivo razzismo - antislamico, islamista o di qualsivoglia altra matrice - che
possa affiorare in contesti sociali “reali” o “virtuali”.
Se invece si adotta una nozione più elastica del termine islamofobia,
esso diviene facilmente applicabile a qualunque discorso che comporti
una critica ad aspetti della cultura islamica o a qualunque riflessione
sull’identità culturale, sulla sovranità, sull’organizzazione sociale di un Paese
che si ponga come alternativo - o non pienamente conforme - al pensiero
dell’altro ed alle posizioni multiculturaliste tuttora prevalenti nel discorso
pubblico.
Ma in tal caso, non si tratta più di una “malattia dell’immaginario”
quanto piuttosto di una “malattia immaginaria”, evocata - con maggiore o
minore buona fede - per escludere dallo spazio del dicibile, e anche del
pensabile, teorie e punti di vista non graditi.

Giuseppe Cecere
docente di lingua e letteratura araba,
Università di Bologna

49
SECONDA PARTE
UNA MINACCIA PER L’EUROPA.
ANALISI

51
OSSERVAZIONI SULL’ISLAM
E L’ISLAMISMO
di Francesco Alberoni

Tutti i movimenti islamici della prima parte del XX secolo nascono come
risposta alla crescita della potenza occidentale, in particolare alla sconfitta
dell’Impero Ottomano che si estendeva ad oriente fino alla Persia e nel
Mediterraneo fino all’Algeria.
La Prima Guerra Mondiale ha fatto letteralmente esplodere l’Impero
Ottomano e ci ha lasciato come residuo la Turchia di Ataturk e il resto fatto
a pezzi dalla Francia e dall’Inghilterra che hanno creato dei protettorati e
dei più o meno fragili Regni spesso poi spazzati via da dittature modernizzanti
e socialistizzanti come in Libia, in Egitto, in Siria, in Iraq oppure a formazioni
politiche nazionalitarie come in Algeria e in Tunisia. Questo processo di
nazionalizzazione dominerà la scena politica nella prima metà del XX
secolo per lasciare il posto, nella seconda metà, ad un movimento islamista
antinazionale, panislamico, un vero e proprio risveglio dell’Islam che si
ripresenta come ritorno alle origini all’epoca dei Maometto e dei califfi ben
guidati (Al Khulafa ur Rashidun).

Il primo movimento islamista è quello wahhabita che si propone di


restaurare l’Islam originario e porta alla costituzione di uno Stato wahhabita
realizzato da Abdul Aziz ibn Saud con la conquista dei luoghi santi e a
creazione dell’attuale Arabia Saudita. In seguito dilaga dalle Filippine
all’Iraq, dall’Egitto al Marocco, vuol far rivivere la Umma Islamiyya (la
comunità dei credenti) così come esisteva all’epoca dei califfi ben guidati
(al-khulafa al-Raˉshiduˉn) quando l’Islam aveva conquistato quasi tutto il
mondo conosciuto e aveva creato lo Stato islamico col suo diritto sacro, la
sharia, l’unità di religione e politica (al islam din wa daulah) e si proponeva
con la Jihad la totale islamizzazione politico-religiosa della terra.

Già nel 1929 Hasan al Banna fondava in Egitto il movimento dei Fratelli
Musulmani che vuol reislamizzare la società in tutti i suoi aspetti, civili, morali
e politici liberandosi dal dominio straniero, fisico e culturale. Parallelamente
in India Mawdudi vuol eliminare le differenze fra Nazioni, ricostituire la Umma

52
islamica governata dalla sharia e da un santo califfo. In Egitto, Sayyd Qutb
identifica la corruzione attuale con quella preislamica, la jiahiliyya, che può
essere eliminata solo con la guerra, la Jihad che fonda un’unica patria
musulmana che ha come costituzione il Corano e la sharia.

L’islamismo riprende slancio nel 2001 con l’attacco alle Torri Gemelle da
parte di Bin Laden la cui roccaforte era l’Afghanistan in Asia. Lì, l’URSS aveva
schiacciato le moschee e le scuole islamiche al punto da dare allo straniero
l’impressione che l’intera Asia sovietica fosse stata deislamizzata. Questa
illusoria sicurezza la portò ad invadere l’Afghanistan dove pensava di trovare
solo una opposizione tradizionale. Invece il movimento dei muhajeddin era
religiosamente ispirato e godeva dell’appoggio economico e militare
dell’Arabia Saudita wahabita e degli Stati Uniti che appoggiavano il
movimento islamista in funzione antisovietica. In questo modo i Russi furono
costretti a ritirarsi e l’Afghanistan venne occupato dai Talebani organizzati
sotto la presidenza pakistana di Benazir Butto. Fu in questo periodo che Bin
Laden dopo aver compiuto numerosi lavori in Afghanistan organizzò
l’attacco alle Torri Gemelle. Gli Americani chiesero ai Talebani di
consegnarglielo, questi dissero di no, e loro invasero l’Afghanistan.
George W. Bush per sbarazzarsi di Saddan Hussein conquistò l’Iraq
appoggiandosi agli Sciiti. Il risultato fu che i Sunniti rimasti fedeli a Saddam
Hussein confluirono nel califfato di Al Baghdadi che dichiarò guerra totale
all’Occidente.

Un nuovo impulso all’islamismo lo diede nel 2011 la cosiddetta Primavera


Araba che gli americani interpretarono come l’affermazione della
democrazia e invece portò al potere gli islamisti che volevano abbattere i
regimi laici esistenti, reislamizzare il Paese, ricostituire il califfato e combattere
fino alla vittoria finale gli infedeli.
Le guerre mediorientali provocarono massicce migrazioni islamiche
dall’Asia e dall’Africa verso l’Europa che rimase inerte sempre aspettando
una iniziativa americana. Ma il presidente Obama decise di non fare nulla
e forse vide con piacere l’islamizzazione dell’Europa. Finché, dopo,
l’attentato a Charlie Hebdo e al Bataclan il popolo francese è sceso nelle
strade urlando e piangendo. È stata una rivolta della coscienza europea
contro la barbarie. In poco tempo è avvenuta la rivalutazione della nostra
civiltà, dei nostri valori, del nostro modo di vita. Ed è incominciata la lotta al
terrorista, al jihadista. L’appoggio decisivo della Russia a favore del Governo
siriano e l’offensiva sciita e curda in Iraq hanno portato alla sconfitta militare

53
e alla distruzione fisica del Califfato fermando l’offensiva islamista. Con
l’offensiva islamista sta svanendo anche il progetto di occupazione islamica
o di islamizzazione dell’Europa.

Nel frattempo avveniva la globalizzazione e la rivoluzione di Internet che


ha avuto come effetto in tutto il mondo di togliere valore al passato, alla
cultura tradizionale, al sapere consolidato, concentrare l’attenzione sullo
svago, i consumi, la cura del proprio corpo, la liberalizzazione dei rapporti
erotici. Ma Internet ha prodotto anche delle modificazioni del modo di
pensare, disabituando la gente non solo a leggere, ma anche ad usare la
memoria a lungo termine concentrarsi sull’attualità. Il resto lo trovi in Google,
però nel modo in cui vuole Google e fatto da chi pare a lui. La lettura di
Google però è episodica e con memoria a breve termine; non si presta al
consolidamento e all’insegnamento di una religione. Il risultato è che le
religioni del “libro” Ebraismo, Cristianesimo e Islam ne sono state indebolite.
Se nel mondo islamico e poi soprattutto nel movimento islamista la base di
ogni riflessione morale filosofica e giuridica erano le sure del corano recitate
a memoria; già oggi le nuove generazioni stanno perdendo questa
abitudine. Anche le regole della sharia vengono indebolite. Proprio in questi
giorni in Arabia Saudita vengono programmati spettacoli americani e a
Tunisi è stato proibito a scuola e nei luoghi pubblici il velo integrale.

Francesco Alberoni
sociologo

54
L’ISLAMIZZAZIONE
È UN PIANO GLOBALISTA
di Alessandro Meluzzi

La vera spiegazione strategica e razionale sul fenomeno della migrazione


afro-islamica in Italia negli ultimi anni l’ha data - non si sa se candidamente
o velenosamente - Emma Bonino, già ministro degli Esteri. È lei a dire che tra
il 2014 e il 2016 furono proprio lei e Renzi a chiedere, durante le riunioni degli
organismi internazionali, alle famigerate ONG, di scaricare in Italia tutti i
migranti ritrovati nel Mediterraneo. La cosa appariva ancora, in quel
momento, un’emergenza migratoria tutto sommato temporanea con
aspetti drammatici. C’erano effettivamente in navigazione vecchie
imbarcazioni, pescherecci arrugginiti, che teoricamente avrebbero potuto
toccare le coste italiane. Ma tant’è. Questo mise in movimento un colossale
fatturato dell’accoglienza, ben noto in Italia, tanto da avere prodotto 7
miliardi di euro di introiti per le cosiddette organizzazioni umanitarie, laiche
e religiose. Ma soprattutto una pressione di immagine e di comunicazione
sullo sterminato continente africano di cui oggi vediamo gli effetti
dell’indotto.

Ma rimaniamo per un attimo sulle motivazioni nazionali dei filantropi


irresponsabili. È evidente che molti soggetti di carità pelosa hanno
estremamente beneficiato di questo colossale movimento di denaro. È un
movimento che ha origine in chi lo ha originato: infatti, Bonino e Renzi
temevano che questo denaro sarebbe stato pagato dall’Unione Europea
sia in termini di sfondamento della quota del deficit sia in termini di veri e
propri fondi europei. Purtroppo, né l’una né l’altra cosa si sono realizzate.
Quindi, i miliardi di euro sono transitati dall’erario a casse privatissime di
cooperative, realizzando un colossale business che lo stesso mafioso Buzzi
di mafia capitale definì molto più lucroso del mercato della droga. Nella
caritatevolissima Chiesa italiana, per esempio, gli immobili dismessi sono
stati messi a resa con un’utilità fino a quel momento inimmaginabile. Così
come cooperative o alberghi fatiscenti hanno finito per distruggere le
potenzialità turistiche di luoghi, su cui erano stati investiti molti denari

55
pubblici, trasformandoli in campi profughi. È questo ciò che è accaduto in
Italia.

Ma ciò che è ancora più grave è ciò che è accaduto in Africa, perché
l’immagine di potersi mettere in movimento verso la caotica Libia e a quel
punto, neppure tentare la traversata, ma attraverso associazioni mafiose
criminali africane ed europee salire su un finto gommone, che si compra su
internet per 500 euro, collegandosi via radio alle navi delle ONG, per essere
ripescati ed essere automaticamente scaricati nell’accoglientissima e
disponibilissima, anche in termini economici, Italia, dove ogni cosiddetto
migrante o rifugiato riceve 1200 euro al giorno che hanno prodotto un
bilancio patologico distruttivo per le nostre prospettive economiche ma
anche per quelle degli sciagurati approdati in Italia.

Che cosa questo abbia prodotto nel crimine organizzato, nella sicurezza
collettiva, nella micro-criminalità, è argomento che affrontiamo tutti i giorni.
Non è questo il punto. Il fatto è che questo sciagurato mercato, sostenuto
da navigli pagati dalle organizzazioni finanziate da Open Society di Soros
con un’oscura strategia di afro-islamizzazione dell’Italia, già preconizzata
da Oriana Fallaci, sembra inarrestabile e incontenibile. Già, perché ogni
tentativo di arginarlo viene immediatamente sventato da buonisti
irresponsabili che nel nome del diritto alla salvezza degli umani, applicano
questa semplice equazione: chiunque entri in acqua deve essere salvato e
chiunque venga salvato, anche a centinaia di miglia delle coste italiane,
deve essere portato necessariamente in Italia. Chissà perché non in Algeria,
in Tunisia, a Creta, a Cipro o a Malta. Guarda caso, arrivano in quello
sterminato campo profughi che sta diventando il Mezzogiorno d’Italia, e in
verità tutta l’Italia.

È evidente che il Ministro dell’Interno Salvini non può che tentare di porre
fine a questo losco traffico. Un traffico che produce effetti devastanti
sull’Italia. Secondo alcune stime ci sarebbero milioni di africani pronti a
compiere il tragitto che li porterebbe nel Bel Paese in cerca di migliori
fortune. Si tratta di individui che non provengono certamente da zone di
guerra, ma semmai da territori come la Nigeria o la Costa d’Avorio, dove il
tasso di crescita di PIL annuo si stalla intorno all’8%. Non si tratta di famiglie
disperate, ma per lo più di giovanottoni rispetto ai quali la famiglia d’origine
investe decine di migliaia di dollari per metterli in movimento. Oppure
giovani minorenni che si avviano al mercato della prostituzione più o meno
consapevolmente. O ancora foreign fighters che alimentano lo strutturato

56
mercato della droga, che è ormai saldamente governato dalla mafia
nigeriana.
Fingere di non poter fermare tutto questo è stata la grande colpa del PD,
della Chiesa Cattolica e di organizzazioni sedicenti umanitarie, ancorate a
quell’organizzazione clientelare che è l’ONU e a tutte le sue diramazioni,
che ogni giorno suggeriscono di accogliere tutti coloro che scappano
dalla fame oppure dalla sete o da bisogni materiali. Se noi accettassimo
questo principio, per cui l’Europa e l’Italia diventino permeabili a qualsiasi
flusso migratorio, credo che la catastrofe sarebbe inimmaginabile, non solo
per l’Italia ma anche per la realtà africana che considera i propri problemi
economici e demografici risolvibili attraverso una parassitizzazione definitiva
di intere generazioni. Quindi, fa bene Salvini a proporre l’unica misura
possibile: impedire a queste navi negriere, che si mettono in movimento da
cinque miglia dalla costa libica con un chiaro trucco e forti motivazioni
ideologiche, di veicolare il più sciagurato traffico mafioso di corpi umani dal
tempo dell’età moderna.
Bloccare i porti, applicare il blocco navale, vietare lo sbarco sono atti
indispensabili. C’è anche qualche coraggioso militare che ha parlato di
azioni in loco. Non so se ci potremo spingere a tanto ma, certo, il trucco del
ministro Minniti di pagare tribù libiche o milizie territoriali per arginare il
traffico, come tutte le forme di estorsione mafiosa, cessa immediatamente
quando si smette di pagare il pizzo. Mi auguro che Matteo Salvini preferisca
alla politica del pizzo quella dell’uso corretto della nostra Marina per la
difesa delle frontiere nazionali. Ha detto bene: l’Italia non è aggredita da
est, bensì da sud. E la NATO dovrebbe aiutarci a difenderci. Purtroppo, fino
ad ora non è stato così. Smettiamo di utilizzare la nostra Marina per presidiare
un traffico mafioso e disumano e cominciamo ad utilizzarla per impedire
che questa sciagurata miscela di falsi ideali e porci comodi produca effetti
devastanti non solo su di noi ma anche sull’Africa. Poniamo fine alla più
sciagurata vicenda finto-umanitaria che rischia di mettere in pericolo la
sicurezza nazionale e il futuro dei nostri figli e dei nostri anziani, per i quali
nessuno ha mai pensato di investire 1200 euro al mese a fondo perduto per
alimentare ozi e distrazioni.
Bravo Matteo Salvini, occorre dare un segnale concreto e immediato
che cominci ad arrestare questo flusso criminale. Occorre farlo subito e con
determinazione perché domani potrebbe essere troppo tardi.
Credo che qualche spazio organizzato intorno alla carità possa ancora
esserci, purché abbia alcune caratteristiche: la trasparenza dei

57
finanziamenti, il vero filantropismo dell’attività, il rifiuto di cambiamenti
geopolitici radicali, un atteggiamento pietoso nei confronti dei deboli
meditato. Il migrazionismo è finanziato oggi da qualcuno che vuole
cambiare l’etnia europea per creare un’Eurafrica o un’Eurasia. Inoltre,
accogliamo individui che sono già criminali prima di partire e che sfogano
nel nostro Paese un’inclinazione mostruosa.
Come prima cosa bisognerebbe bloccare il flusso migratorio dal Nord
Africa, poi bisognerebbe far rientrare tutti quelli che hanno le caratteristiche
per poter tornare a casa propria. Sono i primi due passi verso il benessere
pubblico. L’articolo 276 del codice penale dice che coloro che ricevono
soldi per fare attività che danneggiano la sovranità dello stato sono
condannati con una pena carceraria. Il secondo libro del codice penale
parla degli attentati alla personalità dello Stato. Bisogna applicare la legge
nei confronti di chi attenta alla sovranità dello Stato. È necessario combattere
la criminalità organizzata, come la mafia nigeriana. Bisogna riportare al
centro della vita pubblica dei cittadini la difesa della sicurezza. Bisogna
ricreare un tessuto di sicurezza all’interno della Nazione. Nelle scuole è
necessario eliminare un’ideologia che è stata costruita giorno dopo giorno
e che mina la nostra cultura, la nostra identità, la nostra tradizione nel nome
di un globalismo indistinto che ha il sapore del satanico.
Il fenomeno migratorio dall’Africa ha un’origine complessa. La prima è
strutturale e demografica. L’Europa è un continente in grave rallentamento
demografico, mentre nell’Africa sahariana e subsahariana è in corso un
boom demografico di proporzioni inusitate. È, quindi, evidente che come in
un flusso osmotico questa massa di giovani disoccupati si spinga verso
Nord alla ricerca di migliori condizioni di vita e di lavoro.
Deve essere ben chiaro che coloro che migrano non sono i più poveri.
Anzi, sono coloro che avevano già conquistato in loco posizioni di privilegio
attraverso attività artigianali e pastorali e che nella corsa all’ora verso
l’Europa decidono di vendere tutto ciò che intere generazioni hanno
accumulato per investire migliaia di euro per offrirli alle mafie,
prevalentemente nigeriane, che li porteranno verso la Libia e l’agognato
Mediterraneo. Quanto questo nuoccia all’economia africana è evidente
così come il fatto che parte del denaro giunge dalla cessione di terreni ad
un rampante capitalismo cinese che sta razziando gran parte delle risorse
africane.
È interessante dire che nell’Africa subsahariana la cultura del web è
giunta prima di qualsiasi rivoluzione industriale. Insomma, il mondo dei

58
cellulari ha popolato l’Africa ben prima della nazionalizzazione del settore
terziario. Questa virtualizzazione, insieme ad un bios esplosivo, ha prodotto
un cocktail micidiale sotto la guida dello smartphone: interi gruppi vengono
mossi dal sogno di un paese di cuccagna che viene percepito come una
mai spenta Disneyland proprio grazie alla rete. Per raggiungere il loro sogno
pagano i 5 mila euro pattuiti con le mafie altrimenti c’è il rischio di essere
consegnati a torturatori. Di cella in cella si svolge una vera e propria
deportazione, mossa dal miraggio e pagata dallo sviluppo in loco. In
Albania accadeva decine di anni fa, salvo poi accorgersi che l’Italia vista in
televisione non era quella reale ma una dura realtà, appunto, quella che gli
immigrati tendono a nascondere. Invece, la contemplazione della realtà
sarebbe una vaccinazione culturale adeguata contro lo smartphone,
oggetto totemico e protesi del cervello manipolato.
Ciò detto, buona parte del profitto di questa attività viene lucrato da
organizzazioni per lo più locali ma con presenze importanti in Europa che
svolgono iniziative mafiose. Ricordiamo che la mafia nigeriana è tra le più
pericolose del mondo, che oggi in Italia gestisce il flusso della prostituzione
e larghi settori del mondo della droga in concorrenza con le mafie italiote.
Si tratta di una mafia ben organizzata e con radicamenti anche nel mondo
del web e della rete, che ha spesso le sue radici in gruppi para-universitari
della zona del golfo del Niger, dove personaggi di etnia africana e
provenienti da ambienti goliardico-accademico hanno ricreato qualcosa
di simile alle Skull and Bones di certe università americane. Una mafia in
grado comunque di gestire i propri interessi. È proprio nei confronti di questo
terrificante mondo che si appunta l’attenzione dei buoni e dei buonisti
locali.
Non si può non cogliere una certa distinzione di accenti tra l’Avvenire
che diceva che il mondo cattolico si vergognava del governo italiano e il
Presidente della Conferenza Episcopale Italiana Bassetti che ricorda che la
volontà cristiana di voler proteggere i più deboli non deve diventare
favoreggiamento ai malvagi di turno. Questo atteggiamento razionale pare
spaccare in due la Chiesa: dall’aperturismo terzomondista alla teologia
della liberazione di Bergoglio fino a posizioni più sfumate come la Segreteria
di Stato che sembrano riecheggiare Benedetto XVI, il quale sosteneva che
bisogna accogliere gli altri che hanno, però, diritto a rimanere a vivere nel
proprio Paese per contribuire alla dignità nazionale.
Questa dimensione di una migrazione incontrollata rappresenta l’esatto
opposto di ciò che serve per rendere eventualmente più dinamica e

59
complessa la prospettiva di una migrazione controllata volta a favorire i
Paesi da cui la migrazione proviene e le economie che ne vengono investite.
Per esempio, il mondo proveniente dai Balcani si è integrato piuttosto bene
in Italia. Senza le imprese romene e senza attività moldave il mondo
infermieristico avrebbe avuto un problema di manodopera specializzata.
Ma questo flusso mitico volto esclusivamente a beneficiare una mafia
pericolosa vede finalmente qualche resipiscenza di ragionevolezza nella
Chiesa Cattolica, che sembrava essere diventata la principale agenzia di
un migrazionismo incontrollato. Un migrazionismo che vede qualche
distinzione anche dentro il Governo dove al mondo dei catto-comunisti
ideologici e al mondo delle speculazioni delle cooperative bianco-rosse in
Italia si contrappone una linea più razionale che speriamo riesca ad
affermarsi con più forza.
Certamente, il rischio di una sostituzione etnica in una realtà -in cui il
mondo islamico si esprime attraverso cinque figli per coppia al netto della
poligamia ed un mondo italiano da un figlio per coppia- non può non farci
riflettere sul futuro della nostra Nazione, della nostra identità e del nostro
modo di vivere. Una civiltà in cui fino ad ora avevamo considerato la
tradizione cristiana e illuminista come un valore aggiunto ma con un
atteggiamento suicida qualche papalino bergogliano ha voluto
nascondere, producendo catastrofi. Non consegneremo la nostra Italia né
alla mafia nigeriana né ai muezzin, perché preferiamo ancora sentir suonare
le campane piuttosto che ascoltare cantare dai minareti.
Bisogna capire che cosa è accaduto alla Patria Italia. Ed è nella luminosa
distinzione tra Patria, Stato e Nazione. Che cos’è l’interesse nazionale di un
popolo? Che cosa divide i calcoli individuali, la miscela di grandi ideali e
porci comodi? Che cosa raccoglie quella misteriosa miscela di idealità e di
concretezza che fa di un popolo una Nazione e di una Nazione una Patria?
Non si tratta della solita retorica pre e post risorgimentale a base di Ettore
Fieramosca o Giovanni delle Bande Nere. È qualcosa di tragicamente
concreto in un Paese come l’Italia, uscita sconfitta militarmente dalla
Seconda Guerra Mondiale, e che attraverso la retorica resistenziale ha
raccontato a se stesso di essere uscito vincitore almeno come la Francia del
generale De Gaulle, ma purtroppo non fu così. Questo Paese non ha avuto
neppure il coraggio delle Germania e del Giappone di spiegare a se stesso
che le leve di comando della sua statualità, dei suoi apparati di sicurezza,
del suo esercito, della sua finanza e delle necessarie ricadute industriali
sarebbero state in mani straniere?

60
Cantò Dante: “Ahi serva Amantea, di dolore ostello, nave senza nocchiere
in gran tempesta, non donna di province, ma bordello”. Questo distico del
VI canto del Paradiso ha raffigurato, meglio di qualunque altro, gli ultimi
anni della disgraziata Repubblica italiana. Una Repubblica in cui,
paradossalmente, per ritrovare toni e accenti di forza nazionale e di lucidità
occorreva che provenisse un grande leader come Matteo Salvini da una
forza nata per dividere l’Italia e per valorizzare soltanto una parte di essa.
Ma, come ben si sa, esiste una strana legge nella storia che è quella della
eterogenesi dei fini. Quella per la quale molto spesso sono le botti che
riescono a dare il vino che non avevano. In questa Italia, affidata ai protocolli
di Yalta alla vigilanza anglo-americana e ora agli accordi della finanza
europea franco-germanica, occorre che qualcuno spieghi agli Italiani a
cominciare a fare forza su se stessi per riuscire a proteggere 60 milioni di
abitanti dalla de-industrializzazione, dalla frammentazione degli interessi,
da un migrazionismo globalista esasperato e assassino, ricostruendo nel
concetto di confine quella miscela di idealità e di necessità di cui è fatta la
vita di un popolo, di una Patria e di uno Stato.
Non si può stare in alcuna Unione Europea senza valutare l’importanza e
il ruolo delle Nazioni. Quell’Europa delle Nazioni dall’Atlantico agli Urali di
cui più volte il generale De Gaulle parlò e che è il contrario di quell’Europa
delle burocrazie, della BCE e di un euro, che non potrà mai essere una
moneta se non sarà sostenuta da una vera unità nazionale di popoli, di
legalità, di modelli fiscali e di valori comuni. Tutto questo non è possibile
attraverso imposizioni attraverso logiche stupefacenti che il Presidente
Mattarella ha attuato in queste circostanze, rivelando ancora una volta
come un grande vizio degli Italiani, dalla calata di Carlo VIII in avanti, sia
quello di pensare che un esercito straniero possa sempre rappresentare gli
interessi del nostro campanile e della nostra mediocrissima utilità
momentanea meglio del connazionale e di colui che parla, come scrive
Manzoni in Marzo 1821, “una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di
sangue e di cor”.
Ci troviamo in un momento in cui per la prima volta, dopo 18 anni di
fascismo che ci ha regalato 70 anni di anti-fascismo, gli Italiani possono
davvero decidere se essere o diventare un popolo, una Nazione o una
Patria. Credo che questo sia assolutamente indispensabile. E sono certo
che un leader come Matteo Salvini, insieme ad altri giovani leader nazionali
come Giorgia Meloni, possa davvero lavorare per un rinnovamento di un
popolo altrimenti destinato alla decadenza, alla schiavitù e ad un’invasione

61
che non so se è pilotata da un piano Kalergi di un qualche tipo. Un Paese
che è condannato ad un’afro-islamizzazione, rischiando di diventare un
pezzo d’Africa piuttosto che una parte di un’Europa che non ancora non
esiste e che forse non esisterà mai se non imparerà ad essere un’unione di
popoli e non delle burocrazie, della finanza, di una sottomissione e di
un’etero-direzione che uccide la dignità insieme alla libertà.
Siamo nati in una civiltà democratica e liberale, perciò vorremmo che
anche i nostri figli e nipoti possano vivere in questo stesso bene che
rappresenta sicuramente un valore di qualità della vita e della condizione
umana che riteniamo debba essere preservato. Diceva quel grande liberale
che si chiamava Churchill che la democrazia è la migliore forma di governo
perché non è stata ancora scoperta una migliore forma di governo. Basta
vedere in quali condizioni vivono dal punto di vista democratico un miliardo
e ottocento milioni di islamici nel mondo per capire che aveva ragione il
professor Sartori che diceva che nella storia dell’Islam non c’è stata una
sola comunità inserita in una società non-islamica che si sia integrata alle
leggi del luogo, essendo scomparsa oppure colonizzata.
L’islamizzazione è un altro fenomeno, in cui uno spezzone di mondo nel
quale c’è un libro che si chiama Corano nel quale è scritto ogni cosa -quello
che si può o non si può mangiare, quale deve essere la sessualità tra uomini
e donne, come ci si deve vestire come in un gigantesco manuale delle
giovani marmotte- arrivato alle nostre latitudini non si accontenta di formare
delle enclave ma, in fondo, pretende di dettare legge a tutti. Pensare
evidentemente ad una coabitazione in Italia tra un Islam che riguarderà
soprattutto un flusso incontrollato di migrazioni di milioni di persone è una
questione non futuribile. È difficile pensare ad una coabitazione armoniosa
tra una Costituzione repubblicana come la nostra e un grande sistema
giuridico che noi rispettiamo ma per il quale l’abiura o l’apostasia o
l’adulterio sono puniti con la morte. Non vorremmo che l’Italia avesse lo
stesso destino del Regno Unito, un grande Paese post-coloniale in cui la
presenza di enclave islamiche di decine di centinaia di persone vedono
governate il diritto civile e quello matrimoniale da corti islamiche in intere
zone metropolitane e rurali dove la polizia inglese neppure entra, perché
tutto è governato da milizie autoctone.

Alessandro Meluzzi
psichiatra, criminologo, scrittore

62
IL TRAMONTO DELL’UTOPIA
DI UN ISLAM EUROPEO
di Mario Ciampi

Nell’ormai lontano 1990, quando tutti erano concentrati sull’implosione


del comunismo e del blocco sovietico, l’orientalista di Princeton Bernard Lewis
tenne una lezione a Oxford che si sarebbe rivelata profetica, a distanza di
anni, prevedendo una «terza invasione islamica dell’Europa, che avrà
maggior successo della prima e della seconda»1. Per Lewis, dove le armate
dei Mori e dei Turchi avevano fallito, ha avuto successo il capitale e il lavoro.
Più recentemente, in un articolo del 2006 sul quotidiano tedesco Die Welt,
l’islamologo americano è stato ancora più esplicito: «L’Europa sarà islamica
alla fine del secolo… in futuro i protagonisti globali saranno la Cina, l’India e
la Russia, mentre l’Europa farà parte dell’occidente arabo, il Maghreb. Questo
è sostenuto da migrazioni e demografia». Una profezia a tinte fosche, la cui
realizzazione si deve alla complicità dell’Europa, che si trova da tempo in un
profondo inverno demografico e che non perde occasione per autodenigrarsi.
La prognosi è riservata, ma per Lewis il decorso è tracciato: «non posso dare
una data, ma posso dire le tappe del processo: immigrazione e democrazia
dalla loro parte, uno stato d’animo di auto-umiliazione da parte europea, la
resa» (Jerusalem Post, 2007).

Non ci sarebbero pertanto speranze di vedere un “Islam europeizzato”: il


futuro è al contrario quello di un’Europa islamizzata. Certo, Lewis ammette
che possano esserci molti musulmani europei che preferiscono un approccio
occidentale, ma corrono il rischio di essere additati come traditori. Negli ultimi
tempi, questa tendenza è diventata ancora più marcata, sotto la spinta della
propaganda jihadista. Paradossalmente, è più probabile che l’Islam una
certa moderazione la dimostri in paesi di tradizione islamica come il Marocco2
piuttosto che in Europa, dove non mancano concessioni legislative e
immunità nel dibattito pubblico, in nome del multiculturalismo e del

1 Lo ha ricordato Giulio Meotti sul Foglio del 22 maggio 2018, nella sua commemorazione del
celebre islamologo a pochi giorni dalla sua scomparsa.

2 Cfr. M. Brignone, Lavori in corso nell’Islam marocchino, in “Oasis”, 4.09.2018.

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politicamente corretto. Il combinato disposto della crisi dell’identità europea,
da una parte, e del veemente proselitismo integralista, dall’altra, ha portato
insomma al tramonto dell’utopia di un Islam europeo ed europeizzato, che la
secolarizzazione avrebbe gestito e neutralizzato nei suoi aspetti più
problematici. Come se l’Islam avesse potuto ricalcare lo stesso percorso del
cristianesimo, quando invece è del tutto diverso da esso. A spiegare
l’eccezionalismo islamico, tra gli altri, è intervenuto negli ultimi anni Shadi
Hamid, senior fellow del Brookings Institute: «L’Islam, per il suo rapporto
fondamentalmente diverso con la politica, è stato semplicemente resistente
alla secolarizzazione»3. La conclusione di Hamid è contenuta già nelle prime
pagine del suo libro: «ciò significa che, invece di sperare in una riforma che
verosimilmente non avverrà mai, dobbiamo fare i conti con l’eccezionalismo
islamico, e, nella misura in cui ne avremo la volontà e ne saremo capaci,
scenderne a patti»4. Se non altro, quello di Hamid è un invito al realismo, che
troppo spesso viene interpretato dai benpensanti fino a concepire l’invenzione
del reato di islamofobia per censurare ogni sorta di critica alla religione
musulmana, come tra l’altro richiesto a Istanbul dall’Organizzazione della
Conferenza Islamica nel 2013. Il concetto di islamofobia, per dirla con il filosofo
Pascal Bruckner, «ha l’ambizione di rendere l’Islam intoccabile e sullo stesso
livello dell’antisemitismo» e maschera l’offensiva guidata dai fondamentalisti
per islamizzare l’Europa. C’è chi arriva a parlare di un masochismo europeo,
generato dal senso di colpa atavico che attanaglia il vecchio continente. Tra
l’altro non si capirebbe il motivo di questa censura posta a tutela di una sola
comunità religiosa, laddove si continua a ingiuriare in maniera spesso del
tutto inopportuna il cristianesimo e l’ebraismo.

La verità è che siamo entrati già da tempo in un’epoca post-secolare: le


identità religiose sono tornate nella sfera pubblica, che per decenni era stata
occupata dalle religioni politiche, le ideologie, o dal laicismo alla francese,
che è una religione civile anch’esso, con i suoi dogmi e le sue liturgie
illuministiche. Insomma, negli ultimi tempi è stata messa in discussione proprio
quella secolarizzazione che doveva servire da cordone sanitario o da
elemento anestetizzante per l’integralismo islamico e per ogni altro
integralismo religioso. Secolarizzazione che, entro certi limiti fisiologici che

3 S. Hamid, Islamic Exceptionalism. How the Struggle over Islam is Reshaping the World, St. Martin’s
Press, New York 2016, p. 26.

4 Ivi, p. 8.

64
sottendono un rapporto equilibrato e una correlazione sinfonica5 tra fede e
ragione, è insita nella distinzione tra Dio e Cesare che si trova nel Vangelo. Ma
che non ha alcun significato per la religione islamica, che non conosce la
distinzione tra la sfera temporale e la sfera spirituale. Questa constatazione,
aggravata oltremodo dal post-secolarismo, che rende ancora più permeabili
a dottrine forti e identitarie le società europee, fa capire quanto sia ingenuo
oggi aspettarsi che l’Islam importato in Europa possa europeizzarsi,
diventando omogeneo a un sistema di valori che ha una sua storia e una sua
genealogia. Per giunta, il post-secolarismo fa sentire i suoi effetti anche sulle
evoluzioni del potere politico e, indirettamente, favorisce l’espansione di
movimenti e di identità transnazionali come il jihadismo montante in Europa.
Agli albori dell’epoca moderna, i contrasti tra il potere spirituale e il potere
temporale avevano favorito tra i príncipi la consapevolezza dell’autonomia
della politica, insieme alla necessità di recuperare in termini di
istituzionalizzazione lo svantaggio percepito rispetto all’ordine spirituale. La
teoria della sovranità e la territorialità del dominio vennero di conseguenza a
rafforzare l’ordine temporale. Gli Stati moderni ebbero questa origine6. Se
quindi la secolarizzazione aveva preparato il terreno alla nascita degli Stati
nazionali, è presumibile che la società post-secolare faccia mancare
gradualmente agli Stati uno dei motivi principali della separazione dalle
istanze universalistiche delle religioni. Qualche interprete si spinge perfino ad
individuare negli imperi la forma e lo spazio del potere post-secolare.

Da questa angolazione, la propaganda dello “Stato islamico” (sarebbe


meglio definirlo “Impero islamico”, non avendo una territorialità definita) e la
sua penetrazione in Europa sarebbero favorite non tanto dalla debolezza
culturale e demografica del vecchio continente, tesi che abbiamo visto
preponderante nell’analisi di Lewis, ma dall’esaurirsi di una modernità politica
secolarizzata e, aggiungiamo, dall’arretramento del cristianesimo come
cultura di riferimento dei Paesi europei, oltre che come forma della distinzione
tra spirituale e temporale. Naturalmente, questo processo di de-
nazionalizzazione delle religioni e del cristianesimo in particolare, si deve
anche alla globalizzazione degli spazi e all’esigenza, avvertita soprattutto

5 Sugli effetti teologico-politici del rapporto fede-ragione, rimane un testo imprescindibile il


Discorso pronunciato da Benedetto XVI a Ratisbona nel 2006. Sul tema, mi permetto di rinviare al
mio saggio Lo Stato nella teologia della politica di Joseph Ratzinger, in “La Società”, n. 3 (2017),
pp. 92-104.

6 È la tesi di E.-W. Böckenförde, La formazione dello Stato come processo di secolarizzazione,


Morcelliana, Brescia 2006.

65
con l’attuale pontificato, di recuperare sul terreno dell’universalismo per dare
risposte a problemi sempre più complessi e globali, sovente a scapito di una
visione identitaria e nazionale del cristianesimo. Resta il fatto che anche in
Europa, ancorché sembri più refrattaria di altri continenti alla nuova rilevanza
pubblica della religione, gli Stati dovranno presto prendere una posizione e
abbandonare la loro neutralità, incalzati da un conflitto culturale in continua
crescita. I segnali sono già presenti, soprattutto nelle società che hanno
subito attentati terroristici rivendicati dall’islamismo jihadista. Perfino in
Francia, paese da sempre connotato da un marcato laicismo, sono ormai
molto presenti nel dibattito pubblico visioni culturali e civili del cristianesimo,
in funzione spesso apertamente anti-islamica. E in risposta ai predicatori
d’odio e ai loro proseliti. Si pensi, ad esempio, al caso dell’imam Choudary di
Londra, che è stato condannato nel 2016 a cinque anni e mezzo di carcere
per aver incitato i musulmani a unirsi all’Isis nel “Siraq” e per aver avuto legami
con alcuni terroristi operanti nel Regno Unito. E a tutti gli imam espulsi, anche
in Italia, per motivi di sicurezza nazionale. Clamorosa, in questo ambito,
l’operazione del governo di Vienna che nel 2018 ha chiuso sette moschee ed
espulso tutti i capi religiosi dell’associazione Atib (Unione turco-islamica per
la collaborazione culturale e sociale in Austria), con accuse di finanziamenti
illeciti dall’estero e di violazione della legge austriaca sull’Islam. Il fatto aveva
provocato una reazione ufficiale del governo turco, a conferma del rapporto
tra la predicazione islamista in Europa e le influenze di entità statuali straniere.

Quello che sorprende chi aveva creduto nell’ipotesi di un Islam pienamente


europeo, è il consenso (o la mancanza di dissenso) che arriva dalle comunità
islamiche nazionali a questi fondamentalisti. Il tema è stato denunciato, tra gli
altri, dal vicepresidente della Conferenza degli imam di Francia, Hocine
Drouiche, imam di Nimes e candidato alla carica di rettore della Grande
moschea di Parigi, che nel 2016 si è dimesso da ogni incarico all’interno della
comunità musulmana francese, in polemica con quanti non hanno ritenuto
di prendere le distanze dagli attentatori di Nizza.  Così si esprimeva in
un’intervista al Foglio del 2015: «L’odio è divenuto l’elemento caratterizzante
del discorso islamico, specialmente in Europa, così da poter mobilitare i
giovani musulmani contro l’occidente»7. Vero è che la motivazione religiosa
spesso non si coniuga con una fede praticata: è molto diffuso un “believing
without belonging” e un “belonging without believing”. Si può appartenere
alla comunità dei musulmani senza più condividerne la fede, ma anche su

7 M. Matzuzzi, Islam, la deriva settaria, Il Foglio, 4.09.2015.

66
questo punto non aiuta l’impossibilità per l’islam di distinguere la sfera civile
da quella religiosa. I combattenti dell’Isis ritengono di adempiere un precetto
morale e religioso. Non ci sembra pertanto di grande significato la
constatazione di islamologi come Tariq Ramadan che esistano molti
“musulmani senza Islam” nelle società europee.

Il problema semmai è che cosa possano fare le società di accoglienza


degli immigrati di religione islamica di prima e seconda generazione per
evitare che diventino fondamentalisti. La risposta di padre Samir Khalil Samir,
autorevole islamologo gesuita, chiama direttamente in causa la stanchezza
culturale e spirituale della vecchia Europa: «L’aiuto materiale per i migranti non
è sufficiente. L’emigrato deve anche ottenere un aiuto culturale, ricevendo
anche la testimonianza di una dimensione spirituale, l’ideale europeo e
cristiano, la fratellanza universale. Dare all’altro, chiunque esso sia, il meglio
che abbiamo, in particolare la vera, assoluta e universale fratellanza, come ci
ha insegnato il Vangelo!»8. Torniamo al punto cruciale della vacuità culturale
delle società europee, che non permette una reazione adeguata di fronte alle
insidie dell’islamismo radicale e che anzi diventa un terreno fertile per la
radicalizzazione delle seconde generazioni di immigrati: non esiste nei paesi
europei un’identità altrettanto forte per dare risposta alla loro crisi generazionale.
Quel che resta dell’Europa offre tolleranza e democrazia a comunità religiose
che al contrario rispondono chiedendo l’applicazione della sharia ai loro paesi
ospitanti. È un dialogo tra sordi. Aggravato da un altro fattore tipico del mondo
islamico: l’assenza di un’autorità riconosciuta da tutti i fedeli, che avrebbe
potuto frenare nei secoli l’eccessiva frammentazione e forse anche
l’organizzazione di minoranze radicali, con la loro propaganda ostile nei
confronti dell’Europa e dell’occidente cristiano. Ogni imam ha competenza
dottrinale e può creare una corrente religiosa autonoma.

Con queste premesse, è assolutamente utopistico immaginare un Islam


europeo, calato nella cultura occidentale e compatibile con essa. Ritenerlo
possibile equivale a non conoscerlo per quello che è. È come se il vecchio
continente si rifiutasse di prendere una posizione al riguardo, forse per
esorcizzare paure e incertezze. Su ogni questione si preferisce non vedere e
non discutere: condizione della donna, poligamia, diritto islamico. Lo si
ammette come fosse una delle possibili opzioni del multiculturalismo
imperante, al pari delle altre. Con una vaga speranza, neppure troppo

8 P. Samir, Migranti e islam, cosa deve fare l’Europa, Asianews, 1.08.2018.

67
dichiarata, che il contesto europeo possa sfumare alcune asperità dottrinali
e comportamentali di questa religione, ma con il dovuto tempo, senza fretta.
Il punto è che, ove mai fosse possibile una progressiva inculturazione dell’Islam
nella civiltà europea (o in quello che ne rimane), ci penserebbero gli islamisti
a organizzare ondate di predicazione d’odio anti-occidentale, come hanno
fatto negli ultimi anni. E a spiegare che i musulmani devono vendicarsi delle
offese dei “crociati”, anche con la violenza e il terrore, maneggiando la storia
a fini propagandistici. Il risultato è che in molte città europee sono sorte delle
“no-go zones”, terreno fertile per il reclutamento dei terroristi. In pratica, dei
territori ostili nel bel mezzo delle nostre città. Con la complicità indiretta di
politici, intellettuali e giornalisti mainstream, che arrivano perfino ad avere
toni giustificatori o a sollecitare strumenti di giustizia sociale per favorire
l’integrazione. Contrariamente a quello che pensa la vulgata, le correnti più
radicali presenti in Europa utilizzano un proselitismo molto elitario. L’approccio
salafita rimanda a un’etica della convinzione e a una stretta osservanza delle
fonti (Corano e Sunna): «Con il suo modo di vivere il salafita suscita delle
vocazioni. Il salafita è in rottura con una società che disprezza dal punto di
vista morale»9. Questa predicazione produce un effetto di verità nella mente
degli adepti, che quindi vengono convinti sul piano della razionalità religiosa
e aderiscono a un immaginario che li rimanda continuamente all’Arabia
Saudita, ai luoghi sacri dell’Islam e alle prime società musulmane. Ma anche
alla teoria del complotto occidentale contro la religione di Maometto. Si
comprende allora perché questa scuola islamista demonizzi tutti gli imam
che incoraggiano il dialogo e che lavorano a un Islam europeo. Forse è
all’interno del mondo islamico il maggiore ostacolo all’europeizzazione
dell’Islam. Si tratta di capire come agirà questo virus nel già fragile organismo
europeo. Se ci saranno reazioni tese perlomeno a de-politicizzare questo tipo
di interpretazione islamista, a spezzare i legami con l’estero e con l’importazione
dell’odio. Se l’Europa sarà in grado di abbandonare l’autodenigrazione che
la frena e di recuperare il senso della sua civiltà e del suo futuro. Fino a quel
momento, continueremo ad assistere al tramonto dell’utopia di un Islam
europeo. E sciaguratamente della stessa Europa.

Mario Ciampi
docente di Politiche Pubbliche, Link Campus University,
segretario generale Farefuturo

9 Intervista a Mohamed-Ali Adraoui, Chi sono i musulmani europei che vorrebbero vivere come ai
tempi del Profeta, in “Oasis”, 27.05.2019.

68
IDENTITÀ EUROPEA E ISLAM:
RIFLESSIONI PER UN CONFRONTO
di Renato Cristin

L’Islam e l’Europa sono un binomio anomalo: vengono spesso affiancati


come se fossero due entità commisurabili, mentre rappresentano oggetti
molto diversi. L’Islam è una religione e, per estensione del termine, definisce
l’insieme dei paesi in cui lo si pratica come religione e lo si applica come
concezione della società, del mondo, della vita. L’Islam dunque non è
un’entità statale e tuttavia ha un influsso decisivo su molte strutture statali e
perfino sulla totalità istituzionale di alcuni paesi. L’Europa invece designa
un’entità plurale che geograficamente è un continente, storicamente è lo
sviluppo dell’antica Grecia e dell’impero romano sui quali si sono innestate
poi le linee franco-germaniche, nordiche e slave; politicamente è un
insieme di nazioni di democrazia liberale; culturalmente è un complesso di
ambiti differenti per tradizione ed evoluzione, che però si armonizzano
nell’idea, effettiva ed efficace, di un orizzonte comune che chiamiamo
cultura europea; spiritualmente è uno spazio tracciato dalla religione
ebraica e da quella cristiana, soprattutto da quest’ultima, che dalla prima
discende, nelle sue relazioni con la sfera sociale e con le articolazioni
culturali che in Europa sono state tradizionalmente una delle colonne
portanti dello sviluppo storico.

In quanto fenomeni di genere differente, Islam ed Europa non sono


dunque comparabili direttamente, e non sono nemmeno affiancabili in
base a supposte analogie, perché i loro nomi sono piuttosto l’espressione di
due forze opposizionali, storicamente contrapposte non tanto per motivi
territoriali o economici, quanto piuttosto per ragioni culturali, meglio ancora:
spirituali.

Se la loro differenza si situa primariamente su questa faglia culturale e


spirituale, affinché vi sia una relazione positiva fra essi è necessario che
entrambi possano operare, in modo collaborativo, per convergere su alcuni
temi che rappresentino lembi di terreno comune. Tutto ciò ovviamente
senza deformare il rispettivo spirito che li anima e che li caratterizza nella

69
loro essenza. Infatti, lo spirito dei popoli esiste, perché si forma con il loro
percorso storico concreto, con il concretizzarsi e il consolidarsi delle loro
tradizioni.

E così possiamo parlare di uno spirito europeo, che riunisce i caratteri


essenziali tipici dei vari popoli che da millenni abitano il nostro continente,
in un insieme che non annulla le loro specificità singolari. A questo spirito
europeo è estraneo l’Islam, poiché da quando è sorta questa religione, con
il movimento politico-culturale che l’accompagna, l’identità europea si è
caratterizzata anche per differenza rispetto all’Islam, per differenza radicale
essenziale e non soltanto storica contingente, perché molte delle peculiarità
del mondo islamico sono sempre state per lo spirito europeo un mondo
incompatibile e quindi un elemento di conflitto inconciliabile o almeno di
contrapposizione insormontabile.

Chiarito dunque che Europa e Islam non sono due entità omogeneamente
confrontabili e che le loro differenze sono profonde e radicate nella loro
rispettiva identità, resta valido l’obiettivo di un dialogo che favorisca le
relazioni fra esse e, in particolare, permetta agli europei e ai musulmani
presenti in Europa di avere rapporti positivi che, a loro volta, facilitino
l’integrazione di questi ultimi nelle realtà sociali e nazionali nelle quali sono
venuti a vivere. Se entrambe le parti condividono questo scopo, allora
faranno il possibile per conseguirlo. Ma per raggiungere questo obiettivo
c’è bisogno di una disponibilità che va ben al di là del semplice ascolto
delle argomentazioni e delle posizioni altrui.

E soprattutto va ribadito che l’integrazione, pur essendo frutto di un


dialogo, deve necessariamente avere una direzione ben precisa: sono
coloro che arrivano in Europa, a doversi integrare con chi in Europa e nella
sua cultura vive da secoli e, ancor di più, le ha formate lungo il corso di
generazioni. Solo deformazioni ideologiche – di tipo globalistico
comunitarista e multiculturalista – possono teorizzare un’integrazione alla
rovescia: gli europei che dovrebbero integrarsi agli immigrati. Certo, in
questi ultimi anni abbiamo ascoltato anche queste follie ideologiche, esito
del fanatismo immigrazionista che a sua volta è una delle più recenti
bandiere del vecchio e mai estinto comunismo, ma sappiamo che di ciò
appunto si tratta. Ora, nell’ottica della possibile integrazione, la struttura
mentale e i cardini teorici dello spirito europeo sono predisposti a qualche
cambiamento, se ritenuto fattore di crescita positiva, all’interno di una
dialettica di comprensione reciproca e di reciproco avvicinamento,

70
ovviamente però purché vi sia una identica disponibilità da parte
dell’interlocutore. Ma da parte islamica possiamo dire altrettanto?

Quanto a concessioni, le istituzioni e gli organismi sociali degli Stati


europei hanno dato molto e, stando ai riflessi che si avvertono nella
controparte islamica, fin troppo. Si parla molto di reciprocità fra nazioni
europee e Paesi islamici, ma quando si tratta della reciprocità fra cittadini
europei e musulmani che sono in Europa, allora le cose si complicano, i
pretesti retorici e i cavilli giuridici proliferano e sopraffanno qualsiasi buon
senso e, in ogni caso, qualsiasi senso di difesa dell’identità europea.

Per il politicamente corretto, che ha fatto del multiculturalismo, del


rispetto delle minoranze e dell’immigrazionismo le sue bandiere prioritarie,
queste due identità non sono equivalenti: la bilancia pende sempre a
favore delle rivendicazioni musulmane. La domanda ricorrente e
politicamente corretta è: vorremmo forse privare le minoranze dei loro diritti
intangibili e perfino di quelli molto discutibili? E poiché i musulmani che
vivono in Europa sono una delle principali minoranze, essi vanno tutelati da
qualsiasi violazione dei loro diritti e da ogni eccesso identitario da parte
europea. Puro autolesionismo mascherato da garantismo o, più
precisamente, da dirittismo, estremizzazione patologica della teoria dei
diritti umani.

Un esempio di questo atteggiamento masochistico riguarda la sfera


religiosa. Quando si trattò di stilare la Carta europea, ci fu un vasto
movimento, anche politico, per menzionare in essa le radici ebraico-
cristiane. La Convenzione preposta e in generale le istituzioni europee
respinsero questa richiesta con una duplice motivazione: la laicità
dell’Unione Europea è prioritaria rispetto a qualsiasi istanza, e inoltre un tale
richiamo alla religione ebraico-cristiana sarebbe discriminante nei confronti
di altre fedi, dell’Islam in primo (e unico) luogo. Non irritare le comunità
musulmane presenti in Europa e gli Stati arabi e islamici particolarmente
suscettibili è una priorità della UE e della gran parte dei governi europei
attuali.

Ma questo atteggiamento, che in linea di principio cerca giustamente


di valorizzare i punti di contatto, non tiene conto delle differenze radicali che
ci separano dall’Islam. E in questo modo esso compromette anche la
possibilità che i punti di contatto diano risultati positivi, perché opera con

71
rimozioni psicologiche che producono un doppio danno e con
strumentalismi politici che guardano agli interessi elettorali della sinistra.

Quando gli europei pensano: dobbiamo sbrigarci a fare questa o


quest’altra operazione, perché vogliamo vederne i risultati e perché non
sappiamo se in futuro le condizioni saranno propizie, i musulmani pensano:
c’è tempo, non serve affrettarsi, perché è già stato predeterminato – e sta
scritto nel Corano – che la spada dell’Islam conquisterà il mondo e
soggiogherà gli altri popoli. E sul piano concreto del rapporto con l’Europa,
questa pazienza storica è favorita da un fatto decisivo, cioè dall’andamento
demografico, che sta rompendo gli antichi equilibri e che, sul lungo periodo,
potrebbe sconvolgere l’assetto etnico, culturale e religioso del continente.
Questa considerazione è al centro della strategia islamica per l’Europa, ma
vale anche sul piano globale, come mostra per esempio un’espressione
sintomatica (e rivelatoria di questo atteggiamento di attesa) enunciata da
Malek Chebel: «il futuro è dell’Islam; tra il 2020 e il 2050 l’Islam sarà la prima
religione monoteista» (Le Point, 17 gennaio 2007). Non si tratta solo di una
constatazione: se analizzate dal punto di vista psicologico, frasi come
questa ci dicono molto anche sulle intenzioni retrostanti, su come il mondo
islamico intenda agire una volta acquisita la necessaria forza numerica:
sottomissione degli infedeli.

Sembra destinata a realizzarsi la previsione enunciata da un alto


dignitario musulmano e riferita nel 1999 dall’allora vescovo di Smirne
monsignor Bernardini, nel corso della seconda assemblea speciale per
l’Europa del sinodo dei vescovi: «grazie alle vostre leggi democratiche vi
invaderemo; con le nostre leggi religiose vi sottometteremo». La realtà
attuale mostra infatti un islamismo in piena espansione sul piano religioso e
sociale, nonché pesantemente aggressivo su quello terroristico, a cui
corrisponde la progressiva contrazione europea e occidentale. Nel suo
intervento, monsignor Bernardini affermava: «come non vedere in tutto
questo un chiaro programma di espansione e di riconquista? Sappiamo
tutti che bisogna distinguere la minoranza fanatica e violenta dalla
maggioranza tranquilla e onesta, ma questa, ad un ordine dato in nome di
Allah o del Corano, marcerà sempre compatta e senza esitazioni. La storia
ci insegna che le minoranze decise riescono sempre ad imporsi alle
maggioranze rinunciatarie e silenziose». Invece di prendere in seria
considerazione queste e analoghe riflessioni, le istituzioni europee le
derubricano a pessimismo storico, a ingenuità politica e, soprattutto,

72
avversione all’Islam. Infatti, chi pensa che l’Islam guardi all’Europa con mire
egemoniche o chi lo critica per il suo intrinseco totalitarismo, viene oggi
tacciato, dall’apparato politico e mediatico, di islamofobia.

Ma l’Islam è davvero una religione integralista, nel senso che concentra


o vorrebbe concentrare nella sfera religiosa tutti gli altri ambiti della vita
sociale e tutti i poteri istituzionali: il potere legislativo si deve conformare ai
dettami del Corano e quindi la sua legiferazione dev’essere ripresa appunto
coranicamente dal potere giudiziario (la sharia viene sancita dalla politica
e amministrata o meglio somministrata dalla magistratura). Ed è quindi una
logica conseguenza che esso abbia una volontà imperiale, una visione
imperiale della propria azione nel mondo, che nasce dalla volontà di
conquista, di imperare e imporre, piegando i popoli «infedeli» con la
minaccia o con la spada, convertendoli o sottomettendoli (ed eliminando
i resistenti).

È indubbio quindi che questo sia l’obiettivo islamico di fondo, non


dichiarato, dissimulato ma evidente, perché connaturato nel testo stesso di
tale religione. Nella prospettiva islamica, si tratterà solo di determinare volta
per volta le forme concrete di questa sottomissione, che potranno variare
anche di molto a seconda delle reazioni degli altri popoli e delle peculiarità
delle nazioni oggetto di questo processo di assoggettamento. I tempi di
questa conquista saranno lunghi, ma la pazienza secolare fa parte della
concezione islamica del tempo storico e della persona: dilatazione estrema
del primo e asservimento totale degli individui al disegno profetico.

Unire il vantaggio demografico alla volontà di islamizzare l’Europa è, del


resto, un proposito dichiarato da molti capi musulmani, anche da leader
politici, come per esempio Erdogan, che in un comizio del 17 marzo 2017 ha
incitato i turchi che vivono in Europa a riprodursi con maggiore intensità:
«non fate tre figli, ma cinque, perché il futuro dell’Europa è vostro». E che le
intenzioni di questa esortazione fossero di conquista era chiaro già da dieci
anni prima, quando, non da presidente della Repubblica, ma da capo dei
nazionalisti islamici, citò alcuni versi bellicosi del poeta Ziya Gökalp: «le
moschee sono le nostre caserme, le cupole delle nostre moschee i nostri
caschi, i minareti le nostre baionette e i credenti i nostri soldati». Nel 1997,
questa citazione valse a Erdogan una condanna per istigazione all’odio
religioso, perché all’epoca la Turchia era guidata dalla Costituzione laica,
fatta rispettare soprattutto dai vertici militari. Oggi però quella laicità è

73
distrutta e i militari sono i guardiani dell’islamismo nazionale del partito di
Erdogan.

L’attenzione islamica per la crescita demografica in relazione agli altri


popoli e in particolare in rapporto all’Europa, oggetto di brama atavica dei
capi musulmani di ogni epoca, è antica ed esprime un’aspirazione
generalizzata in tutto il mondo islamico. Se vogliamo vedere come si
manifesta oggi questa non troppo recondita mira di conquista, dobbiamo
osservare come agiscono le comunità musulmane che sono maggioranza
nei quartieri delle città europee: alcuni di questi gruppi religiosi, che si
connotano per un frenetico attivismo sociale, sono riusciti a imporre zone
quasi extraterritoriali, enclaves controllate da regole che si richiamano alla
sharia e in cui le leggi dello Stato hanno valore relativo (non possono essere
del tutto ignorate, ma questo è l’obiettivo a lungo termine). Questi quartieri
islamizzati: Rosengård, Nørrebro, Molenbeek, solo per citare alcuni dei più
tristemente noti, sono l’emblema della sconfitta non solo delle forze di polizia
e di sicurezza, ma anche della libertà degli individui (basti pensare alle
condizioni in cui sono ridotte le donne) e della laicità dello Stato; sono il
simbolo di una sconfitta delle istituzioni e, più in generale, dell’intera
tradizione europea.

Si è tentato di spiegare questi stati di fatto con la rassicurante, ma poco


realistica, idea che per favorire la formazione di un Islam europeo sia
necessario che quest’ultimo si senta tranquillo e per quanto possibile
autonomo. Ma la teoria dell’Islam europeo, della quale Tariq Ramadan è
uno dei principali esponenti e che viene elaborata e propagandata dai
cosiddetti «fratelli musulmani», un gruppo la cui essenza fondamentalista è
ben nota, è una trappola concettuale e politica, una chimera a cui si ricorre
per sviare l’attenzione dalla realtà, usando soprattutto la ben nota pratica
della dissimulazione. Di fatto, l’Islam europeo si differenzia da quello dei
Paesi islamici solo per alcuni dettagli, relativi, per esempio, all’abbigliamento
e ai comportamenti nella vita sociale, ma è identico per quanto concerne
tutte le dinamiche religiose o i codici di comportamento familiare o, ancora,
i dettami coranici fondamentali. L’Islam europeo è uno stratagemma con il
quale si spaccia per diverso ciò che invece, nella sostanza, è identico a
quello che opera nel mondo arabo-islamico. L’Islam europeo potrebbe
essere il cavallo di Troia che permetterà il dilagare di una religione
espansionistica e suprematista.

74
La causa di questa inquietante realtà è duplice: da un lato l’incessante
spinta islamica ad acquisire spazi di autonomia, dall’altro l’atteggiamento
di rassegnazione e di rinuncia da parte delle varie istituzioni dei Paesi
europei. Rinunciatarie sono infatti quelle istituzioni che, per un malinteso e
male direzionato senso di difesa delle minoranze, nascondono o in qualche
caso addirittura aboliscono i simboli della nostra tradizione religiosa e
culturale, affinché le comunità straniere (ma si deve intendere: musulmane)
non si sentano offese nella loro identità. Ciò accade soprattutto nelle scuole
e negli spazi sociali, ma anche, sia pure in forma diversa e meno eclatante,
nell’ambito delle strutture ecclesiastiche. Rinunciataria è la Chiesa, sia
cattolica sia evangelica, quando cerca il dialogo con i rappresentanti della
religione musulmana senza però porre limiti precisi e non oltrepassabili
(relativi soprattutto alle proteste musulmane per la diffusione dei simboli
religiosi cristiani negli ambiti sociali); limiti che sarebbero utili per la chiarezza
del dialogo stesso.

E di questa molteplice rinuncia è causa una mentalità che si è consolidata


nel Novecento e che esalta l’altro (qualsiasi altro, purché extra-europeo, e
in particolare poi alcune tipologie preferite, come gli africani e gli asiatici,
soprattutto se musulmani) e, parallelamente, disprezza il sé. L’odio verso se
stessi è la malattia spirituale che più si è diffusa nell’Europa del Novecento
e che oggi può diventare mortale per l’Europa stessa. La sua genesi lontana
risale al XVI secolo, si è sviluppata con l’illuminismo e consolidata con il
marxismo ottocentesco; la sua prima ripresa si colloca negli anni ’40 del XX
secolo, in concomitanza con l’avvio del processo di decolonizzazione; poi
la seconda ripresa nel ‘68, che ha visto affermarsi il rivoluzionarismo
sovversivo anti-occidentale, con la diffusione delle filosofie dell’alterità e
delle parallele teorie sulla violenza degli europei; e infine l’attuale ripresa
che è esplosa in coincidenza con la crisi immigratoria, che viene spesso
relazionata alle presunte colpe storiche dell’Occidente.

Come scrive Richard Millet, «il buon selvaggio rousseauiano si è


trasformato, nella seconda metà del Novecento, nel buono straniero ed è
diventato, oggi, il buon immigrato […], per lo più musulmano», e ciò è
avvenuto (e continua ad accadere) senza che si rifletta adeguatamente su
quelli che sono problemi insolubili o quanto meno ad altissimo grado di
difficoltà relativi all’integrazione di popolazioni extraeuropee molto diverse
dagli europei per religione, per concezione della società e per strutture
culturali generali. Non è stata presa in adeguata considerazione una delle

75
premesse essenziali di ogni relazione fra esseri umani socializzati, e cioè che
l’integrazione può avvenire solo fra integrabili. Ci sono gruppi che non
riescono a integrarsi e gruppi che non vogliono integrarsi: le condizioni sono
diverse, ma il risultato è lo stesso. Nella seconda metà del Novecento, molti
musulmani, per lo più di origine maghrebina, si sono perfettamente integrati
nelle società europee, ma da un paio di decenni si è registrato una
controtendenza: non ci si vuole integrare, perché ciò significherebbe
abdicare ai princìpi religiosi e allo stile di vita islamico tradizionale, e pure
perché l’integrazione viene vista come un segno di resa culturale e politica.
Il risultato è l’aumento dell’integralismo e del fanatismo, che rendono di
fatto impossibile qualsiasi dialogo.

Di fronte a questa realtà, della quale ho fornito qui soltanto alcuni scorci
di sorvolo e alcune coordinate teoriche per interpretarla, il lavoro da fare è
ciclopico, ma non irrealizzabile. L’Europa potrà avere un futuro soltanto se
riaffermerà le proprie radici culturali e religiose, nel quadro del sistema
socio-istituzionale del liberalismo occidentale e nella prospettiva politica
del liberalconservatorismo, che è oggi l’unica opzione in grado di
fronteggiare, in modo incruento ma assolutamente risoluto, le pretese degli
islamici, trattandoli con pieno rispetto ma da pari a pari, senza cioè quella
indulgenza che sfocia sempre nella remissività, perché la scelta preferenziale
per i musulmani non solo può intaccare tali radici, cristiane ed ebraiche,
ma può condurre addirittura all’autodissoluzione. A questa deriva
bisognerebbe opporre un rinnovato e del tutto pacifico spirito di Lepanto,
declinato sulle esigenze e sulla realtà storica del nostro presente: non uno
spirito di guerra, ma di inflessibilità (che non significa intolleranza, bensì
rigore, nel concetto, nel pensiero e nell’azione, e anche nel rapporto con gli
altri), uno spirito che, pur dialogando con gli altri, animi la coscienza
europea a difesa della nostra identità.

Renato Cristin
docente di Ermeneutica filosofica,
Università di Trieste

76
IL PROFETA E IL FARAONE:
UN NUOVO ORDINE MONDIALE?
di Giulio Terzi di Sant’Agata

L’ISLAM POLITICO

A partire dall’attacco jihadista dell’11 settembre 2001, molti politici


occidentali, professori universitari, ricercatori, intellettuali, e soprattutto i
“media mainstream” hanno negato che la bandiera dell’Islam appartenga
anche al terrorismo jihadista. Emblematico è stato il rifiuto di queste influenti
“élites” di riconoscere la matrice jihadista-islamica persino quando questa
veniva rivendicata dagli stessi terroristi. Da almeno vent’anni le parole
d’ordine sono sempre le stesse: distrarre, sdrammatizzare, “annacquare” gli
aspetti inquietanti dell’Islam; bollare con l’accusa di “islamofobia” chi osa
parlarne; esprimere generosa comprensione e volontà inclusiva verso ogni
manifestazione di fede e di programma politico musulmani, anche quelli
più radicali e fondamentalisti.

La storia dell’Islam politico contemporaneo è intrisa di ideologie, correnti,


e diffusa violenza. Non si possono certo riassumere solo nel Jihadismo le
profonde radici culturali e religiose, ricche e complesse, che riguardano un
miliardo e ottocento milioni di uomini e donne di fede musulmana nel
mondo. Sarebbe tuttavia irresponsabile per chi intende rispondere ai
problemi epocali dei nostri tempi trascurare la centralità del problematico
rapporto tra Islam politico, radicalizzazione Jihadista e sicurezza.

La questione incombe anzitutto sui Paesi Europei e Atlantici,


sull’Occidente. Siamo noi ad aver sempre mirato, dalla fine del secondo
conflitto mondiale, alla piena realizzazione dello Stato di Diritto, e ad aver
basato sui principi universali della libertà, della dignità e del rispetto della
persona umana la nostra Costituzione, i Trattati che abbiamo ratificato, le
leggi che abbiamo adottato.

Ma il collegamento – rafforzatosi negli ultimi quattro decenni – tra Islam


politico, estremismo e fondamentalismo religioso è tra i principali fattori di
conflittualità e di crisi nell’intero mondo musulmano: probabilmente il più

77
rilevante. E’ indubbio che sia quel mondo, ancor più dell’Occidente, a
soffrire per l’immane devastazione procurata da guerre intestine, lutti,
distruzioni prodotte da una violenza Jihadista che si proclama – ed è orribile
anche solo pensarlo – “religione” rivelata da Dio. L’ondata Jihadista è
tutt’altro che spenta. Un certo riflusso è stato reso possibile dalla
“destrutturazione” del Califfato salafita, e da un momentaneo
“contenimento” del fondamentalismo sciita-Iraniano.

Ma non dobbiamo illuderci. Le forze che alimentano da quasi un secolo


entrambe le principali realtà fondamentaliste, sia nella galassia sunnita che
in quella Sciita, conservano intatti i loro obiettivi strategici anche dopo la
cacciata dello Stato Islamico da tutto il vasto territorio che era riuscito a
occupare dopo la conquista di Mosul nel giugno 2014. Anzi, la polverizzazione
di ciò che era l’ISIS, la riorganizzazione di entità Jihadiste dal Sinai al Corno
d’Africa e al Sahel, sino al Golfo di Guinea, e le loro vaste diramazioni anche
con “brand” locali in altre parti del mondo, come nel Sud Est Asiatico e nel
Pacifico, fanno credere alle organizzazioni terroriste di essere sempre più
vicine ai loro obiettivi. Continuano a seminare distruzione e paura.
Incoraggiano e amplificano le schiere dei loro proseliti.

L’Islam politico e l’instaurazione della legge islamica, la Sharia, sono


diventati da almeno mezzo secolo in Europa il traguardo agognato di molti
musulmani, con il radicarsi della Fratellanza Musulmana e l’influenza
crescente di Centri Islamici e Moschee di orientamento Salafita, Wahabita e
Sciita. I due principali protagonisti dell’Islam politico del XX e XXI secolo – il
salafismo, in cui primeggia la Fratellanza Musulmana, e lo Sciismo, guidato
dalla teocrazia Iraniana – si sono sentiti ancora più forti: il primo, per effetto
dell’ 11 Settembre 2001 e di quanto avvenuto durante e dopo le “Primavere
Arabe”; il secondo dopo l’invasione dell’Iraq e la caduta di Saddam Hussein
nel 2003. Sono così emerse dinamiche nuove che ridisegnano in profondità
la geopolitica, la diplomazia e le relazioni internazionali.

FONDAMENTALISMO JIHADISTA E DINAMICHE GEOPOLITICHE

Sfide globali e nuove dinamiche geopolitiche accrescono la minaccia


del fondamentalismo e del terrorismo Jihadista. Esse riguardano:

78
• In primo luogo, la crescita demografica: entro la fine del secolo saremo
almeno 2 miliardi in più sulla Terra. L’aumento si concentra su regioni afflitte
da povertà, corruzione, spoliazioni di terre e di risorse naturali, deforestazioni,
decadimento ambientale. Mentre le economie avanzate manterranno una
certa stabilità demografica, altrove le crescenti concentrazioni di ricchezza
e gli squilibri demografici alimenteranno tensioni migratorie e conflittualità
di ogni tipo.

• In Europa, diventerà sempre più rilevante il divario di natalità tra


musulmani e resto della popolazione. La crescita demografica sarà
concentrata, all’esterno dell’Europa e nelle regioni circostanti: del
Mediterraneo, dell’Africa e del Medio Oriente, vitali per la stabilità e
l’economia dei Paesi Europei. Come hanno scritto nell’Aprile 2017 su FactAnk
Michael Lipka e Conrad Hackett (“Perchè i Musulmani stanno diventando il
gruppo in più rapida crescita nel mondo”) nel prossimo mezzo secolo ”il
lungo regno della Cristianità come religione più numerosa del mondo
potrebbe finire”. Dal 2015 al 2060 i musulmani aumenteranno più del doppio
(70%) della media mondiale (32%) passando dal 24,1% di oggi – con 1.8
miliardi di persone – al 31,1% di una popolazione totale pari a 3 miliardi nel
2060. Il tasso di fertilità delle donne musulmane è considerevolmente più
alto che non per le appartenenti a altri gruppi. Nell’Africa Sub-Sahariana
raggiunge il picco massimo, e anche in Europa è tra i più elevati al mondo.
Influisce un’età media della popolazione musulmana – 24 anni – molto più
bassa rispetto a tutti gli altri gruppi, che hanno un’età media – per la
popolazione mondiale – di 32 anni. L’incremento demografico delle attuali
generazioni di musulmani sarà quindi accelerato dall’età e concentrato
nelle aree che nei prossimi quattro decenni sono già da considerare a più
alta crescita di popolazione. Esse interessano direttamente l’Europa dato
che si tratta proprio dell’Africa e del Medio Oriente, dove risiede più di un
terzo dei musulmani nel mondo. La demografia quindi rappresenterà una
forza decisiva di sviluppo, ma anche di tensione, per le società europee e
mediterranee. Potrà contribuire alla coesione e all’identità europea. In
senso inverso, se male indirizzata genererà disgregazione e sovvertimento
sociale.

79
Muslim and Non-Muslim Fertility Rates, by Region, 2010-2015

NON-MUSLIM MUSLIM Diff.


4.5 5.6
Sub-Saharan Africa 1.1

2.6 3.0
Middle East-N. Africa 0.4

2.6 2.7
Asia-Pacific 0.7

2.0 2.6
North America 0.6
1.5 2.1
Europe 0.6

2.3 3.1
World 0.8

FERTILITY RATE 0 1 2 3 4 5 6

Note: Latin America-Caribbean not shown due to lack of reliable data.


Differences are calculated from unrounded numbers. PW RESEARCH CENTER

• La volontà di consolidare spazi di influenza e di acquisirne di nuovi,


continuerà a motivare le principali “potenze revisioniste” dell’ordine
internazionale – Cina, Iran, Russia – nelle azioni ormai costanti di
contestazione e contrasto degli interessi occidentali. Lo strumento sarà
sempre più la propaganda ideologica estrema e ultra-nazionalista. È
questa a fare inevitabilmente presa sulle popolazioni governate da
“democrazie illiberali” e da regimi autocratici che sopprimono ogni libertà
di stampa, controllano i media con la censura, utilizzano Internet per attuare
un vero e proprio “Stato Orwelliano” ai danni dell’intera popolazione. Le tre
“potenze revisioniste” utilizzano ogni possibile forma di Cyber Information
Warfare e di destabilizzazione interna contro i Paesi che vengono dipinti
come “nemici” da Xi Jinping, Putin, Khamenei; e contro Governi, leader
politici, e singole entità occidentali ritenute ostacoli per le loro ambizioni di
influenza e di dominio.

• L’unicità dei “valori-eurasiatici” è proposta da una decina d’anni dal


Cremlino quale motivo di contrasto insanabile con le democrazie liberali.
Allo stesso tempo Mosca accresce la repressione sulle minoranze
musulmane in tutta la Federazione e nei suoi nuovi spazi di influenza in
Medio Oriente. La “guerra al terrorismo islamico” assurge a legittimazione

80
assoluta per le più aberranti operazioni militari, per i bombardamenti contro
intere città, come ad Aleppo e ad Idlib – denunciate dallo stesso Segretario
Generale dell’ONU. E’ una “guerra” – quella siriana – che mira a eliminare
fisicamente ampie fasce di popolazione sunnita, a farle fuggire oltre confine,
ad annientare ogni opposizione ad Assad, e a garantire una illimitata
presenza politica e militare Iraniana in Siria, insieme a quella Russa. Persino
sull’utilizzo continuo delle armi chimiche, che avrebbero dovuto essere state
consegnate alle Nazioni Unite sin dal 2013 sulla base di “garanzie” russe,
Mosca acconsente di fatto che Damasco continui a usarle e ricorre in
Consiglio di Sicurezza dell’ONU alla abusata pratica del veto, per sottrarre
Assad alla Corte Penale Internazionale dell’Aja, anche se questa dovrà
prima o poi giudicarlo per crimini contro l’umanità di cui – secondo eminenti
giuristi tra i quali il compianto Professor Sherif Bassiouni, uno dei principali
artefici della Convenzione di Roma, istitutiva delle Corte Penale Internazionale
– sarebbe responsabile.

• Nella promozione dei propri “valori” e del “sistema cinese” in antitesi


alle democrazie liberali, così come nella “guerra al terrorismo islamico”
quale strategia di repressione sistematica delle popolazioni musulmane, la
Cina di Xi Jinping si comporta sostanzialmente come la Russia. Afferma la
superiorità dei principi e del sistema politico diretto ferreamente dal Partito
Comunista Cinese. Come accade per la Russia, anche Pechino giustifica
con la “guerra al terrorismo” la brutale repressione interna contro le
minoranze musulmane e tibetane. Nello Xinjang, abitato prevalentemente
da Uighuri musulmani, l’arrivo al potere di Xi Jinping ha coinciso con una
strategia a diversi livelli: reclusione di circa 3 milioni di Uighuri in campi di
“rieducazione”; sottrazione forzata di bambini e minori dalle loro famiglie
per essere rinchiusi in appositi centri di detenzione; un vero e proprio sistema
Orwelliano di “controllo sociale” su tutta la popolazione dello Xinjang; un
“rating” calcolato sulla base di ogni forma di comportamento, determinato
automaticamente con dati raccolti via internet. Decine di milioni di
telecamere per riconoscimento facciale sorvegliano luoghi e abitudini dei
cittadini dello Xinjang, e lo stanno per fare anche in altre Province. La
motivazione della “guerra al terrorismo” non è certo nuova nella seconda
metà del Novecento, in Cina come in Russia, nei sei decenni di repressioni
in Tibet, e nelle tre guerre in Cecenia costate 300.000 morti in una
popolazione di poco più di un milione di persone. La strumentalizzazione
dell’antiterrorismo Pechino e Mosca l’hanno usata spesso, nella storia
contemporanea, per convincere la popolazione della necessità di

81
rafforzare, e rendere assoluto, il potere di chi la governa. Ora sia Putin che Xi
Jinping – grazie soprattutto alle nuove tecnologie – sono in condizione di
fare assai di più per mettere in pratica di quella strategia. Ma sottovalutano
pericolosamente le conseguenze dirette e indirette di questo loro gettare
benzina sul fuoco del radicalismo islamico. I due principali “leader
revisionisti” dell’ordine mondiale sono sulla strada sbagliata, non vedono i
rischi e pregiudicano la sicurezza dei loro Paesi per due ragioni essenziali:

a) la “guerra al terrorismo islamico” viene propagandata come lotta


ideale per diffondere i “valori euroasiatici” della Russia, e “confuciano-
comunisti”, della Cina, contro l’oscurantismo medioevale dell’Islam. La
“campagna sui valori” – diventata il pezzo forte di Putin e di Xi Jinping in
quest’ultimo decennio – è diretta contro “democrazie liberali obsolete”: esse
non avrebbero più motivo di esistere perché sarebbero fallite proprio nei
principi che affermano. Ma è evidente che la propaganda anti-occidentale
cinese e russa è molto comoda, e utile, per organizzazioni Jihadiste che
predicano le stesse cose contro i loro nemici occidentali; mentre rafforza
proprio i Jihadisti nella lotta contro i loro oppressori: i russi e i cinesi, che
paiono così aver lanciato una sorta di “boomerang ideologico”.

b) La brutalità delle operazioni militari russe in Siria e della repressione


cinese nello Xinjiang intende modificare le componenti etniche di
popolazioni che vengono scientificamente colpite proprio per sopprimere
culture, religioni, tradizioni locali “scomode” al potere e all’etnia dominante
– sovente vista come “razza superiore” dai nazionalisti più radicali. Tanto la
Russia sovietica, quanto la Cina maoista, avevano già ampliamente
sperimentato queste politiche criminali; ma con una ben sostanziale
differenza di fondo. Sino alla fine degli anni ‘90 non era ancora evidente la
forza e la capacità di reazione delle organizzazioni jihadiste e del
fondamentalismo musulmano a livello globale. Ma è sempre meno scontato
che la tattica della “terra bruciata”, sperimentata dalla Russia in Cecenia, o
della Rivoluzione culturale che ha insanguinato la Cina, possa essere
impunemente riproposta in una realtà che si caratterizza in modo
marcatamente diverso per demografia, progresso tecnologico, equilibri
geopolitici. Le conflagrazioni che le indiscriminate repressioni di decine di
milioni di musulmani in Cina e in Russia rischiano di causare riguardano la
realtà globale. Trasformare queste politiche irresponsabili deve essere una
priorità per l’intera comunità internazionale. E i Paesi occidentali devono
farsene carico, per evitare le conseguenze che possono derivare soprattutto
per loro.

82
• Quanto alla terza “potenza revisionista”, l’Iran, divenuta da sette anni a
questa parte – per effetto della immensa carneficina siriana – sempre più
stretta alleata di Mosca e, con maggiori “distinguo” di Pechino, si deve
notare che l’inserimento di una dimensione fortemente “messianica” nelle
dinamiche geopolitiche mediorientali e globali accresce l’imprevedibilità di
un “player” militarmente forte, vicinissimo alla soglia nucleare, e la minaccia
che il regime rappresenta. Da quarant’anni la teocrazia iraniana pratica il
terrorismo quale strumento essenziale e integrante della propria strategia di
eliminazione di qualsiasi forma di dissidenza interna e esterna al Paese. Dal
2001 a oggi ha dimostrato di poter superare, nel promuovere il terrorismo,
qualsiasi barriera confessionale e di saper sostenere attivamente anche le
organizzazioni Jihadiste a matrice sunnita, come Al-Qaeda, Hamas, Jihad
Islamica, oltre all’attività terroristica a proiezione globale che fa capo a
Hezbollah e al Corpo delle Guardie Rivoluzione Iraniana (IRGC). L’esistenza
di un “Governo dei Giureconsulti“ – Velayat -el- Fakih – legittima- secondo la
teocrazia di Teheran, gli obiettivi che essa dichiara ,tra i quali la distruzione
di Israele, e alimenta la conflittualità permanente con i Paesi Arabi sunniti
del Golfo, del Medio Oriente e del Mediterraneo, nonché il più duro
confronto con gli Stati Uniti. Era stato proprio nel bel mezzo del “risveglio”
Sciita che l’America di Obama si era mostrata rinunciataria e cedevole in
Siria – forse per incoraggiare Teheran a sottoscrivere il JCPOA – ma ciò non
era di certo servito a rallentare l’espansionismo regionale dell’Iran, il suo
programma nucleare e missilistico. Washington ha partecipato dall’agosto
2014 con una capacità militare molto significativa alla campagna militare
contro lo Stato Islamico in Siria; in una davvero “strana alleanza”
antiterrorismo nella quale gli obiettivi per gli Americani erano le forze
dell’ISIS, mentre per Russi, Iraniani e Assad l’obiettivo da colpire era non solo
lo Stato Islamico, ma anche tutto lo schieramento di forze appartenenti
all’Opposizione siriana. Nei primi mesi di guerra all’ISIS si è assistito persino
ad attacchi dell’Air Force USA in copertura di forze e “proxies” iraniani sul
terreno. La “stranezza” di quanto precede è parsa non solo evidente per
molti, ma ha prodotto conseguenze negative e, si teme, di lungo periodo.
Non poteva essere altrimenti, data la profonda diversità nella concezione e
condotta delle operazioni militari: differenti gli obiettivi da colpire (ISIS per
l’America, gli oppositori politici per Assad e i suoi due alleati); contrapposte
le finalità politiche (conservazione al potere degli Assad, voluta da Russia e
Iran; evoluzione inclusiva degli assetti istituzionali e riforme incisive nel Paese,
auspicate dagli USA, almeno sino a quando Washington si è realmente

83
impegnata nella questione siriana); contrastanti i metodi operativi e le
regole di ingaggio (“terra bruciata” come in Cecenia, per Mosca; pulizia
etnico-politica di molte comunità sunnite, con sostituzione di Sciiti, per
Teheran e Damasco; attenzione ai “danni collaterali” alla popolazione
civile, per gli americani).

LE NOVITÀ DELL’AMMINISTRAZIONE TRUMP

La novità che Trump ha apportato alla politica americana nei confronti


dell’Iran, riattivando le sanzioni e uscendo dal JCPOA, non sembrano essere
totalmente coerenti con l’impegno del Presidente – in curiosa continuità, su
questo punto, con il Presidente Obama – nella guerra all’ISIS, condotta
esclusivamente con lo strumento militare: un tipo di intervento, questo, che
ha fatto e sta facendo soprattutto gli interessi russi, iraniani, e di Assad.

Dove è andata a finire, ci si chiede, quella strategia delle coalizioni a


guida americana che in Iraq, nel 2007, aveva cercato di riportare stabilità
nelle Province sunnite a nord di Baghdad? Washington aveva affiancato
all’azione militare e all’”obiettivo sicurezza” un grande impegno per
contrastare un’insorgenza in netta ripresa, attraverso il coinvolgimento delle
tribù locali, programmi di sviluppo economico, erogazione di servizi,
creazione di infrastrutture, partecipazione delle comunità sunnite alle
istituzioni locali e nazionali. C’era la volontà di coinvolgere “hearts and
minds” della popolazione irachena sunnita. Successivamente il pesante
condizionamento dell’Iran sul Governo di Baghdad era purtroppo riuscito a
contrastare quella politica.

In Siria, tuttavia, gli Stati Uniti non sono parsi interessati veramente a
muoversi su altro terreno che non quello della forza militare. Probabilmente
perché l’unica agenda possibile da condividere con russi e iraniani era
quella della guerra all’ISIS, e non una soluzione politica per la tragedia
Siriana per rimettere in discussione il regime Alauita. Finita la stagione del
Califfato, ma non certo quella del Jihadismo che ha creato e che ancora
ne trae ispirazione, l’America perde con l’annunciato ritiro del suo
contingente militare un ruolo da protagonista nella ricostruzione politica e
materiale del Paese. La temporanea alleanza di Washington con Russia e
Iran è servita invece a rafforzare considerevolmente ruolo e credibilità di
Mosca e di Teheran in Siria nell’intera regione, con affievolimento, se non

84
perdita, dell’amicizia preziosa per gli Stati Uniti dei curdi siriani e delle altre
componenti contrarie ad Assad e agli Sciiti.

Come scrive Michael Mandelbaum nel suo ultimo libro “The Rise and Fall
of Peace on Earth”, come per le altre due “potenze revisioniste” (Cina e
Russia) anche per l’Iran una condotta aggressiva al di fuori dei confini
nazionali ha il potere di rinvigorire la base di Governo, quando ci si appella
al sentimento nazionalista della popolazione. Esattamente come stanno
facendo Cina e Russia. Vi è tuttavia una profonda differenza. Per l’Iran il
nazionalismo ha una connotazione religiosa fondamentalista e settaria:
quella di un Islam politico attuato con la creazione della Repubblica
Islamica, costruita per la supremazia degli Sciiti su tutti i Musulmani in Medio
Oriente, e riscattare gli Sciiti dalle persecuzioni e sconfitte storicamente
subite dai Sunniti. Mentre la Russia lasciava (almeno ufficialmente) il
Marxismo-Leninismo, e la Cina cercava di trasformarlo, in Iran tutto il
bagaglio ideologico restava intatto.

Il Clero governa applicando in modo rigido la propria interpretazione


della Legge Islamica. Le “élites” economiche e politiche restano ancorate a
quei principi. Né hanno sinora avuto interesse a discostarsene, dato che
traggono dal sistema legittimazione e ricchezza. La politica estera e lo
stesso sostegno alle attività terroristiche sono interamente omogenei al
sistema e coerenti con l’ideologia della Repubblica Islamica. Essa riguarda
innanzitutto la missione degli Sciiti, per il dominio nella regione di cui l’Iran è
parte. Come sintetizzato da un autorevole Ayatollah “E’ dovere del Governo
condurre il popolo in Paradiso anche con la forza delle frustate”. E’ il contesto
nel quale la recente storia dell’Iran ha attraversato repressioni sanguinose
nel 1988, nel 2006, 2011, e ancora con le rivolte popolari dal dicembre 2017
a oggi, al prezzo di centinaia di migliaia di vittime negli ultimi trent’anni.
L’Iran è ovviamente ben lontano dal disporre di una capacità militare
paragonabile a quella russa o cinese, o in grado di avventurarsi in operazioni
militari su grande scala. Tuttavia, come hanno fatto nel secondo dopoguerra
l’Unione Sovietica e la Cina con movimenti Comunisti e “Forze di Liberazione”
sostenuti e diretti da Mosca e da Pechino, Teheran agisce sin dai primi anni
‘80 tramite “proxies” appartenenti alle comunità Sciite. IRGC e Intelligence
del regime hanno contribuito in ogni modo possibile, con ingenti forniture di
armi, miliardi di dollari annui, sostegno logistico, forze regolari e milizie
create appositamente, alla mobilitazione di ingenti forze militari fuori dal
Paese. Hezbollah – che vive solo grazie agli ingenti finanziamenti di Teheran,

85
come ha ripetutamente dichiarato il suo leader, Sceicco Nasrallah – è ormai
diventata un’organizzazione militare su grande scala, di decine di migliaia
di uomini perfettamente addestrati, reclutati anche tra le comunità Sciite in
Afghanistan, Pakistan, Medio Oriente, con un arsenale missilistico
gigantesco e armamenti modernissimi. Hezbollah, come altre milizie formate
dal regime iraniano, ha una rilevante proiezione multinazionale e non più
libanese soltanto. Opera in Libano da inizio anni ‘80, in Iraq e in Siria da
quasi un decennio, insieme ad altre forze paramilitari specializzate in “ethnic
cleansing” e eliminazioni mirate; si collega alle iniziative di sostegno iraniano
agli Houti in Yemen, e a molte attività di terrorismo internazionale, guerriglia,
traffici e criminalità organizzata che raggiungono Paesi lontani, come il
Venezuela e altri Paesi latinoamericani.

Su tutti questi terreni agisce la nuova politica di “massima pressione” e di


“containment” nei confronti dell’Iran da parte dell’Amministrazione Trump.
L’Europa ha torto nel non aver ancora voluto riconoscere – per comoda
attitudine all’“appeasement” e il miraggio di un inesistente Eldorado per gli
affari – la minaccia che il regime iraniano comporta per la sicurezza
internazionale, per la radicalizzazione e la diffusione globale, soprattutto in
Europa, del Jihadismo a matrice sciita.

IL PROFETA E IL FARAONE

Il radicalismo religioso riconducibile all’Iran Sciita, all’Islam politico dei


Fratelli Musulmani, al Wahabismo continua a rappresentare un’enorme
sfida per le società liberali e la loro sicurezza. Da almeno quarant’anni voci
autorevoli sottolineavano la minaccia della radicalizzazione islamica.
Soprattutto Gilles Kepel, con il suo straordinario lavoro intitolato “Il profeta e
il Faraone”. Dalla sua pubblicazione nel 1984, il libro si è affermato come
punto di riferimento per comprendere l’islamismo. I numerosi archivi
consultati e la mole di documenti inediti resi noti, hanno portato alla luce
una rete fittissima di organizzazioni e predicatori che va dalle campagne
dell’Alto Egitto alle rive dell’Arabia, dalle moschee del Cairo alle boutique di
Barbès. Ed è proprio dall’Egitto che bisogna partire, come afferma Kepel,
per comprendere le ragioni dell’islamismo. È lì che nel 1928 fu creata
l’Associazione dei Fratelli Musulmani, la matrice degli attuali e principali
movimenti islamisti. È in Egitto che l’ideologia islamista ha portato al primo

86
“regicidio” in nome del profeta Maometto, con l’assassinio del Presidente
Sadat, detto il “Faraone”.

Anche per questo Kepel mette in guardia dal considerare i Fratelli


Musulmani come una forza politica da sottovalutare, in quanto percepita
da alcuni strati della società come espressione della resistenza dei piccoli
contro l’oppressione delle dittatura, e come risposta alle imposture della
concezione occidentale di stato indipendente. L’Islam radicale che sta
investendo l’Europa è un’ideologia completa. Esso non può trovare
accoglienza nella nostra società, perché affonda le proprie radici in leggi e
in una dottrina islamica create nel VII secolo: dove non è riconosciuta
alcuna libertà di religione, parola, pensiero, espressione artistica o stampa.
La giustizia deve essere separata per musulmani e non musulmani, per
uomini e donne. Per la Fratellanza Musulmana uno dei primi doveri del buon
musulmano è la “dawa”, il proselitismo e l’obbligatoria conversione dei non
credenti.

POLITICALLY CORRECT

L’ondata di attacchi in Europa e il crescente numero di vittime stanno


cambiando la percezione generale della sicurezza. La migrazione, la
radicalizzazione e il terrorismo dei musulmani sono percepiti dall’opinione
pubblica europea come sempre più interconnesse. Ma molti Governi dell’UE
affermano il contrario e fanno ogni sforzo per negare la portata e la natura
della minaccia. Il filosofo americano Michael Walzer ha dichiarato: “Incontro
spesso persone più preoccupate di essere considerate islamofobiche, che
disposte a condannare il terrorismo islamico”. Confondendo in tal modo il
dibattito politico, i leader europei non aiutano i propri cittadini a riunirsi, a
rafforzare la loro volontà e identità comuni. L’atteggiamento del Governo
italiano non fa eccezione.

Il professor Giuseppe Laras, compianto e grande esponente di riferimento


nella comunità ebraica italiana, leader riconosciuto nel dialogo religioso e
culturale in Italia, scriveva sul Corriere della Sera dopo gli attentati terroristici
islamici di luglio 2016 in Bangladesh e in Francia: “… una politica suicida e
ostinatamente ideologica continua a negare che l’Islam abbia qualcosa a
che fare con il terrorismo. Continuano a dire che ci sono altri motivi, come il
disagio sociale nei sobborghi, la condizione dei migranti, i fallimenti delle
politiche di integrazione, e così via”.

87
La distorsione dell’informazione “politically correct” trova numerosi
modelli di riferimento. Uno dei casi più appariscenti è la BBC con la decisione
di non utilizzare più il termine “terrorismo” in caso di attacchi di chiara natura
terroristica. La ragione di questa linea editoriale si riassume nel concetto
che “un uomo terrorista è un combattente per la libertà di un altro uomo”.
Boaz Ganor, nel suo libro “The Counter-Terrorism Puzzle: A guide for Decision
Makers” fa un quadro più preciso della questione: “Il terrorismo è una forma
di lotta violenta in cui la violenza è usata deliberatamente contro i civili per
raggiungere obiettivi politici (nazionalisti, socioeconomici, ideologici,
religiosi, ecc.)”. La definizione dimostra come sia l’atto di violenza contro i
civili per scopi politici che rende un evento un attacco terroristico. Non c’è
possibilità di fraintendimenti quando si utilizza questa definizione. I media
sono il quarto pilastro della democrazia, con il compito di garantire al
pubblico l’informazione e la comprensione degli eventi sociali, politici ed
economici che si manifestano. I media hanno lo scopo di rendere un
governo responsabile nei confronti degli elettori e di esporre al pubblico i
fatti con imparzialità. I jihadisti mirano invece a utilizzare i media a loro
vantaggio e a creare una paura irrazionale all’interno della società; al fine
di esercitare pressione sui loro Governi nella speranza di cambiamenti
favorevoli alla loro causa. Mettendo al bando termini come “terrorismo
jihadista”, si fa il gioco dei terroristi e si rischia di legittimare le loro cause.

In un’indagine pubblicata nel dicembre 2016 sullo stato dell’integrazione


dei musulmani nel Regno Unito, Louise Casey – alto funzionario del Governo
britannico per l’assistenza e l’inclusione sociale – ha denunciato il “manto di
riservatezza” steso dal Governo sui fenomeni Jihadisti e di radicalizzazione in
Gran Bretagna, e la mentalità “politically correct”. Tutto ciò permette al
terrorismo islamico di prosperare senza essere stigmatizzato, come invece
dovrebbe. E alimenta, in direzione opposta, un estremismo di tendenza
suprematista e neonazista che accusa le “élites” progressiste di inettitudine.
I vertici della Sicurezza e dell’Intelligence consultati dalla Casey non
avevano esitazioni a includere etnia e religione di appartenenza tra le
cause prevalenti della criminalità e del fallimento del processo di
integrazione, ma si mostravano riluttanti ad ammettere l’”estremismo
islamico”. Per Giulio Meotti, autorevole esperto di Medio Oriente, il
multiculturalismo europeo ha il torto grave di avere disatteso i diritti
fondamentali delle donne musulmane che l’Europa deve invece garantire.
Sono loro le vittime di “crimini d’onore” per non indossare il velo, vestirsi
all’occidentale, avere amici cristiani, divorziare, essere troppo “indipendenti”.

88
In Europa la poligamia è aumentata, così come le mutilazioni genitali
femminili (500.000 casi in Europa); l’antisemitismo è salito alle stelle e si sta
affermando un sistema di “società parallela” ispirata all’Islam e alla Sharia.

CONCLUSIONI

La consapevolezza di un’identità europea maturata in due millenni di


tradizione giudaico-cristiana, protagonista nella modernità, nel prodigioso
progresso della scienza, delle libertà, della condizione umana e dello Stato
di Diritto è l’unico e forte ancoraggio di cui disponiamo per superare la sfida
di una generalizzata islamizzazione fondamentalista, possibile ma ancora
evitabile, delle nostre società e nel mondo musulmano.

L’Islam politico e le sue deviazioni Jihadiste hanno registrato progressi,


ma anche significativi arretramenti. I progressi sono stati favoriti da:
strumentali narrative “politically correct” dell’informazione e dei Governi
Europei e Nordamericani; un multiculturalismo imperniato sulla soppressione
di valori identitari, culturali, e persino costituzionali nei Paesi di immigrazione;
un “appeasement” verso Stati terroristi, con accondiscendenza, e talvolta
sottomissione alla minaccia, all’uso della forza; assenza di vere strategie per
il “contenimento”, la “deterrenza”, la “diplomazia coercitiva” attraverso
iniziative di natura politica, economica, e di intelligence.

Al contrario, frequente è stata la disponibilità a ignorare i nostri principi


fondamentali, sanciti dall’Art.21 del Trattato sull’Unione Europea, obbligatori
per tutti gli Stati membri nelle loro politiche interne e esterne all’Unione. Tutto
ciò è stato particolarmente riprovevole nelle relazioni con Paesi musulmani
che violano sistematicamente, spesso in misura assai grave come la Siria,
l’Iran, l’Arabia saudita, i Diritti Umani. L’Occidente, e in particolar modo
l’Unione Europea, le sue Istituzioni e tutti i Paesi membri hanno perso
credibilità e autorevolezza ogni volta che ciò è avvenuto, troppe volte.

Sotto il profilo geopolitico, ai progressi dell’Islam politico e delle sue


derive Jihadiste ha contribuito la costante campagna delle due “potenze
revisioniste” – Cina e Russia – contro valori, interessi, presenza culturale,
economica, e politica dell’Occidente nel mondo. In questo senso, Cina e
Russia conducono una stessa battaglia: per indebolire proprio la parte del
mondo che è l’unica alternativa ai regimi teocratici e fondamentalisti nemici
delle libertà, e contrari al cammino dei musulmani verso la modernità.
Bisognerebbe finalmente riconoscere gli errori commessi, per correggerli: la

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distruzione dello Stato Iracheno nel 2003, un immenso regalo per la
Repubblica Islamica Iraniana. Le ha consentito di ricongiungersi agli sciiti
Iracheni – 60% della popolazione – e nel decennio successivo, nel 2014, ha
incoraggiato le mire Iraniane sulla Siria, in cambio – sembra –
dell’accettazione americana di un “Nuclear Deal” nato male e finito peggio.

Il contenimento dell’Iran, del fondamentalismo estremista e della forma


di Islam politico che Teheran propugna è, secondo Washington non solo
possibile, ma assolutamente necessario. Molti Paesi della regione ne sono
ugualmente convinti.

Esistono forze e Paesi impegnati nel trasformare le condizioni politiche,


economiche e sociali nelle quali si è diffuso l’estremismo e il terrorismo
Jihadista. Lo sono l’Egitto, con l’Università Al-Azhar e il Grande Imam Ahmad
Al-Tayyeb, promotore del Documento sulla Fratellanza Umana per la Pace
Mondiale e la Convivenza Comune sottoscritto con Papa Francesco ad
Abu Dhabi lo scorso Febbraio; il Marocco e la Giordania, con i due Sovrani
profondamente impegnati nell’educazione alla tolleranza e nel dialogo
inter-religioso; la Tunisia con una classe politica che ha saputo superare
molti condizionamenti ideologici; l’Algeria, decisa a lottare per mantenere
una laicità duramente conquistata; il Sudan, avviato verso una forma di
governo più aperta e inclusiva; i paesi del G5 Sahel, che insieme alla Francia
e alle organizzazioni internazionali che li sostengono sono impegnati
militarmente e con programmi di sviluppo sostenibile per sradicare la
minaccia Jihadista; diversi altri Paesi dell’Africa e dell’Asia, tra i quali spicca
il più grande paese musulmano del mondo, l’Indonesia, con 260 milioni di
abitanti quasi per il 90% islamici, con un Presidente rieletto al secondo
mandato sulla base di un programma che esclude qualsiasi concessione
al fondamentalismo.

Tra i Paesi arabi a noi vicini vi sono stati successi certo non trascurabili nel
contrasto al terrorismo e alla diffusione di un Islam politico incline al
fondamentalismo. Sono Paesi amici dell’Italia. Devono essere politicamente,
economicamente, e militarmente – se necessario – aiutati per assicurare un
futuro diverso, di stabilità e sviluppo al Mediterraneo e al Medio Oriente.
Ricordiamoci che l’ondata messa in moto dalle “Primavere Arabe” otto anni
orsono – con il suo anelito per la libertà, il rispetto dei Diritti Umani e la
richiesta di Giustizia – era parsa infrangersi con l’arrivo al potere, in Egitto,
dei Fratelli Musulmani e del Presidente Morsi nel giugno 2012. Era l’avvio di
una dinamica che coinvolgeva gran parte del mondo arabo, molti Stati

90
della Regione, dalla Turchia al Golfo, dalla Mesopotamia al Sahel. E
riconducibile all’influenza dell’Islam politico egiziano, nella prima fase delle
primavere Arabe, fu un aspetto particolarmente negativo per la Libia e, di
conseguenza, per l’Italia: l’improvvisa interruzione dell’”Institution building”
del percorso costituzionale che il Paese aveva intrapreso dopo la caduta di
Gheddafi.

La tragedia siriana, e il suo “spill over regionale”, sono stati figli della
medesima causa, quella di un riaccendersi dell’insanabile confronto tra
due diversi modelli di Islam politico e di fondamentalismo, riassumibile nella
visione dei Fratelli Musulmani da un lato, e in quella dell’Iran Sciita.

La rimozione del presidente Morsi il 3 Luglio 2013, dopo le grandi


manifestazioni di protesta contro di lui, riportava al potere in Egitto un
sistema di Governo nel quale le Istituzioni militari tornavano ad avere il ruolo
che avevano quasi sempre esercitato nel Paese. Si è trattato, indubbiamente,
di un esempio assai importante – pur in tutta la sua problematicità sotto il
profilo dei Diritti umani, e per noi così tragico con la scomparsa di Giulio
Regeni – di contenimento dell’Islam politico e del fondamentalismo
riconducibile ai Fratelli Musulmani. A un prezzo elevatissimo per gli islamisti
oppositori di Al-Sisi, e con la tragica scomparsa durante il processo che lo
riguardava dell’ex Presidente Morsi.

Situazioni da considerare positivamente, nel consolidamento istituzionale


di Paesi che si temeva potessero subire contraccolpi negativi dalle primavere
arabe – con preoccupante rilancio delle forze fondamentaliste – hanno
riguardato un po’ tutta la riva Sud del Mediterraneo, dal Marocco, alla
Tunisia, sino alla riva orientale, in Giordania. Ma le questioni aperte, che
devono impegnare l’Europa e l’Italia in una strategia di stabilizzazione che
aiuti le componenti moderate di quei Paesi, continuano a riguardare la
Siria, l’Iraq, e la Libia.

Un disegno coerente di politica estera e di sicurezza deve porre al centro


l’affermazione dell’identità europea attraverso tutto il “soft power” e ”sharp
power” di cui l’Occidente dispone. Islamizzazione e revisionismo dell’ordine
mondiale, se avremo la volontà di agire, finiranno di spaventare.

Giulio Terzi di Sant’Agata


ambasciatore, già Ministro degli Affari Esteri
e della Cooperazione internazionale

91
IL TERRORISMO
DI MATRICE ISLAMICA
di Isabella Rauti

La tragica data dell’11 settembre 2001, con l’attacco terroristico di Al-


Qaeda agli Stati Uniti, rappresenta un punto di “non ritorno” e stabilisce una
linea di demarcazione, nell’immaginario collettivo globale e nella storia
mondiale, tra un prima ed un dopo. È stata una dichiarazione di guerra da
parte dei fondamentalisti islamici all’Occidente! Ed il mondo è cambiato. I
nostri figli ed intere generazioni sono nativi del “dopo 11 settembre” e, da
allora ad oggi - purtroppo – abbiamo assistito ad un innalzamento della
minaccia terroristica, ad una sua evoluzione tecnica ed alle molteplici
modificazioni dei fenomeni terroristici.

Si è affermato, nel tempo, un nuovo modello terroristico ed il tema resta


nevralgico e permane come cruciale e strategico, così come permanente
è la minaccia terroristica, al di là ed oltre la scomparsa della realtà statuale
e geografica del sedicente “Stato islamico” di Daesh. Quel frutto del
processo di trasformazione, espansione e radicamento del gruppo
terroristico dell’Isis (nato come una cellula di Al-Qaeda in Iraq nel 2013), che
è riuscito – con molti e noti appoggi e finanziamenti stranieri - a conquistare
militarmente un’area compresa tra la Siria nord-orientale e l’Iraq occidentale,
ad organizzarsi in uno “Stato” con le proprie strutture ed assetti sociali ed a
proclamare il Califfato (giugno 2014).

Dopo gli attacchi terroristici del 2004 (Londra), del 2007 (Madrid), del
2011 in Norvegia, ci si avvia verso una tragica escalation di attentati di
matrice islamica e, dal fatidico 2014 (nascita di Daesh) al 2019 si sono
registrati attacchi terroristici continui, di intensità diversa (bassa, media,
alta e quelli definiti emulativi) e di natura mista (attacchi di singoli attentatori
o strutturati), con il picco toccato nel 2016 (l’anno degli attentati, tra gli altri,
a Bruxelles, a Nizza, a Berlino, rivendicati dall’Isis e risultati legati a quelli di
Parigi del 2015).

92
Secondo il Report realizzato dal “National Consortium for the Study of
Terrorism and Responses to Terrorism” (START) sulla base dei dati raccolti dal
“Global Terrorism Database” (messo a punto dall’Università del Maryland),
gli attentati terroristici del 2016 in tutto il mondo (l’87% ha interessato la
regione del MENA, il Sud dell’Asia e l’Africa subsahariana; il 2% l’Europa
occidentale) sarebbero stati 13.488 ed avrebbero causato 34.676 vittime di
cui più di 11.600 sono ritenuti attentatori; nel 2016 l’Isis si conferma come
l’organizzazione terroristica più pericolosa ed attiva, portando a compimento
circa 1.400 attacchi che hanno prodotto oltre 11.700 vittime , delle quali
circa 4.400 erano attentatori.

E nel 2017 altri attentati terroristici: Istanbul, Londra, San Pietroburgo,


Stoccolma, Manchester, e ancora Parigi e ancora Bruxelles, Amburgo,
Barcellona e, purtroppo, potremmo continuare perché nonostante la
flessione del numero degli attacchi, la media è rimasta alta.

Nel corso di questi anni di sangue gli attacchi condotti in Occidente non
sono stati tutti uguali; alcuni sono stati molto sofisticati e condotti da
professionisti addestrati, altri da emulatori meno preparati o addirittura
improvvisati ma questo non gli ha impedito di portare a compimento i piani
terroristici, sottolineando una certa permeabilità dei sistemi di difesa e
sicurezza europei. Che si trattasse di “lupi solitari” o di cellule organizzate
(che hanno potuto godere del supporto di molti fondamentalisti islamici
presenti in Europa) l’offensiva jihadista si è protratta, dimostrando l’inefficacia
di alcune strategie ed una debolezza strutturale nelle segnalazioni e nelle
misure preventive. Troppi, infatti, i casi rivelati dalla cronaca e dalle indagini
successive agli attentati, di sostenitori della Jihad che hanno dissimulato
con successo il loro ruolo di fiancheggiatori (o molto di più!), dietro una
facciata di integrazione e “mimetizzazione” occidentale; svolgendo per
anni una funzione logistica, di propaganda, di finanziamento e di
reclutamento utili alla causa. La tecnica della dissimulazione (in arabo
taqyyia) è sempre più utilizzata dai soggetti radicalizzati per la loro
infiltrazione nel tessuto sociale occidentale.

Tutti attacchi terroristici rivendicati, nella stragrande maggioranza dei


casi, nel nome dell’Isis, con una frequenza elevata (e grande impatto
mediatico, come voluto dalla strategia degli stragisti) ed un evoluzione del
fenomeno da cui emerge che si tratta di operazioni studiate e coordinate
con “team-raid” tattici, in alcuni casi simultanee, compiute da soggetti
radicalizzati e, tendenzialmente, di giovane età e con la cittadinanza

93
europea, da commando suicidi, attentatori disposti al martirio in ossequio
estremo alla loro fede islamica radicale.

Il bilancio complessivo degli attentati subiti dall’Europa (“il teatro


operativo urbano europeo”) è impressionante, con migliaia di vittime civili
colpite tra morti e feriti; sono cifre da guerra! Ma dietro gli aspetti quantitativi
delle stragi – e non sono numeri, ma persone! - ci sono le necessarie analisi
qualitative delle azioni terroristiche e delle loro rivendicazioni; la strategia
dell’Isis e la minaccia jihadista hanno raggiunto il loro obiettivo, quello di
rendere l’Occidente e l’Europa un “campo di battaglia” attuando la tattica
del terrore indiscriminato: “(…) frutto di un semplice principio dell’economia:
ottimi risultati con un minimo investimento. Il susseguirsi di eventi sanguinosi
che ormai da tempo riempiono intere pagine di giornali, nonché i profondi
effetti tracciati sulle coscienze dei cittadini europei, lasciano un
insegnamento per i giorni a venire: nessuno è al sicuro. La strategia
dell’innalzamento del livello di prevenzione poteva forse risultare utile nei
nefasti Anni di piombo, quando il nemico che si affrontava era noto, la sua
ideologia comprensibile così come la lingua. Oggi la realtà è completamente
diversa. I novelli terroristi agiscono per “delega divina”, hanno un background
culturale completamente diverso dal nostro, parlano una lingua ai più
sconosciuta e praticano una religione che solo negli ultimi anni si è fatta
conoscere all’Occidente (OFCS REPORT, La “delega divina” che autorizza le
stragi)”; insomma l’incubo che prende forma e che assilla tutti, Governi e
cittadini, la minaccia e l’insicurezza globali.

L’Europa, oltre che bersaglio si è rivelata una incubatrice (ma anche


sorgente autonoma) di militanti, di estremisti, di Jihadisti di ritorno, di
reclutatori e predicatori radicalizzati e la minaccia terroristica permane,
come accennato, oltre la sconfitta militare e la caduta delle roccaforti di
Daesh e del sedicente Stato Islamico, perché ne resta l’ideologia e la
sconfitta militare non è la fine della Guerra. Ed affrontare l’eredità della
sconfitta dello Stato Islamico e la nuova minaccia terroristica è la sfida delle
sfide; un terrorismo agguerrito e multidimensionale ci coinvolge, riguarda la
sicurezza delle nostre collettività, richiede studi strategici adeguati e
sofisticati e misure di contrasto mirate ed efficaci.

Il fenomeno terroristico, infatti, ha elaborato le sue nuove tecniche


offensive e si è passati da un terrorismo tradizionale ad un “nuovo terrorismo
insurrezionale”, multidimensionale, fluido, dinamico, contemporaneo, di
matrice islamico-radicale. Vi concorrono atti coordinati ma anche le attività

94
offensive isolate dei cosiddetti “lupi solitari”; gli attacchi suicidi, cui hanno
cominciato a contribuire anche le donne: le mogli, le sorelle, le madri dei
combattenti e, purtroppo, anche i bambini, impiegati come attaccanti
suicidi, imbottiti di tritolo e mandati a morire telecomandati a distanza.

Non trova qui spazio e meriterebbe un capitolo a parte l’altro fronte dei
foreign fighters che sono le donne; Al-Qaeda non le impiegava mentre l’IS
le ha utilizzate ampiamente: da quelle operative e combattenti, impiegate
in ruoli militari operativi o di spionaggio o incaricate di condurre attacchi
suicidi, alle mogli forzate dei miliziani del Califfato (comprate e costrette al
matrimonio), alle vedove, alle madri e alle sorelle dei combattenti jihadisti e
poi i bambini, quelli indottrinati e obbligati a fare i soldati o i martiri e quelli
– i “figli dell’Isis” - nati dai matrimoni forzati e, taluni, oggi ripudiati dalle loro
madri.

Gli esperti di settore distinguono gli attacchi ad intensità bassa, media,


alta; e quelli compiuti con armi cosiddette non convenzionali e condotti da
soggetti singoli e attori solitari ed isolati dagli attacchi sferrati da gruppi
strutturati o da reti di cellule organizzate. Si aggiungono, gli attacchi che
convenzionalmente vengono definiti di tipo emulativo, che seguono quelli
principali e coordinati e ad alto impatto mediatico, e proprio lo “jihad
mediatico” evoca e produce un effetto virale e amplia la fascia di
simpatizzanti anche se non radicalizzati.

Il nodo della radicalizzazione è un risvolto fondamentale del fenomeno.


Solo un dato ed una riflessione introduttiva, al proposito; secondo le analisi
e gli studi di settore il fenomeno di radicalizzazione risulta in aumento, ad
esempio, all’interno delle carceri :+ 72% tra il 2016 e il 2017 e +10% dal 2017 al
2018 (Fonte “ReaCT”, l’Osservatorio sul Radicalismo e il Contrasto al
Terrorismo, nato per monitorare e prevenire il radicalismo e contrastare il
Terrorismo e per contribuire alle politiche di difesa e di sicurezza dei Paesi
europei e dei membri della NATO). Le prigioni sono i luoghi in cui il proselitismo
raggiunge anche soggetti non radicalizzati e recluta facilmente.

Più sommerso ma non meno solido e preoccupante è l’aspetto della


“radicalizzazione veloce” - che non coincide con il fondamentalismo - che
utilizza i social media ed attraverso i social network si propaga esercitando
una capacità di “fascinazione” ed un effetto reclutamento, suggestionando,
in particolare, le fasce giovanili e quelle socialmente marginalizzate, sensibili

95
ai richiami simbolici ed un bisogno di “appartenenza” identitaria unito ad
una volontà di riscatto.

La radicalizzazione veloce talvolta coincide con l’auto-radicalizzazione


individuale e produce il fenomeno definito di “reclutamento 3.0”, un
processo che passa attraverso percorsi diversi da quelli tradizionali e noti,
viaggia sul web e tramite canali meno ortodossi e formali anche rispetto
alla pratica confessionale.

Osservato nel suo insieme il fenomeno della radicalizzazione si presta ad


una duplice lettura: aumentano oggettivamente i soggetti radicalizzati ed i
canali di radicalizzazione ma contestualmente si affinano le capacità degli
operatori e degli analisti di individuare e rilevare le “sacche” di
radicalizzazione, gli indicatori e le simbologie di reclutamento. Gli studiosi
sono generalmente concordi nel ritenere che la radicalizzazione sia un
fenomeno subdolo e sfuggente, dinamico e sottotraccia, difficile da
contrastare e che debba essere fronteggiato anche con adeguate misure
di prevenzione e di “de-radicalizzazione”; è indubbio che alla sua
decifrazione contribuisca anche l’individuazione dei foreign fighters ed il
loro ritorno in patria dopo la dissoluzione territoriale dello Stato Islamico.

I foreign fighters, i combattenti stranieri del Califfato che sono


sopravvissuti, ritornano dai territori di guerra della Siria e dell’Iraq e
rappresentano una minaccia reale; sono quelli che “importano” in Europa
le tattiche di combattimento convenzionale e di guerriglia che hanno
acquisito sul campo di battaglia e sono in grado, non solo di fare opera di
proselitismo e radicalizzazione (dentro e fuori le carceri e nelle Moschee)
ma anche di costituire cellule organizzate, capaci di azioni strutturate e
pianificate secondo una strategia. Il ritorno dei foreign fighters può inoltre
favorire anche un aspetto diverso da quello della nascita dei nuclei, ovvero
può alimentare il numero e l’attività di soggetti operativi di prossimità, i “lupi
solitari” ed il “combinato disposto” delle due figure costituisce un fattore di
destabilizzazione interna agli Stati, rappresenta un rischio importante e
costituisce la base della nuova allerta terrorismo.

Proprio la sconfitta dello Stato islamico ha incrementato il fenomeno dei


rientri dei combattenti, una sorta di diaspora dei terroristi, soggetti il cui
ritorno non è assimilabile a nessuna prospettiva che non sia combattentistica
e terroristica. Inoltre, avvertono gli esperti di terrorismo del Consiglio di
Sicurezza delle Nazioni Unite, potrebbero essere sopravvissuti almeno 30.000

96
foreign fighters di quelli che si erano uniti al Califfato e, ancora, dei circa
6000 che erano partiti dall’Europa per andare a combattere con l’IS (Stato
Islamico) in Siria e in Iraq, almeno 2000 sarebbero rientrati. Sarebbero qui, a
casa nostra! E nuovi attacchi Isis sono possibili, in Europa ma anche nel
resto del mondo.

E l’allarme di nuovi attacchi in Europa (tendenzialmente di tipologia


individuale-autonoma ed a “basso costo” e non coordinata ma potrebbero
anche attivarsi reti di cellule internazionali) è stata appena confermato dal
Rapporto ONU, datato 15 luglio 2019 e reso noto nel mese di agosto. E si
tratta di una minaccia endogena (foreign fighters di rientro o terroristi dal
passaporto europeo) ed esogena (che passa attraverso le direttrici
migratorie della rotta balcanica e mediterranea).

L’ultimo Rapporto delle Nazioni Unite infatti, basato sui dati forniti dai
servizi e dalle Agenzie di intelligence di tutti i Paesi membri dell’ONU,
richiama l’attenzione mondiale sulla minaccia terroristica ed avverte che
l’attuale diminuzioni degli attacchi terroristici sembra non essere destinata
a durare a lungo e già entro l’anno in corso potrebbero essere sferrati nuovi
attacchi ispirati dall’Isis. Insomma, la minaccia all’Europa è elevata e
l’allarme resta alto in tutto il mondo; secondo gli esperti di terrorismo, lo
scenario globale dei movimenti islamisti è estremamente preoccupante e
continua a rappresentare una minaccia reale e significativa. A conferma
della tesi per la quale, la scomparsa geografica del Califfato, del sedicente
Stato islamico, non coincide con l’esaurimento dei fattori ideologico-religiosi
e politici che hanno portato alla sua nascita e la minaccia terroristica resta
attuale e se possibile più pericolosa, perché può produrre “nuovi brand”
terroristici internazionali, nuovi leader e diffondere la radicalizzazione nelle
forme che abbiamo analizzato. Viviamo nella consapevolezza, rafforzata
anche dai contenuti del Rapporto, che è imminente il rilascio della prima
ondata di foreign fighters arrestati dopo il loro rientro dai campi di battaglia
del Califfato e che, fin qui, i programmi di deradicalizzazione e di prevenzione
della radicalizzazione di carattere terroristico, si sono dimostrati inadeguati
mentre il cosiddetto “califfato virtuale” continua a fare propaganda e
reclutamento ed a godere di sostegni e mezzi economici (si valuta un
accesso a fondi che vanno dai 50 ai 300 milioni di dollari e non mancano
altre fonti (Cfr. studio Fondazione Icsa) che confermano i contributi di guerra
ed i finanziamenti al terrorismo jihadista) e l’Isis ha le capacità operative per
ordinare attacchi internazionali.

97
I miliziani di rientro dallo Stato Islamico, sono rimasti dei combattenti,
sanno maneggiare armi ed esplosivi, sono pronti ad obbedire agli ordini,
per loro il terrorismo è “un legittimo atto di guerra” e vedono nell’Europa il
nuovo campo di applicazione delle loro teorie; dovrebbero essere sorvegliati,
arrestati, messi nella situazione di non frequentare le moschee e di fare
azioni di proselitismo. E non possiamo prevedere l’impatto emotivo sui
potenziali attentatori, del richiamo lanciato da al-Baghdadi nel suo ultimo
video, di colpire “con coltelli e veicoli” trasferendo il campo di battaglia dal
Medio Oriente all’Occidente.

La “diaspora dei terroristi”, il flusso di ritorno dei foreign terrorist fighters


nonché la presenza accertata in Europa di migliaia di fondamentalisti
islamici, innalzano il livello della minaccia e richiedono una strategia
condivisa e complessiva di intervento. E’ necessario incrementare il sistema
di condivisione delle informazioni tra servizi di intelligence e le forze di polizia;
realizzare l’interoperabilità delle banche dati e dei sistemi di informazione;
implementare le misure di prevenzione e contrasto alla radicalizzazione. Su
quest’ultimo aspetto gioca un ruolo fondamentale il Centro di eccellenza
della Radicalization Awareness Network (Ran), istituito nel 2015 per fornire
sostegno agli Stati membri e condividere prassi comuni, secondo un
approccio multidisciplinare e multi agency; mentre sotto il profilo di
coordinamento operativo nel contrasto alla minaccia terroristica, il compito
principale è affidato al centro europeo antiterrorismo (Ectc), istituito a
Gennaio 2016, in seno all’Europol (che pubblica annualmente il Report
Terrorism Situation and Trend - Te-SAT). Al proposito vale la pena ricordare
che l’ultimo Rapporto dell’Europol - l’Agenzia europea cui spetta il compito
di assistere gli stati membri nelle attività di contrasto alla criminalità
internazionale ed al terrorismo - contenuto nel documento TeSAT (luglio
2019), ha lanciato l’allarme - unitamente alla relazione dei servizi di
informazione italiani - sulle infiltrazioni jihadiste nei flussi di migranti e sui
rischi connessi agli sbarchi, nonché sulla connessione tra il traffico dei
migranti e il finanziamento al terrorismo di matrice islamista.

La sconfitta territoriale dello Stato islamico, infatti, ha portato il movimento


a reinterpretarsi ed a delocalizzarsi nello scenario globale e in Europa. Nel
suo complesso e nella sua complessità, il nuovo modello terroristico, non è
circoscritto né circoscrivibile geograficamente ma sempre più fluido, diffuso
territorialmente, più dinamico e multidimensionale; la nuova allerta
terroristica richiede un diverso approccio metodologico per essere

98
fronteggiata ed una definizione condivisa per una strategia di prevenzione
e di contrasto davvero comune e in grado di rafforzare la sicurezza globale.
Si tratta – anche e quindi - di modificare gli organi e le organizzazioni di
intelligence, di rafforzare le attività di analisi della minaccia e i rapporti di
cooperazione e di alleanza europea e internazionale; anche in
considerazione degli spazi geopolitici instabili e delle nuove dinamiche
globali. La mancanza di una definizione condivisa delle caratteristiche del
nuovo modello di terrorismo condiziona e può pregiudicare il successo
delle strategie di contrasto, perché complica la definizione comune dei
parametri e dei criteri di valutazione delle Agenzie di Intelligence e degli altri
stakeholder coinvolti e complica l’attività di analisi (e reazione) della
minaccia.

La percezione diversa della minaccia può pregiudicare l’efficacia di una


strategia di contrasto e portare alla sottovalutazione della capacità
offensiva del fenomeno terroristico; può essere portata ad esempio la
recente notizia, passata quasi sottotraccia, che la Corte europea dei diritti
umani abbia stabilito che la “sharia non è contraria ai diritti umani e che
non è proibito creare dei gruppi separati che seguano le norme coraniche”.
Conclusione che di fatto rappresenta la negazione di millenni di storia
europea e la resa incondizionata nei confronti di chi vuole annientare la
nostra libertà e la nostra cultura. E ancora, c’è un’Europa che non considera
politicamente corretta nel suo linguaggio formale (e nella sua narrativa!)
l’espressione “terrorismo islamico” – titolo che invece abbiamo scelto per la
nostra riflessione sulla minaccia esistente di un terrorismo non convenzionale
ed insurrezionale di matrice islamica radicale! - e preferisce usare la
definizione “minaccia terroristica di matrice jihadista”; il punto è che seppure
si può operare una distinzione tra musulmani ed Islam, ed i suoi fedeli
possono essere moderati e “dialogici”, la fede in Allah di un fondamentalismo
radicale che si sta diffondendo, predica l’odio e la violenza verso i
miscredenti.

Una percezione diversa della minaccia terroristica da parte dei singoli


Stati Membri non solo non favorisce la necessaria interoperabilità dei dati al
livello europeo ma condiziona- frena! - anche le politiche comuni di
contrasto e di sicurezza mentre è urgente rafforzare gli strumenti giuridici ed
operativi, i controlli alle frontiere interne ed esterne, la strategia di
antiradicalizzazione e migliorare la collaborazione europea in materia di
difesa e sicurezza. La Commissione Europea sta studiando misure per il

99
contrasto al radicalismo islamico ma la strada è ancora lunga e c’è tanto
da fare in Europa anche in termini di coordinamento e controllo sulla libera
circolazione stabilita dai Trattati di Schengen, per cui i terroristi possono
muoversi liberamente tra gli Stati. Nel nostro Paese, oltre il difetto di
percezione, mancano anche gli strumenti normativi, dalla carenza di
percorsi strutturati e articolati per i processi di de-radicalizzazione all’assenza
di una Legge (che Fratelli d’Italia ha proposto) che introduca il reato di
integralismo islamico, per punire i predicatori d’odio, chi finanzia
l’integralismo islamico e le moschee clandestine, chi sostiene atti che
possono mettere a rischio la sicurezza pubblica. E non è solo una questione
di sicurezza e di legalità ma anche di reazione al processo di islamizzazione
che stiamo subendo in Europa e in Italia.

Isabella Rauti
senatore, giornalista,
Ufficiale Riserva Selezionata Esercito Italiano

100
TERZA PARTE
LE LINEE DELLA FRONTIERA.
CASI DI STUDIO

101
LA CONQUISTA DELL’OCCIDENTE
ATTRAVERSO LA DEMOGRAFIA
di Camilla Trombetti

IL TREND DELLA POPOLAZIONE MONDIALE

Nel 2019, la popolazione mondiale ammonta a 7,7 miliardi, in aumento di


un miliardo rispetto al 2007 e di due miliardi dal 1994. Sebbene la popolazione
globale sia ancora in crescita, tuttavia alcuni Paesi hanno registrato una
diminuzione, e al contempo, l’invecchiamento della popolazione e la
riduzione dei livelli di fertilità, hanno provocato un rallentamento della
suddetta crescita. Le proiezioni dell’ONU1 indicano che la popolazione
globale potrebbe crescere fino a circa 8,5 miliardi nel 2030, 9,7 miliardi nel
2050 e raggiungere i 10,9 miliardi nel 2100. I cambiamenti demografici non
saranno omogenei, ma mostreranno queste specificità:

• Aumento globale, ma declino della popolazione nel mondo


occidentale: sia l’Europa che l’America Latina subiranno un declino della
popolazione nel 2100. La popolazione europea dovrebbe raggiungere il
picco di 748 milioni nel 2021, e l’America Latina e i Caraibi dovrebbero
superare la popolazione europea entro il 2037, prima di raggiungere un
picco di 768 milioni nel 2058. Considerando la popolazione di Europa e
Nord America, quest’ultima ha raggiunto una quota di 1,11 miliardi nel 2019,
e si prevede che crescerà lentamente, fino a raggiungere un picco di 1,14
miliardi nel 2042, per poi diminuire e raggiungere 1,12 miliardi intorno al
2100.

La popolazione asiatica dovrebbe aumentare dagli attuali 4,6 miliardi a


5,3 miliardi nel 2055, per poi iniziare a diminuire. L’India supererà la
popolazione della Cina nel 2027, e nel 2059 la popolazione indiana
ammonterà a 1,7 miliardi. La popolazione globale dovrebbe aumentare di
circa 3,1 miliardi tra il 2020 e il 2100. Oltre la metà di questo aumento sarà

1 United Nations, Department of Economic and Social Affairs, Population Division, “World Population
Prospects 2019: Highlights”, 2019. I dati riportati in questo paragrafo sono un’elaborazione di
suddetto report.

102
determinato da Stati quali la Nigeria, la Repubblica Democratica del
Congo, la Tanzania, l’Etiopia e l’Angola, insieme a un paese non africano, il
Pakistan.

• La fertilità globale sta diminuendo: il tasso di fertilità2 a livello


globale dovrebbe scendere da una media di 2,5 figli per donna nel 2019 a
2,2 nel 2050 e a 1,9 nel 2100. In Australia e Nuova Zelanda, in Europa e Nord
America i livelli di fertilità nel 1990 erano già al di sotto della media di 2,1 figli
per donna, e lo sono ancora oggi. Il trend della popolazione globale è
determinato, in buona sostanza, dalla fertilità, in declino praticamente in
tutte le regioni del mondo. Nel 2019, la fertilità rimane al di sopra della media
di 2,1 figli per donna nell’Africa sub-sahariana (4,6 nati vivi per donna),
Oceania esclusa Australia e Nuova Zelanda (3,4), Africa settentrionale e
Asia occidentale (2,9) e Asia centrale e meridionale (2,4). Nell’Africa sub-
sahariana, la fertilità totale è scesa da una media di 6,3 figli per donna nel
1990 a 4,6 nel 2019, e si assesterà a 3,1 nel 2050 e successivamente a 2,1 nel
2100. Dei 36 paesi con livelli di fertilità superiori alla media di 4 figli per donna
nel 2019, ben 33 di questi si trovano nell’Africa sub-sahariana, tra cui Nigeria,
Etiopia, Repubblica Democratica del Congo, Repubblica Unita di Tanzania,
Uganda e Sudan. Nel 2050, si prevede che il Niger sarà l’unico paese al
mondo dove il tasso di fertilità resterà superiore a 4 figli per donna.

In questo scenario, i paesi dell’Africa sub-sahariana potrebbero


contribuire per oltre la metà della crescita della popolazione mondiale tra il
2019 e il 2050, e si prevede che la popolazione della regione continuerà a
crescere fino alla fine del secolo. Nove paesi, in particolare, contribuiranno
all’aumento della popolazione mondiale: India, Nigeria, Pakistan,
Repubblica Democratica del Congo, Etiopia, Repubblica Unita di Tanzania,
Indonesia, Egitto e Stati Uniti d’America. In Nigeria vi saranno 864 milioni di
nascite tra il 2020 e il 2100, superando quelle della Cina entro il 2070. A
partire dal 2050, l’India sarà in cima alla classifica mondiale degli Stati più
popolosi del mondo, con quasi 1,5 miliardi di abitanti, seguita dalla Cina

2 Il tasso di fertilità totale esprime il rapporto tra il numero di nati vivi da donne in età feconda
(15-49 anni) e l’ammontare della popolazione residente femminile nella medesima fascia d’età
in un determinato anno. Esso fornisce, di conseguenza, il numero medio di figli per donna. In
un’ottica generazionale, il tasso che assicura a una popolazione la possibilità di riprodursi,
mantenendo costante la propria struttura, è pari a 2,1 figli per donna (non semplicemente
2 perché si deve tenere conto della mortalità infantile). Un tasso di fertilità totale inferiore a
1,3 figli nati vivi per donna è spesso indicato come “fertilità sotto il livello minimo”. Definizione
tratta da: http://www.treccani.it/enciclopedia/tasso-di-fecondita_%28Dizionario-di-Economia-
e-Finanza%29/ e https://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php?title=Fertility_
statistics

103
con poco meno 1,1 miliardi, Nigeria con 733 milioni, Stati Uniti con 434 milioni
e Pakistan con 403 milioni di abitanti. Si prevede che l’Africa supererà l’Asia
nelle nascite entro il 2060.

• Invecchiamento della popolazione mondiale: nel 2019 l’età media


della popolazione mondiale era di 31 anni, in aumento rispetto ai 24 anni
del 1950, e si prevede che aumenti a 42 anni nel 2100. Tra il 2020 e il 2100, il
numero di persone di età pari o superiore a 80 anni dovrebbe passare da
146 a 881 milioni. A partire dal 2073, si prevede che per la prima volta nella
storia ci saranno più over-65 che giovani al di sotto dei 15 anni. Anche
l’aspettativa di vita alla nascita è cresciuta a livello globale, raggiungendo
i 72,6 anni nel 2019, con un miglioramento di oltre 8 anni rispetto al 1990. Si
prevede che l’aspettativa di vita a livello globale possa raggiungere i 77,1
anni nel 2050.

• Le migrazioni internazionali stanno ridefinendo la popolazione


degli Stati: in alcune parti del mondo la migrazione internazionale è
diventata una componente importante del cambiamento demografico. Tra
il 2010 e il 2020, 36 paesi o aree hanno registrando un afflusso netto di oltre
200 mila migranti; in 14 di questi, l’afflusso netto totale dovrebbe superare 1
milione di persone nel decennio. Per alcuni dei principali paesi di
accoglienza, tra cui Giordania, Libano e Turchia, tali aumenti sono stati
trainati principalmente dai movimenti di rifugiati, in particolare dalla Siria3.

Ecco dunque i fattori che influiscono sulla struttura della popolazione


mondiale: la crescita rallentata, e in alcuni casi il declino della propria
popolazione, è infatti determinata dalla fertilità in declino in molte aree del
mondo, da una maggiore aspettative di vita, e dai flussi migratori.

3 United Nations, Department of Economic and Social Affairs, Population Division,“World Population
Prospects 2019: Highlights”, 2019; e https://www.pewresearch.org/fact-tank/2019/06/17/
worlds-population-is-projected-to-nearly-stop-growing-by-the-end-of-the-century/

104
La profezia di Bernard Lewis

Era il 1990, e profeticamente Bernard Lewis4 annunciò la “terza invasione


islamica dell’Europa, che avrà maggior successo della prima e della
seconda”. E qualche anno più tardi continuò: “in futuro i protagonisti globali
saranno la Cina, l’India e la Russia, mentre l’Europa farà parte dell’occidente
arabo, il Maghreb. Questo è sostenuto da migrazioni e demografia. Gli
europei si sposano tardi e hanno pochi o nessun figlio. Ma c’è una forte
immigrazione: turchi in Germania, arabi in Francia e pakistani in Inghilterra.
Questi si sposano presto e hanno molti bambini. Secondo le attuali tendenze,
al più tardi entro la fine del XXI secolo, l’Europa avrà maggioranze
musulmane”. Sempre secondo Lewis, alla fine del secolo, l’Europa diventerà
islamica5.

Sarà la demografia a dare ragione al Professor Lewis. I figli dei musulmani


sopperiranno alle carenze determinate dalla crisi della natalità in atto in
Occidente, modificando profondamente la struttura della popolazione.

L’EUROPA: UN CONTINENTE SEMPRE PIÙ ANZIANO, SEMPRE MENO FERTILE

Al 1° gennaio 2018, la popolazione dell’UE-28 ammontava a circa 512,4


milioni, così ripartita: il 15,6% era composta dai giovani (da 0 a 14 anni), il
64,7% era rappresentato dalle persone in età lavorativa (da 15 a 64 anni),
mentre gli over-65 ad una percentuale del 19,7% (un aumento di 0,3 punti
percentuali rispetto all’anno precedente e un aumento di 2,6 punti
percentuali rispetto a 10 anni prima). In tutti gli Stati membri dell’UE, la
percentuale più alta di giovani rispetto alla popolazione totale, è stata
osservata in Irlanda (20,8%), mentre le quote più basse sono state registrate
in Italia (13,4%) e in Germania (13,5%). Per quanto riguarda la percentuale
di over-65, l’Italia (22,6%) e la Grecia (21,8%) presentano le quote più elevate,
mentre l’Irlanda la quota più bassa (13,8%). L’età media della popolazione
dell’UE-28 è di 43,1 anni, in aumento di 2,7 anni tra il 2008 e il 2018, passando

4 Bernard Lewis (31/05/1916 - 19/05/2018) fu Professore emerito di studi mediorientali


dell’Università di Londra (1949-1974) e alla Princeton University (1974-1990), arabista e turcologo
specializzato sulla storia dei popoli islamici e sui rapporti tra l’Islam e l’Occidente. È stato tra i
curatori della Cambridge History of Islam. Fu il primo a coniare nel 1990 in l’espressione “scontro
di civiltà”, che Samuel Huntington avrebbe reso popolare qualche anno dopo. Lewis è autore di
oltre trenta libri.

5 Da: https://www.ilfoglio.it/cultura/2018/05/22/news/leuropa-diventera-islamica-196074/

105
da 40,4 a 43,1 anni, e tale aumento ha riguardato tutti gli Stati membri,
seppur in misura diversa.

Il fenomeno dell’invecchiamento della popolazione è determinato


dunque da due fattori: da un lato, una maggiore longevità, e dall’altro, il
fatto che ad una maggiore longevità non sia corrisposto un proporzionale
aumento della popolazione giovane (0-14 anni). Tutto ciò dipende in gran
parte da un abbassamento costante del tasso di fertilità, che ha comportato
non solo un minor numero di nascite, ma anche ad una diminuzione della
percentuale di giovani rispetto alla popolazione totale.

Per tracciare il futuro della popolazione europea, Eurostat ha realizzato


una serie di proiezioni demografiche per il periodo dal 2018 al 2100. Da
questi dati emerge che la popolazione dell’UE-28 aumenterà fino a un picco
di 525 milioni intorno al 2040, e successivamente diminuirà gradualmente
fino a 492,9 milioni entro il 2100. La percentuale di persone di età pari o
superiore a 80 anni aumenterà di due volte e mezza tra il 2018 e il 2100,
passando dal 5,6% al 14,6%. Entro tale data, gli over-65 rappresenteranno
probabilmente una percentuale crescente della popolazione totale, ossia il
31,3%, rispetto alla percentuale del 19,8% nel 2018. Anche l’età media
dovrebbe aumentare, di ben 5,4 anni, passando da 43,3 anni nel 2018 a
48,7 anni nel 21006.

La rappresentazione grafica della piramide delle età nell’UE-28 negli


anni 2018 e 2100 mostra un profondo cambiamento nella sua forma: nel
2100 dovrebbe diventare una “piramide rovesciata”, tale per cui le fasce
d’età più giovani saranno nettamente inferiori rispetto a quelle più anziane.

6 Da: https://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php?title=Population_
structure_and_ageing

106
Population pyramids, EU-28, 2018 and 2100
(% of the total population)

85+
80-84
75-79
70-74
65-69
60-64
55-59
50-54
Age

45-49
40-44
35-39
30-34
25-29
20-24
15-19
10-14
5-9
<5

6 4 2 0 2 4 6

Solid colour: 2100 - Bordered: 2018 Men Women

Note: 2018: provisional. 2100: projections (EUROPOP2018).


Source: Eurostat (online data codes: demo_pjangroup and proj_18np)

Fonte immagine: https://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php?title=Population_structure_


and_ageing

Le nascite sono tuttavia la principale questione del continente europeo:


nel 2017, infatti, sono nati 5,075 milioni di bambini nell’UE-28. Considerando
il picco massimo toccato nel 1964, con 7,811 milioni di nascite, si può
osservare che il numero di nascite sia diminuito ad un ritmo relativamente
costante, raggiungendo il minimo nel 2002 (5,033 milioni), per poi aumentare
leggermente fino al 2008 (5,469 milioni di nascite). Da questa data in poi, ha
fatto seguito una riduzione costante.

Nel 2017, il tasso di fertilità totale nell’UE-28 era di 1,59 figli nati vivi per
donna (rispetto a 1,60 del 2016), in leggero rialzo rispetto al minimo di 1,46
nel 2001-2002. Una spiegazione parziale dell’aumento del tasso di fertilità
totale potrebbe essere legato al fatto che molte donne scelgono di
posticipare la maternità, determinando di conseguenza l’aumento dell’età
media delle donne al parto: nel 2001 l’età media era di 29 anni, mentre nel

107
2017 è aumentata a 30,7. All’aumento dell’età media al parto è corrisposta
una diminuzione del tasso di fertilità delle donne under-30, il tasso di fertilità
delle donne di età compresa tra 30-34 anni è diventato il più alto rispetto
alle altre fasce d’età.

Tra gli Stati membri dell’UE, la Francia ha registrato il tasso di fertilità totale
più alto nel 2017, con 1,90 figli nati vivi per donna, seguita dalla Svezia (1,78)
e l’Irlanda (1,77). In fondo alla classifica, vi sono Malta (1,26), Spagna (1,31),
Italia e Cipro (entrambe 1,32), Grecia (1,35), Portogallo (1,38) e Lussemburgo
(1,39)7.

A questo scenario, va collegato un ulteriore fenomeno: i flussi migratori.

DATI SUI FLUSSI MIGRATORI IN EUROPA

Secondo gli ultimi dati Eurostat8 disponibili, al 1° gennaio 2018 i residenti


con cittadinanza straniera presenti nell’UE-28 ammontavano a 22,3 milioni,
pari al 4,4% della popolazione europea totale.

Facendo riferimento al numero di cittadini stranieri, in termini assoluti, la


Germania ha registrato la maggiore presenza di stranieri residenti, con 9,7
milioni, seguita da Regno Unito (6,3 milioni), Italia (5,1 milioni), Francia (4,7
milioni) e Spagna (4,6 milioni). In termini relativi, il Lussemburgo è lo Stato
membro dell’UE con la più alta percentuale di cittadini stranieri:
rappresentano, infatti, il 48% della popolazione totale. Un’alta percentuale
di cittadini stranieri (almeno il 10% della popolazione residente) è stata
osservata anche in Austria, Estonia, Malta, Lettonia, Belgio, Irlanda,
Germania e Cipro. Al contrario, i cittadini stranieri costituiscono meno
dell’1% della popolazione in Polonia e Romania (0,6% in entrambi i paesi) e
in Lituania (0,9%). La popolazione straniera è più giovane della popolazione
nazionale: l’età media dei cittadini stranieri nell’UE è di 36 anni, contro l’età
media europea di circa 44 anni.

Più di 825mila persone hanno acquisito la cittadinanza di uno Stato


membro dell’UE nel 2017, il 17% in meno rispetto al 2016. L’Italia ha registrato
il numero più alto con 146,6 mila (il 18% del totale UE-28); a seguire, Regno

7 Da: https://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php?title=Fertility_statistics

8 Da: https://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php?title=Migration_and_
migrant_population_statistics. I dati sono stati aggiornati nel marzo 2019, ma si riferiscono
all’anno 2017, e verranno si seguito riportati.

108
Unito (123,1 mila), Germania (115,4 mila), Francia (114,3 mila) e Svezia (68,9
mila). I cittadini extra-UE provengono principalmente dall’Africa (27% delle
cittadinanze acquisite), dagli Stati europei non facenti parte dell’UE (21%),
Asia (21%), e infine Nord e Sud America (11%). Seguendo il trend degli anni
precedenti, il gruppo più ampio di nuovi cittadini degli Stati membri dell’UE
nel 2017 sono stati cittadini del Marocco (67,9 mila, corrispondenti all’8,2% di
tutte le cittadinanze concesse), seguiti da Albanesi (58,9 mila,), Indiani (31,6
mila), Turchi (29,9 mila) e Pakistani (23,1 mila)9.

Per quanto riguarda invece i richiedenti asilo10, dopo aver raggiunto il


picco nel 1992 (672 mila domande nell’UE-15), dovuto al conflitto nell’ex
Jugoslavia, e di nuovo nel 2001 (424 mila domande nell’UE-27), il numero di
domande di asilo sono scese a poco meno di 200 mila nel 2006.

Si è registrato poi un forte aumento, con 431 mila domande nel 2013, 627
mila nel 2014 e circa 1,3 milioni nel 2015 e nel 2016. Nel 2018, 638mila
richiedenti asilo hanno chiesto protezione internazionale negli Stati membri
dell’Unione Europea, in calo del 10% rispetto al 2017 (712 mila) e al 2016. Il
numero di richiedenti asilo per la prima volta11 (first time asylum applicants)
nell’UE-28 nel 2018 è stato di 581 mila. Quasi il 79% dei richiedenti asilo first
time nel 2018 aveva meno di 35 anni; quelli nella fascia di età 18-34 anni
rappresentavano poco meno della metà (48%) rispetto al totale dei
richiedenti asilo, mentre quasi un terzo (31%) erano minorenni (under-18).
Per quanto riguarda la distribuzione in base al sesso dei richiedenti asilo first
time, vi sono più uomini che donne.

Nel 2018, la Siria rappresenta il principale paese di provenienza dei


richiedenti asilo negli Stati europei, una posizione che ricopre ogni anno
dal 2013. Nel 2018, il numero di richiedenti asilo first time siriani nell’UE-28 è
sceso a 81 mila dai 102 mila del 2017, mentre la quota di siriani nel totale

9 Da: Da: https://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php?title=Migration_and_mi-


grant_population_statistics.

10 Eurostat definisce “asilo” come una forma di protezione internazionale data da uno stato sul suo
territorio. Viene concesso a una persona che non è in grado di chiedere protezione nel proprio
paese di cittadinanza e/o residenza, in particolare per paura di essere perseguitata per motivi di
razza, religione, nazionalità, appartenenza a un particolare gruppo sociale o opinione politica.
Vedi https://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php?title=Asylum_statistics

11 Secondo la definizione di Eurostat, un richiedente per la prima volta protezione internazionale


è una persona che ha presentato una domanda di asilo per la prima volta in un determinato
Stato membro dell’UE e quindi esclude i richiedenti ripetuti (in quello Stato membro) e riflette
quindi più accuratamente il numero di persone appena arrivate che presentano domanda per
la protezione internazionale nello Stato membro segnalante.

109
dell’UE-28 è scesa dal 15,6% al 13,9%. Gli afghani rappresentano il 7,1% del
totale, gli iracheni il 6,8%, mentre i pakistani e gli iraniani rispettivamente il
4,3% e il 4,0%.

La Germania rappresenta la meta principale dei richiedenti asilo first


time, con 162mila richiedenti registrati, ossia il 28% del totale. Seguono
Francia (110 mila, o 19%), Grecia (65 mila, o 11%), Spagna (53 mila, o 9%),
Italia (49 mila, o 8%) e Regno Unito (37 mila o 6%)12.

In Italia, i cinque gruppi più numerosi di richiedenti asilo first time nel
2018 sono stati:

Stato di provenienza N° richiedenti

Pakistan 7.315

Nigeria 5.140

Bangladesh 4.160

Ucraina 2.485

Senegal 2.445

Altri 27.615

Fonte tabella: elaborazione dati Eurostat, https://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.


php?title=Asylum_statistics

12 Da: https://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php?title=Asylum_statistics

110
CHE CONSEGUENZE AVRÀ LA MIGRAZIONE MUSULMANA IN EUROPA?

Tre scenari possibili

L’Europa è stata interessata negli ultimi anni da un afflusso record di


richiedenti asilo, in fuga non solo da conflitti in Siria, ma anche da altri Paesi
prevalentemente musulmani. Un flusso migratorio simile comporta,
inevitabilmente, delle conseguenze sulla struttura della popolazione
europea.

A tal proposito, il Pew Research Center13 ha realizzato tre scenari, i cui


risultati variano a seconda dell’intensità delle migrazioni che si realizzeranno
in futuro. I musulmani rappresentano ancora una percentuale relativamente
piccola della popolazione europea (circa il 5%), ma si prevede che
aumenterà. Questa situazione dovrebbe verificarsi sia nel caso in cui
l’immigrazione si fermasse completamente nei prossimi decenni, sia che le
immigrazioni continuino a livelli regolari e massivi. L’assunto di partenza per
tutti e tre gli scenari, è la popolazione musulmana in Europa (qui definita
come i 28 paesi attualmente nell’Unione Europea, più Norvegia e Svizzera)
stimata a 25,8 milioni (4,9% della popolazione complessiva) a metà del 2016,
in aumento dai 19,5 milioni (il 3,8% della popolazione) registrati nel 2010.

1. Scenario di “IMMIGRAZIONE ZERO” (zero migration): anche se


dovessero fermarsi immediatamente e in maniera permanente tutte le
immigrazioni in Europa, la popolazione musulmana nel Vecchio Continente
crescerebbe comunque dall’attuale 4,9% al 7,4% entro il 2050. Questo
perché i musulmani sono più giovani (in media 13 anni in meno) e hanno
una fertilità più elevata (in media un bambino in più per donna) rispetto
agli altri europei. Inoltre la popolazione non musulmana, proprio per il crollo
della fertilità, in Europa dovrebbe diminuire di circa il 10%. La popolazione
musulmana europea aumenterebbe di circa 10 milioni di persone, da circa
25,8 milioni di musulmani nel 2016 a 35,8 milioni nel 2050. La Francia ad
esempio subirebbe notevoli cambiamenti anche in questo scenario di
immigrazione zero, poiché la popolazione musulmana crescerebbe da 5,7
milioni (8,8% della popolazione) a 8,6 milioni (12,7%).

13 Come si evince da https://www.pewresearch.org/, Pew Research Center è un think tank


apartitico e imparziale, che informa il pubblico sui problemi, gli atteggiamenti e le tendenze
che modellano il mondo. Conducono sondaggi di opinione, ricerche demografiche, analisi dei
contenuti e altre ricerche sulle scienze sociali basate sui dati.

111
2. Scenario di “IMMIGRAZIONE REGOLARE” (medium migration): in
questa circostanza, si ipotizza che il flusso dei rifugiati si fermi nel 2016, e
continuino le immigrazioni regolari (coloro che arrivano per motivi diversi
dalla ricerca di asilo). Secondo questa proiezione, la percentuale di
popolazione musulmana europea dovrebbe passare dal 4,9% nel 2016
all’11,2% nel 2050, che tradotto in termini assoluti, significa circa 58 milioni di
musulmani europei entro tale data. Il Regno Unito, che negli ultimi anni ha
accolto il maggior numero di immigrati regolari rispetto a qualsiasi altro
Paese europeo, secondo questo scenario conterebbe la più grande
popolazione musulmana del continente entro il 2050: poco più di 13 milioni,
pari al 16,7% della popolazione del Regno Unito.

3. Scenario di “IMMIGRAZIONE MASSIVA” (high migration): in questo


modello, i flussi di rifugiati e l’immigrazione regolare si manterranno costanti
fino al 2050. Se questa situazione dovesse effettivamente verificarsi, nel 2050
la popolazione musulmana dell’Europa aumenterebbe oltre i 75 milioni,
divenendo circa il 14% della popolazione del continente. In questo caso, la
Germania conterebbe la più grande popolazione musulmana in Europa
nel 2050: 17,5 milioni, ovvero circa un tedesco su cinque, in funzione del
fatto che la Germania ha accettato il maggior numero di rifugiati musulmani
negli ultimi anni. In Svezia, che è una delle principali destinazioni per i
rifugiati, e la popolazione, stando a questo scenario, sarebbe composta
per più del 30% da musulmani.

In base alle ultime politiche migratorie messe in atto in Europa, e


soprattutto con la riduzione del numero di rifugiati in arrivo, il punto di arrivo
più realistico per l’Europa potrebbe essere una via di mezzo tra gli scenari di
immigrazione regolare e massiva, il che significa che i musulmani potrebbero
costituire tra l’11,2% e il 14% della popolazione europea popolazione nel
205014.

14 Da: https://www.pewresearch.org/fact-tank/2017/12/04/europes-muslim-population-
will-continue-to-grow-but-how-much-depends-on-migration/ e https://www.pewforum.
org/2017/11/29/europes-growing-muslim-population/

112
Amount of growth in Europe’s Muslim population depends on future migration
Muslim share of Europe’s population under different migration scenarios

PROJECTED 14.0%
High

11.2%
10%... Medium

7.4%
2016
Zero migration
4.9%
5%...

3.8% 4.6%
2015

2010 ‘15 ‘20 ‘25 ‘30 ‘35 ‘40 ‘45 2050

L’immagine mostra il possibile incremento percentuale della popolazione musulmana, secondo i tre scenari
tracciati dal Pew Research Center. Si evince che in ogni caso, vi sarà un aumento della popolazione
musulmana.
Fonte immagine: https://www.pewforum.org/2017/11/29/europes-growing-muslim-population/

Mentre la popolazione musulmana europea dovrebbe crescere in tutti e


tre gli scenari, i non-musulmani europei, d’altra parte, dovrebbero diminuire
in ogni prospetto. Il declino della popolazione europea è mitigato in parte
dal fenomeno migratorio, poiché quasi la metà di tutti gli immigrati arrivati
recentemente in Europa (47%) non erano musulmani. Nel complesso, la
popolazione europea (compresi sia i musulmani che i non musulmani)
dovrebbe diminuire considerevolmente (da circa 521 milioni a circa 482
milioni stimati) in un contesto a immigrazione zero. Nello scenario di
immigrazione regolare rimarrebbe pressoché stabile, mentre nello scenario
di immigrazione massiva dovrebbe crescere leggermente15.

15 Da: Pew Research Center, “Europe’s growing Muslim Population”, 29/11/2017. Una versione
ridotta del report è disponibile anche sul sito: https://www.pewforum.org/2017/11/29/europes-
growing-muslim-population/

113
In three migration scenarios, population decline for Europe’s non-Muslims,
population growth for Muslims

Projected percentage change in Europe’s Muslim and non-Muslim population size, 2016-2050

SCENARIO

Non-Muslims -6% High migration 193%


2016 population
495 million -7% Medium migration 125%
-10% Zero migration 39% Muslims

2016 population
25.8 million

Count estimates and projections

2050 2050 2050


IN MILLIONS 2010 2016 zero migration medium migration high migration

Muslims 19.5M 25.8M 35.8M 57.9M 75.6M

Non-Muslims 495.3M 495.1M 445.9M 459.1M 463.0M

Total 514.8M 520.8M 481.7M 516.9M 538.6M

In tutti e tre gli scenari analizzati, la popolazione europea non-musulmana dovrebbe diminuire, mentre
quella musulmana crescerebbe in tutti e tre i casi.
Fonte immagine: https://www.pewforum.org/2017/11/29/europes-growing-muslim-population/

I tre scenari descritti dal Pew Research Center16 prevedono che anche se
il flusso migratorio dovesse interrompersi, la popolazione musulmana
europea dovrebbe aumentare comunque di 10 milioni entro il 2050, stando
ai tassi di fertilità attuali (2,6 figli per donna, ben al di sopra del tasso di
sostituzione) e la struttura dell’età. In uno scenario a immigrazione zero, le
tendenze demografiche porterebbero ad un aumento previsto di almeno 3
punti percentuali nelle quote musulmane di Francia, Belgio, Italia e Regno
Unito. Stando invece ad uno scenario di immigrazione regolare, la
popolazione musulmana in Europa aumenterebbe fino a raggiungere
quasi 58 milioni, mentre lo scenario di immigrazione massiva prevede 75
milioni di musulmani in Europa entro il 2050.

16 I dati di seguito riportati sono estrapolati da: Pew Research Center, “Europe’s growing Muslim
Population”, 29/11/2017.
Una versione ridotta del report è disponibile anche sul sito: https://www.pewforum.
org/2017/11/29/europes-growing-muslim-population/

114
La differenza del tasso di fertilità tra donne musulmane e non musulmane
varia considerevolmente da uno Stato europeo all’altro: ad esempio,
l’attuale tasso di fertilità stimato per le donne musulmane in Finlandia è di
3,1 figli per donna, rispetto all’1,7 delle finlandesi non musulmane, mentre in
Germania, le donne musulmane tedesche hanno una fertilità relativamente
bassa, (1,9 bambini per donna), un valore non troppo dissimile rispetto
all’1,4 delle donne tedesche non musulmane.

Nel lungo periodo, i tassi di fertilità delle donne musulmane diminuiranno,


riducendo il divario con la popolazione non musulmana. Questo perché i
tassi di fertilità degli immigrati di seconda e terza generazione generalmente
diventano sempre più simili ai tassi dello Stato di adozione17.

La distribuzione per età di un gruppo religioso è un fattore determinante


per la crescita demografica. I musulmani europei sono in maggioranza
giovani: la percentuale di musulmani di età inferiore ai 15 anni (27%) è infatti
quasi il doppio della percentuale di non musulmani della stessa età (15%).
E mentre un decimo degli europei non musulmani ha più di 75 anni, solo
l’1% dei musulmani in Europa appartiene a quella fascia d’età. Inoltre, a
partire dal 2016, esiste una differenza di 13 anni tra l’età media dei musulmani
in Europa (30,4 anni) e gli europei non musulmani (43,8). Poiché una
percentuale maggiore di musulmani rispetto alla popolazione generale è in
età fertile, la loro popolazione potrebbe crescere molto più rapidamente,
anche nel caso in cui musulmani e non musulmani avessero gli stessi tassi
di fertilità.

Presenza islamica nel 2050 secondo tre scenari:

Immigrazione Immigrazione Immigrazione


Nazione
ZERO REGOLARE MASSIVA

Europa +39% +125% +193%


Italia +48% +141% +182%
Germania +21% +71% +253%
Francia +51% +121% +131%
Regno Unito +58% +217% +229%
Belgio +44% +135% +197%

17 Da: https://www.pewforum.org/2017/11/29/europes-growing-muslim-population/

115
In Europe, Muslims projected to have Estimated total fertility rates
more children than non-Muslims (children born per woman)
over time in Europe,
Total fertility rates, 2015-2020
for medium migration scenario

Non- Non-
Europe Muslims Difference Muslims Difference
Muslims Muslims
average 2.6
1.6
+1.0
2015-2020 3.1 1.7 +1.0
Finland 3.1 1.7 +1.0
2020-2025 2.9 1.8 +1.0
United Kingdom 2.9 1.8 +1.0
2025-2030 2.9 1.9 +1.0
France 2.9 1.9 +1.0
2030-2035 2.8 1.8 +0.9
Sweden 2.8 1.8 +0.9
2035-2040 2.6 1.7 +0.9
Belgium 2.6 1.7 +0.9
2040-2045 2.5 1.7 +0.8
Denmark 2.5 1.7 +0.8
2045-2050 2.3 1.7 +0.5
Netherlands 2.3 1.7 +0.5
Austria 2.2 1.5 +0.7
Norway 2.1 1.8 +0.3
Switzerland 2.1 1.5 +0.6
Germany 1.9 1.4 +0.5
Ireland 1.8 2.0 -0.2
Slovenia 1.7 1.6 +0.1
Bulgaria 1.6 1.6 +0.1
Romania 1.6 1.5 +0.1
Greece 1.5 1.3 +0.2

I musulmani europei hanno dei tassi di fertilità molto più elevati rispetto alle popolazioni europee non
musulmane, e dovrebbero mantenersi molto elevati anche negli scenari futuri.
Fonte immagine: https://www.pewforum.org/2017/11/29/europes-growing-muslim-population/

PROSPETTIVE PER L’ITALIA

Secondo le più recenti stime18, gli stranieri di religione musulmana


residenti in Italia al 1° gennaio 2019 sono 1,58 milioni. Rispetto alla stessa
data di rilevazione nel 2018, la classifica delle appartenenze religiose degli
stranieri residenti in Italia vede i musulmani primi al posto dei cristiani
ortodossi. I musulmani rappresentano infatti il 30,1% degli stranieri residenti
in Italia (nel 2018 erano il 28,2%). I cristiani ortodossi il 29,7% (pari a un milione

18 Elaborazione dati della Fondazione ISMU su dati Istat e Osservatorio Regionale per l’integrazione
e la multietnicità (ORIM), come riportate nel comunicato di Fondazione ISMU, “Immigrati e
religioni in Italia, la maggior parte è di fede cristiana - In crescita musulmani ed evangelici”,
Milano, 23/07/2019. Da: http://www.ismu.org/wp-content/uploads/2018/10/CS-ISMU-
Immigrati-e-religioni-in-Italia-2019.pdf.

116
e 560mila). Seguono i cattolici (977mila pari al 18,6%). Dall’analisi emerge
che gli stranieri musulmani residenti sono aumentati di 127mila unità rispetto
al 2018 (erano 1,45 milioni), mentre i cristiani nel loro complesso sono invece
diminuiti di 145mila unità (nel 2018 erano poco meno di 3 milioni) pur
mantenendo ancora il ruolo di principale religione professata dagli stranieri
(nel 2018 rappresentavano il 57,5% del totale degli stranieri, nel 2019
rappresentano il 53,6%). Per quanto riguarda la nazionalità, si stima che la
maggior parte dei musulmani stranieri residenti in Italia provengano dal
Marocco (440mila), Albania (226mila), Bangladesh (141mila), Pakistan
(106mila) ed Egitto (111mila).

È possibile allora ipotizzare quale futuro attenda l›Italia, anche alla luce
delle attuali tendenze dei flussi migratori: nel 2100 i musulmani potrebbero
costituire la metà della popolazione italiana. Questo scenario potrebbe
verificarsi per due motivi: perché le immigrate musulmane hanno un tasso
di fertilità che è il doppio di quello delle italiane e perché il 78% dei richiedenti
asilo e degli immigrati irregolari che arrivano in Europa sono musulmani.

Islamizzazione dell’Italia

70

60
MILIONI DI ABITANTI

50

40

30

20

10

0
2010 2018 2030 2040 2050 2060 2070 2080 2090 2100

POPOLAZIONE MUSULMANA NON MUSULMANA

Evoluzione della popolazione e della presenza islamica in Italia


con gli attuli andamenti demografici e migratori

117
CRISTIANI vs. MUSULMANI: CHI SARÀ LA MINORANZA?

Complessivamente, ci sono circa 2,3 miliardi di cristiani nel mondo e 1,8


miliardi di musulmani. Il divario dovrebbe ridursi entro il 2060, momento in
cui, secondo le proiezioni, cristiani e musulmani avranno raggiunto entrambi
quota 3 miliardi.

Secondo le previsioni del Pew Research Center, entro il 2060 i musulmani


dovrebbero crescere più del doppio rispetto al resto della popolazione
mondiale e, a partire dal 2050, supereranno con molta probabilità i cristiani,
divenendo dunque il più grande gruppo religioso del mondo. Si stima che
la popolazione mondiale crescerà del 32% nei prossimi decenni, ma il
numero di musulmani dovrebbe aumentare del 70%, passando da 1,8
miliardi nel 2015 (il 24,1% della popolazione mondiale) a quasi 3 miliardi nel
2060 (il 31,1% del totale).

Più di un terzo dei musulmani è concentrato in Africa e in Medio Oriente,


le regioni che in futuro dovrebbero sperimentare il maggior aumento della
popolazione. In termini assoluti, l’India ospita la seconda popolazione
musulmana in ordine di grandezza, ma in termini relativi, l’Islam è una
religione di minoranza (circa il 15% della popolazione indiana è musulmana),
mentre l’Induismo è la fede maggioritaria. Tuttavia, i musulmani indiani
stanno crescendo a un ritmo più rapido rispetto alla maggioranza della
popolazione indù, e si prevede che salirà ad una percentuale del 19,4%
(333 milioni di persone) nel 2060. La Nigeria, che ha la sesta popolazione
cristiana più grande del mondo (87 milioni), accoglie anche la quinta
popolazione musulmana più grande del mondo (90 milioni). Anche qui, si
prevede che i musulmani raggiungeranno la maggioranza della
popolazione nigeriana (60,5%) nel 2060. Questo perché i musulmani, in
media, sono più giovani e hanno più figli dei cristiani. Entro il 2060, l’India
dovrebbe soppiantare l’Indonesia come il paese con la più grande
popolazione musulmana, pur rimanendo un gruppo religioso di minoranza
(19%) nel Paese. Gli Stati Uniti rimarranno il primo Stato per presenza cristiana
anche nel 2060, ma Russia, Germania e Cina saranno soppiantate da
Tanzania, Uganda e Kenya19.

19 Da: https://www.pewresearch.org/fact-tank/2017/04/06/why-muslims-are-the-worlds-fastest-
growing-religious-group/ e https://www.pewresearch.org/fact-tank/2019/04/01/the-countries-
with-the-10-largest-christian-populations-and-the-10-largest-muslim-populations/

118
CONCLUSIONI

Dal 2015 la popolazione italiana residente è in diminuzione: al 31


dicembre 201,8 la popolazione ammonta a poco più di 60,3 milioni di
residenti, oltre 124 mila in meno rispetto all’anno precedente (-0,2%) e oltre
400 mila in meno rispetto al 2014. Il calo è interamente attribuibile alla
popolazione italiana, che scende a 55,1 milioni, 235 mila in meno (-0,4%)
rispetto al 2017, e se confrontato con il 2014, il declino dei cittadini italiani
residenti è pari a -677mila (una città grande come Palermo).

Invece, negli ultimi quattro anni hanno acquisito la cittadinanza oltre


638 mila cittadini stranieri. Al 31 dicembre 2018 sono 5,2 milioni i cittadini
stranieri iscritti in anagrafe; rispetto al 2017 sono aumentati di 111 mila
(+2,2%) arrivando a costituire l’8,7% del totale della popolazione residente.

Nel 2018 si registra un nuovo record negativo di nascite: sono stati iscritti
in anagrafe per nascita solo 439.747 bambini, 18mila in meno rispetto al
2017 (-4%) e il minimo storico dall’Unità d’Italia. Negli ultimi anni ha iniziato
progressivamente a ridursi anche il numero di stranieri nati in Italia, pari a
più di 65mila nel 2018 (il 14,9% del totale dei nati). Tra le cause del calo, la
diminuzione dei flussi femminili in entrata nel nostro Paese, il progressivo
invecchiamento della popolazione straniera, nonché l’acquisizione della
cittadinanza italiana da parte di molte donne straniere20.

Il 1° gennaio 2018 in Italia erano presenti 6.108.000 stranieri, che nell’84%


dei casi (5,1 milioni) risultavano regolarmente iscritti nell’anagrafe di un
comune italiano, pari dunque all’8,5% di tutti i residenti. A questi vanno
aggiunti il 7% degli immigrati regolari che non sono “ufficialmente registrati”
e un ulteriore 9% (533.000 unità) di quelli che si trovano in una posizione
irregolare, in quanto privi di un permesso di soggiorno valido. Rispetto alle
stesse cifre riferite al 2017, le presenze sono aumentate del 2,5%, dovute
soprattutto all’aumento delle presenze irregolari (+ 8,6%) a causa del
numero di arrivi non autorizzati sulle coste italiane. Rispetto al 2016,
l’incremento assoluto degli stranieri è stato di 97.000 unità, con una crescita
maggiore rispetto all’anno precedente, ma che dovrebbe essere
considerata modesta rispetto ai picchi di 300-400.000 unità registrati negli
ultimi anni21. Analizzando inoltre la nazionalità dei soli richiedenti asilo in

20 Da: https://www.istat.it/it/archivio/231884

21 Blangiardo G.C., Gli aspetti statistici, in Fondazione ISMU, Ventiquattresimo Rapporto sulle
migrazioni 2018, (2019).

119
Italia nel 2018, risulta evidente la maggioranza di questi ultimi proveniva da
una nazione con una forte, se non quasi totale, presenza musulmana22
(come il Pakistan, la Nigeria, il Bangladesh e il Senegal).

I tre scenari delineati dal Pew Research Center sembrano confermare le


tendenze dei flussi migratori degli ultimi anni, e sembrano confermare la
tendenza dei musulmani ad avere un maggiore tasso di fertilità, quindi a
fare più figli rispetto agli europei, e agli occidentali in generale. Le parole
pronunciate nel 2017 dal presidente turco Erdogan sembrano voler
sostenere la “conquista” silenziosa dei musulmani: “Da qui faccio un appello
ai miei fratelli in Europa. Vivete in quartieri migliori. Comprate le auto migliori.
Vivete nelle case migliori. Non fate tre figli, ma cinque. Perché voi siete il
futuro dell’Europa. Questa sarà la migliore risposta all’ingiustizia che vi è
stata fatta”. Le parole del leader turco fanno riferimento, tra l’altro, al suo
frequente appello alle famiglie turche a “fare almeno tre figli”23.

Non è tuttavia lo scenario a immigrazione zero, né quello a immigrazione


regolare, che cambierà la struttura della popolazione europea: con una
migrazione regolata e legale, l’islamizzazione del continente sarà contenuta,
e si manterrà una ripartizione equilibrata tra cristiani e musulmani. Oltretutto,
le seconde e le terze generazioni di immigrati regolari tendono ad assumere
le abitudini dello Stato di adozione, pertanto un tasso di fertilità pari a 2,6
figli viene presto sostituiti da nuove tendenze, nettamente inferiori e più in
linea con il trend occidentale.

Tuttavia, lo scenario di immigrazione massiva pone delle sfide senza


precedenti all’Occidente: l’immigrazione in Europa nel periodo 2010-2016
ha visto una proporzione di immigrati pari al 53% di musulmani e al 47% non
musulmani. Tra gli immigrati regolari il 46% era composto da musulmani, e il
54% da non musulmani, ma il dato allarmante proviene dalle proporzioni
dei richiedenti asilo: il 78% era composto da musulmani, e solo il 22% da non
musulmani. Di conseguenza, è proprio lo scenario di immigrazione massiva
che accelererà il processo di islamizzazione del continente europeo, dovuto
non tanto ai fattori legati alla demografia e all’immigrazione regolare, ma
soprattutto all’immigrazione irregolare: con una presenza musulmana così
massiccia, legata alla giovane età e al tasso di fertilità elevato, la crescita

22 Dati Eurostat, https://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php?title=Asylum_statistics

23 Da: https://www.ilmessaggero.it/primopiano/esteri/erdogan_turchi_residenti_ue_5_
figli-2323737.html

120
della popolazione musulmana subirà un’impennata a cui sarà impossibile
porre rimedio.

Chi volesse realmente contenere il processo di islamizzazione dell’Europa


dovrebbe preoccuparsi di contrastare l’immigrazione irregolare dei
sedicenti profughi, dato che le nazioni da cui provengono sono praticamente
tutte a maggioranza musulmana.

10 countries with largest Muslim populations, 2015 and 2060

% OF % OF % OF
% OF
2015 WORD’S 2060 COUNTRY WORD’S
COUNTRY
2015 MUSLIM MUSLIM 2060 MUSLIM PROTECTED MUSLIM
THAT IS
POPULATION POPULATION POPULATION TO BE POPULATION
MUSLIM
IN 2015 MUSLIM IN 20160

1. Indonesia 219,960,000 87.1% 12.6% 1. India 333,090,000 19.4% 11.1%

2. India 194,810,000 14.9 11.1 2. Oakistan 283,650,000 96.5 9.5

3. Pakistan 184,000,000 96.4 10.5 3. Nigeria 283,160,000 60.5 9.5

4. Bangladesh 144,020,000 90.6 8.2 4. Indonesia 253,450,000 86.1 8.5

5. Nigeria 90,020,000 50.0 5.1 5. Bangladesh 181,800,000 91.9 6.1

6. Egypt 83,870,000 95.1 4.8 6. Egypt 124,380,000 96.6 4.2

7. Iran 77,650,000 99.5 4.4 7. Iraq 94,000,000 99.3 3.1

8. Turkey 75,460,000 98.0 4.3 8. Turkey 88,410,000 97.9 3.0

9. Algeria 37,210,000 97.9 2.1 9. Iran 82,980,000 99.7 2.8

10. Iraq 36,200,000 99.0 2.1 10. Afghanistan 81,870,000 99.7 2.7

Subtotal 1,143,200,000 65.2 Subtotal 1,806,790,000 60.5

Subtotal for Subtotal for


609,420,000 34.8 1,180,790,000 39.5
rest of world rest of world

World total 1,752,620,000 100.0 World total 2,987,390,000 100.0

Source: The Future of World Religions: Population Growth Projections, 2010-2050.


Population estimates are rounded to the nearest 10,000. Percentage are calculated from unrounded numbers.
PEW RESEARCH CENTER

Fonte immagine: https://www.pewresearch.org/fact-tank/2019/04/01/the-countries-with-the-10-largest-


christian-populations-and-the-10-largest-muslim-populations/

Camilla Trombetti
esperta in Relazioni internazionali
e Politiche pubbliche

121
UN VIAGGIO NEI BALCANI,
LA POLVERIERA D’EUROPA
di Andrea Delmastro Delle Vedove

All’area dei Balcani può essere attribuita la paternità di numerosi episodi


che hanno scatenato la rottura della pax politica e sociale nel continente
europeo. Le ragioni storiche possono essere identificate tra le più disparate,
al punto di meritare la creazione di un termine specifico – balcanizzazione
– per descrivere le aree o i periodi caratterizzati da alta instabilità, insicurezza,
complessità e frammentarietà. Una complessità che, con la sconfitta dell’Isis
e con le ferite ancora aperte della guerra etnica degli anni ’90, rischiano di
trasformare le porte dell’Unione Europea in una polveriera.

I Balcani occidentali, infatti, rappresentano un’importante area di


reclutamento di terroristi e combattenti per le file dell’Isis in Siria e Iraq.
Secondo l’Europol, sono almeno 800 i foreign fighter provenienti da Bosnia-
Erzegovina e Kosovo che si sono uniti alle formazioni dello Stato Islamico in
Medioriente. Molti di questi, hanno fatto o faranno ritorno nelle proprie terre
d’origine.

I Balcani sono stati, per lunghi secoli, un luogo di passaggio tra


l’Occidente e l’Oriente, la porta d’ingresso dell’Europa per chi proveniva
dall’Asia. Grazie alla loro collocazione geografica sono stati un territorio di
incontro tra popoli di diversa etnia, razza, cultura e - non da ultimo – di
diversa religione.

L’osservatore attento non mancherà di notare come, proprio nell’area


balcanica, si trovino gli unici paesi europei dove la maggioranza della
popolazione è di religione islamica: la Bosnia-Herzegovina, l’Albania e il
neonato Kosovo. Il termine “europeo” deve intendersi, almeno
momentaneamente, nella sua sola accezione geografica.

L’osservatore attento, però, dovrebbe anche chiedersi quali possano


essere le implicazioni delle “libertà di circolazione”, garantite dal diritto
europeo, qualora una nazione come la Bosnia – già paese candidato
all’adesione - dovesse diventare il 29° Stato Membro dell’Unione Europea.

122
Intanto, per il periodo 2007-2013, la Bosnia ha già beneficiato di 655 milioni
di euro provenienti dallo Strumento di Assistenza preadesione.

Una prima risposta potrebbe venire dalle origini storiche di questo


“enclave” musulmano in terra cristiana. Nel XV secolo, grazie all’azione
combinata dell’occupazione turca e della forte presenza dell’eresia dei
Bogomili - che preferirono convertirsi all’Islam invece di essere ri-evangelizzati
dal Papa di Roma o dal Patriarca di Costantinopoli – i territori della Bosnia e
dell’Erzegovina subirono una profonda islamizzazione dell’intera
popolazione, sia delle classi alte che di quelle rurali.

Le tensioni dovute alla diversità religiosa bosniaca si acuirono con la


presa di influenza austriaca e la successiva annessione all’Impero (1908),
affiancandosi allo sviluppo di un movimento irredentista, ed esplosero
nell’assassinio dell’Arciduca Francesco Ferdinando a Sarajevo, nel 1914,
casus belli della Prima Guerra Mondiale.

Dopo la guerra, la Bosnia e l’Erzegovina aderirono al nuovo Regno


Iugoslavo fino alla Seconda Guerra Mondiale, poi aderirono alla Repubblica
Federale Iugoslava. Qui, i musulmani bosniaci di lingua serbo-croata
ottennero la qualifica di “nazionalità distintiva” allo scopo di tutelare i diritti
di questo gruppo religioso della repubblica federata e di evitare che
l’appartenenza ad una delle due etnie potesse generare conflitti.

Oggi la Bosnia-Erzegovina è uno Stato laico senza religione di Stato. Nel


2004 è stata adottata la “legge sulla libertà religiosa e la posizione legale
delle Chiese e comunità religiose in Bosnia ed Erzegovina”, che prevede la
libertà di religione, garantisce lo status giuridico delle Chiese e delle
comunità religiose e vieta ogni forma di discriminazione contro qualsiasi
gruppo religioso. La legge, inoltre, riconosce quattro comunità religiose e
Chiese tradizionali: la comunità islamica, la Chiesa ortodossa serba, la
Chiesa cattolica romana e la comunità ebraica. Ogni ente esponenziale di
una confessione deve essere iscritto in un apposito registro per essere
riconosciuto.

La legge ribadisce anche il diritto di ogni cittadino all’educazione


religiosa e sancisce che i rappresentanti ufficiali delle varie Chiese e
comunità religiose hanno la responsabilità di insegnare religione in tutte le
scuole dell’infanzia pubbliche e private, nelle scuole primarie e nelle
università.

123
Dal conflitto degli anni ‘90, le divisioni religiose hanno preso una nuova
piega. Prima della Guerra dei Balcani, la popolazione della Bosnia-
Erzegovina era costituita da una maggioranza di lingua serbo croata
formata per il 43,7% dai Bosniaci musulmani, per il 31,3% da Serbi e per il
17,3% da Croati. La distinzione tra Serbi, Croati e “Bosniaci” non aveva una
valenza dal punto di vista linguistico, ma aveva un forte valore in termini
identitari e religiosi. Prima del conflitto, le tre popolazioni vivevano fianco a
fianco e non percepivano la necessità di avere propri territori.
Successivamente, il processo di emigrazione forzata dei musulmani e dei
croati residenti nelle zone sotto il controllo dei serbi, e viceversa, ha
contribuito ad acuire le tensioni religiose dovute alla redistribuzione della
popolazione nelle varie zone. Questa “diaspora” delle religioni ha favorito la
radicalizzazione di ampie fette di musulmani bosniaci a seguito della
progressiva affermazione delle scuole coraniche.

Anche queste sono un’eredità della guerra dei Balcani. L’influenza


dell’Islam wahhabita ha origine dai combattenti stranieri giunti durante la
guerra negli anni ‘90 per combattere al fianco dei musulmani bosniaci che
sono rimasti nel Paese e oggi sono finanziati da fondazioni caritative saudite.
All’epoca, in Bosnia arrivarono oltre duemila mujaheddin dai paesi arabi,
dalla Cecenia e dall’Afghanistan, per combattere a fianco dei musulmani
bosniaci contro i cattolici croati, gli ustascia e gli ortodossi serbi.

Negli ultimi quindici anni vi sono stati scontri tra la comunità moderata
locale e gli stranieri con una visione più radicale dell’Islam. I rapporti di
intelligence rendono noto che numerosi leader religiosi musulmani sono
diventati più radicali, in gran parte come reazione all’inadeguata risposta
internazionale alle difficoltà dei musulmani nel Paese.

Il Riyasat, l’organo principale che rappresenta la comunità islamica, ha


stimato nel 2016 che 64 organizzazioni islamiche illegali erano attive nel
Paese e che queste possono essere focolaio di radicalismo ed estremismo.
Il Riyasat ha preso ufficialmente le distanze da queste comunità, affermando
che non ha informazioni su quello che accade all’interno di queste
comunità letteralmente fuori controllo e, dunque, non può essere ritenuto
responsabile delle loro attività.

In Bosnia, si sono progressivamente formati una decina di piccoli villaggi


fondamentalisti dove, di tanto in tanto, sventolano le bandiere dello Stato
islamico e le donne girano in niqab o in hijab e dove la legge è quella del

124
Corano. In questo cuore islamico dell’Europa si sono formati ed addestrati
numerosi foreign fighter che sono partiti per la Siria e l’Iraq, in un ecosistema
fertile per la massiccia presenza degli armamenti residuati dalla guerra
etnica. Verosimilmente è qui che i foreign fighter balcanici vorranno fare
ritorno adesso che il miraggio del Califfato è svanito. Secondo funzionari
statali e fonti mediatiche, dal 2013 in poi circa 260 cittadini si sono uniti ai
gruppi fondamentalisti come combattenti in Iraq e in Siria. Si stima che 150
siano tornati, rappresentando una seria minaccia per la sicurezza.

Si ritiene, inoltre, che circa 315 cittadini kosovari siano andati in Siria e in
Iraq per unirsi allo Stato Islamico, il che rende il Kosovo il principale Paese
europeo per percentuale di abitanti che hanno combattuto nelle fila di ISIS
come foreign fighter. Secondo i servizi segreti di Pristina, oltre il 33% di loro è
già rientrato in patria.

Oggi quasi tutti i gruppi islamici sono presenti in Bosnia-Erzegovina: dai


seguaci di Said Nursî ai salafiti, dai revivalisti islamici e ai sostenitori di Abu
Hamza al-Masri. Malesia, Arabia Saudita, Giordania, Indonesia, e altre
nazioni islamiche hanno fatto costruire moschee a Sarajevo e in altre città.
Secondo dati recenti pubblicati dalla comunità islamica, nel Paese vi sono
1.912 moschee di cui 554 sono state costruite dopo la fine della guerra.

Anche a Tirana è in corso di costruzione una gigantesca moschea con


fondi provenienti dalla Turchia. Il Qatar e gli Emirati Arabi Uniti hanno
collaborato alla ricostruzione degli edifici della Facoltà di Studi Islamici
dell’Università di Sarajevo e della Biblioteca di Gazi Husrev Bey. La Moschea
del re Fahd, costruita dai sauditi nel 2000, è il più grande luogo di culto
musulmano nei Balcani e contrasta fortemente con le tradizionali moschee
in pietra ottomana.

Al contrario, mentre nella capitale Sarajevo sono state costruite dozzine


di moschee, ai cristiani non è stato concesso alcun permesso di costruzione
per nuove chiese. Le autorità locali si rifiutano ancora di restituire centinaia
di edifici un tempo di proprietà della Chiesa, sebbene siano tenute a farlo
in base ad una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Dopo 22
anni di lotta, i cattolici di Drvar, nella parte sud-occidentale del Paese, non
hanno ancora chiesa né un cimitero perché, nonostante le numerose
promesse, le autorità municipali si rifiutano di assegnare i terreni per la
costruzione di una nuova chiesa.

125
La Chiesa cattolica romana in Bosnia è una minoranza religiosa che sta
affrontando un futuro molto incerto. La mancanza di opportunità di lavoro,
il senso di impotenza politica e l’aumento del radicalismo islamico hanno
scatenato una nuova ondata di emigrazione che, inevitabilmente, potrebbe
condurre all’azzeramento della presenza cristiana nel Paese.

Secondo il cardinale Vinko Puljic, arcivescovo di Sarajevo, circa 10.000


cattolici lasciano la Bosnia-Erzegovina ogni anno. La diocesi di Banja Luka,
nella Republika Srpska, conta attualmente meno di 10.000 fedeli mentre
prima della guerra erano 200.000: un crollo del 95% circa della popolazione
di fede cattolica presente nella zona.

Secondo monsignor Franjo Komarica, presidente della Conferenza


episcopale cattolica della Bosnia ed Erzegovina e vescovo di Banja Luka, i
cattolici croati non hanno ricevuto i fondi stanziati dalla comunità
internazionale per il ritorno nelle proprie case degli ex rifugiati.

Nel Kosovo, un territorio a maggioranza albanese di religione islamica


che si è autoproclamato indipendente dall’ortodossa Serbia nel 2008,
assistiamo ad un serie di tentativi di eradicazione della memoria cristiana
ortodossa di quelle terre.

Qui, nella regione della Metohija, possiamo trovare alcuni dei più
significativi esempi della civiltà serba e del monachesimo ortodosso poiché
in quelle terre si svilupparono, gli insediamenti primordiali del popolo serbo
e, nei secoli XIII e XIV, vennero edificati numerosi monasteri ortodossi, custodi
secolari delle scritture, delle pitture e della memoria storica di quel popolo.
Ad esempio, il presidente turco Erdogan, sempre più attivo nell’allargare la
sua sfera di influenza politica e islamica al Kosovo, ha stanziato milioni di lire
turche per costruire dozzine di nuove moschee e ha chiesto una revisione
dei libri di storia del Kosovo per presentare il dominio ottomano sotto una
luce più positiva.

Questi luoghi di culto, testimonianza di quando la cultura europea si


sviluppava sotto la protezione della Chiesa, sono ancora meta di
pellegrinaggio per quei pochi serbi ortodossi rimasti ancora nella regione.
Quattro di questi luoghi simbolo della cultura serba - Dečani, il Patriarcato di
Peć, Gračanica e la chiesa della Madonna Ljeviška a Prizren - sono stati
dichiarati patrimonio mondiale dell’umanità dell’UNESCO e sono considerati
in pericolo a causa dell’instabilità della regione, attualmente sotto la

126
protezione della missione ONU dell’UMNIK e di quella della Nato, denominata
Kfor.

Nel 2004 sono stati bersagliati dalla furia cieca dell’estremismo


schipetaro, che li ha incendiati, distrutti, vandalizzati e ne ha profanato i
cimiteri, con l’intento evidente di eradicare la traccia della presenza
cristiana in quelle zone.

Proprio in queste zone, nel cuore dell’Europa, assistiamo a quotidiani atti


di discriminazione delle minoranze cristiane. Proprio qui – in Bosnia e nel
Kosovo - potrebbero attivarsi quelle cellule dormienti dell’Isis in grado di
portare la Guerra Santa in Europa. Permangono, infatti, i tentativi di
radicalizzazione attraverso offerte di denaro a favore della popolazione
musulmana in difficoltà economica, gente che non ha mai aderito a
condotte radicali come imporre il velo o avviare i figli alle scuole coraniche
radicalizzate. Numerose zone di quei territori sono fuori dal controllo delle
autorità legittime e sono “governate” dai predicatori religiosi radicalizzati.

L’estrema povertà, l’alto tasso di disoccupazione e l’afflusso di denaro


dalle nazioni islamiste minacciano di convertire una società musulmana
tollerante e orientata verso l’Europa in un rifugio per l’estremismo islamista.
Per de-radicalizzare questi territori occorre un grande programma di
emancipazione economica e abitativa della minoranza cristiana, affinché
questa non sia più subalterna al volere della maggioranza musulmana. Gli
aiuti provenienti dalla cooperazione europea devono essere finalizzati allo
sviluppo delle capacità imprenditoriali dei cristiani, alla formazione presso
scuole laiche dove le nuove generazioni possano crescere all’insegna dei
valori occidentali della tolleranza religiosa e del rispetto reciproco e a
progetti di reinsediamento abitativo dei cristiani costretti a fuggire dalle
proprie terre d’origine per paura delle persecuzioni.

Allo stesso modo, occorre preservare fisicamente l’integrità di luoghi,


simboli e testimonianze della presenza religiosa cristiana nei Balcani
affinché queste possano diventare centro di aggregazione e punto di ritrovo
della comunità cristiana locale e un attrattore turistico per chi viaggia alla
ricerca del comune sentire europeo.

Andrea Delmastro Delle Vedove


deputato, avvocato

127
ISIS REALITY SHOW:
TERRORISMO,
MEDIA E CRISI DELL’OCCIDENTE
di Guerino Nuccio Bovalino

IMAGOCRAZIA:
I MEDIA E LA POLITICA COME CONFLITTO DI IMMAGINARI

Marshall McLuhan aveva compreso, già negli anni Sessanta, come i


media elettronici avessero riconfigurato la cultura e la società in ogni
ambito: politico, sociale ed economico. Il sociologo canadese è stato il
primo a riconoscere la potenzialità (o meglio la potenza) dei media nel
creare e ricreare storie e mondi, suscitare bisogni, alimentare desideri,
scatenare paure, evidenziando la forza che essi hanno di riaccendere gli
aspetti innati e primordiali dell’uomo pur nel farsi agenti di una mutazione
antropologica dello stesso essere vivente. Le analisi di McLuhan avevano
individuato, fra l’altro, come anche la politica fosse destinata a mutare con
l’avvento della televisione. I nuovi linguaggi digitali, ultima fase della
trasformazione mediatica della nostra società, hanno infine determinato un
ulteriore e profondo mutamento dei paradigmi sui quali si costruisce l’azione
politica1. Logica vuole che allo stesso modo ogni forma anti-politica poggi
su tali nuove forme digitali. La filosofia politica tende a trasfigurarsi perciò in
mediologia politica. L’approccio mediologico permette di cogliere le
prospettive future della dimensione politica nel suo costante scivolare
dall’intoccabile e indiscutibile moloch che è la democrazia a forme inedite
di videocrazia, comunicrazia e imagocrazia. La videocrazia è la politica
legata ai mass media in modo ancora verticale e verticistico; il suo massimo
interprete in Italia è stato Silvio Berlusconi. La comunicrazia è il passaggio
successivo, riconducibile ai personal media e alla rete, tramite cui ciascuno
è potuto divenire, oltre che consumatore, anche produttore di un messaggio;
pensiamo ovviamente al passaggio dalla telepolitica alla politica dei tweet
e dei selfie, fino ai nuovi movimenti come il Partito Pirata tedesco e il
Movimento 5 Stelle italiano, che della partecipazione digitale hanno fatto la

1 Cfr. Marshall McLuhan, Gli strumenti del comunicare, il Saggiatore, Milano 2007; Marshall
McLuhan, La galassia Gutenberg, Armando editore, Roma, 1976.

128
propria ragione d’essere. L’imagocrazia, infine, deriva dalla constatazione
di Michel Maffesoli per cui, se “la superficie è la vera profondità delle cose”,
tale superficie è il luogo dove si svolge la nostra relazione con l’ambiente e
gli altri esseri viventi: un’atmosfera nella quale si mescolano idee, libri,
visioni, film, pubblicità, vissuto quotidiano, fumetti, cultura alta e cultura
bassa, filosofia e banalità. L’immaginario chiamato in causa è filtrato,
prodotto e riprodotto dai media e nello specifico soprattutto dalle nuove
tecnologie digitali2.
Il politico ha ormai metabolizzato le dinamiche del consumo e vive
interamente all’interno di questo brodo babelico e poliforme di immaginari
(e solo con esso può sperare di sopravvivere). La vera sfida è riuscire a
cogliere il costante intrecciarsi di forme tradizionalmente riconoscibili come
politiche con i nuovi strumenti del consenso e del dibattito. Occorre
insomma assimilare le nuove forme che abitano lo spettacolo del quotidiano
intendendole come non più scindibili da un ragionamento sul politico.
Studiare tali forme è utile per comprendere appieno la miscellanea di
impressioni, suggestioni e passioni che stanno alla base dell’agire nella
polis di ogni cittadino3.
Per comprendere l’attuale dimensione mediologica della politica – dalla
tweet-crazia personificata da Trump ai vari populismi digitali che esondano
dal web – è utile voltarsi indietro e far riaffiorare il ricordo di una foto
raffigurante un elegante Obama in posa con alle spalle una statua di
Superman a misura d’uomo. Era l’apice del messianismo americano, e in
quella cornice mitologica il presidente degli Stati Uniti si era introdotto
mostrandosi come il profeta capace di fidelizzare l’intera popolazione
mondiale con le sue parole; di più: proponendosi quale supereroe insignito
del compito di salvare e cambiare il mondo. In tempi più recenti, a supporto
delle sue tesi politiche, Marine Le Pen ha pubblicizzato il pamphlet di uno
sconosciuto intellettuale francese, Laurent Obertone, dal titolo La France
Orange Mécanique4 e da lei stessa ribattezzato “il libretto arancione”. Nelle
pagine del libro si rilevava come la Francia fosse diventata di fatto terreno
privilegiato per la delinquenza impunita, evocando l’esplicito parallelismo
con A Clockwork Orange, film cult del 1971 nel quale era inscenata la

2 Cfr. Guerino Nuccio Bovalino, Imagocrazia. Miti e immaginari del tempo presente, Meltemi,
Milano, 2018.

3 Michel Maffesoli, Il Tempo delle tribù. Il destino dell’individualismo nelle società postmoderne,
Guerini & Associati, Milano, 2004.

4 Laurent Obertone, La France Orange Mécanique, Ring, France, 2015.

129
banalità dell’ultraviolenza giovanile. Il titolo del libro e l’idea di Marine Le
Pen di definirlo “il libretto arancione” creavano un cortocircuito di
suggestioni, richiamando e intrecciando immaginari distanti tra loro: il
libretto rosso di Mao, caposaldo di un linguaggio politico tradizionale, e il
capolavoro cinematografico di Stanley Kubrick, simbolo di una cultura
post-alfabetica, postmoderna e pop.
Ancora, è un dato ormai acquisito il valore attribuito dai terroristi alla
dimensione dell’immaginario mediatico. L’ISIS, infatti, come strategia
comunicativa della propria propaganda, ha pubblicato sul web i video di
alcune decapitazioni compiute ai danni degli “infedeli”, utilizzando un
montaggio e degli effetti speciali che chiaramente parodiavano la
produzione hollywoodiana dei film d’azione tanto quanto richiamavano
l’immaginario dei reality show nelle modalità teatrali di rappresentare la
morte come macabro spettacolo in mondovisione.

DALLE TORRI GEMELLE AI TRAILER DELL’ORRORE

L’attuale mediamondo5 ha operato in una direzione inclusiva (facendoci


sentire parte inscindibile dall’altro, uniti nella tragedia insensata dell’essere
gettati nel mondo) ed esclusiva (illudendoci di essere al sicuro da ciò che è
vivido eppure estraneo, come può esserlo ad esempio la rappresentazione
mediatica di una guerra o di un attacco terroristico). L’illusione di poter
vivere il mondo rifugiati nella nostra intimità – spettatori forti del potere di
fare zapping, scegliendo così di assorbire solo gli aspetti positivi della vita
che ci tocca e di quella che ci appare distante – è implosa davanti agli
avvenimenti che hanno scalfito le nostre libertà e ci hanno messo in pericolo
nonostante le nostre abitazioni-rifugio, eleganti e ipermoderne. I media,
che hanno sostituito la politica plasmandola a loro immagine, hanno
costruito un intreccio stabile fra vita reale e vita virtuale che ha immerso in
un sonno cosciente l’intero Occidente. Nel completo sprofondamento nel
gioco del reale virtualizzato, l’assedio inatteso della realtà ha provocato
reazioni individuali e collettive che è utile analizzare con attenzione.
L’attacco terroristico alle Twin Towers è il punto zero (ground zero pure
metaforicamente) che ha segnato l’inizio di quel profondo mutamento
antropologico che l’Europa ha tardato a comprendere: un risveglio brusco
che ha invece estirpato dal sonno mediale il popolo americano. Il momento

5 Cfr. Giovanni Boccia Artieri, I Media-mondo. Forme e linguaggi dell’esperienza contemporanea,


Meltemi, Roma 2004.

130
storico compreso fra la fine della guerra fredda e l’attacco alle Twin Towers,
aveva creato un sentimento di estrema fiducia nella rinascita dell’Occidente,
sotto il segno delle libertà e dell’affermarsi di una società del consumo e del
benessere. Le guerre in Kuwait e in Iraq furono un’appendice imprevista che
non funzionò come campanello di allarme per l’opinione pubblica, che al
contrario le considerò come accadimenti in grado di alimentare l’idea di
un Occidente forte e considerabile ancora il migliore dei mondi possibili.
Tale convinzione portò le forze militari occidentali ad attribuirsi il compito
doveroso (di comoda realizzazione grazie all’incontrastabile potenza
militare) di esportare la propria cultura e il proprio stile di vita nel resto del
mondo. La folle azione terroristica di Al Qaeda contro le Torri Gemelle è
stato il momento topico nel quale ci si è ritrovati inaspettatamente “la guerra
in casa”. Gli USA sono stati quindi costretti a operare un ripensamento
radicale del proprio grado di potere al cospetto di un complesso sistema
geopolitico mutato all’improvviso; di più: hanno dovuto prendere atto della
fragilità del proprio humus libertario. La realtà, insomma, aveva aggredito
l’immaginario di cui si nutriva da tempo l’”american dream”. Era difficile
metabolizzare i corpi che si lanciavano dalle Twin Towers nel gesto disperato
di eludere le fiamme per donarsi a una morte meno atroce. Immagini che
riproposte in loop dalle televisioni di tutto il mondo venivano percepite
come tragiche ma distanti dalla vita quotidiana. Erano osservate e
metabolizzate come fossero tratte da uno dei tanti film del filone apocalittico
cari alla produzione cinematografica hollywoodiana. Lo spettacolo della
catastrofe incontrava la realtà6.
I recenti atti terroristici dell’ISIS hanno evidenziato un vero salto di qualità
strategico nelle modalità comunicative e di propaganda rispetto alle azioni
di Al Qaeda: se le Twin Towers furono percepite come realtà trasfigurata
dalle nostre menti in un film hollywoodiano, o in un videogioco di guerra, le
decapitazioni degli infedeli a opera dell’ISIS sono state invece raccontate e
confezionate con gli strumenti sofisticati dei trailer cinematografici e
attraverso scenografie hollywoodiane, esaltando i dettagli e il sangue. Si
tratta di immagini che ci toccano concretamente e sfuggono alla nostra
capacità consolatoria di percepire la distanza (come nel caso dei corpi
che cadono inermi dalle Torri Gemelle): qui, difatti, pulsa il sangue, e la
lama pare di sentirla davvero strisciare sulle carni tremanti. Se le immagini
dei corpi che si gettavano dalle Twin Towers in fiamme venivano percepite

6 Alberto Abruzzese, Punto Zero. Il crepuscolo dei barbari, Luca Sossella Editore, Roma, 2015.

131
come una serie di frame cinematografici, i video dell’ISIS – studiati
attentamente perfino nella sceneggiatura e girati in slow-motion – ci sono
apparsi invece più reali del reale, perché costruiti come prodotto da
destinare alla società mediatica che abitiamo. Sono veri e propri trailer del
terrore. L’11 settembre è stato metabolizzato come un tragico film spettacolare
perché inscenato e comunicato come un fatto reale; le esecuzioni dell’ISIS
risultano invece ultra-realistiche perché sono pensate come un film. La
tattica ha il merito macabro di utilizzare il codice comunicativo ideale per
ottenere l’attenzione di un Occidente ripiegato sul visuale e sul virtuale,
sullo storytelling mediale.
L’attenzione prestata dall’ISIS a promuovere i propri attentati con
modalità capaci di incidere sul dibattito occidentale, ha riscontro anche
nella decisione di attaccare la redazione di “Charlie Hebdo”: i terroristi
hanno portato la guerra nel cuore dell’Occidente, nelle sue strade,
colpendolo alla radice della propria essenza culturale (ovverosia la libertà
di opinione e di parola, forme storicamente costitutive della nostra cultura).
Sul piano dell’immaginario individuale e collettivo, ha infatti creato più
scalpore il numero relativamente ridotto di morti nella redazione di un
giornale satirico che non quello, assai più ingente, dei numerosi soldati
trucidati quotidianamente sui campi di battaglia dai terroristi – e dunque
troppo lontano dai nostri occhi, reali e mediatici. Portare la guerriglia nel
cuore di Parigi colpendo i giovani a un concerto ha svelato la nostra
incapacità di difenderci in quanto ormai strutturati come cultura
spettacolare e comunità del godimento; pertanto, incapaci di ritenere
plausibile una guerra per difendere ciò che, seppure evanescente dal
punto di vista identitario, ci caratterizza come mondo progredito. A Parigi
sono stati colpiti i luoghi simbolo della libertà e del consumismo, del ludico
e del futile. Dall’attacco sferrato alle Twin Towers, simbolo del potere
economico capitalista, si è passati a colpire l’inconscio dell’Europa,
aggredita nei luoghi che incarnano l’essenza del vivere quotidiano;
l’oggetto d’assalto è quindi l’effimero fondante il surplus di una comunità
che, compiuto il proprio processo democratico, ha sviluppato un plusvalore
esperienziale, ossia una legittimazione legata al rendere possibile una
socialità basata sulle esperienze del divertimento e del piacere.

132
ISIS REALITY SHOW

Il 29 Giugno 2014 Abu Bakr al-Baghdadi proclamava la nascita del


Califfato ISIS dalla Moschea di Mosul, amplificando la comunicazione
dell’evento con un comunicato stampa diramato tramite internet nei vari
social network tra cui Twitter, Facebook e YouTube, e un ulteriore video dove
enunciava il progetto prettamente politico del neonato Stato Islamico. Il
terrorismo, come detto, ha da tempo mostrato di conoscere bene i
meccanismi della comunicazione digitale, utilizzati poi al meglio per
diffondere il proprio messaggio, facendo dei nuovi media un elemento
paradigmatico della propria azione. I social consentono la diffusione
capillare di un messaggio e costituiscono la piattaforma ideale per la
nascita di nuove comunità digitali tribali, lontane da una dimensione
tipicamente razionale, basate viceversa su forme di affiliazione emotiva e
con un grado di coesione elevato perché generato da una modalità di
condivisione perlopiù irrazionale e passionale di specifiche issues e
tematiche. Con la Rete nasce la Cyberjihad. Il mondo virtuale ha aiutato
l’ISIS nella creazione di comunità online nelle quali attrarre e sedurre
potenziali nuovi jihadisti, consentendo agli stessi di tutelare oltretutto la
propria identità. La Rete si è rivelata anche un ottimo strumento per
raccogliere fondi, grazie a delle campagne mirate di crowdfunding a
sostegno del Califfato.
La capacità dei terroristi di muoversi con disinvoltura fra i vari media,
assorbendone immaginari e mitologie, si è manifestata anche nelle
similitudini di alcune azioni terroristiche con scene tratte dai reality show
televisivi. Un’assonanza inquietante fra mondi così diversi la ha offerta un
video diffuso dall’ISIS in cui due soldati turchi, catturati in Siria, venivano
bruciati vivi ad Aleppo: i militari appaiono incatenati in una gabbia e fanno
una “confessione”, in cui si identificano e affermano di aver lottato contro “i
soldati del Califfato”. Una miccia poco lontana da loro viene accesa e il
fuoco li raggiunge velocemente. In brevissimo tempo vengono avvolti dalle
fiamme. Nei giorni precedenti fra le prove che i concorrenti del noto reality
italiano “L’Isola dei Famosi” dovevano affrontare, vi era “la gabbia del
fuoco”: veniva misurata la loro capacità di resistere alle fiamme che
invadevano da sotto la gabbia dove erano rinchiusi. Macabre
sovrapposizioni fra realtà e fiction.
La versione reality show ha avuto “fortuna” anche nella forma anti-
terroristica. Nel reality iracheno “In the Grip of the Law”, i terroristi, in divisa
gialla, venivano costretti a incontrare faccia a faccia i familiari delle loro

133
vittime: insulti e accuse mentre si rinfacciavano loro le cattiverie che
avevano perpetrato ai danni dei propri cari. Il reality “The Quick Response”
era costruito invece su interviste ai soldati che si erano distinti nella lotta
contro gli estremisti, esplicitando chiaramente l’obiettivo di esaltarne
l’umanità e il coraggio rispetto alla meschinità dei terroristi.
I terroristi hanno fatto “buon” uso anche delle tecniche di gamification,
giochi di ruolo e alcuni giochi per bambini nei quali gli stessi erano
protagonisti virtuali di un videogame dove si facevano saltare in aria su
delle colonne di camion degli infedeli7.

SOUMISSION. OCCIDENTE CONTRO OCCIDENTE

L’Occidente, come ha sottolineato il critico letterario Franco Moretti,


presenta nella propria produzione letteraria numerose opere che ne
riproducono lo spirito, il daimon: letti attraverso una lente adeguata, questi
testi rivelano nei loro nuclei costitutivi delle metafore che inscenano
l’ambizione occidentale, da sempre imperante, di governare il mondo.
Sono delle “Opere Mondo”, ovvero sublimano l’idea occidentale di
padroneggiare l’intero pianeta, territorialmente e culturalmente, imponendo
la propria verità attraverso l’affermazione di un dominio politico ed
economico. Basti pensare a capolavori come Faust di Goethe e Ulisse di
Joyce8, due libri cardinali per l’Europa nei quali al centro della
rappresentazione si trovano degli uomini che dominano la propria esistenza
e guidano le sorti del mondo. Ulisse e Faust sono archetipi, uomini che
sfidano il già dato e guidano l’avvento del progresso. Se cercassimo di
individuare le opere mondo che oggi si fanno carico di raccontare e
sublimare l’immaginario dell’Occidente, ci ritroveremmo a indugiare sulle
pagine di Soumission9, il racconto rassegnato e disincantato di una forma
decadente e ormai smarrita scritto da Michel Houellebecq. Uno slittamento
rivelatorio.
L’Occidente oggi non ha un’identità precisa ma semmai un’attitudine,
nient’altro se non la capacità di porsi come un meta-medium nel quale

7 Cfr. Fabio Lanucara, L’uso dei social media nel terrorismo mediatico, Consultabile presso Archivio
Università Internazionale Dante Alighieri, Reggio Calabria, Tesi del Master ICT – Information
Communication Technology.

8 Cfr. Franco Moretti, Opere Mondo. Saggio sulla forma epica dal Faust a Cent’anni di solitudine,
Einaudi, Torino, 2003.

9 Cfr. Michel Houellebecq, Sottomissione, Bompiani, Milano, 2015.

134
convivono razionale e spirituale; incarna una cultura che si fa sempre più
fluida ed evanescente; si è tramutato oggi nel grande parco giochi delle
libertà e dell’esperienza puramente ludica; ha smarrito quel sentimento di
grandezza con cui giustificava l’idea di essere il migliore dei mondi possibili;
inoltre sconta un’oscillazione alienante: è stato posto suo malgrado dal
presente come un mondo fra i mondi, mentre il terrorismo lo fa deflagrare in
uno stato di tensione permanente, auto-incorporandosi come corpo
estraneo che ormai gli appartiene, una sorta di appendice ineliminabile.
L’Occidente ha sublimato la morte estromettendola dal contesto quotidiano
e ha riscritto i caratteri dell’esistenza come se quest’ultima fosse una corsa
artificiale verso la vita e la giovinezza eterna. Le biotecnologie sono state
elevate a biopolitiche. La morte, vissuta dall’Occidente come un
accadimento da confinare sullo sfondo del contesto della vita quotidiana,
irrompe come verità indissolubile nell’esperienza umana a causa delle
tragedie generate dal furore fondamentalista. Ciò che il terrorista scorge
nella morte è un sacrificio che ha il fine ultimo di esaltare la vitalità della
propria tradizione – nonostante questa venga travisata rispetto al reale
messaggio del suo credo e della sua cultura. Tutto questo inquieta
l’Occidente e il suo tentativo continuo diviene quello di ricusare ogni forma
sacrificale per rincorrere un benessere sintetico. È lo stesso Occidente,
d’altronde, in perpetua guerra metaforica con se stesso, stretto tra il
fallimento delle due grandi narrazioni contemporanee (progressismo e
capitalismo consumistico), ad aver provocato il varco nel quale si insinua il
terrorismo, che come un ragno velenoso colpisce aeroporti e metropolitane
(i luoghi che rimandano alla nostra libertà di vivere il mondo come un unico
grande testo sul quale potersi spostare senza impedimenti) così come teatri
e bar (i luoghi del loisir quotidiano). Si è creata a questo punto una frattura
fra l’idea positiva di globalizzazione rappresentata dai media ed elargita
dai settori privilegiati del sistema globale e la percezione reale del suo
fallimento, provato direttamente sulla carne dalla classe media. È
indispensabile per questa ragione ripensare anche l’economia come
elemento funzionale alla coesione sociale e come fattore umano e fatto
sociale prima ancora che in quanto luogo di principi matematici e asettici.
L’Occidente, per difendere le proprie banche e i propri affari, è giunto a
rinnegare la propria arte e la propria storia culturale: ha rescisso brutalmente
il legame con l’humus su cui ha costruito la propria narrazione. La finanza,
in questo senso, è il dispositivo che ha spinto l’Occidente a ripensarsi come
snodo di affari anziché processo infinito in cui le contraddizioni e gli opposti

135
si conciliano in nome di un’idea mondo superiore che è prima di tutto
culturale, relazionale e umana. La hybris occidentale, giunta al suo apice,
ha visto trasfigurarsi in un limite l’eccesso di libertà, considerato storicamente
come un valore assoluto e incontestabile. Si è quindi affermata l’urgenza di
una forma di autocoscienza: fermarsi sul precipizio per un’autoanalisi che
inneschi una reazione a una simile tracotanza, dimostratasi fatale. La
tragica strage operata nel ristorante di Dacca nel Bangladesh dai terroristi
ha riportato il conflitto su un terreno alfabetico, moderno: coloro che non
furono capaci di recitare uno o più versi del Corano, il libro sacro dell’Islam,
subirono torture tremende e furono infine condannati a morte. Si esplicita in
questo gioco macabro il predominio della materialità della parola, del
simbolico, del dicibile e dell’enunciabile. L’Occidente è ormai invece
incapace di nominare se stesso, di raccontarsi, e vive la tragica
contraddizione di aver costruito la propria visione su un’astrazione scevra
da riferimenti solidi, concreti, abdicando a favore dell’effimera espressione
di una non cultura. L’Occidente ha rappresentato se stesso tramite le
meraviglie dell’arte: forme vitali del suo sapere e al contempo cristallizzazioni
di cultura e sensibilità che non sono un monumento muto ma si stagliano,
seppur immobili, come riserva di bellezza e di senso in continua
attualizzazione, pur nell’epoca di barbarie e di crisi che stiamo attraversando.
La Monna Lisa di Leonardo da Vinci, icona se ce n’è una dell’arte
occidentale, è da sempre oggetto di citazioni e sberleffi: la provocazione
dadaista di Marcel Duchamp, la rappresentazione baffuta di Salvador Dalì
e quella irriverente dello street-artist Banksy (che la volle raffigurare come un
mujaheddin con in mano un lanciarazzi); si tratta, in ogni caso, di operazioni
che si esprimono tutte all’interno di un processo che si rifà all’idea artistica.
Questi piccoli atti di sovversione estetica sono riconducibili a una forma di
ironia nei confronti della cultura tradizionale della quale la Gioconda è un
simbolo universalmente riconosciuto; di più: operazioni dissacranti come
queste amplificano il valore simbolico dell’opera di Leonardo,
confermandone la portata storica e sociale nel momento stesso in cui la
eleggono quale vittima designata del gioco intellettuale e artistico,
transculturale e transpolitico. Alla International Khoran Exhibition di Teheran
è stata esposta una copia della Monna Lisa che indossa però lo chador (il
tipico indumento iraniano portato dalle donne in pubblico); il senso che
incarna questo gesto artistico, tuttavia, è altro dalla sovversione estetica,
risultando di fatto un atto politico, che nell’immaginario si inserisce in una
rete di suggestioni riconducibili alle riflessioni di Michel Houellebecq nel suo

136
Soumission: nascondere il sorriso enigmatico della Gioconda, l’emblema
misterico fonte di studi e riflessioni ormai da secoli, è un modo di
rappresentare la crisi dell’Occidente per mezzo del visuale, poiché coprirne
la bocca vuol dire mettere a tacere la sorgente dell’Occidente, ovvero il
linguaggio, costruttore dell’identità occidentale per mezzo della narrazione.
Rendere muta la Monna Lisa inscena la prevaricazione del paradigma
fondamentalista su quello laico, del silenzio sul frastuono del moderno, del
mistero sullo splendore costruito sull’artificio dalla società spettacolare.
Il conflitto fra l’Occidente (ciò che vogliamo intendere con esso e di
esso) e i terroristi fondamentalisti, come evidenziato con questo testo, non si
può limitare a un semplice contrasto militare, poiché è presente in tale
dinamica di scontro una dimensione imagocratica, ossia un mutamento
chiave del mondo attuale che richiede una reazione comunicativa,
simbolica e mediatica oltre che puramente bellica.

Guerino Nuccio Bovalino


docente di Immaginari dell’Era Digitale,
Università per Stranieri “Dante Alighieri” Reggio Calabria,
Chercheur del CEAQ - Sorbonne
(Centre d’Études sur l’Actuel et le Quotidien), Parigi

137
LA RADICALIZZAZIONE
IN CARCERE
a cura del Centro Alti Studi “Averroè”

I percorsi che conducono alla radicalizzazione jihadista in Italia come nel


resto d’Europa sono molteplici. Le porte d’ingresso possono essere parenti,
amici o conoscenti occasionali; predicatori estremisti, veterani di vari conflitti
e militanti che frequentano moschee o centri culturali e di aggregazione
sociale; Internet e le comunicazioni online. Non ultimo, uno dei luoghi
privilegiati per l’indottrinamento e il reclutamento è il carcere. Le criticità
ambientali rendono infatti quello carcerario un ambiente particolarmente
favorevole alla trasmissione dell’ideologia e della forma mentis jihadiste,
mettendo a dura prova l’efficacia delle procedure di sicurezza negli istituti
penitenziari. Come supporto informativo e di analisi rivolto alle istituzioni, al
mondo della politica e agli addetti ai lavori, questo report prende in esame
le varie fasi del processo di radicalizzazione, le dinamiche della radicalizzazione
in carcere e le criticità del caso italiano, che attengono sia alle politiche di
sicurezza penitenziaria che a quelle di de-radicalizzazione. Le riflessioni e le
proposte d’intervento qui elaborate sono il frutto delle attività di ricerca,
formazione e informazione, delle conferenze e delle tavole rotonde realizzate
dal Centro Alti Studi “Averroè” sul tema della radicalizzazione e della lotta al
terrorismo jihadista.

1. IL PROCESSO DI RADICALIZZAZIONE

La comprensione del processo di radicalizzazione è di fondamentale


importanza per il contrasto al terrorismo. Si tratta di una trasformazione
psicologica ed emotiva attraverso la quale un individuo fa proprie idee e
finalità politico-religiose sempre più radicali, con la convinzione che il
raggiungimento di tali finalità giustifichi metodi estremi. Alla trasformazione
segue un cambiamento di tipo comportamentale. Il tutto può avvenire in
tempi brevi: possono bastare 3 o 4 settimane.

138
I soggetti che intraprendono questo processo presentano di solito già
fattori personali e contestuali che li rendono suscettibili alla radicalizzazione,
come l’aver vissuto un’esperienza traumatica, la ricerca di un’identità, l’aver
subito discriminazioni o situazioni di disagio economico, la scarsa integrazione.
In Europa, i profili dei jihadisti includono criminali che vivono ai margini della
società, ma anche laureati e professionisti affermati, oppure adolescenti e
cinquantenni, convertiti senza conoscenze religiose pregresse e studiosi di
teologia islamica, sia uomini che un numero crescente di donne.

Esaminarne il profilo e la storia consente di scoprire le motivazioni alla


base delle loro specifiche reazioni a stimoli, influenze e forze esterne durante
la radicalizzazione. Ad esempio, coloro che vivono già nella violenza, vedono
nella religione un pretesto per canalizzare un’intima rivolta personale contro
il sistema e la società, percepiti in maniera ostile, e trovano nell’ISIS una
struttura flessibile e pragmatica in cui realizzare il desiderio di contrapporsi
allo status quo. È così che l’Islam è divenuto impropriamente un simbolo di
rivolta anti-sociale.

Il presentarsi di fattori personali e contestuali costituisce la prima fase del


processo di radicalizzazione ed è il presupposto per le quattro fasi successive.
Nella fase d’identificazione, l’individuo si allontana progressivamente dalla
sua precedente identità culturale, politica e religiosa, e dai comportamenti
solitamente adottati, per entrare nella sua nuova personalità a cui
corrispondono diversi abitudini e modalità relazionali. È questo il momento
della sperimentazione ideologica: la persona non è ancora radicalizzata e
non possiede nozioni approfondite dei sistemi di pensiero dei gruppi estremisti,
ma si avventura nel primo approccio con gli ambienti radicali, facendo
esperienza della simbologia e adottando posizioni radicali non pienamente
sviluppate per senso di rivalsa contro la propria famiglia o la società.

Nella fase dell’indottrinamento, gli estremisti in fieri cominciano a isolarsi,


ad abbracciare pienamente la visione jihadista del mondo, convinti che sia
la soluzione ai problemi della società. L’esito sarà l’interiorizzazione
dell’ideologia jihadista, sebbene il livello di radicalizzazione non si trovi ancora
a un punto tale da spingere l’interessato a infrangere la legge o a usare la
violenza. La fase di manifestazione è caratterizzata dall’impegno personale
nella promozione della nuova ideologia, con l’obiettivo di dirigere il mondo
circostante al cambiamento ritenuto necessario, anche attraverso l’azione
violenta. Questa fase coincide con il reclutamento in gruppi estremisti.

139
Quando l’identità della persona è del tutto assimilata a quella del gruppo e
della sua ideologia, il processo raggiunge la sua fase finale: il terrorismo.

Non si tratta naturalmente di un processo lineare. Può infatti subire battute


d’arresto e anche essere abbandonato completamente. Di qui, l’importanza
dell’elaborazione e della diffusione di contro-narrative che possano
neutralizzare la persuasività del discorso estremista nella fase d’identificazione
e d’indottrinamento.

2. IL CARCERE COME LUOGO DI RADICALIZZAZIONE

Le dinamiche che caratterizzano le cinque fasi del processo di


radicalizzazione possono realizzarsi in diversi luoghi e tra questi c’è il carcere.
La prigione come fabbrica di terroristi dunque, un fenomeno diffuso in tutti i
paesi dell’Europa occidentale. La presenza di detenuti estremisti che svolgono
attività di proselitismo per spingere altri detenuti a radicalizzarsi è un male
comune ai sistemi penitenziari di Francia, Belgio, Gran Bretagna, Germania,
Spagna e Italia. In carcere, circolano testi che incitano all’odio e alla violenza,
mentre possono formarsi reti di jihadisti in contatto con affiliati all’esterno per
pianificare attacchi terroristici. Il ritorno dei “foreign fighters” dopo il crollo
dell’avamposto territoriale dell’ISIS in Siria e Iraq, ha accresciuto ulteriormente
la preoccupazione sulla gestione di nuovi detenuti estremisti difficilmente de-
radicalizzabili e in predicato di svolgere attività di proselitismo.

Il processo di radicalizzazione in carcere ha finora riscosso i maggiori


successi in Francia. Adel Kermiche, il giovane che con Abdel Malik Petitjean
ha sgozzato il sacerdote cattolico Jacques Hamel della chiesa di Saint-
Étienne-du-Rouvray presso Rouen, era stato rilasciato di recente da Fleury-
Mérogis, un carcere di massima sicurezza a sud di Parigi, dove aveva trovato
la sua “guida spirituale”. Nella stessa prigione, si trova ora Salah Abdeslam,
l’unico sopravvissuto della strage del Bataclan a Parigi, accolto dai detenuti
come un messia. Amedy Coulibaly, l’uomo ucciso a Parigi dopo aver preso
degli ostaggi in un supermercato kosher, raccontò a un giornalista francese
di essersi interessato all’Islam in prigione: il suo mentore era stato Djamel
Beghal, un reclutatore di Al Qaeda che stava scontando dieci anni di carcere
per terrorismo. Nella stessa prigione, Coulibaly aveva incontrato i due fratelli
Kouachi, gli attentatori di Charlie Hebdo.

Perché la prigione è un luogo favorevole alla radicalizzazione? Frustrazioni


e risentimenti, il sovraffollamento, le condizioni detentive spesso inadatte, la

140
percezione di essere discriminati sono quei fattori che singolarmente o
combinati posso determinare le condizioni personali e contestuali adatte
all’innesco di processi di radicalizzazione. I detenuti convivono in uno spazio
ristretto e ciò favorisce il contatto tra gli “agenti” del proselitismo estremista e
soggetti che entrano in carcere come semplici praticanti o non credenti, ma
poi finiscono per essere integrati nelle reti jihadiste. Vale l’esperienza francese,
con i numerosi attentati di ex piccoli delinquenti trasformati dal carcere in
terroristi.

Quali sono gli indicatori che segnalano che un detenuto potrebbe aver
intrapreso un percorso di radicalizzazione? Innanzitutto, l’aspetto esteriore
della cella, decorata con tappeti da preghiera, calligrafie islamiche e graffiti,
l’affissione di poster di gruppi terroristici o che richiamano attentati come
quello dell’11 settembre. Poi, la modifica dell’aspetto esteriore del soggetto,
che comincia a indossare abiti più tradizionali o si fa crescere la barba,
mettendo in mostra segni esteriori di conversione o di allineamento alla
causa jihadista. Alcuni, ricorrono alla dissimulazione, la taqiyya dei Fratelli
Musulmani, sforzandosi di mantenere un aspetto “occidentale” per passare
inosservati.

Dal punto di vista comportamentale, gli interessati prendono le distanze


da altri detenuti, musulmani e non, la cui condotta non è conforme all’Islam
radicale. Da questi possono persino non farsi toccare, rifiutandosi di
condividere le docce, i pasti, l’uso della lavanderia e di partecipare ad
attività quotidiane con persone di altra fede religiosa. Mostrano un senso di
superiorità, che può indurli ad attaccare soprattutto i musulmani moderati
sia verbalmente che fisicamente.
S’impegnano invece nell’esercitare un’influenza sui detenuti ritenuti
maggiormente malleabili, al fine di guadagnarli alle loro idee e portarli a
diventare dei veri pii musulmani, inserendoli nei gruppi chiusi che hanno
formato e che restano isolati rispetto all’ambiente circostante.

A cambiare è anche il comportamento nei confronti delle donne, con cui


si rifiutano di comunicare o interagire, stringendo loro ad esempio la mano,
mentre non obbediscono più alle istruzioni del personale femminile. In
generale, mostrano un comportamento ostile e aggressivo verso l’intero
personale penitenziario, degli operatori sociali, degli psicologi e degli
avvocati (possono rifiutare un avvocato non musulmano o qualunque
avvocato). Ricercano deliberatamente lo scontro verbale con il personale
penitenziario, specie con le autorità, o manifestano un’assenza pressoché

141
totale di reazione di fronte a loro, rifiutandosi di rispondere alle domande e
disobbedendo alle eventuali sanzioni comminate. Per ottenere la
soddisfazione di speciali rivendicazioni, possono sia ricorrere allo sciopero
della fame, che aggredire fisicamente il personale penitenziario, compiere
atti di distruzione con mezzi pericolosi, provocare incidenti o scatenare
sommosse.

Per quanto riguarda il modo di rapportarsi al mondo esterno, i contatti


con familiari e amici si diradano, fino alla rottura delle relazioni. D’altro canto,
viene manifestato il desiderio di ricevere visitatori sospetti. Gli interessi
“culturali” prendono una deriva chiaramente fondamentalista, con l’assidua
lettura dei testi di propaganda che fanno l’apologia del jihad e la
consultazione di siti web che illustrano storie e ideologie di tipo radicale,
nonché le tecniche per la fabbricazione di bombe. La pratica della religione
s’intensifica significativamente e diviene più isolata, secondo i rituali tipici dei
circoli estremisti. I detenuti radicalizzati o in via di radicalizzazione rifiutano
spesso l’imam che gli viene accreditato ed esercitano pressioni per indicare
un imam che sia ideologicamente di loro gradimento. Talvolta, la leadership
religiosa viene assunta da un “imam autoproclamato”, che dirige le preghiere
e le attività di culto collettive, occupandosi anche dei sermoni.

Detenuti non accusati o condannati per fatti associati a terrorismo


possono dichiararsi prigionieri politici. Nei commenti sugli avvenimenti politici
correnti, si rileva un rigetto totale del sistema democratico, dei valori
occidentali e delle costituzioni degli Stati civili poiché in contrasto con la
legge religiosa (sharia). Ricorrenti è l’affermazione per la quale i musulmani
sono vittime di un complotto imperialista internazionale. Le altre religioni sono
oggetto di critiche, mentre è continua l’insistenza verso il degrado morale e
la decadenza dell’Occidente.

3. IL CASO ITALIANO

Contrariamente alla Francia, che annovera numerosi autori di attacchi


terroristici radicalizzatisi in carcere, le prigioni italiane hanno prodotto finora il
“solo” Anis Amri, per quanto il tunisino divenuto terrorista nelle sue esperienze
carcerarie in Sicilia, si sia macchiato della strage natalizia di Berlino, una
delle più gravi verificatisi sul suolo europeo. Ciò significa che anche il sistema
penitenziario italiano presenta le condizioni che lo rendono un luogo
favorevole alla radicalizzazione. A confermarlo sono i numerosi casi riportati

142
dalla cronaca giornalistica, che forniscono uno spaccato a dir poco
allarmante della realtà dei penitenziari dove sono reclusi condannati per
reati legati all’estremismo e al terrorismo.

Ad esempio, il detenuto nel carcere di Pisa che ha devastato la sua cella


incendiandola e che, dopo aver compiuto atti di autolesionismo, ha cercato
di aizzare i compagni in nome del Califfato. Al Califfato inneggiavano durante
una rissa alcuni detenuti del carcere di Padova, dove imam fai-da-te si sono
spinti fino alla celebrazione di mujaheddin e talebani, gli stessi che in un
attentato hanno ucciso soldati italiani in Afghanistan, per l’esultanza dei
detenuti estremisti rinchiusi nella casa circondariale di Macomer in Sardegna.
A Macomer, i detenuti hanno chiesto infermiere con il velo e bollato gli agenti
di guardia come “fascisti, razzisti o servi degli americani”, in linea con
l’orientamento di Raphael Gendron, un convertito francese arrestato a Bari
che è stato per anni l’imam fai-da-te della prigione prima di morire in Siria
dopo essere stato rilasciato.

In diverse carceri italiane, i detenuti hanno protestato alla vista di guardie


con la croce cristiana al collo e non hanno permesso agli agenti di toccare
il Corano per controllare se tra le pagine ci fossero nascosti dei messaggi,
istruzioni o oggetti potenzialmente pericolosi. Gli agenti non intendevano
mancare di rispetto alla religione islamica, ma il loro obiettivo era di evitare
quanto accaduto in Spagna, dove è stata smantellata una rete jihadista
estesa in ben 15 centri di detenzione. La rete era composta da 25 detenuti,
alcuni dei quali radicalizzatisi in cella, che utilizzavano “pizzini” per
comunicare.

Nel carcere di Velletri, l’imam fai-da-te tunisino, Firas Barhoumi, ha


radicalizzato il macedone Vulnet Maqelara, con esperienza di guerriglia in
Kosovo e di criminalità comune, pronto a unirsi al jihad in Iraq, dove il suo
mentore si era recato dopo la scarcerazione. Tra i casi di italiani convertiti e
radicalizzati in carcere, un centinaio, il più eclatante è stato finora quello di
Domenico Quaranta, passato nelle file del jihad nel penitenziario di Trapani e
arrestato nuovamente per la preparazione di attacchi terroristici ad Agrigento
e nella metropolitana di Milano. Quaranta si è poi affermato come imam fai-
da-te all’Ucciardone di Palermo.

La radicalizzazione in carcere e la gestione di detenuti estremisti o a rischio


è, pertanto, una questione che investe pienamente la sicurezza nazionale e
che richiede un nuovo approccio per superare le carenze sin qui manifestate.

143
Secondo i dati ufficiali del Ministero della Giustizia, aggiornati al 28
febbraio 2019, i detenuti stranieri, già condannanti o in attesa di giudizio,
rappresentano un terzo del totale: 20.325 su 60.348. Significa che più di un
detenuto su cinque può essere di fede musulmana, come stimato in un
recente studio dell’ISPI (F. Marone, La radicalizzazione jihadista in carcere: un
rischio anche per l’Italia, 7 marzo 2019), dove sono riportati anche i dati forniti
dal Ministero della Giustizia nella sua relazione del 2018 sul numero dei
detenuti praticanti, che ammonta a 7.169. Tra questi, 97 sono gli imam che
conducono la preghiera, 88 quelli definiti come “promotori”, in quanto
portavoce delle esigenze e delle rivendicazioni di altri detenuti, 44 i convertiti
durante il periodo di detenzione.

I paesi musulmani con un numero maggiore di detenuti sono Marocco


(3.762 detenuti) e Tunisia (2.047), seguiti da Albania (2.594), Nigeria (1.588),
Egitto (586), Algeria (482), Pakistan (286), Bosnia (213), Afghanistan (88),
Kosovo (83). Si tratta di paesi notoriamente afflitti da fenomeni terroristici
interni o da cui i gruppi jihadisti traggono militanti in Europa. Al riguardo,
crescente preoccupazione è stata di recente espressa dalla Direzione
Investigativa Antimafia (DIA) per i legami tra la cosiddetta “mafia nigeriana”
in Italia e organizzazioni terroristiche attive in Nigeria come Boko Haram. La
DIA ha inoltre invocato la massima attenzione da rivolgere agli istituti
penitenziari “per evitare che si alimenti la radicalizzazione”.

Sempre secondo il Ministero della Giustizia, sono 66 i detenuti già


condannanti o in attesa di giudizio per reati riconducibili al “terrorismo
internazionale di matrice islamica”, il “10% in più rispetto allo stesso periodo
dell’anno precedente”. Al contempo, come osserva lo studio dell’ISPI, i 478
soggetti sottoposti ai vari livelli del regime di Alta Sicurezza (alto, medio,
basso) per rischio di radicalizzazione jihadista provengono principalmente
da Tunisia (27,70%), Marocco (26,07%) Egitto (5,91%) e Algeria (4,68%). D’altro
canto, la radicalizzazione può avvenire anche nei circuiti comuni, dove
detenuti estremisti arrestati per reati minori possono adescare agevolmente
compagni di cella e di detenzione, indottrinandoli fino al reclutamento in
gruppi jihadisti.

La crescente rilevanza del fenomeno in Italia è inoltre dimostrato dal


numero delle espulsioni. Se nel 2017, il Ministero della Giustizia ha calcolato
che su un totale di 105 stranieri espulsi, 29 provenivano dal regime di Alta
Sicurezza (espulsi subito dopo la scarcerazione), questo numero nel 2018 è
salito a 48 su 126. Misure volte a rafforzare la sorveglianza, il controllo e la

144
prevenzione sono state adottate dal Dipartimento dell’Amministrazione
Penitenziaria (DAP) del Ministero della Giustizia, ma non sembrano sufficienti
a fornire alla Polizia Penitenziaria gli strumenti adeguati né a gestire
efficacemente i detenuti estremisti né ad affrontare il fenomeno della
radicalizzazione in carcere.

Al contrario, l’introduzione della “vigilanza dinamica” e del “regime


penitenziario aperto”, come denunciato ripetutamente dal Sindacato
Autonomo Polizia Penitenziaria (SAPPE), favorisce il proselitismo e la diffusione
del fondamentalismo in carcere. Come se non bastasse, gli interventi a
sostegno del personale penitenziario, nonché le iniziative di rieducazione e
reintegrazione dei detenuti, sono state affidate agli imam “certificati”
dell’Unione delle Comunità Islamiche in Italia (UCOII), l’appendice in territorio
italiano dei Fratelli Musulmani, l’organizzazione transnazionale islamista dalla
cui ideologia ha preso le mosse l’intero movimento jihadista contemporaneo,
da Al Qaeda all’ISIS.

3.1 - Il Fallimento della “Vigilanza Dinamica” e del “Regime Penitenziario


Aperto”

Lo smantellamento delle politiche di sicurezza carceraria, in nome della


“vigilanza dinamica” e del “regime penitenziario aperto”, ha avuto come
grave conseguenza l’incremento esponenziale degli “episodi critici” nelle
prigioni di tutta Italia. Il SAPPE ha fornito le seguenti cifre riguardanti il primo
semestre del 2019: 5.205 atti di autolesionismo, 683 tentati suicidi, 4.389
colluttazioni, 569 ferimenti, 22 suicidi, 2 tentati omicidi, più diversi casi di
evasione (5 da istituto, 23 da permessi premio, 6 da lavoro all’esterno, 10 da
semilibertà, 18 da licenze concesse a internati). Tra gli “episodi critici” registrati,
anche quelli causati da detenuti estremisti, con il ferimento di agenti, la
distruzione di celle e atti d’intemperanza, come quelli avvenuti nella Casa
Circondariale “Giovanni Bachiddu” di Bancali, provincia di Sassari.

La situazione di emergenza del carcere di Bancali è giunta a un punto tale


da indurre gli agenti aderenti al SAPPE a non partecipare per protesta alla
Cerimonia celebrativa dell’Annuale del Corpo, svoltasi giovedì 1° agosto. Da
anni, il SAPPE richiede la sospensione della “vigilanza dinamica” e del “regime
penitenziario aperto”, a causa dell’oggettivo peggioramento delle condizioni
nelle quali la Polizia Penitenziaria si trova a svolgere il proprio lavoro, specie
nel settore riservato ai soli detenuti per reati di terrorismo. Il numero di sentinelle

145
sui muri di cinta delle carceri è stato ridotto, mentre i controlli sui detenuti,
autorizzati a passare fuori dalla cella tra le 8 e le 10 ore giornaliere, sono
sporadici e occasionali, con il conseguente incremento degli “episodi critici”
e della possibilità per i detenuti estremisti di fare proselitismo e radicalizzare.

Pertanto, è in un quadro favorevole per la radicalizzazione jihadista che


nella Casa Circondariale “Giovanni Bachiddu”, Hafiz Muhammad Zulkifal
Zulkifal, pakistano ed ex imam di Zingonia, provincia di Bergamo, può
continuare a predicare e a guidare la preghiera di soggetti come Nabil
Benamir, marocchino arrestato alla fine del 2017 con l’accusa di appartenere
all’ISIS e protagonista di un paio di rivolte con altri suoi sodali in nome del
Califfato.

“Impedire il proselitismo e la diffusione del radicalismo nelle carceri


sospendendo il provvedimento in atto della vigilanza dinamica”: il SAPPE lo
richiede dal 2015. Secondo il Segretario Generale, Danilo Capece, “non è
infatti un caso la radicalizzazione di molti criminali comuni, specialmente di
origine nordafricana, che pure non avevano manifestato nessuna particolare
inclinazione religiosa al momento dell’entrata in carcere, che si sono
trasformati gradualmente in estremisti sotto l’influenza di altri detenuti già
radicalizzati. Per impedire tutto ciò è necessario sospendere il sistema della
vigilanza dinamica, introdotto nelle carceri dal Dipartimento
dell’Amministrazione Penitenziaria, che consente ai detenuti di stare molte
ore al giorno fuori dalle celle, mischiati tra loro, senza fare nulla e con controlli
sporadici ed occasionali della Polizia Penitenziaria”.

È questa materia per i ministri dell’Interno e della Giustizia, il cui intervento


finora è venuto a mancare nonostante i continui appelli di Capece: “Il
problema principale della radicalizzazione in carcere è che un determinato
individuo entra in carcere per reati comuni e ne esce radicale, senza che il
sistema di sicurezza esterno si renda conto di cosa è accaduto in carcere,
quali rapporti ha costruito, su quali si è basato e, soprattutto, dove è finito
dopo il fine pena. E la vigilanza dinamica e il regime penitenziario aperto
nelle carceri, che consentono la promiscuità tra i detenuti senza controlli
della Polizia Penitenziaria, sono provvedimenti che dovrebbero essere sospesi
in via precauzionale proprio per i rischi congeniti che essi comportano”.

Il Governo in carica aveva promesso una riforma dell’ordinamento


penitenziario che avrebbe introdotto severe restrizioni alla “vigilanza
dinamica” e al “regime penitenziario aperto”, con un piano di nuove

146
assunzioni volto a garantire maggiore sicurezza per la Polizia Penitenziaria.
Ma il “cambiamento” tarda ad arrivare.

3.2 - Il Paradosso Italiano: De-Radicalizzazione affidata ai Fratelli


Musulmani

Un “cambiamento” si rende quanto mai necessario anche sul versante


dei programmi di prevenzione della radicalizzazione in carcere e dell’assistenza
al personale della Polizia Penitenziaria, poiché la scelta effettuata dal
Ministero della Giustizia e dal DAP di affidarsi all’UCOII risulta a dir poco
autolesionistica e paradossale.

La recente uscita del libro inchiesta Qatar Papers ha confermato il ruolo


dell’UCOII quale veicolo dell’ideologia e della dottrina dei Fratelli Musulmani
in Italia, nel quadro del più ampio disegno di espansione islamista in Europa
finanziato dal Qatar. Nel solo biennio 2013-2014, l’UCOII ha ricevuto dalla
Qatar Charity 50 milioni di euro per progetti da realizzare in tutto il territorio
italiano, che perseguono evidenti obiettivi di proselitismo come certificato
senza tema di smentita dalla documentazione pubblicata in Qatar Papers.
L’UCOII non ha potuto negare di aver beneficiato dei finanziamenti dalla
Qatar Charity, sebbene “l’acquisto di capannoni” come giustificativo delle
decine di milioni ricevuti contrasta platealmente con la realtà dei fatti, stando
alla quale le donazioni provenienti da Doha sono state investite in nuove
moschee e centri culturali volti alla propagazione del fondamentalismo della
Fratellanza dalla Lombardia alla Sicilia.

Lo scandalo Qatar Papers, dovrebbe indurre i ministeri interessati a


urgente ripensamento della loro collaborazione con l’UCOII per affidare a
organizzazioni autenticamente moderate il compito di coadiuvare la Polizia
Penitenziaria nella gestione dei detenuti di religione islamica. Gli imam
“certificati” e i mediatori interculturali, uomini e donne, disseminati dall’UCOII
nel sistema carcerario italiano possono rivelarsi efficaci nel diminuire il rischio
che dall’estremismo il soggetto passi all’azione violenta e terroristica, ma non
a contrastare la diffusione dell’estremismo in quanto tale.

L’assunzione da parte dell’UCOII, su gentile concessione dello Stato


italiano, della responsabilità di condurre le attività di culto e di fornire
assistenza spirituale e psicologica non va infatti a intaccare le basi del
pensiero fondamentalista da cui prende le mosse il jihadismo, ma serve bensì
a trasmettere ai detenuti la convinzione che da parte dell’Islam “la conquista

147
di Roma, la conquista dell’Italia e dell’Europa” avverrà “senza ricorrere alla
spada”, ma “attraverso la predicazione e le idee”, come dichiarato su Al
Jazeera dal leader mondiale indiscusso dei Fratelli Musulmani, il venerando
Sheikh Yussef Al Qaradawi, che si è speso personalmente affinché la Qatar
Chairty finanziasse realtà associative legate all’UCOII come dimostrato in
Qatar Papers.

Quella dell’UCOII ai detenuti radicalizzati non è altro che un’infusione di


pazienza, effettuata attraverso il pretesto di contrastare “il fenomeno della
vittimizzazione”, dovuto alla percezione, reale o meno, di essere discriminati
perché musulmani, sostituendo “il risentimento per la propria condizione con
un momento di riflessione morale e di speranza attraverso il perdono”, come
spiega la stessa UCOII sul proprio sito internet. In sostanza, perdonare
l’infedele, ovvero lo Stato e la società italiana che ancorano non abbracciano
la fede musulmana, per far sì che la rabbia (legittima) del detenuto non sfoci
nel jihadismo.

Tale approccio è consapevolmente accettato dal DAP? L’attività degli


imam e dei mediatori interculturali dell’UCOII si svolge in lingua araba: che
provvedimenti sono stati presi per rispondere alle critiche mosse dall’Istituto
Studi Penitenziari, che ha lamentato “l’impossibilità per gli operatori di
comprendere che cosa effettivamente essi [i detenuti musulmani e gli inviati
dell’UCOII] si dicano durante i momenti di preghiera collettiva”, quando
vengono recitati i sermoni o si tengono colloqui? Non è arrivato il momento
del “cambiamento” anche per il Ministero dell’Interno e per il Ministero della
Giustizia, ricorrendo a interlocutori la cui non appartenenza ai Fratelli
Musulmani sia pienamente “certificata”?

4. DE-RADICALIZZAZIONE IN CARCERE: SÌ A UN PIANO NAZIONALE MA


SENZA I FRATELLI MUSULMANI

La necessità d’introdurre misure più efficaci per vincere la sfida della


radicalizzazione nelle carceri è stata sottolineata dal Parlamento Europeo
nella Risoluzione approvata il 12 dicembre 2018, sulla base delle conclusioni
e delle raccomandazioni contenute nel rapporto elaborato dalla
Commissione Speciale sul Terrorismo creata a Bruxelles. Tale necessità è stata
ribadita il 16 maggio scorso dal Consiglio Europeo, che ha fornito agli Stati
membri dell’UE le linee guida da seguire per l’implementazione di una
strategia coerente “sulla prevenzione e la lotta alla radicalizzazione nelle

148
carceri e sulla gestione degli autori di reati di terrorismo ed estremismo
violento dopo la scarcerazione”.

L’Italia ha già messo in atto una parte delle indicazioni emanate dal
Consiglio. Per colmare la distanza tra le misure effettivamente adottate e
quelle indicate, il prossimo passo deve essere l’approvazione di una legge
che definisca l’insieme di provvedimenti da attuare in maniera strutturata
contro il fenomeno della radicalizzazione in carcere. Il tentativo effettuato
nella scorsa legislatura si è infatti arenato in Senato dopo l’approvazione alla
Camera. L’attuale Parlamento ha così l’opportunità, e la responsabilità, di
dotare il Paese di un “piano nazionale per la rieducazione e la de-
radicalizzazione”, che recepisca tutte le direttive emanate dal Consiglio,
nell’ambito di una più ampia strategia di prevenzione della radicalizzazione e
dell’estremismo jihadista.

L’Italia, in particolare, è chiamata a realizzare “programmi di de-


radicalizzazione, disimpegno e riabilitazione”, rivolti a quei detenuti che
hanno dato segnali di radicalizzazione non avanzata e che possono essere
recuperati anche in vista di un loro reinserimento in società dopo la
scarcerazione. Maggiori investimenti, inoltre, devono essere riservati al settore
della formazione sia per “i professionisti e gli operatori rilevanti (personale
penitenziario, funzionari di sorveglianza [...], magistratura, ecc.)”, che per i
“rappresentanti religiosi”, a cui potrebbe essere fornito un sostegno, per
esempio una formazione specialistica, che si incentri sulla comunicazione
costruttiva e le narrazioni alternative”.

La questione principale da dirimere per l’Italia resta proprio quella dei


“rappresentanti religiosi”. Ad essi, il Consiglio attribuisce una grande rilevanza,
poiché “svolgono un ruolo primario nel presentare una narrazione alternativa
alle ideologie religiose violente. Sono in grado di comprendere e, se
necessario, contrastare la concezione del mondo e le interpretazioni
teologiche dei terroristi e degli estremisti violenti”. Di conseguenza, “per evitare
ogni rischio di ulteriore radicalizzazione dei detenuti, i rappresentanti religiosi
che interagiscono con loro [...] potrebbero essere sottoposti prima della
nomina a un’indagine di sicurezza approfondita e a una procedura di
selezione”.

Sulla base di quali criteri, allora, l’assistenza spirituale e psicologica dei


detenuti musulmani in Italia è stata affidata all’UCOII? Il Consiglio incoraggia
“partenariati con volontari o altri organismi non governativi”, in modo che

149
questi contribuiscano alla “de-radicalizzazione e al disimpegno dei detenuti
prestando loro sostegno”. Imam, teologi, esperti e mediatori interculturali
autenticamente moderati potrebbero facilmente essere forniti da altre realtà
associative all’interno della comunità islamica italiana. Perché, invece di
rivolgersi a loro, le istituzioni competenti continuano a dare credito a
un’organizzazione i cui addentellati con il fondamentalismo sono conclamati?

L’ipotesi che in Italia venga stabilita l’Agenzia europea per la prevenzione


della radicalizzazione e la de-radicalizzazione, rende urgente l’approvazione
da parte del Parlamento di una strategia adeguata e di un “piano nazionale”
per il sistema carcerario, che accolga anche le rivendicazioni del SAPPE per
la sospensione, se non abolizione della “vigilanza dinamica” e del “regime
penitenziario aperto”. L’Italia ha le carte in regola per poter assumere un ruolo
di leadership, ma rebus sic stantibus il rischio è quello di spianare la strada a
livello continentale all’avanzata dell’agenda islamista dei Fratelli Musulmani
in un settore d’importanza cruciale, mettendo a repentaglio sia la sicurezza
nazionale che quella europea. Il “cambiamento” è ancora possibile, cosa
impedisce di realizzarlo?

Centro Alti Studi “Averroè”

150
IL QATAR E I FINANZIAMENTI
AL PROSELITISMO DEI FRATELLI
MUSULMANI IN ITALIA

di Souad Sbai

L’uscita del libro inchiesta Qatar Papers. Come l’emirato finanzia l’Islam
di Francia e d’Europa (Lafon, 2019) è un evento spartiacque nell’ambito
della lotta al terrorismo e al fenomeno della radicalizzazione in Europa. Gli
autori, i due giornalisti francesi Christian Chesnot e Georges Malbrunot,
hanno gettato luce sul sistema di finanziamenti milionari della “Qatar
Charity” a moschee, associazioni e militanti dei Fratelli Musulmani in tutto il
continente, allo scopo di trasformare i fedeli di religione islamica in militanti
fondamentalisti. Nella documentazione fornita da Qatar Papers, il paese
che risulta essere il principale destinatario dei fondi provenienti da Doha è
l’Italia: segno della sua centralità nel “progetto” del Qatar e dei Fratelli
Musulmani, volto a far avanzare l’agenda fondamentalista in territorio
europeo e nel resto dell’Occidente. Come supporto informativo e di analisi
rivolto alle istituzioni, al mondo della politica e agli addetti ai lavori, questo
report prende pertanto in esame il ruolo della “Qatar Charity” nel
finanziamento in Italia di realtà associative riconducibili ai Fratelli Musulmani,
illustrandone le finalità di tipo proselitistico. Inoltre, viene descritta la
crescente influenza in Italia dei Fratelli Musulmani in ambito politico, sociale
e culturale, con l’indicazione di una serie di proposte d’intervento e misure
di contrasto. Cenni storici introduttivi delineano il contesto internazionale in
cui s’inseriscono i finanziamenti del Qatar ai Fratelli Musulmani in Italia.

1. IL VERO VOLTO DEL QATAR E DEI FRATELLI MUSULMANI

Perché il Qatar finanzia il fondamentalismo dei Fratelli Musulmani? La


risposta sta nelle ambizioni degli emiri che occupano il trono di Doha.
L’anno della svolta è il 1995, quando con un colpo di stato Hamad Al Thani
riesce a spodestare il padre Khalifa e a porsi alla guida del piccolo stato.
Forte degli ingenti proventi dell’industria energetica (gas e petrolio), Hamad
punta al conseguimento per il Qatar del rango di potenza globale, a

151
cominciare dall’acquisizione dell’egemonia in Medio Oriente. A tal fine,
Hamad fa affidamento su due caposaldi: l’emittente televisiva Al Jazeera,
fondata nel 1996, e i Fratelli Musulmani, che saranno entrambi i protagonisti
di quella passata impropriamente alla storia come “Primavera Araba”.

Le ambizioni di Hamad si sposano perfettamente con il “progetto” della


Fratellanza, decisa a sfruttare l’opera di penetrazione compiuta nell’arco di
decenni all’interno del tessuto religioso, sociale, culturale, politico ed
economico dei paesi di Mashrek, Maghreb e Golfo per prendere il potere e
stabilire in tutta l’area dittature fondamentaliste come piattaforma per
l’espansione globale, in particolare verso l’Occidente. Le rivolte scoppiate
nel 2011 erano finalizzate a portare la Fratellanza al governo di Egitto, Tunisia,
Libia, Siria, innescando un effetto domino che avrebbe dovuto travolgere
l’intero Medio Oriente e proiettare l’emiro del Qatar all’apice di un nuovo
Califfato, l’obiettivo supremo dei Fratelli Musulmani.

L’idea del Califfato è stata rilanciata ufficialmente dall’ISIS, ma appartiene


da sempre all’immaginario dei Fratelli Musulmani: dalla loro fondazione nel
1928 avvenuta con Hassan Al Banna in Egitto, alla divulgazione degli scritti
dell’ideologo Said Qutb, fino alla tele-predicazione dal pulpito di Al Jazeera
dello sheikh del terrore, Youssef Al Qaradawi, l’attuale leader della Fratellanza
a livello mondiale, venerato alla corte del clan Al Thani. Sono questi i cattivi
maestri che con la loro nefasta influenza hanno radicalizzato intere
generazioni di imam, accademici, professionisti, studenti, comuni cittadini,
nuclei familiari, donne e giovani nel mondo arabo-musulmano, elaborando
le dottrine e le narrative da cui ha preso le mosse il terrorismo jihadista
contemporaneo, da Al Qaeda all’ISIS.

L’ISIS è stato perciò la punta di lancia del gelido inverno islamista che i
Fratelli Musulmani intendevano inaugurare in tutta la regione, con la spinta
economica, politica e mediatica del Qatar. La propaganda della versione
in lingua inglese di Al Jazeera si è rivelata indispensabile a far sì che dei
rovesciamenti di regime venissero interpretati in Occidente come rivoluzioni
democratiche, mentre Al Jazeera in lingua araba trasmetteva i sermoni
incendiari, a sostegno persino di attentati suicidi, pronunciati da Al
Qaradawi. Dopo i fallimenti delle rivolte in Egitto, Siria e Libia e gli ostacoli
incontrati nella corsa al potere in Tunisia, la concretizzazione del “progetto”
comune del Qatar e dei Fratelli Musulmani subisce una brusca battuta
d’arresto, ma le loro ambizioni di conquista restano immutate.

152
Il passaggio di consegne avvenuto nel 2013 da Hamad Al Thani al figlio
Tamim, l’attuale emiro, non ha prodotto cambiamenti di linea, perché Doha
ha continuato e continua ancora oggi a interferire negli affari interni dei
paesi vicini e a supportare i Fratelli Musulmani. Inoltre, ha intensificato le
relazioni con la Turchia di Erdogan e l’Iran khomeinista, con cui ha dato vita
a un nuovo polo dell’islamismo, cementatosi grazie all’ideologia dei Fratelli
Musulmani, di cui il regime di Teheran rappresenta la versione sciita. Ciò ha
spinto il Quartetto arabo contro il terrorismo (Emirati Arabi Uniti, Arabia
Saudita, Egitto e Bahrein) a reagire. Di qui, la rottura delle relazioni
diplomatiche con Doha, il lancio dell’embargo nei suoi confronti nel giugno
2017 e la designazione dei Fratelli Musulmani come organizzazione
terroristica.

D’altro canto, malgrado le sollecitazioni del Quartetto, l’Occidente non


ha preso una posizione netta contro le politiche del Qatar, mantenendo
un’equidistanza che ha consentito agli emiri Al Thani di sostenere finora il
peso dell’embargo. I giganteschi investimenti effettuati in Europa e negli
Stati Uniti impediscono infatti a quest’ultimi di riservare a Doha il trattamento
da “stato canaglia” che meriterebbe, sia perché costituisce insieme a Iran
e Turchia il principale fattore di destabilizzazione e d’insicurezza nella
regione, che per il sostegno finanziario al fondamentalismo dei Fratelli
Musulmani nello stesso Occidente, Italia compresa.

2. QATAR PAPERS: COME DOHA FINANZIA IL “PROGETTO” DEI FRATELLI


MUSULMANI IN ITALIA

L’esistenza di un “progetto” volto a far avanzare l’agenda dei Fratelli


Musulmani anche in Occidente era già stata ampiamente denunciata nel
2005 dal giornalista franco-svizzero Sylvain Besson in La Conquête de
L’occident: Le Projet Secret des Islamistes, seguito più recentemente dal mio
ultimo libro I Fratelli Musulmani e la conquista dell’Occidente. Da Istanbul a
Doha, la linea rossa del jihad (Armando Curcio Editore, 2018). La
pubblicazione di Qatar Papers è giunta a complementare questi due
volumi, poiché descrive in dettaglio la fase d’implementazione del
“progetto”, resa possibile dalle enormi risorse economiche di cui dispone la
“Qatar Charity”, il presunto braccio caritatevole degli emiri Al Thani.

Nata nel 1992, l’organizzazione dovrebbe limitarsi a servire i suoi scopi


statutari: offrire supporto a comunità e gruppi che hanno bisogno di

153
assistenza umanitaria e sociale. Ma i documenti interni e confidenziali
pubblicati da Chesnot e Malbrunot, hanno rivelato ben altro, ovvero come
Doha si sia servita della “Qatar Charity” per finanziare moschee, associazioni,
centri culturali, case editrici e istituti scolastici legati ai Fratelli Musulmani in
Francia, Italia, Germania, Svizzera, Gran Bretagna e Balcani. L’inchiesta dei
due giornalisti riguarda il biennio 2013 e 2014, durante il quale erano ben
140 i progetti in corso, per un valore di centinaia di migliaia di euro. Nel libro,
sono riportati i testi integrali di corrispondenze dove gli stessi esponenti della
“Qatar Charity” fanno menzione delle somme elargite. E se anche questo
dovesse non bastare a convincere gli scettici, vengono pubblicate le
evidenze di pagamento.

Le pagine di Qatar Papers descrivono paese per paese le principali


iniziative finanziate dalla “Qatar Charity”, dedicando un più ampio spazio al
caso francese. Ma ad assumere una particolare rilevanza è il capitolo
sull’Italia, il paese per il quale nel biennio in questione risulta stanziato il
maggior numero di fondi: oltre 50 milioni di euro per un totale di 45 progetti,
volti alla realizzazione del “progetto” fondamentale dei Fratelli Musulmani,
quello di conquista. Il tutto confermato da email, copie dei versamenti
bancari e dalle ammissioni dei diretti interessati, intervistati da Chesnot e
Malbrunot nel corso del lavoro d’inchiesta da nord a sud della penisola.

A sottolineare la centralità dell’Italia nei piani del Qatar e dei Fratelli


Musulmani, lo spiega senza giri di parole Al Qaradawi in persona, di cui
vengono trascritte le parole esatte pronunciate dai teleschermi di Al Jazeera
nel 2007: “La conquista di Roma, la conquista dell’Italia e dell’Europa,
significa che l’Islam tornerà in Europa ancora una volta. [...] La conquista si
farà con la guerra? No, non è necessario. C’è una conquista pacifica [e]
prevedo che l’Islam tornerà in Europa senza ricorrere alla spada. [La
conquista] si farà attraverso la predicazione e le idee”.

Tali dichiarazioni sono ancor più inquietanti poiché corrispondono a


quel che accade oggi senza che il Qatar e i Fratelli Musulmani incontrino
ostacolo alcuno. In Italia, la strategia del “doppio binario” adottata
dall’alleanza islamista si è rivelata particolarmente efficace. In cambio dei
massicci investimenti della “Qatar Investment Authority” in ogni settore
dell’economia, Doha ha ottenuto il via libera al finanziamento delle attività
di proselitismo fondamentalista della Fratellanza in tutto il paese attraverso
la “Qatar Charity”.

154
A beneficiare maggiormente delle donazioni provenienti
dall’organizzazione sono state le numerose associazioni che fanno capo
all’Unione delle Comunità Islamiche in Italia (UCOII), vale a dire ai Fratelli
Musulmani basati e radicati in territorio italiano. Persino l’ex presidente
dell’UCOII e imam di Firenze, Izzeddin Elzir, ha ammesso di fronte all’incalzare
degli autori di Qatar Papers che la “Qatar Charity” è il grande banchiere dei
Fratelli Musulmani in Italia. Grande attenzione è riservata al nord del Paese.
Torino, Verona, Brescia, Vicenza, Lecco, Saronno, Piacenza, Alessandria,
Mirandola: centinaia di migliaia di euro piovuti su ogni città, diretti nelle
casse di enti affiliati all’UCOII. Una menzione particolare merita il caso di
Milano. Con una lettera di raccomandazione risalente al 2015, Al Qaradawi
sollecitava la “Qatar Charity” a offrire supporto finanziario al CAIM, il
Coordinamento Associazioni Islamiche di Milano e Monza e Brianza, gestito
da David Piccardo, figlio di Hamza, tra i fondatori dell’UCOII.

Non tutte le operazioni congegnate dalla “Qatar Charity” e dall’UCOII


nel milanese sono andate però a buon fine. Lo stop alla costruzione della
moschea di Sesto San Giovanni, cittadina di 80 mila abitanti, brucia ancora
ai Fratelli Musulmani e sono valse da parte di Elzir l’epiteto derogativo di
“populista” al sindaco leghista Roberto Di Stefano. La colpa di Di Stefano è
stata quella di aver posto il veto alla realizzazione di un progetto rispondente
a chiare ambizioni di proselitismo fondamentalista, che le precedenti giunte
di sinistra avevano avallato.

Lo stanziamento di 10 milioni di euro, con un contributo della “Qatar


Charity” pari a 1 milione e 200 mila euro, mirava alla costruzione su un’area
di 5.200 metri quadrati di un mega-complesso a tre piani comprendente,
oltre alla moschea, un centro culturale, una biblioteca e un centro per
bambini: un polo d’attrazione con una capienza di 1.200 persone, la cui
prima pietra avrebbe dovuta essere posta in corrispondenza
dell’inaugurazione dell’Expo di Milano.

Intervistato da Chesnot e Malbrunot, Di Stefano ha ribadito la sua


contrarietà a un progetto sovradimensionato rispetto alle reali esigenze di
Sesto San Giovanni, nonché controproducente per l’integrazione dei
musulmani residenti nella zona. Ma è appunto la non-integrazione l’obiettivo
dei Fratelli Musulmani, che puntano a mantenere le comunità islamiche in
Italia e nel resto d’Europa in uno stato di contrapposizione con le società dei
paesi in cui risiedono. Il fatto che sul sito dell’associazione promotrice della
costruzione della moschea fosse esplicitato che una quota dei finanziamenti

155
sarebbe giunta dal Qatar, ha convinto definitivamente il sindaco di Sesto
San Giovanni a bloccare il progetto, temendo che i fondi venissero utilizzati
per attività sospette, come quelle d’indottrinamento e radicalizzazione. Alla
richiesta di presentare i bilanci avanzata da Di Stefano, l’associazione non
ha mai risposto.

Altro episodio significativo in cui le ambizioni in Lombardia di Doha e dei


Fratelli Musulmani sono rimaste frustrate riguarda Bergamo, dove la “Qatar
Charity” sembra essere incorsa in una truffa. Talmente grande era
l’entusiasmo per l’edificazione di un centro culturale che avrebbe dovuto
essere il “faro dell’Islam in Italia”, che tra il 2013 e il 2014 da Doha sono giunti
ben 5 milioni di euro, nelle casse di un’associazione islamica locale, in sette
rate. Tuttavia, la “Qatar Charity” ha poi scoperto che l’ingente finanziamento
sarebbe stato utilizzato per altri scopi che spetta al giudice identificare
nell’ambito del processo attualmente in corso. L’UCOII si è dichiarata parte
lesa, ma lo è davvero? L’amarezza della “Qatar Charity” è espressa in
maniera evidente nella lettera che il Direttore Esecutivo, Youssef Al Kuwari,
ha indirizzato a Imad El Joulani, il presunto autore della frode, pubblicata in
Qatar Papers.

Finora nessuna delusione invece dall’Italia meridionale, dove l’attenzione


della “Qatar Charity”, pur non trascurando Campania, Puglia e Sardegna,
è concentrata soprattutto sulla Sicilia. Gli investimenti di natura religiosa
nell’isola servono a far rivivere i 472 anni della dominazione arabo-
musulmana, “durante i quali la regione ha conosciuto sicurezza, stabilità e
lo sviluppo di tutte le scienze umane”, come recita la brochure nella quale
la “Qatar Charity” presenta il nuovo centro culturale islamico di Messina
finanziato per 457 milioni di euro. Far rivivere questo passato mitico serve a
promuovere il proselitismo dei Fratelli Musulmani in Sicilia finalizzato alla
conversione.

In tal senso, il testo tratto da un’altra brochure della “Qatar Charity” è


inequivocabile: “I progetti della QC in Sicilia mirano a radicare la cultura
islamica nell’isola e a far conoscere il vero volto dell’Islam a tutti coloro che
sono interessati in questa religione e che ad essa vorrebbero convertirsi. È
per questa ragione che la Qatar Charity costruisce centri islamici
polifunzionali”.

Il partner principale della “Qatar Charity” nell’isola è il Centro Culturale


Islamico di Sicilia, anch’esso affiliato all’UCOII. Per la realizzazione della

156
Moschea della Misercordia, nel cuore di Catania, la “Qatar Charity” ha
donato 1.7 milioni di euro (il costo totale dell’opera è stato di 2.3 milioni). Alla
sua inaugurazione nel 2012, sono intervenuti il numero uno dell’organizzazione,
il cosiddetto Supervisore Generale, Sheikh Ahmad Al Hammadi, e il Direttore
Esecutivo Al Kuwari, insieme al sindaco della città, al prefetto e ad altri
notabili siciliani.

Per quanto riguarda Roma, Qatar Papers richiama l’attenzione sulla


moschea Al Huda nel quartiere di Centocelle, inaugurata nel 2015 e con
una capienza di oltre mille persone, seconda solo a quella della Grande
Moschea di Roma con cui è in aperta competizione. Si tratta di un complesso
di 4 piani che oltre alla moschea ospita un centro culturale, una sala
conferenze, una biblioteca e una ludoteca aperta a tutta la comunità del
quartiere, spazi espositivi e aule per lo svolgimento di corsi di cultura
islamica. Il contributo della “Qatar Charity” alla realizzazione di Al Huda è
stato di 4 milioni, per un costo complessivo di 5.7 milioni di euro.

Nella documentazione raccolta da Christian Chesnot e Georges


Malbrunot, è certificato che “la Qatar Charity ha reso la comunità
musulmana dell’Italia, composta da 1.8 milioni di persone su 60 milioni di
cittadini, il primo beneficiario dei suoi investimenti in Europa”. I due giornalisti
hanno allora chiesto all’ex Ministro dell’Interno e Sottosegretario alla
Presidenza del Consiglio con delega ai servizi d’informazione, Marco Minniti,
in carica nel 2013 e nel 2014, come le autorità abbiano potuto lasciare che
il Qatar e i Fratelli Musulmani promuovessero liberamente la propria agenda
fondamentalista in Italia. “Il problema non è l’entità che finanzia, ma [...] la
trasparenza e la finalità [dei finanziamenti]”, ha risposto l’esponente del
Partito Democratico (PD).

In sostanza, per Minniti non costituisce un problema che il Qatar eroghi


finanziamenti volti alla diffusione dell’Islam fondamentalista e militante dei
Fratelli Musulmani in Italia, basta che lo faccia seguendo canali legali:
un’agevolazione per la “Qatar Charity”, che non deve quindi nemmeno
preoccuparsi di occultare l’ingente flusso di fondi destinati all’UCOII. Su
questi presupposti, non stupisce che l’UCOII abbia aderito al “Patto
nazionale per un Islam italiano” fortemente voluto da Minniti quando era al
Viminale, mentre si era rifiutata di firmare la “Carta dei Valori” emanata
dalla precedente Consulta per l’Islam italiano.

157
Messo sotto pressione dalle rivelazioni di Qatar Papers, il nuovo Presidente
dell’UCOII, Yassine Lafram, ha ammesso di aver ricevuto la somma di 25
milioni euro “per una trentina di progetti nel quadro di una collaborazione
iniziata nel 2013 e andata avanti per un paio di anni”. Tuttavia, come
comprovato da Qatar Papers, i finanziamenti ricevuti da associazioni legate
all’UCOII sono stati impiegati per progetti che hanno come finalità il
proselitismo e la conversione, non l’acquisizione di “33 capannoni in tutta
Italia da adibire a sale di preghiera a beneficio di comunità che sono
prevalentemente operaie”, come affermato da Lafram.

Per respingere le accuse di promuovere il fondamentalismo dei Fratelli


Musulmani, il Presidente dell’UCOII ha imbracciato l’arma dell’islamofobia,
utilizzata come clava per colpire chiunque osi denunciare le ambiguità che
caratterizzano la sua organizzazione: “Quando lo Stato italiano fa affari
miliardari sono tutte operazioni lecite, quando i musulmani in Italia ricevono
briciole magicamente si parla di islamizzazione, si cerca in qualche modo
di rappresentare la comunità islamica come una realtà assimilabile
all’estremismo”. Tuttavia, i 25 milioni di euro ricevuti dalla “Qatar Charity”,
non sono certo “briciole”. Inoltre, la documentazione contenuta in Qatar
Papers dimostra che le somme realmente ricevute sono ancora più cospicue
e che l’UCOII disponeva già di per sé di notevoli capacità di auto-
finanziamento. Si tratta di milioni di euro per ogni singolo progetto: da chi
sono stati donati?

3. L’ITALIA DEI FRATELLI MUSULMANI

Dopo l’uscita di Qatar Papers non è più possibile negare l’esistenza di un


progetto di conquista dell’Occidente da parte dell’Islam fondamentalista e
militante dei Fratelli Musulmani finanziati dal Qatar. È tutto scritto, dimostrato.
Eppure, i governi europei continuano a chiudere gli occhi e a lasciar fare,
senza prendere provvedimenti contro le centrali di propagazione
dell’estremismo che operano al suo interno in piena trasparenza, alla luce
del sole, come i luoghi di culto, le associazioni e i militanti dei Fratelli
Musulmani in Italia.

Come se non bastasse, all’indifferenza e all’immobilismo delle classi


dirigenti, va ad aggiungersi una vera e propria opera di fiancheggiamento
dei Fratelli Musulmani da parte di quelle forze che si definiscono progressiste,
un alleato fondamentale per l’avanzata dell’agenda fondamentalista. È

158
stato grazie al sostegno e alla legittimazione dei partiti politici e ambienti
culturali di sinistra che i Fratelli Musulmani hanno potuto stabilire la propria
egemonia sulle comunità islamiche in Occidente, rendendo possibile
persino l’ingresso di esponenti dell’organizzazione nelle istituzioni. In
particolare, il settore giovanile è un bacino da cui le forze progressiste
europee e nord-americane continuano a reclutare ambigui personaggi da
lanciare come leader politici, malgrado la loro malcelata affinità con
l’estremismo.

Tutto come previsto nel “progetto”, i cui contenuti sono stati illustrati da
Besson e nel mio ultimo libro. Tra i 25 punti che definiscono le linee guida per
la realizzazione dell’agenda per l’Occidente dei Fratelli Musulmani, un posto
di rilievo occupa infatti la formazione di alleanze con le varie anime del
mondo progressista. La sinistra del politically correct e del malinteso
multiculturalismo rappresenta per i Fratelli Musulmani la porta d’accesso a
partiti politici, università e centri di studio, media, organizzazioni non
governative, sindacati, da infiltrare e porre al servizio della causa islamista.
Da questo punto di vista, un caso di scuola è rappresentato dall’Italia, dove
alcuni recenti episodi confermano le relazioni pericolose del PD con
organizzazioni e militanti legati alla Fratellanza.

3.1 - Milano capitale dei Fratelli Musulmani

La sinistra milanese è in prima linea nell’offrire supporto ai Fratelli


Musulmani. Il sindaco PD, Giuseppe Sala, ha garantito alla Fratellanza
anzitutto potere politico, con l’elezione al Consiglio Comunale tra i ranghi
del suo partito di Sumaya Abdel Qader, affiliata al Forum Europeo delle
Donne Musulmane, braccio operativo della Fratellanza a Bruxelles. Sala
avrebbe voluto conferire ad Abdel Qader l’incarico di assessore alla cultura
e ha desistito solo di fronte alle polemiche scatenatesi su scala nazionale. Il
sindaco si è comunque prodigato per la regolarizzazione di moschee
abusive e per ottenere l’approvazione alla costruzione di nuovi luoghi di
culto in diverse zone della città, che l’opposizione teme verranno date in
gestione a realtà associative riconducibili ai Fratelli Musulmani.

Oltre all’espansione territoriale, Sala si è mostrato ben disposto a


concedere lo spazio pubblico ai militanti della Fratellanza milanese per lo
svolgimento di attività propagandistiche. Lo scorso 22 giugno, affiliati
appartenenti a diverse organizzazioni si sono radunati in Piazza Duca

159
D’Aosta, “in lutto per l’uccisione del presidente Mohamed Morsi”, morto in
realtà di ordinario infarto all’età di 67 anni durante un’udienza in un tribunale
del Cairo, dove era in corso uno dei numerosi processi che lo vedeva come
imputato.

Il maxi-raduno non aveva unicamente scopi commemorativi, ma si è


configurato in una maratona oratoria in cui al microfono si sono alternati
sedicenti imam e militanti, che nei loro interventi hanno esaltato la figura di
Morsi, il “primo presidente civile” nella storia dell’Egitto, un “martire” che ha
“lottato per uno stato civile costituzionale e per l’esercizio della vera
democrazia”. Nulla di più falso e manipolatorio, poiché Morsi condivideva
la stessa agenda fondamentalista di Al Qaradawi, con l’obiettivo d’imporla
attraverso gli strumenti della democrazia a tutti gli egiziani. Ma si tratta della
narrativa tipica dei Fratelli Musulmani, la stessa adottata da Al Jazeera,
Qatar e Turchia di Erdogan, a cui Sala ha offerto come palcoscenico una
delle principali piazze milanesi.

Milano capitale dei Fratelli Musulmani, dunque, isola felice dell’islamismo


arcobaleno di Sala e compagni. D’altro canto, Sala non è il solo primo
cittadino o esponente politico-istituzionale di sinistra a non fare mistero
della propria infatuazione per la Fratellanza. Il problema in Italia investe
persino il Quirinale, che malgrado le numerose sollecitazioni non ha
mostrato alcun ripensamento rispetto alla decisione di conferire
l’onorificenza di Cavaliere al Merito della Repubblica alla Sorella Musulmana,
Asmae Dachan, figlia del capostipite dei Fratelli Musulmani in Italia, Nour
Dachan, fondatore dell’UCOII, il satellite della “Qatar Charity” in Italia.

3.2 - Premiata o candidata perché velata

Mentre il mondo arabo continua a combattere per liberarsi dei Fratelli


Musulmani e della loro nefasta influenza politica, sociale, culturale e
religiosa, in Italia gli esponenti della Fratellanza ricevono non solo incarichi
politici grazie al sodalizio con il PD, ma anche premi e riconoscimenti dal
Capo dello Stato, già mostratosi particolarmente ossequioso verso il Qatar
nel corso della cena ospitata al Quirinale lo scorso 19 novembre in onore
dell’emiro Tamim Al Thani.

A proporre il conferimento ad Asmae Dachan, legata a doppio filo ai


Fratelli Musulmani, del titolo di Cavaliere al Merito dell’Ordine della
Repubblica è stato l’Ordine dei Giornalisti delle Marche, sostenuto dai

160
deputati marchigiani PD Mario Morgoni, Alessia Morani e Francesco
Verducci. Ma i presunti meriti giornalistici e di operatrice di pace della
giovane, vantati dai peroratori della nomina, servono volutamente a
oscurare la dimensione religiosa e culturale a cui la neo-Cavaliere
appartiene: quella dell’UCOII, fondata guarda caso ad Ancona nel 1990
dal padre di Asmae, Nour Dachan, membro del ramo siriano dei Fratelli
Musulmani.

Non dovrebbe stupire, pertanto, che le attività di reporter che hanno


conferito una qualche fama ad Asmae Dachan si siano svolte in zone della
Siria a suo tempo controllate da gruppi jihadisti, come il Fronte Al Nusra,
legato ad Al Qaeda e supportato da Qatar e Turchia. E neppure il fatto che
la giovane giornalista avrebbe avuto contatti con foreign fighters transitati
in Italia dalla Siria e con altri militanti estremisti.

Ciononostante, la benedizione del Quirinale all’ordinazione cavalleresca


della figlia d’arte su spinta del PD, conferma l’esistenza della cieca volontà
politica da parte della sinistra di elevare i Fratelli Musulmani a interlocutore
privilegiato, se non unico, dello Stato italiano in rappresentanza dell’intera
comunità islamica. Inoltre, segnala la compiacenza della sinistra nei
confronti degli obiettivi della Fratellanza, che punta a imporre figure come
Asmae Dachan quale modello di donna musulmana in Italia, principalmente
perché velata.

Il fenomeno delle forze di sinistra che accolgono nei loro ranghi e


promuovono l’immagine e la carriera di donne musulmane a condizione
che portino il velo è purtroppo comune a tutto l’Occidente. Basti pensare al
PD americano e a Ilhan Omar, la deputata del Congresso che fa sfoggio
dell’hijab e non fa mistero dei suoi addentellati fondamentalisti, tra i quali
figura il presidente turco Erdogan. In Italia, dopo la candidatura nel
Movimento 5 Stelle di Nasri Assiya al Consiglio Comunale di Montoro,
provincia di Avellino, il PD ha perso l’esclusiva del “velismo” in politica, che
aveva conquistato con Sumaya Abdel Qader.

Naturalmente, Nasri Assiya, giovane laureanda in matematica, ha fatto


del proprio capo coperto un simbolo di democrazia e libertà, sebbene ciò
non sia bastato a garantirle preferenze sufficienti ad essere eletta. Non
bisogna comunque dubitare della sua sincerità, che è frutto della
manipolazione ideologica, psicologica ed emotiva subita dal contesto
socio-culturale d’appartenenza, improntato alla dottrina dei Fratelli

161
Musulmani. Velata e felice insomma, anche se il velo è sottilmente utilizzato
per sancire la condizione di sottomissione della donna.

Con ciò non si vuole in alcun modo denigrare o delegittimare le donne


di religione islamica che lo indossano. Il problema è la politicizzazione
dell’indumento ed è quello che i Fratelli Musulmani continuano a
promuovere in Occidente grazie a partiti come PD e 5 Stelle, i quali,
consapevolmente o meno, si pongono al servizio dell’avanzata dell’agenda
fondamentalista dei Fratelli Musulmani in Italia finanziata dal Qatar.

4. UNA COMMISSIONE PARLAMENTARE D’INCHIESTA PER FERMARE IL


“PROGETTO” DEL QATAR E DEI FRATELLI MUSULMANI

In Italia, partendo da sinistra, il Qatar e i Fratelli Musulmani sono arrivati


a travolgere il sistema-paese nel suo complesso. Fare affari con il Qatar,
lasciando campo libero al proselitismo dei Fratelli Musulmani, non si è
rivelato un buon affare e liberarsi dal giogo islamista è ormai un’impellenza
per l’Italia. Come riuscire nell’impresa? Il primo passo significativo da
compiere è quello d’istituire una Commissione parlamentare d’inchiesta
che in collaborazione con la magistratura faccia luce sui finanziamenti del
Qatar ai Fratelli Musulmani in territorio italiano. In particolare, occorre
accertare scrupolosamente l’identità degli effettivi destinatari dei
finanziamenti elargiti dalla “Qatar Charity”, verificando che non vengano o
che non siano già stati utilizzati per attività d’indottrinamento e
radicalizzazione.

In tale ambito, la Commissione dovrebbe chiamare l’UCOII a fare


chiarezza sui restanti 25 milioni di euro che la “Qatar Charity” ha versato
nelle sue casse, smentendo se vi riesce la documentazione fornita da Qatar
Papers, che conferma il versamento di 50 milioni di euro nel biennio 2013-
2014. L’UCOII dovrebbe poi spiegare in che modo sono stati impiegati i 5
milioni di euro oggetto del processo in corso a Bergamo e di cui la “Qatar
Charity” ha chiesto la restituzione. La Commissione dovrebbe anche
indagare sulle donazioni ricevute dall’UCOII negli anni successivi a quelli
considerati da Qatar Papers. Dal 2015 a oggi, l’UCOII ha ricevuto nuovi
finanziamenti dalla “Qatar Charity”? Inoltre, oggetto d’indagine per la
Commissione dovrebbero essere i legami dell’UCOII con Al Qaradawi e le
numerose organizzazioni islamiste in Europa e Medio Oriente riconducibili,

162
direttamente o indirettamente, ai Fratelli Musulmani e supportate dal Qatar
e dalla Turchia di Erdogan.

La Commissione, nell’ambito della lotta al terrorismo jihadista, dovrebbe


promuovere l’adozione da parte del governo e delle procure di misure volte
a stroncare le attività di proselitismo dei Fratelli Musulmani, a cominciare
dal divieto per il Qatar di trasferire fondi in Italia e dall’introduzione di controlli
stringenti sui bilanci e le movimentazioni di denaro ad associazioni sospette.
I Fratelli Musulmani, infatti, occultano le donazioni che ricevono dall’estero
attraverso il rodato sistema dell’hawala, che si avvale d’intermediari basati
in territorio italiano apparentemente non legati al movimento, mentre con
lo stesso sistema contribuiscono al cosiddetto “jihad per procura”,
trasferendo somme a gruppi estremisti e terroristici nei vari teatri di crisi.
Secondo la Direzione Investigativa Antimafia, le località con il primato delle
rimesse verso l’estero nelle quali si nascondono finanziamenti a organizzazioni
islamiste sono Milano e la Lombardia, dove la presenza della Fratellanza è
in forte ascesa.

In una recente nota basata su informazioni provenienti dalle agenzie


dell’Unione Europea, i servizi d’intelligence hanno messo in guardia dalla
minaccia sempre incombente dell’ISIS, pronto a colpire strade, stazioni,
aeroporti, aree di servizio. Tuttavia, nessun riferimento alla necessità di
prosciugare la fonte ideologica del terrorismo: i Fratelli Musulmani, che
continuano a seminare la cultura dell’odio con i finanziamenti del Qatar. Si
riconosce l’esistenza di attività d’indottrinamento volte a reclutare nuovi
adepti da utilizzare per attacchi terroristici, specie tra i giovani della seconda
e della terza generazione, ma questa realtà sembra essere accettata
passivamente e ogni intervento è rimandato a radicalizzazione avvenuta.
L’Italia e l’Europa vogliono davvero sconfiggere l’ISIS? Le centrali di
propagazione dell’estremismo non devono essere scoperte. Sono già tutte
localizzate e per neutralizzarle bisogna solo decidere di passare all’azione.

Souad Sbai
presidente Centro Alti Studi “Averroè”

163
QUANDO LA COPPA DEL MONDO
PARLÒ IN ARABO
di Dario Caselli

L’inverno di quel dicembre del 2010 era stato particolarmente rigido.


Aveva stretto in una morsa ghiacciata tutta l’Europa; dal Nord al Sud, da Est
a Ovest. E la situazione non era migliore dall’altra parte dell’Oceano, dove
USA e Canada si sarebbero trovati a fronteggiare quello che oggi è ricordato
come il “December 2010 North American blizzard”. Anche in Svizzera e
precisamente a Zurigo quell’ondata di freddo eccezionale si era fatta sentire
in modo pungente. Da giorni il piazzale antistante la sede della FIFA, la
Federazione internazionale che governa gli sport del calcio, era ricoperto di
neve; le luminarie per l’imminente festività natalizia facevano capolino tra
cumuli di neve; persino il paesaggio bucolico dei giardini e degli alberi che
di solito fa da cornice al palazzone squadrato della FIFA, reso meno rigido
nelle sue forme da un velo che lo ricopre quasi fosse una rete da calcio, era
irriconoscibile. E così anche l’obelisco fatto di giocatori che sorreggono un
pallone, una delle principali attrazioni prima di entrare nel palazzo FIFA, era
ricoperto di neve.

Ma a dispetto del clima gelido il 2 dicembre del 2010 l’atmosfera


all’interno del quartier generale della FIFA era rovente. L’ordine del giorno
prevedeva due importanti appuntamenti: l’assegnazione dei Mondiali di
calcio del 2018 e del 2022, e soltanto una settimana prima due membri
dell’Esecutivo FIFA di Tahiti e Nigeria erano stati sospesi per presunta
corruzione. Già, la corruzione, un elemento che sarà la costante di questi
Mondiali del 2022. Un gorgo nero nel quale sono stati risucchiati prima Sepp
Blatter, il presidente della Fifa, e poi Michel Platini, presidente UEFA. Una
vicenda triste, come tutti i casi di corruzione, che promette nuovi sviluppi,
anche clamorosi, e di cui ancora non è possibile prevederne la fine. Ma
questa è un’altra storia. Quella che invece qui ci interessa si compie quando
mancano quindici minuti alle 17. Al ballottaggio finale per chi dovrà ospitare
i Mondiali di calcio nel 2020 il Qatar batte per 14 a 8 la temibile concorrenza
degli Usa, che addirittura aveva schierato come testimonial d’eccezione

164
Barack Obama e Hillary Clinton. Un risultato storico. Per la prima volta la
Coppa del Mondo si disputerà in un Paese arabo, in una Nazione islamica
che, peraltro, qualcuno insinua avrebbe legami con il mondo radicale
dell’Islam e con quei Fratelli musulmani, a cui darebbe supporto sia
finanziario che mediatico attraverso Al Jazeera. Della serie non è tutto oro
quello che luccica.

Una vittoria clamorosa di un piccolissimo Stato di poco più di 11mila


metri quadrati, più piccolo delle Isole Falkland, con una popolazione
complessiva di circa 2 milioni e 300mila persone, che mette le mani
sull’evento sportivo per eccellenza che, per fatturato, spettatori e potenza
economica può essere considerato secondo soltanto alle Olimpiadi. Un
obiettivo non casuale, quanto piuttosto il frutto di una strategia complessa
e articolata, partita da lontano da quando Sepp Blatter, non ancora
potente presidente della FIFA, per farsi eleggere usava aerei qatarioti per i
suoi spostamenti come raccontano le cronache del tempo. Il punto più alto
di una rete che da tempo il Qatar sta tessendo e che già lo aveva portato a
sfiorare l’assegnazione delle Olimpiadi del 2024. Potenza non soltanto
regionale ma mondiale che adesso mira a compiere un salto di qualità,
perché i Mondiali di calcio possono servire a far cambiare idea a tanti, al
punto da consentire di costruire il volto di una Nazione e di celarne un altro.

Non è una novità che la politica “arruoli” i grandi eventi sportivi per propri
scopi. È un fenomeno che riguarda soprattutto i regimi non democratici: i
mondiali di calcio del 1934 voluti fortemente da Mussolini per celebrare la
nuova Italia; le Olimpiadi di Berlino del 1936 che nei piani di Hitler avrebbero
dovuto affermare la superiorità della razza ariana; i mondiali di calcio in
Argentina del 1978 per esaltare il governo della giunta militare di Videla e
mascherarne i misfatti; le Olimpiadi di Mosca del 1980 e quelle di Los
Angeles del 1984, con i rispettivi boicottaggi dei Paesi aderenti ai due
blocchi, rappresentazione plastica dello scontro della Guerra fredda e del
desiderio di rivalsa di entrambi i fronti; le Olimpiadi di Pechino nel 2008 per
far uscire il regime comunista dall’isolamento e mostrarsi al mondo come
potenza planetaria in grado di sfidare gli USA e le altre potenze mondiali;
fino a Qatar 2022, ultimo tassello del mosaico politico e strategico del
piccolo Stato arabo. Qui però la strategia è più ampia, più profonda,
guarda non semplicemente ad affermare una superiorità ma a volerla
esercitare concretamente, mettendo in atto scelte capaci di incidere
profondamente nel tessuto culturale e sociale. Il tutto attraverso

165
l’occupazione di ruoli chiave e strategici nell’economia, nella cultura, nello
spettacolo, nello sport e finanche nella politica. In una sola parola: soft
power.

Fu verso la fine della guerra fredda che lo scienziato politico Joseph S.


Nye coniò questo termine, per indicare la capacità degli Stati di ottenere
una più ampia influenza nel mondo, combattendo gli avversari attraverso
l’utilizzo del potere seduttore della propria cultura, dei valori e dello stile di
vita nazionali. Allora riguardava lo scontro tra Est ed Ovest del mondo, della
capacità del Comunismo e del Capitalismo di fronteggiarsi e di guadagnare
consensi e posizioni nei vari angoli della terra. Il tutto ottenuto non attraverso
il ricorso alle armi, quanto piuttosto l’utilizzo di strumenti capaci di garantire
una penetrazione maggiore e più profonda.

Messa la Guerra fredda nel ripostiglio della Storia ecco che il soft power
è diventato il canale attraverso il quale l’Islam ha deciso di lanciare la sua
offensiva all’Europa. Un processo di islamizzazione che non contempla
barconi e sbarchi di migranti, ma che si fa più subdolo ed abile, spesso
anche difficile da percepire e rispetto al quale le resistenze sono molto
complesse da organizzare. Una conquista della società europea dall’interno
e non dall’esterno attraverso le grandissime risorse della finanza islamica,
che grazie alle sue ampie disponibilità è in grado di portare avanti questo
progetto di conquista; così ecco spiegato l’acquisto di quote o di interi
colossi industriali, orientandone la politica aziendale; o anche investimenti
per sponsorizzare e sostenere iniziative culturali. L’Islam così affonda le sue
radici, si innerva nei vari tessuti della nostra società ampliando la sua rete di
potere in Europa e condizionandone le scelte. Il tutto con il risultato di
imporre in maniera definitiva le idee e la cultura islamica.

E qui sta il senso dell’acquisizione dei Mondiali del 2022, al potere


comunicativo che potrà avere questo appuntamento e quale ghiotta
occasione sia per il piccolo Stato per dare a tutto il mondo l’immagine di
una Nazione moderna, tranquilla, affidabile. Appunto, fidarsi del Qatar e
dell’Islam, è questo il progetto finale, l’obiettivo attorno a cui ruota tutta la
strategia messa in campo in questi anni dalla finanza islamica e che adesso
tocca l’apice con il Mondiale di calcio.

In questi anni sono in particolare due gli Stati arabi ad essere stati
protagonisti in Europa di una lotta serrata per rafforzare la propria influenza:
gli Emirati Arabi Uniti e appunto il Qatar. E dietro il loro volto rassicurante

166
spesso spuntano interessi pericolosi. Del Qatar, ad esempio, Nazione dove
vige il Wahhabismo, forma molto conservatrice dell’Islam, e che finanzia tra
gli altri i Fratelli Musulmani e le formazioni politiche ad essi vicini. E attraverso
Al Jazeera, il canale televisivo qatariota, spesso trovano spazio predicatori
d’odio, come Yusuf al Qaradawi, vicino ai Fratelli Musulmani, e sostenitori
delle teorie più violente.

E il calcio è diventato il terreno prescelto dai due Stati per mettere in


pratica il loro soft power. Lo sport che in Europa muove enormi passioni e
sentimenti e che quindi più di altri si presta a poter diventare veicolo del
progetto di islamizzazione del continente europeo. Una contrapposizione
tra Qatar e Emirati Arabi Uniti fatta attraverso sponsorizzazioni e acquisizioni
di squadre, che riflette l’immagine di un calcio europeo sempre più
dominato dall’Islam. Così, nel 2008 Mansour bin Zayed al Nahyan, fratellastro
del presidente degli Emirati Arabi Uniti, rileva il Manchester City; mentre tre
anni dopo, nel 2011, la “Qatar Sports Investments” compra il principale club
di Parigi, il Paris Saint Germain, affidandolo a Nasr al Khelaifi, compagno di
doppio a tennis del principe Tamim.

E se si dà uno sguardo alla


cartina dell’Europa è ancora più
evidente il pieno dispiegarsi della
strategia di islamizzazione, che ha
portato a controllare o ad avere
un notevole peso nei bilanci delle
squadre delle principali città
europee. In pratica, quasi tutte le
squadre di calcio delle capitali
europee degli Stati più importanti
sono in mano o godono di forti
sponsorizzazioni da parte di
aziende arabe. Dalla Roma,
squadra della città simbolo della
cristianità, a Parigi, dove
Figura 1 - Le squadre di calcio di proprietà o addirittura la squadra ha una
sponsorizzate da Paesi arabi. proprietà araba, il peso e
l’influenza della finanza islamica è
sotto gli occhi di tutti. E come detto il confronto è tra Emirati Arabi Uniti e
Qatar, che gareggiano per rafforzare il proprio controllo nel calcio europeo.

167
Gli Emirati attraverso la compagnia Fly Emirates sponsorizzano le squadre
del Paris Saint Germain, la cui proprietà però è del Qatar, Milan, Real Madrid,
Arsenal, Amburgo, N.Y. Cosmos, Benfica ed Olympiakos. Senza considerare
la sponsorizzazione in Inghilterra della principale e più antica competizione
calcistica mondiale e cioè la FA Cup, che dal 2015 è diventata Emirates FA
Cup. Ed un recente accordo ha allungato l’intesa fino al 2021.

Dal canto suo il Qatar non è stato a guardare visto che dalla stagione
calcistica 2013-14 e fino a quella 2016-17 è stato lo sponsor del Barcelona.
Quello stesso Barcelona che si era sempre rifiutato di far comparire uno
sponsor sulla propria maglia: i soldi qatarioti hanno rapidamente fatto
cambiare idea alla dirigenza blaugrana. Sponsorizzazione che ha
interessato anche la squadra della Roma, attraverso una partnership
pluriennale siglata fino al termine della stagione 2020-21 e che porterà
complessivamente nelle casse del club una cifra vicina ai 40 milioni di euro
più bonus. Nemmeno la Germania è rimasta estranea all’influenza della
finanza islamica, con il Bayern Monaco dove la Qatar Airways ha sferrato un
duro colpo alla Lufthansa, strappandole la sponsorizzazione dopo ben 16
anni. Qatar Airways è diventato uno dei platinum partner della squadra
bavarese. L’accordo quinquennale è stato siglato per un valore di 50 milioni
di Euro e ha previsto che il logo della compagnia aerea apparisse sulle
maniche della maglia del brand bavarese dal 1° di luglio 2018 fino al 2023.

L’effetto ottico delle magliette è evidente:

Figura 2 - Le maglie delle squadre di calcio di proprietà o sponsorizzate da Emirati Arabi Uniti o Qatar.

168
E se le maglie di calcio raccontano di un
processo continuo di espansione, invece la
vicenda della modifica del simbolo del Real
Madrid spiega gli effetti che il soft power
può determinare in termini di perdita di
identità e di disconoscimento dei propri
valori fondanti. Nel 2017 per consentire al
merchandising del Real Madrid di sbarcare Figura 3 - Le due versioni del simbolo
sui mercati dei Paesi del Golfo, la dirigenza del Real Madrid con e senza Croce.
madridista decise di togliere dal simbolo
della squadra la croce cristiana che sormonta la corona borbonica. Un taglio
netto, quasi a rinnegare le radici cristiane, su ogni prodotto ufficiale venduto
negli Emirati, in Arabia Saudita, Qatar, Kuwait, Bahrein e Oman. Un salto di
qualità, dal semplice potere economico al condizionamento culturale e
valoriale; perchè, ed è evidente, non si tratta di restyling del logo, quanto
piuttosto di un’iniziativa che direttamente mina le radici cristiane da cui è
nata la squadra del Real Madrid e che da sempre la caratterizzano.

La vera questione però è capire: quale potrebbe


essere il passo ulteriore? Quali saranno le future linee
di tendenza? Squadre non semplicemente
sponsorizzate o di proprietà islamica, ma usate come
“academy” dove mandare i giovani promettenti a
fare esperienza per poi inserirli nel proprio circuito
calcistico nazionale? Fantasia? Non proprio. È quello
che accade in Belgio con il KAS Eupen, squadra di
Calcio della Serie A belga di proprietà dello Stato del
Qatar dal 2012. O meglio, della Aspire Academy, un
Figura 4 vivaio deluxe destinato a forgiare gli atleti del domani
La maglia dell’KAS Eupen. e soprattutto una nazionale di naturalizzati per il
Mondiale del 2022. Insomma, da terra di conquista a
terra di sfruttamento. Ma quello che salta agli occhi è
che ad inaugurare questa nuova tappa nel processo di islamizzazione sia
proprio il Belgio. Quella stessa Nazione tristemente famosa per Molenbeek, il
quartiere di Bruxelles diventato noto per l’impressionante presenza di terroristi
dell’ISIS. Una semplice coincidenza?

Dario Caselli
giornalista, capo ufficio stampa FdI, Senato

169
L’ESEMPIO DELLA LEGISLAZIONE AUSTRIACA
DALLA PROSPETTIVA ITALIANA

di Gianluigi Cesta

Quello tra la religione Islamica e l’Europa è un rapporto che affonda le


radici nel tempo, nei secoli. Prima ancora - ovviamente - che venisse alla
luce l’idea di una Europa unita. Per questo motivo, le strade che i singoli
Stati hanno intrapreso nel rapportarsi con l’Islam, sono state varie e molto
differenti tra loro. Molto è dipeso anche dalle circostanze storico-politiche
che hanno posto, in modi e tempi diversi, i singoli Stati difronte il culto
islamico.

Poco più di un anno fa, l’8 giugno 2018, le agenzie di stampa hanno
riportato una notizia di cronaca, diffusasi presto su tutti i principali quotidiani
web: il cancelliere federale dell’Austria Sebastian Kurz (dell’ÖVP – Partito
Popolare Austriaco) ed il suo ministro degli Interni Herbert Kickl (dell’FPÖ –
Partito della Libertà Austriaco) hanno annunciato un giro di vite contro delle
moschee accusate di ospitare un Islam “politicizzato” e hanno di
conseguenza predisposto l’espulsione di una sessantina di imam. I capi
religiosi dell’associazione Atib, Austria Turkey Islamic Union, sono stati
accusati di finanziamenti illeciti dall’estero e di violazione della legge
austriaca sull’Islam. Inoltre una quarantina di imam della stessa Atib –
organizzazione che gestisce diverse moschee turche in Austria e che, come
riporta il sito del quotidiano Sabah, è finanziata dal Direttorio per gli Affari
religiosi, noto in turco come Diyanet – hanno visto il proprio permesso di
soggiorno revocato.

La decisione arriva a seguito di un’indagine lanciata dall’autorità per gli


affari religiosi dopo l’emersione di immagini di bambini vestiti da soldati in
un centro islamico di Vienna sostenuto dalla Turchia: diffuse nei mesi scorsi
dal settimanale Falter, ritraevano una rappresentazione della battaglia di
Gallipoli ad opera dei bimbi, battaglia iniziata nell’aprile del 1915 e vinta
dopo cruenti scontri nove mesi dopo dalle forze ottomane sulle truppe
alleate di Regno Unito, Francia, Australia e Nuova Zelanda, in cui rimasero
uccisi 130.000 soldati.

170
L’accusa non ha a che fare con il terrorismo, quello che si contesta,
infatti, è l’aver ricevuto finanziamenti dall’estero, non leciti secondo la legge
austriaca. Il provvedimento infatti è scaturito per violazione della
“Islamgesetz” (Bundesgesetz über die äußeren Rechtsverhältnisse
islamischer Religionsgesellschaften – Islamgesetz 2015, BGBl. I Nr. 39/2015),
la legge sull’Islam, che è entrata in vigore nel 2015 e ha preso il posto della
legge precedente che risaliva al 1912 (15 luglio 1912, betreffend die
Anerkennung der Anhänger des Islam als Religionsgesellschaft, RGBl. Nr.
159/1912). La chiusura è avvenuta con decreto della cancelleria competente
per le questioni religiose. Il provvedimento - non appellabile - ha riguardato
quattro moschee a Vienna, due in Alta Austria e una in Carinzia. Da quello
che si è appreso dalle fonti stampa, l’Atib avrebbe ammesso che gli imam
dell’organizzazione presente in Austria percepiscono fondi dall’estero, ma
questo dipenderebbe – stando alle parole del portavoce Yasar Ersoy
raccolte dall’emittente tv Oe1 - dal fatto che le risorse nel Paese non bastano
alla formazione religiosa.
Questo evento di cronaca estera, invero, è stato utile per riprendere le
fila di un discorso lasciato cadere alla fine della precedente legislatura e
che dura, d’altra parte, da parecchi anni: il rapporto tra lo Stato italiano e
l’Islam.

La tematica che si cerca di sviluppare consta di più punti: come è stato


possibile questo evento in Austria, la Islamgesetz e il suo contenuto; perché
non è allo stato delle cose possibile qualcosa di simile in Italia, di che
strumenti si deve dotare il nostro ordinamento per regolare i rapporti tra
Stato ed Islam e perché le proposte della precedente legislatura non erano
idonee. Infine le conclusioni.

Il rapporto tra l’Austria e l’Islam vede la luce nei primi anni del secolo
scorso. La religione islamica infatti è riconosciuta fin dal 1912, con la legge
pubblicata dall’allora impero Austroungarico per la gestione e la sicurezza
delle minoranze di fedeli di fede musulmana che vivevano nel territorio: la
Islamgesetz (15 luglio, RGBl. Nr. 159/1912). Legge che è stata aggiornata nel
2015, come accenneremo a breve, dal precedente governo di “Grosse
Koalition” (Spö-Övp).

L’origine di questo patto tra lo Stato e le comunità dell’Islam affonda le


sue radici, come detto, nel 1912, quando l’Impero Austro-Ungarico promulgò
la prima norma per riconoscere la comunità di fede musulmana, che allora

171
contava attorno ai 600.000 individui, dopo l’annessione ufficiale dei territori
della Bosnia ed Erzegovina, prevalentemente musulmani, nel 1908.
Fu questo evento storico il pretesto per l’emanazione della legge che
contribuì maggiormente a costituire il sistema di riconoscimento delle
comunità islamiche nell’Impero Asburgico. Vide così la luce la Islamgesetz
per effetto della quale i fedeli islamici nei territori imperiali costituirono
ufficialmente una delle comunità religiose riconosciute e tutelate.
Questo rapporto si è però evoluto nel tempo. Con la fine della Grande
Guerra, la Bosnia ed Erzegovina venne separata dall’Austria ed entrò a fare
parte della nuova Jugoslavia, la popolazione musulmana rimasta in Austria
si ridusse drasticamente, il dialogo tra lo Stato e la comunità entrò in letargo.
Si risveglierà 40 anni dopo.

Il primo cenno di risveglio è riconducibile al 1971, anno in cui le nuove


organizzazioni islamiche in Austria lanciarono un appello allo Stato per
ottenere il riconoscimento dell’Islam come religione, appellandosi alla
legge del 1912. L’accoglimento fu sottoposto a delle condizioni, tra cui
quella di istituire una singola organizzazione di tutte le comunità islamiche,
che avrebbe svolto il ruolo di entità legale e quindi di interlocutore ufficiale
per qualsiasi dialogo con il Governo. L’accordo venne finalmente raggiunto
il 2 maggio del 1979, giorno in cui “l’Ufficio delle Religioni” – il Kultusamt del
Ministero Austriaco della Cultura e dell’Educazione - riconobbe in forma
ufficiale l’Islamische Glaubensgemeinschaft in Österreich (IGGiÖ) come
rappresentante istituzionale di tutti i musulmani austriaci, sulla base del
riconoscimento delle religioni del 1874 e dell’Islamgesetz del 1912.

Un’altra tappa di questo dialogo fu segnata nel 1987, quando il Tribunale


Costituzionale riconobbe pari diritti alla scuola hanafita e a tutte le altre
scuole, che prima d’allora non erano state neppure menzionate1. Varie
organizzazioni, a più riprese ed in differenti periodi, hanno richiesto alle
istituzioni austriache di essere riconosciute e poste allo stesso livello giuridico
e legislativo dell’IGGiÖ.
Nel 2009 è stata l’Islamische Alevitische Glaubensgemeinschaft in
Österreich a presentare per la prima volta la richiesta ufficiale di nomina di
rappresentanza della comunità, ma come avvenuto per altre richieste
presentate nello stesso periodo, fu rifiutata. Nel 2010 un cambiamento

1 VfGH vom 10. Dez. 1987 (G146,147/87)

172
importante: il Tribunale Costituzionale2 infatti stabilì che la decisione
negativa del Ministro era da considerarsi come una violazione della libertà
di religione, perché il primo articolo dell’Islamgesetz non poteva essere
interpretato come permesso ad esistere di una sola ed unica organizzazione
di rappresentanza per l’Islam in Austria. L’IAGÖ venne quindi così riconosciuta
ufficialmente qualche mese dopo la suddetta pronuncia e diventò
beneficiaria dello status di comunità ufficialmente nominata, con tutti i
relativi diritti annessi.
Ma era in ogni caso evidente che l’impianto normativo andasse
aggiornato.

La serie di richieste pervenute da più comunità, aveva fatto sorgere


l’esigenza di dover ammodernare il sistema della Islamgesetz. Per questo
motivo, nell’anno del centenario della legge, nel 2012, fu istituito il
“Dialogforum Islam”. Un comitato di dibattito che aveva come responsabile
federale il Segretario di Stato per l’Integrazione Sebastian Kurz e alcuni
portavoce dell’IGGiÖ, assieme a fedeli individuati come esperti indipendenti,
in rappresentanza della comunità islamica. Il lavoro che ne è uscito è
considerato un aggiornamento della Islamgesetz; una sorta di Islamgesetz
2.0.
Nel dettaglio, la legge è composta da sei parti. Il cuore della legge è
garantire la libertà di culto alla popolazione austriaca di religione
musulmana, e di evitare al tempo stesso il formarsi di una società parallela,
con proprie norme – ad esempio la Shari’a – in possibile contrasto con
l’ordinamento giuridico austriaco. Questo perché i cittadini vengono tutelati
in quanto austriaci, al netto del loro credo, e come tali devono identificarsi.
Perciò devono essere messi al riparo dall’influenza che altri Stati stranieri
possono avere su queste comunità dentro i confini austriaci.

Il titolo della legge è: “Relazioni Esterne e Legali delle Organizzazioni


Religiose Islamiche” (ovvero “Bundesgesetzüber die außeren
Rechtsverhältnisse Islamischer Religionsgesellschaften-Isamgesetz 2015”)3.
La prima parte è intitolata ai diritti degli enti pubblici con status
riconosciuto dallo Stato, come nel caso delle organizzazioni religiose
islamiche (par. 1 e 2). In questa parte sono anche compresi i criteri per i
quali una nuova comunità religiosa islamica possa chiedere di essere

2 VfGH vom 1. Dez. 2010 (B 1214/09)

3 Pagina dell’IGGiÖ dove trovare l’ultima Islamgesetz in versione completa. http://www.derislam.


at/deradmin/news/Islamgesetz_Fassung%20vom%2009.03.2016.pdf

173
riconosciuta (par. 4). Vengono quindi elencati alcuni aspetti tutelati dallo
Stato: l’autonomia della gestione interna, la libertà di insegnamento del
credo e il diritto di poter esprimere e manifestare pubblicamente il proprio
credo (par. 2).
La differenza che salta agli occhi è che la comunità islamica, rispetto a
quanto previsto per le comunità di religione ebraica e protestante, deve
assolvere a più criteri per essere riconosciuta (si veda ad esempio la
Israelitengesetz): infatti requisiti come “l’approccio positivo verso lo Stato e
la società austriaca” e “la proibizione di qualsiasi atteggiamento negativo
verso qualsiasi altra comunità religiosa riconosciuta”, sono paletti messi
solo alla fede musulmana. Quindi, là dove sarebbe sufficiente il consenso di
un ministro federale, come ad esempio accade per i gruppi di fede ebraica,
è richiesto invece per le comunità musulmane il giudizio del cancelliere
federale (par. 3 punto 1).
Questa sezione della normativa riconosce la varietà di comunità
islamiche e non esclude, a differenza della precedente versione del secolo
passato, di riconoscere ufficialmente altre comunità in futuro. Ma
chiaramente la necessità di monitorare comunità potenzialmente
problematiche, rende necessario inasprire l’iter di riconoscimento.

La seconda parte riporta i compiti delle organizzazioni religiose islamiche


e definisce dettagli specifici, come la scelta del nome, la sede, lo statuto e
così via. Particolare è la disposizione che impone di depositare le “letture
sacre”. Questo implica di fatto che eventuali nuovi enti, per essere
riconosciuti, dovrebbero depositare scritture sacre diverse da quelle
depositate già (par. 6 punti 1-12). La norma è chiaramente prevista al fine di
evitare il più possibile la frammentarietà della comunità islamica su basi
non tangibili e concrete, ma pretestuose e autoreferenziali.
Importanza rilevante ha la previsione in merito ai finanziamenti: gli enti
hanno autonomia e quindi possono gestire i fondi come preferiscono, ma
questo implica che la natura istituzionale viene accordata solo ad un ente
che possa autosostenersi. Viene ribadito quel precetto - che ha creato il
casus belli delle 7 moschee – che impone indipendenza economica agli
enti (par. 6 punto 2), quindi divieto per qualsiasi gruppo di rappresentanza
religioso di beneficiare di donazioni o finanziamenti provenienti dall’estero.
Precetto chiaramente posto a base del fine securitario che l’Austria non
intende comunque tralasciare, soprattutto considerando che un precetto
analogo non è previsto per altre comunità religiose.

174
La parte successiva, la terza, è dedicata a definire lo status dell’IGGiÖ e
il complesso dei suoi diritti ed i suoi doveri. Se volessimo inquadrare questo
terzo insieme di punti, il bilancio tra diritti e doveri è decisamente a favore
dei primi: sono qui riportati diritti che non hanno pari in Europa. Per fare un
esempio, si può citare il diritto di assistenza spirituale e di sostegno, al quale
i fedeli che si trovano in determinati ambienti pubblici possono ricorrere:
nell’esercito, le prigioni o gli ospedali viene garantita la presenza di un imam
a cui potersi rivolgere e a cui fare riferimento (par. 11 punto 1); o ancora il
diritto all’insegnamento nelle scuole pubbliche della religione e del credo
professato dalla IGGiÖ e in generale dalle organizzazioni riconosciute (par.
11 punto 4); o ancora, nei medesimi ambienti istituzionali, tra cui la scuola,
è ribadito il diritto a cibarsi secondo i dettami dell’Islam (par. 12). Da ultimo,
vengono riconosciute le festività islamiche e definita la preghiera del venerdì
che in questo modo gode della protezione della legge, quindi dello Stato
Federale (par. 13).

La parte quarta è dedicata esclusivamente alla disciplina della


Comunità islamica alevita in Austria. Viene equiparata e messa sullo stesso
piano giuridico dell’IGGiÖ (par. 16, punto 1).
La penultima parte parla della relazione tra la comunità religiosa e lo
Stato: è connessa con i principi sanciti dalla parte III. I diritti che questo
corpo legislativo accorda alla comunità islamica austriaca sono volti, come
detto, sì a tutelare la medesima, ma allo stesso tempo anche a tutelare il
tessuto sociale austriaco nella sua interezza. Per questo, in questa sezione si
afferma -ad esempio - che gli imam che operano nel Paese devono essere
formati attraverso corsi dedicati nell’Università di Vienna4. Viene previsto
infatti dal gennaio 2016 un corso di formazione per imam, per rafforzare
l’idea di un Islam incardinato nei confini dello Stato. Corso da farsi in
accordo con le organizzazioni islamiche (par. 24, punto 1). Ovviamente non
è possibile prescindere dalla conoscenza del tedesco (part III, par. 11);
esigenza, questa, volta ad evitare che un imam formatosi all’estero si trovi in
Austria a predicare in maniera disarmonica col tessuto sociale, se non
apertamente antagonista ad esso.
L’ultima parte delle leggi evidenzia l’importanza delle due istituzioni già
riconosciute: IGGiÖ (BGBl. Nr. 466/1988), e IAGÖ (BGBl. II Nr. 133/2013). Viene
espressamente sancito che queste due entità non sono intaccate nella loro
esistenza dalla legge in esame (par. 31, punto 1), mentre tutte le altre

4 Dipartimento di Studi Islamici dell’Università di Vienna: https://iits.univie.ac.at

175
associazioni vanno sciolte al 31 dicembre 2015, con notifica al Ministero
Federale degli Affari interni (part. 31, punto 3).

Questo lungo percorso, avviato più di un secolo fa, ha portato la religione


islamica dentro il quadro statale dell’Austria, permettendo quel dialogo che
ha consentito aperture e comprensioni, che ha permesso di strutturare e far
evolvere il rapporto tra lo Stato austriaco e la realtà islamica. Tutti i doveri
imposti, come il riconoscimento in ente pubblico, la conseguenziale
trasparenza a tutti i livelli, l’uso del tedesco, la formazione degli imam
nell’università di Vienna, il divieto di ricevere fondi dall’estero, ecc, sono
quindi permessi nella cornice di questa dialogo, che statualizza questa
religione accettandola non più come no-self del proprio tessuto organico,
come accade in praticamente tutti i restanti Stati europei, ma come parte
integrante del tessuto statuale. Come avviene anche per le altre confessioni.

Considerato l’esempio e l’esperienza austriaca, il passaggio successivo


e conseguenziale è pensare ad un parallelismo con il nostro Paese. Ebbene,
in Italia l’esigenza di regolare i rapporti tra Islam e Stato è in effetti emersa
da anni. Infatti, il dibattito in merito alla questione ha visto già molti
interessantissimi contributi, rappresentanti diversi approcci al problema5.
Ci sono stati vari tentativi di dialogo fra le istituzioni italiane e le associazioni
islamiche presenti nel territorio, che miravano direttamente ad ottenere la
dovuta intesa fra lo Stato e la confessione religiosa dell’Islam, ma naufragati.
È il caso della bocciatura delle varie  bozze d’intesa: nel 1992 presentata
dall’UCOII, nel 1994 presentata dall’AMI e 1996 presentata dalla CO.RE.IS.
Dopo questi fallimenti si è tentata la via preliminare, avviando un tavolo
rappresentativo di confronto. Nel 2005, in seno al Ministero degli Interni, fu
avviata la Consulta per l’Islam italiano, voluta dal ministro Pisanu, arenatasi
nel 2008.
Nel 2010 il ministro Maroni riprende il progetto, con la costituzione del
Comitato per l’Islam italiano, che parte all’insegna della polemica per via
della sua composizione – mancava la rappresentanza dell’Islam in Italia e
delle seconde generazioni – e dal 2011 è divenuto inattivo.

5 Fr. ad esempio G. MACRI’, La libertà religiosa, i diritti delle comunità islamiche, in “Stato, Chiese
e pluralismo confessionale”, n. 5 del 2018, www.statoechiese.it; A. DE OTO, Le proposte di legge
Santanchè-Palmizio sul registro delle moschee e l’albo degli imam: un tentativo di refurbishment
della legge n. 1159/1929?, in “Stato, Chiese e pluralismo confessionale”, n. 4 del 2018, www.
statoechiese.it.

176
Ripresi i lavori nel 2015, nel corso di una riunione del Comitato, si annuncia
la riforma e il rinnovamento dello stesso, a partire dal febbraio 2015. Il
ministro Alfano istituisce così il Tavolo permanente di consultazione.
Nel 2016 lo stesso ministro Alfano istituisce il Consiglio per le relazioni con
l’Islam6. Con il comitato presieduto dal ministro Minniti, i suoi membri firmano
nel febbraio 2017 un “Patto nazionale per un Islam italiano” con l’obiettivo di
“creare un Islam italiano legittimo, civilizzato” attraverso la formazione degli
imam (con il contributo del ministero dell’Interno e delle università statali),
l’uso dell’italiano nei sermoni e il dialogo inter-religioso e inter-culturale
territoriale, incluso l’accesso ai non-musulmani ai luoghi di preghiera7.
Patto che però non sana il vulnus dell’assenza della soggettività giuridica
della comunità islamica nell’ordinamento italiano.
Questi tentativi, ripetuti negli anni, al di là del merito sulla sostanza del
patto firmato nel 2017, sottolineano un fatto certo: c’è l’esigenza di regolare
il rapporto tra lo Stato e l’Islam. La religione islamica attualmente è la
seconda più praticata in Italia, ma ciò nonostante non ha ancora una sua
intesa con lo Stato italiano, a differenza di altre confessioni religiose. Infatti,
dal 1984 ad oggi, sono state stipulate ben 12 intese8.
L’art. 8, ai commi 2 e 3, della Costituzione italiana prevede:
“Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di
organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con
l’ordinamento giuridico italiano.
I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese
con le relative rappresentanze.”

Questa disposizione indica, chiaramente, il sentiero che va


necessariamente battuto nel nostro Paese per la regolamentazione dei
rapporti tra lo Stato e le “confessioni” religiose. Infatti, nel nostro Paese, a
differenza che in Austria, non è possibile regolare i rapporti con una
religione, indicando eventuali precetti che questa è tenuta a rispettare, se
non attraverso una intesa che garantisca una tutela di rango costituzionale
alla libertà di religione della comunità confessionale che si intende regolare.

6 Andrea Mazziotti, “Intesa tra la Repubblica italiana e le Comunità islamiche: a che punto
siamo?”, giovedì 14 aprile 2016, registrazione su web tv di www.camera.it.

7 http://www.islamitalia.it/islamologia/consiglio_islam.html

8 Elenco delle intese con le confessioni religiose completo delle intese http://presidenza.governo.
it/USRI/confessioni/intese_indice.html

177
Perché come ha ricordato la Corte Costituzionale nella sentenza 52/20169 la
libertà religiosa, per essere esercitata, non ha bisogno delle intese. Infatti
l’intesa non serve a tutela della libertà religiosa, che trova quindi ampia
tutela nella Carta Costituzionale, quanto piuttosto e regolare i rapporti tra la
Repubblica e la Confessione religiosa.

In assenza di intesa, la confessione che ne è priva – in quanto più debole


– riceve una tutela massima dal nostro ordinamento, praticamente assoluta.
E non potrebbe non essere così: dal momento che manca una legge che
disciplina i rapporti, ex art. 8, l’unica tutela che quindi resta alla libertà di
religione è la Costituzione stessa.

Ma una intesa ex art. 8 della Costituzione tra la Repubblica Italiana e


l’Islam sembrerebbe ardua da realizzare alle condizioni attuali. L’Impero
Austro-Ungarico, che ha tracciato il solco nel quale ha continuato l’attuale
Repubblica d’Austria, aveva familiarità con il multiculturalismo per via della
sua conformazione territoriale: considerando la composizione della sua
popolazione, era di fatto uno stato multiculturale, anche dal punto di vista
religioso. Inoltre, dato ancora più rilevante, quando l’impero Asburgico si è
cimentato nel riconoscimento della comunità islamica, aveva come
interlocutrice una comunità omogenea, quella - come ricordato in
precedenza - stanziata sui territori della Bosnia ed Erzegovina.
Il “paradigma austriaco”10, se così lo possiamo definire, non sembrerebbe
automaticamente applicabile nel nostro contesto. L’Italia, infatti, ha a che
fare con un Islam principalmente di prima generazione, composto quindi
per la stragrande maggioranza da individui nati in altri Paesi11, che
appartengono a una varietà di comunità diverse. Comunità che talvolta
non collaborano e non mancano di rivaleggiare tra loro, pretendendo
anche esclusività di rappresentanza nel dialogo con lo Stato italiano. Un
atteggiamento che tende più a frammentare che unire il tessuto dell’Islam,
e che in assenza di una gerarchia definita, rende molto arduo identificare

9 Sentenza Cort. Cost. n. 52/2016 (Presidente: CARTABIA - Redattore: ZANON);


Vedi M. PARISI (a cura di), Bilateralità pattizia e diritto comune dei culti. A proposito della sentenza
n. 52/2016, Editoriale Scientifica Italiana, Napoli, 2017.

10 L. MECHI e D. PASQUINUCCI, Integrazione europea e trasformazioni socio-economiche, Milano


2017.
P. BONETTI, S. SIMONI e T. VITALE, La condizione giuridica di Rom e Sinti in Italia, atti del convegno
internazionale, Università di Milano Bicocca, 16-18 giugno 2010.

11 C. SBAILÒ, Atti del convegno “L’Islam in Italia - Quale patto costituzionale?”, lunedì 8 maggio,
registrazione su web tv di www.camera.it.

178
l’interlocutore più rappresentativo per portare a compimento il percorso
verso l’intesa ex art. 8 della Costituzione. È quindi molto più difficile per la
nostra Repubblica applicare l’expertise austriaco maturato negli ultimi 100
anni.

Per superare il problema dell’identificazione degli interlocutori titolati a


rappresentare l’Islam, è evidente che la chiave di volta deve essere quella
politica. Per due ragioni. Da una parte perché solo attraverso il dialogo con
i Paesi della sponda sud del Mediterraneo, da dove provengono più della
metà dei musulmani attualmente presenti in Italia e con i quali l’Italia ha un
buon rapporto, è possibile identificare le comunità più rappresentative e
soprattutto integrabili; dall’altra perché il concetto stesso di “comunità
integrabile” va valutato strettamente da un punto di vista politico, tenendo
come necessaria stella polare l’interesse del nostro Paese. Di conseguenza
l’azione motrice deve essere di natura politica.

I progressi fatti fino ad ora nel dialogo tra lo Stato e il mondo islamico
non vanno certamente buttati via12, ma non possono essere considerati alla
stregua di una intesa. Ben vengano i propositi sanciti dal Patto del 2017,
come la formazione di imam e guide religiose, rendere pubblici nomi e
recapiti di imam, guide religiose e personalità in grado di svolgere
efficacemente un ruolo di mediazione tra la loro comunità e la realtà sociale
e civile circostante, l’adoperarsi concretamente affinché il sermone del
venerdì sia svolto in italiano o assicurare la massima trasparenza della
gestione e documentazione dei finanziamenti. Ma sono tutte azioni
volontarie, basate su un protocollo politico.
Tutti questi punti non possono essere “imposti” dalla Repubblica, come
ha potuto fare l’Austria grazie alla Islamgesetz. Perché qualsiasi imposizione
sarebbero in aperta violazione della Costituzione e ovviamente anche dalla
CEDU.

Per questi motivi, la strada tracciata dall’Austria, non è sic et simpliciter


replicabile nel nostro Paese. Per lo stesso motivo sono falliti i progetti di legge
presentati nella passata legislatura, la XVII. Infatti, solo per citare due tra le
varie proposte di legge presentate nel corso della XVII legislatura, le
proposte di legge C. 2976 e C. 3421 recanti disposizioni in materia di

12 S. ATTOLLINO, Il Patto nazionale per l’Islam italiano: verso un’intesa? in Newsletter OLIR.it(www.
olir.it), XIV, n. 3/2017 che rileva come: “[…] Certamente, la firma del Patto nazionale per l’Islam
italiano rappresenta una tappa importante verso il superamento degli ostacoli che impedisco-
no una leale collaborazione tra lo Stato e la confessione islamica. In vista di un suo effettivo
successo, l’iniziativa dovrà, tuttavia, essere supportata da ulteriori azioni concrete […].

179
istituzione del registro pubblico delle moschee e dell’albo nazionale degli
imam sono state respinte dall’Aula con una pregiudiziale di Costituzionalità.
Le proposte miravano – sommariamente – ad introdurre forti controlli
sull’attività delle comunità islamica. Ad esempio l’albo nazionale degli
imam, con patentino rilasciato dal ministero, il registro pubblico delle
moschee, corsi di formazione per imam. Alcune di queste previsioni, in
nuce, sono apparse anche nell’accordo firmato nel 2017. Ma il problema,
come detto, è che imporle per legge, senza una intesa di riferimento, è
incostituzionale. Non si possono infatti imporre alle confessioni religiose
requisiti differenziati per accedere allo spazio pubblico. Il libero esercizio del
culto costituisce un aspetto essenziale della libertà di religione (art. 19 Cost.)
ed è, quindi, riconosciuto egualmente a tutti e ad ogni confessione religiosa
(art. 8, commi primo e secondo, Cost.), a prescindere dalla stipula di
un’intesa con lo Stato, che non costituisce, pertanto, condicio sine qua non
per l’esercizio della libertà religiosa.
Lo stesso vale per il registro degli imam e il registro delle moschee: nel pdl
C. 2976 rimandava ai regolamenti attuativi per attuare queste disposizioni,
ma in materia di diritti fondamentali la riserva di legge è assoluta.

Il principio di laicità impregna il nostro ordinamento e «implica non


indifferenza dello Stato dinnanzi alle religioni, ma garanzia dello Stato per la
salvaguardia della libertà di religione in regime di pluralismo confessionale
e culturale» (Corte Costituzionale, Sentenza 12 aprile 1989, n. 203).
Eccezioni, queste testé riportate, che – come detto in precedenza – sono
state a suo tempo presentate da autorevoli esperti della materia, anche in
sede di audizione davanti alla Commissione Affari Costituzionali13.

È evidente che l’esperienza austriaca non possa fare da paradigma per


l’Italia. Questo Paese è stato lungimirante e ha aperto un dialogo più di un
secolo fa con l’Islam, oggi di conseguenza può interloquire con questo
credo in maniera chiara e netta, senza timore di censura alcuna. D’altro
canto, per la Repubblica italiana, quello che necessita per l’inclusione
dell’Islam nel quadro costituzionale non è una legge imposta dal Parlamento,
e ogni altra iniziativa simile è destinata inesorabilmente ad arenarsi contro
l’argine protettivo della Costituzione. Necessita invece un quadro che sia
ben definito nella sua cornice da una intesa con il credo islamico. Già in
questa premessa si annidano insidiose sfide.

13 C. SBAILÒ, Testo dell’audizione resa il 14 novembre 2017

180
In primis - come detto - la non unicità del mondo dell’Islam. Infatti il
fenomeno non rappresenta un unicum definito dai contorni netti, con una
gerarchia chiara come ad esempio nella Chiesa Cattolica, per cui “l’imam
è molto meno e molto di più di un ministro di culto”14. Esso è composto da
una costellazione di entità che, ognuna per sé, reclama non solo
rappresentatività ma anche esclusività. Il mondo islamico è ancora
fortemente legato, qui in Italia, ai Paesi di provenienza, perché di fatto le
seconde generazioni ancora non hanno attecchito, e questo porta una
ulteriore difficoltà nel trovare un interlocutore unitario, che di fatto non esiste.
L’unica soluzione è dare voci alle comunità più rappresentative e legittimate,
per evitare di trovarsi a dialogare con soggetti autoreferenziali. Considerando
che le comunità islamiche italiane, come detto, sono ancora fortemente
legate ai Paesi di origine, la legittimità degli interlocutori che il Governo
dovrà chiamare a sedersi attorno ad un tavolo dovrebbe essere vagliata
anche con il supporto delle autorità degli stati della sponda sud del
Mediterraneo. Ma è bene ribadirlo, non va trascurato l’interesse del nostro
Paese, a partire da questa fase e poi, ovviamente, anche nella negoziazione
che porterà all’auspicabile intesa. In quello che è ovviamente in processo
di natura esclusivamente politica. Il problema è in definitiva trovare prima
ancora che il terreno di gioco, i giocatori stessi.
In secondo luogo, sarà difficile trovare il terreno comune tra i principi
dell’Islam e il nostro ordinamento. Questo – ad esempio – è difficile laddove
si chieda, come nella proposta del Co.Re.Is., di accettare i pilastri dell’Islam
nell’ordinamento italiano, cosa che potrebbe innescare una espansione
del diritto islamico nel nostro ordinamento che ben presto potrebbe portare
a non pochi cortocircuiti.
I nodi sono molteplici, però il Patto del 2017 rappresenta una tappa che
negli ultimi 20 anni si era faticato a raggiungere. Ripartire da lì, con un
dialogo che deve necessariamente essere avviato dal Governo, è la strada
per portare quel Patto ad essere base di una futura intesa. Lo strumento
della cooperazione tra poteri pubblici, organizzazioni religiose e società
civile è l’unica strada percorribile15.
In questa maniera sarebbe la Repubblica a guidare la formazione di
sano rapporto tra il nostro Stato e l’Islam, dentro gli argini dell’art. 8 della
Costituzione, che sia funzionale alla tutela del nostro ordinamento.

14 Cfr. C. SBAILÒ, Testo dell’audizione resa il 14 novembre 2017, cit., p. 2

15 G. MACRI’, La libertà religiosa, i diritti delle comunità islamiche cit.

181
Rendendolo immune da processi di islamizzazione incontrollata che - senza
i giusti anticorpi - si potrebbe diffondere spontaneamente, come a tratti
sembra già accadere, nel nostro tessuto, arrivando a costituire una vera e
propria criticità per l’equilibrio sociale, i diritti fondamentali, la tenuta - in
definitiva - del nostro stesso ordinamento costituzionale.

Gianluigi Cesta
dottorando in Relazioni interculturali e Management internazionale
UNINT – Università degli Studi Internazionali di Roma

182
COMITATO

FRANCESCO ALBERONI
Presidente

GUERINO NUCCIO BOVALINO

GIUSEPPE CECERE

MARIO CIAMPI

RENATO CRISTIN

GIOVANBATTISTA FAZZOLARI

ARNALDO FERRARI NASI

ALESSANDRO MELUZZI

ISABELLA RAUTI

SOUAD SBAI

GIULIO TERZI DI SANT’AGATA

ADOLFO URSO

SCIENTIFICO
Farefuturo  è una fondazione che promuove la cultura e i valori della
Nazione, rifuggendo dal dilagante “presentismo”, nella convinzione che
occorra il massimo impegno per disegnare il futuro dell’Italia nel contesto di
una Europa delle Patrie. Opera a Roma e in diverse realtà territoriali con
convegni, seminari di studi, corsi di formazione, attività editoriale e
programmi di ricerca.

Pubblica la rivista Chartaminuta.it

Collabora a livello internazionale con la Fondazione New Direction,


espressione del Conservatorismo europeo, e con altre fondazioni popolari e
sovraniste, per elaborare progetti condivisi che possano dare risposte alla
decadenza dell’Occidente, riaffermando le comuni radici classiche e
cristiane e i valori civili, sociali e politici della civiltà europea in una visione
moderna e proiettata al futuro.

Nata nel 2007 dalla esperienza dell’Osservatorio Parlamentare, Istituto


creato nel 1994 in occasione del primo successo elettorale del centrodestra
italiano, ha caratterizzato l’esperienza politica e culturale del “polo delle
libertà” e poi delle successive alleanze di centrodestra, a cui ha contribuito
con idee, progetti e convegni utili a definire i programmi e formare la nuova
classe dirigente.

Presidente è Adolfo Urso, Segretario generale Mario Ciampi, Segretario


Amministrativo Francesco Zaffini

www.farefuturofondazione.it

segreteria@farefuturofondazione.it

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