Prima parte
IL SENTIMENTO DEGLI ITALIANI. SONDAGGIO 23
Arnaldo Ferrari Nasi 24
Giuseppe Cecere 38
Seconda parte
UNA MINACCIA PER L’EUROPA. ANALISI 51
Francesco Alberoni 52
Alessandro Meluzzi 55
Mario Ciampi 63
Renato Cristin 69
Giulio Terzi di Sant’Agata 77
Isabella Rauti 92
Terza parte
LE LINEE DELLA FRONTIERA. CASI DI STUDIO 101
Camilla Trombetti 102
Andrea Delmastro Delle Vedove 122
Guerino Nuccio Bovalino 128
Centro Alti Studi “Averroè” 138
Souad Sbai 151
Dario Caselli 164
Gianluigi Cesta 170
Si ringrazia
l’Ufficio Studi di Fratelli d’Italia – Senato
guidato da Giovanbattista Fazzolari
per la preziosa collaborazione
nella realizzazione del rapporto.
P R EFAZI O N E
LA NOSTRA IDENTITÀ
GARANZIA DI FUTURO
di Giorgia Meloni
7
musulmana. Se i flussi migratori dei musulmani nel Vecchio Continente
dovessero proseguire al ritmo di come li abbiamo conosciuti negli ultimi
anni? Tra soli trent’anni gli islamici in Europa saranno più che raddoppiati: si
parla della percentuale clamorosa di incremento del 125%. E a quel punto
chi “controllerà” il nostro futuro? Con quale scala di valori? E in nome di
quali istituzioni?
Ecco, noi speriamo invece che nessuno controlli alcuno: né un governo
“multinazionale” né una holding islamista. Lo speriamo proprio nel nome di
quei valori – uguaglianza e democrazia – che un certo storicismo crede
inevitabili, che Francis Fukuyama ottimisticamente indicava come «fine
della storia», ma che in realtà appartengono a quella dimensione
complessa, alimentata da una precisa direttrice, che conosciamo
organicamente soltanto come e nella civiltà occidentale.
Ecco perché l’argomento dell’islamizzazione dell’Europa ci interessa in
maniera specifica e problematica e su questo abbiamo predisposto,
accanto e a sostegno della battaglia politica, un serrato e attrezzato
dibattito scientifico e accademico. Perché temiamo che la “profezia” di
Houellebecq, se l’Europa, e l’Italia per ciò che ci riguarda da vicino, non
deciderà di disporre politiche e strumenti per preservare se stessa, possa
tramutarsi inevitabilmente in realtà.
A fronte di un disinteresse “complice” da parte della narrazione ufficiale,
ci interessa eccome studiare e denunciare il rischio dell’islamizzazione
perché la difesa del nostro “futuro”, la sua stessa possibilità, è intimamente
connessa alla salvaguardia del nostro “passato”. Proprio così: tutto ruota
attorno alle radici, la cui preservazione – credetemi - tutto è tranne che un
fatto “archeologico”. L’identità europea – attraversata e permeata da due
sostrati, classico, inteso come greco-romano e giudaico, e cristiano – si
impone infatti come entità viva principalmente per due elementi
caratterizzanti di natura filosofica, identitaria, più che religiosa, che la
distinguono da tutte le altre.
Il primo è la laicità dello Stato; per il banale motivo che la separazione fra
i “poteri” è contemplata fin nei testi sacri della cristianità, alla ricerca di
un’armonia che ha sempre interrogato il pensiero politico europeo e italiano
su tutti, come dimostra il De Monarchia di Dante Alighieri che considerava
“due soli”, l’Impero e la Chiesa, come «duplice guida, in relazione al duplice
fine; e cioè il Sommo Pontefice, che conducesse il genere umano alla vita
eterna secondo la Rivelazione, e l’Imperatore, che dirigesse il genere umano
alla felicità temporale secondo gli insegnamenti della filosofia».
8
Il secondo grande elemento è proprio questo, il rapporto dinamico tra
fede e ragione come dispositivo per la formazione dell’identità europea. È
ciò che emerge dal grande dibattito (condito da polemiche e da attacchi
strumentali) che suscitarono le parole di Papa Benedetto XVI nella celebre
lezione di Ratisbona. Proprio l’incontro fra fede biblica e logos, come spiegò
in quell’occasione fondamentale il Papa emerito, «al quale si aggiunge
successivamente ancora il patrimonio di Roma, ha creato l’Europa» e
«rimane il fondamento di ciò che, con ragione, si può chiamare Europa».
Dall’altro lato, invece, la religiosità islamica non solo per sua natura è
trascendente, non solo nel Corano non è concepita la separazione fra fede
ed entità statuale (e nella guerra civile interna all’Islam vengono combattute
dall’Isis guarda caso proprio quelle Nazioni, come la Siria, legate al
socialismo arabo e quindi di impronta laica) ma in alcuni Stati – come
l’Arabia Saudita – la sharia addirittura rappresenta in toto la “Costituzione”.
L’Europa, dunque, è plasticamente tutt’altro che un’espressione
geografica. È un’identità determinata dalla sintesi dei propri connotati di
origine: ed è su questa che poggia la sua sinderesi. Se perde ciò,
semplicemente, non è più Europa. Potrà essere “riempita” da altro. Potrà
tramutarsi in un contenitore. Ma non rappresenterà mai più la stessa
formula; e soprattutto non svelerà più lo stesso contenuto.
**
L’osservazione che viene fatta a questo punto, molto spesso a opera di
decostruzionisti celati e tutt’altro che disinteressati, è nota: tutto questo
potrebbe non rappresentare un problema qualora avvenisse la piena
integrazione dell’Islam in Europa. Tradotto: se gli immigrati diventano
cittadini europei di formazione ma di religione islamica il nodo è sciolto. Una
sorta di pantheon 2.0.
È così? Ingegneria (virtuale) sociale a parte, tutta la discussione riguardo
a un Islam “europeo”, quello che risolverebbe a monte il problema
dell’integrazione, a oggi si scontra con il dato della realtà.
Quale? I due principali punti di riferimento del proselitismo islamico nel
mondo – il Qatar e l’Arabia saudita –, anche se in serrata competizione fra
loro, sono anche quelli che svolgono da anni in modo scientifico e articolato
la più grande azione di penetrazione religiosa e culturale straniera in
Europa. Non solo tramite il finanziamento di moschee, di centri islamici, di
associazioni culturali ma anche puntando dritto al cuore delle élite e dei
suoi interessi economici, attraverso l’esercizio del cosiddetto soft power. Un
esempio facilmente intellegibile arriva dalle sponsorizzazioni dei più
9
importanti club di calcio europei - con una copertura delle principali
capitali (Roma, Madrid e Parigi) - che scendono in campo con i colossi e le
compagnie di bandiera del mondo arabo sul petto.
Incredibile il caso del Real Madrid, con il club – sponsorizzato da Fly
Emirates - che ha scelto anni fa, come vero e proprio atto di “sottomissione”
dissimulato dall’opportunità di marketing, di celare la propria identità
togliendo la croce dalla parte sommitale del simbolo della squadra per la
vendita delle magliette negli Stati arabi: tutto questo per “non turbare” la
sensibilità dei supporter di religione islamica. La stessa scelta, vergognosa e
ben più scellerata, che il governo Renzi fece ai Musei Capitolini,
nascondendo con le tendine le nudità dei capolavori dell’arte italiana per
non disturbare la vista del presidente iraniano Rohani.
L’OPA ideologica araba nei confronti dell’Europa non si esaurisce di
certo sul rettangolo di gioco. Ancora più pernicioso è lo “shopping
finanziario” di aziende e assetti nazionali a opera dei ricchissimi fondi sovrani
delle petrolmonarchie: lo vediamo dagli hotel di lusso a Roma a palazzo
Turati a Milano passando per le filiali italiane della Deutsche Bank e del
Credit Suisse e così via.
Ciò ha fatto sì che il cosiddetto Islam europeo, tanto nella sua veste
istituzionale (la Grande Moschea di Roma sorta e sostenuta dai sauditi, ha
avuto fino a qualche tempo fa l’ambasciatore dell’Arabia Saudita come
presidente del Consiglio di amministrazione) quanto in quella “comunitarista”,
sia interamente un Islam che fa riferimento alle dottrine più integraliste
provenienti dai Paesi del Golfo.
Il risultato? Un’Europa non solo vittima dell’attacco “nichilista” del
terrorismo islamista di prima e seconda generazione – che ha prodotto 729
morti e quasi cinquemila feriti – ma un continente che è diventato a sua
volta centrale di formazione e destabilizzazione internazionale.
Come ha avuto modo di verificare e denunciare Soud Sbai, presidente
delle donne marocchine in Italia, il fenomeno ha assunto forme pericolose
anche per le stesse Nazioni del Nord-Africa e del Medioriente. Un dato
indicativo e sorprendente, infatti, è quello testimoniato da Stati con un Islam
moderato e abituato al confronto con l’Europa, come Tunisia e Marocco.
Negli ultimi anni è accaduto un fatto preoccupante: che cittadini tunisini e
marocchini si siano radicalizzati proprio in Europa, tornando in patria poi a
“praticare” integralismo religioso e politico. Tutto questo sotto gli occhi pigri,
quando non complici, delle istituzioni europee.
10
Un caso di scuola è Molenbeek, il quartiere “no-go zone” di Bruxelles:
fucina di radicalizzati e combattenti dell’Isis, da qui sono partiti i terroristi
che hanno colpito e sterminato al teatro Bataclan di Parigi e hanno
attaccato lo stesso aeroporto della capitale belga. Come si è arrivati a
questo? Grazie ad un patto che alla fine degli anni ‘60 Re Baldovino strinse
con l’Arabia Saudita per la fornitura di petrolio a buon mercato.
L’”appalto” di ritorno? L’esclusiva sul proselitismo a Bruxelles, a partire
dalla costruzione della Grande Moschea in uno spazio concesso per
novantanove anni dal governo belga. Questo ha generato nel tempo
legami sempre più stretti dei membri della comunità con i predicatori salafiti
e un vero e proprio percorso di indottrinamento fanatista per i più giovani
che, dopo essersi formati o essersi convertiti, hanno ingrossato le file dei
foreign fighters per la Siria e l’Iraq al servizio dei gruppi jihadisti. E dove si
troverà mai l’edificio religioso, vero hub del fondamentalismo? Nel Parco del
Cinquantenario, ironia della sorte a due passi dal Palazzo Schuman, il cuore
politico dell’Unione Europea...
**
A questo punto è più che lecito chiedersi se tale processo di islamizzazione
sia davvero inevitabile. I dati ufficiali indicano che l’Europa è un continente
che in termini demografici sta morendo. Il tasso di fertilità è dell’1,3 figli per
donna, quando quello minimo per scongiurare la decrescita di una data
popolazione è di 2,1. Un calo demografico, dunque, che in modo
semplicistico e propagandistico viene dato come ineluttabile, irreversibile e
che, di conseguenza, apre alle tesi che propongono soluzioni grottesche e
pericolose secondo le quali – cito testualmente Emma Bonino, l’aedo
dell’immigrazionismo - occorrerebbe coltivare «il giardino d’infanzia»,
quell’Africa che abbiamo «a 300 chilometri sotto di noi mentre l’Europa è
segnata dal declino demografico».
Deliri propagandistici a parte, sempre le statistiche – come abbiamo
indicato prima - spiegano che i cittadini islamici presenti in Europa hanno
un tasso di fertilità più alto dei non musulmani. L’elemento in più è che
questo risulta comunque abbastanza basso, trattandosi di 2,6. Che cosa
significa? Che da solo sarebbe insufficiente a determinare un processo di
islamizzazione dipendente interamente dalla natalità. O almeno ci
vorrebbero centinaia di anni. Qualcosa in più del «futuro» immaginato da
Houellebecq. O dalle parole grosse del presidente turco Recep Tayyip
Erdogan che ha incitato i musulmani nel continente a fare figli: «Non fate tre
figli, ma cinque. Perché voi siete il futuro dell’Europa. Questa sarà la migliore
11
risposta all’ingiustizia che vi è stata fatta». Al di là del fascino di alcuni
concetti, insomma, i numeri dicono che la realtà, almeno fino ad ora, è
diversa.
Lo è per un motivo semplice: perché gli immigrati che arrivano in
Occidente assumono velocemente diverse abitudini occidentali, inclusa la
tendenza al mettere al mondo un numero minore di figli. Ciò non significa
che ci stiamo preoccupando per nulla. Esattamente il contrario. Sempre i
dati illustrano altri due scenari a proposito della questione immigrazione.
Quando si analizza quella legale, ad esempio, risulta che se le Nazioni
europee fossero interessate solo da questa - essendo equilibrata tra
musulmana e non - non ci sarebbe un processo pervasivo di islamizzazione
dell’Europa (il 46% dei migranti regolari è di religione islamica). I numeri però
ci dicono anche un’altra cosa: che per quanto riguarda l’immigrazione
illegale, invece, questa negli ultimi anni è stata in gran parte di origine
islamica (il 78% dei richiedenti asilo è composto da musulmani). Eppure i
cristiani sono la prima minoranza religiosa perseguita nel mondo (sono
circa 245 milioni): sarebbe legittimo, quindi,aspettarsi un numero consistente
di rifugiati cristiani giungere in Europa. Che cosa comporta, invece, l’attuale
situazione? Che se il trend dovesse proseguire come è stato in questa
stagione, nell’arco di poco più di un secolo la popolazione islamica
supererà quella non islamica. Il futuro, dunque, semplicemente non sarà
più un problema nostro perché non ne faremo quasi più parte.
**
Dopo questa lunga ma necessaria premessa, che fare dunque? Come
pensiamo di governare questo enorme fenomeno storico? Alla luce di un
quadro complesso e con “agenti provocatori” presenti sia nel deep state
italiano che nei network globalisti, le politiche e la visione di chi vuole
difendere l’identità millenaria europea, per ciò che ci riguarda, sono molto
chiare. Per Fratelli d’Italia, come abbiamo sempre ripetuto, prima di ogni
altra cosa è necessario stringersi attorno all’unica cosa che può assicurare
il futuro: i nostri figli. Ossia alle politiche di incentivo alla natalità e di sostegno
alla famiglia naturale. È uno scandalo – rivelatore di una visione distorta
della sua funzione politica e della distanza con le istanze reali dei popoli -
che tra tutte le priorità indicate dall’UE non sia mai entrata la questione
della promozione della natalità.
Per noi invece questo è stato il primo punto del programma con cui ci
siamo proposti agli italiani alle elezioni Politiche. Altri hanno presentato
provvedimenti come il reddito di cittadinanza e Quota 100: temi
12
probabilmente più spendibili in campagna elettorale, ma noi siamo fatti
così, guardiamo sempre e comunque ai grandi fenomeni che interessano
la nostra Nazione. Non ci siamo preoccupati, tutt’altro, di porre questo a
fondamento e orientamento della nostra azione politica. Lo abbiamo fatto
con una proposta più che concreta, opposta e contraria all’assistenzialismo,
come il reddito di infanzia: un assegno mensile importante per i figli dai zero
a sei anni (e poi un sostegno fino ai diciotto anni) con cui lo Stato potrebbe
dimostrare fattivamente la volontà di voler investire sul proprio futuro.
A questo punto, però, non intendo di certo eludere un’osservazione
sensata: sempre i numeri ci dicono che l’Europa può aver bisogno
effettivamente di una quota di immigrazione. Vero, lo richiedono lo sviluppo
industriale, le nuove esigenze sociali (cresce comunque il numero degli
anziani) ma anche un dato che fa parte del nostro milieu, visto che il nostro
continente è stato sempre crocevia di incontri e scambi fra culture.
Questo vuol dire, però, che occorre parlare di immigrazione e affrontare
il fenomeno in modo serio, a partire dal consentire l’ingresso solo per via
legale, sì da poter gestire sia la quantità che la specificità, la qualità,
dell’immigrazione in entrata.
Sotto questo aspetto i dati smontano la narrazione ufficiale: se, come si
dice, il problema principale dell’Europa è quello demografico, significa
allora che si rende necessario l’ingresso specifico di donne e di nuclei
familiari. E invece la maggior parte degli ingressi è appannaggio di uomini
che arrivano da soli. Con una battuta, potremmo dire che quando
nell’antichità i romani si trovarono ad affrontare un problema demografico
finì con il celebre “ratto delle Sabine”. Se avessero compiuto il “ratto dei
Sabini” sarebbero stati certamente all’avanguardia per i loro tempi ma si
sarebbero inevitabilmente estinti.
Con questo che cosa intendo? Semplice: che, come dimostrano le stime
ufficiali del Viminale, nel periodo degli sbarchi massicci – fra il 2012 e il 2017,
con una percentuale bassissima di profughi veri - circa il 90% erano
composto da uomini. Anche sotto l’aspetto demografico, dunque, possiamo
parlare di una truffa a tutti gli effetti.
**
C’è un aspetto, a tal proposito, sul quale le proposte di Fratelli d’Italia
hanno sollevato ulteriore e grande polemica. Quando abbiamo parlato –
proprio per venire incontro alle necessità di una quota di arrivi fisiologica - di
immigrazione “compatibile”. Che cosa intendiamo? Diciamo, intanto, che
la categoria dell’immigrato non esiste. O meglio non è per nulla neutra: non
13
si può immaginare, cioè, che sia indifferente la provenienza e la cultura di
riferimento di chi arriva in Europa; che sia indifferente se abbiamo davanti
un’immigrazione di massa sudamericana o nigeriana. E allora, se è
necessaria una certa quota di immigrazione, noi non abbiamo mai avuto
alcun problema a chiedere di favorire chi ha origini italiane ed europee.
Si stima che nel mondo ci siano decine di milioni di nostri connazionali
che non hanno la cittadinanza italiana, pur avendone diritto. Se l’Italia ha
bisogno di immigrazione la cosa più sensata è favorire allora proprio l’arrivo
di chi ha le nostre stesse origini. L’esempio banale è il caso Venezuela: più
di 20 milioni di abitanti di cui due milioni sono di origine italiana. Nello stato
sudamericano vige il caos e in tanti soffrono la fame e le persecuzioni da
parte del regime comunista di Maduro. Perché allora non prendere gli
immigrati che dovessero servirci da lì? Lo stesso dovrebbe valere su scala
continentale: favorire, quando necessario, l’immigrazione di origine
europea e, in seconda battuta, un’immigrazione proveniente da Stati che
hanno dimostrato di non creare problemi di integrazione o di sicurezza.
Insomma, non proviamo alcun imbarazzo a dire, grazie anche alle
parole importanti del cardinale Biffi pronunciate con grande coraggio
quasi vent’anni fa, che dovremmo caldeggiare l’accoglienza di popolazioni
di origine cristiana: «Preferire i cristiani», spiegava il cardinale, perché «i
musulmani più o meno dichiaratamente, vengono a noi ben decisi a
rimanere sostanzialmente “diversi”, in attesa di farci diventare tutti
sostanzialmente come loro». I motivi li abbiamo spiegati abbondantemente
in questo dossier ma ancora grazie a Biffi ripercorriamo le tracce: «Hanno
una visione rigorosamente integralista della vita pubblica, sicché la perfetta
immedesimazione tra religione e politica fa parte della loro fede indubitabile
e irrinunciabile, anche se aspettano prudentemente a farla valere, di
diventare preponderanti».
Tutte tensioni, provenienti soprattutto dall’Islam fondamentalista e
intimamente anti-occidentale, che sono state dibattute con grande
scrupolosità su queste pagine. Eppure i governanti europei rimangono
sostanzialmente sordi e ciechi dinanzi a segnali così evidenti. Non a caso il
cardinale temeva con grande lungimiranza e attualità, ancora di più
dell’invasione, «la straordinaria imprevidenza dei responsabili della nostra
vita pubblica» e «l’ inconsistenza dei nostri opinionisti».
Gli stessi che si scandalizzano e alzano gli scudi davanti alle nostre
proposte.
14
Perché, la domanda è pertinente, lo fanno? Perché il disegno globalista
ha come primo obiettivo quello di distruggere le identità. Un’immigrazione
di massa che non scardina l’identità non è più funzionale a questa
dinamica. Prendiamo il caso della Polonia, governata dai sovranisti. L’UE ha
attaccato la Polonia perché rifiuta di prendersi quote di immigrati arrivati in
Europa provenienti dall’Africa e dal Medioriente. I polacchi hanno risposto:
abbiamo dato ospitalità ad un milione di ucraini. Lì c’è una guerra civile e
ci sono, davvero, migliaia di persone che scappano dal conflitto, di certo
più di molti africani. La risposta qual è stata? «Non contano». Già, sono
europei. Il problema della Polonia dunque non è che non accoglie rifugiati,
ma è che trattandosi di europei, cristiani, assimilabili tranquillamente allo
stile di vita dei polacchi, quelli che vengono accolti non sono funzionali
all’opera di destrutturazione. Ed è lo stesso motivo per il quale i buonisti che
hanno sempre una parola buona per chiunque, non dicono nulla sul
Venezuela e i suoi perseguitati: già, non sentiremo mai gli immigrazionisti
part-time spendere una parola nemmeno per loro.
Alla fine tutto ruota attorno alla nostra identità: elemento vivificante e
distintivo. Per questo Inserire un richiamo alle nostre radici classiche e
cristiane come cornice e paradigma nei trattati dell’Unione Europea risulta
un atto di affermazione necessario e fondamentale, non solo per dare
un’anima all’architettura comunitaria ma anche per fornire uno schermo di
protezione contro tutti i tentativi di colpire dall’esterno (o svuotare dall’interno)
l’impianto della civiltà europea, il suo diritto al futuro. «Non si recidono le
radici sulle quali si è cresciuti», esortava non a caso un gigante della storia
come Giovanni Paolo II a proposito del sostrato d’Europa. Da sradicati a
sottomessi, infatti, il passo è più breve di ciò che si pensi.
Giorgia Meloni
giornalista, deputato, presidente di Fratelli d’Italia
15
INTRODUZION E
NÉ DISCRIMINAZIONE,
NÉ SOTTOMISSIONE
di Adolfo Urso
11 settembre è una data che ricorre nello scontro tra civiltà. Ieri, come
oggi. Nella storia e nella cronaca. La data più recente è da tutti ricordata,
ha segnato la nostra generazione, cambiato costumi e paradigmi, le regole
della sicurezza e la nostra vita quotidiana. Quella più lontana non lo ricorda
più nessuno, eppure gli eventi che si verificarono, alle porte di Vienna,
salvarono la civiltà cristiana ed europea dalla dominazione islamica,
quando ormai in pochi ancora vi speravano e in molti anche allora si erano
rassegnati.
11 settembre 2001, a New York, nella capitale dell’Occidente di oggi, il
drammatico attentato alle Torri Gemelle segnò la fine del sogno globalista,
evidenziando come il nuovo “nemico” fosse il fondamentalismo islamico a
lungo tollerato e qualche volta persino utilizzato. È allora che si conclude la
breve speranza di un mondo pacifico e di una crescita illimitata, descritti
nella “fine della storia” di Francis Fukuyama, mai tanta profezia così presto
smentita!
Il processo in atto in questi giorni negli Stati Uniti, intentato dalle famiglie
delle vittime nei confronti dell’Arabia Saudita, che tanto imbarazzo suscita
proprio alla Casa Bianca, ci farà capire quale sia stato il vero ruolo della
potenza sunnita nel terrificante attentato che ha cambiato gli assetti del
Mondo. Fatto tanto più importante alla luce degli avvenimenti odierni nel
Golfo Persico che dovrebbero farci riflettere su chi siano i veri “nemici” e
quali i potenziali “amici”. Il recente rapporto delle Nazioni Unite sul terrorismo
ci ricorda come il pericolo sia ancora molto presente e lancia il suo allarme
all’Europa su nuovi terrificanti attentati ad opera dell’ISIS, ricordando come
l’organizzazione possa ancora contare su 30.000 foreign fighters molti dei
quali rientrati nella nostra Unione e pronti a colpire.
Peraltro, che l’Europa e l’Italia siano accerchiate lo dimostrano gli
avvenimenti che si succedono in tutto il Mediterraneo ed anche nei Balcani.
In Libia, si combattano le potenze sunnite: da una parte Arabia Saudita ed
16
Emirati, che possono contare sull’Egitto di Al Sisi e soprattutto sulla Francia
di Macròn nel sostegno al generale Haftar; dall’altra Qatar e Turchia che
sostengono le milizie di Tripoli che insieme con Misurata sono arroccate a
difesa del governo di Al Serraj. L’Italia è orami fuori gioco in Libia, teatro di
prioritario interesse nazionale per una serie di fattori strategici e vitali per il
nostro Paese: energetici ed economici, culturali e politici e certamente sul
fronte della sicurezza, come dimostra la cronaca e tanto più la storia.
La situazione è compromessa anche in Medio Oriente, in Siria e in Libano,
area dove eravamo il primo partner commerciale e spesso politico, e
persino in Turchia e nei Balcani, con il regime di Erdogan che ripropone
l’Impero Turco sia nell’espansione a Sud, sia soprattutto nella penetrazione
in Europa, teorizzata persino con l’arma della natalità e quindi della
demografia.
Nel Balcani emerge in tutta evidenza un conflitto che vede in campo, in
un intreccio di interessi con la Turchia, anche e soprattutto Russi, Americani,
Tedeschi e Francesi. I Russi a difesa dei Serbi e con la antica aspirazione di
raggiungere lo sbocco nel Mediterraneo; gli Americani a difendere il nostro
e loro Mare, al fianco degli Albanesi, in Albania ma anche in Kosovo e in
Macedonia, e nel sostegno a Dukanovic in Montenegro; la Germania che
sin dal riconoscimento della Croazia ha ripreso la sua espansione nel
Balcani, con la Francia che anche in questo caso, si fa sentire persino a
Belgrado. Italia in arretramento su tutta la linea, rischia di apparire
estromessa persino in quella terra così segnata dalla nostra storia e dalla
nostra cultura.
L’esodo dei cristiani dalla Bosnia e in qualche modo anche dal resto
della Regione e nel contempo il sostegno di Arabia Saudita e Qatar alla
locale comunità islamica, anche attraverso il finanziamento delle Moschee,
evidenzia quando caldo sia il fronte persino dentro l’Europa e lungo la
frontiera della integrazione. I conflitti politici esasperati all’interno di questi
Paesi, le manifestazioni anche violente, qualche episodio di guerriglia e
certamente la incombente minaccia della migrazione clandestina che
qualcuno maneggia come “bomba demografica” da far esplodere contro
il nostro Continente sin dai campi profughi Siriani in Medio Oriente, così
come dalle nuove rotte dell’immigrazione, sono elementi di ulteriore
preoccupazione.
Peraltro, i simboli ricorrono sempre: i leader di Ungheria, Polonia e
Cecoslovacchia, scelsero di realizzare la nuova Alleanza nella città-castello
ungherese di Visegrad, il 15 febbraio del 1991, pochi mesi dopo la liberazione
17
dal gioco sovietico, proprio per evocare il luogo dove si svolse nel 1335 il
congresso medievale di Boemia, Ungheria e Polonia che molti storici
richiamano quando evocano la reazione Cattolica alla Islamizzazione
d’Europa.
In questo contesto, davvero plumbeo per il nostro Paese, si inserisce il
conflitto in atto nel Golfo Persico con gli Stati Uniti, nostro principale alleato,
schierati a sostegno del regime feudale di Riad, nello scontro tra la coalizione
sunnita e l’Iran sciita che, comunque, ha combattuto in Siria e in Iraq, al
nostro fianco, contro l’ISIS, così come aveva fatto contro Al Qaida.
La “guerra” si combatte in tutta la Regione ed ha raggiunto l’apice della
sofferenza nello Yemen, dove secondo le Nazioni Unite si sta verificando la
più grande attuale tragedia dell’umanità, le cui principali vittime sono
proprio i bambini, massacrati dalle bombe della coalizione sunnita che
colpiscono scuole ed ospedali per terrorizzare le popolazioni.
Peraltro la minaccia del fondamentalismo islamico è in atto ormai da
decenni, le cui prime avvisaglie erano già presenti nel conflitto - etnico,
religioso e civile - che ha dilaniato i Balcani, così come nella drammatica
guerra civile in Algeria, nella guerriglia in Afghanistan, in Pakistan, in
Indonesia, soprattutto nell’espansionismo lungo la frontiera “verde”
nell’Africa nera. Ci sarà tempo e luogo per esaminarlo in modo più
appropriato.
In questo primo Rapporto abbiamo preferito focalizzare lo stato di
conoscenza del fenomeno e accertare quale sia l’atteggiamento degli
italiani rispetto alla possibile islamizzazione d’Europa, nuova e più grave
minaccia, dopo quella che come europei abbiamo evitato appunto quasi
cinque secoli fa, sempre nella medesima giornata.
È l’11 settembre 1683 quando le forze cristiane riescono finalmente a
spezzare l’assedio turco alla città di Vienna, che segna la fine
dell’espansionismo islamico. La Turchia ieri come oggi, attraverso i Balcani,
coniuga religione e nazione in una miscela esplosiva, carica di minacce.
A Vienna fu decisiva la mobilitazione dell’Europa centrale che, anche
grazie alla partecipazione dei contingenti italiani allora sotto il dominio
austriaco, vinse la battaglia, malgrado il doppio gioco a lungo praticato
proprio dal Regno di Francia di Luigi XIV. La Francia era anche allora
nascostamente alleata dei Turchi, perché riteneva di beneficiare di un
ulteriore indebolimento dell’Austria, e solo per le ripetute insistenti pressioni
papali fece finta di schierarsi contro gli Islamici, inviando una missione
navale di fronte ad Algeri, ben lontana dal fronte caldo di Vienna!
18
La storia si ripete, con gli stessi attori che ripropongono le stesse divisioni
e contrapposizioni, mentre ieri come oggi sarebbe necessaria la massima
unità di intenti della nostra Europa.
L’11 settembre del 1683 come l’11 settembre del 2001, l’attacco giunge
nel cuore dell’Occidente, che nel frattempo non è più Vienna, ma New
York. Data emblematica che vogliamo ricordare non come memoria, ma
come contributo per definire il futuro, nella piena consapevolezza che
siamo ancora una volta nel crinale della storia.
Questo rapporto, curato dalla Fondazione Farefuturo con il contributo
dell’Ufficio Studi di Fratelli d’Italia, si pone l’obiettivo di rilevare, anno per
anno, se, come e in che modo si stia realizzando una nuova minaccia di
islamizzazione d’Europa, con quali strumenti e obiettivi e se, nel contempo,
esistano politiche pubbliche di difesa efficaci e quali possano essere
realizzate in sede statuale, negli organismi europei e in quelli internazionali.
Il rapporto si rivolge innanzitutto agli attori pubblici, con una analisi
rigorosa, scevra da pregiudizi ma anche da freni inibitori, che individua
alcuni indicatori statistici e sociali, nel proporre soluzioni e linee di intervento
a breve e medio periodo, ma intende, nel contempo, anche contribuire a
sviluppare una più consapevole percezione del fenomeno, di quale sia la
reale posta in palio e di quali siano gli attori in campo, così che si possano
sviluppare i necessari anticorpi nel tessuto culturale e sociale, nazionale ed
europeo. Se manca la consapevolezza di quale sia lo penetrazione islamica
in Europa non si possono misurare a quale stadio sia giunto lo scontro in
atto e le possibili reazioni. Per reagire all’assedio di Vienna fu necessaria la
mobilitazione della migliore aristocrazia europea che, superate le ancestrali
divisioni, accorse infine in battaglia nell’ultima linea di difesa possibile,
quando ormai le armate turche erano nel cuore d’Europa.
Siamo oggi nelle stesse condizioni? La penetrazione islamica è già nel
cuore d’Europa? E quali sono le armate turche? A quali nazioni
appartengono? Quali strumenti utilizzano? Oggi come allora, la minaccia
appare lontana eppure è ormai vicinissima.
Oggi come allora, la linea di difesa non può essere ristretta a chi è in
prima linea, a chi subisce l’offensiva ma riguarda la civiltà europea
comunemente intesa, anche quella che appare lontana dal fronte.
Oggi come l’11 settembre del 2001, la reazione deve essere comune e
consapevole.
Stavolta prima culturale e poi semmai militare. Perché proprio
l’Afghanistan insegna che la reazione militare è priva di efficacia se non
19
accompagnata anche da una reazione culturale. Diciotto anni dopo, le
truppe dell’Alleanza sono ancora a Kabul, costrette a trattare con i Talebani,
perché non si combatte solo sul terreno né con Al Qaida, né tanto meno
con l’ISIS, ancorché avesse proclamato il Califfato proprio in quella che era
la Mesopotamia, culla della civiltà dell’uomo. Si combatte nei cuori e nei
cervelli, tanto più in Europa.
Questo Rapporto contiene anche un’indagine demoscopica, con
indicatori misurati nel tempo, che evidenzia tra l’altro lo sviluppo del
sentimento popolare su alcuni temi chiave e la percezione della situazione
in atto, così come misura il grado di consenso di alcune politiche di cui si
dibatte in Italia e in Europa, spesso senza alcun raffronto statistico o per lo
meno demoscopico. Si avverte, in tutta evidenza, la consapevolezza della
minaccia, ancorché permane la speranza di una convivenza pacifica tra
Cristianità e Islam anche e soprattutto in Europa e nel Mediterraneo. È
diffusa la percezione che la convivenza sia possibile e che, malgrado la
crescita della radicalizzazione islamica, la gran parte dei cittadini europei
di religione islamica sia tuttora propensa ad una pacifica integrazione.
Emerge, soprattutto, il ruolo della donna, percepita come la principale
vittima del fondamentalismo e nel contempo come il principale attore di
una politica di integrazione, in quanto moglie e soprattutto madre, fattore
già rilevato alcuni anni fa in una precedente analisi della nostra Fondazione,
quando la minaccia del fondamentalismo appariva ancora lontana dai
confini europei.
In generale il nostro sondaggio evidenzia una visione degli Italiani non
preclusiva nei confronti degli Islamici in Europa, verso i quali vi è ancora
fiducia sulla loro capacità di integrarsi, anche se emerge in tutta evidenza
la consapevolezza di quanto sia grave la sottomissione della donna nella
cultura Islamica, questione che sembra la più rilevante e comunque
emblematica. Gli Italiani in larghissima misura sono contrari a realizzare
“eccezioni legislative” per venire incontro alle esigenze degli Islamici, ad
esempio consentendo la poligamia, ed esigono anzi “il rispetto totale delle
leggi in vigore”, senza eccezioni. Accettazione, quindi; tolleranza,
convivenza, integrazione ma non “sottomissione”.
Gli Italiani avvertono l’importanza di nuovi più efficaci interventi sul fronte
della sicurezza, della legalità e della tutela della nostra cultura e dei nostri
costumi, ma sono assolutamente scevri da atteggiamenti xenofobi, che
condannano senza infingimenti. Desiderano, ad esempio, che sia introdotto
“uno speciale reato per chi predica odio tra le religioni e giustifica gli atti di
20
terrorismo”, così come chiedono che “sia reso obbligatorio che le prediche
nelle moschee avvengano in italiano, in modo che possano essere capite”.
Aumenta la contrarietà alla “ius soli” ed è forte la richiesta che “gli immigrati
facciano un corso di lingua italiana e di educazione civica prima di essere
integrati”, mentre appare ancora minoritaria la proposta di gestire le quote
dei migranti in favore dei cattolici, discriminando gli Islamici.
Non vi è, peraltro, piena consapevolezza di quale sia la reale condizione
dei Cristiani e degli ebrei nei paesi Islamici e di come l’espansionismo
Islamico si sia realizzato nel passato, lacune che devono far riflettere a fronte
delle persistenti notizie di cronaca, talvolta drammatiche, sinora
evidentemente ancora non pienamente percepite.
Emerge evidente su tutto quanto sia forte, radicata, condivisa la natura
degli “Italiani brava gente”, popolo mediterraneo, aperto e inclusivo, erede
della civiltà imperiale romana, che nemmeno la minaccia islamica potrà
mutare. Vi è l’accettazione piena dell’altro, purché questo “altro” non
pretenda di cambiare la nostra vita, ma accetti di integrarsi rispettando le
nostre leggi come appunto nell’era romana. Nessuna discriminazione ma
anche nessuna sottomissione: questo ci appare l’elemento prioritario che
emerge dalla nostra indagine.
Il rapporto è, inoltre, suffragato con analisi e commenti dei componenti
del Comitato scientifico che definiscono alcuni aspetti cruciali della
questione islamica, sempre frutto di una rigorosa interpretazione
professionale rispettosa della realtà e priva di pregiudizi, che offre al lettore
e certamente anche allo studioso ulteriore materiale per arricchire il proprio
bagaglio culturale, spesso mettendo in discussione luoghi comuni ormai
percepiti dai più come superati.
Siamo consapevoli che questo primo Rapporto abbia ancora alcune
lacune nella raccolta dei dati e altri limiti interpretativi; sarà nostro impegno
integrarlo nelle successive edizioni con indicatori ancora più specifici,
soprattutto per quanto riguarda gli aspetti economici, sociali e legislativi
del fenomeno islamico in Europa.
Siamo, però, altrettanto convinti che il fatto stesso di aver realizzato un
Rapporto specifico sul tema sia di per sé “rivoluzionario” proprio perché
colma una lacuna non più giustificabile a fronte della portata
dell’espansionismo islamico nel nostro Continente, come se ci fosse davvero
una sorta di sottomissione culturale, tanto più pericolosa di quella reale,
soprattutto nella società virtuale in cui predomina l’apparenza.
21
La sottomissione è la prima “catena mentale” non ancora materiale che
l’Europa dovrà spezzare se intende davvero reagire alla “decadenza”,
riaffermando i valori della propria civiltà, cosa necessaria per sé ma utile
per il mondo intero.
Adolfo Urso
presidente della Fondazione Farefuturo,
senatore, vice presidente del Comitato parlamentare
per la Sicurezza della Repubblica
22
PRIMA PARTE
IL SENTIMENTO DEGLI ITALIANI.
SONDAGGIO
23
ITALIANI CREDONO NELLA INTEGRAZIONE
MA ALLE NOSTRE REGOLE.
I RISULTATI DEL SONDAGGIO
di Arnaldo Ferrari Nasi
24
aumento [Tavola 1]. È dunque comprensibile come una netta maggioran-
za di italiani (59%) richieda che vengano fatti speciali controlli sui residenti
islamici in Italia, pur se regolari, un dato, di per se stesso, molto significativo
[Tavola 2].
In ogni caso, gli italiani danno fiducia. Se il 27% ritiene che l’Islam sia fon-
damentalmente una religione violenta ed intollerante, il 40% dice che lo è
stata solo in passato, ma oggi sia potenzialmente “pacifica e tollerante”, men-
tre tout court il 23% lo indica così, positivamente. [Tavola 3]. Questi due dati,
sommati, danno all’incirca lo stesso valore, 62%, di chi ritiene che la maggior
parte dei fedeli islamici, in Italia, sia moderata [Tavola 4].
Se pensiamo agli italiani come diretti eredi di Roma e della sua cultura,
questo è coerente. Roma governava su tre continenti e più di uno dei suoi
imperatori più grandi fu di origine provinciale: l’iberico Adriano; l’illirico Diocle-
ziano; il libico Settimio Severo, moro! Ma è vero che se l’Impero era multietnico,
non era certo multiculturale: se si aveva il privilegio di esserne o diventarne
cittadini si doveva vivere secondo la legge ed i valori di Roma, pur tenendo
la propria religione, ma adattando le proprie usanze. Anche in questo caso,
gli italiani sono sulla stessa linea degli antichi progenitori: l’85%, che significa
quasi la totalità, ritiene che: “gli immigrati, in ogni caso, dovrebbero fare un
corso di lingua italiana e di educazione civica prima di essere regolarizzati”
[Tavola 5]. Ancora più esplicito è il 64% che esige il rispetto totale delle leggi
italiane in vigore, proprio come tramite per l’ottenimento della piena integra-
zione. Non è però trascurabile quel 20%, uno su cinque, che permetterebbe
deroghe motivandole col rispetto delle esigenze religiose dei musulmani; ad
esempio, negli ospedali, far visitare le donne islamiche solo da medici donne,
con buona pace dell’Articolo 3 della Costituzione che garantisce pari digni-
tà sociale a tutti i cittadini, senza distinzione di sesso, razza e via dicendo. E
addirittura, vi è un 11% che vorrebbe leggi specifiche per le nuove comunità
di immigrati, come una legge sulla poligamia [Tavola 6].
25
rispetto agli uomini, ovvero che abbiano meno diritti e più doveri [Tavola 8].
Allo stesso modo, solo il 12% ritiene che la diffusione dell’Islam nel Mediter-
raneo arabo sia avvenuta mediante conquiste militari, come effettivamente è
stato, e non con la predicazione. Il 64% indica ”in entrambi i modi, a seconda
dei periodi storici” [Tavola 10].
26
Si può sostenere che una giusta sintesi di tutto quanto visto in precedenza
la dia l’ultima domanda presentata, sul tema dello ius soli. Solo un terzo del
campione, il 35%, ritiene che il figlio nato in Italia da entrambi i genitori stranie-
ri debba “essere considerato italiano in automatico”. Per i rimanenti è neces-
sario un non breve periodo di tempo per comprovare la vera possibilità di di-
ventare italiani: molti anni. Al diciottesimo dalla nascita e solo su sua richiesta,
per il 31%, come prevede la legge attuale; o a sedici anni, in automatico, ma
solo dopo aver frequentato con successo le scuole dell’obbligo [Tavola 15].
Per concludere, individuando una chiave di lettura per quanto visto, viene
disegnato il contesto di un’Italia non fobica, non preconcetta, verso l’Islam;
questo, a mio modesto parere, è un grande punto d’onore, che ancora una
volta dimostra quanto l’italiano sia impregnato di quella cultura classico-u-
manistica che altri popoli/nazioni occidentali, difficilmente potranno rag-
giungere.
27
DOSSIER
SULL’ISLAMIZZAZIONE
28
TAVOLA 1
Parliamo delle diverse nazionalità/gruppi etnici che vivono in Italia e che
talvolta danno problemi con la sicurezza e l’ordine pubblico. Quali sono tra
questi quelli che lei teme di più? Ne indichi al massimo due.
20081 2019
Nordafricani
7 13
(come Marocchini, Tunisini)
Africani neri
3 11 13 28
(come Senegalesi, Nigeriani)
Pakistani 1 2
Albanesi 36 11
Rumeni 33 20
Slavi
9 4
(come Ucraini, Moldavi)
Cinesi 3 4
Latinoamericani di lingua spagnola
(come Equadoregni, Peruviani, 1 3
Venezuelani)
Brasiliani 0 1
Zingari 39 25
Non so 29 40
29
TAVOLA 2
Può dirci se è d’accordo o non d’accordo con questa affermazione che
abbiamo sentito da altri?
“Bisogna fare controlli speciali sui musulmani in Italia, anche su quelli
regolari che risiedono qui da anni”
2019
Molto 24
59
Abbastanza 35
Poco 24
38
Per nulla 14
Non so 3
Totale 100
TAVOLA 3
Ecco alcune frasi sull’Islam ed i musulmani, che abbiamo sentito da altri
intervistati. Può dirci per favore quali si avvicinano di più alla sua opinione?
"L’Islam è fondamentalmente...”
2019
Totale 100
30
TAVOLA 4
Può dirci se è d’accordo o non d’accordo con questa affermazione che
abbiamo sentito da altri?
“In Italia, la maggior parte dei fedeli islamici è moderata”
2019
Molto 16
62
Abbastanza 46
Poco 21
28
Per nulla 7
Non so 10
Totale 100
TAVOLA 5
Può dirci se è d’accordo o non d’accordo con questa affermazione che
abbiamo sentito da altri?
“Gli immigrati, in ogni caso, dovrebbero fare un corso di lingua italiana e di
educazione civica prima di essere regolarizzati”
20092 2019
Molto 47 49
77 85
Abbastanza 30 36
Poco 10 12
17 14
Per nulla 7 2
Non so 6 1
31
TAVOLA 6
Secondo lei, l’integrazione degli immigrati musulmani in Italia si favorisce
più efficacemente...
2019
Totale 100
TAVOLA 7
Ecco alcune frasi sull’Islam ed i musulmani, che abbiamo sentito da altri
intervistati. Può dirci per favore quali si avvicinano di più alla sua opinione?
“Una donna che indossa il velo in Italia...”
2019
Totale 100
32
TAVOLA 8
Ecco alcune frasi sull’Islam ed i musulmani, che abbiamo sentito da altri
intervistati. Può dirci per favore quali si avvicinano di più alla sua opinione?
“Secondo la legge islamica (shari’a), le donne sono...”
2019
Totale 100
TAVOLA 9
Per favore, risponda, secondo le sue conoscenze, a questa domanda che
abbiamo posto anche ad altri intervistati:
“Secondo la legge islamica (shari’a), gli Ebrei e i Cristiani possono vivere in
uno stato islamico?”
2019
Totale 100
33
TAVOLA 10
Ecco alcune frasi sull’Islam ed i musulmani, che abbiamo sentito da altri
intervistati. Può dirci per favore quali si avvicinano di più alla sua opinione?
“L’espansione dell’Islam nel Mediterraneo fuori dalla Penisola Araba è
avvenuta prevalentemente:”
2019
Totale 100
TAVOLA 11
Ecco alcune frasi sull’Islam ed i musulmani, che abbiamo sentito da altri
intervistati. Può dirci per favore quali si avvicinano di più alla sua opinione?
“La maggior parte degli immigrati musulmani in Italia vorrebbe:”
2019
Totale 100
34
TAVOLA 12
Può dirci se è d’accordo o non d’accordo con questa affermazione che
abbiamo sentito da altri?
“Bisogna introdurre uno speciale reato in Italia, per chi predica odio tra le
religioni e giustifica gli atti di terrorismo”
2019
Molto 46
80
Abbastanza 34
Poco 9
16
Per nulla 7
Non so 4
Totale 100
TAVOLA 13
Può dirci se è d’accordo o non d’accordo con questa affermazione che
abbiamo sentito da altri?
“È giusto obbligare che le prediche nelle moschee italiane avvengano in
italiano, in modo che possano essere capite”
2019
Molto 25
56
Abbastanza 31
Poco 22
40
Per nulla 18
Non so 4
Totale 100
35
TAVOLA 14
Ecco alcune frasi sull’Islam ed i musulmani, che abbiamo sentito da altri
intervistati. Può dirci per favore quali si avvicinano di più alla sua opinione?
“In generale, gli immigrati musulmani in Italia”
2019
Totale 100
TAVOLA 15
Si parla molto dei figli nati in Italia da entrambi i genitori stranieri. A quale di
queste tre proposte si sente più vicino?
20143 2019
36
METODOLOGIA
Universo popolazione italiana adulta
Campione rappresentativo, 800 casi
Committente Fondazione Farefuturo
Realizzazione AnalisiPolitica.it
Rilevazione 22-24 luglio 2019
Note
37
L’ISLAMOFOBIA:
MALATTIA DELL’IMMAGINARIO
O MALATTIA IMMAGINARIA?
di Giuseppe Cecere
2 Sul pensiero dell’altro come cifra dominante della filosofia contemporanea, prodotto della
convergenza tra le “principali linee di forza della cultura accademica”, si veda Renato Cristin, I
padroni del caos, Macerata: Liberilibri, 2017, in particolare pp. 49-113.
38
una paradossale alleanza implicita tra due opposti estremismi: da un lato,
quello che viene spesso chiamato “islamismo radicale”, dall’altro, le destre
che vengono dette “xenofobe” - due campi di forze evidentemente
contrapposti ma che sarebbero entrambi impegnati, per finalità differenti
ma con esiti convergenti, in una sistematica opera di manipolazione della
paura delle popolazioni autoctone - alimentata dalla diffusa ignoranza in
materia di Islam - e della “retorica dello scontro di civiltà”; il tutto, allo scopo
di alimentare il conflitto tra “diversi” e rendere così impossibile la serena e
pacifica integrazione delle persone e delle comunità di fede musulmana
nelle società occidentali. Questo, in estrema sintesi e con le semplificazioni
che le sintesi spesso comportano, sembra essere il senso (nella duplice
accezione di “significato” e “direzione”) del discorso pubblico prevalente sul
tema della islamofobia: da un lato, si tende a negare il carattere
potenzialmente problematico della massiccia diffusione di un sistema
valoriale “altro” all’interno delle società europee, attribuendo caratteri
“fobici” - e talvolta “razzistici” - a qualunque discorso critico sul tema;
dall’altro lato, si afferma la necessità, per superare i residuali conflitti indotti
dagli opposti estremismi, di moltiplicare la conoscenza dei “caratteri
autentici dell’Islam” (auspicio condivisibile in astratto, ma che resta privo di
senso senza una adeguata problematizzazione della nozione di Islam e
della stessa nozione di “autenticità”) e, soprattutto, di incrementare la
presenza demografica e la “rappresentatività” culturale e politica dei
musulmani nel nostro Paese come nel resto dell’Unione Europea. Se
“l’ignoranza” è causa della patologia, la “conoscenza” - delle culture e
delle persone concrete- è insomma l’unica efficace terapia per contrastarla.
Senza ovviamente contestare in alcun modo i pericoli dell’ignoranza ed
il positivo valore della conoscenza reciproca nei rapporti tra persone e
gruppi di culture differenti, sembra tuttavia opportuno compiere un tentativo
di problematizzare alcuni aspetti del sistema di rappresentazioni sin qui
descritto, che appaiono di assoluto rilievo a livello epistemologico.
Preliminare alla progettazione di un qualunque percorso terapeutico, è
infatti la possibilità di formulazione di una diagnosi corretta. Ora, è proprio
su questo punto che le rappresentazioni della islamofobia nella società
italiana sembrano richiedere una attenta verifica - e forse anche una
profonda revisione - per un duplice ordine di motivi.
In primo luogo, nella valutazione dei “sintomi” non si può prescindere da
una adeguata valorizzazione di indicazioni, anche statistiche, che sembrano
porsi in contrasto con l’immagine, sin qui evocata, di una società
islamofobica.
39
In secondo luogo, la definizione stessa della “patologia” qui presa in
esame è ben lungi dall’essere oggetto di unanime accordo sia in sede
scientifica che in sede di pratica applicazione (incluse le prassi sociali e
istituzionali). Infatti, per alcuni osservatori la nozione di islamofobia andrebbe
riferita, in linea con l’etimologia del termine, esclusivamente a forme di
“paura infondata” o di “avversione pregiudiziale” contro la religione e la
cultura islamica (è questa, ad esempio, la definizione del lemma nel
Dizionario Treccani)3. Per molti altri tale nozione include, come si è detto,
forme di razzismo contro le persone che praticano la fede musulmana o
provengono da quella cultura (come nei già citati documenti dell’Ufficio
Nazionale Anti-Razzismo, UNAR). Per altri ancora, essa sembra doversi
estendere, di fatto, a qualunque critica - anche razionalmente argomentata
- nei confronti della religione e della civiltà islamica o di particolari aspetti di
essa, in quanto ciò sarebbe comunque espressione di una tendenza ad
affermare gerarchie di valori tra le diverse culture (è stato questo, ad
esempio, il ragionamento alla base del processo disciplinare per islamofobia
avviato, nel 2014, dall’Ordine dei Giornalisti contro Magdi Cristiano Allam,
conclusosi peraltro con una piena assoluzione4). Infine, nel ricorrente
dibattito sull’identità culturale europea e sulle diverse identità nazionali,
sono emerse posizioni tendenti a squalificare come islamofobica qualunque
rappresentazione identitaria che non contempli l’esplicita inclusione
dell’Islam tra i fattori costitutivi - anche in proiezione storica - di tale identità:
un esempio tra molti, le critiche espresse dall’intellettuale musulmano
francese Abd Al Malik, in nome tanto della laicità quanto del contrasto alla
islamofobia, contro l’affermazione della originaria connotazione “giudaico-
cristiana” dell’identità francese5; una linea sulla quale si è spinto
recentemente, con esiti paradossali, anche un analista politico italiano
generalmente sobrio come Antonio Polito, il quale, in un articolo apparso
sul Corriere della Sera dopo la strage alla moschea di Christchurch, ha
ridotto la battaglia navale di Lepanto, e la stessa impresa di Carlo Martello
a Poitiers, a simboli della islamofobia contemporanea6.
3 http://www.treccani.it/vocabolario/islamofobia/
4 https://www.magdicristianoallam.it/editoriale/io-assolto-perche-l-islamofobia-non-esiste.html
5 Cfr. Abd Al Malik, Place de la République. Pour une spiritualité laïque, Bouziques: Indigènes
éditions, 2015, p. 9.
6 https://www.corriere.it/opinioni/19_marzo_15/quei-limiti-invalicabili-2d41ab3a-4760-11e9-93fb-
6bb49234797c.shtml
40
Per queste molteplici ragioni, appare necessario spingere l’analisi più a
fondo, per verificare se la società italiana sia realmente affetta, o anche
solo insidiata, da una “malattia dell’immaginario” definibile come
islamofobia, o se questa non debba piuttosto ritenersi come una “malattia
immaginaria”.
Ovvero, se la diagnosi di islamofobia non sia a sua volta il prodotto di
una fobia - ispirata da considerazioni di natura ideologica - che rischi di
paralizzare, nelle spire del politicamente corretto, il discorso pubblico sul
rapporto con l’universo materiale e simbolico dell’Islam - nelle molteplici
accezioni che il termine comporta: come visione religiosa e sistema di
pensiero; come civiltà storicamente articolata in una pluralità di forme di
vita sociale e culturale e in una varietà di realtà politiche e statuali ispirate
ad un comune costellazione di principi; come complessa tradizione
giuridica; come rete di organizzazioni nazionali ed internazionali; come
riferimento identitario e valoriale - variamente inteso, declinato e
problematizzato - delle singole persone di fede musulmana.
7 Cfr. Alessandra Coppola, “Con gli attacchi di Parigi torna l’islamofobia. Ma questa è la
strategia dell’Isis”. Corriere della Sera online, s.d.. https://www.corriere.it/esteri/speciali/2015/
islamofobia/
(consultato online in data 05/08/2019).
8 Cfr. Gabriele Catania, “Italia capitale europea dell’islamofobia: il 63% di noi è ostile ai
musulmani”, Gli Stati Generali, 1 dicembre 2015 (consultato in data 03/08/2019). https://www.
glistatigenerali.com/integrazione/islamofobia-sei-italiani-su-dieci-sono-ostili-ai-musulmani/.
In realtà, il dato indicato nella ricerca del PEW Center indica una percentuale di “opinioni
sfavorevoli” leggermente inferiore: 61% e non 63%.
41
base di un’indagine condotta in diversi Paesi europei dal think-tank
statunitense PEW Research Center 9. Da allora, il PEW ha prodotto diverse
analisi sul sentiment verso i musulmani, spesso affermando l’esistenza di
una correlazione inversamente proporzionale tra la consistenza demografica
della “presenza” musulmana in un dato Paese europeo e l’indice di ostilità
anti-musulmana nella popolazione autoctona (ossia: meno numerosi sono
i musulmani, più numerosi sarebbero gli islamofobi). In particolare,
un’indagine condotta nel 2018 in quindici Paesi europei dimostrerebbe
come chi abbia una conoscenza diretta di persone di fede islamica tenda
più di altri ad avere un’opinione favorevole nei confronti dei musulmani e
dell’Islam10. L’islamofobia sarebbe quindi determinata, o comunque
alimentata, essenzialmente dall’ignoranza.
9 Cfr. “Italians Most Critical of Muslims”, PEW Research Center, June 1, 2015: https://www.
pewresearch.org/global/2015/06/02/faith-in-european-project-reviving/eu-report-06/
(consultato in data 03/08/2019).
10 Cfr.Scott Gardner & Jonathan Evans, “In Western Europe, familiarity with Muslims is linked to
positive views of Muslims and Islam”, PEW Research Center, July 24, 2018:
https://www.pewresearch.org/fact-tank/2018/07/24/in-western-europe-familiarity-with-
muslims-is-linked-to-positive-views-of-muslims-and-islam/
11 Per un primo, sommario elenco di opere sull’islamofobia che insistono sul nesso tra questo fenomeno
e l’ignoranza e/o distorsione della cultura e della religione islamica, si rinvia al seguente link
https://www.google.com/search?q=islamophobia+books&rlz=1CAKEFG_enIT721IT721&oq=i-
slamophobia+books&aqs=chrome..69i57j0l4j69i60.6975j0j7&sourceid=chrome&ie=UTF-8
13 Cfr. https://www.runnymedetrust.org/about.html
42
Molto probabilmente, il 1997 rappresenta un “punto di svolta” nella storia
- in parte ancora dibattuta - del concetto di islamofobia. Da un lato, occorre
precisare che le prime attestazioni note di tale nozione precedono di circa
un secolo la pubblicazione del report della Fondazione Runnymede. Infatti,
contrariamente ad alcune ricostruzioni che imputano l’elaborazione di tale
nozione all’ayatollah Khomeini o ad intellettuali vicini alla Fratellanza
Islamica14, il termine islamophobie risulta già presente nel lessico intellettuale
francese del primo Novecento, sia pure con una circolazione assai limitata.
Come hanno dimostrato recentemente Abdellali Hajjat e Marwan
Mohammed15, alcuni studiosi e funzionari delle amministrazioni coloniali
(due ruoli spesso sovrapposti, all’epoca, in una medesima persona) usano
il termine islamophobie, nei primi anni del XX secolo, per contestare, tra
l’altro, i timori degli ambienti governativi in ordine ad un possibile ruolo
eversivo dell’Islam - come sistema di valori e come rete organizzativa - nei
territori colonizzati; in particolare, si segnala La politique musulmane dans
l’Afrique occidentale française (1910) del giurista Alain Quellien, in cui la
“difesa” dell’Islam si basa peraltro, in larga misura, su argomenti di chiara
connotazione razzista, come l’idea che la morale islamica sia più adatta di
quella cristiana alle popolazioni “nere” in quanto più conciliante nei
confronti degli istinti naturali16. Pochi anni più tardi, come segnala Vincent
Geisser in uno studio del 2003, il termine è utilizzato dal pittore “islamofilo”
Etienne Dinet per ironizzare sull’atteggiamento delle istituzioni cattoliche nei
confronti dell’Islam17. Tuttavia, bisogna altresì rilevare che l’uso generalizzato
del termine nella lingua inglese e, soprattutto, la particolare curvatura
concettuale “antirazzista” che esso ha ricevuto nel dibattito culturale
contemporaneo, sembrano da ricondurre, in larga misura, proprio
all’impatto, sul dibattito culturale, del report pubblicato dalla Fondazione
Runnymede nel 1997.
Nella legione di pubblicazioni apparse dopo quella data, sembra
opportuno segnalare almeno, per complessità di costruzione, il volume
Islamophobia: Making Muslims the Enemy di Peter Gottschalk e Gabriel
14 Cfr. ad es., Caroline Fourest & Fiammetta Venier, “Islamophobie?”, ProChoix 26-27 (2003); Pascal
Bruckner, La tirannia della penitenza. Saggio sul masochismo occidentale, (tr. it.), Parma:
Guanda, 2007.
15 Abdellali Hajjat e Marwan Mohammed, Islamophobie comment les élites françaises fabriquent
le “problème musulman”, Paris: La Découverte, 2013.
16 Alain Quellien, La politique musulmane dans l’Afrique occidentale française. Paris: E. Larose,
1910.
43
Greenberg18 ed i molti lavori dello statunitense John Esposito19, per non dire
della vasta produzione legata a Tariq Ramadan e agli ambienti intellettuali
della Fratellanza Islamica (un tema sul quale ci permettiamo di rinviare al
saggio di Mario Ciampi sull’Islam europeo nel presente volume). In ambito
italiano, una posizione decisamente originale è espressa da Enrico
Galoppini20, che si allontana significativamente dalla dominante lettura
“progressista” della islamofobia: in linea con una particolare visione positiva
dell’Islam che caratterizza diverse correnti di pensiero “anti-moderno” - in
particolare, controversi pensatori della Tradizione come Guénon ed Evola-
Galoppini vede nell’ostilità anti-islamica non soltanto il prodotto di presunte
manipolazioni occidentali volte a giustificare pretese egemoniche e guerre
imperialistiche ma anche il risultato di un confronto tra il solido sistema di
valori spirituali che egli ritiene incarnato dall’Islam ed una modernità
“liquida” insofferente verso tali valori e verso il senso del divino:
“La “cultura islamica” ci mette di fronte ad una delle menzogne
fondamentali del “laicismo”: che non sia possibile coniugare la “modernità”
con la “tradizione”. Se con “modernità” s’intende semplicemente l’esserci
qui ed ora, non tutto l’ambaradam dei cosiddetti “diritti umani” di conio
occidentale che, postulando di fatto l’inesistenza di Dio, i musulmani
coerentemente rigettano”.21
18 Peter Gottschalk and Gabriel Greenberg, Islamophobia: Making Muslims the Enemy, Plymouth,
UK: Rowman & Littlefield Publishers, 2008.
19 Si veda, in particolare, John Esposito & Ibrahim Kalin (eds.), Islamophobia: The Challenge of
Pluralism in the 21st Century, New York: Oxford University Press, 2011. Significativamente, Esposito
ha intitolato Ignorance and Islamophobia una conferenza del 2012, pubblicata (in formato
video) nel sito The Muslim Times nel 2013:
https://themuslimtimes.info/2013/08/03/video-john-l-esposito-ignorance-and-islamophobia/
(consultata online in data 04/08/2019). Per una lista completa delle pubblicazioni d Esposito,
si rinvia alla sua pagina docente nel sito della Georgetown University: http://georgetown.
academia.edu/JohnEsposito/CurriculumVitae
20 Si veda, in particolare: Enrico Galoppini, Islamofobia. Attori, tattiche, finalità, Edizioni all’insegna
del Veltro, Parma 2008. Appare utile segnalare, in quest’opera di un autore che si colloca nel
campo della “Tradizione”, la presenza di una postfazione dovuta ad un pensatore marxista
quale Costanzo Preve.
21 Enrico Galoppini, “La censura è solo islamica?”. Arianna Editrice, 06/04/2014: https://www.
ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=48088 (consultato online in data 05/08/2019).
44
le caratteristiche e l’intensità della islamofobia e di altre fobie22 nei confronti
delle diversità etniche, culturali, religiose, sessuali. Tra le più note, la Mappa
dell’Intolleranza, realizzata annualmente dall’associazione VOX -
Osservatorio Italiano dei Diritti in collaborazione con l’Università Statale di
Milano, l’Università di Bari, La Sapienza di Roma e il Dipartimento di sociologia
dell’Università Cattolica di Milano, per monitorare qualità, quantità e
distribuzione geografica dei “discorsi d’odio” (hate speech) nelle reti social.
Giunta nel 2019 alla sua quarta edizione, la Mappa dedica da sempre
spazio al tema dell’islamofobia, considerata sia come fenomeno in sé, sia
come parte di una generica ostilità contro le persone “considerate aliene”.
Quest’ultima viene valutata sommando i dati relativi a tre diverse categorie:
musulmani, ebrei e migranti23 (un procedimento, invero, suscettibile di
qualche obiezione epistemologica, poiché sembra non tener
adeguatamente conto delle complessità specifiche delle diverse categorie
implicate e delle loro possibili interazioni: basti pensare, ad esempio, che
l’antisemitismo colpisce anche ebrei italiani e può essere praticato anche
da musulmani italiani o da migranti - sia musulmani sia cristiani - oltre che
da xenofobi e/o antisemiti autoctoni). Anche per i responsabili di VOX, in
ogni caso, l’intolleranza è fondamentalmente legata alla non-conoscenza
delle persone “considerate diverse”:
“Oggi l’odio si concentra contro le persone considerate diverse, per
appartenenza a culture differenti dalla nostra [...]. Ma dalla rilevazione
emerge un altro aspetto importantissimo. I tweet intolleranti diminuiscono,
dove è più alta la concentrazione di migranti, dimostrando quindi una
correlazione inversa tra presenza sul territorio e insorgere di fenomeni di
odio: come a dire, conoscersi promuove l’integrazione”24.
22 Sulla connotazione ideologica di quest’uso estensivo del termine fobia, cfr. supra, nota 1.
24 Ibid.http://www.voxdiritti.it/la-mappa-dellintolleranza-anno-3-la-nuova-radiografia-dellitalia-
che-odia-online/
45
forma specifica di razzismo25. Tuttavia, una tale “diagnosi” dello stato della
società italiana sembra prestarsi a qualche seria obiezione.
In primo luogo: se la realtà sociale del Paese fosse così inquietante, si
dovrebbero poter trovare tracce evidenti di islamofobia non soltanto in studi
selettivi condotti su realtà “patologiche” per definizione, come i citati
campioni di “discorsi d’odio” - peraltro definiti sulla base di liste di parole-
chiave la cui scelta, con tutte le cautele epistemologiche che si possano
adottare, risulta pur sempre, inevitabilmente, influenzata anche da una
componente soggettiva e aprioristica-, ma anche in analisi condotte su
campioni rappresentativi della generalità della popolazione.
Come spiegare, allora, i risultati emersi dell’approfondita indagine
statistica inferenziale condotta nel luglio 2019 (e dunque in una fase di
grande successo delle forze “populiste” e “sovraniste”) da Arnaldo Ferrari
Nasi e da lui commentata in questo stesso volume? Rinviando ovviamente
all’articolo in questione per una analisi dettagliata di tale indagine, in
questa sede sembra comunque opportuno esprimere alcune considerazioni
generali suggerite dagli esiti di quella rilevazione. In estrema sintesi, si
osserva che dalle numerose domande in cui si articola la ricerca, rivolte ad
un campione rappresentativo di differenti ambiti sociali, culturali e geografici
della popolazione italiana, emerge il quadro di un’opinione pubblica
decisamente non “fobica” nei confronti dell’Islam e delle persone di fede
musulmana. In particolare, i due terzi degli intervistati ritengono possibile
una positiva integrazione degli immigrati musulmani, e una maggioranza
altrettanto ampia concorda sull’idea che la maggior parte dei musulmani
presenti in Italia sia “moderata”. Analogamente, molti degli intervistati
dimostrano di non avere ostilità preconcette verso l’Islam come religione:
un’ampia maggioranza ritiene che questa religione, pur avendo vissuto
anche periodi storici di violenza e intolleranza, sia però suscettibile di
interpretazioni aperte alla tolleranza e al dialogo, mentre una parte
minoritaria ma assai cospicua (circa un quarto) degli intervistati definisce
tout court l’Islam come “una religione di pace e di tolleranza”. In
quest’ambito, inoltre, risulta da segnalare il numero straordinariamente
basso (12%) di quanti ritengono che l’Islam si sia diffuso principalmente
attraverso le conquiste militari - e ciò, sia consentito sottolinearlo, risulta in
parte sorprendente, se si considera come tali conquiste abbiano segnato
proprio le fasi iniziali della storia islamica e contribuito allo sviluppo di un
46
immaginario collettivo in cui (anche per numerosi asceti e mistici sufi) lo
“sforzo (jihâd) sulla via di Dio” si concretizza spesso - benché non sempre e
non esclusivamente - in pratiche di combattimento militare.26
A distanza di quattro anni dal citato rapporto del PEW Research Center,
dunque, i risultati sembrano esattamente invertiti rispetto a quelli che
avevano indotto qualcuno a dichiarare, forse frettolosamente, l’Italia
“capitale europea dell’islamofobia”: saremmo passati, cioè, da un 61% di
“opinioni sfavorevoli” sui musulmani presenti in Italia, ad oltre il 60% di
“opinioni favorevoli”. Una inversione di tendenza a dir poco sorprendente, in
un Paese in cui la islamofobia sarebbe in vertiginoso aumento.
Peraltro, anche le opinioni - minoritarie- che nel sondaggio potrebbero
essere qualificate come “negative” non sembrano mai fondate su ostilità
preconcette ma sulla valutazione, magari pessimistica ma non per questo
“pregiudiziale”, di specifici aspetti legati alla concretezza dello sviluppo
storico dell’Islam e/o alla consapevolezza della potenziale problematicità
delle relazioni interculturali in un contesto sociale determinato. Anche questi
dati, dunque, sembrano portare una significativa smentita alle
rappresentazioni di una vasta diffusione della islamofobia, che per essere
tale dovrebbe appunto fondarsi su forme di “avversione pregiudiziale”.
Ovviamente, un solo sondaggio non basta ad invertire un quadro che
sembra fondarsi su una mole di indagini precedenti. Tuttavia, l’indagine
demoscopica condotta da Ferrari Nasi ha prodotto una serie di evidenze
statistiche con le quali non sarà possibile non confrontarsi, nel prosieguo
del dibattito pubblico sul tema della islamofobia. Lasciando agli studiosi di
scienze statistiche e sociologiche una più approfondita valutazione dei
dati, non possiamo non rilevare, in questa sede, come l’indagine di Ferrari
Nasi segnali la necessità di coltivare, quanto meno, un ragionevole dubbio
rispetto all’esistenza di una epidemia di islamofobia nell’Italia di oggi.
In effetti, simili dati mostrano semmai un notevole grado di apertura
della società italiana nei confronti delle persone di religione e di cultura
islamica (purché, come indicano alcuni aspetti della rilevazione, tale
presenza sia inserita in un contesto di certezza dei riferimenti giuridici comuni
e di rispetto di alcuni elementi della cultura nazionale). In taluni casi, essi
sembrano anzi indicare una notevole incidenza, presso settori cospicui
26 Cfr. Michael Bonner, Jihad in Islamic History: doctrines and practice, Princeton: Princeton University
Press, 2006. Sul rapporto tra sufismo e jihad, si veda anche Giuseppe Cecere “The Shaykh and
the Others - Sufi Perspectives on Jews and Christians in Late Ayyubid and Early Mamluk Egypt”,
Entangled Religions (2018), pp. 34-94.
47
dell’opinione pubblica, di stereotipi positivi e di rappresentazioni che
affermano una metastorica “essenza irenica” dell’Islam, anche in potenziale
contraddizione con la complessità delle realtà storiche che ne hanno
segnato lo sviluppo.
In questa rilevazione, si riscontrano dunque, da un lato, atteggiamenti di
equilibrio e di apertura che evidenziano a nostro avviso le conseguenze, di
lungo e medio periodo, di una vasta e articolata serie di positivi sforzi
prodotti condotti da uomini e donne dell’accademia, della cultura, delle
istituzioni civili e religiose, sin da tutto il secolo scorso, sul terreno della
conoscenza storica obiettiva del complesso universo islamico, della
comprensione interculturale, del dialogo interreligioso; dall’altro, si registrano
anche atteggiamenti di simpatia “pregiudiziale” per il mondo islamico,
legati all’ampia diffusione nel discorso pubblico, almeno dall’ultimo quarto
del XX secolo, di rappresentazioni ideologiche di derivazione “post-
coloniale” ed “anti-occidentale” che - a partire dalle letture, di impronta
sartriana o fanoniana, dei “dannati della terra” come nuovo proletariato
rivoluzionario27, e dalla critica all’orientalismo elaborata da Edward Said28
(che opera una radicale decostruzione dell’etnocentrismo della cultura
occidentale, ma omette - consapevolmente- di applicare lo stesso sguardo
critico alle costruzioni etnocentriche elaborate dalla cultura islamica e, di
fatto, da qualunque altra cultura storica) - hanno contribuito a produrre
immagini stereotipate dei rapporti tra “Occidente” e “Islam”, ridotti a termini
fissi di una relazione tra oppressore ed oppresso, laddove la storia dimostra
una pluralità di situazioni complesse - fatte di scambi, intrecci, conflitti - in
cui i ruoli si sono tante volte invertiti o sovrapposti.
Proprio la diffusione, nei più diversi ambiti di formazione dei saperi e delle
opinioni del Paese, di tali diversi sistemi di rappresentazioni - quelle, più
connotate nel senso dell’obiettività scientifica, della ricerca orientalistica di
stampo “tradizionale” e quelle, ideologicamente connotate in senso
variamente “filo-islamico”, prodotte dalle rivoluzioni epistemologiche che
hanno trovato la loro data-simbolo nel 1968 - sembra aver agito, peraltro,
come un fattore determinante per la costruzione di un efficace sistema
“immunitario” contro l’emergere e il diffondersi della islamofobia negli
ambienti colti del Paese.
27 Frantz Fanon, Les damnés de la terre. (Avec préface de Jean-Paul Sartre), Paris: Maspero, 1961
48
6. CONCLUSIONI
Giuseppe Cecere
docente di lingua e letteratura araba,
Università di Bologna
49
SECONDA PARTE
UNA MINACCIA PER L’EUROPA.
ANALISI
51
OSSERVAZIONI SULL’ISLAM
E L’ISLAMISMO
di Francesco Alberoni
Tutti i movimenti islamici della prima parte del XX secolo nascono come
risposta alla crescita della potenza occidentale, in particolare alla sconfitta
dell’Impero Ottomano che si estendeva ad oriente fino alla Persia e nel
Mediterraneo fino all’Algeria.
La Prima Guerra Mondiale ha fatto letteralmente esplodere l’Impero
Ottomano e ci ha lasciato come residuo la Turchia di Ataturk e il resto fatto
a pezzi dalla Francia e dall’Inghilterra che hanno creato dei protettorati e
dei più o meno fragili Regni spesso poi spazzati via da dittature modernizzanti
e socialistizzanti come in Libia, in Egitto, in Siria, in Iraq oppure a formazioni
politiche nazionalitarie come in Algeria e in Tunisia. Questo processo di
nazionalizzazione dominerà la scena politica nella prima metà del XX
secolo per lasciare il posto, nella seconda metà, ad un movimento islamista
antinazionale, panislamico, un vero e proprio risveglio dell’Islam che si
ripresenta come ritorno alle origini all’epoca dei Maometto e dei califfi ben
guidati (Al Khulafa ur Rashidun).
Già nel 1929 Hasan al Banna fondava in Egitto il movimento dei Fratelli
Musulmani che vuol reislamizzare la società in tutti i suoi aspetti, civili, morali
e politici liberandosi dal dominio straniero, fisico e culturale. Parallelamente
in India Mawdudi vuol eliminare le differenze fra Nazioni, ricostituire la Umma
52
islamica governata dalla sharia e da un santo califfo. In Egitto, Sayyd Qutb
identifica la corruzione attuale con quella preislamica, la jiahiliyya, che può
essere eliminata solo con la guerra, la Jihad che fonda un’unica patria
musulmana che ha come costituzione il Corano e la sharia.
L’islamismo riprende slancio nel 2001 con l’attacco alle Torri Gemelle da
parte di Bin Laden la cui roccaforte era l’Afghanistan in Asia. Lì, l’URSS aveva
schiacciato le moschee e le scuole islamiche al punto da dare allo straniero
l’impressione che l’intera Asia sovietica fosse stata deislamizzata. Questa
illusoria sicurezza la portò ad invadere l’Afghanistan dove pensava di trovare
solo una opposizione tradizionale. Invece il movimento dei muhajeddin era
religiosamente ispirato e godeva dell’appoggio economico e militare
dell’Arabia Saudita wahabita e degli Stati Uniti che appoggiavano il
movimento islamista in funzione antisovietica. In questo modo i Russi furono
costretti a ritirarsi e l’Afghanistan venne occupato dai Talebani organizzati
sotto la presidenza pakistana di Benazir Butto. Fu in questo periodo che Bin
Laden dopo aver compiuto numerosi lavori in Afghanistan organizzò
l’attacco alle Torri Gemelle. Gli Americani chiesero ai Talebani di
consegnarglielo, questi dissero di no, e loro invasero l’Afghanistan.
George W. Bush per sbarazzarsi di Saddan Hussein conquistò l’Iraq
appoggiandosi agli Sciiti. Il risultato fu che i Sunniti rimasti fedeli a Saddam
Hussein confluirono nel califfato di Al Baghdadi che dichiarò guerra totale
all’Occidente.
53
e alla distruzione fisica del Califfato fermando l’offensiva islamista. Con
l’offensiva islamista sta svanendo anche il progetto di occupazione islamica
o di islamizzazione dell’Europa.
Francesco Alberoni
sociologo
54
L’ISLAMIZZAZIONE
È UN PIANO GLOBALISTA
di Alessandro Meluzzi
55
pubblici, trasformandoli in campi profughi. È questo ciò che è accaduto in
Italia.
Ma ciò che è ancora più grave è ciò che è accaduto in Africa, perché
l’immagine di potersi mettere in movimento verso la caotica Libia e a quel
punto, neppure tentare la traversata, ma attraverso associazioni mafiose
criminali africane ed europee salire su un finto gommone, che si compra su
internet per 500 euro, collegandosi via radio alle navi delle ONG, per essere
ripescati ed essere automaticamente scaricati nell’accoglientissima e
disponibilissima, anche in termini economici, Italia, dove ogni cosiddetto
migrante o rifugiato riceve 1200 euro al giorno che hanno prodotto un
bilancio patologico distruttivo per le nostre prospettive economiche ma
anche per quelle degli sciagurati approdati in Italia.
Che cosa questo abbia prodotto nel crimine organizzato, nella sicurezza
collettiva, nella micro-criminalità, è argomento che affrontiamo tutti i giorni.
Non è questo il punto. Il fatto è che questo sciagurato mercato, sostenuto
da navigli pagati dalle organizzazioni finanziate da Open Society di Soros
con un’oscura strategia di afro-islamizzazione dell’Italia, già preconizzata
da Oriana Fallaci, sembra inarrestabile e incontenibile. Già, perché ogni
tentativo di arginarlo viene immediatamente sventato da buonisti
irresponsabili che nel nome del diritto alla salvezza degli umani, applicano
questa semplice equazione: chiunque entri in acqua deve essere salvato e
chiunque venga salvato, anche a centinaia di miglia delle coste italiane,
deve essere portato necessariamente in Italia. Chissà perché non in Algeria,
in Tunisia, a Creta, a Cipro o a Malta. Guarda caso, arrivano in quello
sterminato campo profughi che sta diventando il Mezzogiorno d’Italia, e in
verità tutta l’Italia.
È evidente che il Ministro dell’Interno Salvini non può che tentare di porre
fine a questo losco traffico. Un traffico che produce effetti devastanti
sull’Italia. Secondo alcune stime ci sarebbero milioni di africani pronti a
compiere il tragitto che li porterebbe nel Bel Paese in cerca di migliori
fortune. Si tratta di individui che non provengono certamente da zone di
guerra, ma semmai da territori come la Nigeria o la Costa d’Avorio, dove il
tasso di crescita di PIL annuo si stalla intorno all’8%. Non si tratta di famiglie
disperate, ma per lo più di giovanottoni rispetto ai quali la famiglia d’origine
investe decine di migliaia di dollari per metterli in movimento. Oppure
giovani minorenni che si avviano al mercato della prostituzione più o meno
consapevolmente. O ancora foreign fighters che alimentano lo strutturato
56
mercato della droga, che è ormai saldamente governato dalla mafia
nigeriana.
Fingere di non poter fermare tutto questo è stata la grande colpa del PD,
della Chiesa Cattolica e di organizzazioni sedicenti umanitarie, ancorate a
quell’organizzazione clientelare che è l’ONU e a tutte le sue diramazioni,
che ogni giorno suggeriscono di accogliere tutti coloro che scappano
dalla fame oppure dalla sete o da bisogni materiali. Se noi accettassimo
questo principio, per cui l’Europa e l’Italia diventino permeabili a qualsiasi
flusso migratorio, credo che la catastrofe sarebbe inimmaginabile, non solo
per l’Italia ma anche per la realtà africana che considera i propri problemi
economici e demografici risolvibili attraverso una parassitizzazione definitiva
di intere generazioni. Quindi, fa bene Salvini a proporre l’unica misura
possibile: impedire a queste navi negriere, che si mettono in movimento da
cinque miglia dalla costa libica con un chiaro trucco e forti motivazioni
ideologiche, di veicolare il più sciagurato traffico mafioso di corpi umani dal
tempo dell’età moderna.
Bloccare i porti, applicare il blocco navale, vietare lo sbarco sono atti
indispensabili. C’è anche qualche coraggioso militare che ha parlato di
azioni in loco. Non so se ci potremo spingere a tanto ma, certo, il trucco del
ministro Minniti di pagare tribù libiche o milizie territoriali per arginare il
traffico, come tutte le forme di estorsione mafiosa, cessa immediatamente
quando si smette di pagare il pizzo. Mi auguro che Matteo Salvini preferisca
alla politica del pizzo quella dell’uso corretto della nostra Marina per la
difesa delle frontiere nazionali. Ha detto bene: l’Italia non è aggredita da
est, bensì da sud. E la NATO dovrebbe aiutarci a difenderci. Purtroppo, fino
ad ora non è stato così. Smettiamo di utilizzare la nostra Marina per presidiare
un traffico mafioso e disumano e cominciamo ad utilizzarla per impedire
che questa sciagurata miscela di falsi ideali e porci comodi produca effetti
devastanti non solo su di noi ma anche sull’Africa. Poniamo fine alla più
sciagurata vicenda finto-umanitaria che rischia di mettere in pericolo la
sicurezza nazionale e il futuro dei nostri figli e dei nostri anziani, per i quali
nessuno ha mai pensato di investire 1200 euro al mese a fondo perduto per
alimentare ozi e distrazioni.
Bravo Matteo Salvini, occorre dare un segnale concreto e immediato
che cominci ad arrestare questo flusso criminale. Occorre farlo subito e con
determinazione perché domani potrebbe essere troppo tardi.
Credo che qualche spazio organizzato intorno alla carità possa ancora
esserci, purché abbia alcune caratteristiche: la trasparenza dei
57
finanziamenti, il vero filantropismo dell’attività, il rifiuto di cambiamenti
geopolitici radicali, un atteggiamento pietoso nei confronti dei deboli
meditato. Il migrazionismo è finanziato oggi da qualcuno che vuole
cambiare l’etnia europea per creare un’Eurafrica o un’Eurasia. Inoltre,
accogliamo individui che sono già criminali prima di partire e che sfogano
nel nostro Paese un’inclinazione mostruosa.
Come prima cosa bisognerebbe bloccare il flusso migratorio dal Nord
Africa, poi bisognerebbe far rientrare tutti quelli che hanno le caratteristiche
per poter tornare a casa propria. Sono i primi due passi verso il benessere
pubblico. L’articolo 276 del codice penale dice che coloro che ricevono
soldi per fare attività che danneggiano la sovranità dello stato sono
condannati con una pena carceraria. Il secondo libro del codice penale
parla degli attentati alla personalità dello Stato. Bisogna applicare la legge
nei confronti di chi attenta alla sovranità dello Stato. È necessario combattere
la criminalità organizzata, come la mafia nigeriana. Bisogna riportare al
centro della vita pubblica dei cittadini la difesa della sicurezza. Bisogna
ricreare un tessuto di sicurezza all’interno della Nazione. Nelle scuole è
necessario eliminare un’ideologia che è stata costruita giorno dopo giorno
e che mina la nostra cultura, la nostra identità, la nostra tradizione nel nome
di un globalismo indistinto che ha il sapore del satanico.
Il fenomeno migratorio dall’Africa ha un’origine complessa. La prima è
strutturale e demografica. L’Europa è un continente in grave rallentamento
demografico, mentre nell’Africa sahariana e subsahariana è in corso un
boom demografico di proporzioni inusitate. È, quindi, evidente che come in
un flusso osmotico questa massa di giovani disoccupati si spinga verso
Nord alla ricerca di migliori condizioni di vita e di lavoro.
Deve essere ben chiaro che coloro che migrano non sono i più poveri.
Anzi, sono coloro che avevano già conquistato in loco posizioni di privilegio
attraverso attività artigianali e pastorali e che nella corsa all’ora verso
l’Europa decidono di vendere tutto ciò che intere generazioni hanno
accumulato per investire migliaia di euro per offrirli alle mafie,
prevalentemente nigeriane, che li porteranno verso la Libia e l’agognato
Mediterraneo. Quanto questo nuoccia all’economia africana è evidente
così come il fatto che parte del denaro giunge dalla cessione di terreni ad
un rampante capitalismo cinese che sta razziando gran parte delle risorse
africane.
È interessante dire che nell’Africa subsahariana la cultura del web è
giunta prima di qualsiasi rivoluzione industriale. Insomma, il mondo dei
58
cellulari ha popolato l’Africa ben prima della nazionalizzazione del settore
terziario. Questa virtualizzazione, insieme ad un bios esplosivo, ha prodotto
un cocktail micidiale sotto la guida dello smartphone: interi gruppi vengono
mossi dal sogno di un paese di cuccagna che viene percepito come una
mai spenta Disneyland proprio grazie alla rete. Per raggiungere il loro sogno
pagano i 5 mila euro pattuiti con le mafie altrimenti c’è il rischio di essere
consegnati a torturatori. Di cella in cella si svolge una vera e propria
deportazione, mossa dal miraggio e pagata dallo sviluppo in loco. In
Albania accadeva decine di anni fa, salvo poi accorgersi che l’Italia vista in
televisione non era quella reale ma una dura realtà, appunto, quella che gli
immigrati tendono a nascondere. Invece, la contemplazione della realtà
sarebbe una vaccinazione culturale adeguata contro lo smartphone,
oggetto totemico e protesi del cervello manipolato.
Ciò detto, buona parte del profitto di questa attività viene lucrato da
organizzazioni per lo più locali ma con presenze importanti in Europa che
svolgono iniziative mafiose. Ricordiamo che la mafia nigeriana è tra le più
pericolose del mondo, che oggi in Italia gestisce il flusso della prostituzione
e larghi settori del mondo della droga in concorrenza con le mafie italiote.
Si tratta di una mafia ben organizzata e con radicamenti anche nel mondo
del web e della rete, che ha spesso le sue radici in gruppi para-universitari
della zona del golfo del Niger, dove personaggi di etnia africana e
provenienti da ambienti goliardico-accademico hanno ricreato qualcosa
di simile alle Skull and Bones di certe università americane. Una mafia in
grado comunque di gestire i propri interessi. È proprio nei confronti di questo
terrificante mondo che si appunta l’attenzione dei buoni e dei buonisti
locali.
Non si può non cogliere una certa distinzione di accenti tra l’Avvenire
che diceva che il mondo cattolico si vergognava del governo italiano e il
Presidente della Conferenza Episcopale Italiana Bassetti che ricorda che la
volontà cristiana di voler proteggere i più deboli non deve diventare
favoreggiamento ai malvagi di turno. Questo atteggiamento razionale pare
spaccare in due la Chiesa: dall’aperturismo terzomondista alla teologia
della liberazione di Bergoglio fino a posizioni più sfumate come la Segreteria
di Stato che sembrano riecheggiare Benedetto XVI, il quale sosteneva che
bisogna accogliere gli altri che hanno, però, diritto a rimanere a vivere nel
proprio Paese per contribuire alla dignità nazionale.
Questa dimensione di una migrazione incontrollata rappresenta l’esatto
opposto di ciò che serve per rendere eventualmente più dinamica e
59
complessa la prospettiva di una migrazione controllata volta a favorire i
Paesi da cui la migrazione proviene e le economie che ne vengono investite.
Per esempio, il mondo proveniente dai Balcani si è integrato piuttosto bene
in Italia. Senza le imprese romene e senza attività moldave il mondo
infermieristico avrebbe avuto un problema di manodopera specializzata.
Ma questo flusso mitico volto esclusivamente a beneficiare una mafia
pericolosa vede finalmente qualche resipiscenza di ragionevolezza nella
Chiesa Cattolica, che sembrava essere diventata la principale agenzia di
un migrazionismo incontrollato. Un migrazionismo che vede qualche
distinzione anche dentro il Governo dove al mondo dei catto-comunisti
ideologici e al mondo delle speculazioni delle cooperative bianco-rosse in
Italia si contrappone una linea più razionale che speriamo riesca ad
affermarsi con più forza.
Certamente, il rischio di una sostituzione etnica in una realtà -in cui il
mondo islamico si esprime attraverso cinque figli per coppia al netto della
poligamia ed un mondo italiano da un figlio per coppia- non può non farci
riflettere sul futuro della nostra Nazione, della nostra identità e del nostro
modo di vivere. Una civiltà in cui fino ad ora avevamo considerato la
tradizione cristiana e illuminista come un valore aggiunto ma con un
atteggiamento suicida qualche papalino bergogliano ha voluto
nascondere, producendo catastrofi. Non consegneremo la nostra Italia né
alla mafia nigeriana né ai muezzin, perché preferiamo ancora sentir suonare
le campane piuttosto che ascoltare cantare dai minareti.
Bisogna capire che cosa è accaduto alla Patria Italia. Ed è nella luminosa
distinzione tra Patria, Stato e Nazione. Che cos’è l’interesse nazionale di un
popolo? Che cosa divide i calcoli individuali, la miscela di grandi ideali e
porci comodi? Che cosa raccoglie quella misteriosa miscela di idealità e di
concretezza che fa di un popolo una Nazione e di una Nazione una Patria?
Non si tratta della solita retorica pre e post risorgimentale a base di Ettore
Fieramosca o Giovanni delle Bande Nere. È qualcosa di tragicamente
concreto in un Paese come l’Italia, uscita sconfitta militarmente dalla
Seconda Guerra Mondiale, e che attraverso la retorica resistenziale ha
raccontato a se stesso di essere uscito vincitore almeno come la Francia del
generale De Gaulle, ma purtroppo non fu così. Questo Paese non ha avuto
neppure il coraggio delle Germania e del Giappone di spiegare a se stesso
che le leve di comando della sua statualità, dei suoi apparati di sicurezza,
del suo esercito, della sua finanza e delle necessarie ricadute industriali
sarebbero state in mani straniere?
60
Cantò Dante: “Ahi serva Amantea, di dolore ostello, nave senza nocchiere
in gran tempesta, non donna di province, ma bordello”. Questo distico del
VI canto del Paradiso ha raffigurato, meglio di qualunque altro, gli ultimi
anni della disgraziata Repubblica italiana. Una Repubblica in cui,
paradossalmente, per ritrovare toni e accenti di forza nazionale e di lucidità
occorreva che provenisse un grande leader come Matteo Salvini da una
forza nata per dividere l’Italia e per valorizzare soltanto una parte di essa.
Ma, come ben si sa, esiste una strana legge nella storia che è quella della
eterogenesi dei fini. Quella per la quale molto spesso sono le botti che
riescono a dare il vino che non avevano. In questa Italia, affidata ai protocolli
di Yalta alla vigilanza anglo-americana e ora agli accordi della finanza
europea franco-germanica, occorre che qualcuno spieghi agli Italiani a
cominciare a fare forza su se stessi per riuscire a proteggere 60 milioni di
abitanti dalla de-industrializzazione, dalla frammentazione degli interessi,
da un migrazionismo globalista esasperato e assassino, ricostruendo nel
concetto di confine quella miscela di idealità e di necessità di cui è fatta la
vita di un popolo, di una Patria e di uno Stato.
Non si può stare in alcuna Unione Europea senza valutare l’importanza e
il ruolo delle Nazioni. Quell’Europa delle Nazioni dall’Atlantico agli Urali di
cui più volte il generale De Gaulle parlò e che è il contrario di quell’Europa
delle burocrazie, della BCE e di un euro, che non potrà mai essere una
moneta se non sarà sostenuta da una vera unità nazionale di popoli, di
legalità, di modelli fiscali e di valori comuni. Tutto questo non è possibile
attraverso imposizioni attraverso logiche stupefacenti che il Presidente
Mattarella ha attuato in queste circostanze, rivelando ancora una volta
come un grande vizio degli Italiani, dalla calata di Carlo VIII in avanti, sia
quello di pensare che un esercito straniero possa sempre rappresentare gli
interessi del nostro campanile e della nostra mediocrissima utilità
momentanea meglio del connazionale e di colui che parla, come scrive
Manzoni in Marzo 1821, “una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di
sangue e di cor”.
Ci troviamo in un momento in cui per la prima volta, dopo 18 anni di
fascismo che ci ha regalato 70 anni di anti-fascismo, gli Italiani possono
davvero decidere se essere o diventare un popolo, una Nazione o una
Patria. Credo che questo sia assolutamente indispensabile. E sono certo
che un leader come Matteo Salvini, insieme ad altri giovani leader nazionali
come Giorgia Meloni, possa davvero lavorare per un rinnovamento di un
popolo altrimenti destinato alla decadenza, alla schiavitù e ad un’invasione
61
che non so se è pilotata da un piano Kalergi di un qualche tipo. Un Paese
che è condannato ad un’afro-islamizzazione, rischiando di diventare un
pezzo d’Africa piuttosto che una parte di un’Europa che non ancora non
esiste e che forse non esisterà mai se non imparerà ad essere un’unione di
popoli e non delle burocrazie, della finanza, di una sottomissione e di
un’etero-direzione che uccide la dignità insieme alla libertà.
Siamo nati in una civiltà democratica e liberale, perciò vorremmo che
anche i nostri figli e nipoti possano vivere in questo stesso bene che
rappresenta sicuramente un valore di qualità della vita e della condizione
umana che riteniamo debba essere preservato. Diceva quel grande liberale
che si chiamava Churchill che la democrazia è la migliore forma di governo
perché non è stata ancora scoperta una migliore forma di governo. Basta
vedere in quali condizioni vivono dal punto di vista democratico un miliardo
e ottocento milioni di islamici nel mondo per capire che aveva ragione il
professor Sartori che diceva che nella storia dell’Islam non c’è stata una
sola comunità inserita in una società non-islamica che si sia integrata alle
leggi del luogo, essendo scomparsa oppure colonizzata.
L’islamizzazione è un altro fenomeno, in cui uno spezzone di mondo nel
quale c’è un libro che si chiama Corano nel quale è scritto ogni cosa -quello
che si può o non si può mangiare, quale deve essere la sessualità tra uomini
e donne, come ci si deve vestire come in un gigantesco manuale delle
giovani marmotte- arrivato alle nostre latitudini non si accontenta di formare
delle enclave ma, in fondo, pretende di dettare legge a tutti. Pensare
evidentemente ad una coabitazione in Italia tra un Islam che riguarderà
soprattutto un flusso incontrollato di migrazioni di milioni di persone è una
questione non futuribile. È difficile pensare ad una coabitazione armoniosa
tra una Costituzione repubblicana come la nostra e un grande sistema
giuridico che noi rispettiamo ma per il quale l’abiura o l’apostasia o
l’adulterio sono puniti con la morte. Non vorremmo che l’Italia avesse lo
stesso destino del Regno Unito, un grande Paese post-coloniale in cui la
presenza di enclave islamiche di decine di centinaia di persone vedono
governate il diritto civile e quello matrimoniale da corti islamiche in intere
zone metropolitane e rurali dove la polizia inglese neppure entra, perché
tutto è governato da milizie autoctone.
Alessandro Meluzzi
psichiatra, criminologo, scrittore
62
IL TRAMONTO DELL’UTOPIA
DI UN ISLAM EUROPEO
di Mario Ciampi
1 Lo ha ricordato Giulio Meotti sul Foglio del 22 maggio 2018, nella sua commemorazione del
celebre islamologo a pochi giorni dalla sua scomparsa.
63
politicamente corretto. Il combinato disposto della crisi dell’identità europea,
da una parte, e del veemente proselitismo integralista, dall’altra, ha portato
insomma al tramonto dell’utopia di un Islam europeo ed europeizzato, che la
secolarizzazione avrebbe gestito e neutralizzato nei suoi aspetti più
problematici. Come se l’Islam avesse potuto ricalcare lo stesso percorso del
cristianesimo, quando invece è del tutto diverso da esso. A spiegare
l’eccezionalismo islamico, tra gli altri, è intervenuto negli ultimi anni Shadi
Hamid, senior fellow del Brookings Institute: «L’Islam, per il suo rapporto
fondamentalmente diverso con la politica, è stato semplicemente resistente
alla secolarizzazione»3. La conclusione di Hamid è contenuta già nelle prime
pagine del suo libro: «ciò significa che, invece di sperare in una riforma che
verosimilmente non avverrà mai, dobbiamo fare i conti con l’eccezionalismo
islamico, e, nella misura in cui ne avremo la volontà e ne saremo capaci,
scenderne a patti»4. Se non altro, quello di Hamid è un invito al realismo, che
troppo spesso viene interpretato dai benpensanti fino a concepire l’invenzione
del reato di islamofobia per censurare ogni sorta di critica alla religione
musulmana, come tra l’altro richiesto a Istanbul dall’Organizzazione della
Conferenza Islamica nel 2013. Il concetto di islamofobia, per dirla con il filosofo
Pascal Bruckner, «ha l’ambizione di rendere l’Islam intoccabile e sullo stesso
livello dell’antisemitismo» e maschera l’offensiva guidata dai fondamentalisti
per islamizzare l’Europa. C’è chi arriva a parlare di un masochismo europeo,
generato dal senso di colpa atavico che attanaglia il vecchio continente. Tra
l’altro non si capirebbe il motivo di questa censura posta a tutela di una sola
comunità religiosa, laddove si continua a ingiuriare in maniera spesso del
tutto inopportuna il cristianesimo e l’ebraismo.
3 S. Hamid, Islamic Exceptionalism. How the Struggle over Islam is Reshaping the World, St. Martin’s
Press, New York 2016, p. 26.
4 Ivi, p. 8.
64
sottendono un rapporto equilibrato e una correlazione sinfonica5 tra fede e
ragione, è insita nella distinzione tra Dio e Cesare che si trova nel Vangelo. Ma
che non ha alcun significato per la religione islamica, che non conosce la
distinzione tra la sfera temporale e la sfera spirituale. Questa constatazione,
aggravata oltremodo dal post-secolarismo, che rende ancora più permeabili
a dottrine forti e identitarie le società europee, fa capire quanto sia ingenuo
oggi aspettarsi che l’Islam importato in Europa possa europeizzarsi,
diventando omogeneo a un sistema di valori che ha una sua storia e una sua
genealogia. Per giunta, il post-secolarismo fa sentire i suoi effetti anche sulle
evoluzioni del potere politico e, indirettamente, favorisce l’espansione di
movimenti e di identità transnazionali come il jihadismo montante in Europa.
Agli albori dell’epoca moderna, i contrasti tra il potere spirituale e il potere
temporale avevano favorito tra i príncipi la consapevolezza dell’autonomia
della politica, insieme alla necessità di recuperare in termini di
istituzionalizzazione lo svantaggio percepito rispetto all’ordine spirituale. La
teoria della sovranità e la territorialità del dominio vennero di conseguenza a
rafforzare l’ordine temporale. Gli Stati moderni ebbero questa origine6. Se
quindi la secolarizzazione aveva preparato il terreno alla nascita degli Stati
nazionali, è presumibile che la società post-secolare faccia mancare
gradualmente agli Stati uno dei motivi principali della separazione dalle
istanze universalistiche delle religioni. Qualche interprete si spinge perfino ad
individuare negli imperi la forma e lo spazio del potere post-secolare.
65
con l’attuale pontificato, di recuperare sul terreno dell’universalismo per dare
risposte a problemi sempre più complessi e globali, sovente a scapito di una
visione identitaria e nazionale del cristianesimo. Resta il fatto che anche in
Europa, ancorché sembri più refrattaria di altri continenti alla nuova rilevanza
pubblica della religione, gli Stati dovranno presto prendere una posizione e
abbandonare la loro neutralità, incalzati da un conflitto culturale in continua
crescita. I segnali sono già presenti, soprattutto nelle società che hanno
subito attentati terroristici rivendicati dall’islamismo jihadista. Perfino in
Francia, paese da sempre connotato da un marcato laicismo, sono ormai
molto presenti nel dibattito pubblico visioni culturali e civili del cristianesimo,
in funzione spesso apertamente anti-islamica. E in risposta ai predicatori
d’odio e ai loro proseliti. Si pensi, ad esempio, al caso dell’imam Choudary di
Londra, che è stato condannato nel 2016 a cinque anni e mezzo di carcere
per aver incitato i musulmani a unirsi all’Isis nel “Siraq” e per aver avuto legami
con alcuni terroristi operanti nel Regno Unito. E a tutti gli imam espulsi, anche
in Italia, per motivi di sicurezza nazionale. Clamorosa, in questo ambito,
l’operazione del governo di Vienna che nel 2018 ha chiuso sette moschee ed
espulso tutti i capi religiosi dell’associazione Atib (Unione turco-islamica per
la collaborazione culturale e sociale in Austria), con accuse di finanziamenti
illeciti dall’estero e di violazione della legge austriaca sull’Islam. Il fatto aveva
provocato una reazione ufficiale del governo turco, a conferma del rapporto
tra la predicazione islamista in Europa e le influenze di entità statuali straniere.
66
questo punto non aiuta l’impossibilità per l’islam di distinguere la sfera civile
da quella religiosa. I combattenti dell’Isis ritengono di adempiere un precetto
morale e religioso. Non ci sembra pertanto di grande significato la
constatazione di islamologi come Tariq Ramadan che esistano molti
“musulmani senza Islam” nelle società europee.
67
dichiarata, che il contesto europeo possa sfumare alcune asperità dottrinali
e comportamentali di questa religione, ma con il dovuto tempo, senza fretta.
Il punto è che, ove mai fosse possibile una progressiva inculturazione dell’Islam
nella civiltà europea (o in quello che ne rimane), ci penserebbero gli islamisti
a organizzare ondate di predicazione d’odio anti-occidentale, come hanno
fatto negli ultimi anni. E a spiegare che i musulmani devono vendicarsi delle
offese dei “crociati”, anche con la violenza e il terrore, maneggiando la storia
a fini propagandistici. Il risultato è che in molte città europee sono sorte delle
“no-go zones”, terreno fertile per il reclutamento dei terroristi. In pratica, dei
territori ostili nel bel mezzo delle nostre città. Con la complicità indiretta di
politici, intellettuali e giornalisti mainstream, che arrivano perfino ad avere
toni giustificatori o a sollecitare strumenti di giustizia sociale per favorire
l’integrazione. Contrariamente a quello che pensa la vulgata, le correnti più
radicali presenti in Europa utilizzano un proselitismo molto elitario. L’approccio
salafita rimanda a un’etica della convinzione e a una stretta osservanza delle
fonti (Corano e Sunna): «Con il suo modo di vivere il salafita suscita delle
vocazioni. Il salafita è in rottura con una società che disprezza dal punto di
vista morale»9. Questa predicazione produce un effetto di verità nella mente
degli adepti, che quindi vengono convinti sul piano della razionalità religiosa
e aderiscono a un immaginario che li rimanda continuamente all’Arabia
Saudita, ai luoghi sacri dell’Islam e alle prime società musulmane. Ma anche
alla teoria del complotto occidentale contro la religione di Maometto. Si
comprende allora perché questa scuola islamista demonizzi tutti gli imam
che incoraggiano il dialogo e che lavorano a un Islam europeo. Forse è
all’interno del mondo islamico il maggiore ostacolo all’europeizzazione
dell’Islam. Si tratta di capire come agirà questo virus nel già fragile organismo
europeo. Se ci saranno reazioni tese perlomeno a de-politicizzare questo tipo
di interpretazione islamista, a spezzare i legami con l’estero e con l’importazione
dell’odio. Se l’Europa sarà in grado di abbandonare l’autodenigrazione che
la frena e di recuperare il senso della sua civiltà e del suo futuro. Fino a quel
momento, continueremo ad assistere al tramonto dell’utopia di un Islam
europeo. E sciaguratamente della stessa Europa.
Mario Ciampi
docente di Politiche Pubbliche, Link Campus University,
segretario generale Farefuturo
9 Intervista a Mohamed-Ali Adraoui, Chi sono i musulmani europei che vorrebbero vivere come ai
tempi del Profeta, in “Oasis”, 27.05.2019.
68
IDENTITÀ EUROPEA E ISLAM:
RIFLESSIONI PER UN CONFRONTO
di Renato Cristin
69
loro essenza. Infatti, lo spirito dei popoli esiste, perché si forma con il loro
percorso storico concreto, con il concretizzarsi e il consolidarsi delle loro
tradizioni.
Chiarito dunque che Europa e Islam non sono due entità omogeneamente
confrontabili e che le loro differenze sono profonde e radicate nella loro
rispettiva identità, resta valido l’obiettivo di un dialogo che favorisca le
relazioni fra esse e, in particolare, permetta agli europei e ai musulmani
presenti in Europa di avere rapporti positivi che, a loro volta, facilitino
l’integrazione di questi ultimi nelle realtà sociali e nazionali nelle quali sono
venuti a vivere. Se entrambe le parti condividono questo scopo, allora
faranno il possibile per conseguirlo. Ma per raggiungere questo obiettivo
c’è bisogno di una disponibilità che va ben al di là del semplice ascolto
delle argomentazioni e delle posizioni altrui.
70
ovviamente però purché vi sia una identica disponibilità da parte
dell’interlocutore. Ma da parte islamica possiamo dire altrettanto?
71
rimozioni psicologiche che producono un doppio danno e con
strumentalismi politici che guardano agli interessi elettorali della sinistra.
72
avversione all’Islam. Infatti, chi pensa che l’Islam guardi all’Europa con mire
egemoniche o chi lo critica per il suo intrinseco totalitarismo, viene oggi
tacciato, dall’apparato politico e mediatico, di islamofobia.
73
distrutta e i militari sono i guardiani dell’islamismo nazionale del partito di
Erdogan.
74
La causa di questa inquietante realtà è duplice: da un lato l’incessante
spinta islamica ad acquisire spazi di autonomia, dall’altro l’atteggiamento
di rassegnazione e di rinuncia da parte delle varie istituzioni dei Paesi
europei. Rinunciatarie sono infatti quelle istituzioni che, per un malinteso e
male direzionato senso di difesa delle minoranze, nascondono o in qualche
caso addirittura aboliscono i simboli della nostra tradizione religiosa e
culturale, affinché le comunità straniere (ma si deve intendere: musulmane)
non si sentano offese nella loro identità. Ciò accade soprattutto nelle scuole
e negli spazi sociali, ma anche, sia pure in forma diversa e meno eclatante,
nell’ambito delle strutture ecclesiastiche. Rinunciataria è la Chiesa, sia
cattolica sia evangelica, quando cerca il dialogo con i rappresentanti della
religione musulmana senza però porre limiti precisi e non oltrepassabili
(relativi soprattutto alle proteste musulmane per la diffusione dei simboli
religiosi cristiani negli ambiti sociali); limiti che sarebbero utili per la chiarezza
del dialogo stesso.
75
premesse essenziali di ogni relazione fra esseri umani socializzati, e cioè che
l’integrazione può avvenire solo fra integrabili. Ci sono gruppi che non
riescono a integrarsi e gruppi che non vogliono integrarsi: le condizioni sono
diverse, ma il risultato è lo stesso. Nella seconda metà del Novecento, molti
musulmani, per lo più di origine maghrebina, si sono perfettamente integrati
nelle società europee, ma da un paio di decenni si è registrato una
controtendenza: non ci si vuole integrare, perché ciò significherebbe
abdicare ai princìpi religiosi e allo stile di vita islamico tradizionale, e pure
perché l’integrazione viene vista come un segno di resa culturale e politica.
Il risultato è l’aumento dell’integralismo e del fanatismo, che rendono di
fatto impossibile qualsiasi dialogo.
Di fronte a questa realtà, della quale ho fornito qui soltanto alcuni scorci
di sorvolo e alcune coordinate teoriche per interpretarla, il lavoro da fare è
ciclopico, ma non irrealizzabile. L’Europa potrà avere un futuro soltanto se
riaffermerà le proprie radici culturali e religiose, nel quadro del sistema
socio-istituzionale del liberalismo occidentale e nella prospettiva politica
del liberalconservatorismo, che è oggi l’unica opzione in grado di
fronteggiare, in modo incruento ma assolutamente risoluto, le pretese degli
islamici, trattandoli con pieno rispetto ma da pari a pari, senza cioè quella
indulgenza che sfocia sempre nella remissività, perché la scelta preferenziale
per i musulmani non solo può intaccare tali radici, cristiane ed ebraiche,
ma può condurre addirittura all’autodissoluzione. A questa deriva
bisognerebbe opporre un rinnovato e del tutto pacifico spirito di Lepanto,
declinato sulle esigenze e sulla realtà storica del nostro presente: non uno
spirito di guerra, ma di inflessibilità (che non significa intolleranza, bensì
rigore, nel concetto, nel pensiero e nell’azione, e anche nel rapporto con gli
altri), uno spirito che, pur dialogando con gli altri, animi la coscienza
europea a difesa della nostra identità.
Renato Cristin
docente di Ermeneutica filosofica,
Università di Trieste
76
IL PROFETA E IL FARAONE:
UN NUOVO ORDINE MONDIALE?
di Giulio Terzi di Sant’Agata
L’ISLAM POLITICO
77
rilevante. E’ indubbio che sia quel mondo, ancor più dell’Occidente, a
soffrire per l’immane devastazione procurata da guerre intestine, lutti,
distruzioni prodotte da una violenza Jihadista che si proclama – ed è orribile
anche solo pensarlo – “religione” rivelata da Dio. L’ondata Jihadista è
tutt’altro che spenta. Un certo riflusso è stato reso possibile dalla
“destrutturazione” del Califfato salafita, e da un momentaneo
“contenimento” del fondamentalismo sciita-Iraniano.
78
• In primo luogo, la crescita demografica: entro la fine del secolo saremo
almeno 2 miliardi in più sulla Terra. L’aumento si concentra su regioni afflitte
da povertà, corruzione, spoliazioni di terre e di risorse naturali, deforestazioni,
decadimento ambientale. Mentre le economie avanzate manterranno una
certa stabilità demografica, altrove le crescenti concentrazioni di ricchezza
e gli squilibri demografici alimenteranno tensioni migratorie e conflittualità
di ogni tipo.
79
Muslim and Non-Muslim Fertility Rates, by Region, 2010-2015
2.6 3.0
Middle East-N. Africa 0.4
2.6 2.7
Asia-Pacific 0.7
2.0 2.6
North America 0.6
1.5 2.1
Europe 0.6
2.3 3.1
World 0.8
FERTILITY RATE 0 1 2 3 4 5 6
80
assoluta per le più aberranti operazioni militari, per i bombardamenti contro
intere città, come ad Aleppo e ad Idlib – denunciate dallo stesso Segretario
Generale dell’ONU. E’ una “guerra” – quella siriana – che mira a eliminare
fisicamente ampie fasce di popolazione sunnita, a farle fuggire oltre confine,
ad annientare ogni opposizione ad Assad, e a garantire una illimitata
presenza politica e militare Iraniana in Siria, insieme a quella Russa. Persino
sull’utilizzo continuo delle armi chimiche, che avrebbero dovuto essere state
consegnate alle Nazioni Unite sin dal 2013 sulla base di “garanzie” russe,
Mosca acconsente di fatto che Damasco continui a usarle e ricorre in
Consiglio di Sicurezza dell’ONU alla abusata pratica del veto, per sottrarre
Assad alla Corte Penale Internazionale dell’Aja, anche se questa dovrà
prima o poi giudicarlo per crimini contro l’umanità di cui – secondo eminenti
giuristi tra i quali il compianto Professor Sherif Bassiouni, uno dei principali
artefici della Convenzione di Roma, istitutiva delle Corte Penale Internazionale
– sarebbe responsabile.
81
rafforzare, e rendere assoluto, il potere di chi la governa. Ora sia Putin che Xi
Jinping – grazie soprattutto alle nuove tecnologie – sono in condizione di
fare assai di più per mettere in pratica di quella strategia. Ma sottovalutano
pericolosamente le conseguenze dirette e indirette di questo loro gettare
benzina sul fuoco del radicalismo islamico. I due principali “leader
revisionisti” dell’ordine mondiale sono sulla strada sbagliata, non vedono i
rischi e pregiudicano la sicurezza dei loro Paesi per due ragioni essenziali:
82
• Quanto alla terza “potenza revisionista”, l’Iran, divenuta da sette anni a
questa parte – per effetto della immensa carneficina siriana – sempre più
stretta alleata di Mosca e, con maggiori “distinguo” di Pechino, si deve
notare che l’inserimento di una dimensione fortemente “messianica” nelle
dinamiche geopolitiche mediorientali e globali accresce l’imprevedibilità di
un “player” militarmente forte, vicinissimo alla soglia nucleare, e la minaccia
che il regime rappresenta. Da quarant’anni la teocrazia iraniana pratica il
terrorismo quale strumento essenziale e integrante della propria strategia di
eliminazione di qualsiasi forma di dissidenza interna e esterna al Paese. Dal
2001 a oggi ha dimostrato di poter superare, nel promuovere il terrorismo,
qualsiasi barriera confessionale e di saper sostenere attivamente anche le
organizzazioni Jihadiste a matrice sunnita, come Al-Qaeda, Hamas, Jihad
Islamica, oltre all’attività terroristica a proiezione globale che fa capo a
Hezbollah e al Corpo delle Guardie Rivoluzione Iraniana (IRGC). L’esistenza
di un “Governo dei Giureconsulti“ – Velayat -el- Fakih – legittima- secondo la
teocrazia di Teheran, gli obiettivi che essa dichiara ,tra i quali la distruzione
di Israele, e alimenta la conflittualità permanente con i Paesi Arabi sunniti
del Golfo, del Medio Oriente e del Mediterraneo, nonché il più duro
confronto con gli Stati Uniti. Era stato proprio nel bel mezzo del “risveglio”
Sciita che l’America di Obama si era mostrata rinunciataria e cedevole in
Siria – forse per incoraggiare Teheran a sottoscrivere il JCPOA – ma ciò non
era di certo servito a rallentare l’espansionismo regionale dell’Iran, il suo
programma nucleare e missilistico. Washington ha partecipato dall’agosto
2014 con una capacità militare molto significativa alla campagna militare
contro lo Stato Islamico in Siria; in una davvero “strana alleanza”
antiterrorismo nella quale gli obiettivi per gli Americani erano le forze
dell’ISIS, mentre per Russi, Iraniani e Assad l’obiettivo da colpire era non solo
lo Stato Islamico, ma anche tutto lo schieramento di forze appartenenti
all’Opposizione siriana. Nei primi mesi di guerra all’ISIS si è assistito persino
ad attacchi dell’Air Force USA in copertura di forze e “proxies” iraniani sul
terreno. La “stranezza” di quanto precede è parsa non solo evidente per
molti, ma ha prodotto conseguenze negative e, si teme, di lungo periodo.
Non poteva essere altrimenti, data la profonda diversità nella concezione e
condotta delle operazioni militari: differenti gli obiettivi da colpire (ISIS per
l’America, gli oppositori politici per Assad e i suoi due alleati); contrapposte
le finalità politiche (conservazione al potere degli Assad, voluta da Russia e
Iran; evoluzione inclusiva degli assetti istituzionali e riforme incisive nel Paese,
auspicate dagli USA, almeno sino a quando Washington si è realmente
83
impegnata nella questione siriana); contrastanti i metodi operativi e le
regole di ingaggio (“terra bruciata” come in Cecenia, per Mosca; pulizia
etnico-politica di molte comunità sunnite, con sostituzione di Sciiti, per
Teheran e Damasco; attenzione ai “danni collaterali” alla popolazione
civile, per gli americani).
In Siria, tuttavia, gli Stati Uniti non sono parsi interessati veramente a
muoversi su altro terreno che non quello della forza militare. Probabilmente
perché l’unica agenda possibile da condividere con russi e iraniani era
quella della guerra all’ISIS, e non una soluzione politica per la tragedia
Siriana per rimettere in discussione il regime Alauita. Finita la stagione del
Califfato, ma non certo quella del Jihadismo che ha creato e che ancora
ne trae ispirazione, l’America perde con l’annunciato ritiro del suo
contingente militare un ruolo da protagonista nella ricostruzione politica e
materiale del Paese. La temporanea alleanza di Washington con Russia e
Iran è servita invece a rafforzare considerevolmente ruolo e credibilità di
Mosca e di Teheran in Siria nell’intera regione, con affievolimento, se non
84
perdita, dell’amicizia preziosa per gli Stati Uniti dei curdi siriani e delle altre
componenti contrarie ad Assad e agli Sciiti.
Come scrive Michael Mandelbaum nel suo ultimo libro “The Rise and Fall
of Peace on Earth”, come per le altre due “potenze revisioniste” (Cina e
Russia) anche per l’Iran una condotta aggressiva al di fuori dei confini
nazionali ha il potere di rinvigorire la base di Governo, quando ci si appella
al sentimento nazionalista della popolazione. Esattamente come stanno
facendo Cina e Russia. Vi è tuttavia una profonda differenza. Per l’Iran il
nazionalismo ha una connotazione religiosa fondamentalista e settaria:
quella di un Islam politico attuato con la creazione della Repubblica
Islamica, costruita per la supremazia degli Sciiti su tutti i Musulmani in Medio
Oriente, e riscattare gli Sciiti dalle persecuzioni e sconfitte storicamente
subite dai Sunniti. Mentre la Russia lasciava (almeno ufficialmente) il
Marxismo-Leninismo, e la Cina cercava di trasformarlo, in Iran tutto il
bagaglio ideologico restava intatto.
85
come ha ripetutamente dichiarato il suo leader, Sceicco Nasrallah – è ormai
diventata un’organizzazione militare su grande scala, di decine di migliaia
di uomini perfettamente addestrati, reclutati anche tra le comunità Sciite in
Afghanistan, Pakistan, Medio Oriente, con un arsenale missilistico
gigantesco e armamenti modernissimi. Hezbollah, come altre milizie formate
dal regime iraniano, ha una rilevante proiezione multinazionale e non più
libanese soltanto. Opera in Libano da inizio anni ‘80, in Iraq e in Siria da
quasi un decennio, insieme ad altre forze paramilitari specializzate in “ethnic
cleansing” e eliminazioni mirate; si collega alle iniziative di sostegno iraniano
agli Houti in Yemen, e a molte attività di terrorismo internazionale, guerriglia,
traffici e criminalità organizzata che raggiungono Paesi lontani, come il
Venezuela e altri Paesi latinoamericani.
IL PROFETA E IL FARAONE
86
“regicidio” in nome del profeta Maometto, con l’assassinio del Presidente
Sadat, detto il “Faraone”.
POLITICALLY CORRECT
87
La distorsione dell’informazione “politically correct” trova numerosi
modelli di riferimento. Uno dei casi più appariscenti è la BBC con la decisione
di non utilizzare più il termine “terrorismo” in caso di attacchi di chiara natura
terroristica. La ragione di questa linea editoriale si riassume nel concetto
che “un uomo terrorista è un combattente per la libertà di un altro uomo”.
Boaz Ganor, nel suo libro “The Counter-Terrorism Puzzle: A guide for Decision
Makers” fa un quadro più preciso della questione: “Il terrorismo è una forma
di lotta violenta in cui la violenza è usata deliberatamente contro i civili per
raggiungere obiettivi politici (nazionalisti, socioeconomici, ideologici,
religiosi, ecc.)”. La definizione dimostra come sia l’atto di violenza contro i
civili per scopi politici che rende un evento un attacco terroristico. Non c’è
possibilità di fraintendimenti quando si utilizza questa definizione. I media
sono il quarto pilastro della democrazia, con il compito di garantire al
pubblico l’informazione e la comprensione degli eventi sociali, politici ed
economici che si manifestano. I media hanno lo scopo di rendere un
governo responsabile nei confronti degli elettori e di esporre al pubblico i
fatti con imparzialità. I jihadisti mirano invece a utilizzare i media a loro
vantaggio e a creare una paura irrazionale all’interno della società; al fine
di esercitare pressione sui loro Governi nella speranza di cambiamenti
favorevoli alla loro causa. Mettendo al bando termini come “terrorismo
jihadista”, si fa il gioco dei terroristi e si rischia di legittimare le loro cause.
88
In Europa la poligamia è aumentata, così come le mutilazioni genitali
femminili (500.000 casi in Europa); l’antisemitismo è salito alle stelle e si sta
affermando un sistema di “società parallela” ispirata all’Islam e alla Sharia.
CONCLUSIONI
89
distruzione dello Stato Iracheno nel 2003, un immenso regalo per la
Repubblica Islamica Iraniana. Le ha consentito di ricongiungersi agli sciiti
Iracheni – 60% della popolazione – e nel decennio successivo, nel 2014, ha
incoraggiato le mire Iraniane sulla Siria, in cambio – sembra –
dell’accettazione americana di un “Nuclear Deal” nato male e finito peggio.
Tra i Paesi arabi a noi vicini vi sono stati successi certo non trascurabili nel
contrasto al terrorismo e alla diffusione di un Islam politico incline al
fondamentalismo. Sono Paesi amici dell’Italia. Devono essere politicamente,
economicamente, e militarmente – se necessario – aiutati per assicurare un
futuro diverso, di stabilità e sviluppo al Mediterraneo e al Medio Oriente.
Ricordiamoci che l’ondata messa in moto dalle “Primavere Arabe” otto anni
orsono – con il suo anelito per la libertà, il rispetto dei Diritti Umani e la
richiesta di Giustizia – era parsa infrangersi con l’arrivo al potere, in Egitto,
dei Fratelli Musulmani e del Presidente Morsi nel giugno 2012. Era l’avvio di
una dinamica che coinvolgeva gran parte del mondo arabo, molti Stati
90
della Regione, dalla Turchia al Golfo, dalla Mesopotamia al Sahel. E
riconducibile all’influenza dell’Islam politico egiziano, nella prima fase delle
primavere Arabe, fu un aspetto particolarmente negativo per la Libia e, di
conseguenza, per l’Italia: l’improvvisa interruzione dell’”Institution building”
del percorso costituzionale che il Paese aveva intrapreso dopo la caduta di
Gheddafi.
La tragedia siriana, e il suo “spill over regionale”, sono stati figli della
medesima causa, quella di un riaccendersi dell’insanabile confronto tra
due diversi modelli di Islam politico e di fondamentalismo, riassumibile nella
visione dei Fratelli Musulmani da un lato, e in quella dell’Iran Sciita.
91
IL TERRORISMO
DI MATRICE ISLAMICA
di Isabella Rauti
Dopo gli attacchi terroristici del 2004 (Londra), del 2007 (Madrid), del
2011 in Norvegia, ci si avvia verso una tragica escalation di attentati di
matrice islamica e, dal fatidico 2014 (nascita di Daesh) al 2019 si sono
registrati attacchi terroristici continui, di intensità diversa (bassa, media,
alta e quelli definiti emulativi) e di natura mista (attacchi di singoli attentatori
o strutturati), con il picco toccato nel 2016 (l’anno degli attentati, tra gli altri,
a Bruxelles, a Nizza, a Berlino, rivendicati dall’Isis e risultati legati a quelli di
Parigi del 2015).
92
Secondo il Report realizzato dal “National Consortium for the Study of
Terrorism and Responses to Terrorism” (START) sulla base dei dati raccolti dal
“Global Terrorism Database” (messo a punto dall’Università del Maryland),
gli attentati terroristici del 2016 in tutto il mondo (l’87% ha interessato la
regione del MENA, il Sud dell’Asia e l’Africa subsahariana; il 2% l’Europa
occidentale) sarebbero stati 13.488 ed avrebbero causato 34.676 vittime di
cui più di 11.600 sono ritenuti attentatori; nel 2016 l’Isis si conferma come
l’organizzazione terroristica più pericolosa ed attiva, portando a compimento
circa 1.400 attacchi che hanno prodotto oltre 11.700 vittime , delle quali
circa 4.400 erano attentatori.
Nel corso di questi anni di sangue gli attacchi condotti in Occidente non
sono stati tutti uguali; alcuni sono stati molto sofisticati e condotti da
professionisti addestrati, altri da emulatori meno preparati o addirittura
improvvisati ma questo non gli ha impedito di portare a compimento i piani
terroristici, sottolineando una certa permeabilità dei sistemi di difesa e
sicurezza europei. Che si trattasse di “lupi solitari” o di cellule organizzate
(che hanno potuto godere del supporto di molti fondamentalisti islamici
presenti in Europa) l’offensiva jihadista si è protratta, dimostrando l’inefficacia
di alcune strategie ed una debolezza strutturale nelle segnalazioni e nelle
misure preventive. Troppi, infatti, i casi rivelati dalla cronaca e dalle indagini
successive agli attentati, di sostenitori della Jihad che hanno dissimulato
con successo il loro ruolo di fiancheggiatori (o molto di più!), dietro una
facciata di integrazione e “mimetizzazione” occidentale; svolgendo per
anni una funzione logistica, di propaganda, di finanziamento e di
reclutamento utili alla causa. La tecnica della dissimulazione (in arabo
taqyyia) è sempre più utilizzata dai soggetti radicalizzati per la loro
infiltrazione nel tessuto sociale occidentale.
93
europea, da commando suicidi, attentatori disposti al martirio in ossequio
estremo alla loro fede islamica radicale.
94
offensive isolate dei cosiddetti “lupi solitari”; gli attacchi suicidi, cui hanno
cominciato a contribuire anche le donne: le mogli, le sorelle, le madri dei
combattenti e, purtroppo, anche i bambini, impiegati come attaccanti
suicidi, imbottiti di tritolo e mandati a morire telecomandati a distanza.
Non trova qui spazio e meriterebbe un capitolo a parte l’altro fronte dei
foreign fighters che sono le donne; Al-Qaeda non le impiegava mentre l’IS
le ha utilizzate ampiamente: da quelle operative e combattenti, impiegate
in ruoli militari operativi o di spionaggio o incaricate di condurre attacchi
suicidi, alle mogli forzate dei miliziani del Califfato (comprate e costrette al
matrimonio), alle vedove, alle madri e alle sorelle dei combattenti jihadisti e
poi i bambini, quelli indottrinati e obbligati a fare i soldati o i martiri e quelli
– i “figli dell’Isis” - nati dai matrimoni forzati e, taluni, oggi ripudiati dalle loro
madri.
95
ai richiami simbolici ed un bisogno di “appartenenza” identitaria unito ad
una volontà di riscatto.
96
foreign fighters di quelli che si erano uniti al Califfato e, ancora, dei circa
6000 che erano partiti dall’Europa per andare a combattere con l’IS (Stato
Islamico) in Siria e in Iraq, almeno 2000 sarebbero rientrati. Sarebbero qui, a
casa nostra! E nuovi attacchi Isis sono possibili, in Europa ma anche nel
resto del mondo.
L’ultimo Rapporto delle Nazioni Unite infatti, basato sui dati forniti dai
servizi e dalle Agenzie di intelligence di tutti i Paesi membri dell’ONU,
richiama l’attenzione mondiale sulla minaccia terroristica ed avverte che
l’attuale diminuzioni degli attacchi terroristici sembra non essere destinata
a durare a lungo e già entro l’anno in corso potrebbero essere sferrati nuovi
attacchi ispirati dall’Isis. Insomma, la minaccia all’Europa è elevata e
l’allarme resta alto in tutto il mondo; secondo gli esperti di terrorismo, lo
scenario globale dei movimenti islamisti è estremamente preoccupante e
continua a rappresentare una minaccia reale e significativa. A conferma
della tesi per la quale, la scomparsa geografica del Califfato, del sedicente
Stato islamico, non coincide con l’esaurimento dei fattori ideologico-religiosi
e politici che hanno portato alla sua nascita e la minaccia terroristica resta
attuale e se possibile più pericolosa, perché può produrre “nuovi brand”
terroristici internazionali, nuovi leader e diffondere la radicalizzazione nelle
forme che abbiamo analizzato. Viviamo nella consapevolezza, rafforzata
anche dai contenuti del Rapporto, che è imminente il rilascio della prima
ondata di foreign fighters arrestati dopo il loro rientro dai campi di battaglia
del Califfato e che, fin qui, i programmi di deradicalizzazione e di prevenzione
della radicalizzazione di carattere terroristico, si sono dimostrati inadeguati
mentre il cosiddetto “califfato virtuale” continua a fare propaganda e
reclutamento ed a godere di sostegni e mezzi economici (si valuta un
accesso a fondi che vanno dai 50 ai 300 milioni di dollari e non mancano
altre fonti (Cfr. studio Fondazione Icsa) che confermano i contributi di guerra
ed i finanziamenti al terrorismo jihadista) e l’Isis ha le capacità operative per
ordinare attacchi internazionali.
97
I miliziani di rientro dallo Stato Islamico, sono rimasti dei combattenti,
sanno maneggiare armi ed esplosivi, sono pronti ad obbedire agli ordini,
per loro il terrorismo è “un legittimo atto di guerra” e vedono nell’Europa il
nuovo campo di applicazione delle loro teorie; dovrebbero essere sorvegliati,
arrestati, messi nella situazione di non frequentare le moschee e di fare
azioni di proselitismo. E non possiamo prevedere l’impatto emotivo sui
potenziali attentatori, del richiamo lanciato da al-Baghdadi nel suo ultimo
video, di colpire “con coltelli e veicoli” trasferendo il campo di battaglia dal
Medio Oriente all’Occidente.
98
fronteggiata ed una definizione condivisa per una strategia di prevenzione
e di contrasto davvero comune e in grado di rafforzare la sicurezza globale.
Si tratta – anche e quindi - di modificare gli organi e le organizzazioni di
intelligence, di rafforzare le attività di analisi della minaccia e i rapporti di
cooperazione e di alleanza europea e internazionale; anche in
considerazione degli spazi geopolitici instabili e delle nuove dinamiche
globali. La mancanza di una definizione condivisa delle caratteristiche del
nuovo modello di terrorismo condiziona e può pregiudicare il successo
delle strategie di contrasto, perché complica la definizione comune dei
parametri e dei criteri di valutazione delle Agenzie di Intelligence e degli altri
stakeholder coinvolti e complica l’attività di analisi (e reazione) della
minaccia.
99
contrasto al radicalismo islamico ma la strada è ancora lunga e c’è tanto
da fare in Europa anche in termini di coordinamento e controllo sulla libera
circolazione stabilita dai Trattati di Schengen, per cui i terroristi possono
muoversi liberamente tra gli Stati. Nel nostro Paese, oltre il difetto di
percezione, mancano anche gli strumenti normativi, dalla carenza di
percorsi strutturati e articolati per i processi di de-radicalizzazione all’assenza
di una Legge (che Fratelli d’Italia ha proposto) che introduca il reato di
integralismo islamico, per punire i predicatori d’odio, chi finanzia
l’integralismo islamico e le moschee clandestine, chi sostiene atti che
possono mettere a rischio la sicurezza pubblica. E non è solo una questione
di sicurezza e di legalità ma anche di reazione al processo di islamizzazione
che stiamo subendo in Europa e in Italia.
Isabella Rauti
senatore, giornalista,
Ufficiale Riserva Selezionata Esercito Italiano
100
TERZA PARTE
LE LINEE DELLA FRONTIERA.
CASI DI STUDIO
101
LA CONQUISTA DELL’OCCIDENTE
ATTRAVERSO LA DEMOGRAFIA
di Camilla Trombetti
1 United Nations, Department of Economic and Social Affairs, Population Division, “World Population
Prospects 2019: Highlights”, 2019. I dati riportati in questo paragrafo sono un’elaborazione di
suddetto report.
102
determinato da Stati quali la Nigeria, la Repubblica Democratica del
Congo, la Tanzania, l’Etiopia e l’Angola, insieme a un paese non africano, il
Pakistan.
2 Il tasso di fertilità totale esprime il rapporto tra il numero di nati vivi da donne in età feconda
(15-49 anni) e l’ammontare della popolazione residente femminile nella medesima fascia d’età
in un determinato anno. Esso fornisce, di conseguenza, il numero medio di figli per donna. In
un’ottica generazionale, il tasso che assicura a una popolazione la possibilità di riprodursi,
mantenendo costante la propria struttura, è pari a 2,1 figli per donna (non semplicemente
2 perché si deve tenere conto della mortalità infantile). Un tasso di fertilità totale inferiore a
1,3 figli nati vivi per donna è spesso indicato come “fertilità sotto il livello minimo”. Definizione
tratta da: http://www.treccani.it/enciclopedia/tasso-di-fecondita_%28Dizionario-di-Economia-
e-Finanza%29/ e https://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php?title=Fertility_
statistics
103
con poco meno 1,1 miliardi, Nigeria con 733 milioni, Stati Uniti con 434 milioni
e Pakistan con 403 milioni di abitanti. Si prevede che l’Africa supererà l’Asia
nelle nascite entro il 2060.
3 United Nations, Department of Economic and Social Affairs, Population Division,“World Population
Prospects 2019: Highlights”, 2019; e https://www.pewresearch.org/fact-tank/2019/06/17/
worlds-population-is-projected-to-nearly-stop-growing-by-the-end-of-the-century/
104
La profezia di Bernard Lewis
5 Da: https://www.ilfoglio.it/cultura/2018/05/22/news/leuropa-diventera-islamica-196074/
105
da 40,4 a 43,1 anni, e tale aumento ha riguardato tutti gli Stati membri,
seppur in misura diversa.
6 Da: https://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php?title=Population_
structure_and_ageing
106
Population pyramids, EU-28, 2018 and 2100
(% of the total population)
85+
80-84
75-79
70-74
65-69
60-64
55-59
50-54
Age
45-49
40-44
35-39
30-34
25-29
20-24
15-19
10-14
5-9
<5
6 4 2 0 2 4 6
Nel 2017, il tasso di fertilità totale nell’UE-28 era di 1,59 figli nati vivi per
donna (rispetto a 1,60 del 2016), in leggero rialzo rispetto al minimo di 1,46
nel 2001-2002. Una spiegazione parziale dell’aumento del tasso di fertilità
totale potrebbe essere legato al fatto che molte donne scelgono di
posticipare la maternità, determinando di conseguenza l’aumento dell’età
media delle donne al parto: nel 2001 l’età media era di 29 anni, mentre nel
107
2017 è aumentata a 30,7. All’aumento dell’età media al parto è corrisposta
una diminuzione del tasso di fertilità delle donne under-30, il tasso di fertilità
delle donne di età compresa tra 30-34 anni è diventato il più alto rispetto
alle altre fasce d’età.
Tra gli Stati membri dell’UE, la Francia ha registrato il tasso di fertilità totale
più alto nel 2017, con 1,90 figli nati vivi per donna, seguita dalla Svezia (1,78)
e l’Irlanda (1,77). In fondo alla classifica, vi sono Malta (1,26), Spagna (1,31),
Italia e Cipro (entrambe 1,32), Grecia (1,35), Portogallo (1,38) e Lussemburgo
(1,39)7.
7 Da: https://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php?title=Fertility_statistics
8 Da: https://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php?title=Migration_and_
migrant_population_statistics. I dati sono stati aggiornati nel marzo 2019, ma si riferiscono
all’anno 2017, e verranno si seguito riportati.
108
Unito (123,1 mila), Germania (115,4 mila), Francia (114,3 mila) e Svezia (68,9
mila). I cittadini extra-UE provengono principalmente dall’Africa (27% delle
cittadinanze acquisite), dagli Stati europei non facenti parte dell’UE (21%),
Asia (21%), e infine Nord e Sud America (11%). Seguendo il trend degli anni
precedenti, il gruppo più ampio di nuovi cittadini degli Stati membri dell’UE
nel 2017 sono stati cittadini del Marocco (67,9 mila, corrispondenti all’8,2% di
tutte le cittadinanze concesse), seguiti da Albanesi (58,9 mila,), Indiani (31,6
mila), Turchi (29,9 mila) e Pakistani (23,1 mila)9.
Si è registrato poi un forte aumento, con 431 mila domande nel 2013, 627
mila nel 2014 e circa 1,3 milioni nel 2015 e nel 2016. Nel 2018, 638mila
richiedenti asilo hanno chiesto protezione internazionale negli Stati membri
dell’Unione Europea, in calo del 10% rispetto al 2017 (712 mila) e al 2016. Il
numero di richiedenti asilo per la prima volta11 (first time asylum applicants)
nell’UE-28 nel 2018 è stato di 581 mila. Quasi il 79% dei richiedenti asilo first
time nel 2018 aveva meno di 35 anni; quelli nella fascia di età 18-34 anni
rappresentavano poco meno della metà (48%) rispetto al totale dei
richiedenti asilo, mentre quasi un terzo (31%) erano minorenni (under-18).
Per quanto riguarda la distribuzione in base al sesso dei richiedenti asilo first
time, vi sono più uomini che donne.
10 Eurostat definisce “asilo” come una forma di protezione internazionale data da uno stato sul suo
territorio. Viene concesso a una persona che non è in grado di chiedere protezione nel proprio
paese di cittadinanza e/o residenza, in particolare per paura di essere perseguitata per motivi di
razza, religione, nazionalità, appartenenza a un particolare gruppo sociale o opinione politica.
Vedi https://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php?title=Asylum_statistics
109
dell’UE-28 è scesa dal 15,6% al 13,9%. Gli afghani rappresentano il 7,1% del
totale, gli iracheni il 6,8%, mentre i pakistani e gli iraniani rispettivamente il
4,3% e il 4,0%.
In Italia, i cinque gruppi più numerosi di richiedenti asilo first time nel
2018 sono stati:
Pakistan 7.315
Nigeria 5.140
Bangladesh 4.160
Ucraina 2.485
Senegal 2.445
Altri 27.615
12 Da: https://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php?title=Asylum_statistics
110
CHE CONSEGUENZE AVRÀ LA MIGRAZIONE MUSULMANA IN EUROPA?
111
2. Scenario di “IMMIGRAZIONE REGOLARE” (medium migration): in
questa circostanza, si ipotizza che il flusso dei rifugiati si fermi nel 2016, e
continuino le immigrazioni regolari (coloro che arrivano per motivi diversi
dalla ricerca di asilo). Secondo questa proiezione, la percentuale di
popolazione musulmana europea dovrebbe passare dal 4,9% nel 2016
all’11,2% nel 2050, che tradotto in termini assoluti, significa circa 58 milioni di
musulmani europei entro tale data. Il Regno Unito, che negli ultimi anni ha
accolto il maggior numero di immigrati regolari rispetto a qualsiasi altro
Paese europeo, secondo questo scenario conterebbe la più grande
popolazione musulmana del continente entro il 2050: poco più di 13 milioni,
pari al 16,7% della popolazione del Regno Unito.
14 Da: https://www.pewresearch.org/fact-tank/2017/12/04/europes-muslim-population-
will-continue-to-grow-but-how-much-depends-on-migration/ e https://www.pewforum.
org/2017/11/29/europes-growing-muslim-population/
112
Amount of growth in Europe’s Muslim population depends on future migration
Muslim share of Europe’s population under different migration scenarios
PROJECTED 14.0%
High
11.2%
10%... Medium
7.4%
2016
Zero migration
4.9%
5%...
3.8% 4.6%
2015
L’immagine mostra il possibile incremento percentuale della popolazione musulmana, secondo i tre scenari
tracciati dal Pew Research Center. Si evince che in ogni caso, vi sarà un aumento della popolazione
musulmana.
Fonte immagine: https://www.pewforum.org/2017/11/29/europes-growing-muslim-population/
15 Da: Pew Research Center, “Europe’s growing Muslim Population”, 29/11/2017. Una versione
ridotta del report è disponibile anche sul sito: https://www.pewforum.org/2017/11/29/europes-
growing-muslim-population/
113
In three migration scenarios, population decline for Europe’s non-Muslims,
population growth for Muslims
Projected percentage change in Europe’s Muslim and non-Muslim population size, 2016-2050
SCENARIO
2016 population
25.8 million
In tutti e tre gli scenari analizzati, la popolazione europea non-musulmana dovrebbe diminuire, mentre
quella musulmana crescerebbe in tutti e tre i casi.
Fonte immagine: https://www.pewforum.org/2017/11/29/europes-growing-muslim-population/
I tre scenari descritti dal Pew Research Center16 prevedono che anche se
il flusso migratorio dovesse interrompersi, la popolazione musulmana
europea dovrebbe aumentare comunque di 10 milioni entro il 2050, stando
ai tassi di fertilità attuali (2,6 figli per donna, ben al di sopra del tasso di
sostituzione) e la struttura dell’età. In uno scenario a immigrazione zero, le
tendenze demografiche porterebbero ad un aumento previsto di almeno 3
punti percentuali nelle quote musulmane di Francia, Belgio, Italia e Regno
Unito. Stando invece ad uno scenario di immigrazione regolare, la
popolazione musulmana in Europa aumenterebbe fino a raggiungere
quasi 58 milioni, mentre lo scenario di immigrazione massiva prevede 75
milioni di musulmani in Europa entro il 2050.
16 I dati di seguito riportati sono estrapolati da: Pew Research Center, “Europe’s growing Muslim
Population”, 29/11/2017.
Una versione ridotta del report è disponibile anche sul sito: https://www.pewforum.
org/2017/11/29/europes-growing-muslim-population/
114
La differenza del tasso di fertilità tra donne musulmane e non musulmane
varia considerevolmente da uno Stato europeo all’altro: ad esempio,
l’attuale tasso di fertilità stimato per le donne musulmane in Finlandia è di
3,1 figli per donna, rispetto all’1,7 delle finlandesi non musulmane, mentre in
Germania, le donne musulmane tedesche hanno una fertilità relativamente
bassa, (1,9 bambini per donna), un valore non troppo dissimile rispetto
all’1,4 delle donne tedesche non musulmane.
17 Da: https://www.pewforum.org/2017/11/29/europes-growing-muslim-population/
115
In Europe, Muslims projected to have Estimated total fertility rates
more children than non-Muslims (children born per woman)
over time in Europe,
Total fertility rates, 2015-2020
for medium migration scenario
Non- Non-
Europe Muslims Difference Muslims Difference
Muslims Muslims
average 2.6
1.6
+1.0
2015-2020 3.1 1.7 +1.0
Finland 3.1 1.7 +1.0
2020-2025 2.9 1.8 +1.0
United Kingdom 2.9 1.8 +1.0
2025-2030 2.9 1.9 +1.0
France 2.9 1.9 +1.0
2030-2035 2.8 1.8 +0.9
Sweden 2.8 1.8 +0.9
2035-2040 2.6 1.7 +0.9
Belgium 2.6 1.7 +0.9
2040-2045 2.5 1.7 +0.8
Denmark 2.5 1.7 +0.8
2045-2050 2.3 1.7 +0.5
Netherlands 2.3 1.7 +0.5
Austria 2.2 1.5 +0.7
Norway 2.1 1.8 +0.3
Switzerland 2.1 1.5 +0.6
Germany 1.9 1.4 +0.5
Ireland 1.8 2.0 -0.2
Slovenia 1.7 1.6 +0.1
Bulgaria 1.6 1.6 +0.1
Romania 1.6 1.5 +0.1
Greece 1.5 1.3 +0.2
I musulmani europei hanno dei tassi di fertilità molto più elevati rispetto alle popolazioni europee non
musulmane, e dovrebbero mantenersi molto elevati anche negli scenari futuri.
Fonte immagine: https://www.pewforum.org/2017/11/29/europes-growing-muslim-population/
18 Elaborazione dati della Fondazione ISMU su dati Istat e Osservatorio Regionale per l’integrazione
e la multietnicità (ORIM), come riportate nel comunicato di Fondazione ISMU, “Immigrati e
religioni in Italia, la maggior parte è di fede cristiana - In crescita musulmani ed evangelici”,
Milano, 23/07/2019. Da: http://www.ismu.org/wp-content/uploads/2018/10/CS-ISMU-
Immigrati-e-religioni-in-Italia-2019.pdf.
116
e 560mila). Seguono i cattolici (977mila pari al 18,6%). Dall’analisi emerge
che gli stranieri musulmani residenti sono aumentati di 127mila unità rispetto
al 2018 (erano 1,45 milioni), mentre i cristiani nel loro complesso sono invece
diminuiti di 145mila unità (nel 2018 erano poco meno di 3 milioni) pur
mantenendo ancora il ruolo di principale religione professata dagli stranieri
(nel 2018 rappresentavano il 57,5% del totale degli stranieri, nel 2019
rappresentano il 53,6%). Per quanto riguarda la nazionalità, si stima che la
maggior parte dei musulmani stranieri residenti in Italia provengano dal
Marocco (440mila), Albania (226mila), Bangladesh (141mila), Pakistan
(106mila) ed Egitto (111mila).
È possibile allora ipotizzare quale futuro attenda l›Italia, anche alla luce
delle attuali tendenze dei flussi migratori: nel 2100 i musulmani potrebbero
costituire la metà della popolazione italiana. Questo scenario potrebbe
verificarsi per due motivi: perché le immigrate musulmane hanno un tasso
di fertilità che è il doppio di quello delle italiane e perché il 78% dei richiedenti
asilo e degli immigrati irregolari che arrivano in Europa sono musulmani.
Islamizzazione dell’Italia
70
60
MILIONI DI ABITANTI
50
40
30
20
10
0
2010 2018 2030 2040 2050 2060 2070 2080 2090 2100
117
CRISTIANI vs. MUSULMANI: CHI SARÀ LA MINORANZA?
19 Da: https://www.pewresearch.org/fact-tank/2017/04/06/why-muslims-are-the-worlds-fastest-
growing-religious-group/ e https://www.pewresearch.org/fact-tank/2019/04/01/the-countries-
with-the-10-largest-christian-populations-and-the-10-largest-muslim-populations/
118
CONCLUSIONI
Nel 2018 si registra un nuovo record negativo di nascite: sono stati iscritti
in anagrafe per nascita solo 439.747 bambini, 18mila in meno rispetto al
2017 (-4%) e il minimo storico dall’Unità d’Italia. Negli ultimi anni ha iniziato
progressivamente a ridursi anche il numero di stranieri nati in Italia, pari a
più di 65mila nel 2018 (il 14,9% del totale dei nati). Tra le cause del calo, la
diminuzione dei flussi femminili in entrata nel nostro Paese, il progressivo
invecchiamento della popolazione straniera, nonché l’acquisizione della
cittadinanza italiana da parte di molte donne straniere20.
20 Da: https://www.istat.it/it/archivio/231884
21 Blangiardo G.C., Gli aspetti statistici, in Fondazione ISMU, Ventiquattresimo Rapporto sulle
migrazioni 2018, (2019).
119
Italia nel 2018, risulta evidente la maggioranza di questi ultimi proveniva da
una nazione con una forte, se non quasi totale, presenza musulmana22
(come il Pakistan, la Nigeria, il Bangladesh e il Senegal).
23 Da: https://www.ilmessaggero.it/primopiano/esteri/erdogan_turchi_residenti_ue_5_
figli-2323737.html
120
della popolazione musulmana subirà un’impennata a cui sarà impossibile
porre rimedio.
% OF % OF % OF
% OF
2015 WORD’S 2060 COUNTRY WORD’S
COUNTRY
2015 MUSLIM MUSLIM 2060 MUSLIM PROTECTED MUSLIM
THAT IS
POPULATION POPULATION POPULATION TO BE POPULATION
MUSLIM
IN 2015 MUSLIM IN 20160
10. Iraq 36,200,000 99.0 2.1 10. Afghanistan 81,870,000 99.7 2.7
Camilla Trombetti
esperta in Relazioni internazionali
e Politiche pubbliche
121
UN VIAGGIO NEI BALCANI,
LA POLVERIERA D’EUROPA
di Andrea Delmastro Delle Vedove
122
Intanto, per il periodo 2007-2013, la Bosnia ha già beneficiato di 655 milioni
di euro provenienti dallo Strumento di Assistenza preadesione.
123
Dal conflitto degli anni ‘90, le divisioni religiose hanno preso una nuova
piega. Prima della Guerra dei Balcani, la popolazione della Bosnia-
Erzegovina era costituita da una maggioranza di lingua serbo croata
formata per il 43,7% dai Bosniaci musulmani, per il 31,3% da Serbi e per il
17,3% da Croati. La distinzione tra Serbi, Croati e “Bosniaci” non aveva una
valenza dal punto di vista linguistico, ma aveva un forte valore in termini
identitari e religiosi. Prima del conflitto, le tre popolazioni vivevano fianco a
fianco e non percepivano la necessità di avere propri territori.
Successivamente, il processo di emigrazione forzata dei musulmani e dei
croati residenti nelle zone sotto il controllo dei serbi, e viceversa, ha
contribuito ad acuire le tensioni religiose dovute alla redistribuzione della
popolazione nelle varie zone. Questa “diaspora” delle religioni ha favorito la
radicalizzazione di ampie fette di musulmani bosniaci a seguito della
progressiva affermazione delle scuole coraniche.
Negli ultimi quindici anni vi sono stati scontri tra la comunità moderata
locale e gli stranieri con una visione più radicale dell’Islam. I rapporti di
intelligence rendono noto che numerosi leader religiosi musulmani sono
diventati più radicali, in gran parte come reazione all’inadeguata risposta
internazionale alle difficoltà dei musulmani nel Paese.
124
Corano. In questo cuore islamico dell’Europa si sono formati ed addestrati
numerosi foreign fighter che sono partiti per la Siria e l’Iraq, in un ecosistema
fertile per la massiccia presenza degli armamenti residuati dalla guerra
etnica. Verosimilmente è qui che i foreign fighter balcanici vorranno fare
ritorno adesso che il miraggio del Califfato è svanito. Secondo funzionari
statali e fonti mediatiche, dal 2013 in poi circa 260 cittadini si sono uniti ai
gruppi fondamentalisti come combattenti in Iraq e in Siria. Si stima che 150
siano tornati, rappresentando una seria minaccia per la sicurezza.
Si ritiene, inoltre, che circa 315 cittadini kosovari siano andati in Siria e in
Iraq per unirsi allo Stato Islamico, il che rende il Kosovo il principale Paese
europeo per percentuale di abitanti che hanno combattuto nelle fila di ISIS
come foreign fighter. Secondo i servizi segreti di Pristina, oltre il 33% di loro è
già rientrato in patria.
125
La Chiesa cattolica romana in Bosnia è una minoranza religiosa che sta
affrontando un futuro molto incerto. La mancanza di opportunità di lavoro,
il senso di impotenza politica e l’aumento del radicalismo islamico hanno
scatenato una nuova ondata di emigrazione che, inevitabilmente, potrebbe
condurre all’azzeramento della presenza cristiana nel Paese.
Qui, nella regione della Metohija, possiamo trovare alcuni dei più
significativi esempi della civiltà serba e del monachesimo ortodosso poiché
in quelle terre si svilupparono, gli insediamenti primordiali del popolo serbo
e, nei secoli XIII e XIV, vennero edificati numerosi monasteri ortodossi, custodi
secolari delle scritture, delle pitture e della memoria storica di quel popolo.
Ad esempio, il presidente turco Erdogan, sempre più attivo nell’allargare la
sua sfera di influenza politica e islamica al Kosovo, ha stanziato milioni di lire
turche per costruire dozzine di nuove moschee e ha chiesto una revisione
dei libri di storia del Kosovo per presentare il dominio ottomano sotto una
luce più positiva.
126
protezione della missione ONU dell’UMNIK e di quella della Nato, denominata
Kfor.
127
ISIS REALITY SHOW:
TERRORISMO,
MEDIA E CRISI DELL’OCCIDENTE
di Guerino Nuccio Bovalino
IMAGOCRAZIA:
I MEDIA E LA POLITICA COME CONFLITTO DI IMMAGINARI
1 Cfr. Marshall McLuhan, Gli strumenti del comunicare, il Saggiatore, Milano 2007; Marshall
McLuhan, La galassia Gutenberg, Armando editore, Roma, 1976.
128
propria ragione d’essere. L’imagocrazia, infine, deriva dalla constatazione
di Michel Maffesoli per cui, se “la superficie è la vera profondità delle cose”,
tale superficie è il luogo dove si svolge la nostra relazione con l’ambiente e
gli altri esseri viventi: un’atmosfera nella quale si mescolano idee, libri,
visioni, film, pubblicità, vissuto quotidiano, fumetti, cultura alta e cultura
bassa, filosofia e banalità. L’immaginario chiamato in causa è filtrato,
prodotto e riprodotto dai media e nello specifico soprattutto dalle nuove
tecnologie digitali2.
Il politico ha ormai metabolizzato le dinamiche del consumo e vive
interamente all’interno di questo brodo babelico e poliforme di immaginari
(e solo con esso può sperare di sopravvivere). La vera sfida è riuscire a
cogliere il costante intrecciarsi di forme tradizionalmente riconoscibili come
politiche con i nuovi strumenti del consenso e del dibattito. Occorre
insomma assimilare le nuove forme che abitano lo spettacolo del quotidiano
intendendole come non più scindibili da un ragionamento sul politico.
Studiare tali forme è utile per comprendere appieno la miscellanea di
impressioni, suggestioni e passioni che stanno alla base dell’agire nella
polis di ogni cittadino3.
Per comprendere l’attuale dimensione mediologica della politica – dalla
tweet-crazia personificata da Trump ai vari populismi digitali che esondano
dal web – è utile voltarsi indietro e far riaffiorare il ricordo di una foto
raffigurante un elegante Obama in posa con alle spalle una statua di
Superman a misura d’uomo. Era l’apice del messianismo americano, e in
quella cornice mitologica il presidente degli Stati Uniti si era introdotto
mostrandosi come il profeta capace di fidelizzare l’intera popolazione
mondiale con le sue parole; di più: proponendosi quale supereroe insignito
del compito di salvare e cambiare il mondo. In tempi più recenti, a supporto
delle sue tesi politiche, Marine Le Pen ha pubblicizzato il pamphlet di uno
sconosciuto intellettuale francese, Laurent Obertone, dal titolo La France
Orange Mécanique4 e da lei stessa ribattezzato “il libretto arancione”. Nelle
pagine del libro si rilevava come la Francia fosse diventata di fatto terreno
privilegiato per la delinquenza impunita, evocando l’esplicito parallelismo
con A Clockwork Orange, film cult del 1971 nel quale era inscenata la
2 Cfr. Guerino Nuccio Bovalino, Imagocrazia. Miti e immaginari del tempo presente, Meltemi,
Milano, 2018.
3 Michel Maffesoli, Il Tempo delle tribù. Il destino dell’individualismo nelle società postmoderne,
Guerini & Associati, Milano, 2004.
129
banalità dell’ultraviolenza giovanile. Il titolo del libro e l’idea di Marine Le
Pen di definirlo “il libretto arancione” creavano un cortocircuito di
suggestioni, richiamando e intrecciando immaginari distanti tra loro: il
libretto rosso di Mao, caposaldo di un linguaggio politico tradizionale, e il
capolavoro cinematografico di Stanley Kubrick, simbolo di una cultura
post-alfabetica, postmoderna e pop.
Ancora, è un dato ormai acquisito il valore attribuito dai terroristi alla
dimensione dell’immaginario mediatico. L’ISIS, infatti, come strategia
comunicativa della propria propaganda, ha pubblicato sul web i video di
alcune decapitazioni compiute ai danni degli “infedeli”, utilizzando un
montaggio e degli effetti speciali che chiaramente parodiavano la
produzione hollywoodiana dei film d’azione tanto quanto richiamavano
l’immaginario dei reality show nelle modalità teatrali di rappresentare la
morte come macabro spettacolo in mondovisione.
130
storico compreso fra la fine della guerra fredda e l’attacco alle Twin Towers,
aveva creato un sentimento di estrema fiducia nella rinascita dell’Occidente,
sotto il segno delle libertà e dell’affermarsi di una società del consumo e del
benessere. Le guerre in Kuwait e in Iraq furono un’appendice imprevista che
non funzionò come campanello di allarme per l’opinione pubblica, che al
contrario le considerò come accadimenti in grado di alimentare l’idea di
un Occidente forte e considerabile ancora il migliore dei mondi possibili.
Tale convinzione portò le forze militari occidentali ad attribuirsi il compito
doveroso (di comoda realizzazione grazie all’incontrastabile potenza
militare) di esportare la propria cultura e il proprio stile di vita nel resto del
mondo. La folle azione terroristica di Al Qaeda contro le Torri Gemelle è
stato il momento topico nel quale ci si è ritrovati inaspettatamente “la guerra
in casa”. Gli USA sono stati quindi costretti a operare un ripensamento
radicale del proprio grado di potere al cospetto di un complesso sistema
geopolitico mutato all’improvviso; di più: hanno dovuto prendere atto della
fragilità del proprio humus libertario. La realtà, insomma, aveva aggredito
l’immaginario di cui si nutriva da tempo l’”american dream”. Era difficile
metabolizzare i corpi che si lanciavano dalle Twin Towers nel gesto disperato
di eludere le fiamme per donarsi a una morte meno atroce. Immagini che
riproposte in loop dalle televisioni di tutto il mondo venivano percepite
come tragiche ma distanti dalla vita quotidiana. Erano osservate e
metabolizzate come fossero tratte da uno dei tanti film del filone apocalittico
cari alla produzione cinematografica hollywoodiana. Lo spettacolo della
catastrofe incontrava la realtà6.
I recenti atti terroristici dell’ISIS hanno evidenziato un vero salto di qualità
strategico nelle modalità comunicative e di propaganda rispetto alle azioni
di Al Qaeda: se le Twin Towers furono percepite come realtà trasfigurata
dalle nostre menti in un film hollywoodiano, o in un videogioco di guerra, le
decapitazioni degli infedeli a opera dell’ISIS sono state invece raccontate e
confezionate con gli strumenti sofisticati dei trailer cinematografici e
attraverso scenografie hollywoodiane, esaltando i dettagli e il sangue. Si
tratta di immagini che ci toccano concretamente e sfuggono alla nostra
capacità consolatoria di percepire la distanza (come nel caso dei corpi
che cadono inermi dalle Torri Gemelle): qui, difatti, pulsa il sangue, e la
lama pare di sentirla davvero strisciare sulle carni tremanti. Se le immagini
dei corpi che si gettavano dalle Twin Towers in fiamme venivano percepite
6 Alberto Abruzzese, Punto Zero. Il crepuscolo dei barbari, Luca Sossella Editore, Roma, 2015.
131
come una serie di frame cinematografici, i video dell’ISIS – studiati
attentamente perfino nella sceneggiatura e girati in slow-motion – ci sono
apparsi invece più reali del reale, perché costruiti come prodotto da
destinare alla società mediatica che abitiamo. Sono veri e propri trailer del
terrore. L’11 settembre è stato metabolizzato come un tragico film spettacolare
perché inscenato e comunicato come un fatto reale; le esecuzioni dell’ISIS
risultano invece ultra-realistiche perché sono pensate come un film. La
tattica ha il merito macabro di utilizzare il codice comunicativo ideale per
ottenere l’attenzione di un Occidente ripiegato sul visuale e sul virtuale,
sullo storytelling mediale.
L’attenzione prestata dall’ISIS a promuovere i propri attentati con
modalità capaci di incidere sul dibattito occidentale, ha riscontro anche
nella decisione di attaccare la redazione di “Charlie Hebdo”: i terroristi
hanno portato la guerra nel cuore dell’Occidente, nelle sue strade,
colpendolo alla radice della propria essenza culturale (ovverosia la libertà
di opinione e di parola, forme storicamente costitutive della nostra cultura).
Sul piano dell’immaginario individuale e collettivo, ha infatti creato più
scalpore il numero relativamente ridotto di morti nella redazione di un
giornale satirico che non quello, assai più ingente, dei numerosi soldati
trucidati quotidianamente sui campi di battaglia dai terroristi – e dunque
troppo lontano dai nostri occhi, reali e mediatici. Portare la guerriglia nel
cuore di Parigi colpendo i giovani a un concerto ha svelato la nostra
incapacità di difenderci in quanto ormai strutturati come cultura
spettacolare e comunità del godimento; pertanto, incapaci di ritenere
plausibile una guerra per difendere ciò che, seppure evanescente dal
punto di vista identitario, ci caratterizza come mondo progredito. A Parigi
sono stati colpiti i luoghi simbolo della libertà e del consumismo, del ludico
e del futile. Dall’attacco sferrato alle Twin Towers, simbolo del potere
economico capitalista, si è passati a colpire l’inconscio dell’Europa,
aggredita nei luoghi che incarnano l’essenza del vivere quotidiano;
l’oggetto d’assalto è quindi l’effimero fondante il surplus di una comunità
che, compiuto il proprio processo democratico, ha sviluppato un plusvalore
esperienziale, ossia una legittimazione legata al rendere possibile una
socialità basata sulle esperienze del divertimento e del piacere.
132
ISIS REALITY SHOW
133
vittime: insulti e accuse mentre si rinfacciavano loro le cattiverie che
avevano perpetrato ai danni dei propri cari. Il reality “The Quick Response”
era costruito invece su interviste ai soldati che si erano distinti nella lotta
contro gli estremisti, esplicitando chiaramente l’obiettivo di esaltarne
l’umanità e il coraggio rispetto alla meschinità dei terroristi.
I terroristi hanno fatto “buon” uso anche delle tecniche di gamification,
giochi di ruolo e alcuni giochi per bambini nei quali gli stessi erano
protagonisti virtuali di un videogame dove si facevano saltare in aria su
delle colonne di camion degli infedeli7.
7 Cfr. Fabio Lanucara, L’uso dei social media nel terrorismo mediatico, Consultabile presso Archivio
Università Internazionale Dante Alighieri, Reggio Calabria, Tesi del Master ICT – Information
Communication Technology.
8 Cfr. Franco Moretti, Opere Mondo. Saggio sulla forma epica dal Faust a Cent’anni di solitudine,
Einaudi, Torino, 2003.
134
convivono razionale e spirituale; incarna una cultura che si fa sempre più
fluida ed evanescente; si è tramutato oggi nel grande parco giochi delle
libertà e dell’esperienza puramente ludica; ha smarrito quel sentimento di
grandezza con cui giustificava l’idea di essere il migliore dei mondi possibili;
inoltre sconta un’oscillazione alienante: è stato posto suo malgrado dal
presente come un mondo fra i mondi, mentre il terrorismo lo fa deflagrare in
uno stato di tensione permanente, auto-incorporandosi come corpo
estraneo che ormai gli appartiene, una sorta di appendice ineliminabile.
L’Occidente ha sublimato la morte estromettendola dal contesto quotidiano
e ha riscritto i caratteri dell’esistenza come se quest’ultima fosse una corsa
artificiale verso la vita e la giovinezza eterna. Le biotecnologie sono state
elevate a biopolitiche. La morte, vissuta dall’Occidente come un
accadimento da confinare sullo sfondo del contesto della vita quotidiana,
irrompe come verità indissolubile nell’esperienza umana a causa delle
tragedie generate dal furore fondamentalista. Ciò che il terrorista scorge
nella morte è un sacrificio che ha il fine ultimo di esaltare la vitalità della
propria tradizione – nonostante questa venga travisata rispetto al reale
messaggio del suo credo e della sua cultura. Tutto questo inquieta
l’Occidente e il suo tentativo continuo diviene quello di ricusare ogni forma
sacrificale per rincorrere un benessere sintetico. È lo stesso Occidente,
d’altronde, in perpetua guerra metaforica con se stesso, stretto tra il
fallimento delle due grandi narrazioni contemporanee (progressismo e
capitalismo consumistico), ad aver provocato il varco nel quale si insinua il
terrorismo, che come un ragno velenoso colpisce aeroporti e metropolitane
(i luoghi che rimandano alla nostra libertà di vivere il mondo come un unico
grande testo sul quale potersi spostare senza impedimenti) così come teatri
e bar (i luoghi del loisir quotidiano). Si è creata a questo punto una frattura
fra l’idea positiva di globalizzazione rappresentata dai media ed elargita
dai settori privilegiati del sistema globale e la percezione reale del suo
fallimento, provato direttamente sulla carne dalla classe media. È
indispensabile per questa ragione ripensare anche l’economia come
elemento funzionale alla coesione sociale e come fattore umano e fatto
sociale prima ancora che in quanto luogo di principi matematici e asettici.
L’Occidente, per difendere le proprie banche e i propri affari, è giunto a
rinnegare la propria arte e la propria storia culturale: ha rescisso brutalmente
il legame con l’humus su cui ha costruito la propria narrazione. La finanza,
in questo senso, è il dispositivo che ha spinto l’Occidente a ripensarsi come
snodo di affari anziché processo infinito in cui le contraddizioni e gli opposti
135
si conciliano in nome di un’idea mondo superiore che è prima di tutto
culturale, relazionale e umana. La hybris occidentale, giunta al suo apice,
ha visto trasfigurarsi in un limite l’eccesso di libertà, considerato storicamente
come un valore assoluto e incontestabile. Si è quindi affermata l’urgenza di
una forma di autocoscienza: fermarsi sul precipizio per un’autoanalisi che
inneschi una reazione a una simile tracotanza, dimostratasi fatale. La
tragica strage operata nel ristorante di Dacca nel Bangladesh dai terroristi
ha riportato il conflitto su un terreno alfabetico, moderno: coloro che non
furono capaci di recitare uno o più versi del Corano, il libro sacro dell’Islam,
subirono torture tremende e furono infine condannati a morte. Si esplicita in
questo gioco macabro il predominio della materialità della parola, del
simbolico, del dicibile e dell’enunciabile. L’Occidente è ormai invece
incapace di nominare se stesso, di raccontarsi, e vive la tragica
contraddizione di aver costruito la propria visione su un’astrazione scevra
da riferimenti solidi, concreti, abdicando a favore dell’effimera espressione
di una non cultura. L’Occidente ha rappresentato se stesso tramite le
meraviglie dell’arte: forme vitali del suo sapere e al contempo cristallizzazioni
di cultura e sensibilità che non sono un monumento muto ma si stagliano,
seppur immobili, come riserva di bellezza e di senso in continua
attualizzazione, pur nell’epoca di barbarie e di crisi che stiamo attraversando.
La Monna Lisa di Leonardo da Vinci, icona se ce n’è una dell’arte
occidentale, è da sempre oggetto di citazioni e sberleffi: la provocazione
dadaista di Marcel Duchamp, la rappresentazione baffuta di Salvador Dalì
e quella irriverente dello street-artist Banksy (che la volle raffigurare come un
mujaheddin con in mano un lanciarazzi); si tratta, in ogni caso, di operazioni
che si esprimono tutte all’interno di un processo che si rifà all’idea artistica.
Questi piccoli atti di sovversione estetica sono riconducibili a una forma di
ironia nei confronti della cultura tradizionale della quale la Gioconda è un
simbolo universalmente riconosciuto; di più: operazioni dissacranti come
queste amplificano il valore simbolico dell’opera di Leonardo,
confermandone la portata storica e sociale nel momento stesso in cui la
eleggono quale vittima designata del gioco intellettuale e artistico,
transculturale e transpolitico. Alla International Khoran Exhibition di Teheran
è stata esposta una copia della Monna Lisa che indossa però lo chador (il
tipico indumento iraniano portato dalle donne in pubblico); il senso che
incarna questo gesto artistico, tuttavia, è altro dalla sovversione estetica,
risultando di fatto un atto politico, che nell’immaginario si inserisce in una
rete di suggestioni riconducibili alle riflessioni di Michel Houellebecq nel suo
136
Soumission: nascondere il sorriso enigmatico della Gioconda, l’emblema
misterico fonte di studi e riflessioni ormai da secoli, è un modo di
rappresentare la crisi dell’Occidente per mezzo del visuale, poiché coprirne
la bocca vuol dire mettere a tacere la sorgente dell’Occidente, ovvero il
linguaggio, costruttore dell’identità occidentale per mezzo della narrazione.
Rendere muta la Monna Lisa inscena la prevaricazione del paradigma
fondamentalista su quello laico, del silenzio sul frastuono del moderno, del
mistero sullo splendore costruito sull’artificio dalla società spettacolare.
Il conflitto fra l’Occidente (ciò che vogliamo intendere con esso e di
esso) e i terroristi fondamentalisti, come evidenziato con questo testo, non si
può limitare a un semplice contrasto militare, poiché è presente in tale
dinamica di scontro una dimensione imagocratica, ossia un mutamento
chiave del mondo attuale che richiede una reazione comunicativa,
simbolica e mediatica oltre che puramente bellica.
137
LA RADICALIZZAZIONE
IN CARCERE
a cura del Centro Alti Studi “Averroè”
1. IL PROCESSO DI RADICALIZZAZIONE
138
I soggetti che intraprendono questo processo presentano di solito già
fattori personali e contestuali che li rendono suscettibili alla radicalizzazione,
come l’aver vissuto un’esperienza traumatica, la ricerca di un’identità, l’aver
subito discriminazioni o situazioni di disagio economico, la scarsa integrazione.
In Europa, i profili dei jihadisti includono criminali che vivono ai margini della
società, ma anche laureati e professionisti affermati, oppure adolescenti e
cinquantenni, convertiti senza conoscenze religiose pregresse e studiosi di
teologia islamica, sia uomini che un numero crescente di donne.
139
Quando l’identità della persona è del tutto assimilata a quella del gruppo e
della sua ideologia, il processo raggiunge la sua fase finale: il terrorismo.
140
percezione di essere discriminati sono quei fattori che singolarmente o
combinati posso determinare le condizioni personali e contestuali adatte
all’innesco di processi di radicalizzazione. I detenuti convivono in uno spazio
ristretto e ciò favorisce il contatto tra gli “agenti” del proselitismo estremista e
soggetti che entrano in carcere come semplici praticanti o non credenti, ma
poi finiscono per essere integrati nelle reti jihadiste. Vale l’esperienza francese,
con i numerosi attentati di ex piccoli delinquenti trasformati dal carcere in
terroristi.
Quali sono gli indicatori che segnalano che un detenuto potrebbe aver
intrapreso un percorso di radicalizzazione? Innanzitutto, l’aspetto esteriore
della cella, decorata con tappeti da preghiera, calligrafie islamiche e graffiti,
l’affissione di poster di gruppi terroristici o che richiamano attentati come
quello dell’11 settembre. Poi, la modifica dell’aspetto esteriore del soggetto,
che comincia a indossare abiti più tradizionali o si fa crescere la barba,
mettendo in mostra segni esteriori di conversione o di allineamento alla
causa jihadista. Alcuni, ricorrono alla dissimulazione, la taqiyya dei Fratelli
Musulmani, sforzandosi di mantenere un aspetto “occidentale” per passare
inosservati.
141
totale di reazione di fronte a loro, rifiutandosi di rispondere alle domande e
disobbedendo alle eventuali sanzioni comminate. Per ottenere la
soddisfazione di speciali rivendicazioni, possono sia ricorrere allo sciopero
della fame, che aggredire fisicamente il personale penitenziario, compiere
atti di distruzione con mezzi pericolosi, provocare incidenti o scatenare
sommosse.
3. IL CASO ITALIANO
142
dalla cronaca giornalistica, che forniscono uno spaccato a dir poco
allarmante della realtà dei penitenziari dove sono reclusi condannati per
reati legati all’estremismo e al terrorismo.
143
Secondo i dati ufficiali del Ministero della Giustizia, aggiornati al 28
febbraio 2019, i detenuti stranieri, già condannanti o in attesa di giudizio,
rappresentano un terzo del totale: 20.325 su 60.348. Significa che più di un
detenuto su cinque può essere di fede musulmana, come stimato in un
recente studio dell’ISPI (F. Marone, La radicalizzazione jihadista in carcere: un
rischio anche per l’Italia, 7 marzo 2019), dove sono riportati anche i dati forniti
dal Ministero della Giustizia nella sua relazione del 2018 sul numero dei
detenuti praticanti, che ammonta a 7.169. Tra questi, 97 sono gli imam che
conducono la preghiera, 88 quelli definiti come “promotori”, in quanto
portavoce delle esigenze e delle rivendicazioni di altri detenuti, 44 i convertiti
durante il periodo di detenzione.
144
prevenzione sono state adottate dal Dipartimento dell’Amministrazione
Penitenziaria (DAP) del Ministero della Giustizia, ma non sembrano sufficienti
a fornire alla Polizia Penitenziaria gli strumenti adeguati né a gestire
efficacemente i detenuti estremisti né ad affrontare il fenomeno della
radicalizzazione in carcere.
145
sui muri di cinta delle carceri è stato ridotto, mentre i controlli sui detenuti,
autorizzati a passare fuori dalla cella tra le 8 e le 10 ore giornaliere, sono
sporadici e occasionali, con il conseguente incremento degli “episodi critici”
e della possibilità per i detenuti estremisti di fare proselitismo e radicalizzare.
146
assunzioni volto a garantire maggiore sicurezza per la Polizia Penitenziaria.
Ma il “cambiamento” tarda ad arrivare.
147
di Roma, la conquista dell’Italia e dell’Europa” avverrà “senza ricorrere alla
spada”, ma “attraverso la predicazione e le idee”, come dichiarato su Al
Jazeera dal leader mondiale indiscusso dei Fratelli Musulmani, il venerando
Sheikh Yussef Al Qaradawi, che si è speso personalmente affinché la Qatar
Chairty finanziasse realtà associative legate all’UCOII come dimostrato in
Qatar Papers.
148
carceri e sulla gestione degli autori di reati di terrorismo ed estremismo
violento dopo la scarcerazione”.
L’Italia ha già messo in atto una parte delle indicazioni emanate dal
Consiglio. Per colmare la distanza tra le misure effettivamente adottate e
quelle indicate, il prossimo passo deve essere l’approvazione di una legge
che definisca l’insieme di provvedimenti da attuare in maniera strutturata
contro il fenomeno della radicalizzazione in carcere. Il tentativo effettuato
nella scorsa legislatura si è infatti arenato in Senato dopo l’approvazione alla
Camera. L’attuale Parlamento ha così l’opportunità, e la responsabilità, di
dotare il Paese di un “piano nazionale per la rieducazione e la de-
radicalizzazione”, che recepisca tutte le direttive emanate dal Consiglio,
nell’ambito di una più ampia strategia di prevenzione della radicalizzazione e
dell’estremismo jihadista.
149
questi contribuiscano alla “de-radicalizzazione e al disimpegno dei detenuti
prestando loro sostegno”. Imam, teologi, esperti e mediatori interculturali
autenticamente moderati potrebbero facilmente essere forniti da altre realtà
associative all’interno della comunità islamica italiana. Perché, invece di
rivolgersi a loro, le istituzioni competenti continuano a dare credito a
un’organizzazione i cui addentellati con il fondamentalismo sono conclamati?
150
IL QATAR E I FINANZIAMENTI
AL PROSELITISMO DEI FRATELLI
MUSULMANI IN ITALIA
di Souad Sbai
L’uscita del libro inchiesta Qatar Papers. Come l’emirato finanzia l’Islam
di Francia e d’Europa (Lafon, 2019) è un evento spartiacque nell’ambito
della lotta al terrorismo e al fenomeno della radicalizzazione in Europa. Gli
autori, i due giornalisti francesi Christian Chesnot e Georges Malbrunot,
hanno gettato luce sul sistema di finanziamenti milionari della “Qatar
Charity” a moschee, associazioni e militanti dei Fratelli Musulmani in tutto il
continente, allo scopo di trasformare i fedeli di religione islamica in militanti
fondamentalisti. Nella documentazione fornita da Qatar Papers, il paese
che risulta essere il principale destinatario dei fondi provenienti da Doha è
l’Italia: segno della sua centralità nel “progetto” del Qatar e dei Fratelli
Musulmani, volto a far avanzare l’agenda fondamentalista in territorio
europeo e nel resto dell’Occidente. Come supporto informativo e di analisi
rivolto alle istituzioni, al mondo della politica e agli addetti ai lavori, questo
report prende pertanto in esame il ruolo della “Qatar Charity” nel
finanziamento in Italia di realtà associative riconducibili ai Fratelli Musulmani,
illustrandone le finalità di tipo proselitistico. Inoltre, viene descritta la
crescente influenza in Italia dei Fratelli Musulmani in ambito politico, sociale
e culturale, con l’indicazione di una serie di proposte d’intervento e misure
di contrasto. Cenni storici introduttivi delineano il contesto internazionale in
cui s’inseriscono i finanziamenti del Qatar ai Fratelli Musulmani in Italia.
151
cominciare dall’acquisizione dell’egemonia in Medio Oriente. A tal fine,
Hamad fa affidamento su due caposaldi: l’emittente televisiva Al Jazeera,
fondata nel 1996, e i Fratelli Musulmani, che saranno entrambi i protagonisti
di quella passata impropriamente alla storia come “Primavera Araba”.
L’ISIS è stato perciò la punta di lancia del gelido inverno islamista che i
Fratelli Musulmani intendevano inaugurare in tutta la regione, con la spinta
economica, politica e mediatica del Qatar. La propaganda della versione
in lingua inglese di Al Jazeera si è rivelata indispensabile a far sì che dei
rovesciamenti di regime venissero interpretati in Occidente come rivoluzioni
democratiche, mentre Al Jazeera in lingua araba trasmetteva i sermoni
incendiari, a sostegno persino di attentati suicidi, pronunciati da Al
Qaradawi. Dopo i fallimenti delle rivolte in Egitto, Siria e Libia e gli ostacoli
incontrati nella corsa al potere in Tunisia, la concretizzazione del “progetto”
comune del Qatar e dei Fratelli Musulmani subisce una brusca battuta
d’arresto, ma le loro ambizioni di conquista restano immutate.
152
Il passaggio di consegne avvenuto nel 2013 da Hamad Al Thani al figlio
Tamim, l’attuale emiro, non ha prodotto cambiamenti di linea, perché Doha
ha continuato e continua ancora oggi a interferire negli affari interni dei
paesi vicini e a supportare i Fratelli Musulmani. Inoltre, ha intensificato le
relazioni con la Turchia di Erdogan e l’Iran khomeinista, con cui ha dato vita
a un nuovo polo dell’islamismo, cementatosi grazie all’ideologia dei Fratelli
Musulmani, di cui il regime di Teheran rappresenta la versione sciita. Ciò ha
spinto il Quartetto arabo contro il terrorismo (Emirati Arabi Uniti, Arabia
Saudita, Egitto e Bahrein) a reagire. Di qui, la rottura delle relazioni
diplomatiche con Doha, il lancio dell’embargo nei suoi confronti nel giugno
2017 e la designazione dei Fratelli Musulmani come organizzazione
terroristica.
153
assistenza umanitaria e sociale. Ma i documenti interni e confidenziali
pubblicati da Chesnot e Malbrunot, hanno rivelato ben altro, ovvero come
Doha si sia servita della “Qatar Charity” per finanziare moschee, associazioni,
centri culturali, case editrici e istituti scolastici legati ai Fratelli Musulmani in
Francia, Italia, Germania, Svizzera, Gran Bretagna e Balcani. L’inchiesta dei
due giornalisti riguarda il biennio 2013 e 2014, durante il quale erano ben
140 i progetti in corso, per un valore di centinaia di migliaia di euro. Nel libro,
sono riportati i testi integrali di corrispondenze dove gli stessi esponenti della
“Qatar Charity” fanno menzione delle somme elargite. E se anche questo
dovesse non bastare a convincere gli scettici, vengono pubblicate le
evidenze di pagamento.
154
A beneficiare maggiormente delle donazioni provenienti
dall’organizzazione sono state le numerose associazioni che fanno capo
all’Unione delle Comunità Islamiche in Italia (UCOII), vale a dire ai Fratelli
Musulmani basati e radicati in territorio italiano. Persino l’ex presidente
dell’UCOII e imam di Firenze, Izzeddin Elzir, ha ammesso di fronte all’incalzare
degli autori di Qatar Papers che la “Qatar Charity” è il grande banchiere dei
Fratelli Musulmani in Italia. Grande attenzione è riservata al nord del Paese.
Torino, Verona, Brescia, Vicenza, Lecco, Saronno, Piacenza, Alessandria,
Mirandola: centinaia di migliaia di euro piovuti su ogni città, diretti nelle
casse di enti affiliati all’UCOII. Una menzione particolare merita il caso di
Milano. Con una lettera di raccomandazione risalente al 2015, Al Qaradawi
sollecitava la “Qatar Charity” a offrire supporto finanziario al CAIM, il
Coordinamento Associazioni Islamiche di Milano e Monza e Brianza, gestito
da David Piccardo, figlio di Hamza, tra i fondatori dell’UCOII.
155
sarebbe giunta dal Qatar, ha convinto definitivamente il sindaco di Sesto
San Giovanni a bloccare il progetto, temendo che i fondi venissero utilizzati
per attività sospette, come quelle d’indottrinamento e radicalizzazione. Alla
richiesta di presentare i bilanci avanzata da Di Stefano, l’associazione non
ha mai risposto.
156
Moschea della Misercordia, nel cuore di Catania, la “Qatar Charity” ha
donato 1.7 milioni di euro (il costo totale dell’opera è stato di 2.3 milioni). Alla
sua inaugurazione nel 2012, sono intervenuti il numero uno dell’organizzazione,
il cosiddetto Supervisore Generale, Sheikh Ahmad Al Hammadi, e il Direttore
Esecutivo Al Kuwari, insieme al sindaco della città, al prefetto e ad altri
notabili siciliani.
157
Messo sotto pressione dalle rivelazioni di Qatar Papers, il nuovo Presidente
dell’UCOII, Yassine Lafram, ha ammesso di aver ricevuto la somma di 25
milioni euro “per una trentina di progetti nel quadro di una collaborazione
iniziata nel 2013 e andata avanti per un paio di anni”. Tuttavia, come
comprovato da Qatar Papers, i finanziamenti ricevuti da associazioni legate
all’UCOII sono stati impiegati per progetti che hanno come finalità il
proselitismo e la conversione, non l’acquisizione di “33 capannoni in tutta
Italia da adibire a sale di preghiera a beneficio di comunità che sono
prevalentemente operaie”, come affermato da Lafram.
158
stato grazie al sostegno e alla legittimazione dei partiti politici e ambienti
culturali di sinistra che i Fratelli Musulmani hanno potuto stabilire la propria
egemonia sulle comunità islamiche in Occidente, rendendo possibile
persino l’ingresso di esponenti dell’organizzazione nelle istituzioni. In
particolare, il settore giovanile è un bacino da cui le forze progressiste
europee e nord-americane continuano a reclutare ambigui personaggi da
lanciare come leader politici, malgrado la loro malcelata affinità con
l’estremismo.
Tutto come previsto nel “progetto”, i cui contenuti sono stati illustrati da
Besson e nel mio ultimo libro. Tra i 25 punti che definiscono le linee guida per
la realizzazione dell’agenda per l’Occidente dei Fratelli Musulmani, un posto
di rilievo occupa infatti la formazione di alleanze con le varie anime del
mondo progressista. La sinistra del politically correct e del malinteso
multiculturalismo rappresenta per i Fratelli Musulmani la porta d’accesso a
partiti politici, università e centri di studio, media, organizzazioni non
governative, sindacati, da infiltrare e porre al servizio della causa islamista.
Da questo punto di vista, un caso di scuola è rappresentato dall’Italia, dove
alcuni recenti episodi confermano le relazioni pericolose del PD con
organizzazioni e militanti legati alla Fratellanza.
159
D’Aosta, “in lutto per l’uccisione del presidente Mohamed Morsi”, morto in
realtà di ordinario infarto all’età di 67 anni durante un’udienza in un tribunale
del Cairo, dove era in corso uno dei numerosi processi che lo vedeva come
imputato.
160
deputati marchigiani PD Mario Morgoni, Alessia Morani e Francesco
Verducci. Ma i presunti meriti giornalistici e di operatrice di pace della
giovane, vantati dai peroratori della nomina, servono volutamente a
oscurare la dimensione religiosa e culturale a cui la neo-Cavaliere
appartiene: quella dell’UCOII, fondata guarda caso ad Ancona nel 1990
dal padre di Asmae, Nour Dachan, membro del ramo siriano dei Fratelli
Musulmani.
161
Musulmani. Velata e felice insomma, anche se il velo è sottilmente utilizzato
per sancire la condizione di sottomissione della donna.
162
direttamente o indirettamente, ai Fratelli Musulmani e supportate dal Qatar
e dalla Turchia di Erdogan.
Souad Sbai
presidente Centro Alti Studi “Averroè”
163
QUANDO LA COPPA DEL MONDO
PARLÒ IN ARABO
di Dario Caselli
164
Barack Obama e Hillary Clinton. Un risultato storico. Per la prima volta la
Coppa del Mondo si disputerà in un Paese arabo, in una Nazione islamica
che, peraltro, qualcuno insinua avrebbe legami con il mondo radicale
dell’Islam e con quei Fratelli musulmani, a cui darebbe supporto sia
finanziario che mediatico attraverso Al Jazeera. Della serie non è tutto oro
quello che luccica.
Non è una novità che la politica “arruoli” i grandi eventi sportivi per propri
scopi. È un fenomeno che riguarda soprattutto i regimi non democratici: i
mondiali di calcio del 1934 voluti fortemente da Mussolini per celebrare la
nuova Italia; le Olimpiadi di Berlino del 1936 che nei piani di Hitler avrebbero
dovuto affermare la superiorità della razza ariana; i mondiali di calcio in
Argentina del 1978 per esaltare il governo della giunta militare di Videla e
mascherarne i misfatti; le Olimpiadi di Mosca del 1980 e quelle di Los
Angeles del 1984, con i rispettivi boicottaggi dei Paesi aderenti ai due
blocchi, rappresentazione plastica dello scontro della Guerra fredda e del
desiderio di rivalsa di entrambi i fronti; le Olimpiadi di Pechino nel 2008 per
far uscire il regime comunista dall’isolamento e mostrarsi al mondo come
potenza planetaria in grado di sfidare gli USA e le altre potenze mondiali;
fino a Qatar 2022, ultimo tassello del mosaico politico e strategico del
piccolo Stato arabo. Qui però la strategia è più ampia, più profonda,
guarda non semplicemente ad affermare una superiorità ma a volerla
esercitare concretamente, mettendo in atto scelte capaci di incidere
profondamente nel tessuto culturale e sociale. Il tutto attraverso
165
l’occupazione di ruoli chiave e strategici nell’economia, nella cultura, nello
spettacolo, nello sport e finanche nella politica. In una sola parola: soft
power.
Messa la Guerra fredda nel ripostiglio della Storia ecco che il soft power
è diventato il canale attraverso il quale l’Islam ha deciso di lanciare la sua
offensiva all’Europa. Un processo di islamizzazione che non contempla
barconi e sbarchi di migranti, ma che si fa più subdolo ed abile, spesso
anche difficile da percepire e rispetto al quale le resistenze sono molto
complesse da organizzare. Una conquista della società europea dall’interno
e non dall’esterno attraverso le grandissime risorse della finanza islamica,
che grazie alle sue ampie disponibilità è in grado di portare avanti questo
progetto di conquista; così ecco spiegato l’acquisto di quote o di interi
colossi industriali, orientandone la politica aziendale; o anche investimenti
per sponsorizzare e sostenere iniziative culturali. L’Islam così affonda le sue
radici, si innerva nei vari tessuti della nostra società ampliando la sua rete di
potere in Europa e condizionandone le scelte. Il tutto con il risultato di
imporre in maniera definitiva le idee e la cultura islamica.
In questi anni sono in particolare due gli Stati arabi ad essere stati
protagonisti in Europa di una lotta serrata per rafforzare la propria influenza:
gli Emirati Arabi Uniti e appunto il Qatar. E dietro il loro volto rassicurante
166
spesso spuntano interessi pericolosi. Del Qatar, ad esempio, Nazione dove
vige il Wahhabismo, forma molto conservatrice dell’Islam, e che finanzia tra
gli altri i Fratelli Musulmani e le formazioni politiche ad essi vicini. E attraverso
Al Jazeera, il canale televisivo qatariota, spesso trovano spazio predicatori
d’odio, come Yusuf al Qaradawi, vicino ai Fratelli Musulmani, e sostenitori
delle teorie più violente.
167
Gli Emirati attraverso la compagnia Fly Emirates sponsorizzano le squadre
del Paris Saint Germain, la cui proprietà però è del Qatar, Milan, Real Madrid,
Arsenal, Amburgo, N.Y. Cosmos, Benfica ed Olympiakos. Senza considerare
la sponsorizzazione in Inghilterra della principale e più antica competizione
calcistica mondiale e cioè la FA Cup, che dal 2015 è diventata Emirates FA
Cup. Ed un recente accordo ha allungato l’intesa fino al 2021.
Dal canto suo il Qatar non è stato a guardare visto che dalla stagione
calcistica 2013-14 e fino a quella 2016-17 è stato lo sponsor del Barcelona.
Quello stesso Barcelona che si era sempre rifiutato di far comparire uno
sponsor sulla propria maglia: i soldi qatarioti hanno rapidamente fatto
cambiare idea alla dirigenza blaugrana. Sponsorizzazione che ha
interessato anche la squadra della Roma, attraverso una partnership
pluriennale siglata fino al termine della stagione 2020-21 e che porterà
complessivamente nelle casse del club una cifra vicina ai 40 milioni di euro
più bonus. Nemmeno la Germania è rimasta estranea all’influenza della
finanza islamica, con il Bayern Monaco dove la Qatar Airways ha sferrato un
duro colpo alla Lufthansa, strappandole la sponsorizzazione dopo ben 16
anni. Qatar Airways è diventato uno dei platinum partner della squadra
bavarese. L’accordo quinquennale è stato siglato per un valore di 50 milioni
di Euro e ha previsto che il logo della compagnia aerea apparisse sulle
maniche della maglia del brand bavarese dal 1° di luglio 2018 fino al 2023.
Figura 2 - Le maglie delle squadre di calcio di proprietà o sponsorizzate da Emirati Arabi Uniti o Qatar.
168
E se le maglie di calcio raccontano di un
processo continuo di espansione, invece la
vicenda della modifica del simbolo del Real
Madrid spiega gli effetti che il soft power
può determinare in termini di perdita di
identità e di disconoscimento dei propri
valori fondanti. Nel 2017 per consentire al
merchandising del Real Madrid di sbarcare Figura 3 - Le due versioni del simbolo
sui mercati dei Paesi del Golfo, la dirigenza del Real Madrid con e senza Croce.
madridista decise di togliere dal simbolo
della squadra la croce cristiana che sormonta la corona borbonica. Un taglio
netto, quasi a rinnegare le radici cristiane, su ogni prodotto ufficiale venduto
negli Emirati, in Arabia Saudita, Qatar, Kuwait, Bahrein e Oman. Un salto di
qualità, dal semplice potere economico al condizionamento culturale e
valoriale; perchè, ed è evidente, non si tratta di restyling del logo, quanto
piuttosto di un’iniziativa che direttamente mina le radici cristiane da cui è
nata la squadra del Real Madrid e che da sempre la caratterizzano.
Dario Caselli
giornalista, capo ufficio stampa FdI, Senato
169
L’ESEMPIO DELLA LEGISLAZIONE AUSTRIACA
DALLA PROSPETTIVA ITALIANA
di Gianluigi Cesta
Poco più di un anno fa, l’8 giugno 2018, le agenzie di stampa hanno
riportato una notizia di cronaca, diffusasi presto su tutti i principali quotidiani
web: il cancelliere federale dell’Austria Sebastian Kurz (dell’ÖVP – Partito
Popolare Austriaco) ed il suo ministro degli Interni Herbert Kickl (dell’FPÖ –
Partito della Libertà Austriaco) hanno annunciato un giro di vite contro delle
moschee accusate di ospitare un Islam “politicizzato” e hanno di
conseguenza predisposto l’espulsione di una sessantina di imam. I capi
religiosi dell’associazione Atib, Austria Turkey Islamic Union, sono stati
accusati di finanziamenti illeciti dall’estero e di violazione della legge
austriaca sull’Islam. Inoltre una quarantina di imam della stessa Atib –
organizzazione che gestisce diverse moschee turche in Austria e che, come
riporta il sito del quotidiano Sabah, è finanziata dal Direttorio per gli Affari
religiosi, noto in turco come Diyanet – hanno visto il proprio permesso di
soggiorno revocato.
170
L’accusa non ha a che fare con il terrorismo, quello che si contesta,
infatti, è l’aver ricevuto finanziamenti dall’estero, non leciti secondo la legge
austriaca. Il provvedimento infatti è scaturito per violazione della
“Islamgesetz” (Bundesgesetz über die äußeren Rechtsverhältnisse
islamischer Religionsgesellschaften – Islamgesetz 2015, BGBl. I Nr. 39/2015),
la legge sull’Islam, che è entrata in vigore nel 2015 e ha preso il posto della
legge precedente che risaliva al 1912 (15 luglio 1912, betreffend die
Anerkennung der Anhänger des Islam als Religionsgesellschaft, RGBl. Nr.
159/1912). La chiusura è avvenuta con decreto della cancelleria competente
per le questioni religiose. Il provvedimento - non appellabile - ha riguardato
quattro moschee a Vienna, due in Alta Austria e una in Carinzia. Da quello
che si è appreso dalle fonti stampa, l’Atib avrebbe ammesso che gli imam
dell’organizzazione presente in Austria percepiscono fondi dall’estero, ma
questo dipenderebbe – stando alle parole del portavoce Yasar Ersoy
raccolte dall’emittente tv Oe1 - dal fatto che le risorse nel Paese non bastano
alla formazione religiosa.
Questo evento di cronaca estera, invero, è stato utile per riprendere le
fila di un discorso lasciato cadere alla fine della precedente legislatura e
che dura, d’altra parte, da parecchi anni: il rapporto tra lo Stato italiano e
l’Islam.
Il rapporto tra l’Austria e l’Islam vede la luce nei primi anni del secolo
scorso. La religione islamica infatti è riconosciuta fin dal 1912, con la legge
pubblicata dall’allora impero Austroungarico per la gestione e la sicurezza
delle minoranze di fedeli di fede musulmana che vivevano nel territorio: la
Islamgesetz (15 luglio, RGBl. Nr. 159/1912). Legge che è stata aggiornata nel
2015, come accenneremo a breve, dal precedente governo di “Grosse
Koalition” (Spö-Övp).
171
contava attorno ai 600.000 individui, dopo l’annessione ufficiale dei territori
della Bosnia ed Erzegovina, prevalentemente musulmani, nel 1908.
Fu questo evento storico il pretesto per l’emanazione della legge che
contribuì maggiormente a costituire il sistema di riconoscimento delle
comunità islamiche nell’Impero Asburgico. Vide così la luce la Islamgesetz
per effetto della quale i fedeli islamici nei territori imperiali costituirono
ufficialmente una delle comunità religiose riconosciute e tutelate.
Questo rapporto si è però evoluto nel tempo. Con la fine della Grande
Guerra, la Bosnia ed Erzegovina venne separata dall’Austria ed entrò a fare
parte della nuova Jugoslavia, la popolazione musulmana rimasta in Austria
si ridusse drasticamente, il dialogo tra lo Stato e la comunità entrò in letargo.
Si risveglierà 40 anni dopo.
172
importante: il Tribunale Costituzionale2 infatti stabilì che la decisione
negativa del Ministro era da considerarsi come una violazione della libertà
di religione, perché il primo articolo dell’Islamgesetz non poteva essere
interpretato come permesso ad esistere di una sola ed unica organizzazione
di rappresentanza per l’Islam in Austria. L’IAGÖ venne quindi così riconosciuta
ufficialmente qualche mese dopo la suddetta pronuncia e diventò
beneficiaria dello status di comunità ufficialmente nominata, con tutti i
relativi diritti annessi.
Ma era in ogni caso evidente che l’impianto normativo andasse
aggiornato.
173
riconosciuta (par. 4). Vengono quindi elencati alcuni aspetti tutelati dallo
Stato: l’autonomia della gestione interna, la libertà di insegnamento del
credo e il diritto di poter esprimere e manifestare pubblicamente il proprio
credo (par. 2).
La differenza che salta agli occhi è che la comunità islamica, rispetto a
quanto previsto per le comunità di religione ebraica e protestante, deve
assolvere a più criteri per essere riconosciuta (si veda ad esempio la
Israelitengesetz): infatti requisiti come “l’approccio positivo verso lo Stato e
la società austriaca” e “la proibizione di qualsiasi atteggiamento negativo
verso qualsiasi altra comunità religiosa riconosciuta”, sono paletti messi
solo alla fede musulmana. Quindi, là dove sarebbe sufficiente il consenso di
un ministro federale, come ad esempio accade per i gruppi di fede ebraica,
è richiesto invece per le comunità musulmane il giudizio del cancelliere
federale (par. 3 punto 1).
Questa sezione della normativa riconosce la varietà di comunità
islamiche e non esclude, a differenza della precedente versione del secolo
passato, di riconoscere ufficialmente altre comunità in futuro. Ma
chiaramente la necessità di monitorare comunità potenzialmente
problematiche, rende necessario inasprire l’iter di riconoscimento.
174
La parte successiva, la terza, è dedicata a definire lo status dell’IGGiÖ e
il complesso dei suoi diritti ed i suoi doveri. Se volessimo inquadrare questo
terzo insieme di punti, il bilancio tra diritti e doveri è decisamente a favore
dei primi: sono qui riportati diritti che non hanno pari in Europa. Per fare un
esempio, si può citare il diritto di assistenza spirituale e di sostegno, al quale
i fedeli che si trovano in determinati ambienti pubblici possono ricorrere:
nell’esercito, le prigioni o gli ospedali viene garantita la presenza di un imam
a cui potersi rivolgere e a cui fare riferimento (par. 11 punto 1); o ancora il
diritto all’insegnamento nelle scuole pubbliche della religione e del credo
professato dalla IGGiÖ e in generale dalle organizzazioni riconosciute (par.
11 punto 4); o ancora, nei medesimi ambienti istituzionali, tra cui la scuola,
è ribadito il diritto a cibarsi secondo i dettami dell’Islam (par. 12). Da ultimo,
vengono riconosciute le festività islamiche e definita la preghiera del venerdì
che in questo modo gode della protezione della legge, quindi dello Stato
Federale (par. 13).
175
associazioni vanno sciolte al 31 dicembre 2015, con notifica al Ministero
Federale degli Affari interni (part. 31, punto 3).
5 Fr. ad esempio G. MACRI’, La libertà religiosa, i diritti delle comunità islamiche, in “Stato, Chiese
e pluralismo confessionale”, n. 5 del 2018, www.statoechiese.it; A. DE OTO, Le proposte di legge
Santanchè-Palmizio sul registro delle moschee e l’albo degli imam: un tentativo di refurbishment
della legge n. 1159/1929?, in “Stato, Chiese e pluralismo confessionale”, n. 4 del 2018, www.
statoechiese.it.
176
Ripresi i lavori nel 2015, nel corso di una riunione del Comitato, si annuncia
la riforma e il rinnovamento dello stesso, a partire dal febbraio 2015. Il
ministro Alfano istituisce così il Tavolo permanente di consultazione.
Nel 2016 lo stesso ministro Alfano istituisce il Consiglio per le relazioni con
l’Islam6. Con il comitato presieduto dal ministro Minniti, i suoi membri firmano
nel febbraio 2017 un “Patto nazionale per un Islam italiano” con l’obiettivo di
“creare un Islam italiano legittimo, civilizzato” attraverso la formazione degli
imam (con il contributo del ministero dell’Interno e delle università statali),
l’uso dell’italiano nei sermoni e il dialogo inter-religioso e inter-culturale
territoriale, incluso l’accesso ai non-musulmani ai luoghi di preghiera7.
Patto che però non sana il vulnus dell’assenza della soggettività giuridica
della comunità islamica nell’ordinamento italiano.
Questi tentativi, ripetuti negli anni, al di là del merito sulla sostanza del
patto firmato nel 2017, sottolineano un fatto certo: c’è l’esigenza di regolare
il rapporto tra lo Stato e l’Islam. La religione islamica attualmente è la
seconda più praticata in Italia, ma ciò nonostante non ha ancora una sua
intesa con lo Stato italiano, a differenza di altre confessioni religiose. Infatti,
dal 1984 ad oggi, sono state stipulate ben 12 intese8.
L’art. 8, ai commi 2 e 3, della Costituzione italiana prevede:
“Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di
organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con
l’ordinamento giuridico italiano.
I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese
con le relative rappresentanze.”
6 Andrea Mazziotti, “Intesa tra la Repubblica italiana e le Comunità islamiche: a che punto
siamo?”, giovedì 14 aprile 2016, registrazione su web tv di www.camera.it.
7 http://www.islamitalia.it/islamologia/consiglio_islam.html
8 Elenco delle intese con le confessioni religiose completo delle intese http://presidenza.governo.
it/USRI/confessioni/intese_indice.html
177
Perché come ha ricordato la Corte Costituzionale nella sentenza 52/20169 la
libertà religiosa, per essere esercitata, non ha bisogno delle intese. Infatti
l’intesa non serve a tutela della libertà religiosa, che trova quindi ampia
tutela nella Carta Costituzionale, quanto piuttosto e regolare i rapporti tra la
Repubblica e la Confessione religiosa.
11 C. SBAILÒ, Atti del convegno “L’Islam in Italia - Quale patto costituzionale?”, lunedì 8 maggio,
registrazione su web tv di www.camera.it.
178
l’interlocutore più rappresentativo per portare a compimento il percorso
verso l’intesa ex art. 8 della Costituzione. È quindi molto più difficile per la
nostra Repubblica applicare l’expertise austriaco maturato negli ultimi 100
anni.
I progressi fatti fino ad ora nel dialogo tra lo Stato e il mondo islamico
non vanno certamente buttati via12, ma non possono essere considerati alla
stregua di una intesa. Ben vengano i propositi sanciti dal Patto del 2017,
come la formazione di imam e guide religiose, rendere pubblici nomi e
recapiti di imam, guide religiose e personalità in grado di svolgere
efficacemente un ruolo di mediazione tra la loro comunità e la realtà sociale
e civile circostante, l’adoperarsi concretamente affinché il sermone del
venerdì sia svolto in italiano o assicurare la massima trasparenza della
gestione e documentazione dei finanziamenti. Ma sono tutte azioni
volontarie, basate su un protocollo politico.
Tutti questi punti non possono essere “imposti” dalla Repubblica, come
ha potuto fare l’Austria grazie alla Islamgesetz. Perché qualsiasi imposizione
sarebbero in aperta violazione della Costituzione e ovviamente anche dalla
CEDU.
12 S. ATTOLLINO, Il Patto nazionale per l’Islam italiano: verso un’intesa? in Newsletter OLIR.it(www.
olir.it), XIV, n. 3/2017 che rileva come: “[…] Certamente, la firma del Patto nazionale per l’Islam
italiano rappresenta una tappa importante verso il superamento degli ostacoli che impedisco-
no una leale collaborazione tra lo Stato e la confessione islamica. In vista di un suo effettivo
successo, l’iniziativa dovrà, tuttavia, essere supportata da ulteriori azioni concrete […].
179
istituzione del registro pubblico delle moschee e dell’albo nazionale degli
imam sono state respinte dall’Aula con una pregiudiziale di Costituzionalità.
Le proposte miravano – sommariamente – ad introdurre forti controlli
sull’attività delle comunità islamica. Ad esempio l’albo nazionale degli
imam, con patentino rilasciato dal ministero, il registro pubblico delle
moschee, corsi di formazione per imam. Alcune di queste previsioni, in
nuce, sono apparse anche nell’accordo firmato nel 2017. Ma il problema,
come detto, è che imporle per legge, senza una intesa di riferimento, è
incostituzionale. Non si possono infatti imporre alle confessioni religiose
requisiti differenziati per accedere allo spazio pubblico. Il libero esercizio del
culto costituisce un aspetto essenziale della libertà di religione (art. 19 Cost.)
ed è, quindi, riconosciuto egualmente a tutti e ad ogni confessione religiosa
(art. 8, commi primo e secondo, Cost.), a prescindere dalla stipula di
un’intesa con lo Stato, che non costituisce, pertanto, condicio sine qua non
per l’esercizio della libertà religiosa.
Lo stesso vale per il registro degli imam e il registro delle moschee: nel pdl
C. 2976 rimandava ai regolamenti attuativi per attuare queste disposizioni,
ma in materia di diritti fondamentali la riserva di legge è assoluta.
180
In primis - come detto - la non unicità del mondo dell’Islam. Infatti il
fenomeno non rappresenta un unicum definito dai contorni netti, con una
gerarchia chiara come ad esempio nella Chiesa Cattolica, per cui “l’imam
è molto meno e molto di più di un ministro di culto”14. Esso è composto da
una costellazione di entità che, ognuna per sé, reclama non solo
rappresentatività ma anche esclusività. Il mondo islamico è ancora
fortemente legato, qui in Italia, ai Paesi di provenienza, perché di fatto le
seconde generazioni ancora non hanno attecchito, e questo porta una
ulteriore difficoltà nel trovare un interlocutore unitario, che di fatto non esiste.
L’unica soluzione è dare voci alle comunità più rappresentative e legittimate,
per evitare di trovarsi a dialogare con soggetti autoreferenziali. Considerando
che le comunità islamiche italiane, come detto, sono ancora fortemente
legate ai Paesi di origine, la legittimità degli interlocutori che il Governo
dovrà chiamare a sedersi attorno ad un tavolo dovrebbe essere vagliata
anche con il supporto delle autorità degli stati della sponda sud del
Mediterraneo. Ma è bene ribadirlo, non va trascurato l’interesse del nostro
Paese, a partire da questa fase e poi, ovviamente, anche nella negoziazione
che porterà all’auspicabile intesa. In quello che è ovviamente in processo
di natura esclusivamente politica. Il problema è in definitiva trovare prima
ancora che il terreno di gioco, i giocatori stessi.
In secondo luogo, sarà difficile trovare il terreno comune tra i principi
dell’Islam e il nostro ordinamento. Questo – ad esempio – è difficile laddove
si chieda, come nella proposta del Co.Re.Is., di accettare i pilastri dell’Islam
nell’ordinamento italiano, cosa che potrebbe innescare una espansione
del diritto islamico nel nostro ordinamento che ben presto potrebbe portare
a non pochi cortocircuiti.
I nodi sono molteplici, però il Patto del 2017 rappresenta una tappa che
negli ultimi 20 anni si era faticato a raggiungere. Ripartire da lì, con un
dialogo che deve necessariamente essere avviato dal Governo, è la strada
per portare quel Patto ad essere base di una futura intesa. Lo strumento
della cooperazione tra poteri pubblici, organizzazioni religiose e società
civile è l’unica strada percorribile15.
In questa maniera sarebbe la Repubblica a guidare la formazione di
sano rapporto tra il nostro Stato e l’Islam, dentro gli argini dell’art. 8 della
Costituzione, che sia funzionale alla tutela del nostro ordinamento.
181
Rendendolo immune da processi di islamizzazione incontrollata che - senza
i giusti anticorpi - si potrebbe diffondere spontaneamente, come a tratti
sembra già accadere, nel nostro tessuto, arrivando a costituire una vera e
propria criticità per l’equilibrio sociale, i diritti fondamentali, la tenuta - in
definitiva - del nostro stesso ordinamento costituzionale.
Gianluigi Cesta
dottorando in Relazioni interculturali e Management internazionale
UNINT – Università degli Studi Internazionali di Roma
182
COMITATO
FRANCESCO ALBERONI
Presidente
GIUSEPPE CECERE
MARIO CIAMPI
RENATO CRISTIN
GIOVANBATTISTA FAZZOLARI
ALESSANDRO MELUZZI
ISABELLA RAUTI
SOUAD SBAI
ADOLFO URSO
SCIENTIFICO
Farefuturo è una fondazione che promuove la cultura e i valori della
Nazione, rifuggendo dal dilagante “presentismo”, nella convinzione che
occorra il massimo impegno per disegnare il futuro dell’Italia nel contesto di
una Europa delle Patrie. Opera a Roma e in diverse realtà territoriali con
convegni, seminari di studi, corsi di formazione, attività editoriale e
programmi di ricerca.
Pubblica la rivista Chartaminuta.it
www.farefuturofondazione.it
segreteria@farefuturofondazione.it