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Capitolo I: Il mondo degli Stati (J. A.

Hall)

Parlare del mondo degli Stati significa riferirsi al sistema multipolare sviluppatosi nella storia europea, che è
arrivato nel corso dei secoli a dominare il mondo e la logica delle Relazioni Internazionali. Il realismo, in
questo senso, è da considerarsi il corrispettivo intellettuale del multipolarismo.

All’interno del realismo è possibile riconoscere prospettive abbastanza differenti, basate su di un paradigma
vagamente condiviso. Doyle distingue almeno tre scuole all’interno del realismo:

 Il fondamentalismo (Machiavelli – Kissinger)  molta importanza viene posta nelle capacità dei
leader politici e la presenza o l’assenza di abilità sono le variabili chiave necessarie per spiegare i
modelli di guerra e pace
 Lo strutturalismo (Hobbes – Waltz) il comportamento degli Stati deriva direttamente dai modelli
di potere presenti nell’arena internazionale
 Il costituzionalismo (Rousseau – Aron)  è la natura della società interna a determinare l’incidenza
di guerra e pace

Il problema: la guerra

La caratteristica più ovvia del sistema europeo è la prevalenza della guerra: gli Stati erano macchine per
combattere guerre. Varie evoluzioni nelle questioni militari obbligavano continuamente gli Stati a estrarre
dalla società risorse sempre maggiori.

 l’incessante emulazione competitiva tra gli Stati implicava una perenne tensione sociale e dunque un
cambiamento sociale. “La guerra è la locomotiva della storia europea” (Trotzkij)

Eppure ci sono stati gradi d’intensità ben distinti nei livelli di violenza che hanno contraddistinto la storia
europea:

 La Guerra dei trent’anni fu eccezionalmente brutale: potenze esterne furono spinte nel vortice del
conflitto poiché la posta in gioco era troppo alta (possibile estirpazione del protestantesimo,
tentativo della Spagna di raggiungere l’egemonia continentale)
 In netto contrasto, durante il ‘700 i conflitti furono frequenti ma la loro intensità e durata furono
limitate.
 Rapida ascesa agli estremi delle guerre napoleoniche e rivoluzionarie (Clausewitz)
 Per quasi un secolo si riuscì ad evitare il ripetersi di un tale disastro (‘800)
 1914 – 1945: la più grande escalation di violenza della storia

Carl von Clausewitz si convinse, dopo la sconfitta per mano di Napoleone, che l’essenza del comportamento
dello Stato è la ricerca del potere senza limiti, formulazione che lo avvicina al realismo strutturalista.
Ciononostante Clausewitz rigettò la sua iniziale formulazione nel libro Della Guerra: minacciare chiunque
significava agevolare la formazione di contro-alleanze, avvicinandosi al realismo sofisticato. “Se la guerra
dev’essere razionale è necessario il controllo da parte dello Stato dell’apparato militare e delle passioni
popolari”

Il realismo rispetto alla guerra: il realismo ammette e si aspetta il conflitto. Ma esiste una grande differenza
tra un mondo di guerre premeditate e che possono essere interrotte quando si rivelano disastrose e gravi
ed incontrollate ascese agli estremi. Se si suppone che gli Stati seguano la logica dell’equilibrio di potenza,
questo suggerisce continue piccole manovre politiche, più che ampie escursioni tra equilibrio ed escalation.
Il modello di escalation ed equilibrio

Il modello di equilibrio ed ascesa agli estremi può essere spiegato alla luce di due fattori

 Ideologia dello Stato: è molto più semplice calcolare le intenzioni degli altri quando si pensa di
sapere in che modo si comporteranno; si basa sul livello di omogeneità o eterogeneità interno al
sistema degli Stati.
L’eterogeneità si mostrò chiaramente con l’apparire sulla scena politica delle ideologie
“perentorie”, la cui presenza esclude radicalmente accordi internazionali ‘costituzionali’.
La divisione religiosa dei secoli XVI e XVII | Nazismo e Comunismo, che scelsero di ritirarsi dai fora
internazionali, giacché la loro stessa esistenza negava la possibilità di qualsiasi forma di socialità
nelle relazioni interstatali.
 Natura dello Stato: la capacità dello Stato di fare calcoli, che dipendono dalle informazioni
disponibili, e di definire le priorità. Il riferimento è alla natura ‘costituzionale’ (nel senso che la
pratica liberale rappresenta un modo per creare e mantenere la coerenza e la capacità dello Stato).
Snyder sostiene che il tipo di Bandwagoning in cui a tutte le parti viene dato qualcosa, causa
l’incapacità di stabilire un ordine coerente delle priorità.
Ma le priorità possono essere fissate chiaramente da Stati assolutamente liberi da qualsiasi
relazione con il liberalismo politico: una volta che i soggetti più potenti furono controllati e
disciplinati, i monarchi assoluti furono in grado di calcolare l’interesse nazionale e di assicurare che
fosse quest’ultimo a ispirare la condotta in politica estera. Altrettanto efficace fu la condotta in
politica estera dell’Unione Sovietica, nella quale un singolo partito dominava duramente tutte le
forme alternative di potere sociale.

 Il successo del realismo dipende dalla capacità di fare calcoli corretti ed il realismo sofisticato si fonda
dunque sulla natura di uno Stato.

Conclusioni

Il conflitto ha perso d’intensità dentro ad un mondo omogeneo popolato da Stati in grado di fare calcoli e di
agire in maniera coerente rispetto alle proprie priorità, mentre le ascese agli estremi sono nate dalla
mancanza di questi fattori. Questa posizione può essere definita realismo sofisticato, piuttosto che realismo
costituzionale, in quanto alcuni degli accordi che consentono chiarezza nel policy-making estero non hanno
nulla a che fare con le costituzioni nel senso di norme e pratiche liberali.

Tuttavia, la presenza di condizioni favorevoli non assicura necessariamente il raggiungimento del miglior
risultato. Si può osservare che la capacità di calcolo è stata più importante dell’omogeneità ideologica (Usa
vs Urss).

Capitolo II: Il sistema bipolare (V. E. Parsi)

A partire dal secondo dopoguerra emerge e si consolida un sistema:


 I cui protagonisti si collocano fuori o ai margini dell’Europa e il sistema degli Stati europeo diventa
un sottosistema all’interno del sistema politico mondiale e un teatro operativo (seppure il più
importante) dello scontro tra le due superpotenze.
 Bipolare in termini di distribuzione della potenza, fondato sul condominio competitivo tra USA e
URSS.
 Disomogeneo e connotato dal punto di vista ideologico (democrazia e capitalismo vs comunismo e
collettivismo). I due attori sono i campioni di due visioni politiche del mondo completamente
antitetiche e destinate a dover eliminare l’avversario per potersi assicurare un’esistenza
ragionevolmente durevole.
 È un sistema bloccato dalla presenza dell’arma nucleare, che per le sue caratteristiche di
indiscriminata distruzione di massa, finisce per rendere il suo uso del tutto impossibile. Nessuna
guerra nel sistema nucleare può assumere compiutamente il carattere di guerra costitutiva di un
diverso ordine internazionale.
 A sovranità sospesa, cioè in cui la sovranità resta effettivo appannaggio solo delle due
superpotenze: il sistema politico internazionale arriva al punto di riscrivere le funzioni stesse degli
Stati, sottraendo loro la sovranità sul terreno della sicurezza politico-militare, terreno che ne
rappresenta il principale fondamento di legittimità.
 Per la prima volta davvero globale anche se la contrapposizione Est-Ovest rimane una sorta di
guerra civile interna al Nord: i suoi effetti sarebbero ricaduti sul mondo intero mentre la sua genesi
e la sua sintassi sono tutte racchiuse nella storia, nella politica e nella cultura del Nord.

1. La marginalità dell’Europa: Dopo la fine della prima guerra mondiale l’isolamento dell’Unione Sovietica
(chiamatasi essa stessa fuori dalle dinamiche delle alleanze) e la politica isolazionista degli Stati Uniti
consentono alle potenze europee di illudersi che il gioco della politica internazionale sia ancora nelle loro
mani. Nemmeno la grande crisi economica causata dalla borsa americana riuscirà a convincerle che i
principali protagonisti dell’arena internazionale si vanno a collocare al di fuori dell’Europa.

Il Congresso degli Stati Uniti aveva deciso di non ratificare i Trattati di Versailles e di non aderire alla Società
delle Nazioni. Questo atteggiamento isolazionista produsse due conseguenze:

 Rafforzò la convinzione dei governi europei che gli Stati Uniti fossero un attore intermittente della
politica internazionale
 Privò il sistema politico internazionale di una attore fondamentale per cercare di trovare una forma
di equilibrio stabile.

L’affermazione del nazismo e del fascismo potrebbe essere considerata un effetto collaterale dello scontro
ideologico tra sistemi liberaldemocratici e sistemi totalitari e collettivisti: una sorta di mutazione del DNA
dell’anticomunismo, ma anche un vischioso trascinamento del passato per l’enfasi sul dato nazionalista,
che rendeva le loro ideologie meno universalmente accettabili rispetto a quella comunista.

L’aggressività nazionalista del nazifascismo renderà evidente ad occidentali e sovietici l’impossibilità di


impiegare i nuovi regimi di destra come occasionali alleati contro il nemico ed il sistema multipolare degli
anni ’20 e ’30 sfocerà nel conflitto mondiale che porterà all’alleanza temporanea e alla congiunta
affermazione delle due potenze (USA e URSS) rimaste fuori dal sistema politico internazionale di Versailles.
Il sistema degli Stati europeo si troverà diviso in due zone d’influenza, e questa divisione, stabilizzatasi e
istituzionalizzatasi sarà il sistema bipolare che ha dominato la lunga Guerra fredda.
2. Sistema bipolare in base alla distribuzione della potenza, ovvero in base al numero degli attori
significativi in termini di potenza e al gioco delle loro alleanze (gli elementi che compongono la potenza
variano in base all’ epoca storica). Conta sapere quanto è concentrata la potenza ed in quali poli si addensa
(sistemi multipolari o bipolari) e da questo derivano le possibili combinazioni tra gli attori in termini di
alleanze.

3. L’omogeneità o l’eterogeneità ideologica tra i poli, ciò che cambia in un sistema disomogeneo dal punto
di vista ideologico, è la concreta possibilità per i singoli attori di passare da un polo ad un altro solo in base
a calcoli di opportunità politica.

In virtù del ruolo centrale che l’ideologia giocava nello strutturare il sistema politico internazionale,
quest’ultimo determinava la forma delle istituzioni degli attori minori. Si assistette ad una massiccia
generalizzata tendenza verso l’omogeneità istituzionale all’interno dei differenti schieramenti.

 I gradi di flessibilità del sistema politico internazionale e quindi la libertà d’azione degli attori, crescono
in sistemi multipolari e omogenei e decrescono in sistemi bipolari e disomogenei.

4. Sistema bloccato: Secondo Waltz il sistema bipolare della Guerra fredda è il sistema che meglio degli altri
possiede la caratteristica della stabilità, anche se più che la distribuzione della potenza fu l’ “equilibrio del
terrore”, la presenza dell’arma atomica, a spiegare il perché della lunga pace seguita al 1945.

5. A sovranità sospesa: paradossalmente, il sistema bipolare, mentre accentuava il carattere della sicurezza
come mai era accaduto prima di allora, la sottraeva però alla sfera della sovranità degli Stati. Era proprio la
struttura rigida del sistema, la presenza dell’arma nucleare, la forza gerarchizzante del sistema a fare della
limitazione della sovranità degli Stati minori una condizione dalla quale era impossibile rientrare.

6. La globalità del sistema; i rapporti centro-periferia: l’ingresso del Sud nel sistema politico internazionale
avviene in maniera subalterna. Il processo di decolonizzazione viene incrinato dalla frettolosità con cui le ex
colonie vengono consegnate ad élite politiche corrotte ed incapaci. Per gli Stati centrali del sistema la
contrapposizione ideologica sulla quale si fondava il sistema costituiva lo strumento principale di influenza
da parte del sistema internazionale; per gli Stati periferici l’influenza e il collegamento avvenivano
attraverso la costruzione di clientele, in cui le preoccupazioni principali erano quelle per la sicurezza dello
Stato patrono.

Gli Stati periferici, perlopiù Stati di nuova o incerta sovranità, necessitavano di una qualche forma di
istituzionalizzazione del loro rapporto di dipendenza che attenuasse le condizioni negative del loro status,
senza minimamente cercare di modificarne le premesse. Lo Stato-cliente ricava protezione, accesso al
sistema politico internazionale e attenuazione delle conseguenze della sua inferiorità politica ed
economica, mentre lo Stato-patrono amplia la propria zona di sicurezza, accede continuativamente a
risorse non disponibili e rinforza un sistema che garantisce la sua posizione di preminenza.

L’integrazione del Sud del mondo avveniva attraverso l’esportazione forzosa di un conflitto completamente
interno alle logiche del Nord a tutto il pianeta. Mentre la dimensione conflittuale possedeva una portata
globalizzante proprio in virtù del suo dato ideologico, contemporaneamente quel medesimo dato (in
termini di spinta all’omogeneizzazione politico-istituzionale tra regimi appartenenti allo stesso blocco)
diveniva operativo solo all’interno del teatro euroamericano.

Capitolo III: L’età della globalizzazione (G. J. Ikenberry)


La globalizzazione dell’economia mondiale è una delle caratteristiche più pervasive e rilevanti della nostra
epoca. Possono essere identificate tre differenti dimensioni di globalizzazione:

 del mercato
 della produzione
 dell’informazione

1. La globalizzazione del mercato si riferisce all’aumento nel flusso di capitali, beni e servizi che
attraversano le frontiere nazionali; in questo senso la globalizzazione è interdipendenza economica.

 L’espansione del commercio:

Il commercio tra paesi industriali del mondo è aumentato più velocemente della crescita interna nel
periodo post-bellico, il che ha reso nel tempo questi paesi sempre più dipendenti dal commercio ed
integrati dentro l’ordine di un singolo mercato mondiale. I governi alla guida del mondo nel secondo
dopoguerra hanno promosso e facilitato il commercio (GATT | WTO) alla ricerca di livelli più alti di crescita e
di standard di vita.

Le implicazioni che la maggiore integrazione del commercio comporta per lo Stato consistono
nell’incremento dei costi della chiusura economica e nell’aumento della dipendenza rispetto alle azioni
degli altri paesi. Gli Stati sono incentivati ad impegnarsi in relazioni esterne che stabilizzino o rinforzino
l’apertura commerciale.

 La mobilità del capitale:

Il crescente valore della transazioni giornaliere di valuta estera riflette un aumento del commercio e degli
investimenti oltreconfine, ma è anche e soprattutto guidato dalla speculazione e dall’arbitraggio 1 della
moneta. In questo senso, il capitale appare sempre più incurante dei confini nazionali, fuori dalla direzione
e dal controllo degli Stati e incessantemente alla ricerca del luogo più redditizio dove allocarsi.

La globalizzazione finanziaria è incentivata dalla deregulation del mercato dei capitali: i governi hanno
cercato di rendere più efficienti e attraenti le proprie economie per gli investimenti di capitale estero,
abbassando o eliminando i controlli sul capitale.

Anche il crollo del regime monetario di Bretton Woods, che aveva offerto una certa stabilità dei tassi
monetari, ha comportato la fluttuazione e una maggiore volatilità dei tassi di cambio e questo ha prodotto
a sua volta incentivi alla speculazione e alla mobilità del capitale.

La globalizzazione finanziaria implica dei vincoli per gli Stati nella conduzione macroeconomica
dell’economia, poiché gli Stati corrono il rischio che le loro scelte economiche portino ad una crescita
insostenibile o alla caduta del valore della propria moneta. Un governo che voglia raccogliere capitale dai
mercati internazionali deve perseguire politiche che conservino la fiducia degli investitori: questo è un
incentivo strutturale per i governi a perseguire politiche macroeconomiche conservatrici, dando maggior
priorità alla bassa inflazione piuttosto che alla crescita e all’occupazione. Il lavoro viene messo in posizione
subordinata rispetto al capitale, non essendo mobile.

2. La globalizzazione della produzione: le aziende internazionali stanno organizzando sempre più le proprie
operazioni tramite accordi di produzione complessi e disseminati nel mondo, erodendo il significato dei
confini nazionali.  Imprese Multinazionali
La manifestazione più rilevante dell’internazionalizzazione delle imprese sono gli investimenti esteri diretti,
FDI (Foreign Direct Investment). Tra i paesi industrializzati gli investimenti provenienti dall’estero sono
diventati sempre più parte degli investimenti interni reali.

Le ragioni dell’aumento degli investimenti esteri risiedono nei progressi tecnologici delle comunicazioni e
dei trasporti, che hanno aumentato la facilità con la quale i mercati nazionali possono essere integrati a
livello globale. La maggior parte dei FDI si registra ancora tra i paesi ricchi, segno che le aziende
multinazionali tengono conto, oltre che del livello di guadagno sul capitale, anche di fattori quali i rischi
politici e le restrizioni commerciali.

Un’altra area della globalizzazione della produzione è rappresentata dal crescere di alleanze strategiche
internazionali, di aziende che si associano con i concorrenti per speculazioni su alcuni prodotti selezionati,
allo scopo di ripartire costi e rischi, e assicurarsi l’accesso al mercato.  Alleanze strategiche

Implicazioni politiche di FDI e alleanze strategiche:

 Creano e espandono gli interessi costituiti in favore della continuità delle relazioni economiche,
ovvero: più il business è internazionalizzato, maggiore sarà l’interesse a mantenere un’economia
mondiale aperta e la stabilità delle relazioni economiche interstatali.
 Vengono generati nuovi interessi costituiti: le aziende multinazionali e le partnership strategiche
creano alleanze trasversali e gruppi d’interesse che possono promuovere la stabilità delle relazioni
interstatali.
 Si deteriora la capacità dello Stato di fare calcoli in termini di economia nazionale: a fronte degli
alti livelli di investimenti esteri diventa difficile riconoscere l’interesse economico nazionale.
 La differenziazione funzionale all’interno di una multinazionale integra i paesi e le strutture di
produzione sono complesse e costose da smantellare.

 l’apertura del sistema diventa strutturale: è difficile distruggere ciò che è stato costruito e se ciò avviene
comporta conseguenze più grandi rispetto al passato, e per un numero molto maggiore di persone.

3. La globalizzazione dell’informazione: sta contribuendo a creare una singola società globale o perlomeno
una società sempre più omogenea.

 Tende a promuovere una maggiore convergenza e omogeneità tra società e culture diverse.
 Aumentano le opportunità di comparare il successo dei differenti sistemi politici ed economici.
Lesson drawing: si generano standard di successo, equità, legittimità.
 Diviene progressivamente più difficile per i governi autoritari o totalitari gestire e contenere
l’informazione; rende i sistemi politici più permeabili all’esterno. Per questa ragione i paesi
democratici e liberali sono più adatti alla globalizzazione dell’informazione.

Le implicazioni politiche della globalizzazione

 Gli Stati sono molto incentivati a organizzare e riformare le proprie strutture economiche e di
governo per essere aperti all’economia globale  deregulation, minime restrizioni agli investimenti
esteri, trattamento nazionale uniforme dell’investimento estero …
 L’ampiezza della manovra economica per i governi si è ridotta drammaticamente
 L’ascesa di un paese nell’economia mondiale richiede la riforma e la trasformazione della politica
economica interna: anche i paesi industrializzati occidentali sono messi sotto pressione per
adattare i propri ordini politici all’economia mondiale globalizzante, con la riduzione del Welfare
State
 La globalizzazione complica i calcoli economici dei governi: difficoltà nella distinzione degli interessi
nazionali, presenza di nuovi interessi costituiti, inadeguatezza dei metodi nazionalisti nel risolvere
le vertenze economiche, alti costi della chiusura economica …

1. Arbitraggio: strategia di investimento, avente per oggetto strumenti finanziari, tassi d’interesse o merci che garantisce un profitto privo di rischio senza
richiedere investimenti netti. Consiste nel trarre vantaggio da discrepanze dei prezzi in due diversi mercati. Es: tasso di cambio $/€ (quanti dollari servono per
comprare un euro) vale contemporaneamente 1,00 alla borsa di Milano e 1,05 alla borsa di New York. L’arbitraggista compra a Milano (1$ = 1€) e rivende
contemporaneamente a New York (1€ = 1,05$) ottenendo un profitto privo di rischio di 0,05 $. L’azione degli arbitraggisti rende improbabile la permanenza
nel tempo di squilibri di prezzo tra i mercati finanziari.

Capitolo IV: Il ruolo internazionale dello Stato (L. Ornaghi)

La posizione che ogni Stato occupa nel sistema internazionale, il concatenarsi delle azione e delle decisioni
nonché le sue funzioni definiscono il ruolo internazionale dello Stato. Nonostante il ruolo ricoperto da tutti
gli Stati possa essere reputato molto simile se non identico, posizione di ruolo e prestazione di ruolo
possono non essere affatto coincidenti tra loro: attività e azioni formalmente uguali o simili, possono essere
esercitate e realizzate differentemente dai diversi Stati.

Stato e sistema degli Stati

Stato e sistema degli Stati sono indissolubilmente legati fin dalla loro nascita, all’alba dell’Europa moderna.
Il sistema degli interessi e dei vicendevoli rapporti tra gli Stati sembravano legare questi ultimi in un “unico
corpo”. Le funzioni universalmente riconosciute e attribuite a ciascun attore-Stato dentro il sistema
internazionale definiscono la sua collocazione formale, ma è l’analisi delle funzioni fondata sullo studio
delle effettive prestazioni di ruolo che riesce a far cogliere il nesso che lega la posizione reale di ciascuno
Stato con l’ordine gerarchico del sistema internazionale. Da questa posizione reale (così come dalla
percezione di essa) sono infatti influenzate e determinate la condotta di ogni Stato.

La realtà del sistema politico internazionale e quella di qualsiasi Stato continuamente interagiscono e
interferiscono tra di loro. Per questo si sono verificate notevoli variazioni quantitative e qualitative delle
funzioni dello Stato in campo internazionale.

Per quanto riguarda la disciplina delle Relazioni Internazionali, le versioni maggiormente diffuse del
realismo, pur argomentando a partire dallo Stato, escludono programmaticamente che le caratteristiche
interne di quest’ultimo possano avere una qualche rilevanza cospicua per la politica internazionale.

Caratteri costitutivi dello Stato moderno

 Il territorio, con i confini che specificano e determinano l’appartenenza del popolo e delle risorse
 La tendenza all’unità del comando e alla concentrazione del potere politico sino all’affermazione
della sovranità
 L’esercizio di un potere sempre più spersonalizzato (lo Stato), mediante corpi specializzati ed
apparati burocratici

Lo Stato può essere definito come «una particolare forma di organizzazione coattiva, che tiene unito un
gruppo sociale su un determinato territorio, differenziandolo da altri gruppi, ad esso estranei. Viene
caratterizzato da tre elementi: il potere sovrano, il popolo e l’unità territoriale su cui esercita il proprio
dominio».
Territorio: Gli Stati non esisterebbero senza territorio: i confini racchiudono lo Stato, lo delimitano e allo
stesso tempo manifestano la sua sovranità. La moderna sintesi statale, quando ha storicamente costruito il
territorio, ha nel contempo costruito se stessa, e presidiando i confini, cioè cercando di garantire la
sicurezza e l’integrità del territorio dalle minacce esterne, ha tutelato la sua popolazione e la sua sovranità.

Sovranità: Lo Stato nasce perché dotato di sovranità e può continuare a vivere solo se sovrano, non
riconosce autorità superiore a sé (superiorem non recognoscens).

Sicurezza: Garantire sicurezza ed offrire protezione è la più tipica delle funzioni di ogni sintesi politica. Se
nessuno Stato può abdicare alla funzione della sicurezza in campo internazionale (pena la perdita della sua
ragione d’esistenza e del suo stesso ruolo internazionale), nondimeno può mutare la capacità effettiva dello
Stato di esercitare con successo questa funzione, che dipende da almeno tre principali variabili:

 La qualità dell’organizzazione interna dei singoli Stati, cioè la loro capacità di massimizzare
l’efficienza dell’estrazione di risorse dalle società.
 La distribuzione di potenza nel sistema politico mondiale, ovvero la presenza di un sistema
multipolare – in cui gli Stati di media potenza riescono a tutelare autonomamente la propria
sovranità, attraverso alleanze flessibili e non particolarmente intrusive nella propria sfera politico-
militare – o bipolare, in cui degli Stati egemoni costringono o convincono gli altri Stati a schierarsi
all’interno di rigide alleanze in cui la stessa sovranità degli alleati minori è ridotta a mero strumento
dello Stato egemone.
 Il grado di istituzionalizzazione del sistema politico internazionale, la diffusione e l’aumentata
efficacia di regole che tendono a ridurre l’incertezza di coloro che sono attori dell’arena
internazionale.

Le nuove funzioni dello Stato

La possibilità che il conflitto sia regolato dalla forza invece che dal diritto differenzia radicalmente
l’ambiente internazionale da quello domestico. Un aumentato grado di istituzionalizzazione, benché non
diminuisca, in sé e per sé, il titolo di sovranità dello Stato, può invece intaccare le premesse storiche e
dottrinali-ideologiche di quell’effettiva anarchia, su cui la sovranità dello Stato si è costituita come bene
assoluto.

Si sono venute a configurare funzioni nuove relativamente all’odierno ruolo internazionale dello Stato.

La partecipazione ai regimi internazionali: spingendo gli attori verso comportamenti uniformi su materie
specifiche, i regimi tendono ad abbassare il grado di incertezza delle relazioni internazionali e contenere il
tasso di anarchia del sistema. Gli Stati non sono gli unici attori protagonisti della promozione di issues, e
non di rado la nascita stessa di regimi è direttamente ascrivibile all’azione di ONG e gruppi di pressione
provenienti dalla società civile. Contemporaneamente è necessario osservare che la partecipazione degli
Stati è fondamentale affinché quegli stessi regimi possano operare efficacemente.

La gestione della globalizzazione e delle sue conseguenze: all’interno del processo di globalizzazione, ogni
Stato si trova sottoposto ad una duplice spinta. Da un lato deve incanalare e saper regolare il flusso
crescente di transazioni transnazionali, mentre dall’altro lato deve rispondere alle aspettative e alle
pressioni domestiche dei suoi cittadini, cercando di tutelare l’equilibrio sociale.

Ruolo dello Stato e sistema degli Stati


(Essenza e trasformazione dello Stato moderno di Otto Hintze)

Otto Hintze sostiene che lo Stato moderno sia un’astrazione, un tipo ideale, ed analizza le quattro ulteriori
astrazioni che rappresentano il tipo ideale di Stato moderno e possono essere isolate come “articolazioni
fondamentali”:

1. Lo Stato di potenza sovrano, che si realizza tra il XIV e il XVII secolo. Attraverso la progressiva rottura dei
vincoli interni (la gerarchia feudale) ed esterni (intromissioni del papato e dell’impero), la monarchia
afferma la propria indipendenza verso l’esterno e l’esclusività del proprio potere politico all’interno di una
comunità particolare, territorialmente definita. Divenuto sovrano lo Stato deve essere uno Stato di
potenza, essendo questa la necessaria condizione per sopravvivere nella anarchica società degli Stati. Il
canone che presiede al funzionamento del sistema internazionale è quello dell’equilibrio di potenza. Il
principio che rende un tale equilibrio perseguibile e attuabile consiste nella totale irrilevanza dei
diversificati assetti istituzionali ed economico-sociali interni ai fini del concreto comportamento degli Stati
nel sistema internazionale.

2. Lo Stato commerciale chiuso, che tende a trasformare la sintesi statale in una comunità economica, la
quale sia in grado di essere autonoma e il più possibile autosufficiente. La ricerca della completa
autosufficienza economica della sintesi statale comporta infatti due importanti conseguenze:

 la realizzazione della coincidenza tra area ottimale di mercato e area di sovranità politica
 il rafforzamento del dominio statale sull’economia (monopolio della moneta, controllo delle dogane,
unificazione di pesi e misure etc.)

3. Lo Stato di diritto e costituzionale liberale, che dà piena espressione alla libertà borghese

4. Lo Stato nazionale, che riunisce in sé tutti gli elementi più importanti degli “archetipi” che l’hanno
preceduto e li potenzia grazie al principio di nazionalità. («Invece delle dinastie, diventano adesso i popoli i
portatori di una politica imperialista. […] Gli egoismi dello Stato moderno acquistano, tramite il principio
nazionale, una legittimazione ideologica.

Capitolo V: Il ruolo internazionale degli attori economici (V. E. Parsi)

Gli attori economici nelle teorie delle Relazioni Internazionali

Nel campo delle Relazioni Internazionali la ricchezza economica è stata sempre considerata una
componente della potenza, seppure la rilevanza dei fattori economici è stata considerata in un’ottica
sostanzialmente strumentale rispetto all’azione della comunità politica. I motivi sono:

 La prevalenza della politica sull’economia


 L’impostazione Statocentrica delle principali teorie delle Relazioni Internazionali
 La preoccupazione per la sicurezza in termini politico-militari che caratterizza la politica
internazionale.

 La dimensione economica dei processi politici è sostanzialmente vista in relazione al potere dello Stato,
come un elemento che contribuisce a determinarne la potenza.

Riguardo al ruolo assegnato alle variabili economiche dalle diverse teorie possiamo distinguere quatto
diversi approcci:
 Realismo classico: il sistema economico internazionale è distinto da quello politico e oggetto di
studio sono soltanto i comportamenti degli Stati
 Neorealismo: esistono interferenze tra il sistema economico e quello politico, ma il rapporto tra
attori statali ed economici è comunque dominato dai primi
 Teorie pluraliste: riconoscono agli attori economici una vera e propria autonomia che consente
loro di influenzare il comportamento degli attori statali e delle organizzazioni internazionali.
 Teorie dell’interdipendenza complessa: gli stessi attori economici possono intrattenere rapporti
reciproci fondati sulla transnazionalità, intrattenere relazioni con entità territoriali sub-statali,
trascendendo la rilevanza dell’appartenenza politica.

La globalizzazione e la sovranità dello Stato

L’affermarsi della globalizzazione e il crescere d’importanza del ruolo autonomo degli attori economici
hanno spinto studiosi delle più diverse impostazioni a chiedersi quanto e come la sovranità degli Stati ne sia
stata erosa.

Le riflessioni di Keohane e Nye evidenziano come le interazioni commerciali e finanziarie tra le MNCs
sfuggano al controllo centralizzato da parte dello Stato. D’altra parte proprio il crescere dell’interazione tra i
sistemi economici nazionali spinge gli Stati verso una cooperazione obbligata in politica estera.
L’internazionalizzazione della produzione, attuata grazie alla diffusione e all’espansione delle MNCs ha
contribuito ad accelerare oggettivamente il ritmo di erosione della sovranità economica dello Stato.

Gli esponenti della teoria critica riservano uno spazio centrale al ruolo degli attori economici nella politica
internazionale, ma si spingono fino a ridefinire il concetto stesso di sistema politico internazionale,
contestando radicalmente l’idea che esso possa essere compreso a partire dalla dinamica degli interessi
nazionali (cioè dalle relazioni interstatali). Secondo questi autori è il complesso delle relazioni transnazionali
che si realizzano tra gruppi e forze sociali che esercita sul sistema degli Stati un’influenza decisiva. Ci
troviamo insomma di fronte ad una sorta di “passaggio di consegne” tra lo Stato capitalista e una sorta di
governo capitalista globale, nuovo garante dell’ordine politico nel sistema economico globale, una sorta di
«governace without government». Questi autori della teoria critica delle Relazioni Internazionali
contestano frontalmente il criterio della sovranità degli Stati inteso come colonna portante del sistema
politico internazionale.

Il tema della sovranità dello Stato è stato messo radicalmente in discussione da Wallerstein, sovranità che
non sarebbe messa sotto scacco in forza dell’incremento del potere delle grandi multinazionali, ma a causa
di quell’inesorabile processo di delegittimazione dell’autorità pubblica messo in atto dagli stessi cittadini.
Questa situazione si produrrebbe perché la promessa da parte dello Stato di offrire a tutti pari e progressive
opportunità di mobilità sociale, all’interno di un sistema fondato sul capitalismo economico e su
un’ideologica neutralità dello Stato nel conflitto tra le classi sociali, diventerebbe scopertamente
irrealizzabile proprio in seguito al trionfo del liberismo economico. Le varie ondate di deregulation e
privatizzazioni hanno abbassato la fiducia di quote crescenti della popolazione nei confronti della capacità
dello Stato di assicurare un futuro migliore per tutti, così da indebolire la legittimazione politica di Stati e
governi.

Gilpin (uno dei padri nobili della International Political Economy) fonda il suo approccio su due assunti:
 L’analisi dei fenomeni economici in relazione a quelli politici è essenziale per comprendere la reale
stabilità dell’ordine internazionale.
 Il mercato viene considerato un’istituzione sociale, che concorre alla redistribuzione del potere e
della ricchezza tra gli Stati.

Partendo da questi presupposti Gilpin individua nella fine degli accordi di Bretton Woods, nella formazione
di un mercato globale dei capitali e nella crescita del commercio mondiale le cause che hanno
progressivamente eroso la capacità degli Stati di regolare e organizzare i mercati. Gilpin individua nelle
MNCs gli attori per eccellenza della nuova epoca: le definisce come imprese oligopolistiche in cui
proprietà, gestione, produzione e vendita si estendono sopra parecchie giurisdizioni nazionali, e che hanno
come obiettivo principale quello di assicurarsi la produzione meno costosa di merci destinate ai mercati
mondiali. A tale scopo agiscono sia attraverso l’allocazione più efficiente degli impianti di produzione, sia
ricercando benefici fiscali da parte dei governi ospitanti. Gilpin sostiene che ci sia in genere una sostanziale
complementarità di interessi tra le multinazionali e i governi d’origine, almeno per quanto riguarda il caso
degli Stati Uniti, in cui sono state considerate un mezzo per lo sviluppo economico del mondo, ma anche un
meccanismo per diffondere l’ideologia del sistema americano di libera impresa, un sistema di politica
estera.

È nei confronti dei paesi ospiti che le MNCs hanno attirato su di sé le maggiori critiche: sono state accusate
di produrre distorsioni nell’economia e nello sviluppo economico dei paesi ospiti e di esercitare
un’ingerenza negativa nella loro vita politica.

Gran parte invece delle riflessioni di Susan Strange ruotano attorno al cardine dell’ingiusta concentrazione
del potere economico e del come l’economia globale e i suoi attori più forti stiano concretamente
ridisegnando le regole dell’economia capitalista. La «ritirata dello Stato» di fronte all’incedere della
globalizzazione è dovuta, secondo l’autrice, all’incapacità di questo di garantire quei valori necessari
affinché la società possa continuare ad esistere: sicurezza, giustizia, libertà e ricchezza. Un tale declino
dello Stato si rifà ad una sopraggiunta incapacità da parte sua di assicurare l’ordine pubblico e la certezza
del diritto. Le imprese transnazionali sono gli attori che più di ogni altro si sono avvantaggiati
dell’indebolimento dell’autorità governativa e del fatto che alcune principali responsabilità dello Stato in
un’economia di mercato non siano oggi assolte adeguatamente da nessuno. Questi nuovi attori arrivano a
minacciare il monopolio dello Stato in politica estera e a minarne la legittimità interna. Diviene anche
necessario formulare una nuova definizione di potenza, che tenga conto della continua e progressiva
erosione del ruolo esclusivo dello Stato. Strange aveva definito la «potenza strutturale» come il potere di
scegliere e dare forma alle strutture dell’economia politica globale entro le quali gli altri Stati, le loro
istituzioni politiche, le loro imprese economiche e i loro lavoratori devono operare. Tale potere è esercitato
attraverso diverse «strutture» da coloro che sono in grado di

 offrire o minacciare la sicurezza


 offrire o ritirare il credito
 determinare che cosa deve essere prodotto, dove da chi, in quali termini e condizioni

Ma al crescere di rilevanza (e autoreferenzialità) delle strutture del credito e della produzione declina non
tanto il bene in sé della sicurezza, quanto la capacità dello Stato di esserne il prestatore ultimo e più
efficace. A questa ipotesi è stata opposta l’obiezione (Kapstein) che le banche multinazionali dipendono
tuttora dallo Stato per l’accesso al mercato e per l’uniformazione del “terreno da gioco” della competizione
internazionale.
In definitiva agli Stati sembrano restare poche strategie al di fuori di quelle forzatamente cooperative nei
confronti delle TNCs e delle MNCs.

Capitolo VI: Le istituzioni internazionali, le ONG e i regimi (C. N. Murphy)

Le istituzioni internazionali sono una componente delle relazioni internazionali al pari degli stessi Stati
sovrani; l’odierno sistema delle istituzioni internazionali dovrebbe essere considerato logicamente
prioritario rispetto agli Stati sovrani, essendo le istituzioni internazionali a creare e ricreare continuamente
la sovranità degli Stati.

Il diritto internazionale

Da un lato esistono regole, procedimenti e modelli di comportamento atteso che valgono per le interazioni
transnazionali tra cittadini e attori non-statali come le imprese private, si parla in questo caso di diritto
privato internazionale, dall’altro ci sono regole che si applicano alle relazioni tra i governi (diritto pubblico
internazionale).

La questione se il diritto internazionale possa essere considerato veramente diritto, ovvero se sia realmente
obbligatorio e vincolante, appare oggi meno problematica rispetto alla questione che riguarda cosa fare
effettivamente quando uno Stato viola il diritto internazionale. Mentre il diritto internazionale privato è
applicato solitamente a livello interno dai tribunali e dalla polizia dei paesi che hanno sottoscritto un
trattato, per quanto riguarda il diritto internazionale pubblico esistono tribunali internazionali ma sono in
definitiva solo gli altri Stati che possono svolgere il ruolo di poliziotti o fungere da sistema penitenziario,
ricorrendo a sanzioni diplomatiche ed economiche. È dunque tecnicamente impossibile far valere il diritto
internazionale nei confronti si Stati potenti o potenti coalizioni di Stati.

Regimi e conferenze multilaterali

Si definisce regime per un aspetto particolare della vita sociale internazionale, «l’insieme delle pratiche
consuetudinarie, dei trattati e delle istituzioni che li fanno rispettare, valido per un’area specifica di
interesse internazionale comune».

Tutti i regimi internazionali sono nati dalla stessa forma standard di pratica cooperativa internazionale,
dallo stesso meta-regime: le conferenze multilaterali. A partire dai primi anni dell’800 le rappresentanze di
alcuni governi europei iniziarono la pratica di organizzare incontri multilaterali per discutere argomenti
particolari di potenziale interesse reciproco. Il sistema delle conferenze oggigiorno ha cominciato ad
assumere una sorta di funzione legislativa nell’emergente sistema della global governance (un sistema di
istituzioni per regolare o promuovere un’economia veramente globale).

Le organizzazioni internazionali

Il primo gruppo di organizzazioni internazionali globali venne istituito dagli Stati europei nella seconda metà
dell’800; si trattava di Unioni Pubbliche Internazionali per il telegrafo, le ferrovie, il commercio ed altri
campi. Al termine della Prima Guerra Mondiale, la maggior parte di queste organizzazioni furono ricostruite
all’interno della Società delle Nazioni e dopo il fallimento di quest’ultima i vincitori della Seconda Guerra
Mondiale ricostruirono la maggior parte delle sue organizzazioni all’interno delle Nazioni Unite.

La logica economica del capitalismo induce gli industriali a cercare oltre i confini del proprio paese, lavoro e
materie prime più a basso costo, come pure mercati più ampi nei quali vendere i beni prodotti. Nella misura
in cui gli Stati sostengono o rispettano gli interessi capitalistici, divengono anch’essi motivati a estendere le
aree di mercato oltre i confini nazionali e per ampliare il mercato dei beni industriali è necessaria la
cooperazione internazionale tra Stati industrializzati, cooperazione che include l’istituzione di
organizzazioni internazionali formali aperte all’adesione di quasi tutti gli Stati della società internazionale.

Tuttavia, le regole commerciali rappresentano effettivamente solo una piccola parte della creazione del
mercato: le organizzazioni internazionali non solo creano mercati più ampi ma li rinsaldano anche,
rendendo più facile la cooperazione tra gli Stati.

Per quanto riguarda il problema della guerra, le organizzazioni internazionali di livello globale
contribuiscono a ridurre il conflitto violento e creano opportunità per quanti promuovono la
trasformazione sociale.

 L’ONU: Le Nazioni Unite sono probabilmente l’organizzazione internazionale più famosa e più ambiziosa
che esista al mondo. Una fonte della debolezza del suo sistema risiede nella relativa autonomia delle sue
parti: la maggior parte del lavoro dell’ONU è infatti svolto dalle agenzie specializzate. Questo è un retaggio
storico del fatto che quasi tutte le agenzie specializzate o esistevano già prima dell’ONU, oppure furono
concepite come libere dal sistema di governance basato sul principio «una nazione/un voto» utilizzato
nell’Assemblea Generale. Ogni agenzia specializzata è difatti governata dal proprio comitato e molti di essi
utilizzano procedure di voto che assegnano alle maggiori potenze economiche più voce in capitolo rispetto
alle altre nazioni.

È significativo che esista un importante tipo di azione dell’ONU che non è svolto dalle agenzie specializzate
e rimane sotto la responsabilità degli organi centrali dell’ONU, vale a dire le attività di peace-keeping,
peace-enforcement e di risoluzione dei conflitti. Questo lavoro però è effettivamente diretto dalle grandi
potenze: viene svolto, infatti, sotto l’autorità del Consiglio di Sicurezza, un organo di quindici componenti di
cui cinque sono membri permanenti (Stati Uniti, Russia, Regno Unito, Francia e Cina), ognuno dei quali
dotato del diritto di veto.

Le ONG

Ad ogni tappa, il disegno del nuovo set di organizzazioni internazionali è stato influenzato dalle ONG al
centro dei movimenti sociali transnazionali che promuovevano posizioni relativamente progressiste ed
egalitarie. Questi movimenti sociali non sono riusciti a trasformare in realtà le loro visioni utopistiche, ma
le ONG hanno giocato un ruolo significativo per innovare e promuovere nuove organizzazioni internazionali.
Questo significa che le organizzazioni sono servite come fora nei quali le più forti componenti politiche che
promuovono obiettivi simili possono vedere diffuse ed amplificate le proprie posizioni.

Le organizzazioni regionali

In alcune parti del mondo esistono, a livello regionale, organizzazioni internazionali piuttosto potenti
(ASEAN, NAFTA). Solo in pochissimi casi però esistono organizzazioni internazionali che sono divenute
qualcosa di più della somma dei loro componenti. Un caso emblematico è quello dell’Unione Europea che al
momento è l’organizzazione internazionale con la gamma più ampia di poteri, risorse e responsabilità.

Anche se l’integrazione economica potrebbe produrre vantaggi maggiori per le nazioni meno
industrializzate, l’esperienza storica ci suggerisce che è più difficile stabilire la cooperazione economica
proprio tra questi paesi, a causa del fatto che nelle prime fasi della cooperazione economica uno Stato
dev’essere disposto a sponsorizzare la cooperazione e ad accollarsi i costi aggiuntivi. Questo ruolo è stato
tradizionalmente assunto da potenze egemoniche relativamente benigne, come gli Stati Uniti nei confronti
dell’Europa occidentale. La potenza egemonica agisce in vista dei suoi interessi di lungo periodo, facendosi
carico di alcuni alti costi nel breve periodo. Nel mondo meno industrializzato i paesi che hanno tentato di
comportarsi come leader egemonici della cooperazione regionale hanno dovuto far fronte all’opposizione
politica interna perché i costi della sponsorizzazione della cooperazione apparivano troppo alti rispetto alle
risorse limitate del paese.

Conclusioni

Fino alla Prima Guerra Mondiale il modo prevalente di pensare alle istituzioni internazionali era un modo
idealista liberale: questa prospettiva presupponeva che le istituzioni fossero create per raggiungere il bene
pubblico e s’immaginava che avrebbero avuto successo. Dopo il fallimento della Società delle Nazioni nel
fermare l’occupazione italiana in Etiopia e gli altri conflitti che condussero alla Seconda Guerra Mondiale,
molti studiosi hanno adottato un approccio realista alle istituzioni internazionali, sostenendo che esse
riflettevano semplicemente il potere dei loro membri dominanti.

La studiosa Susan Strange ritiene che le istituzioni internazionali sono create per servire gli interessi dei loro
membri più potenti e che gran parte del sistema dell’ONU, l’FMI, il WTO sono intese come istituzioni
dell’impero formale degli Stati Uniti. Tuttavia, le istituzioni, una volta create, determinano alcune
conseguenze e influenzano o determinano le scelte di tutti gli Stati, compresi quelli che le hanno create.

Capitolo VII: L’Unione Europea (F. Attinà)

Storia dell’Unione Europea

Negli anni successivi alla Seconda Guerra mondiale, gli uomini di stato, gli economisti e gli intellettuali che
diedero inizio al processo di integrazione europea progettavano la costruzione di un’organizzazione politica
che consentisse di eliminare il rischio di conflitti tra gli Stati europei. Alcuni politici e intellettuali, di fronte
all’effettiva difficoltà di realizzazione di un’Europa federale, proposero di ricorrere alla via funzionalista, che
consisteva nel dare realizzazione ad un progetto di unione europea basato sulla creazione di relazioni
intergovernative che, sotto l’alta autorità di un organo comune, definivano e attuavano la stessa politica in
tutti gli Stati membri.

Le prime politiche comuni (concordate da Francia, Germania, Italia, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo)
ebbero per oggetto la produzione ed il commercio del carbone e dell’acciaio, cioè la più importante fonte di
energia e la più importante materia prima della produzione industriale e bellica di quegli anni. Nel 1952
nacque la CECA, la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio. Successivamente si trovò l’accordo per
dare vita ad un’unione doganale tra questi sei Stati e furono aggiunte altre politiche (agricola, commerciale,
dei trasporti). Nel 1957 il trattato di Roma istituisce la Comunità Economica Europea, la CEE.

L’accelerazione del processo di globalizzazione ha trovato gli europei disposti ad esporre i loro Stati alle
relazioni con il resto del mondo e a procedere ad importanti cambiamenti del processo di integrazione,
ovvero un processo di progressiva costruzione di un sistema politico (un sistema di istituzioni, procedure e
valori comuni) per produrre decisioni collettive e applicarle sul territorio degli Stati membri. La nascita di
un’organizzazione politica europea si dispiega nell’arco degli ultimi cinquant’anni e si proietta nel futuro
sulla base di un meccanismo evolutivo di adattamento ai cambiamenti dell’ambiente sociale.

Ad oggi L’unione Europea è un sistema politico

 Multistatale: a dominanza degli Stati membri


 Multicentrico: nel quale la funzione di governo è distribuita in diversi centri
 Multilivello: organizzato in sistemi di governo sovrapposti sullo stesso territorio
 Multidimensionale: competente in molte dimensioni della vita sociale che hanno diverso grado di
sviluppo e sono autonome l’una dall’altra
 Multisoggettuale: che attribuisce legittimità di azione politica alle istituzioni politiche formali, alle
associazioni politiche tradizionali e a quelle della società civile
 Multinazionale e multiculturale

La politica dell’Unione Europea nel sistema economico mondiale

L’Unione Europea è l’area del mondo con il più grande mercato interno in termini di prodotto lordo e nello
stesso tempo è il più grande attore del commercio mondiale.

La preservazione della solidità economica europea richiede l’adozione di misure protezionistiche che
assumono la forma della tariffa comune esterna 1, la definizione di quote d’importazione 2, il ricorso a misure
anti-dumping3 e alla restrizione volontaria di talune esportazioni. Anche nel quadro dell’organizzazione
mondiale del commercio (WTO), l’Unione europea sostiene tanto la diffusione della liberalizzazione del
commercio mondiale, quanto la dilazione e il compromesso sulle misure di liberalizzazione commerciale
che mettono in difficoltà i produttori europei.

Ragioni di opportunità politica, oltre a ragioni di natura economica, presiedono anche alla definizione di
accordi economici e commerciali con singoli Stati e con gruppi di Stati. Altri accordi commerciali hanno il
fine di favorire e difendere le industrie europee, ed altri 4 sono rivolti a dare all’Unione una posizione
politicamente – oltre che economicamente – redditizia nel dialogo con i paesi più svantaggiati
dell’economia mondiale. Gli Accordi Europei,5 infine, sono rivolti a raggiungere l’obbiettivo economico e
politico di preparare gli Stati dell’Europa centrale e orientale all’ingresso nell’Unione Europea.

Il ruolo dell’Unione nel sistema economico mondiale contempera strategie di consolidamento delle
posizioni europee nel sistema commerciale mondiale con strategie di natura politica rivolte a conservare
solidarietà politiche già esistenti o crearne di nuove. Queste strategie di consolidamento commerciale sono
interdipendenti con la capacitò dell’Unione di svolgere un ruolo politico a livello mondiale.

La politica estera dell’Unione Europea: CPE (1969-1992)

La prima fase della formazione della politica estera comune sono gli anni della CPE, Cooperazione Politica
Europea. La CPE nasce nel vertice dei capi di Stato e di governo dell’Aja nel 1969: il vertice ammette
l’incongruenza di un processo d’integrazione che dà vita ad un forte soggetto economico mondiale e non è
accompagnato da un processo integrativo in grado di dar vita ad un soggetto politico mondiale. Nel ’73 i
ministri degli esteri dei paesi membri emettono una Dichiarazione sull’identità Europea nelle relazioni
internazionali con l’intento di pubblicizzare la disponibilità dei governi comunitari ad assumere posizioni
autonome sui problemi della politica internazionale: agli Stati Uniti in particolare, e al resto del mondo si
manifesta la volontà di essere considerati come un soggetto della politica internazionale diverso dagli
alleati.

 CPE e Alleati: Attraverso la CPE spesse volte i governi comunitari si sono dissociati dagli Stati Uniti, come
il rifiuto di seguire Washington nelle misure simboliche – il boicottaggio dei Giochi Olimpici di Mosca – e
nelle misure economiche. Questa dissociazione dall’alleato americano non si è mai estesa al settore
strategico e militare. Dall’inizio degli anni ’90 quanto più gli Stati Uniti hanno abbandonato gli eccessi della
lotta al comunismo e si sono avvicinati ad una politica di negoziazione dei problemi globali, tanto più è
venuto meno l’interesse dei governi europei a dissociarsi dall’alleato. Mentre la crisi in Jugoslavia ha
trovato i paesi dell’Unione Europea senza una politica estera comune, l’intervento degli Stati Uniti in Bosnia
ha confermato che gli Stati Uniti sono i fornitori in ultima istanza della sicurezza internazionale, ruolo
accettato dai paesi membri dell’UE.

Il passo sostanziale verso la politica estera e di sicurezza comune è compiuto con il Trattato di Maastricht
nel 1992.

La politica estera dell’Unione Europea: PESC (1992-oggi)

Il Trattato di Unione Europea (TUE) definisce gli aspetti formali della politica estera e di sicurezza comune.

 la definizione di principi e linee-guida


 la scelta di strategie comuni che si applicano nelle aree in cui gli Stati membri hanno importanti
interessi in comune
 l’adozione di azioni congiunte, per rispondere a situazioni specifiche nelle quali è richiesta
un’azione operativa e di posizioni comuni, utilizzate per definire l’approccio dell’Unione nei
confronti di un determinato problema o situazione politica
 il rafforzamento della cooperazione tra gli Stati membri in politica estera.

Attraverso la progressiva realizzazione del progetto della PESC, viene indotta la convergenza delle politiche
estere nazionali mediante accordi sulle determinate questioni.

 Nonostante le tante divergenze all’interno dell’Unione Europea riguardo al ruolo della PESC, il progetto
va avanti e questo di può spiegare in parte con un progressivo avvicinamento degli interessi e delle identità
degli Stati Europei: contribuire con strumenti politici e diplomatici al rafforzamento della stabilità e al
contenimento della conflittualità nelle aree che circondano l’Europa è un interesse condiviso da tutti gli
Stati europei, sia per garantire la sicurezza politica sia per consolidare lo sviluppo economico. Contribuirvi
secondo valori identitari comuni è anche sempre più determinante: gli obiettivi formalmente professati dal
TUE riflettono un modo europeo di esercitare un ruolo politico internazionale che è condiviso dai governi
dell’Unione.

Adattamento al processo di globalizzazione

Il processo di globalizzazione domanda agli Stati di collegarsi e aggregarsi il più possibile nelle risposte da
dare ai problemi globali. Questo è specialmente vero per quegli Stati che non sono di grandi dimensioni,
occupano un territorio contiguo ed hanno un’economia fortemente esposta alle relazioni internazionali.
Questa pressione si traduce in

 una politica di scala che ha una razionalità economica (quanto è più grande l’attore, tanto più
adeguati sono i suoi mezzi in un teatro di dimensioni planetarie). Consente anche vantaggi in
termini di consenso acquisito sulla base della necessità di conformare l’azione di governo a quella
dei propri alleati europei. La politica di scala infine è un espediente per “farsi forza” collettivamente
là dove singolarmente un governo incontrerebbe pressioni esterne alle quali difficilmente potrebbe
resistere.
 Un approccio multidimensionale nell’azione politica. L’Unione europea adotta la strategia
dell’approccio globale verso i paesi dell’Europa orientale e del Mediterraneo, operando su tre
dimensioni: quella politica e di sicurezza, quella economico-finanziaria e quella umanitaria e
decentrata, cioè che collega i soggetti della società civile e degli enti locali dell’Unione e dei paesi
con i quali intavola un processo cooperativo.

1. Tariffa comune esterna o tariffa doganale comune: si fa riferimento all’adozione di una tariffa unica applicabile da tutti gli Stati membri nei confronti dei
prodotti provenienti da Stati terzi; ciò a differenza delle aree di libero scambio, che prevedono unicamente l’armonizzazione (o l’abolizione) delle tariffe
doganali applicate tra gli Stati membri e non verso l’esterno. 

2. Quota di importazione: il meccanismo che regola la quantità massima di un certo prodotto che può essere importata in un determinato periodo di tempo

3. Dumping: una procedura di vendita di un bene o di un servizio su di un mercato estero (mercato di importazione) ad un prezzo inferiore rispetto quello di
vendita (o, addirittura, a quello di produzione) del medesimo prodotto sul mercato di origine (mercato di esportazione).

4. La Convenzione di Lomé La Convenzione si basava sulle preferenze commerciali per i prodotti dei paesi ACP, che potevano entrare nella Comunità Europea
senza pagare dazi, senza che la CE richiedesse lo stesso vantaggio per le sue esportazioni. Negli anni novanta i paesi europei avevano iniziato a richiedere
garanzie sulla tutela dei diritti umani, della democrazia e dello stato di diritto, come condizione per poter mantenere i vantaggi commerciali.

5. Accordi Europei: i primi accordi di questo tipo furono stipulati nel 1991, altri sono stati firmati negli anni successivi.  Disciplinano forme di cooperazione non
strettamente legate alla dimensione economica; accanto all’istituzione della consueta  area di libero scambio, infatti, sono previste anche delle procedure per
il rafforzamento del dialogo politico e per la cooperazione in campo culturale.  Scopo principale di tale differenziazione è quello di avviare con tali Stati più
strette relazioni economiche in vista di una futura adesione; tutti i paesi con i quali sono stati stipulati accordi europei sono, infatti, candidati ad entrare a far
parte dell’Unione nel prossimo decennio. 

Capitolo VIII: La guerra (L. Bonanate)

È guerra principalmente il momento in cui «due Stati (o due coalizioni) si affrontano per mezzo dei loro
eserciti in vista della rispettiva sottomissione alla propria volontà, realizzata prevalentemente attraverso la
conquista del territorio e con la decisione dello Stato sconfitto di ammettere la resa».

Quanto stretto sia il nesso tra Stato e guerra è sottolineato dal fatto che non esista al mondo uno Stato che
non ne abbia combattuta almeno una, e sono praticamente sempre state le guerre a dar vita agli Stati.

Ecologia della guerra

Ponendo l’ipotesi che la guerra debba essere studiata in quanto fenomeno della vita politica internazionale,
viene formulata una generalizzazione empirica, secondo la quale, attualmente, al declinare delle grandi
guerre, stia corrispondendo una crescita delle piccole guerre; in questo modo la guerra assume il ruolo di
una variabile dipendente rispetto all’andamento delle relazioni internazionali di ciascun tempo.

Holsti, dopo aver selezionate e studiato un ampio numero di conflitti tra il 1648 e il 1989, ed aver
dimostrato come ogni guerra generi la successiva, seleziona empiricamente 24 possibili cause del conflitto
internazionale, e dimostra che la classe di conflitti più ricca è quella delle guerre per la conquista
territoriale; al secondo posto si trovano le guerre legate alla formazione dello Stato nazionale, al terzo le
guerre di matrice ideologica e religiosa.

 Quasi la metà delle guerre più importanti appartengono al secolo scorso (Guerra dei sei giorni, guerre
mondiali, Guerra del Vietnam, Seconda Guerra balcanica, Guerra di Corea), nessuna guerra diadica (limitata
a due soli attori) compare nel campione.

 La stragrande maggioranza delle guerre combattute tra il 1900 e il 1989 è diadica e di portata ridotta, e
in più della metà dei casi la guerra non ha più visto il coinvolgimento degli Stati Europei; ciò ci suggerisce
che le dimensioni spaziali della vita internazionale si sono progressivamente ampliate e che l’Europa ha
perduto la sua centralità.
 Specialmente a partire dal secondo dopo-guerra il maggior numero dei conflitti ha avuto una matrice di
tipo coloniale, ricollegabile al declino dei grandi imperi del passato; inoltre, la maggior parte dei conflitti del
dopo-guerra hanno avuto per protagonisti nuovi soggetti, nuovi Stati emergenti.

La posizione realista riguardo alla guerra

Thomas Hobbes, autore della prima grande sistemazione teorica delle Relazioni Internazionali, estende agli
Stati la teoria politica che aveva costruito per gli individui: così come questi ultimi comprendono che per
uscire dalla condizione anarchica di bellum omnium contra omnes cui lo stato di natura li costringe devono
accordarsi per dare vita ad una società civile, nel quale il potere politico sarà conferito ad un solo
rappresentante dei cittadini, così dovrebbe essere anche per gli Stati. Tuttavia, gli Stati a differenza degli
individui non possono uscire dallo Stato di natura, perché in tal caso dovrebbero rinunciare alla propria
sovranità. I rapporti tra gli Stati sono quindi definiti dalla loro permanenza nello stato di natura, la cui
caratteristica fondamentale è l’anarchia, la cui inevitabile conseguenza è la guerra.

Kenneth Waltz pubblicò l’opera L’uomo, lo Stato e la guerra chiedendosi se la sede delle guerre fosse
collocata nella natura dell’ uomo, nelle caratteristiche ideologiche dello Stato o nella natura anarchica della
politica internazionale. Egli giudicava, che essendo la forza il mezzo che gli Stati hanno per realizzare i loro
fini, la guerra fosse la conclusione inevitabile per ricomporre i conflitti d’interesse che sorgono
inevitabilmente fra unità simili in una condizione di anarchia. La lezione che gli Stati devono trarre da
questa impostazione consiste nello sviluppo della loro potenza: vivendo in una condizione anarchica,
determinata dalla natura stessa dell’entità statuale, che è tale solo se è sovrana (superiorem non
recognoscens), il singolo Stato ha come sua principale cura la difesa della sua integrità. Per questa ragione
la potenza e la sua distribuzione determinano il comportamento degli Stati all’interno del sistema
internazionale. Fin tanto che esisteranno gli Stati la guerra sarà inevitabile.

 La concezione realista comporta l’assunzione di un carattere metodologico estremamente impegnativo,


ovvero che gli Stati siano ispirati tutti dalle stesse regole di comportamento (attori egoisti razionali che
agiscono per perseguire i propri fini in una ambiente composto di attori che seguono tutti la stessa
impostazione). La condizione dell’equirazionalità impone un vincolo estremamente restrittivo, escludendo
che diverse razionalità si trovino a competere, diversificate da, per esempio, principi ideologici.

Secondo Bruce Bueno de Mesquita ogni Stato (considerato attore razionale, coeso ed unitario ai fini della
teoria) è in grado di calcolare l’utilità attesa da una guerra sulla base del confronto tra costi e benefici sia
della guerra che della pace: i vantaggi di quest’ultima ne supereranno i costi fin tanto che il mantenimento
dello status quo non risulti più costoso della guerra necessaria per modificarlo. È facile argomentare che sia
la decisione di guerra comporta tali e tante componenti da rendere il calcolo pressoché impossibile, sia che
se così stessero le cose l’esito di ciascuna guerra sarebbe sempre prevedibile.

La posizione idealistica

Facendo riferimento alla concezione leninista, si identifica nello Stato capitalistico la fonte di ogni conflitto
politico e sociale. La guerra, essendo l’imperialismo la fase di massimo sviluppo del capitalismo, viene vista
come una vera e propria necessità del sistema capitalistico. Le guerre sono uno scontro tra Stati imperialisti
per conquistare mercati su cui riversare i loro eccessi produttivi, secondo un modello che avrebbe finito per
condurre gli Stati imperialisti alla distruzione reciproca.
Ricollegabile a questa impostazione è quella di matrice socialista, che ha visto nello Stato capitalistico la
presenza di una componente militaristica fondata sul complesso militare-industriale, e che ritiene che lo
sviluppo capitalistico richieda necessariamente per sostenersi il rifugio nella spesa militare.

Anche la tesi della guerra come diversione risulta frequentemente utilizzata: ed effettivamente certi casi
possono essere spiegati nei termini dell’esigenza dei governi di mantenere il potere attraverso l’appello
all’unità nazionale, alla potenza e allo sviluppo del paese.

 Queste impostazioni possono essere ricondotte ad unità se le si riferisce al soggetto statuale inteso
come il «prodotto storico di un nodo sociale e politico che contiene al suo interno delle contraddizioni» . Nei
suoi termini più ampi questo è ciò che fu sostenuto da intellettuali come Zimmern, Murray e Woolf, che
svilupparono una concettualizzazione sulla base della quale le guerre non erano altre che la conseguenza di
un’inadeguata struttura organizzativa degli Stati, da sottoporre ad un’opera riformatrice.

Capitolo IX: La pace democratica (L. Bonanate)

La conflittualità internazionale ha conosciuto negli ultimi anni quello che può essere considerato uno dei
picchi più bassi della storia, e si può notare che suddividendo i conflitti per regioni il loro numero risulta
minimo in tutti quanti gli scacchieri, benché le situazioni di Asia ed Africa siano tuttora le meno
soddisfacenti (anche se più della metà dei conflitti ancora in corso in quelle regioni fonda le proprie radici in
eventi precedenti 1989).

La recente scoperta della correlazione tra regime democratico e pace ha mostrato quanto importante
possa essere una riflessione sistematica sulla pace come momento della vita internazionale. La pace può
essere vista dapprima come lo specifico momento in cui le parti in guerra giungono al termine delle loro
ostilità, me è comunque una delle possibili modalità attraverso cui l’esito dello scontro si concretizza. Lo
stabilimento della pace non implica che essa sia «giusta», ovvero accettata consensualmente dalle parti.

Condizioni per la pace

Holsti propone quella che egli considera una vera e propria condizione di pace: l’esistenza di Stati forti
(ovvero con governi costituzionali, regolarmente avvicendati, con società assimilate e senza problemi di
confini).

Aron invece distingue tre tipi di pace: equilibrio, egemonia e impero che vanno ricondotti a un principio di
pace, quello della pace di potenza (che comprende anche quella fondata sul terrore nucleare) che va a sua
volta distinto in pace d’impotenza e pace di soddisfazione, da intendere come giustizia, uguaglianza,
condivisione del benessere etc. Bisognerebbe distinguere pace vera, come scelta politica, e pace apparente
come mera alternativa alla distruzione. È possibile che uno o più Stati scelgano un atteggiamento pacifico
perché non hanno la forza di condurre un conflitto, o che una comunità di Stati risulti pacifica perché la
conflittualità vi si è diffusa capillarmente (l’esempio è ancora una volta quello della Guerra fredda, che
mirava a realizzare una pace stabile al massimo livello a costo di una conflittualità endemica localizzata alla
periferia del sistema internazionale).

La pace tra gli Stati

Il sistema internazionale  È da chiarire se gli Stati che coesistono in uno stesso momento sulla scena
internazionale siano della stessa natura, ovvero obbediscano ad analoghi ed omogenei principi
costituzionali, o se piuttosto tipi di Stato differenti diano vita a risposte internazionali differenziate appunto
dalla loro eterogeneità. È possibile ipotizzare che un sistema omogeneo sia pacifico e che uno eterogeneo
sia invece bellicoso, ma alla prova dei fatti non risulta così: è possibile infatti che l’omogeneità nasconda la
prevalenza della forza di alcuni Stati dominanti che reprimono tentativi di frammentazione compiute da
nazioni-non-Stati, e che l’eterogeneità a sua volta riesca a scoprire una condizione di sopravvivenza
nell’equilibrio delle forze contrapposte.

Un altro quesito irrisolto è quello che riguarda la forma assunta da ciascun sistema internazionale e la sua
influenza sul mantenimento della pace, ovvero se i sistemi bipolari siano più o meno pacifici di quelli
multipolari.

Lo Stato  Pace e guerra potrebbero invece dipendere, più che dalla conformazione del sistema
internazionale, dalla volontà degli Stati, e che quindi convenga guardare più attentamente alla loro specifica
natura.

Kant nel trattato Per la pace perpetua, collega direttamente il regime politico interno e propensione alla
pace. Gli Stati democratici, o comunque omogenei rispetto alla forma di governo, giungono nei loro
rapporti reciproci più difficilmente allo stato di guerra che non gli Stati dispotici o disomogenei.

È possibile dunque che Stati ideologicamente uniti in uno stesso progetto di politica internazionale siano
considerati alla stregua di una vera e propria comunità, all’interno della quale si instaurerebbe un clima di
concordia e di pace.

 Relativamente al rapporto interno a questa forma di comunità o alleanza: Il caso delle due grandi
alleanze del XX secolo è emblematico: il Patto Atlantico e il Patto di Varsavia diedero vita a due vere e
proprie comunità d’intenti, coese ed integrate, ma che non possono essere considerate prefigurazioni di un
sistema internazionale democratico: entrambe erano infatti strutturate in modo gerarchico e un solo Stato
vi svolgeva un ruolo direttivo e decisionale indipendente, mentre la partecipazione di tutti gli alleati era di
tipo dipendente e mai autonomo. La pace che vi prevale è quindi pagata con la perdita dell’autonomia, un
prezzo che può anche essere considerato conveniente, purché la scelta sia consapevole e libera. Va
osservato che le ragioni strategico-diplomatiche prevalgono quasi sempre su quelle ideologiche cosicché
anche gravissime incompatibilità di principio finiscono per essere piegate alle ragioni della stabilità di una
pace spesso giudicata provvisoria ma necessaria. Può darsi che la coesione interna ad un’alleanza sia vissuta
dai suoi componenti come una pre-condizione da adempiere in vista sia della difesa, sia come preparazione
all’aggressione decisiva del blocco contrapposto.

In questo quadro, non pare possibile affermare che fino ad oggi l’umanità abbia conosciuto una pace totale,
consensuale e condivisa.

La Pax democratica

Possiamo dotarci di un corpus di dati oggettivi riguardanti la correlazione tra guerra e stato democratico

 Non si sono mai state combattute guerre esclusivamente tra Stati democratici
 Gli Stati democratici combattono quando un avversario non democratico rappresenta per loro un
pericolo intollerabile
 In questi casi accettano anche alleati eterogenei
 Sembra difficile accollare alle democrazie la volontà di iniziare una guerra anche se
 le democrazie possono ritenere l’ingresso in guerra vantaggioso anche in termini economici o in
vista di vantaggi futuri e se
 le democrazie fanno sovente guerre segrete o nascoste d’altra parte
 gli Stati democratici prevalentemente vincono le guerre nelle quali sono coinvolti, il che indica che
si tratta di Stati caratterizzati da grandi risorse finanziarie ed industriali, da grande coesione sociale
e da unitarietà d’intenti
 Gli Stati democratici, vincendo guerre contro Stati non-democratici favoriscono l’instaurazione di
regimi democratici

Tutto questo tenendo presente che non sempre gli Stati democratici obbediscono ai principi che essi stessi
ritengono di incarnare, che l’azione nell’ambiente internazionale possa non essere sempre democratica e
tenendo presente che si parla dell’ideale democratico piuttosto che delle sue condizioni reali.

In un suo saggio Doyle, sostenendo l’idea di Kant, espose una tesi estremamente semplice, ovvero che gli
Stati costituzionali solidi e liberali non si sono mai fatti la guerra l’un l’altro . La sua ipotesi fonda la sua
solidità, oltre che su prove di fatto, su una distinzione basilare tra Stati: democratici e non democratici.
Anche questa volta, dunque, viene posto al primo rango il regime politico e non l’anarchia internazionale,
che non sarebbe più da considerare la condizione originaria della politica internazionale.

Vengono distinte due fondamentali varianti della tesi della Pax democratica:

 Diadica: gli Stati democratici non combattono tra loro, ma combattono contro Stati non democratici
 Monadica: gli Stati democratici sono sempre e comunque poco inclini a ricorrere alla forza.

Le prove a favore di queste tesi non mancano, posto che evitiamo di dare una definizione troppo ampia di
Stato democratico e cominciamo ad applicare questo ragionamento all’età successiva alla prima guerra
mondiale (con l’eccezione della Seconda Guerra Mondiale, che presta il fianco a diversi dubbi, riguardanti
l’alleanza di Stati democratici e Unione Sovietica o la possibilità di definire il Terzo Reich uno Stato a tutti gli
effetti dittatoriale).

Esiste effettivamente un nesso tra democrazia e pace? La risposta sembra essere inequivocabilmente
affermativa, ma due dubbi restano difficili da fugare:

 L’eventualità che la democrazia sia una qualità che possono avere soltanto Stati ricchi, cosicché la
pace finisce per essere un loro interesse e non un bene in sé
 Obiezione sulla base di un’interpretazione di tipo “genetico”: lo sviluppo degli Stati democratici
nel mondo è visto come il progresso dell’ampliarsi di un’inizialmente ristretta zona di pace (la
comunità atlantica) a cui si sono aggiunti altri Stati man mano che diventavano democratici.
Ammettendo che la democrazia sia correlata allo sviluppo capitalistico e a condizioni privilegiate, al
sua diffusione diventa un meccanismo irrefrenabile che ci offre una direttiva politica, dato che
l’aiuto allo sviluppo diverrebbe un aiuto alla diffusione della democrazia nel mondo.
 La discussione riguardo al fatto che uno Stato possa permettersi di svolgere una politica estera
democratica in ogni circostanza
Non esiste infatti Stato democratico che non abbia pagine da cancellare per quanto riguarda la
politica estera, paradossalmente abbiamo da registrare casi di Stati non-democratici che hanno
svolto politiche estere democratiche o pacifiche.

In definitiva, le ragioni profonde del nesso pace-democrazia vanno cercate nella natura della democrazia,
intesa prevalentemente nella sua componente valoriale, nella sua natura elettivamente non-violenta.
Capitolo X: L’ambiente (P. M. Haas)

Un nuovo modello di governance ambientale globale ha fatto la sua comparsa negli ultimi trent’anni, dal
momento cioè in cui furono compiuti i primi sforzi concertati volti ad affrontare i vari aspetti della crisi
ecologica nella conferenza di Stoccolma del 1972.

Molti studiosi neorealisti e istituzionalisti concepiscono le politiche ambientali internazionali come


problemi di scelta collettiva, che anche se auspicabile, non sempre si rivela adeguata a proteggere
l’ambiente a causa della debolezza dell’apparato istituzionale e amministrativo del sistema internazionale e
dell’effettiva incapacità di controllo di quest’ultimo sull’azione degli Stati. Al contrario, a livello interno
l’azione nazionale risulta spesso vigorosa e produttiva a fronte dei costi concentrati della protezione
ambientale in relazione ai benefici diffusi.

Secondo le teorie costruttiviste, gli Stati non sono attori sostanzialmente razionali, ma piuttosto prendono
decisioni in base al principio della razionalità limitata, ovvero le scelte compiute restano valide e non vi si
ritorna fino a che crisi politiche non impongano una risposta. Gli Stati però possono apprendere come
conseguenza dell’essere impegnati in regimi ambientali internazionali; i regimi sono infatti istituzioni
dinamiche che favoriscono la socializzazione e l’apprendimento risulta essere una fonte di cambiamento
endogena di lungo periodo nella governance internazionale.

Le forze nella politica internazionale per l’ambiente

Sono cinque i fattori chiave che influenzano le scelte dello Stato e plasmano i regimi ambientali
internazionali:

1.La leadership nazionale


Sebbene realisti e neorealisti attribuiscano alla leadership dello Stato un ruolo chiave, questa non si è
rivelata centrale nella produzione di politiche ambientali. Il comportamento degli Stati Uniti, il presunto
egemone internazionale, rispetto ai regimi ambientali non ha rilevato alcuna sistematicità.

2.Le ONG
Pur potendo contribuire ad una effettiva governance regionale, le ONG non hanno giocato sinora un ruolo
significativo nella governance ambientale, probabilmente anche perché l’opinione pubblica rimane molto
legata a temi specifici, a livello locale. In generale le ONG, nei casi in cui sono state coinvolte in regimi
ambientali, hanno espresso preferenze per il perseguimento di norme di principio e spinto per forti impegni
dei quali i governi potessero essere ritenuti responsabili.

3. Le istituzioni internazionali
Le istituzioni internazionali possono contribuire a costruire regimi di portata più ampia ed incoraggiarne
l’implementazione, fornendo un ambiente favorevole alla cooperazione, facendo aumentare le capacità
degli attori in questo ambito e alimentando la volontà politica. Non tutti gli Stati sono ugualmente sensibili
alle pressioni e agli incentivi istituzionali.

4. I network scientifici transnazionali, ovvero le comunità epistemiche


L’attività delle comunità epistemiche può avere impatti differenziati sui paesi industrializzati avanzati e su
quelli in via di sviluppo; è più probabile che i primi, dotati di una maggiore famigliarità con i consigli esterni,
accoglieranno le indicazioni scientifiche transnazionali, mentre per contro, nei paesi in via di sviluppo si
darà ascolto più facilmente a consigli scientifici che provengono da canali interni. Quando vengono
coinvolte nel policy-making nazionale le comunità epistemiche plasmano le preferenze nazionali e le
agende politiche in base ai propri punti di vista e le posizioni nazionali variano dunque in rapporto al grado
di penetrazione delle comunità epistemiche.
5. L’attenzione dell’opinione pubblica

I regimi ambientali

I regimi ambientali rientrano in quattro idealtipi

 Governance in presenza di forti istituzioni e della comunità epistemica:


Regimi di ampio respiro con dinamiche di contrattazione caratterizzate dall’apprendimento e
agende costruite intorno a minacce ambientali scientificamente dimostrate. Gli obblighi nazionali
sono differenziati e gli impegni sono basati sul consenso degli esperti circa le cause e gli effetti
ambientali.
 Governance in presenza di istituzioni ma con nessun coinvolgimento della comunità epistemica:
Istituzioni solide da sole producono cooperazione organizzata intorno a compromessi politici, con
poca corrispondenza rispetto a una interpretazione degli obiettivi ambientali accettabili. Gli obblighi
regolativi sono solitamente uniformi.
 Con la sola presenza di comunità epistemiche e in assenza di istituzioni forti:
Politica nazionale senza alcuna azione formale o semplicemente espressione esortativa di impegno.
Le pratiche degli Stati varieranno in base a fattori interni. C’è la possibilità che la performance
nazionale ecceda gli standard collettivi in presenza di una comunità epistemica forte.
 In contesti istituzionali deboli e in assenza di comunità epistemiche:
«minimo comun denominatore», trattati disgiunti deboli con obblighi nazionali uniformi e limitati

Una percentuale crescente di regimi ha acquisito elementi propri del trattato di ampio respiro, che è
probabilmente il più efficace nel proteggere l’ambiente. Inoltre c’è una sorprendente assenza di regimi
organizzati intorno ai principi del mercato e dell’economia, imputabile all’assenza di organizzazioni
internazionali economiche nello sviluppo di quei regimi.

L’apprendimento sociale e il ruolo delle comunità epistemiche

L’aumento della frequenza dell’apprendimento sociale e della costruzione di regimi di ampio respiro che
l’accompagnano è dovuto alla crescente influenza delle comunità epistemiche ecologiche e alla sempre
maggiore fiducia che gli Stati ripongono in istituzioni ambientali internazionali. In parte l’incremento di
conoscenza istituzionalizzata è una scelta politica consapevole dello Stato, in parte è attribuibile a
dinamiche sociali non intenzionali, dovute all’inserimento delle regole e dei principi dei regimi all’interno
della cultura organizzativa. Un altro importante fattore in termini di effetti del lungo periodo è la creazione
di nuovi mercati di controllo dell’inquinamento che non esistevano affatto negli anni ’70.

I limiti dell’apprendimento sono ascrivibili al fatto che la maggior parte di esso rimane fortemente
localizzato. L’expertise dei membri della comunità epistemica è altamente specializzata, cosicché la loro
influenza e il loro coinvolgimento sono limitati ad un regime specifico o ad una issue-area specifica.

La politica ambientale internazionale aiuta a mettere in luce un numero di questioni attuali nelle relazioni
Internazionali ch implicano un ripensamento più attento delle interazioni tra istituzioni e conoscenza nel
dare forma all’elaborazione dell’interesse nazionale da parte degli Stati.
Capitolo XI: Il regionalismo (G. J. Ikenberry)

L’affermarsi del regionalismo è stata una delle caratteristiche più rilevanti della politica internazionale dopo
la fine della Guerra fredda. La cooperazione regionale è uno strumento che facilita l’integrazione
economica e che incoraggia l’apertura economica multilaterale globale.

Il regionalismo riguarda la cooperazione interstatale, cioè un’organizzazione formale istituita dagli Stati
attraverso accordi politici ed economici. Gli Stati rinunciano ad una certa autonomia di policy in cambio
della gestione congiunta di uno spazio economico e politico comune; i paesi della regione sono organizzati
intorno a speciali vantaggi e a particolari obblighi.

Durante la Guerra fredda prese forma un tipo diverso di regionalismo: gli Stati Uniti promossero una serie
di alleanze per la sicurezza regionale nelle zone del blocco occidentale (NATO, SEATO per il sud-est asiatico
e CENTO per le regioni petrolifere del Medio Oriente), e l’Unione Sovietica si mosse a sua volta per creare
accordi finalizzati ad alleanze regionali.

Forme di regionalismo

Il regionalismo può assumere molte forme diverse: aperto, chiuso, coercitivo, consensuale, gerarchico,
bilanciato, economico, politico etc.

 Regionalismo chiuso, coercitivo, gerarchico e autarchico: L’impero regionale giapponese degli anni ’30
rappresenta un tipo di regionalismo fondato sul dominio militare: Cina, Taiwan, Corea ed altre parti della
regione vennero fuse con la forza nella «Sfera di co-prosperità della più grande Asia orientale». Era un
ordine autarchico e l’integrazione economica all’interno della regione era gerarchica: le zone periferiche
fornivano materie prime e lavoro a basso costo, mentre il Giappone rimaneva il centro decisionale e
deteneva un’economia avanzata. Sono davvero pochi gli Stati che oggi cercano di istituire blocchi regionali
chiusi e antagonistici.

 Regionalismo aperto, consensuale, economico: Può essere il risultato non intenzionale di scambi
economici. Non sono presenti istituzioni politiche né forme di dominio coercitivo, i confini sono permeabili.
Si tratta di una regione solo perché tendono ad esserci una maggiore interazione e più scambi.

Le dimensioni del regionalismo

 Integrazione economica:
 Grado dell’interdipendenza economica tra gli Stati all’interno della regione
L’Unione Europea possiede un alto livello di interdipendenza economica tra gli Stati membri,
mentre le regioni NAFTA e APEC sono meno strettamente dipendenti e il commercio tende ad
essere sviluppato maggiormente su scala extraregionale
 Equilibrio o grado di simmetria, quando esiste maggiore uguaglianza nel grado e nel tipo di
interdipendenza, allora le relazioni economiche sono più equilibrate e simmetriche.
Durante gli anni ’30, la Germania era notevolmente coinvolta economicamente con i paesi vicini
dell’Est Europa e questi erano sicuramente più dipendenti dalla Germania di quanto quest’ultima
non lo fosse da loro. Questa relazione economica conferiva potere alla Germania.
 il livello delle barriere per le relazioni economiche all’interno e all’esterno della regione.
Avere confini regionali più bassi significa che non esistono tariffe comuni e altre barriere
discriminatorie per ostacolare il commercio e gli investimenti. Al contrario, avere alti confini
regionali significa che le frontiere sono meno permeabili e che gli Stati all’interno discriminano
quelli che stanno al di fuori della regione.
 Carattere politico: la misura in cui la regione è anche un’organizzazione politica, con mete e
relazioni che vanno oltre l’integrazione economica fino a comportare un’unificazione politica.
I primi passi per creare la Comunità Europea furono esplicitamente compiuti dai paesi europei per
utilizzare l’integrazione economica al fine di risolvere problemi politici e di sicurezza e l’integrazione
economica venne perseguita per ridurre i rischi di un conflitto militare o politico. Il processo
alternativo si verifica quando è l’integrazione economica a determinare quella politica: gli attori
economici che operano all’interno dei diversi Stati spingono in favore di più forti vincoli
commerciali, richiedendo anche la cooperazione politica.
 Presenza di un leadership politica nella regione e il suo carattere
Se una regione è definita esclusivamente in termini di integrazione economica, la leadership
politica non esiste o non conta.
Se invece essa è organizzata da Stati con una precisa agenda politica, l’organizzazione politica
assume diverse forme.
 la regione può essere organizzata intorno ad un unico grande Stato, come il NAFTA (unipolare)
oppure ad alcuni Stati di dimensioni simili, come l’Unione Europea, che, fino agli anni ’70 ruotava
intorno a due potenze simili, Francia e Germania (multipolare)
A prescindere dalla polarità, il carattere della leadership può andare dal dominio coercitivo a uno
benevolo e consensuale. Una regione costruita intorno a più Stati di peso analogo, difficilmente
presenterà una leadership coercitiva, siccome i grandi Stati sono in grado di contenersi a vicenda e
controlli politici gerarchici sono difficili da attuare.

Regionalismo e globalizzazione

Il regionalismo si sta dimostrando sostanzialmente compatibile con la crescita di un’economia politica


mondiale sempre più aperta ed integrata. Gli accordi commerciali regionali derivano per la maggior parte
da un orientamento economico liberale e ad oggi il regionalismo economico ha un’agenda politica molto
limitata se non inesistente, e incrementa il commercio all’interno del raggruppamento abbassando le
barriere interne piuttosto che innalzandole verso l’estero.

Il regionalismo economico oggi è in larga misura una risposta a tre impulsi, tutti ampiamente compatibili
con l’apertura economico globale.

 L’ondata di accordi regionali degli anni ’80 e ’90 è stata prodotta dal cambiamento delle prospettive
economiche e delle strategie di sviluppo economico dei paesi emergenti
Paesi avanzati e paesi in via di sviluppo condividono sempre di più concezioni simili riguardanti i
mercati e le politiche governative sull’economia. Sono emerse nuove opportunità di cooperazione e
i paesi avanzati stanno cercando di racchiudere, vincolare le riforme economiche dei paesi
emergenti entro accordi commerciali regionali (ingresso del Messico nel NAFTA)
 La liberalizzazione del commercio mondiale attraverso negoziati multilaterali globali e divenuta
sempre più problematica. Gli accordi commerciali regionali consentono di raggiungere più
velocemente risultati riguardanti che sono difficili da negoziare in un contesto multilaterale. Questo
si è verificato a causa del numero sempre crescente di attori.
 L’evoluzione in atto nell’economia mondiale fa sì che per molti paesi industrializzati sia difficile
utilizzare i tradizionali strumenti macroeconomici per gestire le proprie economie e stimolare la
crescita. Accordi commerciali regionali consentono ai leader politici di ottenere un certo grado di
crescita tramite una politica di governo.

Capitolo XII: Le mafie (F. Armao)

I termini mafia e crimine organizzato hanno in campo scientifico ambiti di denotazioni molto diversi: mafia
andrebbe a rigore riferito all’esperienza del Mezzogiorno post-unitario della Sicilia ed identifica un
fenomeno politico-sociale mentre criminalità organizzata ha una valenza prettamente economica cui a
volte si associa l’esistenza di una componente sub-culturale di tipo etnico. In questo caso, chiameremo
mafie quel genere di organizzazioni che si propongono di perseguire un utile economico grazie alla gestione
diretta e massiccia di mercati illegali nonché all’uso strumentale di sezioni crescenti del mercato legale,
mediante l’impiego della violenza in un certo territorio, di cui mirano ad ottenere un controllo di tipo
totalitario.

Mafie, politica e mercato

Le mafie si propongono come strutture di intermediazione tra la dimensione locale, territoriale,


dell’esercizio del potere effettivo e la dimensione globale dei mercati internazionali. In taluni contesti
sembra che le mafie sostituiscano lo Stato nelle relazioni con il capitalismo, sfruttando a proprio vantaggio i
vincoli imposti all’autorità statale da due opposti processi di democratizzazione

 La crescente istituzionalizzazione del sistema internazionale


 Il diffondersi del modello liberal-democratico tra sistemi politici nei paesi emergenti, non più
soltanto occidentali

In un mercato concepito come un hobbesiano stato di natura, le mafie sono in grado

 di perpetuare l’accumulazione primaria attuando un’estrazione capillare e violenta delle risorse


 di annullare i meccanismi di libera concorrenza favorendo la costituzione di oligopoli e monopoli
 produrre attraverso la vendita di beni illeciti immensi capitali liquidi utili anche al rifinanziamento del
capitalismo internazionale speculativo.

Per far ciò devono disporre di una “delega informale” da parte delle componenti antidemocratiche del
sistema politico, cui i mafiosi possono assicurare la permanenza al potere finanziandone l’attività attraverso
la corruzione o alterando i meccanismi elettorali.

Radicamento ed espansione

I clan tendono a svilupparsi seguendo un doppio movimento di radicamento ed espansione. Una volta
radicatosi entro un certo territorio, il clan potrà lanciarsi nella colonizzazione di nuove aree, seguendo le
rotte imposte dalla domanda e dall’offerta dei beni (armi o droga ad esempio) nonché dalla richiesta di
servizi che il mercato illegale gestisce in esclusiva (la manodopera schiava) o a prezzi più competitivi
rispetto al mercato legale (smaltimento dei rifiuti tossici). La peculiarità delle economie-mondo mafiose è
l’inversione nella direzionalità: nei loro flussi di colonizzazione infatti si muovono dalle periferie alla
conquista dei centri.

Le mafie non nascono ovunque né casualmente, ma si sviluppano come fenomeno autoctono laddove lo
Stato nel suo processo di formazione abdica, per necessità o per convenienza, alla propria funzione di
centralizzazione delle risorse di potere e per ridurre i costi dell’unificazione subappalta loro una parte delle
proprie funzioni. I boss mafiosi diventano governatori di territori in cui fanno le veci dello Stato e agiscono
come le Compagnie commerciali seicentesche: queste si assumevano l’onere della gestione delle colonie in
cambio dei diritti di sfruttamento su commissione del governo, il quale riduceva i costi a proprio carico,
mantenendo una partecipazione ai profitti grazie alla loro tassazione. Uno dei fondamentali vantaggi delle
Compagnie nei confronti dello Stato consiste nella internalizzazione dei costi della violenza; esse infatti
affidavano la protezione dei propri traffici a eserciti privati, riducendo la violenza ad una delle tante variabili
razionali del costo d’impresa. Le più efficienti tra queste “compagnie mafiose” si dimostrano oggi in grado
di produrre un’eccedenza di violenza privata che le pone in una posizione dominante nei confronti dello
Stato.

È nell’esperienza bellica che la fase del radicamento incontra quella dell’espansione: la guerra, azione
politica per eccellenza, è un input tra i più significativi per il sistema mafioso, anche perché altera i normali
meccanismi di mercato e consente elevatissimi margini di profitto. La possibilità che si venga a creare un
network dipende dal livello di finanziarizzazione del capitalismo globale, in particolare dalla sua
propensione all’azzardo: quanto più la circolazione del denaro mondiale risulterà sottratto al controllo delle
banche centrali e delle autorità monetarie internazionali ed affidata allo sviluppo anarchico del credito
privato e dei mercati offshore (ovvero che esistono al di fuori dell’ambito in cui vigono le regole delle
economie nazionali di origine) tanto più le mafie si troveranno in condizione di acquisire sempre maggiore
autonomia e potere contrattuale nei confronti di chi opera nella legalità.

Istituzionalmente attrezzate ad operare nell’ombra e prive del vicolo alla propria libertà d’impresa
costituito dal giudizio degli azionisti, le principali organizzazioni mafiose potranno facilmente sviluppare
accordi oligopolistici per il controllo dei traffici illegali, prefigurando la formazione di veri e propri regimi
internazionali (mafiosi) non egemonici né formali, ma utili a impedire il manifestarsi di conflitti tra le singole
organizzazioni.

La storia internazionale delle mafie

La storia internazionale delle mafie si può fare iniziare dalla Seconda Guerra Mondiale, che proprio
attraverso l’istituzionalizzazione del mercato nero in un numero senza precedenti di paesi belligeranti
favorisce lo sviluppo di organizzazioni criminali. La Yakuza nell’immediato dopoguerra collabora con le
truppe statunitensi di stanza in Giappone e ai suoi boss viene delegato il controllo del territorio; del resto i
servizi segreti alleati avevano già perseguito un’analoga politica nei confronti della mafia ai tempi dello
sbarco in Sicilia del 1943. L’effetto di questa Realpolitik “imposta” dalla guerra è l’ingresso di esponenti
mafiosi nelle strutture politiche e con esso l’accesso alla gestione della spesa pubblica: prende avvio
l’infiltrazione delle mafie nell’economia legale, soprattutto durante gli anni della ricostruzione.

A livello globale, l’epoca della Guerra fredda impone di fatto dei vincoli all’espansione delle mafie, ma in
particolare nell’Estremo Oriente sono riuscite a dimostrare maggior dinamicità. Infatti il successo della
rivoluzione cinese ha favorito il radicamento delle Triadi a Hong Kong, che hanno mantenuto una posizione
egemonica nei traffici di droga fino alla metà degli anni ’70. Il passaggio a una fase di deregolamentazione
dei mercati finanziari e la contemporanea esplosione nella domanda di droghe creano condizioni mai così
favorevoli per i poteri mafiosi e si moltiplicano le aree di produzione della droga. L’implosione dell’impero
sovietico determina la fine di un sistema globale basato sull’ordine bipolare e scatena crisi difficilmente
governabili all’interno di un numero consistente di Stati che si trovano nella necessità di gestire, senza
averne le capacità, il repentino passaggio dall’economia di Stato all’economia di mercato. Il meccanismo di
ripolarizzazione che ha fatto seguito alla frammentazione dei vecchi centri è avvenuto per lo più attorno a
nuclei mafiosi. Ciononostante, la comparsa tra le élite criminali di questi nuovi competitori provenienti
dall’Est non genera alcun conflitto, a dimostrazione del fatto che il mercato dell’illegalità ancora non
conosce limiti alla propria espansione.

Capitolo XIII: La società civile globale (M. Finnemore)

È abitudine pensare alla politica internazionale come ambito esclusivo degli Stati nazionali, ma parecchi
studiosi iniziano a prendere sempre maggiore coscienza del fatto che molte delle più importanti dinamiche
politiche si svolgono fuori dallo Stato, in particolare nella società civile globale.

Essenzialmente la società civile è la sfera della vita pubblica separata dallo Stato, in grado di offrire una
base per opporsi ad esso, e può essere una fonte cruciale di cambiamento. Gli attori della società civile
nazionale si volgono sempre più frequentemente oltre i propri confini, verso le società civili di altri Stati, per
raggiungere i propri obiettivi: il risultato è che la società civile è divenuta globale.

Le componenti della società civile globale

Gran parte della società civile, globale o nazionale, non è chiaramente politica anche se la linea di
demarcazione tra componenti politiche e non della società civile può essere confusa e imprevedibile. Gli
attori più influenti della società civile, comunque, sono spesso soggetti con obiettivi espliciti che lavorano
duramente in favore del cambiamento politico e sociale.

 Le ONG internazionali hanno una varietà quasi infinita di dimensioni e strutture e una gamma
altrettanto diversificata di missioni; alcune organizzazioni sono chiaramente regionali, e altre sono
globali nello scopo e nella membership. Quello che tutte le ONG hanno in comune è la membership
multinazionale o una vocazione transnazionale.
Un sottogruppo delle ONG che merita un’attenzione speciale sono le Chiese e le congregazioni
religiose. Molte religioni hanno organizzazioni affiliate che svolgono opera di soccorso e assistenza
umanitaria.
 Società e imprese transnazionali sono un’altra importante componente della società civile globale.
Sono tradizionalmente distinte dalle ONG poiché la loro ricerca di profitti le induce a comportarsi in
modo differente. Le aziende private sono attori chiave siccome le loro decisioni esercitano
profondi effetti sulla vita della gente in altri paesi e sui governi stranieri.
 L’importanza politica dei media risiede nella loro capacità di diffondere le informazioni in tutto il
mondo. In alcuni paesi il sistema dell’informazione è diretto e controllato dallo Stato, ma le agenzie
di media più grandi ed influenti godono tutte di un grado di autonomia molto alto da qualsiasi
Stato. Solo una manciata di agenzie d’informazione ha la capacità sia di raccogliere sia di diffondere
le notizie su scala globale, mentre le altre agenzie d’informazione traggono in larga misura da loro
le proprie notizie. Tutte queste organizzazioni hanno il proprio quartier generale in Occidente. Un
effetto determinato dal web è stato quello di minare il potere estremamente concentrato dei
tradizionali media.

Fonti di potere e di influenza

Il potere degli attori della società civile deriva da almeno quattro fonti:

 I soldi sono il più ovvio tra gli strumenti, ma non sono necessariamente il più comune né il più
potente. Le risorse finanziarie permettono agli attori economici di sostenere cause politiche e
leader graditi (questo tipo di azioni non è in ogni caso esclusivo delle aziende, ma è anche utilizzato
dalle ONG e dalle Chiese). La ricchezza è uno strumento importante in mano alle aziende anche
perché le modalità con le quali vengono condotte gli affari hanno impatti politici e sociali. Le
aziende possono ricorrere all’offerta di investimenti oltremare o alla minaccia di spostare le proprie
attività altrove come strumenti di pressione per fa sì che i governi locali si comportino secondo i
loro desideri.
Anche più piccole quantità di denaro possono essere uno strumento valido, qualora siano utilizzate
strategicamente. Le fondazioni filantropiche private danno contributi a quegli attori delle società
civili di altri paesi che secondo loro promuoveranno obiettivi desiderabili.
 L’informazione è con ogni probabilità lo strumento più ampiamente utilizzato dagli attori della
società civile: uno dei modi principali è quello di impiegare l’informazione per richiamare gli Stati
alle proprie responsabilità o per indurre gli Stati ad assumere nuovi impegni. In questo modo
l’informazione è utilizzata per definire le agende politiche e creare issues laddove prima non
esistevano. L’expertise è una specifica forma d’informazione che può essere politicamente potente:
per produrre un impatto infatti l’informazione deve essere corroborata da studi scientifici accettati
come validi.
 L’autorità morale è un bene rilevante per molti gruppi che cercano di ottenere cambiamenti politici
e sociali. È ovviamente una grandissima risorsa per le Chiese e i gruppi religiosi, che sono percepiti
come istituzioni di saldi principi. Tuttavia anche altri gruppi nella società civile possono arrivare a
disporre di autorità morale quando agiscono coerentemente per sostenere principi e valori
condivisibili.
 Un’organizzazione efficace è un altro strumento per raggiungere i propri obiettivi. Ciò che è
efficace per un’organizzazione che promuove un certo scopo potrebbe non essere efficace per
un’altra, ma la capacità di mobilitare le persone e le risorse sul campo è spesso ciò che dà a un
attore della società civile un vantaggio sugli altri

Attori differenti nella società civile hanno forze diverse, ma la maggior parte di essi cerca di sfruttare più
strumenti possibili.

La società civile globale e il rapporto con gli Stati

Sarebbe un errore pensare agli Stati e alla società civile come ad attori sempre opposti. I gruppi nella
società civile che perseguono un certo obiettivo formano reti di comunicazione che spostano informazioni e
risorse. Questi network non sono solo esterni e opposti agli Stati: le reti, soprattutto quelle di successo,
pervadono lo Stato. Le reti lavorano sia attraverso e dentro gli Stati, sia in opposizione ad essi.

Gli attori della società civile non usano il proprio potere solo per influenzare gli Stati: raggiungere i propri
obiettivi significa spesso dover puntare ad altri attori della società civile. Per esempio, per quanto riguarda
le politiche ambientali, raramente sono gli Stati i principali responsabili dell’inquinamento, lo sono piuttosto
le industrie.

La politica e le azioni politiche degli Stati sono sovente modellate dalla società civile nella quale quegli Stati
sono inseriti. Gli attori della società civile possono esercitare pressione sugli Stati affinché si comportino nel
modo da loro auspicato. Dal momento che l’economia globale, i media e la tecnologia stanno mettendo
sempre più a stretto contatto le persone, un numero sempre maggiore di obiettivi appare condiviso. Quasi
ogni issue internazionale che gli Stati affrontano oggi è influenzata dagli attori della società civile globale.
Capitolo XIV: Guerra, terrorismo e ordine internazionale nel momento unipolare (A. Locatelli)

Guerre inter- e intra-statali

L’analisi quantitativa delle guerre combattute nel periodo successivo al 1989 è empiricamente complessa,
ma è possibile rilevare alcune tendenze macroscopiche relative alla guerra:

 A partire dagli anni ’90 si è registrato un declino generale nel numero dei conflitti armati
 Una seconda costante è il calo nel numero delle vittime: la media dei caduti per conflitto è
inferiore. Le guerre contemporanee si caratterizzano in generale per un minore grado di violenza
 Molto raramente i conflitti si configurano come guerre inter-statali (ovvero combattute tra eserciti
di Stati diversi) ma molto più frequentemente sono guerre intra-statali e un’esigua minoranza sono
guerre intra-statali internazionalizzate (con la presenza di forze straniere).
In questo quadro le guerre internazionali classiche, combattute tra potenze di egual rango per
questioni territoriali, di sicurezza o di prestigio sono pressoché scomparse; al loro posto si è
assistito invece ad interventi di una grande potenza (principalmente gli Stati Uniti) contro Stati più
deboli e marginali.
 Differente anche la distribuzione dei conflitti per aree geografiche: le aree del mondo meno
sviluppate sono quelle più propense a ospitare conflitti. Nel mondo Occidentale la guerra è
pressoché assente, mentre nel resto del mondo i conflitti permangono, sebbene con intensità
minore rispetto al passato.

Quali sono le ragioni dell’obsolescenza della guerra tradizionale?

 Dal punto di vista economico, è stato rilevato che la guerra, specialmente quella di conquista, non è
efficiente in termini costi-benefici.
 Da un punto di vista politico valgono semplici considerazioni di potenza: l’egemonia statunitense
inibisce la competizione geopolitica, perché il divario di potenza è tanto elevato da impedire a qualsiasi
potenziale concorrente di sfidare la superiorità americana.
 Da un punto di vista normativo, la causa dell’obsolescenza della guerra può essere individuata
nell’affermarsi della norma che sancisce la sacralità dei confini.

La guerra, piuttosto che essere stata eliminata, sembra che abbia assunto una nuova forma. L’idea
clausewitziana che la guerra non sia altro che la prosecuzione della politica con altri mezzi, non vale per i
conflitti contemporanei, perché lo Stato ha perso il monopolio della violenza. L’uso della violenza non è uno
strumento per assecondare interessi nazionali, ma scaturisce dal fallimento stesso dello Stato.

La prima differenza rispetto al passato risiede quindi negli agenti preposti all’esercizio della guerra: non più
eserciti nazionali, ma bande organizzate di attori non statali. Ma cambiano anche le cause per cui e le
modalità in cui si combatte: lungi dall’essere un sistema per risolvere le controversie, la guerra diventa una
lotta esistenziale per la sopravvivenza o per il controllo del territorio. Da ultimo, rompendosi il nesso
guerra-politica, vengono meno i vincoli clausewitziani all’escalation della violenza e il sistema codificato di
regole che limitavano l’esercizio della forza. Per questa ragione, nei conflitti contemporanei si registra
un’altissima percentuale di vittime tra i civili (prossima al 95% del totale).

La rivoluzione negli affari militari e la trasformazione della difesa


Il più rilevante dei conflitti inter-statali del post-guerra fredda è probabilmente la Guerra del Golfo del
1990-1991: un’ampia coalizione guidata dagli Stati Uniti ebbe velocemente la meglio sulle forze irachene di
Saddam Hussein. L’operazione Desert Storm fu un successo in termini di efficienza militare: gli scontri
ebbero una durata assai limitata e le perdite sul campo furono minime. Il vantaggio della coalizione (e degli
Stati Uniti in particolare) risiedeva nella superiorità tecnologica rispetto all’avversario. Si pensava che la
tecnologia informatica avrebbe rivoluzionato il modo di combattere (Rivoluzione negli affari militari, RMA).

In cosa consiste la RMA? Questo termine indica un cambiamento profondo e radicale nel modo in cui
vengono condotte le operazioni militari, in termini di maggiore efficienza e letalità delle forze armate.
Perché ciò accada devono presentarsi tre condizioni:

 Tecnologie innovative
 Una nuova dottrina militare
 Un parallelo adattamento nella struttura organizzativa delle forze armate.

Le modalità secondo le quali oggi gli Stati Uniti conducono le operazioni militari si possono ricondurre a due
linee di tendenza generali riscontrabili nelle guerre combattute in Iraq, Kosovo e Afghanistan:

 Utilizzo dalla lunga distanza di armi di precisione: gli Stati Uniti hanno basato la loro strategia su un
bombardamento iniziale volto a distruggere le difese e i punti nevralgici dell’avversario per
paralizzarne le capacità di difesa e di reazione. L’utilizzo di armi di precisione permette di
minimizzare le perdite e il danno collaterale, ovvero le vittime non volute dei propri attacchi.
 Nei conflitti armati del periodo post-bipolare gli Stati Uniti hanno mostrato un’elevata sensibilità
alle perdite

Il modo in cui gli Stati Uniti oggi combattono è differente rispetto a quello degli altri Stati ed è più efficace
ed efficiente. Questo ha reso l’America virtualmente imbattibile negli scenari di guerra convenzionale.
Tuttavia, nel contesto strategico contemporaneo, difesa e sicurezza non sono più intimamente legate come
in passato. Nel momento in cui gli Stati Uniti trasformavano la propria difesa, una nuova sfida, quella del
terrorismo, metteva in luce quanto fosse aleatoria la loro sicurezza.

Terrorismo internazionale

Rispetto alle organizzazioni terroristiche internazionali, al Qaeda presenta caratteristiche peculiari che la
rendono più pericolosa e resistente all’antiterrorismo. Le quattro risorse principali dell’organizzazione sono:

1. Un’organizzazione fluida
2. Efficaci modalità di reclutamento
3. L’uso dei mass media, soprattutto Internet
4. Una varietà di strumenti per finanziare le proprie attività

Di queste, sono le prime due a costituire un elemento di significativa novità rispetto al passato.

1. Un organizzazione fluida  la struttura di al Qaeda è caratterizzata dalla flessibilità e da deboli legami


tra le varie cellule; funge insomma da catalizzatore tra gruppi diversi. Le varie cellule non sono
necessariamente in posizione subalterna le une rispetto alle altre e mantengono tra loro legami diversi. Il
network contempera al suo interno diversi gradi di comando e controllo tra le unità (cooperazione,
influenza, controllo diretto sulle azioni delle cellule subordinate). Al Qaeda può essere rappresentata come
una nebulosa di cellule collegate tra loro da una molteplicità di legami di diversa natura, e costituisce di
fatto il punto focale di un’organizzazione terroristica ibrida, con legami più o meno saldi con altri gruppi e
freelancer ideologicamente affini. Questo permette al network di estendere facilmente il proprio raggio
d’azione su scala mondiale e di risultare piuttosto resistente alle politiche anti-terrorismo. Le cellule sul
campo mantengono una sostanziale libertà d’azione.

L’ordine internazionale del post-Guerra fredda

Se confrontata con le chiare logiche della Guerra fredda, la configurazione del sistema post-bipolare appare
certamente più indefinita. Alla vigilia del collasso dell’Unione Sovietica, il cambiamento che si prospettava
aveva proporzioni sistemiche: era certo che, venendo meno una delle due super-potenze, il risultato più
immediato sarebbe stato il passaggio dal bipolarismo ad un indefinito momento unipolare.

Tale analisi si sarebbe ben presto scontrata con due problemi:

 Uno di natura empirica  da una parte fenomeni come il perdurare della NATO e dell’egemonia
americana contraddissero le aspettative di quanti pensavano che il momento unipolare sarebbe
stato velocemente rimpiazzato da un nuovo multipolarismo
 L’altro di natura teorica  la definizione stessa del sistema in base alla sola distribuzione di potenza
fu messa in discussione da approcci alternativi, volti ad enfatizzare fattori non materiali, come il
ruolo delle idee e delle identità

Vengono prese in esame tre diverse prospettive.

1. Realismo

Il realismo scorge nella fine della Guerra fredda non un cambiamento del sistema, ma un cambiamento nel
sistema: pur cambiando la polarità, il principio anarchico rimane invariato e prima o poi si innescherà
nuovamente il meccanismo dell’equilibrio di potenza contro l’egemone americano. Le ragioni solitamente
addotte per sostenere l’instabilità dell’unipolarismo sono di due tipi:

 Coerentemente con la teoria dell’equilibrio, si osserva che gli Stati (anche gli alleati dell’egemone)
non possono tollerare un tale divario di potenza, poiché questo potrebbe mettere a repentaglio la
loro stessa sopravvivenza. Dovremmo quindi aspettarci una riconfigurazione dei rapporti di
amicizia-inimicizia.
 Il secondo è ascrivibile alla logica della transizione di potenza: l’egemonia è difficile da mantenere
perché con il passare del tempo i costi legati al suo mantenimento aumentano, mentre i benefici
calano. L’egemone corre il rischio dell’overstretching, ovvero trovandosi costretto ad ampliare il
proprio raggio d’influenza al di là delle sue capacità, finisce per diluire le proprie risorse e perdere la
supremazia. Contemporaneamente, accollandosi i costi per la produzione dei beni pubblici, egli
favorisce gli Stati che si comportano da free-riders, che godono di tali beni senza pagarne il prezzo.

 Il problema di questa teoria è l’indeterminatezza: pur spiegando come e perché l’equilibrio si realizzerà,
non sa dire quando, né sa spiegare le ragioni per cui questo non succede.

Alcuni studiosi hanno ricercato le cause del mancato balancing nell’eccezionalità dell’egemonia americana:

 da un punto di vista strategico, non è possibile controbilanciare il potere degli Stati Uniti perché non c’è
alleanza che possa sfidare la sua potenza militare
 ispirandosi all’istituzionalismo neoliberale, alcuni studiosi ritengono gli Stati Uniti un egemone benevolo.
Il problema di ogni egemone è trasformare il proprio primato in un ordine permanente: l’eccezionalità
americana consiste nella capacità di porsi in relazione agli altri Stati come un egemone liberale, capace di
coinvolgere e convincere i propri alleati piuttosto che dominarli e in grado di fornire beni pubblici che
altrimenti non verrebbero prodotti, come la stabilità del sistema politico-economico internazionale. In
sostanza, l’equilibrio di potenza non si pone, perché gli Stati Uniti hanno reso il bandwagoning e il ricorso
alle istituzioni internazionali più conveniente del balancing.

 Infine una terza motivazione del protrarsi del momento unipolare viene presa a prestito dalla teoria
dell’«equilibrio della minaccia» di Waltz: gli Stati non si alleano contro chi ha una potenza maggiore, ma
contro chi viene percepito come più minaccioso; per quanto la potenza sia una componente essenziale
della minaccia, quest’ultima è definita da altri due fattori: la prossimità geografica e l’aggressività. Gli Stati
Uniti non costituirebbero una minaccia in virtù dell’assenza degli altri due caratteri.

 A livello sistemico la prospettiva realista scorge come grande linea di frattura l’ineluttabile tensione tra
egemone e potenziali sfidanti; tensione che, prima o poi, porrà fine al momento unipolare.

2. Prospettiva “ideazionale”

La seconda prospettiva mantiene il dato della potenza in secondo piano, mentre l’elemento che caratterizza
il sistema internazionale viene indicato nel fattore ideazionale, ovvero l’importanza che le idee e la cultura
rivestono nel definire i legami d’identità.

 Fukuyama trova come elemento caratterizzante del sistema post-bipolare i principi della democrazia
liberale: con la vittoria sull’Unione Sovietica, l’Occidente sanciva la superiorità del sistema di idee proprio
della democrazia e del capitalismo. Il globo risultava così diviso tra un’avanguardia di Stati che di questo
principio si erano fatti campioni e il resto del mondo, che prima o poi sarebbe stato costretto ad adeguarsi.
Fukuyama sostiene che con la vittoria della democrazia liberale si sia raggiunta la fine della storia;
rifacendosi al pensiero hegeliano, Fukuyama postula che la storia non sia data soltanto dallo scontro delle
forze materiali, ma soprattutto da idee alternative volte rispondere all’esigenza centrale di ogni individuo,
ovvero il bisogno di riconoscimento. In una società caratterizzata dal riconoscimento universale e reciproco,
la brama che aveva messo in moto il processo storico, e cioè la lotta per questo riconoscimento, era stata
soddisfatta. Nel mondo delle idee, la democrazia ha portato la storia al suo traguardo ultimo. Nel mondo
reale questo traguardo non è però ancora stato conseguito, ma ciò non costituisce un motivo di
preoccupazione per Fukuyama: anche gli Stati più riottosi saranno alla fine costretti ad abbracciare la
democrazia, semplicemente per l’assenza di altre idee che ne possano sfidare la superiorità. Le uniche
alternative sono costituite dalla religione e dal nazionalismo, ma l’autore ne minimizza la capacità di
opporsi alla democrazia.

 La mappa geopolitica di Fukuyama è raffigurata come un baluardo di democrazie che funge da polo
d’attrazione per altri Stati; all’interno del club democratico la possibilità della guerra è esclusa, poiché tra
Stati democratici vige la trasposizione delle controversie in chiave meramente economica o diplomatica. La
linea di frattura rimane invece tra democrazie e Stati non democratici.

 Per Huntington l’elemento ideazionale è rilevante quanto quello materiale, ma l’Occidente, lungi dal
costituire una fonte d’attrazione, diventerà un bersaglio per le altre identità culturali. Anche in questo caso
lo Stato costituisce un attore secondario, che viene trasceso all’interno di più ampie civiltà tra loro in
competizione per preservare o imporre la propria identità. Le civiltà sono identificate da fattori quali una
lingua, una civiltà e una religione comuni. Secondo Huntigton lo scontro tra civiltà è inevitabile e ci sono
diverse spinte in questo senso:

 La crescente interazione dovuta alla globalizzazione: le forze della modernizzazione costituiscono


una sfida ed una fonte di incertezza per la vita quotidiana delle persone che si trovano a dover
scegliere tra questa e la tradizione, la religione e le proprie radici dall’altra parte.
 La presenza sempre più invadente della cultura occidentale in altre parti del mondo: il tentativo di
diffondere e universalizzare i principi della democrazia e del liberalismo produrrà un rigetto nelle
altre civiltà

Nonostante alcuni abbiano scorto nell’ascesa di al Qaeda una riprova dello scontro tra civiltà, questa lettura
del terrorismo è fuorviante, in quanto l’obiettivo di Bin Laden non è la vittoria dell’Islam sull’Occidente,
bensì l’imposizione di una sua particolare visione del Corano ai regimi musulmani “apostati”. Oltretutto i
sistemi di idee, difficilmente riescono a costituire il fondamento di un’identità o di un progetto politico
coerenti.

3. La frammentazione

Le prospettive d’analisi presentate finora mantengono più o meno esplicitamente l’idea che il sistema
internazionale sia ancora unitario e diffuso su scala globale. L’idea di frammentazione contesta questo
assunto; i seguenti fenomeni empirici vengono solitamente additati come indicatori della frammentazione:

 L’incremento del numero di Stati a partire dalla fine della Guerra fredda, principalmente come
risultato dello smembramento di alcuni paesi. Il numero stesso delle unità costituisce, secondo
questa teoria, una proprietà strutturale da tenere in considerazione, a prescindere dalla polarità del
sistema.
 La maggiore interconnessione del sistema internazionale: ogni cambiamento in un’area geopolitica
o in relazione a una determinata questione produce cambiamenti in altre aree, anche distanti
geograficamente. Data l’alta sensibilità del sistema internazionale, è più probabile che controversie
o crisi regionali assumono una dimensione globale.
 La presenza di attori non statali: l’eterogeneità degli agenti pone una seria sfida ai principi di
funzionamento della comunità internazionale, in primo luogo alle regole che limitano l’utilizzo della
violenza.

I tentativi di teorizzare la frammentazione sono quanto mai variegati, e nessuno può dirsi definitivo.

 Cooper scorge tre diverse modalità di funzionamento (tre mondi) all’interno del sistema internazionale
non più integrato.

 Il mondo moderno opera conformemente ai principi del sistema westfaliano: si basa su Stati
burocratizzati che perseguono il proprio interesse nazionale massimizzando la loro potenza (Stati
Uniti, Cina, Iran etc.)
 Il mondo post-moderno, nel quale il problema dell’anarchia è stato superato: la possibilità di far
ricorso alla guerra è pressoché esclusa, le preoccupazioni principali si concentrano sulla crescita
economica, sul commercio e sulla redistribuzione della ricchezza, mentre l’accrescimento
territoriale, la potenza e i problema della sicurezza, passano decisamente in secondo piano (Unione
Europea)
 Il mondo pre-moderno comprende le ampie regioni del globo in cui lo Stato è presente nella forma
ma non nella sostanza: gli Stati falliti, ovvero quegli Stati in cui l’autorità centrale non riesce a
realizzare un controllo effettivo e duraturo sul territorio. Il problema di questi Stati è la guerra civile
(Somalia, Afghanistan, Congo etc.)

 L’utilità di questo approccio risiede nella parsimonia con la quale riesce a cogliere aspetti politicamente
rilevanti dell’eterogeneità tra attori statali nel sistema internazionale. Ciononostante, rimangono
significative connessioni tra le tre zone: la sicurezza del mondo post-moderno si fonda in gran parte sulla
protezione garantita dagli Stati Uniti; i problemi del mondo pre-moderno possono avere un impatto
significativo tanto sul mondo moderno quanto su quello post-moderno (terrorismo e flussi migratori).
Infine, alcune potenze, come gli Stati Uniti, si comportano nei confronti dell’Europa come se facessero
parte del mondo post-moderno, mentre con gli altri paesi adottano un atteggiamento tipico da Stato
moderno.

 Buzan e Waever ritengono che, per quanto abbia ancora senso parlare di un singolo sistema
internazionale, è possibile individuare diversi sotto-sistemi a livello regionale (Regional Security Complexes,
RSC). All’interno di ogni RSC gli Stati istituiscono una fitta rete di interazioni relative alla sicurezza, mentre al
di fuori di essi mantengono relazioni deboli e sporadiche. A questa tendenza si contrappone la presenza di
alcuni Stati che hanno risorse sufficienti a scavalcare i confini regionali: le superpotenze e le grandi potenze.
Le superpotenze (Stati Uniti) si caratterizzano per la capacità di esercitare la propria potenza in modo
determinante su scala globale: sono superiori per ricchezza economica e dotazioni militari rispetto a
qualsiasi altro Stato. Le grandi potenze (Cina, Unione Europea, Giappone e Russia) non possono vantare
una forza analoga, ma si distinguono dalle potenze regionali per la capacità di proiettare la propria
influenza in più di una regione.

 La capacità americana di plasmare il mondo risulta in questa visione vincolata da più fattori, come la
presenza di centri di potere alternativi e la complessità delle interazioni a livello regionale in cui la
superpotenza si trova invischiata.

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