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Omogeneità politica
e pluralismo conflittuale:
il concetto di democrazia
in Carl Schmitt e Hans Kelsen
di Antonino Scalone

.
Democrazia e crisi istituzionale
Le vicende politico-istituzionali della repubblica di Weimar rivestono un
grande interesse non solo per lo storico: nei convulsi e drammatici anni che
vanno dalla rivoluzione dei consigli al cancellierato hitleriano si sviluppa un
dibattito teorico che, partendo dalla situazione costituzionale concreta e dai
suoi problemi , mette a tema l’intera concettualità politica moderna, ponen-
done in luce contraddizioni e aporie. Infatti, se fra i giuristi e i politologi è lar-
gamente diffusa la consapevolezza della crisi dello Stato liberale del XIX se-
colo, del quale da più parti si annuncia il tramonto in favore dello Stato tota-
le , in pari tempo si avverte e si paventa la possibilità della definitiva «disso-
luzione dello Stato moderno»  e dell’apparato categoriale che l’ha prodotto .
È la stessa Costituzione della repubblica, frutto compromissorio di una
contrattazione fra parti , a suscitare in primo luogo la riflessione teorica. In-
fatti, la nuova carta pone al centro del processo di formazione della volontà
politica il Parlamento , ma accanto ad esso prevede la presenza forte di un
presidente della Repubblica eletto dal popolo e robuste iniezioni di demo-

. Si tratta, come è stato giustamente osservato, non solo di une penseé de crise, ma so-
prattutto di une pensée de la crise, vale a dire «un pensiero il cui oggetto stesso è di riflettere
su una situazione percepita come insopportabile e di disegnarne le possibili uscite» (J. F. Ker-
vegan, Présentation a AA.VV., Crise et pensée de la crise en droit. Weimar, sa république et ses
juristes, ENS, Lyon , p. ).
. Cfr. C. Galli, Strategie della totalità. Stato autoritario, Stato totale, totalitarismo nella
Germania degli anni trenta, in “Filosofia politica” XI, , , pp. -.
. G. Leibholz, L’essenza della rappresentazione (), trad. it. in Id., La rappresentazio-
ne nella democrazia, Giuffrè, Milano , p. .
. Nota a questo proposito G. Duso, La rappresentanza politica. Genesi e crisi del concet-
to, Franco Angeli, Milano , p. : «Non si tratta di una semplice e indolore trasforma-
zione degli assetti istituzionali e teorici: il problema è più profondo e radicale e coinvolge lo
stesso statuto della moderna forma politica e dei modi della sua razionalità e giustificazione».
. Cfr. G. E. Rusconi, La crisi di Weimar. Crisi di sistema e sconfitta operaia, Einaudi, To-
rino .
. Si può anzi dire che si tratta del primo ordinamento compiutamente parlamentare
della storia costituzionale tedesca. Sul tema cfr. E. R. Huber, Deutsche Verfassungsgeschichte
 ANTONINO SCALONE

crazia diretta: il referendum e soprattutto le leggi di iniziativa popolare.


Queste, a determinate condizioni, possono essere approvate per via plebi-
scitaria senza passare attraverso la votazione del Parlamento . Il dibattito sul-
la possibilità o meno di conciliare fra loro questi elementi produce così una
serie di analisi sul principio di rappresentanza  – a cui sarebbe innanzitutto
riconducibile il Parlamento – e sul principio d’identità, che si esprimerebbe
nell’elezione del presidente del Reich e negli altri strumenti di democrazia
diretta. Tale riflessione è resa tanto più urgente dalla diffusa percezione del-
l’obsolescenza dell’istituto parlamentare , visto da molte parti non solo co-
me estraneo ai processi reali di decisione politica, ma anche come non più
rispondente alla situazione storico-spirituale dell’epoca .
Un ulteriore importante elemento di complicazione è costituito dal fat-
to che la Costituzione di Weimar prevede un inedito riconoscimento dei di-

seit , Kohlhammer, Stuttgart, , vol. V; M. Stolleis, Geschichte des öffentlichen Rechts
in Deutschland, Beck, München , vol. III; F. Lanchester, Alle origini di Weimar, Giuffrè,
Milano .
. Ciò sulla base dell’art. , comma III della Costituzione, il quale prevede l’indizione
di un referendum su una proposta di legge di iniziativa popolare presentata da un decimo
degli aventi diritto al voto. Il referendum non ha luogo solo se il parlamento recepisce senza
modifiche il progetto di legge. Sull’argomento cfr. C. Schmitt, Referendum e iniziativa popo-
lare (), trad. it. in Id., Democrazia e liberalismo, Giuffrè, Milano , p. : «Nel caso
dell’art.  comma  [...] il popolo (l’ambiguità di questa espressione è ancora da discutere)
diventa qui produttivo come legislatore». E poco più avanti aggiunge: «Qui dall’inizio sino
alla fine di una procedura legislativa il “popolo” diventa immediatamente attivo come por-
tatore del potere legislativo e spinge in disparte gli organi legislativi ordinari» (ivi, p. ).
. Sull’argomento cfr. Leibholz, L’essenza della rappresentazione, cit.; H. Heller, La so-
vranità. Contributo alla teoria del diritto dello Stato e del diritto internazionale (), trad. it.
in Id., La sovranità ed altri scritti sulla dottrina del diritto e dello Stato, Giuffrè, Milano .
. Uno dei momenti essenziali di questo dibattito è costituito dalle analisi svolte da Max
Weber: Sul punto cfr. M. Weber, Parlamento e governo nel nuovo ordinamento della Ger-
mania (), trad. it. in Id., Parlamento e governo e altri scritti politici, Einaudi, Torino ,
pp. -.
. Cfr. C. Schmitt, Die geistesgeschichtliche Lage der heutige Parlamentarismus (La si-
tuazione storico-spirituale del parlamentarismo odierno), Duncker & Humblot, München-
Leipzig  che costituisce un punto fermo della discussione sull’argomento, anche se da
un punto di vista fortemente werorientiert. La critica al parlamentarismo è comunque un
atteggiamento non isolato all’interno della Staatslehre weimariana. Significativa la posizio-
ne di R. Smend che nel suo Costituzione e diritto costituzionale (), trad. it. Giuffrè, Mi-
lano , p. , nega al parlamentarismo il carattere di Staatsform: «La forma liberale di
Stato, cioè il parlamentarismo, non è una forma di Stato poiché uno Stato non può essere
fondato né sulla sola integrazione funzionale né, parimenti, solo su quella materiale». Per
una difesa, comunque disincantata, dell’istituto e della sua perdurante validità, oltre natu-
ralmente a Kelsen, cfr. G. Radbruch, Die politische Parteien im System des deutschen Ver-
fassungsrechts, in G. Anschütz, R. Thoma (hrsg.), Handbuch des deutschen Staatsrechts,
Mohr, Berlin , vol. I, pp. -; R. Thoma, Sinn und Gestaltung des deutschen Parla-
mentarismus, in B. Harms (hrsg.), Recht und Staat im neuen Deutschland, Hobbing, Berlin
, vol. I, pp. -; E. Fraenkel, Democrazia collettiva (), trad. it. in G. Arrigo, G. Var-
daro (a cura di), Laboratorio Weimar. Conflitti e diritto del lavoro nella Germania prenazista,
Edizioni Lavoro, Roma , pp. -.
. OMOGENEITÀ POLITICA E PLURALISMO CONFLITTUALE 

ritti sociali tramite una vera e propria costituzionalizzazione del lavoro : que-
sta circostanza pone, infatti, nuovi radicali problemi riguardo al rapporto che
si deve istituire fra il momento dell’unità politica e quello delle rappresen-
tanze parziali: partiti, sindacati e associazioni d’interesse. La difficoltà di con-
ciliare questi due aspetti della Verfassung produrrà un vivace e polemico di-
battito sul tema del pluralismo e, di nuovo, sul concetto di rappresentanza .
Tutti questi aspetti – che compongono un quadro politico-istituziona-
le estremamente problematico e per molti versi eccezionale – ritornano,
compendiati e radicalmente complicati, nelle riflessioni, fra loro radical-
mente divergenti, di Schmitt e Kelsen sul concetto di democrazia. Esse
vengono sviluppate in varie opere nel corso degli anni Venti e culminano
alla fine del decennio nel grande confronto intorno al tema, decisivo per le
sorti della Repubblica, del custode della costituzione .

.
Carl Schmitt: democrazia come omogeneità
. Secondo Carl Schmitt esiste una differenza radicale, anzi, una vera e
propria contrapposizione (Gegensatz è l’espressione che egli usa) fra par-
lamentarismo e democrazia. Il primo è fondato sui principi di discussione
e pubblicità , il secondo su omogeneità  e identità, anzi, su “una serie di

. Sull’argomento cfr. Arrigo, Vardaro (a cura di), Laboratorio Weimar, cit.; S. Mezza-
dra, La costituzione del lavoro. Hugo Sinzheimer e il progetto weimariano di democrazia eco-
nomica, in “Quaderni di Iniziativa sociale”, , , pp. -; S. Mezzadra, Costituzionaliz-
zazione del lavoro e stato sociale: l’esperienza weimariana, in AA.VV., Ai confini dello Stato so-
ciale, Manifestolibri, Roma , pp. -.
. Oltre ai saggi citati nelle note precedenti, cfr. F. Glum, Der deutsche und französi-
schen Reichwirtschaftsrat, de Gruyter, Berlin-Leipzig ; G. Leibholz, La dissoluzione del-
la democrazia liberale in Germania e la forma di Stato autoritaria (), trad. it. Giuffrè, Mi-
lano ; E. Kaufmann, Zur Problematik des Volkswillens, in U. Matz (hrsg.), Grundproble-
me der Demokratie, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt .
. Sul rapporto fra Schmitt e Kelsen cfr. E. Sterling, Studie über Hans Kelsen und Carl
Schmitt, in “Archiv für Rechts- und Sozialphilosophie”, XLVII, , pp. -; P. Petta,
Schmitt, Kelsen e il “Custode della costituzione”, in “Storia e Politica”, XVI, , , pp. -
; G. Zarone, Crisi e critica dello Stato: scienza giuridica e trasformazione sociale tra Kelsen e
Schmitt, ESI, Napoli ; W. Mantl, Hans Kelsen und Carl Schmitt, in W. Krawietz, E. To-
pitsch, P. Koller (hrsg.), Ideologiekritik und Demokratietheorie bei Hans Kelsen, Duncker &
Humblot, Berlin , pp. -; M. Fioravanti, Kelsen, Schmitt e la tradizione giuridica del-
l’Ottocento, in G. Gozzi, P. Schiera, Crisi istituzionale e teoria dello Stato in Germania dopo
la prima guerra mondiale, Il Mulino, Bologna , pp. -; C. Galli, Genealogia della poli-
tica. Carl Schmitt e la crisi del pensiero politico moderno, Il Mulino, Bologna , spec. pp.
 ss.; A. Carrino, Scienza e democrazia. Il decisionismo critico di Hans Kelsen, in H. Kelsen,
Sociologia e democrazia, trad. it. ESI, Napoli , spec. pp.  ss.; D. Diner, M. Stolleis (eds.),
Hans Kelsen and Carl Schmitt. A Juxtaposition, Bleicher, Gerlingen .
. Cfr. Schmitt, Die geistgeschichtliche Lage, cit., p. .
. Cfr. ivi, p. ; Id., Referendum e iniziativa popolare, cit., p. .
 ANTONINO SCALONE

identità” . Tale differenza ha potuto rimanere nascosta nel corso della co-
mune lotta contro il monarca assoluto, ma ora, conseguita la vittoria defi-
nitiva, non può più essere celata . Anzi, è proprio l’avvento della demo-
crazia di massa, caratterizzata dalla presenza di grandi partiti organizzati, a
mostrare l’obsolescenza del parlamentarismo: «La situazione del parla-
mentarismo è oggi così critica – scrive Schmitt – giacché lo sviluppo della
moderna democrazia di massa ha ridotto a una vuota formalità la discus-
sione pubblica argomentata [...]. I partiti (che secondo il testo della costi-
tuzione scritta ufficialmente non esistono affatto) si affrontano reciproca-
mente non attraverso opinioni da discutere, ma come gruppi di potere, va-
lutano i reciproci interessi e possibilità di potere e concludono su questo
fondamento fattuale compromessi e coalizioni» . Essi riescono a racco-
gliere nelle loro fila grandi masse grazie a «un apparato propagandistico i
cui massimi risultati si fondano su un appello agli interessi e alle passioni
più elementari» . Ciò risulta assolutamente esiziale per il parlamento:
«L’argomento in senso proprio, che è caratteristico della pura discussione,
scompare. Al suo posto interviene nei negoziati fra partiti il calcolo risolu-
to degli interessi e delle chances di potere; nel trattamento delle masse l’in-
sistente suggestione pubblicitaria» .
Come si è detto, la democrazia, a giudizio di Schmitt, si basa sui prin-
cipi di omogeneità e identità. Il primo si realizza attraverso l’eliminazione
del diverso: «Ogni democrazia reale si fonda sul fatto che non solo l’egua-
le è trattato in modo eguale, ma, come conseguenza inevitabile, che il non-
eguale viene trattato in modo ineguale. Alla democrazia quindi appartiene
necessariamente in primo luogo l’omogeneità e in secondo luogo – all’oc-
correnza – l’esclusione o la distruzione dell’eterogeneo» . E ancora: «La
forza politica di una democrazia si mostra nel saper eliminare o tener lon-
tano l’estraneo e il differente che minacciano l’omogeneità» . Ne conse-
gue che la democrazia non coincide affatto con l’affermazione e il ricono-
scimento dell’universalità dei diritti umani. Tale riconoscimento è piutto-
sto patrimonio del liberalismo e della borghesia e costituisce una delle ra-
gioni della mancanza di energia politica che Schmitt, nella Teologia politi-
ca, rimprovera loro .

. Ivi, p. .


. Ivi, p. .
. Ivi, pp. -.
. Ivi, p. .
. Ibid.
. Ivi, p. .
. Ibid.
. Cfr. Id., Teologia politica (), trad. it. in Id., Le categorie del politico, Bologna, Il
Mulino , p. . Qui Schmitt, riprendendo le parole di Donoso Cortés, definisce la bor-
ghesia clasa discutidora.
. OMOGENEITÀ POLITICA E PLURALISMO CONFLITTUALE 

«L’uguaglianza di tutti gli uomini in quanto uomini – scrive dunque


Schmitt – non è democrazia, ma un determinato tipo di liberalismo, non
forma di Stato, ma morale e concezione del mondo individualistico-uma-
nitaria» . Ora, l’omogeneità non è qualcosa che si dia immediatamente. Al
contrario: «I differenti popoli o gruppi sociali ed economici che si orga-
nizzano “democraticamente”, solo astrattamente hanno il medesimo sog-
getto, il “popolo”. In concreto le masse sono sociologicamente e psicologi-
camente eterogenee» . È per questo che deve intervenire il principio poli-
tico dell’identità, onde trasformare la massa eterogenea in un popolo uni-
to e capace di decisione politica. Lo stesso principio di identità, però, non
si realizza immediatamente, bensì nel corso di un processo di riconosci-
mento e di identificazione. Le identità di cui parla Schmitt – fra «governanti
e governati», fra «soggetto e oggetto dell’autorità statale», infine fra «quan-
titativo (l’immensa maggioranza, o l’unanimità) e il qualitativo (la giustez-
za della legge)»  – risultano sempre prodotte artificialmente: «Tutte queste
identità non sono tuttavia realtà manifesta, ma si fondano su un riconosci-
mento dell’identità. Né giuridicamente, né politicamente, né sociologica-
mente si tratta di qualcosa di realmente eguale, ma di identificazioni» . In
questa circostanza si manifesta però anche un limite insuperabile della de-
mocrazia:

Ciò che si indica come tendenze e istituzioni della democrazia diretta e ciò che, co-
me già detto, è dominato del tutto dall’idea di un’identità, è certo conseguente-
mente democratico, ma non può mai realizzare un’identità assoluta, immediata, in
realitate presente in ogni momento. Sempre resta una distanza fra l’uguaglianza rea-
le e il risultato dell’identificazione .

Questo vale anche per quell’istituto che – più delle votazioni segrete e in-
dividuali, riconducibili a suo avviso ancora all’orizzonte liberale – Schmitt
ritiene caratterizzare la democrazia diretta: l’acclamatio. Anche qui il po-
polo non si dà in modo immediato, non è realmente presente, bensì si ri-
conosce come tale appunto tramite l’acclamazione del capo e l’identifica-
zione con esso .
Da tutto ciò consegue che l’unità politica è sempre una realizzazione
precaria: essa necessita di un’inesauribile energia politica capace di ridur-
re il molteplice a uno, di emarginare il diverso e costituire una sostanza
omogenea. Si capisce allora la diffidenza – quando non l’aperta ostilità –

. Id., Die geistesgeschichtliche Lage, cit., p. .


. Ivi, p. .
. Ivi, p. .
. Ibid.
. Ivi, pp. -.
. Cfr. Id., Referendum e iniziativa popolare, cit., p. .
 ANTONINO SCALONE

che Schmitt in modo sempre più netto manifesterà nei confronti di partiti
e gruppi d’interesse: essi, infatti, mettono costantemente in forse unità e ca-
pacità politica della compagine statale. Ma su questo punto torneremo più
oltre, con riferimento ad altri contributi schmittiani e principalmente a Il
custode della costituzione. Ciò che per il momento può essere già posto in
luce è la circostanza singolare che per Schmitt la democrazia moderna, la
Massendemokratie, da un lato si fonda sui principi di omogeneità e iden-
tità , ma dall’altro, come si è visto, è l’espressione dello sviluppo dei mo-
derni partiti di massa, cioè di quelle entità che, veicolando ognuno interes-
si consolidati e contrapposti, appaiono piuttosto riconducibili a una con-
cezione della politica di tipo pluralista e conflittuale.

. Sul concetto di democrazia Schmitt ritorna diffusamente in quella che,


come è stato osservato, «per la sua ampiezza rappresenta il monumento, for-
se anche la chiave, del pensiero schmittiano»  nel periodo di Weimar: la
Dottrina della costituzione. In quest’opera egli afferma innanzitutto che «la
democrazia è una forma di Stato che corrisponde al principio di identità» ,
ribadendo in tal modo quanto già sostenuto in Die geistgeschichtliche Lage
der heutigen Parlamentarismus e in Referendum e iniziativa popolare. Indi di-
varica fra loro i concetti di libertà e di eguaglianza: solo il secondo, a suo av-
viso, è tipicamente democratico, mentre il primo «è il principio dello Stato
borghese di diritto, che si aggiunge modificandoli ai principi politico-for-
mali, sia monarchici sia aristocratici sia democratici» . La convinzione del-
la non coincidenza fra democrazia e libertà era già alla base della tesi, soste-
nuta nelle opere precedenti, per cui una dittatura potrebbe essere illiberale,
ma non antidemocratica . Per altro verso, l’eguaglianza non può essere as-
soluta, altrimenti perderebbe il suo specifico carattere politico, quello cioè
di rendere possibile la distinzione fra amico e nemico:

Il concetto democratico di eguaglianza è un concetto politico e si riferisce – come


ogni vero concetto politico – alla possibilità di una distinzione. La democrazia po-
litica non può perciò basarsi sull’assenza di distinzione fra gli uomini, ma solo sul-

. Id., Die geistegeschichtliche Lage, cit., p. : «In quanto democrazia, la moderna de-
mocrazia di massa cerca di realizzare un’identità fra governanti e governati e incontra su que-
sta via il parlamento come un’istituzione non più comprensibile, obsoleta».
. J. F. Kervegan, Carl Schmitt e la crisi della rappresentanza, in “Diritto e Cultura”, IX,
, -, pp. .
. Schmitt, Dottrina della costituzione (), trad. it. Giuffrè, Milano , p. .
. Ivi, p. .
. Id., Die geistgeschichtliche Lage, cit., p. : «Per contro, bolscevismo e fascismo, co-
me ogni dittatura, sono certo antiliberali, ma non necessariamente antidemocratici. Nella sto-
ria della democrazia vi sono alcune dittature, cesarismi e altri esempi di metodi vistosi, inso-
liti per la tradizione liberale dell’ultimo secolo, di formazione della volontà popolare e di
creazione di un’omogeneità».
. OMOGENEITÀ POLITICA E PLURALISMO CONFLITTUALE 

l’appartenenza a un determinato popolo [...]. L’eguaglianza che fa parte dell’es-


senza della democrazia si rivolge quindi solo all’interno e non all’esterno: entro una
comunità statale democratica tutti i cittadini sono eguali .

In questo senso, l’eguaglianza si declina in termini di omogeneità: «L’e-


guaglianza democratica è essenzialmente omogeneità, e precisamente omo-
geneità del popolo. Il concetto centrale della democrazia è il popolo e non
l’umanità» . Anche qui, come si vede, Schmitt riprende formulazioni già
avanzate nelle opere precedenti.
È interessante notare come per Schmitt la nozione di popolo avanzata
nella Dottrina della costituzione abbia una duplice valenza. Da un lato vi è
la nozione “formalizzata” di popolo, inteso come potere costituito che eser-
cita il proprio potere nelle forme e nei modi previsti dalla costituzione, dal-
l’altro vi è quella non formalizzata di popolo inteso come potere costituen-
te, la cui caratteristica è appunto quella di

non essere una grandezza strutturata e non essere mai totalmente strutturabile [...].
Secondo la teoria democratica del potere costituente del popolo, esso – in quanto
titolare del potere costituente – si trova fuori e al di sopra di ogni normativa legi-
slativo-costituzionale .

Questo popolo inteso in senso esistenziale non si manifesta però soltanto


– come si potrebbe immaginare – in circostanze eccezionali quali solleva-
zioni o rivoluzioni. Anzi, secondo Schmitt esso può agire politicamente an-
che all’interno di un ordine costituito, in una situazione politica normale:

Se con la legge costituzionale gli [al popolo] sono demandate talune competenze
(elezioni e votazioni), non è con ciò affatto esaurita e disbrigata la sua importanza e
la sua possibilità di azione politica in una democrazia. Accanto a tutte queste possi-
bilità di azione politica il popolo esiste come grandezza effettiva immediatamente
presente – non mediata da normative in precedenza definite, da prassi e finzioni – .

Il modo in cui il popolo esistenzialmente inteso può manifestarsi pubbli-


camente, cioè può agire come grandezza politica , è, anche qui, l’acclama-
tio. Essa appare qualcosa di diverso e di superiore rispetto alle votazioni, al
referendum e alla legge di iniziativa popolare. Queste sono forme costitu-
zionalmente determinate di manifestazione della volontà che Schmitt in-

. Id., Dottrina, cit., p. .


. Ivi, p. .
. Ivi, p. .
. Ivi, pp. -.
. Ivi, p. : «Popolo è un concetto che diventa esistente solo nella sfera della pubbli-
cità (Öffentlichkeit)».
 ANTONINO SCALONE

tende nell’accezione politicamente depotenziata di “somma di opinioni


private”, assimilabile non tanto alla volontà generale, quanto piuttosto alla
volonté de tous . Ma l’acclamatio non è nemmeno quella del popolo real-
mente presente in piazza, giacché tale eventualità potrebbe forse verificar-
si in un villaggio, non certo in un moderno Stato territoriale. Ecco dunque
che Schmitt pone l’equazione: «L’opinione pubblica è la forma moderna del-
l’acclamazione» .
L’opinione pubblica è quell’ambito politico, ma non istituzionale, in
cui si manifesta il popolo inteso come grandezza costituente: «L’opinione
pubblica nasce e rimane “non-organizzata”; essa sarebbe – come pure l’ac-
clamazione – privata della sua natura, se divenisse una specie di pubblica
funzione» . Ciò nondimeno essa è una grandezza politica assolutamente
fondamentale, al punto che Schmitt può affermare enfaticamente: «Non
c’è nessuna democrazia e nessuno Stato senza opinione pubblica, come non
c’è nessuno Stato senza acclamazione» .
A questo punto Schmitt introduce un elemento sostanzialmente nuo-
vo rispetto alle posizioni espresse nelle opere precedenti. Infatti, riconosce
che questa opinione pubblica così fondamentale è il prodotto dell’azione
di partiti e gruppi d’interesse, cioè di quelle grandezze che per altro verso
gli sembrano minare pericolosamente la compattezza dello Stato. «Essa è
influenzata e anche fatta dai partiti o dai gruppi», scrive. Questi partiti, ana-
logamente al popolo come potere costituente cui danno voce, non posso-
no trasformarsi in organi dello Stato. Ciò significa che sfuggono a ogni con-
trollo e che pertanto in ogni momento possono trasformarsi in un pericolo
per l’unità politica: «In ogni democrazia ci sono sempre partiti, oratori e
demagoghi [...]. Tutto ciò si sottrae a una completa disciplina. Esiste per-
ciò sempre il pericolo che forze sociali invisibili e irresponsabili dirigano la
pubblica opinione e la volontà del popolo» . Ne consegue la necessità di
mantenere in qualche modo l’omogeneità politica e, con essa, la capacità
del popolo di distinguere fra amico e nemico . Ma in che modo ciò è pos-
sibile se il popolo come grandezza costituente necessita per manifestarsi del
medio costituito dai partiti? Infatti, subito dopo averne denunciato i peri-

. Ivi, p. .


. Ivi, p. . Il corsivo è nell’originale.
. Ibid.
. Ibid.
. Ivi, p. . Questo pericolo è particolarmente grave se alla base della costituzione
vi sono – come nel caso della repubblica di Weimar – compromessi fra parti. Sul «caratte-
re compromissorio della costituzione di Weimar» cfr. Schmitt, Dottrina della costituzione,
cit., pp.  ss.
. Ibid.: «Finché è ancora presente l’omogeneità democratica della sostanza e il popo-
lo ha consapevolezza politica, cioè può distinguere l’amico e il nemico, il pericolo non è gran-
de. Se cadono questi presupposti sostanziali della democrazia, in tal caso non è d’aiuto nes-
suna organizzazione e nessuna disciplina legislativa».
. OMOGENEITÀ POLITICA E PLURALISMO CONFLITTUALE 

coli, Schmitt è costretto ad ammettere l’imprescindibilità dei partiti: «Non


c’è nessuna democrazia senza partiti, ma solo perché non c’è nessuna de-
mocrazia senza opinione pubblica e senza il popolo sempre presente» .
Alla necessità di governare una situazione nella quale i partiti sono a un
tempo strumento necessario di democrazia e possibile elemento di disgre-
gazione va probabilmente ricondotta l’enfasi con cui nella Dottrina della co-
stituzione Schmitt afferma l’intrascendibilità del principio rappresentativo.
Certo, egli individua nell’identità e nella rappresentazione i due distinti
principi costitutivi della forma politica, l’uno proprio della democrazia e
l’altro della monarchia. Subito dopo, però, sfuma questa contrapposizione,
affermando risolutamente: «Nella realtà della vita politica esiste tanto po-
co uno Stato che possa rinunciare agli elementi strutturali del principio di
identità, quanto poco uno Stato che possa rinunciare agli elementi struttu-
rali della rappresentanza» . In effetti i due principi non stanno sullo stes-
so piano, ma esiste una sorta di primato della Repräsentation sull’Identität:
«Non c’è nessuno Stato senza rappresentanza – scrive Schmitt – poiché non
c’è nessuno Stato senza forma di Stato e alla forma spetta essenzialmente la
rappresentazione dell’unità politica» . Essa è intesa hobbesianamente co-
me rappresentazione personale , come atto sovrano che crea l’unità poli-
tica, trasformando in questo modo l’informe moltitudo in popolo . Ciò va-
le anche per le forme più radicali di democrazia diretta, non solo perché,
come abbiamo visto, identità è sempre identificazione, trasformazione del-
l’eterogeneo in omogeneo, ma perché anche «in un referendum, in un co-
siddetto plebiscito reale», ovvero là dove «il principio dell’identità è vera-

. Ibid.
. Ivi, p. .
. Ivi, p. . Sul concetto schmittiano di rappresentazione e sulla sua centralità all’in-
terno della riflessione del giurista di Plettenberg, cfr. Duso, La rappresentanza politica, cit.,
spec. i capp. IV e V; A. Adam, Rekonstruktion des Politischen. Carl Schmitt und die Krise der
Staatlichkeit. -, VHC, München , Galli, Genealogia della politica, cit.; A. Scalone,
Diritto, decisione, rappresentanza: il potere in Carl Schmitt, in G. Duso (a cura di), Il potere.
Per la storia della filosofia politica moderna, Carocci, Roma , pp. -.
. Sull’interpretazione schmittiana di Hobbes, con particolare riferimento alla nozione
di Repräsentation, cfr. Schmitt, Scritti su Thomas Hobbes, Giuffrè, Milano , spec. pp. -
. A un’esigenza analoga corrisponde il quasi coevo studio di G. Leibholz, L’essenza
della rappresentazione (), trad. it. in Id., La rappresentazione nella democrazia, cit. An-
che qui viene affermata la crucialità della rappresentazione. Essa è ricondotta esplicita-
mente al precedente hobbesiano (ivi, p. ) e appare orientata essenzialmente ad esprime-
re l’unità: «Nella sfera politica, il popolo può essere rappresentato sempre e soltanto come
ideale interezza, cosicché diventa comprensibile anche perché attraverso la rappresentan-
za possono essere fatti valere sempre e solo gli interessi del popolo intero, del “bene co-
mune”, ma non privilegi determinati e diritti di singoli gruppi della popolazione o interes-
si particolari» (ivi, pp. -). La discrepanza fra il concetto classico di rappresentanza e
la realtà costituzionale caratterizzata dalla presenza e dal peso sempre crescente dei parti-
ti di massa viene denunciata da Leibholz come foriera di pericoli per l’unità politica e – co-
me si è detto nel paragrafo introduttivo – per la stessa sopravvivenza della forma-Stato mo-
derna (ivi, p. ).
 ANTONINO SCALONE

mente realizzato al massimo grado» , i cittadini rispondono pur sempre,


con un sì o con un no, a una domanda posta dall’alto, da un’istanza for-
matrice già esistente . Solo all’interno di questa cornice istituzionale e for-
male e solo secondo modalità determinate è allora possibile l’acclamazio-
ne: «Il popolo in quanto grandezza ufficialmente non organizzata può far-
si valere solo in singoli momenti e solo per mezzo dell’acclamazione, ossia
in quanto “pubblica opinione”» .
Il difetto imperdonabile del pensiero liberale, secondo Schmitt, è pro-
prio quello di aver smarrito l’idea della rappresentazione e, con essa, l’e-
nergia politica necessaria a governare con efficacia la tensione che inevita-
bilmente si istituisce fra il popolo inteso come potere costituente, articola-
to nella pluralità dei partiti e delle organizzazioni d’interesse, e il popolo in-
teso come potere costituito.

.
Hans Kelsen:
democrazia come conflitto e compromesso
La posizione di Kelsen appare specularmente opposta a quella di Schmitt:
questi ripropone con forza il concetto hobbesiano di rappresentazione co-
me cardine dell’idea moderna di Stato, enfatizza l’elemento dell’unità po-
litica, vede con sospetto il potere crescente delle parti comunque intese, in-
dividua nel compromesso un pericoloso elemento di disgregazione ; Kel-
sen, invece, critica radicalmente la nozione stessa di Stato, propone il su-
peramento puro e semplice della sovranità, attribuisce ai partiti un ruolo
essenziale nella vita pubblica e interpreta il compromesso come pratica ti-
pica e per nulla patologica del processo politico.
Nonostante la cura con cui il giurista austriaco si premura di separare
la propria riflessione giuridica, scientifica e avalutativa, da quella politica,

. Schmitt, Dottrina della costituzione, cit., p. .


. Scrive ancora Schmitt (ibid.): «Una totale, assoluta identità del popolo di volta in vol-
ta presente con se stesso in quanto unità politica non esiste in nessun luogo e in nessun istan-
te. Ogni tentativo di realizzare una democrazia pura o diretta deve osservare questi limiti del-
l’identità democratica. Altrimenti la democrazia diretta non significherebbe altro che la dis-
soluzione dell’unità politica».
. Ivi, p. .
. Fino a prefigurare l’eventualità estrema della guerra civile. Scrive infatti Schmitt con
riferimento al compromesso fra parti: «Il contratto ha dunque solo il senso di un accordo di
pace fra i gruppi che lo pattuiscono e un accordo di pace ha sempre, che i partiti lo voglia-
no o no, una relazione con la possibilità, sia pure remota, di una guerra. Alla base di questo
tipo di etica contrattuale sta sempre un’etica della guerra civile» (Id., Staatsethik und plura-
listischer Staat (Etica statale e Stato pluralistico), , in Id., Positionen und Begriffe in Kampf
mit Weimar-Genf-Versailles -, Hanseatische Verlagsanstalt, Hamburg , pp. -;
qui p. ).
. OMOGENEITÀ POLITICA E PLURALISMO CONFLITTUALE 

pure la distinzione fra le due sfere appare assai problematica, tanto che
spesso sono proprio le opere giuridiche a rivelare, quasi contro le intenzioni
stesse dell’autore, lo spessore politico dell’argomentazione kelseniana .
Ciò è riscontrabile già nella sua prima grande opera, Problemi fonda-
mentali della dottrina del diritto pubblico, apparsa nel  . Qui, infatti, il
tentativo di realizzare un approccio puramente formale al diritto, depura-
to da ogni commistione con ambiti estranei alla nozione costitutiva di do-
vere, risulta infine essere funzionale a una concezione aperta, orizzontale e
conflittuale della politica. Certo, il diritto è una sfera autonoma, incentra-
ta sulla nozione di Sollen e pertanto radicalmente contrapposta alle proce-
dure tipiche delle scienze naturali. Ma questa sterilizzazione, per così dire,
dell’ambito giuridico – realizzata attraverso una brillantissima critica della
dottrina giuridica dominante e delle sue compromissioni tanto disciplinari
quanto ideologiche – mira a renderlo del tutto trasparente e permeabile ri-
spetto alla mutevole conformazione dei rapporti politici di forza.
In questo senso vanno interpretati gli sforzi che Kelsen conduce al fi-
ne di distinguere la norma giuridica dalla legge naturale  e dalla legge mo-
rale , nonché l’irriducibilità dell’approccio normativo a quello causale e
a quello – apparentemente affine – di tipo teleologico . Ma in questo sen-
so va soprattutto interpretato lo sforzo di espungere dalla sfera del diritto
la nozione di volontà in senso psicologico. «La localizzazione del punto di
imputazione “volontà” – scrive Kelsen – non deve risultare necessaria-
mente nell’interiorità dell’“essere umano”; l’unità etico-giuridica della
persona non deve affatto coincidere sempre con quella zoologico-psicolo-
gica. Bisogna sottolineare con forza che è a discrezione della norma con-
ferire la qualità di persona o di volontà al singolo essere umano» . Ciò ap-
pare con chiarezza qualora si ponga mente alla distinzione giuridica fra
persone fisiche e persone giuridiche, o alla presenza degli schiavi nel di-

. Di tale politicità è ben cosciente lo stesso Schmitt che in I tre tipi del pensiero giuri-
dico (), trad. it. Giappichelli, Torino , pp. - scrive: «Per il normativista puro, il
quale ritorna sempre ad una norma quale suo fondamento giuridico di pensiero, re, capo
[Führer], giudice, Stato diventano mere norme-funzioni ed il rango superiore nella gerarchia
di queste istanze è soltanto effetto della norma superiore [...] In concreto, con ciò non si rag-
giunge altro se non che la norma o la legge vengano giocate in modo polemico-politico con-
tro il re o il capo [Führer]; la legge distrugge con questo “governo della legge” il concreto or-
dinamento del re o del capo; i signori della lex sottomettono il rex. Ciò è per lo più anche la
concreta intenzione politica di un siffatto gioco normativistico della lex contro il rex».
. Sulle prime opere kelseniane e in particolare sui Problemi fondamentali, cfr. S. L.
Paulson, Konstruktivismus, Methodendualismus und Zurechnung im Frühwerk Hans Kelsens,
in “Archiv des öffentlichen Rechts”, CXXIV, , pp. -.
. Cfr. H. Kelsen, Problemi fondamentali della dottrina del diritto pubblico (), trad.
it. ESI, Napoli , pp. -.
. Cfr. ivi, pp. -.
. Cfr. ivi, pp. -.
. Ivi, p. .
 ANTONINO SCALONE

ritto antico . Mentre «la volontà della psicologia è un fatto accertabile em-
piricamente con l’auto-osservazione», quella giuridica e morale – scrive
Kelsen – «è una costruzione fatta dal punto di vista della norma, del dove-
re, una costruzione cui nella vita psichica reale dell’individuo non corri-
sponde alcun evento concreto» .
Se non è possibile parlare di volontà in senso psicologico a proposito
della persona, a maggior ragione non si potrà farlo, pena un inammissibile
antropomorfismo, per quell’entità eminentemente fittizia costituita dallo
Stato: «L’evento ideale consistente nel ritenere la volontà degli organi sta-
tali – concepita come unità – come volontà unitaria dell’intero popolo sta-
tale costituisce comunque – finché si considera la volontà in linea di prin-
cipio come un fatto psichico – una finzione inammissibile» . Qui avviene
la rottura nei confronti della tradizione giuridica precedente e delle opzio-
ni politiche in essa contenute. Si tratta, come è stato giustamente osserva-
to, di «una vera e propria demolizione del concetto di “Stato” dominante
nella dottrina giuridica dell’Ottocento»  e in particolare della dottrina jel-
linekiana dell’auto-obbligazione dello Stato. Quest’ultima si fonda sul fat-
to che, se si immagina lo Stato come persona, bisogna allora necessaria-
mente immaginare una procedura attraverso la quale esso si limiti, sotto-
mettendosi alla legge da esso stesso posta. Jellinek, ricorda Kelsen, pone al-
lora un’analogia fra obbligazione giuridica e obbligazione morale: «L’uomo
che si sottomette al suo proprio comando sembra effettivamente essere
un’immagine dello Stato, che viene obbligato dalle sue proprie leggi» . In
realtà le cose non stanno così, sol che si pensi che «l’obbligo giuridico è
qualcosa di diverso da un obbligo morale» e non è in nessun modo ricon-
ducibile ad esso giacché questo presuppone necessariamente «una psiche
individuale e una volontà individuale» .

. Cfr. ivi, p. .


. Ibid.
. Ivi, p. . A p.  si legge: «È una crassa finzione considerare il popolo dello Stato
come una comunità spirituale che produce una volontà collettiva nel senso della psicologia
dei popoli [...]. Che la manifestazione di volontà della maggioranza dei parlamentari si iden-
tifichi con la volontà dell’intero popolo dello Stato è una finzione giuridica, insostenibile dal
punto di vista della psicologia [...]. O si crede veramente che il contenuto delle numerose e
complicate leggi nelle quali viene espressa la volontà dello Stato moderno sia depositato nel-
la comune tendenza della volontà di tutti i cittadini, che però delle norme di queste leggi, an-
zi spesso proprio della loro tendenza generale, non hanno alcuna idea? Possono veramente
questi cittadini – da un punto di vista psicologico – aver voluto qualcosa di cui non avevano
alcuna idea?».
. Fioravanti, Kelsen, Schmitt e la tradizione giuridica dell’Ottocento, cit., p. . Per una
comprensione dei rapporti complessi fra Kelsen, il pensiero giuridico e, più in generale, la
cultura del suo tempo, cfr. A. Carrino, L’ordine delle norme. Stato e diritto in Hans Kelsen,
ESI, Napoli .
. Kelsen, Problemi fondamentali, cit., p. .
. Ibid. Su questo punto, Kelsen si rifà a A. Hold von Ferneck, Die Rechtswidrigkeit,
Gustav Fischer, Jena -.
. OMOGENEITÀ POLITICA E PLURALISMO CONFLITTUALE 

Ora, se il diritto non è riconducibile a una volontà statuale preesistente,


Stato e diritto dovranno necessariamente identificarsi. Scrive infatti Kelsen:

Bisogna però rifiutare con decisione un siffatto rapporto tra Stato e diritto, per il qua-
le lo Stato è il prius, il diritto il posterius, in quanto uno Stato è tanto poco pensabi-
le senza diritto quanto un diritto senza Stato, e la ricerca storica non può mostrare
gli inizi del diritto e dell’organizzazione statale scissi gli uni dagli altri. Stato e dirit-
to devono indubbiamente essere considerati due lati differenti dello stesso fatto .

L’imputazione non va in nessun modo confusa con una volontà di tipo psi-
chico: dire che «lo Stato, a determinate condizioni, vuole qualcosa di de-
terminato» significa in realtà dire, «più precisamente, che, a determinate
condizioni, determinate azioni di certe persone (degli organi statali), van-
no imputate non a loro, ma allo “Stato”» . D’altronde, l’attribuzione allo
Stato di una personalità e di una volontà di tipo psichico porterebbe a con-
seguenze del tutto contraddittorie: lo Stato potrebbe manifestare nella Ca-
mera bassa una volontà, approvando una legge, e nella Camera alta un’al-
tra volontà bocciando quella medesima legge, oppure «potrebbe nel mo-
narca non voler sanzionare ciò che ha deciso nel parlamento come legge» .
A questo punto del ragionamento fa ingresso la nozione di società: non
lo Stato, ma la società è il prius rispetto alla sfera giuridico-statuale: «Il pro-
cesso legislativo non è una funzione dello Stato o del diritto, è un presup-
posto di entrambi che sta al di fuori dei loro confini» . La società manife-
sta la sua volontà nel processo legislativo, che da Kelsen è dunque indica-
to come funzione sociale: «Se la legislazione non può nemmeno essere qua-
lificata come attività dello Stato, bisogna però che essa venga riconosciuta
senza dubbio come funzione sociale» . Lo Stato è tanto poco autonomo ri-
spetto alla società, da essere qualificato da Kelsen come semplice forma ri-
spetto alla vera sostanza sociale: «Lo Stato è solo una forma della società,
che va pensata come l’elemento sostanziale, come il contenuto di questa
forma» . E questa sostanza si manifesta politicamente, si traduce in vo-
lontà politica appunto nel processo legislativo, inteso come il luogo in cui
la società penetra nella sfera giuridico-politica:

. Ivi, p. .


. Ivi, p. . E poco più avanti Kelsen ribadisce: «Ma come azione dello Stato una
qualche concreta fattispecie (che esteriormente si presenta come azione di un essere umano)
può essere qualificata giuridicamente solo sulla base di una regola di imputazione esistente,
cioè di una proposizione giuridica, per il cui tramite viene espresso il giudizio che c’è una vo-
lontà dello Stato di porre in determinate circostanze questa fattispecie, cioè che certe azioni
di determinate persone devono valere in condizioni stabilite come azioni dello Stato».
. Ivi, p. .
. Ivi, p. .
. Ivi, p. .
. Ibid.
 ANTONINO SCALONE

Tuttavia il rigido involucro – diritto e Stato sono solo prodotti irrigiditi nel flusso
della vita sociale – non è chiuso da tutti i lati. Deve necessariamente esserci un pun-
to in cui la corrente della vita sociale penetra di nuovo nel corpo statale, un luogo
di passaggio dove gli elementi amorfi della società trapassano nelle forme fisse del-
lo Stato e del diritto. È il luogo dove costumi e morale, dove interessi economici e
interessi religiosi diventano proposizioni giuridiche, contenuto della volontà stata-
le: l’atto legislativo .

Merita di essere notato come per Kelsen la società non sia per nulla un cor-
po omogeneo: essa è attraversata da conflitti, divisioni e interessi contrap-
posti, di natura economica, religiosa, morale. Il processo legislativo è il luo-
go in cui questi interessi trovano accomodamento e composizione. Ne con-
segue che la legge non è in nessun modo l’espressione di una volontà su-
periore, trascendente il piano orizzontale dei conflitti e delle divisioni so-
ciali, ma il frutto dell’accordo momentaneo delle parti o del raggiungi-
mento di una più o meno precaria maggioranza. Discutendo le tesi di Rad-
nitsky, che da un lato attribuisce al singolo deputato il ruolo di rappresen-
tante di interessi (Interessenvertreter) e dall’altro riconosce nella delibera
parlamentare presa a maggioranza l’espressione dell’interesse generale del-
lo Stato , Kelsen scrive:

Per quanto riguarda la delibera della maggioranza parlamentare egli presuppone


però stranamente come ovvio che essa sia stata emanata nell’interesse di tutto lo
Stato! Questa, però, è chiaramente una finzione, assolutamente priva di giustifica-
zioni! Se, infatti, la maggioranza dei gruppi presenti in parlamento ha un interesse
collettivo e vi dà espressione attraverso una delibera di maggioranza, esso resta, pri-
ma come ora, un interesse sociale particolare .

E poco più avanti: «Non c’è per l’appunto alcun “interesse collettivo”, ma
sempre solo interessi di gruppi che conquistano per sé in qualche modo il
potere statale, la volontà dello Stato» . Non solo: nella stessa divisione fra
Camera bassa e Camera alta si riflette la differenza fra interessi di classe ra-
dicalmente contrapposti ; infine, lo stesso monarca, il cui intervento è ne-
cessario per sanzionare la legge approvata dai due rami del Parlamento, può

. Ibid.
. Cfr. H. Radnitzsky, Das Wesen der Obstruktionstaktik, in “Grünhuts Zeitschrift für
das Privat- und öffentlichen Recht der Gegenwart”, XXXI, pp.  ss.
. Kelsen, Problemi fondamentali, cit., p. .
. Ibid.
. Ivi, pp. -: «Il sistema bicamerale presenta un quadro chiaro dei conflitti di clas-
se e di interesse del popolo. Nella camera alta e nella camera bassa sono rappresentati grup-
pi sociali differenti, che si sforzano di far valere i loro interessi particolari per il tramite del-
la partecipazione loro concessa alla formazione della volontà statale. È soltanto l’interesse
particolare di un gruppo sociale più grande o più piccolo o di più gruppi sociali che trova di
fatto espressione nella delibera della camera alta o della camera bassa».
. OMOGENEITÀ POLITICA E PLURALISMO CONFLITTUALE 

essere guidato nella sua azione dal «proprio interesse personale, familiare o
dinastico» . A questo punto appare evidente che se interessi particolari ven-
gono presentati come interesse generale, se allo Stato vengono attribuiti so-
stanza politica e volontà superiore, è solo per finalità meramente politiche:

Si può perciò dire che si tratta di una finzione quanto mai superflua e inammissi-
bile, se scopi e interessi delle classi dominanti vengono spacciati come scopi col-
lettivi e interessi collettivi; ed è solo il bisogno di giustificazione etico-politica che
bisogna riconoscere quale senso e fondamento di questa finzione giuridicamente
del tutto irrilevante! 

La polemica nei confronti della sostanzializzazione dello Stato e del con-


cetto di interesse generale continuerà ininterrotta nelle opere successive, né
gli aggiustamenti introdotti da Kelsen alla propria dottrina, innanzitutto at-
traverso l’adozione del punto di vista dinamico mutuato da Merkl, deter-
mineranno da questo punto di vista mutamenti decisivi .

Se si strappa la maschera dal volto degli attori che sul teatro politico recitano il
dramma sociale o religioso – scrive Kelsen in Dio e Stato – allora non è più Dio che
premia o punisce, non è più lo Stato che condanna e fa la guerra, ma sono uomini
che costringono altri uomini, è il signor X che trionfa sul signor Y, o una bestia che
appaga la sua rinnovata sete di sangue .

La giurisprudenza mira proprio a superare questa sostanzializzazione, a


procedere oltre la maschera. Per il concetto giuridico di Stato vale quanto
detto da Feuerbach per la nozione teologica del Dio-persona:

E così come egli [Feuerbach] ha mostrato come del tutto superfluo il concetto di
un dio che vincolato alle leggi della natura governava solo secondo le leggi natura-
li, così anche un concetto dello Stato i cui atti sono possibili solo come atti giuridi-
ci si dimostra superfluo; significherebbe, infatti, volerlo lasciar sussistere come
espressione dell’unità dell’ordinamento giuridico .

Dichiarando la superfluità teorica della nozione di Stato, compiendo cioè


un’operazione scientifica, la dottrina pura del diritto compie però al tempo
stesso un’operazione politica:

. Ivi, p. .


. Ivi, p. .
. Su tali mutamenti cfr. innanzitutto la Prefazione alla seconda edizione () dei Pro-
blemi fondamentali, cit., pp. -. Cfr. altresì il Saggio introduttivo di M. G. Losano a Kel-
sen, La dottrina pura del diritto (), Einaudi, Torino , pp. XIII ss.
. Kelsen, Dio e Stato (-), trad. it. in Id., Dio e Stato. La giurisprudenza come scien-
za dello spirito, ESI, Napoli , p. .
. Ivi, p. .
 ANTONINO SCALONE

La dottrina che interpreta lo Stato come ordinamento giuridico vigente nel suo
contenuto sempre mutevole e sempre modificabile e non lascia così allo Stato nes-
sun altro criterio che quello formale di un supremo ordinamento coercitivo, elimi-
na uno degli ostacoli politicamente più efficaci che in ogni tempo hanno intralcia-
to il cammino di un riforma dello Stato nell’interesse dei governati. Ma proprio per-
ciò questa dottrina si afferma come una teoria pura del diritto, in quanto essa non
fa che distruggere l’abuso politico di una pseudo-teoria dello Stato .

Politica è la dottrina tradizionale, che «con argomenti fondati sull’essenza


dello Stato» si oppone «ad ogni tentativo di trasformare questo ordinamen-
to»; politica è la Reine Rechtslehre in quanto demistifica l’opzione politica
celata dietro le argomentazioni della dottrina giuridica dominante e apre la
strada a una riforma dell’ordinamento in senso democratico. Essa realizza
nel diritto il medesimo processo che si è già realizzato in altri campi scienti-
fici: «Sforzandosi la scienza moderna di risolvere ogni sostanza in funzione,
essa ha gettato a mare da tempo tanto il concetto di anima quanto quello di
forza; la moderna psicologia è diventata una dottrina dell’anima – senza ani-
ma, la moderna fisica una dottrina della forza – senza forza» . Allo stesso
modo, «questa pura teoria giuridica dello Stato, che dissolve il concetto di
uno Stato differente dal diritto, è una dottrina dello Stato – senza Stato» .
Argomentazioni analoghe si ritrovano in alcuni scritti polemici nei qua-
li Kelsen replica a suoi critici più accesi. È il caso di Lo Stato com superuo-
mo , in cui Kelsen polemizza con Alexander Hold-Ferneck, e di Lo Stato
come integrazione, in cui Kelsen discute le tesi avanzate da Rudolf Smend. In
ambedue i casi, Kelsen si sforza di svelare l’opzione politica contenuta nella
difesa da parte di questi giuristi di una nozione “contenutistica” dello Stato
e nel loro rifiuto della riduzione dello Stato a diritto. Il fatto è che, rileva Kel-
sen, l’adozione di una concezione dello Stato puramente formale «potrebbe
scuotere la fede nel potere di quegli uomini che esercitano l’Herrschaft non
tanto in loro nome, ma solo come “organi”, cioè dietro la maschera dello Sta-
to. La dottrina dello Stato e del diritto fino a oggi non ha mai servito solo l’i-
dea della scienza obiettiva, ma sempre anche la politica» . Riprendendo te-
si avanzate già in Dio e Stato sul nesso fra diritto e teologia, Kelsen aggiun-
ge: «Chi nega la “realtà” dello Stato, ne mette in pericolo l’autorità, allo stes-
so modo di chi sminuisce l’autorità di dio, di chi non riconosce in lui una
realtà trascendente, ma solo l’espressione dell’unità del mondo» .

. Ivi, p. .


. Ivi, pp. -.
. Ivi, p. .
. Kelsen, A. Hold von Ferneck, Lo Stato come superuomo. Un dibattito a Vienna, trad.
it. Giappichelli, Torino . Sull’argomento cfr. la nostra Introduzione al volume.
. Kelsen, Der Staat als Integration, Springer, Wien , trad. it. Giuffrè, Milano ,
p.  (modificata). Sull’argomento cfr. A. Scalone, Kelsen critico di Smend, in “Diritto e Cul-
tura”, IX, , -, pp. -.
. Ivi, p. .
. OMOGENEITÀ POLITICA E PLURALISMO CONFLITTUALE 

Egualmente iterate sono le critiche alla nozione di interesse generale e


al principio rappresentativo, indicato come finzione tanto in Allgemeine
Staatslehre (Dottrina generale dello Stato)  quanto in Essenza e valore del-
la democrazia.

Il carattere fittizio dell’idea di rappresentanza – si legge in questo saggio – non ri-


chiamò naturalmente l’attenzione finché durò la lotta della democrazia contro l’a-
ristocrazia [...] Ma non appena il principio parlamentare – in particolare nelle re-
pubbliche – ebbe un completo trionfo, non appena alla monarchia costituzionale
successe la supremazia del Parlamento che invocava il principio della sovranità po-
polare, non poté più sottrarsi alla critica la grossolana finzione contenuta nella teo-
ria – già sviluppata nell’Assemblea Nazionale Francese del  – secondo la qua-
le il Parlamento, nella sua essenza, non sarebbe altro che un rappresentante del po-
polo, la cui volontà si esprimerebbe soltanto negli atti parlamentari .

In realtà il Parlamento è il luogo nel quale confliggono, si confrontano e in-


fine giungono a un compromesso gli interessi organizzati nei quali una so-
cietà complessa necessariamente si articola: «Tutta la procedura parlamen-
tare tende a creare un medio termine fra gli interessi opposti, una risultan-
te delle forze sociali di senso contrario» . Né tale accordo va confuso con
un fantomatico interesse generale:

E se la caratteristica procedura dialettico-contraddittoria parlamentare ha un sen-


so alquanto profondo, tale senso potrà essere soltanto quello di fare della tesi e del-
l’antitesi degli interessi politici, in qualsiasi modo, una sintesi. Ma ciò può signifi-
care soltanto una cosa: non – come lo si sottintendeva, a torto, confondendo la
realtà del parlamentarismo con la sua ideologia – una verità superiore, assoluta, un
valore assoluto superiore agli interessi dei gruppi, ma un compromesso .

Quello che per Schmitt è l’anticamera della guerra civile, diventa in Kelsen
procedura del tutto normale. La presenza di partiti organizzati non solo
non minaccia l’unità politica, ma è un elemento essenziale di partecipazio-
ne alla sfera pubblica: Kelsen scorge infatti nei partiti «uno degli elementi
più importanti della democrazia reale» giacché, raggruppando «gli uomini
di una stessa opinione», essi rendono possibile «un effettivo influsso sulla
gestione degli affari pubblici» . Nella polemica antipartitica Kelsen vede
invece un riflesso autoritario e la difesa corporativa di privilegi determina-
ti: «L’ostilità alla formazione dei partiti e quindi, in ultima analisi, alla de-
mocrazia, serve – consciamente o inconsciamente – a forze politiche che

. Cfr. Kelsen, Allgemeine Staatslehre, Springer, Berlin , p. .


. Id., Essenza e valore della democrazia (), trad. it. in Id., La democrazia, Il Muli-
no, Bologna , p. .
. Ivi, p. .
. Ivi, pp. -.
. Ivi, p. .
 ANTONINO SCALONE

mirano al dominio assoluto degli interessi di un solo gruppo e che, nello


stesso grado in cui non sono disposte a tener conto degli interessi opposti,
cercano di dissimulare la vera natura degli interessi che essi difendono, sot-
to la qualifica di interesse collettivo» .
Ma nonostante questa sua concezione orizzontale e agonistica della de-
mocrazia, nonostante la polemica reiterata nei confronti della rappresen-
tanza e dell’interesse generale, Kelsen non si fa assertore della democrazia
diretta.
Nell’Allgemeine Staatslehre, all’interno di una classificazione delle va-
rie forme di Stato , egli distingue fra democrazia immediata o diretta e de-
mocrazia rappresentativa. La prima trova la sua realizzazione nella polis an-
tica, almeno «fintantoché la volontà statale è prodotta immediatamente dai
cittadini riuniti tramite deliberazioni a maggioranza» . Ma anche qui essa
appare limitata e condizionata dal verificarsi di situazioni particolari, qua-
li la guerra, suscettibili d’imporre l’adozione di «un rigido principio auto-
cratico» . In ogni caso – scrive Kelsen – nella situazione costituzionale pre-
sente non si può più parlare di democrazia diretta, giacché questa presup-
pone comunità molto ristrette e un grado di differenziazione sociale e cul-
turale poco elevato: «Laddove essa oggi sussiste, per lo meno in linea di
principio – come in alcuni piccoli cantoni svizzeri – la costituzione non può
rinunciare a un parlamento chiamato per lo meno alla legislazione supple-
tiva, quindi a un organo di legislazione mediata» .
Ora, se nemmeno nei cantoni svizzeri sembrano potersi realizzare la
Realpräsenz del popolo nella sua unità e l’esercizio diretto della democra-
zia, questa circostanza difficilmente può essere ricondotta – come Kelsen
invece sostiene – a un semplice problema di divisione del lavoro . Più che
da questo, essa sembra dipendere da una necessità di tipo logico: quella
dell’impossibilità – almeno nel moderno – di pensare in termini im-media-
ti l’unità politica. D’altronde, la sempre reiterata polemica nei confronti del
carattere fittizio della rappresentanza si accompagna in Kelsen, con un pa-
radosso solo apparente, all’affermazione della sua intrascendibilità: il po-
polo in quanto tale, si legge nell’Allgemeine Staatslehre, è muto  e può
parlare solo attraverso la sua rappresentanza istituzionale: «Nelle costitu-
zioni delle democrazie “rappresentative” il popolo è fondamentalmente

. Ivi, p. .


. Cfr. Kelsen, Allgemeine Staatslehre, cit., p. .
. Ivi, p. .
. Ibid.
. Ivi, p. .
. Cfr. ibid.
. Kelsen, Allgemeine Staatslehre, cit., p. : «Das ganze Volk aber ist stumm». Su
questo passo cfr. B. Rizzi, Legittimità e democrazia. Studio sulla teoria politica di Hans Kel-
sen, Giuffrè, Milano , p. .
. OMOGENEITÀ POLITICA E PLURALISMO CONFLITTUALE 

escluso dall’attività legislativa, l’attività legislativa spetta esclusivamente al


parlamento eletto dal popolo» .
La medesima necessità emerge in Essenza e valore della democrazia. An-
che qui l’introduzione della dissimmetria fra governanti e governati è ri-
condotta a esigenze di divisione del lavoro. Più precisamente, la scelta del
parlamentarismo si motiva col fatto che questo istituto costituisce il miglior
compromesso «fra l’esigenza democratica di libertà e il principio – causa di
ogni differenziazione sociale e condizionante ogni progresso – della distri-
buzione del lavoro» . Ma quella dissimmetria è ricondotta altresì a una
circostanza di ordine teorico. Per Kelsen l’idea di democrazia è la risultan-
te di due principi fra loro strettamente connessi: il principio di libertà e
quello di eguaglianza . Ora, se in un ipotetico stato naturale libertà e
eguaglianza appaiono inconciliabili con qualsiasi costrizione , nella vita
associata non possono essere garantite se non attraverso l’istituzione di un
rapporto di potere. L’uguaglianza diventa eguale subordinazione alla me-
desima autorità («L’esperienza insegna – scrive Kelsen – che, se nella realtà
vogliamo essere tutti uguali, dobbiamo lasciarci comandare») , la «libertà
naturale» diventa «libertà sociale o politica», vale a dire sottomissione «al-
la volontà propria, non alla volontà esterna» . E questo può avvenire so-
lo attraverso l’adozione di un meccanismo rappresentativo che vede al suo
centro «la formazione della persona anonima dello Stato» . Kelsen coglie
perfettamente l’impossibilità di una deduzione lineare von unten, cioè a
partire dai singoli individui, della volontà politica del popolo inteso come
intero: «L’imperium parte da questa persona anonima, non dall’individuo
come tale. Le volontà delle singole persone liberano una misteriosa volontà
collettiva e una persona collettiva addirittura mistica» .
Vi è inoltre un’altra circostanza che merita di essere messa in luce. Non
solo l’unità politica nel suo complesso non è pensabile a prescindere dalla
finzione rappresentativa. Anche l’accesso del singolo alla sfera pubblica per
Kelsen è possibile solo in forma mediata, attraverso il filtro necessario co-

. Ivi, p. .


. Kelsen, Essenza e valore, cit., p. 
. Ivi, p. . Pur nella reciproca connessione, il primato spetta secondo Kelsen alla li-
bertà. È l’esigenza di realizzarla a far sì che venga posto anche il principio dell’eguaglianza.
Sull’argomento cfr. H. Dreier, The Essence of Democracy – Hans Kelsen and Carl Schmitt Jux-
taposed, in Diner, Stolleis (eds.), Hans Kelsen and Carl Schmitt, cit., p. , ove si parla di una
“assunzione assiomatica” del principio della libertà come fondamento della democrazia.
. Scrive Kelsen: «È la natura stessa che, nell’esigenza di libertà, si ribella alla società».
E poco più avanti: «È un uomo come me, siamo uguali, che diritto ha dunque di comandar-
mi?» (ivi, p. ).
. Ivi, p. .
. Ibid.
. Ivi, p. .
. Ibid.
 ANTONINO SCALONE

stituito dai partiti. «È chiaro – scrive Kelsen – che l’individuo isolato non
ha, politicamente, alcuna esistenza reale, non potendo esercitare un reale
influsso sulla formazione della volontà dello Stato» . L’unica possibilità è
quella di organizzarsi in partiti:

La democrazia può quindi esistere soltanto se gli individui si raggruppano secondo


le loro affinità politiche, allo scopo di indirizzare la volontà generale verso i loro fi-
ni politici, cosicché, fra l’individuo e lo Stato, si inseriscono quelle formazioni col-
lettive che, come partiti politici, riassumono le uguali volontà dei singoli individui .

Ma nella misura in cui i partiti, in quanto “formazioni collettive”, agiscono


da collettori dei bisogni e degli interessi individuali e li unificano conferen-
do ad essi una forma politica unitaria, mostrano anch’essi la loro subordina-
zione alla logica e alle aporie del principio rappresentativo. Non è un caso
che Kelsen polemizzando con quanti, come Triepel, pretendono di steriliz-
zare la politicità dei partiti riducendoli ad espressione di una concezione ato-
mistico-individualistica dello Stato e della democrazia  ne difenda invece la
piena appartenenza alla sfera dell’Öffentlichkeit: «L’individualismo – affer-
ma significativamente – è, naturalmente, contro l’essenza dei partiti» .

.
Il problema della democrazia
e la polemica sul “Custode della costituzione”
. Il custode della costituzione è per Schmitt a un tempo il punto di ap-
prodo della riflessione condotta negli anni precedenti sul tema delle tra-
sformazioni del plesso politica/economia e il tentativo di fornire una ri-
sposta originale in termini costituzionali ai problemi di stabilità politica che
gravano sulla Repubblica di Weimar.
Il carattere della Costituzione di Weimar è a suo avviso ambiguo: da un
lato essa «si attiene all’idea democratica dell’unità omogenea, indivisibile
di tutto il popolo tedesco, che si è dato esso stesso questa Costituzione, in
forza del suo potere costituente, con una decisione politica positiva, cioè
con un atto unilaterale» . Si tratta, come si vede, di un concetto già pre-
sente nella Dottrina della costituzione. Dall’altro, essa è affetta da «un ele-
mento pluralistico»  che ne mina l’unità:

. Ivi, p. .


. Ibid.
. Cfr. H. Triepel, Die Staatsverfassung und die politischen Parteien, Liebmann, Berlin
, p. .
. Kelsen, Essenza e valore, cit., p. .
. C. Schmitt, Il custode della costituzione (), trad. it. Giuffrè, Milano , p. .
. Ibid.
. OMOGENEITÀ POLITICA E PLURALISMO CONFLITTUALE 

La costituzione stessa e la formazione della volontà statale che si svolge nel suo am-
bito appaiono come compromesso dei diversi soggetti del pluralismo statale e le coa-
lizioni di queste organizzazioni sociali di potere cangianti a seconda dell’ambito del
compromesso – politica estera, politica economica, politica sociale, politica cultu-
rale – trasformano con i loro metodi di negoziazione lo Stato stesso in una forma-
zione pluralistica .

Esplicita è la critica nei confronti di Kelsen, sostenitore della tesi, caratte-


rizzata, a giudizio di Schmitt, da «grande superficialità teorico-costituzio-
nale» , del carattere compromissorio dello Stato parlamentare .
Secondo Schmitt la situazione costituzionale è profondamente muta-
ta rispetto al secolo XIX, segnato dal dualismo istituzionale fra «principe e
popolo, corona e camera, governo e rappresentanza popolare» . Tale
dualismo era l’espressione della divaricazione fondamentale fra Stato e so-
cietà. Ma nel presente tale dualismo risulta del tutto superato e la Stato ap-
pare ora come l’«auto-organizzazione della società». Ciò significa che non
è più possibile distinguere fra ambiti puramente politici e ambiti soltanto
economici: «Se la società stessa si organizza in Stato, stato e società devo-
no essere fondamentalmente identici, cosicché tutti i problemi sociali ed
economici diventano immediatamente problemi statali» . Allo Stato ven-
gono attribuiti inediti compiti di direzione in ambito economico-sociale,
tali per cui nessuna sfera della vita associata può essere ritenuta estranea
al suo intervento:

. Ivi, p. .


. Ibid.
. Secondo Schmitt la riduzione dell’intero ordinamento giuridico a norma finisce per
svuotare di contenuto la stessa razionalità giuridica nella sua strutturale contiguità con la sfe-
ra della decisione: «L’ambiguo concetto di norma si dimostra qui di nuovo come veicolo del-
le traslazioni concettuali: ecco che tutto il possibile vige come norma, può scomparire perfi-
no la differenza fondamentale del concetto di costituzione, che è praticamente e teorica-
mente al centro di ogni discussione teorico-costituzionale – è la costituzione una decisione
politica dell’unità in sé omogenea del popolo? è una legge (di quale legislatore?), è un con-
tratto o un compromesso (di quali parti contrattuali)? – e tutto questo, decisione, legge, con-
tratto può essere coperto con la parola “norma”» (ivi, pp. -). La posizione di Kelsen è
in realtà più complessa di quanto l’interpretazione schmittiana suggerisca e irriducibile a un
normativismo del tutto indifferente. In particolare, in Chi dev’essere il custode della costitu-
zione?, cit., pp. -, Kelsen rispondendo alle critiche di Schmitt, scrive: «Ora, se io soste-
nessi che la costituzione “sta al si sopra” della legge solo perché è più difficile modificarla, la
mia teoria sarebbe in effetti così assurda come Schmitt la espone. Sennonché, in questa espo-
sizione viene trascurato un dettaglio: che cioè io distinguo con ogni cura tra costituzione in
senso materiale e costituzione in senso formale e che motivo la sovraordinazione del grado
della costituzione al grado della legge non con la forma, puramente accidentale e non essen-
ziale, ma con il contenuto della costituzione». Sull’argomento, lo stesso Kelsen rimanda al suo
La garanzia giurisdizionale della costituzione (), trad. it. in Id., La giustizia costituzionale,
cit., pp.  ss.
. Ivi, p. .
. Ivi, p. .
 ANTONINO SCALONE

In ogni Stato moderno il rapporto dello Stato con l’economia forma il vero ogget-
to delle questioni di politica interna direttamente attuali. [...] Lo Stato odierno ha
un esteso diritto del lavoro, un tariffario e una conciliazione statale delle contro-
versie salariali, mediante i quali influenza in modo determinante i salari; esso ga-
rantisce imponenti sovvenzioni alle diverse finalità economiche; esso è uno Stato
assistenziale e previdenziale e quindi al tempo stesso in misura inaudita uno Stato
delle tasse e dei tributi [...]. In una situazione simile la richiesta di non-intervento
diventa un’utopia, anzi, un’autocontraddizione .

Lo Stato manifesta insomma una spiccata tendenza a farsi totale . Ora, per
le sue nuove necessità lo Stato interventista ha bisogno di una struttura ef-
ficiente e di una elevata capacità decisionale. Invece il Parlamento, ovvero
il luogo nel quale la volontà politica dovrebbe realizzarsi, è diventato il tea-
tro dello scontro fra parti sociali organizzate le quali finiscono per paraliz-
zarne l’attività: «Da teatro di una discussione libera e costruttiva dei liberi
rappresentanti del popolo, da trasformatore degli interessi partitici in una
volontà sovrapartitica il Parlamento diventa il teatro di una divisione plu-
ralistica delle forze sociali organizzate» . La situazione è aggravata dal fat-
to che i partiti stessi manifestano un’analoga tendenza a farsi totali:

Ciò che prima è stato indicato come svolta verso il “totale”, è per una parte dei cit-
tadini in una certa misura attuato da alcuni gruppi di organizzazioni sociali, cosic-
ché noi non abbiamo più propriamente nessuno Stato totale, ma più esattamente
alcune formazioni partitiche sociali che racchiudono interamente i loro uomini fin
dalla giovinezza e che aspirano alla totalità .

Per Schmitt, dunque, la tendenza verso il totale è ineludibile. Si tratta di ve-


dere se essa sarà gestita da partiti in lotta fra di loro e in grado di paraliz-
zare la vita politica con i reciproci veti, o da uno Stato caratterizzato da una
forte istanza decisionale.
Tale alternativa sarà esplicitata due anni più tardi in un saggio intitola-
to Weiterentwicklung des totalen Staat in Deutschland (Evoluzione dello Sta-
to totale in Germania). Qui Schmitt distinguerà appunto fra Stato totale in
senso quantitativo, ovvero lo Stato dei partiti («Esso è totale in un senso pu-
ramente quantitativo, nel senso del semplice volume, non dell’intensità e
dell’energia politica. L’odierno Stato pluralistico dei partiti in Germania ha

. Ivi, p. .


. Ivi, p. : «La società che si organizza da sé in Stato passa dallo Stato neutrale del li-
berale secolo XIX ad uno Stato potenzialmente totale». Si tratta di un fenomeno già manife-
statosi nel corso del primo conflitto mondiale e compendiato da Ernst Jünger, che non a caso
è ricordato da Schmitt in questo contesto, nell’espressione “mobilitazione totale”. Cfr. E. Jün-
ger, La mobilitazione totale, trad. it in “Il Mulino”, XXXIV, , , pp. -; C. Galli, Al di là
del progresso secondo Erns Jünger: “magma vulcanico” e “mondo di ghiaccio”, ivi, pp. -.
. Schmitt, Il custode, cit., p. .
. Ivi, p. .
. OMOGENEITÀ POLITICA E PLURALISMO CONFLITTUALE 

sviluppato questo tipo di Stato totale» ) e Stato totale in senso qualitativo
(«Esso è totale nel senso della qualità e dell’energia, uno Stato totalitario [in
italiano nel testo] così come si dice dello Stato fascista. Un tale Stato non la-
scia sussistere al suo interno alcuna forza nemica dello Stato o che lo osta-
coli o che lo divida» ).
Nel Custode, la proposta di riconoscere al presidente della Repubblica,
forte della sua investitura plebiscitaria e pertanto svincolato dai condizio-
namenti di parte, una funzione super partes di custode della decisione fon-
damentale contenuta nella costituzione, va appunto nella direzione di rea-
lizzare uno Stato totale in senso qualitativo, uno Stato totale per energia.
Che il presidente del Reich vada inteso da Schmitt come pouvoir neutre, ri-
prendendo una definizione di Constant, non significa assolutamente che
esso sia un’istanza depoliticizzata:

Per la neutralità nel senso di una oggettività indipendente – scrive – è necessaria


una speciale forza ed efficacia che possa opporre resistenza ai potenti raggruppa-
menti e interessi [...]. Neutralità nel senso di concretezza e oggettività non è debo-
lezza e assenza di politica, ma il contrario. La soluzione non si trova cioè in una og-
gettività non politica, ma in una politica capace di assumere decisioni, che tiene
presente l’interesse dell’insieme e che è oggettivamente informata .

Il capo dello Stato così inteso non solo vede attribuiti a sé compiti diretti di
gestione diretta in campo economico e finanziario, sulla base dei poteri rico-
nosciutigli dall’art.  , ma riveste la funzione «mediatrice, tutelatrice e re-
golatrice» di un vero e proprio pouvoir préservateur . Esso appare del tutto
inconcepibile per un approccio formalistico à la Kelsen e costituisce secon-
do Schmitt una risposta nuova ai problemi costituzionali posti dal presente:

In uno Stato dall’organizzazione complessa come il Reich tedesco e nell’attuale


complessa situazione costituzionale – il Reich tedesco non è soltanto una forma-
zione federalistica, ma al tempo stesso anche pluralistica e policratica – la funzio-
ne mediatrice e regolatrice del pouvoir neutre assume un’importanza centrale, che
non può essere giustificata né con un formalismo subalterno, né con argomenti del-
l’epoca monarchica precedente alla guerra .

. Schmitt, Weiterentwicklung des totalen Staat in Deutschland (), in Id., Verfas-
sungsrechtliche Aufsätze aus den Jahren -, Duncker & Humblot, Berlin , p. .
. Ibid.
. Ivi, p. .
. Cfr. ivi, p. .
. Vi è forse qui una prima formulazione di quella nozione di Katechon che tanta im-
portanza rivestirà nella riflessione schmittiana successiva. Sull’argomento cfr. A. Scalone,
“Katechon” e scienza del diritto in Carl Schmitt, in “Filosofia politica”, XII, , , pp. -.
. Schmitt, Il custode, cit., p. . La polemica nei confronti dell’uso acritico di con-
cettualizzazioni rese obsolete dal mutare della concreta situazione costituzionale e in parti-
colare dell’apparato concettuale tipico del XIX secolo è già esplicita nella Prefazione alla Dot-
trina della costituzione, cit., p. , ove si legge: «Fa parte invece dei compiti della dottrina del-
 ANTONINO SCALONE

. «Se dev’essere introdotto un istituto che permette di controllare la


conformità alla costituzione di taluni atti statali – in particolare del Parla-
mento e del Governo – ad essa immediatamente subordinati, tale control-
lo non può essere affidato allo stesso organo i cui atti sono da controlla-
re» . Con questa affermazione, Kelsen fissa i termini della sua polemica
con Schmitt: il presidente del Reich non è, né può essere un’istanza neu-
trale, un pouvoir neutre e quindi non può svolgere quella funzione equili-
bratrice e di garanzia che Schmitt vorrebbe attribuirgli. I teorici del co-
siddetto “principio monarchico” attribuivano bensì al monarca il compi-
to di essere custode della costituzione, ma, rileva Kelsen, si trattava di
«una fin troppo manifesta ideologia, una delle tante ideologie che forma-
vano il sistema del cosiddetto costituzionalismo e mediante le quali si cer-
cava di mascherare il reale obiettivo di bilanciare la perdita del potere che
il capo dello Stato aveva subito nel passaggio dalla monarchia assoluta al-
la monarchia costituzionale» . Ciò è confermato dal fatto che lo stesso
costituzionalismo attribuiva proprio al monarca, cioè all’istanza presunta
neutrale, la titolarità del potere legislativo. Come può il monarca – si chie-
de allora Kelsen – essere a un tempo detentore del potere statale e “istan-
za neutrale” di controllo della costituzionalità dei propri atti? In effetti
non vi è una giustificazione teorica di tale posizione, ma solo una di tipo
politico: «L’obiezione che questa sia un’insostenibile contraddizione sa-
rebbe del tutto fuori luogo giacché in tal modo si applicherebbero le ca-
tegorie della conoscenza scientifica (scienza giuridica o dottrina dello Sta-
to) a qualcosa che può essere compreso solo in termini di ideologia politi-
ca» . Se si pone mente a quanto Schmitt scrive nelle prime pagine della
Dottrina della costituzione a proposito della necessità – al fine di com-
prendere il presente – di sbarazzarsi di categorie obsolete ereditate dal XIX
secolo, si comprende, nota Kelsen, come il fatto che Schmitt rispolveri una
dottrina così datata, ideologica e legata al proprio contesto risponda a mo-
tivazioni esclusivamente politiche .

la costituzione dimostrare quanto talune formule e concetti tradizionali dipendano total-


mente da situazioni precedenti ed oggi non siano più nemmeno otri vecchi per un vino nuo-
vo, ma solo etichette invecchiate e false».
. Kelsen, Chi dev’essere il custode della costituzione? (-), trad. it. in Id., La giu-
stizia costituzionale, Giuffrè, Milano , p. .
. Ivi, p. .
. Ivi, pp. -.
. Ivi, p. : «Sorprende che questo scritto, che sostanzialmente vuole restaurare la
dottrina di uno dei più vecchi e provati ideologi della monarchia – la dottrina del pouvoir
neutre del monarca, di Benjamin Constant – ed applicarla di peso al capo dello Stato repub-
blicano, abbia come autore proprio Carl Schmitt [...] che non si stanca di ricordare “che la
situazione della monarchia costituzionale del XIX secolo, con la sua separazione tra Stato e
società, politica ed economia, è ormai superata” e che pertanto le categorie della teoria del-
lo Stato costituzionale non sono applicabili alla costituzione di una democrazia parlamenta-
re plebiscitaria qual è la Germania di oggi».
. OMOGENEITÀ POLITICA E PLURALISMO CONFLITTUALE 

Senza seguire nel dettaglio le argomentazioni kelseniane e limitandoci


a ciò che riguarda più direttamente il nostro tema, noteremo come per Kel-
sen sia proprio una corte di tipo giudiziario l’istanza più adeguata a deci-
dere la costituzionalità di una legge e quindi a svolgere la funzione di cu-
stode della costituzione. Infatti, la prassi processuale è quella che meglio
garantisce la rappresentazione delle ragioni e degli interessi che militano a
favore o contro la legge in esame. La stessa prassi parlamentare è peraltro
costruita sulla base del modello giudiziario: «Il procedimento dialettico del
moderno Parlamento è – nella sostanza – qualcosa di completamente simi-
le alla “forma giudiziaria” del processo davanti a un tribunale. Esso serve
per portare alla luce tutto ciò che sta a favore o contro una determinata so-
luzione» . Alla base delle controversie – scrive Kelsen – «vi sono contra-
sti d’interesse di natura nazionale, religiosa, economica, contrasti tra grup-
pi interessati all’accentramento o al decentramento, e molti altri: dar loro
un’espressione adeguata sul piano tecnico-processuale è compito dell’or-
dinamento processuale» . Insomma: poiché la società è attraversata da in-
teressi contrastanti e organizzati e poiché tali interessi sono alla base delle
stesse controversie di tipo costituzionale, la procedura giudiziaria di fron-
te a una corte risulta essere la più aderente a questa realtà e la più adatta a
realizzare una ragionevole composizione del contrasto, esattamente come
avviene in sede politica con la pratica del compromesso:

Si travisa certamente il vero significato della cosiddetta “forma giudiziaria” e la sua


utilizzabilità nel procedimento davanti a un’autorità che agisca come “custode del-
la costituzione”, se non si guarda alla realtà sociologica da cui scaturisce il proce-
dimento contenzioso: al fatto, cioè, che, come nelle altre figure giuridiche, così an-
che nella decisione di un tribunale, e in particolare di un “custode della costitu-
zione”, si contrappongono interessi contrastanti e che ogni “decisione” decide su
contrasti d’interessi .

La forma giudiziaria ha il merito di essere aderente alla realtà sociale, ripro-


ducendone conflittualità e contrapposizioni; viceversa l’attribuzione del
compito di custode al presidente del Reich – così come vorrebbe Schmitt –
non fa che nascondere tale situazione dietro il velo mistificatorio di un pre-
teso interesse comune:

Un procedimento contenzioso serve quanto meno a portare alla luce l’effettiva si-
tuazione degli interessi. Tutto questo però non si può vedere se il contrasto d’inte-
ressi viene mascherato con la finzione di un interesse comune o di una unità d’inte-
ressi che è qualcosa di sostanzialmente diverso e di sostanzialmente maggiore di ciò
che vi può essere nel migliore dei casi, vale a dire un compromesso d’interessi .

. Ivi, p. .


. Ibid.
. Ivi, p. .
. Ivi, pp. -.
 ANTONINO SCALONE

Ancora una volta, però, Kelsen non giunge fino a ridurre l’intera sfera pub-
blica al piano orizzontale degli interessi. Certo, egli contesta Schmitt quando
questi riconduce il presidente del Reich all’unità del popolo quale è espressa
nel preambolo della costituzione . Per Kelsen, infatti, l’unità del popolo
non è che l’«unità giuridica del popolo dello Stato che ogni costituzione vie-
ne a creare» . Ma tale unità non può fare a meno di una sua “presentifica-
zione” che, per quanto simbolica, pure risulta assolutamente ineludibile:

È funzione del capo dello Stato esprimere simbolicamente l’esigenza irrinunciabile


di una unità più che formale dello Stato, di una unità materiale. È anzi questa la fun-
zione principale di quell’organo che le varie costituzioni chiamano capo dello Stato
[...] l’importanza politica di questa funzione non dev’essere affatto sottovalutata .

La funzione rappresentativa del capo dello Stato è anzi tanto più necessaria,
quanto più la società appare frammentata al suo interno e attraversata da
contrapposizioni d’interesse. Ciò che Kelsen contesta a Schmitt, insomma,
non sembra essere qui l’istanza rappresentativa e nemmeno la sua funzione
politica, quanto piuttosto il fatto di intendere il presidente del Reich come
espressione di un’unità effettiva e già data, come «espressione di un’unità
reale, nel senso di una effettiva solidarietà d’interessi» . La figura del capo
dello Stato, stante «il contrasto d’interessi, effettivo e radicale, che si espri-
me nella realtà dei partiti politici e nella realtà, ancora più importante, del
conflitto di classe che vi sta dietro»  indica piuttosto per Kelsen un com-
pito che deve essere costantemente realizzato: esso, scrive significativamen-
te, è il «simbolo di un’unità dello Stato postulata sul piano etico-politico» .

.
Conclusioni
Nel dibattito su Il custode della costituzione il contrasto teorico e politico fra
Schmitt e Kelsen trova la sua formulazione definitiva. Schmitt enfatizza l’e-
lemento dell’unità, riferita a una sostanza politica immediata e pregiuridica,
di tipo esistenziale, per usare il linguaggio della Dottrina della costituzione .
Rispetto a questa realtà, ogni divisione di tipo partitico, sindacale o altro

. Sul contenuto del preambolo, con riferimento agli elementi di novità e a quelli di con-
tinuità rispetto all’assetto costituzionale precedente, cfr. F. Siebert, Von Frankfurt nach Bonn.
Hundert Jahre deutsche Verfassungen -, Henn Verlag, Kastellaun/Hunsrück , p. .
. Kelsen, Chi dev’essere, cit., p. .
. Ivi, p. .
. Ibid.
. Ibid.
. Ibid.
. Cfr. Schmitt, Dottrina della costituzione, cit., pp.  ss.
. OMOGENEITÀ POLITICA E PLURALISMO CONFLITTUALE 

appare un’inaccettabile distorsione, foriera di pericoli gravissimi per l’unità


politica . D’altronde, lo stesso sviluppo dell’economia, con le sue cre-
scenti contaminazioni con l’ambito politico, sembra spingere verso uno
Stato totale caratterizzato dalla necessità di un’istanza politica forte. Non è
un caso che Schmitt, come anche, nel medesimo torno di anni, Gerhard
Leibholz, guardi con grande attenzione, quando non con aperta simpatia,
al fascismo italiano . Certo, Schmitt legge con lucidità le ripercussioni che
tali trasformazioni comportano nell’assetto costituzionale. Ma l’enfasi che
egli pone sul tema dell’unità gli impedisce di interpretarle in termini diver-
si da quelli della patologia. Per Schmitt, insomma, lo Stato deve in primo
luogo difendere se stesso e l’ambito politico in senso proprio dall’assalto
dei partiti e dei gruppi d’interesse. Tale trincea, però, appare sostanzial-
mente indifendibile proprio sulla base delle argomentazioni portate dallo
stesso Schmitt. Se, come egli scrive, «in ogni Stato moderno il rapporto del-
lo Stato con l’economia forma il vero oggetto delle questioni di politica in-
terna direttamente attuali», ciò significa che l’economia, con le sue orga-
nizzazioni d’interesse, con i sindacati e quant’altro è già a pieno titolo par-
te integrante della sfera pubblica. Se lo Stato non è altro che l’«auto-orga-
nizzazione della società», non si può pretendere di sterilizzare l’ambito po-
litico-statuale dai conflitti fra parti che innervano la società stessa. Allo stes-
so modo, il riconoscimento dell’opinione pubblica come «forma moderna
dell’acclamazione», compiuto, come si è visto, nella Dottrina della costitu-
zione, non può andare disgiunto dal riconoscimento della piena legittimità
politica delle istanze “parziali” che tale acclamazione rendono possibile.
Non è un caso che un allievo di Schmitt, Joseph H. Kaiser, a metà degli an-
ni Cinquanta partirà proprio da questa formulazione del suo maestro per
teorizzare la piena rappresentatività delle organizzazioni d’interesse .

. Sull’argomento, oltre ai saggi schimittiani già citati, cfr. Id., Grundrechte und
Grundpflichte (Diritti fondamentali e doveri fondamentali) (), in Id., Verfassungsrechtli-
che Aufsätze aus den Jahren -. Materialen zu einer Verfassungslehre, Duncker & Hum-
blot, Berlin , pp. -.
. Significativo dell’attenzione benevola di Gerhard Leibholz nei confronti del regi-
me mussoliniano è il saggio Zu den Problemen des faschistischen Verfassungsrechts. Akade-
mische Antrittsvorlesung, de Gruyter, Berlin-Leipzig . Un apprezzamento nei confron-
ti di tale contributo si trova in Schmitt, Wesen und Werden des faschistischen Staates (Es-
senza e sviluppo dello Stato fascista) (), in Id., Positionen und Begriffe, cit., pp. -.
Diversa l’interpretazione di P. Unruh che nel suo recente Erinnerung an Gerhard Leibholz
(-) – Staatsrechtler zwischen den Zeiten, in “Archiv des öffentlichen Rechts”, CXXVI,
, p. , sottolinea obiettività e avalutatività del saggio leibholziano ed esclude che lo si
possa interpretare «come apologia del fascismo italiano o addirittura del nazionalsocialismo
che si preparava in Germania».
. Cfr. J. H. Kaiser, La rappresentanza degli interessi organizzati (), trad. it. Giuf-
frè, Milano . Sul pensiero di Kaiser e più in generale sui problemi politico-giuridici con-
nessi alla nozione di interesse, cfr. il nostro Rappresentanza politica e rappresentanza degli in-
teressi, Franco Angeli, Milano .
 ANTONINO SCALONE

Sulla base di quanto detto appare allora radicalmente contraddittorio


il tentativo schmittiano di interpretare la democrazia come mera omoge-
neità. Ciò costituisce una radicale semplificazione di quanto la stessa ana-
lisi schmittiana mette in campo. Si tratta di una circostanza già messa in lu-
ce con grande lucidità da un altro allievo di Schmitt, Otto Kirchheimer, se-
condo il quale lo sforzo di ridurre la democrazia esclusivamente a omoge-
neità e eguaglianza trascura l’elemento, altrettanto essenziale per ogni si-
stema democratico, della “libertà civica”. Questa, scrive Kirchheimer, com-
prende «la libertà di stampa, la libertà d’opinione, di adunanza e di asso-
ciazione. Esse formano il necessario completamento dei cosiddetti diritti
politici» .
Cruciale è invece il riconoscimento dell’intrascendibilità della Reprä-
sentation. Come si è visto, per Schmitt non si dà mai presenza immediata
del popolo: essa necessita, anche nelle forme più radicali di democrazia di-
retta, di un’istanza capace di render presente un’unità ideale altrimenti in-
visibile. La stessa identità tipica della democrazia è sempre il frutto di una
serie di identificazioni attraverso le quali gli elementi eterogenei vengono
ricondotti a unità. Si tratta peraltro di una unità sempre precaria, proprio
in ragione del suo carattere rappresentativo e artificiale: fra rappresentan-
te e rappresentato esiste necessariamente una differenza che può essere ri-
dotta, ma mai eliminata . In ultima analisi, la polemica nei confronti del-
l’incontrollato proliferare delle parti va in buona sostanza ricondotta alla
consapevolezza di tale precarietà e del pericolo che le istanze intermedie
possono costituire per la tenuta complessiva del sistema.
La concezione kelseniana della democrazia pone invece l’accento sul-
l’elemento della pluralità, del conflitto, del compromesso. Per Kelsen la
partecipazione delle parti alla sfera dell’Öffentlichkeit è una circostanza in-
discutibile, anzi, costituisce un elemento essenziale della vita politica. Il for-
malismo della sua concezione giuridica ha in ultima analisi la funzione di
garantire a tutti gli attori sociali eguali chances di successo sul piano politi-
co e di far sì che l’ordinamento giuridico corrisponda nel modo più neu-
trale e più fedele possibile al mutevole configurarsi degli interessi politici.
In questo senso si spiega la sempre reiterata polemica nei confronti del-
l’interesse generale qualora lo si intenda come qualcosa di diverso e quali-
tativamente superiore rispetto al compromesso fra parti. Ciò non significa,
come si è visto, che Kelsen propenda in alcun modo verso la democrazia
diretta. Essa non è possibile nemmeno nei cantoni svizzeri, si legge nel-

. O. Kirchheimer, Bemerkungen zu Carl Schmitts “Legalität und Legitimität” (), in


Id., Von der Weimarer Republik zum Faschismus: die Auflösung der demokratischen Recht-
sordnung, Suhrkamp, Frankfurt a.M. , p. .
. Tale differenza è ben compendiata nel cosiddetto cristallo di Hobbes, illustrato in
una lunga nota aggiunta in Schmitt, Il concetto di politico (), trad. it. in Id., Le categorie
del politico, cit., pp. -,  nota).
. OMOGENEITÀ POLITICA E PLURALISMO CONFLITTUALE 

l’Allgemeine Staatslehre, e sempre si pone la necessità di istituire una diffe-


renza fra governanti e governati. È significativo a questo proposito che Kel-
sen a un tempo denunci il carattere di finzione proprio della rappresentan-
za e dall’altro ne affermi l’irrinunciabilità: da un lato l’unità politica del po-
polo non può mai essere realmente presente, dall’altro – come si legge in
Chi dev’essere il custode della costituzione? – non si può fare a meno di un’i-
stanza che la simboleggi.
D’altro canto, abbiamo visto come per Kelsen non sia possibile una
partecipazione diretta dell’individuo alla vita pubblica: i partiti e in gene-
rale le organizzazioni d’interesse sono il medio necessario d’accesso alla sfe-
ra politica e ciò ripropone anche a questo livello l’intrascendibilità della
forma rappresentativa.
Sulla base del cammino percorso si può dunque affermare che la con-
cezione schmittiana e quella kelseniana di democrazia, pur nella loro forte
divaricazione, rimandano infine ad una matrice concettuale comune, quel-
la del pensiero politico moderno inaugurato da Hobbes e incentrato sul
principio di rappresentazione. Essi si collocano al margine estremo della vi-
cenda plurisecolare dello Stato, ne evidenziano il carattere strutturalmente
aporetico, l’impossibilità di produrre una unità politica adeguatamente
fondata e sottratta al pericolo di dissoluzione. Ma nel loro pensiero si ma-
nifesta altresì la difficoltà di procedere “oltre” lo Stato, di prender defini-
tivamente congedo dalla razionalità che ha saputo produrlo .

. «L’epoca della statualità – scrive Schmitt – sta ormai giungendo alla fine: su ciò
non è più il caso di spendere parole [...]. Lo Stato come modello dell’unità politica, lo Sta-
to come titolare del più straordinario di tutti i monopoli, cioè del monopolio della decisio-
ne politica, questa fulgida creazione del formalismo europeo e del razionalismo occidenta-
le, sta per essere detronizzato. Ma i suoi concetti permangono e sono ormai visti come clas-
sici» (ivi, p. ).

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