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Traduzione Virgilio

Frattanto il vento con il sole ha lasciato noi stanchi e ignari della via arriviamo alle spiagge dei
ciclopi. Il porto al riparo dei venti è esso stesso immobile e grande ma accanto l’Etna tuona con
orrende rovine e frattanto vomita nell’aria una nera nube fumante di un turbine di pece e di una
scintilla ardente e solleva fiamme e lambisce le stelle. Ogni tanto scaglia eruttandole rocce e divelte
viscere del monte e agglomera con gemito massi liquefatti nell’aria e ribolle dall’infimo fondo. È
fama (diffuso) che il corpo di Encelado semibruciato dal fulmine sia oppresso da questa mole e che
l’Etna grande posta sopra spiri una fiamma da squarciati camini e tutte le volte che muta il lato
stanco tutta la trinacria tremi con un mormorio e che veli il cielo di fumo. Quella notte protetti dai
boschi sopportiamo visioni tremende ne vediamo ne capiamo quale causa dia il suono. Infatti non
c’erano fuochi di stelle ne c’era un’aria lucente di etere sidereo ma nubi nel cielo oscuro e la notte
tempestosa chiudeva la luna in un nembo. Ormai il giorno successivo sorgeva dal primo oriente e
l’aurora aveva allontanato dal cielo l’umida ombra quando all’improvviso sfinita da un’estrema
magrezza, dai boschi si fa avanti un’insolita figura di uomo sconosciuto e miserabile nell’aspetto e
supplice tende le mani alle spiagge. Ci volgiamo a guardare un’orribile sporcizia e una barba lunga
un vestito connesso da spine ma per il resto un greco e una volta mandato in armi patrie a Troia. E
non appena egli vide le vesti dardane e lontano le armi troiane spavento un po’ nell’aspetto esitò e
trattenne il passo subito poi si portò/diresse a precipizio sulle rive con pianto e preghiere. Lo giuro
sulle stelle (lo giuro sugli dei superi e lo giuro sul lume vitale del cielo) portate me (sollevatemi) o
Teucri in qualunque terra vogliate condurmi questo mi basterà. Io so (di essere) uno delle flotte dei
Danai e ammetto di avere assalito i Penati di Ilio in guerra per questa ragione se così grande è
l’offesa del nostro misfatto spargetemi nei flutti e immergetemi nel vasto mare se muoio (gioverà
che sia morto) per mano di uomini, aveva detto tali cose e abbracciando le nostre ginocchia e
strisciando in ginocchio si avvinghiava noi lo esortiamo a dire chi sia da quale sangue sia nato e a
dire inoltre quale sorte lo agiti. Il padre Anchise stesso non indugiando molto porge la mano al
giovane e lo rincuora con un pegno immediato. Quello (Anchise) deposto finalmente il timore dice
tali cose “sono della patria Itaca, compagno dell’infelice Ulisse di nome Achemenide partito alla
volta di Troia e causa del povero padre Adamasto (o se fosse rimasta invariata la sorte). Qui mi
hanno abbandonato nel vasto antro del ciclope i compagni immemori mentre spaventati lasciano le
crudeli soglie. All’interno la casa è grande e opaca a causa del sangue corrotto e delle vivande
insanguinate egli stesso ciclope è altissimo e tocca le altre stelle (o dei allontanate dalla terra una
tale peste) insostenibile allo sguardo e inaccessibile alla parola si nutre delle viscere dei miseri e di
nero sangue l’ho visto io stesso quando lui scagliava contro la roccia due corpi affrettati con la sua
grande mano dal nostro gruppo disteso in mezzo all’antro e le soglie grondavano cosparse di sangue
corrotto. Lo vidi quando masticava le membra che fluivano di nero sangue e gli arti tiepidi
tremavano sotto i denti
E non certamente senza punizione né Ulisse tollerò tali cose né l’Itaco si dimenticò di sé stesso in
un così grave momento. Infatti dopo che riempito di vivande e sepolto dal vino pose la testa piegata
e giacque immerso nell’antro vomitando sangue imputridito e brandelli frammisti nel sonno al vino
sanguigno noi supplicati i grandi dei e sorteggiati i compiti lo circondiamo insieme da ogni parte e
trapassiamo con un palo aguzzo il grande occhio che solo si celava sotto la torva fronte simile ad
uno scudo argolico o ad una fiaccola di Febo e finalmente lieti vendichiamo le ombre dei compagni
ma fuggite o miseri e rompete la fune dalla spiaggia (sign. Salpate). Infatti come il grande Polifemo
nell’antro cavo chiude le pecore produttrici di lana e munge le mammelle, altri cento orribili ciclopi
abitano sparsi in queste curve spiagge ed errano sugli alti monti già per la terza volta le corna della
luna si riempiono di luce da quando io trascino la mia vita nelle selve tra i cavi abbandonati delle
fiere e le loro tane e guardo dalla rupe i grandi ciclopi e tremo al suono dei loro piedi e alla loro
voce. I rami danno un vitto sterile, bacche e pietrose corniole e le erbe nutrono con radici divelte
esplorando ogni cosa per la prima volta vidi questa flotta giungere presso le coste mi voltai a questa
(la flotta) qualunque essa fosse è sufficiente sfuggire a un popolo nefando voi piuttosto estinguete
quest’anima con qualsiasi morte. Aveva appena detto tali cose quando vediamo sulla sommità del
monte proprio il pastore Polifemo muoversi con la sua vasta mole tra le pecore e dirigersi verso le
note coste mostro orrendo, informe, grande, al quale è stato strappato l’occhio. Un pino torvo guida
la mano e rafforza (corrobora) i passi. Le pecore lanose (participio di lana) (lo) accompagnano
quello è il solo piacere e la consolazione del male. [Una zampogna pende dal collo] Dopo che toccò
(Polifemo) i profondi flutti e giunse presso le acque lava il liquido umore sanguigno dall’occhio
cavato fremendo nei denti (digrignando i denti) con un gemito e si fa avanti in mezzo all’acqua ne il
flutto (gli) bagnò gli alti fianchi. Noi lontano quindi trepidi acceleriamo la fuga una volta preso il
supplice così meritevoli e così silenziosi recidiamo la fune e ci ergiamo sui che forzano le
acque. (Polifemo) sentì e ruotò i suoi passi al suono della voce. Ma poiché nessuna forza (da
Polifemo) è data di afferrare con la destra ne (è) capace di eguagliare i flutti Ioni inseguendoli
emette un grido immenso al quale il mare e tutte le onde tremarono. La terra d’Italia si spaventò
profondamente, l’Etna mugghiò con le sue sinuose caverne. Ma la stirpe dei ciclopi richiamata dalle
selve e dagli alti monti si precipita nel porto e riempiono le spiagge noi guardiamo i fratelli etnei (i
ciclopi) che stanno fermi invano con il loro occhio torvo. Sollevando al cielo le loro teste
un’assemblea orrenda come le aeree querce con il loro vertice altissimo o come i coniferi cipressi
ristettero, alta selva di Giove o bosco di Diana. La fiera paura ci spinge a slegare a precipizio le
sartie e a tendere le vele ai venti favorevoli.

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