Sei sulla pagina 1di 19

Il lungo viaggio di Ulisse

STUDENTESSA: Ringraziamo il nostro ospite Tiziano Scarpa di aver accettato il nostro invito; prima di iniziare
la discussione vediamo insieme una scheda filmata.
Attraverso il lungo viaggio di Ulisse verso Itaca, verso la patria, attraverso le sue peregrinazioni, in un mare, di
insidie, la cultura dell'Occidente ha elaborato uno dei suoi miti più significativi. Dante, Eliot, Melville, Joyce e molti
altri scrittori, poeti, filosofi d'Occidente tornano a notare questo lungo viaggio dello spirito umano, l'unico arco di una
vicenda plurimillenaria, la matassa del mito. Aggiungono parole e immagini. Così il viaggio di Ulisse, l'eroe dalla
mente accorta, si sviluppa all'infinito. Ulisse non può stare, non può mettere radici, non può darsi in riposo. Deve
costantemente prendere congedo, deve conoscere il dolore della separazione, rompendo la quiete che provvisoriamente
ha riconquistato, riaffidandosi al mare. E il mare è lo spazio aperto delle sue avventure. "Grande specchio della mia
disperazione" dice Baudelaire. Dal mare vengono tutti i pericoli, ma anche tutte le possibilità di conoscenza. Il mare, il
terribile e meraviglioso Mediterraneo insidia la vita, ma al tempo stesso la rimette in gioco. Il mare rimescola le carte
della vita, le confonde, ma consente anche nuove e ricche combinazioni. Il lungo viaggio di Ulisse è il viaggio
dell'Occidente, la sua irrequieta erranza attraverso il tempo e lo spazio ai confini della vita e della morte. "Siamo noi
stessi” - ha detto Joseph Conrad – “trasportati dall'audacia delle nostre menti e dai tremori dei nostri cuori”.
STUDENTESSA: Perché la figura di Ulisse ha assunto un'importanza maggiore rispetto alle altre figure della
letteratura antica?
SCARPA: Questo è un quesito decisivo perché, effettivamente, la mitologia greca, che poi è stata sviluppata anche in
ambito romano-latino, offriva decine e decine di eroi. Ma io sono convinto che la risposta sta nella vera storia
raccontata dall’Odissea, che non descrive Ulisse come uno che parte, fa la guerra e torna a casa, ma racconta di un
uomo con uno struggente desiderio di mortalità. Nell’opera si racconta di Ulisse fermo sull’isola di Ogigia che si
dispera per non avere una nave che gli consenta di tornare a casa e nonostante l’offerta della ninfa Calipso di eterna
giovinezza, egli preferisce essere un uomo mortale, ma tornare in patria. Non ne vuol sapere di diventare un Dio, un
immortale. Forse è questo che ha affascinato moltissimo l'Occidente; questa scelta di essere mortale, di tornare a casa,
di rivedere suo figlio, la moglie, anche rischiando la vita, piuttosto che essere assunto in una noiosa immortalità senza
vecchiaia, ma senza avvenimenti. Ulisse non ne vuol sapere di stare in Paradiso. Preferisce la terra.
STUDENTESSA: Come viene interpretata oggi la figura di Ulisse? Ed è tuttora significativa la lettura che ne dà
Dante?
SCARPA: Potrei rispondere alla Sua prima domanda con un’altra domanda: “come dovremmo leggere noi le opere del
passato?” A questo proposito uno studioso famoso si chiedeva: “dovremmo leggere l'Odissea vestiti con un manto greco
oppure dovremmo indossarli tutti, ossia quello greco, poi quello dantesco, quello medioevale, poi dobbiamo metterci un
farsetto settecentesco e poi un cappottone novecentesco?”. In sostanza, la domanda è: “dobbiamo leggerlo consapevoli
di tutte le stratificazioni storiche?”. Ebbene, nonostante oggi si tenda a leggere l’opera omerica alla luce della cultura
greco-arcaica che l'ha prodotta, c’è da dire che nel Novecento Joyce ne ha fatto una lettura straordinaria. Ha scelto un
giorno a Dublino, il 16 giugno del 1904, giorno tra l'altro in cui lui ebbe il primo appuntamento con la sua fidanzata che
poi divenne sua moglie, Nora Joyce, narrando questa giornata di Leopold Bloom e di Stephen Dedalus ripercorrendo le
tappe di Ulisse in controluce. Egli descrive di eventi molto banali che paragona a quelli del viaggio di Ulisse, però
inseriti in una giornale normale e in una città moderna come se fosse una straordinaria avventura mitica. In questo modo
Joyce ha voluto dire che la vita è molto ricca e complessa anche nelle nostre città e vivere una giornata moderna
equivale, come ricchezza di esperienza, a vivere l'Odissea.
Dante invece stravolge l'eredità omerica poiché esalta Ulisse come un eroe affamato di avventura, rifiutando l’idea di un
eroe desideroso solo di tornarsene a casa dalla moglie.
STUDENTE: In che modo la figura di Ulisse può essere accostata a quella del superuomo?
SCARPA: In realtà Ulisse non ne vuol sapere di essere superumano, cioè non ne vuol sapere di essere immortale, ma
anzi sceglie la mortalità, l'umanità piena, la casa, il padre, il figlio. Sappiamo delle struggenti scene che avvengono a
Itaca quando lui trova la sua nutrice Euriclèa, quando si commuove nel rivedere il cane Argo, il pastore Eumèo, il figlio
Telemaco. Tutto questo ci descrive un uomo che è il contrario del superuomo. È vero che abbiamo in mente il
superuomo nietzschiano che, parlando del mare, dice: "non è mai stato così aperto il mare come oggi", oppure quando,
descrivendo l'avidità d'avventura di Zarathustra, dice: "da oggi il mare non è stato mai così aperto e spalancato", ma il
mare, per Ulisse è un mare chiuso, un ostacolo, un impedimento a tornare a casa. Egli non lo ama, così come non ama
andare in giro a vedere cosa succede tra queste genti strane che incontra. Solo una volta dice ai suoi compagni: “…
andiamo a vedere qui chi c'è, che genti ci sono, se amano gli Dei, se ne sono timorosi o se invece sono selvaggi". E
questo, quasi come un castigo, gli frutta l'avventura di Polifemo perché, se non avesse deciso di andare in giro a vedere
qual era la gente che abitava quella terra, non avrebbe perso molti dei suoi compagni, mangiati cannibalescamente dal
ciclope. Solo quella volta lui fa il superuomo spinto dalla curiosità, altrimenti tutte le altre volte le genti che incontra, le
incontra o per farsi dare dei doni, per procurarsi il cibo o solo casualmente.
Ma lui non si comporta mai come un avventuriero superumano.
STUDENTESSA: Secondo Lei Ulisse è un uomo che tende ad abbattere i confini, intesi come limiti della
conoscenza, o a mantenersene all’interno?
SCARPA: Io lo vedo come un eroe che percorre il confine. Pensiamo alle sirene. Che modo c'è per ascoltare le Sirene?
Se le ascolta libero muore perché viene risucchiato e se si mette i tappi di cera non le conosce. Dunque Ulisse è un eroe
che percorre proprio il confine.
Non è corretto il paragone, però, c'è un Canto del Purgatorio in cui Dante è in un gradone del Monte del Purgatorio per
interagire con i lussuriosi, ma per poter conoscere la lussuria e il vizio deve percorrere un sentiero strettissimo tra il
fuoco e un precipizio. Qui egli deve stare sul confine altrimenti viene bruciato se si avvicina troppo o cade giù se se ne
allontana.
STUDENTESSA: A proposito di quello che stiamo dicendo vorremmo proporLe un brano tratto dall'Odissea di
Franco Rossi che si riferisce appunto all'episodio delle Sirene.
ULISSE: “Legami qui. Ben stretto, con questa fune. E resta vicino. E ricorda, per quanto io ti implori e con gli occhi ti
chieda di slegarmi, tu non mi ascolterai, anzi ancora di più dovrai stringere le corde”.
SIRENE: “Vieni da noi. Ti mandiamo la fama tra gli uomini. Rifiuta l'invidia del male, il declino del corpo”.
STUDENTESSA: A partire da questo episodio non crede che l'importanza di Ulisse sia proprio nel fatto di
spostare i confini della conoscenza?
SCARPA: Sì. Tra l'altro questo episodio nella regìa di Franco Rossi era reso molto bene, perché il testo omerico non ci
descrive le Sirene. Le Sirene sono pura voce e ciò che promettono ad Ulisse è l'ascolto di un canto dolcissimo e
nient'altro. Sono descritte da Circe come donne molto affascinanti, contornate o affiancate da scheletri. Sono le signore
della morte e il loro canto è così seduttivo da negare l'evidenza della rovina, della distruzione, della morte. Ulisse si
lascia coinvolgere, ma non bruciare e annullare dalla conoscenza.
STUDENTESSA: Nell'episodio delle Sirene Ulisse sceglie di farsi legare, ma non permette ai suoi compagni di
ascoltare il canto al quale lui stesso però si vuole sottoporre. Dunque è "l'uomo della sapienza", come lo definisce
Giambattista Vico. Prova se stesso, ma impedisce agli altri in questo caso di mettersi in gioco e di mettersi alla
prova. È così? E, se è così, perché?
SCARPA: Si. Ulisse si configura come l’intellettuale pedagogo che, un po' anche nel Novecento, è stato individuato alla
testa di alcune rivoluzioni come quello che poteva scegliere per il popolo e al posto del popolo, decidere cos'era giusto e
cos'era sbagliato, cos'era buono e cos'era cattivo. Nel nostro tempo attuale questa figura È rappresentata dai sapienti
intellettuali che, di fronte a scene violente o di sesso proposte dalla televisione, possono decidere di guardarle perché
dotati di una capacità critica che altri non hanno. È come se dicessero a coloro che sono sprovvisti di strumenti di
difesa, di tapparsi le orecchie altrimenti potrebbero rovinarsi. Sono i sapienti, oggi, a decidere chi ascolta e chi no, chi
certe cose se le può godere e chi no.
STUDENTESSA: Ulisse in questo forte contrasto con sé stesso, trova difficoltà a resistere. Infatti, mentre da una
parte era consapevole che le Sirene lo avrebbero condotto alla morte e dunque a non tornare più in patria,
dall’altra avrebbe voluto cedere al loro canto. Qual’è il messaggio che ci vuole trasmettere Ulisse?
SCARPA: Nel comportamento di Ulisse si riconosce una contraddizione, una scissione, una volontà che viene frenata,
una consapevolezza di ciò che è bene e di ciò che è male, di ciò che è pericolo e di ciò che è tranquillità. Ma, anziché il
pensiero di Ulisse, mi sembra che il racconto omerico risalti maggiormente il comportamento dell’eroe. Si tratta di un
modo di narrare americano, comportamentista, behaviorista. Behavior, comportamento, dove non si va dentro la testa
delle persone ma, si descrivono gli atti, i gesti, i comportamenti, le conversazioni, come le sceneggiature
hollywoodiane.
STUDENTESSA: È possibile leggere il viaggio di Ulisse come un viaggio di purificazione dalle passioni?
SCARPA: Quando torna a Itaca, Ulisse dimostra di non essere una persona molto accomodante con i Proci che, come
sappiamo, aspiravano a sposare Penelope. Anzi, con una spietatezza totale, li uccise tutti aiutato dal figlio e dal pastore
Eumèo. Successivamente però è costretto a scendere a patti con i parenti dei Proci sterminati, poiché sprovvisto di una
forza militare tale da affrontarli. La lettura di questi episodi potrebbe essere quella della purificazione dalle passioni.
Egli conquista l’umanità dopo un viaggio di purificazione, riuscendo così a conquistare le passioni della vita e a farle
proprie.
Un po’ come Pinocchio che, dopo un viaggio di purificazione da immortale, perché è un pezzo di legno, alla fine si
conquista l'umanità e le sue passioni.
STUDENTESSA: È vero che Ulisse vuole vivere le passioni, però le vuole anche superare?
SCARPA: Sì, anche questa potrebbe essere una chiave di lettura della figura di Ulisse, ma come vedete, ha una tale
ricchezza questo mito che consente davvero tantissime interpretazioni. È questo il suo fascino.
STUDENTESSA: Che cosa rappresenta il mare nell'Odissea, il luogo del pericolo, delle avversità oppure il luogo
della conoscenza?
SCARPA: Nell’Odissea il mare è un luogo di caos che impedisce a Ulisse di tornare a casa; esso conta solo come
accumulo di tappe, di divagazioni, di enorme pericolo, di naufragi continui. Infatti sono assenti le scene di godimento
paesaggio e non c'è una felicità per la bellezza del mare. L’opera omerica narra così poco del mare che gli stessi
commentatori moderni hanno incontrato serie difficoltà nel tracciare sulla mappa il vero viaggio di Ulisse. Samuel
Butler, che alla fine dell'Ottocento diceva che l'Ulisse era stato scritto da una donna, per le moltissime figure femminili
umane e bellissime descritte nell'Odissea, sosteneva che il viaggio di Ulisse era semplicemente la circumnavigazione
della Sicilia. Altri erano convinti che fosse arrivato fino alla Sardegna e poi allo Stretto di Messina, mentre, per Dante,
giunse addirittura allo Stretto di Gibilterra per poi continuare nell'Oceano Atlantico. Ebbene l’itinerario del viaggio di
Ulisse deve la sua costruzione alla sensibilità moderna, poiché quello che viene descritto da Omero è semplicemente un
accumulo di tappe piuttosto vaghe, astratte, dove il mare viene visto come semplice connettivo tra un'avventura e
l'altra.
STUDENTE: Ed oggi qual'è l'immagine più rappresentativa del viaggio?
SCARPA: Forse è il respiro enorme di provare tutto come Ulisse. Mi viene in mente lo scrittore francese Louis
Ferdinand Céline che nel suo libro Viaggio al termine della notte ha affrontato questo respiro enorme descrivendo, con
verismo linguistico estremamente brutale, una disperata satira della vita umana. Il personaggio principale si reca in
Europa durante la Prima Guerra Mondiale; in Africa poi conosce il colonialismo e in America il capitalismo.
Successivamente torna in Europa dopo aver conosciuto in Africa la sopraffazione colonialistica, la schiavitù, lo
sfruttamento dell'uomo sull'uomo e dopo aver conosciuto la condizione delle classi operaie nell'Europa. La letteratura di
oggi invece manca di questo enorme respiro. Negli ultimi vent'anni abbiamo assistito a storie un po' piccole, minime,
che parlano di casa. È come se la nostra letteratura recente preferisse raccontare solo la parte di Itaca.
STUDENTE: Come guarda l'Odissea uno scrittore d'oggi e quanta influenza essa ha avuto sulla formazione del
suo linguaggio?
SCARPA: La guardo con invidia ovviamente per il grande respiro, fantasia e l'enorme possibilità di vivere delle
avventure. Come influenza il mio linguaggio? Non lo so, proprio per la sfida che mi pone a pensare in grande, a pensare
alla storia e al racconto come esperienza totale, come esperienza proprio dell'attraversamento dell'universo intero, per
quanto possibile, con le mie deboli forze.

ULISSE, L’UOMO CHE NON CONOSCE CONFINI


Virgilio, Ovidio, Cicerone avevano fatto dell’Ulisse omerico una figura mitica di navigatore, desideroso di conoscere il
mondo e di allargare le sue conoscenze.
La tradizione latina della decadenza (Seneca, Tacito, Plinio, Claudiano) aveva accennato vagamente a un viaggio di
Ulisse al di là delle Colonne d’Ercole, nei mari d’occidente, dove egli scompare durante una tempesta.
La tradizione medievale fece di Ulisse un prototipo di viaggiatore per mare e per terra. Dante si ispirò a queste vaghe
notizie, ai poemi di mare di Uggeri il Danese, di Ugone di Bordeaux e, in particolare, al viaggio senza ritorno dei fratelli
Vivaldi e ne fece una figura leggendaria. Ulisse non ritorna in patria; spinto dalla brama di conoscere, rinuncia ad una
vita tranquilla nella sua isola e riprende il mare: una sfida all’ignoto, alla ricerca del “mondo senza gente”.
L’Ulisse omerico, invece, ritornato nel tranquillo rifugio della sua reggia, vi può attendere la fine della vita, consunto
dai malanni dell’età decrepita.
Possiamo quindi dire che la figura di Ulisse ha affascinato poeti e prosatori di tutti i tempi: il grande Omero ne fece un
eroe dal “multiforme ingegno” e nell’Odissea egli diventa il protagonista che accentra su di sé l’attenzione degli uomini
e degli dei e che tuttavia pensa sempre alla sua casa, alla dolce sposa e al figlio.
In Dante la figura di Ulisse risplende di una luce nuova, non è più l’eroe generoso e astuto, il giustiziere implacabile,
l’uomo che ama gli affetti domestici ma l’uomo moderno che, con le sue forze, anela ad allargare la sua esperienza,
l’appassionato del conoscere, il simbolo di tutti i tempi.
Ma al mito dell’ultimo viaggio torna anche la poesia di Umberto Saba “Ulisse” con la quale si chiude la sezione
Mediterranee del Canzoniere (1946). Sulla ricerca di conoscenze e sul doloroso amore della vita anch’essa viaggio
navigazione incessante, si fonda la sottile trama di riferimenti che costituiscono il parallelismo dell’umana vicenda del
poeta con Ulisse e il suo ultimo viaggio. Come Ulisse, infatti, anche Saba ha navigato nella sua giovinezza facendo
esperienza delle meraviglie e delle insidie del viaggio.
E ancora Arturo Graf parlò di Ulisse e come l’Ulisse dantesco anche questo sparì nei profondi gorghi del mare; Pascoli
narra a modo suo la vicenda di un Ulisse che, sfinito dalla fatica, è preso dal sonno proprio in vista della sua cara isola:
l’ultimo approdo di Ulisse sarà il Nulla.
D’Annunzio, al quale la figura di Ulisse giunge con tutti i particolari omerici e con la tragedia che Dante ha creato sulla
morte dell’eroe, costruisce un’immagine in cui si adunano tutte le virtù della forza perfetta: e il poeta vuole essergli
uguale, appunto un Superuomo.
Non trascuriamo di aggiungere a questa lista Primo Levi che non dimenticò Ulisse nemmeno nei campi di
concentramento tedeschi della Seconda Guerra Mondiale: Primo Levi narra al compagno di sventura Jean la storia di
Ulisse perché, secondo la sua visione, il viaggio di questo uomo riguarda tutti gli uomini in travaglio e quindi loro in
particolare.
Abbiamo visto quindi come il mito di Ulisse ritorni alla mente e nei brani di numerosi autori, proprio per la sua
importanza di uomo voglioso di conoscenza contro tutti e anche contro Dio. Infatti, chi non ha mai desiderato conoscere
qualcosa, anche di poca importanza, sfidando gli altri e il sistema intero?

L'Ulisse dei greci


Mito dal greco mythos significa racconto, narrazione delle avventure e delle passioni di eroi e di dei. Nell'antica Grecia
aedi e rapsodi tramandavano, accompagnandosi con la lira, i racconti degli eroi per celebrarne le virtù della forza, della
scaltrezza, dei coraggio e della generosità.
La tradizione attribuisce la composizione dell’Iliade e dell'Odissea al poeta greco Omero (òmeros in greco significa
"ostaggio"), la cui identità di povero maestro di scuola o di cantore cieco è avvolta nella leggenda. Oggi l'opinione più
accreditata è che i due poemi sarebbero il risultato di una vasta gamma di composizioni popolari, tramandate oralmente
dai cantori e poi organizzate e redatte nell’VIII° sec. da un solo aedo, convenzionalmente chiamato Omero,
incarnazione e simbolo dei genio poetico greco. Giacomo Leopardi definì Omero “il padre e il perpetuo principe di tutti
i poeti dei mondo. Queste due qualità di padre e principe non si riuniscono in verun altro uomo rispetto a verun'altra
arte o scienza umana... Tutto si è perfezionato da Omero in poi, ma non la poesia”.

La creazione poetica dei miti omerici si ritrova in numerosi testi della letteratura, dal Medioevo ai nostri giorni, in
particolare il personaggio di Ulisse, quale fu delineato nell'Odissea con le sue molteplici caratteristiche, astuzia,
coraggio, saggezza, ha alimentato per secoli l'immaginario collettivo occidentale. L'Odissea è il più grande libro di
avventure, incentrato sulla personalità di Odisseo; è una vera e propria canzone di gesta che fonde il magico ai racconti
dei viaggi di mare propri dei colonizzatori greci (VIII-VI sec. a. C.) e dei loro spirito di avventura, avidi di spedizioni in
terre lontane ed ignote. Ulisse incarna e rappresenta le qualità migliori degli antichi navigatori ionici: l'inventiva, la
curiosità avventurosa, il coraggio, le abilità e la pazienza. Secondo Omero, Odisseo significa “colui che è odiato”.
L'eroe, infatti, è perseguitato dal destino. Egli affronta insidie e pericoli previsti ed imprevisti, escogitando soluzioni
geniali; è anche sedotto dal fascino dell'avventura, pur avvertendo la nostalgia di una vita tranquilla, di un sogno di pace
che può realizzare solo con il ritorno ad ltaca. La personalità dell'Ulisse omerico è multiforme e complessa con le
contraddizioni psicologiche ed interiori tipiche della natura umana: è astuto, ingegnoso, versatile, prudente, inquieto,
attratto dalla curiosità ma con l'anelito verso gli affetti più cari: la patria ltaca, la fedele moglie Penelope e il figlio
Telemaco. La sua maturità e la sua saggezza nascono dall'affrontare le più difficili prove.
L'Ulisse latino
Questo tema dell'uomo “errante” e navigatore, il cui sapere e la cui esperienza si arricchiscono sempre di più lungo il
cammino, ha esercitato un enorme fascino sulle letterature e sugli scrittori occidentali, da Orazio, a Seneca, a Cicerone,
che hanno sottolineato dell'eroe omerico il patrimonio di conoscenze e di saggezza conquistato nel suo avventuroso
viaggio e ne hanno fatto il simbolo della virtù intesa come profondo ed insaziabile desiderio dell'uomo della
conoscenza, anche se per questo egli deve ritardare il nostos, cioè il ritorno in patria. Orazio definisce Ulisse “modello
di virtù e di sapienza” (“...conobbe i costumi degli uomini... e soffrì molte asperità nel vasto mare”, Epistole). Seneca
accosta Ulisse ed Ercole celebrandoli come uomini “vincitori di ogni genere di paure”(Costanza del sapiente).
Soprattutto Cicerone, commentando l'episodio dell'incontro di Ulisse con le Sirene dice dell'eroe: “... le Sirene gli
promettono la conoscenza: non deve quindi meravigliare se ad Ulisse, questa apparisse più cara della patria, tanto era
desideroso di conoscenza” (Sul sommo bene e sul sommo mal).

Ulisse nel Medioevo


In età medioevale Dante, collocando Ulisse nell'Inferno tra i consiglieri di frode, ne evidenze principalmente il desiderio
di conoscenza e immagina un ultimo viaggio dell'eroe che, insieme ai compagni, si avventura oltre le Colonne d'Ercole
(Stretto di Gibilterra), sulle quali, secondo i latini, era scritto: “Non plus ultra”. Esse infatti costituivano il confine dei
mondo allora conosciuto e la prudenza consigliava il “non andare oltre”, ma Ulisse deve rischiare e varca i limiti che
impongono alla sua condizione umana di fermarsi a quanto già noto e conosciuto. La conclusione è il naufragio
definitivo.

L'Ulisse romantico
La figura dell'eroe omerico diventa simbolo dei ritorno ai miti dell'antichità e dell'esilio dei poeta nel sonetto di Foscolo
A Zacinto (1802). Ulisse “bello di fama e di sventura” è affine al poeta - in quanto entrambi greci nati sulle sponde
ioniche ed entrambi esuli che sospirano la patria lontana - ma tra i due il legame è anche di antitesi, perché all'eroe
greco è stato concesso quel ritorno in patria che sarà negato al Foscolo.

Ulisse nel Novecento


In età moderna il Pascoli ha dedicato ad Ulisse più di un componimento: Il ritorno, incluso nella raccolta Odi e Inni, il
cui tema prevalente è quello della nostalgia per la patria lontana, e L'ultimo viaggio che rientra nella raccolta dei Poemi
conviviali. L'epopea antica è interpretata alla luce di significati estremamente moderni: l'Odisseo pascoliano è triste e
deluso, pieno di dubbi, dominato dall'ansia di cogliere il vero senso delle cose, ma il suo ultimo viaggio è un vano errare
ben lontano dal coraggio e dalle sicurezze dell'Ulisse omerico.
La mitica figura di Ulisse attualizzata diventa invece simbolo del superuomo nel primo libro delle Laudi di D'Annunzio,
Maia o Lode della vita, ispirato all'esperienza dannunziana di un viaggio in Grecia. Il poeta immagina di incontrare
Ulisse intento alla navigazione nel mar Ionio, in sdegnosa solitudine: l'eroe omerico superiore ai compagni diventa un
superuomo, simbolo della impresa eroica della navigazione, dello sprezzo della vita e del pericolo.
Trasfigurato in versione parodistica Ulisse diventa il protagonista della poesia di Gozzano L’ipotesi. Non è più l'eroe
omerico fedele a Penelope che approda con la nave e i compagni alle terre abitate da dee e maghe, ma un “deplorevole
esempio d'infedeltà maritale”, un play boy con un moderno «yacht» che tocca “con liete brigate” le spiagge dei
Mediterraneo frequentate da “cocottes”, cioè da donne di facili costumi. L'ironia e la parodia dei poeta non intendono
dissacrare il mito omerico o l'Ulisse dantesco (Gozzano riprende numerose espressioni di Dante), ma sono rivolte a far
crollare l'aristocratico Ulisse-superuomo di D'Annunzio: il Re di Tempeste diventa un uomo comune, “un tale” dal
vivere dissennato e che, spinto da una speranza chimerica, cercò fortuna in America, ma “piombò nell'inferno dove ci
resta tuttora”.
In età contemporanea i poeti Ungaretti e Saba hanno espresso in pochi versi il significato universale dei mito di Ulisse,
riprendendo il tema dei viaggio. In Allegria di naufragi Ungaretti esprime la volontà di persistere nel “viaggio”, dopo il
“naufragio”: dopo ogni delusione e mancato approdo della vita dell'uomo, il “superstite lupo di mare” - che assume
valore emblematico - non può arrestarsi e il viaggio continua con una nuova partenza.
Il “non domato spirito,/e della vita il doloroso amore”, prevalgono in Saba, sospinto “al largo” da un indomabile e
doloroso amore della vita, alla ricerca di nuove esperienze.
In conclusione, parendo dall'Odissea di Omero, possiamo analizzare le opere letterarie dei poeti che hanno
reinterpretato la mitica figura di Ulisse, collegando testi originariamente indipendenti in un insieme organico e
sistematico (ipertesto). (Panebianco, Pullega, Il lettore di poesia, Clio, pp. 463 sgg.).

Questa bozza di percorso ipertestuale può essere da te ampliata con passeggiate più o meno ortodosse in altri testi, in
altri viaggi letterari. Fra quelli che abbiamo già incontrato, vengono in mente testi di Baudelaire (Albatros, ecc.), di
Rimbaud (Il battello ebbro), di E. L. Masters (J. Gray)...

Un’occhiata all’Odissea

Ma, intanto, continuiamo un po’ col nostro “ripasso” cominciando proprio dal testo Archetipo, l’Odissea. Va da sé che
non è qui possibile fare una scelta antologica esaustiva o comunque veramente significativa di un poema così vasto e
complesso. Ci limitiamo ad un paio di scampoli testuali e ad alcuni cenni che ci aiutano, forse, ad individuare alcune
delle caratteristiche di base del mito. Cominciamo dunque dall’inizio...

Odissea: Il proemio

Narrami, o Musa, dell'eroe multiforme, che tanto


vagò, dopo che distrusse la rocca sacra di Troia:
di molti uomini vide le città e conobbe i pensieri, 3
molti dolori patì sul mare nell'animo suo,
per acquistare a sé la vita e il ritorno ai compagni.
Ma i compagni neanche così li salvò, pur volendo: 6
con la loro empietà si perdettero,
stolti, che mangiarono i buoi del Sole
Iperione: ad essi egli tolse il dì del ritorno. 9
Racconta qualcosa anche a noi, o dea figlia di Zeus.
(Omero, Odissea, libro 1, vv.1-10 trad. di G.A.Privitera, Mondadori, Milano)

1 o Musa: la Musa è Calliope, divinità ispiratrice della poesia epica, figlia di Zeus e di Mnemòsine (dea della
memoria).
1 eroe multiforme: l'epiteto dal greco polútropon significa “dalle molle risorse”. Il poeta, già dal primo verso, mette in
risalto l'aspetto eroico e l'intelligenza versatile di Ulisse.
2 vagò: andò peregrinando. Il verbo allude all'argomento centrale dei poema, il racconto dei viaggi di Ulisse.
2 rocca sacra di Troia: perifrasi per indicare Troia, che fu distrutta grazie allo stratagemma, ideato da Ulisse, del
cavallo di legno, dentro il quale i greci si erano introdotti nella città.
3-5 di molti uomini ... /... compagni: il poeta evidenze la curiosità e la sete di nuove conoscenze dell'eroe ma introduce
anche l'altra tematica del poema, cioè le sofferenze e i dolori sopportati da Ulisse che vuole ritornare in patria e che si
sente responsabile anche della vita dei compagni.
7-9 empietà ... /... ritorno: i compagni di Ulisse, approdati all'isola di Trinacria (la Sicilia), dove pascolavano gli
armenti dei Sole (lperione è epiteto del sole probabilmente col significato di “altissimo”), affamati uccisero i buoi
bianchi sacri al dio, il quale contro di loro invocò la vendetta di Zeus.
10 Racconta ... : il poeta lascia alla Musa la scelta dell'argomento da cui prendere le mosse, infatti il poema incomincia
non dalla partenza di Ulisse da Troia, ma da quando l'eroe lascia, per l'intervento degli dei, l'isola di Ogigia dove è stato
trattenuto dalla dea Calipso. Gli avventurosi viaggi per dieci lunghi anni e le soste tra popoli sconosciuti sono
raccontati, in un lungo flash-back, da Ulisse ad Alcinoo, re dei Feaci.

Si dicono nosti i racconti del ritorno in patria degli eroi che avevano combattuto sotto le mura della città di Troia ed
erano scampati alla morte. L'Odissea è il nosto di Ulisse, le cui peregrinazioni sulla via del ritorno durarono dieci anni
dalla fine della guerra di Troia.
Il proemio è composto dall'invocazione alla Musa e dalla pròtasi con la dichiarazione dell'argomento del poema. Il
lettore è condotto immediatamente in medias res, infatti il poeta presuppone che gli avvenimenti relativi alla guerra di
Troia siano già noti e, nel delineare il profilo dell'eroe, evidenze soprattutto l'importanza che ha per Ulisse il ritorno in
patria.
La figura dell'eroe è caratterizzata da astuta ingegnosità, intelligenza e versatilità, dal desiderio di conoscenza acquistata
in tante vicende, dalla resistenza e dalla paziente sopportazione della sofferenza per il desiderio di tornare in patria,
dalla consapevolezza degli obblighi e dal sollecito interessamento nei confronti dei compagni, dei quali però condanna
l'empietà.

Sottolineiamo: di Ulisse ci viene subito detto che è versatile, ingegnoso, curioso (spinto dal desiderio di conoscere e
dallo spirito di avventura); ma con pari intensità il proemio sottolinea che per Ulisse riveste il ritorno in patria.
Questo aspetto è ribadito da molti episodi del poema. Vediamo uno famoso: Ulisse, dopo la guerra di Troia, è trattenuto
nell’affascinante isola di Ogigia dalla Bella dea Calipso, che potrebbe garantirgli un futuro da felice mortale. L’eroe,
però, preferisce rischiare il mare aperto e le insidie del destino per tornare alla sua isola e alla sua mogliettina. Ma
lasciamo la parola a Omero (o, a chi per lui!).
torna su >>>>>

Odissea: Il congedo da calipso

«Divino figlio di Laerte, Odisseo pieno di astuzie,


e così vuoi ora andartene a casa, subito,
nella cara terra dei padri? e tu sii felice, comunque. 205
Ma se tu nella mente sapessi quante pene
ti è destino patire prima di giungere in patria,
qui resteresti con me a custodire questa dimora,
e saresti immortale, benché voglioso di vedere
tua moglie, che tu ogni giorno desideri. 210
Eppure mi vanto di non essere inferiore
a lei per aspetto o figura, perché non è giusto
che le mortali gareggino con le immortali per aspetto e beltà».
Rispondendo le disse l'astuto Odisseo:
«Dea possente, non ti adirare per questo con me: lo so 215
bene anche io, che la saggia Penelope a
vederla è inferiore a te per beltà e statura:
lei infatti è mortale, e tu immortale e senza vecchiaia.
Ma anche così desidero e voglio ogni giorno
giungere a casa e vedere il dì del ritorno. 220
E se un dio mi fa naufragare sul mare scuro come vino,
saprò sopportare, perché ho un animo paziente nel petto:
sventure ne ho tante patite e tante sofferte
tra le onde ed in guerra: sia con esse anche questa».
(da Odissea, libro V, vv.203-224, trad. di G.A.Privitera, cit.,)

203 Divino... astuzie: è caratteristico dello stile omerico l'uso di aggettivi e opposizioni che descrivono le qualità
fisiche e morali dei personaggi. Divino e pieno di astuzie sono due epiteti tipici dei cosiddetto “stile formulare” che
utilizza formule risalenti allo stile narrativo orale dei cantastorie. Gli eroi in Omero sono di solito definiti divini; pieno
di astuzie è l'epiteto usato per definire Ulisse.
206 se tu nella mente sapessi: se tu potessi prevedere.
208 custodire: abitare.
209 immortale: Calipso, come dea, era in grado di donare l'immortalità ad Ulisse.
215 possente: potente.
217 statura: i Greci immaginavano gli dei di statura superiore a quella degli uomini.
221 scuro: è un epiteto ricorrente in Omero per definire il mare.
222 paziente: l'aggettivo indica la capacità di sopportare le disgrazie e le avversità.

Dunque: il dio Ermes, inviato da Zeus, si è recato a Ogigia ed ha ordinato a Calipso di lasciar partire Ulisse, che lei
trattiene nell'isola ormai da sette anni (il nome di Calipso significa in greco «colei che nasconde»). Anche se adirata nei
confronti degli dei che reputa invidiosi della sua felicità, la ninfa è costretta a cedere alla volontà di Zeus.
Recatasi da Ulisse, lo trova sulla riva del mare dove l'eroe trascorre i suoi giorni in lacrime, pieno di nostalgia per la
patria e la famiglia lontane. La dea gli annunzia la partenza, ma gli prospetta anche i pericoli del viaggio da affrontare,
prima di poter fare ritorno in patria da Penelope, la donna mortale che l'eroe preferisce sì da rinunziare alla immortalità
che lei, come dea, gli avrebbe donato. Calipso fa dunque ponderare ad Ulisse l'errore della rinunzia a tante cose belle,
per l'ansia e la nostalgia di una donna mortale e così ingrandisce agli occhi del lettore la figura dell'eroe, che preferisce
la sua umanità, fra rischi e tempeste, al soggiorno eternamente sereno nell'isola della dea, e che, fedele alla patria e alla
famiglia, è sordo ad ogni attrattiva del divino che gli insinua Calipso.
Nella risposta Ulisse sa anche trovare i giusti accorgimenti che non indispettiscano la dea, riconoscendole una
indiscussa bellezza e superiorità nei confronti di Penelope. In questo si esprime il suo eroismo di uomo tenace e
perseverante, dall'animo forte, desideroso di rivedere la patria e la moglie.
Anche in questo episodio, quindi, si vede che l’eroismo dell’Ulisse Omerico non risiede tanto nel coraggio fisico, nel
gusto per il rischio e per l’avventura, quanto nella tenacia, perseveranza, pazienza, capacità di sopportazione e spirito di
sacrificio.

E l’immagine dell’eroe impavido che sfida l’ignoto per inestinguibile sete di sapere e passione d’avventura? Non v’è di
esso traccia nel testo base del suo topos? Bèh, qualcosa c’è. Nel famosissimo episodio di Polifemo, ad esempio, Ulisse
si palesa come uomo avventuroso che sfida coraggiosamente il destino per pura curiosità.

torna su >>>>>

Odissea: Ulisse e Polifemo

Non riporto in questo caso i versi omerici, ma la trascrizione della storia ad opera di un mitico studioso di miti.

Giunse così a un'isola fertile e boscosa che pareva abitata soltanto da innumerevoli capre selvatiche e ne uccise
parecchie per banchettare con le loro carni. Gli equipaggi sbarcarono al completo e a una sola nave fu affidato il
compito di compiere in esplorazione il periplo dell'isola. Quella terra apparteneva, ahimè, ai barbari Ciclopi, così
chiamati per via dell'unico grande occhio rotondo che baluginava nel mazzo della loro fronte. Ormai scordata l'arte
degli avi loro che lavoravano come fabbri per Zeus, erano pastori senza legge né navi né moneta o mercati. Vivevano
corrucciati, l'uno lontano dall'altro, in caverne che si allungavano nei fianchi di montagne rocciose. Scorto da lontano
l'ingresso di una di tali caverne, che si apriva alto e ombreggiato da piante di lauro al di là di uno steccato, Odisseo e i
suoi compagni avanzarono, ignari di trovarsi nella proprietà di Polifemo, gigantesco figlio di Posidone e della Ninfa
Toosa, che era abituato a nutrirsi di carne umana. I Greci sedettero allegramente attorno al focolare, sgozzarono e
arrostirono alcuni capretti trovati nella grotta, si servirono dei formaggi allineati nei canestri lungo le pareti e
banchettarono in letizia. Verso sera apparve Polifemo. Egli spinse il suo gregge nella caverna e ne chiuse l'ingresso con
una pietra così pesante che venti paia di buoi sarebbero riusciti a stento a smuoverla; poi, senza rendersi conto che
aveva ospiti, sedette per mungere pecore e capre. Infine alzò l'occhio dal mastello e vide Odisseo e i suoi compagni
riuniti attorno al focolare. Chiese irosamente che cosa mai facessero nella caverna. Odisseo rispose: « Mostro gentile,
noi siamo Greci e torniamo alle nostre case dopo il saccheggio di Troia; rammenta, ti prego, ciò che devi agli dèi e
accoglici ospitalmente ». Per tutta risposta Polifemo sbuffò, agguantò due marinai per i piedi, fracassò il loro cranio al
suolo e ne divorò le carni crude, spolpando le ossa come un leone montano.
Odisseo avrebbe voluto vendicare i suoi compagni prima dell'alba, ma non si arrischiò, perché soltanto Polifemo aveva
la forza necessaria per smuovere il masso di roccia dall'ingresso della caverna. Trascorse dunque la notte col capo
stretto tra le mani, elaborando un piano di fuga, mentre Polifemo russava in modo spaventoso. Come prima colazione il
mostro uccise e divorò altri due marinai, poi spinse dinanzi a sé il gregge e richiuse l'ingresso della caverna con il
masso; ma Odisseo si impadronì di una trave di olivo ancor verde, ne appuntì una estremità indurendola al calore del
fuoco e poi la nascose sotto un mucchio di sterco. Quella sera il Ciclope ritornò e mangiò altri due dei dodici marinai;
ma tosto Odisseo gli offri cortesemente una tazza del forte vino donatogli da Marone di Ismaro Ciconia; per fortuna
Odisseo ne aveva portato con sé un otre pieno. Polifemo bevve avidamente e ne chiese una seconda coppa, poiché in
vita sua non aveva mai assaggiato niente di più inebriante del siero di latte, e accondiscese a chiedere il nome di
Odisseo. « Mi chiamo Oudeis », rispose Odisseo, « o almeno questo è il soprannome che tutti mi danno ».
Ora, Oudeis significa nessuno. « Ti mangerò per ultimo, caro Nessuno », disse Polifemo. Non appena il Ciclope cadde
nel profondo sonno degli ubriachi, poiché il vino non era stato allungato con acqua, Odisseo e i suoi compagni
arroventarono la punta della picca nelle braci del focolare; poi la conficcarono nell'unico occhio di Polifemo e mentre i
suoi compagni la premevano verso il basso, Odisseo la fece girare così come gira un succhiello nel legno di una nave.
La carne bruciata sibilò e Polifemo lanciò un urlo orribile che indusse tutti i suoi compagni ad accorrere da vicino e da
lontano per vedere che cosa mai accadeva. « Sono cieco e il mio dolore è spaventoso! » gridava Polifemo. « Tutta colpa
di Oudeis. » « Povero disgraziato », replicarono gli altri Ciclopi, « se, come tu dici, la colpa è di nessuno, di certo la
febbre ti fa delirare. Prega il padre tuo Posidone affinché ti ridoni la salute e smettila dì strillare a questo modo! » Se ne
andarono brontolando e Polifemo si avvicinò a tastoni all'ingresso della caverna, spostò la pietra e, le mani protese
dinanzi a sé, attese ansioso di poter agguantare i Greci mentre cercavano di fuggire. Ma Odisseo legò ciascuno dei suoi
compagni sotto il ventre di un ariete con dei vimini, e ne assicurò le estremità ad altri due montoni, distribuendo
uniformemente il peso, in modo che il montone sotto il quale stava l'uomo si trovasse nel mezzo e gli altri due ai lati.
Per sé scelse un enorme ariete, il capo del gregge, e si aggrappò al pelo del suo ventre con le dita dei piedi e delle mani.
All'alba Polifemo spinse il gregge al pascolo, accarezzando il dorso di ogni bestia per assicurarsi che non vi fosse un
uomo sopra a cavalcioni, e indugiò a parlare con voce mesta all'ariete che portava Odisseo. « Perché, caro, non guidi il
gregge, come sei solito fare? Forse ti impietosisce la mia sventura? » Ma alla fine lo fece uscire con gli altri.
Così Odisseo riuscì a liberare sé e i suoi compagni, e a spingere l'intero gregge verso la nave. Subito la misero in mare
e non appena gli uomini, dato di piglio ai remi, cominciarono a vogare, Odisseo non poté trattenersi dal lanciare un
ironico saluto al Ciclope. Per tutta risposta Polifemo scagliò in acqua un masso che cadde a poca distanza dalla prua
della nave e sollevò un'onda che per poco non la respinse sulla spiaggia. Odisseo rise e gridò: «Se qualcuno ti chiederà
chi ti ha accecato, rispondi che non fu Oudeis, ma Odisseo d'Itaca!» Il furibondo Ciclope pregò allora Posidone: «Padre,
fa' sì che il mio nemico Odisseo, se mai ritorni in patria, vi giunga tardi e a stento, su nave altrui, dopo aver perso tutti i
suoi compagni, e nuove sciagure trovi oltre la soglia della sua casa!» Poi scagliò un secondo masso che cadde dietro la
nave e la spinse veloce verso la spiaggia dove i compagni di Odisseo lo attendevano ansiosi. Ma Posidone accolse la
supplica di Polifemo e promise di vendicarlo.
Odisseo puntò la prua verso nord e... (da: Robert Graves, I Miti greci, Longanesi)

L’avventura del Ciclope, dunque, non è casuale ma deliberatamente cercata: l'eroe vuole conoscere da vicino i Ciclopi
per sapere chi siano, se uomini civili o selvaggi. Quindi Ulisse è davvero, in questa circostanza,
il prototipo dell'uomo avventuroso,
l'immagine poetica di quel marinaio greco che, animato da un indomabile dinamismo, da curiosità dell'ignoto e da sete
di guadagno, varcava i mari, conosceva nuove genti, si esponeva a pericoli non indifferenti.
Eppure l'episodio di Polifemo è quasi un unicum nell'Odissea, il cui eroe è più sovente costretto a subire avversità
impreviste, che indotto a rischiare per puro spirito di avventura. Ciò non toglie che l'incontro con il Ciclope abbia un
grande rilievo - anche in termini di spazio riservatogli - nella narrazione delle peripezie dell'eroe; e che la tradizione
letteraria greca se ne sia impadroniva, consacrando Ulisse a eroe dell'intelligenza e dell'astuzia, emblema dell'uomo
fragile ma acuto, contrapposto al gigante goffo e sciocco.
L'intelligenza di Ulisse si manifesta anzitutto come
desiderio di conoscenza,
e pone i presupposti stessi dell’episodio. E non è soltanto il discorso che Ulisse rivolge ai compagni nel momento in cui
si accinge, con il solo equipaggio della sua nave, a partire in esplorazione, a manifestare la curiosità intellettuale
dell'eroe; più oltre, nel racconto che egli fa dell'avventura trascorsa, Ulisse torna a sottolineare l'intensità della sua ansia
conoscitiva, tale da superare la prudenza stessa e la sollecitudine verso i compagni, che lo supplicano di fuggire
dall'antro dei gigante: «ma io non volli ascoltare - e sarebbe stato assai meglio - / per poterlo vedere, e vedere se mi
avrebbe ospitato».
Come tanti eroi di romanzi d'avventura che seguiranno, Ulisse ha
il gusto del rischio:
non può appagarlo il furto di bestiame e formaggi, che i compagni suggeriscono come motivo sufficiente a giustificare
l'impresa, perché egli cerca il confronto e la lotta; ne è conferma, nella parte conclusiva dell’episodio, l'estrema sfida
lanciata a Polifemo, tramite la rivelazione dei suo vero nome.
La lotta contro ostacoli in apparenza insormontabili è una delle situazioni ricorrenti nella narrativa d'avventura.
Nell'Odissea stessa, l'eroe si cimenta ora contro mostri, come il Cíciope, in cui l'aspetto umano appare deformato e il
bruto cannibale convive con l'essere capace di un qualche sentimento (l'affetto per il gregge); ora contro pericoli
costituiti essenzialmente da forze della natura (Scilla e Cariddi, personificazione dei rischi che la navigazione comporta,
o le stesse tempeste marine in balia delle quali l'eroe può trovarsi); ora contro insidie più sottili, perché si celano dietro
apparenze allettanti (Circe, che ammalia gli uomini e li trasforma in animali, o le Sirene, che con il canto seducono i
marinai e li distolgono dal ritorno).
In tutte le diverse situazioni di pericolo, tuttavia, l'eroe vince sostanzialmente grazie ad una qualità: l'intelligenza.
E vero che nell'Odissea, sia pure in misura minore rispetto all’Iliade, conta ancora l'elemento divino (Ulisse è protetto in
particolare dalla dea Atena); ma per interi episodi, valga come esempio quello di Polifemo, egli è in realtà solo: è un
uomo che usa come arma l'ingegno e compie il prodigio di trionfare contro chi, dal punto di vista fisico, può
schiacciarlo facilmente. La vittoria è ottenuta perché l'eroe sa innanzi tutto vincere se stesso, dominare quegli impulsi
primordiali che lo porterebbero a soddisfare il desiderio di vendetta, uccidendo il mostro addormentato: vittoria
relativamente facile, questa, ma del tutto vana, perché, morto Polifemo, il suo antro rimarrebbe per sempre una prigione
senza via d'uscita. L'intelligenza si manifesta dunque in Ulisse non solo come acutezza d'ingegno, capacità di escogitare
brillanti soluzioni ai problemi, ma come
razionalità e autocontrollo:
doti che gli consentono di formulare un piano e di giungere all'esito felice della sua avventura, dopo un'accurata
riflessione sui possibili risvolti negativi di ogni azione preventivata; a meno che l'orgoglio della vittoria ottenuta non lo
induce a sfidare nuovamente il pericolo: pensiamo alla conclusione dell'episodio.
Ulisse, e il suo racconto della lotta contro Polifemo in particolare, ci sono così cari perché contengono un messaggio di
fiducia nelle forze dell'uomo, nella sua capacità di uscire vittorioso, grazie a doti intellettuali, da situazioni che si
presentano in partenza assai gravi, anzi disperate.
Un eroe più illuminista, quindi, che romantico?
Forse sì, forse no, forse... Forse Ulisse piace proprio per la sua complessità, per la sua ambiguità, per la sua polifonia,
per la sua capacità di incarnare le nostre varie pulsioni e le pulsioni varie delle varie epoche.

Molti personaggi del mito greco sono stati fatti oggetto, nella letteratura di ogni epoca, di riprese e reinterpretazioni;
forse però nessuno quanto Ulisse ha dato origine a «rivisitazioni» tanto numerose e varie. Non è certo possibile qui
contemplarle tutte; né, d'altro canto, possiamo esaminare a fondo quei fattori, di ordine storico, culturale, letterario, che
hanno inciso sulle reinterpretazioni successive della medesima figura, quella di Ulisse appunto, determinando l'ampia
gamma di toni che caratterizza queste «variazioni sul tema». Ci possiamo invece domandare perché proprio Ulisse, più
di altri personaggi del mito, abbia sollecitato poeti, drammaturghi, prosatori a «gareggiare» con Omero: se esistano cioè
nel personaggio archetipico, in quell’Ulisse omerico che è il primo modello, l'antenato di tutti gli Ulisse in seguito creati
dalla letteratura, elementi tali da fornire giustificazione ad un così vasto proliferare di rivisitazioni.
Una prima risposta può essere questa: Ulisse, fra i personaggi omerici - anzi, fra tutti gli eroi della mitologia greco-
romana - è senza dubbio il più complesso e, se vogliamo, il più contraddittorio: si presta, quindi, a reinterpretazioni di
segno diverso.
Non solo: tra le sue qualità spicca l'intelligenza, qualità per così dire «neutra», che può suggerire sviluppi in senso
elogiativo, ma anche critico, del personaggio. L'intelligenza può essere vista infatti come dote positiva da chi voglia
esaltare in Ulisse il prototipo dell'uomo artefice e padrone del proprio destino, grazie all'iniziativa ed all'ingegno; ma
anche come qualità negativa, che spinge a troppo osare, a dimenticare ogni senso della misura; o addirittura apparire nei
suoi aspetti deteriori di opportunismo e doppiezza.

Alcuni autori, ad esempio, hanno ripreso il mito del ritorno (nosto),


dell’eroe comunque benvoluto dal fato (da qualche amica divinità) che, pur dopo un lungo e travagliato viaggio (dopo
una lunga e travagliata “odissea”), ritorna alla sua terra natia per godervi in pace lo spegnersi della vita mortale. Magari
per contrapporre la fortuna dell’eroe classico in contrapposizione all’infausto destino dell’eroe romantico. Il riferimento
più scontato a questo proposito è il sonetto di

Foscolo, A Zacinto,

che abbiamo già citato all’inizio e che abbiamo puntualmente analizzato l’anno scorso. Lo riporto qui ad uso e consumo
delle bimbe più pigre che non vogliono fare la fatica di rispolverare il vecchio volume dell’antologia .

Né più mai toccherò le sacre sponde 1


ove il mio corpo fanciulletto giacque,
Zacinto mia, che te specchi nell'onde 3
del greco mar, da cui vergine nacque

Venere, e fea quell'isole feconde 5


col suo primo sorriso, onde non tacque
le tue limpide nubi e le tue fronde 7
l’inclito verso di colui che l'acque

cantò fatali, ed il diverso esiglio, 9


per cui bello di fama e di sventura
baciò la sua petrosa Itaca Ulisse. 11

Tu non altro che il canto avrai del figlio,


o materna mia terra; a noi prescrisse 13
il fato illacrimata sepoltura.

Solo per ricordare... Il sonetto, composto nel 1803, presenta una dimensione autobiografica: Foscolo saluta la natia
Zacinto, odierna Zante, dove non potrà più ritornare, in quanto il suo destino di esule lo condanna a morire lontano dalla
patria. L'esperienza personale e il tema dell'esilio sono enunciati nell'incipit, per essere poi ripresi nella terzina finale,
dando luogo ad una struttura circolare e caricandosi di significati ulteriori.
Zacinto evoca il mondo classico greco: le sue sponde sono "sacre" al cuore del poeta, perché vi è nato, ma anche per i
miti e i culti che sono legati a quell'isola. Essa rappresenta un mondo di eterni valori, la fecondità e la vita, creati dal
sorriso di Venere, dea della bellezza, nata dalle onde del mare greco.
Il legame Foscolo-Venere introduce il parallelo Foscolo-Omero: come il poeta greco ha eternato nei suoi versi l'isola di
Zacinto, così Foscolo promette la celebrazione poetica alla sua terra. E proprio Omero ha cantato anche la bellezza di
Ulisse, che l'esilio ha reso degno di eterna fama (bello di fama e di sventura). Il dolore diventa dunque un segno
distintivo: l'esilio è sofferenza, ma può anche nobilitare e rendere famosi. Di qui nasce la similitudine Foscolo-Ulisse: il
poeta sente di rinnovare l'esule mitico nell'intimo della propria personalità inquieta, ma il suo è un destino capovolto, in
quanto diversa è la conclusione.
Nell'ultima terzina il mito lascia spazio alla dignitosa accettazione della realtà: Ulisse, dopo venti anni di peregrinazioni
volute dal fato, è ritornato ad Itaca, invece il poeta - moderno Ulisse - ha il presentimento che non rivedrà più Zacinto;
per lui è prescritta una sepoltura in terra lontana e quindi non confortata dalle lacrime e dal ricordo dei familiari.
Il dato autobiografico, accostato alle immagini del mito, - Venere, Omero, Ulisse, Zacinto, Itaca -, supera la dimensione
individuale, per assumere un valore universale ed eterno.
Ricordo ancora alcune osservazioni che abbiamo fatto a proposito della coppia Ulisse/Foscolo.

La sintassi così tortuosa, inoltre, appare perfettamente adatta ad esprimere il travaglio dei due eroi nel loro faticoso
peregrinare. Particolarmente significativi, a questo proposito, gli ultimi due versi del blocco:

per cui bello di fama e di sventura


baciò la sua petrosa Itaca Ulisse.

Qui la posposizione del soggetto (alla fine di frase, anziché all’inizio) rende ancor più lunga e “faticosa” la lettura,
proprio per sottolineare la il lungo e faticoso errare di Ulisse.

Un eroe romantico
Pur nel suo andamento fluttuante e tribolato, questo lunghissimo periodo ha una sua compattezza strutturale: il discorso
delle prime tre strofe, infatti, è perfettamente circolare: il concetto espresso nel primo verso (Foscolo non potrà toccare
la sua isola) è ripreso - per contrasto - nell’ultimo (Ulisse tocca la sua isola). E qui si impone con evidenza la
contrapposizione simbolica fra i due eroi.

Dopo lungo errare, Foscolo non toccherà più Zante; dopo avventure incredibili, Ulisse baciò la sua petrosa Itaca. Sono
due peregrinazioni volute dal fato, ma con esito diverso: ad Ulisse gli dèi concessero il ritorno, a Foscolo lo negano. Si
può leggere così il sonetto secondo un doppio codice, “classico” e “romantico”:

CODICE CLASSICO: l’eroe classico, positivo, conclude felicemente le proprie peregrinazioni;


CODICE ROMANTICO: l’eroe romantico, negativo non può concludere felicemente le proprie peregrinazioni.

“Sono due concezioni dell’eroe profondamente diverse, l’una propria dell’antichità classica, l’altra propria dell’età
moderna. È un tema tipicamente romantico quello di errare senza approdo che si conclude con la morte in terre
lontane e sconosciute. Questi viaggi errabondi degli eroi letterari sono la proiezione simbolica di una condizione
di smarrimento, di incertezza, di mancata identificazione con un dato sistema sociale e con i suoi valori.”
L’esilio come condizione esistenziale
Non a caso uno dei temi-chiave della poesia foscoliana è quello dell’esilio: l’eroe romantico, sentendosi sradicato,
escluso da una società in cui non si riconosce, ama rappresentarsi “romanticamente” come un esule, un diverso, un
incompreso. Un eroe solitario, costretto a un perenne vagabondare e destinato comunque alla malinconia e all’infelicità.
Questo errare senza meta alla vana ricerca di un senso da dare alla vita, è molto simile a quello di certi eroi negativi
della mia generazione: i poeti della Beat Generation che consumavano sulla strada (On the road) ansie e frustrazioni di
una società ottusamente conformista.
La frustrazione per l’inevitabile sconfitta genera un bisogno di regressione, di ritorno ai miti salvifici dell’infanzia, di
un rifugio illusorio dalle brutture del mondo moderno (Fermate il mondo: voglio scendere!). Chi non ha mai sognato di
fuggire dallo stress quotidiano e di rifugiarsi in un’isola più o meno deserta? Solo che la nostra isola - grazie alla nostra
cultura da depliant turistico più o meno patinato - è un’isola del pacifico, con sole, palme, amaca e long drinks.

Se l’Ulisse foscoliano ritorna, l’Ulisse di molti altri autori, invece, non ritorna. Di tutto il mito di Ulisse, infatti,
particolarmente intrigante è il tema legato al suo possibile (probabile, ipotetico...) ultimo viaggio.

Il motivo dell'ultimo viaggio dell'eroe


è presente, prima che nella letteratura, nel folclore popolare.
Se gli schemi compositivi che la letteratura adotta derivano, come alcuni studiosi sostengono, da archetipi narrativi,
ossia da modelli originari del raccontare, che si concretizzano in primo luogo nella narrativa orale - ad esempio mito e
leggenda popolare - per trasferirsi poi nella narrativa scritta, non può stupirci il fatto che la letteratura abbia contemplato
un ultimo viaggio di Ulisse: a chi, meglio che all'eroe viaggiatore immaginato da Omero, poteva applicarsi questo
schema narrativo? Si trattava, certo, di lasciare in ombra la dimensione «centripeta» dell'eroe omerico, il suo desiderio
del ritorno ad Itaca, il suo rimpianto di una vita stabile; e di porre invece in piena luce l'animo avventuroso, la curiosità
intellettuale che porta ad imprese arrischiate, che spinge ad esplorare l'ignoto: quella, cioè, che potremmo definire la
dimensione «centrifuga».
Un ulteriore viaggio dell'eroe, dopo il ritorno in patria, era già preannunciato dall'Odissea: nel libro XI Tiresia,
l'indovino consultato da Ulisse nella sua discesa al regno dei morti, gli profetizzava infatti la necessità di ripartire da
Itaca, per giungere ad un paese i cui abitanti fossero ignari del mare; qui Ulisse avrebbe piantato a terra il suo remo e
fatto sacrifici a Posidone, il dio a lui ostile. Dopo quest'ultima impresa, tuttavia, nulla avrebbe più insidiato, secondo
Tiresia, la quiete dell'eroe: Ulisse sarebbe morto ad Itaca, al termine di una serena vecchiaia.

Tre poeti appartenenti ad epoche diverse, Dante (1265-1321), Tennyson (1809-1892) e Pascoli (1855-1912), hanno
invece immaginato un epilogo della vita dell'eroe diverso da quello prospettato nell'Odissea: come già i poeti «
ciclici», autori di una serie di poemi epici fioriti in Grecia probabilmente fra il secolo VII e il VI a.C. - quindi in epoca
post-omerica essi cantano la morte di Ulisse «per mare».

Cominciamo da Dante e dal suo celebratissimo XXVI canto dell’Inferno.


Ti conviene ovviamente fare riferimento alla tua edizione della Divina Commedia, quella su cui hai studiato. Qui mi
limito a riprodurre poche paginette tratte da un’acuta antologia scolastica per il biennio (Dagna Campagnoli e Martini,
L’avventura del lettore, Il capitello) per richiamare sbrigativamente la problematica affrontata. Non sarà forse del tutto
inutile, però, premettere alcune chiavi di lettura del canto ricavate dall’affascinante antologia dantesca curata dalla
brava Bianca Garavelli (ed. Bompiani).

Il canto XXVI è evidentemente costituito da tre ampie parti giustapposte: una parte introduttiva che anticipa, attraverso
l'insistita attenzione all'emozione di Dante, il tema centrale: l'impossibilità dell'uomo di raggiungere la vera conoscenza
senza l'aiuto divino; una seconda parte dedicata ai peccati «di lingua» dei fraudolenti; infine quella, molto più «epica»,
dei racconto dell'ultimo viaggio di Ulisse.

La fiamma, il fuoco ladro, la lingua menzognera


Dante ha costruito l'incontro con Ulisse sul fondamento di una figura retorica che domina con la sua viva presenza la
prima parte dei canto: quella della fiamma, del fuoco furo, cioè «ladro», perché ruba alla vista la figura dei dannati.
Con la scelta di questa pena, Dante ha creato un perfetto contrappasso, adeguato alla complessità della colpa dei
consiglieri fraudolenti: essi ingannarono, nascondendo dietro false intenzioni il loro vero scopo e quindi adesso sono
costretti a essere nascosti per sempre da questo fuoco che li brucia dolorosamente; esso ruba l’immagine della loro
forma fisica, così come nella loro vita essi furono ladri della buona fede altrui; infine, come si vede all'inizio dei
racconto di Ulisse, la fiamma che li avvolge assume tutti i connotati fisici dei consiglieri fraudolenti, al punto di
assomigliare a una lingua che guizzando emette suoni articolati.
I consiglieri fraudolenti erano definiti «lingue di fuoco», perché usavano la loro capacità di persuasione oratoria per
ingannare le loro vittime. È quindi giusto che vengano eternamente «marchiati a fuoco», rinchiusi nell’immagine
dell’organo fisico che usarono in vita per fare del male.
Il mare della conoscenza
Un'altra grande metafora, subito dopo quella della fiamma, è rappresentata dall'immagine del mare, simbolo di una
vastità incommensurabile, una massa immensa di acque sconosciute e deserte che solo un animo coraggioso può osare
affrontare. la metafora è fondamentale per capire il personaggio centrale dei canto, Ulisse, e insieme il senso dei canto
stesso. Infatti il protagonista del poema omerico più «marino», l'Odissea, nel quale vive tante avventure proprio
sull'elemento pericoloso e affascinante del mare, è stato scelto non a caso come protagonista dei canto. Ulisse è l'unico
personaggio importante della Commedia che non appartenga alla storia contemporanea, e invece faccia parte del mito:
la sua funzione è dunque soprattutto simbolica, e corrisponde narrativamente, con coerenza stilistica e retorica, alla
metafora dei mare.
Il mare, con le sue acque invitanti e infide, non solo in Dante ma in tutta la tradizione culturale del Medioevo,
rappresenta la conoscenza, il sapere: attraversarlo o comunque tentare di solcarlo è quindi un tentativo coraggioso di
apprendere di più, di superare i limiti delle conoscenze precedenti. In ogni caso è un'impresa difficile, che richiede
energia morale oltre che fisica: tuttavia può essere facilitata dall’approvazione divina, come nel caso di Dante, che
apprende attraverso il viaggio nell’Aldilà; oppure, come nel caso di Ulisse, condannata in partenza al fallimento,
proprio perché si pone come sfida alla virtù divina.
La sfida alla «virtù» divina
Ulisse è una specie di specchio negativo di Dante. Dal punto di vista della conoscenza, entrambi sono degli eroi, degli
scopritori. Tuttavia Dante è, per così dire, un esploratore approvato da Dio, mentre Ulisse è un ribelle, un temerario che
osa imporre la propria volontà a Dio. La presunzione umana rappresenta un inconcepibile sovvertimento dell'ordine
dell'universo, e come tale è una forma di «follia». Infatti, l'aggettivo folle, come segnale preciso di questa volontà
assurda per chi è sostenuto dalla fede e dalla grazia, compare al v. 125, a definire la natura insana dell'impresa di Ulisse.
L'autore, dunque, sente vicina alla propria l'esperienza di Ulisse (che può rappresentare quella dei filosofi laici che -
come lo stesso Dante giovane - si lasciarono tentare da una conoscenza che fosse dei tutto indipendente dalla Grazia).
Ma Dante si salvò in tempo dal fallimento, perché tornò alla fede. In questo senso, il personaggio di Ulisse lo
rispecchia, ma solo per gli aspetti negativi che io segnarono in passato e che al tempo in cui scrive la Commedia ha
ormai superato.

Il protagonista dei canto, quindi, ha una funzione simbolica: non rappresenta solo se stesso, ma soprattutto la categoria
intellettuale dei filosofi laici, i commentatori di Aristotele che non lo interpretarono alla luce dei dogmi cristiani.
Tuttavia, il personaggio ha comunque uno spessore autonomo, dovuto alla sua antichissima origine, al fatto che è il
protagonista di celebri leggende dell'antichità classica, ma anche al modo in cui l'autore stesso lo costruisce e lo
illumina in questo episodio infernale.

Rileggendo i più famosi versi del canto, osserva e commenta il carattere di Ulisse: mettine in evidenza tutti gli aspetti,
negativi ma anche positivi, che ne fanno una figura indimenticabile, un autentico eroe (del bene? del male?)
l’Ulisse di Tennyson

Se l'Odissea è all'origine dei versi di Tennyson - avrai osservato i richiami alla guerra di Troia, la riproposta di
personaggi che Omero ci aveva presentato: Penelope, l'«antica consorte», Telemaco, il figlio destinato a cogliere
l'eredità del regno, il «magnanimo» Achille - è chiaro però che il poeta inglese ritrova Omero attraverso Dante.

E pur vero che l’Ulisse di Tennyson, a differenza di quello dantesco, è ritornato alla sua Itaca; ma i versi iniziati
del lungo monologo lirico segnalano subito l'insoddisfazione dell'eroe, cui né il ritrovato focolare domestico, né la
riconquistata funzione di sovrano offrono un appagamento; anzi, la stessa Itaca, oggetto della nostalgia dell'Ulisse
omerico, è divenuta per l'eroe di Tennyson isola inospitale («sterili rocce»). Non può appagarsi di una vita tranquilla,
scandita da ritmi sempre uguali, chi ha vissuto l'avventura della scoperta.
E qui il punto di più stretto contatto tra l'Ulisse di Tennyson e quello di Dante: nel
motivo dell'eroe che vuole intraprendere l'ultima avventura,
pur essendo già avanzato negli anni, e che associa a sé i compagni di un tempo, usando la sua eloquenza per prospettare
loro la nuova impresa in una luce affascinante. La meta è pur sempre l’ultimo occidente, la rotta per mari sconosciuti, il
paese da cui non si ritorna.
Manca, rispetto all'episodio dantesco, la punizione dell'eroe: certo Ulisse prospetta ai compagni la possibilità della
morte per mare («forse è destino che i gorghi del mare ci affondino»); ma
l'infrazione del limite,
che in Dante portava necessariamente alla punizione, non è vista da Tennyson come eccesso di ardimento. Anzi, gli
ultimi versi insistono sulla tempra eroica di Ulisse, risultando un pieno elogio della volontà di «lottare e cercare e
trovare né cedere mai». Laddove Dante non poteva concepire l'esito dell'ultima avventura di Ulisse se non in termini di
distruzione e di annientamento, Tennyson - che vive nell'epoca moderna, in una nazione le cui flotte solcano i mari,
impegnata in un progetto di espansione che esige le doti di determinazione e tenacia indicate nella chiusa della lirica - fa
del suo eroe
l'emblema dello spirito pionieristico,
della scoperta arrischiata, non solo giustificabile, ma più che lecita, anzi esemplare.
È indubbio che il clima culturale di un'epoca intuisce sul modo in cui un tema, anche assai antico come quello di Ulisse,
è ripreso e reinterpretato. Alla luce di questa considerazione, possiamo comprendere le parole con cui W B. Stanford
commenta l'immagine di Ulisse fornita dai versi di Tennyson: «Un moderno Ulisse è nato,
un santo patrono pagano per una nuova età di ottimismo
scientifico e di espansione coloniale».
D'altro canto, pur nella «novità», il passato non si perde, né il più, né il meno remoto: «Alla fine, attraverso un singolare
percorso circolare, Tennyson è ritornato a qualcosa di simile all'Ulisse dell’Odissea omerica» (l'Odissea può essere letta
infatti come l'epopea di un popolo di navigatori e di colonizzatori) «ma con una differenza fondamentale: questo Ulisse
segue la direzione indicata da Dante, verso l'esterno, l'abbandono della patria, l'ignoto, non verso l’Itaca di Omero».

Se l’Ulisse di Tennyson è un eroe moderno ed ottimista, l’Ulisse di Pascoli è un eroe moderno, ma pessimista.

Pascoli, L’ultimo viaggio [di Ulisse]

Giovanni Pascoli dedicò al mito di Ulisse un intero poema, incluso nella raccolta Poemi conviviali (1904).
Nelle note alla prima edizione dei Poemi conviviali, il Pascoli scriveva: «... mi sono insegnato di mettere d'accordo
l'Odissea (XI, 121-137) col mito narrato da Dante e dal Tennyson. Odisseo sarebbe, secondo la mia finzione, partito per
l'ultimo viaggio dopo che s'era adempito, salvo che per l’ultimo punto, l'oracolo di Tiresia ». L'«oracolo di Tiresia» è la
profezia che Ulisse riceve dall'indovino tebano Tiresia, incontrato nel mondo dei: Ulisse tornerà alla sua patria, ma
dovrà quindi affrontare un nuovo viaggio: con un remo in spalla, camminerà fintanto che non sarà giunto ad una terra i
cui abitanti, ignari del mare, scambino il remo per un ventilabro, strumento che i contadini usavano per separare il grano
dalla pula; allora, confitto a terra il remo e fatti sacrifici a Posidone, potrà tornare a casa e riprendere il posto di re: «per
te la morte verrà / fuori dal mare, così serenamente da coglierti / consunto da splendente vecchiezza: intorno avrai
popoli ricchi. Questo senza errore ti annunzio» (Libro XI, vv. 134-137).

Omero immagina per Ulisse, a conclusione di una vita tormentata ed errabonda, una serena vecchiaia; non così
Dante e Tennyson che, come abbiamo visto, presentano un eroe o interamente dominato dal desiderio di
conoscere,
al punto di rinunciare al ritorno ad Itaca, o disgustato della vita mediocre e priva di attrattive che la sua isola e il
suo ruolo di sovrano gli offrono, e deciso perciò a riprendere il mare.

L'eroe del Pascoli, invece,


dopo aver compiuto il viaggio alla ricerca degli uomini che non conoscono il mare, prescrittogli da Tiresia, per nove
anni rimane ad Itaca. La sua non è però la «splendente vecchiezza» di cui parla il testo omerico, perché Ulisse, assorto
nella rievocazione del proprio passato, nel rimpianto dei tempi eroici,
è nello stesso tempo colto da un dubbio sempre più tormentoso:

gli episodi che egli va ricordando appartengono alla realtà o all'immaginazione? E questo dubbio che, nel decimo
anno, lo spinge a riprendere la navigazione, con quei compagni che fedelmente lo hanno atteso e ai quali, come in Dante
e in Tennyson, Ulisse rivolge un'allocuzione.

Il viaggio è un navigare a ritroso,


alla ricerca dei luoghi e delle figure che più fortemente hanno segnato l'esperienza dell'eroe: Circe, il Ciclope, le Sirene,
Calipso. Ma nulla di ciò che Ulisse ha conservato nel ricordo corrisponde a verità: Circe non esiste, la sua canzone, che
l'eroe si illude di risentire, non è che lo sciacquio del mare mosso dal vento; nella grotta di Polifemo abita un innocuo
pastore, che a stento ricorda di aver udito raccontare che da quel monte piovevano pietre in mare « ... e che appariva un
occhio / nella sua cima, un tondo occhio di fuoco» (XX, vv. 40-41). Il mito si dissolve, l'avventura di Ulisse si rivela
sogno, non realtà.
Ogni certezza sembra dunque crollare:
a chi chiedere il «vero», dove cercare risposta al dubbio sempre più inquietante circa l'illusorietà di ogni esperienza
umana?

Nell'Odissea, le Sirene avevano invitato Ulisse a fermarsi ad ascoltare il loro canto, giacché gli avrebbero rivelato
ogni cosa. Alle Sirene ora si rivolge l’Ulisse pascoliano deciso ad affrontare il rischio di restare ammaliato dal
dolce canto e di non far più ritorno in patria. Ora Ulisse è determinato ad ascoltare fino in fondo... Dalle Sirene
Ulisse vuole udire la verità, anche solo una piccola verità che gli darebbe la sensazione di non essere vissuto
invano...

...
Sirene, io sono ancora quel mortale
che v’ascoltò, ma non poté sostare.
E la corrente tacita e soave
più sempre avanti sospingea la nave.
E il vecchio vide che le due Sirene,
le ciglia alzate su le due pupille, 30
avanti sé miravano, nel sole
fisse, od in lui, nella sua nave nera.
E su la calma immobile del mare,
alta e sicura egli inalzò la voce.
Son io! Son io, che tomo per sapere! 35
Ché molto io vidi, come voi vedete
me. Sì; ma tutto ch'io guardai nel mondo,
mi riguardò; mi domandò: Chi sono?
E la corrente rapida e soave
più sempre avanti sospingea la nave. 40
E il vecchio vide un grande mucchio d'ossa
d'uomini, e pelli raggrinzate intorno,
presso le due Sirene, immobilmente
stese sul lido, simili a due scogli.
Vedo. Sia pure. Questo duro ossame 45
cresca quel mucchio. Ma, voi due, parlate!
Ma dite un vero, un solo a me, tra il tutto,
prima ch'io muoia, a ciò ch'io sia vissuto!
E la corrente rapida e soave
più sempre avanti sospingea la nave. 50
E s'ergean su la nave alte le fronti,
con gli occhi fissi, delle due Sirene.
Solo mi resta un attimo. Vi prego!
Ditemi almeno chi sono io! chi ero!
E tra i due scogli si spezzò la nave. 55
(Pascoli, Poemi conviviali, Canto XXIII)

25 io sono ancora...: si fa qui riferimento al libro XII dell’Odissea che parla dell’incontro di Ulisse con le Sirene. In
realtà l’eroe, in quel caso, - ammonito dalla maga Circe a non farsi irretire dall’incanto di quelle creature - non volle
fermarsi (per evitare le tentazioni egli tura con la cera le orecchie dei compagni e si fa legare all’albero della nave;
quindi lui ascoltò le Sirene, ma non poté fermarsi).
27 E ... e: si noti la struttura sintattica dei testo prevalentemente coordinativa, mediante l'uso dei polisindeto che
riproduce il ritmo della poesia epica classica.
30 le ciglia alzate: le due Sirene appaiono come statue immobili, vedi i vv.43-44 (le due Sirene, immoblimente/...
simili a due scogli) e i vv.51-52 (alte le fronti, / con gli occhi fissi): la loro insensibilità è contrapposta all'ansia
dell'eroe che le interroga.
32 nave nera: l'attributo è di derivazione omerica, ritorna anche in D'Annunzio.
37 tutto ch'io: tutto ciò che io.
38 Chi sono?: Odisseo è animato da una forte tensione conoscitiva che non gli fornisce certezze, ma lo sollecita a porsi
ulteriori interrogativi alla ricerca della propria identità. Al v.54 l'eroe domanda supplichevole alle Sirene: Ditemi
almeno chi sono oggi! chi sono stato nel passato!
41-42 mucchio d'ossa/... intorno: sono le ossa dei naviganti uccisi dalle Sirene.
47-48 dite un vero... / ... vissuto!: conoscere anche una sola verità darebbe a Odisseo la consapevolezza di non essere
vissuto inutilmente.
51-52 E s'ergean... / ... fissi: la nave di Odisseo sta per scontrarsi contro le due Sirene, già definite nel v.44 simili a due
scogli: la loro statuarietà è espressa dalla fissità degli occhi.
55 si spezzò la nave: il solo «vero» a cui l'uomo perviene è la certezza della morte.

Il mito greco aveva dato alle Sirene le sembianze di uccelli con volto di donna. Nei versi del Pascoli, esse hanno
inizialmente l'aspetto di enigmatiche sfingi, immobili «alla punta dell'isola fiorita » verso cui la corrente «tacita e
soave» spinge inesorabilmente la nave di Ulisse. La ripresa dei due versi che fungono da ritornello («E la corrente
tacita e soave /più sempre avanti sospingea la nave») sottolinea in maniera assai evidente (anche la presenza della rima
collabora) il mutamento della situazione, rispetto al racconto di Omero:
non è tanto l'eroe padrone di sé, artefice del proprio destino, a scegliere di incontrare le Sirene, ma è piuttosto
una forza a lui superiore che ad esse lo trascina.
Certo Ulísse non ha perso la sua fisionomia di eroe della conoscenza: «Son io! Son io, che tomo per sapere! / Ché
molto io vidi»; alla ricerca tenace dell'eroe, tuttavia, non ha corrisposto alcuna acquisizione di certezze: «ma tutto ch'io
guardai nel mondo, mi riguardò; mi domandò: Chi sono?»
Davvero più moderno, questo Ulisse del Pascoli, non più segnato da quella determinazione a varcare il «limite», a
conoscere terre ignote, che caratterizzava gli eroi di Dante e di Tennyson; o meglio, fornito anch’egli di uguale
determinazione, ma diversamente orientata: il suo viaggio non è più volto all'esterno, alla ricerca di nuovi lidi, ma
all’interno, alla scoperta dell'ambiguo confine tra sogno e realtà; mentre il «limite» non è costituito dalle mitiche
Colonne d'Ercole, bensì connaturato nella condizione umana, irrevocabilmente volta alla morte.
L'unica risposta all'affannoso interrogare di un Ulisse ormai giunto oltre l'illusione, è il concretizzarsi del
la sola certezza che l'uomo può avere: la morte.
La sostituzione del consueto ritornello di due versi con l'unico verso «E tra i due scogli si spezzò la nave», che funge da
chiusa al canto XXIII, sancisce il carattere «ultimo» del naufragio di Ulisse. L'eroe navigatore (così il Pascoli altrove lo
designa) è pervenuto alla metà definitiva.
Nel canto XXIV (Calipso), l'ultimo approdo è immaginato nell'isola della dea, cui l'eroe senza vita sarà trascinato dalle
onde; ma fin d'ora siamo in grado di intendere ciò che il Pascoli ha voluto significare. Il suo
Ulisse, un antieroe nell'assenza di sicurezze, nel dubbio
che investe ogni momento della vita passata e presente, è in realtà anch’egli «eroe»: nel voler indagare nel mistero
dell’animo umano, nell'affrontare il crollo delle illusioni, nell'accettare la realtà della morte.

D’Annunzio: l’Ulisse superuomo

Parlare di Pascoli senza accennare a D’Annunzio è come citare Bartali senza menzionare Coppi. Naturalmente, e tu lo
dovresti sapere, esiste anche un Ulisse dannunziano assai diverso da quello pascoliano. È l’Ulisse superuomo che il
poeta incontra in Maia.
Maia - riporto per tua comodità alcune delle note hai già studiato nella dispensina su D’Annunzio - è il primo libro delle
Laudi (Maia, Elettra, Alcyone: ciascuno dei quali prende il nome dalle stelle della luminosa costellazione delle Pleiadi)
e fu steso febbrilmente, almeno per i due terzi, tra la fine del 1902 e i primi mesi del 1903. Maia è aperta da due
componimenti che funzionano come esordio per l'intero cielo delle Laudi: Alle Pleiadi e ai Fati e L'Annunzio. Alle
Pleiadi e ai Fati, in terzine, ricco di reminiscenze dantesche, introduce subito il tema-mito di Ulisse, l'eroe sovrumano
e viaggiatore, eletto a figura-guida di Maia. L’Annunzio è dominato dal tema mitologico del dio Pan e vuole
rilanciare per mare e per terra un nuovo paganesimo. Pan (dio della fecondità e della potenza sessuale) rappresenta la
pienezza della vita cosmica, e l'identificazione pagana dio = natura. Su queste basi - la volontà di rivivere l'audace mito
di Ulisse in un clima di felicità panica e naturale - si impianta non solo Maia, ma l'intero cielo delle Laudi.

Vigile a ogni soffio,


intenta a ogni baleno,
sempre in ascolto, 45
sempre in attesa,

pronta a ghermire,
pronta a donare,
pregna di veleno
o di balsamo, tòrta 50
nelle sue spire
possenti o tesa
come un arco, dietro la porta
angusta, o sul limitare
dell’immensa foresta, 55
ovunque giorno e notte,
al sereno e alla tempesta,
in ogni luogo, in ogni evento,
la mia anima visse
come diecimila! 60
È curva la Mira che fila,
poi che d’oro e di ferro pesa
lo stame come quel d’Ulisse.

Lo spunto autobiografico che ha ispirato il poema è la crociera che D’Annunzio ha fatto nell'estate del 1895 sullo yacht
di un amico (Scarfoglio). Questo viaggio greco, miticamente trasfigurato, è il perno dell'opera, ed è preceduto da una
lode alla vita in tutti i suoi vari e molteplici aspetti. Dal canto terzo inizia il pellegrinaggio al luoghi sacri dell'antichità,
e subito avviene l'incontro emblematico con Ulisse, l’eroe tutelare dell'impresa ambiziosa dei viaggiatori moderni.
Itaca, Patrasso, Olimpia, Delfi, Atene, Delo, sono le tappe della crociera, piene di rievocazioni classiche e mitologiche.
L'eroismo degli antichi campi di battaglia richiama al poeta per contrasto l'orrore delle città moderne, prive di ogni
spinta eroica.

Qui di fianco ho riprodotto alcuni versi dell’ Inno alla vita. Note e commenti li trovi altrove. Sottolineo solo il
significato degli ultimi versi citati perché particolarmente funzionale al nostro discorso.
61-63. La Parca (Mira o Moira la chiamavano i Greci) che fila il destino del poeta è curva per il peso del filo della sua
vita, perché esso è d’oro (simbolo della gloria) e di ferro (simbolo del lungo e faticoso travaglio sopportato per
raggiungere la gloria), come quello di Ulisse.
In Ulisse D’Annunzio esaltò l’eroe proteso a un’avventura senza limiti,
riprendendo l’immagine che ne aveva dato Dante, ma adeguandola all’idea del superuomo. Nel proseguo del poema, tra
l’altro, il poeta incontra proprio Ulisse. L’eroe omerico, intento alla navigazione, è presentato solo, sdegnoso e muto.
Di fronte allo schiamazzo che gli amici (D’Annunzio, Scarfoglio, Herelle...) in crociera fanno per acclamare Ulisse
come loro re, l’eroe riserva una sola fuggevole occhiata al D’Annunzio e si allontana. Questo incontro lascia nel poeta
la consapevolezza della propria missione da compiere: diffondere il nuovo paganesimo. L’Ulisse dannunziano è,
dunque,
l’eroe del “navigare è necessario, non è necessario vivere”,
che è appunto il motto che apre e chiude il poema.

Se vuoi, a questo punto, puoi leggere i versi che descrivono proprio l’incontro fra D’Annunzio (e compagnia) e Ulisse.

Incontrammo colui
che i Latini chiamano Ulisse, Come a schiamazzo di vani
nelle acque di Leucade, sotto fanciulli, non volse egli il capo 695
le rogge e bianche rupi canuto; e l'aletta vermiglia
che incombono al gorgo vorace, 635 del pileo gli palpitava
presso l'isola macra al vento su l'arida gota
come corpo di rudi che il tempo e il dolore 699
ossa incrollabili estrutto solcato aveano di solchi 700
e sol d'argentea cintura venerandi. «Odimi» io gridai
precinto. Lui vedemmo 640 sul clamor dei cari compagni
su la nave incavata. E reggeva «odimi, o Re di tempeste!
ei nel pugno la scotta Tra costoro io sono il più forte.
spiando i volubili venti, Mettimi a prova. E, se tendo 705
silenzioso... 644 l'arco tuo grande,
... qual tuo pari prendimi teco.
Sol con quell'arco e con la nera 667 Ma, s'io nol tendo, ignudo
sua nave, lungi dalla casa tu configgimi alla tua prua».
d'alto colmigno sonora Si volse egli men disdegnoso 710
d'industri telai, proseguiva 670 a quel giovine orgoglio
il suo necessario travaglio chiarosonante nel vento;
contra l'implacabile Mare. e il fólgore degli occhi suoi
«O Laertiade» gridammo, mi ferì per mezzo alla fronte.
...
«o Re degli Uomini, eversore 678 Poi tese la scotta allo sforzo 715
di mura, piloto di tutte del vento; e la vela regale
le sirti, ove navighi? A quali 680 lontanar pel Ionio raggiante
meravigliosi perigli guardammo in silenzio adunati.
conduci il legno tuo nero? Ma il cuor mio dal cari compagni
Liberi uomini siamo partito era per sempre 720
e come tu la tua scotta ...
noi la vita nostra nel pugno 685 E io tacqui
tegnamo, pronti a lasciarla in disparte, e fui solo; 725
in bando o a tenderla ancóra. per sempre fui solo sul mare.
E in me solo credetti.
Ma, se un re volessimo avere, Uomo, io non credetti ad altra
te solo vorremmo virtù se non a quella
per re, te che sai mille vie. 690 inesorabile d'un cuore 730
Prendici nella tua nave possente. E a me solo fedele
tuoi fedeli insino alla morte!» io fui, al mio solo disegno
Non pur degnò volgere il capo.
...
633 Leucade: isola rocciosa a nord di ltaca, attuale Santa Maura. 634 rogge: rosse. 635 che ... vorace: che scendono a
picco sul mare (Ionio), detto gorgo vorace (che inghiottì) perché, secondo il mito, in quel mare si gettavano gli
innamorati infelici, in particolare la poetessa Saffo si gettò dalla rupe di Leucade. 636 macra: arida e pietrosa
(latinismo: magra). 637-640 come corpo...: come un corpo costruito (estrutto) con ossa ruvide ma solide e forti,
circondato (precinto: latinismo) dallacintura d'argento del mare. 641 incavata: ricurva. L'epiteto è ricorrente in Omero
per definire la nave. 642 scotta: cavo di manovra per tirare gli angoli inferiori della vela, per distenderla e governarla.
643 volubili: turbinosi. 644-645 píleo / tèstile: copricapo tessuto, con due alette che scendono sulle orecchie, con il
quale Ulisse è tradizionalmente raffigurato sui dipinti vascolari greci. 647-651 la tunica ... /... cuore: il lessico epico
definisce il superuomo, evidenziandone i sensi vigili e penetranti (l'occhio aguzzo) e la “possa”, cioè la potenza e il
vigore. 667-668 nera sua nave: l'attributo nero ritorna anche al v.682 (il legno tuo nero). Di derivazione omerica
compare anche ne L'ultimo viaggio di Pascoli al v.32. 669 colmigno: tetto (dal latino: culmen). 669 sonora: che
risuonava per il rumore dei telai di Penelope. 670 industri: laboriosi. 673 Laertiade: patronimico: figlio di Laerte. 675-
676 Coribanti ... /... furibonda: come nelle danze sfrenate per il culto di Cibele, dea della terra. I Coribanti erano i
sacerdoti della dea celebrata sul monte lda, in Frigia. 677 fegato acerrimo: secondo le credenze antiche il fegato era la
sede dei coraggio, perciò è detto acerrimo, veemente e accanito. 678-679 eversore / di mura: distruttore delle mura
della città di Troia. 679-680 piloto ... / ... sirti: marinaio che conosce le insidie dei mare. Le Sirti sono insenature
africane sabbiose e pericolose per i naviganti. 686 tegnamo: teniamo. 687 in bando: allo sbando. 687 o a tenderla:
pronti a tendere la vita come la corda di un arco, per affrontare grandi e nobili imprese. 693 Non pur: neppure. 705-706
Mettimi / grande: il poeta si vuole sottoporre alla prova dell'arco. 712 chiarosonante: che risuona forte. 719-720 Ma
il cuor / per sempre: il poeta si allontana nell'animo dai compagni e resta in solitaria contemplazione di Ulisse,
identificandosi nell'eroe. 721 eglino: essi. 728 Uomo: è qui espresso il mito dei superuomo.
Dunque: Maia è un poema in ventuno canti che trae spunto autobiografico da una crociera di D'Annunzio, dell'estate del
1895, sullo yacht di Edoardo Scarfoglio con altri amici. Il poeta immagina l'incontro con Ulisse, eroesimbolo della
navigazione, per trasfigurarlo nella personificazione del superuomo. In Omero i compagni di Ulisse si erano attirati la
vendetta del dio Sole, perché avevano ucciso i buoi a lui sacri. In Dante l'eroe aveva convinto i compagni a non «viver
come bruti» ma a «seguir virtute e conoscenza». In questi versi dannunziani Ulisse è il capo, l'eroe guida degli uomini
che vogliono condurre una vita al di sopra della mediocrità:«o Re de-li Uomini ... /piloto di tutte le sirti, ove navighi?».
Ma quando i compagni del poeta interpellano Ulisse, le voci e le grida di quegli uomini comuni risuonano all'orecchio
dell'eroe come «schiamazzo di vani/fanciulli», a cui orgogliosamente superiore «non volse egli il capo canuto». Solo al
poeta sarà riservato uno sguardo meno sdegnoso, perché mentre i suoi compagni vogliono essere seguaci del Re degli
uomini, D'Annunzio vuole accompagnarsi ad Ulisse «qual suo pari», per giungere all'esaltazione del mito del
superuomo e della propria volontà di potenza.

E IL MITO CONTINUA...

E va bene... mi fermo (o quasi). L’ipertesto potrebbe infatti continuare all’infinito (o quasi), ma noi abbiamo un tempo
finito, molto finito (senza quasi). Da qui alla fine dell’anno scolastico, comunque, incontreremo ancora altri testi che si
inseriscono perfettamente in questa nostra passeggiata intertestuale. Sempre a proposito di D’Annunzio, ad esempio,
leggeremo il testo di un antidannunziano D.O.C. (o quasi) che rovescia ironicamente il mito dell’Ulisse superuomo:
Gozzano, L’ipotesi (la trovi nelle prossime pagine di questa dispensina).
Ti consiglio inoltre (o ti impongo? - non ho ancora deciso!) di leggere la bella poesia di Ghiorgos Seferis che riporto
nelle prossime pagine dove il mito è rivisitato in chiave moderna e suggerisce notevoli riflessioni sulla vita.
Potremmo poi incocciare nell’intrigante poesia che il grande Umberto Saba ha dedicato al nostro eroe (Saba, Ulisse, p.
302 della tua antologia).
Il mito di Ulisse si rispecchia anche in alcune poesie di Ungaretti (soprattutto Allegria di naufragi), Montale
(soprattutto Casa sul mare, p. 349 e La casa dei doganieri, 356), Penna (Il mare è tutto azzurro, ecc.), Sereni
(Terrazza, ecc.)...
Non dimenticare poi - ma l’abbiamo ricordato anche nelle pagine precedenti - i testi di Rimbaud, Baudelaire,
Mallarmé...

Finora, poi, ci siamo limitati ai testi poetici (in versi), ma l’ipertesto potrebbe proliferare anche nel campo della prosa:
quante volte, ad esempio, abbiamo parlato dell’odissea di Renzo e di quella di ‘Ntoni? E a proposito di Huysmans, A
rebours, non abbiamo parlato di ulissimo artificiale di Des Esseints (p. 431-433)? E fra qualche giorno parleremo
anche dell’ulissismo mancato di Emilio Brentani (Italo Svevo, Senilità, p. 673 sgg.)...

Non si dovrebbe poi ignorare uno dei romanzi più significativi del nostro secolo, dal titolo ovviamente emblematico:
Ulisse, di James Joyce (Leopold Bloom è probabilmente il più intrigante e convincente Ulisse del XX° secolo).
E... il capitano Achab di Moby Dick (indimenticabile romanzo di Herman Melville) non è forse una reincarnazione
convincente dell’eroe omerico? E il vecchio Santiago (H. Hemingwey, Il vecchio e il mare)? E i tanti eroi marini di
Conrand, Stevenson, Salgari, Pratt...
È questo il fascino di un ipertesto: il fascino di un viaggio organizzato che rischia di non finire mai.

Per il momento facciamo finta di farlo finire con una bella poesia che già abbiamo incontrato lo scorso anno (J. Gray) e
con il consiglio di andare a vedere il mitico film di Stanley Kubrick: 2001, Odissea nello spazio (se proprio puoi
leggere l’omonimo romanzo di Arthur C. Clarke, da cui è tratta la pellicola). Ma basta veramente (o quasi). Ciao. Ulisse
(ma quale?) è stanco e va a dormire.

Molte volte ho studiato


la lapide che mi hanno scolpito:
una barca con vele ammainate, in un porto.
In realtà non è questa la mia destinazione
ma la mia vita.
Perché l'amore mi si offrì e io mi ritrassi dal suo inganno;
il dolore bussò alla mia porta, e io ebbi paura;
l'ambizione mi chiamò, ma io temetti gli imprevisti.
Malgrado tutto avevo fame di un significato nella vita.
E adesso so che bisogna alzare le vele
e prendere i venti del destino,
dovunque spingano la barca.
Dare un senso alla vita può condurre a follia
ma una vita senza senso è la tortura
dell'inquietudine e del vano desiderio:
è una barca che anela al mare eppure lo teme.

Potrebbero piacerti anche