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LA LINGUA POETICA LATINA

Saggio di Janssen
Per quanto riguarda il problema della lingua poetica, dalle risposte pervenute risulta che
gli studiosi sono tutt’altro che unanimi sulla natura della questione; dall’esame delle
relazioni si riceve l’impressione che il tempo non sia ancora maturo per poter dare una
definizione generalmente valida della natura della lingua poetica. Della lingua dei poeti va
detto che è soggettiva. Il suo scopo è quello di suscitare un’impressione di bellezza.
Naturalmente il fattore della comprensibilità non può essere eliminato; perciò il poeta è
costretto ad attenersi fino ad un certo punto alla consuetudine dominante costituita dalla
lingua dell’uso. Ma d’altra parte è proprio dal comune e dal quotidiano che egli deve
fuggire, per far convergere l’attenzione del pubblico sui suoi pensieri e sulle immagini
espresse. Egli si rivolge ad ascoltatori e lettori che hanno imparato a capire la lingua
particolare che usa; per la grande libertà di cui gode nei riguardi di quello che è l’uso
generale e corrente della lingua, è ovvio che ogni poeta cercherà secondo la natura della
propria personalità di attirare l’attenzione del pubblico. Nessuno negherà che nella lingua
poetica la parte dell’espressione individuale e soggettiva è molto grande; è possibile e
necessario considerare la lingua poetica anche da un altro punto di vista: non solo come
“linguaggio” ma anche come “lingua”. Considerandola in questo modo, viene in primo
piano l’elemento collettivo. Il successo può far si che un’espressione ben riuscita diventi
patrimonio comune di intere generazioni di poeti. In questo modo la lingua poetica
collettiva si evolve da quella individuale. Una lingua poetica può quindi costruirsi soltanto
quando siano presenti modelli letterari. Se questi mancano, si può parlare solo di uno
stile personale, artistico, dei primi poeti. La presenza di modelli letterari instaura una
continuità e ha per effetto il sorgere di un’opposizione tra forme linguistiche antiche e i
loro rappresentanti più recenti nella lingua d’uso. Il fattore centrale nel costituirsi delle
lingue poetiche è quindi l’imitatio. Dove è più attivo si porranno in evidenza anche le
caratteristiche essenziali della lingua poetica collettiva. Questo è senza dubbio il caso
della poesia epica, perché qui il poeta si nasconde al massimo dietro la sua materia, e in
tal modo la forza della tradizione si fa sentire con la massima intensità. Solo in questo,
vale a dire di un gruppo di poeti che nella loro espressione artistica sono vincolati alla
tradizione, ma allo stesso tempo per la forza della loro personalità tendono ad emergere
al di sopra della tradizione. La tradizione gioca un ruolo estremamente importante in
tutto il campo dell’espressione artistica antica. Nella poesia si rivela nel fatto che dagli
antichi poeti i loro più recenti imitatori riprendono in candida innocenza particolari
psicologici e drammatici, immagini poetiche e similitudini, etc. Dobbiamo considerare
tale fatto dal punto di vista antico, che un materiale linguistico costituito non solo lo
considerava patrimonio comune di tutti quelli che seguissero, ma ne stabiliva addirittura
obbligatoria imitazione. La mimesis non era una colpa. Ma l’effetto della tradizione non si
limita all’imitazione di precedenti autori latini. Sia Virgilio che Ennio attingono a modelli
greci e in particolare a Omero. Questi è il grande modello anche dei poeti romani. Senza
voler fare torto al merito proprio della letteratura romana, si può affermare con sicurezza
che essa è dipendente da quella greca in tutti i punti essenziali. L’influsso della lingua di
Omero è stato senza dubbio della massima importanza per lo sviluppo della lingua
poetica romana, così come già prima essa aveva impresso un’impronta considerevole su
tutta la lingua poetica greca, anche al di fuori del genere epico. La lingua in cui cantavano
Omero e gli altri aedi greci era una lingua poetica ideale e fu questo il motivo per cui essa
costituì un modello così generale e così duraturo. A differenza di altre lingue letterarie la
più antica lingua poetica dei Greci non è di origine religiosa, ma deve all’inizio il suo
costituirsi a gruppi di persone colte, a cantori, che costituivano il nucleo intellettuale di
una società primitiva. È certo che la lingua dei poemi omerici contiene suoni e forme che
indubbiamente non sono mai stati in uso nella lingua parlata. Arcaismi, glosse, forme
linguistiche artificiali sono le caratteristiche essenziali della più antica lingua poetica
greca. Possiamo ancora aggiungere l’uso frequente di parole composte. Queste
caratteristiche, per la forza della tradizione, anche in tempi successivi restano essenziali
per la lingua dei poeti non soltanto dell’Ellade ma anche di Roma. Un secondo focolaio
che irradiò a Roma le tradizioni della poesia greca fu costituito dalle opere dei poeti
alessandrini. Il principale maestro dei Greci e dei Romani è Aristotele, che a sua volta
opera con i dati tratti dall’antica poesia greca, specialmente Omero e i tragici. È vero però
che le teorie del maestro greco a Roma furono conosciute in maniera diretta solo tardi e
certo non prima del primo secolo a.C. Le idee di Aristotele ci sono note dai frammenti
“Sulla poetica “, in cui egli fornisce dei dati sulla lingua poetica greca, e inoltre dai libri
“Sulla retorica “, in cui troviamo informazioni sulla lingua letteraria in generale e in cui
incidentalmente egli viene a trattare anche della lingua poetica. Una prima condizione
che Aristotele esige dalla lingua letteraria e così anche dalla lingua poetica è che essa
deve essere “non ordinaria “; inoltre deve essere adeguata al genere. La lingua letteraria
deve differenziarsi dalla lingua dell’uso, poiché soltanto in questo modo essa ottiene il
carattere “elevato” indispensabile al suo fine. Inoltre, Aristotele vede la differenza tra la
lingua della prosa e quella della poesia soprattutto nell’uso di un lessico diverso.
Importante è innanzitutto l’opposizione tra parole semplici e composte. Oltre a questo
egli distingue: espressioni usate in senso traslato e altre figure stilistiche; neoformazioni;
parole allungate, abbreviate e parole nel cui aspetto qualcosa è modificato. Dunque
secondo Aristotele è proprio l’uso frequente di questi tre tipi di parole che la lingua della
poesia si differenzia da quella della prosa. Aristotele fa notare delle differenze lessicali
anche tra i diversi generi poetici. Per il suo carattere aulico la poesia ditirambica si serve
soprattutto di parole composte. Un’ultima differenza tra la lingua della poesia e quella
della prosa consiste secondo Aristotele nel fatto che il poeta può servirsi più liberamente
di epiteti anche là dove essi non aggiungono niente di nuovo al senso dell’enunciato.
L’uso eccessivo di epiteti in prosa è scorretto e fa sì che tale genere trapassi in quello
della poesia. L’azione diretta dei modelli letterari greci e l’influsso delle teorie di
Aristotele sull’arte della parola di tutta l’antichità ci fanno già a priori supporre che a
Roma non meno che nell’Ellade la lingua della poesia sia vincolata a regole specifiche e
che si differenzi da quella della prosa. Già Varrone afferma che la coscienza linguistica del
poeta può essere più libera di quella dell’oratore; a differenza dell’oratore il poeta può
oltrepassare determinati limiti. Conformemente Quintiliano ricorda che l’oratore non può
seguire il poeta sotto tutti i riguardi. Quintiliano ne vede una ragione nella necessità del
metro, per la quale il poeta spesso si trova nell’impossibilità di usare termini ordinari e
perciò ha il diritto non solo di far ricorso a termini meno usuali, ma anche di modificare in
vari modi la forma esterna delle parole. Cicerone dice che solo in casi del tutto
eccezionali una parola poetica è al suo posto in prosa. I lessici dei due generi non
possono dunque essere scambiati impunemente. Non ci meraviglia che i grammatici
antichi vedessero nella metri necessitas, nella costrizione del metro, la ragione di gran
lunga più importante di questa opposizione tra i due generi linguistici. Studi moderni
hanno dimostrato che un gran numero di particolarità nella lingua dei poeti va spiegato
per questa via. L’esametro importato dalla Grecia a Roma comportò per i poeti romani
particolari difficoltà, dato che la loro lingua presentava una deficienza di vocali e sillabe
brevi e una eccedenza di lunghe. Perciò determinate parole non si adattavano affatto
all’esametro e dovevano essere sostituite o modificate. L’influsso del metro non è
limitato al lessico. Sotto la necessità del metro i poeti possono scandire come lunghe
sillabe che sono brevi e viceversa. È chiaro che si tratta in tutti questi casi di formazioni
puramente artificiali. L’influsso del metro si fa sentire anche in campo sintattico. Per
quanto vari siano gli aspetti della questione del cosiddetto plurale poetico, è certo che
parecchie forme di plurale erano usate dai poeti dattilici non altrimenti che per ragioni
metriche. Per quanto l’uso dell’infinito perfetto senza relazione con il passato si possono
addurre esempi del latino arcaico, soprattutto del linguaggio giuridico. Si può inoltre
segnalare l’influsso dell’infinito aoristo greco, così caro ai poeti dattilici proprio perché
molti di questi infiniti perfetti si adattano facilmente all’esametro. I grammatici e retori
romani affermano che esiste in latino un’opposizione tra la lingua della prosa e quella
della poesia. Il fattore del metro gioca senza dubbio un ruolo importante nel determinare
questa opposizione. Tuttavia esso non è il solo. Ci resta da definire più da vicino la natura
di questa opposizione. Possiamo servirci di materiale offertoci dalla poesia epica e lirica.
La drammatica può fornire solo scarsi risultati, la tragedia ci è nota solo attraverso
frammenti assai scarsi, inoltre le parti dialogate in versi giambici hanno poco valore per il
nostro scopo. La commedia è una ricca fonte per la nostra conoscenza della lingua d’uso,
ma ci può insegnare qualcosa sulla lingua poetica solo accidentalmente. Infine si deve
osservare che la lingua di satire e epistole si avvicina piuttosto alla lingua d’uso e di non
conseguenza non può essere utilizzata come fonte. Sulla base del materiale contenuto in
queste fonti l’opposizione tra la lingua della prosa e quella della poesia non è limitata al
lessico, le differenze lessicali sono senza dubbio importanti, ma d’altra parte il lessico
costituisce l’elemento più variabile di una lingua e come tale d’importanza relativamente
secondaria per la struttura. Di maggior valore sotto quest’aspetto sono le categorie di
morfologia, fonetica e sintassi. Come i poeti romani a volte nei loro versi potessero far
valere come lunghe delle sillabe che ogni Romano in circostanze normali pronunciava
brevi, ciò si verifica sia in casi in cui una sillaba breve termina con una consonante e la
seguente comincia con una vocale, sia anche in quei casi in cui una sillaba termina con
una vocale breve e la sillaba seguente comincia con consonante semplice o muta +
liquida. Quando si considera che la distinzione della quantità nel periodo classico del
latino era così rigida che il ritmo del verso vi si basava completamente, si comprende
l’importanza di una simile opposizione tra prosa e poesia. Il fenomeno è avvertibile in
particolare in Ennio e Virgilio in quanto è qui massima l’influenza di Omero ed Esiodo.

- Ennio  ciò riguarda solo sillabe che solo più tardi furono abbreviate. Ma accanto
a queste furono allungate sillabe che non erano mai state lunghe.

Il fenomeno è dunque basato su una realtà linguistica secondo la legge dell’analogia e


sostenuto da modelli greci acquistò nella lingua poetica una estensione artificiale.

- Virgilio  era consapevole dell’oscillazione esistente una volta nella quantità di


suffissi come –tor e desinenze come –at. In ogni caso il fenomeno faceva
un’impressione del tutto artificiale sul senso linguistico dei suoi contemporanei.

I poeti dopo Virgilio fecero minor uso di questa libertà nel trattamento delle quantità:
questo è il caso di Ovidio. Infine il fenomeno scompare definitivamente. L’influsso greco
si rivela ancora in un altro campo della fonetica. Mentre in latino nel periodo centrale del
suo sviluppo pronunciava chiaramente separate due vocali consecutive che tra di loro si
trovano in iato, la poesia secondo il modello greco qui talvolta applica la cosiddetta
sinizesi. Dall’evoluzione nelle lingue romanze sappiamo che la pronuncia separata di
queste vocali in iato nel periodo tardo latino non si mantenne neppure nell’uso
linguistico vivo. In questo fenomeno confluiscono così l’una nell’altra due tendenze:
l’azione dei modelli greci e la tendenza dei poeti a sottrarsi alle rigide norme di ciò che
nella prosa letteraria del loro tempo si presentava come ammesso o come proibito.
Invece si manifesta una tendenza arcaicizzante, quando i poeti scandiscono dittonghi là
dove l’uso linguistico normale li aveva sostituiti già da tempo con dei monottonghi. La
considerazione che le poesie nell’antichità erano scritte per essere recitate ci dà la
certezza che qui non si tratta solo di una questione di grafia, ma che questi suoni
venivano effettivamente pronunciati come dittonghi. Un caso analogo si presenta quando
un dittongo viene scisso nei suoi componimenti originari e pronunciato bisillabo. Si
verifica nella poesia dattilica arcaica nel caso del genitivo singolare dei temi in –a-. Con
l’ultimo fenomeno siamo ormai giunti nel campo della morfologia. Accanto ad –ai come
desinenza del genitivo singolare merita qui di essere ricordato –um come desinenza del
genitivo plurale dei temi in –o- e dei temi in –a-. Il fatto non è limitato alla poesia, ma
anche in prosa. Nei poeti l’uso di questa antica breve desinenza in –um fu favorito
dall’influenza del metro. In altri casi la desinenza arcaica in –um serve a sottolineare il
carattere venerando di determinati termini. L’influsso greco sulla lingua della poesia,
relativamente maggiore, si manifesta non tanto nell’assunzione di parole greche, quanto
nell’uso di desinenze casuali greche. Quest’uso da una parte rappresenta un valore
espressivo, in quanto conferisce alla dizione un carattere raffinato, e d’altra parte si
presta facilmente alle esigenze del metro. Quanto questo fenomeno sia proprio della
lingua della poesia alta, risulta dal fatto che in Orazio esso è frequente nelle odi, nelle
satire invece è quasi del tutto assente. Anche la coniugazione dei verbi fa vedere come
l’opposizione tra la lingua della poesia e quella della prosa si esplichi nell’uso di differenti
forme flessionali. Per la terza persona plurale dell’indicativo perfetto il latino conosceva
due antiche desinenze in –ere ( e lunga ) e in –erunt ( e breve ), e una più recente in –
erunt ( e lunga ). La prosa letteraria preferiva –erunt ( e lunga ). Di quest’ultima si
servirono anche i poeti dattilici. Ma specialmente propria della lingua poetica è anche la
desinenza –ere ( e lunga ). Già al tempo di Plauto e Terenzio essa era scomparsa dalla
comune lingua dell’uso e in quanto arcaismo rappresentava un valore espressivo. Come
tale essa è soprattutto appropriata alla lingua della poesia ed è usata con assoluta
prevalenza dai poeti dattilici. In prosa invece è insolita. Un altro arcaismo, che come tale
divenne un elemento della lingua poetica, è l’antica desinenza dell’infinito medio passivo
in –ier. Nel periodo centrale della storia della lingua latina viene completamente
soppiantata dalla desinenza –i e si conserva poi in pratica esclusivamente nella poesia. In
tal modo la lingua dei poeti dispone di un certo numero di doppioni. Essi non sono
obbligati a usare l’una o l’altra forma, ma possono scegliere la forma più comoda per il
verso. Ma la loro scelta cade del tutto naturalmente su quelle forme che conferiscono
alla loro lingua uno scarto non solo rispetto alla lingua dell’uso, ma anche a quella della
prosa letteraria. Questo lo vediamo anche nel campo della formazione delle parole. In
generale la lingua poetica romana, soprattutto nel periodo anteriore a Virgilio, usa in
tutto il campo morfologico un gran numero di doppioni, che talvolta si discostano
moltissimo dall’uso linguistico normale. La lingua di Virgilio presenta chiaramente un
altro aspetto. La tendenza normalizzatrice, che conferì alla prosa del primo secolo la sua
principale caratteristica, si fa ora sentire anche nella poesia, sebbene in misura più
ridotta. Le grandi differenze nel campo morfologico sotto la mano del maestro hanno
lasciato il posto a una regolata libertà, che non può mettere in pericolo la dignità
nazionale. L’opposizione nei confronti della lingua della prosa da questo momento si
manifesta piuttosto attraverso la libertà nel campo del lessico e in quello della sintassi. In
campo sintattico la nostra attenzione è attirata innanzitutto dal fenomeno del cosiddetto
plurale poetico, vale a dire dal fatto che i poeti, soprattutto a partire dal periodo
augusteo, usano ripetutamente sostantivi al plurale dove la prosa ha il singolare, e senza
che si possa parlare di alcuna differenza di significato. Ragioni metriche spiegano la
presenza della forma plurale in molti casi nei neutri plurali in –a. Spesso si tratta di
sostantivi che hanno significato plurale. In altri casi abbiamo semplicemente a che fare
con formazioni analogiche. Aristotele nel suo trattato sulla retorica aveva già rilevato i
mezzi che si possono impiegare. In questo modo il plurale può essere usato tanto in
poesia quanto nella prosa retorica elevata. Presso i romani quest’uso enfatico-retorico
del plurale si incontra sia in prosa che in poesia. Nella poesia però tale fenomeno assunse
proporzioni così ampie, perché soddisfaceva in modo eccellente il desiderio di
espressività che è così caratteristico della lingua poetica; tuttavia proprio in conseguenza
all’uso frequente il modulo perse di nuovo assai presto molto del suo valore espressivo,
così divenne un semplice procedimento al servizio della lingua poetica. Ancora un altro
aspetto del plurale poetico è che i poeti usano con particolare frequenza i neutri plurali in
–a con valore singolare. Questo in parte indipendentemente dal metro. Tuttavia le stesse
forme vengono impiegate anche nella lingua dell’uso. La spiegazione è che poiché i neutri
plurali in –a derivano da originari collettivi, questo significato collettivo fu sentito
abbastanza fortemente ancora nel periodo storico del latino. La lingua poetica aveva qui
un mezzo per accrescere, col sostegno della lingua d’uso, la sua forza espressiva. Un
corrispettivo del fenomeno del plurale poetico è costituito dall’impiego del singolare
collettivo, che ricorre ancora una volta sia nella lingua d’uso che in quella poetica. Si deve
escludere anche in questo caso un influsso diretto della lingua d’uso sulla lingua poetica.
In entrambe le varietà linguistiche il singolare è preferito grazie alla sua maggiore
espressività. Anche nell’uso dei casi la lingua poetica presenta notevoli peculiarità.
Nell’estensione del dativo dopo i verbi di movimento cooperavano vari influssi. Nel
periodo storico essa fu soppiantata da costrutti preposizionali, ma sopravvisse come
arcaismo nella lingua della poesia. La costruzione subì una forte estensione analogica per
il fatto che in seguito venne in uso anche con verbi come mittere e altri, e l’oggetto al
dativo non rimase più limitato a espressioni connesse con il concetto di mondo
sotterraneo, ma potè anche avere relazione con il mondo superiore e in generale con
varie regioni dell’universo. Questa costruzione offre ai poeti un triplice vantaggio: è un
arcaismo e contribuisce come tale alla elevatezza dello stile, va contro l’evoluzione
linguistica via e li solleva dalla necessità di operare un segno grammaticale che non può
che essere ingombrante per il verso. Una vita puramente artificiale sulla scorta di modelli
greci conduce nella lingua poetica il cosiddetto accusativo di relazione. Dipendente da
participi perfetti, questa costruzione possiede una piccola base latina su cui appoggiarsi
nella forma di espressioni arcaiche ed ebbe molta fortuna nel periodo dei poeti augustei.
In prosa si incontra solo in autori che vogliono dare al loro stile un colore poetico. Lo
stesso si può dire dell’uso avverbiale di alcuni accusativi. Le deviazioni sintattiche che
intervengono nella lingua poetica sono per gran parte sotto influsso greco. Le innovazioni
in questo campo di regola provengono non dalla lingua letteraria ma dalla lingua dell’uso.
Perciò le particolarità sintattiche della lingua poetica non consistono tanto in
neoformazioni, quanto in costruzioni che si incontrano nelle fonti della lingua dell’uso
arcaica, ma che tramite la lingua dei poeti ricompaiono nella tradizione letteraria per poi
sopravvivere in seguito anche nella prosa. Questo è il caso del più libero uso dell’infinito
dopo verbi di movimento, dare e dopo verbi causativi. Altri casi non trovano appoggio
nella lingua dell’uso, ma si devono considerare puri grecismi. Gli stessi fattori si fanno
sentire anche nell’uso dell’indicativo accanto al congiuntivo in preposizioni interrogative
indirette. Nel campo della sintassi del periodo la lingua poetica si differenzia dalla prosa
nel fatto che in generale essa preferisce l’uso di proposizioni principali e della paratassi,
mentre la prosa letteraria fa piuttosto uso dell’ipotassi per determinare con esattezza la
reciproca relazione dei pensieri e degli avvenimenti espressi nelle singole proposizioni e
così facendo non lascia nulla alla fantasia del lettore. Si tratta qui di una raffinatezza
coscientemente coltivata dalla loro lingua. Con la paratassi il poeta evita l’uso di segni
sintattici vuoti e di participi prosaici, e nello stesso tempo dà al suo verso la desiderata
coloritura arcaica. L’opposizione con la prosa letterari viene qui di nuovo chiaramente in
luce, perché proprio nella prosa letteraria ha avuto il massimo sviluppo l’ipotassi. La
lingua poetica si trova così in chiara opposizione alla lingua della prosa letteraria.
Secondo la teoria di Aristotele la lingua poetica si differenzia dalla prosa per l’uso
relativamente più abbonante di glosse, neoformazioni e composti. I poeti romani offrono
un ampio materiale che ci mette in grado di riscontrare questa teoria in pratica. Possono
intervenire svariate ragioni per cui uno scrittore ricorra all’uso di glosse. Per i romani
indubbiamente questo era dovuto alla povertà della loro madrelingua. La principale
ragione per cui proprio i poeti fanno un uso così frequente di glosse è però che esse,
come insegnava Aristotele, costituiscono accanto alle parole usuali degli elementi strani e
mai visti che richiamano su di sé l’attenzione. La lingua poetica ha nell’uso delle glosse un
potente mezzo per differenziarsi dalla lingua comune della prosa e fare un’impressione
immediata sull’uditore. La maggior parte delle glosse la troviamo nella poesia più antica.
In generale i poeti romani presentano nella loro lingua meno glosse ed elementi artificiali
di quanti ne riscontriamo nei loro predecessori e maestri greci. Nell’ambito dei
forestierismi naturalmente sono da annoverare soprattutto i grecismi. Quintiliano divide
le parole in: latina e peregrina. Soprattutto nella lingua dell’uso arcaica è notevole il
numero relativamente alto di grecismi; la lingua della commedia ne abbonda. Ancora nel
primo secolo a.C. il grecismo vive molto più liberamente nella lingua dell’uso che nella
prosa letteraria. I grecismi rappresentano evidentemente un valore affettivo che favoriva
il loro impiego nella lingua dell’uso, ma ne ostacolava la penetrazione nella ponderata
lingua della prosa letteraria. È stata la poesia che ha aperto ai grecismi la via della
letteratura. Quintiliano ritiene che il greco più del latino si adatti ai fini poetici e che
perciò i poeti latini la abbelliscano con termini greci. Orazio conferma esplicitamente che
la mescolanza di elementi latini e greci è adatta alla poesia alta, ma non a un discorso
comune. Catullo accoglie senza scrupolo termini greci nella sua poesia e gli altri seguono
questo esempio. Il grecismo diviene così uno degli elementi più caratteristici della lingua
poetica. Affine alla glossa è l’arcaismo, che in verità da Aristotele non era menzionato
come elemento della lingua poetica, ma che forse egli annoverava nella categoria delle
glosse, perché gli arcaismi appartengono pur sempre alle parole che non tutti usano.
Quintiliano insegna che la antichità conferisce alle parole una maggiore dignità, e che
l’uso di arcaismi dà alla lingua un carattere consacrato dalla tradizione e capace di
imporre ammirazione agli ascoltatori. I più antichi poeti romani facevano un largo uso di
arcaismi. I poeti neoterici non rinunciarono completamente all’uso di arcaismi, ma
reagirono tuttavia contro le abitudini dei poeti precedenti e spinsero la lingua nella
direzione di un più moderno sviluppo. I poeti augustei fecero dell’arcaismo un impiego
moderato e Virgilio nel campo della morfologia presenta poche forme arcaiche. Gli
arcaismi che Virgilio presenta si riferiscono soprattutto al lessico. Mentre i suoi
predecessori usavano gli arcaismi semplicemente come un elemento della lingua epica.
Ma non solo parole antiquate, anche quelle di nuova formazione possono servire a
conferire alla lingua poetica una maggiore espressività e a differenziarla dalla lingua
d’ogni giorno. Orazio rivendica per il poeta il diritto di coniare nuove parole quando ciò
sia necessario per mancanza di espressioni esistenti. È significativo il fatto che la maggior
parte dei neologismi ricorrono nelle sue opere liriche, mentre nei sermones sono in un
numero più ridotto. Anche in altri poeti non è difficile segnalare un certo numero di
neologismi. Forse la principale caratteristica della lingua della poesia alta è l’uso di
composti. Questo l’aveva già fatto notare Aristotele. Si intendono composti che
consistono in due parole che prese di per sé hanno ciascuna un significato autonomo, in
opposizione alle composizioni con prefissi, in cui il prefisso non fa altro che modificare,
rafforzare o negare il contenuto semantico del secondo membro. Gli autori romani hanno
la sensazione che la loro lingua non si presti a questo procedimento nella stessa misura
del greco. Benchè la lingua latina generale conoscesse antichi composti, le neoformazioni
in questo campo nascevano nel quadro di determinate lingua speciali che avevano
continuamente bisogno di nuove denominazioni, le quali erano procurate più facilmente
con la combinazione di due termini già noti. D’altra parte i composti sono
particolarmente appropriati nelle lingue che hanno bisogno di mezzi espressivi e cioè
soprattutto la lingua del popolo e la lingua dei poeti. Comunque la maggior parte dei
composti la troviamo nella lingua della poesia alta. Tuttavia di questa maggiore libertà i
poeti romani non potevano fare uso limitato perché il procedimento continuò pur
sempre ad essere considerato più greco che latino. I più conformi allo spirito della lingua
latina sembrano essere stati i composti con un elemento verbale nel secondo membro,
antichi temi verbali che per il loro frequente uso erano pressoché ridotti a suffissi e
inoltre i composti con prefissi numerali. Sono questi tipi che furono usati di preferenza
dai poeti romani. Nel complesso i poeti romani formano meno composti dei loro
predecessori greci. Un rischio che i composti correvano era che essi per questo frequente
uso perdessero la loro espressività. Vediamo che anche per la lingua poetica romana
l’uso dei composti costituiva uno dei principali elementi per cui si differenziava dalla
prosa letteraria. I composti contengono un grado massimo di espressività e per questo
sono particolarmente adatti ai fini della lingua poetica. È risultato che le particolarità per
cui la lingua dei poeti si differenzia da quella dei prosatori riguardano tutte le componenti
che insieme costituiscono la compagine di una lingua. La lingua poetica ha una storia e
questa è basata sulla continuità dei modelli letterari. La presenza di praticamente tutte le
particolarità della lingua poetica si può spiegare con l’azione di un unico fattore: la ricerca
dell’espressività. Dal fatto che il fine della lingua poetica è più espressione che
comunicazione consegue che è di primaria importanza non il contenuto, ma la forma in
cui le cose sono dette. Il segno linguistico deve attrarre l’attenzione dell’ascoltatore per la
sua forma inattesa e poi conquistarne l’ammirazione. La tendenza all’espressività è anche
il legame che unisce lingua poetica e lingua dell’uso. La lingua dell’uso è caratterizzata da
una nota di banalità, ma in determinate situazioni l’affettività può raggiungere un livello
tale che il parlante inconsciamente fa ricorso a mezzi espressivi per imporre la sua
opinione all’ascoltatore. Questi li trova in forme ed espressioni che divergono da quelle
comunemente correnti. La lingua poetica e quella dell’uso si sono servite di una forma
che deviava dalla norma corrente. La lingua poetica deriva la sua natura dal fatto che essa
sta in opposizione alla lingua della prosa letteraria. Quanto più esattamente in una
determinata lingua è definita la norma della prosa letteraria, tanto più esattamente
potremo determinare anche le caratteristiche della lingua poetica.

LA LINGUA POETICA LATINA: MANU LEUMANN


In poesia contenuto e forma sono reciprocamente compenetrati; l’opera poetica ci
appare come qualcosa di unico, come creazione di un poeta individuale. Con
l’espressione “lingua poetica” invece non si intende qualcosa di individuale, ma piuttosto
un possesso linguistico collettivo. A questi due orientamenti metodologici corrispondono
le due posizioni essenziali di fronte al problema base circa la funzione della lingua. La
concezione della lingua come organo di espressione degli interiori moti dell’animo è
messa in primo piano nel modo più insistente e da storici della letteratura orientati
secondo criteri estetici. Qui sembra che ogni poeta ricominci da capo con la lingua.
Tuttavia è fuori discussione che la lingua come possesso collettivo esiste prima.
L’esistenza di una lingua poetica è possibile verificarla immediatamente se la si
commisuri alla forma linguistica della prosa letteraria dello stesso popolo e mediante il
confronto con questa riconoscerla nelle sue particolarità e caratteristiche individuali. Non
di rado tali forme espressive estranee alla prosa ideale coincidono con analoghe forme
della lingua dell’uso. Tuttavia alla base della coincidenza c’è raramente un semplice
processo di prestito dalla lingua popolare nella lingua poetica. Con il riconoscimento di
segni distintivi nei confronti della lingua della prosa sorge immediatamente il problema
della formazione e dello sviluppo di questa particolare varietà di una lingua limitata
all’impiego in poesia. La lingua poetica è dunque un rampollo laterale sull’albero della
lingua, essa conduce una mezza esistenza speciale con la tradizione propria. Poiché nelle
letterature antiche due principi vigono e sono seguiti: quello della costanza della forma
linguistica all’interno dei generi letterari e quello dell’accettazione di modelli.
Naturalmente la costanza della forma linguistica all’interno dei generi letterari è in fondo
solo un effetto secondario dell’imitatio dei modelli. Ora è vero che l’imitazione non basta
a produrre una assoluta unità della lingua. In effetti possiamo, rivolgendoci al latino,
considerare anche separatamente le singole forme in cui si presenta la lingua poetica
latina, dunque le lingue individuali dei singoli poeti o delle loro opere e confrontarle fra
loro. Il metro principale di questi poeti augustei è l’esametro; cui naturalmente si
aggiungono il distico elegiaco e Ovidio, nonché i vari metri della lirica in Orazio. Tuttavia
non possiamo vedere nell’esametro in sé un cogente indice esterno di lingua poetica.
Dunque la forma metrica da sola anche nell’antichità non basta a determinare la lingua
poetica. Oltre alla forma metrica è dunque essenziale alla lingua poetica anche
l’atteggiamento del poeta. Lingua poetica latina sarà dunque la lingua dei poeti augustei
e dei loro successori. Come si è realizzata questa forma speciale? In greco è dato
facilmente abbracciare lo sviluppo e il decorso della lingua poetica nelle linee essenziali.
Al principio cronologico non solo della poesia, ma di tutta quanta la letteratura qui sta
Omero, e con una lingua che già presenta numerosi segni distintivi di una lingua
artificiale. Questi segni sono i seguenti: la lingua non è la lingua di una città o una regione
dialettale o di un’area culturale. Inoltre la lingua non è quella di un’età determinata. Nel
lessico confermano l’artificialità le parole arcaiche. L’influsso della metrica si rivela nel
forte impiego di locuzioni formulari a in artificiali formazioni di parole. Sull’evoluzione
posteriore della lingua poetica greca si può dire che la successiva poesia in esametri e
anche in distici resta più o meno fortemente dipendente dalla lingua omerica. Lirica
monodica e corale hanno altre basi dialettali. Con la lirica corale è connessa anche la
tragedia attica. Ma il dialetto progressivamente non è più che una veste esteriore.
Tuttavia un elemento si è infiltrato da Omero in tutta questa poesia: le parole poetiche. Il
lessico poetico è comune a tutti: la definizione di una parola poetica si basa appunto sul
fatto che essa manca alla prosa; il lessico poetica passa oltre i confini dei generi letterari e
deriva in sostanza da Omero e da poeti linguisticamente dipendenti da Omero. Una
lingua poetica è in greco un effetto di tradizione letteraria, in latino non può essere stato
altrimenti. Dunque dobbiamo comprendere nell’osservazione la tradizione letteraria, gli
stadi inizili e i modelli. Il problema della sua genesi diventa più complesso in latino che in
greco. Solo imperfettamente ci è nota la lingua poetica latina arcaica. Inoltre accanto allo
sviluppo interno interviene un costante influsso greco dall’esterno; ma questo è del tutto
diseguale. E infine la formazione definitiva della lingua poetica avviene innanzitutto in
contrasto con una già esistente lingua classica della prosa. Soltanto qualcosa è più
semplice: nella lingua poetica latina hanno preso parte diversi dialetti. La poesia epica più
antica impiegò il saturnio: Livio Andronico e Nevio. L’uso di questo verso prova due cose:
l’esistenza di una più antica poesia romana o italica, ma anche gli scrupoli di fronte all’uso
dell’esametro nei due poeti. Le modeste reliquie di altri saturni in elogi e preghiere
garantisce comunque una modesta esistenza di una lingua schiettamente latina,
poeticamente stilizzata. Ma nell’impiego letterario ci si presenta un influsso greco molto
più forte. L’unico genere poetico, il cui perfezionamento i Romani rivendicano
esclusivamente a sé, la satira, è al tempo stesso il più impoetico di tutti e la sua forma
linguistica è appunto lingua dell’uso appena condizionata dal metro. E lingua dell’uso è
anche la lingua della commedia latina arcaica. Ma tuttavia indirettamente la lingua della
commedia di Plauto è anche importante come testimonianza di una lingua poetica in
fieri. Quali generi determinanti per la formazione di una lingua poetica restano in latino la
tragedia e l’epos. Quel che ci rivela la lingua della tragedia nei frammenti e nel suo
impiego nella commedia è questo: solennità, sostenutezza e un’incisività spesso artificiali.
Questi caratteri li condivide con la lingua esametrica di Ennio e l’evento più importante
per la lingua poetica latina fu appunto la sua opera, quando per il suo epos nazionale
romano degli annali riprodusse in latino l’esametro omerico. La più grande fatica di Ennio
fu quella di apprestare per il verso parole indispensabili che non si adattavano
all’esametro. Da Omero e dalla tragedia di Ennio si prende l’autorizzazione alla
neoformazione di composti da impiegare come aggettivi esornativi, perfino di composti
tali che non sono conformi né allo spirito del latino né a quello greco. Arcaismi già in
rapporto alla lingua parlata enniana sono in lui i genitivi in –ai, l’infinito laudiarier, etc.
Per il verso e la conformazione linguistica il creatore è Ennio con i suoi Annali. Inoltre ha
molto contribuito allo stile sublime e al lessico poetico dell’epos anche la tragedia latina
arcaica, da Ennio in poi. Nel lessico poetico è così raggiunta la stessa concordanza tra
tragedia ed epos che esisteva anche tra i modelli greci. L’influenza della poesia
esametrica fu enorme, essa si manifesta in Lucrezio, la cui poetica è al suo tempo arcaica
e sotto questo aspetto enniana. L’adesione di Virgilio ad Ennio è in parte più libera, in
parte più fedele di quella di Lucrezio. Solo una patina arcaica ben conveniente all’epos
nazionale della storia delle origini di Roma, e ottenuta utilizzando ben note formulazioni
di Ennio. Nelle opere anteriori di Virgilio manca questo colorito arcaico: esso appartiene
dunque al contenuto, non alla lingua poetica classica in sé. In questo contesto è da
ricordare anche il patrimonio linguistico enniano latente nei poeti fino a Virgilio. La
ricerca di una lingua poetica di pari dignità rispetto alla prosa latina classica comincia
prima di Virgilio e cioè con i neoteri, per noi dunque con Catullo. La prosa classica diede
ai nuovi poeti per la loro lingua letteraria il concetto di una norma orientata non sugli
antichi, ma sulla lingua colta contemporanea. Lingua poetica e lingua prosastica sono
separate da un largo fossato, ma non ancora per molto. Appena giunta alla perfezione, la
lingua poetica da parte sua mise a disposizione di tutti gli interessati i suoi pregi e i suoi
ornamenti per un loro libero impiego. E a questi interessati appartengono subito alcuni
prosatori. E’ già da lungo riconosciuto che in Livio questo influsso appare in massimo
grado nella storia del periodo regio e soprattutto nella prima decade e con ciò rivela una
immediata influenza non tanto degli annalisti quanto di Ennio. A questa prima ripresa
cosciente di forme di espressione poetiche nella prosa ne segue infine una seconda più
inconscia. Non solo per la trasmissione della lingua poetica, ma in generale per la
conservazione del latino. Nei secoli oscuri, Virgilio fu il principale autore scolastico e con
ciò il primo modello del latino di scuola. Chi imparava il latino sull’Eneide poteva
semplicemente considerare le forme di espressione di questa come quelle del latino
classico. Da ciò la singolare ricchezza di materiale linguistico virgiliano negli autori tardi.
Appartiene alla caratterizzazione della lingua poetica e della sua influenza il fatto che essa
in questa tradizione no diretta, ma derivata sopravviva anche nella prosa tarda.
Al poeta è concessa una maggiore libertà di espressione linguistica che non all’oratore. Il
primo sforzo è quello di rendere la lingua più elevata con le loro variazioni delle forme di
espressione. Nel lessico servono a questo intento le parole rare, arcaiche e solenni, poi
metafore e neoformazioni poetiche. I poeti cercano di suscitare tensione per mezzo
dell’insolito, al contenuto ordinario deve corrispondere una forma straordinaria. Molte
singolarità dello stile sono state anche create puramente sotto la costrizione o l’impulso
del metro. Secondo la loro origine i fenomeni più caratteristici della lingua poetica sono
dunque o arcaismi o puri neologismi, che per lo più dipendono da modelli greci o da
esigenze metriche. Se prescindiamo dal lessico, le classi si ripartiscono secondo le parti
della grammatica. Nella fonetica si trova poco.
1- ARCAISMI E MORFOLOGIA  il termine arcaismo ha senso solo in riferimento a un
autore e alla lingua parlata del suo tempo. Nella poesia posteriore gli arcaismi sono
il più delle volte ennianismi: una parola altrimenti scomparsa che Virgilio assume
da Ennio è per Virgilio un arcaismo, senza dover essere già stata un arcaismo per
Ennio. Una parola che poeti posteriori assumono da Virgilio è per questi solo una
parola poetica. Lucrezio in questo senso è assai ricco di arcaismi, Virgilio li impiega
solo in misura modesta, Ovidio per primo prima vi rinuncia completamente; egli
padroneggia la lingua con facilità superiore, qui l’uso della lingua poetica diventa
una pura tecnica e tale rimane poi anche in seguito. Quando si dice che Ovidio
maneggia la lingua poetica rinunciando agli arcaismi, si deve usare il concetto di
arcaismo sganciandolo dal poetismi. In Ovidio si può al massimo qualificare parole
che nel passato era normali nella lingua come arcaismi secondo la loro origine,
mentre secondo la loro funzione e valore affettivo sono parole poetiche. La
differenza rispetto a quei poetismi che al tempo stesso e di preferenza sono sentiti
come arcaismi si vede in alcune degli esempi di morfologia.
2- GRECISMI E SINTASSI  alle libertà e peculiarità sintattiche della lingua poetica
appartengono in primo luogo la libertà nella disposizione delle parole e la
preferenza per il collegamento paratattico delle proposizioni. Un arcaismo
puramente latino è la cosiddetta tmesi. Grecismi sintattici non è esclusivamente la
lingua poetica a presentarne, ma essa ne presenta di assai appariscenti.
a. Il plurale poetico, nella ulteriore evoluzione latina spesso è determinato da
ragioni puramente metriche nella ricerca di parole di forma dattilica, come
del resto anche in greco;
b. L’accusativo di relazione. Con gli aggettvi: nuda genus, flaua comas e con
partici passivi: succinti corda machaeris;
c. Il neutro di un aggettivo usto quasi avverbialmente come accusativo interno
con il part. Pres. Più raro con il verbo finito;
d. Il tipo ardua terrarum etc.
e. L’uso aggettivale degli etcnici, un uso che ha certamente anche una radice
indigena italica;
f. L’avverbio come determinazione del nome;
g. Il perfetto gnomico secondo l’aoristo gnomico greco;
h. L’inf. Pass. Invece del supino;
i. Il nom. Con l’inf. Dopo verba dicendi;
j. Il participio congiunto con verba sentiendi;

Non di origine greca, ma estensione di usi latini sono invece l’acc. Semplice di direzione
con nomi di paesi, o il dativo di direzione.

3- L’effetto del metro nella lingua poetica rivela in parte negli accorgimenti di scelta
delle parole, in parte nelle neoformazioni.
a. Procedimento della scelta e altri espedienti  le parole dalle successioni
bisillabiche cretico e tribaco sono inutilizzabili nell’esametro; alle parole
cretiche appartengono anche quelle in sé dattiliche in –um, -em, -am, in
parole di questa forma la sillaba finale in –m non è soggetta ad elisione
davanti a vocale. Ennio non ha ripreso da Omero la risorsa dall’allungamento
metrico, così la lingua poetica latina non conosce allungamento metrico.
Dunque il poeta deve sostituire le parole di forma proibita con altre. Se sono
inutilizzabili solo singole forme flessionali, soccorrono altri possibili
espedienti, così con parole cretiche: plurale poetico, varianti fonetiche, con
parole greche forme casuali greche, tmesi artificiale, inf. Perf per inf. Pres.
Simili espedienti anche con la successione di tre brevi.
b. Nell’esametro sono comode parole con due brevi  tali forme sono favorite
anche senza la costrizione del metro. Ma questa ricerca du dye brevi si
manifesta più fortemente nella formazione delle parole.
4- NEOFORMAZIONE DI PAROLE NELLA LINGUA POETICA  nel lessico stanno i segni
distintivi più spiccati della lingua poetica e nell’ambito del lessico sono evidenti le
neoformazioni. È vero che non di tutte le neoformazioni è responsabile il metro,
ma dove si tratta di neoformazioni della lingua poetica, nel momento della
creazione sta ovviamente l’impiego che ci si propone nel verso.
a. Derivazione  Lucrezio si procura in modo drastico forme sostitutive ad
esempio di magnitudo. Per i neutri in –mentum la lingua poetica preferisce
quelli più brevi in –men; ricco di effetto è –amen; essi furono sicuramente
creati nei casi ad uscita dattilica in -mina, - mine; l’uso della forma in –men è
successivo; ad un’esigenza metrica vengono incontro gli aggettivi in –eus
dopo sillaba radicale lunga e breve. La funzione di – eus nei poeti si estende
ben oltre l’ambito originario degli aggettivi di materia. Il suffisso –eus preso a
prestito da greco è anche usato con forme onomastiche latine.
Analogamente sono formati in funzione del verso aggettivi in –idus. Senza
rapporto con esigenze metriche, nel latino della lingua poetica sono stati
moltiplicati nella funzione di epiteti esornativi gli aggettivi in –osus, che in sé
non sono molto poetici. Peculiarmente poetico è il vinctricia arma creato da
Virgilio.
b. Formazione di parole spiccatamente individuali  esse arricchiscono la
lingua poetica dove a partire da un’interpretazione arbitraria di un passo
poetico considerato isolatamente o da una lecita nuova interpretazione di
un dato uso verbale la variazione linguistica segue nuove vie; si allude con
ciò ad alcuni casi di eteroclisia.
c. Composti della lingua poetica  la composizione del latino è piuttosto
rarefatta in confronto al greco. I poeti romani trovarono come risorsa la
possibilità delle perifrasi e in modo speciale per quanto riguarda i composti
con polu- anche quella delle derivazioni suffissali; gli aggettivi greci in –oeis,
li consideriamo per semplicità con i composti di polu- e i patronimici in –ides
insieme con i composti con genes-. Tali rese perifrastiche sono nate dal fatto
che ci rendeva conto o almeno si sentiva che la lingua latina permette il calco
immediato dei composti greci in misura modesta. Comunque alcune
formazioni e tipi di formazione sono stati recepiti nella lingua poetica.
Specialmente meritano menzione 3 tipi: i composti in –fer e –ger, che in sé
rappresentano un tipo latino arcaico; i composti in –pes, appoggiati al latino
arcaico; composti verbali subordinativi di vario tipo, in cui è verbale il
secondo membro, come i composti in –ficus o con il secondo membro
partipiale.
5- Lessico  lo strato poetico del latino dovrà essere documentato ancora con
campioni scelti da diverse classi di parole. Vanno premesse alcune osservazioni
sulla presenza di determinate parole nella lingua poetica e allo stesso tempo in
lingue speciali. Non tutte le parole limitate prevalentemente a opere poetiche sono
con ciò anche parole poetiche: la poesia conduce chiaramente in tutti i settori degli
affetti. La letteratura prosastica conservataci offre invece molto meno l’occasione
di usare molte parole anche quotidiane, per tacere dei termini erotici; tali parole
sono non poetiche. Viceversa parecchie parole sono sì poetiche, ma tuttavia sono
state usate anche da Cicerone nei suoi dialoghi filosofici. Se d’altra parte parte
parole poetiche provengono dalla lingua sacrale, esse appunto continuano ad
appartenere a questa lingua sacrale e solo come tali sono in genere più frequenti in
poesia che in prosa. Dall’antica terminologia politica è entrato nella poesia orator ,
dalla terminologia militare deriva macte. Quel che è passato dalla lingua rustica in
quella poetica si fa riconoscere più difficilmente. Tuttavia ci sono anche prestiti
dalla lingua dell’uso nella lingua poetica, e viceversa. Esistono anche parole
poetiche del tutto indipendenti da un significato che le predestini ad esserlo.
Nell’ambito dei sostantivi il fenomeno più vistoso è l’uso di termini sostitutivi dei
nomi “specifici”. Molto più enigmatiche riguardo alla loro presenza nella lingua
poetica le non troppe numerose glosse dell’aggettivo toruus. Come campione di un
aggettivo basti citare un sostantivo glossematico come aeuum. Sicuramente parola
del fondo ereditario, che a parte la flessione corrispondente al greco aion e sta
anche alla base dei derivati di aetas e Aeternum. Il carattere di queste citazioni in
prosa conferma la provenienza del termine dalla lingua poetica. Ma dove viene il
termine dalla lingua poetica? Si penserà alla lingua sacrale. Con maggiore sicurezza
che non tale influsso indiretto del greco si possono cogliere i prestiti greci tra le
parole poetiche. Con i termini della navigazione? In pelagus i poeti assunsero il
termine già introdotto in latino, ma in base alla loro conoscenza grammaticale del
greco gli restituirono nel nominativo il suo genere neutro.

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