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Filologia romanza
Università degli Studi di Milano
23 pag.
La linguistica romanza studia tutte le parlate che hanno origine da un'evoluzione della lingua
latina, per questo motivo le lingue romanze sono anche dette neolatine. La linguistica romanza
è dunque parte di un campo disciplinare più ampio, la linguistica, indicata anche in Italia con il
nome glottologia, sebbene quest'ultimo termine si riferisca alla più tradizionale linguistica
storica indoeuropea. La linguistica romanza opera una delimitazione genetica e storica
nell'insieme delle lingue parlate sul pianeta, ma tale delimitazione non è l'unica possibile. Le
lingue possono essere classificate, invece che geneticamente, anche per tipi. August Wilhelm
Schlegel distingue tra:
Esempi:
- la parola latina LUPUS può essere analizzata nel morfema lessicale LUP- ed in tre
morfemi grammaticali tutti espressi dalla desinenza -US (maschile, singolare e
nominativo → genere, numero e caso).
- nella parola turca SON-LAR-DAN “con i fini”: SON = morfema lessicale “fine”, LAR =
morfema del plurale, DAN = morfema del caso ablativo.
- nella parola cinese WÈN “chiedere” il morfema lessicale è espresso dalla singola parola
che è posta accanto a quella che ha valore lessicale mentre la funzione sintattica è
espressa dall'ordine delle parole.
Tutte le lingue romanze rientrano nel tipo flessivo. Noi ricorriamo invece al concetto di famiglia
linguistica: fanno parte di una famiglia linguistica tutte le parlate che anno uno stesso
capostipite, la lingua madre. Tale concetto fu formulato in forma scientifica soltanto alla fine del
XVIII sec. e all'inizio del XIX sec. quando furono riconosciute affini un numero cospiscuo di
lingue che includeva latino, greco, tedesco, russo, albanese, armeno, persiano e sanscrito sulla
base di corrispondenze tra morfemi e suoni. L'indoeuropeo fu considerato il loro capostipite. Di
questa lingua non vi sono testimonianze dirette ma la metafora genealogica continuò ad essere
impiegata per indicare fasi intermedie, anch'esse scomparse, che spiegherebbero la maggiore
somiglianza di alcune lingue indoeuropee rispetto ad altre. Le lingue romanze sono dunque una
ramificazione della famiglia indoeuropea, il solo caso documentato in cui da una lingua ben
attestata come il latino sia nata un'intera famiglia. Nonostante ciò, poiché una lingua è un
sistema costituito da un gran numero di elementi e sub-sistemi, può accadere che ci siano
lingue, ad esempio, in cui il lessico sia in maggioranza romanzo ma il sistema grammaticale no
(es. inglese: considerata lingua germanica ma almeno la metà del suo lessico è di origine
latina). La linguistica romanza include ogni aspetto antico e moderno delle lingue romanze: ha
dunque un versante diacronico ed uno sincronico. Oltre ai settori tradizionali (fonetica,
morfologia, sintassi, lessicologia) essa include dialettologia, sociolinguistica, pragmatica e la
tipologia delle lingue romanze di ieri e di oggi. La restrizione al solo problema del passaggio dal
latino alle lingue romanze scritte è ingiustificata, così come la sola attenzione ai testi letterari.
Fin dal medioevo esistono riflessioni sulle lingue romanze (Dante, De Vulgari Eloquentia). Dal
'300 e dal '500 si infittiscono le trattazioni grammaticali di singole lingue (calcate sulla
tradizione della grammatica latina). I collezionatori del '600 e del '700 avevano riconosciuto
Oggi le lingue romanze occupano un'area geografica continua nell'Europa accidentale, ad ovest
di una linea che va dal Canale della Manica al mare Adriatico. A occidente di questo confine,
all'interno dell'area romanza, sono sparse isole linguistiche alloglotte, soprattutto in Italia.
Vanno segnalate soprattutto due aree: la Bretagna francese è di lingua celtica, sono invece di
lingua basca i dipartimenti francesi dell'estremo sud-ovest e le province basche e la Navarra
settentrionale in Spagna. In entrambe queste aree, come nelle isole alloglotte minori, la
maggior parte della popolazione è bilingue e non mancano coloro che non parlano la lingua
locale. Attorno a questa massa continentale sono di lingua romanza molte delle isole: le Isole
Normanne della Manica, le Azzorre e Madera portoghesi, le Canarie spagnole, le Baleari
catalane, la Corsica, la Sardegna, la Sicilia (comprese le isole siciliane nel Tirreno e Canale di
Sicilia con Pantelleria e Lampedusa) e le Tremiti adriatiche. In questa grande area alcune
parlate hanno assunto fisionomia netta in quanto hanno avuto una tradizione letteraria, una
normalizzazione grammaticale ed il loro uso è diventato ufficiale. Le grandi lingue romanze
sono dunque il portoghese, lo spagnolo, il francese e l'italiano (ma in Spagna anche il catalano,
il galego e l'asturiano hanno un riconoscimento ufficiale, così come l'occitano in Francia,
sebbene oggi sia ridotto a dialetti residuali). A livello dialettale la transizione da una parlata
all'altra è quasi inavvertibile sicché si parla di continuum linguistico (è impossibile elencare il
numero di dialetti). In Europa esiste un'altra area romanza nei Balcani che copre gran parte
della Romanìa e della Repubblica Moldova, entrambe di lingua romena. Inoltre ci sono dialetti
dello stesso tipo che occupano zone sparse della penisola. Fino ai primi anni del '900 esisteva
nei Balcani un'altra parlata: il giudeo spagnolo (linguaggio ibero-romanzo dei Sefarditi, ebrei
espulsi nel 1492 dalla Spagna e rifugiatisi nell'Impero Ottomano). Le stragi della seconda
guerra mondiale, nei Balcani, l'immigrazione in Israele, dall'Africa e dalle comunità
sopravvissuti, hanno fatto quasi scomparire questa varietà romanza nella nostra area. Essa
vive in Israele, sottoposta alla pressione dell'ebraico, e in molte comunità americane, da
Nella diffusione di una lingua incidono decisioni coscienti, la cui influenza è tanto maggiore
quanto più autorevole e chi prende queste decisioni. Parliamo di politica linguistica quando ci
occupiamo di decisioni prese a livello governativo e simili. Nella storia delle lingue romanze vi
sono esempi memorabili:
• Nel 1831 un consiglio di vescovi dell'impero carolingio riunito a Tours (sulla Loira),
decise che nelle chiese dell'impero, mentre la liturgia rimaneva in latino, le omelie
dovessero essere formulate in lingua volgare (romanza nelle aree romanze e germanica
in quelle germaniche) affinché i fedeli potessero intenderle. Tale norma rappresenta il
più antico riconoscimento della distanza tra latino e lingue romanze e dei problemi di
comprensione che ne derivavano e soprattutto, conferisce legittimità alle lingue volgari
modificandone, non la diffusione, ma lo status.
• Nel 1539 l'ordinanza di Villers-Cotterêts del re Francesco I di Francia impose l'uso
obbligatorio del francese per evitare gli equivoci derivanti dall'uso del latino nei
tribunali. Questa norma riduceva lo status di tutti gli altri dialetti del regno rispetto al
francese dando inizio ad una politica di unificazione linguistica della Francia.
• Nel Ducato di Savoia (Piemonte) nel 1560 il duca Emanuele Filiberto adottò l'italiano
nell'amministrazione giustizia della parte italiana dei suoi Stati (se avesse generalizzato
il francese, forse la storia del Piemonte e dell'Italia sarebbe stata diversa).
• Nel 1707 il re di Spagna Filippo V emanò il decreto De Nueva Planta che introduceva
l'obbligo dello spagnolo nell'uso amministrativo e giudiziario a danno delle altre parlate
del regno.
Non meno importanti sono le fondazioni di accademia che avevano il compito di regolare l'uso
linguistico:
• La più antica è l'Accademia della Crusca, del 1582, che non fu propriamente
un'istituzione pubblica ed esercitò la sua ambizione di normatività sul lessico e non sulla
grammatica.
• Diversamente l'Académie Française del 1636 organizzata dal cardinale Richelieu,
sempre rimasta nell'orbita statale, ebbe il compito di dare al francese una norma
lessicale e grammaticale basata sull'uso di corte.
• La Real Accademia de la Lengua , fondata in Spagna dal re Filippo V nel 1714, ancora
oggi determina cosa è corretto e cosa non lo è. Per quanto riguarda il mondo ispanico,
tra il 1810 e il 1820, le colonie americane si resero indipendenti e non mancarono le
spinte al frazionamento linguistico, cioè ad affermare l'autonomia delle singole varietà
linguistiche. Nei vari stati furono create autonome accademie nazionali e l'attenta
politica dell'Accademia di Madrid ha accettato l'esistenza di specificità delle varietà
americane, permettendo contemporaneamente di mantenere l'unità dello spazio
linguistico castigliano: l'uso di Buenos Aires o di Città del Messico è diverso da quello di
Madrid ma nell'ambito della stessa lingua.
Nel mondo romanzo di oggi, sono in Francia è considerato normale che il governo intervenga
sull'uso linguistico combattendo l'introduzione di nuovi termini stranieri, stabilendo che le
insegne dei negozi siano in francese e legiferando su usi grafici. Il campo più importante della
5. LA VARIAZIONE
Le decisioni di politica linguistica hanno sempre lo scopo di imporre una norma che si propone
come unitaria. L'unità linguistica (conformità di usi linguistici all'interno di ampie comunità di
parlanti) non è la condizione naturale della lingua. La variazione è del tutto normale sia tra le
diverse comunità che all'interno di ciascuna di esse ed è limitata solo dalla necessità di
comunicare e dai limiti che ciò impone. In generale i parlanti restano all'interno dei vincoli
imposti dalla necessità di comunicare, e quindi di capire e di farsi capire. Ma all'interno di
questi vincoli e rimane un ampio margine di variazione. Già Dante (De Vulgari Eloquentia)
aveva osservato che in una stessa città non si parla in tutti i rioni allo stesso modo e che la
lingua del passato era certamente diversa da quella attuale. I dialettologi dell' '800 (che
lavoravano nelle campagne e nei villaggi) affermavano che in ogni località esistessero usi
linguistici sostanzialmente omogenei ma fu inevitabile contestare che non era così: se nella
stessa località vi erano usi diversi i concorrenti era perché alcuni conservavano antiche
abitudini ed altri li cambiavano (per esempio il luoghi in cui i giovani erano inviati per il servizio
militare obbligatorio influenzavano i loro usi). Per evitare questo effetto di distorsione, il dialetto
logo si informava da contadini molto anziani e mai usciti dal villaggio, quindi non esposti ad
influenze esterne. Si dette per scontato che perlomeno l'uso linguistico in una famiglia fosse
omogeneo, ma l'inchiesta del fonetista francese Rousselot (1891) smentito anche quest'ipotesi:
risultava che i parlanti studiati differivano nel modo di parlare per sesso, età ed occupazione.
Per non rinunciare all'omogeneità linguistica, i linguisti si convinsero che essa sussistesse
almeno nell'individuo. Nel 1948 venne ripreso il termine idioletto (1880, Herman Paul): somma
delle caratteristiche personali di attuazione della lingua da parte di un individuo (non è chiaro
se si riferisca ai prodotti linguistici concreti dell'individuo o alla sua idea astratta di lingua). Ma
anche questo concetto non soddisfaceva il bisogno di omogeneità dell'oggetto di studio. L'uso
del linguaggio è infatti dialogico (oltrepassa quindi il concetto di idioletto), inoltre lo stesso uso
linguistico di un individuo risulta incostante, vario, polimorfico. Si deve dunque riconoscere,
come già faceva Dante, che la variazione è un carattere intrinseco della lingua (solo le lingue
artificiali -esperanto- non hanno variazione). Vi sono molte dimensioni di variazione, ci
limitiamo alle principali:
1. Variazione diatópica → si realizza nello spazio e comprende sia la differenza tra famiglie
linguistiche che tra parlate di rioni di una stessa città.
2. Variazione di diastrática → si realizza all'interno di una comunità sociale in rapporto al
variare delle condizioni sociali stesse (es. lingua dei contadini-lingua dei proprietari).
3. Variazione diafàsica → si realizza in rapporto ai registri espressivi (es. solenne-formale-
familiare).
4. Variazione diacrónica → avviene nel tempo (es. tra italiano del primo '800 è quello
attuale).
Le diverse modalità di variazione si possono combinare (es. possiamo studiare l'italiano del
primo '800 in Lombardia in rapporto a quello attuale in Sicilia).
Un caso estremo di variazione diatópica è dato dall'espansione oceanica degli europei dal
medioevo in poi, e più tardi nelle colonie basate sul lavoro degli schiavi. Nel primo caso piccoli
gruppi di europei gestivano sulle coste dell'Africa e dell'Asia stazioni commerciali, avevano
limitate necessità di contatto linguistico con gli indigeni e non imparavano la lingua di questi
ultimi (semmai ricorrevano alla mediazione di servitori locali). Per comunicare si creavano
lingue semplificate dette pidgins. Esse sono caratterizzate da una grammatica ridotta
all'essenziale e da un lessico funzionale ai rapporti commerciali e a forme ridotte di convivenza.
Un pidgin non è mai la lingua materna di chi lo usa, la sua stabilità è limitata in quanto esso
nasce e muore in rapporto al bisogno di comunicazione. In alcuni casi gli europei si univano a
donne indigene e figli erano detti medici: in questi casi il pidgin diveniva la lingua materna di
un piccolo gruppo sociale abbastanza stabile e si trasformava quindi in creolo, che non aveva
più limitazioni funzionali alla relazione commerciale ma era appunto lingua materna e spesso
unica. Nelle colonie commerciali la situazione cambiò con lo sviluppo, dopo il '500, della tratta
degli schiavi. In questa fase i neri venivano mescolati, perché i gruppi di identica origine e
lingua erano considerati pericolosi in quanto favorivano solidarietà e ribellioni. Gli schiavi
dovevano così adottare una nuova lingua per comunicare tra loro e con i padroni, di norma una
lingua creola. La situazione era analoga nelle piantagioni americane: se gli schiavi erano
introdotti in ampie comunità di lingua europea, finivano per usare la lingua dei padroni ma
dove le comunità erano più piccole e i padroni usavano già la lingua creola, era quest'ultima a
generalizzarsi. Le lingue creole hanno una grammatica molto semplificata (tendenzialmente di
tipo isolante): nella morfologia verbale il tempo e l'aspetto sono espressi non da desinenze, ma
da particelle che precedono il morfema lessicale del verbo, il lessico è formato per la maggior
parte da parole europee, anche se modificate nella forma (motivo per il quale un creolo è
differente dall'altro) e le forme grammaticali presentano somiglianze. L'influsso delle lingue
indigene è apparentemente limitato ma le somiglianze tra creoli della stessa lingua molto
distanti nello spazio o anche tra creoli di lingue diverse non si spiegano se non con l'influsso di
sistemi linguistici sottostanti o con l'universalità di alcune soluzioni semplificate. Di norma il
creolo non è limitato alle piccole comunità, esso però può accrescere o diminuire facilmente
l'incidenza della lingua di base e al limite, può essere riassorbito da quella. In alcuni casi il
creolo a ottenuto il riconoscimento della sua funzione ufficiale. Per esempio, l'isola caraibica di
Haiti è stata colonia francese fino poco dopo la rivoluzione del 1789. L'intera popolazione
parlava il creolo, salvo i bianchi ed alcuni medici che ricorrevano al francese per gli usi alti. Il
creolo è stato introdotto nelle scuole nel 1979, riconosciuto lingua nazionale nel 1983 e lingua
ufficiale nel 1987 (il francese e rimane come lingua di cultura). Mentre nella coscienza dei
parlanti Le forme diverse del castigliano d'America non sono differenti rispetto alle forme
diverse dello spagnolo iberico, i creoli si allontanano dal paradigma della trasmissione in
interrotta in quanto hanno origine da una rottura assai netta. Tanto meno sono simili ai dialetti
coloniali, perché questi sono il risultato di mediazioni tra individui o gruppi che parlavano
varianti di lingue europee, mentre i creoli nascono dalla mediazione tra gruppi europei e gruppi
africani o asiatici, a loro volta in genere misti (paradigma diacronico contraddetto). Non è
possibile considerare i creoli come generati dalla lingua romanza di cui portano il nome (es. il
creolo di Haiti come neo-francese), perché i due processi di formazione sono del tutto diversi
ma è altresì sbagliato considerare i creoli come il risultato di una mescolanza linguistica perché
l'apporto delle lingue europee risulta un modestissimo e marginale. I creoli impongono dunque
la riconsiderazione dei principi fondamentali della linguistica.
8. LA VARIAZIONE DIASTRÀTICA
Al momento dell'unità d'Italia (1861) coloro che parlavano italiano erano una ristretta
minoranza. Ne consegue che fino al '500 e alla formulazione di una norma linguistica da parte
di Pietro Bembo non si possa parlare di italiano, ma piuttosto di toscano in concorrenza con altri
Tra le forme di differenziazione di afasica ci sono quelle collegabili al sesso e all'età del
parlante. Si ha spesso l'impressione che le donne usino la lingua non è esattamente come gli
uomini e che i giovani parlino in modo differente dai vecchi. Si dava un tempo per scontato che
le donne usassero meno termini espliciti della sfera del sesso; questa specificità è variabile in
rapporto all'evoluzione del costume e agli interlocutori. Gli autori di ricerche sul terreno
ritengono che la lingua delle donne sia più conservatrice di quella degli uomini. Impastato
questa caratteristica sarebbe stata associata alla minore mobilità della donna, oggi si dovrebbe
presumere che uomini e donne siano esposti a pressioni analoghe. In realtà, per quanto
riguarda la Francia alcuni studi su situazioni specifiche hanno portato alla conclusione opposta.
Nelle aree occitane e franco-provenzali le donne sono passate all'uso del francese,
abbandonando il dialetto (patois), prima e con più attenzione alla correttezza rispetto agli
uomini. La maggiore resistenza del dialetto nei gruppi maschili appare spiegabile con il
rapporto che c'è tra esso ed attività tipicamente maschili come quelle delle società sportive, la
caccia, la pesca ecc. In pochissimi casi comunque si sono indicate differenze sistematiche di
carattere morfosintattico tra le parlate degli uomini e quelle delle donne. Assai più netta è la
specificità della lingua dei giovani: si tratta sempre di innovazioni lessicali, che perlopiù hanno
vitalità effimera e quindi scompaiono molto rapidamente (si pensi ai sinonimi di "bello" -fico,
togo ecc.-) e metafore di uso colloquiale ("casino, cesso, pizza"). Solo qualcuna tra queste
innovazioni a vitalità nel tempo (es. "palestrato"). Sono inoltre conmuni i derivati (es. da "-aro",
"paninaro, rocchettaro ecc.") e i forestierismi (es. "arrapescion"). Nelle sue forme più spinge il
linguaggio giovanile diventa un gergo, cioè una forma linguistica usata da un gruppo con la
specifica finalità di non essere compresi da chi del gruppo non fa parte. Il gergo è un fenomeno
antico ed incide in generale soltanto sul lessico. Esso presenta una forte differenziazione nel
tempo e nello spazio in quanto un gergo sempre uguale finirebbe di essere gergo. Il più antico
La coscienza della variazione e nel mondo romanzo molto antica, rafforzata dal mito biblico di
Babele (Genesi, 11) che qualifica come punizione divina l'impossibilità degli uomini di capirsi
tra di loro. Il più antico segno di attività culturale legata alla variazione è l'attività di glossatura,
cioè la pratica di accompagnare un testo in lingua poco familiare con annotazioni interlineari o
marginali che rendono una o più voci della lingua del testo con parole di un'altra lingua, più
familiare a chi scrive. Le glosse si trovano fin dall'antichità, per spiegare con parole latine più
comuni i termini più difficili o arcaici di un testo. Nell'alto medioevo S rappresentavano spesso il
travestimento latino di termini volgari. Nelle Glosse di Reichenau (isola tedesca del lago di
Costanza, a nord delle Alpi, dove si trovava un importante monastero benedettino) della fine
dell'XVIII secolo, leggiamo: rufa: sora. "Rufa" é il femminile della latino RUFUS -rosso, biondo-,
mentre "sora" é il corrispondente dell'italiano "sauro", termine di colore oggi usato solo per il
pelo dei cavalli. La riduzione del dittongo AU ad O ci mostra che la glossa è sostanzialmente
volgare. Lo stesso accade nei casi di: Gallia: Frantia e Italia: Longobardia in cui si spiegano i
termini geografici classici con quelli normali nel periodo carolingio. Informa esplicitamente
romanza, uno dei più antichi esempi verso il 1000 é rappresentato dalle Glosse Emilianensi del
monastero spagnolo si San Millán, in Roja (Spagna nord-orientale). Es: Adubante domino nostro
Iesu Christo: con aiutorio de nuestro dueno dueno Christo (versione romanza). La pratica delle
glosse è diffusissima (era normale per la Bibbia) e produceva migliaia di voci che erano comode
da utilizzare senza ricominciare da capo la ricerca. È quindi comprensibile l'idea di staccare le
glosse dai testi e raggrupparle in glossari. La più elementare forma di organizzazione dei
glossari e quella ideologica, in cui le parole sono raggruppate per campi concettuali (es. parti
del corpo, animali, piante ecc.), ma questa rende difficile la ricerca di una parola. Si passa così
al glossario alfabetico che inizialmente raggruppa le parole solo in base alla lettera iniziale, poi
assume un ordinamento propriamente alfabetico. Se i glossari ebraici (con glosse ebraiche a
parole ebraiche) ed ebraico-romanzi (con glosse romanze a parole ebraiche) sono antichi e
quelli latini ancor di più, i glossari latino-romani (o viceversa) appaiono tardi. Il più antico che
riguardi un dialetto è il Vallilium, del religioso agrigentino Nicola Valla, pubblicato a Firenze nel
1500 e più volte riedito, anche con aggiunte. Si trattava di un glossario siciliano-latino volto ad
aiutare i religiosi ad esprimere in latino concetti di cui conoscevano sono l'espressione
dialettale. Seguirono diverse opere simili mirate a fornire ai dialettofoni il termine italiano e
basati sulla parlata di grandi centri urbani, con tradizione di dialetto colto e letterario. Solo con
la dialettologia moderna, dalla fine dell' '800 e soprattutto nel '900, appaiono vocabolari
dialettali di concezione diversa, basati sulla varietà di piccoli centri o diarie molto vasti e mirati
a raccogliere l'intero lessico di un dialetto per permetterne nulla traduzione, ma la conoscenza.
Negli altri paesi romanzi la produzione di vocabolari della lingua, in riferimento al latino,
comincia più o meno allo stesso tempo in Italia, ma l'interesse per il lessico dialettale dei
grandi centri è molto minore che da noi perché le tradizioni di parlata locale e di letteratura
dialettale sono molto meno forti. Sentita era invece la necessità di aiutare chi si trovava in un
paese di cui non conosceva la lingua (es. Glosse di Kassel, Germania, IX secolo). Più tardi
appaiono veri e propri manualetti di conversazione ad uso di commercianti, Pellegrini e
viaggiatori. Dalla stessa esigenza nascono nel medioevo le prime descrizioni grammaticali del
Tradizionalmente lo studio dei dialetti mirava a dimostrare che la dignità della parlata in
questione non era minore di quella della lingua letteraria del tempo. Si tratta dunque di
grammatiche normative, che definiscono come si dovrebbe scrivere in dialetto ma non come si
parlasse effettivamente. La dialettologia moderna e invece descrittiva. La modalità più
frequente è lo studio della parlata di una singola località, ma vi sono anche studi che
abbracciano intere aree; in effetti sono possibili studi dialettologici che investono perfino
l'intera Romània, ma in questi casi la ricerca è ristretta a singoli fenomeni e non prende in
considerazione tutte le varietà dialettali, bensì una selezione fatta per la loro (presunta)
importanza. Ciò che caratterizza la dialettologia non è dunque lo studio di un singolo dialetto,
ma la metodologia. Essa è infatti basata sulla raccolta diretta, sul terreno, dei dati da parte
dell'autore, anche se è richiesta la conoscenza di tutta la bibliografia precedente. I dati sono di
norma tratti del parlato e non dallo scritto né dalla letteratura dialettale. Alcune scelte sono
molto delicate. In passato si mirava a raccogliere e studiare il dialetto nella sua forma
presuntamente più pura ed arcaica. Si selezionavano quindi soggetti quanto più anziani ed
incolti possibile, senza esperienza di altre parlate. Poi ci si è resi conto che il dialetto "puro" è
un miraggio e che da nessuna parte esiste perfetta omogeneità. Il dialettologo mira dunque a
raccogliere dunque tutte le modalità di una parlata locale in funzione dello studio della
variazione diatòpica, diastàtica e diafàsica. Così la dialettologia si è fatta sempre più
sociolinguistica. Lo schema di presentazione dei risultati è rimasto da un secolo e mezzo quello
delle grammatiche storiche: il rapporto con il sistema latino per la fonetica e la fonologia, le
grandi categorie morfologiche (es. nome, verbo ecc.), i principali fenomeni sintattici, il lessico.
Poiché il fine è la messa in risalto della variazione, sono raccolte e localizzate le varianti
lessicali dei diversi termini dialettali. La descrizione di una rete di dialetti porta alla
constatazione di differenze e somiglianze. Se tracciamo su una carta geografica una linea che
separa, ad esempio, le località che conservano r- iniziale non rafforzata da quelle che la
rafforzano ci troveremo ad avere distinto due aree contrapposte. La linea si chiamerà isoglossa.
La considerazione di una rete di dialetti permette di tracciare un gran numero di isoglosse ma
molto raramente esse si sovrapporranno (solitamente la carta mostra un insieme di isole
grosse che vanno in tutte le direzioni). Si pone quindi il problema dei limiti dialettali. Lo studio
dei dialetti non investe solo le forme, ma anche loro usi. Si consideri il caso dei pronomi
personali, le cui forme nei dialetti italiani continuano quelle latine. Non meno interessante è
l'esame dei loro usi, ad esempio come allocutivi. Fino al III secolo d. C. in latino usò "tu" tra tutti
i parlanti, poi si riservò "tu" ai pari e si usò "vos" con i superiori. Quest'ultima situazione è
parzialmente conservata da alcuni dialetti italiani della fascia appenninica e del sud Italia. Fino
a non molti decenni fa il "voi" era in molte regioni forma di rispetto per gli anziani, per i genitori
e tra gli sposi. Oggi il "tu" si è generalizzato tra i colleghi, soprattutto tra i giovani, a scapito del
"lei". Lo studio del lessico dialettale può avere un altro sviluppo, quello etnolinguistico. Spesso
non basta infatti tradurre la parola dialettale con una parola della lingua standard, ma sono
necessarie specificazioni ulteriori (es. nei dialetti di tipo lombardo della Svizzera italiana
accanto a "bròca" -brocca- esiste un "bròca" -recipiente di legno a doghe-; il primo termine
necessita di spiegazione, ma ancor di più il secondo per specificare l'oggetto a cui ci si riferisce;
nel Vocabolario dei dialetti della Svizzera italiana queste definizioni sono infatti accompagnate
da disegni). Questo tipo di studio fu sviluppato all'inizio del'900 nel metodo parole e cose e poi
esteso dai termini che designano oggetti a quelli astratti, che illustrano l'ideologia ed i valori di
una cultura. Si è così realizzata una dialettologia che ricostruiva non solo le forme di
espressione ma anche i contenuti della cultura di una comunità contadina e artigiana, assai
diversa dalle culture urbane e borghesi. Si tratta dunque di una linguistica etnografica, non
diversa da quella che si vuole realizzare quando si descrivono lingue e culture extraeuropee di
popolazioni "in via di sviluppo".
Le lingue romanze non sono in contatto solo con altre lingue romanze ma anche con numerose
altre lingue che appartengono a famiglie differenti. Non si tratta solo di rapporti orizzontali (tipo
adstratico) ma anche di casi di diglossia in cui la lingua romanza gioca il ruolo di varietà alta
(es. in Italia, Francia e Romania). A loro volta però alcune varietà romanze funzionano come
varietà basse. Il bretone, varietà celtica parlato nel Ducato di Bretagna (che comprendeva
popolazioni sia bretoni che francesi) è stato "rimpiazzato" dal francese quando nel 1532 il
Ducato di Bretagna fu assorbito nel regno di Francia. Pertanto il bretone rimase fino ad epoca
moderna la parlata dei contadini e senza produzione letteraria che non fosse orale. Oggi la
frontiera linguistica divide una Bretagna brétonnante "di dialetto bretone" da una Bretagna
gallo "di dialetto francese". Ma la frontiera illude in quanto anche nella Bretagna di dialetto
FOTOCOPIE CAPITOLI 24 e 25
Ci sono rapporti con altre lingue assai rilevanti per la storia delle lingue romanze. Il loro
rapporto con il latino, per esempio, non è stato solo di filiazione (discendenza), ma anche di
influenza interrotta nei secoli del latino sulle lingue figlie in ragione del fatto che il latino è
rimasto la lingua della Chiesa, della scuola e della cultura dalla quale sono state attinte parole,
forme e sintagmi. Lo status del latino è però cambiato nel corso dei secoli. All'inizio si
considerava come registro alto finché le divergenze si accentuarono al punto da arrivare ad
una situazione diglossia (latino = varietà alta-volgare = varietà bassa) man mano che esso
usciva dall'uso dei domini "alti", nei quali lo sostituivano le lingue romanze. Il latino passava
allo status di lingua straniera, conservando però il prestigio culturale e religioso. L'effetto più
evidente è la presenza di prestiti lessicali nelle lingue romanze. Bisogna distinguere tra termini
latini di origine patrimoniale (da sempre presenti nella lingua parlata) e prestiti (assenti dalla
lingua parlata ma rientrativi perché ripresi dal latino da persone che il latino lo conoscevano).
Per questo si parla di parole colte o semicolte. In realtà ricaviamo questa distinzione dalla
forma delle parole: se una parola di origine latina ha subito mutamenti fonetici caratteristici
della lingua romanza, essa sarà patrimoniale, altrimenti sarà prestito colto (es.
orecchia<AURICOLA con una serie di mutamenti, se l'aggettivo "auricolare" non li presenta,
significa che non è patrimoniale ma è stato preso in prestito in un certo momento della storia
dell'italiano). Il quadro è molto complesso ed esistono infinite sfumature. Il francese ad un certo
punto della sua storia medievale a perso la -s quando precedeva una consonante (es.
SCHOLA>école), ma ci sono in francese altre parole di uso colto in cui il ricordo della pronuncia
latina ha impedito il dileguo di -s + consonante (es. juste<JUSTU). Per le lingue romanze la
possibilità di prendere in prestito termini latini ha prodotto un gran numero di coppie di parole
che hanno la stessa origine ma diversa trafila storica, una volta patrimoniale, l'altra di prestito.
Fotocopia Abbiamo già visto, a proposito di "occhio" e "auricolare", che può accadere che ci
siano coppie "derivative" nelle quali un termine (di solito quello principale) è patrimoniale e
l'altro (di solito quello derivato) è un prestito. Così accade per "legge" e "legale, legittimo";
"occhio" e "oculare, oculista" ecc. A volte, addirittura, il presunto derivato proviene da un altro
termine latino (es. "città" e "urbano, urbanistica, urbanità"). Lo stesso accade nella flessione,
dove è un latinismo il suffisso italiano del superlativo dal lat. -ISSIMU (es. santissimo). A livello
scritto la sintassi è stata fortemente influenzata dal latino. Basti citare due fenomeni: la ripresa
dell'ablativo assoluto latino in frasi italiane come "detto questo", "data la situazione" ecc., e la
collocazione del verbo alla fine della frase come in "come vuole Dio, che ama gli amanti", "far
non si potrebbe" ecc. Il latino ha inoltre un'altra funzione nei confronti delle lingue romanze
operando in funzione centripeta, contro la tendenza alla differenziazione interna, e quindi
accrescendo la somiglianza delle lingue romanze tra di loro.
Il latino aveva avuto per secoli un rapporto molto stretto con il greco. In epoca alto-medievale il
greco antico aveva conosciuto una certa evoluzione ed in questa forma continua ad influire
sulla latino medievale e su molte varietà romanze, non solo per il prestigio politico e culturale
di Bisanzio ma anche per la presenza politica e demografica dei greci a Venezia, nell'Esarcato
(Ravenna e Romagna), nelle coste dell'Italia meridionale da Bari a Napoli, in Sicilia e in
Sardegna, per non parlare del romeno, sottoposto ad influenza bizantina sia prima che dopo la
conquista di Costantinopoli da parte dei turchi ottomani (1453). Attraverso il latino sono così
pervenute alle lingue romanze, in genere come prestiti colti, parole di origine bizantina (es.
catalogus, idioma, masticare, pharmacia ecc.) di cui troviamo esiti in tutte le lingue romanze di
cultura. Così da "protocollum" si registrano it. protocollo, fr. protocol, sp. e port. protocolo. Di
penetrazione popolare è invece il grecismo "cathedra" (sedia) di cui abbiamo it. sett. ca(d)rega,
fr. chaire, sardo. kadrea, so. cadera, port. cadeira ecc. accanto ad esiti colti come it. cattedra.
Le parlate arabe avevano avuto contatti con il latino, perché l'impero romano aveva posseduto
per secoli una fascia settentrionale del deserto. Le cose cambiarono con l'espansione araba
nella penisola iberica. La conquista araba non comportò soltanto la presenza di un ceto poco
numeroso di dominatori: molti furono gli immigrati dall'Arabia, moltissime le conversioni
all'islamismo, rapido il cambio di lingua. Questo processo storico ridusse di molto l'area della
Romània e creò in Spagna, in Sicilia e nelle altre aree di meno stabile conquista una vera e
propria Romània arabica. L'arabizzazione era stata così profonda che in molte aree al momento
della riconquista non c'erano più genti di lingua romanza e, dopo la riconquista, la popolazione
indigena, in parte di remota origine latina, in parte orientale, adottò lentamente il romanzo. In
queste aree l'arabo è un vero e proprio sostrato delle varietà romanze, o quantomeno un
importantissimo adstrato. Ma l'influsso linguistico arabo a altri due canali: da un lato l'interesse
dei "latini" per la scienza araba, spesso di origine greca e le conseguenti traduzioni, dall'altro il
commercio mediterraneo tra paesi arabi e paesi romanzi. L'arabo-coranico (anteriore all'opera
di Maometto) aveva ricevuto qualche latinismo, che poi è ritornato nelle lingue romanze con la
forma e di significato acquisiti in arabo (es. CASTRUM, diventato in greco "kástron" e da qui
giunto all'arabo come "qasr"; Dall'uso di questa parola nella terminologia marinaresca viene l'it.
càssero, mentre dal valore architettonico di "castello" si ha lo sp. alcázar). La costante
emigrazione dei mozàrabi (dal sud musulmano si spostavano al nord cristiano della penisola
iberica) ha riso generale fin dall'epoca antica molti arabismi (es. "alcalde" -giudice di villaggio,
sindaco-, "aldea" -villaggio-). La riconquista della Spagna ha determinato fenomeni di
ripopolamento, contatto con le lingue e cambio di lingua su tale scala che le parole di origine
araba sono numerosissime soprattutto in Andalusia e in Aragona e Valencia. Questo contatto
non determina interferenze fonetiche, ma lascia tracce nella morfologia (es. nel suffisso
aggettivale -í come in "marroquí, tunecí, alfoncí" -marocchino, tunisino, alfonsino-). Poche e
discusse sono le interferenze sintattiche. L'influsso e dunque soprattutto lessicale e comporta
sistematici adattamenti. Il tratto più caratteristico è che gli arabismi iberici integrano l'articolo
arabo "al" (la consonante in arabo spesso si assimila alla consonante con cui inizia la parola
successiva) es. "alcachofa, algodón, alfombra, almohada ecc." -carciofo, cotone, tappeto,
cuscino-). Ci sono però arabismi di ogni genere, come i sostantivi "tarea" -compito- e "tarifa"
-tariffa-, l'aggettivo "mezquino" -povero-, il verbo "halagar" -lusingare-, la preposizione "basta"
Nella storia moderna delle lingue romanze il più grande fenomeno di romanizzazione è stato la
loro diffusione in America. La premessa è stata l'arrivo di Cristoforo Colombo nel 1492 nell'isola
di Guanahaní la scoperta di Cuba e Haiti. Gli indigeni furono presto decimati dalle malattie e
dalle lavoro forzato. Fin dal 1513 si pose il problema di trasportare nelle isole caraibiche degli
africani come forza-lavoro. Nelle isole dunque non si può parlare propriamente di
ispanizzazione degli indigeni, che furono piuttosto sostituiti. Le lingue di questi gruppi fornirono
però agli spagnoli le denominazioni di piante, animali e cose che non avevano mai visto prima.
Così entrarono nello spagnolo, e poi nelle altre lingue europee termini come "canoa, hamaca,
maíz, patata, tabaco". Le cose cambiarono quando Hernán Cortés abbatté l'impero azteco e
conquistò il Messico (1521). Questa volta gli spagnoli avevano a che fare con un paese
sviluppato e molto popolato: gli abitanti di origine europea erano una piccola minoranza della
popolazione, che per la maggior parte era formata da indios e per il resto da meticci. All'inizio
gli spagnoli si univano a donne indigene che generavano meticci. Questi nuclei familiari
rappresentano una delle prime vie di ispanizzazione degli indigeni (le donne infatti finivano con
l'apprendere lo spagnolo così come i figli). Un'altra via era il contatto nelle città ed il servizio
domestico. Ad ogni modo, anche il contatto con la lingua degli aztechi (náhualt) produsse
prestiti lessicali (es. cacao, chocolate, tomate ecc.). Altrettanto importante fu la spedizione che
permise a Francisco Pizarro la conquista dell'impero Inca (zona centrale delle Ande). Qui si alla
tutt'oggi il quechua dal quale anche si ebbero prestiti come nomi di animali quali "cóndor,
llama, puma ecc.". Nella zona tra Paraguay e Brasile la lingua indigena più diffusa è ancora
oggi il tupí-guaraní da cui provengono parole come "ananás, petunia, tucán ecc.". Queste
enormi colonie furono organizzate in viceregni. Il primo fu quello di Nueva Espana, nel Messico
(1530), seguirono il vice regno del Perù (1543), quello di Nueva Granada (1717) e quello del
Plata (Buenos Aires, 1776). Dalle autorità spagnole dipendevano ora milioni di indigeni, ma
prima del problema di insegnare loro lo spagnolo si pose quello di convertirli al cristianesimo.
Dopo la conversione, le nuove comunità usavano lo spagnolo e la liturgia era il latino sicché la
cristianizzazione fu una potente motivazione per il cambio di lingua. Lo spagnolo era comunque
la lingua del potere ed anche della scuola. Si mise così in moto un processo prima di
bilinguismo e poi di cambio definitivo di lingua che tutt'ora non è completato. Ci attenderemo
che si siano verificati grandiosi fenomeni di sostrato, ma non è così. Lo spagnolo da America
non è identico a quello della penisola iberica. Intanto esso ha un carattere unicamente
andaluso (es. "dolsura" si distingue dallo standard peninsulare "dolzura" per il seseo, cioè per
la pronuncia come -s interdentale). Ciò accade perché la maggior parte degli immigrati del XVI
secolo proviene appunto dall'Andalusia. È importante osservare che il tipo linguistico
americano che sia costituito nei primi decenni dopo la conquista su base andalusa, è rimasto
tale anche se i rapporti si sono estesi a tutte le regioni della penisola. Lo spagnolo d'America
non è una varietà compatta, esistono varietà regionali che fanno capo ai grandi centri: Città del
Messico, Caracas, Bogotà, Lima, Santiago del Cile, Buenos Aires. Queste varietà sono sempre
comprensibili tra di loro e con lo spagnolo peninsulare, sono dunque varietà di una stessa
lingua. La loro diversità in minima parte dipende da fenomeni indotti dalle differenti lingue
indigene, più rilevante è la selezione che ognuna di esse ha fatto tra le alternative offerte dallo
spagnolo. In generale, le varietà delle antiche capitali vicereali e delle terre alte, che gli
spagnoli preferirono per il clima migliore, sono più conservatrici di quelle delle terre basse
(spesso inospitali e per questo lasciate agli indios e ai neri).
In epoca moderna sono cambiati anche i rapporti delle lingue romanze tra di loro e con le
lingue non romanze. Scarsa e l'incidenza delle varietà tedesche dal medioevo in poi che si è
limitata alle aree di contatto tra romanzo e tedesco. Un'area di contatto secolare è stata la
contea di Fiandre, la cui popolazione era per la maggior parte fiamminga, ma ad occidente
anche francese. Qui il francese rimase lingua amministrativa fino al 1350, lingua di corte anche
Nei primi secoli dopo il 274 la popolazione latina subì le incursioni e le violenze dei germani, ma
furono le invasioni slave dal VI secolo in poi che formarono dei veri e propri insediamenti e
frammentarono i gruppi romanzi. Essi imposero una variante dello slavo antico come lingua
della Chiesa cristiana ortodossa e poi delle cancellerie dei principi. Questo slavo ecclesiastico
esercitò sulla romeno un influsso paragonabile a quello esercitato in occidente dalle latino. Lo
strato più antico degli slavismi è quello che è comune alle quattro varietà romene, pertanto è
verosimile che gli slavismi comuni siano anteriori al 1000. Furono abbandonate parole latine
come le seguenti e adottati gli slavismi corrispondenti: AMO→iusbesc -amo-,
LABORO→muncesc -lavoro-, INFERNUM→iad -inferno-. Il rapporto tra le due lingue è stato così
stretto che alcuni termini latini hanno assunto i significati della corrispondente parola slava (es.
floare<FLORE, che non significa solo "fiore" ma anche "colore"). Dopo questa fase comune, nei
secoli XIV-XV abbiamo la maggiore pressione dello slavo come lingua della politica, della
società, della cultura e della religione: da etnico, democratico, come era stato
precedentemente, il rapporto diventa culturale (es. "boier" -boiardo-, "cimitir" -cimitero- ecc.).
Nella fase successiva gli slavismi entrano in romeno soprattutto dalle lingue slave dei paesi
vicini, dal bulgaro, dal serbo, dall'ucraino; dopo il 1700 è la volta dei russismi. Nel complesso gli
slavismi rappresentano circa il 14% del lessico romeno attuale, i latinismi patrimoniali sono solo
il 20%, il 20% ed il 37% sono francesismi (ripresi dalla lingua di maggior prestigio nell' '800 e
nel '900). In questo modo il romeno è stato profondamente riportato alla base romanza.
Importante è stato l'influsso del greco: i grecismi risultano da contatti personali che aumentano
dopo la conquista turca di Costantinopoli (1453); alcuni esempi sono "despot" -despota-,
"piper" -pepe-, "buzunar" -tasca- ecc.). Altri influssi sono derivati dall'esposizione alle invasioni
germaniche (germanismi antichi), al contatto con l'ungherese e da quello con le popolazioni di
lingua turca.
Il latino, la lingua madre delle lingue romanze, appartiene alla famiglia linguistica indoeuropea.
In origine esso era parlato soltanto a Roma e dintorni. Ben più diffuse nella penisola erano
È normale che il latino, parlato per tanti secoli in un’area così ampia e che ha visto fenomeni
demografici tanto rilevanti (spostamenti consistenti di popolazione, innumerevoli cambi di
lingua), presenti differenze al suo interno. In effetti, i primi testi letterari cospicui, come le
commedie di Plauto, non esibiscono un latino del tutto identico a quello dei classici successivi;
ma poiché i fenomeni del latino arcaico a volte riaffiorano in quello tardo, bisogna pensare che
la lingua della letteratura classica sia stata sottoposta ad un rigido autocontrollo che l’ha resa
insieme molto normalizzata e poco mutevole. Cicerone sa che nella conversazione familiare si
fa un uso più rilassato della lingua ed allude alla parlata della plebe come distinguibile da
quella delle persone di classe più alta. Ma non è chiaro se non si parli sempre di usi stilistici
invece che di vere e proprie varietà. Solo all'inizio del V secolo abbiamo informazioni più
precise: S. Girolamo ci dice che il latino cambia nello spazio e nel tempo mentre S. Agostino ci
informa della difficoltà dei suoi fedeli africani nella distinzione tra vocali brevi e lunghe. Nei
grammatici, i quali appartengono soprattutto al periodo tardo-imperiale, troviamo correzioni di
ogni genere di errori, che corrispondono evidentemente a usi reali. Il fatto straordinario è che
fino a questa data noi non siamo in grado di stabilire in base a criteri linguistici da dove
provenga un testo latino. Non parlo soltanto di testi letterari ma anche di quelli non letterari.
Intanto, anche i testi della letteratura alta a volte fanno un uso cosciente di un latino meno
accurato. Così accade nel teatro comico, da Plauto in poi. Vanno poi tenuti in conto i testi di
tipo pratico (trattati veterinari o di cucina) e le migliaia di epigrafe che il mondo antico ci ha
lasciato (rovine di Pompei). Le indagini condotte sulla lingua delle iscrizioni delle maggiori
province non hanno portato alla luce differenze sostanziali. La lingua dei cristiani, per tempo
considerata varietà a sé, non ha altra particolarità che i tecnicismi religiosi. Le fonti
documentano molti fenomeni di cambiamento che si presentano però in tutte le province,
senza rapporto evidente con la futura distribuzione nello spazio romanzo. Il grande linguista
Il latino tardo si differenziava da quello arcaico e poi da quello classico, oltre che per i
cambiamenti avvenuti nei molti secoli della sua storia, anche per effetto dei rapporti che aveva
avuto e continuava a da avere con altre lingue. La grande maggioranza di coloro che
nell’impero romano parlavano il latino o aveva cambiato lingua durante la sua vita o era
discendente di qualcuno che aveva abbandonato la propria lingua materna a favore del latino.
Oggi buona parte degli americani si trova in questa situazione rispetto all'inglese, ma
nell'impero romano i discendenti di famiglie che parlavano latino da sempre erano meno
numerosi degli attuali americani di origine anglosassone. Inoltre mentre gli americano erano e
sono tutti immigrati, gli abitanti dell'impero avevano cambiato lingue rimanendo nella località
d'origine. È dunque presumibile che il latino mostri le conseguenze di questa situazione, cioè
quelli che i linguisti chiamano effetti di sostrato, mutamenti indotti da una lingua che viene
abbandonata nella lingua che ad essa si sovrappone. Tutti constatiamo che coloro che adottano
una lingua diversa da quella materna, la parlano trasferendo nella seconda alcuni usi della
prima. Nell’Italia antica il latino si era sovrapposto a lingue affini, come l’umbro-osco, o a lingue
del tutto diverse, come l’etrusco. Per l’osco, esso aveva in comune con il latino una serie di
parole in cui ad una –B- latina corrispondeva una –f- osca: RUBER “rosso (porpora)” e RUFUS
“rosso (della volpe)”, sembra evidente che la seconda forma sia un prestito dall’osco. Ma non è
facile distinguere tra prestito (da un ad strato) e relitto (da un sostrato). RUFUS è entrato in
latino quando le due lingue erano alla pari o vi è stato introdotto da persone che erano passate
dall’osco in latino ed avevano conservato la pronuncia osca con –f- o la singola parola osca? In
ogni caso, accanto a forme romanze con –f- documentate già in latino, troviamo forme romanze
con –f- che corrispondono a forme documentate in latino con –b-: il latino ha BUBALUS e
BUFALUS, ma l’it. bufalo proviene dalla forma osca. Più dubbio è un fenomeno fonetico assai più
diffuso. I dialetti dell’Italia meridionale e della Sicilia conoscono il passaggio –MB- > -mm- e –
ND- > -nn-: PALUMBA > palomma e QUANDO > quanno. L’area di diffusione moderna del
passaggio corrisponde parzialmente all’area in cui duemila anni fa era parlato l’osco. Si è
dunque concluso che il fenomeno romanzo è una conseguenza del sostrato osco. In altre
parole, quando chi parlava osco passò a parlare latino, avrebbe conservata la pronuncia osca –
mm- e –nn-; questa pronuncia è stata poi trasmessa dal latino della zona osca al romanzo. In
realtà, nella prima documentazione medievale, questi sviluppi non si riscontrano che in una
ridotta area dell’Italia centrale interna: nulla di simile avviene in Campania, Puglia, Basilicata,
Calabria e Sicilia. L’area moderna del fenomeno non corrisponde dunque né a quella del primo
medioevo né tanto meno a quella osca. Il focolaio di diffusione del fenomeno romanzo è
Si ha influenza di adstrato quando la lingua che dà ha un rapporto paritario con quella che
riceve: dunque, non le lingue alle quali il latino si era sostituito ma quelle con le quali aveva
stretterelazioni. Le lingue di adstrato possono poi diventare di sostrato, quando le popolazioni
che le parlano sono romanizzate. Sul latino incisero due lingue che rimasero sempre di
adstrato: il greco ed il germanico. Il latino ha parole di origine greca fin dalle origini. Tali prestiti
ci assicurano che la relazione arcaica tra Roma e Grecia riguardò ambiti centrali della vita di
tutti i giorni: si tratta di parole come OLIVA, MALUM, relative all’alimentazione, ad alberi, ma
anche a termini marinareschi o militari. Più tardi, nella piena epoca classica, abbiamo un’altra
ondata di influenza greca. A partire dal sec. III a. C. in poi, la cultura greca abbaglia a tal punto i
romani, che la letteratura latina si sviluppa come imitazione di quella greca; la retorica e la
filosofia vengono dalla Grecia; le persone colte parlano greco e spesso hanno studiato in
Grecia. Ma accanto al grecismo dei ceti colti, c’è quello popolare, indotto da immigrati
dall’oriente e forse ancor più dagli schiavi (che ricorrevano al greco come lingua generale per
la comunicazione in oriente). I rapporti popolari fra latini e greci spiegano poi una terza ondata
di grecismi, quelli legati alla diffusione del cristianesimo. La nuova fede era nata tra gli ebrei,
ma si era presto diffusa tra i greci in greco. Anche in occidente il cristianesimo si diffuse a
cominciare dalla seconda metà del I sec. d.Cr. in ambienti ebraici o greci e la lingua dei riti
rimase greca per più di un secolo; poi andarono prevalendo i convertiti che non sapevano il
greco e per la predicazione ed il rito si passò al latino. Non sorprende, dunque, che il latino dei
cristiani, oltre a qualche elemento ebraico come AMEN, sia folto di grecismi di tutti i tipi. La
compenetrazione tra greco e latino in età imperiale, tanto a Roma che in altre zone, fu tale che
il latino si plasmò molto intimamente sull’altra grande lingua di cultura dell’impero. Sul piano
lessicale, una parola come il greco “theios” riuscì a soppiantare in Italia (zio) e in Spagna (tio) i
termini di parentela originari del latino. Ci si è chiesti ad esempio se il greco, che aveva da
sempre l’articolo determinativo (ricavato da un dimostrativo), non abbia potuto fornire un
modello alla creazione dell’articolo in latino. In questi casi, più che un prestito, si ha
l’impressione che le due lingue in molti casi esprimessero con i propri materiali una struttura
divenuta analoga, che sarebbe il segno più forte di una compenetrazione effettiva e profonda.
Quanto al germanico, i romani avevano cominciato ad avere a che fare con i germani verso la
fine del sec. II a.C., per poi entrare con loro in contatto stabile lungo la frontiera del Reno e più
tardi anche del Danubio. I germani si rivelarono avversari indomabili e fin da Tacito è evidente
l’ammirazione dei romani per la loro immagine di barbari amanti della libertà. Dal sec. V non
trovarono più ostacoli e portarono alla formazione di regni in Italia, Francia, Spagna, Africa.
Dobbiamo distinguere strati diversi di germanismi. Un certo numero di termini germanici
entrano già nel latino imperiale: questi prestiti sono propriamente di adstrato. A questo gruppo
appartiene forse “werra” (guerra), che ha sostituito dovunque BELLUM. Si considerino anche i
nomi dei colori: “bianco” è un germanismo (latino ALBUS) presente in tutte le lingue romanze
occidentali. I prestiti più tardi entrano quando i germani costituivano già il ceto dominante dei
Dobbiamo trovare una spiegazione, ancor più che del mutamento, del frazionamento del latino
in un gruppo di lingue differenti non solo dal latino ma anche tra di loro.
Fin dal sec. XV questa catastrofe è stata addebitata alle invasioni germaniche. Le lingue
romanze sono considerate forme corrotte a causa della mescolanza etnica e linguistica
determinata dalle invasioni; la pluralità delle lingue romanze corrisponde alla pluralità delle
genti germaniche che hanno corrotto il latino. Questa spiegazione in realtà rimane su un piano
moralistico e non spiega un gran che sul piano storico del mutamento linguistico. Per fare un
caso concreto, perché le diverse lingue germaniche che avevano tutte una declinazione
nominale, avrebbero dovuto provocare la scomparsa di quella latina? Inoltre, questo gran
processo storico, quali le invasioni barbariche, non può essere ridotto ad una semplice
corruzione della civiltà classica.
40b. La diglossia
Questa spiegazione risale al 1400 e ipotizza l’esistenza nel mondo di una permanente diglossia,
l’esistenza cioè, già nella Roma classica, di una lingua alta, quella della letteratura, e una
lingua bassa, latino volgare. Mentre la prima si sarebbe cristallizzata nell’immobilità della
grammatica, la seconda si sarebbe sviluppata man mano nelle lingue romanze. In realtà, non
c’è alcuna prova dell’ esistenza di tale diglossia e un rapporto esclusivo latino volgare – lingue
romanze è riduttivo ed improbabile. Inoltre, non ci dice nulla sull’articolazione del mondo
linguistico romanzo in varietà diverse.
40c. Il sostrato
Un’ipotesi formulata nel 1881 da G.I. Ascoli attribuisce il peso decisivo nella formazione delle
lingue romanze ai sostrati prelatini. Il latino parlato si sarebbe frammentato in varietà diverse
in rapporto ai diversi sostrati che hanno influenzato il latino nelle diverse regioni dell’impero.
Contro questa ipotesi si può far valere l’estrema difficoltà di dimostrare volta a volta che i
fenomeni delle lingue romanze trovano la loro causa in fenomeni di lingue mal conosciute e di
età remota. Un ulteriore argomento contro un eccessivo ricorso a tale spiegazione si ricava da
quanto si può osservare nell’America latina, dove l’influenza delle lingue indigene fuori dal
lessico è modestissima e comunque non ha determinato una pluralità di varietà linguistiche
neo-castigliane. Non è improbabile che alcuni mutamenti romanzi abbiano la loro remota
origine in fenomeni di sostrato ma essi sono comunque una parte molto limitata dei fenomeni
che hanno trasformato il latino nelle lingue romanze.
Nel 1884, Gröber collegò la differente fisionomia delle lingue romanze allo stadio di sviluppo
raggiunto dal latino alla data della prima latinizzazione delle province corrispondenti. Tra i primi
ostacoli a questa tesi vi è essa presuppone che i latino imperiale fosse molto differenziato al
suo interno. Inoltre, tra le obiezioni: la latinizzazione è un fenomeno di lunga durata, che
comincia al momento della conquista di una provincia ma a volte non era finito neppure
quando l’impero crollò, secoli dopo; è impensabile che il latino di una provincia non abbia
risentito degli sviluppi che avvenivano altrove (la circolazione delle persone, e quindi della
lingua, rimase intensa per tutto il periodo imperiale, e anche più tardi). Ma è anche vero che
tale teoria non va considerata del tutto errata poiché, nelle tradizioni linguistiche coloniali, la
fase di costituzione di una tradizione locale è importante, sicché la lingua della colonia
W. von Watburg (1936) dà un’importanza fondamentale alla frattura del mondo linguistico
romanzo lungo la linea La Spezia-Rimini. Egli oppone una Romania occidentale, romanizzata
dall’alto (scuola e ceti colti), ad una Romania orientale, romanizzata dal basso (da soldati e
contadini). A questa bipartizione si sarebbe aggiunta l’influenza dei diversi superstrati
germanici, responsabili ad esempio del dittongamento, producendo risultati eterogenei perché
diversi erano i popoli germanici e differente la loro incidenza demografica. L’ipotesi ha il fascino
della relativa semplicità e di una solida argomentazione ma sceglie processi linguistici che
considera arbitrariamente decisivi; inoltre, ci si attenderebbe che, una tesi fondata su criteri
sociali e demografici, sia argomentata sulla base dei migliori studi di storia sociale e
demografica, invece lo studioso si limita a generalizzazioni inservibili.
40f. Il proto-romanzo
Al concetto di proto-romanzo hanno fatto ricorso negli ultimi cinquant’anni Hall e poi Dardel. Fin
da quando si è sviluppata, nel secondo Ottocento, la metodologia di ricostruzione comparativa,
che è stata e rimane prassi normale della linguistica indoeuropea in cui tutte le lingue, meno il
latino, non sono documentate e devono essere ricostruite, c’è stata una spinta ad applicare la
stessa metodologia alle lingue romanze. Se noi compariamo tra di loro le lingue romanze con lo
stesso metodo con cui compariamo quelle germaniche, come da queste ricostruiamo il
germanico comune, da quelle ricostruiremo la rispettiva lingua madre, appunto il proto-
romanzo. Questo proto-romanzo ricostruito, non risulta identico al latino: ha in più i tratti
comuni alle lingue romanze ma inesistenti in latino, e in meno, i tratti esistenti in latino ma che
le lingue romanze non permettono di ricostruire. Questa proto-lingua ricostruita rappresenta
dunque il presupposto teorico delle lingue romanze storiche. Il guaio è che, non esistendo
documentazione alcuna, non possiamo verificare dove il germanico ricostruito si scosti dal
germanico storico. Invece, del latino abbiamo documentazione abbondante. Inoltre, delle
circostanze storiche, in cui il germanico comune dette luogo alle diverse lingue germaniche,
non sappiamo altro che le leggende sulle origini delle diverse popolazioni germaniche, mentre
il periodo tra tardo impero ed alto medioevo è pienamente storico e ricco di documentazione.
Infine, mentre il frazionamento delle altre protolingue viene giustificato invocando ipotetiche
migrazioni di singoli gruppi di coloro che le parlavano, nel caso romanzo, non ci sono state
migrazioni che possono spiegare la formazione di lingue romanze diverse. L’ipotesi proto-
romanza ha una sua indiscutibile coerenza astratta, ma non riesce a superare la
verosimiglianza storica. Inoltre, non si capisce bene dove questa lingua vada collocata nel
tempo e nello spazio (ipotesi troppo astratta).
Secondo l’inglese Wright (1982) quello che va spiegato non sono le lingue romanze, le quali
rappresentano la naturale evoluzione del latino, ma il latino medievale, che non sarebbe la
continuazione diretta del latino scritto antico. Per Wright, fino all’epoca di Carlo Magno, chi
sapeva scrivere scriveva in realtà testi romanzi, camuffandoli sotto una veste grafica latina.
Accadeva qualcosa di simile al francese, che presenta un totale distacco tra grafia e pronuncia
perché si continua a scrivere come si faceva quando si pronunciava ben diversamente da oggi.
Dunque, la lingua sarebbe cambiata ma la grafia no. Putroppo, i dotti della corte di Carlo Magno
cedettero bene di restaurare il latino: di fatti “inventarono” il latino medievale e ruppero con la
loro riforma, la prassi di una grafia remota dalla pronuncia. Ne conseguì che venne a mancare il
consueto modo di scrivere il romanzo e bisognò anche “inventare” le grafie di ciascun romanzo.
Pertanto, il problema non è, nella penisola iberica, la nascita del castigliano, che è l’evoluzione
antica del latino, che in certo modo è sempre esistito nel medioevo: “inventato”il latino
medievale, fu necessario “inventare” il casigliano, e ciò per Wright è avvenuto nel 1200,
quando il castigliano è stato scritto la prima volta. Questa teoria capovolge ciò che era dato per
scontato. Che una lingua non si legga come si scrive è vero, ma non si capisce come egli possa
spiegare in che modo la grafia latina coprisse non solo la fonetica romanza ma anche la
grammatica romanza, tanto diversa da quella latina, e la relativa sintassi. Ma il problema
maggiore è che questa teoria non spiega nulla poichè: il passaggio dal latino alle lingue
romanze sarebbe avvenuto sotto il manto di una grafia che non cambiava; non ci sono
Il latino imperiale era la lingua di una comunità estesa e estremamente complessa. Essa fu
adottata dalle masse sempre più ingenti di alloglotti (che parlano altre lingue) attraverso un
processo di cambio di lingua cominciato almeno nel sec. III av.Cr. grazie al prestigio della
letteratura e del modello di lingua anche parlata che possiamo impersonare nell’aristocrazia
senatoria, l’unità del latino imperiale non fu mai considerata in pericolo. Si trattava di un’ unità
che tollerava, senza problemi, un forte grado di variazione sia diatonica che diastratica, ma
senza irrigidirla in varietà individuabili. Gli influssi delle lingue di sostrato e di quelle di adstrato
potevano essere assorbiti senza difficoltà in questo sistema complesso ma coeso. Le variazioni
fonetiche, da essi indotte, restavano fenomeni locali, i prestiti o relitti lessicali venivano a far
parte della lingua comune. Nei decenni attorno al 500 d. Cr., però, cambiò qualcosa. L’impero
d’occidente era scomparso, anche se rimaneva come ideale destinato a sopravvivenza
secolare. Ma questo era l’ideale delle persone colte, sempre meno numerose. La realtà di tutti
andava diventando velocemente un’altra: Roma non era più il punto di riferimento. I mercati si
restrinsero, e si ridussero gli orizzonti della vita politica e sociale. Il “nostro” mondo ora si era
fatto molto più piccolo e per di più diverso per gruppi diversi. Il modello di prestigio su cui i
parlanti regolavano idealmente il loro comportamento era la lingua usata dai gruppi del potere,
cioè un latino substandard in quanto parlato da alloglotti, come i Germani, o dai loro seguaci
Romani dei ceti più diversi. Così la variazione linguistica fu sottratta al controllo di una norma
unitaria; le nuove norme autorizzavano fenomeni che erano stati semplici variazioni. Vi si
aggiunsero gli sviluppi locali, pur essi spesso divergenti tra loro, perché non esisteva più alcuna
forma di controllo sociale unitario. In meno di due secoli, le lingue romanze avevano
individualità distinte. Rimaneva ancora il guscio del latino scritto e letterario, che non era certo
uscito indenne dal processo che abbiamo descritto, ma restava ancora comprensibile ovunque
a coloro che avevano studiato. Quando Carlo Magno ed i suoi dotti promossero una riforma di
questo latino e lo resero più aderente alla norma antica ed anche più unitario, il guscio si
spezzò: le lingue romanze acquisirono identità piena e la diversità, che esisteva da tempo,
diventò evidente a tutti.