Sei sulla pagina 1di 10

LEZIONE 9 – COMMENTO A DRN 1, 1-20 (2)

Dicevo poco sopra del lessico del piacere e dell’attrazione che percorre il brano: dopo
voluptas al verso 1, bisogna passare alla seconda decina di versi dove troviamo: vigēre (cfr.
vigor) e genitabilis al v. 11; poi al v. 12 gli uccelli perculsae corda tua vi (lett. ‘storditi – cfr.
per rafforzativo + cello ‘colpire’ – nei loro cuori dalla tua violenza’); gli animali domestici al
v. 14 sono capta lepōre (‘presi dal fascino’) e seguono l’uomo (tipicamente apostrofato in 2°
pers. sing.) cupide ‘bramosamente’ (dal verbo cupio, cfr. cupīdo ‘desiderio’, in primis quello
amoroso; si pensi al dio Amore, Cupido, il desiderio personificato); quindi blandus amor
‘amore che attrae’ con lo ‘sconquassare dentro’ (in+cutere. cfr. quatio) di questa forza
prorompente ecc. Infine, per la seconda volta, cupide al v. 20. Veniamo adesso a quello che è
stato definito il corteo degli animantia che entrano in scena. Non è ovviamente casuale. Si
parte innanzitutto dalle cose che animantia non sono, ma che partecipano dell’armonia
organica del tutto, e cioè le stelle del cielo, il mare “portatore di navi”, le terre “produttrici di
messi” (su cui ritorneremo tra poco). Poi gli organismi viventi, appunto il genus omne
animatium, a partire dai vegetali (i fiori, non a caso organi sessuali delle piante) e quindi la
primavera che ‘mette in moto’ prima gli uccelli, e quindi le ferae ‘fiere’ e le pecudes ‘animali
domesticati’. Lucrezio usa ferae per accostarle più che contrapporle a pecudes. Resta il fatto
che Lucrezio è apparentemente lontanissimo dal tópos sulla negatività dello “stato ferino”,
quello così pericoloso per l’uomo e che lo spinge fuori dalla ragione (tópos che troveremo
anche in Seneca). È un uso “in positivo” di ferae molto raro da parte di un filosofo romano.
Ma Lucrezio ci abituerà a ben altre sorprese in questo senso.
Sta di fatto che già qui, nel proemio, abbiamo un utilizzo degli animali che considera anzitutto
il loro statuto di esseri viventi protagonisti della forza rigeneratrice che costituisce la vita e di
cui anche gli uomini usufruiscono. Quindi gli animali non già come semplici spettatori di un
universo ritagliato, quando non addirittura “creato”, ad uso e consumo dell’essere umano (una
visione antropocentrica che pervade la nostra cultura occidentale dal mondo antico, e poi,
attraverso la tradizione ebraico- cristiano-musulmana, arriva fino a noi). D’altro canto, qui,
per la prima volta, gli animali non sono neppure usati solo come simboli, destinazione che
abbiamo già visto essere ben presente nella cultura antica, e comunque estremamente comune
in molte rappresentazioni della realtà a livello transculturale. Un esempio eclatante in questo
senso quello del poeta lirico Focilide di Mileto (VI sec. a.C), di cui sopravvive il famoso
frammento in cui le donne vengono divise in varie tipologie, più o meno negative, che
vengono fatte discendere, a seconda del carattere e delle inclinazioni più o meno socialmente
accettabili di ognuna, a vari animali (c’è la donna-maiale, la donna-cavalla, ecc. per finire con
la donna-ape, quella più virtuosa). Simboli puri, insomma, che serbano ben poco dell’animale
reale. Invece questa celeberrima descrizione del mondo animale, che parte dagli uccelli ed
arriva agli animali domesticati, pur facendo degli animali un simbolo del “trionfo
cosmologico del principio costruttore” (tuum initum significant, cioè ‘manifestano con segni’
il tuo arrivo), non dimentica mai la loro realtà ecologica e comportamentale, non ne fa,
insomma, mai, dei “bozzetti”. Ed anche in questo suo “realismo simbolico”, Lucrezio, la
“lente” attraverso cui stiamo osservando i modelli di animalità nel mondo antico, rappresenta
una testimonianza molto preziosa per noi.

- UN CORTEO PRIVO DI UOMINI


A proposito, ma l’uomo dov’è, è stato detto, in questo proemio? Apparentemente il corteo che
dovrebbe contenere “ogni genere di esseri animati” è privo della nostra specie. Oppure no? La
risposta possibile è duplice. Anzitutto pochi interpreti hanno notato che l’uomo compare
subito, proprio al terzo e al quarto verso: il mare è infatti descritto con un aggettivo che ne
connota il suo asservimento ai bisogni dell’uomo in quanto mare ‘portatore di navi’ (navĭger,
agg. formato da navis+gero); stessa cosa per le terre, anch’esse ritratte da Lucrezio non nel
loro stato di “natura” ma in quello di “cultura” (qui anche nel senso etimologico di
‘coltivazione’): sono infatti descritte come frugiferentes, altro composto, da frux ‘messe’ +
fero ‘produrre’. Ma può essere lucreziana questa visione strumentale di una natura asservita
all’essere umano? Sarebbe a dir poco in contrasto con il resto dei versi che abbiamo appena
letto. Eppure dato che, come dicevo, la risposta al perché dell’assenza umana dal corteo è
duplice, rivolgendoci all’altra soluzione possibile troveremo anche la soluzione di questo
ulteriore interrogativo. Basta infatti continuare a leggere il seguito del proemio
concentrandoci proprio sull’idea ricorrente della ferinità per scoprire che il mare “portatore di
navi” e la terra “produttrice di messi” non erano altro che un’anticipazione del ruolo, stavolta
da protagonista (ma in negativo), giocato dall’uomo sulla terra mentre crede di dominarla.

LEZIONE 10

- DRN 1, 29-43

Ecco dunque i vv. di DRN 1, 29-43 ancora nella traduzione di G. Milanese (d’ora in
poi s’intenda traduzione di questo autore salvo diversamente specificato). Il testo latino è a
fronte
“Fa’ sì che intanto le opre feroci di guerra, 30 per i mari e tutte le terre,
tacciano in quiete:
tu sola infatti puoi con pace serena giovare
ai mortali, in quanto i terribili atti di guerra domina, Marte, potente nell’armi, lui che
spesso sul tuo grembo s’abbandona, colpito da ferita d’amore che dura sempre;
35 e così, reclinato il collo ben fatto, guarda in alto
e sazia d’amore sguardi desiosi a te, o dea, rivolgendo, così riverso, e alla tua bocca ne
è sospeso il respiro.
Quando, o dea, egli riposa sul tuo santo corpo, volgiti sopra di lui, e dolci parole
dalla tua bocca
40fa’ sgorgare, e domanda, o ìnclita, per i Romani pace serena; e infatti né noi possiamo in
questo tempo infausto alla patria realizzare quest’opera, né la nobile discendenza di
Memmio può in tali frangenti mancare a comune salute”
effice ut interea fera moenera militiai 30per maria ac terras omnis sopita
quiescant;
nam tu sola potes tranquilla pace iuvare mortalis, quoniam belli fera moenera Mavors
armipotens regit, in gremium qui saepe tuum se reiicit aeterno devictus vulnere amoris,
35atque ita suspiciens tereti cervice reposta pascit amore avidos inhians in te, dea, visus
eque tuo pendet resupini spiritus ore.
hunc tu, diva, tuo recubantem corpore sancto circum fusa super, suavis ex ore
loquellas
40funde petens placidam Romanis, incluta, pacem; nam neque nos agere hoc patriai tempore
iniquo possumus aequo animo nec Memmi clara propago talibus in rebus communi desse
saluti.
- NOTE A DRN 1, 29-43
Note: 29 Effĭce ut ‘fai in modo di’, cfr. v. 20; militiāi=forma arcaica di gen. fem, sing. Da
notare che - ai non è dittongo ma due sillabe lunghe. Effetto di grande solennità per di più
insieme all’allitterazione con il precedente moenera. Si tratta di uno dei tanti omaggi
lucreziani alla tradizione epica precedente. 30 omnis: il solito acc. pl.in -is anziché in –es.
32. mortalis=mortales.
35. suspiciens, part. pres da suspicio (sub+specio) ‘guardo da sotto in su’; teres, -tis,
‘levigato, ben tornito’ (cfr. tero ‘consumare’); terĕti cervice reposta, abl. assoluto. 36
inhians, part. pr. da inhio ‘sto a bocca aperta’ (cfr. hiatus); avidos visus ‘gli sguardi avidi’;
37. pendet resupini spiritus lett. ‘pende di (lui che sta) resupino il respiro dalla tua bocca
(ore tuo)’; 38 costruisci: tu, diva, circumfusa tuo corpore sancto super hunc recubantem;
sanctus è part. pf. da sancio ‘rendere sacro’, che in italiano conserva questo significato per
mediazione culturale cristiana (cfr. invece la storia del verbo latino tradĕre che da
‘consegnare’ diviene ‘tradire’ in italiano). 39. super ‘sopra’, qui usato come avverbio;
suavis=suaves. 40. petens placidam pacem, triplice allitterazione, non a caso a sottolineare
l’importanza di questa pax; petens, part. pres. da peto, qui nel senso di ‘chiedere per
ottenere’; incluta=inclita, arcaismo. 41. nam neque nos altra triplice allitterazione; hoc
patriai ecc. costruisci: (in) hoc tempore iniquo patriai (dat. arc.). 42. Memmi, voc.; è
naturalmente Gaio Memmio, il patronus di Lucrezio cui l’opera è dedicata. 43.
desse=deesse, inf. pres. di desum ‘mancare’, sottinteso potest, come si ricava da possumus
ad inizio del verso precedente; salutem, da salus, letteralmente ‘salvezza’.

- COMMENTO A DRN 1, 29-43

Il parallelismo tra questi versi 29-43 ed i precedenti, 1-20, è chiaramente messo in luce dal
ricorrere dell’espressione efficere ut, che nel primo caso figura al presente indicativo
(efficis ut, v. 20), e qui (v. 29) all’imperativo, entrambi riferiti a Venere. Visto che nel
primo caso si constata (l’indicativo è il tempo della constatazione oggettiva) l’effetto
vivificante e pacificatore di Venere sugli altri animalia, in questi versi che vedono
protagonista l’uomo, si chiede a Venere la pax, che permetta finalmente anche all’animale
umano di partecipare senza impedimenti di quella forza vivificatrice senza rinunciare alle
proprie peculiarità “razionali”, quelle che saranno, come vedremo, realizzate pienamente
dalla filosofia epicurea che insegna come abbandonarsi nella natura raggiungendo la
tranquillità dell’animo. Ecco la forza, anche dottrinale, di questa pax. Questa richiesta
(effĭce=fai in modo) è fatta “per ottenere” (cfr. petens al v. 40) ed è tanto più importante,
come sottolineato nelle note, in quanto Lucrezio la accentua attraverso il gioco fonico
allitterante petens placida...pacem, con pacem marcato in posizione finale di verso come
termine chiave della triade. La pax che da Venere passa alle “cose della natura” viene
straordinariamente contrapposta, attraverso, di nuovo, il ricorso ai miti della religione
greco-romana, alla condizione di lotta violenta in cui l’essere umano, ed in particolare
l’uomo romano (Romanis, v. 40), si trova. Marte, amante di Venere, rappresenta, si sa, la
forza distruttrice della guerra opposta alla “violenza” (rigeneratrice dell’amore Venere, v.
12).
Lucrezio esorta (effice ut) la dea: un’esortazione affinché Venere che, in un intervallo dalle
gioie erotiche appena godute dai due amanti, quando di solito Marte riposa spossato sul suo
grembo (cfr. aeterno devictus vulnere amore; pasce amore avido...visus), colga l’attimo e,
distesa (circumfusa) col suo “santo” corpo su di lui che giace disteso (recubantem), gli
sussurri “paroline” (loquellas) impossibili da rifiutare, specialmente in un momento del
genere, sulla necessità di ottenere la pace. Una pagina celeberrima.

A proposito, mi si conceda una brevissima parentesi: un’incursione nell’umanesimo


fiorentino, giusto per dare un’idea della potenza di questa scena. Botticelli, dato l’ambiente
platonico di Ficino in cui si muoveva e la grande attenzione per le tematiche “venusiane” da
esso richiamate, rimanda a questa descrizione straordinaria nel suo dipinto Venere e Marte
(che potete ammirare qui):
http://www.nationalgallery.org.uk/paintings/sandro-botticelli-venus-and-mars
È la stessa situazione, così intima, fra i due amanti, anche se la dea qui non figura distesa sul
corpo di Marte, bensì vigile, esattamente come Lucrezio le richiede. E forse anche un po’
scocciata, in attesa che il suo amante si riprenda dal sonno profondo che segue l’amore. Le
avrà già sussurrato le “paroline”, ma lui dopo si è addormentato, e lei nel frattempo si è
rivestita. Si noti in particolare la posizione di Marte, con il “collo levigato”, la teres cervix
descritta da Lucrezio, così bene in evidenza. Il dipinto, con le dovute differenze e i riferimenti
contingenti alla corte di Lorenzo il Magnifico e ai personaggi che vi si muovevano, mostra
familiarità con il testo lucreziano (ma anche con altre descrizioni di questa scena presenti nei
testi greci).

LEZIONE 11
- PAX VENUSIANA E MODELLI DI ANIMALITA’
Torniamo al dato zooantropologico del brano. Gli altri animali posseggono la pax perché
partecipano senza barriere alla “sinergia cosmica”, mentre questa stessa pax organica e
naturale, figlia della voluptas infusa da Venere, manca all’essere umano. Lo dimostrano le
vicende recenti della storia romana (ed il riferimento lucreziano sarà allo scenario della
politica romana nel I sec. a.C. da Mario e Silla a Cesare e Pompeo, con il sentore di
“guerre civile” che si respirava nell’aria ben prima dello scontro finale fra i due). Lucrezio
crea insomma una vera e propria struttura bipartita, dominata dalla dicotomia tra la natura,
cioè il felice “stato di natura” incarnato dagli altri animali, e quello di cultura, che ha invece
portato l’uomo nell’abisso del dolore e delle guerre. E qui il ribaltamento di Lucrezio
rispetto ai tópoi della filosofia e dell’oratoria antiche: lo stato di animale non umano visto
positivamente, mentre la stessa dimensione della ferinitas, lo stato di “bruto”, è
appannaggio dell’essere umano. È quest’ultimo, come si evince dalle spie linguistiche del
passo, a trovarvici immerso, grazie soprattutto agli “atti feroci di guerra” definiti così (cfr.
fera moenera militiai al v. 29; e belli fera moenera di Marte al 32). Insomma, la situazione
è: Venus pacificatrice agli animali, Mars portatore delle terribili pratiche della guerra agli
animali umani. Il punto di arrivo del filosofo epicureo sarò proprio: “fate l’amore non fate
la guerra”. Anche il pacifista Lucrezio canta agli altri uomini “all you need is love”,
apparentemente con la stessa intenzione di attacco diretto ai potenti del suo tempo che
aveva la canzone di Lennon (il riferimento era però alla guerra del Vietnam...).
Il parallelo Lucrezio/Lennon era ovviamente molto ammiccante, ma anche molto
superficiale, perché le società da cui i due personaggi provengono non sono in nessun modo
paragonabili...
Anzitutto l’idea di Lucrezio, sul destino “bellico” degli uomini, rimanda, attraverso quella
epicurea, alla cosmologia empedoclea. Quello attuale - al tempo di Lucrezio - di dolore e
guerra, è uno stato che, secondo l’idea ciclica del tempo che Epicuro desume da
Empedocle (che postula le vicende umane come un continuo alternarsi ora della forza
cosmica dell’amore ora di quella dell’odio), Lucrezio ritiene transeunte. È possibile cioè,
per l’uomo, risalire dall’abisso in cui è precipitato ed avviarsi ad una “redenzione” che
cambi il corso della storia: il cambiamento, come ci ripeterà fino allo sfinimento Lucrezio
nella sua l’opera “militante”, è possibile abbracciando la filosofia di Epicuro.
Il punto basilare è che Lucrezio non sostiene mai l’inferiorità degli animali rispetto
all’essere umano, per quanto non dotati di ragione. Nel fare ciò Lucrezio sposerebbe, come
vedremo subito, una posizione originale e diversa anche dal maestro epicureo più celebre e
attivo al tempo di Lucrezio, cioè il già citato Filodèmo di Gàdara. E tutto ciò nonostante i
tributi pagati da Lucrezio al maestro “campano” siano notevoli (uno per tutti il fatto di
scrivere in poesia: per Filodemo, infatti, attraverso il “bello stile” la poesia crea nel lettore
quel piacere che per Epicuro è l’inizio della comprensione).

- L’ANTICREAZIONISMO DI LUCREZIO
Dai frammenti rimastici delle opere di Filodemo sappiamo che egli dipinge gli animali
come esseri comunque destinati ad affrontare terribili “turbamenti” (tarachài, cfr. la
famosa ataraxìa lett. ‘assenza di turbamenti’ che è il nirvana degli epicurei, il piacere
stabile o “catastematico”, consistente nell’assenza di paura e nella privazione dai desideri
sentiti come mancanza di qualcosa). Gli animali, dunque, sofferenti per natura perché privi
di ragione ed incapaci di godere appieno della vita. Ma la visione di Lucrezio su questo
punto è molto diversa, come visto. Lucrezio non nega certo che la ragione sia peculiarità
umana (è su di essa che fa anzitutto leva il suo insegnamento della dottrina di Epicuro), ma
non la usa mai come discrimine per dedurre né l’inferiorità, né l’infelicità, la brutalità ecc.
degli animali non umani.
Fondamentale, per sostenere quest’idea, è per Lucrezio il rifiuto di ogni istanza metafisico-
religiosa rispetto al mondo animale: insomma, il rifiuto violento di ogni teoria
“creazionista” come diremmo oggi. È su questa base che si pone quello che è stato definito
l’ “animalismo” di Lucrezio.
Fondamentale a questo punto la lettura del brano, sempre nel I libro del DRN, in cui il
nostro poeta-filosofo epicureo afferma con una forza estrema questa sua posizione
immanentista: come si vedrà, anche in questo passo cruciale per le intenzioni militanti di
Lucrezio, lo statuto degli animali non umani e la loro condizione in rapporto all’animale
umano hanno un ruolo assolutamente centrale nella visione del mondo del poeta.

LEZIONE 12
- DRN 1, 155 – 166

155“E perciò, quando avremo veduto che nulla può essere creato
dal nulla, allora la mèta a cui puntiamo la scorgeremo già
più dritta innanzi a noi, e donde possa ogni cosa venire creata
e in qual modo tutte le cose avvengano, senza intervento divino. Infatti, se dal
nulla nascessero, da tutte le cose
160ogni specie potrebbe nascere, nulla avrebbe bisogno di seme.
Anzitutto, dal mare potrebbero nascere uomini, dalla terra La razza
che porta le squame, dal cielo erompere gli uccelli; armenti e altri
animali, ogni razza selvaggia,
165con nascita indeterminata occuperebbero pascoli e luoghi deserti.
Né gli stessi frutti rimarrebbero costanti sugli alberi,
ma cambierebbero, ogni pianta potrebbe ogni frutto produrre”.

155quas ob res ubi viderimus nil posse creari


de nihilo, tum quod sequimur iam rectius inde perspiciemus, et unde queat
res quaeque creari et quo quaeque modo fiant opera sine divom.
Nam si de nihilo fierent, ex omnibus rebus
160omne genus nasci posset, nil semine egeret. e mare primum homines, e
terra posset oriri squamigerum genus et volucres erumpere caelo;
armenta atque aliae pecudes, genus omne ferarum,
165incerto partu culta ac deserta tenerent.
nec fructus idem arboribus constare solerent,
sed mutarentur, ferre omnes omnia possent

NOTE A DRN 1, 155-166

155. quas ob res=ob quas res ‘per queste cose’; nil=nihil. 156. tum=introduce il
passaggio logico, allora; iam ‘ormai’; quod sequimur ‘ciò che segue’,; espressione tipica
della filosofia e significa semplicemente ‘ciò che vogliamo dimostrare con questa
argomentazione’ cioè ‘il nostro scopo’. 157: et...et ‘sia...sia’; unde ‘da dove’ introduce
l’interrogativa diretta, come il quo modo (=quomodo) che segue al verso successivo. 157-
158. costruisci: perspiciemus et unde quaeque res queat (=possit) creari et quomodo
quaeque (qui al nominativo plurale in variatio con quaeque res del v. prec= ‘tutte le
cose’) fiant sine opera divorum; 158. fiant=accadano. 159. Nam si fierent protasi di
periodo ipotetico dell’irrealtà. Nam introduce un passaggio logico ‘infatti’ in riferimento
all’inizio, in questa sezione, della prima spiegazione del perché gli dei non possono
esistere. 160. egēret ‘avrebbe bisogno’ da egeo, cfr. egestas; 161. primum ‘anzitutto’; e
mare ablativo in –e, eccezione rispetto al normale ablativo in –i. Si trova usato in poesia
e certo sentito come arcaico (si trova marum e non marium anche in Nevio); e mare ecc.
costruisci: primum homines e mare possent oriri (sottinteso, come si ricava dal
successivo posset oriri, che ha squamigerum genus come sogg. ). 163. squamĭger
composto aggettivale (da squama + gero), lett. ‘portatore di squama’.
164 genus omne ferarum, richiama il genus omne animantum al verso 4. 166 verso dove
predominano sequenze spondaiche. 166. constare ‘rimanere immobile’.

COMMENTO DRN 1, 155-166

Si tratta qui della prima tra le varie argomentazioni con cui Lucrezio, seguendo fedelmente
il maestro, spiega come mettere in pratica la tranquillità d’animo, fondamentale punto
d’arrivo della dottrina di Epicuro. Ciò è possibile, come sappiamo, solo attraverso la
conoscenza del mondo naturale (ed è questo che tutto il poema mira a dimostrare). Il primo
passo è appunto conoscere il principio che “nulla si crea dal nulla”, trattato nei versi
appena letti.
Per dimostrare al suo lettore che non è possibile pensare in modo creazionista, Lucrezio
ricorre ad un “esperimento di pensiero”, come direbbero oggi gli scienziati, che conduce
ad un paradosso. Molto semplice: se non fosse così “ogni specie potrebbe nascere da
ciascuna cosa”. Ciò metterebbe in crisi quella percezione innata del mondo naturale che gli
studiosi di etnobiologia chiamano “istinto etnotassonomico”, cioè la capacità istintiva nella
nostra specie di inserire ciascun animale in un ordine preciso, tale per cui anche un
bambino a cui non è stato spiegato nulla, sa che da una gatta deve nascere un gattino, da
una cavalla un puledro, che devono avere quattro zampe e non le ali, ecc. Lucrezio, anche
se naturalmente non in questi termini, ha percezione di ciò e lo usa in modo molto efficace:
se non fosse così “anzitutto gli uomini potrebbero nascere dal mare, i pesci dalla terra, gli
uccelli uscire fuori (erumpere) dal cielo”. Si tratta di un tipo di argomentazione molto
frequente e chiamata adýnaton (lett. ‘cosa impossibile’) dai maestri di retorica antichi.

- UN ADYNATON ANTICREAZIONISTA

Analizzare l’uso che di questo paradosso fa il nostro poeta ci permetterà di scavare


ulteriormente nella sua visione zooantropologica (e come minimo di quella del gruppo che
egli rappresenta).
Il fatto è che adýnata (pl. di adýnaton) riguardanti il mondo animale vengono usati
normalmente nella letteratura antica ma sempre da una prospettiva molto diversa. Si tratta
addirittura di un luogo comune letterario, un tópos che ha anche un nome nel lessico
tecnico dei retori, cioè conversio naturae o ‘ribaltamento della natura’. Ci sono due casi
paradigmatici, più o meno contemporanei di Lucrezio, per spiegare in cosa consiste questo
uso, che potremmo definire ‘canonico’, dello stesso adýnaton.
Il primo è quello di Virgilio, Bucoliche, 1, vv. 59-63; l’opera, lo ricordo, è scritta dal
giovane Virgilio tra 42 e 39 (quindi subito dopo la battaglia di Filippi), cioè prima di
divenire il poeta epico e didascalico della corte di Augusto. Si tratta di una serie di dieci
poemetti in esametri che ritraggono un ambiente fantastico e leggero, che ha come raffinati
protagonisti dei pastori-poeti (donde il nome Bucoliche; cfr. lat. bucolica, sott. carmina,
cioè “poesie sui pastori”, boukóloi in greco), mentre i singoli componimenti vengono
chiamati “ecloghe” (cfr. gr. ekloghḗ ‘[poesia] scelta’). Virgilio, come altri letterati di età
Augustèa che importano per la prima volta e con straordinario successo nuovi generi dalla
Grecia (qui il modello è Teocrito), è il primo e più grande poeta bucolico latino.

LEZIONE 13
- ECLOCHE I, 59-63

L’esempio di adýnaton che traiamo da Virgilio viene dalla celebre ecloga prima. Si tratta di
un dialogo tra due pastori, Melibeo, che saluta con il groppo alla gola i propri campi e le
sue bestie deplorando l’ingiustizia delle guerre civili e ciò che gli hanno causato (una
terribile confisca delle sue terre, che lo costringe all’esilio) e Titiro, che invece è stato
risparmiato dalla sottrazione grazie all’intercessione di un personaggio influente (che è
stato identificato con il giovane Ottaviano) e può continuare a godersi la tranquillità, la
bellezza e la purezza di queste campagne - che il genere bucolico vuole arcadiche, ma che
qui sono quelle mantovane. Com’è noto, l’ecloga parte da un dato biografico e storico
preciso: la guerra civile e la conseguente redistribuzione agli ex-soldati di Ottaviano e
Antonio di terre nel cremonese che toccò però anche il mantovano, luogo d’origine del
poeta (che, come Titiro, riuscì a scampare all’esproprio grazie alle sue conoscenze
altolocate).
Ad un certo punto, Titiro riconosce la propria fortuna ed il proprio privilegio lodando il
suo protettore altolocato con queste parole:
“Prima dunque agili pascoleranno nell’etere i
cervi, e i mari lasceranno a secco sulla spiaggia i
pesci;
3 prima, avendo vagato per i loro territori,
l’esule parto berrà il (fiume) Arari o il
germano il Tigri, che dal nostro cuore
scivoli via il volto di lui”.

Ante leues ergo pascentur in aethere


cerui et freta destituent nudos in litore
pisces,
3 ante pererrātis amborum finibus exsul

aut Ararim Parthus bibet aut Germania Tigrim,


5 quam nostro illīus labatur pectore uultus.

Note al testo: -riga 1: ante: qui e all’inizio della riga 3 (ciascuno dei due ante esprime un
adýnaton) non è la preposizione che regge l’accusativo ma la congiunzione temporale
antequam che Virgilio ha spezzato in due alla maniera dei poeti (procedimento chiamato
tmesi, in greco ‘taglio’). Il quam si trova solo all’inizio della riga 5 (in traduzione si
possono anche omettere i due quam per inserire tutto insieme il “prima che” una volta
giunti al quam della riga 5). Costruisci: ante ergo leves cervi pascentur in aethere, cioè:
‘prima perciò lievi pascoleranno [fut. ind. 3a pl. di pascor ‘pascolare’, forma deponente
più rara del più frequente pasco] nell’etere i cervi’. aethere, abl. da aether,is (lett. ‘l’etere’)
indica in latino l’aria pura. –riga 2: freta ‘mari’, nom. pl. dal neutro fretum, i; destituent
‘lasceranno’, 3a pl. fut. da destituo; nudos, lett. ‘nudi’, usato metaforicamente (perché i
pesci non possono essere vestiti) con riferimento all’acqua in cui vivono, quindi ‘privi
d’acqua’, ‘a secco’.

Note al testo (continua): -riga 3: ante pererratis finibus: ablativo assoluto che dà inizio a
un altro adýnaton, lett. ‘(essendo stati) percorsi i territori’; pererrare, con per- accrescitivo
vale ‘errare grandemente’; finbus da finis ‘limite’, che al plurale fines,ium vale ‘territori’.
Ambōrum lett. ‘[i territori] di entrambi’, si riferisce a Parthus e Germania del verso
successivo. Exsul ‘esule’, riferito a parthus ‘parto’ (i parti vivevano in Persia, cioè l’Iran,
nell’attuale Khorasan). Costruisci: aut Parthus exsul bibet Ararim aut Germania (sott.
bibet) Tigrim, cioè ‘o [prima] l’esule parto beve l’Arari o la Germania il Tigri’. L’Arari è
un fiume centroeuropeo, quindi vicino alla Germania, mentre il Tigri è com’è noto fiume
mediorientale, quindi vicino alla terra dei Parti. Germania, lett. ‘la Germania’, ma si tratta
di una variatio (lett. ‘variazione’), perché il lettore si aspetterebbe germanicus
‘germanico’, per coerenza con parthus ‘parto’, ma per ragioni metriche Virgilio usa il
nome della nazione anziché l’”etnonimo”. –riga 5: quam ‘che’ chiude l’adýnaton,
introducendo l’impossibilità della conseguenza: il fatto che Titiro possa scordare il viso
(=tutta la persona per metonimia, ovvero sinéddoche) del suo benefattore. Costruisci:
(ante) quam vultus illius nostro pectore labatur. ‘(prima) che il volto di lui scivoli via dal
nostro (=mio) petto’; pectus vale cor ‘cuore’, centro delle emozioni ma anche dei ricordi
per gli antichi; labātur, da labor ‘scivolare’, come il precedente bibet (‘beve’) dipende da
antequam ‘prima che’, che può reggere sia il congiuntivo (labatur è 3a p. cong.) che
l’indicativo (bibet è pres. ind. 3a sing. di bibo): dunque un’altra variatio.
LEZIONE 14

Commento. L’ adýnaton (o meglio gli adýnata, dato che sono tre) usato da Virgilio ribalta
evidentemente l’ordine naturale producendo quel paradosso molto forte che gli antichi
retori chiamavano appunto conversio naturae ‘ribaltamento della natura’. Il primo dei tre
adýnata riguarda i cervi, animali selvatici in realtà molto vicini agli animali domestici, e
si centra sulla loro impossibile trasformazione da animali terrestri e placidamente
pascolanti, in uccelli che si librano nell’aria pura. Nel secondo caso, l’adýnaton di
ribaltamento naturale colpisce gli animali acquatici che il mare abbandonerebbe per
lasciarli “nudi”, alle prese con la terraferma. Il terzo adýnaton infine tocca la concezione
antica delle “culture altre”, del diverso etnografico. È talmente forte la nozione che le
nazioni lontane siano entità diversissime e impossibili da conciliare, che un romano non
può prendere in considerazione l’ipotesi che un non romano, in questo caso un parto o un
germano, possano viaggiare in luoghi estremi come la Persia o la Germania; qui, infatti,
entrambe rappresentano dei veri “antipodi” nella visione mediterraneocentrica (cfr. il
nome mare nostrum) degli antichi romani. O forse Virgilio esagera volutamente (data
anche l’inesattezza sulla reale posizione di Arari -in realtà in Gallia - e Tigri - in realtà in
Mesopotamia) questa approssimazione nelle nozioni di geografia in quanto prodotto sia
della ignoranza che della paura del diverso geografico tipica di “contadini” così legati
alla propria terra?

- EPODI 16, 25-34

E veniamo adesso all’adýnaton presente in Orazio, epodo XVI vv. 35-49.


Di Orazio (65-8 a.C) basterà qui ricordare come si tratti dell’altro grande poeta che
faceva parte di quella cerchia di intellettuali a stretto contatto con Augusto e soprattutto
del suo “ministro della cultura”, Mecenate (come si ricorderà, Orazio ci dice in una
satira che è stato lo stesso Virgilio a presentarlo a Mecenate). Anche Orazio importa per
primo generi dai grandi modelli greci a Roma, a cominciare dalla poesia lirica (con i
rispettivi metri), in un modo che, come è stato per Virgilio con il genere bucolico, ne farà
il maestro insuperato ed il punto di riferimento per i poeti lirici successivi. L’altro grande
campo in cui si è misurato è quello della satira, genere invece “tutto romano” come ci
ricorda Quintiliano, e che aveva già avuto degli illustri precedenti in vari autori (di cui
Lucilio era, prima di Orazio, il più celebre). Gli Epòdi, da cui traiamo il nostro adýnaton,
abbracciano un altro genere poetico “importato” a Roma da Orazio ad imitazione
stavolta dei giambografi (gli “scrittori di giambi”); il giambo (U —́) era alla base dei
metri usati per questi versi di carattere tipicamente aggressivo dai giambografi, ai più
famosi dei quali il nostro dichiara esplicitamente di rifarsi: Archiloco di Paro (VII sec.
a.C.) e il poeta “maledetto” Ipponatte di Èfeso (VI sec. a.C). Gli Epodi, che Orazio
preferiva chiamare direttamente Iambi ‘giambi’, sono caratterizzati dall’alternanza di un
verso breve ed uno lungo (epodós in greco).

Gli Epòdi sono un’opera “giovanile”, come ci dice Orazio stesso (per la maggior parte
risale alla fine degli anni ‘40). I toni aggressivi sarebbero legati alla condizione di povertà
che lo caratterizza subito dopo la battaglia di FIlippi (42. a.C) in cui i
cesaricidi/repubblicani, tra i quali egli combatteva, vennero definitivamente sconfitti.
L’adýnaton che ci interessa si trova nell’epòdo XVI, dominato dall’ansia per il diffondersi
dell’odio fra i romani e della guerra fratricida. Orazio dice che adesso per i romani, dopo
l’ennesimo scempio fratricida, non resta che imbarcarsi per terre lontane. E mai più
tornare. Ma prima di partire ognuno pronunci questo giuramento:
“Appena i massi avranno nuotato indietro
sollevati dagli abissi profondi non sia maledetto tornare;
né ci si vergogni di levare le vele
volte verso la patria, quando il Po
avrà lavato le cime del Matino,
o in mare sarà disceso l'alto Appennino

e un amore anormale avrà fatto accoppiare con inusitata libidine


dei mostri, cosicché alle tigri piaccia farsi montare dai cervi e la colomba si
adulterata con il nibbio, né gli armenti temano fiduciosi i fulvi leoni, e il caprone,
divenuto liscio, ami i mari salati”.

simul imis saxa renarint


vadis levata, ne redire sit nefas;
neu conversa domum pigeat dare
lintea, quando Padus Matina laverit
cacumina,
5 in mare seu celsus procurrerit
Appenninus novaque monstra
iunxerit libidine
mirus amor, iuvet ut tigris subsidere
cervis, adulteretur et columba miluo,
credula nec ravos timeant armenta leones

10 ametque salsa levis hircus aequora.


Note: -riga 1: costruisci: simul saxa, imis vadis levata, renarint, lett. ‘quando [lett. ‘non
appena’] i massi, sollevati dai più profondi fondali, avranno nuotato’. imis vadis,
imus,a,um = infĭmus, superl. di infĕrus ‘basso’, ‘profondo’. –riga 2: lĕvata, part. perfetto
di lĕvo,are ‘sollevare’; renarint=renaverint fut. anteriore 3a. pl. da re-no ‘nuotare
(indietro)’, nel senso di tornare in superficie;ne redire ecc., costruisci: ne sit nefas redire,
lett. ‘non sia una maledizione ritornare’ (continua).

Potrebbero piacerti anche