Sei sulla pagina 1di 16

LEZIONE 20

DRN II, 342 -351

Anche nel libro II, dedicato all’illustrazione della teoria degli atomi, gli animali continuano
a giocare un ruolo primario sia dal punto di vista letterario che da quello filosofico.
Il passo che esaminiamo costituisce un ulteriore approfondimento sul tema dell’origine
comune della vita animale, ma stavolta focalizzato sul perché, nonostante l’origine comune,
delle differenze individuali tra individui di una stessa specie. Riprendendo da Epicuro-
Democrito, Lucrezio prova che gli atomi, generati dalla natura, hanno un’infinita varietà di
forme, com’è dimostrato dalla varietà degli individui all’interno di ciascuna specie animale.
Ecco il passo, da DRN II, 342-351:
“Infatti il genere umano e i muti animali natanti
della razza che porta le squame, armenti fecondi, fiere,
e schiere diverse d’uccelli, quelli che i luoghi ricchi di acque affollano, presso rive e fonti e laghi,
e quelli che affollano boschi impervi, volando attraverso di essi;

scegli, volta per volta, uno di questi, come vuoi , ma specie per specie: troverai, nondimeno, che
differiscono tra loro per struttura.
Né in altro modo potrebbe la prole riconoscer la madre,

né la madre la prole: fatto che ci avvediamo che riescono a fare


né meno di quanto gli uomini riescano a denominare le cose da essi conosciute.”

(Trad. G. Milanese, con adattamenti)

Praeterea genus humanum mutaeque natantes

squamigerum pecudes et laeta armenta feraeque et variae volucres, laetantia quae loca aquarum
concelebrant circum ripas fontesque lacusque,
5 et quae pervolgant nemora avia pervolitantes, quorum unum quidvis generatim sumere perge;
invenies tamen inter se differre figuris.
nec ratione alia proles cognoscere matrem

nec mater posset prolem; quod posse videmus


10 nec minus atque homines inter se nota cluēre.

Note al testo: -riga 1: praeterea , avv. che normalmente vale praeter+ea, lett. ‘oltre a queste
cose’, ma anche, come qui, ‘d’ora in poi’, o ‘ecco’; mutaeque ecc. costruisci: et mutae
pecudes natantes squamigerum, lett. ‘ e le mute greggi nuotanti di portatori di squame’.
Squamiger (squama+gero) è uno dei tanti composti in –ger (da gero ‘portare su di sé’) usati
da Lucrezio, spesso neologismi, come in questo caso. –riga 2: laeta armenta feraeque
‘fecondi mandrie e fiere’. –riga 3: variae volucres, lett. ‘diversi uccelli’; laetantia ecc.,
costruisci: quae concelebrant loca laetantia aquarum, lett. ‘che affollano luoghi rigogliosi
di acque’. circum, lett. ‘intorno’.
Note al testo (continua). –riga 5: et (sott. volŭcres) quae pervolitantes pervolgant avia
nemora, lett. ‘e uccelli che volando di continuo rendano affollate impraticabili foreste’;
pervolitantes, da per+volito, frequentativo di volo ‘volare’, quindi ‘volare molto (per-) e di
continuo’. pervolgant=pervulgant, lett. ‘divulgano’, ma metaforicamente ‘affollano’. Notare
che Lucrezio sceglie la forma arcaica pervolgant per mantenere l’allitterazione con
pervolitant (per- in entrambi). –riga 6: costruisci: perge sumere unum quidvis quorum
[=eorum] generatim, lett. ‘cerca di prendere uno qualunque di essi per specie’. generatim,
avv., lett. ‘per genere’, cioè ‘per gruppo’, ‘per specie’. perge imperat. pres. pergo, regge
l’inf. sumere. –riga 7: invenies tamen ‘troverai tuttavia’, regge l’infinitiva [sott. eas
volucres] inter se differre figuris, lett. ‘che [quegli uccelli[ differiscono per forme’. –riga 8-
9: nec ratione…prolem: costruisci: nec proles posset cognoscere matrem nec mater [sott.
posset cognoscere] prolem aliā ratione, lett. ‘né la prole potrebbe riconoscere la madre né la
madre la prole in altro modo’; aliā ratione, abl. di modo. –riga 9-10: costruisci: quod
videmus (sott. eas facere) posse nec minus atque (=quam) homines (sott. posse) cluere nota
inter se, lett. ‘la qual cosa vediamo che quelle [=madre e prole] possono fare, e non meno di
quanto gli esseri umani possano nominare le cose conosciute (nota) fra di essi’. clueo, ēre,
lett. ‘udirsi nominato’, quindi ‘chiamare’, ‘dare un nome a’, già usato da

Lucrezio in questo senso in I, 450.

LEZIONE 21

ANCORA LA COGNIZIONE

Se torniamo a quello che avevamo detto poco fa a proposito dell’orizzontalismo


zooantropologico di Lucrezio esemplificato attraverso il richiamo alle comuni possibilità
cognitive di essere umano e animali, qui ne troviamo una chiara conferma. Ma andiamo per
ordine. Il passo mira a spiegare la diversità degli esseri viventi prendendo come esempio il
regno animale. Il tutto per mostrare come gli atomi, questi corpora materiai (‘corpi della
materia’) o, come Lucrezio li chiama poco sopra, exordia cunctarum rerum (‘primordi di
tutte le cose’), si aggreghino non in modo meccanicistico e sempre uguale a se stesso, ma
attraverso un’inclinazione (il famoso clinamen introdotto da Epicuro nell’atomismo
democriteo) che spiega la diversità delle cose. Una diversità facile da notare soprattutto se si
prendono insiemi di cose incontrovertibilmente simili come i gruppi di animali che
appartengono ad una stessa specie: persino qui, nella generale somiglianza, si vedono delle
differenze. Tuttavia, a questa spiegazione fisica delle differenze individuali, Lucrezio
aggiunge una spiegazione “etologica”, per così dire. Tali differenze, infatti, servono ai
genitori a riconoscere i propri figli e ai figli a riconoscere i propri genitori. E qui Lucrezio si
apre ancora ad un’analogia “fulminante” sull’orizzontalità della relazione fisico-biologico-
cosmologica fra essere umano e altri animali (marcando di nuovo l’evidenza
dell’osservazione dall’uso di videmus ‘vediamo’).
COGNIZIONE LINGUISTICA

Lucrezio dice che il meccanismo per cui genitori e figli si riconoscono reciprocamente negli
altri animali è lo stesso con cui gli esseri umani riconoscono, nominandole, le cose che
fanno parte del loro codice culturale comune (inter se nota). Il verbo usato dal poeta è clueo,
che egli usa varie volte nel DRN, sempre nel significato di ‘dare un nome a’. Insomma,
come nel passo di DRN I, 248-264 si marcava l’orizzontalità zooantropologica attraverso il
riferimento alla mens, cioè alle capacità razionali e intenzionali degli animali non umani,
citando proprio il tratto tipicamente usato dagli assertori di una visione verticalistica come la
prova più grande della diversità essere umano/altri animali (ovvero “la ragione”), qui
Lucrezio sembra voler scalzare l’altro grande luogo comune verticalista: l’uso della parola.
Si tratta di un “discrimine”, quello della capacità di parlare, estremamente presente anche
nella letteratura, e dunque nella cultura, antica (basta contare le occorrenze del sintagma
muta animalia ‘muti animali’ nelle fonti latine per rendersene conto). Al solito Lucrezio ci
stupisce, perché egli non si riferisce solo alla capacità di emettere suoni intelligibili per noi
sotto forma di parole, ma piuttosto della capacità di dare un significato, di riconoscere degli
oggetti, attraverso dei suoni condivisi all’interno di un gruppo, cioè della capacità di usare
una lingua, più che dal punto di visto fonico, da quello logico. Si tratta sicuramente di un
esempio molto significativo delle capacità cognitive nell’essere umano. Ma, come vedremo
subito, nemmeno in questa capacità di riconoscere, gli altri animali sono da meno.

DRN II, 352-370

Se infatti continuiamo a leggere il seguito del passo, scopriamo che l’orizzontalismo


“cognitivo” di Lucrezio arriva a ben altro. Stiamo per leggere uno dei passi più celebri del
poema. Ecco DRN II, 352-370:

“Accade infatti che dinanzi ai templi maestosi degli dei, dinanzi all’are brucianti d’incenso
un vitello cada immolato, spirando dal petto un caldo fiume di sangue.
E la madre, cui è stato strappato, vagante tra i pascoli verdi,
5 cerca giù in terra le tracce impresse dai piedi bisulci,
tutti i luoghi esplorando con gli occhi, se possa, chissà dove, scorgere il figlio perduto, e
riempie dei suoi lamenti
il bosco pieno di fronde, ivi fermandosi, e sempre ritorna
a vedere la stalla, trafitta dalla mancanza del suo giovenco;
10 né i morbidi salici e l’erbe ricche di rugiada,
e i fiumi a lei noti, che scorrono a fior delle rive
possono rasserenarle l’animo, e distrarre l’ansia inattesa, né il vedere gli altri vitelli nei
pascoli rigogliosi
può spostare il suo animo, e sollevarlo dall’ansia;
15 essa cerca qualcosa che è suo, che è ben conosciuto. Ancora: i capretti
giovani, con voci tremanti,
conoscono le madri dalle solide corna, e gli agnelli cozzanti riconoscono il belar delle
greggi; e così, come vuole Natura, sempre corre ciascuno alle poppe materne, ricche di
latte”.

Nam saepe ante deum vitulus delubra decora turicremas propter mactatus concidit aras
sanguinis expīrans calidum de pectore flumen; at mater virides saltus orbata peragrans
5 novit humi pedibus vestigia pressa bisulcis, omnia convisens oculis loca,
si queat usquam conspicere amissum fetum, completque querellis frondiferum nemus
adsistens et crebra revisit
ad stabulum desiderio perfixa iuvenci,
10 nec tenerae salices atque herbae rore vigentes fluminaque ulla queunt
summis labentia ripis oblectare animum subitamque avertere curam, nec vitulorum aliae
species per pabula laeta derivare queunt animum curaque levare;
15 usque adeo quiddam proprium notumque requīrit.

LEZIONE 22
Note al testo:
-riga 1: nam ecc.: costruisci: nam saepe, ante decōra delūbra deum, vitulus, mactatus,
concĭdit propter aras turicremas, lett. ‘infatti spesso, presso gli eleganti templi degli dei, un
agnello, sacrificato, cade vicino alle are brucianti d’incenso’. decōra, da decōrus,a,um
‘ornato, elegante’; deum=deorum; propter, qui=prope ‘vicino’. concĭdit, pres. ind. da
concĭdo, lett. ‘cade’. turicremas, acc. pl. fem. dell’agg. composto turicrĕmus,a,um, lett.
‘brucia (cremare) incenso (tus)’.
–riga 3: sanguinis ecc. costruisci: expirans de pectore calidum flumen sanguinis, ‘emettendo
dal petto un caldo rivo di sangue’. –riga 4: at mater, orbāta, perăgrans virides saltus, novit
humi vestigia pressa pedibus bisulcis, lett. ‘ma la madre, privata (del figlio), percorrendo le
verdi radure, (ri)conosce a terra le orme impresse dai piedi fessi’; saltus, acc. pl. da saltus,
us ‘radura’. humi, locativo da humus,i ‘terra’. –riga 6: omnia convīsens ecc., costruisci:
convisens oculis omnia loca si queat conspicere usquam missum fetum, lett. ‘esaminando
con gli occhi tutti i luoghi se (mai) possa vedere da qualche parte [usquam] la perduta
prole’. –riga 6-7: completque ecc., costruisci: et, adsistens, complet querellis frondiferum
nemus. lett. ‘e, fermandosi, riempie di lamenti il frondifero bosco‘; complet, pres. ind. 3
sing. da compleo ‘riempire’.; et crebra ecc., lett. ‘e frequentemente ritorna alla stalla’;
revīsit, pres. ind. 3a sing. da revīso lett. ‘ri-vedere’ (re+viso), qui =‘tornare’; crebra=crebre,
avv. ‘frequentemente’. Desiderio ecc. costruisci: perfixa desiderio iuvenci, lett. ‘trafitta
dalla mancanza del giovenco’; perfīxa ‘trafitta’, part. prf. perfīgo ‘trafiggere’ (continua).

Note al testo (continua). –riga 10: nec tenerae ecc., costruisci: nec tenerae salices atque
herbae vigentes rore et ulla flumina labentia summis ripis queunt oblectare animum et
avertere subitam curam, lett. ’né i morbidi salici e le erbe ricche di rugiada e alcun fiume
che scivola a fiore delle rive possono dilettare l’animo e allontanare l’improvvisa ansia’;
vigentes rore, lett. ‘rifiorenti [part. pres. vigēre] di rugiada’; summis ripis, lett. ‘sulle somme
rive’, = ‘sul sommo delle rive’. -riga 13-14: nec vitulorum ecc., costruisci: nec aliae speciae
vitulorum per laeta pabula queunt derivare animum et [eum] levare curā, lett. ‘né altre
visioni di vitelli per i rigogliosi pascoli possono distrarre l’animo e sollevarlo dall’ansia’. –
riga 15: lett. ‘fino a tal punto (usque adeo) qualcosa di proprio e di conosciuto ricerca’;
requīrit, pres. ind. 3a sing. requīro ‘ricercare’.
Commento.
Si tratta, come anticipavamo, di un celebre exemplum, quello della mucca-madre che
disperatamente continua a cercare ovunque il suo vitellino appena immolato sugli altari per
un sacrificio. Ancora una volta il parallelo tra animale umano e non umano quanto a
capacità cognitive viene allo scoperto attraverso l’uso di verbi che sottolineano l’intenzione
percettiva: novisse ‘conoscere’, convisere ‘ricercare con lo sguardo’, conspicere ‘osservare
attentamente’, revisere ‘tornare a vedere’ (continua).

Ma qui quello che interessa al poeta è anzitutto un parallelo con le capacità affettivo-
sentimentali dell’essere umano. Basta per tutti l’uso del termine cura ‘ansia’ (riga 10), che
colpisce la mucca sofferente benché essa non lo voglia (ansia subĭta, cioè “improvvisa”
quindi “non voluta”, dice Lucrezio). La critica ha da sempre notato il parallelo ed il
ribaltamento rispetto ad un altro celeberrimo episodio del poema lucreziano: un altro
exemplum, ma stavolta relativo alla inaccettabilità della pratica del sacrificio, considerato da
Lucrezio, in ogni sua manifestazione, come un atto privo di pietas, estrema dimostrazione di
ciò a cui gli uomini possono arrivare per colpa della religio, cioè la religione, intesa come
eccesso di fervore religioso. Si tratta dell’episodio descritto in DRN V, 1198-1203, e relativo
al sacrificio di Ifigenia da parte del padre Agamennone (un episodio del mito su cui anche il
tragediografo Euripide ha centrato una delle sue opere più famose - l’Ifigenia in Aulide). È
stato notato come l’atteggiamento della mucca, folle di dolore nell’incessante ricerca del
vitellino sacrificato sull’altare, contrasti macroscopicamente con quello di Agamennone,
padre caratterizzato da un oscurantismo tale da renderlo impassibile e cinico assassino della
figlia. Tutrone (p. 62) nota come per Lucrezio il confine tra cultura e assenza di cultura non
coincida affatto con quello tra mondo umano e mondo animale, tipico del verticalismo
zooantropologico, ma venga individuato all’interno delle scelte etiche, in tutto consapevoli,
dell’essere umano.

LEZIONE 23

ORIZZONTALISMO AFFETTIVO

Torniamo ai tratti affettivo-cognitivi con cui, come detto, Lucrezio ribadisce


l’orizzontalismo zooantropologico proprio della sua visione della filosofia epicurea.
Dapprima il sostantivo querella, derivato dal verbo queror ‘mi lamento’. Si tratta della
lamentazione funebre, una parte molto importante dell’espressione del cordoglio presso gli
antichi. Su di essa l’antropologo italiano Ernesto De Martino ha scritto pagine famose,
riallacciando la lamentazione funebre ancora ubiquitaria nell’Italia meridionale degli anni
’50 proprio alle lamentazioni descritte per il mondo antico, ad esempio nei poemi omerici,
in cui le donne urlavano e piangevano in modo drammatico ma fortemente controllato e
ritmato.
Quindi il poeta attribuisce anche al mondo animale non solo la capacità di provare del
dolore per la perdita di un “caro”, ma anche quella di manifestarlo in un modo consapevole.
Tra gli altri tratti affettivo-cognitivi con cui Lucrezio ribadisce l’orizzontalismo
zooantropologico nell’exemplum della mucca che piange il suo vitellino-vittima sacrificale,
c’era, come abbiamo già notato, la cura. Ma, poco prima, sempre nella stessa riga 10,
Lucrezio aveva addirittura parlato di animus ‘animo’, cioè il centro deputato a rielaborare
sia i concetti che le emozioni (“né i morbidi salici […] possono dilettare l’animo e
allontanare l’improvvisa ansia’”). In quanto dotata di animus, centro della vita spirituale e
affettiva tipico dell’essere umano, la mucca è soggetta per sua stessa natura a provare una
enorme varietà di emozioni.

DISNIFICAZIONE LUCREZIANA?
La critica ha visto tradizionalmente, in questo passo, un’antropomorfizzazione della mucca,
cioè il suo essere privata completamente della propria naturalità per farne, al pari degli
animali delle celebri favole di Esopo, dei puri simboli di vizi umani. Il termine utilizzato a
tale proposito è “disnificazione”. Si tratta di un gioco di parole tra il nome Disney, la
colossale multinazionale che ha fatto scuola nell’arte di rappresentare degli esseri umani che
hanno apparenza di animali non umani, e ed il termine disignificazione, dove l’uso
negativizzante del suffisso dis- indica qui l’assenza di “significazione”, cioè l’incapacità di
attribuire agli animali non umani un significato in sé, in quanto animali dotati di loro
peculiarità separate da quelle dell’essere umano. Insomma, anche Lucrezio avrebbe operato
una disnificazione della realtà animale della mucca, privandola di una sua animalità
peculiare e facendone metafora delle capacità affettive dell’essere umano. Ma che non sia
così è chiaro dal fatto che Lucrezio connota la mucca usando il lessico delle affezioni
psicologiche umane non per fare dell’animale un “burattino”, o un “cartone animato” dietro
cui celare esseri umani, ma per mettere in evidenza, come dice Tutrone, la “quantità
iperbolica di dolore che l’uomo può ingenerare nell’animale” (p. 68). L’accento infatti è
posto anzitutto su ciò che l’ignoranza dei precetti di Epicuro può generare in termini di
fervore religioso e fiducia nell’intercessione degli dei cui si attribuiscono,
superstiziosamente, comportamenti vendicativi o non assecondanti i desideri umani qualora
non vengano onorati come si deve, ad esempio tramite sacrifici.

ORIZZONTALISMO AFFETTIVO
Inoltre, questa attribuzione di passioni e affetti umani rientra in una visione del mondo ben
espressa dalla filosofia epicureo-lucreziana, che il lettore attento di Lucrezio non può certo
ignorare perché posta in modo coerente in tutto il DRN. In questa visione del mondo gioca
una parte centrale proprio il rapporto con gli animali non umani improntato ad un puro
“orizzontalismo zooantropologico,” che rende gli animalia dotati sia di una individualità,
che di una consapevolezza cognitivo-affettiva. Quest’ultima emerge in modo ancora più
evidente tornando ad osservare le diverse passioni attribuite alla mucca in questo passo
famoso. Tra di esse figurava anzitutto la cura, l’ansia, che qui, come già visto, sorge
improvvisa nell’animale. Quello che non avevamo detto sulla cura riguarda il contesto più
frequente in cui essa ci appare nelle testimonianze letterarie greco- latine. La cura è infatti
l’emozione attribuita tipicamente, ad esempio nella poesia elegiaca latina, a chi soffre
d’amore. Ad essa si affianca, sempre in questo immaginario poetico, il desiderium, cioè la
‘mancanza’, o come la chiameremmo noi, la ‘nostalgia’, corrispondente a quello che in
greco è chiamato pòthos. Archiloco, il giambografo del VII secolo a.C., descrive
quest’ultimo come qualcosa che “trafigge le ossa” (Fr. 193 West), con una metafora
sicuramente non lontana da quella sottolineata da Lucrezio con il participio perfixa ‘trafitta’
(riga 9).

Se Lucrezio avesse voluto “disnificare” la mucca, niente di più semplice ed efficace per lui
che insistere su tutto l’immaginario legato alla cura d’amore nell’ambito della poesia erotica
greco- romana. Ma Lucrezio non ha affatto presentato la cura della mucca in un contesto
amoroso, bensì, all’opposto, in un contesto luttuoso e, come detto, legandolo alle sofferenze
indotte dagli esseri umani ad altri animali per motivi di religio.
In realtà, disnificazione a parte, e tornando al mondo antico, il tema dell’attribuzione di
facoltà cognitivo-affettive agli animali non umani era già stato trattato prima di Lucrezio e
proprio nell’ambito della stessa scuola epicurea di cui il nostro è non sempre pedissequo ed
ortodosso seguace. Si può a questo proposito analizzare la posizione di Polìstrato,
successore di Ermarco al ruolo di guida ermeneutica all’insegnamento del maestro
fondatore. Polìstrato fu scoliarca dal 250 al 220 a.C. Nell’opera Sul disprezzo irragionevole,
ritrae le capacità animali come del tutto inferiori a quelle dell’essere umano: anzitutto gli
animali non umani sono privi della capacità di ragionare, inoltre non hanno la capacità di
distinguere il bene dal male, ma soprattutto sarebbero incapaci di memoria storica, cioè
incapaci di immagazzinare le proprie esperienze, ad esempio quelle negative, e non ripetere
errori passati. Si capisce immediatamente quanto questa posizione possa essere distante da
quella di Lucrezio, che attribuisce agli animali non umani, l’”ansia” per la perdita di un
“caro”, la “nostalgia” di ciò che non è più.

LEZIONE 24
SCHIACCIAMENTO ISOCRONICO
Lucrezio dunque distrugge anche questo ulteriore discrimen, che viene ad aggiungersi a
quelli già citati in precedenza come tipici della visione verticalista che dal mondo antico
sembra essersi mantenuta senza apparenti soluzioni di continuità e, con il fondamentale
contributo della tradizione ebraico-cristiana, essere arrivata fino a noi. In particolare, alla (1)
mancanza di razionalità e alla (2) assenza di una morale (necessaria conseguenza della loro
incapacità di discernere bene e male), gli altri animali aggiungerebbero quello che Tutrone
chiama “schiacciamento isocronico”, questa incapacità di rivolgere l’attenzione a situazioni
diverse da quelle presentate dalla realtà del “qui ed ora”. La sostanza di questa idea è ben
presente nel dibattito etico affrontato dalla filosofia (greco-) romana nel I sec. a.C. La parte
del leone sembra farla, al solito, la filosofia stoica; e non c’è da stupirsene, vista la
popolarità da essa raggiunta tra gli intellettuali romani di questo periodo (ciò che è anche
uno dei motivi per cui Lucrezio scriverebbe il suo poema, per portare anche l’epicureismo
ai livelli di diffusione, tra i membri dell’élite romana, raggiunti dalla scuola stoica). A
fornircene un esempio significativo l’autore che ci ha lasciato gran parte delle opere
filosofiche latine giunte fino a noi: Cicerone. Nessun bisogno di presentarlo, visto che si
tratta dell’autore di cui possediamo più opere (e frammenti di opere) di generi tanto diversi
quali la poesia didascalica ed epica, la prosa oratoria, filosofica, retorica, politica, nonché un
ricco ed impressionante epistolario privato.

DE OFFICII I, 11, 7
Il De officiis fa parte delle opere filosofiche di Cicerone, e come tale apparterrebbe già alle
opere più tarde di questo autore, che, dal 45 in poi, si trasforma da “oratore filosofico” in
“filosofo oratorio”, per citare la nota formula di Anton Leeman. Cicerone infatti inizia a
dedicarsi alla filosofia dopo l’allontanamento dalla politica attiva nel 46 e, soprattutto, a
tempo pieno, dopo la morte della figlia Tullia nel 45. Il De officiis è in effetti l’ultima opera
di Cicerone, pubblicata postuma e non rifinita. Come emerge dal titolo (lett. ‘i doveri’), egli
tratta del discrimine tra ciò che è utile e ciò che è onesto e della difficoltà di conciliare
queste due nozioni nel cosiddetto “dovere” morale. Com’è noto il retroterra filosofico di
Cicerone prende le mosse soprattutto da Platone (ca. 428-348 a.C.). La scuola da lui fondata
venne chiamata Accademia (Liceo quella fondata da Aristotele). L’accademia si evolve in
modo molto complesso. I primi scoliarchi successori di Platone fecero di tutto per attenersi
ai suoi insegnamenti (si parla di Antica Accademia); nelle fasi successive, invece, a
predominare fu l’influenza dello scetticismo, con la Media Accademia fondata da Arcesilào
(316- 241 a.C.) e la Nuova Accademia fondata da Carnèade (214-136). Ma sicuramente
l’indirizzo che più influenzò Cicerone fu quello della cosiddetta Quinta Accademia, fondata
da Antioco di Ascalòna (128-68 a.C.) che propugnava un atteggiamento improntato al
massimo “eclettismo”, cioè alla mediazione tra le parti considerate più importanti nel
pensiero dei grandi filosofi (con, naturalmente, Platone in testa). La mediazione è tipica
anche dell’indirizzo politico di Cicerone.

“Comune, inoltre, a tutti gli animali è il desiderio di congiungersi per procreare e una certa
cura di quelli che sono stati procreati. Ma tra l’essere umano e la bestia ciò soprattutto è
differente al massimo: il fatto che questa viene spinta solo dal senso; regola se stessa solo in
base a ciò che c’è ed è presente, percependo molto poco il passato ed il futuro. L’essere
umano, invece, poiché partecipa della ragione grazie alla quale individua le conseguenze [di
un’azione], vede le cause delle cose e non ne ignora né i pregressi né, per così dire, gli
antecedenti, (ma) ne compara le somiglianze e alle cose presenti aggiunge e riconnette
quelle future; vede facilmente il corso di tutta la vita e prepara le cose necessarie per
viverla.”

Commune autem animantium omnium est coniunctionis appetitus procreandi causa et cura
quaedam eorum, quae procreata sint. Sed inter hominem et beluam hoc maxime interest,
quod haec tantum quantum sensu movetur, ad id solum,
5 quod adest quodque praesens est se accommodat, paulum admodum
sentiens praeteritum aut futurum.
Homo autem, quod rationis est particeps, per quam consequentia cernit, causas rerum videt
earumque praegressus et quasi antecessiones non ignorat, similitudines comparat rebusque
10 praesentibus adiungit atque adnectit futuras; facile totius vitae cursum
videt ad eamque degendam praeparat res necessarias.
LEZIONE 25

Note al testo: -riga 1: commune animantium omnium, lett. ‘(cosa) comune degli (esseri)
animati tutti’, cioè ‘cosa comune a tutti gli esseri animati’; appetitus coniunctionis , lett. ‘il
desiderio di congiungimento’. –riga 2: procreandi causā, lett. ‘a causa di procreare’, cioè
‘per procreare’; è la costruzione della finale con l’abl. di causa ‘causa’, più il genitivo del
gerundio. et cura quaedam eorum ecc. lett. ‘e una certa cura di coloro [neutro riferito ad
animantia] che sono stati procreati [cong. pf. passivo 3a pl.]’. -riga 3-4: hoc maxime
interest, lett. ‘questo massimamente differisce’, interesse ‘differire’. quod haec…movetur,
lett. ‘il fatto che questa [= belua] tanto quanto dal senso è mossa’, cioè ‘è spinta solo da ciò
che sente [cioè dalle sue ‘pulsioni’ come diremmo noi]’. –riga 4-5: ad id solum…
accomodat, lett. ‘a ciò solo che c’è [adesse] ed è presente si adatta [accomodare]’. – riga 7:
quod rationis est particeps, lett. ‘poiché della ragione è partecipe’; per quam, lett.
‘attraverso la quale’. consequentia, part. pres. neutro pl. consĕquor ‘seguire’, lett. ‘le cose
che seguono’. –riga 8-9: quasi lett. ‘come se’, ma in lat. anche nel senso (come in questo
caso) di ‘per così dire’. –riga 10: futuras , sott. res ‘cose’. –riga 10-11: facile ecc. costruisci:
videt facile cursum totius vitae et ad eam degendam praeparat res necessarias, lett. ‘vede
facilmente il corso di tutta la vita e per viverla [finale con ad + accusativo del gerundivo]
prepara le cose necessarie’.

SCHIACCIAMENTO ISOCRONICO
Come appena visto, Cicerone è un condensato dei luoghi comuni sui discrimina tra animale
umano vs. altri animali. Il punto fondamentale è quello della incapacità degli altri animali a
concepire passato e futuro, guidati come sarebbero solo dal sensus, cioè da quello che
sarebbe solo percepito e non rielaborato. Cicerone, infatti, spiega il discrimen dello
“schiacciamento diacronico” collegandolo direttamente a quello della “mancanza di
ragione”, quando dice che l’animale umano, a differenza degli altri animali, “vede le cause
delle cose e non ne ignora né i pregressi né gli antecedenti” proprio perché possiede la
ragione. A questo proposito, essenziale notare come Cicerone non dica “possiede la
ragione”, come sarebbe normale per noi, ma “partecipa della ragione”. Perché? È semplice:
perché Cicerone accoglie il principio fondamentale della filosofia stoica secondo cui la ratio
‘ragione’ (gr. lògos) è il principio divino che pervade tutte le cose. Quest’ultimo è, per gli
stoici, anche il creatore di tutte le cose. È naturale, in quest’ottica creazionista, che Cicerone
manifesti una visione fortemente verticalista in zooantropologia come quella che traspare
dal brano del De officiis appena letto. L’animale umano, infatti, a differenza di tutti gli altri,
sarebbe l’unico a possedere la categoria tempo e ad applicarla in ogni direzione rispetto al
presente: indietro, nel passato; in avanti, nel futuro. E questo rimanderebbe al principale
motivo della sua posizione di “beniamino” della natura: sarebbe una prova diretta del fatto
che egli, molto più degli altri animali, è pervaso di lògos divino, al punto che in lui la
ragione è
ben visibile.
SALLUSTIO
Per capire quanto questa posizione verticalista, con l’essere umano naturalmente superiore
agli altri animali, fosse “popolare” nella Roma della tarda repubblica, si può leggere un
piccolo passo tratto dall’opera del “nemico” (politico e personale) di Cicerone, Sallustio. Se
il pensiero dei due diverge da molti punti di vista, essi sono invece assolutamente
equivalenti sul piano zooantropologico.
Di Sallustio basterà qui solo ricordare (al solito, rinviando per gli approfondimenti al
manuale di storia della letteratura) la sua importanza negli sviluppi del genere storiografico.
Il passo in questione è tratto dal De coniuratione Catilinae, un’opera ben diversa da quelle
tipiche della storiografia precedente. Lo storico dell’età cesariana, infatti, “reinventa” e
diffonde il sotto-genere della monografia storica, opera centrata su un fatto storico
particolare di grande importanza, a dispetto della più diffusa tradizione storica latina basata
sulla narrazione di fatti anno per anno (annalistica). Dedicata com’è ad indagare le cause
della crisi della repubblica, la capacità d’indagine sallustiana raggiunge in quest’opera e nel
De bello Iugurthino le vette di profondità proprie del modello, il greco Tucidide (460-399
a.C.), imitato da Sallustio anche nello stile. Quest’ultimo, contrariamente alla concinnitas
(la “armoniosa consonanza delle rispondenze”) di Cicerone, è basato sugli arcaismi, sulla
brevitas e sulla variatio (rispettivamente ‘brevità’, cioè secchezza della frase, e ‘alternanza’
nelle costruzioni sintattiche), una lezione che non mancherà d’influenzare Tacito.

DE CONIURATIONE CATILINAE
La prima monografia è dedicata a Catilina, esponente della nobilitas decaduta. Uomo dalle
eccezionali capacità ma moralmente corrotto e ormai rovinato finanziariamente, Catilina
intende occupare i posti più alti della scena politica per ricostruire il suo patrimonio
finanziario: tenta così l’accesso alla massima carica dello stato, il consolato, ma non viene
eletto; cerca allora di porre rimedio alla sua sconfitta poliica con un colpo di stato (una
“congiura”) militare. L’anno è il 63, quello del consolato di Cicerone. Ecco l’incipit del De
coniuratione Catilinae (1, 1-3):

“A tutti gli esseri umani, che cercano di superare gli altri animali conviene sforzarsi con
grande impegno per non passare la vita sotto silenzio come del bestiame che la natura ha
fatto prono e obbediente al ventre. Ma tutta la nostra [= di noi esseri umani] forza è situata
nell’animo e nel corpo: usiamo di più l’autorità dell’animo che non l’asservimento del
corpo. Il primo ce l’abbiamo in comune con gli dei, il secondo con le bestie”.
Omnes homines, qui sese student praestare ceteris animalibus, summa ope niti decet, ne
vitam silentio transeant veluti pecora, quae natura prona atque ventri oboedientia finxit. Sed
nostra omnis vis in animo et
5 corpore sita est: animi imperio, corporis servitio magis utimur;
alterum nobis cum dis, alterum cum beluis commune est.
LEZIONE 26
Note al testo: -riga 1-2: omnes homines...decet, costruisci: decet omnes homines niti summā
ope, lett. ‘conviene (che) tutti gli esseri umani si sforzino [niti, inf. pres. del dep. nitor ‘mi
sforzo’]’ con grande impegno [ope=abl. sing. di ops, opis ‘impegno’, ‘forza’]; sese, forma di
rafforzativo = se, acc. sing. pronome personale riflessivo di 3a persona, sui, lett. ‘si’;
student, pres. ind. studeo, ‘cercano’; praestare, lett. ‘stare prima’, cioè ‘essere superiore’. –
riga 2-3: ne vitam ecc., costruisci: ne transeant vitam silentio veluti pecora, lett. ‘affinché
non trascorrano la vita sotto silenzio [non: ‘in silenzio’] come animali da allevamento; ne
cong. finale negativa, regge il cong. pres. transeant, da transire. Pecora, nom. pl. di pecus,
oris ‘bestiame’. –riga 4: finxit, perf. ind. 3a p. sing da fingo, is, finxi, fictum, ĕre, lett.
’plasmare’. –riga 4-5: sed nostra omnis ecc. costruisci: sed omnis nostra vis sita est in
animo et corpore, lett. ‘ma tutta la nostra forza è situata nell’animo e nel corpo’. –riga 5:
animi imperio...utimur, costruisci: utimur magis imperio animi servitio corporis, lett.
‘usiamo più l’autorità [lett. ‘il comando’] dell’animo (della) schiavitù del corpo’; imperio è
abl. retto dal deponente utimur, pres. ind. 3a pers. sing. di utor ‘usare’; servitio è abl. retto
sempre da utor, ma anche, contemporaneamente, l’abl. del secondo termine di paragone
(“più...della schiavitù ecc.”). – riga 6: alterum...alterum = l’uno...l’altro; commune est cum
= ‘è in comune con’.
Commento. Visto che si tratta proprio dell’incipit della sua monografia, è chiaro quale
importanza Sallustio attribuisca alla sua affermazione. Si tratta a tutti gli effetti di un
assioma. Un principio base che a Sallustio non verrebbe mai in mente di mettere in
discussione: “La natura ha fatto gli animali proni ed obbedienti al ventre”, mentre l’essere
umano è dotato anche di animus (lett. ‘spirito’, ma non nella nostra accezione italiana,
fortemente metafisica, quanto più nell’accezione del francese esprit, cioè ‘capacità
intellettive’). È lo storiografo latino stesso a confermarci il suo utilizzo dell’opposizione
(già pitagorica ma portata alla sua massima espressione da Platone) tra mente e corpo,
quando ci dice che la mente “ce l’abbiamo in comune con gli dei”, mentre il corpo è quello
che ci accomuna alle bestie. Si tratta di una dicotomia che il lettore troverà estremamente
familiare in termini di “anima e corpo”: infatti, accolta in pieno dal cristianesimo, essa ha
avuto un successo enorme nel pensiero occidentale. È su questo fondamento, tornando
all’incipit sallustiano, che lo storiografo costruisce il suo ritratto di Catilina e colloca questa
figura all’interno di un universo morale tipico di un rappresentante dell’élite romana del I
sec. a.C. che, al pari di Cicerone, sentiva forte il richiamo ai principi esclusivamente
antropocentrici del cosiddetto “umanesimo romano” (le cui basi sarebbero state poste
proprio in questi anni).

LA CROCIATA ANIMALISTA

A proposito di antropocentrismo, torniamo al passo del DRN da cui eravamo partiti.


A questo punto sarà ancora più chiaro come Lucrezio, attraverso l’episodio apparentemente
così ingenuo e “disnificato” della mucca che cerca il suo vitellino, metta in moto
un’operazione ideologica molto complessa, che lo porta non solo ad annullare il principio
base della filosofia stoica che tanto successo avrà dall’umanesimo romano in poi (la ratio
divina ed il fatto che l’animale umano è l’unico che la possiede, o meglio, vi “partecipa”),
ma addirittura a mettersi in contrasto con una posizione interna alla filosofia di Epicuro e
per giunta portata avanti da uno dei suoi più illustri successori: Polìstrato. Anche per
quest’ultimo, lo si è visto, esisteva una sorta di piramide tra gli animali, con quello umano
saldamente al vertice in quanto l’unico in grado di valutare il prima e il dopo. Così, anche
l’epicureismo rischiava di appiattirsi sulle posizioni stoiche, cioè sul principio, che
dominerà incontrastato in Occidente almeno fino Copernico o Galileo, dell’essere umano
“posto al centro del cosmo come unico essere in grado di avere piena percezione di sé, del
mondo e del tempo che lo governa” (Tutrone, p. 70).
Si tratta, insomma, di un’ulteriore conferma che il tema della posizione degli altri animali
rispetto a quello umano è sentito da Lucrezio come uno dei cardini della crociata per far
entrare l’epicureismo all’interno dell’élite romana, così da fargli “guadagnare delle
posizioni” sia rispetto allo stoicismo che rispetto a certe tendenze antropocentriche interne
all’epicureismo stesso.

LEZIONE 27
SENECA FILOSOFO

È giunto il momento di fare la nostra incursione nella filosofia senecana per poi rientrare su
Lucrezio. Lo faremo proprio cercando i punti più significativi della posizione
zooantropologica di quest’altro grande filosofo-letterato romano che, come vedremo, pur
appartenendo alla corrente stoica, presenta delle importanti attenuazioni rispetto al
verticalismo “spinto” che caratterizza quest’ultima. Vedremo che queste attenuazioni hanno
un’origine ben precisa. Ma partiamo anzitutto con qualche brevissima informazione
sintetica su Seneca, rimandando al solito il lettore al manuale di storia della letteratura latina
per il profilo completo.
Seneca vive nei primi 65 anni del I sec. d.C., quindi sotto la dinastia giulia-claudia.
Destinato per famiglia agli studi retorici, fu però la filosofia ad attirarlo fin da giovanissimo.
Ebbe come precettori Soziòne e Papirio Fabiano che lo iniziarono al neopitagorismo.
Raggiunge grande popolarità come oratore e uomo politico, tanto che lo vollero a corte
prima Tiberio, poi Claudio e, soprattuto, Nerone, del quale fu notoriamente precettore e poi
consigliere (la sua influenza ed il suo equilibrio influenzarono i primi 5 anni - positivi a
dispetto dei successvi - dell’impero neroniano). Sul piano letterario Seneca rappresenta il
livello più alto cui arriva la filosofia morale latina, in particolare quella di matrice stoica;
con l’invenzione, soprattutto nei Dialoghi e nelle Epistole a Lucilio, del famoso “linguaggio
dell’interiorità”, Seneca offrirà un modello insostituibile ai filosofi successivi,
particolarmente ai pensatori cristiani.

Ma torniamo a quello che dicevamo sull’attenuazione in Seneca della prospettiva


verticalista in zooantropologia, tipica, come già ribadito, del provvidenzialismo e del
finalismo stoici. Seneca, come appena visto, viene iniziato alla filosofia attraverso il
neopitagorismo, ma anche quest’ultimo, com’è tipico del sincretismo e dell’eclettismo di
molte correnti filosofiche romane, converge nello stoicismo, di cui Seneca, nella sua
maturità, è prima deciso seguace, poi maestro. Di quest’ultima dimensione è prova l’opera
più originale di Seneca, il suo capolavoro: le 124 Epistulae morales ad Lucilium (‘lettere
morali a Lucilio’). Lucilio è un giovane amico di Seneca e le lettere gli sono state
effettivamente spedite, anche se quelle pubblicate sono certamente rielaborate dal nostro
autore. Quello dell’epistola filosofica è un genere già praticato da Platone e da Epicuro, ma
Seneca è il primo ad introdurlo in latino, con un successo incredibile. Per noi si tratta
oltretutto dell’unico esempio latino giuntoci di un’opera di questo genere. In esso il tono
diventa più colloquiale che non nei trattati (i Dialogi). Lo scopo delle epistole è quello, sì, di
arricchire le conoscenze di Lucilio in campo filosofico, ma soprattutto quello di chiarirgli
dei dubbi su temi che non esiteremmo a definire “esistenziali”. La lettera si presta dunque,
meglio di un lungo trattato, alla pratica quotidiana della filosofia ed a quella ricerca
incessante della felicità vera, coincidente con la tranquillità dell’animo, il distacco dalle
passioni, che lo stoicismo individua, al pari dell’epicureismo, come fine ultimo della
filosofia. L’epistola che leggiamo adesso è la numero 108.

SENECA VEGETARIANO

Si tratta della celebre epistola in cui Seneca descrive il suo passato di vegetariano. Il filosofo
sta parlando della sua adolescenza e ci riferisce le parole del proprio maestro, il
neopitagorico Sozione (ep. 108, 21-22):

“Sozione, dopo aver esposto queste idee e averle completate con argomentazioni sue, disse:
‘Non credi che le anime siano assegnate successivamente a corpi diversi, e che quella che
chiamiamo morte sia soltanto una migrazione? Non credi che negli animali domestici o
selvatici o acquatici dimori un’anima che un tempo è stata di un uomo? Non credi che nulla
si distrugge in questo mondo, ma cambia unicamente sede? Che non solo i corpi celesti
compiono giri determinati, ma anche gli animali seguono dei cicli, e che le anime
percorrono un circolo? […] Se queste teorie sono vere, l’astenersi dalle carni ci mantiene
immuni da colpa; se sono false, ci mantiene frugali. Che danno deriva dal credere in esse?
Ti privo degli alimenti dei leoni e degli avvoltoi’. Spinto da questi discorsi, cominciai ad
astenermi dalle carni, e dopo un anno questa abitudine non solo mi riusciva facile, ma anche
piacevole. Mi sembrava che il mio spirito fosse più vivace, ma oggi non saprei dirti se lo
fosse realmente. Mi chiedi come ho abbandonato questa consuetudine? La mia giovinezza
cadde nei primi anni dell’impero di Tiberio: allora i culti stranieri erano messi al bando e
l’astenersi dalle carni di certi animali era considerata prova di superstizione.” (trad. M.
Natali, con adattamenti)

Haec cum exposuisset Sotion et implesset argumentis suis, 'non credis' inquit 'animas in alia
corpora atque alia discrībi et migrationem esse quod dicimus mortem?
Non credis in his pecudibus ferisve aut aqua mersis illum
5 quondam hominis animum morari? Non credis nihil perire in hoc mundo, sed mutare
regionem? nec tantum caelestia
per certos circuitus verti, sed animalia quoque per vices ire et animos per orbem agi? […] Si
vera sunt ista, abstinuisse animalibus innocentia est; si falsa, frugalitas est. Quod istic
credulitatis tuae
10 damnum est? alimenta tibi leonum et vulturum eripio.' His
ego instinctus abstinere animalibus coepi, et anno peracto non tantum facilis erat mihi
consuetudo sed dulcis. Agitatiorem mihi animum esse credebam nec tibi hodie
adfirmaverim an fuerit. Quaeris quomodo desierim? In primum Tiberii Caesaris
15 principatum iuventae tempus inciderat: alienigena tum sacra movebantur et inter
argumenta superstitionis ponebatur quorundam animalium abstinentia.
LEZIONE 28

Note al testo. -riga 1: haec cum, costruisci: Sotion, cum haec exposuisset et imple(vi)sset
argumentis suis, inquit: ‘Non credis, ecc.’ lett. ‘Sozione, avendo esposto queste cose e
avendole riempite di proprie argomentazioni, disse:…’. –riga 3: discribi, inf. pres. passivo
da di-scrībo, scripsi, scriptum, ĕre ‘distribuire’, lett. ‘essere distribuite’, cioè ‘(non credi
che) siano distribuite’; in alia corpora atque alia, lett. ‘in altri corpi ed altri’, cioè ‘da un
corpo all’altro’, ovvero ‘in corpi diversi’. – riga 4-5: costruisci: non credis quondam in his
pecudibus ferisve aut aquā mersis morari illum animum hominis?, lett. ‘Non credi (che) un
tempo in questi capi di bestiame [pecŭdes] o bestie dimorasse [morari, inf. pres. del dep.
moror] quell’animo di un essere umano?’. –riga 6-7: nec tantum ecc., costruisci: (non
credis) nec tantum caelestia verti per circuitus certos sed animalia quaoque ire per vices et
animos agi per orbem?, lett. ‘(non credi che) non solo le cose celesti girino [inf. pres. pass.
di vertere, con significato medio: ‘mi giro’, cioè ‘giro’] per orbite certe ma che anche gli
animali vadano per turni successivi [per vices, lett. ‘per turni’] e che gli spiriti (loro) si
muovano [inf. pres. pass. di agere, con significato medio: ‘mi muovo’] in un circolo’. –riga
8: si vera ecc. costruisci: si ista sunt vera, abstinuisse animalibus est innocentia; si (sunt)
falsa (abstinuisse animalibus) est frugalitas, lett. ‘se queste cose sono vere, l’essersi astenuti
dagli animali è (segno di) mancanza di colpa (innocentia), se sono false (l’essersi astenuti
dagli animali è segno di) frugalità’ (continua).

-riga 9-10: quod istic ecc., costruisci: quod damnum est istic tuae credulitatis?, lett. ‘qual è
il danno (sott. ‘per te’) del fatto che tu creda in ciò [lett. ‘della tua credulità lì’]?’. istic, avv.
di stato in luogo., lett. ‘costì’. –riga 10-11: His ego ecc., costruisci: ego, instinctus his (sott.
verbis) coepi abstinere animalibus et, peracto anno, consuetudo mihi erat non tantum
facilis sed dulcis, lett. ‘io, spinto [lett. ‘istigato’, part. perf. di instinguo] da queste (parole)
cominciai ad astenermi dagli animali e, trascorso un anno, l’abitudine mi fu non solo facile
ma gradevole’. –riga 12-13: agitatiorem mihi ecc., costruisci: credebam animum mihi esse
agitatiorem nec hodie adfirmaverim tibi an fuerit, lett. ‘credevo (che) il mio spirito [lett. ‘lo
spirito a me’] fosse più vivace [comp. di agitatus,a,um] ed oggi non potrei affermare [cong.
pf. con valore potenziale] se (davvero lo) fosse’. –riga 14: desierim, cong. pf. de-sĭno, sĭi,
ĕre ‘smettere’, lett. ‘abbia smesso’. –riga 14-15: in primum ecc., costruisci: tempus iuventae
inciderat in primum principatum Tiberii Caesaris, lett. ‘il (mio) tempo di gioventù era
caduto nel [cioè ‘era coinciso col’] primo principato [cioè ‘l’inizio del principato’] di
Tiberio imperatore’. –riga 15-16: tum sacra alienigena movebantur et abstinentia
quorundam animalium ponebatur inter argumenta superstitionis, lett. ‘allora i culti stranieri
[lett. ‘nati altrove’] venivano rimossi [lett. ‘erano mossi’] e l’astinenza da certi animali [lett.
‘di certi animali’] era considerata [lett. ‘era posta’] tra le prove di superstizione’.

SOZIONE

Si tratta di una testimonianza eccezionale. Anzitutto perché Seneca ci dà un’informazione su


di sé, da cui si può ricavare chiaramente che in una fase giovanile della sua vita egli ha
praticato con convinzione una dieta vegetariana. Nel suo ricordo la “astinenza” dalla carne
gli era risultata sia “facile” da intraprendere, che efficace nel “vivacizzare” le sue facoltà
mentali (questa fu almeno la sua percezione allora, come specifica egli stesso). Ma
soprattutto ci dice l’origine della sua “conversione” vegetariana; si tratta di una motivazione
etica figlia dell’insegnamento di uno dei suoi mestri. Entreremo tra un attimo nei particolari
che riguardano i motivi filosofico-morali di questa scelta, dato che Seneca riassume
direttamente il pensiero di Sozione. Nel passo appena letto Seneca cita Sozione direttamente
e le parole di quest’ultimo già possono bastare per dirci l’origine neopitagorica di questa
scelta. Anche Sozione ritiene, infatti, che “nulla si crea e nulla si distrugge”, ma, a
differenza di Lucrezio, mantiene un differenza tra anima e corpo spiegando che la prima non
è mortale, a differenza del secondo. Perciò essa, alla morte del corpo, non muore ma
“trasmigra” in un altro corpo. Il punto interessante di questa idea ben nota (è la famosa
dottrina della metempsicosi) riguarda in effetti la precisazione che l’anima non è solo
posseduta dall’essere umano, ma anche da tutti gli altri animali: quelli, specifica Sozione,
domestici, selvatici e acquatici. Per Sozione anche gli animali, come i pianeti, attraversano il
tempo in modo “circolare”, e le loro anime “circolano” da animale ad animale.

LEZIONE 29

SOZIONE
Se ciò è vero, continua Sozione, allora astenersi dal mangiare altri animali è una decisiva
garanzia della propria “non-violenza” (innocentia, lett. ‘non-capacità di nocēre ‘nuocere’),
quindi della propria altezza morale, la stessa che permette al pitagorico di rimanere sempre
al livello massimo nell’alternanza circolare delle anime animali, cioè al livello della
reincarnazione in un essere umano. L’idea pitagorica, come quella di tutte le altre filosofie
dualistiche, trascendenti e finalistiche, contempla chiaramente un verticalismo
zooantropologico, cioè una scala naturae. Il saggio pitagorico, infatti, riesce a mantenersi
“puro” sul piano morale quando si stacca dal corpo per restare al livello dello spirito: il non
mangiar carne gli garantisce che non scenderà ad un livello “basso” rappresentato dalla
violenza causata dal suo potenziale distruggere, con l’alimentazione carnea, l’anima di un
altro animale che in una vita passata sarà stato uomo e che certamente uomo ritornerà. La
garanzia che per lui esista questa “scala” di merito tra gli animali, con quello umano
saldamente al vertice, emerge bene dalle parole di Sozione, quando dice: “Ti sottraggo
(proponendoti un’alimentazione vegetariana) dai cibi di cui si nutrono i leoni e gli avvoltoi”.
Se per questi ultimi il valore simbolico negativo è ricorrente - anche a livello interculturale -
dato che si nutrono di cadaveri, interessante notare come il leone, normalmente immagine di
forza, rappresenti invece, per il maestro pitagorico di Seneca, l’immagine del “bruto”. Si
tratta, infatti, di un predatore, carnivoro e violento per eccellenza. A conferma che, per lui (e
per il giovane Seneca), astenersi dalla carne = astenersi dalla violenza.
Approfondendo ulteriormente i motivi vegetariani del giovane Seneca e quindi
l’argomentazione etica di Sozione al riguardo, la stessa epistola 108 ci restituisce
un’ulteriore significativa testimonianza. La violenza insita nel mangiar carne appare tanto
più grave quando si associa alla voluptas del corpo. Stavolta l’opinione è di Sestio, altro
maestro di Seneca. Su Sestio egli ci dice, brevemente, che:
“Costui riteneva che l’uomo avesse abbastanza per nutrirsi anche senza spargere sangue, e
che divenisse un’abitudine di crudeltà lo squarciare gli animali per il piacere della gola.
Aggiungeva poi che bisogna limitare gli incentivi alla dissolutezza; concludeva che gli
alimenti di varia qualità sono contrari alla salute e dannosi al nostro corpo” (traduzione M.
Natali, con adattamenti).
Hic homini satis alimentorum citra sanguinem esse credebat et crudelitatis consuetudinem
fieri ubi in voluptatem esset
3 adducta laceratio. Adiciebat contrahendam materiam esse luxuriae;
colligebat bonae valetudini contraria esse alimenta
5 varia et nostris aliena corporibus.

Note al testo. -riga 1: hic homini ecc., costruisci: hic credebat homini esse satis alimentorum
citra sanguinem, lett. ‘questo [= Sestio] credeva che all’uomo fossero [cioè: ‘l’uomo
avesse’] abbastanza di alimenti [gen. partitivo = ‘abbastanza alimenti’] al di là del sangue’.
–riga 2-3: et crudelitatis ecc., costruisci: et (credebat), ubi laceratio adducta esset in
voluptatem, fieri consuetudinem crudelitatis; lett. ‘e (credeva) che dove la macellazione
fosse stata rivolta al piacere, si trattasse di [lett. ‘venisse ad esser fatta’, ‘accadesse’, inf.
pres. fio] un’abitudine di crudeltà’. –riga 3: adiciebat...luxuriae; costruisci: adiciebat
contrahendam esse materia luxuriae, lett. ‘aggiungeva (che) doveva essere ridotta la materia
alla dissolutezza’; contrahendam materiam esse = perifrastica passiva (lett. ‘(che) la materia
fosse da ridurre’) dipendente da adiciebat. –riga 4-5: colligebat alimenta varia esse
contraria bonae valetudini et aliena nostris corporibus, lett. ‘concludeva (che) gli alimenti
vari fossero contrari alla buona salute ed estranei ai nostri corpi’.

Commento. La motivazione vegetariana di Sozione riguarda, come si vede, non solo la


violenza praticata con ogni singolo atto di macellazione (ma il termine senecano laceratio
suona ancora più crudo), ma anche il fatto che la ripetizione dell’atto per un fine che è
soltanto il piacere della gola ingenera una “abitudine allo spargimento di sangue” (=
crudelitas; si noti che il termine senecano ha la stessa radice di cruor, ōris, cioè ‘sangue
versato’, ‘sangue che esce da un corpo’, laddove sanguis indica sia quest’ultimo che quello
che circola all’interno).
Sozione critica dunque la violenza che nasce dal mangiare carne in eccesso e per puro
piacere, ciò che produce solo un aumento della propria dissolutezza. E questo proprio
perché la violenza diventa un’abitudine, quindi qualcosa cui non si bada più. Il punto è
anzitutto che, nella visione dualistica tipica dello stoicismo, la violenza avvicina al corpo e
distoglie dalla ragione, dal lògos. E se si diventa impermeabili alla violenza sugli altri
animali, questa impermeabilità non può che riflettersi sulla violenza compiuta dall’essere
umano contro l’essere umano. Viceversa, la dieta vegetariana distoglie, oltre che dall’atto
violento in sé di uccidere un animale, dal pericolo estremo di contrarre l’abitudine alla
violenza; quest’ultima impedirebbe per sempre al saggio stoico di “partecipare” alla ratio in
cui crede.
In questo eccesso di lusso (luxuria) rientra la polemica contro una dieta eccessivamente
varia. Tale è infatti la posizione dei ricchi romani dell’età di Seneca, che mangiano
prelibatezze su prelibatezze perdendone, per l’eccesso di cibo, anche il gusto. Come
abbiamo appena visto, lo stesso Sozione aveva addirittura teorizzato il danno al corpo
umano causato da un’alimentazione eccessivamente diversificata.
Così il giovane Seneca diviene vegetariano, salvo poi staccarsi da questa pratica per ragioni
molto contingenti: l’imperatore Tiberio, gli ultimi anni di principato del quale sono
caratterizzati da una ossessione contro gli attentati e gli intrighi di palazzo, giudica
pericoloso tutto ciò che può minare il proprio ruolo e la propria immagine personale.

Potrebbero piacerti anche