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LEZIONE 15

EPODI 16, 25-34 NOTE

Note (continua): –riga 3: neu conversa ecc. costruisci: neu pigeat (sott. nos) dare lintea
conversa domum, lett. ‘o né ci vergogniamo di dare le vele rivolte verso la patria’;
neu=neve, lett. ‘o non’; pigeat, pres. cong. 3a p. dall’impersonale piget ‘vergognarsi’; dare
lintea. lett. ‘dare lini’; linteum,i =’lino’, con cui erano fatte le vele, quindi ‘salpare’;
conversa, prt. perf. di converto ‘rivolgere’, lett. ‘rivolte’; domum ‘verso la patria’ (lett.
‘verso casa’). –riga 4: Padus ecc.: costruisci: quando Padus laverit Matina cacumina, lett.
‘quando il Po avrà lavato le Matine cime’; Matinus,a,um ‘del Matino’, montagna del
Gargano (oggi Mattinata); cacumina, da cacumen ‘cima’. –riga 5: in mare ecc.: costruisci:
seu (=vel si) celsus Appenninus procurrerit in mare, lett. ‘o se l’altissimo Appennino si sarà
gettato verso il mare’; procurrerit, fut. ant. 3a s. da procurro, lett. ‘correre in avanti’. –riga
6: novaque ecc. costruisci: et (=-que) mirus amor iunxerit novā libidine monstra, lett. ‘e uno
stupefacente amore avrà fatto accoppiare con un’inusitata libidine dei mostri’; novus,a,um
‘inusitato’, qui sinonimo di mirus,a,um ‘meraviglioso’; iunxerit, fut. ant. da iungo, lett.
‘avrà congiunto’; iuvet ut ecc. costruisci: ut iuvet tigris subsidere cervis, lett: ‘cosicché [ut
consecutivo] piaccia alle tigri sottoporsi ai cervi’; subsidere, lett. ‘star sotto’, qui in senso
sessuale. –riga 8: aldulterētur ecc. costruisci: et columba milvo adulteretur, lett. ‘e la
colomba sia adulterata con il nibbio’; adulterare = ‘commettere adulterio’ e anche
‘adulterare, contraffare’: la colomba era simbolo di placidità, mentre il nibbio di violenza
(continua).
–riga 9: credula ecc. costruisci: nec armenta, credula, timeant ravos leones, lett. ‘né le
mandrie, fiduciose [nella bontà dei leoni], temano i fulvi leoni’. –riga 10: ametque ecc.:
costruisci: et [ -que] levis hircus amet salsa aequora, lett. ‘e, privo di peli, il caprone ami i
salati mari’; lēvis, lett. ‘liscio’. salsa aequora, lett. ‘salate pianure’, metafora usata
tipicamente per il mare.
Commento. Di nuovo, siamo di fronte ad un adýnaton di conversio naturae usato in modo
tradizionale. Come Virgilio, anche Orazio ribalta l’ordine naturale per creare un paradosso a
cui rapportare una situazione umana proiettata nel futuro. Nel caso di Virgilio si trattava di
garantire che il nome di un benefattore così importante come (molto probabilmente)
Augusto non sarebbe mai stato dimenticato; qui, nel passo di Orazio appena letto, la
garanzia sul futuro umano è legata ad un proposito tradotto addirittura in giuramento: i
romani, se le guerre civili continuano così, abbandoneranno la propria patria per non
tornarvi mai più.
Se adesso riprendiamo l’adýnaton di conversio naturae usato da Lucrezio ci possiamo
rendere ben conto della differenza. Anzitutto il poeta del De Rerum Natura non usa
l’adýnaton per proiettarlo nel futuro ma nel passato; e che passato!, visto che si tratta
proprio dell’origine della vita sulla terra.
L’ADYNATON LUCREZIANO

In secondo luogo Lucrezio usa il suo adýnaton in riferimento ad una situazione paradossale
di “ribaltamento della natura” le cui conseguenze non riguardano solo l’essere umano, ma
tutti gli altri organismi, animali e vegetali, cioè la vita sulla terra. Quindi il suo uso
dell’adýnaton cessa di essere “allegorico” per farsi “letterale”: cioè non si usa il
ribaltamento della natura per sviluppare un paradosso da applicare ad una situazione “altra”,
che con la prima non ha alcuno legame (ad es. il ricordo di un benefattore, o un giuramento
di carattere politico), ma un paradosso tanto più “paradossale” perché ha come obiettivo
proprio la natura stessa. Il lettore dell’epoca doveva rimanere particolarmente colpito da
quest’uso lucreziano: la vera “inversione naturale” è infatti quella che riguarda la natura
stessa, quando si prenda sul serio la teoria delle cose “che si creano dal nulla”. Ciò avrà
ancor più accresciuto l’impatto sul lettore romano di un’argomentazione così controcorrente
o, come la definisce Tutrone, di “carattere fortemente antitradizionalista” rispetto ai rapporti
essere umano-natura, come quella presentata dal nostro poeta/filosofo. Il suo uso
dell’adýnaton, infatti, riguarda sia le basi fisiche della concezione epicurea della realtà
(“nulla si crea dal nulla”) sia le implicazioni di questo principio sulla possibilità che allora
un dio abbia creato il mondo in cui viviamo (una concezione, si ricordi, che non caratterizza
solo la concezione cosmologica di religioni contemporanee come, ad esempio le tre
religioni “rivelate”, ebraismo, cristianesimo e islamismo, ma che era molto diffusa nella
stessa visione religiosa greco-romana).

LEZIONE 16
ORIZZONTALISMO VS VERTICALISMO
Si tratta dunque, per l’uso che Lucrezio fa di questa figura retorica in DRN 1, 155-166, di
una autentica conversio naturae, ovvero “inversione (o ribaltamento) naturale”. Nel passo
citato il poeta riprende le tre sfere naturali fondamentali, mare, terra e cielo, che aveva
presentato nel proemio, ma stavolta considerandole per il loro valore in sé, senza aggettivi
celebrativi (cfr., ai vv. 2- 3, mare navigerum, terra frugiferens).
Ancora una nota sull’anticreazionismo lucreziano. Avevamo appena parlato di come la sua
(e di Epicuro) concezione della realtà fisica fosse antitradizionalista. Tutrone nota come
questa “visione intellettuale delle strutture cosmico-fisiche non si limiti ad attaccare
criticamente la tradizionale impostazione gerarchica e provvidenzialista dell’universo
vivente, ma getti coraggiosamente le fondamenta di un paradigma alternativo altrettanto
ordinato” (p. 45). Questa tradizione che Lucrezio attacca, e non per puro spirito polemico,
ma per opporre una visione che egli ritiene più fondata fisicamente e soprattutto più utile dal
punto di vista degli obiettivi della filosofia, non è tanto la visione religiosa dei romani tout
court, ma quella filosofico-religiosa, ed in particolare quella portata avanti da una filosofia
che aveva raggiunto un peso altrettanto potente nella cultura romana contemporanea,
almeno negli strati sociali più alti della. Il riferimento è naturalmente alla visione
verticalistica degli Stoici, ovvero alla loro particolare interpretazione dell’idea di scala
naturae.
- SCALA NATURAE

Si tratta della concezione secondo cui gli organismi viventi sono disposti in una scala, dal
più elementare ed imperfetto al più complesso e perfetto: al vertice, naturalmente, la nostra
specie. Quest’idea ha una storia molto lunga nel pensiero occidentale ed è ancora
profondamente vitale nella nostra cultura. Essa presuppone una visione creazionista della
natura e quindi profondamente connessa con quella cornice interpretativa della realtà
tipica di ogni cultura umana (tanto da essere considerata un universale umano) che è la
religione. Come ha detto per primo il socio-antropologo francese Émile Durkheim, la
religione è da considerarsi uno strumento fondamentale per l’identità e quindi l’unità di un
gruppo. Ad esempio l’essere umano costruisce la propria cosmologia ad immagine della
propria società: gli dei insomma rappresentano una metafora dell’ordine sociale. Quando
non è così è solo perché (come nel caso, ad esempio, del monoteismo ebraico) l’insieme di
valori e di idee con cui il gruppo umano fornisce a se stesso uno schema interpretativo
tanto onnicomprensivo come quello religioso, è così capillare da integrarsi nella gestione
non solo idealistica ma anche ideologica (cioè politica) del gruppo, tanto da protrarsi nei
secoli, o, anche, nei millenni, fondendosi quindi con il profondo, inevitabile, mutare delle
strutture sociali proprie del gruppo stesso. La scala naturae non si trova con la stessa forza
in ogni sistema religioso. Ma sono sicuramente rari i casi a livello interculturale in cui
questa visione degli esseri viventi sia del tutto assente. Dove si impone risulta uno schema
connaturato alla stessa visione metafisica del reale: se un dio più potente di noi ha creato
quest’ultimo, lo ha fatto per noi e quindi noi rappresentiamo, nel gruppo dei viventi,
l’obiettivo della sua creazione. Saremo perciò i “beniamini” della natura. Ovvero, il mondo
naturale è al nostro servizio.Come vedremo quando parleremo della zooantropologia di
Seneca, l’idea dell’essere umano come “beniamino della natura” è tipica proprio del
provvidenzialismo stoico.

Tornando a Lucrezio, egli, osteggiando questa idea verticalistica e contrapponendole quella


che Tutrone definisce una visione “orizzontalistica” degli esseri viventi, non combatte tanto
una filosofia/religione, ma cerca di fondarne un’altra, che ha lo stesso scopo di quella
stoica, ma è basata sulla conoscenza delle leggi naturali e sulla possibilità, aperta a tutti,
di scoprirne le verità osservandone attentamente i fenomeni. Non, quindi, una cosmologia
nascosta e paurosa, tipicamente appannaggio di pochi, ma aperta a tutti (si ricordi che
l’epicureismo è la prima filosofia che apre non solo alle donne, ma anche agli schiavi);
insomma aperta anche, in un certo senso, agli animali.
- LEZIONE 17
DRN 1, 248-264
La forza di questa visione orizzontalistica degli esseri viventi viene ribadita da Lucrezio in
uno splendido passo “naturalistico”, sempre dal libro I, in cui l’autore torna al tema
dell’eterna autogenerazione delle cose presentando la sua idea: una pars construens che si
oppone al provvidenzialismo creazionista insito nella scala naturae stoica, con una
spiegazione di carattere fisico di impressionante vicinanza al principio del “nulla si crea e
nulla si distrugge”. Il passo in questione è DRN I, 248-264 (trad. G. Milanese, con
adattamenti):

“E così non al nulla ritornano tutte le cose, ma ognuna per


dissolvimento ritorna ai corpi della materia.
Infine: muoion le piogge quando il padre Cielo nel
grembo della madre terra le ha fatte cadere;
5 ma sorgono messi fiorenti, si coprono i rami di verde
sugli alberi, e crescono anch’essi, diventano gravi di frutti; per ciò
s’alimentano la specie nostra e quelle degli animali, per ciò vediamo
le città fiorire feconde di bimbi,
e per uccelli or or nati suonar, d’ogni parte, le selve frondose;
10 per ciò, affaticate dal grasso, nei pascoli lieti le pecore adagiano i corpi, e il
candido umore del latte
goccia da poppe rigonfie; per ciò nuova prole su
zampe gracili tra l’erba tenera, scatenata gioca,
colpita, la mente bambina, dal puro latte.
15 E dunque non completamente periscono tutte le
cose che vediamo, poiché cosa da cosa alimenta Natura, né alcun oggetto
permette che nasca, se non aiutato da morte di un altro”.

1 Haud igitur redit ad nihilum res ulla, sed omnes


discidio redeunt in corpora materiai.
postremo pereunt imbres, ubi eos pater aether in gremium
matris terrai praecipitavit;
5 at nitidae surgunt fruges ramique virescunt arboribus,
crescunt ipsae fetuque gravantur. hinc alĭtur porro
nostrum genus atque ferarum, hinc laetas urbes pueris
florere videmus
frondiferasque novis avibus canere undique silvas,

10 hinc fessae
pecŭdes pingui per pabula
laeta corpora deponunt et candens lacteus umor
uberibus manat distentis, hinc nova proles
artubus infirmis teneras lasciva per herbas ludit
lacte mero mentes perculsa novellas.
15 haud igitur penitus pereunt quaecumque videntur, quando
alid ex alio refĭcit natura nec ullam rem gigni patĭtur nisi
morte adiūta alienā.

- NOTE

Note al testo: -riga 1: haud ecc. costruisci: igitur haud ulla res ad nihilum redit, lett. ‘dunque
non alcuna cosa [= niente] al niente ritorna’, cioè ‘dunque niente ritorna al niente’. Igitur
‘dunque’, si riferisce all prova che Lucrezio ha fornito nel passo precedente ed introduce un
passaggio logico normalmente tipico della prosa e non della poesia: ma del resto la sua è
filosofia in poesia. –riga 2: sed omnes ecc.. ‘ma tutte per dissolvimento tornano nei corpi della
materia’; discidio, abl. s. di discidium, da di + scindo ’scindere, spaccare’, lett. ‘scissione’,
‘spaccamento’. corpora materiai, lett. ‘corpi della materia’; materiai è una forma bisillabica
arcaica del genitivo materiae. Arcaismi di questo tipo sono molto frequenti in Lucrezio e si
attribuiscono alla volontà di elevare il tono o quella di creare parole tecniche usando un lessico
comune. In questo caso, infatti, per corpora materiai si intendono gli atomi, nozione centrale
nella fisica epicurea. –riga 3: postremo pereunt imbres ‘infine [rispetto agli esempi fatti prima,
che qui non abbiamo citato] muoiono le piogge’; pereunt, 3a pl. pres. ind. di pereo ‘perisco’;
ubi ecc. lett. ‘quando il padre cielo nel grembo della madre terra le fece precipitare’. La
credenza nel matrimonio di cielo e terra era diffusa anche a Roma. –riga 5: At, lett. ‘ma’, però
nel senso di ‘eppure’ o ‘nonostante ciò’, come testimonia il seguito della frase nitidae…
arboribus: lett. ‘chiare sorgono le messi ed i rami inverdiscono sugli alberi’; virescunt 3a p. pl.
pr. ind. di viresco, verbo incoativo, derivato di vireo ‘esser verde’, cioè ‘cominciare ad esser
verde’.
–riga 6: crescunt ecc., lett. ‘crescono esse stesse (ipsae) e di prole si appesantiscono
(gravantur, cfr. gravis,e ‘pesante’)’; fetu, abl. di fetus, us ‘progenie, prole’ (qui = ‘germogli’). –
riga 7: hinc ecc. lett. ‘da qui è alimentato il nostro genere e quello degli animali’; hinc, avv. di
moto da luogo, lett. ‘da qui’, ma non riferito a quello che precede, cioè nel senso di ‘grazie alle
messi e agli alberi’, ma ‘grazie all’unione di cielo e terra, alla caduta delle piogge’; alĭtur pres.
ind. 3a sing. da alo ‘nutrire, alimentare’, lett. ‘è nutrito’. porro, avv., lett. ‘a sua volta’. –riga 8:
hinc laetas ecc., costruisci: hinc vidēmus florēre urbes laetas pueris; lett. ‘da qui vediamo le
città fiorire feconde (laetas) di fanciulli’.
–riga 9: costruisci: et (sott. hinc videmus ) frondiferas silvas undĭque canĕre novis avibus, lett.
‘e (da qui vediamo) frondosi boschi ovunque risuonare di giovani uccelli’; canĕre, inf. pres.
ind. di cano ‘cantare, suonare’, qui significa ‘risuonare’ e regge l’ablativo novis avibus. lett.
‘nuovi uccelli’. –riga 10: costruisci: hinc pecudes, fessae pingui, deponunt corpora per laeta
pabula, lett. ‘da qui [=grazie a ciò] le pecore stanche [=appesantite] per il [proprio] grasso
depongono i loro corpi nei fecondi pascoli’; pingui, abl. sing. di pingue, is, ‘grasso’ sostantivo
derivato dall’agg. pinguis,e ‘grasso’; riga 10-11: et candens ecc, costruisci: et lacteus umor,
candens, manat distentis uberibus, lett. ‘e il latteo liquido, biancheggiante, promana dalle tese
mammelle’; candens , part. pres. da candesco ‘essere candido’ (cfr. candidus,a,um).
- LEZIONE 18
DRN 1, 248-264
–riga 12-14: hinc nova proles ecc. costruisci: hinc nova proles, lasciva, ludit infirmis artubus
per teneras herbas, perculsa mentes novellas lacte mero; e cioè: ‘da qui [=grazie a ciò] la nuova
prole, giocherellona, gioca su zampe instabili sulle [lett. ‘per le’] tenere erbe, colpita nelle
menti giovanili dal latte puro’; infirmis artubus lett. ‘(con, su) instabili arti’, artubus è abl. pl.
da artus,us ‘arto’; lascīva ‘giocherellona’; perculsa part. pf. neutro da percello, is, culi, culsum,
ere ‘colpire’, quindi ‘colpite’; mentes novellas è acc. di relazione, lett. ‘quanto alle menti
giovinette’; novellas, diminutivo di novus,a,um, nel senso di ‘giovane’, ‘recente’. –riga 15:
haud igitur: Lucrezio ripete lo stesso sintagma utilizzato all’inizio del passo, ma qui
praticamente riassume in una sententia (cioè una “frase sintentica che deve colpire”) tutto
quello che ha detto finora: al lettore va lasciato il tempo di riprendere e fissare tutti questi
passaggi; lett. ‘dunque non del tutto (avv. penĭtus, lett. ‘a fondo’) periscono tutte le cose che
sono viste’; videntur, ind. pres. 3a. pl. pass. di video ‘vedere’; quaecumque, lett. ‘qualunque
cosa’, nom. neut. pl.; -riga 16-17: costruisci: quando alid ex alio reficit natura nec patitur ullam
rem gigni; quando, qui ha valore causale ‘poiché’; alid ex alio; alid, forma arcaica per aliud;
lett. ‘l’uno dall’altro’; refĭcit ‘da re-facio, lett. ’rifà’, ‘ricostruisce’, ‘ripara’; gigni, inf. pass.
gigno, lett. ‘essere generato’; patĭtur ‘tollera’, regge gigni; nisi morte ecc., costruisci: nisi
adiută alienā morte; traduci tutto: ‘poiché l’uno dall’altro la natura ricostruisce e non permette
che alcuna cosa sia generata se non aiutata da morte altrui’.

- UN FALSO IDILLIO
Il passo è delimitato da un doppio uso di haud igitur (versi 1 e 15), nesso tipico del periodare
discorsivo della prosa che spiega e collega questo brano ai precedenti per evidenziarne la
consequenzialità logica (“dunque non”). Protagonista è apparentemente un “quadretto” (gr.
eidùllion) della natura i cui protagonisti sono piante e animali, con una prevalenza, in termini
di spazio dedicato dal poeta, di questi ultimi. A prima vista, con gli agnellini che zampettano
“giocherelloni” per i teneri prati, il latte che “biancheggiante scende dalle mammelle tese”, i
“fecondi pascoli” ecc. sembra di trovarsi di fronte proprio ad una scena “idilliaca”, di quelle
tipiche della poesia di genere bucolico (il cui maestro, il greco Teocrito, aveva intitolato per
l’appunto “idilli” i suoi poemetti). Ma la vita vegetale e quella animale qui non appaiono,
come giustamente nota Tutrone (pag. 50), in un’ottica disincantata o come pura scenografia,
benché Lucrezio cerchi di portare di proposito il lettore verso un’atmosfera tipicamente
bucolica. Ma il poeta riscrive quest’atmosfera portandola fuori da ogni stilizzazione, e ne
utilizza la bellezza e la popolarità, proprio per marcare un salto importante compiuto dalla
visione del mondo epicureo-lucreziana: l’“assoluta parità cosmologica fra uomo e animale”
(Tutrone, cit.).
I punti stilistico-contenutistici del nostro passo dove più forte appare il ribadire di questa
nozione, fondamentale in tutta l’architettura del De Rerum Natura, sono due.
Il primo punto si trova alla riga 7. Qui Lucrezio accosta in un modo che risulta
straordinariamente ardito nella sua totale naturalezza (ad evidenziare la forza ideologica che
guida il poeta) da un lato la nostra specie (nostrum genus), dall’altro quella degli animali
(genus ferarum). Il poeta dice semplicemente: “da qui (cioè dall’unione di cielo e terra e dalla
caduta delle piogge, dal loro riciclarsi continuo) è alimentato il nostro genere e quello degli
animali”. Entrambi hanno cioè la stessa nascita e la stessa origine biologica. Non solo. La
parità tra i due status, e la sostanziale realizzazione che l’uno (l’essere umano) partecipa
all’insieme dell’altro (quello gli altri animali) viene enfatizzata sia attraverso la figura retorica
della climax (‘scala’ in greco) cioè l’escalation dei toni (che termina alla riga 14), sia attraverso
l’anafora di hinc. Il punto chiave della escalation sono le righe 8-9, in cui vengono poste
esattamente sullo stesso piano il “fiorire” di quello che per la mentalità greco-romana
rappresenta l’apice della civiltà umana (tanto da dare il nome alla stessa parola “civiltà”), cioè
la città (civitas) e lo stato di cittadino (civis); immediatamente seguito (riga 9), dal rigoglio
delle selve che risuonano di giovani nidiate; queste ultime rappresentate invece, in tutta la
produzione poetica latina, come apice della dimensione selvatica, dello stato non-umano.
Fondamentale, in questa operazione di collante poetico-filosofico tra le due sfere, la metafora
del florēre ‘fiorire’, che vale per il rigoglio dei piccoli di uomo nelle città e per quelle città
alternative che sono le silvae: i bambini, futuri cittadini, come i pulcini, futuri “cittadini” dei
boschi (o, viceversa, i bambini futuri “pulcini” delle città).

LEZIONE 19
UN FALSO IDILLIO
Continuiamo con l’analisi del passo. Stavamo parlando della climax che, enfatizzata dall’uso ripetuto
dell’anafora hinc (righe 1, 7, 8, 10), serve a sottolineare la zooantropologia orizzontalistica di
Lucrezio. Avevamo appena segnalato la centralità della metafora costituita dal verbo florere (lett.
‘fiorire’, ma qui ‘essere in rigoglio’) alla riga 8 e la giustapposizione di “piccoli d’uomo” nelle città e
piccoli di uccello nei boschi. Fondamentale sottolineare come non si tratti di una analogia dove una
delle due dimensioni è più forte e si impone sull’altra: Lucrezio sta ben attento a non usare un
linguaggio connotativo che possa marcare una qualche superiorità (ad es., nel caso in cui Lucrezio
avesse usato una metafora tale da indicare i piccoli di uccello come “piccoli cittadini del bosco”, la
sfera umana avrebbe dominato quella ornitologica). La sua descrizione è infatti prevalentemente
denotativa, cioè evita l’uso delle connotazioni metaforiche per privilegiare il senso letterale (o, in
termini più tecnici, denotativo) delle parole. L’unica eccezione è rappresentata dal fondamentale verbo
florere, che attinge da una sfera non animale ma vegetale, quindi, di nuovo, “naturale” per eccellenza.
Ma la rappresentazione dell’orizzontalità zooantropologica attraverso il “quadretto” dei
diversi “rigogli” della natura da lui presentato nel passo (un quadretto naturale che possiamo
chiamare “falso idillio”) non si limita ad esseri umani ed uccelli.
- ORIZZONTALISMO COGNITIVO
La parte del leone la fanno, infatti, come spesso in Lucrezio, i mammiferi, ed in particolare i
quadrupedi d’allevamento: il terzo hinc della successione anaforica che marca la climax
introduce infatti il quadretto delle pecore “grasse” (ma il riferimento, più che al grasso in sé,
sarà al folto vello lanoso che le fa apparire “grasse”) ed agli agnellini “giocherelloni” che
saltellano sulla “tenera erbetta”, sempre dipendenti dalle “tese mammelle” delle madri da cui
“sgorga candido latte” ecc. Come si vede Lucrezio regala il massimo spazio a questa
rappresentazione, molto più che a quelle dei piccoli d’uomo e dei piccoli di uccello. Il punto
chiave di questa seconda parte del passo, che sicuramente avrà colpito anche il lettore
moderno, si trova alla riga 14. Se prima, nell’analogia bambini vs. uccellini, l’elemento in
comune riguardava la dimensione spaziale (le città poste in parallelo alle selve e viceversa),
questa volta l’ardire di Lucrezio si spinge addirittura sulle capacità cognitive. Alla riga 14,
egli dice infatti, letteralmente, che le “menti (mentes) giovanili sono colpite dal latte puro”,
con riferimento al fatto, che può celare una credenza di folclore, che il latte ha letteralmente
“dato alla testa” ai piccoli agnellini, facendoli scorrazzare e zampettare ovunque. Questo
“scarto” compiuto da Lucrezio rispetto alla nozione comune ai suoi (come ai nostri!) tempi,
rappresenta un salto davvero molto grande, ed importante.
Infatti, uno dei cardini su cui si basa l’idea della superiorità dell’essere umano sulle altre
specie animali, sempre nell’ottica verticalistica della visione che abbiamo chiamato scala
naturae, è tipicamente quello rappresentata dalla sfera cognitiva: l’essere umano è “dotato di
ragione, gli altri animali no”. E si noti che il termine mente (mens, mentis) denota in latino sia
quella che per noi è la “coscienza”, legata alla capacità morale di distinguere bene e male
(Cicerone è pieno di esempi in questo senso); sia, come ci si aspetta, le “facoltà intellettuali”,
con tutte le sfumature possibili che il termine comporta; tanto che, addirittura, un terzo uso di
mens in latino indica, metonimicamente, “l’intenzione”, cioè il “progetto”, il “piano” (cfr.
l’espressione accipere mentem alicuius, lett. ‘accettare la mente di qualcuno’, ma in effetti
‘accettare l’intenzione, il progetto di qualcuno’. Così, ad es. in Virgilio, Eneide, 1, 676).
Nessun dubbio, insomma, che l’uso di mens attribuito agli agnellini segni un passo molto forte
compiuto da Lucrezio in quell’ottica antitradizionalista su cui egli vuole in realtà, come
dimostra l’impianto stilistico oltre che contenutistico del suo poema, costruire una nuova
tradizione (naturalmente di stampo epicureo). Non solo infatti Lucrezio, attribuirebbe una
capacità cognitiva “piena” alle pecore, ma anche una capacità “intenzionale” forte (il che si
contrappone, in modo eclatante, alle metafore condotte sulla pecora nella nostra cultura, dove
“essere dei pecoroni” significa ‘seguire il branco mettendo totalmente da parte la propria
intenzionalità’).
Questo, per Lucrezio, non significa che gli agnellini abbiano naturalmente proprio la stessa
mens degli esseri umani. Significa invece che anch’essi (e altri animali non umani ad essi
paragonabili) hanno, coerentemente con quelli che sono i loro bisogni, una mens, cioè una
capacità razionale/intenzionale. Anch’essi, come noi, e gli altri animali, sono infatti figli dello
stesso principio vitale che muove, domina e ha plasmato, con i suoi meccanismi, tutte le cose
viventi. Non c’è dunque da stupirsi delle somiglianze; ci si dovrebbe piuttosto stupire se
l’essere umano fosse realmente diverso dagli altri animali.
È notevole notare come Lucrezio ponga il passo della mens degli agnelli alla fine della climax
e immediatamente prima della sententia finale che chiude questo brano stra-ordinario; una
posizione, dunque, indubbiamente rilevante.
A proposito della sententia finale, si tratta, come detto nelle note al testo, di una “frase
sintentica che deve colpire”: una figura stilistica che i romani usano molto non tanto nella
poesia, quanto nella prosa. Tuttavia, come visto, Lucrezio usa spesso connettori logici tipici
della prosa (cfr., ad esempio, lo stesso haud igitur usato nel brano analizzato). Il che non ci
stupisce, dato il contenuto didattico-didascalico dell’opera. Tornando alla sententia finale,
Lucrezio vi ribadisce il principio della fisica epicureo-democritea che “nulla si crea dal
nulla” e per fissarvi l’attenzione del lettore, ricorre ad un’altra figura stilistica: stavolta
l’allitterazione penitus pereunt (parole entrambe comincianti con il suono pe-).

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