Sei sulla pagina 1di 13

EP 110, 12

Ma torniamo ai danni derivanti da una dieta carnea troppo varia. Per Seneca, a
differenza di Sozione, si tratterà esclusivamente di danni morali più che di danni fisici.
Ecco ancora cosa ha da dire il nostro filosofo a questo proposito nell’epistola a Lucilio
numero 110 (par. 12):

“Non fai niente di eccezionale perché riesci a vivere senza pompa regale, perché non
desideri cinghiali di mille libbre o lingue di fenicottero o altre invenzioni della
dissolutezza, che ormai ha nausea degli animali interi e di ciascuno di essi sceglie
determinate parti; potrò ammirarti se disprezzerai anche il pane nero, se ti convincerai
che l’erba, se è necessario, spunta non solo per le bestie, ma anche per l’uomo, se capirai
che i germogli degli alberi possono riempire il nostro ventre, nel quale accumuliamo cibi
molto costosi come se esso conservasse quello che riceve” (trad. M. Natali, con
adattamenti).
Non magnam rem facis quod vivere sine regio apparatu potes,
quod non desideras milliarios apros nec linguas
phoenicopterorum et alia portenta luxuriae
3 iam tota animalia fastidientis et certa membra ex singulis eligentis:
tunc te admirabor si contempseris etiam sordidum panem, si tibi
persuaseris herbam, ubi necesse est, non pecori tantum sed homini
nasci, si scieris cacumina arborum explementum esse
5 ventris in quem sic pretiosa congerimus tamquam recepta servantem.

Note al testo. –riga 1: non magnam ecc. costruisci: non facis magnam rem quod potes
vivere sine regio apparatu, lett. ‘non fai una grande cosa perché puoi vivere senza il
lusso di un re [lett. ‘senza un lusso regale’]. –riga 2: apros milliarios, lett. ‘cinghiali da
mille (sott. libbre)’. –riga 2-3: et…membra, costruisci: et alia portenta luxuriae iam
fastidientis tota animalia et eligentis ex singulis [sott. animalibus] certa membra, lett. ‘ed
altre manifestazioni (portenta) di una dissolutezza (che) ormai ha nausea per
[fastidientis, part. pres. gen. di fastidīre ‘avere nausea per’] tutti gli animali e (che)
sceglie da ognuno [lett. ‘da singoli (animali)’] delle determinate parti’. –riga 3-4:
tunc...panem, costruisci: te admirabor tunc: si contempseris etiam panem sordidum, lett.
‘ti ammirerò allora: se avrai disprezzato [2a sing. fut. ant. di contemno] anche il pane
grossolano [= ‘anche il peggiore dei pani’, cioè ‘il pane in quanto tale, da qualsiasi
farina esso venga prodotto’]’. – riga 4-5: si…nasci, costruisci: si tibi persuaseris, ubi est
necesse, herbam non nasci tantum pecori sed (etiam) homini, lett. ‘se ti sarai persuaso
[2a sing. fut. ant. di persuadeo] che, dov’è necessario, l’erba non nasce solo per il
bestiame ma anche per l’essere umano’. –riga 4-5: si scieris…servantem, costruisci: si
scieris cacumina arborum esse explementum ventris in quem congerimus [alimenta]
sic pretiosa tamquam servantem recepta, lett. ‘si ti sarai reso conto [lett. ‘se avrai s
aputo’, 2a sing. fut. ant. scio] (che) i germogli [lett. ‘le cime’] degli alberi sono un
riempimento dello stomaco [= ‘un modo per riempire lo stomaco’] nel quale
ammassiamo (alimenti) così preziosi come se conservasse [lett. ‘(fosse) conservante’]
ciò che riceve [part. pf. Recipio ].
Commento. Anche se il punto di vista senecano è filosoficamente improntato ad un
“umanesimo antropocentrico”, è chiaro che in questo caso (non isolato) l’ideale ascetico
lo porta su posizioni senza dubbio “animaliste”. La lussuria che trabocca da questo
quadro di banchetti d’età imperiale lega la dissoluzione morale umana (vero obiettivo
dell’epistola di Seneca) a quello delle bestie strappate all’ordine naturale: i cinghiali
costretti ad ingrassare fino a raggiungere le mille libbre, o l’uccisione di fenicotteri di cui
si consuma solo la lingua. Nel codice morale del filosofo stoico si tratta di aberrazioni. La
costruzione, infatti, di un essere umano consapevole e moralmente irreprensibile deve
comportare l’adozione di un codice di comportamento teso al rispetto dell’ordine
naturale. Le vite violate degli altri animali per soddisfare il palato umano rappresentano
uno scempio tale da rendere necessario un ritorno, dove necessario, alla dieta alimentare
tipica degli animali erbivori, in cui anche il pane più grossolano verrà ad essere
disprezzato, perché anch’esso figlio di un processo complesso di preparazione (la
riduzione in farina del grano e la relativa cottura) che rientra in questo quadro di
innaturale lussuria alimentare, tanto da rappresentarne una derivazione potenzialmente
pericolosa. Infatti l’obiettivo del saggio stoico è, come si ricorderà, l’autosufficienza (gr.
autàrkeia), la quale è impossibile da raggiungere se non “vivendo secondo natura”. Da
questo punto di vista l’erbivorismo animale rappresenta il massimo dell’autosufficienza.

LEZIONE 31

ALLEVAMENTI
Oltretutto, come avevamo già visto nell’epistola 108, nutrirsi di carne equivale a
partecipare della ferinitas (bestialità) di leoni o avvoltoi. Mettendo insieme le
testimonianze senecane analizzate finora, emerge dunque, da un lato, l’immagine di un
animale erbivoro che rappresenta il sapiente stoico nel suo continuo sforzo di
raggiungere l’autosufficienza e la vita secondo natura (analogia “erbivoro/filosofo”).
Dall’altro quella di un animale carnivoro che rappresenta invece l’essere umano vinto
dall’innaturalità di un lusso alimentare specchio di una corruzione morale dei costumi
tale da capovolgere la natura stessa nell’utilizzo distorto degli animali come fonte di
“sedicenti” leccornìe, assurde esagerazioni come, ad esempio, le lingue di fenicottero
(analogia “carnivoro/dissoluto”). Quindi gli animali servono a Seneca come veicoli
simbolici di due opposti modi di essere tipici degli esseri umani: da un lato il sapiente
illuminato dalla filosofia neopitagorica (ma anche da quella stoica), dall’altro il
crapulone, il vizioso del gusto e dell’alimentazione, che non mangia per vivere ma vive
per mangiare. Così facendo costui proietta la propria mancanza di misura, altrimenti
segno di equilibrio e armonia corpo-mente, su quella di altri esseri viventi che
sottostanno ai suoi desideri. A questo proposito Seneca è straordinariamente esplicito nel
riferirsi ai trattamenti innaturali subiti dagli animali allevati a scopo alimentare e privati
della loro animalità naturale. C’è una serie di epistole a Lucilio centrata proprio sul
problema dell’eccesso di cibo d’origine animale e del modo in cui esso viene procurato
al crapulone, da cui selezioneremo due passi.
EP 122, 4

Ecco il primo, tratto dall’epistola 122.


1 Aves quae conviviis comparantur, ut inmotae facile
pinguescant, in obscuro continentur; ita sine ulla
exercitatione iacentibus tumor pigrum corpus invadit
3 et †superba umbra† iners sagina subcrescit. At istorum corpora qui se

tenebris dicaverunt foeda visuntur, quippe suspectior illis quam morbo


pallentibus
5 color est: languidi et evanidi albent, et in vivis caro morticina est. Hoc
tamen minimum in illis malorum dixerim: quanto plus tenebrarum in
animo est! Ille in se stupet, ille
7 caligat, invidet caecis. Quis umquam oculos tenebrarum causa habuit?

“Gli uccelli destinati ai banchetti, perché, restando immobili, ingrassino facilmente,


vengono tenuti al buio; così, stando fermo, il loro corpo si gonfia e il grasso inerte cresce
sulle loro membra. I corpi di costoro che si sono votati alle tenebre si guardano con
disgusto: hanno un colore più sospetto del pallore di chi è ammalato: sono languidi e
cascanti, senza colore e, pur essendo vivi, la loro carne è da cadaveri. E tuttavia questo è
il minore dei loro mali: come sono più fitte le tenebre della loro anima! È istupidita,
annebbiata, invidia i ciechi. Chi ha mai avuto gli occhi per usarli nel buio?”
Note al testo. –riga 1-2: aves…continentur; costruisci: aves, quae comparantur conviviis,
continentur in obscuro ut pinguescant inmotae, lett. ‘gli uccelli che vengono preparati per
i banchetti, vengono tenuti (insieme) al buio [lett. ‘nell’oscuro’] affinché ingrassino fermi
[lett. ‘non mossi’]. –riga 2: ita…invadit, costruisci: ita, sine ulla exercitatione, tumor
invadit, iacentibus, pigrum corpus, lett. ‘così, senza alcun esercizio (fisico) il
rigonfiamento (tumor [=quello dato dall’accumularsi del grasso]) invade il (loro) pigro
corpo’. –riga 3: †superba umbra† due parole espunte dagli editori in quanto incongruenti
e quasi certamente giunte dalla tradizione manoscritta per errori di un copista; leggi come
fosse: et iners sagīna subcrescit, lett. ‘e l’inerte ingrassamento cresce (lett. ‘cresce da
sotto’, cfr. sub)’. –riga 3-4: at…visuntur, costruisci: at corpora istorum qui se dicaverunt
tenebris visuntur foeda, lett. ‘ma i corpi di coloro che si dedicarono alle tenebre sembrano
schifosi [lett. ‘sono visti (come) schifosi’]’. –riga 4-5: quippe…est, costruisci: quippe illis
color est suspectior quam pallentibus morbo, lett. ‘perché a [=in] loro il colore è più
sospetto che agli [=negli] impallidenti per (una) malattia’. –riga 5: et…morticina,
costruisci: et in (iis) vivis caro est morticīna, lett. ‘e in (loro) vivi la carne è da morti [lett.
‘cadaverina’]. –riga 5-6: hoc…dixerim, costruisci: tamen hoc dixerim minimum malorum
in illis, lett. ‘tuttavia questo (lo) direi [cong. perf. con valore potenziale] il minimo dei
mali in essi’ (continua).
–riga 6: quanto…est, costruisci: quanto plus tenebrarum est in (eorum) animo, lett.
‘quanto più di tenebre ci sono [lett. ‘c’è] nel (loro) animo’; tenebrarum è genitivo partitivo
dipendente dal neutro plus. –riga 6-7: ille…ille, lett. ‘quello…quello’, nel senso di
‘questo…quello, cioè ‘ora…ora’. -riga 6: ille in se stupet, lett. ‘quello [= l’animo] si
stupisce di sé’, cioè ‘sta a fissare meravigliato se stesso’, ‘si instupidisce’. –riga 7: calīgat,
lett. ‘si riempie di caligine’, cioè ‘si annebbia’; invidet caecis, lett. ‘invidia ai [= ‘i’
(invidēre regge il dat.)] ciechi’. –riga 7: quis…habuit, costruisci: quis umquam habuit
oculos causā tenebrarum, lett. ‘chi mai ebbe gli occhi a motivo de [= per] le tenebre’, cioè
‘chi mai ebbe gli occhi per guardare il buio?’.
Commento. Le conseguenze della innaturalità del vitto dei crapuloni si proiettano sulle
aberrazioni perpetrate sugli animali allevati per soddisfarle. Seneca le denuncia in questo
passo che si chiude con una sententia finale risolta in una domanda retorica: “chi mai ha
avuto occhi per guardare nel
buio”? Lo stile di Seneca cerca ed ottiene una forte drammaticità attraverso l’uso di una
climax ascendente che parte dalla descrizione della vita degli animali allevati: una vita di
preparazione alla morte, che è una non-vita, caratterizzata dall’immobilità, e
dall’ingrassamento. Per poi arrivare alla conclusione che si tratta di morti viventi (cfr.
“hanno un colore più sospetto del pallore di chi è ammalato”, “la loro carne è da
cadaveri”). E prima della sententia finale, l’osservazione che la morte evidente nelle
caratteristiche fisiche esteriori dell’animale non è nulla rispetto alla morte interiore, la
morte dell’animo.

LEZIONE 32

Come si vede, per Seneca gli animali hanno senza dubbio un animo, e un’anima.
Entrambi hanno un senso solo se appartengono a un corpo che viva secondo la regola
numero uno per uno stoico: la vita secondo natura. Ecco perché la sententia-domanda
che chiude il passo dovrebbe portare ancor più all’apice della climax drammatica: l’uso
(o meglio non-uso) degli occhi per guardare le tenebre è la prova schiacciante che
l’ordine naturale è stato ribaltato. Questa ricerca del paradosso drammatico nella
sententia finale è tipica del nostro autore, e segna uno di quegli inequivocabili “marchi di
fabbrica” dello stile senecano che saranno imitati da una lunga serie di moralisti e di
filosofi occidentali fino all’età moderna (da Agostino a Montaigne o Pascal, per citare
solo i più celebri). Tornando al contenuto del passo appena analizzato, si tratta ancora
una volta di una pagina “animalistica” di Seneca: egli, pur partendo da una posizione
verticalista e fortemente antropocentrica, presenta spesso dei punti di vista “ambigui” ed
improntati al riconoscimento che gli animali non sono solo delle trasfigurazioni di vizi e
virtù umane, ma hanno una vita propria ed il diritto di viverla secondo natura. Diritto
ancora più importante perché anch’essi, come Sozione aveva insegnato al filosofo da
giovane, posseggono un’anima. Ed in questo passo Seneca si concentra proprio
sull’animo degli animali, a conferma che egli non ha mai dimenticato le implicazioni
zooantropologiche e morali che lo avevano portato in gioventù ad una pratica
vegetariana rivelatasi anche “gradevole” e “spirito-vivacizzante”.

CONTRO LA CACCIA

Veniamo adesso al secondo dei due passi senecani contro l’eccesso di cibo di cui
avevamo parlato all’inizio della scorsa lezione. In questo caso l’animalismo senecano si
spinge addirittura contro la caccia, una pratica che, come si vedrà tra un attimo, risulta
dubbia anche in un’epoca in cui le implicazioni che oggi definiremmo “ambientaliste” di
quest’attività non facevano certamente parte dell’agenda degli “anti-caccia”. Eppure, alla
luce delle affermazioni senecane, non possiamo fare a meno di notare come certe prese di
posizione suonino straordinariamente familiari (ed estremamente attuali). E in ogni caso,
senza mai dimenticare le profonde differenze che ci separano dalla cultura del mondo
antico, risultano quantomeno ben radicate nella tradizione del pensiero occidentale.
Tutto questo sempre tenendo presente, di nuovo, che il punto di partenza della cosmologia
stoica senecana è antropocentrico. Infatti, come vedremo, al centro delle osservazioni
senecane si pone la figura del crapulone avido e goloso, intento a “spiluzzicare” porzioni
minime di cibi incredibilmente rari o ricercati senza goderseli minimamente, nauseato
com’è dall’eccesso alimentare tipico dei banchetti aristocratici dell’epoca. Gli strali del
filosofo si dirigono contro il motivo, oggi purtroppo estremamente attuale nel mondo
occidentale, dell’eccesso di cibo carneo e del suo spreco, imperdonabile sia in termini di
risorse umane (la fatica di chi lo procura) sia in termini di sofferenza animale.

PLUTARCO

Il tema antivenatorio degli animali che vengono cacciati in ognuno dei tre ambienti
principali, l’acqua, la terra e il cielo, con strumenti micidiali, è sicuramente collaterale
nell’invettiva senecana contro l’eccesso di cibo, ed in particolare contro l’eccesso di cibo
di origine animale. Ma è comunque rilevante nel passo di Seneca l’immagine di un
assalto condotto dal mondo culturale dell’essere umano al mondo naturale degli animali.
Ma, di nuovo, la struttura argomentativa di Seneca sembra certamente memore della
tradizione neopitagorica già citata e dell’apporto di un insegnante come Sozione. La
prova starebbe, come nota Tutrone, nel parallelismo tematico con le “strutture
argomentative proprie dell’inventario polemico vegetariano” (Tutrone p. 204). Il testo di
riferimento, a questo proposito, è un breve trattato del grande retore greco, ma anche
attivo in ambiente romano, Plutarco. Due generazioni più giovane di Seneca (nasce a
Cheronea circa nel 50 d.C.), Plutarco ebbe il suo apice nell’età di Adriano. Famoso autore
delle Vite parallele e del corpus dei Moralia (‘opere morali’), a quest’ultimo appartiene
anche l’interessante trattatello intitolato Del mangiar carne, che riunisce una ricca serie di
esempi argomentativi di ascendenza vegetariana sedimentati in una tradizione retorica
riconducibile certamente anche alla scuola neopitagorica frequentata dal giovane Seneca.
Potete confrontare il passo dell’epistola 89 che stiamo per leggere, con un passo (De esu
carnium 994 sgg.) della citata opera plutarchea (Adelphi 2001): i paralleli risulteranno
evidenti.

LEZIONE 33

EPISODIO 89, 22

“Ed ora passo a voi, la cui golosità senza limiti e insaziabile fruga di qua i mari, di là le
terre; con ami, con lacci, con vari tipi di reti cerca di catturare con gran fatica gli animali:
a nessun animale dà tregua finché non ne ha la nausea. Di queste vivande preparate con
l’opera di tante persone, quanto poco gustate con la bocca stanca di prelibatezze? Di
questa bestia catturata con tanto rischio, quanto poco assaggia il padrone che digerisce
male e ha la nausea? Di tante ostriche portate da lontano, quanto poche scivolano dentro
questo stomaco insaziabile? Disgraziati, credete che la vostra fame sia più grande del
vostro ventre?”.
1 Ad vos deinde transeo quorum profunda et
insatiabilis gula hinc maria scrutatur, hinc terras,
alia hamis, alia laqueis, alia retium variis generibus
cum magno labore
3 persequitur: nullis animalibus nisi ex fastidio pax est.
Quantulum [est] ex istis epulis [quae] per tot comparatis
manus fesso voluptatibus ore libatis? quantulum ex ista
fera
5 periculose capta dominus crudus ac nauseans gustat?
quantulum ex tot conchyliis tam longe advectis per istum
stomachum inexplebilem labitur? Infelices, ecquid
intellegitis
7 maiorem vos famem habere quam ventrem?

Note al testo. –riga 1: Ad…scrutatur, costruisci: deinde transeo ad vos quorum gula
profunda et insatiabilis hinc scrutatur maria, lett. ‘poi passo a voi la cui gola profonda e
insaziabile da una parte perlustra i mari’. –riga 2-3: hinc…persequitur, costruisci: hinc
(scrutatur) terras, persequitur cum magno labore alia (animalia) hamis, alia laqueis, alia
variis generibus retium, lett. ‘dall’altra (perlustra) le terre e insegue con grande fatica
alcuni animali con gli ami, altri con lacci, altri con vari generi di reti’. –riga 3: nullis…
est, costruisci: nullis animalisbus pax est nisi ex fastidio, lett. ‘a [= per] nessun animale
c’è pace se non da [= grazie a] la nausea’. –riga 3-4: quantulum…libatis?, costruisci:
‘quantulum ex istis epulis, comparatis per tot manus, libatis ore fesso voluptatibus?, lett.
‘quanto poco da questi piatti, procurati attraverso tante mani [=attraverso tante persone]
gustate con il palato [lett. ‘la bocca’] stanco per le prelibatezze [lett. ‘per i piaceri’]?’. –
riga 4-5: quantulum…gustat, costruisci: quantulum gustat dominus, crudus ac nauseans,
ex ista fera capta periculose?, ‘quanto poco gusta il padrone, sofferente d’indigestione
[crudus, lett. ‘non digerito’, ma qui usato metaforicamente non per il cibo ma per colui
che lo ha mangiato] e preso dalla nausea, di questa belva catturata in modo pericoloso?’
(continua).

Note al testo (continua). –riga 5-6: quantulum…labĭtur, costruisci: quantulum, ex tot


conchyliis advectis tam longe, labĭtur per istum inexplebilem stomachum?, lett. ‘quanto
poco, di tanti molluschi portati tanto da lontano, scivola giù per uqesto stomaco [= lo
stomaco del padrone] insaziabile?’. –riga 6-7: infelices…ventrem, costruisci: infelices,
ecquid intellegitis vos habere famem maiorem quam ventrem?’, lett. ‘disgraziati, forse
(ecquid) credete di avere [lett. ‘che voi avete’] una fame più grande del (vostro) ventre?’.
Commento. Sopra abbiamo già introdotto e commentato questo passo, anticipandone il
contenuto. Qui ci limitiamo ad aggiungere come, sia in questo che nei passi senecani
precedenti, gli animali appaiono come un mondo del tutto separato da quello degli esseri
umani: il mondo della natura opposto a quello della cultura. Quest’ultima rappresentata
come contraria e opposta a quelli che sono gli ideali morali del filosofo:
l’autosufficienza e la naturalità. L’obiettivo di Seneca è, insomma, la fondazione di una
morale in grado di guidare l’essere umano verso un comportamento più naturale. Il che
equivale, zooantropologicamente, ad una visione del mondo animale come mondo
“integrato” che funziona da specchio positivo di caratteristiche negative che l’essere
umano deve correggere. Per farlo, ovviamente, costui dovrà avvalersi della filosofia
stoica.

SPECCHIO POSITIVO E NEGATIVO


Questa che abbiamo appena visto è la caratteristica dell’uso degli animali tipica non solo
di Seneca, ma di tutta la tradizione filosofico-morale greco-romana in cui egli si
inserisce. Gli animali, come detto, funzionano da proiezione di virtù che si vorrebbero
umane. Essi, dunque, rappresentano una sfera indipendente da quella degli uomini. Ma è
comunque evidente che, dal punto di vista della natura, anche gli esseri umani
partecipano della stessa naturalità, visto che ad essa devono improntare anche i loro
comportamenti e la loro morale. Questo farebbe pensare che anche l’atteggiamento di
Seneca, come quello lucreziano, fosse improntato ad un orizzontalismo
zooantropologico, cioè al posizionamento dell’essere umano come animale tra gli
animali. Ma ci sbaglieremmo se pensassimo la visione senecana così “spinta”. Sul piano
morale la sua filosofia resta profondamente antropocentrica e quindi “separatista” e ben
convinta della differenza e dell’inferiorità degli altri animali rispetto all’essere umano.
Ci sono molti passi da cui l’atteggiamento di Seneca al riguardo risulta palese. Basta far
riferimento, ad esempio, ai molti esempi di animali come “specchio negativo” presenti
nel De ira, il più lungo dei dieci dialogi senecani giuntici (è l’unico, infatti, ad articolarsi
in più di un libro; si tratta, per la precisione, di tre libri). Qui Seneca non esita a definire
certi animali addirittura “dannosi per natura” (De ira 1, 7). Come si vede l’uso di questo
sintagma può essere coerente solo alla luce di un’ottica profondamente antropocentrica.

LEZIONE 34

EPISODIO 59, 13

Ma torniamo all’uso ben diverso delle rappresentazioni degli animali quale emerge nelle
Epistole morali a Lucilio. Più che nei passi senecani letti finora, questa funzione degli
animali come “specchio positivo” di atteggiamenti morali da imitare risulta in un modo
molto chiaro in altri luoghi, come, ad esempio, l’epistola 59, 13. Si tratta di una ripresa
del tema del “ventre non infinito” già visto nella sententia finale di ep. 89, 22:

“Ciascuno nel suo ambito si lascia istupidire dall’adulazione; diciamo: ‘Voi affermate
che io sono assennato, ma io mi accorgo di avere molti desideri di cose inutili o
addirittura dannose. E non comprendo nemmeno ciò che la sazietà mostra agli animali:
quale misura si debba tenere nel mangiare e nel bere; non so ancora quanto il mio ventre
possa contenere’.”.

1 Pro sua quemque portione adulatio infatuat: dicamus, 'vos quidem dicitis me
2 prudentem esse, ego autem video quam multa inutilia concupiscam, nocitura
optem.
3 Ne hoc quidem intellego quod animalibus satietas monstrat, quis cibo
debeat
4 esse, quis potioni modus; quantum capiam adhuc nescio.'

Note al testo. –riga 1: pro…infatuat, costruisci: adulatio infatuat quemque pro sua
portione, lett. ‘l’adulazione istupidisce ciascuno in relazione alla sua parte [cioè:
‘ciascuno per la sua parte’]’. –riga 2:ego…optem, costruisci: ego autem video quam
multa inutilia concupiscam, optem nocitura, lett. ‘io invece vedo quante cose inutili io
desideri e (quante cose) destinate a nuocere [part. fut. di noceo] io preferisca’. –riga 3:
ne…monstrat, costruisci: ne quidem intellego hoc quod satietas monstrat animalibus,
lett. ‘neppure capisco ciò che la sazietà mostra agli animali’. –riga 3-4: quis…modus,
costruisci: quis modus debeat esse cibo, quis (modus debeat esse) potioni, lett. ‘[sott.
‘neppure capisco’] quale misura debba esserci per il cibo, quale per il bere [lett. ‘per la
bevanda’, cfr. potare ‘bere’]’. –riga 4-5: adhuc nescio quantum capiam, lett. ‘ancora non
so quanto (io) contenga (nel mio corpo)’.
Commento. Chi parla è una figura tipica, quella del sapiente che non viene toccato dalle
lusinghe dell’adulazione, ma che non riesce a conformare le proprie abitudini alimentari
a quella “misura” che è invece assolutamente naturale presso gli animali. Mentre infatti
questi ultimi seguono la natura ed il “campanello d’allarme” che essa utilizza per
segnalare l’eccesso ci cibo, cioè la sazietà, gli esseri umani ignorano questo segno. Gli
animali sono qui, di nuovo, specchio positivo di naturalità: una visione frequente in
Seneca, come abbiamo visto, che ne stempera molto la visione antropocentrica
facendone, almeno nelle Epistole morali, un filosofo che potremmo davvero definire
“animalista”.

ETHOLOGIA

Il concetto di misura ha infatti una forza enorme nella visione etica della filosofia stoica.
Gli animali sono, insomma, dei punti di riferimento fondamentali sul piano del
comportamento “misurato”. La visione etica si fonde così, nel Seneca delle Epistole
morali, con la visione etologica. L’ethos (‘comportamento’) rinvenibile nelle due
dimensioni animale e umana, in altri casi separate in Seneca, è qui uno solo, se quello
dell’animale può essere usato per definire e migliorare l’ethos umano. Il comportamento
dell’animale può essere pertanto fondamentale per l’insegnamento del filosofo, perché
offre un esempio in molti campi, non solo in quello del comportamento alimentare,
come negli ultimi passi esaminati. C’è un esempio macroscopico di questa posizione in
un ultimo passo senecano tratto dalle Epistole morali. Si tratta della lettera 95, in cui
Seneca parla proprio della scienza che uno dei padri dello stoicismo, Posidonio, chiama
ethologia. Si tratta, come dice Seneca stesso, della disciplina che permette di “definire
ciascuna virtù [...] e che mette in luce le caratteristiche e i segni tipici mediante i quali si
distinguono cose simili tra loro” (Seneca, ep. 95, 66). Le “cose simili tra loro” di cui
parla Seneca riguardano proprio, nell’esempio offerto dallo stesso filosofo nel brano che
segue ed illustra questa affermazione, il comportamento degli esseri umani da un lato e
quello degli altri animali dall’altro: una conferma decisiva che, di nuovo, gli animali
sono la “cartina di tornasole” delle virtù (ma qui non si parla di vizi) umane.
LEZIONE 35

VIRGILIO IN SENECA
Il passo delle Epistole morali che Seneca dedica alla “scienza etologica” posta da
Posidonio al fine di elaborare una completa fenomenologia dei tratti caratterizzanti
(signa) i diversi comportamenti umani contiene un significativo esempio di uso
“etologico” (in senso “stoico”) degli animali. A tale proposito avevamo parlato, nella
lezione scorsa, di “esempio macroscopico”; si tratta, infatti, nientemeno che di un passo
virgiliano. Il brano riportato da Seneca, che ha come protagonisti i cavalli, si trova
nelle Georgiche. L’opera, lo ricordo, è scritta da Virgilio tra il 37 e il 29 a.C. ed
appartiene al genere del poema didascalico. Rispetto alle Bucoliche, che abbiamo già
incontrato in una lezione precedente, la trattazione della materia è organica e suddivisa in
quattro libri. Il modello non è solo Esiodo, il padre della poesia didascalica greca,
quanto i suoi epigoni di età ellenistica (per essi la dimensione perfetta del poema in
esametri, sia esso epico che didascalico, era appunto quella dei quattro libri). Ma il
massimo modello di riferimento è, per Virgilio, il poema lucreziano, con la sua grande
attenzione alla disposizione organica (e conseguente organica trattazione) della materia.
Le Georgiche (ovvero Georgica o Georgicon libri) appaiono divise in due macronuclei
tematici: la coppia dei libri 1 e 2 dedicata alle piante, e la coppia seguente, agli animali,
con un proemio ed un “piccolo proemio” interno ciascuna. Il mondo contadino viene
riportato come una summa di un sapere non solo tecnico ma anche morale che ha fatto
grande l’animo romano. Il passo virgiliano citato da Seneca fa parte del libro terzo, quello
dedicato all’allevamento.
Seneca critica quelli che sanno riconoscere i segni di un cavallo di razza al momento di
comprarne uno, ma non sanno riconoscere i tratti di un animo nobile. Il brano è tratto
dall’epistola 95, 66-69: “Ritieni utile che ti vengano forniti dei segni in base ai quali
riconoscere un cavallo di razza […]?
Quanto è più utile conoscere i segni caratteristici di un animo eccezionale, e che possono
essere
riprodotti in se stessi:
‘Il puledro di buona razza avanza subito sui campi
sollevando molto le zampe e posandole flessuosamente;
è il primo che osa procedere lungo il sentiero, guardare
fiumi minacciosi, lanciarsi sopra un ponte sconosciuto,
e non si spaventa mai per vani rumori. Ha il collo ritto, il
capo ben squadrato, il ventre piccolo, la groppa larga e il
petto vigoroso abbonda di muscoli… Se da lontano viene
un suono di armi, non riesce a star fermo, drizza le orecchie,
un fremito gli percorre le membra e soffia le narici,
spingendo fuori l’ardore accumulato’.

Senza accorgersene il nostro Virgilio ha qui descritto


l’uomo forte”.
Putas utile dari tibi argumenta per quae intellegas nobilem equum […]? Quanto hoc
utilius est excellentis animi notas nosse, quas ex alio in se transferre permittitur.

3 “Continuo pecoris generosi pullus


in arvis altius ingreditur et mollia crura reponit;
primus et ire viam et fluvios temptare minantis
6 audet et ignoto sese committere ponti, nec vanos
horret strepitus. Illi ardua cervix
argutumque caput, brevis alvus obesaque terga,
9 luxuriatque toris animosum pectus . . .
. . . Tum, si qua sonum procul arma dederunt, stare
loco nescit, micat auribus et tremit artus,
12 conlectumque premens volvit sub naribus ignem”
Dum aliud agit, Vergilius noster descripsit virum fortem […].

Note al testo. –riga 1: putas…utile, lett. ‘pensi (cosa) utile (che) siano date a te prove per
mezzo delle quali tu distingua (lett. ‘capisca’, ‘comprenda’) un cavallo di razza (lett. ‘di
nascita nobile’). – riga 1-2: quanto…permittitur, costruisci: quanto (est) utilius hōc nosse
[=novisse] notas animi excellentis quas permittitur transferre ex alio in se, lett. ‘quanto è
più utile di questo conoscere le caratteristiche di un animo eccellente che è possibile
trasferire da un altro a sé’. –riga 3: comincia la citazione da Virgilio. –riga 3-4:
continuo…reponit, costruisci: continuo pullus generosi pecoris ingreditur altius in arvis et
reponit mollia crura, lett. ‘subito il puledro di una nobile mandria cammina più alto [lett.
‘più altamente’] nei campi e posa le tenere zampe’. –riga 5-6: primus…audet, costruisci:
et primus audet ire viam et temptare fluvios minantes, lett. ‘e per primo osa percorrere una
strada e affrontare dei fiumi minacciosi’. –riga 6: et…ponti, costruisci: et (audet)
committere sese ponti ignoto, lett. ‘ed osa affidare se stesso ad un ponte sconosciuto’. –
riga 7: nec..strepitus, costruisci: nec horret vanos strepitus, lett. ‘e non teme vani rumori’.
–riga 7-8: illi…terga, costruisci: illi (est) ardua cervix et caput argutum, brevis alvus et
terga obesa, lett. ‘esso ha [lett. ‘a lui è’] un alto collo e un capo definito, un piccolo ventre
e groppa carnosa [lett. ‘schiene obese’]’ (continua).

LEZIONE 36, EP. 95, 66-69

–riga 9: et animosum pectus luxuriat toris, lett. ‘ed il vigoroso petto abbonda di muscoli’.
–riga 10- 11: tum…nescit, costruisci: tum, si (ali)qua arma procul dederunt sonum,
nescit stare loco, lett. ‘allora, se alcune armi da lontano hanno emesso un suono, non sa
stare in un luogo [=non sa stare fermo]’. –riga 11: micat…artus, lett. ‘vibra nelle
orecchie [abl. di limitazione] e trema negli arti [acc. di relazione, lett. ‘quanto agli arti’]’.
–riga 12: conlectumque…ignem, costruisci: et, fremens, volvit sub naribus ignem
collectum, lett. ‘e, fremendo, soffia (da) sotto le narici [=dalle narici] il fuoco [=
l’ardore] accumulato’. –riga 13: dum…fortem, costruisci: dum agit aliud, Vergilius
noster descripsit virum fortem, lett. ‘mentre fa d’altro [=mentre parla d’altro], il nostro
Virgilio ha descritto un uomo coraggioso.
Commento. Ecco un esempio della “scienza etologica” di Posidonio al lavoro. Ci sono dei
tratti comportamentali che possono essere individuati in modo da determinare il buon
carattere di qualcuno. Quel “qualcuno” in questo caso è un cavallo. Ciò non toglie che,
per Seneca, la descrizione di Virgilio si adatti perfettamente alla descrizione di un essere
umano che, presentando le stesse caratteristiche, si può definire rappresentante di una
virtù, cioè di un éthos, particolare (in questo caso il coraggio). Ciò significa che, per il
filosofo, non esiste nessuna soluzione di continuità, almeno a giudicare da questo
esempio, tra il mondo dei cavalli e quello degli esseri umani.

TORNIAMO A LUCREZIO

Dopo aver analizzato degli aspetti interessanti (e particolarmente “spinti” in senso


orizzontalista) della mentalità zooantropologica senecana, siamo pronti adesso per tornare
all’orizzontalismo “a tutto tondo” di Lucrezio. Come si ricorderà, avevamo lasciato la
nostra analisi del DRN con l’episodio della mucca che piange il suo vitellino immolato
usandolo come una prova dell’orizzontalismo “totale” di Lucrezio sia in termini di quelli
che avevamo definito “orizzontalismo cognitivo” ed “orizzontalismo affettivo”, sia in
termini di quello chiamato “schiacciamento isocronico”. Lucrezio, infatti, accordava agli
altri animali le capacità cognitive ed affettive caratterizzanti l’essere umano e negava che
solo quest’ultimo fosse in grado di vivere al di là dell’istante e di pensare il passato o il
futuro, come affermavano invece modelli morali presenti in autori coevi come Cicerone o
Sallustio. Questa posizione era tipica dello stoicismo , che del resto sia Cicerone che
Sallustio avevano accolto più o meno amalgamandolo con altre tendenze filosofiche del
tempo. L’ipotesi è che in loro, e nella maggior parte degli intellettuali romani non epicurei
(ma dei distinguo vanno fatti anche all’interno di questi ultimi), ammettere che la
conoscenza percettivo sensoriale fosse centrale non solo per gli animali non umani ma
anche per la nostra specie avrebbe potuto mettere in questione l’assioma umanistico della
centralità cosmica dell’essere umano e della sua separazione dalle “bestie” in quanto
“beniamino” della natura che su di essa ha il controllo.

LE NOVITA’ DI LUCREZIO
La novità di Lucrezio da questo punto di vista, ed il suo “spingere” le implicazioni
orizzontalistiche, sono tanto “oltre” da superare le posizioni zooantropologiche di altri
epicurei. Lucrezio, infatti, da quello che abbiamo visto nell’episodio del vitellino
immolato, riconosce agli animali non umani:
1. una dignità individuale;
2. una coscienza degli affetti parentali;
3. una coscienza della dimensione diacronica.
A quest’ultimo proposito, Tutrone nota, acutamente, che “nella seconda parte dell’episodio
della mater orbata [quello del vitellino immolato, ndr] Lucrezio sottolinea l’impossibilità
per l’animale di trovare consolazione o almeno distrazione in un rigoglioso scenario
naturale di cui è stata messa in luce l’affinità descrittiva con lo sfondo gioioso del proemio
al libro primo” in cui niente della “realtà contingente che secondo gli Stoici dovrebbe
attirare per intero l’interesse degli animali riesce a distogliere la mucca dalla sua
concentrata ricerca. Sottratti all’incubo di un’isocronia che li riduceva ad una sola
dimensione, gli animalia non umani vengono contemporaneamente posti al centro del
dibattito religioso con l’obiettivo di suscitare nel lettore-destinatario una presa di distanza
dalle pratiche del culto tradizionale (ed in primis da quella del sacrificio cruento) ed un
avvicinamento a forme di sensibilità religiosa più marcatamente contemplative e
spirituali” (Tutrone, p. 71).

LEZIONE 37
UN NUOVO UMANESIMO
Abbiamo appena parlato di forme di “sensibilità religiosa” per Lucrezio. Alla luce del suo
essere discepolo di Epicuro sembrerebbe trattarsi di una forzatura. Eppure è possibile
trovare una forma di religiosità in Lucrezio, un ascetismo assai coerente con la sua visione
orizzontalistica della realtà fisica. Anticiperemo qui che si tratta di un’affermazione dello
stesso Lucrezio contenuta nel libro quinto del DRN, proprio nel brano dove il poeta si
scaglia più pesantemente contro la religione tradizionale: il celebre passo sul sacrificio di
Ifigenia. Lì Lucrezio dirà che l’ideale, il “nirvana”, del saggio epicureo è la
contemplazione serena delle realtà naturali, incastonato nei versi: pacatā posse omnia
mente tueri (DRN V, 1203), cioè “essere in grado di osservare tutte le cose con animo
pacato”. Tutrone nota, in proposito, che non è comunque il caso di spingere questa
posizione orizzontalistica di Lucrezio fino al punto di dichiarala antiumanistica. Infatti,
anche se, come visto, Lucrezio critica aspramente l’umanesimo antropocentrico tipico del
platonismo e dello stoicismo come vengono recepiti a Roma, il sapiente, e dunque l’essere
umano, è comunque sempre al centro della sua visione morale. Soltanto che quest’ultimo
baserà la sua sapienza proprio sulla consapevolezza di una continuità e non di una
diversità tra l’animale umano e gli altri animali. L’intenzione di Lucrezio era quella di
fondare su questa idea le basi di un nuovo umanesimo, un umanesimo animalistico che
avrà la sua rivincita sull’altra posizione (quella tradizionalmente dominante in Occidente)
solo un paio di millenni più tardi. Ma questa è un’altra storia…

ASCETISMO E AMORE
Tornando alla “forma di religiosità” presente in Lucrezio, strettamente correlata a
quell’ascetismo di cui abbiamo appena parlato e che trova la sua massima espressione
nell’atto di “osservare la natura con animo pacato”, esistono molti rimandi a tutto questo
nel DRN. Forse il più celebre, e probabilmente il più frainteso, è la celebre tirata
lucreziana contro la passione d’amore. Una pagina che ha scatenato, ormai più di un
quarantennio fa, l’interpretazione “psicanalitica” di Lucrezio come poeta della depressione
e del “male oscuro”; una condizione che sarebbe stata ancor più esacerbata, nella psiche
del poeta, da una terribile delusione amorosa (si ricordi la celebre notizia biografica di
Gerolamo sul poeta caduto vittima di un filtro d’amore). Oggi, come detto, si tende a
considerare tutto questo come una “forzatura” non necessaria; oltretutto anche questa
posizione si può facilmente inserire all’interno del quadro organico che otteniamo sul
nostro poeta‐filosofo e sulla sua missione ideologica semplicemente leggendo
attentamente la sua opera. Molto banalmente: se l’ideale del sapiente epicureo‐lucreziano
deve essere quello di un ascetismo che permetta un’osservazione partecipata e “complice”
della natura, in grado di costruire e rafforzare la serenità contemplativa del saggio, è chiaro
come la passione amorosa possa configurarsi come un potentissimo turbamento a tutto ciò
(del resto l’amore fisico è tradizionalmente vietato a chi fa vita ascetico‐monastica tanto
nella tradizione occidentale quanto in quella orientale).
Siamo nel libro IV del DRN. Lucrezio ha appena concluso un “coloratissimo” elenco di
tipologie di donne che ingannano, in vario modo, i compagni accecati dalla passione
amorosa. Un inganno a cui non vanno attribuite, però, secondo il poeta, le manifestazioni
puramente fisiche della passione femminile durante l’atto amoroso (Lucrezio fa riferimento
a quello che, anche in una società fortemente patrilineare e “maschilista” come quella
romana, era il mito della simulazione dell’orgasmo come tipica dell’universo femminile).
Ma per spiegare tutto ciò, l’orizzontalismo lucreziano non può non far riferimento, ancora
una volta, agli animali umani visti in parallelo a quelli non umani. Leggiamo la prima parte
del brano (DRN IV, 1192‐1196):

“Né la donna sospira sempre per un amore finto,


quando, abbracciato (il corpo) dell’uomo, congiunge corpo con corpo e
lo tiene, bagnandolo di baci con labbra socchiuse;
infatti lo fa spesso con trasporto e cercando

comuni piaceri lo sollecita a protrarre il tempo dell’amore” (trad. mia).

1 Nec mulier semper ficto suspirat amore, quae


conplexa viri corpus cum corpore iungit

3 et tenet adsuctis umectans oscula labris;

nam facit ex animo saepe et communia quaerens


5 gaudia sollicitat spatium decurrere amoris.

DRN IV, 1192 -1196


Note al testo. –riga 1: nec...amore, costruisci: nec mulier suspirat semper ficto amore,
lett. ‘E la donna non sempre emette sospiri per finto amore’. –riga 2: quae...iungit,
costruisci: (mulier) quae, complexa (corpus) viri, iungit corpus cum corpore, lett.
‘(donna) che, avendo abbracciato [part. perf. con valore attivo del dep. complector] (il
corpo) dell’uomo, congiunge corpo con corpo’. –riga 3: et...labris, costruisci: et (id) tenet
umectans oscula adsuctis labris, lett. ‘e (lo) tiene, bagnandolo, succhiate le labbra in baci
[lett. ‘quanto ai baci’, oscula è accusativo di relazione]’. –riga 4: nam...saepe, costruisci:
nam saepe facit ex animo, lett. ‘infatti spesso (lo) fa con trasporto [lett. ‘con animo
(ispirato)’]’. –riga 4‐5: et...amoris, costruisci: et, quaerens gaudia communia, (eum)
sollicitat decurrere spatium amoris, lett. ‘e, cercando godimenti condivisi [lett. ‘comuni’,
cioè ‘in comune’], lo incita a prolungare il tempo dell’amore’.
Commento. Qui Lucrezio parte dall’esame dell’amore fisico nell’animale umano,
analizzando il comportamento sessuale femminile. Nel farlo, ci informa su quello che
appare un pregiudizio diffuso in una società fortemente patrilineare come quella romana,
legato alla presunta falsità, ovvero alla simulazione, del piacere amoroso nelle femmine
umane. Anche qui Lucrezio mostra l’ampiezza della sua prospettiva, rilevando che,
nonostante il luogo comune, il fatto “non sempre” è vero. Altrimenti la donna non si
sforzerebbe di prolungare l’atto “bagnando di baci” il corpo dell’uomo. Siamo
sicuramente agli antipodi della poesia d’amore, ma nell’ottica di Lucrezio questa
“apoetica crudezza” è insita nella volontà di descrivere in modo oggettivo i
comportamenti dell’animale umano.

Potrebbero piacerti anche