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SAL, MERCURIUS, SULFUR

Angelo Prinzo

Il Timeo di Platone
Nel “Timeo” Platone rappresenta l’essere umano in tre parti: testa, petto e addome. Egli assegna
alla testa la sede della saggezza, al petto la sede del coraggio e all’addome la sede delle passioni,
degli istinti bassi. Quando la saggezza si unisce al coraggio nasce la saggia attività e quando invece
si unisce alle passioni basse la metamorfosi è l’avvedutezza. “E dei divini esseri viventi fu lui stesso
l'artefice, mentre comandò ai suoi figli di plasmare la generazione dei mortali. E quelli imitandolo,
avendo ricevuto il principio immortale dell'anima, posero quindi intorno ad essa un corpo mortale, e
tutto questo corpo glielo diedero come un carro, ed aggiunsero in esso un'altra specie di anima che
fosse mortale, che ha in sé passioni funeste e irresistibili: prima di tutto il piacere, che è la più
grande esca del male, in secondo luogo i dolori, che fanno fuggire i beni, e ancora l'audacia e la
paura, stolti consiglieri, e la collera, che è difficile da placare, e infine la speranza, che facilmente si
lascia ingannare. Mescolando allora queste cose con la sensazione irrazionale e l'amore che mette
mano a qualsiasi impresa, composero secondo la legge della necessità il genere mortale. Per queste
ragioni, temendo di contaminare il principio divino più di quanto l'assoluta necessità richiedeva,
separandolo da esso, stabilirono il principio mortale in un'altra sede del corpo, e fabbricarono come
un istmo, o un confine, fra la testa e il petto, ponendo in mezzo il collo, perché fossero separati. Nel
petto, dunque, e in quello che viene chiamato torace, levarono la specie mortale dell'anima. E
poiché una parte di quest'anima era stata generata migliore e un'altra peggiore, divisero la cavità del
torace, separandola come si fa per le stanze delle donne e degli uomini, e vi posero in mezzo come
chiusura il diaframma. Quella parte dell'anima che partecipa del coraggio e dell'ira, essendo
bellicosa, la collocarono più vicino alla testa, fra il diaframma e il collo, perché ubbidisse alla
ragione e, in comune accordo con essa, frenasse con la forza gli appetiti, nel caso in cui questi non
volessero affatto ubbidire di buon grado all'intimazione e alle parole dell'acropoli. E il cuore, nodo
delle vene e fonte del sangue che circola impetuosamente attraverso tutte le membra, lo collocarono
nel posto di guardia perché, quando la forza dell'anima irascibile ribollisse, avvertita dalla ragione
che qualcosa di ingiusto viene compiuto nel corpo, all'esterno, oppure anche dagli appetiti interni,
subito, attraverso tutti gli stretti canali, tutte le parti sensibili del corpo, capaci di ascoltare le
intimazioni e le minacce, diventassero ubbidienti alla ragione e la seguissero, e così lasciassero che
su tutte dominasse la parte migliore. Al palpitare del cuore nell'attesa dei pericoli e all'impulso
dell'ira, riconoscendo che tutto questo gonfiarsi di coloro che si adirano avviene a causa del fuoco, i
figli del dio, preparando il soccorso, piantarono nel petto la figura del polmone, che in primo luogo
è molle ed esangue, e poi, come una spugna, è perforata di pori, perché, ricevendo il fiato e la

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bevanda, potesse rinfrescare il cuore e gli procurasse il respiro e il sollievo in quella vampa di
calore. Per questo motivo scavarono nel polmone i canali della trachea, e sistemarono lo stesso
polmone intorno al cuore come un cuscino, perché, quando nel cuore l'ira raggiungesse il suo
culmine, balzando contro un oggetto cedevole e rianimandosi, affaticandosi di meno potesse
obbedire di più, insieme all'anima irascibile, alla ragione.
Quella parte dell'anima che è desiderosa di cibi e bevande e di tutte le esigenze di cui ha bisogno la
natura del corpo, i figli del dio collocarono nello spazio intermedio tra il diaframma e il confine
dell'ombelico, avendo fabbricato in tutto quel luogo una sorta di mangiatoia adibita al nutrimento
del corpo. E lì la legarono, come fosse una bestia selvaggia, ma che bisognava nutrire, essendo
legata a noi, se mai doveva esistere il genere mortale. Perché essa, nutrendosi sempre alla
mangiatoia e abitando il più lontano possibile dall'anima deliberante, procurasse il meno che
potesse scompiglio e fragore, e lasciasse che la parte migliore decidesse con tranquillità ciò che è
vantaggioso per tutte le parti del corpo, prese insieme e singolarmente, per queste ragioni, dunque,
le assegnarono la posizione in quel luogo”.

Paracelso
Scrive Steiner: <<Così per Paracelso la natura umana si scompone a tutta prima in tre parti; la
nostra natura corporeo-sensibile, cioè il nostro organismo, che ci appare quale essere naturale fra
esseri naturali ed è congenere con tutti gli altri esseri naturali; la nostra natura occulta, ch’è un
anello nella catena dell’universo, e che quindi non è limitata al nostro organismo, ma emana e
riceve influssi di forze dall’universo intero; e la nostra natura più alta, il nostro spirito, che si esplica
soltanto in modo spirituale. [… ] L’uomo è anzi tutto un essere fisico-corporeo, sottoposto alle
medesime leggi a cui ogni corpo è soggetto; è, dunque sotto questo riguardo, un corpo puramente
elementare. Le leggi fisico-corporee si coordinano per dar luogo al processo vitale organico. La
legge organica è da Paracelso denominata Archaeus o Spiritus vitae. L’organico si eleva a
manifestazioni affini alle spirituali, che però non sono ancora spirito: sono i fenomeni astrali, dai
quali emergono le funzioni dello spirito animale. L’uomo è un essere dotato di sensi. Egli connette
significativamente le impressioni dei sensi per mezzo dell’intelletto: così attiva in lui l’anima
razionale. Poi egli s’immerge nelle produzioni del proprio spirito e impara a conoscere lo spirito
come tale; s’innalza così fino al gradino dell’anima spirituale. Infine riconosce che in quest’anima
spirituale egli sperimenta il fondamento più profondo dell’esistenza universale: l’anima spirituale
cessa d’essere un’anima singola individuale. Sorge quella conoscenza a cui accenna Eckhart,
quando non sente più parlare sé in sé stesso, ma l’Essere primordiale. Si verifica quella condizione
in cui lo spirito universale contempla sé stesso nell’uomo, Paracelso esprime il sentimento di questa
condizione con semplici parole: “E questa è cosa grande che dovete meditare: non vi è nulla nel

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cielo e sulla terra, che non sia nell’uomo. E Dio ch’è nel cielo, è nell’uomo”.[…] Egli fa derivare
tutte le cose dalla materia primordiale (yliaster) e considera come un ulteriore processo naturale la
scissione della materia primordiale (che chiama anche il gran limbo) nei quattro elementi: acqua,
terra, fuoco , aria.[…] Ma anche se Paracelso pensa, in un certo senso, nel modo ch’è conforme al
suo tempo, egli tuttavia concepì profondamente il rapporto dell’uomo con la natura, proprio in
quanto si riferisce all’idea dell’evoluzione, del divenire. Nell’Essere primordiale del mondo egli non
vide qualcosa di comunque chiuso e compiuto, ma afferrò il divino nel divenire. Con ciò poté
attribuire davvero all’uomo un’attività creatrice autonoma. Infatti, se l’Essere divino primordiale
esistesse una volta per sempre, non sarebbe possibile parlare di una vera attività creativa dell’uomo.
In tal caso non sarebbe l’uomo, vivente nel tempo, quello che crea, bensì Dio, che è ab aeterno. Ma
per Paracelso non esiste un Dio ab aeterno; esiste solo un eterno divenire. Ciò ch’egli forma, non
esisteva prima in alcun modo; ciò ch’egli crea, è, alla sua maniera, una creazione originale: e, se si
vuol chiamarla divina, si può dirla tale solo in quanto è creazione umana. Perciò Paracelso può
attribuire all’uomo una parte nella costruzione del mondo, per cui egli diviene collaboratore di tale
creazione. Senza l’uomo, l’Essere divino primordiale non sarebbe ciò che è con l’uomo. “Poiché la
natura non produce nulla che sia perfetto in sé, ma tocca all’uomo renderlo perfetto”.
Quest’autonoma collaborazione creativa dell’uomo alla costruzione della natura è chiamata da
Paracelso alchimia. “Questo compimento è alchimia. È dunque alchimista il fornaio in quanto
cuoce il pane, il vignaiolo in quanto fa il vino, il tessitore in quanto fa il panno.” E Paracelso vuole
essere alchimista nel proprio campo, come medico. “Ecco perché mi conviene scrivere tanto
dell’alchimia, affinché voi la conosciate bene ed apprendiate che cosa sia e come vada intesa, e non
vi scandalizzate se non ne trarrete né oro, né argento, ma badiate piuttosto che vi siano rivelati gli
arcani (farmachi)… L’alchimia è la terza colonna della medicina, poiché senza di essa non può farsi
la preparazione dei farmachi, chè la natura non può venir usata senza l’arte.” Lo sguardo di
Paracelso è dunque rivolto rigorosamente alla natura, per farsi rivelare da lei stessa quanto ha da
dire intorno ai suoi prodotti. Egli vuole indagare le leggi della chimica, per poter agire da alchimista
nel senso in cui egli intendeva quest’azione. Egli pensa tutti i corpi composti di tre sostanze
fondamentali: sale, zolfo e mercurio. Naturalmente, ciò ch’egli denomina così non s’identifica con
quanto la chimica moderna si limita a indicare con tali nomi; né ciò che Paracelso considera come
sostanza elementare è tale nel senso della chimica odierna. Cose differenti vengono chiamate in
tempi differenti con lo stesso nome. Ciò che gli antichi chiamavano i quattro elementi: terra, acqua,
aria, fuoco, esiste tutt’ora, ma noi non li chiamiamo più “elementi”, bensì stati di aggregazione,
designandoli con i termini: solido, liquido, gassoso, etereo. Così, ad esempio, per gli antichi, “terra”
non significava solo la terra, ma tutto ciò che è solido. Anche le tre sostanze fondamentali di
Paracelso possono essere riconosciute in concetti moderni, ma non in ciò che attualmente porta lo

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stesso nome. Per Paracelso, i due principali processi chimici ch’egli applica sono la soluzione di
una sostanza in un liquido e la combustione. Se un corpo viene dissolto bruciato, esso si scompone
nei suoi costituenti: il residuo è salino, il solubile (liquido) è mercuriale; la parte combustibile è da
lui chiamata sulfurea. A chi non vede oltre questi processi naturali, essi potranno apparire come
cose materiali e lasciarlo perfettamente indifferente; chi vuole a tutti i costi afferrare lo spirito coi
sensi, popolerà detti processi naturali con ogni sorta di entità animate. Ma chi , come Paracelso, sa
contemplarli nella loro connessione con quell’Universo che svela il proprio mistero nell’intimo
dell’uomo, li prende quali si presentano ai sensi, senza attribuir loro un significato diverso. Poiché i
processi naturali, quali ci stanno dinanzi nella loro realtà sensibile, rivelano l’enimma dell’esistenza
nel modo ch’è loro proprio. Ciò che essi hanno da svelare, attraverso questa loro realtà sensibile che
riecheggia dall’anima umana, ha, per chi aspira alla conoscenza superiore, un valore assai più alto
che non tutti i miracoli soprannaturali che l’uomo può immaginarsi o farsi rivelare sul conto di un
presunto “spirito” insito nei processi naturali. Non esiste uno “spirito della natura” che sia in grado
di enunciare verità più sublimi di quelle che le grandi opere della natura stessa palesano alla nostra
anima quand’essa si unisce in amicizia con la natura e in un intimo confidenziale rapporto ascolta la
rivelazione dei suoi misteri. Una tale amicizia con la natura cercava appunto Paracelso1>>. Egli
scrive: “Siamo stati intagliati da Dio e posti nelle tre sostanze”.

Cartesio, res cogitans e res extensa


Nell’ 869 a.C. il concilio di Costantinopoli nega la natura triadica dell’essere umano disconoscendo
lo spirito e riconoscendo solo l’anima e il corpo. Nel 1637 Cartesio pubblica il suo Discorso sul
metodo in cui da voce alla contrapposizione tra res cogitans e res extensa. << L’eterogeneità della
res cogitans rispetto alla res extensa significa innanzitutto che l’anima va concepita in rapporto alla
vita, quasi che si diano vari tipi di vita, da quella vegetativa a quella sensitiva e quindi a quella
razionale. L’anima è pensiero, e non vita, e la sua separazione dal corpo non provoca la morte, che
è determinata da cause fisiologiche. L’anima è una realtà inestesa, mentre il corpo è esteso. Sono
due realtà che non hanno nulla in comune. Eppure, l’esperienza ci attesta un’interferenza costante
tra questi due versanti, come risulta dal fatto che i nostri atti volontari muovono il corpo e le
sensazioni, provenienti dal mondo esterno, si riflettono sull’anima modificandola. “Non basta –
scrive Cartesio – che essa [l’anima] sia collocata nel corpo come un pilota nella sua nave se non
forse per muovere le membra, ma è necessario che essa sia congiunta e unita più strettamente con
esso, per provare inoltre sentimenti e appetiti simili ai nostri e comporre così un vero uomo”.

1
Rudolf Steiner, I mistici, Ed.Libritali, 1997,pp.126-136.

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Affermazione indubbiamente vaga, che non accontentò i lettori. 2>> In questa eterogeneità tra le
due nature, e la non chiarezza sulla loro reale e possibile interazione si posero seri problemi sulla
volontà e la libertà umana. Per tali ragioni Cartesio scriverà Il trattato dell’uomo. Si lanciò così in
un’avventurosa disamina dei processi fisici e organici anticipando la fisiologia moderna. Senza
addentrarci troppo è interessante notare come parli di fuoco, calore senza luce nel sangue quasi a
mò di eraclitea memoria. Pone poi la sede dell’anima nella ghiandola pineale. <<A tale scopo
“occorre sapere - scrive Cartesio – che, per quanto l’anima sia congiunta a tutto il corpo, c’è tuttavia
in questo qualche parte in cui essa esercita le sue funzioni in modo più specifico che in tutte le altre;
[…] la parte del corpo, in cui l’anima esercita immediatamente le sue funzioni non è affatto il cuore,
nemmeno tutto il cervello, ma solo la parte interna di questo, che è una certa ghiandola molto
piccola, situata in mezzo alla sua sostanza, e sospesa sopra il condotto attraverso cui gli spiriti delle
cavità anteriori comunicano con quelle delle posteriori, in modo che i suoi più lievi movimenti
possono mutare molto il corso degli spiriti, mentre, inversamente, i minimi mutamenti del corso
degli spiriti possono portare grandi cambiamenti nei movimenti di questa ghiandola3.” La domanda
rimane su come un’anima inestesa potesse agire su di un corpo esteso. L’anima è unita al corpo ma
queste due forze si lacerano nella loro tensione dicotomica.

Rudolf Steiner
Rudolf Steiner nei suoi due cicli sulla medicina, “Scienza dello spirito e medicina” e “Principi di
fisiologia e terapia” muta gli elementi parlando di uomo dei nervi, del respiro (o del ritmo) e del
ricambio. Nella conferenza del 9 Ottobre 1920 a Dornach così si esprime in merito: <<Ma se da una
sana fisiologia vogliamo ricavare una sana clinica e una sana terapia è necessario modificare questa
concezione, o per meglio dire, precisarla. Essa deve accordarsi con la concezione dell’essere umano
che spesso abbiamo esposto, anche se in contesti molto differenti da quello odierno. È la concezione
della tripartizione dell’organismo umano. Nell’uomo abbiamo da una parte una triarticolazione
della psiche in: facoltà di rappresentazione, di sentimento e di volontà. A questa triarticolazione
psichica corrisponde esattamente una tripartizione fisico-organica in. Sottolineo espressamente che
questa tripartizione dell’organismo umano non deve essere afferrata intellettualmente ma in modo
vivente. Chi dunque considerasse il sistema della testa solo ciò che arriva fino al collo, o come
sistema ritmico-circolatorio il tronco, e quindi il sistema digestivo insieme alle membra e
all’apparato genitale, costui non farebbe che una considerazione esteriore non conforme alla realtà.
Invece il sistema neuro-sensoriale deve essere inteso come soprattutto localizzato al capo, ma
diffuso come tale in tutto il resto dell’organismo. Cosicché in un certo senso, se vogliamo parlare
2
Giovanni Reale/Dario Antiseri, Il pensiero occidentale dalle origini ad oggi Vol.2, Brescia, Editrice La scuola,1983,
p.284.
3
Giovanni Reale/Dario Antiseri, Op. cit., p.287.

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del sistema neuro-sensoriale da un punto di vista antroposofico, dobbiamo dire che esso è il sistema
funzionale (poiché di delimitazioni funzionali si tratta, e non spaziali), che certo è localizzato in
primo luogo nel capo ma estende l’attività del capo a tutto l’organismo, cosicché in un certo senso
l’uomo intero è “testa”. Lo stesso vale per gli altri sistemi. È semplice faciloneria qualificare il
sistema metabolico come “sistema della pancia”, come ha fatto superficialmente un professore che
non aveva alcuna intenzione di approfondire questi argomenti, ma solo di denigrarli, di screditarli di
fronte al pubblico. Egli ha proprio fatto vedere di non avere capito niente della natura funzionale e
non topografica di questa tripartizione. Chi comprende questa tripartizione dell’uomo che, per
essere descritta nei particolari, richiederebbe molte più conferenze, giunge a cogliere chiaramente le
differenze tra il sistema del capo (neuro-sensoriale) da una parte e quello del ricambio e delle
membra dall’altro con il sistema ritmico posto fra i due essenzialmente in funzione equilibratrice.
Se dunque consideriamo l’entità umana nel suo insieme, ecco quello che ci si presenta: tutto ciò che
avviene fisicamente nel sistema neuro-sensoriale costituisce non si può dire lo strumento, ma la
base anatomica dell’attività di rappresentazione e di percezione propriamente detta, ma non anche
delle attività legate in primo luogo alle sfere del sentimento e della volontà, come sostiene la
moderna psicofisiologia. Tale concezione non regge a uno studio rigoroso. Si trova un tale studio
esposto a grandi linee nel mio libro Enigmi dell’anima anche se in questo senso resta ancora
moltissimo da approfondire. […] Si constaterà che il sentimento è in relazione principalmente con il
sistema ritmico e non con quello neurosensoriale, così come lo sono invece la percezione e la
rappresentazione. La sfera del sentimento è connessa con il sistema ritmico, e solo attraverso
l’interrelazione tra sistema ritmico e sistema neuro-sensoriale, mediata dalle pulsazioni del liquido
cefalo-rachidiano entro il sistema neurosensoriale, quest’ultimo può entrare in gioco quale portatore
della vita di rappresentazione, percependo interiormente i nostri sentimenti, dal carattere ottuso
sognante, ed elevandoli a rappresentazioni. Come la vita affettiva è in diretta relazione con il
sistema ritmico e da questo viene mediata, così la volontà è in diretta relazione con il sistema del
ricambio, ed è a sua volta solo in modo secondario correlata al sistema neuro-sensoriale, perché
naturalmente anche nel cervello è presente un certo ricambio. Così l’azione del sistema del ricambio
si ripercuote su quello neuro-sensoriale, permettendoci di elaborare come rappresentazioni i nostri
impulsi di volontà che altrimenti si svolgerebbero nell’organismo in ottusa coscienza di sonno.
Dunque abbiamo nell’organismo umano tre differenti sistemi che in modo diverso sono portatori
della vita dell’anima. Fra di essi non solo esiste una diversità, ma un’opposizione. Così da una parte
abbiamo il sistema neuro-sensoriale, e dall’altra l’insieme delle funzioni metaboliche e motorie. Ci
si può fare un’idea della relazione fra sistema metabolico (del ricambio) e sistema motorio (delle
membra) considerando semplicemente gli effetti del movimento degli arti sul metabolismo. Questo
effetto è molto più importante di quanto in genere non si creda. Ma nel suo insieme il sistema del

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ricambio e delle membra è anche polarmente contrapposto a quello neuro-sensoriale. Tale polarità
va ben considerata e studiata nei suoi particolari ai fini di una patologia e di una terapia ben fondate,
vale a dire ai fini di una patologia che conduca alla terapia in modo organico4>>.

Luce, tenebra e colore


Rudolf Steiner inizia il suo interesse per la teoria dei colori di Goethe, grazie alla conoscenza di
come effettuare gli esperimenti attraverso la frequentazione del laboratorio di fisica di Reitlinger.
S’immerge così nella pratica delle esperienze apprezzando sempre di più le osservazioni sulla
materia del padre della letteratura tedesca. Dai fenomeni sulla luce e il colore si accosta
all’anatomia e alla fisiologia e giunge a modo suo alla teoria goethiana della metamorfosi. La
Farbenlehre è uno studio metodico di Goethe composto di osservazione di fenomeni e di
esperimenti durato circa venti anni, dal 1790, dopo il viaggio in Italia, e pubblicato poi nel 1810. La
prima contestazione alla teoria newtoniana è: il fatto che senza luce non ci siano colori non significa
che i colori siano le componenti della luce bianca. Il luogo in cui si colgono nel formarsi i fenomeni
luminosi e coloristici non è lo spazio, ma lo strumento congegnato apposta per percepirli, l’occhio.
Goethe dissentiva da Newton il quale per comprendere i colori inizia dalla luce la quale secondo il
vate è soltanto una delle condizioni necessarie per vedere i colori. Il poeta scienziato cerca invece di
comprendere la natura osservando in essa l’equilibrio tra qualità e quantità. Dai suoi esperimenti
Goethe si rende conto che non solo l’assenza di luce non consente l’osservazione dei colori ma
anche l’eccesso di luce fa altrettanto. L’equilibrio invece tra le due polarità consente la percezione
dei colori nel mondo esterno. Partendo dagli studi di Goethe Steiner prosegue le sue ricerche
scientifico spirituali e profonde tempo sull’osservazione dell’azione sensibile-morale dei colori. Si
svela così allo scienziato la natura spirituale-archetipica dei colori sensibili. Partendo da questo
capitolo, L’azione sensibile-morale del colore, dell’opera goethiana, dove il poeta descrive i singoli
colori con il loro contenuto specifico di sensazioni e suggerisce di osservare il paesaggio attraverso
diverse lenti colorate, Steiner dimostra come l’esperienza cromatica possa venire intensificata a tal
punto che dall’elemento fisico si arrivi ad una esperienza morale spirituale del colore. La tenebra
assorbe la luce e la luce quando più forte irrompe nel buio e si crea lo spazio, da questa lotta e
riconciliazione nasce il colore. Questa triplicità è anche insita nell’essere umano: luce, colore
tenebra; ossia spirito, anima e corpo. Si potrebbe anche dire: pensare, sentire e volere. Se la tenebra
può essere vista come madre primordiale che tutto avvolge, periferia illimitata, portatrice di amore,
informe e custode primigenia di volontà, la luce di contro irraggia da un centro verso la periferia e
crea spazio e forma nella tenebra. La luce respinge la tenebra e il buio va incontro alla luce. La luce
è forte al centro e s’indebolisce alla periferia perché incontra la tenebra e la tenebra s’indebolisce

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Rudolf Steiner, Problemi di fisiologia e terapia,Ed.Antroposofica, Milano,1993, pp.35-38.

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nell’incontrare la luce in prossimità della fonte ed è più avvolgente alla periferia. In questo incontro
si può percepire tensione e riconciliazione. Da questo contrasto e riconciliazione tra luce e tenebra
nasce il colore. Nell’essere umano possiamo parlare della luce della coscienza e della tenebra della
sostanza volitiva corporea. Tra queste due realtà nasce il dinamismo dei colori nella sfera mediana,
quella dell’anima, quella psichica. Il movimento nella sfera mediana attraverso i ritmi respiratori e
cardiaci è quello che sostiene la vita e l’anima. Quando nell’essere umano un eccesso di uno di
questi tre aspetti prende il sopravvento o viene a mancare si genera uno squilibrio. La sfera mediana
è sempre quella che trovandosi al centro deve far sì che non venga sopraffatta o debordi ma che crei
tensione e dinamismo nella giusta misura tra i due poli.

Riferimenti iconografici
Non dimentichiamo che nell’iconografia antica questa tripartizione dell’essere umano è stata
rappresentata nel tetramorfo. L'origine delle rappresentazioni tetramorfe si troverebbe in
Mesopotamia dove gli Assiri realizzarono dei kâribu: esseri dalla testa umana, corpo di leone,
zampe di toro e ali d'aquila, le cui statue erano poste all'ingresso, e sembra a custodia, dei templi.
Ritroviamo simili iconografie in Egitto, nella sfinge, nel vecchio e nel nuovo testamento,
rispettivamente la visione di Ezechiele e nell’Apocalisse di Giovanni. Ireneo di Lione nel II secolo
associò ai quattro vangeli i quattro esseri zoomorfi dell’Apocalisse. Alla fine del XVI secolo
nacquero in Polonia gli Ussari alati di Polonia, un corpo militare che fu il fulcro delle forze di
cavalleria dell’esercito del Regno di Polonia fino al 1775. La loro divisa a cavallo era decorata con
ali di rapace, e pelli di leone.

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