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ODYSSEUS

Angelo Prinzo

Dall’Iliade all’Odissea
Un filosofo neoplatonico scriveva nel IV secolo: “Poiché il mondo stesso lo si può chiamare mito,
in quanto corpi e cose vi appaiono, mentre le anime e gli spiriti vi si nascondono.” Per alcuni il mito
è stata una forma fantastica escogitata dagli uomini del passato per difendersi dalla morte e dal
dolore provenienti dal mondo divino eterno, per altri il mito invece è solo una rappresentazione
poetica di una dimensione non fantastica ma simbolica delle esperienze vissute dagli iniziati negli
antichi misteri. “Cantami, o Diva, del Pelide Achille l'ira funesta che infiniti addusse lutti agli Achei,
molte anzi tempo all'Orco generose travolse alme d'eroi, e di cani e d'augelli orrido pasto lor salme
abbandonò (così di Giove l'alto consiglio s'adempìa), da quando primamente disgiunse aspra
contesa il re de' Prodi Atride e il divo Achille". Si sarebbe potuta chiamare anche Achilleide, si
parla di un semidio e dell’ira funesta che guidò le sue membra, ma si parla anche degli dei, siamo
tra il mito e la saga. Achille è raccontato come un semidio appartenente alla stirpe dei guerrieri ma
senza pietà il cui solo scopo sono la gloria e i suoi obiettivi guerreschi. “Narrami, o musa, dell'eroe
multiforme, che tanto vagò, dopo che distrusse la Rocca sacra di Troia: di molti uomini vide le città
e conobbe i pensieri, molti dolori patì sul mare nell'animo suo, per riacquistare a sé la vita e il
ritorno ai compagni.”
Il protagonista qui è un uomo, un eroe guidato non dalle passioni ma dal suo ingegno poliedrico,
dall’astuzia, dalla sagacia, dall’intuito e dalla curiosità ma anche dall’altruismo immerso tra il reale,
il divino e il mostruoso; siamo ai confini tra il mito, la saga e la fiaba. Odisseo rappresenta l’eroe
umano che inizia il suo cammino d’individualizzazione allontanandosi dalla sua famiglia, quindi dal
suo sangue, dalla sua cultura, dalla sua terra per perdersi nel viaggio verso l’ignoto, acquisendo
grazie ad esso e le sue peripezie nuove conoscenze, così da ritornare a Itaca ritrovando se stesso
completamente trasformato. Ulisse è colui che segna, attraverso il suo intelletto e la sua astuzia, la
fine di Troia, la quale difende con le sue mura il re che ancora continua a chiedere e seguire i
consigli dei sacerdoti. Ilio è uno degli ultimi baluardi di quei regni tra la monarchia e la teocrazia di
natura orientale, gli dei che governano sugli uomini attraverso il re e i sacerdoti e la divisione
sociale in caste. Gli achei rappresentano il passaggio alla monarchia totale, i re non hanno più
rapporti con il potere sacerdotale, ossia l’uomo che governa sugli uomini; dal potere
semisacerdotale a quello secolare. Rudolf Steiner scrive:
“Quando Talete afferma che ogni cosa deriva dall’acqua, si riferisce in verità alla materia fisica che
tutto comprende. Abbiamo qui a che fare con l’acqua intesa come materia fisica. E proprio la
materia fisica è destinata a divenire il punto di riferimento per coloro che assumono , adesso, la
direzione dell’umanità: i re secolari. Prima c’erano stati solamente sovrani che erano in rapporto
con il divino. Peleo è il re che deve regnare sul piano fisico traendo dal piano fisico stesso la forza
per farlo. L’avvenimento, nei misteri, era presentato al popolo sotto forma di mito con il racconto
delle nozze fra Peleo e la dea marina Teti. Quello che si celebra è in realtà il matrimonio tra
funzione di guida dell’umanità e la materia del piano fisico. Teti è la dea dell’acqua, del mare. E il
frutto di questo matrimonio è Achille, il primo di questa nuova categoria di iniziati. Egli è perciò
invulnerabile, eccetto che nel tallone1”.
Il mito, la poesia, il rito e l’arte erano strumenti per gli antichi misteri di presentare in forma
simbolica alle genti esperienze interiori concesse ai solo iniziati: il mito da vivere in seno al
rammentare, l’arte e la poesia su di un piano più emotivo, nel ricordare, e il rito su di una sfera
volitiva, nel rimembrare. La tragedia greca ha questa grande capacità di far confluire in se stessa
l’arte dell’azione drammatica, l’immagine del mito e la sacralità del culto. Se nel mito abbiamo
solitamente per protagonisti dei e dee, se nelle saghe troviamo eroi e semidei, nella fiaba si
raccontano in particolare vicende esclusivamente umane. L’Odissea a differenza dell’Iliade dove il
protagonista è un semidio ha come figura principale un essere umano coinvolto però in eventi divini,
semidivini e umani.

I nostoi
L’Odissea appartiene a quella parte della letteratura greca che fa parte dei nòstoi, che sono i viaggi
degli achei dopo una lunga esperienza di guerra e dolore. I nostoi più importanti vedono
protagonisti gli eroi greci al termine della guerra di Troia. La guerra è un tema singolare perché da
essa si ritorna nella propria patria e nella propria casa segnati nel profondo con una prospettiva sulla
vita diversa e con un senso per l’esistenza totalmente cambiato. L’Odissea è da considerarsi il
nòstos per eccellenza. Aiace, salvato da Poseidone dopo una tempesta, in preda alla sua tracotanza
si scaglia contro gli dei, il dio del mare non lo perdona e lo fa morire affondando lo scoglio sul
quale era sopraggiunto; Agamennone scopre che sua moglie l’ha tradito e viene ucciso dall’amante
Egisto, Elettra e Oreste suoi figli vendicano la morte del padre uccidendo la madre e l’amante.
Diomede il re di Argo scopre che sua moglie lo tradisce e trova nella fuga l’unica via di salvezza.
Menelao per fare ritorno ci metterà sette anni e darà notizie a Telemaco sullo stato di cose in merito
al padre.

Ripartizione dei libri


Dal libro I al libro IV possiamo parlare di Telemachia, ovvero il viaggio di Telemaco che si
avventura alla ricerca di notizie su suo padre. Dal libro V al libro XII siamo immersi nel viaggio di

1
Rudolf Steiner, Leggende e misteri antichi, Milano, Ed.Antroposofica, 2008, p.101.
Ulisse, l’eroe si trova presso i feaci e racconterà il suo lungo viaggio, le meraviglie, il terrore, la
morte, le gioie e le sofferenze. Dal XIII al XXIV libro ci troviamo di fronte al ritorno ad Itaca e alla
vendetta. I primi dodici libri sono caratterizzati dalla paura e dalla perdita, i secondi dodici libri
affrontano l’egoismo, la compassione, la vendetta ma anche il ricongiungimento con la propria casa,
la propria moglie e la propria famiglia . Ricapitolando: il primo blocco raccontano di Telemaco che
va in giro per chiedere notizie di suo padre, il secondo tomo e Ulisse che racconta cosa gli è
accaduto prima di approdare all’isola dei Feaci, e poi nell’ultima parte abbiamo la vendetta e il
ricongiungimento con Penelope. Dal libro V all’ultimo i giorni non sono tantissimi, forse si può
parlare di circa trentatré o quaranta giorni, ma il tempo si dilata nelle memorie del racconto, nelle
retrospezioni sui dieci anni trascorsi. Ulisse è stato assente da Itaca per venti anni, dieci anni di
guerra e dieci anni di peregrinazioni. Volendo essere ancora più precisi: dal V all’VIII libro Ulisse è
sull’isola di Scherìa presso i Feaci; dal IX al XII Ulisse racconta le sue vicissitudini; dal XIII al
XVI Odisseo giunge ad Itaca sotto umili e mentite spoglie presso la masseria del porcaro Eumeo;
dal XVII al XX libro il protagonista ritorna alla reggia; dal XXI al XXIV abbiamo la vendetta e i
ricongiungimenti. É interessante come nei libri in cui Ulisse racconta il suo viaggio ci sia davvero
un respiro, un’armonia e un ritmo delle vicende, tale, da poter scorgere una certa alternanza e
bilanciamento tra eventi fausti ed infausti.

Trama del tessuto sociale


A differenza dell’Iliade l’Odissea presenta un tessuto sociale molto più eterogeneo, infatti troviamo
artigiani, medici, aedi, indovini, braccianti, allevatori, araldi, pastori e servi. Ulisse è anche un
rappresentante della talassocrazia dell’epoca, ossia di coloro che all’epoca esercitavano con le loro
navi il domino militare e commerciale su uno spazio marittimo ben delimitato, più o meno in
espansione o decadimento, su quei territori in esso contenuti o ad esso proteso.

Cosa odia Ulisse?


“Il nome Odüsseus può essere ricondotto fondamentalmente a due verbi: odüssomai, che significa
mi adiro e odüromai che significa soffro. […..] L’adirarsi e il soffrire sono due aspetti fondamentali
del chiudersi in sé, del diventare individuo libero e autonomo. Il primo ci pone contro tutti gli altri,
è il fenomeno fondamentale dell’egoismo: la capacità di porci contro tutto il resto del mondo, il
gesto egoico che ci fa trovare noi stessi. La prima fase della libertà, la cruna dell’ago
dell’evoluzione, è sempre l’egoismo. La seconda grande fase è l’amore, che consiste nel
superamento progressivo dell’egoismo: è la forza che, un po’ alla volta, vince l’egoismo estendendo
l’amore anche agli altri2”.
Omero presagisce in Ulisse l’immagine di colui che vuole ormai emanciparsi dalla tradizione
religiosa, che sfida gli dei e per amor di conoscenza e per amor di libertà. Omero proietta nel re di
Itaca quel vivere profondamente la lacerazione che sta per avvenire nell’uomo greco tra mondo
divino-immaginativo-simbolico e la capacità autonoma di pensare attraverso il logos come faranno
Ferecide di Siro e i presocratici. Quella ferita che consente alla luce del pensiero di penetrare e
rendere l’uomo emancipato da questo eccesso di simpatia per la natura che lo circonda. Non
dimentichiamo che Dante fa pronunciare ad Ulisse le seguenti parole rivolte ai suoi uomini nel
canto ventiseiesimo dell’inferno: “ Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e
conoscenza”. Ulisse è costantemente irritato perché vuole conoscere nonostante il suo desiderio di
tornare a casa, vuole vivere lontano dal sangue per potersi individualizzare e sperimentare vissuti
che il suo luogo natio non gli consentirebbe di fare, i 10 anni di guerra non gli sono bastati, Polemos
con tutta la sua carica di Eros e Thanatos sono insufficienti a placare il suo cuore pulsante. Arriverà
addirittura a perdere tutti i suoi uomini, restare solo e dover fare affidamento sulle proprie forze. Se
Achille è mosso dall’ira, Ulisse è il rappresentante di colui che è capace, nonostante gli errori e la
collera, di evocare la calma, essere autonomo nelle decisioni, senza farsi prendere eccessivamente
dal terrore ed attuare scelte sagge e importanti. Come in ogni mito, tutte le figure che si
avvicendano vanno interpretate da un punto di vista interiore, o meglio, cosa esse rappresentano
nell’essere umano come qualitativo potenziale più o meno espresso, più o meno dominato?

Qualità di Odisseo
Soffermiamoci ora sulle qualità che Omero collega ad Ulisse sondate da Archiati:
1. polü-metis, dal pluriforme ingegno, pieno di intuizioni;
2. polü-ainos, molto lodato, molto apprezzato dagli uomini, stimato come degno di imitazione;
3. polü-mèchanos, dalle molte tecniche, dai multiformi espedienti, dall’ingegno inesauribile;
4. polü-tlas, dalla molta sopportazione e perseveranza, tetragono ai colpi di sventura;
5. polü-tropos, dalle molte direzioni e vie d’uscita, dalle infinite trovate;
6. polü-stonos, dai molti lutti, che rimpiange molte perdite e piange per molti distacchi;
7. polü-fron, dal molto senno, pieno di saggezza e di sagacia.
1. Iniziamo da Polü-metis: metis ha la stessa origine di mente, mens (lat.), (mèdomai) meditare,
misurare, meditor (lat.). Da qui viene la parola meditazione, che è un percorrere col pensiero
un passo dopo l’altro. Odisseo è colui che esercita un pensare meditativo, misurato e
discorsivo, che conosce sia la meta sia la via da percorrere in tutti i minimi passi. Polü-metis

2
Pietro Archiati, L’Odissea:Il cammino di ogni uomo, Monaco, Ed.Archiati, 2005, pp.49, 51-52.
ricorre solo tre volte nell’Iliade e ben 68 nell’Odissea. È usato soltanto per Ulisse, perché è
ciò che più essenzialmente lo caratterizza: il sorgere nell’essere umano della forza pensante
che crea i vari nessi logici che vanno da un pensiero all’altro, che connettono una cosa con
un’altra;
2. polü-ainos, molto lodato: ricorre nell’Odissea una volta sola perché per l’essere umano che
diventa libero è molto secondario l’essere lodato dal di fuori, da altri. Ciò di cui si tratta è la
forza che scaturisce dall’interno dell’essere, indipendentemente dal fatto che venga da altri
lodato, riconosciuto o biasimato. Il fatto però che altri lo lodino dice qualcosa su di loro:
testimonia la loro stima e la loro aspirazione verso ciò che Ulisse ha già esemplarmente
conseguito;
3. polü-mèchanos viene da mechané, meccanismo, da cui è derivato il nostro termine macchina.
È la capacità di elaborare una strategia, un piano d’azione. Se polü-metis si riferisce alle
intuizioni della immaginativa morale, polü-mèchanos indica quella tecnica morale di cui c’è
bisogno per concretamente realizzare in seno al mondo visibile gli ideali morali che
concepiamo. Polü-mèchanos è dunque l’essere umano versatile nell’elaborare piani concreti
di azione che gli consentono di inserire nel mondo della percezione ciò che ha colto con la
facoltà del pensare. È la capacità di trasfondere nel reale ciò che si concepisce nella mente.
Mèchanos, in greco, non è la meccanica come la intendiamo noi: è l’abilità di colui che sa
ingegnarsi in ogni situazione concreta. È la comunione col proprio Genio che ci dice come
comportarci nelle varie situazioni della vita. Questo aggettivo, riferito a Ulisse, ricorre
nell’Odissea 16 volte.
4. polü-tlas viene da tlào, sopporto. Atlante, Àtlas, è colui che porta il mondo sulle sue spalle.
Polü-atlas = capace di portare, e perciò di sopportare, tante cose. È colui che sa preservare,
che è tetragono ai colpi di sventura. È l’uomo del vangelo divenuto capace di prendere il
proprio lettuccio, il proprio fardello karmico dal quale prima era trasportato e che ora è in
grado di portare liberamente sulle proprie spalle. Achille era nelle mani del destino, Ulisse
prende il destino nelle proprie mani. È questa una qualità maggiormente morale: è la forza
interiore propria di chi sa che non si può diventare individualità forti senza le prove. I colpi
del destino sono colpi non di sfortuna ma di fortuna e mirano sempre al positivo. Odisseo è
colui che ha capito questo. La parola fortuna inizialmente significava il destino. Noi italiani
siamo così fortunati che della parola fortuna abbiamo preso soltanto il lato positivo! Lo
dobbiamo al genio della lingua! Col termine destino esprimiamo piuttosto un senso di
rassegnazione. È essenziale al cammino di Odisseo, al cammino verso la libertà, imparare a
prendere su di sé il proprio destino e a trasformarlo in fortuna, in occasione positiva di
crescita. L’aggettivo polü-tlas compare nell’Odissea 37 volte.
5. polü-tropos da trèpo, rivolgersi, significa che sa orientarsi in tutte le direzioni. È colui che sa
guardare la realtà da diversi punti di vista per agire di conseguenza. Questo aggettivo
compare due volte.
6. polü-stonos, compare una volta sola: è la capacità dell’essere umano di reagire in sintonia
alla meteorologia che lo circonda e alla composizione degli elementi di natura. È l’uomo che
si adatta, fa o prende il meglio di tutto ciò che lo circonda, soprattutto in relazione al regno
degli elementi naturali. Stèno, da cui il nostro stendere, distendere, è la capacità di porsi in
sintonia con la terra, con l’acqua, con l’aria, col fuoco. Viene di solito tradotto con gemere,
ma è un gemere simile a quello delle piante nel loro rapporto con le forze della natura.
7. polü-fron: è colui che è versatile nella capacità di riflessione in generale. Fronèin è la
capacità di pensare, di riflettere prima di agire e in vista dell’agire. La differenza
fondamentale tra polü-metis e polü-fron sta nel fatto che metis si riferisce al pensare in
quanto gestito individualmente e liberamente dall’essere umano: fon indica quelle intuizioni
che vengono dall’alto in chiave rivelatoria o ispirativa. Ulisse è in grado di capire con la
mente ciò che il cuore gli ispira3.

Thauma
“Gli uomini, all’inizio come adesso, hanno preso lo spunto per filosofare dalla meraviglia, poiché
dapprincipio essi si stupivano dei fenomeni più semplici e di cui essi non sapevano rendersi conto, e
poi, procedendo a poco a poco, si trovarono di fronte a problemi più complessi, come i fenomeni
riguardanti la Luna, il Sole, le stelle e l’origine dell’universo”.
Così scrive Aristotele all’inizio della “Metafisica”. Per quanto sia Aristotele a vedere nell’origine
della filosofia la thauma, ossia la meraviglia, anche interpretabile come terrore ed è lo stesso
Aristotele ad accostarla alla pietà per far sì che nella tragedia si possa parlare di vera catarsi già
Omero nell’Odissea descrive Polifemo come un mostro che incute paura, sgomento, thauma. Di
fronte a questo mondo ctonico di forze telluriche, istintive, fatte di materia grezza, Ulisse reagisce
con le qualità dell’epistème , cioè collocandosi sopra quel terreno irrequieto e dominandolo. Ulisse
è anche un guerriero, ma non così forte come poteva esserlo Aiace, così che per affrontare queste
prove non utilizza la forza fisica ma la sola ragione in modo pratico a guisa di un filosofo.

Penelope
La figura di Penelope è certamente l’immagine del femminile più importante di tutta l’opera. Essa
esprime quell’essenza della devozione, dell’attesa e della fedeltà che richiamano simbolicamente
anche la riconciliazione con la propria anima, con l’eterno femminino. Come scrive Pietro Archiati:

3 Pietro Archiati, op.cit.,pp. 68-71.


“Penelòpeia: dal greco pénos, tessuto, da cui viene la parola latina pannus = panno, e léipo, che che
significa sciolgo, diluisco. L’anima di Odisseo (Penelope) è la grande scioglitrice di tela. Penelope
significa la scioglitela , colei che sempre disfa la tela4”. Quest’anima che si trova continuamente a
dover disfare la sua tela finché lo spirito umano non si ricongiunge ad essa superando le impervie
prove del viaggio interiore. La tela è anche un sudario per il padre di Ulisse, Laerte; la valenza
simbolica è abbastanza forte, terminare la tela vuol dire anche prepararsi alla morte interiore della
figura paterna per sostituirla con la propria paternità su se stessi.
Diamo uno sguardo anche allo studio di Archiati sull’uso degli aggettivi che Omero accosta a
Penelope: echèfron, peìfron e daìfron.
“La parola fron,viene da fren che significa “diaframma, “anima, “cuore”, “mente”, e la cui radice
troviamo nel verbo penso: è dunque una parola di significato complesso. Da essa è derivato anche
l’odierno termine “frenologia”: In Omero la sede del pensiero è nella regione del diaframma, nella
sfera mediana del sentimento, non in quella della testa. Fronèin, pensare in greco, si riferisce a quel
processo incipiente del pensare che si esprime nel sentimento. Penelope è colei che ha una capacità
di pensare qualificata e diversificata da
1. echèfron = che ha il pensare
2. perìfron = che pensa intorno alle cose
3. daìfron = che pensa attraverso, cioè fino in fondo:
1. Che cosa compiamo con la nostra facolta di “avere” la mente 5 ? Esercitiamo la
concentrazione: ci poniamo al centro di un cerchio, al centro del nostro mondo, al centro
dell’universo.
2. Che cosa succede quando facciamo “girare intorno” la nostra facoltà pensante? Viviamo
nella contemplazione: siamo in un ampio tempio e lo abitiamo contemplandolo. Con il
nostro pensiero ci poniamo in questo caso contemporaneamente al centro e alla periferia.
3. Infine, quando il processo pensante “va da un punto all’altro tracciando una linea”, abbiamo
la meditazione: compiamo un percorso che “media” vari contenuti del pensiero collegandoli
tra di loro. I queste tre qualifiche date da Omero a Penelope, nell’esperienza stessa delle
parole greche, sono espressi i tre modi fondamentali di pensare6”.

4
Pietro Archiati, op.cit., p.42.
5
Qui sicuramente l’autore voleva intendere “avere il pensare”.
6
Pietro Archiati, op.cit., pp. 53-54.
Itaca
Ithàke, teca dell’io.

“…cioè il corpo fisico quale scrigno dello spirito umano individuale. La vocale I esprime , e non
solo nella lingua greca, l’esperienza oggettiva del raggio di luce dell’Io in posizione eretta. Di
esempi ne potremmo addurre molti: ìdios, il singolo; ìos , la freccia, ìos, uno; ìstemi, sto in
posizione eretta, mi ergo; istos, albero maestro; iscus, forza che oppone resistenza. […..] Itaca non è
in primo luogo una data isola del Mediterraneo, ma è il corpo umano, nel quale ciascuno di noi si
isola, appunto, da tutti gli altri esseri. É la patria dell’uomo che abita il suo corpo come spirito
individuale. Non più l’umanità, non più la stirpe, non più il popolo sono i miei confini, si dice
l’uomo Ulisse, ma il mio corpo: lì approdo alla patria dell’uomo chiamata Itaca, o teca dell’Io7.”

Telemaco
A riprova dell’ipotesi che i personaggi più importanti siano soltanto manifestazioni simboliche
riguardanti il protagonista e la sua dimensione interiore è per esempio l’origine del nome
Telèmachos: che combatte lontano. Il nome del figlio di Ulisse cela un significato ch’è palesemente
riferito al padre. Cosa ancora più interessante e che nei primi quattro libri tutto è incentrato sulla
figura di questo giovane, che ha circa ventuno anni, l’età della prima maturità, aiutato d’Atena sotto
le spoglie di Mentore, suo precettore, si mette in viaggio alla ricerca del padre. Proviamo adesso per
un attimo a rovesciare il punto di vista ed evocare il nome di Telemaco dal cuore di Ulisse. Egli è
sicuramente consapevole che suo figlio starà combattendo lontano contro qualche nemico vista la
sua assenza. Si può osare adducendo a Telemaco una dimensione spirituale alta dell’individuo, che
racchiude in sé anche la sfera della fanciullezza e della gioventù le quali ad un certo punto della vita
di ogni uomo come se risorgendo si mettessero in viaggio alla ricerca di questo padre interiore in
ognuno di noi? Questo padre interiore forse anche per combattere la dimensione più ombrosa,
istintiva, irrazionale dell’uomo, rappresentata dai proci, che tallonano l’anima, Penelope,
chiedendole la fine di una tela, un sudario che deve fare da giaciglio per una figura paterna al
tramonto, che non potrà mai essere degna di chiamarsi tale tant’è che sempre viene sciolta?
Telemaco potrebbe rappresentare, soprattutto in questo momento storico, quella gioventù odierna
che dopo essere stata erede della destrutturazione e detronizzazione dei padri dalle loro figure
autoritarie negli anni settanta e ottanta del secolo scorso, dopo essere stata erede della eccessiva
amicalità dei padri negli anni novanta e duemila ora desidera e necessita di padri accoglienti ma
anche arginanti, autorevoli e non autoritari che rappresentino le regole e aiutino a crescere più
armonicamente in concertazione con la figura materna?

7 Pietro Archiati, op.cit., p. 43-44.

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