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GRAMMATICA STORICA

Vittorio Formentin

1. Questioni generali.
1.1. La grammatica storica tra diacronia e sincronia. Ferdinand de Saussure ci ha insegnato
che la lingua si può studiare in due modi: o lungo l’asse della simultaneità, descrivendo il
sistema di valori esistente in un momento dato, in una certa comunità di parlanti, in un luogo
definito, in altre parole il sistema dei rapporti fra i termini (suoni, forme, costrutti ecc.)
coesistenti in un determinato stato della lingua; o lungo l’asse della successione temporale,
illustrando l’evoluzione di un certo elemento nel tratto di tempo compreso fra l’epoca A e
l’epoca B. Avremo, nel primo caso, una grammatica sincronica (o descrittiva), nel secondo
caso una grammatica diacronica (o storica). Saussure, nel Cours de linguistique générale
(uscito a stampa nel 1922), fu indotto, per ragioni inerenti alla novità della sua
argomentazione e al particolare momento degli studi linguistici, a enfatizzare tale «dualità
interna», a sottolineare le differenze e l’autonomia reciproca delle due prospettive. Ancora
oggi, in effetti, vediamo che i due tipi di approccio nella maggior parte dei casi si distinguono
per oggetto e per metodo d’indagine. Lo studio sincronico della lingua preferisce occuparsi di
varietà attuali, che sono più facilmente indagabili, anche con l’ausilio degli strumenti della
moderna tecnologia, e perciò più sicuramente razionalizzabili in sistema, sia per la
disponibilità completa di un materiale linguistico vivo, sia per la sicurezza con cui è
formulato il giudizio di valore dalla «competenza» naturale dei parlanti. Chi fa grammatica
storica, invece, si occupa per lo più di fatti puntuali, unisce con un segmento verticale punti
disposti su rette parallele e orizzontali (i successivi stati della lingua), e può prescindere, per
comodità di analisi, dalle conseguenze che il singolo cambiamento ha avuto (o non ha avuto)
sull’equilibrio generale del sistema; è poi costretto, per la natura stessa della sua ricerca, a
ricorrere ad un tipo di documentazione meno diretta, più problematica, quasi sempre
incompleta come quella offerta, dall’antichità classica fino a tempi recenti, dai testi scritti.
Ben presto, però, ci si è accorti che sincronia e diacronia non si possono separare nettamente e
vanno piuttosto considerate come punti di vista differenti da cui si traguarda il medesimo
oggetto: ogni descrizione sincronica implica un certo grado di storicità, cioè di variabilità nel
tempo su base generazionale e sociale; d’altra parte ogni trattazione diacronica deve porsi il
problema del «valore» strutturale degli elementi nei diversi stadi evolutivi della lingua. Tale
consapevolezza è già affermata chiaramente in una limpida pagina di Antoine Meillet, allievo
di Saussure e suo successore all’École des Hautes Études (Meillet 1926 [1918]: 404):

La grammatica descrittiva e la grammatica storica non differiscono essenzialmente l’una dall’altra. Infatti, da
una parte ogni descrizione è in qualche modo storica; per unitario che sia il gruppo sociale in cui una lingua è
parlata, i diversi soggetti che lo compongono sono, sotto certi aspetti, a gradi differenti dell’evoluzione che
trascina costantemente ogni lingua; ogni nuova generazione porta qualche piccola innovazione, tanto che il
parlare dei vecchi differisce spesso in modo sensibile da quello dei giovani. Per di più ci possono essere nel
gruppo elementi conservatori che mantengono gli arcaismi, ed elementi innovatori, in cui, al contrario,
l’evoluzione è in anticipo. […] Ogni descrizione precisa e completa di una situazione linguistica a un momento
dato comporta dunque la considerazione di una certa parte di evoluzione; e questo è inevitabile, poiché una
lingua che si parla non è più, per questo stesso fatto, in stato di stabilità completa.
D’altra parte, i mezzi di cui dispone la grammatica storica non permettono mai di descrivere in maniera
veramente continua la curva seguita dall’evoluzione. […] In realtà e praticamente la grammatica storica consiste
nel sovrapporre grammatiche descrittive di più epoche successive e nel constatare che a un fatto a di una prima
epoca corrisponde un fatto b di una seconda, un fatto c di una terza e così via.
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In altre parole, assumere un punto di vista sincronico non significa avere un’idea statica della
lingua; viceversa, una corretta impostazione diacronica comporta sempre il confronto tra due
o più stati del sistema. La linguistica moderna ha insistito su questo concetto, mostrando che
in ogni momento della sua evoluzione la lingua, ai vari livelli della sua struttura (fonologico,
morfologico, sintattico, lessicale), si articola in un repertorio di varianti tra le quali il parlante
può scegliere, immettendo dunque nella langue saussuriana una dimensione stilistica. Per
spiegare questo concetto, Roman Jakobson si è rifatto alla propria personale esperienza del
mutamento linguistico (Jakobson 1966 [1953]: 15-16):

Soffermiamoci sui problemi di dinamica. Prenderò come esempio una trasformazione che ho avuto modo di
osservare fin dalla mia infanzia. Nel russo corrente contemporaneo è intervenuta una evoluzione fondamentale
nel sistema vocalico: in sede non accentata, soprattutto in sede protonica, i due fonemi /e/ ed /i/ erano tenuti
distinti a Mosca dalla generazione dei nostri nonni. Nella parlata della nostra generazione, e in quella dei nostri
figli, questi due fonemi sono confluiti in uno solo, /i/. Per la generazione intermedia, quella dei nostri genitori, la
distinzione è facoltativa. Che cosa significa tutto questo? Significa che la generazione intermedia ha un codice
che contiene questa distinzione: quando occorre operare la discriminazione, per evitare ambiguità o per rendere
il discorso particolarmente chiaro, si distinguono nella pronunzia i due fonemi; in uno stile rilassato, e per così
dire ellittico, questa distinzione, insieme ad altre, può essere omessa. Il discorso diventa meno esplicito. Così,
per un certo tempo, il punto di partenza e il punto di arrivo di una trasformazione coesistono come due diversi
strati stilistici: quando il fattore temporale entra in gioco in un sistema di valori simbolici quale è il linguaggio,
diventa esso stesso un simbolo e può essere utilizzato come un mezzo stilistico. […] In tal modo una
trasformazione è, all’inizio, un fatto sincronico e, se non vogliamo semplificare eccessivamente, l’analisi
sincronica deve conglobare i mutamenti linguistici; d’altra parte i mutamenti linguistici si possono comprendere
solo alla luce dell’analisi sincronica.

In effetti alcuni particolari settori della linguistica, d’orientamento specialmente sincronico


(come la geo- e la sociolinguistica), si sono incaricati appunto d’indagare come s’innescano e
si diffondono le trasformazioni entro una certa comunità di parlanti, cercando di seguire il
percorso di un’innovazione entro il repertorio, dalla condizione di semplice variante
diafasica, diastratica o diatopica fino alla sua (eventuale) stabilizzazione nel sistema.
Viceversa, la ricerca diacronica si è andata sempre più configurando come analisi del
riassestamento di «valori» intervenuto nel passaggio da uno stato sincronico all’altro. Sia il
caso della trasformazione fonetica: studiare il cambiamento linguistico significa oggi
confrontare le corrispondenze/differenze tra il punto di partenza e il punto d’arrivo, cioè tra
due diversi sistemi fonologici distanziati nel tempo. La vecchia fonetica storica tende cioè a
diventare fonologia diacronica, i cui concetti fondamentali – ‘fonologizzazione’ e
‘defonologizzazione’ – sono, non a caso, intrinsecamente dinamici.

1.2. Grammatica storica e filologia. Se si vuole studiare in una prospettiva strutturale una
varietà antica, uno dei problemi principali è di solito costituito dall’incompletezza dei dati a
disposizione, che sono spesso insufficienti a ricostruire il «sistema» oggetto di analisi (per es.
l’inventario fonologico del milanese del Duecento, confrontato da una parte con quello del
latino del IV sec. d.C., dall’altra con quello del dialetto attuale). Per questo il linguista storico
ha fame di testi: quanto più numerosi sono i documenti scritti in una certa varietà antica, e
quanto più essi sono qualitativamente differenziati (poesia, prosa letteraria, testi di carattere
pratico ecc.), tanto più completa e affidabile sarà la ricostruzione di quel particolare «stato»
grammaticale. Dall’illustrazione di qualche esempio concreto potranno venire alcune
indicazioni di metodo generale.
A tutta prima si potrebbe pensare che i testi versificati, in quanto il linguaggio poetico
intenzionalmente scarta dal linguaggio comune, risultino poco utili ai fini descrittivi di una
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varietà antica. Al contrario, in forza dei cosiddetti «dati obiettivi» (rima e computo sillabico),
riferibili all’originale per necessità logica determinata dalla struttura stessa del testo poetico,
lo studio delle opere in versi consente di attingere i risultati descrittivi più precisi e sicuri.
Così, i poemetti di Bonvesin si prestano perfettamente a individuare il sistema fonologico,
almeno vocalico, del milanese medievale (la limitazione è opportuna perché Bonvesin
ammette l’assonanza, cioè la possibilità che si corrispondano in rima corpo e poco, coppie
divergenti per la qualità delle consonanti comprese tra la vocale tonica e l’atona finale, che
sono invece identiche). Carlo Salvioni, in un saggio famoso (Salvioni 1911), dopo aver
mostrato che in Bonvesin le voci del tipo corpo, poco ecc. (che in milanese moderno hanno
una o aperta) non possono assuonare con le voci del tipo fogo, novo ecc. (che in milanese
moderno hanno ö), ne ha inferito che, alla fine del Duecento, l’o proveniente da Ŏ tonica in
sillaba libera era di qualità diversa dall’o corrispondente ad Ŏ tonica in sillaba chiusa, e aveva
probabilmente già raggiunto la fase moderna ö (perciò, concludeva Salvioni in forza d’un
principio di simmetria strutturale, doveva già esistere anche ü da Ū). Con un ragionamento
analogo, inoltre, Salvioni dimostra che il milanese di Bonvesin già distingueva la quantità
delle vocali toniche finali (➔ Fonetica storica, § 3.2), conosceva cioè opposizioni fonologiche
del tipo /a ~ a:/, /e ~ e:/.
In modo non diverso per quanto pertiene al metodo, Contini ha provato la presenza nel
marchigiano antico della metafonesi sabina (➔ Fonetica storica, § 3.3), fenomeno
graficamente invisibile: infatti, ai vv. 232-236 della Giostra delle Virtù e dei Vizî, «solo la
pronuncia mórtu, tóstu, póstu evita la rima di ò con ù [la ù di corruptu 230 e bructu 237]»
(Contini 1960: II, 320).
È opinione diffusa che in napoletano, come in genere nei dialetti alto-meridionali, lo
scadimento a /-ә/ di tutte le vocali atone finali (o di tutte le vocali finali tranne -A) sia fatto
antico, anche se a lungo nascosto, per ‘inerzia’ culturale, da una grafia di tipo etimologico (➔
Fonetica storica, § 1.3 e 3.3). Che cosa ci dicono a questo proposito le rime dei poemetti
napoletani trecenteschi di materia medicale (il Regimen sanitatis e le due redazioni dei Bagni
di Pozzuoli)? che mentre sono possibili, da un lato, rime del tipo volontate : licterate
‘letterati’, limenti ‘elementi’ : solamente, prove : trove ‘trovi’, non si dà nessun caso in cui -e
o -i etimologica sia in rima con -o (< -U, -O) o -a etimologica, e quindi chiammato non può
rimare con sanetate o urbati ‘orbati’, notrimento con giustamente o tormenti, cura con duri o
calure ‘calori’ ecc. Se ne può ricavare che, mentre il passaggio -E, -I > -ә nel XIV sec. era già
fonologizzato, la successiva fase dell’indebolimento non si era ancora compiuta, almeno a
livello fonologico.
Per quanto riguarda l’altro criterio obiettivo, è appunto l’esame del numero sillabico (e
assieme, s’intende, della rima), sempre nell’opera di Bonvesin, a provare che la caduta delle
vocali atone finali diverse da -a nel milanese del Duecento non era ancora fonologizzata: in
Bonvesin infatti «le vocali finali diverse da -a tendono bensì a cadere, così come spesso e
interno […], ma son sempre passibili di conservazione per ragioni ritmico-sintattiche o
d’indole particolare, sono cioè in una delicatissima posizione evolutiva, confermata da talune
parlate odierne» (Contini 1960: I, 670; la dimostrazione in Contini 2007 [1935]: II, 1169-
1190); il che equivale a dire che la vocale finale di corpo poteva sì dileguare (all’interno di
frase e di verso, non davanti a pausa), ma era pur sempre recuperabile in sincronia (era cioè
riconducibile alla forma-base corpo mediante una regola sincronica di apocope, come nel
fiorentino di Dante cammin è riconducibile a cammino).
Un caso tipico di defonologizzazione nel settore dei fonemi consonantici riguarda la
neutralizzazione delle opposizioni /ʤ ~ ʒ/ e /ʧ ~ ʃ/ intervenuta nella storia del fiorentino,
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fenomeno che si riflette nella pronuncia italiana standard di parole come cami[ʧ]a e pi[ʤ]one
< -SJ- divergente dalla pronuncia fiorentina, che è ed è sempre stata cami[ʃ]a e pi[ʒ]one (➔
Fonetica storica, § 2.2). La spirantizzazione delle affricate palatali intervocaliche, che ha
provocato appunto la rianalisi dei fonemi /ʃ/ e /ʒ/ < -SJ- come varianti di posizione di /ʧ/ e /ʤ/,
si presta ad esemplificare un altro tipo di dato utile al linguista storico, cioè le osservazioni di
carattere metalinguistico, che diventano frequenti nel periodo cruciale per la fondazione di
una grammatica italiana, ossia nel primo Cinquecento. Ci si riferisce a una famosa pagina del
Polito di Claudio Tolomei (1525), pubblicato con il nome fittizio di Adriano Franci, in cui
sono illustrati i due fenomeni della spirantizzazione dell’occlusiva velare (‘gorgia’) e delle
affricate palatali intervocaliche (Richardson 1984: 96):
Dico dunque che qualunque sillaba incomincia da c o da g […], quella sillaba, fuori di dui casi, sempre è
aspirata, et nessuna altra in tutta la toscana lingua è aspirata, sì come fuoco, luogo, allaga, vaghi, piaghe,
agevole, placido, et altri con questi; perché in tutte queste sillabe se li dà un poco di fiato maggiore, che
l’ingrassa et che l’aspira. Da questa regola dissi togliersene via dui casi. Il primo è, non esser questo vero nel
principio de le dizioni, come sarebbe cane, conto, cura, chino, gallo, gola, Ghinazano, Guglielmo, ne li quali
non si truova aspiratione. L’altro è quando inanzi a queste tai lettere vi fosse consonante et non vocale, come è in
fianco, forche, spargo, punge, piangi et altri luoghi come questi, de’ quali nissuno è che s’aspiri.

Espressa tutta la nostra ammirazione al Tolomei per l’accuratezza con cui ha descritto la
variazione combinatoria dei fonemi /k/, /ʧ/ e /ʤ/, cioè la loro diversa realizzazione fonetica a
seconda del contesto di parola e di frase (solo precisiamo che il «principio de le dizioni» va
inteso come posizione iniziale assoluta), occorre subito indicare la presenza di un elemento
problematico, come non di rado accade in questo tipo di testimonianze antiche che (com’è
ovvio) non sono foneticamente verificabili: se infatti il rilievo della spirantizzazione di /k/, /ʧ/
e /ʤ/ è congruente con la fisionomia a noi nota del fiorentino-toscano, sorprende invece
l’osservazione relativa alla spirantizzazione di /g/, a cui gli studiosi non hanno ritenuto di
dover dar credito (Folena 1956: 501 n. 2). Comunque sia, quella del Tolomei rimane la prima
testimonianza precisa di come funziona la gorgia toscana, al di là delle segnalazioni
approssimative o impressionistiche di Erasmo da Rotterdam e di Mario Equicola riferibili al
primo decennio del XVI sec. (Fiorelli 1987: 164-166; Ricci 1999: 101, 213). Questo non
significa naturalmente che il fenomeno non possa essere anteriore, e anche di molto, al sec.
XVI: l’assenza di documentazione diretta sarebbe allora da mettere in conto non solo
all’indisponibilità di un segno specifico nell’alfabeto latino, ma anche, e soprattutto, al suo
carattere meramente allofonico. Diverso è invece il caso della spirantizzazione delle affricate
palatali (del tipo pa[ʃ]e, a[ʒ]evole), perché è appunto il rilievo fonologico della collisione di
tali allofoni di /ʧ/ e /ʤ/ con le sibilanti palatali provenienti da -SJ- ad averne reso possibile la
precoce registrazione grafica (ascievolemente in Fantino da San Friano [1275] sul modello di
cascione, la via del nosce in una registrazione catastale del 1427 sul modello di bascio;
Castellani 1952: I, 31-32).

2. Lineamenti di grammatica storica dell’italiano e dei suoi dialetti.

Per la parte fonetica ➔ Fonetica storica, §§ 2 e 3.

2.1. Elementi di morfologia storica.


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N o m e. Di regola i nomi italiani e romanzi sono derivati dall’accusativo latino. Questo


risulta con evidenza nei continuatori degli imparisillabi della III declinazione: amore <
AMOREM, ponte < PONTEM, salute < SALUTEM. In un ristretto numero di casi si è però
conservato il nominativo, soprattutto «nei concetti personali, capaci di presentarsi come
soggetto agente» (Rohlfs 1966-1969: II, § 344): uomo < HOMO, moglie < MULIER, sarto <
SARTOR, prete < preite < PRAEBYTER, ladro < LATRO, re < REX; i dialetti permettono di
aggiungere qualche altro esempio: lig. nevu, istriano e venez. ant. n(i)evo < NEPOS, napol.
sorә, sardo sòrre < SOROR (si noti in entrambi i casi l’assenza di metafonesi), trevig. ant.
pastre < PASTOR, il tipo settentrionale avoga(d)ro, tesa(d)ro (-ader, -aire) < ADVOCATOR,
*TEXATOR, gli esempi di -S nominativale sovrestesa del tipo lomb. filonz ‘filatore’, crivlonz
‘crivellatore’ < -ONEM + -S (cfr. il sardo nemos ‘nessuno’ < NEMO + -S). Si riconosce la
conservazione della forma nominativale anche in una serie di femminili imparisillabi in
dentale (-TAS) con referente inanimato o astratto: Cìvita (nella toponimastica), libèrta, pièta
(Inf. I, 21), podèsta (Inf. VI, 96), sòccita < SOCIETAS, tempesta, Trìnita (cfr. il ponte fiorentino
di Santa Trìnita). Quanto alla classe dei sostantivi personali, poiché delle stesse basi lessicali
sono documentate in area italoromanza anche le forme derivate dall’accusativo (romagn.
òmәn, abr. òmәnә, cal. óminu < HOMINEM; tosc. ant. mogliere, -a, venez. mugèr, lomb. muèr
ecc., e dialetti meridionali mugliere, mugghiere ecc. < MULJEREM; ven., lomb. e roman. ant.
soror(e), seror(e), lomb. serùr < SOROREM; it. nipote, ven. nevodo < NEPOTEM; tosc. ant.,
marchigiano, umbro e laziale sartore, lomb. sartù ecc. < SARTOREM), è sembrato lecito
inferirne l’esistenza, per la fase protoromanza, di un sistema flessivo (almeno) a due casi
valido in genere per i sostantivi con referente personale (Zamboni 2000: 106-115).
Relitti di genitivo, locativo, ablativo si evidenziano soprattutto nell’onomastica: aquil. e
roman. ant. P(i)etri ‘Pietro’, R(i)enzi ‘Renzo’, Firenze < FLORENTIAE, Rimini < ARĪMĬNĪ
(locativi), Acqui < AQUĪS, Fondi < FUNDĪS (ablativi in funzione di locativi), i genitivi plurali
Poggio Santoro (Toscana), Romanoro (Emilia); più raramente negli appellativi come
candelora < (FESTA) CANDELARUM con sostituzione di -ORUM ad -ARUM, friul. ant. Dì
Nocentór ‘giorno degli Innocenti (28 dicembre)’ < DIES *INNOCENTŌRUM per INNOCENT(I)UM,
sardo domo < DOMŌ ablativo (per -o in luogo di -u).
Nel passaggio dal latino all’italoromanzo il sistema delle cinque declinazioni ha subìto un
notevole riassestamento: si sono ben conservate la I (PORTA), la II (MURUS) e la III (NAVIS),
mentre la IV (FRUCTUS, *NŎRUS) e la V (FACIES), tranne numerate eccezioni, sono state
assorbite da altre declinazioni (frutt-o come mur-o, nuor-a e facci-a come port-a). Come già
risulta da questi ultimi esempi, nonché da serie come quelle dei neutri plurali rianalizzati
come singolari della I (FOLIA, PECORA, VELA) e dei neutri della III confluiti nella II (CORPUS,
PECTUS, PIGNUS, TEMPUS, MARMOR), le prime due declinazioni hanno esercitato per tempo una
notevole forza d’attrazione, attirando nel loro àmbito parole appartenenti in origine ad altre
classi flessive: in casi come nuora e faccia il passaggio da una declinazione all’altra (che si
denomina appunto metaplasmo di declinazione) ha permesso una più chiara determinazione
del genere. Questo sembra il principale motivo per cui, nella lingua e nei dialetti, sono
abbastanza numerose la parole che sono passate dalla III alla I o alla II: (III > I) it. ghianda,
fronda, poppa, gli arcaici apa, calla, cota, febbra, froda, greggia, vesta, i dialettali crosa,
neva, nòta ‘notte’, pèla, volpa, zenta (emil.), ava ‘ape’, nosa ‘(la) noce’, vida ‘vite’ (ven.),
cìnnera, pèlla, fida ‘fede’, turra (calabr.) ecc.; (III > II) it. fascio, fusto, ghiro, passero,
sorcio, gli arcaici collo ‘colle’, crino, nomo, vermo, i dialettali latto (laziale), nevodo, -a
(ven.), pepo (marchig.), pescio (lig., tosc., umbro), vòmmaru (calabr.) ecc. Meno frequenti,
nella lingua e nei dialetti, sono i metaplasmi I, II > III: ricordiamo gli arcaismi ale ‘ala’, arme,
pome ‘pomo’, fume. Sono residui della IV declinazione latina i tipi la mano - le mano, la fico
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- le fico, l’aco femm. sing. e plur., caratteristici dell’area mediana e meridionale (tracce se ne
trovano però anche in Toscana e al Nord). L’Italia centro-meridionale ha conservato la
desinenza etimologica -E(M) della V declinazione nel continuatore di FACIEM (sicil. la facci,
calabr. e salent. la facce, napol. ant. la fazze) e nel suffisso -ĬTIES (la bellezze/-izzi, la
ricchezze/-izzi ecc.); appartiene anche alla lingua, invece, fede < FIDEM.
Ricordiamo velocemente altre classi nominali quantitativamente meno rilevanti, come la serie
dei maschili in -a del tipo poeta, pirata, pilota ecc., e il tipo flessivo imparisillabo BARBA -
BARBANE ‘zio’, AVO (-US) - AVONE ‘nonno’, che ha lasciato tracce soprattutto nei dialetti nella
categoria dei nomi di parentela (ma anche nei cognomi derivati da nomi propri, del tipo
Andreani e Cesaroni): venez. barba, lig., ven. ed emil. barbàŋ, pugl. varәvanә ‘zio’ (e su
questo modello si è foggiato il meridionale zianә), pugl. e luc. attanә ‘padre’, friul. avóŋ
‘nonno’, napol. vavónә, ferrarese nunóŋ; a questa classe si sono aggregati gli appellativi
personali scrivano, sagrestano (con metaplasmo di declinazione), a cui corrispondono, per i
nomi femminili, mammana, puttana, marchesana.
Per la formazione del plurale, i sostantivi in -o, derivati dalla II declinazione latina o a tale
modello flessivo assimilati, continuano il nominativo plurale latino in -Ī: lupi < LUPĪ. I
sostantivi femminili della I declinazione hanno una -e che potrebbe continuare tanto il
nominativo -AE quanto l’accusativo -ĀS (per palatalizzazione di a provocata da -S ovvero
attraverso *-ai; Lausberg 1976: II, § 594). Per i nomi della III, la desinenza -i della lingua è
spiegata da alcuni come il risultato della normale evoluzione fonetica di -ES (innalzamento di
e in i indotto da -S); ma si è anche pensato ad un’estensione analogica della -i di lupi,
avvenuta prima nei maschili ((l)i cane > (l)i cani) e poi nei femminili (le volpe > le volpi),
ipotesi che parrebbe suffragata dalla «maggior diffusione [nella lingua letteraria antica e nei
dialetti, anche toscani] di -e [che potrebbe continuare direttamente -ES] nel plurale delle
parole femminili rispetto a quello delle parole maschili (i cane)» (Rohlfs 1966-1969: II, §
366). Alcuni nomi in -o formano un plurale di valore collettivo in -a, desinenza che continua
il plurale neutro latino: il braccio - le braccia, il membro - le membra, l’osso - le ossa ecc. e
(in parole originariamente non neutre) il dito - le dita, il grido - le grida ecc., a cui si possono
aggiungere vari arcaismi come le anella, le castella, le vasa ecc. (si rilevi la caratteristica
alternanza di genere tra singolare e plurale e la frequente compresenza nel sistema di plurali di
valore singolativo in -i: i bracci, i membri, gli ossi ecc.). In alcune aree settentrionali «la
flessione casuale -a, -ane […] fu rifunzionalizzata nella formazione imparisillaba del plurale
di una serie di nomi di parentela» (Bertoletti 2006: 172) o con referente personale, secondo lo
schema ‘singolare breve - plurale lungo’, del tipo barba - barbani, neza - nezane, mil. tosa -
tosan, mata - matan ‘ragazza, -e’ ecc. (ricordiamo qui anche il tipo istriano nevo - navudi
‘nipote, -i’, pugl. sórә - sәrùrә ‘sorella, -e’, direttamente riconducibile al paradigma
imparisillabo latino).
I cambi, o metaplasmi, di genere, riguardano per lo più, com’è comprensibile, i nomi della III
declinazione, che fin dal latino risulta indefinita nel genere. ARBOREM si conserva femminile
solo in sardo (e in portoghese), mentre altrove passa al maschile (in toscano al metaplasmo di
genere si somma quello di declinazione: albero); il genere latino traspare ancora però in
quercia, dial. cerqua < (ARBOR) QUERCEA e nel settentrionale fa[z]a < (ARBOR) FAGEA.
PULICEM e CIMICEM, maschili in latino, nei dialetti meridionali, in veneto e in lombardo, sono
diventati femminili in toscano. Per l’Italia dialettale si segnala il passaggio al femminile di
una serie di antichi neutri: nel Nord la late, la sal(e), la mel(e), la fel(e), la mar(e); nel Sud
sono divenuti femminili i nomi composti col suffisso collettivo -MEN: la cordame, la ligname,
la legume, la fracetume, la untime, la grassime (sono invece documentati anche al Nord la
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lume e la nome). Per il neoneutro mediano e alto-meridionale v. alla fine del paragrafo
relativo all’articolo.

A r t i c o l o. Nell’uso di Dante – che può essere assunto come un attendibile rappresentante


della situazione linguistica fiorentina fra Due e Trecento – le forme dell’articolo
determinativo masch. sing. davanti a consonante sono lo, il e l (tradizionalmente trascritto ’l,
perché inteso senz’altro come riduzione di il). Nel dettaglio, lo, che nell’italiano odierno ha
una distribuzione molto ristretta, è in Dante la forma quantitativamente maggioritaria e la sola
possibile in posizione iniziale di enunciato (Inf. II, 1: Lo giorno se n’andava…) e all’interno
di frase dopo finale consonantica (Inf. I, 27: si volse a retro a rimirar lo passo), mentre il e l
presentano le medesime condizioni distribuzionali, potendo ricorrere solo all’interno di frase
dopo finale vocalica (Inf. I, 15: che m’avea di paura il cor compunto; Inf. I, 30: sì che ’l piè
fermo sempre era ’l più basso). Sotto il rispetto prosodico, lo e il devono essere considerati,
come nell’italiano odierno, fonologicamente proclitici alla parola seguente, mentre l è
enclitico alla parola precedente. Questo stato di cose, noto come legge di Gröber, suggerisce
che il si sia originato, mediante prostesi vocalica, da l, a sua volta riduzione di lo per apocope
di -o finale, secondo la trafila: giugne lo tempo > giugne l tempo (come figliuolo mio >
figliuol mio) > giugne il tempo (Gröber 1877; Vanelli 1998 [1992]: 169-214).
La verosimiglianza di una tale ricostruzione è ribadita da considerazioni di natura areale e
tipologica: le forme cosiddette deboli dell’articolo, cioè il tipo vocale + l (il, el, al, әl ecc.), si
trovano in varietà, come quelle centro-settentrionali, in cui è normale il troncamento dopo
sonante, mentre sono assenti in quelle varietà, come i dialetti centro-meridionali, che nelle
stesse condizioni non conoscono l’apocope (napol. o < lo, sicil. lu ecc.). La stessa presenza
del tipo forte l + vocale (lo/lu) in sacche isolate o in aree periferiche del Nord, come il ligure e
certe parlate carniche, conferma il carattere innovativo del tipo debole rispetto a quello forte.
Si possono aggiungere argomenti d’ordine storico-filologico: ci sono infatti varietà, come il
veneziano e il friulano centrale, che mostrano nella loro evoluzione il passaggio da una fase
antica caratterizzata dall’impiego pressoché esclusivo della forma forte a una fase moderna in
cui si è affermato il tipo debole (Stussi 1965: XLIV-XLV; Benincà-Vanelli 1998: 72-73).
Andranno poi ricordate le tracce lasciate negli antichi volgari italiani dalla forma bisillabica
dell’articolo. Prescindendo dalla preposizione articolata del tipo (in)nello < IN ĬLLUM, in cui la
forma piena si è conservata in una sequenza postconsonantica fissa (Lausberg 1976: II, §
744), ne sono stati segnalati sicuri esempi dal Veneto al Salento: veron. ant. igi filosofi ‘i
filosofi’, pavano ruzzantesco igi umene ‘gli uomini’, marchig. ant. ellu fante ‘il fanciullo’,
lucano ant. illo patri ‘il padre’ ~ ella carne, salent. ant. illi codardi ~ ella femina (Formentin
1996 e 2002).
Due diverse forme dell’articolo, cioè lu < ILLUM e lo < *ILLOC o *ILL’HOC (Merlo 1906), sono
adibite nell’Italia mediana a distinguere il maschile dal cosiddetto neoneutro, così definito per
indicarne la soluzione di continuità rispetto al neutro latino: si tratta di una classe
morfosemantica in cui rientrano i sostantivi di materia e in genere tutto ciò che non è
numerabile. Dunque in quest’area si distingue lu cane da lo pane, lu férru ‘il ferro (arnese)’
da lo fèrro ‘il ferro (materia)’. Una tale opposizione è propria anche della contigua zona
campano-lucano-pugliese, ma con altra modalità, perché in queste varietà la distinzione è
affidata al potere rafforzante dell’articolo neoneutro, che si ritrova anche nell’articolo
femminile plurale: napol. o fiérrә (arnese) ~ o ffiérrә (materia), come e ffémmәnә < ILLAEC
FEMINAE (o -AS).
8 VITTORIO FORMENTIN

P r o n o m e. In generale il settore dei pronomi ha conservato meglio la complessità


pluricasuale della matrice latina. Nella serie tonica dei pronomi personali di I, II e III persona
singolare l’italiano distingue ancora bene, per forma e funzione sintattica, le forme soggettive
derivate dal nominativo latino (io < ĔGO, tu < TŪ, egli < *ILLĪ con la -i nominativale di QUĪ
relativo e interrogativo) dalle forme oggettive e oblique provenienti dall’accusativo latino (me
< MĒ, te < TĒ) e dal dativo ILLÚI, originatosi sul modello di CUI. Si noti che lui e lei < ILLAEI,
insieme alla funzione di oggetto e obliquo preposizionale (ho visto lui/lei, vado con lui/lei
ecc.), in it. ant. potevano essere usati senza preposizione col valore di oggetto indiretto,
secondo etimologia: «rispuos’io lui con vergognosa fronte» (Inf. I, 81), «Ond’io rispuosi lei»
(Purg. XXXIII, 91); com’è noto, nella lingua moderna (con prodromi fin dal Trecento) lui e
lei si sono sostituiti a egli, ella nell’espressione del soggetto pronominale. Ricordiamo ancora
gli ormai arcaici meco, teco < MĒCUM, TĒCUM, che sopravvivono però nei dialetti, anche
toscani. Alle prime due persone del plurale, in tutte le funzioni sintattiche, si trovano i
continuatori di NŌS > noi e VŌS > voi (che anticamente potevano ricorrere anch’essi con
valore di oggetto indiretto senza preposizione), con la regolare vocalizzazione di -S in un
monosillabo, assieme ai quali ricordiamo i disusati nosco e vosco; alla terza plurale si ha, in
funzione di soggetto, l’arcaico elli(no)/elle(no) e essi/esse, mentre nella lingua odierna si
preferisce l’etimologicamente obliquo loro < (IL)LŌRUM, che, nella funzione originaria di
genitivo-dativo, può ricorrere senza preposizione (la loro casa, ho detto loro). Per il riflessivo
di III persona la forma tonica è sé < SĒ.
Per i dialetti segnaliamo, al Nord, l’evoluzione da un sistema medievale in cui il pronome
soggetto di I e II persona singolare è rappresentato dalle forme etimologiche (per es. venez. e
mil. ant. eo e tu) a un sistema moderno in cui queste sono state sostituite dalle forme oblique
mi < MĪ e ti (analogico su mi); parimenti, per la III pers., agli antichi el(o), ela sono per lo più
sottentrati ‘lui’ e ‘lei’. Un’altra caratteristica notevole dei dialetti settentrionali è lo sviluppo,
accanto alla serie delle forme soggettive toniche, di una serie di forme atone di uso
obbligatorio o facoltativo (‘clitici soggetto’): ven. mi a vago via, ti te parli sempre, lu el vien
doman. Nel Centro-Sud, per il pronome soggetto di III persona singolare e plurale, si usano
ora i continuatori di ĬPSUM (Abruzzo, Lazio, Campania) ora quelli di ĬLLUM (Sicilia, Calabria,
Puglia, Salento). Nel settore dei pronomi oggettivi/obliqui tonici, per le prime due persone il
Nord ha generalizzato il tipo d’origine dativale mi, ti, ben rappresentato anche nel Meridione:
per es. laziale a mmi, de ti ecc. (che sono le forme del roman. ant.), salentino de mie, a ttie,
sicil. cu mmia, di tia ecc.; abbiamo invece la continuazione di MĒ e TĒ a Napoli, in Lucania (a
mme, pә tte ecc.) e in Puglia (mai e tai, con ai < Ē); da segnalare, in alcune aree del Sud, la
continuazione di TĬBĬ nell’obliquo teve, su cui si è foggiato meve (cfr. mebe, tebe e sebe < SĬBĬ
nel Ritmo cassinese, meve e teve nei Siciliani toscanizzati). I testi antichi sia settentrionali che
centro-meridionali mostrano tracce di uno stadio arcaico in cui erano compresenti nel sistema
pronominale le forme d’origine accusativale e quelle d’origine dativale, caratteristiche a
tutt’oggi del sardo e del friulano dove le due serie sono, per le prime due persone del
singolare, in opposizione funzionale (per es. friul. al cjale mè ‘(egli) guarda me’, al è vignût
cà di mè ‘è venuto da me’ ~ a mi mi plâs ‘a me mi piace’). La funzione del riflessivo di III
persona nei dialetti può essere ricoperta da sé o da si (paralleli a me/mi, te/ti), ma spesso è
assunta dal pronome personale: ven. el no pensa che a elo, abr. nәm bènzә ch’a issә ‘non
pensa che a se stesso’.
Per la serie dei pronomi personali atoni, che sono sintatticamente clitici (non possono cioè
essere separati dal verbo se non da un altro clitico), le forme del toscano-italiano sono: mi <
MĒ e MĪ, ti < TĒ e *TĪ (e analogamente per il riflessivo si < SĒ e *SĪ: in queste forme accusativo
e dativo dovevano convergere per ragioni fonetiche); gli oggetto indiretto maschile < (IL)LĪ
GRAMMATICA STORICA 9

(con palatalizzazione dovuta alla posizione prevocalica), le oggetto indiretto femminile <
*(IL)LAE (ma l’it. ant. aveva li ambigenere); lo, la, li, le oggetto diretto < (IL)LUM, (IL)LAM,
(IL)LĪ, (IL)LAE o (IL)LĀS; per la I persona plurale il tosc. ant. reca tracce di no < NOS, ma le
forme normali sono ne (se non da NOS per evoluzione fonetica ininterrotta [Lausberg 1976: II,
§ 727], forse da *NES, forma pronominale del latino arcaico equivalente a NOS; è invece da
respingere la base INDE, pur difesa da Rohlfs 1966-1969: II, § 460, da cui deriva il ne
avverbiale e partitivo) e il moderno ci < ECCE HĪC, di origine suppletiva; per la II persona
plurale il tosc. ant. conosce vo < VOS, ma la forma normale è già in antico vi, anch’esso (come
ne) d’origine discussa (da VOS, da un latino arcaico *VES oppure dall’avverbio IBI in funzione
suppletiva). Quanto ai dialetti, ci limitiamo a ricordare le caratteristiche forme che esprimono
l’oggetto indiretto ambigenere di III persona singolare e plurale, cioè ghe in larga parte del
Nord, di origine non chiara (ven. a ghe parlaria mi ‘gli/le parlerei io’), ncә/ ngә < HINCE (bar.
ngә piacev’ u vinә ‘gli/le piaceva il vino’).
Nei pronomi relativi l’italiano distingue una forma con valore di soggetto e oggetto (che <
QUEM × QUĬD: l’uomo che ride, il libro che ho comprato) e una usata per esprimere l’obliquo,
con o senza preposizione (cui < CUI: la persona di cui ti ho parlato; il fatto (a) cui ti riferisci;
lo dice Mario, la cui onestà è riconosciuta da tutti); anticamente (e a lungo nell’uso letterario)
cui ha potuto indicare anche l’oggetto diretto: e caddi come l’uom cui sonno piglia (Inf. III,
136). Gli antichi dialetti settentrionali e (alto-)meridionali possedevano, accanto all’obliquo
che, una forma relativa nominativale chi < QUĪ in funzione di soggetto: bergam. ant. colù chi
non à pader, napol. ant. chille chi gramatica legeno. In alcune zone del Sud il pronome
relativo è espresso da ca (napol. a primma casa ca truovә), che è originariamente la
congiunzione dichiarativa (< QU(I)A). Come pronome relativo assoluto si usa chi < QUI (l’it.
ant. e i dialetti conoscono in questa funzione anche cui).
L’italiano possiede un sistema di dimostrativi a tre gradi di vicinanza: questo (corrispondente
alla prima persona) < ECCU(M) ISTU(M), codesto o cotesto (corrispondente alla seconda
persona) < ECCU(M) TI(BI) ISTU(M), quello (corrispondente alla terza persona) < ECCU(M)
ILLU(M). Per i pronomi dimostrativi riferiti a persone la lingua ha forme soggettive in -i:
questi, quegli (quei); forme originariamente oblique, ma da tempo impiegate anche in
funzione di soggetto, sono costui/costei, colui/colei, costoro/coloro (cotesti/cotestui ecc. sono
invece ormai disusati); il modello di queste serie è evidentemente egli/lui/lei/loro. Nei dialetti
meridionali e nel sardo la stessa tripartizione è espressa in modo diverso, cioè ricorrendo a
IPSU(M) per il II grado: quistu/kistu/kustu ‘questo’, quissu/kissu/kussu ‘codesto’ < ECCU(M)
IPSU(M), quillu/killu/kuḍḍu ‘quello’. Le varietà dell’Italia mediana e alto-meridionale in cui
esiste il genere neoneutro hanno per questo forme dimostrative distinte da quelle del
maschile: laziale késto pane ~ kistu cane, napol. késtә llardә ‘questo lardo’ (con
raddoppiamento fonosintattico) ~ kistә canә ‘questo cane’ ecc.

V e r b o. L’italiano continua nell’infinito le quattro coniugazioni del latino, secondo lo


schema: I CANTĀRE > cantare; II TIMĒRE > temere; III VIVĔRE > vivere; IV DORMĪRE >
dormire. Anche in italiano, peraltro, si manifesta la tendenza del latino e del (proto)romanzo a
livellare la II e la III coniugazione, in particolare nelle forme finite, tendenza che risulta più
spiccata nei dialetti centro-meridionali e diventa completa fusione nel sardo. Ne è indizio tra
l’altro il cambiamento, o metaplasmo, di coniugazione subìto da molti verbi nel passaggio dal
latino all’italiano: (II > III) MISCĒRE > méscere, MORDĒRE > mòrdere, MOVĒRE > muovere,
RESPONDĒRE > rispóndere, RIDĒRE > rìdere ecc.; (III > II) CADĔRE > cadére, SAPĔRE > sapére.
I verbi in -io della III sono passati alla IV: capire (però capére arcaico e dialettale nel senso di
‘essere contenuto’), fuggire, rapire, morire (< MORIO per MORIOR). Come appunto mostra
10 VITTORIO FORMENTIN

quest’ultimo esempio, i deponenti del latino classico sono passati alla coniugazione attiva:
MINĀRI > MINĀRE > menare, SEQUI > SEQUĔRE > SEQUĪRE > seguire, MORI > MORĔRE >
MORĪRE > morire, NASCI > NASCĔRE > nascere. Sono ancora produttive in italiano la I (per es.
silurare da siluro) e la IV, nel tipo con ampliamento in -isco (per es. i composti parasintetici
del tipo imbellire, imbruttire). Si noti, d’altro canto, che verbi fortemente irregolari come
POSSE e VELLE si sono ‘regolarizzati’ – già in latino volgare – secondo il modello della II
coniugazione (*POTĒRE, *VOLĒRE; però it. posso, possono < PŎSSUM, PŎSSUNT, di contro al
tipo meridionale pozzә < *POTEO).
Indichiamo qui di séguito alcuni elementi di particolare interesse nella storia della flessione
verbale, limitandoci all’àmbito del toscano-italiano e della lingua letteraria.
Indicativo presente. La II persona singolare esce in -i, in parte per evoluzione fonetica
regolare (dormi < DORMĪS e anche vivi < VIVĬS e temi < TĬMĒS, per effetto palatalizzante di -S),
in parte per analogia (canti < cante [desinenza arcaica che Dante impiega in rima] < CANTAS).
La I persona plurale in tosc. ant. mostra molto presto la desinenza -iamo, che subentra alle tre
uscite etimologiche -amo, -emo, -imo, riscontrabili nel senese duecentesco e ancora vitali nei
dialetti mediani (Castellani 1952: I, 139-142); come indica l’arcaica alternanza, nel fiorentino
del XIII sec., tra avemo < HABĒMUS e abbiamo < HABEAMUS, dovemo < DEBĒMUS e dobbiamo
< DEBEAMUS, si tratta dell’estensione della desinenza congiuntiva. Nella III persona plurale la
-o è epitetica, a partire dalle forme *cantan, *temen, *vivon, *dormon, cui si doveva pervenire
per caduta foneticamente regolare della consonante finale di CANTANT ecc. (Merlo 1909); la
desinenza -ono < -UN(T) è stata estesa alla II e alla IV coniugazione.
Indicativo imperfetto. Alla I persona singolare la desinenza etimologica in -a (io amava,
temeva, dormiva e io era), l’unica usata dalle Tre Corone, attraverso la codificazione
grammaticale del Bembo resiste a lungo nell’uso letterario, sicché soltanto col Manzoni riesce
ad imporsi il tipo moderno in -o (per influsso del presente: io canto, io sono), i cui primi
esempi ricorrono in fiorentino già nella seconda metà del XIV sec. Normale, nella lingua
letteraria, è l’oscillazione tra il tipo -eva, -iva e il tipo -ea, -ia, che si è originato per
dissimilazione (v - v > v - Ø) in quei verbi della II e III coniugazione contenenti -v- nella
radice (HABEBAM > aveva > avea, VIVEBAM > viveva > vivea, DEBEBAM > deveva > devea).
Congiuntivo presente. Alla II persona singolare il fior. ant. opponeva -i della I coniugazione
(canti < CANTES) a -e delle altre classi (abbie < HABEAS, diche < DICAS). «Alla fine del sec.
XIII - principio del sec. XIV […] a Firenze […] si tende all’unificazione in -i di tutte le
desinenze» (Castellani 1952: I, 70) e dunque si ha canti, abbi, dichi; infine «l’odierna
desinenza -a nei congiuntivi dei verbi in -ére, -́ere, -ire si trova qua e là dall’inizio del sec.
XIV [per es. in Inf. VIII, 57: Di tal disïo convien che tu goda], e si generalizza fra Trecento e
Quattrocento» (Castellani 1952: I, 72).
Congiuntivo imperfetto. Alla I persona singolare nell’it. ant., accanto all’odierno -i, si trova
ancora la desinenza etimologica -e < CANTA(VI)SSEM ecc. (Inf. XIII, 25: Cred’ïo ch’ei credette
ch’io credesse ~ Inf. XXXII, 1: S’ïo avessi le rime aspre e chiocce); del resto l’oscillazione
tra -e ed -i alla I persona si riflette nell’alternanza tra -e ed -i alla III (Inf. IV, 64: Non
lasciavam l’andar perch’ei dicessi). La polimorfia tipica delle terze plurali nella lingua antica
(-assero, -essero, -issero; -assono, -essono, -issono ecc.) è in rapporto con l’analoga
polimorfia delle terze plurali del passato remoto.
Passato remoto. Il paradigma del passato remoto debole (accentato sulle desinenze) della I
coniugazione corrisponde alle relative forme del latino volgare: CANTAI, CANTASTI, CANTÀUT
(> cantò), CANTÀIMUS (> CANTÀMMUS > cantammo), CANTASTIS, CANTARUNT (> cantaro).
Alla III persona plurale l’antico -aro è stato prima affiancato e poi sostituito da -arono, per
analogia sulla desinenza del presente (cantano); altre forme di III plurale variamente
GRAMMATICA STORICA 11

documentate nell’uso letterario antico sono cantarno (da -arono per sincope), cantòro,
cantòrono, cantorno (con la -ò della III singolare), cantònno (usata in rima anche da Dante,
d’origine toscana occidentale). Analogamente nei verbi della coniugazione in e abbiamo
battéi, battésti, (battéo >) batté, battémmo, battéste, (battéro >) battérono e nei verbi della IV
dormii, dormisti, (dormìo >) dormì, dormimmo, dormiste, (dormiro >) dormirono. Un’altra
formazione debole, diffusa nei verbi della II e III coniugazione, è rappresentata dal tipo
*CREDÈTTI, che utilizza la desinenza -ÈTTI del perfetto *STETUI (per il classico STETI): credètti
(sedetti), credésti, credètte, credémmo, credéste, credèttero; questo paradigma spesso si
affianca, nella lingua antica e letteraria, a un tipo forte (chiesi/chiedetti, persi/perdetti,
tacqui/tacetti ecc.; cfr. anche diedi/detti).
I verbi della II e III coniugazione, in latino, avevano tre tipi di perfetto forte (accentato sulla
radice), che si sono continuati nell’italiano: 1. formazione in -Ī (VĪDĪ > vidi); 2. formazione in
-SĪ (MĪSĪ > misi, DĪXĪ > dissi); 3. formazione in -UI (HABUI > *HEBUI > èbbi). Nel latino
volgare erano rizotoniche la I persona singolare e plurale e la III persona singolare e plurale
(DÌXI, DÌXIT, DÌXIMUS, DÌXERUNT [per il classico DIXĒRUNT]), era rizoatona la II persona
singolare e plurale (DIXÌSTI, DIXÌSTIS): questo schema accentuativo rimane inalterato in molti
dialetti italiani, in cui la I persona plurale è rimasta rizotonica (lucch. dìssimo, èbbimo, fécimo
ecc.; sicil. àppimu ‘avemmo’, pòttimu ‘potemmo’, vìnnimu ‘venimmo’ ecc.); si è invece
modificato in italiano, perché la I persona plurale ha spostato l’accento sulla desinenza per
analogia con il tipo debole credemmo; inoltre le persone rizoatone si sono riformate sul tema
del presente: dicesti, dicemmo, diceste. Tipica della lingua antica è la polimorfia della III
persona plurale: dissero, dissono, dissoro, disseno, disserono (Schiaffini 1926: XIV-XXIV;
Castellani 1952: I, 142-156; Nencioni 1989 [1953-1954]: 11-188). Per quanto attiene al
perfetto del verbo ‘essere’, per spiegare il vocalismo di fui (lat. FŬĪ) si è ipotizzata la presenza
di «un tratto fonetico arcaico, il mantenimento di u lunga» pur innanzi a vocale (Serianni
1998: 99) ovvero un’influenza metafonetica di -Ī a contatto (Lausberg 1976: II, § 905):
comunque sia, il vocalismo di fui si è esteso per analogia a fu, fummo, furono (anticamente
anche fòro, fuòro, fuòrono, forme anche queste con vocalismo irregolare), mentre fosti e foste
muovono da *FUSTI e *FUSTIS.
Futuro. «Si può credere che tra le cause dell’ostracismo dato dalle lingue romanze al futuro
latino sia che esso veniva a coincidere nella forma con altri tempi, AMABO per es. con
AMABAM» (Parodi 1957 [1923]: I, 55), e così CANTABI(T), CANTABIMUS ∼ CANTAVI,
CANTAVIMUS; avrà inoltre giocato a sfavore del futuro organico la diversità di formazione
nelle varie coniugazioni (cantabo, timebo, vivam, dormiam). Fatto sta che nella Romània per
esprimere il futuro si fece ricorso a costruzioni perifrastiche di vario tipo, la più diffusa delle
quali, propria anche dell’italiano, consiste nella sequenza infinito + forme ridotte del presente
indicativo di HABERE (con fissazione dell’accento sul verbo ausiliare): *CANTARAO > canterò,
*CANTARAS > canterai, *CANTARAT > canterà, *CANTAR(AB)EMUS > canteremo,
*CATAR(AB)ETIS > canterete, *CANTARAN(T) > canteranno (per il passaggio, tipico del
fiorentino, di -ar- atono a -er- ➔ Fonetica storica, § 2.1).
Condizionale. Un’altra neoformazione romanza è il condizionale, modo verbale non esistente
in latino, costituito dalla perifrasi infinito + forme ridotte del perfetto o dell’imperfetto di
HABERE; il suo valore è quello di un futuro del passato (disse che canterebbe/avrebbe cantato)
e di modo dell’irrealtà nell’apodosi del periodo ipotetico (se potessi, canterei). Tipo CANTARE
HABUI (*HEBUI), proprio del toscano e dell’italiano: canterei, -esti, -ebbe, -emmo, -este, -
ebbero (anticamente, con una polimorfia analoga a quella delle III persone plurali del perfetto
e del congiuntivo imperfetto, anche -ebbono, -ebboro ecc.). Il tipo CANTARE HABEBAM è
proprio di molti dialetti italiani e della lingua poetica (nella quale si ritiene eredità dei
12 VITTORIO FORMENTIN

Siciliani); è però abbastanza raro che se ne abbia la flessione completa (per un quadro
generale v. Rohlfs 1966-1969: II, §§ 593-599): le forme più diffuse e frequenti sono quelle di
I persona singolare e di III persona singolare e plurale (cantaria/canteria ‘canterei’ e
‘canterebbe’, cantariano/canteriano/-ieno ‘canterebbero’). Tipico dei dialetti centro-
meridionali è il condizionale derivato dal piucchepperfetto indicativo latino, che (ancora una
volta attraverso il modello dei Siciliani: cfr. gravara, sembrara, sofondara in Giacomo da
Lentini) ha lasciato tracce nella nostra lingua letteraria, nella quale è particolarmente diffuso e
persistente fòra < FUERAM, -AT, fòrano < FUERANT (collo stesso vocalismo di fòro ‘furono’).
Imperativo. Alla II persona singolare il tipo etimologico a tre uscite (-a, -e, -i) è nei testi
antichi un tratto toscano ma non fiorentino (Castellani 1952: I, 41): in italiano abbiamo
dunque canta e tieni/leggi come dormi, mentre sono distinte le II plurali, uguali alle rispettive
forme dell’indicativo (cantate, tenete/leggete, dormite). Nel fior. ant. non era ancora avvenuta
la «sostituzione delle forme dell’imperativo dei verbi dare, fare, stare, andare colle forme
corrispondenti dell’indicativo (tipo dai o da’ in luogo di da con raddoppiamento della
consonante iniziale della parola seguente – ma il vecchio imperativo si conserva quand’è
unito a un’enclitica: dammi)» (Castellani 1980 [1967]: I, 33). Forme congiuntive in funzione
d’imperativo sono sii e siate, abbi e abbiate, sappi e sappiate.
Participio passato. I tipi deboli hanno le desinenze -ato (I: CANTĀTUS), -ito (IV: FINĪTUS) e -
uto (II e III, dai verbi in -UĔRE: TRIBŪTUS); quest’ultima si è estesa largamente entro la
coniugazione in e, in cui ha spesso sostituito o affiancato forme forti, attaccandosi in genere al
tema dell’infinito (avuto, caduto, dovuto, perduto, veduto ecc.), più di rado al tema del
perfetto (vissuto) o del presente (bevuto e le forme arcaiche o dialettali vagliuto ‘valso’ e
possuto ‘potuto’). I participi forti si dividono nelle classi in -to (DICTUS, NATUS), in -sto
(POSĬTUS, QUAESĬTUS per QUAESĪTUS), in -so (ACCE(N)SUS, ARSUS), con rimodellamenti vari
dovuti a fenomeni di attrazione analogica (v. Rohlfs 1966-1969: II, §§ 623-625).

2.2. Elementi di sintassi storica.


Per quanto riguarda il nome, in it. ant. era possibile che il determinante (personale) seguisse
o precedesse il determinato senza ‘di’ (obliquo senza preposizione): il nodo Salamone, il
porco Sant’Antonio (Dante), a casa la donna, la Dio mercè (Boccaccio), la moglie Menelao
(Brunetto Latini) ecc.
Per la sintassi dell’articolo è di norma rispettata nella lingua antica la cosiddetta legge
Migliorini, per la quale il complemento di materia retto da articolo determinativo + nome
vuole la preposizione articolata (il fiorino dell’oro ~ uno fiorino d’oro). Senza articolo,
invece, si usavano certi sostantivi che non avevano bisogno di essere specificati o
individualizzati, come i nomi geografici e gli etnici, evidentemente trattati alla stregua di
nomi propri: le piaghe c’hanno Italia morta, io piovvi di Toscana, onde Puglia e Proenza già
si dole (Dante), ingannao Fiorentini, Romani so’ mala iente (Anonimo romano); e così i nomi
che designano enti unici e indeterminati: io vidi più di mille in su le porte | da ciel piovuti (Inf.
VIII, 82-83; cfr. ancora oggi da terra, a mare). Senza articolo potevano ricorrere anche i
possessivi (e sua nazion sarà tra feltro e feltro: Inf., I 105) e tutto (Ed una lupa, che di tutte
brame: Inf. I, 49).
Accanto al «si» impersonale la lingua antica aveva il tipo HOMO CANTAT ‘si canta’,
equivalente al francese on chante; i due costrutti sono compresenti nella seguente terzina
dantesca: Vassi in Sanleo e discendesi in Noli, | montasi su in Bismantova e ’n Cacume | con
esso i piè; ma qui convien ch’om voli (Purg. IV, 25-27).
Almeno fino alla metà del Trecento vige la legge di Tobler e Mussafia, per la quale è
obbligatoria l’enclisi alla forma verbale dei pronomi e delle particelle pronominali atone nelle
GRAMMATICA STORICA 13

seguenti condizioni: 1. in principio di frase: Ruppemi l’alto sonno ne la testa (Inf. IV, 1); 2.
dopo le congiunzioni e, ma: Poi si rivolse e ripassossi ’l guazzo (Inf. XII, 139), ma vassi per
veder le vostre pene (Inf. XII, 21); 3. all’inizio di una principale posposta alla propria
subordinata: Ma quando tu sarai nel dolce mondo, | priegoti ch’a la mente altrui mi rechi
(Inf. VI, 88-89). «A dire il vero, nel secondo e soprattutto nel terzo contesto […] è dato spesso
incontrare eccezioni nei testi antichi, sicché le tre condizioni sintattiche descritte si devono
intendere disposte, in relazione all’obbligo dell’enclisi al verbo, in senso scalare, dal più al
meno» (Formentin 2007: 27). Nei testi antichi, del resto, l’enclisi alla voce verbale può
ricorrere anche al di fuori delle condizioni previste dalla legge di Tobler e Mussafia (si parla
allora di enclisi libera): dritto sì come andar vuolsi rife’mi (Purg. XII, 7).
Quanto all’ordine dei pronomi atoni, nel fiorentino del Duecento prevale la sequenza lo mi,
cioè accusativo + dativo, norma ancora rispettata da Dante (E se non fosse ch’ancor lo mi
vieta: Inf. XIX, 100), mentre già nel Decameron di Boccaccio il tipo arcaico coesiste con il
tipo moderno me lo in proporzioni pressoché uguali. Per tutto il Trecento resiste gliele
invariabile, in cui l’ordine (si badi) è quello arcaico accusativo + dativo (gliele perdonerebbe
liberamente ‘i peccati a lui’, Decam. I 1 68): in seguito all’introduzione della combinazione
me lo, nel corso del sec. XV gliele venne rianalizzato come ‘a lui lo’, con la conseguente
possibilità di flettere le in lo, la, li, le.
In testi appartenenti per lo più all’area mediana tra il pronome atono e il verbo si può
interporre la negazione, un altro avverbio o (più raramente) elementi lessicali di diversa
natura: lu cor […] lo non recepia (Ritmo su sant’Alessio), tuttu lo ’m balia tenete (Ritmo
cassinese), li granni ci non potiano (Buccio di Ranallo), la anche tirava (Trattati di santa
Francesca Romana).
Quando un infinito dipende da un verbo modale, aspettuale o di movimento, nella lingua
antica il pronome atono sintatticamente determinato dall’infinito si cliticizza di norma al
verbo reggente (cosiddetta ‘risalita del clitico’), mentre l’italiano moderno permette di unire il
clitico sia all’uno che all’altro (lo voglio salutare/voglio salutarlo): là i potrai vedere (Inf. VI,
87), non mi volea far cristiano (Decam. I 2 27), s’incominciò a confortare (Decam. X 9 69),
dopo alcun ballo s’andarono a riposare (Decam. II Intr. 3).
Nel fiorentino antico la selezione dell’ausiliare essere o avere con i riflessivi è sensibile al
carattere inizialmente intransitivo o transitivo della struttura sintattica: e dunque al tipo E io,
che del color mi fui accorto (Inf. IV, 16), con l’ausiliare essere come in sono venuto, si
contrappone il tipo Ancisa t’hai per non perder Lavina (Purg. XVII, 37), con l’ausiliare avere
come in hai ucciso il nemico.
Per la sintassi del periodo si segnalano alcuni costrutti particolari, come la coordinazione
asindetica di due imperativi (va dormi = va’ a dormire); la coordinazione di gerundio e verbo
di modo finito (Il quale, avendo disposto di fare una notabile e maravigliosa festa in Verona,
e a quella molta gente e di varie parti fosse venuta […], subito […] da ciò si ritrasse: Decam.
I 7 6); la coordinazione di un infinito a una subordinata esplicita precedente (Sacchetti: perché
fossimo a tanto beneficio […] più ferventi, e muoversi ad amore verso Lui); la cosiddetta
paraipotassi, per cui la frase principale viene coordinata tramite e alla dipendente che precede:
S’io dissi falso, e tu falsasti il conio (Inf. XXX, 115), Poiché voi di questo mi fate sicuro, e io
il vi dirò (Decam. I 1 39).
È ben documentato già in Boccaccio, ma non è davvero frequente prima del XV sec., il
fenomeno convenzionalmente chiamato ellissi del che, congiunzione e pronome relativo, per
cui vengono semplicemente giustapposte alla principale proposizioni appunto relative,
dichiarative o completive col congiuntivo: l’aspetto di tal donna nella danza era ‘che era
14 VITTORIO FORMENTIN

nella danza’ (Decam. IV Concl. 18), e poi più volte si dee credere ve la facesser tornare
(Decam. I 4 22), Molto è scura cosa […] avere quello ardire ebbe lui (Sacchetti).
In it. ant. sono possibili tipi di accordo del participio passato che la lingua moderna non
consente più. Il costrutto del tipo fu tagliato la cipolla (Morelli), fu dato a lui gli stadighi
[‘ostaggi’] (Morelli) presenta «una forma impersonale di verbo transitivo costituita da essere
+ participio neutro» (Brambilla Ageno 1964: 163), seguita da un sostantivo in funzione di
oggetto (come nella frase «cum factum fuerit missam» della Peregrinatio Aetheriae); analogo
a questo è il tipo rappresentato dal tempo composto di un verbo intransitivo inaccusativo (cioè
con ausiliare essere): essendo venuto […] la compagnia de’ Bardi (Velluti), t’è entrato
nell’animo cento pensieri (Macinghi Strozzi). La lingua antica conosce anche sporadici
esempi di accordo col soggetto del participio di verbi transitivi e intransitivi inergativi (cioè
con ausiliare avere): la corte ha tutta mangiata (Framm. del Buovo d’Antona), ell’ha forse
vernata (Dante), avendo più miglie […] caminati (Masuccio Salernitano).
GRAMMATICA STORICA 15

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