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Riassunto “L’ordine delle parole”.

Cap. 1) Preistoria del vocabolario

1. I precedenti antichi: i repertori eruditi e glossari bilingui


1.1 Valerio Flacco

Ci si potrebbe chiedere se il dizionario sia uno strumento antico, se fosse già presente in forme simili a
quelle moderne nel mondo greco e latino. Gli storici della lessicografia indicano nelle letterature classiche
alcuni precedenti, anche se sono strumenti molto diversi rispetto al vocabolario odierno, per forma e scopo.
A tal proposito possiamo citare il De verborum significatu di Marco Verrio Flacco che conosciamo
attraverso l’epitome di Pompeo Festo: ne resta una parte riguardante la seconda metà dell’alfabeto, dalla M
in poi. Essa fu poi riassunta da Paolo Diacono nell’VIII secolo. Sicuramente l’opera originale di Flacco
condivide con il vocabolario odierno la mole. Tuttavia, anche nell’epitome si ha l’impressione che non sia
un vocabolario così concepito come lo intendiamo noi oggi: non è una raccolta completa del lessico che
vuole rappresentare il patrimonio della lingua. Si tratta di un repertorio erudito che riunisce informazioni
disomogenee per illustrare parole antiquate o difficile per un romano del tempo (parole di Plauto, per
esempio, che ormai non si usano più). Si danno informazioni sui significati particolari o curiosi: il
lessicografo ci dice che mantare spesso vale aspettare e cita la battuta di una commedia di Cecilio Stazio.
Mantare è usato in modo simile da Plauto, vissuto all’epoca di Cecilio Stazio. L’opera di Plauto ci è
arrivata parzialmente, mentre quella di Cecilio Stazio si è perduta, salvo pochi frammenti superstiti come
questo tramandato da Verrio Flacco.
Il vocabolarista – glossatore, in questo caso, raccoglie, commenta e conserva un arcaismo che ricorreva
ancora nel III secolo e che altrimenti si sarebbe perduto. Nella raccolta di Verrio – Festo entrano materiali
diversi, anche nomi propri: il nome osco Mamerco o la famiglia dei Mamili. La raccolta documenta parole
rare e arcaiche, ci trasmette frammenti di opere disperse, di cui si salva qualche scheggia grazie al
commento e alla spiegazione lessicale. Però non contiene tutta la lingua latina perché non era l’obiettivo
dell’autore. Alcuni grandi vocabolari delle lingue europee, invece, sono o sono stati il simbolo della nazione
che li ha prodotti, ne hanno rappresentato la cultura: il Vocabolario degli Accademici della Crusca,
l’Oxford Dictionary. Nell’antichità classica mai una raccolta di parole ha assunto un valore simbolico così
alto: in una posizione del genere potevano essere collocati solo capolavori di grandi autori come Omero e
Virgilio, visti come il segno di una tradizione culturale. Quindi, il forte peso del vocabolario nella cultura di
una nazione è un fatto moderno.

1.2 Altri percorritori e la “Suda”


Verrio Flacco, anticipatore della lessicografia, visse durante l’epoca di Augusto. Tuttavia, chi si occupa di
dizionari bilingui può risalire indietro nel tempo: tutte le civiltà antiche che conoscevano la scrittura, ci
hanno lasciato liste bilingui o plurilingui redatte da scribi e amministratori. Si pensi alle tavolette d’argilla
ritrovare nel 1975 ad Ebla da una missione italiana che risalgono al III millennio a.C; però la civiltà greca,
latina e egiziana non sentirono il bisogno di dizionari bilingui e quindi la studiosa Carla Marello, dopo aver
affermato ciò, colloca l’opera di Verrio Flacco e di Festo nel campo della glossa, cioè della spiegazione in
margine ad un testo.
La lessicografia antica si presenta con prodotti difficili da classificare perché accorpano strumenti che per
noi hanno assunto funzioni diverse. Le glosse antiche e le annotazioni sconfinano nel gusto erudito ed
enciclopedico, l’etimologia si confonde con la notizia lessicale peregrina. Oggi invece, l’etimologia ha una
sua autonomia. I nostri dizionari le danno ancora spazio, senza mescolarla alla definizione. Per gli antichi,
invece, la spiegazione dell’origine era la via maestra per accedere al significato.
Tra i percorritori vi è anche Nonio Marcello e il glossario bilingue di Filosseno, datato all’VIII – IX secolo,
inserendosi nella tradizione dei glossari medievali bilingui. Per la lingua greca è fondamentale il riferimento
alla Suida o Suda, del X secolo (non si sa se è il nome dell’autore o il titolo: si dice “il lessico di Suida”),
opera di grande mole che raccoglie trentamila voci, a metà tra il dizionario e l’enciclopedia letteraria, storica
ed erudita. C’è chi interpreta il titolo come una metafora: suda sarebbe la fortificazione di legno, come per
dire che il libro serve all’uomo di cultura per difendersi.

1.3 Isidoro di Siviglia e le enciclopedie medievali


I dizionari antichi, collocabili nella preistoria della lessicografia, mescolano elementi diversi, scavalcano i
generi, assomigliano a summae erudite e disomogenee.
Il riferimento non è casuale: la tappa successiva, su cui si sono soffermati tutti quelli che hanno tracciato la
storia dei vocabolari, sono le enciclopedie del Medioevo, come quelle di Isidoro di Siviglia e di Rabano
Mauro, del VI – VII secolo e dell’VIII secolo. La raccolta di Isidoro, uno dei libri più famosi dell’Alto
Medioevo, si intitola Etymologiarum sive Originum libri viginti: Isidoro è uno dei primi etimologisti.
L’etimologia è solo una delle componenti del patrimonio del sapere riunito in un libro che non ha nulla del
dizionario: non ha una struttura alfabetica, ma questo non è un requisito necessario (alcuni vocabolari di
oggi, come quelli metodici, non sono alfabetici). In Isidoro non vi è molto interesse per il lessico, solo in
alcune sezioni. L’impostazione è quella delle artes medievali. La trattazione inizia con la grammatica, cioè
con la teoria grammaticale divisa per parti del discorso, e prosegue con varie nozioni retoriche e poi con la
dialettica. Il libro IX parla dell’origine delle lingue e dei popoli prendendo le mosse dall’episodio biblico
della Torre di Babele, utilizzato per secoli come fondamento della linguistica biblica. Il libro X, intitolato De
vocabulis, ha un po’ le fattezze di un dizionario. Qui trova posto anche l’etimologia, presentata come la
chiave preziosa per conoscere la sostanza delle cose, anticipata dall’interpretazione del termine “homo”, che
deriva “ab humo”, ovvero dalla terra, perché l’uomo secondo la bibbia è stato creato con la terra e con essa
dovrà tornare dopo la morte. Si tratta di un’interpretazione dotata di alto valore simbolico. Isidoro cerca la
causa profonda che si ricava, secondo lui, con l’etimologia. Lo spiega all’inizio del libro X dove dice che
l’origine di alcuni nomi non è per tutti evidente e quindi per farle conoscere, ha inserito alcune di queste
origini nell’opera.
Il procedimento etimologico viene usato nell’ambito di una ricognizione su vari campi del sapere, in genere
con l’appoggio di fonti classiche.
L’esame dei lessici e repertori classici e altomedievali ci pone di fronte ad un’alternativa: vi è continuità o
discontinuità rispetto ai vocabolari moderni? Lobodanov ha scritto che i glossari risalgono all’epoca della
parola manoscritta, mentre i dizionari appartengono all’epoca della parola stampata. Questa affermazione
mette bene in evidenza la contrapposizione di 2 epoche diverse nella raccolta delle parole. Lo stesso
studioso registra un’altra differenza tra le due epoche e le due forme: il glossario si scrive per un testo o per
un piccolo gruppo di testi, mentre il vocabolario si rivolge soprattutto all’insieme di testi di una determinata
lingua nazionale. La cultura antica, dai greci ai bizantini, non aveva individuato la strada che porta alla
nostra lessicografia. Il vocabolario è uno dei pochi prodotti linguistico – letterari che si è sviluppato da solo
in epoca moderna. Auroux dice che i dizionari non facevano parte della tradizione linguistica iniziale (per
questa si intende quella antica, fino ai Greci e Latini). Simile l’opinione di Massariello Merzagora che dice
che la nascita del dizionario moderno non appartiene al mondo greco e latino, ma è frutto di una serie di
aggiustamenti successivi che gli diedero forma stabile all’inizio del XVIII secolo. Quindi il dizionario è
l’espressione del raggiungimento dell’equilibrio normativo delle lingue nazionali.

1.4 Una classificazione tipologica


In alternativa si può ricorrere ad una classificazione tipologica degli antenati dei vocabolari simile a quella
proposta da Auroux. La lessicografia, per lui, si sarebbe costituita sulla base di una triplice tipologia:
a) Liste tematiche di lessico speciale, professionale (relativo ad arti e professioni: la medicina). Queste
liste sono molto antiche, infatti si trovano anche presso gli Egizi. Sono gli strumenti pedagogici più
antichi e comuni, come i nominalia medievali, che sono stati il supporto onomasiologico per
l’apprendimento del latino.
b) Liste di termini antichi e difficili, omonimi, sinonimi, liste relative al lessico di un determinato autore
letterario. Elenchi simili erano già in uso presso i Greci, e nel Medioevo si sviluppano nelle glosse
interlineari e poi in quelle autonome. Esse dovevano spiegare una parola più difficile con una più
semplice o con un termine del parlato comune.
c) Glossari alfabetici indipendenti mono o bilingui. I glossari monolingui medievali del latino sono
strumenti didattici. La loro diffusione aumenta dalla fine del XIV secolo.
La classificazione tipologica può dare l’impressione di sacrificare la multiforme varietà dei prodotti reali.
Auroux dice che gli elementi delle 3 classi delle 3 classi si intrecciano. Secondo lui la nascita del vero
dizionario monolingue sarebbe ritardata dall’eccessiva specializzazione dei tipi a) e b), oltre che dalla
confusione fra dizionario ed enciclopedia, destinata a durare molto a lungo. Il dizionario per un po’ di tempo
si confonde e si sovrappone alla trattazione grammaticale, come negli Etymologiarum libri di Isidoro di
Siviglia. Il vero antenato del dizionario moderno andrebbe ricercato nel tipo c) che a volte si trasforma in
bilingue o plurilingue. Questo è ciò che accade al lessico latino di Ambrogio Calepino, dell’inizio del XVI
secolo, più volte ristampato durante il 500 con l’aggiunta di equivalenti volgari, non solo in italiano, ma
anche in francese, spagnolo, tedesco, inglese, greco e latino. L’opera divenne così famosa da produrre il
passaggio dal nome dell’autore a nome comune visto che il termine calepino è entrato in italiano e nei
dialetti con il significato di “librone” e in francese con quello di “dizionario” e “libretto di appunti”. Il
Calepino risultò molto diverso dai lessici medievali, molto più simile al dizionario moderno: infatti si può
pensare che la storia della lessicografia sia stata segnata da questo dizionario latino e la sua influenza si sia
esercitata anche sui più antichi lessici italiani a stampa, che risalgono alla prima metà del XVI secolo, e
forse sia andata anche oltre, fino alla Crusca.

1.5 I glossari come documento di lingua


Il glossario bilingue ci fa conoscere l’evoluzione del lessico in una determinata fase storica. Nel Glossario
di Reichenau (così chiamato perché proveniente dall’omonima abbazia sul lago di Costanza), compilato in
Francia nell’VIII secolo, tra le varie voci latine classiche che l’autore vuole spiegare mediante le sue
annotazioni, abbiamo pulcra=bella, canere=cantare, ictus=culpus, Gallia=Frantia. Queste equivalenze
derivano dal tentativo di interpretare con una latinità più corrente una latinità ormai arcaica e
incomprensibile. Prevale quella latinità che trova corrispondenza nelle lingue romanze. I termini pulcra e
bella per secoli avevano potuto convivere, distinti da una piccola differenza di significato e stilistica, ma il
Glossario di Reichenau conferma che l’epoca di questa convivenza è terminata e che una delle 2 parole ha
invaso e occupato lo spazio dell’altra.
Infatti i glossari sono tra i primi documenti delle lingue; per l’italiano abbiamo il Glossario di Monza che
affianca su 2 colonne parole romanze e parole romaiche (in greco – bizantino) nella forma “linga:glosa”,
“pede:poda”. Il procedimento di traduzione della glossa, con la parola latina accostata ad un equivalente più
volgare non compare solo nei glossari veri e propri, ma ha un corrispondente nel modo di procedere dei
documenti medievali, per esempio nell’Editto di Rotari del VII secolo, la prima raccolta scritta delle leggi
longobarde (matrinia, filiastra). Tra le più antiche attestazioni dello spagnolo abbiamo le glosse
Emilianensi, del X secolo, dette così dal nome del monastero di San Millan, da cui proviene il manoscritto.
Si tratta di traduzioni in volgare di Spagna di una o due parole, a volte di frasi. Di poco posteriori sono altre
glosse spagnole simili alle precedenti, le Glosas Silenses, contenute in un manoscritto di Santo Domingo de
Silos, in Castiglia. Il procedimento della glossa è spontaneo per facilitare la comprensione. Esso interviene
quando chi scrive capisce il rischio che il lessico, troppo tecnico, elevato o antiquato, risulti oscuro.
2. DAI GLOSSARI AL “VOCABULISTA”.

2.1 Glossari bilingui latino – volgari nel Medioevo italiano


Il tipo c) della classificazione di Auroux è importante per lo sviluppo della lessicografia moderna. Alla fine
del medioevo si aveva un patrimonio diffuso di lessici bilingui, nati con scopi pratici e strumentali, che
raffrontavano volgare locale e latino. In Italia quasi tutte le biblioteche hanno manoscritti con la grammatica
latina, redatta dal 200 in poi, con la traduzione di parole o di esercizi in volgare; e molti sono anche i
vocabolari latino – volgare. Ampie rassegne sull’argomento si trovano in Arcangeli, Gualdo e nella
presentazione di Pelle al lessico italiano – latino di Nicodemo Tranchedini conservato autografo nel
manoscritto Riccardiano 1205, il quale rappresenta una novità perché è il primo vocabolario italiano – latino
e non viceversa, perché in questo caso, conta tanto la direzione del procedimento del tradurre, e i lessici
latino – italiani erano più comuni, simili nella forma alle annotazioni di area bergamasca: “Fluvius= el
flum”, “mare=el mar”.
Ad esse possiamo accostare le annotazioni provenienti dal Lazio di Jacopo Ursello di Roccantica, scritte fra
400 e 500: “Hoc femur -ris, la cossa”.
Questa è la forma più comune e semplice di registrare il lessico, con la parola latina affiancata
all’equivalente in volgare locale più o meno illustre. I repertori lessicali in forma di glossario in cui si ricorre
al volgare in modo sistematico e non del tutto occasionale, si rintracciano dalla metà del 300. Nella serie, i
documenti più noti tra quelli conosciuti, sono forse le liste di area laziale del Cantalicio pubblicate da
Baldelli e quelle di Jacopo Ursello di Roccantica pubblicate da Vignuzzi. Accanto alle liste manoscritte, dal
500, possiamo citare alcuni testi a stampa, come il Vocabularium breve del Barzizza: l’autore, nato forse a
Bergamo nel 1359, morì nel 1431 dopo aver insegnato a Venezia, Padova e Pavia. Il suo glossario fu
stampato dopo la sua morte proprio perché era reputato utile per la didattica del latino. Si tratta di un libretto
di una 30ina di pagine, ordinato in forma metodica, come dichiara il frontespizio. Ordinava le parole nei
seguenti campi semantici: alberi, frutti, semi, erbe, animali domestici, selvatici, edifici rustici, strumenti
rustici, edifici urbani, suppellettili, utensili, l’uomo e le sue parti del corpo, ornamenti del vestire.
Il Vocabularium vulgare cum latino apposito di Nicola Valla che fu stampato a Firenze nel 1500:
un’opera di 100 pagine che venne indicata come strumento ausiliario per la didattica del latino in ambiente
umanistico. Infine il Vocabolario latino – italiano – spagnolo di Lucio Cristoforo Scobar, che è molto
ampio. Il libro a stampa più antico di questo genere è il Vocabulista ecclesiastico di Giovanni Bernardo da
Savona, pubblicato a Milano nel 1480.
- Secondo Arcangeli e Gualdo, il punto di partenza dei glossari italiani può essere stabilito nell’opera
di Goro, un maestro aretino della metà del 300, del quale il codice Panciatichiano 68 della Biblioteca
Nazionale Centrale di Firenze ha trasmesso una raccolta di vocabula a ordinamento metodico, oltre a
varie regole grammaticali. Il suo è il più antico glossario latino – volgare di qualche entità;
- Navarro Salazar ha studiato un glossario trecentesco di area umbra, latino – eugubino, conservato a
Saragozza e contenente 1000 voci;
- Nella biblioteca comunale di Perugia vi è una raccolta di un migliaio di termini latini tradotti in un
volgare centro – meridionale, del XIV secolo.
- Contini, riprendendo gli studi ottocenteschi del Lorck, ha descritto e pubblicato dei documenti
bergamaschi nati in ambiente legato all’insegnamento scolastico. Oltre alle regole di grammatica, in
questi testi abbiamo anche delle liste lessicali che alludono a un fondo nomenclatorio comune,
risalente all’inizio del 300, se non al secolo precedente. La lingua di queste liste è meno illustre
rispetto al Vocabularium breve del Barzizza. Il testo più interessante della raccolta è il manoscritto
11, di 15 fogli, dove 10 contengono un lessico secondo le solite modalità: forme di nominativo e
genitivo, termine volgare corrispondente, etimologia.
- D’Agostino ha affiancato ai glossari di Contini e Lorck un nuovo ritrovamento, nel ms. della
biblioteca civica “Angelo Mai” di Bergamo, segnato MAB 29. Il glossario latino – bergamasco sta
alle carte 1r-6v. Inoltre, nel ms. della stessa biblioteca segnato MA 155, cartaceo, del XV secolo, in
una raccolta che comprende materiale scolastico. D’Agostino ha trovato materiali bilingui, che ha
pubblicato con un’accurata descrizione linguistica.
- Il Liber Declari, attribuito al catanese Angelo Senisio è un vocabolario manoscritto conservato nella
biblioteca nazionale di Palermo. Il materiale è stato quasi tutto desunto da Uguccione da Pisa. Il
codice è 400esco, ma il testo dovrebbe risalire alla metà del 300. L’edizione di Marinoni riproduce le
prime pagine dell’opera e poi le righe che contengono vocaboli volgari.
- Il glossario latino – veneto del codice V C 11 della Biblioteca Nazionale di Napoli, esemplato a
Vicenza nel 1450, è stato pubblicato e commentato da Gualdo: la parola latina è seguita da
traduzione, o più raramente da una glossa;
- Un glossario latino – volgare della biblioteca universitaria di Padova è edito da Arcangeli con un
commento linguistico; vengono suggerite le convergenze rispetto al Vocabulista ecclesiastico di
Giovanni Bernardo Savonese, con i glossari latino – bergamaschi e bilingui veneto – tedeschi.
- Un glossario di un solo foglio, di ascendenza padovana, nel recto della carta 185 del codice 1291
della biblioteca universitaria di Padova, è stato riprodotto da Arcangeli.
- Il glossario latino – toscano di Gherardo De Casulis appartiene al XV secolo;
- Il Latini sermonis emporium di Antonio Mancinelli del 1499 è un repertorio di frasi in volgare con
la traduzione in latino per uso scolastico.
- Vitale Bovarone dà alle stampe un glossario ligure del XIV secolo;
- Vocabularium breve di Gasparino Barzizza: è un repertorio lessicografico latino – veneziano con
intrusioni di bergamasco. Fu stampato all’inizio del 500. Arcangeli ne trascrive la partizione delle
voci, ricavandola dall’edizione veneziana del 1514. D’Agostino ha usato, al posto delle stampe
antiche, il ms. MA 415 della Biblioteca Civica di Bergamo ritenendo che fosse da preferire per
origine geografica e per antichità. Su di esso si traggono informazioni utili da Olivieri: fondamentale
è l’organizzazione per argomenti e non per ordine alfabetico. Come altri lessici, alla parola latina
posta a lemma, viene affiancato un equivalente locale.
Le definizioni mostrano la vaga approssimazione di cui ci si accontentava nelle scuole di allora.
Occorre però un atteggiamento di maggiore disponibilità verso questri strumenti rozzi della prima
lessicografia. La stessa Olivieri parlava di inquinamento del latino nel lessico del Barzizza,
riferendosi ai volgarismi che invece per noi sono presenze importanti. Le fonti delle voci sono a
volte Isidoro di Siviglia, o Papia, o il Balbia del Catholicon, con citazioni esplicite. Le spiegazioni
suggeriscono etimologie ricche di significato e invocate come giustificazione del termine, secondo la
tradizione medievale, anche se spesso ascrivibili all’etimologia popolare. La Olivieri vuole prendere
il più possibile le distanze da questi lessici modesti, di etimologie stravaganti e assurde. Per riflettere
sulla funzione dell’etimologia in questi lessici antichi si può prendere in esame il caso di “simia”,
ovvero “scimmia”. La parola simia deriva dal termine latino che descrive la forma del suo naso, o si
chiama così perché la scimmia imita e quindi prende il nome dal termine similitudo (che inizia con
simi-). La prima spiegazione si trova identica nel Catholicon, che sotto la voce Simia rinvia alla
voce sima (femminile di simus, schiacciato) dove parla della scimmia e del suo naso ricurvo, e il
Catholicon l’ha ripresa da Isidoro di Siviglia. La connessione con simus, riferita all’aspetto
dell’animale, è la stessa che si trova negli etimologisti moderni, mentre popolare è la seconda ipotesi,
cioè la connessione con similitudo che si rifà ad un’altra ipotesi presa in considerazione da Isidoro,
ma da lui respinta (dice che molti pensano che le scimmie sono chiamate così in latino e quindi
sembrano simili alla ragione umana, ma ciò è falso). Infatti, in molti testi medievali, il
comportamento della scimmia viene descritto come imitatrice dei gesti dell’uomo.
Dal Barzizza deriva il glossario 400esco latino – volgare edito e commentato da Vignali.
Non sono rari alla fine del 300 e nel 400 i glossari latino – volgari, veri antenati dei dizionari che si
addensano in area lombardo – veneta. A volte si collegano all’insegnamento scolastico. In tutti
abbiamo ampie liste di vocaboli tradotti in lingua comune, con molti tratti locali.

2.2 Papia, Uguccione, il “Catholicon” e il “Vocabulista ecclesiastico”


Il Vocabulista ecclesiastico è un dizionario bilingue latino – italiano, simile ai glossari, ma appartiene
all’epoca in cui questi strumenti venivano diffusi mediante la stampa e il loro successo era garantito dalla
crescente richiesta del mercato editoriale. Arcangeli ha collocato il Vocabulista ecclesiastico tra i liberi
volgarizzamenti e adattamenti del Catholicon di Giovanni Balbi, genovese nato nel 1298 che seguì il
modello delle opere di Uguccione da Pisa e di Papia. Il titolo significa “universale”, cioè un’enciclopedia.
La raccolta lessicale del Balbi era preceduta da un’ampia trattazione grammaticale, di importante impegno
teorico, assente in Papia. I lessici di Papia, Uguccione e Balbi non interessano direttamente la lingua italiana
perché sono opere latine, anche se in essi si rintracciano volgarismi in forma di glossa o lemmatizzati. In
questo senso, una storia della lessicografia italiana intesa in senso restrittivo potrebbe trascurare questi
precedenti. Le prime raccolte lessicali italiane non si possono concepire indipendenti dalla lessicografia
anteriore e dalla latina del medioevo. Quindi dobbiamo rivolgerci ai lessici di Uguccione e Papia, senza
dimenticare che prima di loro ci sono le enciclopedie di Isidoro di Siviglia e di Rabano Mauro, più antiche e
fondamentali per la cultura medievale.
Papia era forse un chierico lombardo, forse di Pavia. Compose un Lexicon o Elementarium doctrinae
rudimentum attorno al 1050. A esso si fa riferimento con la designazione semplificata di “lessico di Papia”
o “Papias vocabulista”, come nelle stampe del 400. Anche in quest’opera si mescolano i caratteri
dell’enciclopedia, della grammatica e della retorica, con il gusto per il lessico erudito e l’etimologia. Questi
lessici servono per cogliere alcune caratteristiche della cultura medievale e per intendere parole del latino
diverse da quelle dell’epoca classica. Per esempio, quando si incontra nel De vulgari eloquentia di Dante il
termine altriplices è comodo trovare in Papia l’informazione che altriplex equivale a duplex dolosus,
“doppiamente ingannatore”. Ancora più istruttiva è la voce del Catholicon del Balbi.
Esso cita i precedenti, Papia e Uguccione, e dà indicazione sulla lunghezza delle vocali, cioè sulla corretta
posizione dell’accento, in base alla legge della penultima che ne regola la posizione in latino.
Il testo del Vocabulista ecclesiastico ha alle spalle questi precedenti, ma tocca più da vicino la lingua
italiana e si avvicina al vocabolario odierno non solo perché suggerisce l’equivalente in lingua volgare, ma
perché si presenta con la parte enciclopedica annullata. Prevale l’interesse per il lessico. Il libro è ricolto e
ordinato, ad opera del Sacerdote de Christo frate Iohanne Bernardo Savonese. Il nome dell’autore è citato
nella Biblioteca Augustiniana come “filius Coenobii Savonensis Alumnus Provinciae Lombardiae”.
Anastasio Giovanni Bernardo si chiamava Forte, nacque a Savona nel 1420 da nobile famiglia locale e morì
nel 1504. Nel 1460 fondò il monastero femminile della SS. Annunziata del quale si occupò per 40 anni come
guida spirituale e materiale. Scrisse anche una storia di questo monastero in latino, il cui manoscritto è
andato perduto e di cui restano abbozzi o frammenti. La sua unica opera in volgare che ci è rimasta è La
devota collazione o Fonte de charita, pubblicata a Milano presso il Pachel nel 1496, in forma di dialogo tra
una monaca e il suo confessore: il libro si lega all’attività di padre spirituale presso il convento
dell’Annunziata. L’Anastasio nella voce del Dizionario Biografico degli Italiani, lo definisce come un
piccolo gioiello della prosa 400esca e ricorda che tra le auctoritates citate non ci sono solo i padri della
Chiesa, ma anche Dante, di cui sono riprese terzine della Commedia.
Quindi Giovanni Bernardo ci può aiutare a verificare la circolazione 400esca del poema in Liguria. Il Fonte
de charita però non ebbe molta fortuna. Fu dimenticato fino al XIX secolo, quando a Savona, iniziò a
circolare una ristampa con traduzione italiana e dove venne aggiunta anche la vita dell’autore:
evidentemente Giovanni Bernardo era stato riscoperto, ma non per la sua opera principale dal punto di vista
linguistico, il Vocabulista ecclesiastico.
L’incipit del Vocabulista ci parla dell’appartenenza dell’autore all’ordine degli Eremitani, i quali sono stati
segnalati per la loro opera nel settore della scuola e della predicazione, due campi di indagine importanti per
aumentare le nostre conoscenze sui meccanismi di diffusione dell’italiano. Ci si può rivolgere a un
documento che appartiene ad una particolare categoria di vocabolari bilingui, concepiti e realizzati per gli
ecclesiastici e per i lettori di testi sacri. La stampa originale del Vocabulista fu realizzata a Milano presso
Pachel e Scinzenzeler, nel 1480. Arcangeli ha mostrato che la fantomatica edizione datata 1479 non è mai
esistita. Seguirono diverse ristampe negli ultimi 20 anni del XV secolo. Sono documentate le edizioni di
Milano, Pachel, 1489 e 1495, di Firenze, Morgiani, 1496 e un’edizione del 1497 è menzionata
dall’Anastasio come posseduta dalla Biblioteca civica di Savona. L’edizione milanese del 1489 capitò tra le
mani di Bernardino Biondelli, lo studioso 800entesco dei dialetti gallo – italici che dedicò un certo spazio
nel capitolo sui dialetti lombardi, traendone la convinzione che repertori del genere, di cui egli vedeva il
carattere dialettale, sarebbero stati utili per compilare un saggio di vocabolario dei nostri antichi dialetti. Per
Biondelli quel dialetto era lombardo, in perfetta consonanza con il dialetto milanese. Oggi si è più cauti:
Arcangeli ha scritto che in questo lessico sopravvivono poche tracce della fonetica e della morfologia
settentrionali, limitato a qualche fenomeno di koiné per trovare delle impronte del vernacolo.

2.3 “VOCABULISTA”, “PROMPTUARIUM”, “VOCABULARIUM”


Il Vocabulista ebbe successo non solo nel XVI secolo, come possiamo vedere grazie alle schede
elettroniche dell’ICCU e di Edit16, ma tale successo durò fino all’inizio del 600, un periodo in cui il clima
religioso – culturale e il gusto linguistico erano cambiati.
Un vocabulista è un semplice vocabolario, secondo la denominazione comune fra 400 e 500. Lo stesso
titolo ha una raccolta alfabetica di parole conservata in un codice della biblioteca laurenziana di Firenze,
allestita da Pulci traendo le voci da Papia e dal Vocabulista ecclesiastico di Giovanni Bernardo Savonese.
Leonardo da Vinci usò il termine vocabolizzare per prendere nota delle parole rare. L’elenco lessicale di
Jacopo Ursello di Roccantica inizia con la parola vocabulista. Lo stesso titolo designa l’opera di fra
Giovanni Bernardo, la cui fortuna editoriale mostra la capacità di affiancarsi alla rinnovata produzione di
lessici della prima metà del 500. Questo è l’elemento che colpisce: a questa altezza cronologica, esisteva una
fioritura di vocabolari plurilingui ed era stata avviata una produzione di repertori della lingua volgare,
proseguendo una serie che inizia con la prima opera che ha in parte la fisionomia di vocabolario
monolingue, cioè Le 3 fontane di Liburnio. Il titolo voc(h)abu(o)lista era all’epoca normale. Anche vari
glossari plurilingui del XV – XVI secolo, in cui entravano le lingue straniere, ebbero la stessa designazione.
Queste opere divennero importanti per l’industria tipografica. Formule di presentazione venivano ripetute da
un’edizione all’altra. Il Solenissimo vochabuolista plurilingue circolava tra persone che avevano poca
cultura e non studiavano. La scuola, invece, non usava questi strumenti perché essa doveva insegnare il
latino, non le lingue straniere, o comunque usava strumenti paralessicografici diversi. I lessici latino –
italiani avevano un’altra destinazione rispetto ai repertori plurilingui. Erano rivolti allo studente o all’uomo
di Chiesa che era impegnato nell’insegnamento o nell’apprendimento del latino ed era interessato solo a
questo, ma allo stesso tempo doveva fare i conti con la lingua di tutti i giorni. Questo interesse lessicale
ispirato all’uso didattico emerge anche nei manuali coevi e nelle grammatiche del latino: in alcuni di questi
manuali, soprattutto in quelli diffusi nell’Italia settentrionale, per esempio nel Rudimenta del Perotti o
nell’Isagogicus liber di Colla Gaggio Montano, si trovano molte liste di verbi con accanto l’equivalente
volgare, per cui il libro assume l’aspetto di un vocabolario bilingue.
In queste liste di vocaboli, la colonna con i traducenti in volgare accoglieva spesso l’uso comune, dando
spazio a dialettismi e fenomeni di coinè. L’attenzione al volgare era vista come un confronto pratico con la
lingua degli allievi. Non era un lessico italiano selezionato per motivi letterari, ma un lessico comune, usato
per capire il latino, non dialetto in tutto e per tutto. La spinta al livellamento sopradialettale era presente per
il fatto che questi testi venivano ristampati in luoghi diversi, non si rivolgevano a un pubblico troppo
localizzato, e vi era un contatto tra maestri e allievi provenienti da regioni lontane. Era napoletano il
Vopisco, professore a Mondovì, autore del Promptuarium (ordinato alfabeticamente e conteneva parole più
vicine all’italiano comune come aragno e termini più strettamente regionali e dialettali come archiciocco)
edito nel 1564, un documento lessicografico che registra parole d’uso, fino ad accostarsi spesso al dialetto
parlato dagli allievi.
La data di pubblicazione del Promptuarium è tarda, ma Vopisco si inserisce nella tradizione di repertori
lessicali umanistici a stampa destinati all’uso pratico come quello di Nicola Valla. Pur non avendo il
Vocabularium di Valla nessun rapporto con la genesi del Promptuarium di Vopisco, il patrimonio di
parole quotidiane raccolto nei 2 testi spesso coincide, così come coincidono gli interessi di chi ha compilato
questi 2 vocabolari: in entrambi troviamo termini come calamaro, camera, canzone, secondo una lista di
corrispondenze che mostra l’orientamento verso campi lessicali diversi dall’orizzonte poetico e artistico a
cui guardavano i cultori dell’italiano, condizionati dalle dispute attorno alla questione della lingua. I primi
lessici monolingui dell’italiano, stampati nel 500, furono meno popolari di questi repertori umanistici, con i
quali il Vocabulista ecclesiastico sembra invece trattenere una relazione di parentela.

2.4 Coinè nel vocabolario


Il riferimento al Vocabularium di Nicola Valla ci permette di tornare al Vocabulista ecclesiastico: l’editore
che ristampò nel 1547 il Vocabulista, cioè il Bindoni di Venezia è lo stesso a cui si deve la ristampa e lo
sfruttamento commerciale del Vocabularium di Valla nel 1522. I Bindoni si rivolgevano a un pubblico
popolare, cercavano di venire incontro a esigenze di largo consumo, sfruttando il successo che avevano i
vocabolari. La tipografia Bindoni diede alla luce diverse opere del genere: una nuova ristampa del Valla nel
1535 e un Dictionarium del Calepino del 1550. Il Vocabulista ecclesiastico del 1547. Oltre a comprendere
lessici di vario tipo, la produzione editoriale di Francesco Bindoni dedica molto spazio ai libri di largo
smercio come i romanzi cavallereschi, un genere popolare di consumo che è importante trovare accoppiato
ai vocabolari nel catalogo dello stampatore.
Anche la forma grafica del Vocabulista lo avvicina ai già citati glossari plurilingui, caratteristici della fine
del XV secolo. Inoltre, l’esame della ristampa veneziana del 1547 ci permette di constatare lo spirito
conservativo del Vocabulista, un libro che nel 500 veniva pubblicato con l’aspetto delle opere di 50 anni
prima, a partire dall’uso del carattere gotico e dalle tante abbreviazioni, secondo la brachigrafia medievale.
Era una scelta attardata, se si pensa che il libro letterario di formato tascabile, seguendo il modello aldino, si
presentava in corsivo, senza nessuna somiglianza con il manoscritto medievale, anzi, caratterizzato ormai
dall’aspetto grafico del libro moderno, rinascimentale. L’opera è presentata al lettore con alcuni versi latini.
Nell’edizione del 1504, i versi vengono dopo le poche righe in cui Giovanni Bernardo si è presentato come
povero sacerdote di Cristo, e procedono un capolettera ornato, da cui inizia l’opera vera.
Il libro si rivolge a quei lettori della Bibbia che non capiscono la Vulgata; oltre che sulla Sacra Scrittura, gli
spogli sono condotti sui sermoni dei dottori della Chiesa e su diverse vite di santi. Vi è qualche riferimento
al Lexicon di Papia. La varietà delle fonti e del contenuto del testo biblico fanno sì che il repertorio di parole
raccolte da fra Giovanni si estenda verso settori della vita comune, verso termini dell’artigianato e oggetti di
uso quotidiano, come accade nei glossari latini. Per verificarlo, si possono osservare i lemmi: anus è “la
secreta parte delle natiche”. Come accade in tutti i glossari bilingui, la parola latina viene spiegate grazie
all’equivalente termine volgare o mediante perifrasi: subula è “lo instrumento del cusitore di scarpe da
forare”. In questo caso, la perifrasi sopperisce a un termine italiano forse sconosciuto allo stesso fra
Giovanni o che lui teme di difficile comprensione come appare “lesina” per subula. Lesina era usato da
molti autori di lessici e glossari, come Valla, Vopisco, poiché esiste anche in area settentrionale. Analoga
registrazione troviamo anche nel glossario 400entesco di Padova.
La tendenza a ricorrere alle perifrasi esplicative si giustifica come il tentativo di evitare difficoltà. Di fronte
a trulla, per esempio, il Vocabulista non propone la toscana “cazzuola”, ma ne dà questa definizione: “lo
instrumento del muratore da componere la calcina cum le pietre”. Più difficile è stabilire come mai di fronte
a un termine semplice come porta (dice anche che il plurale è in -te), egli spieghi così: “el forame el quale è
nel muro per intrare”. In altri casi, attraverso la definizione, l’autore prova a suggerire l’equivalente
moderno del concetto antico come per Publicanus, “el daciero che scode la pecunia de la comunità o del
principe”. A volte la definizione si addentra anche in questioni etimologiche, come per rhinoceros, il quale
è “grece lo animale ferocissimo che nel naso ha un corno: a rhinos, -i narris; et ceros cornu”.
L’analisi di un simile testo potrebbe seguire le suggestioni suggerite da singole voci, raccogliendo elementi
sparsi di una lingua extraletteraria, coinè di base settentrionale, popolare, ma non dialettale. Tra i tanti
esempi abbiamo la voce Lubrico: “scorrere come suso la giaza”, dove compare il settentrionalismo giaza
per “ghiaccio”, che è celebre perché è simile alla forma eliminata da Ariosto nella revisione dell’Orlando
furioso. L’edizione del 1521 del poema ha giaccio, poi trasformato in ghiaccio nell’edizione del 1532. Poi
abbiamo frequenti scempiamenti, l’uso di ramo per rame. Arcangeli ha indicato diversi tratti linguistici
come la presenza di affricate e sibilanti rispetto alle palatali della lingua letteraria, conservazione di “e”
protonico e postonico, etc…

2.5 Gli utenti del “Vocabulista ecclesiastico”


La popolarità di questo vocabolario ecclesiastico che si presentava con un aspetto popolare nella forma
grafica e linguistica, è chiara nelle ristampe 500entesche, come quella del Bindoni, uscita quando ormai si
era imposto il modello tosco – bembiano, che faceva a pugni con le forme rozze adottate da Giovanni
Bernardo. L’utente del Vocabulista non si preoccupava delle indicazioni normative di Bembo. Eppure
questo pubblico non doveva essere neanche lo stesso che leggeva i romanzi cavallereschi stampati dallo
stesso editore Bindoni. Un Vocabulista ecclesiastico doveva essere utile soprattutto a chi ricorreva spesso
alle Sacre Scritture e ai testi dei dottori della Chiesa, doveva essere utile agli ecclesiastici. Lo si ricava anche
dal breve proemio di fra Giovanni.
Per lui era utile agli ecclesiastici di basso livello. Forse il cliente del Bindoni era un tipo particolare di
religioso di livello culturale molto basso, forse un parroco di campagna o un predicatore non sacerdote. Si
pensi che le Institutiones praedicationis verbi Dei emanate da Carlo Borromeo (che seguono il
Vocabulista) vietano di predicare a chi è “indoctus” e a chi non è diacono. Gli abusi si verificavano
davvero. Si può far riferimento all’ignoranza del curato tardo – medievale, sottolineando come l’incultura
arrivasse fino all’incapacità di leggere e capire i libri sacri. Durante una visita pastorale, poteva succedere
che fosse anche degno di nota il fatto che il sostituto di un arciprete capisse il latino molto bene, ma questi
casi erano molto rari. La scarsa conoscenza del latino rendeva difficile la lettura dei testi.
All’epoca della ristampa di Bindoni iniziava forse anche ad essere compromettente il possesso e l’uso delle
Bibbie in volgare, le quali potevano segnalare una certa simpatia per le tesi protestanti.
Ognuno doveva confrontarsi con il latino, rimediando alla propria ignoranza. Nella prima metà del 500 si
sviluppò la tendenza a ricucire l’antica frattura tra il parroco e il predicatore. I sacerdoti dovevano leggere la
Bibbia e spiegare il Vangelo ai fedeli, dovevano studiare e colmare le lacune della propria impreparazione.
Compito del clero diocesano diventava anche la predica che perdeva il suo carattere di eccezionalità e si
allontanava dagli schemi medievali. In questo trapasso può essere collocata la nuova fortuna del
Vocabulista, già vecchio di mezzo secolo, e testimone di un rapporto tra la catechesi e la lessicografia, il
quale ci permette di guardare alcuni elementi propri della coinè in uso anche nel parlato della predicazione,
prima della svolta definitiva verso modelli retorici e linguistici di alta qualità culturale, avvenuta nel XVI
secolo con personaggi del livello di un Cornelio Musso e di un Francesco Panigarola.
L’esemplare dell’edizione del 1504 presenta delle postille marginali apposte da un lettore 500entesco,
attraverso le quali si può verificare quali fossero gli interessi di chi usava un tale strumento. Si prendono in
considerazione le tracce d’uso come prova della circolazione di un libro. Troviamo, oltre a segni a margine
che evidenziano alcune voci, alcune aggiunte lessicali ai termini usati come traduttori da Giovanni Bernardo.
Il Vocabulista portava per esempio “el sentiere o via” come equivalente di callis, e il chiosatore aggiunse
strada.
Abbiamo varie note sinonimiche ed esplicative, a volte rese necessarie proprio dalla scarsa precisione del
Vocabulista o dalla sua propensione a definizioni mediante perifrasi generiche. Ecco delle aggiunte e
correzioni apportate da un anonimo: instituire accanto a “maestrare in la fede” (voce Catetizo), biscia
aggiunto a “el serpente” (voce Coluber).
L’utente del Vocabulista che si palesa come un religioso, continua nelle postille l’opera iniziata da
Giovanni Bernardo, aggiungendo chiose e accostando al termine latino altri equivalenti, a volte dialettali,
spesso più precisi, correzioni del significato indicato dal lessico o sinonimi aggiuntivi e preferiti dal lettore
che li aveva scoperti altrove: in alcuni casi gli equivalenti proposti dal lettore anonimo hanno qualche
analogia con quelli registrati nelle varie edizioni del Calepino dove troviamo “strada” sotto Callis, “hoste”
sotto Caupo.
Verrebbe spontaneo identificare nel Calepino la fonte delle chiose al Vocabulista. Potremmo immaginare
un utente intento a confrontare i 2 dizionari, anche se i conti non tornano sempre: nelle chiose troviamo
“destino” sotto Fatum, mentre il Calepino spiega solo come “fato” senza menzionare “destino”. Tuttavia la
scelta lessicale dell’anonimo che aveva preferito l’equivalente “destino”, potrebbe essere suggerita dal
corrispondente francese, che il Calepino indica: déstinée. Il Calepino potrebbe essere la fonte; la conferma
potrebbe venire dalla voce Fragro, in cui il Calepino propone come traduttori “rendere odore, olire”.
l’anonimo ha aggiunto sui margini del suo esemplare del Vocabulista l’annotazione “saper di buono”, che
potrebbe essere ispirata all’equivalente francese “sentir bon” suggerito dal Calepino. Il Calepino non ha le
voci Catecizo e Cauma, legate alla Vulgata e nemmeno possiamo pensare a lui per termini dialettali come
stabio per Caula, caso in cui il nostro anonimo postillatore sembra aver attinto alla propria competenza
linguistica, più che a fonti lessicografiche. Però, alcune concordanze tra le annotazioni e il Calepino ci sono
e non sembrano casuali. Se si tratta di fonte diretta, allora bisogna richiamare l’importanza del Calepino
come ispiratore di una norma linguistica non legata proprio ai canali di diffusione dell’italiano a cui ci si
riferisce di solito.
Il Calepino, infatti, era un dizionario pratico che serviva per il latino di tutti i giorni, non solo per quello
ecclesiastico, anzi, era utile piuttosto per l’uso giuridico, notarile. Se invece l’anonimo postillatore del
Vocabulista si è mosso da solo, le sue frequenti concordanze con le scelte del Calepino farebbero pensare
alla diffusione di vocaboli ormai noti a tutti, i quali invece, nella seconda metà del 400, non erano venuti in
mente a Giovanni Bernardo.
Non è possibile affermare con sicurezza quale sia la più probabile tra le 2 alternative, anche se si propende
per la prima. In entrambi i casi si vede come la storia della lessicografia italiana delle origini non può essere
separata dalla storia dei lessici e vocabolari latini, che correvano per le mani del pubblico in larga quantità
ed erano usati comunemente.

CAPITOLO 2: LA NASCITA DEL VOCABOLARIO ITALIANO NEL SEC. XVI


1. LE RAGIONI DEL VOCABOLARIO

1.1 Parole delle Tre Corone: Liburnio (1526), Minerbi (1535), Alunno (1539 – 46)
La lessicografia italiana diversificata rispetto alle glosse e alle raccolte occasionali di parole, iniziò con delle
opere stampate nella prima metà del 500, dove il peso delle teorie letterarie relative alla fisionomia ideale
della lingua volgare si fece subito sentire. L’autore più notevole è Francesco Alunno di Ferrara il quale
raccolse voci del Petrarca, di Boccaccio e completò un dizionario metodico generale, la Fabrica del mondo,
la cui fortuna è provata anche dalle 10 edizioni del XVI secolo. Bembo aveva invitato ad imitare Petrarca e
Boccaccio: infatti il primo dizionario dell’Alunno, intitolato Osservationi sopra il Petrarca, è uno spoglio
del lessico petrarchesco. Per quanto riguarda Boccaccio, il nome di questo autore non compare subito nel
frontespizio dell’opera a lui dedicata, perché nella prima edizione il titolo scelto dall’Alunno fu Le
ricchezze della lingua volgare: la precisazione “sopra il Boccaccio” all’inizio non c’era.
L’Alunno voleva completare la triade ispirata alle 3 corone trecentesche realizzando un dizionario della
lingua di Dante, ma questo 3 volume non uscì. Tuttavia la Fabrica del mondo è ricca di esempi delle 3
corone, i tre grandi autori del 300, Dante compreso. L’omaggio alla triade è scontato. In questo modo
l’Alunno proseguiva l’opera del primo lessicografico del XVI secolo, il friulano venezianizzato Niccolò
Liburnio, il quale però, invece di “3 corone” aveva parlato di Dante, Boccaccio e Petrarca come di Tre
fontane, 3 sorgenti che con le loro linfe alimentavano la lingua volgare. Per quanto riguarda Boccaccio,
Lucilio Minerbi raccolse il lessico di questo autore, compilando il Vocabulario aggiunto all’edizione
veneziana del Decamerone del 1535. Boccaccio era un’ottima occasione per compilare raccolte di parole,
come prova il lavoro successivo di Brucioli e il dizionario dell’Alunno di Ferrara. Il lessico boccacciano del
Minerbi parve poca cosa alla Olivieri, prima di tutto per la dimensione del lavoro, trattandosi di 74 pagine, e
poi per il fatto che forse si servì delle Tre fontane del Liburnio. La breve spiegazione delle parole del
Minerbi è quasi sempre in veneziano, secondo l’Olivieri: ma l’affermazione non è del tutto condivisibile.
Minerbi infatti non spiega tutti i vocaboli che elenca, anzi, di solito, come fece il Liburnio prima di lui, si
limita a fornire un riferimento alla fonte, in questo caso alla pagina del Boccaccio. Per ciò che riguarda la
forma grafica, a sinistra dei lemmi, compaiono tre lettere – guida che aiutano l’occhio nello scorrimento
delle liste alfabetiche: “Mig”, per esempio, individua le parole che vanno da “miglio” a “migliaccio”, cioè
tutte quelle che iniziano con “mig-“. Tra queste parole che sono miglio, miglia, migliaia, una si presenta
unita a un aggettivo (miglia picciole) e solo 2 sono accompagnate da una spiegazione. Infatti l’autore spiega
solo quelle parole che hanno bisogno di una spiegazione. Tra le parole che iniziano per Mig-, la prima ad
essere accostata a un equivalente è “migliaia cioè migliara”: ma introduce solo una variante fonetica. La
parola migliaccio è invece accompagnata da una vera spiegazione.
Qui non ricorre il dialetto veneto o veneziano, così come non ricorre in altre spiegazioni simili. Ciò non
toglie che a volte il venetismo esplicativo ricorre come in “macino cioè il masinar”. Lo scopo del Minerbi
è quelle di rendere più semplice la comprensione del capolavoro di Boccaccio che venera molto, tanto che
nella dedicatoria paragona la prosa del Decameron alla viva luce del sole.
La linea maestra della lessicografia italiana delle origini presenta due caratteri fondamentali: è fondata quasi
sempre sulla letterarietà, mediante spogli tratti da autori; si caratterizza per l’orientamento arcaicizzante, in
coerenza con l’indirizzo bembiano, perché guarda agli stessi autori che servirono come riferimento anche
per la stabilizzazione normativa, da Fortunio e Bembo in poi.
La Olivieri notava che i primi lessici italiani a stampa del XVI secolo provengono quasi solo dalla regione
padano – veneta, con poche eccezioni, tra cui il napoletano Luna e il marchigiano Pergamini da
Fossombrone; le stampe dei lessici sono perlopiù veneziane, anche se tra le eccezioni abbiamo il vocabolario
del Luna e il rimario del Di Falco. La storia dei primi lessici è simile a quella delle prime grammatiche
italiane a stampa, le quali sono settentrionali, soprattutto venete, e quando sono stampate altrove (Fortunio)
sono sempre legate alla cultura veneta.

1.2 Il primo vocabolario: Liburnio tra lessicografia e retorica (1726)


Il più antico lessicografo dell’italiano è Nicolao o Nicolò Liburnio, come si legge nel frontespizio delle 3
fontane. La sua notorietà e la sua collocazione nel quadro della cultura cortigiana si devono a Dionisotti.
Anche nel caso del Liburnio, è evidente il nesso tra la questione della lingua e la nascente lessicografia:
prendendo le mosse dal Fortunio, Liburnio si orientò verso la teoria di Bembo, distaccandosi dal maestro là
dove Bembo aveva criticato la lingua di Dante. Vitale ha riconosciuto in lui l’esempio perfetto di
adeguamento alla norma bembiana, mentre nella fase iniziale le sue posizioni erano state diverse, con una
maggiore disponibilità ad accogliere l’uso di scrittori moderni e il toscano contemporaneo.
Liburnio all’inizio si è era dimostrato attento all’uso vivente toscano, rivelando in ciò una certa precocità.
Infatti si era accorto della distanza che in alcuni casi separava questo uso dalla lingua degli autori del 300.
Era arrivato a questo risultato grazie all’esperienza, in quanto viaggiò per l’Italia.
A Siena notò che la gente per strada usava imperfetti di verbi soggiontivi (mettendo insieme congiuntivo e
condizionale) del tipo sarebbeno, fossino, e la 3 persona plurale dell’indicativo presente era credeno,
mentre in Boccaccio aveva letto sarebbono; a Pisa, Lucca, Siena, Liburnio era stato colpito da imperfetti
come potevo, al posto delle forme in -eva che aveva imparato dagli autori. Questa oscillazione gli era
sembrata accettabile, in nome della varietà autorizzata dai Greci antichi che avevano mescolato qualche
parola ionica, dorica o attica. Il richiamo alle varie lingue della Grecia, quando ricorre nei trattati in cui si
parla della lingua italiana, è il segnale dell’adesione a principi di variabilità e mescolanza che si collegano
alla concezione della lingua cortigiana o comune. Questo letterato settentrionale andava in giro per le piazze
d’Italia a confrontare la voce dei toscani e la grammatica che aveva imparato leggendo gli autori. Per capire
questa sua predisposizione, da cui deriva l’attenzione alla varietà linguistica locale, bisogna ricorrere alle
informazioni che si possono ricavare da un’altra opera del Liburnio, la quale non ha nessun intento
grammaticale, linguistico o lessicografico, ma dà informazioni sulla vita dello scrittore e sulla sua attività di
insegnante privato presso famiglie nobili. L’opera è Occorrenze humane, edite da Aldo Manuzio nel 1546,
dalle quali risulta che era stato in diverse città d’Italia (Roma, Venezia, Palermo, Milano) e all’estero, in
Francia, Inghilterra e nelle Fiandre.
Al tempo delle Vulgari elegantie, tuttavia, nel 1521, la grammatica di Bembo non era ancora stata stampata
e il punto di riferimento normativo era ancora Fortunio, autore della prima grammatica italiana a stampa,
uscita nel 1516 che Liburnio elogia e al quale rinvia il lettore, invitandolo a completare la sua conoscenza
del volgare con questo nuovo strumento proposto da lui. Soprattutto nella terza parte del I libro, mostra di
voler precisare meglio la norma, soprattutto in relazione all’uso di alcune parole specifiche come altrui,
loro o di esclamazioni come ahi. Le Vulgari elegantie quindi vogliono completare la grammatica del
Fortunio; il titolo richiama le Elegantiae Latinae linguae di Lorenzo Valla, l’opera 400entesca che
spingeva a seguire l’esempio degli scrittori latini classici. Le Vulgari elegantie sono un repertorio retorico
raggruppato per temi, a cui si accompagna un repertorio di formule epistolari, con l’aggiunta della sezione
normativa e grammaticale citata. Tuttavia, proprio all’interno del repertorio retorico, inizia a farsi strada un
intento lessicografico, visibile nel gusto per la glossa, nella preferenza per il commento a singole parole,
nell’aggiunta di esempi presi dagli autori, anche in questo caso Dante, Petrarca e Boccaccio. Nel III libro
Liburnio suggeriva degli epiteti necessari al poeta. La prima parola che prende in considerazione è Amore.
Quest’ultimo, secondo la schedatura lessicale del Liburnio, può essere “placido, lascivo, aureo, etc…”.
Anche in questo caso lo spirito lessicografico inizia a farsi strada, a partire dalla forma del prontuario
retorico. La forma è quella che oggi si chiama “analogica”. Il moderno Analogico della lingua italiana
suggerisce, per esempio, che l’amore è “platonico, spirituale, fraterno”. L’intento e la realizzazione non sono
molto diversi da quelli del Liburnio: alla base di entrambi vi è una concezione retorica della raccolta
lessicale. A metà tra le raccolte di epiteti come il Liburnio e le ambizioni del moderno analogico si possono
collocare i dizionari con gli “aggiunti”.
Il precedente delle Vulgari elegantie aiuta a capire meglio l’impianto delle 3 fontane che possono essere
considerate alla stregua di un dizionario solo a prezzo di qualche sforzo, ma restano un’opera sui generis, in
cui prevale l’intento retorico – grammaticale, come si ricava dalla presentazione che ne fa Liburnio, il quale
cita i maestri della retorica. I continui interventi dell’autore mostrano la sua volontà di insegnare l’arte
dell’eloquenza. Questo è il repertorio lessicale concepito come strumento per la produzione e creazione di
testi, in linea con uno degli obiettivi della lessicografia cinquecentesca che si nutre di ambizioni retoriche,
presenti anche nella Fabrica del mondo dell’Alunno.
Il repertorio lessicografico delle 3 fontane è diviso in 3 parti, in modo da separare il lessico di Dante,
Petrarca e Boccaccio. All’interno di ognuna delle sezioni dedicate a ciascuno dei 3 autori, le raccolte
lessicali sono divise per categorie grammaticali. In questo libro il lessico non riesce a trovare in sé stesso un
elemento ordinatore e quindi si dà una sistemazione solo inserendosi negli schemi della categorizzazione
grammaticale. La novità sta nel fatto che ciascun elenco lessicale, posto in ordine alfabetico, è presentato
dall’autore come un vocabolario e questo vocabolario è visto come uno dei motivi di maggior richiamo per
il pubblico dei potenziali lettori. Liburnio ha usato il termine vocabolario anche prima degli altri
lessicografici.
Lui non trascurava l’intento pratico dell’apprendimento della lingua toscana.
Lo scopo del libro è ben radicato nell’orizzonte della “Grammatica & Eloquenza” ma con la novità dell’
“alfabeto”, cioè l’ordine alfabetico, novità che segna il passaggio ad un uso più agevole del repertorio
lessicale, il quale, in questo modo acquista maggiore visibilità e autonomia.
Per esemplificare la funzione retorica del materiale lessicale riunito dal Liburnio, basta far riferimento alla
sezione dedicata a Dante nelle 3 Fontane che contiene una raccolta di modi figurati, terse e belle figure.
Queste figure devono fornire agli studiosi giovani abbondanti elementi per comporre e sono poste lì per
servire alle cose di eloquenza. L’autore dichiara il suo intento, in un libro che, per quanto riguarda lo scopo,
non è molto lontano dalle Vulgari elegantie precedenti che erano dedicate a tutti coloro che volevano
avvicinarsi alla lingua volgare per comporre. Le 3 fontane sono la prosecuzione delle Elegantie, seppure
con una maggiore dose di grammatica e un più attento riferimento alla singolarità di ciascuna delle 3 corone.
Nell’elenco di modi figurati danteschi delle 3 fontane il carattere lessicografico in alcuni casi viene a
mancare. La prova ne è la seguente: le parole che servono come “entrata” alla raccolta non sempre ricorrono
nell’esempio dantesco suggerito a beneficio del lettore. Nel caso di disio, la citazione di Paradiso II,
richiama direttamente il termine in questione.
Ma non è sempre così. Nel caso di cieco, il rinvio a Inferno XXVIII non comporta direttamente l’uso della
parola usata come “ingresso” per individuare il concetto retorico o l’ambito semantico.
Nell’esempio dantesco, infatti, la parola cieco non vi è proprio, anche se il riferimento è alla negazione del
senso della vista. Anche in questo caso, quindi, prevale l’intento retorico, anche se in forme diverse da
quelle attuali. Il vocabolario risponde ad esigenze diverse da quelle descrittive: non definisce le parole, non
dà indicazioni d’uso, anche se dà indicazioni grammaticali, visto che il lessico è diviso e collocato in sezioni
ispirate alla grammatica. Il servizio di un utente che deve trarre ispirazione per migliorare l’abilità di
scrittore.
La Olivieri ha segnalato casi in cui il Liburnio usa termini veneziani come traducenti del lemma, a volte
anche in modo esplicito. Ciò non è strano visto che il ricorso al termine dialettale o di coinè era una costante
nella tradizione dei lessici umanistici latini.

1.3 Il balordo ed esibizionistico Luna, napoletano (1539)


Dall’area meridionale proviene Fabricio Luna (napoletano, morto nel 1559), autore di un Vocabulario di
cinquemila vocabuli toschi in cui a Dante, Petrarca e Boccaccio è accostato fin dal frontespizio anche
l’Orlando Furioso di Ariosto, con grande disponibilità verso la letteratura moderna. Infatti nel corso
dell’opera i riferimenti agli autori moderni sono ancora più ampi: Poliziano, Pulci, Pietro Aretino, gli
accademici Boiardo, Giovio, Sannazaro e filologi, grammatici, commentatori come Fortunio, Liburnio,
Trissino. Un’opera che si presenta ben inserita nella cultura alta del 500, anche se le scelte lessicali non
aderiscono al toscanismo, ma si dirigono verso la lingua comune o mescolata. Tuttavia, la preferenza per la
lingua cortigiana non è subito percepibile da quanto sta scritto nel frontespizio a caratteri rossi e neri del
Vocabulario, dove il riferimento va alle Tre Corone, Dante, Petrarca, Boccaccio e la presenza aggiuntiva di
Ariosto non guasta il quadro, trattandosi di un autore che si era adeguato alla grammatica di Bembo. Il
frontespizio è allineato con l’impostazione degli altri lessicografi, ma le dichiarazioni presenti nel libro si
discostano da questa impostazione. La lingua cortigiana è infatti ritenuta dal Luna la più bella e perfetta e la
varietà di riferimenti è tale che Trovato ha gratificato l’autore con l’appellativo di “esibizionistico Luna”,
qualificazione più allettante di quella che gli era stata data da Luigi Morandi che aveva definito questo
lessico come “balordamente compilato”, per non parlare della Olivieri che descrisse la prosa del Luna come
“faticosa e comicamente lardellata di frasi del Petrarca e dell’Ariosto”. Secondo la Olivieri la fonte di molte
voci è il Minerbi, come rivela la conservazione di alcune parole di origine veneziana. La Olivieri reputava
modesto il lavoro del Minerbi: eppure, se il Luna lo usò, abbiamo la prova della sua influenza. La stessa
studiosa, per mostrare l’incapacità del Luna, richiama un errore già segnalato dal Morandi: nella frase di
Ariosto “e rimane come la lasca all’esca”, la voce Lasca viene spiegata come “favilla del foco” e non come
un pesce. Rovesciando la prospettiva, bisogna rilevare che un termine toscano come quello citato,
appartenente all’area della zoologia, in cui nelle varie regioni dominavano i termini locali, poteva mettere in
difficoltà un letterato periferico del primo 500. Dizionari successivi, se la cavarono meglio, pur dando
definizioni troppo semplificate per risultare utili. Nella Fabrica del mondo si legge che lasca è una specie
di pesce, nel Pergamini che è un pesce, ma solo la Crusca spiegherà che si tratta di un pesce d’acqua dolce
noto, informando il lettore non sulla forma o sull’aspetto dell’animale, ma dicendo che non si trattava di un
pesce di mare.

1.4 L’Acarisio di Cento (1543)


Altro celebre dizionario del 500 è quello dell’Acarisio: il Vocabolario, grammatica, et ortographia de la
lingua volgare pubblicato a Cento (a Ferrara) nel 1543. Si caratterizza per il contesto in cui è collocata la
sezione lessicografica, che si accompagna ad altri strumenti di consultazione, a loro volta da collocare nel
loro genere, tra le opere pioneristiche della prima metà del XVI secolo: una grammatica non troppo ampia e
una brevissima ortografia. L’insieme costituisce un repertorio della norma articolato e vario. Il vocabolario
ha un’importanza considerevole, se si tiene conto del fatto che fa la parte del leone, occupando quasi tutto lo
spazio: è contenuto nelle carte 28 – 316, mentre grammatica e ortografia sono ospitate, insieme alle lettere
dedicatorie, nelle prime 27 carte.
La completezza dello strumento, che rendeva il libro di tutto ciò che era utile per scrive (sia le regole sia le
liste di parole) ne spiega il successo che si ebbe anche all’estero, secondo modalità messe in luce da Trovato.
Lo studioso si è anche chiesto se non fosse da giudicare eccessivamente ottimistica la constatazione della
fortuna dell’Acarisio, quando si deve pur prendere atto che, dopo la princeps del 1543, il libro ebbe una sola
riedizione, nel 1550, con il marchio del tipografo Valgrisi, poi più nulla. In realtà questa non fu nemmeno
una nuova stampa, ma l’emissione di copie del 1543 rimaste ancora invendute. Il Vocabolario dell’Acarisio
si trova in molte biblioteche italiane, e la princeps è presente in misura maggiore rispetto all’emissione del
1550. Il libro ha avuto fortuna anche oggi perché è stato ristampato in anastatica con l’introduzione di Paolo
Trovato, filologo e specialista della cultura cinquecentesca. Trovato ha allargato il quadro svolgendo il tema
generale della lessicografia anteriore alla Crusca del 1612. Ha mostrato come oggi non sia corretto persistere
in interpretazioni storiografiche ispirate ad un ingenuo finalismo, come se tutti i lessici cinquecenteschi
fossero prove preparatorie e imperfette da collocare sulla strada che porta all’Accademia della Crusca.
L’Acarisio non si limita a dare definizioni, ma applica le tecniche diffuse fin dal Medioevo dell’expositio,
della derivatio, della compositio e dell’etimologia: “abondo, onde abondevole”, “Abbuio è composto di ad
& buio”. Gli autori modello citati sono le 3 Corone, come annuncia il frontespizio. Trovato ha parlato di un
lavoro imponente di questo lessicografo che in parte dipenderebbe dal Minerbi, ma che ha fatto anche uso
del commento a Dante del Landino, della grammatica del Fortunio, oltre che degli spogli condotti sugli
autori. Mostra tratti di originalità quando dà spazio alle voci botaniche come Cocco, Dattero, ai termini
giuridici come Marca, Vassallo e quando mostra attenzione per i geosinonimi. Per quanto riguarda questi
ultimi, l’edizione curata da Trovato è dotata di un Indice delle voci tratte da altre parlate italiane o da
altre lingue in cui compaiono termini come il ferrarese broilo o i bolognesi bifera, bornio oltre a molti
forestierismi. Acarisio pone a volte questi termini locali a lemma, seppure con un rinvio ad altra voce
foneticamente più regolata: per bifera rinvia a Bufera e sotto questa voce troviamo l’avviso che si dice in
Bolognese quando è un tempo simile, “egli è una mala bifera”. Per il lemma Bornio, registrato sulla base
di un verso di Dante, è accolta la spiegazione di Landino secondo la quale significa in bolognese abbagliato
& di cattiva vista, ma è segnalata anche l’alternativa di un’interpretazione diversa: secondo altri vale
freddo & stanco. Anche il dantesco sipa è posto a lemma con l’avviso che si tratta di voce Bolognese che
significa sia, ma poco usata da loro, bensì dai plebei. Broilo invece non sta a lemma, ma è menzionato sotto
Brollo. Questi termini dalla caratterizzazione regionale compaiono qua e là con diverso trattamento
lessicografico e sono interessanti poiché danno un’idea della miscela ricca e varia raccolta dall’autore e
testimoniano la sua assidua frequentazione del testo di Dante e del commento del Landino.
Un altro indice utile, tra quelli di cui è corredata l’edizione di Trovato, raccoglie le voci da evitare che
Acarisio dichiara brutte o plebee come Ballonchio di Boccaccio che è reputata di livello troppo basso, e
Zacconato, sempre di Boccaccio, che sta accanto all’equivalente Zazzeato, senza che ne venga spiegato il
significato.

1.5 Il calligrafo Verini, maestro di italiano per poveri e ricchi (1532)


Tutti i lessici citati fin qui possono essere interpretati in base alle loro preferenze rispetto alla questione della
lingua e sono coerenti con gli sviluppi della cultura letteraria del tempo, fatte salve le preferenze degli autori
bembiani o antibembiani come il Luna. Il discorso è diverso nel caso di Giovanbattista Verini, autore di un
Dictionario uscito nel 1532. Questa è l’unica opera che non ci conduce verso la via maestra della
codificazione letteraria italiana, cioè verso le Tre Corone, sole o accompagnate da altri scrittori. Quando
scorriamo i lemmi raccolti dal Verini, si apre una prospettiva diversa. Scopriamo un settore meno noto,
connesso all’insegnamento privato legato al mestiere del calligrafo. Verini insegnava l’arte della scrittura,
ma si occupava anche della didattica della lingua, secondo pratiche non facili da ricostruire, di cui
quest’opera è documento. Grazie alla già citata ristampa anastatica del Dictionario da parte di Giovanni
Presa, è facile accostarsi al Verini. Il Dictionario è rarissimo, come accade alle opere di carattere popolare,
destinate all’uso immediato e condannate al rapido consumo.
Verini era calligrafo, maestro di bella scrittura. L’avvento della stampa aveva messo in crisi questa
professione, come si vede da una lamentatio del Verini sulla perdita della lettera moderna (contrapposta
all’antiquata messa in voga dagli Umanisti), inserita nel suo Luminario.
Il Luminario risale al 1527. Si tratta di un’edizione rarissima. Il libro era stato dimenticato fino alla
riscoperta ottocentesca da parte del bibliofilo Giacomo Manzoni. Verini era fiorentino di origine e si
dichiarava maestro di scrittura e libraio che consisteva non nel possesso di una tipografia, ma lo smercio di
libri fatti stampare da varie botteghe, da parte di un autore che affiancava alla professione principale altre
iniziative come la raccolta dei “secreti”, cioè il genere popolare del ricettario (ma pubblicò anche un libretto
in cui insegnava a fare il pane e la pasta e produsse vari opuscoli da vendere nelle piazze e nei mercati). I
secreti consistevano in ricette medicinali, culinarie, a volte preziose ai fini pratici, a volte utili al
passatempo. Il Verini stampò più di una raccolta di “segreti”, ma una, forse la più antica, è tutta dedicata alla
scrittura. Insegnava a fare lettere che sparivano o scritte al rovescio che si leggevano grazie ad uno specchio,
secondo una tecnica che conosciamo grazie all’esempio di Leonardo. Come maestro di scrittura voleva
raggiungere il pubblico anche usando qualche stratagemma che attirasse la curiosità. Secondo Casamassima
era sensibile alle esigenze di scolari, mercanti, copisti, per i quali tentavi di fondere il vecchio e il nuovo in
fatto di calligrafia, la costruzione geometrica e la pratica dell’uso vivo, pur essendo guidato da una certa
fedeltà alla tradizione grafica tardo – gotica, ossia a un mondo ed una cultura che stavano ormai
scomparendo. Lui doveva trarre profitto per vivere.
Nell’explicit del Dictionario ci dice che ha aperto una scuola d’abbaco e di scrittura a Milano, in casa di
Gottardo Pontano, dai cui torchi uscì l’opera lessicografica. Il legame con la scuola si può vedere nel
Dictionario, soprattutto nelle prime pagine, che non presentano elenchi di parole, ma dopo la serie delle
vocali e delle consonanti, propongono combinazioni di lettere, quasi sempre adatte alla scansione sillabica.
Ci si chiede se questi elenchi servissero come ausilio alla scrittura o alla lettura, visto che uno degli
argomenti praticati da Verini era l’insegnamento del modo in cui le lettere si combinano, cioè di come si
legano nella grafia che le unisce. La dedicatoria del Dictionario al lettore prometteva l’apprendimento della
lettura e della scrittura in 3 mesi. L’autore ripercorreva la sua esperienza didattica, di cui diceva di aver dato
molte prove nelle varie città in cui aveva insegnato, e offriva il suo talento al povero e al ricco, al maschio e
alla femmina. Prima vantò la condizione fortunata degli analfabeti, a patto che avessero usato la sua opera
per uscire dalla propria condizione. Lui stesso forse usava il libretto con i suoi alunni per condurre, nei 3
mesi, al possesso della scrittura e della capacità di leggere. Quindi: l’insegnamento per adulti, recupero
all’alfabetizzazione, insegnamento anche alle donne, tema che apre forse la strada a qualche riflessione
sull’alfabetizzazione femminile.
Le prime pagine del Dictionario, contengono una sorta di abbecedario con esercizi sillabici. Le liste di
parole che seguono sono curiose. Prima vengono i nomi propri di uomo e donna, poi i nomi di città e
castelli, poi la tabella con i nomi degli animali, divisi in “uccelli volatili e terrestri” e “animali terrestri” dove
a volte si ripetono gli stessi nomi, perché il “gallo” e le “galline” sono in tutte e due le categorie. Seguono i
pesci, gli alberi e i frutti, le erbe, i fiumi e le acque; infine, alla fine, troviamo un elenco di tutte le cose che
si dicono, si fanno e si utilizzano, raccolta eterogenea delle parole che non avevano trovato collocazione
nelle categorie precedenti. L’impostazione è quella di un dizionario metodico, semplice elenco di parole,
con rare spiegazioni occasionali, come “aquaio i (dest) dove si lava le mane”. Quindi, è evidente il legame
con alcuni glossari come i plurilingui quattrocenteschi o il Barzizza.
Ci si è chiesti a volte quali fossero i canali attraverso i quali, nel 500, alcuni appartenenti al ceto popolare
raggiungevano la scrittura e superavano l’analfabetismo. Forse il Dictionario del Verini è uno strumento di
cui si deve tener conto anche in un contesto del genere, e in questo senso rappresenta un documento
fondamentale per la storia della lingua italiana proprio in ragione della sua marginalità e diversità rispetto
alle altre raccolte lessicali del 500. Più chiaro è il rapporto fra questo lessico e la toscanità, alla quale Verini
fa ricorso interrogando la propria competenza linguistica. Forme come formica e formicone conservano
l’occlusiva velare sorda, funghi è nella forma con anafonesi fiorentina. I toscanismi sono presenti, a volte
toscanismi marcati, magari non condivisi da tutta la Toscana, come beccingo(ngo)lo, “uno schiaffo dato per
sollazo”. In questo caso, ma è uno dei pochi, abbiamo anche la definizione introdotta da idest. Più spesso
idest serve per affiancare al toscanismo il termine settentrionale, veneto o lombardo, anche se alcuni
settentrionalismi finiscono a lemma senza equivalenti o spiegazioni. Gli intenti sono pratici e possono darci
un’idea della lingua d’uso che il Verini faceva circolare tra gli utenti dei suoi corsi di grafia, indirizzati
proprio verso la lingua volgare.

2. IL DIZIONARIO COME MACCHINA RETORICA

2.1 Il nome del vocabolario


Non tutti i più antichi vocabolari italiani portano il nome di “dizionario” o di “vocabolario” che preesisteva
nella tradizione latina umanistica, accolta dalla stampa del primo 500. La designazione vocabolario godette
presto di una certa fortuna, infatti la si può ritrovare nei titoli di diverse opere della prima metà del 500: nel
saggio di voci tratte da Boccaccio di Lucilio Minerbi del 1535, nel lessico di Fabricio Luna del 1536, in
quello di Alberto Acarisio del 1543. Il termine vocabolario fu usato molto ma non in modo esclusivo. Nel
1612 la Crusca che lo aveva usato come titolo, mise il termine a lemma, ma senza nessuna definizione, con
un semplice rinvio alla voce Vocabolo che segue dopo. La frase finale della voce Vocabolo contiene
un’embrionale spiegazione.
Nella 2 edizione del Vocabolario della Crusca, la voce fu ampliata modificando la frase finale, rendendola
un po’ più esplicita, con la definizione di Vocabolario corredata di un esempio moderno, anche se
quell’esempio sembrava molto critico proprio nei confronti dell’oggetto in questione, rilevando i limiti del
vocabolario rispetto alla naturalezza della lingua viva.
Nella 3 Crusca la voce Vocabolario ebbe la definizione e l’esempio, diventando autonoma, senza bisogno
del rinvio alla voce Vocabolo.
Il nome dello strumento lessicografico, assunto dalla Crusca nella forma “Vocabolario” era stato comunque
soggetto ad oscillazioni, dovute a sperimentazioni diverse, nella 1 fase della lessicografia italiana, la più
antica. Le 400entesche liste del Pulci sono intitolate “vocabulista”, come il Vocabulista ecclesiastico di
Giovanni Bernardo Savonese e il Solenissimo vochabuolista plurilingue, che doveva servire come
strumento didattico per l’italiano e il tedesco. È interessante che diversi vocabolari italiani della prima metà
del 500 abbiano fatto a meno della designazione di “vocabolario” o “dizionario”. Sono curiosi i nomi di
fantasia introdotti da lessicografi, frutto di una certa libertà d’invenzione retorica e metaforica: Le 3 fontane
del Liburnio, che alludono alla funzione delle 3 corone, scaturigine di buona lingua; La fabrica del mondo
di Francesco Alunno. Prima di pubblicare quest’ultima, l’Alunno stampò altri due lessici, Le osservationi
sopra il Petrarca e Le ricchezze della lingua volgare sopra il Boccaccio che restituisce il senso delle
potenzialità della nuova lingua. Però nessun titolo è emblematico come quello scelto dall’Alunno: La
fabrica del mondo. Esso, anziché evocare il debito verso l’uno o l’altro scrittore del 300, o invece di
considerare la ricchezza del lessico italiano e l’abbondanza delle parole usate dagli autori, richiama l’idea
della costruzione, dell’impianto architettonico, cioè suggerisce l’impressione di una struttura forte, di un
ordine delle parole universale. Nessun titolo meglio di questo suggerisce l’idea di novità e di grandezza
presente nel progetto del 1 vocabolario.

2.2 La “Fabrica del mondo” dell’Alunno: l’edificio


L’interpretazione più semplice e immediata del titolo riporta all’architettura. Lo testimoniano le
dichiarazioni dell’autore stesso, nella dedicatoria a Cosimo de’ Medici e in quella al cugino Sebastiano del
Bailo di Ferrara. L’opera contiene un sonetto laudativo di Marco Antonio Magno, posto alla fine della
presentazione scritta dallo stesso e rivolta ai lettori.
Il libro è paragonato ad un edificio, l’autore ad un architetto. Le parole sono pietre che compongono la
costruzione. Nella dedica a Cosimo de’ Medici, la metafora architettonica assume toni iperbolici, perché
l’idea della costruzione si amplia fino a farsi cosmologia, auspice il nome del principe a cui è rivolta la
dedica stessa (Cosmo).
Si tratta di un procedimento retorico di amplificatio ma non è un espediente confinato nelle pagine della
dedicatoria. Quello dell’Alunno è un dizionario metodico, in 10 libri. La consultazione è facilitata dal
repertorio alfabetico che precede la parte metodica. Se, approfittando di questo indice alfabetico, si cerca la
parola fabrica, si trovano rinvii a 2 voci (le voci del dizionario metodico portano un numero d’ordine sul
margine): una è Edificio, che conferma il significato architettonico della parola fabrica assunta come titolo,
l’altra è Dio, contrassegnata dal numero 1, all’inizio dell’opera. Proprio parlando di Dio, l’Alunno torna sul
titolo del dizionario. Infatti Dio ha fabbricato tutte le cose e ha ispirato grandi fabbricatori antichi come Noè,
architetto della grande arca e David che ha edificato il tempio di Gerusalemme. Questo Dio viene invocato
da Alunno affinché lo ispiri nella sua opera lessicografica.
Quindi la metafora dell’architettura si trasforma in quella della fucina, dove opera un fabbro con martello e
incudine, come Vulcano. Questa del “fabbricare” è una metafora tipica del produrre artistico e resterà tale
per secoli. Il nome di “fabrica” assegnato al vocabolario, risulta, quindi, a questo punto, polivalente. Non è
solo l’edificio costruito dall’architetto secondo l’interpretazione autorizzata dallo stesso autore e dal suo
amico Marco Antonio Magno. Infatti la parola fabrica poteva avere anche un altro significato.

2.3 La “fabrica” come struttura anatomica


Altri elementi spiegano meglio la scelta dell’Alunno e l’abbandono della prima via battuta, quando nel
dizionario dedicato alle parole del Boccaccio, aveva evocato le ricchezze della lingua volgare. Uno dei
precedenti del titolo si può rintracciare in alcune opere anatomiche diffuse negli anni precedenti alla data di
pubblicazione del dizionario. Nel 1543 era uscito a Basilea il De humani corporis fabrica di Andrea
Vesalio. Un altro grande scienziato Leonhard Fuchs pubblicò a Tubinga nel 1551 un trattato De humani
corporis fabrica, ex Galeni E Andreae Vesalii libris. Nel campo della medicina c’era un precedente più
antico: Teofilo Protospatario, monaco bizantino vissuto nel VII secolo, autore di un libro che l’editoria del
500 aveva riproposto con titolo latino: De corporis humani fabrica libri quinque a Iunio Paulo Crasso
Patauino in Latinam orationem conversi, come si legge nell’edizione di Venezia del 1536. Fra gli anni 30
e 40 del 500, il titolo di “Fabrica” era diventato di moda tra i medici anatomisti, applicato alla costruzione
del corpo umano, alle ossa, alla disposizione dei muscoli. Anche sui medici agiva il raffronto con
l’architettura o meglio con l’idea di costruzione, oggi struttura. Non si deve giudicare improponibile il
passaggio dall’anatomia alle discipline umanistiche. Di questo passaggio ci fornisce la prova il poligrafo
Giulio Camillo Delminio in un intervento dedicato a temi riguardanti la retorica e l’arte della scrittura. Nel
trattato Della imitazione, pubblicato a Venezia nel 1544, Camillo Delminio parla delle caratteristiche
dell’eloquenza che non può essere considerata solo nelle parole, come un edificio non può essere
considerato solo nelle pietre. Quello che conta è la “fabrica”. Il discorso prosegue con altre argomentazioni
relative all’arte di costruire le case: uno stesso modello di edificio potrebbe essere realizzato con pietre cotte,
marmo bianco, così come uno stesso modello di eloquenza può essere vestito di parole galliche, romane o
greche. L’argomento ha lo scopo di mettere in evidenza l’importanza del modello. Infatti la materia bruta
non basta per realizzare un prodotto di qualità, così come si possono avere delle composizioni di bellissime
parole senza nessuna forma laudabile e al contrario, molti bei modelli fatti di pietre indignissime. Fin qui,
assistiamo ad uno scambio continuo tra i riferimenti all’arte delle costruzioni e all’arte della scrittura, le
quali hanno in comune la necessità di un progetto, di un disegno. Però il seguito del discorso introduce il
riferimento ad una diversa disciplina scientifica, ovvero l’anatomia.
Il paragone tra l’anatomia e la retorica è di notevole evidenza. Attraverso il confronto si fa strada un’idea
strutturale della composizione e del testo, in cui, sotto la superficie delle parole e delle figure, agiscono
elementi coesivi profondi, che possono essere scoperti solo grazie a complesse operazioni di disvelamento.
Esiste l’anatomia del testo, così come esiste l’anatomia in medicina. Non è un caso che l’Alunno abbia usato
il titolo di “fabrica” proprio quando esso era usato dagli studiosi del corpo umano, in modo che il significato
della parola accresceva la sua pregnanza, per quanto nella sua opera non si rintracci nessun interesse per
l’anatomia e la denominazione delle parti del corpo. Infatti non basta il contenuto del libro VI della Fabrica
dedicato al corpo dove si susseguono sezioni dedicate ai capelli, agli occhi, ognuna contenente il relativo
lessico.
Per quanto riguarda la fortuna del titolo, dopo la pubblicazione dell’opera dell’Alunno, si può far riferimento
a Giovanni Lorenzo D’Anania, cosmografo calabrese, autore di una Universal Fabrica del mondo del 1573
con edizioni successive; fra Domenico Germano de Silesia pubblicò a Roma nel 1636 presso la
Congregazione De Propaganda Fide una Fabrica overo dittionario della lingua volgare arabica, et
italiana e nel 1639 una versione in latino. Giovanni Lorenzo D’Anania è un geografo: la fortuna del titolo
poteva andare oltre al campo a cui all’inizio era stata applicato. A distanza di molti anni, invece, la Fabrica
di fra Domenico Germano de Silesia dimostra come il ricordo dell’Alunno non fosse ancora del tutto spento,
tanto che poteva essere fonte di ispirazione per creare un dizionario trilingue.

2.4 La “Fabrica” e il Lullo


Non solo il titolo, ma anche la struttura della Fabrica suscita curiosità. C’è da chiedersi se tra il titolo e la
struttura dell’opera non vi sia una relazione. L’opera è divisa in 10 libri. 10 è il numero delle categorie
aristoteliche e quindi si può pensare che l’autore sia stato ispirato da un ortodosso aristotelismo, anche
perché 2 delle sue partizioni hanno analogia con quelle del filosofo greco: la “qualità” nel libro VIII e la
“quantità” nel libro IX. L’analogia però non va oltre, nonostante le categorie in quanto determinazioni della
realtà, potessero prestarsi ad una descrizione sistematica delle cose presenti nel mondo. Vi è una seconda
analogia che collega la struttura della Fabrica all’opera del filosofo medievale Raimondo Lullo. Alcune
partizioni adottate nel dizionario, infatti, hanno un titolo simile a quello di alcuni dei subiecta del Lullo. Ciò
vale soprattutto per il titolo del primo libro, dedicato a Dio, per il terzo dedicato al cielo, per il settimo
dedicato all’uomo. Quanto al terzo subiectum del Lullo, che è l’Angelus, non è presente in un libro della
Fabrica, ma in una sottosezione del primo libro, dedicato a Dio. Le analogie precedenti rintracciate tra le
categorie aristoteliche e le partizioni del dizionario relative a quantità e qualità, non escludono un rapporto
con il pensiero di Lullo, perché lo stesso Lullo colloca queste due designazioni nelle sue Regulae: l’ottava
categoria dei subiecta del Lullo è dedicata ai “subiecta elementativa” che richiamo il libro IV della Fabrica,
riguardante gli Elementi che sono, come in Lullo, 4: fuoco, aria, acqua e terra. Anche alcune definizioni
presenti nella Fabrica sono simili a quelle del Lullo.
Per comprendere il significato e il limite delle relazioni con le partizioni lulliane, bisogna esaminare
l’organizzazione interna della Fabrica del mondo che non è stata presa molto in considerazione dagli
studiosi. I titoli dei 10 libri sono i pilastri principali dell’opera, ma anche le sottosezioni, spesso articolate in
modo complesso. L’impianto mostra lo sforzo enciclopedico fatto dall’autore, il quale, rinunciando
all’ordinamento alfabetico, si impegnò in un’invenzione di esito rischioso. Già allora l’ordinamento
alfabetico era più pratico ai fini delle necessità degli utenti: tanto è vero che la Fabrica del mondo, pur
adottando un criterio diverso di ordinamento, fu dotata di un Indice primo di tutte le voci usate dal
Petrarca, dal Boccaccio et da Dante, et ancho d’altri buoni autori segnate però con un punto innanzi,
indice alfabetico che rinviava a un numerino posto a margine nei vari lemmi del dizionario metodico (il
nome di “indice primo” deriva dal fatto che vi è anche un “indice secondo” con i nomi propri di uomini e
luoghi). L’Alunno scelse l’ordine metodico al posto dell’alfabetico e il suo percorso andò dall’ordine
alfabetico a quello metodico, anche se questa scelta poteva dare vita a complicazioni per adottare la
classificazione enciclopedica entro la quale racchiudere ogni cosa. Alunno accettò la sfida e il rischio che
essa comportava. Questa scelta era condizionata da alcune tendenze del tempo, in particolare, dalla moda
degli universali e delle macchine retoriche.
Il raffronto non si limita all’ars magna di Lullo che è una guida per orientarci nell’aristotelismo
rinascimentale e verso alcune forme di didattica organizzate in schemi e modelli. Si potrebbero evocare i
precedenti dei glossari latino – volgari. Il dominio semasiologico di questi repertori è, però, più elementare:
l’uomo, gli animali domestici, la casa, gli abiti, gli attrezzi e utensili. Barzizza aumentò le categorie che sono
simili alle raccolte medievali di natura scolastica come quelle di Adam du Petit Pont, di Alessandro di
Neckam o di Giovanni di Garlandia, autore di un Dictionarius. Alunno sembra animato da un progetto più
ambizioso che va al di dà di una descrizione elementare. Proprio il successo dell’arte combinatoria ispirò
forse il rinnovamento dell’impianto lessicografico. Già Nicola Abbagnano faceva notare che l’arte
combinatoria suscitò nel rinascimento seguaci tra i quali Agrippa, Carlo Bovilio e Giordano Bruno. Il
quadro è quello su cui hanno richiamato l’attenzione Rossi e Bolzoni. Quest’ultima ha mostrato come si
diffondessero libri e manuali universitari (ma anche divulgativi) dove trovavano posto schemi e prospetti a
cui era affidato il compito di favorire e facilitare l’invenzione, cioè la costruzione dei vari discorsi possibili.
Per la maggior parte, questi schemi e modelli rientrano nel campo di competenza della retorica: servono a
suggerire schemi di orazioni, o associazioni tra parole e tra argomenti. L’utilizzatore di queste macchine
cartacee produttrici di significato deve seguire un percorso lungo gli snodi di un grafico, o lungo i bordi di
una figura geometrica, o deve usare una ruota che gira su un perno creando combinazioni variabili.
Infatti, l’editoria del 500 ripropose le opere di Lullo che avevano anticipato questa moda delle combinazioni
possibili. Gli schemi e le ruote dell’Ars magna generalis et ultima del Lullo, così come sono presentate
nelle stampe del XVI secolo, sono stati studiati da Paolo Rossi e Umberto Eco come prova e documento di
un universalismo combinatorio che arriva fino a Leibniz e si collega alla figura dell’arbor scientiarum, per
creare una raffigurazione della realtà, un sistema del sapere in cui tutto doveva e poteva essere racchiuso.
Non è un caso che le partizioni lulliane alle quali sembra si sia ispirato l’Alunno abbiano anche qualche
parentela con il disegno di opere medievali di taglio enciclopedico molto più antiche, come il De rerum
naturis di Rabano Mauro, il cui primo libro inizia con un capitolo De Deo e prosegue con il De Angelis. Il
sesto libro dell’enciclopedia di Rabano Mauro è dedicato al corpo umano; l’undicesimo all’acqua, il
dodicesimo alla terra, il diciottesimo ai pesi e alle misure, che l’Alunno colloca nel libro IX “Quantità”. Un
po’ diversa è la collocazione degli argomenti nell’enciclopedia di Isidoro di Siviglia, il quale inizialmente
tratta una serie di scienze, e solo al libro VII dedica la sezione a Dio, De Deo, come Rabano Mauro, per cui
incontriamo quasi subito il capitolo De Angelis; il libro XI è dedicato all’uomo e alle sue parti; il libro XIII
è dedicato al mondo, De mundo: però vi rientrano gli elementi che Alunno colloca in posizione autonoma
nel libro IV (forse in omaggio al fatto che gli elementi sono 4). Nel De mundo, Isidoro propone la
descrizione dei continenti, come farà l’Alunno; l’ordine e la serie sono uguali nei 2 autori: Asia, Europa e
Africa. Nell’Alunno non compare l’America, che non è riconosciuta come continente autonomo (non si
parla delle nuove scoperte geografiche). Si può ricordare anche la struttura dello Speculum Maius di
Vincenzo di Beauvais (XII-XIII secolo), opera divisa in 3 parti, di cui la prima intitolata Naturale, comincia
con Dio e gli Angeli. Non è strano che si ritrovi una struttura simile nel Vocabularium breve di Gasparino
Barzizza. L’impianto metodico è anche nel Dictionario del Verini. Quest’ultima si distingue dalle altre per
la destinazione elementare, per la mancanza di spiegazioni delle voci, ma è parente alla Fabrica dell’Alunno
per l’ordinamento metodico in 10 sezioni e la menzione del “Mondo” nel titolo. Questo particolare è
sfuggito a tutti perché di solito si cita l’opera del Verini in forma abbreviata, come Dictionario perché così è
dichiarato nel frontespizio del 1532. Però il frontespizio ha una dicitura più lunga: “Opera di Giovambattista
Verini Fiorentini che contiene tutti i nomi maschili e femminili delle cose del mondo vive e morte in lingua
toscana”. Questo come nell’impianto enciclopedico dell’Alunno, per quanto nel Verini la raccolta lessicale
fosse modesta e limitata.

2.5 Il “Mondo” e la “Tipocosmia” del Citolini


Il termine mondo, parola – guida della Fabrica dell’Alunno e del Dictionario del Verini, ricorre anche in
un’altra opera del 500, la Tipocosmia del veneto Alessandro Citolini, pubblicata nel 1561. Quest’opera però
non è un dizionario, anche se si potrebbe scambiarlo per tale visto che contiene lunghi elenchi lessicali,
nomi comuni e propri, divisi per materia come in un lessico metodico. Gli elenchi lessicali in essa contenuti
sono, però, esposti in modo discorsivo, usando il dialogo, senza nessun riordinamento alfabetico. L’impianto
è diverso da quello dei dizionari, e l’attenzione dell’autore non è tanto di natura lessicologica, ma è legata
all’ordinamento dello scibile, come negli alberi del sapere che sono alla base delle enciclopedie. A
differenza delle enciclopedie, però Citolini non spiega le parole e i concetti, ma elenca. Si ricava l’immagine
di un’opera insolita e curiosa, della quale si possono rilevare i collegamenti con le varie forme 500esche di
mnemotecnica. Non si tradda di un dizionario, e tuttavia la Tipocosmia, per certe caratteristiche, si
apparenta ad alcuni strumenti lessicografici e retorici del tempo.
L’autore è esule per motivi religiosi: Alessandro Citolini, trevigiano di Serravalle fu allievo di Giulio
Camillo Delminio e simpatizzò per la riforma protestante. La sua vicinanza alla Riforma si riflette anche
nelle idee linguistiche espresse nella Lettera in difesa della lingua volgare, pubblicata nel 1540: in essa
egli sostiene la maggior verità del testo e del commento della Bibbia in volgare, poi accusa i preti di
ignoranza, infine usa il sarcasmo contro coloro che vorrebbero condannare Boccaccio e cacciarlo dai
modelli di lingua perché ha parlato male dei sacerdoti e dei frati. Anche attraverso queste posizioni, si
intravede un cervello ribelle alle convenzioni dominanti. Per un po’ di tempo Citolini nascose la sua
eterodossia, ma alla fine dovette lasciare l’Italia per sfuggire al tribunale del Sant’Uffizio e al processo per
eresia che si concluse con la condanna pronunciata il 28 luglio 1565, quando ormai lui era al sicuro. Citolini
divenne più europeo di quanto fosse stato prima, anche se la sua vita non si era tutta svolta in Italia: aveva
già viaggiato in Francia con il suo maestro Giulio Camillo Delminio. Dopo la fuga per motivi religiosi
peregrinò a Ginevra, Strasburgo dove fu maestro d’italiano. La sua opera ebbe qualche effetto proprio in
Inghilterra. Firpo, avverte che John Florio ricordò lo straordinario repertorio lessicale costituito dalla
Tipocosmia nella prefazione del suo dizionario anglo – italiano, A Worlde of Wordes. A noi però interessa
il legame con la strutturazione metodica dei lessici. Anche nel dialogo scelto da Citolini ricorre come
termine – chiave la parola mondo, proprio come nella Fabrica dell’Alunno. Citolini raccolse i nomi del
Mondo in un libro che avesse il Mondo come modello, che si presentasse come un mondo in miniatura,
riproducendo l’ordine di tutte le cose che il mondo contiene. La struttura esterna della Tipocosmia è
costruita sul modello religioso della Genesi: abbiamo 6 libri, come sei sono i giorni della creazione, più un
settimo libro che equivale alla domenica, quando Dio si riposò. Quanto alla formula comunicativa, si collega
alla retorica. Citolini pensa che il sapere possa essere racchiuso nella formula “haver che dire, saperlo dire”:
vi rientrano le scienze in quanto cose e le lingue in quanto strumento della comunicazione del sapere. Alla
fine cose e parole scaturiscono insieme e formano un monoblocco, il quale però è poco consultabile perché
l’autore ha rifiutato ogni ordinamento o riordinamento alfabetico.
La struttura della Tipocosmia, il cui nome può essere interpretato come “figura o impronta del cosmo” si
collega anche all’idea del “teatro” del maestro del Citolini, Giulio Camillo Delminio. Tra la Tipocosmia e il
“teatro” di Delminio vi sono però delle differenze. Il teatro doveva essere un vero edificio, adatto ad
ospitare, con sistemazione retorico – mnemonica, tutto il sapere. Non è possibile capire bene cosa doveva
essere questa strana costruzione, della quale abbiamo immagini non concordanti: quella che si ricava da
L’idea del teatro di Camillo Delminio e quella che si ricava dalla descrizione di Viglio Zwichem.
Quest’ultimo raccontava di essere entrato nel teatro ancora da edificare: sotto figure simboliche, collocate
forse in una gradinata o anfiteatro, si aprivano cassettini pieni di schedature riportate su fogli di carta, fino a
raccogliere tutto quello che la mente umana poteva concepire. Tuttavia, ci sono 2 motivi per pensare che
Citolini volesse prendere le distanze dall’idea del teatro concepito come edificio. Alla fine della settima
giornata della Tipocosmia, infatti, i nobili personaggi che partecipano al dialogo, si siedono a tavola e
mangiano, ospiti del conte Collaltino di Collalto (a lui nel corso del dialogo è affidata l’argomentazione più
importante: il ragionamento, mentre agli altri ospiti sono delegate digressioni come spiega la Dedicatoria).
Alla fine del pasto, il conte Collaltino conduce i convitati in una stanza dove si trova una palla enorme, a tal
punto che in essa è possibile entrare (si può entrare anche nel teatro di Camillo Delminio).
Il conte introduce gli ospiti nel proprio studio, dove si trova un libro di estrema grandezza. Collaltino apre
questo libro e inizia a mostrare loro questo suo nuovo e artificioso Mondo dove videro subito Dio e le alte e
intellegibili idee e via di seguito, attraverso dei simboli. Poi vengono elencati elementi concreti, che
riproducono in maniera fedele la struttura della Tipocosmia. Sembra di capire che il teatro proposto dal
Citolini non è una costruzione di legno, ma un libro, lo stesso libro che si sta leggendo, ovvero la
Tipocosmia, salvo il fatto che non si può dire, se non solo metaforicamente, che è di estrema grandezza,
almeno guardando al formato ridotto, in ottavo, e al numero delle pagine a stampa.
La fine della settima giornata della Tipocosmia suggerisce che l’edificio “Mondo” costruito con criteri
imitativi, modellino in scala del reale, è un gioco per fanciulli, mentre solo il libro nel suo percorso
attraverso il lessico, restituisce il senso profondo della struttura del mondo reale. Si tratta quindi di verificare
che forma assuma questo libro che pretende di essere l’immagine del mondo. Segue lo schema:
1 giorno: mondo sensibile, moto, tempo, quantità, qualità, principi primi.
2 giorno: mondo celeste, cieli, stelle, pianeti, sole, luna, aria, fuoco, nuvole, vento, pioggia, mari, fiumi,
laghi.
3 giorno: pietre, gemme, animali, uomo e parti del corpo.
4 giorno: religione, teologia, metafisica, matematica, fisica, astronomia, orologio, agricoltura, etc…
5 giorno: arti e mestieri, chirurgia, medicina, spezieria, guerra, giochi dei fanciulli e degli adulti (il tema
delle arti e dei mestieri continua nel VI libro).
6 giorno: altre arti, quelle femminili, il cavallo, la retorica e la logica, l’anatomia, la fine del Mondo (che sta
come conclusione).
7 giorno: fine del libro con visita al teatro e allo studio del conte di Collalto dove vi è il libro di estrema
grandezza.
Tutto ciò richiama, ad una prima approssimazione, per analogia, la struttura delle enciclopedie medievali e
dei dizionari metodici rinascimentali, ma bisogna ancora spiegare in che modo un libro collocato nel genere
del dialogo possa essere un’opera lessicografica: il raccordo sta nella raccolta di elenchi lessicali relativi ai
vari argomenti elencati prima, in cui hanno rilievo i nomi propri geografici, in rispetto al carattere
enciclopedico dell’opera. Con competenza settoriale, vengono menzionati lo smeraldo, il diaspro, il verde,
il topazzo, il crisolito; spesso l’andamento somiglia a quello di un dizionario analogico o di un
classificatore, per cui si dice che la radice delle piante è “non profonda, forte, profonda”, o che le radici sono
“sottili, grosse, poche” o che l’albero è “senza radice e poi sradicato”. Siamo a metà tra la raccolta di epiteti
o concetti predicabili e il dizionario metodico, senza contare che in alcune parti l’opera sembra anticipare la
Piazza universale di tutte le professioni del mondo di Tommaso Garzoni, anch’essa, a modo suo,
enciclopedica, riferita solo alle attività umane. Nella Piazza universale, tuttavia, non vi è nessuna allusione
a un interesse linguistico del lavoro e ciò rende le due opere diverse. Anche la Piazza universale, tuttavia,
conserva nel titolo il riferimento al “Mondo”. Citolini però non ha interessi letterari che lo conducono a
spogliare i grandi autori del 300 o a limitare la scelta del lessico al canone bembiano. Citolini è originale
anche in questa sua antiletterarietà.
La Tipocosmia, di cui si aspetta l’edizione di Anna Antonini, ha avuto negli ultimi anni grande successo tra
gli studiosi, soprattutto linguisti, dopo il primo giudizio positivo di Nencioni. Tutti gli altri interventi dei
linguisti dipendono dal suo. Gli storici sono attirati dal fascino dell’eretico in fuga che per molto tempo ha
nuociuto al Citolini, guardato male dal Fontanini e dallo Zeno. L’opera del Citolini, però, per quanto
originale, non può essere innalzata di più nel confronto con le varie sperimentazioni metodiche della
lessicografia del 500, di cui, nonostante il fascino lessicologico ed ereticale, non rappresenta un esempio
molto riuscito se si valuta il percorso in base alle acquisizioni utili per la crescita della nostra tradizione
lessicografica.

2.6 Una macchina retorica


La Fabrica dell’Alunno può essere inserita nella tipologia del dizionario e non in altri generi più o meno
apparentati, come accadeva nel caso di Citolini. La Manni ha espresso simile concetto parlando di una
salutare chiarificazione tra struttura logica e dato linguistico che nel Citolini mancava. Quando si scende ai
confronti particolari e si giudica la partizione di Alunno nei dettagli, si vede che il legame con gli
enciclopedisti medievali Isidoro di Siviglia e Rabano Mauro, resta un po’ effimero. Più forti sembrano le
connessioni con l’ars magna del Lullo. Alunno abbandonò il disegno del dizionario alfabetico perché,
seguendo una moda del suo tempo, volle inserirsi, creando un nuovo strumento, in una tradizione
enciclopedica che sembrava offrire la possibilità di una costruzione in cui la fabbrica del mondo era
integralmente contenuta. Quale poteva essere il vantaggio di una struttura simile? Per rispondere a questo
interrogativo si deve prendere in considerazione la fortuna nell’accademia e nella scuola di opere che,
collocandosi nel campo della retorica, facevano tesoro della lezione universalistica medievale,
riproponendone una versione aggiornata all’aristotelismo cinquecentesco. Non si deve attribuire all’Alunno
una carenza di preparazione filosofica. Il terreno da cui traeva alimento questo tentativo di applicazione era
quello della retorica, connessa alla mnemotecnica. Il terreno è lo stesso in cui si era mosso Citolini, ma nel
caso dell’Alunno si rompeva con la tradizione degli strumenti pratici in uso per l’insegnamento della
composizione e dell’oratoria. Si pensi alla fortuna cinquecentesca delle “macchine retoriche”, semplici
schemi disegnati sulla pagina o a volte veri marchingegni che funzionavano grazie a cerchi che ruotavano su
perni, adatti a costruire tutti i discorsi possibili, permettendo di trovare la materia, in modo simile a quanto
dichiara il sottotitolo della Fabrica del mondo, dove si avverte che con le voci presenti in questo libro, si
possono esprimere scrivendo tutti i concetti dell’uomo e di qualsiasi cosa creata. Il sonetto posto al verso del
frontespizio ribadisce poeticamente la funzione retorica del dizionario, e non solo nel senso dell’ornatus
dell’elocutio, ma anche relativamente all’inventio.
L’Alunno immaginò il proprio dizionario come una macchina retorica, come uno strumento adatto a
suggerire la costruzione di discorsi grazie alle associazioni di parole collocate in varie categorie dotate di
senso. Non è solo la fotografia del mondo, come la immaginava Citolini mummificando le parole nella loro
classe di appartenenza, ma è la proposta della loro disponibilità, unita agli esempi degli scrittori di maggior
spessore intellettuale, secondo il canone bembiano.
Ecco quindi lo sforzo compiuto dall’autore per ricollegarsi a tradizioni antiche di “arte combinatoria”: il suo
dizionario era un esempio retoricamente aggiornato di questa arte, coerente con i principi estetici che si
imponevano per la normalizzazione dell’italiano letterario e doveva funzionare come una macchina retorica
totale, con l’aggiunta di una sezione costruita sul mito e sull’astrologia, sotto il segno dei nomi degli dei e
dei pianeti, nel libro II dedicato al Cielo. L’indice alfabetico (posto all’inizio o alla fine) permetteva di
prescindere dall’impianto metodico e di preferire la consultazione tradizionale, a beneficio dell’utente che
volesse solo verificare l’uso di una parola da parte degli autori o la sua esistenza nel repertorio.
Allo stesso tempo, però, il dizionario, nella sua struttura enciclopedica, sperimentava una strada che poi non
fu seguita da altri, perché il dizionario metodico non fu più di tanto ardito da adottare una forma simile a
quella delle enciclopedie medievali e delle teorie generali dell’ars combinatoria. Questa possibilità di
dizionario non si è sviluppata poi, ma se ne può vedere una prosecuzione moderna in esperimenti come la
tavola dell’”Ordine enciclopedico” Dio – Uomo – Mondo di Alberti o nei progetti successivi di “dizionari
concettuali”.

2.7 La data della “Fabrica”: 1546 o 1548?


Proprio l’indice alfabetico di cui è corredata potrebbe aiutarci a risolvere il problema della data di stampa
della Fabrica. Si trova spesso l’indicazione “1546” accanto a “1548”, da noi assunta come definitiva.
Migliorini fece sempre riferimento all’opera indicando la datazione “1546 – 48”, e la stessa incertezza si
nota in Olivieri. La princeps porta due date: in colofone indica il 1546, il frontespizio, invece, sotto la
silografia con il ritratto dell’Alunno, inserito in una prospettiva architettonica, porta l’indicazione “In
Vinegia MDXLVIII”. Le dedicatorie poste come prefazione nella princeps sono datate 1 gennaio 1548
(dedicatoria a Cosimo de’ Medici) e 2 gennaio 1548 (dedicatoria Alli saggi, et giudiciosi lettori). Le 48
carte degli indici alfabetici non sono numerate, e vengono dopo l’ultimo foglio con il colofone. Sono rilegate
subito dopo di esso o inserite prima della carta del 1 vocabolario, dopo le dedicatorie e le indicazioni relative
alle fonti dalle quali sono state prese le parole. Verrebbe da pensare, quindi, che nel 1546 la Fabrica fosse
stampata, ma proprio allora incontrasse due intoppi. Il primo fu l’errore nella dedicatoria a Cosimo de’
Medici, dove la consorte del duca, Eleonora di Toledo, era chiamata Isabella. Vi è una lettera di scuse
inserita dall’Alunno dopo la prima edizione, dove cercava di porre rimedio all’errore. È datata il 3 febbraio
1547. A quel punto, nel febbraio del 1547, il libro era stato stampato e le pagine contenenti l’errore erano
state sostituite.
Però vi era un altro ostacolo: qualcuno, l’Alunno o l’editore, si accorse che l’impianto metodico poteva
essere di impaccio al successo del vocabolario. La presentazione, inserita nella princeps, firmata da Marco
Antonio Magno, promette e annuncia come imminente l’Indice (anzi doppio: dei nomi comuni e dei nomi
propri) che non esisteva ancora, ma che l’autore compilò nel 1547 e che fu allegato all’edizione del 1548
con la quale si trova rilegato (ma non sempre: l’esemplare della Biblioteca Reale di Torino non lo contiene).
Nel gennaio del 1548 la Fabrica uscì dalla tipografia recuperando il materiale del 1546 (correggendo
l’errore relativo al nome di Eleonora di Toledo) e fu accompagnata dagli indici.
Evidentemente però, qualche esemplare del 1546, senza indici e con l’errore, dovette circolare ed essere
visto, altrimenti non ci sarebbe stato motivo di inserire nelle edizioni successive la lettera di scusa diretta a
Cosimo. Se questa ricostruzione è esatta, anche per questa via si dimostra la difficoltà di conciliare la
consultazione rapida e strumentale del dizionario con l’impianto universalistico iniziale, eredità del
Medioevo, che venne poi ripreso con i dizionari metodici del 700, come l’anonimo Vocabolario domestico
che fa parte dell’Ortografia moderna del Facciolati, in cui, tra molte altre categorie elencate, si trova la
Terra, il fuoco, l’acqua, l’aria, il mondo e il cielo. Un collegamento si potrebbe ipotizzare con l’arbor
scientiae che ispira la tradizione enciclopedistica del 700: il lessicografo Alberti collocò, per esempio, uno
di questi alberi nella pagina in cui illustrò l’ambizione enciclopedica del suo dizionario. Le 3 categorie
generali, sotto le quali Alberti raccoglie le altre più moderne sono Dio, Uomo e Mondo e hanno un sapore
antico.

2.8 Le “frasi toscane” di Stefano da Montemerlo


Tra i dizionari del 500, ce n’è uno diverso dagli altri: Delle frasi toscane di Stefano Montemerlo del 1566. È
menzionato in diversi luoghi, fin dalla Storia della letteratura italiana del Tiraboschi. L’opera non era solo
trascurata, ma dimenticata del tutto, non collocata al suo posto nella tradizione italiana di studi linguistici.
Montemerlo è un periferico, essendo nato a Tortona, in una zona che appartiene al Piemonte e con difficoltà,
oltre che con ritardo, entrò nelle lettere italiane, anche se, a quella data, viene subito in mente il Bandello,
nato a Castelnuovo Scrivia, che da Tortona non è lontano; ma Bandello si allontanò dal Piemonte, mentre
Montemerlo appare ben radicato nella sua terra, a partire dalla dichiarazione presente nel frontespizio, di
essere “gentiluomo di Tortona” e dalla dedica dell’opera al vescovo della stessa città. Il Montemerlo è il
primo lessicografo piemontese che si può menzionare nella nascente produzioni di vocabolari italiani.
Ci sono alcune caratteristiche che individuano il Montemerlo fra gli altri lessicografi del secolo. Prima di
tutto c’è l’insolita provenienza geografica, il Piemonte. La seconda caratteristica sta nella scelta di allestire
un dizionario diverso da tutti gli altri, dedicato a un settore speciale. Raduna frasi e locuzioni delle opere
degli autori del 200, del 300, ma anche dalle opere dell’Ariosto, del Bembo e dell’Aretino. L’originalità di
questo lessicografo sta nella scelta di non ordinare solo parole, ma frasi, come dice il titolo del suo libro. Per
frase intende quelle che i Greci chiamarono frasi, i Latini elocuzioni, cioè i modi e le forme di dire. Il
dizionario si colloca quindi in un terreno più vicino alla retorica e meno all’ambito linguistico. Tuttavia,
anche la struttura interna ci permette di avvicinarlo alla Fabrica del mondo dell’Alunno. Una sua
caratteristica è l’ordinamento metodico, pur mescolato a sezioni di carattere grammaticale (sezioni su
articoli, preposizioni, avverbi, congiunzioni).
Il primo dei 12 libri di cui si compone l’opera comprende i seguenti argomenti: Iddio, animo, mente,
mondo, vita, senno, uomo, capo, viso, occhio, bocca, gola, spalle, cuore, lato, mano, piede. Quasi tutte
queste categorie, pur collocate in modo diverso, sono presenti anche nella Fabrica dell’Alunno.
Prendiamo la sezione intitolata Cuore: in essa trovano posto modi di dire non solo italiani, ma anche latini,
perché il latino è una delle componenti non secondarie del dizionario, con citazioni di autori che vanno da
Plauto a Cicerone e Virgilio. Soffermiamoci sui modi di dire italiani, espressioni come le seguenti: essere a
cuore, avere a cuore. In tutte queste frasi compare il termine cuore, ma il Montemerlo si spinge verso i
confini di un dizionario analogico ante litteram perché registra frasi come avere a petto (a fianco di avere
a cuore). Anche in questo le Phrasi toscane possono essere avvicinate alla Fabrica dell’Alunno:
ripropongono un impianto tematico che vuole presentare i settori che permettono di toccare tutte le aree
dello scibile, come in una macchina retorica che produce testi, fornendo materiale per la costruzione del
discorso, anche se in questo caso non si parte dal lessico, dalla parola isolata, ma dalla combinazione in
espressioni e sintagmi.
Espressioni polirematiche: da una “polirematica” si passa ad un’altra uguale, ricorrendo agli equivalenti
sinonimici. Ciò spiega anche la mole del dizionario, che così può raccogliere un repertorio molto ampio di
espressioni, anche se è vincolato ad un modello linguistico bembiano, pur con qualche moderata apertura
verso la modernità.

3. IL VOCABOLARIO ITALIANO PER L’ESTERO E ALL’ESTERO

3.1 Bilingui e plurilingui


Nel 1477 il tipografo Adam von Rottwil pubblicò a Venezia un testo anonimo di grande successo: l’Introito
e porta, vocabolario bilingue tedesco e italiano. Nel 1479 uscì una nuova edizione bolognese, intitolata
Solenissimo vochabuolista dove si avvertiva che il libro poteva essere usato dagli italiani per imparare il
tedesco e dai tedeschi per imparare l’italiano: quindi era uno strumento per apprendere la lingua straniera.
Tuttavia, poteva anche essere usato da chi voleva imparare a leggere senza andare a scuola. Quindi era un
dizionario adattato all’uso di manuale d’alfabetizzazione elementare, o almeno proposto come tale
dall’editore, un po’ come accadrà più tardi al Dictionario del Verini. Questa dichiarazione apre uno
spiraglio su pratiche educative altrimenti non documentate, forse in uso nelle famiglie di mercanti, o rivolte
ad autodidatti.
Fin dalla prima edizione del 1477, l’Introito e porta si presentava come un dizionario metodico, rozzo e
poco ordinato, spesso confuso nell’impianto e nella realizzazione. Le parole erano collocate sotto categorie
come “de Dio e de la trinità e dela potencia e richeza”. Oltre agli elenchi di parole, comparivano “frasi fatte
come quelle dei moderni vademecum”, utili per un pubblico di viaggiatori. L’utenza non era certo costituita
da religiosi che leggevano e interpretavano i testi sacri per fare prediche. È un pubblico costituito da laici,
diverso rispetto agli utenti del Vocabulista ecclesiastico, semmai più simile a quello che ebbe nel 500 il
Verini. Ebbe un grande successo, viste le numerose ristampe. Le edizioni più antiche includevano l’italiano
italo – veneziano e il tedesco. In seguito le lingue aumentarono fino a comprendere il latino, l’italiano, il
francese, lo spagnolo, il tedesco e l’influenza del volgare locale sulla parte di lessico italiano diminuì. Il
dizionario bilingue si trasformò in strumento multilingue.

3.2 Il Calepino
Simile percorso verso il riferimento a più lingue aveva compiuto il dizionario latino per eccellenza, il
Calepino di Ambrogio da Calepio, la cui prima edizione uscì nel 1502 a Reggio Emilia pressio Dionigi
Bertocchi, per poi essere ristampata a Venezia nel 1506 da Pietro Liechtensteyn di Colonia. Questa opera
divenne così famosa da produrre il passaggio dal nome proprio dell’autore a nome comune, se il termine
calepino poté stabilizzarsi in italiano con il significato di “librone” e molto recentemente in quello di
“quaderno”, “taccuino”. Il Calepino forniva la spiegazione dei termini latini proponendo esempi d’uso tratti
dagli autori classici, però nelle voci si introdussero piano piano i termini corrispondenti nelle lingue
moderne. I traducenti italiani comparvero nel 1550 e divennero sempre più numerosi, fino a 5, 7 e infine alle
8 lingue dell’edizione del 1609. Il dizionario latino, compilato nella lingua che allora funzionava come una
lingua internazionale, divenne uno strumento importante per accedere a una pluralità di lingue moderne.
Non si trattava di un dizionario bilingue o plurilingue in senso proprio, vista la funzione marginale e
approssimativa dei traducenti, ma l’equivalenza dei termini era suggerita al lettore e poteva essere sfruttata
in tanti modi, anche non subito prevedibili: lo si è visto parlando delle chiose presenti nell’esemplare del
Vocabulista ecclesiastico conservato al Museo Camillo Leone di Vercelli, chiose che sembrano apposte
tenendo a portata di mano il Calepino e sfruttandone i suggerimenti. Il vocabolario latino aveva una certa
flessibilità e varietà di funzioni, tanto che poteva anche servire come guida a chi fosse interessato alla lingua
italiana.
Per quanto riguarda gli strumenti nati per lo studio del latino, e poi adattati, in modo da essere funzionali al
rapporto con le lingue straniere, possiamo citare la raccolta di lessico ciceroniano allestita da Mario Nizzoli
nel 1535, il Thesaurus ciceronianus. Nell’edizione veneziana del 1606 fu corredato dagli equivalenti
italiani, spagnoli e francesi. Questa scelta è ispirata dal Calepino. Il Dittionario volgare e latino del
poligrafo veneziano Orazio Toscanella, di cui si conosce l’edizione del 1568, contiene anch’esso liste di
parole straniere, e tra queste le più numerose sono quelle spagnole. Il Toscanella, più volte si servi del
Calepino, adattandolo alle proprie esigenze di divulgazione didattica in opere che contenevano liste di
vocaboli italiani e latini.
Alcuni lessici plurilingui in cui entrava anche l’italiano furono stampati all’estero. Gallina ha segnalato il
dizionario fiammingo – francese di Noel de Berlaimont, stampato ad Anversa nel 1530: l’edizione più antica
sembra essere del 1536. Il libro fu accresciuto dopo la morte dell’autore: le lingue incluse furono prima 4,
poi 8 in varie combinazioni. Nel Nomenclator omnium rerum propria nomina variis linguis explicata di
Hadrianus Junius, uscito ad Anversa nel 1567, entravano greco, tedesco, fiammingo, francese e italiano.
Edizioni di questo libro, con l’aggiunta dell’italiano, apparvero anche a Francoforte, Colonia, Lione,
Ginevra. Le liste lessicali non erano contenute solo nei libri destinati allo studio e alla consultazione
linguistica, nei repertori di lessico latino o nei vari nomenclatori. Gallina ha infatti rilevato l’importanza di
un libro di tipo diverso, che tuttavia ha una simile propensione poliglotta: nelle Historiae animalium di
Konrad von Gesner, uscite a metà del 500 a Zurigo, i nomi degli animali sono presentati nelle varie lingue.
La stessa cosa accade nel libro italiano di farmacia e botanica del XVI secolo, i Discorsi sopra il
Dioscoride del medico toscano Pier Andrea Mattioli, in cui piante e animali vengono descritti per un sicuro
riconoscimento e per suggerirne il possibile uso terapeutico: in aggiunta alle informazioni naturalistiche e
mediche, sono indicati i nomi di piante e animali in italiano, latino, greco, arabo, tedesco, spagnolo e
francese.

3.3 L’italiano nei dizionari europei


Per quanto riguarda il mondo di lingua tedesca, abbiamo esordito citando i repertori bilingui italo – veneto –
tedeschi che risalgono alla seconda metà del 400; ma il primo vero dizionario italo – tedesco è quello di
Hulsius, del 1605. Il dizionario latino di Nebrija (autore famoso per aver stampato la prima grammatica in
lingua castigliana) fu tradotto in siciliano. Nel 1570 Cristóbal de las Casas pubblicò un Vocabulario de las
dos lenguas toscana y castellana, il primo lessico spagnolo – italiano. Il primo dizionario francese –
italiano è quello di Fenice, del 1584, mentre il primo dizionario italiano – inglese è quello di Florio. Il
dizionario del las Casas è italiano – spagnolo e spagnolo – italiano, bidirezionale, ma con una struttura
semplice, soprattutto nella prima sezione. Per ogni parola italiana è suggerito un solo equivalente spagnolo,
senza distinzione di significati. Quando questi significati sono più di uno, l’autore aumenta le entrate. Per
esempio, la parola italiana capo è moltiplicata per tre: capo = cabeza, capo = principe, capo = guia. Al
contrario, la sezione spagnolo – italiano ha più equivalenti. Per esempio: guia = capo, condotta, duca,
duce, guida, guidamento, scorta. Non ci sono esempi di frasi, né dell’uso, né d’autore.
Il dizionario italiano – inglese di John Florio, uscito a Londra nel 1598 ha un’importanza maggiore. Si
intitola A Worlde of Wordes, or Most copious, and exact Dictionarie in Italian and English. Comprende
45 mila parole tratte da 72 opere presenti nella lista delle fonti. Una nuova edizione, uscita nel 1611, un anno
prima del Vocabolario degli Accademici della Crusca, ebbe il titolo trasformato in Queen Anna’s New
World of Words, or Dictionarie of the Italian and English tongues. Questa nuova versione comprende
circa 70mila parole tratte da 252 opere italiane, scelte con una certa disponibilità ad allargare il canone. I due
dizionari del Florio sono fondamentali per la nostra lessicografia, anche perché sono di vasta mole ed
entrambi precedono il Vocabolario della Crusca, ma con una progettazione e realizzazione molto più libera e
aperta, indipendente dai principi restrittivi che animarono l’Accademia di Firenze. Tra le fonti che Florio
usò, abbiamo la Fabrica del mondo dell’Alunno (sembra essersi ispirato proprio a questo titolo il libro) e il
dizionario spagnolo del las Casas. Altre fonti sono autori di libri di cucina, falconeria, equitazione, autori di
letteratura, a partire da Petrarca. Tra i contemporanei c’è Giordano Bruno con la Cena delle Ceneri, i lavori
storici di Paolo Paruta, il predicatore Francesco Panigarola. Si rivolgeva agli stranieri, in parte, anche Il
memoriale della lingua italiana del Pergamini che si preoccupava di segnare dove cade l’accento tonico
delle parole. Più tardi si rivolgerà al pubblico inglese il Baretti, autore di un dizionario bilingue, O’Connor e
Iamartino.

4. UN EDITORE E IL VOCABOLARIO: FRANCESCO SANSOVINO TRA BEMBO E IL


PARLAR POPOLARE

4.1 Francesco Sansovino


Nel 500 una sorta di frenesia editoriale intorno ai temi retorico – linguistici ebbe come esito una produzione
di libri di cassetta, di modesto valore culturale, rifiniti e ripetitivi. Spesso i poligrafi, soprattutto quelli
attivissimi di Venezia, riciclarono materiali di opere già note. Anche Sansovino è stato accusato di
appartenere a questa categoria di utilizzatori. La sede più adatta e gradita a questi poligrafi era Venezia.
Sansovino, come Dolce, Ruscelli si era fatto le ossa lavorando come consulente e correttore editoriale,
settore in cui si facevano strada gli operatori che approntavano merce adatta ad un mercato in espansione
desideroso di strumenti linguistici: lessici, traduzioni, classici italiani con vocabolarietto in appendice. In
questo mondo di mercanti di libri, si inserisce Francesco Sansovino, figlio di Jacopo, trasferitosi a Venezia
dopo il sacco di Roma. Impegnatosi nell’attività editoriale, Francesco divenne direttore di una stamperia con
l’insegna della falce di luna. La superficialità con cui attraversò varie discipline è segno dei tempi.
Uomini di cultura come Sansovino furono prima di tutto imprenditori. È importante, quindi, che egli,
abituato a seguire la moda, coltivasse la tematica linguistica in opere retorico – precettistiche destinate ad un
fine pratico fino a produrre libri in cui si riconoscono bene i caratteri di opere lessicografiche. Gli interessi
linguistici di Sansovino risalivano a quando, 22enne, stampò a Bologna una Rhetorica di piccole
dimensioni, un opuscolo in cui vi è un capitolo dedicato alla Pronunzia, il quale mostra un filotoscanismo
che dà molta attenzione al parlato.
Questa attenzione alla lingua parlata fu una caratteristica costante del Sansovino. Egli, all’inizio, svolse
l’apprendistato lavorando per altri editori. I suoi interessi si rivelarono meglio quando pubblicò sotto il
proprio marchio: si pensi alla raccolta delle Osservationi della lingua volgare de diversi huomini illustri
(1562, poi ristampata nel 1565) e alla riedizione della Fabrica del mondo dell’Alunno, il vocabolario più
diffuso del 500. Le Osservationi rappresentano un tentativo originale di raccolta ordinata delle migliori
grammatiche allora esistenti, legate tra loro da commenti, contengono anche un richiamo alla lessicografia,
inserito là dove viene presentata ai lettori la grammatica dell’Acarisio.
Altre opere interessanti dal punto di vista linguistico del Sansovino sono: la raccolta delle Orationi di
diversi huomini illustri (1561), che doveva fornire modelli di italiano nobile adatto ai discorsi pubblici e
d’occasione, e il Secretario (1565), che contiene le norme per scrivere lettere in volgare, manuale che avrà
fortuna anche in area periferica e ciò è testimoniato dalla ristampa torinese del 1580. Sarà imitato e darà vita
ad un vero genere, a cui contribuirà anche Tasso.
L’attenzione di Sansovino per il settore linguistico è considerevole, così come è significativa la scelta da
parte sua di generi pratici per eccellenza come l’oratoria e l’epistolografia. A dimostrare la connessione tra
questi generi, si può citare il fatto che nella terza ristampa della raccolta delle Orationi (1569), egli
ripubblicò anche il trattato giovanile Dell’arte oratoria, contente una presa di posizione contro la soluzione
cortigiana. Si tratta di tesi correnti nella trattatistica coeva, e tuttavia lo spazio dato a queste argomentazioni
sorprende perché di solito Sansovino evita interventi teorici nelle sue opere pratiche, concepite come via di
accesso alla lingua, attraverso le quali i lettori poteva impossessarsi del volgare in una forma toscana, senza
sottilizzare e senza una distinzione troppo rigida tra fiorentinismo dell’uso vivente e teoria bembiana.
Sansovino, poteva allo stesso tempo celebrare le idee esposte nelle Prose della volgar lingua, ma intanto
usava termini come fiorentino e toscano in modo un po’ equivoco, ora in senso arcaicizzante, ora in senso
moderno, a volte ignorando questa distinzione. In questo terreno franco, meno esposto al rischio di
polemiche, proprio perché distinto dal dibattito teorico, Sansovino, che più di una volta aveva celebrato la
superiorità di Bembo, poteva permettersi un’iniziativa che segna l’avvicinamento alla lingua quotidiana
extraletteraria e forse anche un distacco dal mestro veneziano: questa è l’Ortografia delle voci della lingua
nostra o vero Dittionario volgare e latino dove si impara a scrivere correttamente ogni parola in prosa e in
verso, per sfuggire alle rime false e agli altri errori che si possono fare scrivendo e favellando.

4.2 L’ “Ortografia” del Sansovino


Ad un primo esame, l’Ortografia risulta deludente: le voci sono ricavate perlopiù dalla Fabrica del mondo
dell’Alunno, cioè provengono dal vocabolario di successo che la stessa bottega di Sansovino ristampò nel
1560. Rispetto alla fonte, l’Ortografia si presenta come un libro piccolo con i lemmi in ordine alfabetico. Il
risultato dà l’impressione di un’operazione commerciale: infatti Sansovino, nella nota introduttiva, dà
grande importanza alla notizia dell’uscita imminente di un suo Tesoro della lingua Volgare, notizia che
attira attenzione visto che si tratterebbe del progetto di quel vocabolario completo che in realtà l’Italia del
500 non ebbe mai e di cui si sentiva l’esigenza.
Intanto, in attesa del Tesoro, Sansovino offriva al pubblico il vocabolarietto in formato tascabile, simile alle
Osservationi sopra il Petrarca dell’Alunno; le sue Osservationi contenevano solo il lessico della lirica,
mentre Sansovino vuole raccogliere le voci che si leggono nelle scritture degli antichi Toscani e le parole
educate. Una premessa che mostra l’attenzione rivolta non solo alla lingua letteraria. A sentir l’editore,
questo era il vocabolario che sarebbe venuto incontro a tutte le esigenze degli utenti, nonostante la sua
piccola dimensione.
L’opera era uno strumento destinato prima di tutto a dissipare i dubbi ortografici, toccando uno dei temi a
cui erano state dedicate le discussioni del 500. L’oscillazione della grafia era uno dei motivi di difficoltà per
gli scriventi ed era un problema serio per gli editori, tanto è vero che Sansovino pensa ai libri impressi nei
nostri tempi, tanto cambiati nell’ortografia, quanti sono stati i correttori di questi libri (dicendo altri
“intiero” per “intero”). Egli fa rientrare nell’ortografia anche le oscillazioni fonetiche, spesso marcate da
abitudini regionali. Il titolo del suo vocabolario non va inteso in senso troppo ristretto. La coscienza che la
stampa rendesse necessario il livellamento della grafia, lo portava a valutare l’azione unificatrice esercitata
dagli editori di testi, a partire da Bembo collaboratore di Manuzio. Sansovino dice che opere come quelle di
Petrarca oggi, essendo stampate, sono molto diverse dalle sue scritture a mano, a causa della volontà dei
correttori. Tra coloro che hanno contribuito alla stabilizzazione della grafia nomina oltre a Bembo, Della
Casa, Caro, Tolomei, Dolce. Ma il Dittionario, anche se cita alcuni antecedenti, non si perde in ricostruzioni
storiche e non propone discussioni teoriche: prima di tutto si deve fornire al pubblico settentrionale un
repertorio che risolve una volta per tutte i problemi relativi all’uso delle consonanti geminate e scempie,
evitando dialettismi e ipercorrettismi. A ogni lemma segue l’esplicita notazione del numero delle
consonanti.
La parola italiana viene raffrontata al corrispondente latino (nel titolo il vocabolario è detto “italiano e
latino”) secondo un procedimento comune nella lessicografia 500entesca. Le voci citate si discostano dalla
Fabrica del mondo per l’eliminazione degli esempi letterari, ma, per quanto riguarda il resto, le analogie
sono notevoli. Vi è in più l’etimologia di Abate; la definizione di Abete è più generica, con il ricorso
all’idea di “noto”; quella di Abisso è più spiccia, anche se sembra caratterizzata da un tono più popolare per
l’aggiunta di “casa del diavolo”. Se poi si paragona la quantità di vocaboli presenti nel lessico di Sansovino
con quella presente nella tavola alfabetica dell’Alunno, si nota che la Fabrica del mondo, tra le voci Abate
e Abisso, include altri 30 lemmi, omessi nell’Ortografia. Sansovino offre un repertorio ridotto, in cui la
selezione delle voci, che dovrebbe essere condizionata dal criterio della frequenza (dovrebbero essere
incluse “le voci comuni”), spesso sembra casuale. È fondamentale la decisione di abolire tutti gli esempi
degli scrittori, forse per il poco spazio a disposizione, ma significativa per arrivare alla realizzazione di un
vocabolario tascabile, svincolato dall’esclusivo uso letterario. Capita però che gli autori letterari vengono
nominati in maniera generica e anonima con un cenno brevissimo, senza che se ne riferiscano esempi per
distinguere tra l’uso degli antichi e quello degli scrittori moderni. Quindi il confronto letterario è occasionale
e secondario, mentre molto spesso la voce viene affiancata al suo equivalente popolare e dialettale.
Il raffronto con l’Alunno mostra che Sansovino gli è gregario. L’autorità degli scrittori non serve per
giustificare l’uso di arcaismi desueti, dai quali sembra allontanare il lettore, indirizzandolo verso equivalenti
più correnti. Dietro a questa scelta può esseri Bembo, come nel caso di beninanza. Le Prose della volgar
lingua mostravano cautela nei confronti delle voci in -anza, il cui uso era giunto a Dante e Boccaccio.
Sansovino è ancora più radicale quando si parla di vecchi poeti Toscani, quasi a voler segnare un distacco
nei confronti della tradizione celebrata da Bembo. Il termine di confronto che preferisce è l’uso fiorentino e
toscano moderno. Nella definizione delle voci, entravano spesso diciture come “voce Fiorentina”, “dicono i
Fiorentini”, che sono chiare, anche se vanno prese con cautela, perché non sappiamo come Sansovino
potesse controllare l’uso di Firenze e se questo intento fosse perseguito mediante la lettura di testi o la
consulenza di parlanti.

4.3 Toscano e dialetto


Tuttavia nell’Ortografia si apre una frattura tra l’ortodossia bembiana, alla quale Sansovino si era
richiamato più volte e un nuovo toscanismo naturalistico. Non è strano che egli mostri la tendenza a legare
la curiosità lessicale filofiorentina alla base toscanista bembiana. Bisogna anche tener conto del prestigio di
Bembo a Venezia con cui Sansovino dovette fare i conti, innestando però nel suo insegnamento altre
esperienze, a partire dalla frequentazione giovanile dell’Aretino, toscano e maestro di una lingua
popolareggiante e antiaccademica. Già nello scritto giovanile sulla Rhetorica ammirava la pronuncia
toscana, e poi il suo toscanismo si rivelò nel trattato Dell’arte oratoria, dove la difesa della Toscana, vista
poco bene dalle altre regioni, travalicava i confini di un bembismo ortodosso. Tuttavia, nonostante ciò, la
celebrazione del Bembo non venne mai meno. La si ritrova nelle Osservationi della lingua toscana e in una
biografia di Bembo preposta alle Lettere del cardinale veneziano curata da Sansovino per Comin da Trino
nel 1564. Tuttavia, nella prefazione dell’Ortografia, dove i meriti di Bembo sono riconosciuti, vengono
inseriti altri nomi, destabilizzanti rispetto alla linea del Bembo. Sansovino cita Annibal Caro, che aveva
detto di non voler usare né la lingua di Boccaccio e nemmeno quella di Petrarca, ma quella toscana, e
Tolomei che nel Cesano aveva riconosciuto continuità tra l’uso letterario e l’uso toscano e aveva
polemizzato contro la lingua cortigiana in modo simile a come aveva fatto Sansovino nel passo dell’Arte
oratoria.
Non si può dare troppo credito alla coscienza del concetto di “uso vivo” presente nell’Ortografia, perché
alla base di questa raccolta lessicale c’è sempre il vocabolario dell’Alunno, cioè uno spoglio bembiano,
condotto sui Trecentisti. Su questo fondo tradizionale però si innestano continui riferimenti che conducono
verso l’uso moderno tosco – fiorentino.
Il confronto con l’Alunno mostra poche aggiunte e diverse omissioni e nessuna innovazione. Eppure, si
sviluppa un dialogo tra Sansovino e la sua fonte. Pensiamo alla voce Arrandellare, registrata nella Fabrica
con l’esempio di Ariosto, a cui Sansovino dà conferma ribadendo che è una voce fiorentina. Resta aperto il
problema delle fonti, visto che arrandellare, nel senso di “lanciare”, era stato usato da Pulci e Berni nella
farsa rusticale La Catrina. Era una parola fiorentina, e Sansovino mostrava un interesse per il toscano
moderno, anche se non sempre ciò si traduceva da parte sua in originalità nella raccolta del materiale. Vi
sono altre voci che ripropongono il tema.
Queste voci sono presenti nell’Alunno. Si tratta di toscanismi, attestati nell’uso letterario di autori quattro –
cinquecenteschi che amavano il lessico popolare e il ribobolo. Libréttine, per esempio, è nel Burchiello e da
questa fonte sembra sia stata tratta la parola per inserirla nell’Ortografia, visto che in quel poeta la si
trovava in rima con il pettine, qui posto a raffronto per indicare che la parola è sdrucciola. Quanto ai
maceroni, li poteva trovare nella Coltivazione dell’Alamanni, o nell’edizione giuntina della Spiritata del
Lasca, uscita nel 1561, pochi anni prima dell’Ortografia.
La ricerca dell’“uso” avveniva forse attraverso la consultazione di autori moderni toscani, un’indagine
condotta su fonti scritte, come faranno più tardi anche molti scrittori periferici. Anche nel caso di Sansovino
non manca la soddisfazione di fronte alle concordanze tra le forme settentrionali e le forme toscane.
D’altra parte, la probabile utilizzazione degli autori toscani moderni, soprattutto di quelli caratterizzati
dall’uso di un linguaggio popolaresco, non esclude che potesse ricorrere alla consulenza di parlanti nativi. Si
potrebbe pensarlo, di fronte a notazioni come “Muscia (per Gatta) dice il Fiorentino”.
Quanto a cuccia per “carriola”, si pensi ad una fonte orale perché non ci sono attestazioni scritte. Per peccia
(corpo) ci sono attestazioni in Pulci, Burchiello, ma colpisce la notazione della pronuncia della é stretta
toscana, che dimostra l’interesse per la lingua come atto di parola, non solo di scrittura. L’attenzione al
parlato è documentata anche dai molti riferimenti al dialetto e alla coinè settentrionale, assunti come termini
di confronto o di partenza per l’acquisizione di un nuovo lessico. Sansovino si rivolge ad un pubblico
veneziano.
Lui non andò oltre una rielaborazione di quanto già trovava nelle definizioni e nella tavola alfabetica che
precede quel dizionario, dove vi erano anche termini dialettali usati come raffronto. L’Alunno però
proponeva termini padani e veneti come equivalenti dei toscani, senza nessuna precisazione, mentre
Sansovino riseleziona il materiale per stabilirne l’origine lombarda, veneta o toscana. Alla fine, la funzione
del dialetto, è potenziata anche per l’aggiunta di diversi termini (come nelle voci Basigò e Collare che non
ricorrono nell’Alunno). L’effetto di questa vivacità popolareggiante nella spiegazione e definizione dei
lemmi è reso più evidente dall’assenza delle citazioni letterarie. I richiami, oltre che al veneziano, si
estendono al lombardo.
Anche in questi casi, il confronto con l’Alunno conferma che a volte c’è la ripresa passiva (ascelle,
bambagia), a volte l’inserimento ex novo, come per badile (termine dell’uso quotidiano, un settore del
lessico privilegiato: si pensi a carriuola, cantina). Nelle definizioni vi è un potenziamento del ruolo dato al
dialetto. L’attenzione al lombardo e al modo di dire di Venezia, categorie sotto le quali sembra che egli
intenda il parlar comune, il dialetto e il dialetto italianizzato, in tutti e 3 i casi lingue vive, favorisce il
confronto con il toscano, cercato negli autori moderni e nella continuità tra gli autori antichi e quelli del 500,
e a volte, anche in sondaggi condotti sui parlanti.

4.4 Potenzialità dialettale


Lo stesso vocabolario dell’Alunno è stato considerato sotto il profilo dei suoi errori, senza chi si tenesse
conto della complessità di compilare un vocabolario e senza che si abbandonasse una visione finalistica
della lessicografia, considerata una fioritura di tentativi, inesatti e approssimativi, che preludono al
Vocabolario della Crusca. Quest’ultimo è più ricco e esatto dei suoi predecessori, ma proprio per il suo
maggior rigore filologico e per la sua omogeneità, segna anche l’abbandono di una serie di potenzialità
prima esistenti e vitali. Non vi è più la potenzialità dialettale perché il dialetto, locale o annacquato o coiné
padana, viene eliminato nelle definizioni, come spiegazione e termine di confronto: il Vocabolario del 1612
non asseconda più le esigenze dell’utenza periferica, ma diventa centralistico, con il conseguente effetto di
livellamento. A differenza dei suoi predecessori, non può più essere accurato di rozzezza, ma è più
rigidamente accademico. I vocabolari settentrionali non sopravvalutano regionalismi e dialettali, ma tuttavia,
anche se scritti da filofiorentini, questi lessici davano spazio ai rapporti tra lingua regionale e lingua
letteraria – toscana, e inauguravano così una linea destinata a durare fino alla ricerca dell’italiano condotta
da alcuni scrittori dell’800. I vocabolari rozzi testimoniano meglio, nel rapporto fra utenti e lingua, gli attriti,
le contaminazioni, fuori dall’illusoria lindura della lingua poetica.
I materiali della dialettalità non entrano solo nell’opera dell’Alunno o del Sansovino, ma anche in altri
vocabolari italiani, anche in quelli italiano – latini. Ma i dialettismi non sono solo segno di cattiva
conoscenza della lingua, destinati ad essere abbandonati grazie alla diffusione delle idee di Bembo, né
queste ultimi bastarono per mandare via questi condizionamenti locali (si pensi al loro persistere
nell’Alunno), né forse era necessario che ciò avvenisse, almeno nei dizionari: l’eccessiva selezione, quando
si fosse realizzata del tutto, avrebbe alla fine tolto qualche cosa agli utenti, spingendoli lontano dalla lingua
media e dell’uso, verso gli spazi rarefatti dell’iperletterarietà. Quanto fosse invece ricca la potenzialità
dialettale, quali incroci potesse produrre, lo testimonia il Promptuarium di Michele Vopisco, studiato da
Gasca Queirazza, coevo alle opere di Sansovino. Nel Piemonte avviene un trapianto: un napoletano,
trasferitosi a Mondovì per insegnare nello Studio, pubblica un piccolo vocabolario volgare – latino ricco di
equivalenti propri del dialetto piemontese, ancora legato alla produzione di glossari umanistici. La “lingua
subalpina” non va intesa come dialetto in senso stretto, ma come italiano comune parlato con pretese di
cultura, una sorta di lingua mista, una lingua che comprendeva anche intrusioni dialettali (Archiciocco per
“carciofo”) e che in diverse occasioni richiama l’Ortografia di Sansovino non per gli obiettivi filotoscani
(che in Vopisco mancano), ma per l’orizzonte dei referenti quotidiani.
L’affiorare dei dialetti nei vocabolari, il quale più tardi sarà soppiantato dalla dittatura della Crusca o verrà
confinato nello spazio chiuso della dialettalità riflessa, dà quasi luogo ad un pastiche preterintenzionale,
senza pretese d’arte, ma che testimonia come avvenisse l’apprendimento della lingua. Lo strumento
lessicografico dimostra di avere una capacità di adattamento quando rifugge da un eccesivo rigore e
raffinatezza. Nel 500 si può ancora tracciare una geografia dei vocabolari, così come si può parlare di una
geografia dell’editoria, seguendo le correnti di traffico librario che si muovono lungo la direttrice del Po, le
quali sono anche correnti di diffusione della lingua.
CAP. 4. LA CRUSCA E LA LESSICOGRAFIA DEL SEC. XVII

1. IL VOCABOLARIO DEL 1612

1.1 L’approdo alla lessicografia


L’Accademia della Crusca, dal XVII secolo, divenne la depositaria di ogni autorità nel campo della
lessicografia italiana. A differenza della precedente Accademia Fiorentina, la Crusca fu un’associazione
privata che poté contare solo sulle sue forze, senza sostegno pubblico e statale. Eppure, restituì a Firenze il
magistero della lingua, così come avevano auspicato linguisti importanti come Varchi e Salviati. Da allora,
tutti gli italiani colti furono costretti a fare i conti con il primato di Firenze nel campo della lessicografia.
L’attività dell’Accademia venne criticata e fu al centro di polemiche. Tuttavia nessuno poté permettersi di
ignorarla: la presenza del vocabolario dell’Accademia fu fonte di discussioni continue, fu ossessiva,
ingombrante e fastidiosa. Attraverso la sua autorità, la voce di Firenze si fece ascoltare per secoli, fino a
quando non si riuscì a soppiantarla mediante nuove iniziative lessicografiche. Ma per arrivare a queste
alternative ci volle molto tempo. Dovettero cambiare le condizioni economiche ed editoriali che
condizionavano la produzione della cultura. Infatti, la prima alternativa al Vocabolario della Crusca si ebbe
a metà dell’800 quando fu pubblicato il Dizionario di Tommaseo.
La Crusca fu fondata nel 1582. Inizialmente gli accademici si dedicarono a passatempi, componendo
“cicalate” e orazioni scherzose, secondo il gusto dell’epoca. Solo nel 1583, con l’ingresso di Lionardo
Salviati, cominciarono ad affermarsi seri interessi filologici. Per circa un decennio, tuttavia, nessun
documento dà notizia di un lavoro legato alla realizzazione del vocabolario, che poi fu la grande opera di
questi intellettuali. La Crusca, nella prima fase della sua esistenza, si fece conoscere in particolare per la
polemica condotta soprattutto dal Salviati contro la Gerusalemme liberata di Tasso, a sostegno del primato
dell’Ariosto. Lo stesso Salviati diventava famoso con gli Avvertimenti della lingua sopra ‘l Decamerone
(1584 – 1586), libro filologico e grammaticale, che venne dopo un intervento compiuto sul testo di
Boccaccio per pulirlo dalle parti ritenute censurabili. Questa operazione è nota come “rassettatura” del
Decameron. L’intervento di una censura moralistica, fu l’occasione per la nascita e lo sviluppo di
un’attenzione filologica per il testo del Decameron. Per salvare il libro di Boccaccio, per tramandarne lo
stile, si interveniva, mutilando il testo. Senza questo intervento, il Decameron sarebbe finito all’Indice e
sarebbe stato vietato, ma la filologia boccacciana nacque a questo prezzo.
Quando Salviati entrò nella Crusca, aveva già terminato il suo lavoro per ripulire il Decameron. Solo allora,
l’Accademia si avviò verso l’attività filologica. Nel 1590 si decise di rivedere e correggere il testo della
Commedia di Dante, la quale uscì a Firenze nel 1595 a Firenze, ridotta a migliore lezione dall’Accademia
della Crusca. Tuttavia il contributo più rilevante si ebbe nella lessicografia. Questa attività risulta in un
verbale del 1591 dove si legge che gli accademici discussero sul modo di realizzare il vocabolario e si
divisero gli spogli da compiere, mettendo a punto una tecnica per procedere in modo ordinato nella
schedatura. Non era in questione l’opportunità di compilare un vocabolario, ma la tecnica per realizzarlo. Lo
stesso Salviati, tempo prima aveva accennato all’idea di un vocabolario della lingua toscana. Si può essere
certi che egli avesse discusso del progetto in quel consiglio di cui era l’animatore più autorevole. Ciò
permette di ipotizzare che gli accademici si fossero preparati già da tempo, anche se il lavoro si svolse solo
dopo la morte di Salviati.
La questione non è di secondaria importanza, perché investe il problema dei rapporti tra la Crusca e Salviati.
La Parodi ha insistito sul fatto che un suo influsso sul progetto lessicografico sembra riportare ad un periodo
molto circoscritto. Vitale, invece, ha parlato di una dipendenza dei principi adottati dagli accademici rispetto
a quelli esposti da Salviati negli Avvertimenti. Il canone degli autori spogliati per il vocabolario
corrisponde a quello fornito da Salviati, dipende da esso, salvo poche aggiunte. Da Salviati venne agli
accademici la caratteristica impostazione antibembiana, secondo la quale gli autori minori e minimi erano
giudicati degni, per meriti di lingua, di stare a fianco dei grandi della letteratura. Agli occhi di Salviati e poi
degli accademici, i problemi del contenuto e della qualità letteraria si collocavano su un piano diverso da
quello della forma; i meriti linguistici potevano accoppiarsi ad una modestia di sostanza: alcuni antichi
volgarizzatori non erano stati capaci di comprendere i testi latini che cercavano di tradurre, ma, nell’ottica
della Crusca, erano comunque validi modelli perché avevano scritto bene per naturale dono di lingua.
Secondo gli accademici, quegli autori restavano pur sempre ammirevoli.

1.2 Un’opera collettiva


Al momento della realizzazione del Vocabolario, Salviati era già morto. Dopo di lui non c’era
nell’Accademia una figura di spicco che potesse raccoglierne l’eredità. Dei 50 accademici della Crusca
presenti a Firenze tra il 1591 e il 1592, nessuno aveva una precisa competenza linguistica o lessicografica.
Erano dilettanti, spesso giovani, non ancora noti per meriti letterari. Erano pubblici funzionari, ecclesiastici,
professori di giurisprudenza o di filosofia, medici, letterati o poeti come Michelangelo Buonarroti il Giovane
che non aveva ancora scritto le commedie che lo resero famoso per l’esibizione di lessico popolare toscano.
Questo dilettantismo del gruppo non è un fatto negativo. Anzi, esso accresce il merito, soprattutto alla luce
del risultato raggiunto. Il lavoro, infatti, fu condotto con una coerenza metodologica e un rigore che
andavano al di là degli altri precedenti. La squadra dei lessicografi fiorentini si formò da sé e mantenne
collegialità nelle scelte, forse proprio per la mancanza di figure in grado di egemonizzare l’operato degli
altri. In questo senso, il vocabolario della Crusca, fu concepito attenendosi alle regole fissate all’interno
dell’Accademia.
Il lavoro fu organizzato così bene da riuscire breve. Nel 1595 lo spoglio, avviato nel 1591, era già stato
portato a termine. Fu affrontato il problema del finanziamento, che dimostrava come i tempi fossero
cambiati rispetto alla prima metà del secolo. La Crusca, alla fine del 500, non si trovava nella situazione
favorevole in cui si trovava l’Accademia Fiorentina di Cosimo I. La protezione di Piero de’ Medici, infatti,
rimase sempre formale. Per stampare il vocabolario, grande, occorrevano soldi: gli accademici furono
costretti ad autofinanziarsi, visto che non trovavano chi si accollasse tutte le spese. Ciò comportò anche una
loro libertà, fino alla seconda metà del 600. La necessità di trovare da soli i finanziamenti per il vocabolario
giustifica la tendenza a realizzare l’opera come una sorta di impresa commerciale, stando attenti a rientrare
nelle spese, che si aggirano intorno ai mille ducati. Nonostante la novità dell’opera, non si poteva essere
certi del suo successo di mercato. L’accademico Riccardo Romolo Riccardi, mercante fiorentino, non rischiò
i suoi soldi nell’impresa, proprio perché non era sicuro del suo successo. Il rischio giustifica anche gli sforzi
fatti per assicurare al volume i privilegi di vendita nei diversi stati. La situazione italiana, da questo punto di
vista, era sfavorevole perché la frammentazione politica e amministrativa favoriva le edizioni – pirata e
frazionava il mercato. Ciò spiega perché era più conveniente ottenere il privilegio in una nazione come la
Francia: al privilegio (cioè al diritto di non veder l’opera riprodotta abusivamente entro i confini di quel
paese) in Francia provvide un protettore illustre, Concino Concini, allora quasi all’apice della sua carriera
alla corte di Parigi; il Vocabolario è dedicato a lui.
Forse la scelta di far stampare l’opera a Venezia e non a Firenze è dovuta a motivi economici. A prima vista,
questa decisione sembra incomprensibile. Il Vocabolario, infatti, era realizzazione fiorentina: è difficile
pensare che in circostanze più favorevoli si sarebbe fatto ricorso a torchi forestieri. Tuttavia, gli accademici
scelsero di stampare a Venezia e ciò comportò molti problemi pratici. Ci restano le istruzioni che
accompagnarono nel 1610 il segretario dell’Accademia, Bastiano de’ Rossi, l’ “Inferigno” che doveva
controllare il procedere della stampa e di provvedere a ciò che serviva durante le ultime correzioni. Basta
leggere queste istruzioni per verificare quanto l’Accademia, anche in quell’occasione, affidando a un solo
membro questa responsabilità, difendesse la sua collegialità, affidando al segretario un mandato molto
vincolante, garantendosi che egli non potesse abusare della sua posizione di privilegio sul luogo della
stampa; ogni settimana avrebbe dovuto inviare le bozze all’Accademia, a Firenze; non doveva correggere o
modificare nessuna cosa di sua fantasia. Nel caso di voci che all’ultimo minuto presentassero dubbi o
fossero imprecise per qualche omissione, avrebbe dovuto eliminare senza emendare. Bastiano de’ Rossi
doveva scrivere la lettera dedicatoria da premettere al Vocabolario, che comunque doveva mandare
all’Accademia per avere l’approvazione.
Il Vocabolario degli Accademici della Crusca uscì nel 1612 nella tipografia veneziana di Giovanni
Alberti. Sul frontespizio vi era l’immagine del frullone o buratto, lo strumento che si usava per separare la
farina dalla crusca (era l’emblema dell’Accademia) con sopra, in un cartiglio, il motto “Il più bel fior ne
coglie”, che allude alla selezione fatta nel lessico, per analogia alla separazione della farina (il “fiore”) dalla
crusca (lo scarto). Questo strumento, passato poi a simboleggiare in maniera negativa lo spirito censorio e
puristico della Crusca, era allora una macchina all’avanguardia, una novità apparsa qualche decennio prima,
forse in Lombardia.
Vi è coincidenza tra la Tavola degli autori citati dal Vocabolario e la lista presente negli Avvertimenti del
Salviati. Il Vocabolario della Crusca non fu realizzato osservando i criteri bembiani. La lezione delle Prose
della volgar lingua sopravviveva in parte, ma filtrata attraverso la fuorviante interpretazione fiorentinista di
Varchi e Salviati. Gli accademici preferirono sempre, quando fu possibile, allargare l’autorità delle Tre
Corone. Gli esempi di Dante, Petrarca e Boccaccio sono la maggioranza. Lo spoglio dei grandi 300entisti si
inseriva nel solco della tradizione, coerente con quanto avevano fatto i lessicografi cinquecenteschi. Gli
accademici evitarono il confronto con le precedenti opere lessicografiche. L’unico vocabolario che
consultarono fu Il memoriale della lingua italiana di Giacomo Pergamini da Fossombrone, uscito nel
1602. Forse volevano realizzare qualcosa di diverso dai lessici sperimentali del 500, che avevano una
funzione ibrida, linguistico – retorica, spesso molto lontani dall’idea moderna di vocabolario. La concezione
di oggi deriva da quella elaborata dalla Crusca. Gli accademici non esaminavano le varie opere dell’Alunno,
in particolare La fabrica del mondo, che è spogliata dall’Accademia solo in un quaderno manoscritto: ma
questo quaderno risale al 1612, e quindi coincide con l’uscita del vocabolario fiorentino. Lo spoglio porta un
titolo significativo: “Errori di Alunno. Dizionario”. Non si tratta di un tentativo di confronto, ma di una
polemica. La Crusca era contrari ai suoi precedenti. In conformità con i programmi di Varchi e Salviati,
voleva riportare a Firenze la sede delle ricerche lessicografiche, superando le altre regioni d’Italia. E riuscì
nel suo intento.

1.3 I criteri di realizzazione


I criteri della Crusca e i suoi obiettivi sono riconoscibili anche nelle oscillazioni che subì il titolo dell’opera.
Alla fine si decise per la forma che meno lasciava intendere il progetto sotteso alla realizzazione, visto che
prevalse Vocabolario degli Accademici della Crusca. Ma nella “Instruzione allo ‘Nferigno” (1610)
compilata all’inizio della stampa, questo titolo era seguito dalla specificazione (poi cancellata) “Raccolto
dall’uso e dagli scrittor fiorientini”. Nell’ottobre dello stesso anno, nel Diario di Bastiano de’ Rossi, questo
sottotitolo compare con l’inversione dei 2 elementi: “cavato dagli scrittori e uso della città di Firenze”. Le
oscillazioni mostrano un diverso equilibrio nell’esplicitare il peso delle componenti: da una parte gli scrittori
e dall’altra l’uso di Firenze. Gli accademici fornirono il tesoro della lingua del 300, esteso al di là dei confini
segnati dall’opera delle Tre Corone (che ne erano la base), arrivando a integrarlo con l’uso moderno. Non si
poneva solo il problema dell’uso, ma anche quello della selezione delle auctoritates. Infatti gli schedatori,
più che esibire l’apporto della lingua viva, avevano cercato di mettere in risalto la continuità tra la lingua
toscana contemporanea e l’antica trecentesca. Le parole del fiorentino vivo erano documentate attraverso gli
autori antichi. Ecco perché era stato fatto il massimo per trovare il lessico negli autori antichi, anche a costo
di ricorrere a fonti manoscritte semiprivate, non verificabili da parte dei lettori. Era stato dato l’avvio alla
pratica, molto discutibile, di citare i “testi a penna”, cioè i manoscritti fiorentini inediti, che avevano gli
accademici, i quali ne avevano ricavato parole altrove introvabili, seguendo una prassi che avrebbe irritato
poi gli avversari della Crusca. Anche in questo c’era un elemento positivo: nasceva il gusto per la filologia,
applicata alla letteratura delle origini, che si sviluppò parallelamente all’attività della Crusca. Ma l’eccesso
nel gusto per la filologia si proiettò negativamente su di un vocabolario che voleva definire un patrimonio
lessicale che tutti dovevano utilizzare.
Il Vocabolario presentava termini e forme dialettali fiorentine e toscane, come assempro, ovvero “esempio”,
caro, ovvero “carestia”. I lemmi identici si moltiplicavano per la presenza di grafie proprie della lingua
antica, non ancora normalizzata (Befania – Epifania, chintana – quintana). Si ricorreva a fonti
incontrollabili, a manoscritti locali, come nel caso del volgarizzamento di Palladio, o del maestro
Aldobrandino. Da quest’ultimo, per esempio, veniva “mace” per “foglia di noce moscata”.
Per quanto riguarda la scelta della grafia, il Vocabolario si collocò sulla linea dell’innovazione,
distaccandosi in buona parte dalle convenzioni ispirate al latino: si pensi all’eliminazione dell’h etimologica
e dei nessi come ct. Era un aggiornamento che alla cultura toscana andava bene, una via inaugurata da
Giambullari. Notevoli erano anche la coerenza e l’omogeneità di applicazione delle scelte ortografiche, tanto
che si può dire che il Vocabolario è una tappa importante nella storia della grafia italiana. Il problema della
grafia era stato posto dagli accademici in maniera esplicita fin dal 1597. Furono seguiti i principi esposti da
Salviati negli Avvertimenti.
Un problema importante è quello della presenza degli autori moderni nella prima Crusca. Solitamente si
insiste sul carattere arcaicizzante del Vocabolario. Parodi dà importanza a un verbale – promemoria inedito
dal quale risulta che nel 1606 era stato stilato un elenco di autori moderni da citare dove vi ricorrono
Sannazaro, Chiabrera, Tolomei, Caro, Tasso che era stato attaccato da Salviati. Non se ne può dedurre che
l’atteggiamento dell’Accademia fosse privo di partigianeria. Si può pensare che tra gli accademici, qualcuno
assumeva posizioni meno rigide. Infatti prevalse il canone di Salviati.
Quello della Crusca era il primo grande vocabolario europeo. A esso si guardò da più parti. In Francia, il
primo progetto del Dictionnaire de l’Académie française redatto da Chapelain, si atteneva ai principi della
Crusca; la prima società di linguistica tedesca fu istituita dal principe Ludovico di Anhalt, che aveva
soggiornato a Firenze e che nel 1600 era stato accolto come membro dell’Accademia italiana. La Real
Academia Espanola, istituita nel 1713, disse di aver imitato la Crusca per fissare le autoridades del proprio
vocabolario. Anche il Vocabulario portuguez e latino di Rafael Bluteau del 1712 – 28 fu influenzato da
quello della Crusca. La Crusca aveva realizzato il suo vocabolario privatamente, mentre molte di queste
istituzioni erano accademie nazionali. Anche in Italia, nonostante il dissenso che si manifestò subito, il
Vocabolario assunse un prestigio sovraregionale. Il Tesauro, per esempio, che non fu mai d’accordo con il
fiorentinismo cruscante, diede delle indicazioni per sfruttarne tutte le potenzialità, anche suggerendo di usare
la tavola lessicale latino – italiana che il Vocabolario aveva. Il lessico latino poteva servire, quindi, da guida
per la ricerca del lessico italiano. Il passo di Tesauro dimostra come anche un avversario della Crusca
potesse essere costretto ad usare questo strumento per sfruttarne la sua ricchezza. L’Accademia trasse dalla
realizzazione del Vocabolario una forza nuova, si accollò un compito di aggiornamento e revisione che durò
per secoli. La storia della Crusca è per molto tempo la linea maestra su cui si snoda la storia della
lessicografia italiana.

2. LE POLEMICHE CONTRO LA CRUSCA

2.1 Paolo Beni


L’opposizione al Vocabolario della Crusca e ai criteri che lo avevano ispirato si manifestò subito, fin dal
1612. Il primo avversario dell’Accademia di Firenze fu Paolo Beni, professore di umanità nell’Università di
Padova, autore di un’Anticrusca dove venivano contrapposti al canone di Salviati gli scrittori del 500, e in
particolare il Tasso, il grande escluso dagli spogli del Vocabolario. Beni partiva dal presupposto che la
lingua italiana esistesse come patrimonio comune, secondo i dettami della vecchia teoria cortigiana. Questo
patrimonio comune si estendeva al di là dell’italiano scritto e interessava anche il parlato: egli infatti diceva
che le pronunce della Campania, dell’Umbria, delle Marche e di Roma, potevano essere confrontate con
quelle di Firenze. Vantava anche la dolcezza di alcune pronunce settentrionali che si potevano sentire a
Venezia, Vicenza e Padova. La maggior parte del trattato di Beni è dedicato alla polemica contro la lingua
usata da Boccaccio, indicandone le irregolarità e l’eccessiva abbondanza di elementi plebei. Questo intento è
affermato anche nel sottotitolo dell’opera, dove l’autore dice di voler dimostrare come l’antica lingua del
300 sia incolta e rozza, e quella moderna regolata e gentile. Beni muoveva da un giudizio negativo sulla
letteratura del 300, ma questo non gli impedì, comunque, di accettare la regolamentazione della grammatica
di Bembo: quella di Beni è una polemica contro la cultura fiorentina e contro la sua propensione
all’arcaismo, legata all’attualità della pubblicazione del Vocabolario; ma in essa le argomentazioni sono
poco coerenti. Una gran parte della sua Anticrusca rimase inedita fino al 900, quando il manoscritto, che si
credeva perduto, ricomparve in America nella biblioteca della Cornell University. I capitoli inediti ci aiutano
a mettere meglio a fuoco il pensiero di questo linguista modernista, difensore di Tasso e del Pastor fido di
Guarini, avversario di Salviati e delle “anticaglie” del dialetto fiorentino, nemico della gonfia sintassi di
Boccaccio, pronto a difendere Petrarca contro Dante, desideroso di rifondare la lessicografia italiana su basi
diverse da quelle dell’Accademia di Firenze. Scrisse anche una difesa della sua Anticrusca, sotto lo
pseudonimo di Michelangelo Fonte, con il titolo Il Cavalcanti, nome del fuoruscito Bartolomeo Cavalcanti,
autore di una famosa Retorica che dedicò a Cosimo II di Toscana, il quale la rifiutò.
2.2 Alessandro Tassoni
Critico nei confronti della Crusca fu anche il modenese Alessandro Tassoni, autore del poema eroicomico
La secchia rapita, che approntò un elenco di osservazioni, ora disponibili nell’edizione critica di Masini,
usate dagli accademici per la seconda edizione del vocabolario, nel 1623. Si tratta di note e postille
polemiche, le quali spesso anticipano per il loro radicalismo alcuni degli argomenti antifiorentini che
saranno presenti negli interventi degli Illuministi, nel XVIII secolo. Seppure non ordinato e non metodico, il
pensiero di Tassoni esprime la protesta, condivisa da alcuni letterati settentrionali, contro la dittatura
fiorentina sulla lingua. Tassoni infatti proponeva di adottare espedienti grafici per contrassegnare con
evidenza le voci antiche e le parole da evitare. Per lui, la confusione provocata dalla Crusca tra queste voci e
quelle legittime risultava dannosa per gli utenti, soprattutto per i forestieri e la gioventù. Tassoni, nei
Pensieri, ironizzava sulla condizione di un ipotetico segretario moderno che, per restringersi nell’imitazione
di Boccaccio, cominciasse una lettera con una formula come “Quantunque volte meco pensando
riguardo…”. Anche questa ironia serviva a combattere la passiva imitazione dei modelli trecenteschi.
Tema fondamentale della riflessione di Tassoni è l’improponibilità dell’arcaismo linguistico, l’ostilità verso
ogni culto della tradizione che ostacolasse la modernità e la linearità della comunicazione. Per ridicolizzare
l’arcaismo linguistico, così come era stato coltivato dai cruscanti, Tassoni usò delle designazioni satiriche e
polemiche: gli arcaismi sono voci pessime, scabrose, da buttare al “ciacco”. Secondo un giudizio che
ritornerà in tutte le menti illuminate, la lingua si impara dagli “addottrinanti, non dai lavaceci”: viene quindi
pronunciata una condanna del repertorio puristico costituito dagli scrittori minori e minimi del Medioevo,
spogliati per compilare il Vocabolario.
Tassoni non guardava a Firenze, ma a Roma. Non si tratta di semplicemente di un superficiale collegamento
alla teoria cortigiana del 500, a cui comunque è vicino per il suo antifiorentinismo. Entra in gioco anche
l’esperienza personale, per la sua lunga permanenza a Roma e per il rifiuto di tornare nella provincia
modenese, per rimanere al centro di una vita culturale italiana. Molte volte, quindi, fin dalle sue prime
annotazioni, vi è il riferimento all’uso linguistico di Roma, contrapposto a quello di Firenze.

2.3 Altri oppositori


Vi furono altri oppositori della Crusca. Giulio Ottonelli, di Fanano, fu autore di Annotazioni attribuite
erroneamente a Tassoni, delle quali è stato ritrovato anche il manoscritto. Scipione Errico (1592 – 1670),
letterato messinese, fu autore de L’occhiale appannato (1629), in difesa dell’Adone di Marino; in una
commedia giocosa, intitolata Le rivolte di Parnaso (1626) mise alla berlina la lingua arcaizzante del
Vocabolario. Diodato Franzoni pubblicò nel 1641 un dialogo intitolato L’Oracolo della lingua d’Italia, in
cui introdusse Celso Cittadini e Paolo Beni (quest’ultimo portavoce delle posizioni dell’autore).
Tra coloro che non furono favorevoli all’Accademia di Firenze, un posto speciale spetta a Daniello Bartoli,
gesuita, scrittore noto per la sua prosa elegante, autore di un’importante opera grammaticale, Il torto e il
diritto del Non si può, pubblicata nel 1655 e arricchita nel 1668. Questo libro uscì sotto lo pseudonimo di
Ferrante Longobardi. Il modo di procedere di Bartoli nei confronti della Crusca è molto sottile: non si tratta
di una di una polemica diretta e aggressiva nei confronti del Vocabolario, né di affermazioni teoriche
destinate a priori a controbattere il metodo seguito dall’Accademia, verso la quale, in alcuni momenti,
Bartoli mostra anche una certa devozione. Egli, invece, riesaminando i testi del 300 sui quali si fonda il
canone di Salviati, dimostra che proprio lì ci sono oscillazioni tali da far dubitare della perfetta coerenza di
quel canone grammaticale. Bartoli non seguì uno schema sistematico, ma la sua opera grammaticale è
costituito da varie osservazioni eterogenee.
Ci sono riferimenti critici al Vocabolario di Firenze: per esempio la Crusca registra solo il carcere maschile,
mentre Bartoli mostra che la carcere femminile e le carceri si trovano in Giovanni e Matteo Villani, autori
considerati maestri di lingua fiorentina. Bartoli usa spesso una pungente ironia nei confronti di ogni forma di
rigorismo grammaticale.
Tra altre opere di Bartoli di interesse linguistico ve n’è una che si colloca nel campo della lessicografia: si
tratta di una raccolta di voci ordinate secondo criteri di affinità tematica, come per costituire il nucleo di un
dizionario ora analogico, ora metodico. Ci sono infatti liste analogiche composte per associazione di idee:
sotto “Invidia” sono collocati, per esempio, i termini “astio, lividore, lividezza, livore, rancore”. Si tratta di
semplici liste, senza nessuna spiegazione e definizione. Il loro uso rinvia a un uso del repertorio lessicale in
funzione retorica, come aiuto alla creazione di testi. Questa raccolta, conservata manoscritta nell’Archivium
Romanum Societatis Iesu, è stata pubblicata da Mortara Garavelli.
Un caso particolare di polemica legata al Vocabolario del 1612 si ebbe in relazione al compendio che ne
trasse il Politi. Adriano Politi, nel 1614, pubblicò un Dittionario toscano. Compendio del Vocabolario
della Crusca. L’Accademia si risentì perché Politi approfittò dell’occasione per introdurre il confronto con
molte voci senesi: la rivalità linguistica tra Siena e Firenze, si manifestò in seguito in forme ben più marcate
e sempre in relazione a questioni lessicografiche. Alla fine, nelle ristampe del Dittionario del Politi, per
dare soddisfazione ai Fiorentini, si eliminò ogni riferimento alla Crusca, come se si trattasse di un’opera
autonoma. La Neri ha concluso il riesame del Dittionario affermando che in realtà si trattava di un
“compendio” della Crusca, un compendio che dal modello prendeva la struttura fondamentale, la
disposizione dei vocaboli, il senso delle definizioni, anche se erano omesse le citazioni degli autori classici.
Ma ai Fiorentini sembrava intollerabile che accanto alla loro lingua fosse posta quella senese.

3. LE EDIZIONI 1623 E 1691 DEL VOCABOLARIO


La fortuna del Vocabolario della Crusca è confermata dalle due edizioni che ebbe nel XVII secolo, dopo la
prima del 1612. La seconda del 1623, fu uguale alla prima, salvo per vari aggiustamenti, aggiunte e
correzioni. Simile era la dimensione dell’opera rispetto alla realizzazione del 1612: in entrambi i casi si
trattava di un solo volume, formato in folio. La terza edizione, stampata a Firenze (non a Venezia come le
precedenti) nel 1691, è diversa anche nell’aspetto esterno: 3 tomi al posto di uno (mantenendo il formato in
folio), con un corrispondente aumento del materiale, sia nella quantità di lemmi, sia negli esempi e nella
definizione delle voci. La terza Crusca fece un salto quantitativo notevole, consolidando il primato
dell’Accademia di Firenze nel campo della lessicografia. Per realizzare questa nuova edizione si impiegò
molto tempo. Anche dal punto di vista qualitativo, i cambiamenti erano sensibili.
L’idea di continuare il lavoro lessicografico con una terza edizione del Vocabolario era stata espressa nel
1650. Tra il 1658 e il 1659 maturò il proposito di arrivare ad una revisione degli autori da spogliare e dei
criteri di disposizione e redazione di alcune voci. I principali collaboratori, accanto al Dati, furono Leopoldo
de’ Medici, Andrea Cavalcanti, Lorenzo Panciatichi, Valerio Chimentelli, Ottavio Falconieri. I lavori
durarono 30 anni e alla fine furono fondamentali i contributi di altri dotti, come Alessandro Segni, Francesco
Redi, Lorenzo Magalotti e Anton Maria Salvini. La statura culturale di alcuni dei suoi collaboratori come il
Dati, ci aiuta a capire l’evoluzione positiva di questa terza edizione rispetto alle due precedenti. Il binomio
Redi – Magalotti costituito da due letterati – scienziati di primo piano, spiega la cura con cui la nuova
Crusca diede conto del linguaggio scientifico, includendo Galilei nella tavola degli autori moderni spogliati.
Gli intellettuali che diedero vita alla terza edizione del Vocabolario erano più attivi di quelli che avevano
realizzato la prima e la seconda.
Molte sono le novità della terza edizione rispetto alle precedenti. Vitale ha esaminato anche la quarta
edizione, uscita nel 700.
Nella terza Crusca, si ricorse con maggiore larghezza all’indicazione V.A (Voce Antica) per segnalare le
voci introdotte nel Vocabolario non per proporle all’uso dei moderni, ma a scopo storico o documentario. Le
voci marcate con V.A non dovevano servire come modello, ma come strumento per facilitare la lettura degli
scrittori antichi. Veniva meno, in questi casi, l’intransigenza normativa dei sostenitori della lingua delle
origini. Tra le voci arcaiche non marcate con V.A troviamo Agguatevole, Bonità. Tra le marcate,
Antichezza, Berza. Questa indicazione, quindi, non colpiva tutte le voci antiche obsolete, ma solo quelle
che, secondo gli accademici, non avevano più nessuna vitalità nei tempi moderni, tanto da sconsigliarne
l’uso.
Comunque il patrimonio della lingua antica risultava aumentato ancora per una nuova serie di spogli. Sul
versante della modernità, venne dato uno spazio maggiore a voci non documentate nell’epoca d’oro della
lingua italiana, ovvero il 300, ma che risultavano dall’uso di autori moderni (Caro, Della Casa,
Guicciardini), come Avvertenza, Baldracca. Ancora più decisiva per mostrare la svolta innovativa del
Vocabolario, è la serie di voci attestate da scrittori di scienza del 600. Tra queste abbiamo Microscopio (con
attestazioni di Redi), Occhiale (nel senso di cannocchiale, con esempi di Galilei e Redi). Queste voci furono
scelte sull’autorità di scrittori contemporanei, dando la preferenza ai toscani, e in alcuni casi ai collaboratori
dell’Accademia della Crusca (Redi e Magalotti). Infatti la Crusca poteva approfittare della circostanza
fortunata per la quale Galilei e l’Accademia del Cimento univano il merito scientifico ad una salda toscanità:
l’inserimento di questi (oltre a Vincenzo Viviani, allievo e biografo di Galileo) nel Vocabolario aveva il
vantaggio di mettere d’accordo il gusto per la lingua toscana e l’aggiornamento moderno di qualità alta. Gli
spogli dei vocabolaristi mostrano anche una notevole accondiscendenza per gli scrittori toscani più legati al
gusto locale e ribobolaio, come Michelangelo Buonarroti il Giovane e Lorenzo Lippi. Tra gli Autori
moderni citati in difetto o in configurazione degli antichi troviamo diversi non toscani, sia contemporanei
che appartenenti al passato: Iacopo Sannazaro (già citato dalla Seconda Crusca), Baldassar Castiglione (che
nel Cortegiano aveva espresso un ideale linguistico antifiorentino), Gabriello Chiabrera, Pietro Sforza
Pallavicino (autore di una famosa storia del Concilio di Trento, scritta a nome della Curia papale, in risposta
a quella di Sarpi), il predicatore Paolo Segneri. Per quanto riguarda Annibal Caro, marchigiano
fiorentinizzato (ma contrario al canone trecentesco), era già stato inserito negli spogli della Seconda Crusca,
così come Battista Guarini, autore della favola pastorale Il pastor fido.
L’autore inserito nella Terza Crusca più significativo (poiché corregge un’ingiusta condanna durata troppo
tempo) è Torquato Tasso. Importante l’esclusione di Marino: ma l’ambiente fiorentino era contrario agli
eccessi del Barocco. Marino, inoltre, venerava l’Accademia. Le pagine dell’edizione del 1691 dedicate alla
spiegazione dei criteri generali seguiti per realizzare l’opera propongono una miscela che concilia la
continuità rispetto all’indirizzo arcaizzante (la linea di Salviati) con una disponibilità verso il nuovo,
testimoniata dall’inclusione tra le autorità grammaticali di Castelvetro, Buommattei, Bartoli.
Interessante anche la vicenda dei falsi Redi. Francesco Redi autenticò con false testimonianze di scrittori
antichi alcune voci dell’uso moderno come Decotto, Educare, Educazione, Isterico. Si può pensare che
Redi si divertisse a fornire una giustificazione apparentemente indiscutibile a termini che avvertiva come
necessari e accettabili.
Redi fu anche autore di un Vocabolario Aretino. Il codice Antinori 194 della Biblioteca Laurenziana di
Firenze, che deriva dall’autografo Marucelliano Redi 69, si caratterizza perché contiene delle aggiunte e
osservazione inserite al Vocabolario del Redi nel secolo successivo da Domenico Maria Manni.
4. UNO SCONOSCIUTO LESSICOGRAFO DEL 600: L’ “AGGIUNTA” MODERNA
DELL’ABRIANI AL “MEMORIALE” DI GIACOMO PERGAMINI DA FOSSOMBRONE

4.1 Il “Memoriale” del Pergamini


Tra i lessici anteriori alla Crusca, gli studiosi hanno mostrato un certo interesse per Il memoriale della
lingua italiana di Giacomo Pergamini da Fossombrone, uscito nel 1602, successivamente nel 1617 in
edizione postuma, accresciuta: la prima stampa dell’opera precedette la prima edizione del Vocabolario
degli Accademici della Crusca (1612). In realtà i due prodotti editoriali, diversi per ragioni genetiche,
risultano poco confrontabili già a partire dal titolo, visto che il Pergamini scelse quello di “Memoriale”, cioè
adottò un nome di fantasia, nel significato di “scrittura sommaria”, ancora legato alle designazioni
cinquecentesche non estranee al problema della memoria e all’uso retorico, allo stesso modo della Fabrica
del mondo dell’Alunno, designazioni applicate con fantasia al metodico lavoro lessicografico prima
dell’affermarsi della coppia dizionario/vocabolario. La Della Valle che si è occupata del Pergamini ha
osservato che egli, più dei predecessori, sembra sensibile alle esigenze degli utenti, tanto da elencare nel
frontespizio i possibili utilizzatori del libro, come facevano all’epoca alcune opere di richiamo, di tono un
po’ popolare.
I poeti erano il pubblico ideale per un dizionario letterato come la Crusca. Ma nell’elenco del Pergamini
compaiono anche altre figure, ovvero i “segretari”, cioè gli appartenenti ad una categoria di professionisti
della penna il cui ruolo era riconosciuto e affermato, ma che avevano il compito, più umile, di scrivere
prosa, di compilare lettere missive, di stilare comunicazioni in lingua moderna, confezionando testi in cui si
parlava spesso di cose quotidiane e comuni. Quanto agli stranieri, l’attenzione rivolta a questi era utile
all’autore per giustificare un’innovazione ardita, tale da essere messa in luce fin dalla presentazione
dell’opera rivolta A’ lettori: il Pergamini avvertiva di aver introdotto nei lemmi un segno per indicare la
posizione degli accenti e si preoccupava di giustificarne l’utilità, avvertendo che questa indicazione non
doveva essere intesa come un suggerimento per la grafia, dove questi accenti alla greca erano da evitare. Il
segno di “virgola” serviva solo ai fini della retta pronuncia.
La parola virgulata riceve un accento, posto in alto, nel termine a lemma, alla destra della lettera
corrispondente (oggi si direbbe che è stato segnato l’accento tonico): per esempio BRUCIA´RE. Il richiamo
agli utenti stranieri del dizionario ritorna anche in altri casi, per esempio quando il lessicografo avverte che
le voci in volgare sono state accostate alle parole latine in modo che gli stranieri potessero capire meglio: il
vocabolario monolingue adottava il sistema per semplificare la definizione indicando l’equivalente nella
lingua morta, evitando così gli ostacoli di una definizione concettuale e facendo a meno del confronto con
un sinonimo. In realtà non sempre il vocabolario scelse la soluzione dell’equivalente latino come unico
traducente. Per esempio Albergare spiegato con il sinonimo alloggiare e con la perifrasi “Dare, o ricevere
halbergo”, cui seguono due corrispondenti latini, hospitari e diversari. Però alla voce Albergatore
(collocata per analogia sotto Albergare) i suggerimenti sono meno generosi: non è inserita nessuna
spiegazione, né sinonimica né concettuale, e ci si limita all’equivalente latino hospes. Le informazioni sulla
grafia sono molto presenti nel Memoriale. Hanno un valore pratico. Per esempio, al lemma In, si avverte
che si scrive davanti a tutte le parole che iniziano per Consonante: però non devono iniziare con B o P,
perché altrimenti si scrive Im. Vi sono anche informazioni sulla pronuncia, preannunciate già nella
presentazione A’ Lettori dove si dice che il Lettore viene avvisato circa le occasioni in cui le vocali E e O
devono essere pronunciate come aperte o chiuse. L’apertura delle vocali è verificabile, per esempio, nella
coppia lessicale ròcca/rócca, rispettivamente nel significato di “fortezza” e di “conocchia”.
Il vocabolario del Pergamini mostra un intento pratico e funzionale ed una certa modernità, al servizio di
utenti che non hanno solo interessi letterari. La tavola degli autori citati non è molto diversa da quella dei
predecessori: Dante, Petrarca, Boccaccio, i poeti antichi, Villani. È un canone ristretto, non antibembiano,
anche se poi nell’edizione del 1617 vennero accolte voci di autori moderni, compreso il Tasso. Nell’edizione
curata nel 1656 da Paolo Abriani per la tipografia veneziana Guerigli, gli autori recenti compaiono tutti nel
secondo volume del Memoriale che contiene i moderni. Lì sono raccolte le aggiunte, voci prima omesse e
delle espressioni d’uso. Sotto Memorie, si trovano per esempio forme come “memorie, e ricordanze”,
“recarsi a memoria”, “ridurre a memoria”, “tornare nella memoria”. Sembra che queste aggiunte diano vita a
un dizionario alternativo al primo, più snello e pratico, più facile da usare, anche se l’autore lo presenta
come una sorta di riscrittura della prima parte (quella più tradizionale), un’aggiunta realizzata in questo
modo soprattutto per ragioni pratiche, per non moltiplicare la scrittura. In realtà, però, si potrebbe pensare
che la vera ragione di questa seconda parte, stia proprio nel tentativo di far seguire alla prima parte, di
impianto bembiano e tradizionalista, una sezione nuova, moderna, senza scoprirsi troppo e senza correre il
rischio di provocare troppe polemiche.
Per quanto i moderni autori ora inseriti, oltre al Tasso, ci sono anche lo Sperone Speroni, Della Casa, il
Sannazaro, l’Ariosto, il Castiglione e vari oratori cinquecenteschi, ricavati dalle raccolte di Trissino,
Bonfadio, Remigio Fiorentino, Lollio, Caro; quindi molti toscani o filotoscani, ma anche chi non era
toscano. Si conferma una disponibilità attestata anche dalle voci inserite nella prima parte dell’opera dove si
registravano alcune “varietà di registro” e “intrusioni dialettali”, perché comparivano le busecchie milanesi,
il companatico dei lombardi, tanto che secondo Della Valle affioravano tracce di una concezione della
lingua diversa da quella della grammatica bembiana, trapelava una curiosità per i livelli diafasici con
l’allargamento alla citazione di più varietà regionali, e un attenzione al mercato e alle esigenze di un
pubblico periferico più vasto e variegato anche nella composizione sociale.

4.2 Paolo Abriani, lessicografo sconosciuto


Il dizionario del Pergamini era unito, nell’edizione del 1656, alla grammatica dello stesso autore. L’insieme
costituiva una raccolta di strumenti: vocabolario degli autori antichi, vocabolario degli autori moderni,
quindi le regole grammaticali complete, sintetiche ma esposte in modo chiaro, ordinate a partire dalle
singole lettere dell’alfabeto e concluse con l’uso dei segni di punteggiatura. Tuttavia l’edizione del 1656 è
interessante per l’aggiunta di un nuovo strumento, uscito dalla penna di un autore diverso dal Pergamini.
Infatti contiene (con frontespizio autonomo) un’Aggiunta al Memoriale della lingua italiana del signor
Giacomo Pergamini da Fossombrone firmata da Paolo Abriani, il quale non è sconosciuto ai letterati, ma
non è menzionato nelle storie della lessicografia e nei profili di storia della lingua italiana: lessicografo
misconosciuto, salvo l’accenno in una nota della Storia della grammatica italiana di Trabalza, un altro
cenno nella voce del Dizionario Biografico degli Italiani e la menzione nel sito “La fabbrica dell’italiano”
dell’Accademia della Crusca. Paolo Abriani, noto come poeta marinista e come traduttore di opere latine,
intervenne anche nelle polemiche tassesche, a favore del Goffredo. Gravitava intorno alla famiglia veneta
patrizia dei Loredan, e ad un membro di questo casato dedicò la propria riedizione del Memoriale, che si
colloca nel periodo subito successivo la sua uscita dall’ordine dei Carmelitani, nel 1654, secondo Asor Rosa.
Il suo contributo più notevole all’impresa lessicografica fu l’Aggiunta tratta da alcuni dei più celebri autori
di questo secolo, come si legge nel frontespizio. Chi sono questi autori moderni ammessi come
completamento del vocabolario del Pergamini? Abbiamo i discorsi del Mascardi, il Brignole Sale,
l’Achillini, il padre Daniello Bartoli, Francesco Bracciolini, Fulvio Testi, Giovanni Ciampoli, Francesco
Loredan (della famiglia dei suoi protettori), Girolamo Graziani, Maffeo Barberini (poi papa Urbano VIII),
Virgilio Malvezzi. Per quanto riguarda l’impostazione del dizionario, esso ricalca la forma semplificata della
giunta moderna del Pergamini, con un’innovazione formale annunciata nel frontespizio: sono messe a
lemma frasi, le quali sono segnalate da un asterisco, il quale contrassegna anche locuzioni polirematiche,
modi di dire e parole singole come nel Cartoccio o Ossatura, inteso in un preciso senso tecnico, in
riferimento all’opera letteraria: “Legamento, e disposizione delle ossa. Vocabolo adattato per metafora alla
disposizione delle parti nelle composizioni dei Letterati”. L’Abriani cita come esempio un passo del padre
Bartoli, e il Battaglia cita come più antica attestazione di quest’uso metaforico un esempio di Chiabrera,
seguito da uno del Redi. Questa dell’Abriani è la prima registrazione dell’accezione in un vocabolario. In
altri casi l’Abriani permette di retrodatare le attestazioni più antiche note finora. Stessa cosa per “Far
breccia nel cuore” (sotto la voce BRECCIA) che il DELI data dopo il 1694, con un esempio del Segneri e
di cui il Battaglia offre un esempio del Magalotti. Le giunte dell’Abriani sono tante: circa 1500 lemmi, senza
contare le frasi e i sottolemmi. È un vocabolarista settentrionale, vicino agli ambienti letterari della nuova
moda barocca, collocato in posizione alternativa alla Crusca, pronto ad accogliere la lingua moderna, attirato
dagli usi metaforici, sensibile alle espressioni poetiche e letterarie, ai modi proverbiali ed espressivi.
Rivitalizzò il Memoriale del Pergamini e ne favorì una rinnovata circolazione, in un panorama
lessicografico ormai monotono per il prevalere del monopolio della Crusca. La Crusca è un dizionario
strutturato in modo più solido e coerente, tecnicamente superiore: ma nel caso del Pergamini siamo di fronte
ad un prodotto individuale, non di équipe e quindi più artigianale, e proprio per questo interessante.

CAP. 4: NASCITA DEL DIZIONARIO ETIMOLOGICO

1. PROGETTI E PROVE

1.1 In gara con la Francia


Dall’antichità al Medioevo, l’etimologia fu posta al servizio del significato, in base al principio che
l’essenza della parola consistesse nella radice etimologica. Con il progredire degli studi filologici, si
cercarono le lingue da cui provenivano le voci per stabilire la provenienza, per sapere se la parola derivasse
dal greco, dal latino, dal provenzale e per cogliere gli eventuali cambiamenti del significato e le
trasformazioni fonetiche. L’etimologia passò al servizio della storia della lingua. Il risultato più importante
di questo processo è il dizionario etimologico concepito come strumento autonomo, come si ebbe nel 600.
Era uno dei progetti dell’Accademia della Crusca e la realizzazione avrebbe dato importanza all’istituzione
che aveva conseguito il primato europeo nella lessicografia. Le cose andarono diversamente. Infatti il primo
vocabolario etimologico della nostra lingua, intitolato Origini della lingua italiana (dove “origini” significa
“etimologie”) non uscì in Italia, ma in Francia dove fu pubblicato da Gilles Ménage, a Parigi, tra il 1666 e il
1669, a opera dell’autore del primo dizionario etimologico della lingua francese, le Origines de la langue
française (1650). Lui precedette gli italiani. In Francia si era formata, infatti, già nel secolo prima, una
tradizione di ricerche etimologiche fin dal tempo di Jacobus Sylvius, Charles de Bovelles e Guillaume
Postel. Presto si delineò un conflitto con Firenze che aumentò sempre di più perché gli accademici volevano
produrre da soli un’opera fiorentina. Le Origini della lingua italiana furono le prima ad essere pubblicate.
Più tardi, nel 1685, il libro fu ristampato a Ginevra, dopo che fallì la proposta di Ménage per una riedizione
a Firenze.
Il decennio che seguì il 1660 fu cruciale: diversi progetti di dizionari etimologici, elaborati in Italia e
all’estero, si sovrapposero, entrando in competizione. A partire dal 1660, i contatti tra Ménage e i fiorentini
per quanto riguarda il dizionario etimologico divennero sempre più intensi. Ménage chiedeva che gli fossero
inviate le schede preparate a Firenze da Dati e Redi, di cui conosceva l’esistenza. Queste schede, all’inizio
promesse, non furono poi spedite, e anzi, Carlo Dati fece di tutto perché Ménage abbandonasse la sua
iniziativa individuale e fosse costretto ad inserirsi nel progetto dell’Accademia. Nel 1664 Carlo Dati
delineava in modo chiaro la fisionomia di uno specifico vocabolario etimologico, da realizzare sotto la
responsabilità dell’Accademia, un volume di Origini toscane autonomo, staccato dal Vocabolario della
Crusca. Secondo Dati il vocabolario etimologico doveva essere realizzato dal gruppo fiorentino perché
l’Etimologico doveva essere toscano e non Lombardo. La precisazione “Lombardo” mostra il fatto che egli
non temesse solo la concorrenza di Ménage, ma anche quella di Ottavio Ferrari, milanese, professore a
Padova, il quale era un nemico da combattere per evitare che si ripresentassero situazioni del passato,
quando l’editoria padana aveva realizzato i primi strumenti lessicografici e normativi. A Firenze si sapeva
che a Padova si stava preparando un dizionario etimologico e che questo dizionario veniva allestito secondo
criteri che facevano a pugni con il purismo cruscante, seguendo un ideale linguistico diverso dalla norma
fiorentina. Le ragioni della questione della lingua si mescolavano alla ricerca etimologica.
Una lettera di Dati al Falconieri del 17 marzo 1665, ci informa sui criteri che dovevano guidare la redazione
delle Origini come la si immaginava a Firenze. Il testo doveva essere preceduto da un’introduzione sulle
fonti principali delle nostre origini, cioè le lingue orientali, il greco, il latino, la lingua gotica, la sassonica, il
tedesco, il provenzale. Dati riteneva che si dovesse parlare di rivi e canali attraverso i quali queste lingue
erano arrivate a Firenze e in Toscana. Proponeva di introdurre, dove fosse possibile rintracciarle, le
somiglianze tra l’italiano e le altre lingue antiche per quanto riguarda i proverbi, motti, detti, riti, costumi,
perché in questo modo si sfugge dilettando la seccheria delle etimologie. Nell’opera dovevano entrare anche
i termini della toponomastica, cioè i nomi corrotti di paesi, città, castelli, che si scovano nelle scritture
antiche, e le origini dei detti e proverbi storici, la cui nascita si poteva documentare in relazione a fatti e
avvenimenti precisi. Si voleva realizzare un’opera che fosse una raccolta di curiosità.
1.5 Il dizionario di proverbi del Monosini
Tra i pionieri degli studi etimologici italiani vi è anche Monosini, autore di un libro in latino, il Flos Italicae
linguae del 1604 che propone dei raffronti tra greco, latino e volgare toscano. In realtà questo non è un vero
dizionario etimologico. Appartiene a un genere diverso, di cui gli studi moderni non offrono un
corrispondente. Il libro contiene anche delle etimologie dal greco e dal latino, ordinate in schedature
sistematiche. L’opera quindi si colloca ai confini della storia della lessicografia e a quella delle origini
italiane. Il Flos contiene una raccolta di modi proverbiali che sono ordinati alfabeticamente in un
Adagiorum index finale, per cui si può affermare che il Flos è il primo ampio dizionario di proverbi
italiano, anche se i proverbi comparivano in raccolte precedenti, come il vocabolarietto cinquecentesco
studiato da Calabresi o le 10 tavole edite nel 1535 in ordine alfabetico. La presenza e disponibilità di tante
espressioni proverbiali influenzò l’Accademia della Crusca: si spiega in questo modo il fatto che anche nel
Vocabolario del 1612 era abbondante la presenza dei proverbi. Per questa materia si poteva attingere al
repertorio del Monosini.
Solitamente il Flos analizza l’influsso del greco sull’italiano. Forse questa formula descrittiva non basta a
definire l’intento dell’autore. Monosini, attraverso la raccolta di tanti raffronti con il greco e il latino (dalle
etimologie alle analogie lessicali, sintattiche, grammaticali), assegna una collocazione all’italiano, avendo in
mente soprattutto il concorrente francese. Siamo nel campo della competizione tra lingue che aveva avuto
corso già nel 500, sia nella forma di contesa tra antichi e moderni, sia nella forma della gara tra nazioni.
Dato per scontato che il greco è la lingua migliore del mondo e che il latino viene subito dopo, quale poteva
essere il giudizio sul toscano? Nel porre il quesito, che si rende esplicito soprattutto nella Praefatio che
segue alla dedica “al Lettore”, Monosini dice che il toscano non è solo inferiore alle altre lingue europee, al
francese e allo spagnolo, ma che esso è anche superiore al latino.
Il legame con la lessicografia italiana si rende esplicito anche nella collocazione culturale dell’autore, il
quale, nella prefazione rivolta “al Lettore”, dimostra di essere linea con l’Accademia della Crusca. La
Crusca del 1604 che Monosini tanto venera, non è ancora un’istituzione consolidata come diventò dopo aver
realizzato il Vocabolario del 1612. Il lavoro del dizionario degli accademici, tuttavia, nel 1604 già era
iniziato.
Quanto al tema che caratterizza il libro, cioè il rapporto tra italiano e greco, non era una questione nuova: era
già stata sollevata da Ascanio Persio nel Discorso intorno alla conformità della lingua italiana con le più
nobili antiche lingue, e principalmente con la greca, che di solito si tende ad avvicinare al Monosini.
Tavoni dice che questo libro deve essere messo in relazione con la Francia, con il Traicté de la conformité
du langage françois avec le grec di Henri Estienne. In Francia la teoria dell’origine greca del francese
nobilita la lingua moderna riconnettendola al greco antico, scavalcando la lingua dei colonizzatori latini, una
motivazione non plausibile in Italia.
Invece Persio e Monosini dicono che il volgare italiano discende dal latino. Monosini era condizionato dai
francesi per la questione del confronto di merito tra lingue, un confronto che non si traduceva solo in una
raccolta di etimologie, ma suggeriva vari raffronti, alla ricerca di equivalenze approssimative che
coinvolgevano l’italiano nel rapporto con il greco e il latino. Quindi non è un dizionario etimologico; eppure
le abbondanti liste lessicali, di parole, frasi, proverbi e modi di dire, sono pronte per l’uso lessicografico.
Monosini però si ferma prima del dizionario. Il suo intento era diverso: voleva celebrare il toscano con
metodi simili a quelli che i francesi avevano usato per celebrare il francese, voleva rendere esplicita la
ricchezza del toscano del suo tempo. La presa di posizione filofiorentina ricorre anche nella dedicatoria “al
Lettore”, quando giustifica e illustra il titolo che ha dato al suo libro: al titolo generale Fiore dell’italica
lingua, ha posto sotto La congruenza della lingua fiorentina, ossia toscana piuttosto che della lingua
toscana sia perché i principali e più illustri scrittori toscani furono fiorentini, sia perché gli esperti dicono di
riportare tutte le lingue toscane alla fiorentina considerata come la più perfetta.
Il fiorentino ha un primato indiscutibile. Ciò spiega anche perché il libro sia stato scritto in latino e non in
volgare fiorentino, visto che lui sosteneva il volgare toscano: Monosini afferma che il suo libro è in latino,
non in lingua materna perché non è stato concepito per i lettori italiani, ma per gli stranieri, in particolare
transalpini. Il riferimento sembra presupporre un dialogo con i francesi che avevano ripreso le idee di
Estienne. Il lavoro di Monosini è una difesa del toscano nel confronto con le lingue antiche, e anche una
difesa antifrancese da contrapporre al grecismo – celtismo nato nel 500 in Francia, tradottosi in
rivendicazione di primato per la lingua nazionale d’oltralpe.
La prefazione rivolta all’attento lettore (“Studioso Lectori”) contiene un altro elemento interessante:
Monosini osserva che le voci latine presenti nel toscano, anche se spesso hanno cambiato il significato
originario. Qui emerge il problema della derivazione che comporta un mutamento. Il mutamento è una
corruzione. La trasformazione della lingua latina nell’italiana aveva avuto come causa la barbarie dei popoli
distruttori dell’impero romano. Monosini, però, preferiva una difesa del volgare diversa da quella proposta
da Bembo. Per Bembo, la lingua toscana, contaminata dalle lingue degli invasori, si era riscattata grazie al
valore degli scrittori. Monosini, invece, non insisteva sul riscatto letterario, ma preferiva discutere e
contestare la presunta purezza delle presunte lingue nobili. Constatava (nella Praefatio) che le lingue nobili,
latino e greco, avevano anch’esse delle pecche. Infatti i Greci e i Romani donarono alle loro cittadinanze
molte parole straniere.
Ecco il motivo per cui Monosini, nel quarto libro, aveva raccolto delle parole barbare, reperite in greco e in
latino: a dimostrazione del fatto che anche le lingue più nobili erano invase da forestierismi e avevano dei
difetti. Il fiorentino non poteva essere giudicato barbaro per qualche forestierismo. Nel confronto con le
lingue classiche, il fiorentino non era da meno, anzi era abbondante in tutto. Ci si deve soffermare
sull’esempio portato da Monosini. Il latino, secondo lui, ha la parola clavus, corrispondente al greco élos.
Entrambe queste parole si usavano per tutti i tipi di chiodi. I fiorentini, invece, hanno tante parole per
indicare i vari tipi di chiodi e ciò testimonia l’abbondanza della loro lingua. In fiorentino si dice: chiavarola,
chiodo, aguto, tozzetto, bulletta, bullettina. Questa abbondanza lessicale viene usata per sostenere la
precisione e chiarezza del toscano. Brevità e chiarezza sono 2 facce della stessa medaglia.
Visto che il Flos Italicae linguae uscì negli anni della preparazione della Crusca, ci si potrebbe chiedere se i
termini allineati dal Monosini siano poi entrati nel vocabolario dell’Accademia. Sono posti a lemma nelle
prime due edizioni chiavarola, chiodo, aguto. Mancano tozzetto, bulletta, bullettina. I 3 termini
compaiono nella Crusca del 1691, l’edizione ampliata a cui parteciparono il Dati e il Redi, cioè coloro che si
interessavano di etimologie e che avevano letto il libro di Monosini.
I primi 2 termini sono registrati senza esempi, il terzo con un esempio recente tratto dalla Coltivazione di
Bernardo Davanzati, edita nel 1638. Le prime due Crusche non hanno registrato i 3 termini perché essi non
rispondevano alle regole stabilite, poiché privi di attestazione antica. 2 di questi termini, nel 1691, trovano
attestazione solo nel parlato spontaneo, mentre la terza aveva dalla sua l’autorità del Davanzati, amico del
Monosini e citato nella prefazione del Flos. Alla Crusca, nelle due prime edizioni, ispirate a criteri più
restrittivi, non bastò per registrare il termine la menzione del Flos Italicae linguae. Il Monosini quindi
voleva accogliere di più la lingua viva e non si sentiva vincolato dalle 3 Corone, sulle quali non insiste mai.
La Crusca seguì una strada diversa.

1.2 Lodovico Castelvetro: un dizionario etimologico mancato


Lodovico Castelvetro, autore del primo vocabolario etimologico italiano di cui si ha notizia. Tale documento
raccoglieva e cercava di interpretare le parole oscure nel Novellino. Il testo originale del vocabolario è
andato perduto con altre sue opere nel saccheggio di Lione del 1567. Il nipote di Castelvetro, Lodovico ci ha
lasciato una descrizione del dizionario etimologico che era stato compilato dallo zio. Scelse tutte le parole
oscure o non conosciute da altri, che sono nelle Novelle antiche, il cui autore non è certo, ma si stima fosse
fatto da Giovanni Villani o da altri di quel tempo, e le interpretò tutte con le etimologie tirate dal greco o
dall’ebreo, e le mise in un volume in ordine alfabetico, il quale libro si è perduto con altre scritture a Lione.
Osserva la Bianchi che dopo la perdita dovuta al sacco di Lione, il commento non dovette essere più riscritto
in quella forma ordinata. Tuttavia possiamo ricostruire almeno in parte il contenuto delle etimologie perdute
sulla base delle postille messe da Castelvetro a un esemplare dell’edizione bolognese delle Ciento novelle
antike (1525), postille riportate in una copia dell’edizione giuntina del 1572. Queste postille avevano
incuriosito Santorre Debenedetti nei suoi studi sulle ricerche provenzali in Italia nel XVI sec., e ora sono
state pubblicate con il commento. La pubblicazione ci informa sulla tecnica di Castelvetro etimologista, ma
dobbiamo tornare alla preistoria del vocabolario. Scorrendo queste postille (non tutte hanno interesse
etimologico), possiamo capire meglio quale fosse il legame labile tra postilla e vocabolario, e come,
muovendo dalla postilla di commento e d’interpretazione, Castelvetro potesse concepire l’idea di un piccolo
lessico etimologico indipendente, pur limitato agli spogli condotti su un solo autore.

2. “ORIGINI” DI MÉNAGE E “ORIGINES” DI FERRARI

2.1 Ménage e la Crusca


Il primo vero vocabolario etimologico dell’italiano, le Origini della lingua italiana, ebbe un altro carattere
rispetto alla raccolta di analogie classiche del Monosini e agli spogli occasionali del Castelvetro sul
Novellino. Il libro uscì a Parigi tra il 1666 e il 1669 a opera di Gilles Ménage, già noto per le Origines de la
langue française (1650). Il lavoro di Ménage valorizzò e portò a termine ricerche alle quali aveva guardato
anche Castelvetro e in cui la tradizione francese aveva fatto sentire la sua voce.
Fin dal 1657 Ménage aveva comunicato a Carlo Dati la sua intenzione di pubblicare le origini italiane,
sottolineando la sua competenza di comparatista; Ménage il 25 aprile scriveva che anche lui aveva capito
che fra gli Accademici vi era uno che più degli altri si era applicato alle Origini della lingua italiana e che lui
voleva pubblicare le origini, ma solo se l’Accademia, alla quale saranno dedicate, non le giudichi indegne di
essere pubblicate.
La lettera ha un tono conciliante, ma il conflitto crebbe quando diversi progetti di edizionari etimologici,
elaborati in Italia e all’estero, entrarono in competizione. Solo di fronte ai primi fascicoli ormai stampati
delle Origini italiane di Ménage, nel 1666, la Crusca rinunciò a questo tipo di ricerche e i problemi
dell’etimologia passarono in secondo piano, anche se nel 1697 Anton Maria Salvini poteva ancora invocare
come obiettivo utile il rifacimento del lavoro del Ménage, invocazione destinata a cadere nel vuoto visto che
gli Accademici decisero quello stesso giorno di lasciar perdere l’Etimologico. La sconfitta fece sì che non si
operasse in un settore in cui comunque si sarebbe potuto dare un contributo originale. La cultura italiana non
seppe più occuparsi di scienza etimologica fino all’inizio del 700, quando Muratori inserì una dissertazione
dedicata a questo tema nelle Antiquitates.
Si devono ripercorrere le vicende che contrapposero Ménage al gruppo fiorentino sulla base di alcuni
documenti epistolari. All’inizio dell’800, Domenico Moreni, presentando le Lettere di Carlo Dati, voleva
avvertire i lettori del fatto che uno dei suoi principali obiettivi era quello di difendere la Crusca dall’accusa
di non essere stata in grado di dare alla luce un dizionario etimologico toscano. Il Moreni voleva dimostrare
che i cruscanti si erano messi in quell’impresa già prima di Ménage. La questione non era secondaria: a un
accademico della Crusca (Moreni) dava ancora fastidio che un francese avesse preceduto gli italiani in
questa impresa. All’inizio del 900 il bibliotecario Ferdinando Massai fece conoscere 11 lettere provenienti
dall’archivio di Alessandro Segni, attraverso le quali si potevano seguire gli sforzi di Carlo Dati per
contrastare la pubblicazione di Ménage con una simile iniziativa fiorentina. Fin qui gli studiosi erano
interessati agli eventi esteri e non alla tematica linguistica o alla tecnica lessicografica. Nessuno faceva caso
al metodo della ricerca etimologica. Francesco Branciforti ritornò sulla questione, ricercando le carte dove
Dati, Redi e il cardinale Pallavicino avevano raccolto le etimologie destinate al vocabolario etimologico
della Crusca abortito, analizzò le etimologie di Dati per verificarne l’esattezza sulla base delle conoscenze
moderne attraverso un paragone con il REW: da questo confronto l’etimologista ne uscì onorevolmente.
Oggi gli storici della linguistica ritengono che non si devono misurare i prodotti del passato con il metro
della modernità. Tuttavia il confronto permetteva di entrare nel merito delle etimologie del Ménage,
verificando il suo modo di procedere.
Nel corso del 1664 Carlo Dati aveva continuato a occuparsi del vocabolario coordinando il lavoro degli
amici. Aveva tentato di rintracciare spogli etimologici lasciati da altri. Aveva sentito parlare di materiale
elaborato da Lukas Holste e di etimologie del senese Federico Ubaldini che era stato a Roma segretario del
cardinal Barberini e poi del Sacro Collegio, quindi presso la famiglia Chigi. Dati insisteva perché Falconieri
si desse da fare per ritrovare quelle carte. Sperava anche di ritrovare le etimologie che erano state raccolte
dal domenicano fiorentino Girolamo Pollini. Falconieri gli diceva che alcune etimologie erano state messe
insieme dal cardinal Pallavicino: ciò entusiasmò Dati che pur di entrarne in possesso, si disse disposto a
favorire l’ingresso del cardinale nell’Accademia. I contatti con il Pallavicino furono presi subito: il fascicolo
che egli inviò è stato identificato e segnalato da Branciforti. La lettera del 17 marzo 1665 a Falconieri ci
informa sull’avanzamento del progetto per il nuovo dizionario e sui criteri che ne dovevano guidare la
redazione, il cui titolo doveva essere Origini toscane o Etimologico toscano. Dati pensava che esso
dovesse assumere una forma simile a quella dei commentarii variorum, ovvero le voci che dovevano
essere firmate da ciascun autore. Poi, quando arrivò la notizia che Ménage aveva iniziato a stampare il suo
libro, Dati pensò di guadagnare tempo, non seguendo l’ordine alfabetico, ma dando le voci man mano che si
fossero rese disponibili, e riordinandole alla fine in un indice.
Nel 1665 era arrivata da Parigi a Redi la notizia decisiva: Ménage aveva iniziato a stampare. I primi
fascicoli delle Origini italiane arrivarono sotto gli occhi del Dati e degli altri fiorentini nel mese di luglio
del 1666. Il suo giudizio fu severo.
Ormai prendeva corpo la decisione di abbandonare il campo e questa scelta maturò alla fine di agosto.
L’edizione in fogli sciolti delle etimologie italiane di Ménage si concluse alla fine del 1668.

2.2 Le etimologie del Redi


Le Origini italiane di Ménage sono un’opera d’équipe, per la larghezza con cui l’autore citò le
informazioni ricevute dai suoi corrispondenti toscani. Infatti, finita la contesa tra Parigi e Firenze, alcuni dei
materiali preparati per il vocabolario etimologico della Crusca abortito, vennero mandati a Parigi. Ciò
riguarda soprattutto le etimologie di Francesco Redi che costituivano il gruppo più consistente di carte,
insieme a quelle di Dati (minore è la mole delle etimologie raccolte da altri come il Pallavicino). Queste
etimologie entrarono nel vocabolario del Ménage. Le etimologie di Redi si caratterizzano per l’attenzione
particolare che viene data al lessico dei medici e degli speziali: bene (seme da cui si ricava un olio
profumato), robbi (sciroppo a base di vino). Per la spiegazione di queste voci, Redi fa riferimento a testi
come il Ricettario fiorentino, ad autori come Galeno, Avicenna, Ippocrate, Plinio. Alcune di queste parole
sono di origine araba come robbi dove rob vale lo stesso che sapa in Toscana. Questo piccolo gruppo di
etimologie ci aiuta a capire come mai Dati, nel progetto di vocabolario etimologico, desse grande
importanza alle etimologie orientali delle quali si stava occupando soprattutto Redi, il quale, proprio per
questo motivo, era attento alle ipotesi aramaiche formulate da Giambullari. Tra i termini studiati da Redi
spesso ricorrono parole che appartengono a zone particolari della Toscana (in genere si tratta di Arezzo, sua
città natale): così la fava detta bagiana (dagli abitanti di Arezzo), ghezzo (dagli aretini per fungo porcino).

2.3 Un diverso modello: le “Origines” di Ottavio Ferrari


Un altro etimologista italiano del 600 è il milanese Ottavio Ferrari, a cui si deve il primo vero vocabolario
etimologico dell’italiano realizzato e stampato in Italia. Sia Ménage sia gli accademici della Crusca si
interessarono a quest’opera anche perché lui costruì una formula alternativa di vocabolario. Il nome di
Ottavio Ferrari (1607 – 1682) ricorre spesso come termine di confronto nell’opera di Ménage. Le sue
Origines linguae Italicae, in latino, uscirono a Padova nel 1676, tra la prima e la seconda edizione delle
Origini di Ménage, il quale ne tenne conto per la versione definitiva della sua opera. Le Origines
raccolgono una tipologia lessicale diversa: Ferrari mostra una grande curiosità per le parole dialettali e ne
investiga le origini con la stessa cura che dedica ai termini toscani. I dialetti di cui tiene conto sono il
lombardo (Milano è la sua città natale) e il Veneto (Padova è la sua città adottiva). L’interesse per
l’etimologia si collega a un processo di rivalutazione del dialetto. Per Ferrari il dialetto, di cui riconosce la
stessa origine della lingua, serve a spiegare il meccanismo di formazione delle parole. Le regole
dell’etimologia sono le stesse. Ferrari fu tra i pionieri degli studi dialettali.
Etimologie di parole milanesi ricavate dal latino sono giuso per succo o liquore, da ius; vezza per cane,
presente anche nei dialetti del basso Piemonte per “cane bastardo”, nella forma vez. In alcuni casi la parola
milanese viene fatta derivare da termini non latini come misolta (carne salata dei milanesi) paragonata con il
tedesco besaltzen.
Ferrari offre a volte comparazioni tra dialetti diversi, paragona termini lombardi e veneti: è il caso di
mantile, a Milano la pezzuola per asciugare le mani, per il veneto è la tovaglia. I dialettismi veneti sono più
dei lombardismi (infatti il vocabolario viene stampato a Padova): biscolare per fare l’altalena, capa per
conchiglia. Ci troviamo di fronte ad un dizionario mistilingue, in cui molte volte il richiamo alla voce
toscana non è privilegiato rispetto agli altri.

2.3 La parte degli italiani nelle “Origini” di Ménage


Chi consulta le Origini di Ménage nell’edizione definitiva del 1685 resta colpito dalla frequente citazione di
autori italiani: sembra quasi che il lavoro nasca da una sorta di dialogo con un gruppo di studiosi con i quali
si intreccia un fitto scambio. Però questi studiosi non vengono tutti trattati allo stesso modo. Il tono con cui
Ménage discute le varie ipotesi etimologiche relative a parole di origine dubbia o controversa mostra una
precisa gerarchia. Il massimo rispetto è esibito verso gli interlocutori di Firenze. La stampa del 1685
riproduce la prefazione della 1 edizione, rivolta agli Accademici della Crusca. Ménage dice di aver messo
mano all’impresa delle etimologie italiane perché gli sembrava poco degno il fatto di non essere annoverato
nell’Accademia della Crusca. Stampò in piccola tiratura il suo dizionario, dopo aver saputo che l’Accademia
progettava un vocabolario etimologico. Infatti gli era arrivata la notizia che l’Accademia voleva consultare
le Origini italiane, già in parte raccolte. La prefazione del 1669 studia le pubbliche relazioni con gli studiosi
italiani; è ammorbidito il senso della competizione, vista l’insistenza sulla volontà di collaborare con la
Crusca.
Non potendo essere investito ufficialmente dalla Crusca del compito di raccogliere etimologie, Ménage,
nell’edizione del 1685 pubblicò, adattandole a prefazione, alcune lettere private degli accademici fiorentini:
la prima era di Carlo Dati, scritta nell’agosto del 1670, dopo che aveva ricevuto le Origini italiane; la
seconda lettera era il ringraziamento dell’Accademia, con le congratulazioni per la pubblicazione delle
Origini. Questi documenti sono esibiti per ribadire il rapporto amichevole con l’Accademia, nel momento in
cui la nuova edizione delle Origini sanciva la vittoria definitiva di Ménage. L’atteggiamento assunto verso
gli accademici è di venerazione per ottenere la captatio benevolentiae. L’elogio di Carlo Dati sta alla voce
A. Qui viene riportato una citazione lunga dello studioso fiorentino, scritto appena uscirono le prime Origini
di Ménage.
Tra la prima e la seconda edizione delle sue Origini, Ménage aveva ricevuto dagli accademici alcuni
materiali relativi all’etimologia, visto che loro non volevano usarli. Questo materiale confluì nell’edizione
del 1685, dove venne indicata non solo la provenienza, ma vennero inseriti anche elogi agli accademici.
Sotto la voce Armeggiare, per esempio, dopo che sono stati citati diversi autori italiani, vengono introdotte
poche righe del Dati, apposte come chiosa all’etimologia, già rintracciata da Ménage.
Il Dati aveva descritto una tradizione fiorentina abbandonata secondo la quale, oltre all’armeggiare
cavalleresco, esisteva un armeggiare popolare, praticato “al canto della Mela” dai plebei della contrada, i
quali, stando in piedi sui cavalli, si scontravano lanciandosi palle di terracotta. Poiché nell’armeggiare è
facile sbagliare, secondo il Dati, da qui deriva il significato metaforico del verbo, il quale è stato respinto da
Castelvetro nella polemica con il Caro. Il suggerimento accolto da Ménage mostra come Dati intendesse
l’etimologia: non solo come ricerca dell’origine della parola, ma anche come rievocazione di tradizioni
locali a essa collegate, attraverso aneddoti o racconti.
Le aggiunte al vocabolario di Ménage in cui viene riportato il parere del Dati sono tante: colpisce
l’estensione dei suoi interventi e la venerazione espressa in ogni occasione nei suoi confronti. Per esempio,
alla voce Baccellone viene inserita “la dotta giunta del Sr. Dati”.
Altre osservazioni accolte con disponibilità da parte di Ménage sono quelle di Redi. Si veda, per esempio, la
scheda sul vino “Barbarossa” che si produce sulle colline di Pescia, attribuita a merito del Redi; o le
notazioni aggiunte alla voce Beffa, riportata a “bocca” (beffare sarebbe secondo lui buccas inflare) e
collegata a “sbuffare, buffone, buffare”. Con questo discorso etimologico, Ménage attribuisce alle
indicazioni del Redi la spiegazione dell’epiteto buffetto usato in riferimento ad un tipo di pane, più gonfio e
morbido di altri. Al Redi viene anche attribuita la spiegazione di buffone nel senso di “vaso di verro” con
piede e collo cortissimo, usato per rinfrescare il vino. Sotto la voce Buio viene citata la forma toscana
arcaica buro, i cui esempi sono frutto della collaborazione di Redi. La citazione di buro si ritrova anche nei
dizionari etimologici moderni.
Redi e Dati vengono spesso invocati per il loro contributo alle Origini. Al tempo stesso, il rispetto esibito
dall’autore, dimostra la sua devozione nei confronti dell’Accademia, dichiarata sotto la voce Crusca.
Per quanto riguarda gli altri autori toscani citati, ricorrono solo a volte i nomi di Giambullari, Salviati,
Corbinelli, Varchi. Le etimologie di Giambullari sono solitamente respinte: quella di Azzimare e di
Calamita, ricavate dall’arameo. L’Accademia non gradiva la menzione di Corbinelli. Alla voce Azzimare
si parla delle sue “Annotazioni al libro di Dante della Vulgare Eloquenza”, dove il participio azzimato era
inteso come “adornato” con riferimento all’uso del verbo azzimare da parte di Dante nel Convivio e da
parte di Burchiello. Corbinelli aveva proposto l’etimologia da azimo (non aveva individuato il
provenzalismo riconosciuto dai moderni) e aveva menzionato anche l’etimologia proposta da Giambullari
(arameo zamat). Ménage aveva riportato queste opinioni, anche se poi aveva pensato che l’azzimare di
Dante non fosse un verbo, ma un sostantivo per indicare un abito femminile, simile a zimarra. A Firenze
non si era mai avuta simpatia per il De vulgari eloquentia, di cui Corbinelli aveva curato a Parigi l’edizione
del testo latino. Ménage cita più volta il Corbinelli, anche se comunque prende le distanze dalle sue
spiegazioni etimologiche. Per esempio respinge la sua etimologia di Bottega da botigum, ovvero
“profondo”. Ménage preferisce pensare al greco apotecha.
Tra gli autori italiani menzionati da Ménage abbiamo Ascanio Persio, il Monosini, Celso Cittadini. Il
Monosini è importante anche perché il Ménage dedica un’appendice ai Modi di dire italiani, cioè alle
espressioni proverbiali e lui ne aveva raccolte e commentate tante. Le opinioni di Persio e Cittadini vengono
discusse e a volte respinte: al Cittadini viene rimproverata l’etimologia di Appena da paene, anziché da ad
poenam. Il Castelvetro è citato spesso, ma il rapporto con lui è complesso. Diverse sue ipotesi etimologiche
sono accolte come Altresì da aliter sic, ma altre, quelle del modenese (approcciare da approximare) sono
respinte.
Un altro autore italiano con il quale il dialogo è più frequente e diretto a tal punto da dare vita ad uno
scambio fitto e continuo, a una serie di giudizi, correzioni, è Pergamini da Fossombrone, autore del
Memoriale della lingua italiana che però si era occupato raramente di etimologie nelle voci del suo
dizionario.
Il riferimento più costante di Ménage sono le Origines lingua Italicae di Ottavio Ferrari. Gli altri sono
riferimenti occasionali. Il Ferrari, infatti, era autore di un vero dizionario etimologico, seppur pubblicato
dopo la prima edizione parigina delle Origini italiane.
Ora prenderemo in esame le prime venti entrate della lettera “M” nelle Origini di Ménage e le
paragoneremo con le voci del dizionario di Ferrari, per verificare le aggiunte apportate da Ménage. Poi il
confronto verrà esteso ai lemmi presenti nel Vocabolario della Crusca e nel Memoriale del Pergamini. Le
colonne della Crusca e quelle del vocabolario del Pergamini sono contrassegnate dalla lettera “L” (Lessico),
mentre quelle del Ferrari e del Ménage dalla lettera “E” (Dizionario etimologico). Il confronto con il
Pergamini è complicato dal fatto che a volte l’opera non segue l’ordinamento alfabetico e propone due liste,
una con le parole della editio princeps, a cui si aggiungono le parole del supplemento di lessico moderno.
Inoltre nel Pergamini molte parole sono messe sotto altre, come in un dizionario analogico. Il raffronto
evidenzia quanto la trama delle etimologie sia in grado di accompagnare la lista sistematica del lessico
italiano di cui allora si poteva disporre.
Nei due dizionari etimologici ci sono poche voci, le quali sono assenti nella crusca: Maccare, Magari,
Magatelli. Maccare è introdotta dal Ferrari interpretando in modo settentrionale il toscano Ammaccare,
ricondotto a una derivazione da machina respinta da Ménage.
Magari è introdotta dal Ferrari come venetismo. Segue un’etimologia dal greco makàrioi, la quale è accolta
da Ménage che cita a conferma un passo di Beroso; poi precisa che in siciliano si dice più spesso magari
diù, cioè utinam deus. Ovviamente essendo un termine dialettale, questo, non è nella Crusca.
Magatelli per “marionetta, burattino” è termine dialettale lombardo. Il Ferrari, milanese, spesso introduce
parole degli Insubres. Non sono parole di Crusca. Ménage non segue questo termine. Anche la forma
“Madregna” per “Matrigna” appare dialettale e quindi lui non l’accoglie, non essendo neanche registrata
nella Crusca. L’interesse per il dialetto è una delle caratteristiche più notevoli della ricerca etimologica di
Ottavio Ferreri. È il tratto che lo differenzia di più dalla Crusca e dal Ménage e che fa del suo lavoro una
sorta di unicum della tradizione italiana.
Spesso le entrate del Vocabolario degli Accademici non hanno corrispondente in nessuno dei due
etimologisti: la Crusca introduce molti lemmi che ripetono la forma base della quale basta dare solo una
volta l’etimologia. Così nel caso di diminutivi, accrescitivi, superlativi, participi, avverbi, verbi per i quali
l’origine è già stata indicata sotto il sostantivo (per esempio Macchia sotto la voce Macchiare). Lo stesso
accade nel caso in cui l’entrata della Crusca risulti un rinvio ad altra voce, come Macca che rimanda a
Macco. Potrebbe stupire l’omissione di Madonna da parte di entrambi gli etimologisti: ma l’etimologia era
già esplicita nella definizione adottata dalla Crusca, ovvero “nome d’onore che si dà alle donne”.
L’etimologia è indicata dal Ferrari sotto la voce Donna.
Il Ménage, essendo l’ultimo a intervenire, porta più etimologie rispetto al Ferrari, raggiungendo una
maggiore corrispondenza con il lemmario della Crusca. Tra le sue aggiunte abbiamo Macca (riportato al
latino maclus), Macchia, Macellare (riportato al latino macellum), Madrina (nel senso di levatrice, dal
latino matrina), Madio (riportato a “m’aiuta Dio”).
Nelle prime 20 entrate della sezione alfabetica M delle Origini italiane del Ménage, solo in 11 casi, si ha
piena coincidenza con le voci delle Origines del Ferrari, e solo in questi casi si può confrontare l’eventuale
disaccordo sull’etimologia.
L’accordo tra i due etimologisti non è costante, anzi spesso Ménage prende le distanze dal Ferrari.
L’etimologia di Maccare da machina e macinare, in quanto la mola schiaccia per ottenere la farina, è
respinta. Il rifiuto di questa etimologia si collega a quella di Maccaroni che segue. Ménage ricorda l’ipotesi
di Ferrari, relativa all’origine greca, e la condanna dicendo che “non si può”. Propone l’etimologia da
macca, a sua volta da mactus. Nel caso di Madama, più che respingere, il Ménage, dice che si tratta di
voce francese. Nel caso di Madia, anziché al greco, pensa al latino mactra. Per Magagna, l’etimologia di
Ferrari è citata senza commenti negativi, ma prima di essa ne viene proposta un’altra dal latino mancare e
viene citata l’ipotesi di una derivazione greca. Quindi, in questo, caso, sia Ferrari che Ménage, si discostano
dalle ipotesi moderne. I casi in cui i due etimologisti concordano: madrigale. Su questo termine discutono a
lungo: Ferrari è favorevole alla derivazione da mandria, espressa da Ménage nella 1 edizione delle sue Origini, e
Ménage cita a sua volta le opinioni del Ferrari che propone un confronto con lo spagnolo madrugar.
Sono Ferrari e Ménage i due ad entrare di più in competizione. Basti pensare alle formule severe usate da Ménage
quando respinge le proposte del Ferrari: sotto la voce Agio, contro il Ferrari che vuole ricavare adagiare dal latino
adaptare, mentre lui pensa ad otium, dice: “Sono sicuro di no”.
Ménage non manifesta sempre diffidenza. A volte, anzi, l’opinione di Ferrari viene riportata senza commento o viene
lodata. È il caso del termine facchino, che risultava difficile da interpretare. Qualcuno lo riportava al greco, qualcuno
al latino fascis. Questa era l’opinione di Covarruvias, menzionata anche da Ménage, il quale però concordava con
Ferrari che pensava al latino phalangae. In altri casi si assiste ad un vero dialogo tra loro, come alla voce Artiglieria,
dove Ferrari aveva contestato l’etimologia data dal Ménage sia nelle Origini italiane che nelle Origines françaises.
Per Ménage l’etimologia era da ars, artis, in dipendenza dalla tecnica con cui erano costruite le macchine di guerra.
Per Ferrari invece l’etimologia stava nel verbo latino trahere, tirare, perché le artiglierie erano tirate come carriaggi,
tanto è vero che esiste l’espressione “treno dell’artiglieria”. Nella 2 edizione delle sue Origini, Ménage esponeva
questa divergenza e diceva che non approvava questa derivazione del Ferrari. La discussione tra i 2 etimologisti li
aiutava ad affinare le sue argomentazioni, a rivedere i dati acquisiti, a dibattere sui problemi ancora aperti,
approfondendo il discorso e avviando una più solida interpretazione. I due dizionari sono incomprensibili l’uno senza
l’altro.

2.4 Come si giudica un dizionario etimologico del passato


Lo storico degli studi linguistici dovrebbe essere affascinato dal costituirsi dei metodi, dall’elaborazione di
tecniche d’analisi, dai percorsi interpretativi del passato, non necessariamente coincidenti con quelli attuali.
Il confronto tra un dizionario etimologico antico e uno moderno è interessante. Secondo i dati elaborati da
Vanwelkenhuvzen, nel campione da lei scelto relativo alle sezioni alfabetiche A – B – C dell’etimologico
francese di Ménage avremo questo risultato: su 109 etimologie, 28 sono corrette, 12 parzialmente corrette, 8
parzialmente false, 7 false, 24 restano indeterminate. Questo metodo ci aiuta solo in parte a comprendere il
lavoro dei predecessori, le cui indagini meritano di essere considerate di per sé, rispetto al tempo in cui essi
operarono, e tenendo conto dei rapporti con i contemporanei. Lei infatti si era anche occupata di confrontare
i risultati di Ménage con quelli degli autori a cui egli stesso aveva fatto riferimento, per verificare in che
modo avesse corretto o accettato quanto gli offrivano i risultati disponibili al proprio tempo. I dati statistici
mostrano che nella maggior parte dei casi Ménage seppe far tesoro delle etimologie giuste che gli venivano
offerte dagli studiosi che l’avevano preceduto, e che solo in 11 casi Ménage respinse etimologie valide,
suggeritegli, fra le altri fonti, dal Du Cange, dal Ferrari, da Giusto Lipsio.
Nel dizionario etimologico antico confluivano componenti diverse da quelle odierne. Per esempio, potevano
entrare voci relative a nomi propri, di persona e toponimi. Il taglio era più enciclopedico di quanto lo sia
oggi. Nelle Origini italiane di Ménage troviamo voci dedicate a nomi di città: Aquileia, Fiorenza, Milano,
Venezia. A volte compaiono toponimi interni alle città, come Campo di fiore a Roma o Canto al pino a
Firenze. Ci sono anche regioni come la Lombardia (con l’etimo “Da’ Longobardi”). C’è Lepanto in onore
della famosa battaglia navale. La Crusca non aveva accolto toponimi che erano comunque presenti anche nei
primi dizionari italiani: si pensi alla cinquecentesca Fabrica del mondo dell’Alunno, che conteneva voci
dedicate a Venezia, Ferrara, Bologna. Nel Ménage troviamo nomi propri di famiglie come Bianchi, Caraffi,
nomi di singoli individui, come quello del pittore Tintoretto, con rinvio alla Vita scritta da Carlo Ridolfi,
dove viene spiegata l’origine del soprannome dato a Iacobo Robusti, che, essendo figlio di un tintore da
panni, fu chiamato “il Tintoretto”. Con le notizie date dal Vasari viene spiegata il motivo per cui il marmo
tiburtino o trevertino viene chiamato con questo nome, derivato da quello del fiume Teverone (Tevere).
L’etimologia è spesso l’occasione per introdurre informazioni geografiche o curiose. Ménage scheda anche i
nomi di alcuni vini e vitigni: il Trebbiano, la Barbarossa, l’uva Buranese, l’uva Lambrusca. Per quanto il
lemmario del Ménage sia modellato su quello della Crusca, a volte egli arricchisce la fonte come quando
introduce il Tabacco assente nella Crusce del 1623. Altre aggiunte alla Crusca sono ricavate da un altro
autore italiano, il medico senese Mattioli, nei Discorsi sopra il Dioscoride (uno dei contributi fondamentali
alla botanica e alla medicina cinquecentesca): Buondella (nome toscano per l’erba detta anche centaurea
minore). La registrazione di Ditola o Manina, nomi aretini e senesi di un fungo simile alle dita della mano,
si deve ad un’indicazione del Redi.
Queste parole testimoniano l’interesse di Ménage per il lessico tecnico – scientifico, in cui è inclusa anche la
botanica. La tendenza a non escludere la scienza e la tecnica è confermata da altri riscontri. Si veda il lemma
Blinda, assente nella Crusca, definito così: “Termine militare moderno. È voce Olandese, originata dal
tedesco blind, che vale cieco. La parola Galana per “tartaruga” viene registrata come usata dal Marino:
viene definita voce Lombarda con etimologia dal greco xselone o dallo spagnolo galápago. Il Ménage da
spazio ad altre voci regionali: Deslabrare (voce Milanese che significa “dilacerare”).
Come mai il Ménage che vuole essere vicino agli accademici di Firenze, accoglie termini regionali? Forse il
nuovo vocabolario etimologico del Ferrari, ricco di modi dialettali, aveva fatto scuola? La novita delle
Origines del Ferrari non ebbe seguito. Il fatto è che La presenza in Ménage di materiali dialettali lombardi o
veneti, a volte anche meridionali, non turba troppo il lemmario della Crusca. L’etimologia però permetteva a
Ménage qualche punta di originalità. Infatti, la disponibilità a dare un’occhiata alle voci regionali, non era
del tutto estranea alla competizione avviata con l’opera del Ferrari.
Le ricerche del Ferrari nacquero attraverso un fitto scambio tra gli studiosi, in una triangolazione fra Parigi,
Firenze e Padova. Dalle Origini italiane di Ménage vi trapela una curiosità linguistica che finora non è stata
abbastanza presa in considerazione. Si può avanzare la tesi che un dizionario del genere, in quell’epoca, non
doveva essere considerato solo per le etimologie proposte ex novo o riprese da altri, ma anche per i criteri
della selezione lessicale, per l’attenzione al fenomeno linguistico inteso in senso più generale. Nel Ménage
vi è anche l’attenzione per i modi della lingua viva. Ciò è curioso soprattutto in Ménage che fa notare che
non è mai stato in Italia: aveva ascoltato l’italiano stando all’estero, in una nazione che comunque era molto
frequentata dagli italiani. Ménage, seguendo Ferrari, per esempio, registra con puntualità il valore già
assunto allora dalla parola Cazzo usata come interiezione, ed elenca le situazioni in cui si riscontra
quest’uso. I vocabolari moderni come il GRADIT ci dicono che questo valore interiettivo per esprimere
meraviglia, impazienza, rabbia è attestato fin dal 1582: l’elenco di Ménage è anche più preciso perché
aggiunge alle circostanze indicate dal GRADIT anche la situazione di chi si duole o di chi rafforza
un’affermazione. La voce della Crusca era stata molto più controllata. La Crusca si era limitata a registrare
Cazzo con la definizione “Membro virile” accanto al corrispondente latino penis e con un esempio tratto dal
Pataffio.

CAP. 5 – CONTINUITÀ E INNOVAZIONE NELLA LESSICOGRAFIA DEL 700

1. RISCHI LESSICOGRAFICI: LA GORGIA, IL FRULLONE, L’EBREO E IL GESUITA

1.1 Divulgazione moderna sul politicamente scorretto: il rogo del “Vocabolario cateriniano”
Bruno Migliorini ripropose all’attenzione dei linguisti, in un saggio del 1940 poi raccolto in volume, il
Vocabolario cateriniano del Gigli, un’opera del primo 700 la cui storia è stata ripercorsa di recente da
Pietro Trifone con il titolo Il libro che Firenze mise al rogo. In tutta la tradizione lessicografica italiana,
questo è il caso più noto di un intervento di censura che abbia colpito un dizionario e il suo autore. Il Gigli
era stato politicamente scorretto. Aveva usato troppo la satira e il sarcasmo, sali non estranei alle dispute
linguistiche: si pensi, nel 500, allo scontro tra Annibal Caro e Castelvetro, o nella prima metà dell’800 le
polemiche del Monti contro il Purismo e la Crusca e più tardi il sarcasmo di Carducci contro i manzoniani.
Gigli aveva deriso la fiorentinità, ne aveva deriso la gorgia (la spirantizzazione delle occlusive sorde
intervocaliche), aveva sbeffeggiato il “frullone” cruscante.
Le polemiche provocate dal contenuto delle voci di un vocabolario ritenute offensive, non sono solo un fatto
del passato. Questo incidente rischiò di travolgere un’intera impresa lessicografica destinata alla scuola. Nel
1993 presso le Sei di Torino uscì il Vocabolario italiano di Emidio De Felice e Aldo Duro. L’opera fu
accusata, attraverso un attacco di stampa, per la formulazione razzista della voce Ebreo. La seconda
accezione registrata sotto il lemma Ebreo era infatti questa: “fig., spreg. Persona assai attaccata all’interesse,
avida di guadagno, molto abile e priva di scrupoli negli affari; avaro, usuraio”. Si esaminò anche la
possibilità di ritirare dal commercio il vocabolario.
La voce Ebreo del De Felice – Duro aveva registrato la realtà in maniera anche troppo puntuale. Si paragoni
questa voce con quella presente nello Zingarelli del 2008: “Secondo un’antica tradizione antisemitica, chi (o
che) mostra grande attaccamento al denaro”. La definizione negativa è presente, ma meno analitica,
preceduta da una presa di distanza: il vocabolario avverte che quando si troverà in questa accezione,
risponde a pregiudizio, non a verità. Questa cautela è sufficiente fino a quando non intervengono richieste di
censura totale, simili a quelle di stampo femminista proposte anni fa dalla Commissione Nazionale per la
realizzazione della parità tra uomo e donna, dove si proponeva la sostituzione di alcune parole che
indicavano lavori femminili uscenti con il suffisso in -essa, come studentessa, vigilessa. Anche in questo
caso le scelte dei vocabolari venivano vagliate: lo Zingarelli del 1983 aveva registrato vigilessa come
“evitando”. Questa indicazione d’uso è presente anche oggi nell’edizione del 2008, con il rinvio alla nota
d’uso “Femminile”, dove una parte delle raccomandazioni per l’uso non – sessista della lingua italiana
diffuse dalla Commissione sulle pari opportunità comunque sono state accolte. Lo Zingarelli di oggi si
conferma tra i vocabolari più attenti al politicamente corretto. Il De Felice – Duro, per vigilessa, anziché
condannare la parola come “evitanda”, ha apportato al termine la marca d’uso “scherz.”, ovvero scherzoso.
Lo Zingarelli è tra i più attenti a cogliere le indicazioni di chi vuole limitare il pericolo dei pregiudizi
presenti nella lingua. Questo atteggiamento fa parte della storicità del dizionario, il quale è quasi sempre uno
strumento di conformismo, tranne casi eccezionali, di cui il Gigli è un esempio. Il confronto fra le edizioni
dello Zingarelli uscite a distanza di anni dimostra come la sensibilità al peso delle parole possa cambiare e
come il vocabolario vi si adegui. L’edizione del 1943 dello Zingarelli, per esempio, proponeva l’accezione
negativa di ebreo senza avviso e senza marche d’uso. Era stata aggiunta anche una frase proverbiale oggi
espunta dai dizionari dell’uso: “In questo posto c’è morto un ebreo” per indicare il posto “dove siede un
giocatore in disdetta”. La compilazione della voce ebreo fu più delicata dopo la 2 guerra mondiale e dopo la
Shoah. L’edizione del 1963 dello Zingarelli era più cauta di quella del 2008 nel censurare ogni pregiudizio
linguistico: non portava nessun riferimento ai caratteri negativi attribuiti agli ebrei. Lo Zingarelli di oggi è
intervenuto per arricchire il lemma, ha inserito di nuovo l’accezione n.2, quella negativa, prima eliminata.
Ci si potrebbe chiedere con che mezzi il vocabolario debba avvertire il lettore quando una forma, una parola,
una metafora, un’espressione derivino da pregiudizio o luogo comune: se lo deve fare con note e chiose,
oppure se deve inserire solo delle marche d’uso per scaricare la propria responsabilità che comunque tocca
comunità lontane o poco pronte a difendere i propri diritti: si vedano voci come Ottentotto, Gesuita, in cui
molti vocabolari registrano il significato spregiativo solo con la marca d’uso, mentre lo Zingarelli del 2008
usa il generico rinvio alla nota di Stereotipo, oltre che ad usare la marca d’uso.
La compilazione del vocabolario può comportare rischi legati al politicamente corretto e all’ipersensibilità
dei lettori, spesso così marcata da destare reazioni imprevedibili. Gli astrofili, per esempio, hanno protestato
per la definizione della loro categoria presente nella maggior parte dei dizionari italiani: si sono offesi per la
qualifica di “astronomi dilettanti” perché per loro “dilettante” ha una connotazione negativa rispetto ai
professionisti. Questo può essere segno non solo del valore che danno alle parole la gente comune, ma anche
del significato che assume un vocabolario.
Anche negli annali della lessicografia dialettale si conservano incidenti del genere. Nel 1819 la 1 edizione
del Vocabolario milanese – italiano del Cherubini corse il rischio di essere censurato dalla Chiesa perché
avevano suscitato irritazione queste voci:
- GESUITTA. (met). Verro. Majale. Porco.
- GESUITTA. (met). Scarabocchio
Erano voci dell’uso popolare, ma furono avvertite come offensive, benché contrassegnate con la marca
d’uso “metaforico”. Lo stesso Danzi riporta una lettera del conte Giuseppe Taverna, protettore del
Cherubini, scritta dopo l’incidente provocato dalla voce Gesuitta. In essa non è solo presenta una
spiegazione dell’appellativo gesuitta per “porco” ma viene dimostrato che non sempre gli stereotipi sono
segno di un atteggiamento offensivo. Il conte Taverna invitava il Cherubini ad affrontare i critici. Però,
l’edizione definitiva del Vocabolario milanese – italiano del Cherubini eliminò la voce Gesuitta.

1.2 Un vocabolario irriverente


Il caso del Vocabolario cateriniano del Gigli è diverso da quello del Vocabolario milanese del Cherubini
perché il Gigli non rispettò una regola della lessicografia, ossia quella dell’oggettività e imparzialità che si
traduce in un apparente distacco. Gigli aveva concepito il progetto di una raccolta degli scrittori di Siena, la
sua città. In seguito il progetto si era ridimensionato, riducendosi all’opera di Santa Caterina. Gigli
preparava la prefazione al volume delle lettere della santa, che voleva completare con l’aggiunta di un
lessico. Nel gennaio del 1716 una lettera di Anton Francesco Marmi gli aveva fatto pervenire il
suggerimento fiorentino e fiorentinista di ripulire le opere di Caterina dai senesismi. La proposta fece
imbestialire il Gigli che accentuò il carattere antifiorentino e anticruscante del suo commento allo spoglio
lessicale, fino a decidere nel 1717 di dargli piena autonomia, trasformandolo in un dizionario dedicato alla
scrittrice preferita. Si stavano stampando contemporaneamente 2 edizoni del dizionario, una a Lucca e una a
Roma. Piano piano che uscivano i fogli, vari letterati d’Italia li ricevevano. Gigli celebrava la lingua senese
sbeffeggiando la Crusca di cui era membro. Già precedentemente aveva ironizzato su quell’istituzione,
facendo circolare manoscritti Avvisi inediti (o Gazzettino) in cui la Crusca e il suo Arciconsolo erano presi
in giro. Trifone ricorda il brano del Gazzettino in cui Gigli inventa una presunta discussione tenuta
dall’Accademia sulla miglior forma di copula, tra ed e et. In questa discussione, all’Arciconsolo che
preferiva il raddolcimento di ed, si erano opposte alcune dame che dicevano che la copula era più dolce
quando i termini copulati erano congiunti con una forma più dura. L’alternativa ed/et era tema di
discussione sul quale si era soffermato anche il Cinonio, pseudonimo accademico del secentista forlivese
Marcantonio Mambelli che ne aveva trattato nelle sue Particelle: egli considerava l’uso di ed come una
preferenza dei moderni, anche se a volte l’avevano usato gli autori antichi. In realtà la Crusca preferiva ed e
il Gigli sottoponeva la tematica linguistica a satira, mescolando opinioni serie con un linguaggio faceto.
Durante la redazione del lessico cateriniano, Gigli aveva mostrato una certa disinvoltura. Aveva cercato di
indurre autori del suo tempo a introdurre nelle loro opere alcune parole della santa, termini senesi di cui ne
voleva documentare la vitalità. Aveva rivitalizzato queste parole come guarda già per “salvo, eccetto”
(lodava il frate Giovanni Battista da Tenda, generale degli agostiniani di Genova per averlo usato).
Migliorini dice che queste citazioni erano più o meno sollecitate, ma l’antifiorentinismo del Gigli gli
sembrava eccessivo, tanto da esserne infastidito, seppur mescolato alla soddisfazione di far conoscere un
lessicografo originale e ingiustamente trascurato. Migliorini poi esaminava alcuni passi in cui Gigli aveva
usato il Vocabolario cateriniano come un’arma contro la lingua fiorentina, per mettere in ridicolo i
Fiorentini stessi, le loro abitudini fonetiche e la loro accademia. Spiritosaggini fiorentine: i cavalli fiorentini
che vogliono correre e non corrìre alla senese, tanto che un maniscalco di Siena che durante la ferratura
aveva detto “questo cavallo vuole corrire più di tutti”, aveva ricevuto un calcio da un quadrupede offeso.
Oppure ci sono le uova portate a Firenze da una donna che dice in senese di avere trenzei o trenzette coppie
d’uova, e allora le guardie sono pronte a schiacciarle, convinti che altrimenti possano nascere pulcini di
cattiva lingua. Più spiritosa è la trovata della macchina costruita da Galilei dopo il cannocchiale. Il
cannocchiale serviva per rendere acuta la vista e si metteva nelle orecchie per filtrare la gorgia toscana e
raddolcire la pronuncia fiorentina. Poi venne inventata la macchina che doveva essere portata a Siena dalla
congregazione De propaganda gorgia, costruita con 2 zanne di cinghiale incrociate a forbice, da infilare
nella gola dei bambini abbandonati, per insegnare a loro a pronunciare alla fiorentina. Questa macchina
doveva essere introdotta dal traditore del patrio idioma Diomede Borghesi, il quale disprezzava l’acqua di
Fontebranda e usava solo il pane cotto a Firenze. La gorgia, in quanto simbolo del parlar fiorentino è al
centro dei lazzi e viene definita come “l’elemento catarroso che fa venire il ratanco alla Nazione Toscana”.
Le singole lettere sono spesso usate dal Gigli per introdurre le sue polemiche corrosive, come quando
definisce la D come “lettera dolcificante usata dai Toscani per addolcire gli acidi del T, che faceva cattivo
sangue a’ buoni parlatori”: si riferisce alle sonorizzazioni della d di imperatore, servitore, ma anche alla
copula.
La violenza polemica all’inizio limitata, prorompe ad un certo punto del Vocabolario, all’apice nella voce
Pronuncia, di lunghezza sproporzionata rispetto al resto dell’opera. A questo punto si manifestò la reazione
degli avversari. Lo stesso duca di Toscana Cosimo III chiese a Roma che Gigli fosse punito. Lui fu cacciato
dagli accademici della Crusca. Fu bandito da Roma, alcuni esemplari del Vocabolario cateriniano furono
bruciati. Il falo secondo Migliorini è simbolico perché alcuni che avevano consegnato il libro alle autorità
avevano ricevuto la promessa che lo avrebbero riavuto dopo qualche giorno. Questa ipotesi potrebbe essere
vera, se si tiene conto che diverse biblioteche italiane hanno esemplari mutili del Vocabolario, senza
frontespizio (non era ancora stato stampato) fermi alla lettera R. Alcuni di questi esemplari hanno hanno 312
pagine, altri 8 in più. Una ricerca nell’ICCU permette di individuare queste opere monche in varie
biblioteche pubbliche: nella Biblioteca Malatestiana di Cesena, nella Biblioteca Nazionale Centrale di
Firenze, nella Biblioteca Reale di Torino. Un esemplare è comparso anche, recentemente, nel mercato
antiquario.
Gigli era convinto che papa Clemente XI lo avrebbe protetto, invece fu costretto a delle suppliche, delle
disdette, e si ridusse in miseria. Tornato a Roma dopo 7 mesi, terminò la sua opera che venne stampata a
Lucca nel 1720 con la falsa indicazione di “Manilla nell’Isole Filippine” in una versione addolcita: questa
stampa fu curata da Jacopo Nelli e includeva anche la ritrattazione dell’autore.

1.3 Satira e lessicografia


Il Vocabolario cateriniano del Gigli appartiene alla storia della tradizione senese, che l’autore voleva
rivalutare. Infatti cita molto i letterati di Siena, Scipione Bargagli, il Tolomei, Celso Cittadini, il
Lombardelli, il medico Mattioli. La medicina entra spesso nella comicità del Gigli. È citato anche un altro
medico, il Redi che aveva scritto di scienza con un tono divertito, di sono prova le Osservazioni intorno
alle vipere. Verso la fine della voce Pronuncia, Gigli racconta una storia fiascaia basata sulla presunzione
di un’influenza dell’aria e del clima sulle facoltà di parola. L’aria di Firenze fa venire la gorgia. Ecco quindi
un carico di bottiglie con dentro l’aria di Firenze, in viaggio verso Siena. Divulgatasi la notizia, molti
Poetelli Senesi andavano a cercare l’aria fiorentina. L’accademia degli Intronati organizzò un ripurgamento
della Gorgia venuta dai paesi vicini appestati, sull’esempio del Lazzaretto di Firenze. Si doveva ricorrere
alla gola di santa Caterina. In questa satira si mescola il tema della medicina con quello della religione.
Il Gigli non sopporta il Politi e il Borghesi. Quest’ultimo lo accusa di eccessivo cedimento alle tesi
fiorentiniste. Se si considerano le caratteristiche della scuola senese, esse si applicano bene al Gigli: la
toscanità viene intesa come sistema comune alle varietà toscane e viene respinto ogni primato fiorentino, la
pronuncia senese viene difesa per la sua bontà. Ma non è solo nelle idee linguistiche che vanno individuate
le cause delle censure a cui fu sottoposto il Vocabolario cateriniano. Il Gigli era anche autore di teatro e in
questo genere aveva dato prova di vis comica e polemica. Questa chiave di lettura spiega meglio il tono
dell’opera che si ricollega al genere della disputa linguistica, che poteva vantare esempi efficaci, anche se
questa vivacità aveva dato vita a scontri e divisioni durature. Si pensi al “bidello” introdotto da Gigli nella
voce Pronuncia, a cui è affidato il compito di documentare la goffaggine della parlata popolare di Firenze.
Il “bidello” della Crusca è il Gatta, un personaggio che esistette davvero, famoso presso i letterati. Il
monologo del Gatta in difesa del Vocabolario della Crusca ha sapore comico e ricorda il bidello usato da
Annibal Caro a propria difesa nella polemica contro il Castelvetro. Dopo che il Gatta ha finito il suo
discorso, Gigli lo apostrofa con versi sdruccioli, terminanti tutta con la rima in -issimo.
L’abbondanza dei superlativi è una caratteristica dello stile comico che si rintraccia nei libretti d’opera tra
700 e 800, per esempio in quelli di Gioacchino Rossini e che qui trova un’anticipazione. Il Gigli dopo
minaccia il Gatta di farsi difendere da un altro bidello, il Civettino dell’Accademia senese degli Intronati.
L’uso del “bidello” rientra in un topos comico, noto attraverso le polemiche linguistico – letterarie. Quanto
all’elemento teatrale, non è un caso che, dopo aver prospettato la possibilità di far entrare in sua difesa il
Tassoni, cita un passo tratto da una commedia di Scipione Errico. Gigli non ne dice il titolo, ma ci dice
luogo, data di stampa e editore, e ciò permette di riconoscere uno dei suoi testi più famosi, Le rivolte di
Parnaso. Nella commedia non è più il bidello a portare la voce della Crusca, ma uno scrittore del 600,
Traiano Boccalini che, nella finzione teatrale, legge un Memoriale della Crusca, un testo quasi
incomprensibile, tanto che Apollo dice di non capire nulla. Ancora una volta, il Gigli, per colpire il
fiorentinismo, si allinea e allea a posizioni antitoscane. In modo simile, ma altrove, loda autori come Paolo
Beni o il Gravina. Lo stile che introduce nella sua commedia ricorda un altro tipo di comicità evocata nel
momento in cui viene messo in scena il Boccalini, l’autore del Ragguagli di Parnaso. Boccalini era stato
autore satirico. Aveva scherzato con sarcasmo su questioni di attualità, anche politiche, correndo rischi per
questa mescolanza di serio e faceto. Un altro modello stilistico agisce sulla disposizione satirica del Gigli di
origine fiorentina: il genere “cicalata”. Si pensi a testi comici come la Cicalata in lode della frittura di
Lorenzo Panciatichi dove l’erudizione si mescola al riferimento d’attualità, l’elemento futile e occasionale si
combina con il serio in un gioco di divertenti allusioni e di movenze stilistiche spiritose.
I modelli letterari ai quali il Gigli si è ispirato non sono circoscritti del tutto nella toscanità senese, ma spesso
riportano altrove, Firenze e Roma e si collegano a forme non insolite nell’Italia del 600. Gigli trasportò
questo stile spiritoso e questa verve satirica in un vocabolario contenente il lessico della santa Caterina. Una
simile trasposizione di elementi comici in un dizionario non era mai stata sperimentata. Il Vocabolario
cateriniano nella sua impostazione strutturale mostra i caratteri di una piccola Crusca senese. Lo si vede
anche nelle pagine contenenti i rinvii: c’è la lista delle abbreviazioni delle fonti antiche, la lista degli autori
senesi moderni e poi vengono altri scrittori moderni citati per la loro conformità con l’uso della santa. Gli
apparati di rinvio bibliografico a cui ricorre l’autore sono quelli di un dizionario, seppur in forma ridotta
rispetto alla Crusca.
Il Gigli rischiò molto nell’operazione, quando si permise, per esempio, di scherzare sugli antenati della
famiglia Medici, su Lorenzo il Magnifico che volle aprire un commercio con tutte le Nazioni, ma più nobile,
e quello della mercatura non lo era perché veniva spacciato il buon Toscano parlare, quello stesso Lorenzo
che voleva vedere tutte le nazioni italiane girare al lume della Toscana Favella (come disse Copernico, che
girano i pianeti e le sfere intorno al sole). Questo significava mettere in ridicolo la politica linguistica dei
Medici, lasciando correre allusioni pericolose alla mercanzia e al sistema copernicano in cui aveva creduto
Galilei. Per questo fu condannato al rogo.

2. SCIENZA, TECNICA E INNOVAZIONE LESSICOGRAFICA

2.1Un lessicografo illuminista: Alberti di Villanova


Francesco Alberti di Villanova, nato a Nizza nel 1737, ecclesiastico, di nobile famiglia, fu lessicografo di
successo, forse quello che rappresenta meglio l’evoluzione del vocabolario italiano nell’età dei Lumi.
Il grande dizionario enciclopedico fu la sua opera finale. Prima del dizionario monolingue, aveva pubblicato
un Dizionario francese – italiano e italiano – francese, stampato molte volte e largamente circolante nel
700 e 800 a partire dalla 1 edizione del 1771 – 72, uscita a Marsiglia. L’opera è così diffusa che ancora oggi
è presente nei cataloghi delle librerie antiquarie. La posizione geografica di Nizza favoriva il confronto tra le
due nazioni e le culture italiana e l’oltralpina, anche se concluse i suoi giorni in Toscana. Non è un caso,
quindi, che egli si impegnasse prima di tutto nel confronto fra l’idioma italiano e quello francese. Di lì si
deve partire per valutare la sua opera e le fonti del suo rinnovamento rispetto alla tradizione nazionale. Il
titolo completo dell’opera dell’Alberti è indicativo già per comprendere gli intenti dell’autore: nell’edizione
del 1772, il volume italiano – francese, con frontespizio e titolo in italiano (quella del 1771, francese –
italiano, era invece in francese), si legge: “Nuovo dizionario Italiano – Francese, estratto dai dizionari
dell’Accademia di Francia e della Crusca, ed arricchito di più di trenta mila articoli sopra tutti gli altri
dizionari finora pubblicati”; il volume del 1771 non aveva fatto riferimento solo ai 2 grandi vocabolari
nazionali, l’italiana Crusca e il dizionario francese dell’Académie, ma aveva richiamato nel sottotitolo la
terminologia tecnica, arricchito di tutti i termini delle scienze e delle arti. Questa fu la prima impresa dove
l’Alberti si impegnò raccogliendo il lessico pratico. All’inizio dell’800 ci fu chi ne prese le distanze. Nella
Prefazione del dizionario bolognese di Cardinali, Orioli e Costa si legge che l’Alberti pur ampliando il
lessico delle scienze e delle arti, diede senza legittima autorità la cittadinanza a voci e modi dei parlatori e
mescolò alla lingua illustre quella dei plebei moderni. Tuttavia casi come questi sono stati pochi e isolati.
Monti, nel 1816, in vista di una futura grande opera lessicografica destinata ad essere messa in cantiere
dall’Istituto italiano milanese, indicò il dizionario dell’Alberti come modello di buona qualità a cui far
riferimento. Il Grassi dedicò all’Alberti una lunga nota dove non solo rese pubblico un elogio del
lessicografo e della sua capacità di rimediare ai difetti della Crusca con un’opera compilata con le norme
della filosofia, ma accennò anche alla guerra che gli era stata mossa dagli accademici toscani proprio perché
non era toscano. Si tratta di un accenno che oggi possiamo capire meglio se lo colleghiamo alle lettere
pubblicate da Cartago. Per quanto riguarda i compilatori del dizionario padovano detto della “Minerva”, nel
1827 essi dichiaravano il loro debito.
Tra i moderni, Zolli ha scritto che l’Alberti rappresentò una rivoluzione nella tradizione lessicografica legata
ancora agli schemi della Crusca. Mirella Sessa ha riconosciuto a lui la capacità di raccogliere le istanze più
moderne della tradizione secentesca e l’attualità culturale settecentesca, tanto che egli lascerà in eredità al
nuovo secolo un metodo di far dizionari aperto a confronti europei e rispondente agli stimoli
dell’enciclopedismo. Serianni ha visto nell’opera dell’Alberti il primo vero stacco dalla tradizione cruscante.

2.2 Il “Dizionario del cittadino”


Nella formazione dell’Alberti è importante la funzione esercitata dal Dizionario del cittadino o sia ristretto
istorico, teorico e pratico del commerzio, la cui originalità salta all’occhio, ma va ridimensionata tenendo
conto del fatto che si tratta della traduzione di un’opera francese, il Dictionnaire du Citoyen, ou Abregé
historique, théorique et pratique du commerce di Honoré Lacombe de Prézel. È vero che l’Alberti nel
frontespizio diceva di aver accresciuto l’opera originale, ma comunque l’impostazione moderna deriva dal
Lacombe. Il debito con la cultura d’oltralpe è innegabile: l’Alberti era suddito sabaudo, e la cultura degli
stati sabaudi non si era ancora segnalata per contributi importanti alla lingua italiana e alla lessicografia. La
situazione era destinata a cambiare nell’800. Il primo segnale dell’inversione di rotta fu l’attività
dell’Alberti. Che l’Alberti muovesse da una condizione di periferico, senza la sicurezza della lingua, lo si
ricava dalla prefazione al Dizionario del cittadino, dove scrive di aver tradotto “in nostra favella” il libro
del Lacombe in una favella che chiama “nostra”, avvertendo però di usare il possessivo con un po’ di
titubanza: l’invaghì quella lingua. Fu un lessicografo di volontà. Nel frontespizio del Dizionario del
cittadino elenca gli argomenti oggetti del libro: il diritto pubblico, le produzioni agricole e manifatturiere, il
lessico del commercio e dei cambi, i nomi delle città, degli stati e delle loro colonie, le compagnie di
commercio, i banchi, le fiere, le forme delle scritture contabili, le lettere di cambio, i pesi e le misure. È
facile immaginare quanta parte del lessico che l’Alberti aveva incontrato in un dizionario del genere desse
vita a problemi quando si doveva rendere il testo in lingua italiana, tanto è vero che il traduttore avvertiva di
avere scritto in corsivo tutte le parole “italianizzate”. Questo dizionario è una grande raccolta di forestierismi
necessari all’uomo del 700, soprattutto se impegnato nel commercio, ma anche attento agli eventi che poteva
leggere nelle gazzette o di cui si discuteva nelle botteghe o nei caffè. Sessa è stata colpita da una notazione
che compare nella prima voce del Dizionario del cittadino, la voce Abbaco. Viene descritto come è fatto
un abbaco e alla fine si dice che esso era di uso malagevole, per cui è prevalsa l’abitudine di contare con i
segni o Jettons (a Firenze e Livorno si chiamano Brincoli). L’attenzione della studiosa per i “brincoli” citati
nella voce Abbaco deriva dal fatto che l’Alberti è famoso anche per essere stato uno dei primi a viaggiare
per le contrade della Toscana alla ricerca delle parole tecniche, intervistando artigiani e osservando i loro
arnesi da lavoro. Questi viaggi vengono collocati, stante la testimonianza di Francesco Federighi,
collaboratore e suo biografo, nel 1793, cioè 4 anni dopo la pubblicazione del 1 volume del Dizionario
Universale. Il Federighi doveva essere informato perché fu lui, quando morì l’Alberti, a curare gli ultimi
volumi del Dizionario universale. Come mai già la prima voce del primo lavoro lessicografico dell’Alberti
ha un riferimento all’uso linguistico di Firenze e Livorno, per un termine assente nelle Crusche e nei
dizionari dell’800? La Sessa rimaneva incerta tra “natura libresca delle prime fonti”, ovvero una competenza
dei geosinonimi maturata attraverso lo spoglio di repertori italiani e dizionari bilingui, e una ricerca basata
sull’inchiesta. Brincoli è un termine toscano, privo di documentazione letteraria nel senso di “gettone per
fare o tenere i conti” e la sua esistenza è confermata dal Battisti – Alessio, che la dà per antico lucchese, nel
senso di “gettoni di un particolare gioco di sorte, forse identico al piemontese brìcola, giuoco del trucco al
bigliardo (passato anche al sardo. Per trovare questo termine l’Alberti ha fatto sicuramente qualche ricerca
sui giochi e sul modo di contare i punti, e sicuramente questa informazione proviene dall’oralità, per la quale
non è necessario immaginare un viaggio in Toscana o un’inchiesta nelle sale da gioco.

2.3 Il “Dizionario universale”


Il Dizionario universale critico, enciclopedico della lingua italiana dell’Alberti, la sua opera più
impegnativa, ultima in ordine cronologico, uscì tra il 1797 e il 1805 in 6 volumi stampati su 3 colonne, a
Lucca, presso il tipografo Marescandoli, a spese dell’autore. Venne poi una seconda edizione nel 1825
stampata su 2 colonne, con una dedica a Vincenzo Monti firmata da Francesco Antolini, curatore
dell’edizione stereofeidotipa. Il frontespizio dell’edizione Cairo del 1825 si fregiava dell’indicazione: “Col
metodo stereofeidotipa di Cairo Gaetano”. Gaetano Cairo era il fratello di Luigi, l’editore. L’opera
conteneva una biografia dell’Alberti firmata dal suo collaboratore Francesco Federighi. In una Prefazione
critico – ragionata, l’Antolini, il curatore, esponeva i difetti della prima edizione di Lucca, in parte rimasti
tali, in parte corretti: tra le correzioni introdotte, vi era la separazione delle sezioni alfabetiche I – J e U – V.
A questo proposito, l’Antolini condannava l’accozzaglia che si scorge in tutti i Lessici e nello stesso
Forcellini a causa della fusione di queste sezioni alfabetiche. Antolini discuteva criticamente, tanto è vero
che, esposti dettagliatamente i suoi interventi, affermava che la sua non era una ristampa dell’edizione di
Lucca, ma un vero rifacimento.
L’affermazione era forse esagerata visto che un avviso dello stesso Antolini anteposto alla vita dell’Alberti
inviata dal Federighi, dice che con il terzo fascicolo del dizionario, cioè con il foglio 65, la collaborazione
tra l’Antolini e l’editore si era rotta perché la revisione pretesa dall’Antolini rischiava di allungare troppo i
tempi della pubblicazione. La cura della 2 edizione finì per essere redazionale, seguendo le linee – guida
suggerite dall’Antolini. Infine, nel 1834 – 35, si ebbe una terza edizione milanese, curata di nuovo
dall’Antolini, che alla fine del 6 volume pose un saggio intitolato La lessicomania esaminata, dedicato
all’esame critico dell’Alberti stesso e dei principali dizionari usciti all’inizio dell’800. Il saggio La
lessicomania esaminata fu poi ripubblicata autonomamente nel 1836.
La prima edizione, l’unica curata dall’autore, venne stampata a Lucca e ciò è significativo perché quella
lucchese era l’editoria enciclopedica per eccellenza: tra il 1758 e il ’71 Ottaviano Diodati, per primo in
Italia, aveva pubblicato con il contributo economico dei concittadini, l’Encyclopédie in 17 volumi, ai quali
dal 1765 al 1766 se ne aggiunsero 11 di incisioni. Tuttavia ora, grazie a 3 lettere inviate all’editore Giuseppe
Remondini, pubblicate dalla Cartago, sappiamo che l’Alberti aveva sperato di pubblicare il suo vocabolario
a Firenze. Per questo aveva iniziato ad avere contatti con il Cambiagi, stampatore granducale, seppur con il
timore che a Firenze ci si opponesse a un simile progetto, alla stampa di un dizionario concepito con intenti
di innovazione e compilato da un forestiero, un settentrionale nato ai confini d’oltralpe.
Le notizie che si ricavano dalle 3 lettere sono importanti non solo perché la biografia dell’Alberti era un po’
troppo fissata dalle informazioni trasmesse dal Federighi, una delle poche fonti che si hanno. Infatti già
nell’800, al tempo della prima riedizione milanese del Dizionario, il curatore Antolini aveva avuto difficoltà
nel raccogliere notizie sulla vita dell’Alberti. Aveva inserito ciò che sapeva in una nota a piè di pagina e poi
si era messo in contatto con lui Francesco Federighi, il quale, per rimediare alle false notizie date
dall’Antolini, aveva scritto le “memorie veridiche” che l’Antolini aveva divulgato, inserendole subito nella
ristampa del Dizionario, ormai in corso di pubblicazione a fascicoli, in modo che si ritrovano rilegate in
posizioni diversa. La biografia del Federighi è più ricca di tutte le altre fonti, ma è proprio vaga sulla
vicenda, ora illuminata dalle lettere pubblicate dalla Cartago. Nell’esposizione del Federighi, infatti, i punti
di contrasto con la cultura fiorentina erano poco visibili, smussati o cancellati. Tuttavia l’Accademia
Fiorentina, che allora aveva preso il posto della Crusca, vagheggiava un progetto di vocabolario al quale si
pensò dopo il 1783 e fino a quando l’Alberti non avviò la pubblicazione della sua opera, nel 1797. Su questo
progetto, alcune indicazioni si ricavano dallo Zannoni che mette in luce anche il consenso del granduca
Ferdinando III e la risposta positiva alla richiesta, a lui rivolta, dei privilegi di stampa. Quanto alle lettere
dell’Alberti, in esse il contrasto con gli eredi della Crusca è netto. La lettera del 6 maggio 1794 accenna al
progetto lessicografico di una “Società Livornese” per la ristampa del Vocabolario della Crusca, e questo è
un riferimento al manifesto di Livorno, uscito nel gennaio del 1974, con il piano editoriale della quinta
Crusca, che sarebbe dovuta uscire a spese dei fratelli Francesco e Beniamino Sproni di Livorno e dei loro
soci con riproduzione integrale del documento, conservato nell’Archivio di Stato di Firenze. Il progetto di
Livorno sembra all’Alberti opposto al suo.
2 mesi dopo, l’Alberti capisce che le resistenze avevano avuto successo: il suo Dizionario non poteva essere
stampato a Firenze e gli era stato rimandato il programma.
Nel 1796, l’Alberti, scrivendo da Firenze parlava dei difficili rapporti con i nostalgici della Crusca e
denunciava la guerra che gli muovevano alcuni pretesi eredi della Crusca i quali avevano paura che il suo
Dizionario potesse pregiudicare la loro avidità.
Notevole è la conclusione, con l’impegno a seppellire con la propria opera lessicografica non solo le
Crusche del passato, ma anche quelle future: ciò testimonia l’irritazione dell’Alberti e le sue ambizioni che
comunque andarono a buon fine perché il suo dizionario (nonostante i difetti che gli furono rimproverati)
segnò il rinnovamento della lessicografia italiana del tempo.
L’Alberti andò a Lucca, la quale aveva definito nella lettera del 6 luglio 1794 come “città libera e
indipendente” e adatta a limitare le spese della stampa. Nizza era ormai lontana, dopo che nel 1792 la sua
casa era stata saccheggiata dai giacobini: si era trasferito prima a Torino, poi a Bologna, ospite del cardinale
legato Giovanni Andrea Archetti, al quale dedicò il Dizionario; nel 1793 aveva viaggiato per la Toscana,
visitando le fabbriche dove raccolse il lessico tecnico per il suo dizionario. Federighi descrive il metodo di
inchiesta sul campo dell’Alberti, un metodo che si avvicina a quella della moderna dialettologia, prevedendo
anche una verifica dei dati raccolti.
Infine, nel 1796, l’Alberti approdò a Lucca dove visse nella casa dei coniugi Gambogi, dove rimane fino alla
morte.
L’Alberti dimostra in tutte le sue opere una forte attenzione alla terminologia tecnica, della marineria e del
commercio, e coltivata non solo mediante informazioni raccolte a Nizza, ma anche a Livorno, grazie
all’amicizia con un capitano di vascello del granduca di Toscana. Si formò in questo modo una grande
sensibilità al parlato che lo spingerà poi a esplorare altri ambiti tecnici e dell’uso vivo. Il risultato di queste
ricerche è il Dizionario critico enciclopedico. Del resto Alberti non aveva nascosto la raccolta di parole dal
toscano vivo a cui si era dedicato consultando professori che in Toscana esercitano la loro arte, cioè pittori,
scultori, lanaioli, orologiai, costruttori, marinai. Mura Porcu ha contato nel Dizionario dell’Alberti cento
denominazioni di mestiere. I termini tecnici più usati sono quelli marinareschi, seguiti dal lessico botanico,
naturalistico, anatomico, medico, chimico. Il vantaggio di questo dizionario sulle Crusche può essere
constatato anche attraverso l’esame delle abbondanti aggiunte di lemmi ed è interessante verificare quante di
queste aggiunte passarono poi ai vocabolari del primo 800. La toscanità fu ricercata dall’autore con
determinazione, fu conquistata mediante le inchieste sul campo nella regione e fu coronata dalla stampa a
Lucca, dopo il rifiuto di Firenze. Quanto alla natura di “Vocabolario”, è certa.
Alla fine della sua prefazione al Dizionario critico enciclopedico, l’Alberti ha introdotto una novità che
rappresenta la prosecuzione dei tentativi di racchiudere le parole in un libro ordinandole in forma di
“specchio del mondo” secondo l’intento della lessicografia cinquecentesca, come l’Alunno e il Citolini.
L’Alberti fa riferimento al problema della “memoria” (è palese il nesso con la retorica classica e con il teatro
cinquecentesco di Giulio Camillo Delminio) e alla ricerca di quanto è ignoto, dei vocaboli che non si
conoscono ma a cui si può arrivare con l’analogia. L’Alberti propone un albero sistematico diviso in 3
branche: Dio, Uomo e Mondo. L’Alberti, alla fine della prefazione, prometteva di dare nell’ultimo tomo
della sua opera un indice lessicale riordinato secondo questi criteri, contenente i rinvii alle pagine con i
lemmi specifici di riferimento. Per quanto riguarda il paragone con la Fabrica del mondo dell’Alunno,
possiamo dire che quest’ultimo prese le mosse dalla strutturazione del vocabolario metodico, e poi fornì una
chiave di consultazione alfabetica. L’Alberti invece usò la struttura alfabetica affermata nella tradizione
lessicografica italiana, ma pensò di fornire una chiave metodico – enciclopedica per accostare le parole
secondo un percorso diverso. L’Alberti morì durante la stampa del suo vocabolario e quindi non poté portare
a termine il compito che si era prefissato. Il Federighi, il quale terminò la sua opera, mise una noticina di
scusa alla fine del sesto tomo (poi spostata nel primo). Il Federighi però spiegava che il dizionario era lo
stesso completo anche senza questa parte metodica e che aveva fatto tutto ciò che aveva promesso al suo
amico defunto.

2.4 Gli esordi della lessicografia scientifica: Vallisnieri


Accanto al lessico tecnico, nell’Alberti trova spazio il lessico scientifico. Si trattava di colmare una storica
lacuna dei vocabolari italiani. Morgana ha dimostrato che l’Alberti incluse i termini che provenivano da un
testo importante, il Saggio alfabetico d’istoria medica e naturale di Antonio Vallisnieri. Si tratta di
un’opera importante, tanto è vero che la Morgana ha adottato per la presentazione della ristampa anastatica
del Saggio alfabetico di Vallisnieri un titolo significativo: Esordi della lessicografia scientifica italiana.
Gli esordi sono lì e il saggio non è remoto. Siamo all’inizio del 700 e l’autore lavorò a questo progetto nel
1726 – 27. Vallisnieri si rendeva conto del forte ritardo culturale dell’Italia a causa di una tradizione
lessicografica rallentata dai pregiudizi letterari. Nella dedica All’amico lettore, egli spiega che l’italiano si
trovava in posizione di svantaggio nel settore scientifico, tanto che per la trattatistica scientifica era più
semplice adottare il latino, lingua morta, ma comunque ritenuta perfezionata e copiosa. Nella stessa dedica,
l’autore diceva di non voler introdurre il lessico nuovo nell’italiano, di non voler rubare il mestiere ai
lessicografi, ma di voler solo spiegare alcune parole per le quali non si poteva ricorrere ai “Classici autori di
lingua”. Allo stesso tempo, però, dichiarava la sua distanza rispetto ai cruscanti: questi facevano caso alle
parole, Vallisnieri invece voleva osservare di più le dottrine. Lo scienziato stava sulla difensiva quando
ricorreva a questa difesa del suo operato, difesa che però non rende il suo scritto meno polemico verso la
selezione lessicale fatta dai letterati.
Una lettera del Vallisnieri al Muratori citata dalla Morgana mostra quando si preoccupasse per il possibile
scontro con i Fiorentini, dai quali si aspettava una reazione risentita, soprattutto dopo aver verificato vari
errori della Crusca, parole intese e spiegate male. Tant’è che Vallisnieri comunicò al Muratori di essere
arrivato alla decisione di far uscire il dizionario sotto il nome di qualche allievo per evitare guai. Non fu
così: il Saggio alfabetico delle voci scientifiche rimase inedito. Fu pubblicato dal figlio Antonio Vallisnieri,
il quale, nella breve presentazione del lavoro del genitore, mostrò di valutarne appieno l’importanza.
Scriveva infatti che suo padre è stato il primo tra gli italiani a concepire l’idea di un dizionario di cose
naturali. Al tempo stesso, il Vallisnieri paragonava le carenze della lessicografia scientifica italiana con la
miglior situazione degli stranieri, e citava a confronto il Lexicon technicum di John Harris, i dizionari
francesi di Trevoux e il dizionario di medicina di Johann Philipp Burggrav, uscito a Francoforte nel 1733. In
Italia non esisteva nulla di simile, tanto è vero che la Morgana considera l’opera postuma del Vallisnieri il
primo tentativo di vocabolario scientifico specializzato.
Il Saggio alfabetico raccoglie 567 lemmi. Il nucleo più consistente è quello relativo ai termini della zoologia
e dell’entomologia (circa 200 entrate); poi la botanica con 80 entrate; i minerali e fossili con 70; le
conchiglie con 68; la medicina e l’anatomia con 60, animali e piante esotiche con 22 e infine vi sono alcune
voci con esseri favolosi e varie stranezze della natura. Si tratta di un patrimonio consistente di parole, e la
Morgana spiega che i precedenti cataloghi di animali o piante non possono essere considerati un punto di
riferimento valido per retrodatare la lessicografia scientifica italiana: le opere a cui ci si potrebbe riferire
sono molto inferiori per qualità rispetto a quella del Vallisnieri: sarebbero l’Istoria botanica di Giacomo
Zanoni, l’Alfabeto di secreti medicinali di Lazzaro Grandi e gli indici della Istoria e coltura delle piante
di Paolo Clarici.
Molte delle parole registrate nel Saggio alfabetico sono nuove o estranee alla Crusca, come acaro, o
latinismi. Vi sono però alcune parole già registrate dal vocabolario italiano. Proprio in queste si verifica
l’intento di Vallisnieri, di correggere le approssimazioni dei lessicografi letterati. Si prenda il caso della
Anguilla, registrata nella Crusca.
Nel seguito della voce lo scienziato parla del ciclo vitale delle anguille e delle loro migrazioni, condannando
le “cento menzogne intorno alla loro origine”. La revisione prende le mosse dalla definizione lessicografica
della Crusca, inadeguata se confrontata con un’analisi scientifica accurata: il controllo della definizione
serve per mettere a frutto l’esperienza osservativa, alla luce di un procedimento analitico che ricorda il
metodo di Redi e la nuova scienza di Galilei, a cui sembra rifarsi anche la dedica al lettore, là dove
Vallisnieri esordisce dicendo che l’osservazione della natura, attraverso l’analisi condotta attraverso i sensi
guidati dalla ragione, è il modo migliore per ammirare il miracolo di Dio nella creazione, un miracolo che
poi va descritto in lingua volgare, in modo che tutti ne possono usufruire.

2.5 Giovan Pietro Bergantini


Nel quadro del rinnovamento settecentesco della lessicografia italiana, bisogna far riferimento a un altro
lessicografo del XVIII secolo, precedente all’Alberti: il veneziano padre teatino Giovan Pietro Bergantini
che rappresenta le ambizioni ancora irrisolte e mancate di una tradizione lessicografica alla ricerca di una via
di rinnovamento, ma in difficoltà nel portare a compimento, fino alla stampa, grandi progetti. Bergantini
anticipa gli interessi tecnico – scientifici dell’Alberti. Morgana ha fatto notare che la fortuna lessicografica
del Saggio alfabetico iniziò proprio con Bergantini, il quale selezionò dal repertorio vallisneriano circa 100
lemmi, seppure tenendo poco conto delle definizioni originali, semplificate e sintetizzate al massimo.
Beccaria ha constato che in esse sono introdotte molte citazioni tratte da autori del 500/600 ignorati dalla
Crusca come Tansillo, Botero, Tesauro, Tassoni e che l’opera fu molto usata dalla ristampa napoletana e non
ufficiale della Crusca del 1746 – 48. Questo è una prova dei caratteri positivi di questo lessicografo rispetto
all’immobilità della tradizione cruscante. Tuttavia, una volta riconosciuta l’apertura verso autori nuovi, il
giudizio di Beccaria sulla lessicografia conservatrice e priva di novità del Bergantini, resta limitativo.
Al Bergantini si deve anche il primo e unico volume di una grande opera che si fermò alle sezioni
alfabetiche A – B. Una simile realizzazione avrebbe potuto anticipare, se fosse uscita integralmente, la
revisione lessicografica che iniziò alla fine del secolo e che poi proseguì in vari dizionari del primo 800. La
parte più corposa dell’opera del Bergantini è rimasta inedita, benché integralmente compiuta: Vitale e
Morgana ricordano il suo Dizionario dell’eloquenza italiana in 10 volumi più uno di supplemento, finito di
preparare nel 1757, e il suo Dizionario universale italiano in 6 volumi di circa 700 pagine ciascuno, più
uno di aggiunte, di cui tentò la pubblicazione nel 1753 e nel 1758, rendendo pubblico il piano della sua
opera. Queste opere di vasta mola rimasero inedite ed entrarono poi in possesso dell’Istituto nazionale
italiano di scienze lettere ed arti di Milano, donate dal Ministero dell’Interno del Regno Italico, il conte
Luigi Vaccari, nel 1813: infatti l’opera lessicografica del Bergantini è stata riesaminata dopo in modo
completo e esemplificato da Morgana.
L’Istituto nazionale italiano di scienze lettere ed arti era stato fondato da Napoleone nel 1797, con sede a
Bologna, per raccogliere le scoperte e per perfezionare le arti e le scienze. Poi fu trasferito a Milano con
sezioni staccate in altre città. Ricevette l’incarico di occuparsi del Vocabolario e in quell’occasione i due
grandi dizionari inediti del Bergantini furono donati all’Istituto dal conte Vaccari, ministro del Regno
Italico, perché fossero usati in un lavoro lessicografico originale e nuovo. Al ritorno della dominazione
austriaca, però, l’Istituto, sollecitato da una richiesta del governatore conte Saurau, rifiutò di prendere come
base i lavori del Bergantini e del Cesari, preferendo far riferimento al dizionario dell’Alberti. Il giudizio di
Monti sull’opera del Bergantini era severo: per lui era un coagulo inattivo e vasto di parole.
Nel 1816 la Crusca, interpellata sulla possibilità di unire gli sforzi per realizzare un dizionario comune
toscano – milanese, rifiutò di collaborare con il Monti e con l’Istituto italiano e Sessa. La richiesta del Regio
Imperiale Istituto di Scienze Lettere ed Arti di Milano, firmata dal conte Stratico e dal conte Moscati, il 6
luglio, e la risposta della Crusca il 10 settembre, sono pubblicate dallo Zannoni. La risposta ha un tono
altezzoso nella forma, ma anche per i bizzarri suggerimenti forniti ai colleghi milanesi: infatti porta in
allegato dei materiali che i fiorentini dicevano di ritenere utili nelle mani dei colleghi lombardi per aiutarli
nel lavoro, lavoro che comunque avrebbero dovuto svolgere da soli. In parte si trattava di materiale
elaborato nell’Accademia di Firenze, ma anche di materiali di altre accademie (spagnola) o di autori
stranieri, come la traduzione (il volgarizzamento) della prefazione del dizionario inglese del Samuello
Johnson. Aveva poco senso inviare queste cose, di facile accesso e di pubblico dominio che potevano essere
reperite da sole a Milano senza l’aiuto dei traduttori fiorentini, i quali davvero davano l’idea di voler aiutare
i milanesi a capire l’inglese. La risposta si ha nel momento in cui gli accademici di Firenze annunciano di
aver intrapreso il lavoro per la 5 edizione e di volerlo terminare da soli.
Nacquero così le polemiche che poi si tradussero nella Proposta di Monti, uscita dal 1817 al 1824. Essa è
uno dei capitoli più interessanti nella storia della lessicografia italiana nella prima metà del secolo per il
superamento del monopolio lessicografico dell’antica Accademia di Firenze.

2.6 L’ultima Crusca completa: la quarta impressione


Nel 1863 la Crusca avviò la quinta e ultima edizione che si tentò, ma non si concluse: rimase interrotta nel
1923. L’ultima Crusca completa risale al 700: è la quarta che uscì dal 1729 al 1738. Lo Zannoni pubblicò
molte notizie storiche su questa edizione, scritte da Andrea Alamanni; esse sono state usate da Vitale in un
saggio che ricostruisce le vicende dell’edizione, analizza la Prefazione del Bottari e offre uno spoglio
analitico di voci ed esempi per verificare il rapporto con le tre precedenti edizioni. Vitale dice che non fu
interrotta la linea di tendenza delle edizioni precedenti, ma si manifestò una forma di conservatorismo
liberale. Un fenomeno nuovo rispetto al passato furono le ristampe e i compendi non ufficiali realizzati in
varie città italiane che sono importanti perché ci danno un’idea esatta della diffusione del Vocabolario, o
meglio, ci danno un’idea della richiesta del pubblico e della vitalità dell’editoria che si muoveva senza
troppa creatività all’ombra del lavoro lessicografico fiorentino, a parte il tentativo di fare delle aggiunte e di
correggere qualche errore, operazione che assunse un significato più ampio dopo il lavoro dell’Alberti di
Villanova, quindi nel corso della prima metà dell’800, quando le aggiunte alla Crusca acquistarono un
significato di rinnovamento. La Berti elenca queste impressioni settecentesche non ufficiale, rispettose verso
la cultura fiorentina:
- Il Compendio curato e stampato nel 1739 a Firenze in 5 volumi in ottavo da Domenico Maria
Manni, identico alla quarta Crusca, anzi, con qualche aggiunta, ma con l’eliminazione del testo delle
citazioni, pur mantenendo il rinvio ai passi;
- Il compendio del 1741 curato a Venezia da Apostolo Zeno per l’editore Baseggio, pubblicato allo
scadere dei 10 anni dove era proibita nei domini veneziani la ristampa della quarta Crusca fiorentina;
l’editore Baseggio che aveva già pubblicato nel 1705 il compendio della terza Crusca, fiutò il nuovo
affare e lo Zeno, anziano, realizzò l’opera;
- La ristampa integrale pubblicata dal veneziano Pitteri nel 1741 – 42 (prima edizione veneta); Pitteri
aveva cercato di competere nel 1741 con il Baseggio per ottenere il privilegio per stampare il
compendio, ma era stato battuto. Si rifece con la ristampa integrale, che non fu l’unica uscita dai suoi
torchi, visto che simile impresa ripetè nel 1763; bisogna ricordare un particolare: l’opera, in 5 volumi
in ottavo stampata in caratteri ridotti, si autodefinì “quinta impressione”, come se dovesse entrare nel
numero delle edizioni “ufficiali” del vocabolario di Firenze;
- Un’altra ristampa integrale curata da Pasquale Tommasi, in sei tomi in 5 volumi in folio, uscita nel
1746 – 48 a Napoli; seguì nel 1751 un’aggiunta di vocaboli in un volume più piccolo;
- Infine si ebbe la ristampa integrale da parte di Pitteri, in 5 volumi, nel 1763 – 64, usando anche le
aggiunte dell’edizione napoletana.
Le città interessate a questo fiorire di opere lessicografiche, a parte Firenze, furono Venezia e Napoli, la
prima vivendo ancora l’effetto dell’antica tradizione editoriale che ne aveva fatto uno dei centri
dell’industria libraria europea, la seconda forse in seguito alla tradizione locale del filotoscanismo di
Leonardo di Capua e del suo discepolo Niccolò Amenta. I compendi, più rapidi da consultare rispetto alle
Crusche originali o riprodotte integralmente, non erano tuttavia la forma più leggera di dizionario allora
disponibile. Infatti vennero allestiti anche lessici di formato più piccolo e maneggevole, facili nell’uso, che
riprendevano dalla Crusca solo i lemmi.
Nonostante la fortuna di questi compendi e delle edizioni non ufficiali, il 700 fu il secolo in cui l’Accademia
raggiunse l’apice della crisi, fino a essere soppressa, riducendosi ad una classe dell’Accademia Fiorentina.
Le diede nuova vita l’imperatore Napoleone, nel 1811, restituendole autonomia e il compito di curare la
revisione del Dizionario della lingua italiana; si noti la dicitura usata allora nel decreto napoleonico:
Dizionario, alla francese, non Vocabolario secondo la tradizione dell’Accademia. Appena riaperta, la
Crusca iniziò a progettare la quinta edizione del vocabolario, come si desume dai documenti pubblicati da
Zannoni. Lo Zannoni riporta un passo del Ragionamento presentato all’Accademia nel marzo del 1741 da
Rossantonio Martini, dove si accenna a una vasta serie di correzioni che sarebbero state necessarie, ma che
non erano state introdotte nella quarta edizione per la fretta e per l’eccesso di cautela nei confronti delle
scelte che erano state fatte in passato, per cui questa quarta edizione viene presentata come un’occasione
perduta, e si fa riferimento al lavoro per la quinta impressione che giunse molto più tardi e non arrivò alla
fine. Lo Zannoni descrive la quarta edizione del Vocabolario come l’ultima gloria dell’Accademia, ormai
indebolita e in decadenza in un secolo che stava cambiando inclinazione. Lo Zannoni diceva così anche
perché abbracciava con consenso il partito preso dal granduca Pietro Leopoldo che fuse le tre Accademie
(della Crusca, Fiorentina e degli Apatisti) in una sola chiamata “Fiorentina” con sede nella libreria
Magliabechiana. Anche la nuova Accademia progettò un vocabolario, una quinta edizione della vecchia
Crusca, ma più ricca e ben corretta. Il progetto naufragò, nonostante a Firenze lo si prendesse sul serio, fino
al punto di mettere i bastoni fra le ruote all’Alberti di Villanova che da tempo diceva di voler stampare il suo
dizionario a Firenze. Tale rimase la situazione fino al 1808, quando l’Accademia Fiorentina fu divisa in 3
nuove classi: del Cimento, della Crusca e del Disegno.
La situazione cambiò quando Napoleone ristabilì le condizioni precedenti alla riforma di Pietro Leopoldo,
dando vita autonoma alla Crusca, nel 1811. Nel 1812 la Crusca si riunì nella sala dell’Accademia dei
Georgofili, e il giorno dopo i Cruscanti, incontratisi nella casa privata di uno di loro, assunsero di nuovo
l’impresa che avevano perso durante l’Illuminismo: il frullone con il motto “Il più bel fior ne coglie”.

3. LE ETÀ DELL’UOMO NEI VOCABOLARI: STORIA DI UNA DEFINIZIONE


LESSICOGRAFICA

3.1 Le età dell’uomo nella retorica


Un trattato di retorica “De usu artis Rhetoricae” di Antonio Riccoboni, noto autore del 500, propone uno
schema che rappresenta le età dell’uomo. I giovani sono appassionati, agitati, desiderosi della vittoria,
ottimisti, pronti a credere, virili, vergognosi delle azioni disonorevoli, magnanimi, onesti, pronti all’eccesso,
pronti all’offesa e alla misericordia, allegri, amanti del riso. I vecchi, invece, non hanno passione, non si
accendono mai, vogliono solo conservare la loro vita, interpretano tutto in maniera negativa, sono paurosi,
cinici, avidi, badano all’utile, non desiderano ciò che è grande e straordinario, non sono soggetti alle
passioni, sono maliziosi, timorosi, la loro misericordia e compassione per gli altri deriva da debolezza, non
amano lo scherzo. Le coppie oppositive si allineano. Nella colonna centrale sta il giusto mezzo, l’equilibrio,
proprio dell’età matura. Uno schema simile, elaborato per costruire discorsi, palesa anche un effetto della
retorica: la retorica era anche un repertorio di luoghi comuni largamente accettati. Le caratterizzazioni delle
età, infatti, propongono una tipologia fissa. I giovani sono e devono essere così, i vecchi hanno e devono
avere determinate caratteristiche; gli uomini maturi saranno solo in un determinato modo. Ne emerge e si
impone un’immagine tradizionale delle età dell’uomo che ha una fonte autorevole: lo schema deriva quasi
totalmente da Artistotele. Riccoboni lo ha usato in maniera fedele, trasponendolo in forma di tabella. È uno
dei tanti casi di classicismo in pillole, definito così da Mazzacurati che ha individuato in ciò uno degli
aspetti della crisi della retorica, la quale, nel secondo 500, ritorna ad una funzione pratica, come era stato
nelle artes medievali, perdendo però la carica filosofica e morale che aveva avuto durante l’Umanesimo.
Tasso, nel canto VII della Gerusalemme liberata, fa dire al pastore che ha ospitato Erminia “ne l’età
prima”; quell’ “età prima” riprende un’espressione poetica tradizionale che risale a Petrarca. Si tratta di
riproduzione di un sintagma poetico e si richiama il modello di Properzio. Ma perché la “prima età”
dovrebbe essere la “giovinezza”? Sicuramente ha influito la partizione proposta dalla retorica, soprattutto da
quando la retorica aristotelica esercitò la sua influenza, fino a diventare un testo scolastico d’obbligo. Infatti,
là dove quest’influsso della retorica non si esercita, la “prima età” è l’infanzia, come in Matteo Palmieri in
cui la prima età è incapace di fare qualsiasi cosa, ha bisogno dell’aiuto degli altri e soprattutto della balia.
Non necessariamente le età dell’uomo sono le 3 della retorica. La retorica le riduceva a 3 perché si
interessava al pubblico che doveva partecipare alle assemblee deliberative, del quale comunque era
interessante valutare le emozioni e reazioni ai fini della vita sociale, secondo la concezione degli antichi.
Ecco perché veniva esclusa la “prima etade”, cioè la fanciullezza (così è definita nei vocabolari italiani di
oggi, concordi con la Crusca sul fatto che l’infanzia sia la prima età dell’uomo. “Prima età” nella tradizione
italiana ricorre alternativamente come “fanciullezza” e “gioventù”, a seconda degli autori o delle
circostanze.

3.2 Il parere della Crusca


Che le età dell’uomo siano più di 3 è confermato dalla lessicografia. Anche i vocabolari, come la retorica,
sono capaci di trasmettere la tradizione, spesso in forme ripetitive. Le Crusche del 1612 e del 1623 danno
questa definizione del lemma Etate: Nome generale, che si dà ai gradi del vivere dell’uomo, ossia infanzia,
fanciullezza, giovinezza, virilità e vecchiaia.
I gradi sono 5 (anche se il come non esclude categorie aggiuntive). La definizione di queste 5 tappe presente
nella Crusca è:
Infanzia: equivale a infantilitade, definita come “La prima età dell’uomo”.
Fanciullezza: è definita come l’età “quasi da 7 a 15” ed equivale a puerizia, termine introdotto come
spiegazione sinonimica del lemma. Sotto il lemma Puerizia abbiamo la seguente spiegazione: “Età puerile,
fanciullezza”.
Giovanezza: è definita come età nella quale ancora si cresce, gioventù; però la parola gioventù non è posta a
lemma nella I e II Crusca che porta solo la variante Gioventudine, spiegata con “gioventude e gioventute”
(anche queste parole non sono a lemma).
La Virilità è assente (come lemma) nelle prime due edizioni del Vocabolario.
Vecchiaia: è posta a lemma autonomo, con questa definizione: “età dell’animale tra la virilità e la
decrepitezza”; però decrepitezza che potrebbe essere un sesto stadio della vita umana, non è a lemma,
benché a lemma ci sia Decrepito.
L’esame della famiglia lessicale relativa alle età dell’uomo mostra una certa incoerenza interna al
Vocabolario, perché nelle definizioni vengono a volte usate parole non a lemma come gioventù,
decrepitezza, virilità. In altri casi le definizioni sono coerenti, come quando sotto la voce Fanciullo, si dice
che egli appartiene a un’età che sta tra Infanzia e adolescenza, definibile come puerizia. La definizione è
in parte coerente perché infanzia e puerizia sono entrambe poste a lemma, e inoltre la puerizia è stata
considerata sinonimo di fanciullezza. Anche adolescenza è a lemma, con la definizione di “età in cui ancora
si cresce”, ma il Vocabolario non chiarisce se questa categoria si inserisca cronologicamente prima della
giovanezza o le corrisponda in tutto o in parte, e non la prevede nelle 5 partizioni indicate sotto Etade.
Nella 3 edizione della Crusca, alla fine del 600, non fu modificata la definizione precedente di età, anche se
venne modificato il lemma, che risultò più attento alle varianti formali, in quanto prevedeva 3 possibilità:
“Età, Etade, Etate”. I gradi previsti, però, sono sempre 5, i 5 delle due prime edizioni del Vocabolario, ossia
infanzia, fanciullezza, giovanezza, virilità e vecchiaia. Si può trovare la conferma dello sforzo compiuto dai
lessicografi della terza Crusca per modificare e migliorare il loro Vocabolario. Per esempio, abbiamo visto
che le edizioni del 1612 e del 1623 usavano “virilità” nella definizione dell’età mezzana dell’uomo, in
accordo con la tradizione della retorica, però la voce Virilità non era posta a lemma. Venne introdotta nella
terza edizione con una definizione breve di tipo grammaticale: “Astratto di virile”. Ma alla fine della voce
gli accademici aggiunsero questa precisazione: “Il fine della adolescenza è la gioventù, e di quella la virilità,
e della virilità la vecchiezza”. Questo è un riferimento alla scansione cronologica. Inoltre la Terza Crusca
aggiunse diversi esempi nella voce Adolescenza, tra i quali uno del Firenzuola in cui era chiara la
distinzione tra fanciullezza e adolescenza, intese come due fasi consecutive.
Per la Prima Crusca e seguenti le età dell’uomo rimasero sempre 5, nonostante l’affiorare dell’adolescenza e
5 sono le età adottate dall’Alfieri nella Vita, la quale è divisa in 5 epoche, corrispondenti alle cinque età
dell’uomo che in questo caso puerizia, adolescenza, giovinezza, virilità e vecchiaia, con l’adolescenza usata
come equivalente della fanciullezza. Il modello accolto, nella scansione in 5 tappe, potrebbe essere proprio
modellato sulla voce del vocabolario toscano, da parte di uno scrittore che era attento ai pregi della lingua
toscana.
Quello delle 5 età non era l’unico modello in circolazione. Altri scrittori, contrari alla Crusca, si erano rifatti
ad altre scansioni temporali: il Marino, per esempio, nelle Dicerie sacre, preferiva la suggestione del
numero 7: abbiamo 7 età dell’uomo così come 7 età nel mondo, 7 savi nella Grecia, 7 re e 7 colli a Roma e
così via. 7 è anche la partizione adottata da Tommaso Garzoni nella Piazza universale. La virilità come
tappa della scansione temporale della vita, termine poi soppiantato da maturità, si trova ancora in diversi
autori del 700 e poi nei Promessi sposi.

3.3 Definizioni di Crusca: stabilità e innovazione


La tradizione lessicografica tende a riprendere i precedenti e a trasmetterli, così come la retorica. Ciò è tanto
più vero nel caso dell’Italia, in cui il Vocabolario della Crusca esercitò una dittatura molto forte. La
definizione di età che abbiamo trovato nella Crusca del 1691, infatti, è la stessa che troviamo in molti
vocabolari della prima metà del 800, per esempio nel dizionario della “Minerva”, pubblicato a Padova o nel
Vocabolario del Manuzzi e si presenta identica nel dizionario del Fanfani e in quello del Tommaseo, nella
seconda metà del XIX secolo. Anche il Tommaseo non innova. Le età dell’uomo sono le 5 della Crusca.
Nel frattempo, però, nonostante questa tendenza alla conservazione, si era affacciata alla ribalta della
lessicografia una definizione diversa di età, che aboliva o relegava in posizione subalterna le 5 classi della
Crusca. La troviamo per la prima volta in Alberti, il quale non spiega più Età, Etade, Etate con
l’elencazione dei gradi, come aveva fatto la Crusca, ma antepone una definizione più breve: “Il corso
ordinario della vita”. L’elencazione dei vari gradi non è eliminata (viene introdotta subito dopo, nella prima
specificazione), però i gradi sono aumentati, passano a 7, con integrazioni rispetto alla Crusca, e 2 di essi
anche con l’indicazione del sinonimo: “Infanzia, Puerizia, o Fanciullezza, Adolescenza, Giovanezza, o
Gioventù, Virilità, Vecchiaja, Decrepità”. La prima definizione di età è ora quella breve che ritroviamo
anche nel vocabolario alternativo alla tradizione, ossia il Supplimento a’ vocabolarj italiani del
Gherardini, per il quale Età è prima di tutto “La durata ordinaria della vita” e, in seconda battuta, “Tutti i
differenti gradi della vita”, questi ultimi non più elencati.

3.3 Un modello lessicografico alternativo


È stata individuata la fonte dell’innovazione dell’Alberti e del Gherardini: la loro definizione sintetica di Età
riprende quella che si trova alla voce Âge del Dictionnaire de l’Académie française, fin dalla prima
edizione: “La durata ordinaria della vita”. L’aggettivo ordinaire, ordinaria nel Gherardini (ordinario
nell’Alberti) è la spia linguistica che conferma il rapporto con la fonte. È normale che l’Alberti e il
Gherardini vedessero nel dizionario francese l’alternativa moderna rispetto alla troppo letteraria e cruscante
tradizione italiana. L’esame di una singola voce, come questa relativa all’età, permette di verificare le linee
di sviluppo della storia della lessicografia italiana, in cui i momenti di rinnovamento sono rari: sicuramente
l’Alberti segna una di queste tappe, così come il Gherardini. I vocabolari di oggi si rifanno ancora alla
definizione della Crusca, pur limitando quasi sempre a 4 il numero delle età dell’uomo. Il Vocabolario della
lingua italiana diretto da Aldo Duro per la Treccani dà come prima definizione di Età: “Ciascuno dei
periodi in cui si suole dividere la vita umana” (elenca fanciullezza, giovinezza, maturità e vecchiaia). Lo
stesso procedimento è adottato dal Sabatini – Coletti e dal Devoto – Oli. Nello Zingarelli 2005 le 4 età
stanno al secondo posto, dopo una prima definizione riferita a “Gli anni della vita, il tempo che si ha”.
Anche il GRADIT di De Mauro pospone le 4 età della vita umana, mettendo al primo posto il “numero di
anni già vissuti da una persona”. L’innovazione adottata dalla linea Alberti – Gherardini rese autonoma la
definizione di età dalla divisione nelle epoche della vita. Ma è possibile un richiamo a una fonte più precisa:
all’origine di queste nuove definizioni, che si ritrovano in diversi dizionari di oggi, sta un vocabolario
ottocentesco dalle pretese innovative: il manzoniano Giorgini – Broglio, il quale ne dà la seguente
definizione: “Gli anni dell’uomo, contati dal momento della sua nascita, e i diversi periodi nei quali si parte
la vita”; segue l’elenco dei periodi, fedele alla Crusca: “Età infantile, fanciullesca, giovanile, virile, senile”.
Questa definizione fu semplificata nel Nòvo dizionàrio universale della lingua italiana di Policarpo
Petrocchi, in cui divenne “Gli anni dell’uomo”. La matrice manzoniana, intrecciata con la linea che risale
all’Alberti – Gherardini è alle origini delle definizioni presenti nei moderni Zingarelli e GRADIT, anche se
l’antica definizione della Crusca ha sempre esercitato la sua influenza, come mostrano il dizionario Treccani
di Aldo Duro, il Sabatini – Coletti, il Devoto – Oli.

3.4 La fonte della Crusca


La definizione elencatoria della Crusca, con le 5 età, poi giunta fino alla lessicografia italiana moderna,
deriva da una fonte più antica: è tratta pari pari dal dizionario latino del Calepino dove abbiamo la
definizione di AETAS. Qui la spia per il riconoscimento è il latino “generale nomen”, reso fedelmente dai
lessicografi della Crusca con “nome generale”. La definizione deriva sicuramente da questa fonte dove viene
anche detto che, secondo Varrone, 5 sono i gradi dell’età umana: abbiamo la pueritia fino ai 15 anni,
adolescentia fino ai 30 anni, iuventus fino ai 40, a cui seguono i seniores fino ai 60, dopo i quali ci sono i
senes, i vecchi. Era una delle divisioni a cui fece ricorso l’Alfieri per non dirsi vecchio quando compì 55
anni. Nel rifacimento del Calepino, cioè nel Lexicon di Facciolati e Forcellini, la definizione cambiò,
diventando più simile a quella del Dictionnaire de l’Académie française: furono proposti i gradi della vita
e fu anteposta una definizione generale sulla durata della vita in quanto corso unitario.

3.5 Meno separati di quello che sembra


La revisione fatta alla voce Aetas del Calepino mette bene in luce i procedimenti che deve seguire un bravo
lessicografo: solo il Forcellini tentò di fare i conti con le varie scansioni delle età dell’uomo trasmesse dalla
letteratura latina, compresa quella medievale. Infatti, nella voce, viene citato Isidoro di Siviglia, che negli
Etymologiarum sive Originum libri, in un paragrafo dedicato a questo tema, distingue sei gradi, ciascuno
interpretato con apposite etimologie giustificative pittoresche: infantia fino a 7 anni, pueritia fino a 15 (o ai
17), adolescenza fino ai 28, iuventus fino a 50, poi l’aetas senioris (o gravitas) fino a 70 anni, a cui segue
la senectus. Secondo Varrone (il passo è riferito da Censorino nel De die natali liber) c’è invece la
divisione in 5 età, come in quella del dizionario del Calepino (in questa divisione non c’è la pueritia). Viene
citato Ovidio (Metamorfosi) che parla di 4 età, lasciando cadere i seniores, e accoppia ciascuna di esse a
una stagione dell’anno (l’accoppiamento delle stagioni della vita a quelle dell’anno è già stata accolta da
Dante nel Convivio); il Forcellini riferisce una divisione che risale a Ippocrate, giuntaci attraverso
Censorino, con 7 età. Le definizioni di età erano variabili e imprevedibili.
Si dovevano citare negli esempi d’autore riportati nel dizionario, ma era un problema ricavarne una
definizione lessicografica univoca. Gettato nella confusione da tutte queste diverse divisioni, tormento dalla
necessità di trovare un comune denominatore, il lessicografo del dizionario latino dovette evitare la
definizione tradizionale, basata sull’elenco delle divisioni, troppo variabili e diversamente interpretabili. Il
lessicografo cercò una definizione alternativa alla forma scelta dalla Crusca e la trovò nel Dictionnaire de
l’Académie française. Accolta la definizione sintetica, nel corpo della voce lessicografica diede conto delle
opinioni espresse dagli autori latini a proposito delle varie classi di età disomogenee. Lo sforzo di
elaborazione concettuale del lessicografo latino fu superiore a quello dei lessicografi italiani. La storia della
lessicografia delle lingue volgari non va separata dalla lessicografia latina, così come la storia della
grammatica del volgare non si può comprendere senza il rapporto con la grammatica latina classica,
umanistica e post - umanistica. Pur lavorando su diverse lingue, una morta e una viva, i due gruppi di
linguisti e filologi si confrontavano e spesso si influenzavano a vicenda. Lo dimostrano anche i casi in cui i
dizionari latini sono stati elemento fondamentale nella formazione di lessicografi italiani: emblematico è il
Tommaseo per le postille apposte all’esemplare in suo possesso del Lexicon di Forcellini. Le postille sono
ora edite da Martinelli che ha fatto notare come il nome di Tommaseo compaia spesso come interlocutore o
spettatore partecipe delle imprese lessicografiche ottocentesche e, come ciò emergesse già dalla ricerca di
Carena. La studiosa ha trascritto e valorizzato la nota che accompagna l’esemplare che fu dello scrittore
dalmata, ora posseduto dalla Biblioteca Centrale di Firenze, dalla quale traspare un amore speciale per il
Lexicon: infatti dice che esso, composto da lui a Padova con i risparmi che gli mandavano i genitori per
studiare all’università, costituì molta parte della sua educazione intellettuale e sin d’allora vi metteva nel
margine qualche sua giuntarella e alle locuzioni italiane cercava le corrispondenti latine. Inoltre, lo
accompagnò nei suoi viaggi.
Martinelli commenta ciò dicendo che a nessun volume confluito a Firenze toccò un simile onore.
In un altro saggio, Martinelli ha mostrato quanto frutto traesse Leopardi dalla consultazione del Lexicon di
Forcellini per alcune nozioni linguistiche che arricchiscono lo Zibaldone.

3.6 Vocabolari leggeri: l’ “Ortografia” di Facciolati


Non solo la storia del dizionario latino condiziona la lessicografia italiana, ma i lessicografi del latino si
dedicarono a volte alla lingua moderna. Il Facciolati che rimaneggiò il Calepino, da cui poi si sviluppò il
Lexicon totius latinitatis del Forcellini, edito postumo nel 1771, fu anche autore di una Ortografia
moderna italiana elaborata come testo scolastico per l’uso del Seminario di Padova. La data della prima
edizione è fissata al 1721 da Serianni e Masini. Seguirono altre edizioni.
Si deve a Masini uno studio completo dedicato a questa Ortografia. Essa voleva essere un dizionario
maneggevole, non un compendio, ma una raccolta di tutte le voci di Crusca, alleggerite della definizione e
delle citazioni d’autore e solo corredate della traduzione latina. Un dizionario simile, adatto all’uso
scolastico, era già stato realizzato alla fine del 600 dal gesuita palermitano Placido Spadafora, con il titolo di
Prosodia italiana, il cui primo scopo era quello di indicare gli accenti per una corretta pronuncia. Poteva
però servire anche come dizionario portatile visto che aveva le definizioni delle parole, pur senza esempi e
indicazioni d’autore. Caliri ha notato la presenza di riferimenti dialettali che derivano dai lessici più antichi.
Nelle edizioni di Spadafora poteva capitare che i sicilianismi fossero eliminati. Caliri cita per esempio
“castone” e “curdaru” sotto il lemma Funajuolo: di entrambi questi riferimenti al dialetto siciliano non c’è
traccia nella tarda edizione veneziana di Spadafora, mentre invece in essa rimane il riferimento alla voce
veneziana Cighignuola per “nottola”; ciò fa pensare alla circolazione di edizioni adattate per le esigenze di
un pubblico settentrionale. Spadafora aggiunse molte parole che non erano nella Crusca, compresi diversi
esotismi come canoa, cacao.
L’Ortografia si ascrive alla categoria dei dizionari leggeri, portatili, di rapido uso e di pronta consultazione,
come quello dello Spadafora. L’Ortografia fu realizzata dal Facciolati con la collaborazione del suo allievo
Forcellini, i quali poi litigarono sull’attribuzione, anche perché le prime edizioni uscirono anonime, e sono
nel 1741 fu inserito il nome di Facciolati nell’avvertenza al lettore. Furono aggiunte molte voci assenti nella
Crusca. Masini afferma che dal suo spoglio è documentata la cura di emendare e arricchire il patrimonio
consegnato nella tradizione cruscante, senza metterne in discussione i presupposti teorici. L’innovazione più
audace risulta la segnalazione mediante asterisco delle voci fuori dell’uso. L’Ortografia ebbe molte edizioni
e vi si aggiunse un Vocabolario domestico in cui alcune voci mostrano una caratterizzazione settentrionale
o lombarda. Le varie edizioni dell’Ortografia testimoniano la fortuna di questo libro, nato per la scuola,
eppure usato anche da letterati. A questo proposito, Masini cita la lettera del padre Paciaudi con la quale si
consigliava al giovane Alfieri di tenere sempre sul tavolino l’Ortografia italiana per conoscere bene la
lingua in cui si vuole scrivere. Per questo il vocabolario deve essere tenuto in considerazione nella storia
della nostra lingua prima di tutto per la sua fortuna editoriale, e poi perché documenta l’introduzione dello
studio della lingua italiana in un ambiente saturo di classicismo come era il Seminario di Padova.

CAP. 6: L’OTTOCENTO, SECOLO D’ORO DELLA LESSICOGRAFIA

1. PURISMO E ANTIPURISMO

1.1 Il secolo dei dizionari


L’800 fu il secolo d’oro dei dizionari, una stagione vivacissima per ricchezza di produzione, per qualità, per
varietà di realizzazioni. “Lessicomania” è l’espressione usata dalla Sessa per caratterizzare questa
iperproduzione di dizionari, riprendendo il titolo ottocentesco usato da Francesco Antolini, il critico di tutti i
principali dizionari della prima metà dell’800. Tuttavia, il termine lessicomania sembra evocare una
situazione negativa, che in realtà non ci fu perché anzi, i dizionari si rinnovarono e i compilatori fecero i
conti con la questione della lingua, guardando anche alla tradizione lessicografica di altre nazioni. Si ruppe il
monopolio della Crusca. Quindi, ci sarebbe da domandarsi come mai quella stagione della cultura italiana
fosse così favorevole alla produzione e allo smercio di tante edizioni di vocabolari, accolti dal mercato
anche se non erano molto diversi tra loro visto che alla base di tutti vi era sempre la Crusca (così fino al
dizionario di Tommaseo). Se tanti esemplari furono smerciate, ciò accadde perché il vocabolario entrò in
biblioteche nuove, andò nelle mani di ceti sociali che forse instauravano allora un rapporto diverso per la
prima volta con la lingua italiana, la quale nel cinquantennio che precedette l’unificazione nazionale, si
diffuse maggiormente, anche per scopi pratici, al di là degli ambienti dei letterati. Ciò spiega come mai la
produzione lessicografica fosse forte soprattutto in città importanti, ma periferiche, lontane da Firenze, dove
il vocabolario non fu mai compiuto.
La tentazione di ricollegare le prospettive sociali e politiche alla storia linguistica e alla storia della
lessicografia, sembra essere la chiave di lettura di una fenomenologia connessa con l’aspirazione al
rinnovamento della lingua, per farla stare al passo con i tempi e con le innovazioni tecnologiche e
scientifiche di cui l’italiano, troppo letterato, aveva fatto a meno per troppo tempo: questo è il problema
affrontato dall’Alberti di Villanova. Quanto alle implicazioni sociolinguistiche legate alla circolazione
ampia dei dizionari, qualche informazione si può ricavare dall’elenco degli acquirenti. L’esemplare
dell’Alberti contiene un duplice elenco dei sottoscrittori (uno nel primo tomo, uno nel terzo), e questo
elenco, circa nella metà dei casi, specifica le professioni degli acquirenti. Una tale lista potrebbe servire per
soddisfare altre curiosità, per esempio per cercare i sottoscrittori celebri: “Manzoni D. Alessandro, di
Milano”. Per la presenza di Manzoni si menziona sempre la Crusca veronese, mai l’Alberti. Si ricava la
tiratura che risulta di circa 1200 esemplari, la stessa che Berengo riferisce per la Crusca veronese del Cesari,
dizionario uscito in epoca napoleonica. È ancora più interessante guardare alle professioni dei sottoscrittori:
occasione rara per verificare chi allora comperasse un vocabolario di quella mole e di quella fama (l’opera
era nota per la sua apertura alla terminologia tecnico – scientifica). Le professioni, nelle 2 tavole inserite
nell’Alberti, sono dichiarate in circa una metà dei casi.
2 sono le categorie di acquirenti che spiccano per rilevanza numerica, al vertice della classifica: gli
insegnanti e gli impiegati. Tra gli insegnanti si escludono i docenti universitari. Si tratta forse di un pubblico
prevedibile: ovvio che gli inseganti vogliono possedere un buon vocabolario. In realtà il dato non è così
scontato. Tra essi vi è un’alta percentuale di maestri elementari e comunali (23), oltre a dei maestri di lingua
triestina. La presenza dei maestri elementari è notevole: lo spaccio dell’edizione milanese del dizionario
dell’Alberti avvenne nel Nord Italia e soprattutto nel Lombardo – Veneto e in Emilia – Romagna. I maestri
erano lombardi, nominati in seguito alla nuova politica scolastica di Maria Teresa d’Austria. Costoro
volevano possedere uno strumento di qualità, quale era il dizionario della lingua italiana dell’Alberti, ampio
ed esauriente, ricco, moderno, affidabile, non allineato su posizioni puristiche. L’immagine di questo
dizionario innovativo si collega all’idea della lingua che essi avevano maturato e che volevano insegnare ai
loro allievi. Non meno interessante è la presenza tra gli acquirenti di un numero cospicuo di impiegati. La
categoria va intesa in senso largo: impiegati pubblici, del catasto, dei tribunali, della polizia, di tutti gli uffici
e di tutti i rami dell’amministrazione. Si tratta di un ceto di funzionari pubblici che si interessa alla lingua
italiana per motivi di lavoro. Non è un caso che a partire dall’inizio dell’800, con l’elenco di voci da
proscrivere compilato dal Bernardoni, capo divisione del ministero dell’Interno nel Regno Italico, emerga il
problema della lingua italiana burocratica. La diffusione del vocabolario dell’Alberti nel ceto impiegatizio è
segnale dello stesso fenomeno: l’espansione dell’uso dell’italiano in una società ricca e dotata di una
burocrazia moderna, migliore di quella di altri stati italiani. Anche l’interesse per il vocabolario manifestato
da magistrati e avvocati si collega a questa stessa espansione. Tralasciando i medici e i farmacisti, che sono
professionisti dotati di cultura e studi, tralasciando il piccolo numero di militari, tralasciando i possidenti e
che appartengono a un ceto che vive di rendita, è interessante la percentuale, non alta ma significativa, dei
commercianti e negozianti. Anche questo ceto giunge nuovo alla conquista della lingua. Non c’era l’obbligo
di indicare la professione, e infatti metà dei sottoscrittori non l’hanno precisata: ma molti commercianti (24)
l’hanno voluto fare come segno della conquista di un nuovo ruolo sociale, conseguito attraverso l’acquisto
del vocabolario. Il numero complessivo dei commercianti è quasi identico a quello dei maestri elementari.
Anche altre categorie minori sono interessanti come “vari”. Nei “vari” rientrano il piccolo numero di
studenti, che acquistano il dizionario per conto proprio o forse per stimolo dei genitori (10). Gli studenti
sono la schiera più numerosa nella categoria dei “vari” che comprende anche un seminarista, un notaio, 3
botanici, 2 chimici, 2 incisori, 2 pittori, un maestro di canto, un musicista compositore (Nicola Vaccaj di
Pesaro), un giornalista, 3 agrimensori, 1 direttore e un rettore di orfanotrofio (che non è stato omologato agli
insegnanti). A questi si devono aggiungere poche persone la cui professione non ha importanza statistica: il
capitanato del porto di Civitavecchia (si tratta di una sottoscrizione che viene dal Centro, presente
marginalmente soprattutto nella seconda lista, mentre al Sud è assente), un bilanciaio, un capomastro e
Enrico Springh, macchinista e fabbricatore di viti a Milano. Tra gli acquirenti del vocabolario ci sono anche
artigiani e tecnici, non solo negozianti. Un’altra categoria dimostra un interesse per la lingua diverso da
quello dei tradizionali addetti alla letteratura o all’insegnamento scolastico, ossia gli ingegneri e gli architetti
(gli architetti sono pochissimi, il grosso è costituito dagli ingegneri, la cui percentuale sfiora quella degli
insegnanti). Nel 1825 il Vocabolario cominciava ad andare per le mani di ceti nuovi, non più formati
nell’ambito della letteratura e delle discipline umanistiche, ma appartenenti alla società produttiva e
all’amministrazione, tecnici e burocrati. Beccaria ha scritto che i burocrati, i professionisti, gli insegnanti, i
militari, i tecnici si stanno elevando culturalmente e socialmente con gli studi e non possono fare a meno
dell’italiano per le loro professioni o per ottenere rispettabilità dal punto di vista sociale.

1.2 Il monopolio della Crusca e la quinta edizione del Vocabolario


Nel periodo che intercorre tra il XVII e il XVIII secolo, il Vocabolario della Crusca aveva occupato una
posizione dominante e non aveva avuto concorrenti, tanto da essere l’unico protagonista delle discussioni
riguardo al problema della norma, il cardine intorno al quale ruotava il dibattito sulla questione della lingua.
La questione della lingua non solo ebbe conseguenze nella produzione delle grammatiche, ma anche nel
campo della lessicografia, anzi, la questione del vocabolario divenne una appendice della questione della
lingua, in cui si manifestavano problemi linguistici nazionali di grande portata, i quali avevano una ricaduta
sulla scelta del lemmario, sullo spazio da dare alla tradizione antica e all’uso, mentre si faceva pressante il
problema del ruolo da assegnare al lessico scientifico e tecnico, ai neologismi, alle parole non toscane. Nel
600 e nel 700 c’era chi aveva parlato male del Vocabolario e dell’accademia di Firenze, ma nessuno era
stato capace di rimpiazzare un’opera di questa mole e autorevolezza: anche lo sforzo del Bergantini si arenò
al momento della pubblicazione, pur avendo messo insieme una quantità notevole di materiale. Dalla fine
del 700 e nell’800, dall’Alberti in poi, invece il quadro si complica. Maria Corti ha richiamato l’attenzione
sulla vivacità lessicografica del periodo napoleonico che passò questa eredità al periodo seguente, creando
una continuità con gli anni della Restaurazione. Altre forze entrarono in gioco. Tuttavia, anche nel XIX
secolo, il dibattito lessicografico prese le mosse dalla Crusca, sia in riferimento alle idee linguistiche della
vecchia Accademia, sia in riferimento a una rivisitazione extratoscana del vocabolario. Tutte le revisioni
ebbero lo scopo di perfezionare e arricchire il patrimonio di parole offerto dal dizionario, ma l’arricchimento
poteva essere immaginato in modo diverso, a seconda che si volesse ampliare la raccolta di parole legate
all’orizzonte delle scienze e delle tecniche, secondo lo spirito dell’Illuminismo, o si volesse perfezionare lo
spirito arcaicizzante che aveva animato la Crusca, estendendo ulteriormente gli spogli degli autori antichi.
La prima via la percorse l’Alberti di Villanova, la seconda l’abate Cesari. Nell’800 fu avviata anche la 5 e
ultima impressione del vocabolario di Firenze, a partire dal 1863, rimasta poi inconclusa nel 1923, quando
fu tolto alla Crusca il compito di compilare il vocabolario. La quinta edizione si colloca a cavallo tra i 2
secoli, XIX e XX, ma non esercitò una grande influenza, essendosi fermata alla voce Ozono, cioè a una
voce scientifica, che prima non era entrata nel Vocabolario (ma era già accolta dal Tommaseo). A questa
voce si può guardare come al segno di un rinnovamento a cui questa edizione fu sottoposta. L’opera aveva
una dimensione superiore a qualunque altra impresa lessicografica nazionale. La quinta Crusca, che fu poco
distribuita, meriterebbe di essere rivalutata perché in essa va valutata l’attenuazione dell’atteggiamento
arcaicizzante e del toscanocentrismo, anche se rimase una profonda diffidenza per la terminologia tecnico –
scientifica. Nencioni ha elencato i difetti che resero la Crusca “impari ai tempi” nel corso del XIX secolo:
nel 1816 l’Accademia rifiutò di collaborare e di integrare con la Lombardia e qualche anno più tardi non
seppe riconoscere l’importanza letteraria e linguistica di Manzoni, visto che nella tavola dei citati del primo
volume della quinta impressione ci sono le opere poetiche e prosastiche di Leopardi, ma non c’è nessuna
opera di Manzoni.
Questa parte più colta e più europea d’Italia era anche quella in cui nuovi ceti e nuove professioni
mostravano una viva aspirazione al possesso di dizionari.

1.3 Più Crusca della Crusca: il vocabolario di Verona


Un importante rivisitazione della Crusca fu realizzata ne 1806 – 11 dal veronese padre Antonio Cesari
secondo la sua autodefinizione, un Lombardo che leggendo e ricercando nei classici Fiorentini
assiduamente, pensava di essere arrivato a capire e vedere meglio di un Fiorentino. Tanto è vero che Cesari
era polemico nei confronti della Crusca per rimproverare l’Accademia di non aver fatto abbastanza. Cesari
pretendeva di fare di Verona l’erede di Firenze e di sé stesso il salvatore della lingua. Per vedere le reazioni
che ciò suscitava nei Fiorentini, si può leggere l’elogio di Cesari pubblicato dallo Zannoni, in cui il purismo
viene lodato e difeso, salvo poi insinuare che anche Cesari ha commesso errori. Zannoni ricorda alcune sue
imperfezioni di scrittore e volgarizzatore.
Il vocabolario di Cesari richiede un’attenzione particolare perché diventò punto di riferimento per tutti.
Cesari aveva riproposto la Crusca con una serie di giunte per esplorare più a fondo il repertorio della lingua
antica, la lingua trecentesca, l’unica che, nella concezione dei puristi, possedesse ricchezza, bellezza e
massima dignità letteraria. Questa lingua trecentesca non veniva ripescata solo negli scritti dei grandi autori,
cioè le 3 Corone, ma, secondo l’insegnamento che risaliva al Salviati e alla Crusca, veniva attinta anche
dagli autori toscani minori e minimi del XIV secolo, anche da quelli poco colti e semipopolari.
Cesari, affiancato da un’equipe veronese, stampò il suo vocabolario in 7 volumi dedicato al principe
Eugenio viceré d’Italia, un’opera più ricca dell’edizione veneta della Crusca, stampata dal Pitteri nel 1736,
presa come testo – base di riferimento ai fini della revisione. Nell’ultimo volume, Cesari aggiunse il
secentesco Vocabolario toscano dell’arte del disegno di Filippo Baldinucci e le Voci e maniere di dire e
osservazioni di toscani scrittori edite nel 700 da Andrea Pasta. Gli obiettivi dell’impresa erano esposti in
un manifesto programmatico diffuso nel 1805, dove si parlava dell’utilità di pescare nei poderi di questa
lingua per restituirle le sue ricchezze, anche quelle perdute per la disattenzione dei precedenti vocabolaristi,
dimenticate e non osservate dagli accademici della Crusca nei loro spogli. Cesari scavava nel terreno dove
avevano già scavato altri. Sottoponeva a rinnovata indagine il patrimonio della lingua antica, in base al
principio che ogni perfezione di idioma stava nel secolo d’oro. In questa prospettiva, l’andamento della
storia linguistico – letteraria era paragonabile a una linea discendente che segnava la decadenza rispetto al
miracolo delle Origini. La lingua del 500 non aveva i pregi di quella del 300; la maturità del Rinascimento
non aveva giovato alla bellezza e alla purezza della lingua.
La valutazione del 500 avrebbe diviso nel corso dei secoli il fronte dei classicisti dai puristi, avversati, questi
ultimi, da ingegni del livello di Monti e Leopardi. I più prestigiosi intellettuali del XIX secolo furono
contrari al Purismo. Eppure questo movimento fu fondamentale nella cultura italiana e incise in modo
sproporzionato rispetto alla sua effettiva qualità. Il successo del Purismo si deve al clima culturale
particolare del tempo, al desiderio di vendicare attraverso la riscoperta e rivalutazione delle origini italiane
pure lo strapotere del francese, lingua che aveva infastidito molti durante gli anni della presenza politico –
militare dei francesi in Italia. L’odio per il “barbarismo”, categoria che includeva quasi solo l’elemento
francese, si spiega in parte così. Cesari, nella dedica del suo vocabolario al principe Eugenio, si augurava
che la lingua italiana stesse per deporre il bastardume che la sporca e sforma, per riprendere le forme natie
della sua bellezza e per tornare al suo primo splendore. Il Purismo ebbe una grande presa sugli insegnanti ed
educatori per la semplicità della sua formula normativa. Il vocabolario di Cesari incarnò questo modello. La
sua importanza è testimoniata dalle edizioni postillate a margine da Monti e Manzoni.

1.4 L’antipurismo di Monti e la “Proposta”


Il Purismo ebbe temibili avversari, come Vincenzo Monti. Fin dal 1813 Monti, maestro nell’arte del
sarcasmo, dimostrò di non sopportare il “grammuffastronzolo di Verona”, epiteto pittoresco ricavato dalle
giunte di Cesari alla Crusca. Rinfacciò a Cesari di aver dato una versione del Vocabolario alla Crusca
apparentemente più ampia, in realtà di aver raccolto tutte quelle voci che gli Accademici ripudiavano. In
seguito la polemica assunse una dimensione più ampia perché la critica antipurista di Monti contro Cesari
colpì lo stesso vocabolario fiorentino della Crusca (non solo la versione veronese), così come era stato
realizzato nel corso di una lunga tradizione accademica. Le polemiche montiane contro la Crusca
compongono la serie della Proposta di alcune correzioni ed aggiunte al Vocabolario della Crusca, i cui
volumi uscirono dal 1817 al 1824, con un’appendice nel 1826. Quest’opera va ricordata non solo come
pietra miliare nel dibattito sulla questione della lingua, ma anche come tappa importante nella storia della
lessicografia italiana. Gran parte della Proposta, infatti, è costituita dalla ricerca di errori compiuti dai
vocabolaristi fiorentini, errori dovuti anche alla loro scarsa preparazione filologica. La Proposta inoltre, pur
dominata dalla figura di Monti, si presentava come un’opera di équipe, in cui entravano contributi diversi,
alcuni storico – linguistici, altri di vera e propria teoria lessicografica, come il Parallelo del Vocabolario
della Crusca con quello della lingua inglese compilato da Samuele Johnson e quello dell’Accademia
spagnuola, firmato da Giuseppe Grassi, il lessicografo piemontese in bilico tra classicisti e romantici,
promessa della cultura linguistica italiana della prima metà del XIX secolo, autore di 2 opere apprezzate, il
Dizionario militare italiano del 1817 e il Saggio intorno ai sinonimi della lingua italiana, pubblicato nel
1821. Anche il Parallelo del Grassi confermava la tesi espressa in tutte le pagine della Proposta: il
Vocabolario della Crusca si presentava come un prodotto inadeguato, caratterizzato da una visione angusta
della lingua. Monti si riallacciava alla lezione settecentesca di Cesarotti, al suo Saggio sulla filosofia delle
lingue.
Lo Zannoni riporta un elogio del Monti che non era troppo simpatico alla cultura fiorentina, anche se si può
credere che gli accademici si preoccupassero di usarne le critiche in vista delle correzioni previste per la
progettata quinta edizione.
Alla stessa tradizione illuminista a cui si ricollegava Monti, si riallacciò il romantico Ludovico di Breme che
appoggiò la polemica della Proposta contro il Vocabolario della Crusca e contro ogni forma di purismo. In
realtà, però, l’alleanza tra romantici e classicisti non era così stretta, perché il Breme faceva una critica
ancora più drastica nei confronti della tradizione italiana. Esprimendo queste opinioni, dimostrava di
conoscere e apprezzare delle letture linguistiche nuove che a Monti mancavano: le teorie degli Idéologues e
la concezione storico – materialistica della formazione del linguaggio secondo la storia naturale della parola.
Vi è quindi una differenza tra le posizioni di Monti e quelle del romantico Breme. Entrambi criticarono e
condannarono il Vocabolario della Crusca, comune nemico. Questo scontro con gli accademici e con i
puristi favorì il rinnovamento della lessicografia italiana.

2. VOCABOLARI DEL PRIMO OTTOCENTO

2.1 Il metodo delle “giunte” alla Crusca


Dopo la Crusca veronese di Cesari, si ebbero altre realizzazioni lessicografiche importanti. Tra il 1833 e il
1842 fu pubblicato il Vocabolario della lingua italiana di Giuseppe Manuzzi, nato anche lui da una
revisione della Crusca. Manuzzi fu purista come Cesari, e il suo vocabolario per quanto corredato e
accurato, conferma la tendenza di una parte della cultura italiana a radicarsi nel passato. Una sua
caratteristica peculiare sta nel desiderio dell’autore di produrre un lessico meno esteso, ma selezionato,
togliendo via le parole inutili. Un vocabolario più snello della Crusca, ma ottenuto correggendo questa. Un
vocabolario fiorentino uscito dai torchi di Firenze, ma con la dedica ad un personaggio non fiorentino, il re
sabaudo Carlo Alberto, presentato da Manuzzi come grande protettore della lingua italiana. Tutte le grandi
realizzazioni lessicografiche italiane, nell’arco che intercorre tra l’Alberti e il Tommaseo, sono riproposte di
una struttura identica a quella del grande vocabolario di Firenze, seppur con l’arricchimento di giunte, o con
la rimozione di elementi inutili, o con la correzione di errori. Manuzzi aveva preso come base la quarta
Crusca fiorentina del 1729, con l’aggiunta di ciò che era stato introdotto nella ristampa della quarta Crusca
realizzata a Venezia dal Pitteri nel 1763. Teneva conto anche di altre novità, dell’Alberti e di altri autori.
Alcune delle giunte erano dovute alla collaborazione di letterati viventi, tra cui Giacomo Leopardi che
venerava. Le giunte dovute a Leopardi, inserite con la sua iniziale (L), non avevano all’origine nessun
commento o spiegazione, e quindi ogni indicazione aggiuntiva era stata inserita dopo. Tra le aggiunte
segnate “L” in fin di voce e precedute dall’asterisco, abbiamo: “arrivare” nell’accezione di “arrivare ad una
certa età”, “attorniare” per “girare attorno”. Le giunte di Leopardi non sono state prese dal vocabolario del
Manuzzi e non sono state esaminate nella loro composizione, ma gli esempi sono stati tratti tutti dalla stessa
fonte, ovvero la Storia d’Italia di Guicciardini, della quale Leopardi condusse uno spoglio attento e
sistematico.
L’arricchimento dei dizionari della prima metà dell’800 è facile da verificare grazie alle stelline o agli
asterischi anteposti alle voci. Le giunte si possono verificare e sono tante, ma l’impianto lessicografico resta
legato alla tradizione. Ciò vale anche per altre realizzazioni lessicografiche della prima metà del XIX secolo,
per esempio il Dizionario della lingua italiana in 7 volumi di Francesco Cardinali, Francesco Orioli e
Paolo Costa, la cui pubblicazione iniziò a Bologna nel 1819: questo dizionario fu conosciuto come “il
dizionario di Bologna”. Il Dizionario della lingua italiana in 7 volumi di Luigi Carrer e Fortunato Federici,
uscito a Padova tra il 1827 e il 1830, è detto della “Minerva” dal nome della tipografia che lo stampò.
Questo vocabolario della “Minerva” si presenta come una proposta riveduta e corretta del dizionario di
Bologna, con nuove aggiunte. Sia il vocabolario di Bologna che quello di Padova dicono di aver integrato la
Crusca con le voci prese dall’Alberti di Villanova, dalla Proposta di Monti e dalla Crusca veronese di
Cesari.
La lessicografia italiana di quest’epoca mostra un’incapacità di rompere con il passato e trovare vie nuove.
Vi domina una certa monotonia, anche se compaiono le “giunte”. La tradizione pesa e manca l’originalità. Il
metodo che tutti seguono consiste nel sommare l’esistente, nell’accumulare le “giunte”. La somma delle
“giunte” è meccanica, non investe mai la struttura dell’opera lessicografica. Eppure vi era stato chi aveva
immaginato già nel 700 un vocabolario diverso. Saverio Bettinelli aveva provato a delineare il progetto di un
vocabolario in cui entrassero voci lombarde e anche voci di altre regioni, in nome della loro origine remota,
grecismi veneti, siciliani, pugliesi e calabresi, arabismi di Corsica, di Malta, della Sardegna, celtismi e
parole etrusche. Tutte queste componenti avrebbero dovuto comporre il vero dizionario universale italiano
che aveva poco a che fare con la vecchia Crusca, anche perché avrebbe dovuto collegarsi con dizionari locali
delle parlate milanese, bergamasca, genovese, veneziana, bolognese, napoletana. Questo programma non si
attuò, così come non ebbe alcun seguito la proposta di Cesarotti, il quale, in alcune pagine del Saggio sulla
filosofia delle lingue, delineò la fisionomia di un organo nuovo da sostituire alla Crusca, il Consiglio
nazionale della lingua o Consiglio Italico. La sede di quest’organo doveva essere Firenze, in omaggio al
primato linguistico della città. Cesarotti si preoccupava di definire i compiti della nuova istituzione che si
sarebbe occupata di studi etimologici e filologico – linguistici, ma soprattutto avrebbe rinnovato i criteri
lessicografici, prestando attenzione al lessico tecnico delle arti, dei mestieri, delle scienze (quello che fece
l’Alberti). Il riscontro del lessico mancante nel vocabolario sarebbe avvenuto non solo per via libresca, ma
anche ricorrendo a chi esercitava professioni specifiche, non solo in Toscana. Questa schedatura permetteva
di accogliere parole non toscane per colmare i vuoti; a questo punto ci sarebbe stata una scelta, la quale
veniva effettuata dal Consiglio Italico. Il patrimonio lessicale così ottenuto sarebbe stato confrontato con
quello presente nei vocabolari di altre nazioni: qui Cesarotti toccava il problema del prestito e del
forestierismo, affrontandolo in chiave di europeismo, visto che questo confronto avrebbe portato a
riscontrare una carenza nel lessico italiano o a legittimare il forestierismo tecnico già entrato nell’uso.
Compito finale del Consiglio era la compilazione del vocabolario, che avrebbe dovuto essere realizzato in 2
forme: un’edizione ampia e una ridotta, quest’ultima di uso comune, pratica e divulgativa. Il Saggio di
Cesarotti si chiudeva con un appello all’attività intellettuale, chiamando Firenze a farsi guida culturale
d’Italia, con il consenso delle altre regioni. L’appello non fu ascoltato.
I progetti più ambiziosi suggeriti da alcuni dei migliori ingegni del tempo caddero nel vuoto. La Crusca
pesava ancora per la sua autorità e per il lavoro che aveva speso nel campo della lessicografia e la sua forza
si convertiva nella debolezza dei vocabolaristi di altre regioni. Il mancato coraggio di lanciarsi in una
impresa nuova si può verificare attraverso la soluzione tipografica scelta per mettere in evidenza le giunte,
cioè l’unico elemento di innovazione a cui si facesse ricorso, in mancanza di un ripensamento strutturale: il
vocabolario della “Minerva”, quello del Manuzzi, quello di Bologna, contrassegnano con un asterisco o
stelletta tutte le voci non presenti nella Crusca, che possono essere identificate subito. Questa forma grafica
è comoda per valutare l’entità delle novità introdotte, ma allo stesso tempo dimostra la difficoltà
nell’amalgamare l’insieme: il vocabolario è composto a strati. La base è la vecchia Crusca, nella quarta
edizione. In essa trovano posto le voci nuove, prese da varie fonti, ciascuna con il proprio riferimento, che
funziona allo stesso tempo come un contrassegno di origine dichiarata.
Si valutino le prime 50 voci della sezione alfabetica B, da Babbaccio a Bacchettare del dizionario della
“Minerva”. Le 50 parole sono elencate nella colonna di sinistra. Alla loro destra ci sono, poste a confronto,
le voci del vocabolario del Manuzzi. Le voci hanno l’asterisco quando è presente nei vocabolari: l’asterisco
ci dice che sono aggiunte alla Crusca. Le voci asteriscate sono seguite entro parentesi da una lettera che
richiama la fonte del lemma, secondo le indicazioni fornite dai vocabolari presi a riferimento. Una delle
caratteristiche positive del metodo delle giunte, sta nella dichiarazione delle fonti, che è stata abbandonata
dalla lessicografia recente, la quale non dice come è stato raccolto il corpus delle voci. Oggi, queste
informazioni, non sono oggetto di trattazione esplicita. Nei vocabolari del primo 800, invece, l’esplicitezza
era massima: ogni lemma era riconducibile alla sua fonte. Il gran corpo lessicale restava quello della Crusca,
ma le aggiunte erano dichiarate tutte.
A sinistra sono elencate le voci dell’Alberti e a destra del Manuzzi, c’è il Cesari, che è precedente, ma
l’accostamento serve a mostrare meglio la concordanza dei lemmi.
La maggior parte delle giunte in entrambi i dizionari porta l’annotazione “A”: l’arricchimento si deve
soprattutto all’Alberti: su 50 voci esaminate nel campione relativo alla “Minerva”, 19 sono asteriscate; 13 di
esse sono prese dall’Alberti. Il 38% delle voci è nuovo e il 68% di questo 38% deriva dall’Alberti. Si
possono verificare quali sono le poche voci non presenti nella “Minerva”, pur essendo nell’Alberti. Esse
sono babà, A babboccio, Babboriveggoli, Babilonia, Baccaccio, Baccheo, Baccariverdeggiante. Per
quanto riguarda Babilonia, è esclusa perché è un nome proprio, pur con il significato metaforico di
“confusione” indicato dall’Alberti. Baccariverdeggiante è apax del Menzini, termine comico, che
appartiene di più allo stile individuale che alla lingua. A babboccio è nelle annotazioni del Biscioni al
Malmantile, e non ha attestazioni d’autore. Andare a babboriveggoli è proposto dall’Alberti senza esempi
d’autore. Baccheo è il termine usato da Boccaccio nella Teseida, omesso nella “Minerva”, ripreso dal
Manuzzi, indicando però una fonte diversa dall’Alberti. Il caso più interessante è quello di Baccaccio,
perché si tratta di un tecnicismo legato all’allevamento del baco e alla lavorazione della seta, privo di
attestazioni letterarie, eliminato sia dalla “Minerva” sia dal Manuzzi, benché si tratti di termine interessante,
utile e degno di registrazione.
L’Alberti conferma la sua ricchezza, la sua apertura enciclopedica e l’interesse per i tecnicismi. Nel
confronto con il Manuzzi, il dizionario della “Minerva” è più ricco di voci, perché la sua impostazione è
meno selettiva, anche se la disponibilità verso il nuovo è limitata, tant’è vero che nella prefazione i 2
curatori, Carrer e Federici, prendono le distanze dalle irrisioni alla Crusca veronese del Cesari.
Quanto all’Alberti, già ne avevano preso le distanze i curatori del dizionario di Bologna che ne criticavano
l’operato confrontandolo con quello del Cesari, collocando poi se stessi in una sorta di giusto mezzo tra la
licenza e la pignoleria, come si ricava dalla loro prefazione che elenca i difetti dell’Alberti troppo aperto e
del Cesari troppo severo: Cesari raccolse nella ristampa veronese molte voci usate da scrittori antichi e
tralasciate dagli Accademici della Crusca; l’Alberti arricchendo il suo Dizionario di molti vocaboli,
soprattutto con quelli delle arti e delle scienze, diede la cittadinanza alle voci e ai modi dei parlatori e
mescolò la lingua illustre a quella dei moderni plebei. Il Cesari ebbe in delizia alcuni arcaismi; registrando
diverse voci storpiate dal volgo, e diversi errori dei copisti, scomunicò molti vocaboli e modi compilati
dall’Alberti.
Se si confrontano i lemmi asteriscati e marcati “A”: essi sono di meno nel Manuzzi rispetto a quelli della
“Minerva”; alcune voci sono state eliminate, essendo reputate inutili o dannose. Questa sorte è toccata a
Babele, sia nel significato di “confusione”, sia nell’accezione dei “naturalisti”: qui non si tratta di
atteggiamento puristico, perché l’eliminazione può essere determinata dalla scelta di un impianto
lessicografico e non enciclopedico; sono cadute parole come Babbalà, Babbano. Averle in parte eliminate,
potrebbe essere scelta condivisibile: alla babbalà per “alla peggio” è espressione comica tratta dalle rime
del Fagiuoli, babbano per “sciocco” è parola che ha avuto poca fortuna, fino alla recente ripresa dovuta al
doppiaggio del film della serie dedicata a Harry Potter; babilonico è il tecnicismo specifico introdotto
dall’Alberti per indicare un orologio solare. L’intervento selettivo colpisce tecnicismi di circolazione non
troppo ampia. Non tutti i tecnicismi derivano dall’Alberti. Nella serie dei tecnicismi assenti nel Manuzzi, ma
accolti nella “Minerva” colpisce, tra quelli non dell’Alberti, il termine babordo che viene dalla marineria e
che pare molto utile e necessario: la “Minerva” lo accoglie attraverso il Vocabolario di marina dello
Stratico; alla stessa fonte lo attribuirà il dizionario della società napoletana Tramater.
Inoltre, il vocabolario della “Minerva” indica le fonti delle parole nuove che ha accolto con delle lettere:
oltre alla A dell’Alberti e alla S dello Stratico, abbiamo la V che indica la Crusca veronese del Cesari e
l’abbreviazione MIN che si riferisce alle giunte introdotte autonomamente dai curatori del dizionario della
“Minerva”.

2.2 “Supplimento” e “Lessicografia” del Gherardini


Nella prima metà dell’800, altri esperimenti lessicografici notevoli presero le mosse dalla Crusca, anche
distanziandosene in maniera critica. Ciò significa che la Crusca restava il punto di riferimento. Non è
diverso il caso del milanese Giovanni Gherardini. Fra il 1838 e il 1840 stampò due volumi di Voci e
maniere di dire italiane additate a’ futuri vocabolaristi, ricchi di osservazioni critiche verso la Crusca e
di riferimenti ad altri lessici stampati nella prima metà del secolo, come la Crusca veronese, il Manuzzi, i
vocabolari di Bologna e la “Minerva” di Padova. Il primo volume, di mille pagine, era dedicato alla sezione
alfabetica A, il secondo, più piccolo, alle sezioni alfabetiche B-Z. Evidente è lo squilibrio del progetto,
ampio per la prima lettera, ridotto a campione occasionale per le restanti, tanto da avere come esito un’opera
priva di sistematicità, per quanto ricca di spunti indicati ai futuri compilatori di vocabolari, come suggeriva
il titolo. L’intento era quello di prendere “la forma di dire” dagli autori antichi, sui quali il giudizio non era
troppo lontano da quello dei puristi: i trecentisti erano i veri padri della lingua, caratterizzati da eleganza
naturale, aria leggiadra, attraente evidenza, garbata disinvoltura. Gherardini era convinto anche che il
lessico, quello che definiva come composto dai nudi vocaboli, potesse essere accresciuto liberamente
seguendo le novità dei tempi. La distinzione ricorda quella di Cesarotti tra il “genio retorico” e “il genio
grammaticale” della lingua, il secondo non mutabile, il primo liberamente adattabile. Più tardi le Voci e
maniere furono rifuse nei 6 volumi del Supplimento a’ vocabolari italiani, l’opera maggiore di
Gherardini.
Nel 1843 aveva pubblicato una Lessicografia italiana, che non è un dizionario come gli altri, ma una guida,
attraverso voci messe in ordine alfabetico, alla grafia delle parole, con attenzione alle consonanti doppie o
scempie: la grafia di Crusca veniva affiancata a quella proposta dall’autore. Nella seconda metà del volume
trovavano posto una serie di note lessicali, con l’aspetto di comuni voci lessicografiche. Quanto al termine
lessigrafia, usato per il titolo, Gherardini lo spiegava così:
Lessigrafìa: sostantivo femminile. Maniera di scrivere, scrittura della parola, modo di scriverla, senza
considerare se sia corretta o meno; da LEXIS, Vocabolo, e GRAFEIN, Scrivere. Usa invece ORTOGRAFIA
per indicare la maniera di scrivere retta, regolata. La voce CACOGRAFIA invece per indicare la maniera di
scrivere viziosa, storta, sregolata.

2.3 Il napoletano Tramater


Tra il 1829 e il 1840 la società napoletana Tramater stampò un Vocabolario universale italiano, diretto
dall’abruzzese Raffaele Liberatore, la cui base era ancora la Crusca, ma rivista, pur con il metodo delle
aggiunte asteriscate. L’opera aveva un taglio enciclopedico e dava molta importanza alle voci tecniche di
scienze, lettere, arti e mestieri, nel solco dell’Alberti di Villanova. L’opera si segnala non solo per la mole e
per alcune caratteristiche che si avvicinano a quelle dell’enciclopedia (sono introdotti nomi propri e nomi
geografici), ma soprattutto mostra lo sforzo per superare le definizioni tradizionali, insufficienti nel settore
della zoologia e della botanica. I vocabolari del passato, infatti, facevano riferimento a conoscenze
presupposte: definivano il cane come “animal noto”. Già Alberti aveva mostrato fastidio per questo modo di
procedere, che gli sembrava una presa in giro ai danni degli utenti non toscani del Vocabolario della Crusca,
e che presupponeva conoscenze estranee al comune lettore. Nel 1820, quando meditavano sulle norme per la
quinta impressione del loro Vocabolario, anche gli Accademici della Crusca si erano decisi a stabilire la
regola che limitava il campo del “Vocabolario di nostra lingua” e che volevano tenere distinto da un
“dizionario di scienze”: per loro non doveva essere inserita la definizione “animale noto”, ma a queste cose
molto note si doveva aggiungere qualche caratteristica in modo da distinguerle dalle altre cose simili.
Nel Tramater, invece, la definizione zoologica o botanica, poggia su una precisa classificazione scientifica,
per il cane è la “specie di mammifero domestico appartenente all’ordine de’ carnivori e al genere dello
stesso nome, che ha sei denti incisori trilobati alla mascella superiore”. Queste definizioni erano innovative
per l’epoca e ciò lo si può verificare confrontandole con quelle del vocabolario del Manuzzi o della
“Minerva”. La definizione presente nel Manuzzi è: “Animale di cui si conoscono molte specie dai Filosofi
naturali. Comunemente chiamiamo Cane soltanto l’animale domestico dell’uomo 1[detto dal Linneo Canis
familiaris]. Anche la “Minerva” mostra un tentativo di rendere più scientifica la definizione con l’aggiunta
della denominazione di Linneo. L’Alberti lo definiva invece “Animal domestico, che abbaja, di cui sono
moltissime specie”.
Per valutare meglio la composizione dei lemmi del Tramater, si veda la selezione lessicale che avvia la
sezione alfabetica B. Il corrispondente volume del Tramater porta molte voci in più rispetto all’Alberti e alla
“Minerva”. Queste aggiunte si giustificano nella particolare impostazione di dizionario enciclopedico del
Tramater. Dopo Babbaccio, troviamo i seguenti lemmi, in più rispetto alla “Minerva”:
BABELZA * (G), nome geografico
BABENSKOI * (G), nome geografico
BABI * (Mit), nome mitologico
Questo elenco comprende solo le voci che non sono presenti nella “Minerva”, il quale è il vocabolario di
riferimento del Tramater, e tutte le voci aggiunte rispetto alla “Minerva”, sono segnalate con un asterisco
che si trova dopo il lemma. L’asterisco non serve a individuare gli incrementi rispetto alla Crusca. La
maggior parte delle aggiunte è di carattere enciclopedico, molto spesso geografico, a volte botanico e
zoologico.
La tavola delle fonti da cui il Tramater ha ricavato le sue giunte è basata su quella della “Minerva”, ma
incrementata: compaiono 42 titoli, e i 20 titoli aggiunti dai compilatori napoletani sono segnalati da
asterisco. All’inizio della sezione alfabetica B, a volte il richiamo è ad A, all’Alberti. Si tratta di voci che
l’Alberti aveva inserito e che la “Minerva” non aveva ritenuto opportuno mantenere, ma che qui vengono di
nuovo ristabilite. In questi 2 casi, di ristabilimento di voci dell’Alberti, è riportata la voce, che in entrambe le
occasioni è di contenuto tecnico, relativa a un termine della coltura del baco da seta (baccaccio) a un
termine della marineria per la pesca del baccalà (baccalaja). Nel Tramater vi è anche la divisione in sillabe.
L’interesse per le scienze, per le tecniche e l’enciclopedismo geografico arricchiscono questo vocabolario
che gode ancora oggi di buona fama tra gli specialisti. Ciò è merito della sua ricchezza e della mancanza di
censure puristiche. Un’altra caratteristica dichiarata nella prefazione è l’interesse per l’etimologia, anche se
poi non sempre le voci portano indicazioni di questo tipo. Nella prefazione si dichiara che i compilatori
hanno voluto prendere le distanze dalle etimologie fantastiche del passato come Ménage e si citano il
Ferrari, il Muratori, il Vossio, il Dieterich (per il greco), il Bailey e il Johnson (per l’inglese), il Gattel, il
Villoison, il Jauffret, il Lunier e il Boiste (per il francese). Il rigore dell’etimologia era ancora da
raggiungere, ma i riferimenti europei c’erano. Nella prefazione c’è anche un richiamo all’importanza della
sinonimia.
Il vocabolario della società Tramater riuscì il migliore disponibile sul mercato italiano, fino a quando non fu
superato dal Tommaseo – Bellini, che oscurò il destino di tutti i concorrenti. Sia la prima (1829 – 40), sia la

1
Aggiunta presente nella “Minerva”.
seconda (1845 – 56) edizione del Tramater si collocano vicino alle edizioni del vocabolario del Manuzzi,
quasi ad indicare la coesistenza di due diverse anime nella lessicografia italiana.
Il Tramater introdusse nel 7imo volume del 1840 la distinzione tra le sezioni alfabetiche U e V, rompendo
una tradizione antica e di Crusca che si era conservata nella “Minerva”, nel dizionario di Bologna, nel
Manuzzi. Non si trattava di una novità perché la distinzione è anche adottata dall’Alberti nell’edizione
milanese (1825) per iniziativa del curatore Antolini, e dal Gherardini (1838 – 40); la stessa soluzione grafica
era già in Bazzarini (1824 – 36), preceduto dal Romani (1826) e dal Tommaseo (1830), secondo la
preferenza manifestata fin dal 700 dal Dictionnaire de l’Académie française che servì da modello.
Notevole è il caso del Romani che introdusse la distinzione in una serie alfabetica nata come revisione
critica alla Crusca, tanto che l’autore sperava di poter inserire le proprie osservazioni nella serie di volumi
della Proposta di Monti, cosa che poi non avvenne. Non tutti si adeguarono subito: la tradizione italiana
pesò a lungo, se si pensa che il Cardinali, a metà secolo, ha un’unica sezione alfabetica per le 2 lettere.

3. DIZIONARI SPECIALISTICI E TECNICI PER UNA SOCIETÀ NUOVA

3.1 Una novità del Piemonte: il “Dizionario militare” del Grassi


Un altro settore della lessicografia che si sviluppò nel XIX secolo fu quello dei vocabolari specialistici. Si
deve ricordare il Dizionario militare di Giuseppe Grassi, la cui prima edizione porta la data 1817, anche se
forse il libro era già stampato alla fine dell’anno prima. Si tratta di un’opera che colmava una lacuna nella
lessicografia italiana. Il lessicografo mise il proprio sapere al servizio del genio guerresco, e la tradizione
lessicografica piemontese fu attenta ai linguaggi tecnici, il particolare quello tecnico. L’attenzione al dato
concreto sembra essere un tratto piemontese, sulla linea che collega l’Alberti di Villanova al Carena, tutti
lessicografi capaci di varcare la soglia di una bottega artigiana per cercare parole o per chiarirne il
significato, tutti disponibili ad accogliere lessico tecnico. La prefazione del Grassi (Ragione dell’opera)
contiene elementi di attualità, là dove loda la scelta del re di Sardegna Vittorio Emanuele I, il quale, tornato
nei suoi stati dopo la Restaurazione, aveva stabilito che gli ordini ai soldati fossero dati in italiano, non più
in francese. A questo proposito, si pensi all’influenza esercitata in Piemonte dal trattato di Galeani Napione
Dell’uso e dei pregi della lingua italiana dove l’italiano era considerato una difesa contro l’invadenza
francese e in cui si invitava la monarchia sabauda a usare l’italiano per restituire al Piemonte la sua vera
identità. Il dizionario del Grassi è influenzato da queste idee, con qualche venatura misogallica, di matrice
alfieriana. La riedizione torinese dell’Arrivabene porta una nota dell’editore che accenna al glorioso ritorno
dell’italiano in Piemonte, al momento della Restaurazione.
L’editore e prefatore mostrava di rendersi conto di quanta differenza passasse tra l’imparare una lingua dalla
viva voce e l’impararla dai libri. Quanto al Dizionario militare, esso si basa sulle voci di Crusca e degli
autori canonici, ma anche su di uno spoglio ampio degli scrittori italiani di cose militari, elencati in una
tavola alfabetica. Il Grassi ha tratto le voci dalla Crusca, ma anche dagli autori dalla Crusca non accolti, oltre
che dal dizionario dell’Alberti, e dichiara di aver accettato parole lombarde, in mancanza di una voce
corrispondente toscana.
I termini raccolti riguardano l’armamento, le macchine, l’artiglieria, le truppe antiche e moderne, le divise, i
cavalli, gli attrezzi da campo, usi, norme e abitudini (Baffi, Basetta, Amnistia). Entrano accanto alle voci
moderne dell’uso (a volte recenti, come i francesismi Ambulanza per “ospedale da campo”), voci obsolete e
letterarie. Ogni lemma è affiancato dal corrispondente francese. Alla fine è posto un elenco alfabetico delle
parole francesi, con il rinvio al lemma italiano. Le voci non portano citazioni di autori, se non occasionali e
limitate, non si soffermano su questioni storiche o etimologiche, e la forma è simile a quella del
Dictionnaire de l’Académie française, con definizioni ed esempi, ma senza il peso delle autorictates.
L’autore, nella prefazione, dice qual è stato il suo modo di procedere, in presenza di una difficoltà
dichiarata: la scienza militare italiana non era cosa recente perché gli italiani avevano raggiunto grandi
risultati in quel settore che in seguito trascurarono. Come dire che il settore della lingua militare registrava
nei tempi moderni una debolezza parallela alla debolezza politica della nazione.
Il Dizionario militare ebbe una riedizione postuma con aggiunte nel 1833, in 4 volumi, curata dagli amici
Omodei, Saluzzo, Gazzera e Carena. Questo dizionario non poteva non venire dal Piemonte, la piccola
nazione che più di tutte aveva coltivato la tradizione militare.

3.2 Economia, scienze applicate, amministrazione


Tra il 1857 e il 1861 a Torino vide la luce il Dizionario della economia politica e del commercio,
compilato dall’economista e avvocato ligure Gerolamo Boccardo, poi ampliato in 2 nuove edizioni. È un
libro di taglio enciclopedico, concepito come completamento del Trattato teorico pratico di economia
politica dello stesso autore. Per quanto riguarda la lingua, ostenta indifferenza a remore puristiche,
proponendo al lettore termini forestieri come docks, warrant. Nel 1881 vide la luce a Firenze il Dizionario
del linguaggio italiano storico ed amministrativo, anch’esso di un ligure, lo spezzino Giulio Rezasco,
un’opera non incentrata sulle fonti toscane, ma orientata comunque in senso antiquario, tanto che le parole
nuove venivano registrate sotto lemmi antichi (sotto Ratare, per esempio, Rezasco avvertiva il lettore
dell’esistenza di ratizare e rateare “dividere in rare”. Nel 1889 uscì a Roma il Vocabolario marino e
militare di Alberto Guglielmotti, un libro celebre perché molto usato da D’Annunzio che ne ricavò antiche e
preziose voci. I condizionamenti letterari sono forti anche nel Vocabolario di agricoltura di Eugenio
Canevazzi.
Queste opere ci riportano quasi tutte agli anni a ridosso o successivi all’Unità, quando fu maggiormente
avvertita la necessità di un lessico tecnico che rendesse la situazione italiana più simile a quella degli altri
paesi europei di più antica e salda tradizione politico – civile. Pesava sull’italiano l’ipoteca letteraria: la
nostra lingua aveva tutte le parole per la poesia, per il poema, per il melodramma, ma restava da dimostrare
la sua ricchezza e vitalità nei settori pratici, nelle tecniche applicate, nell’amministrazione. La tendenza dei
lessici tecnici a convalidare il repertorio attraverso esempi antichi e d’autore deriva da un complesso di
inferiorità di molti tra coloro che si occupavano di materie tecniche, i quali finivano per assumere un
atteggiamento ispirato al metodo lessicografico dei cruscanti. Proprio riferendosi al settore del lessico
burocratico e dell’economia, alcuni puristi intrapresero battaglie contro le voci barbare e corrotte, rendendo
ancora più tormentato il processo di adeguamento alla modernità.

3.3 Arti, mestieri e cose domestiche


La lingua italiana dimostrava di essere poco utilizzabile nel settore tecnico – pratico e familiare. A questi
problemi, a cui si era già dedicato l’Arrivabene, cercò di sopperire dalla prima metà del secolo un
lessicografo, Giacinto Carena la cui fama presso i posteri è ingiustamente legata quasi soltanto alla lettera
che gli era stata inviata da Manzoni. Il suo Prontuario di vocaboli attenenti a parecchie arti, ad alcuni
mestieri, a cose domestiche, e altre di uso comune; per saggio di un vocabolario metodico della lingua
italiana si compone di 2 parti: la prima è il Vocabolario domestico (1846), la seconda Il vocabolario
metodico d’arti e mestieri (1853). Carena non solo attinse a fonti libresche e lessicografiche, tra le quali
anche la Crusca veronesi di Cesari e il dizionario dell’Alberti, ma si preoccupò di verificare l’uso vivo
toscano, a Firenze e altrove; a S. Marcello (Pistoia) raccolse i termini relativi all’industria cartaria, sui monti
del Pistoiese quelli relativi alla tecnica dei carbonai, a Livorno quelli relativi alla fabbricazione delle corde, e
nel porto di questa città raccolse i termini di marineria. Nella sua opera vi era la documentazione della
lingua viva. Manzoni gli contrappose una concezione di vocabolario domestico sincronica, alla quale egli
non volle adeguarsi. Carena era convinto che i vocaboli non usati dagli artigiani di Firenze, ma documentati
da ottimi libri, potessero essere accolti come vivi e italiani. La prefazione al secondo volume del Prontuario
costituisce una risposta alle osservazioni rivoltegli da Manzoni dopo la pubblicazione del primo tomo.
L’opera di Carena inaugurò una stagione florida per la lessicografia metodica, che produsse una notevole
quantità di titoli: il Vocabolario domestico di Gianfrancesco Rambelli o il Nuovo vocabolario italiano
d’arti e mestieri di Ernesto Sergent che si rifece a Carena, in forma di plagio. In alcuni casi furono
presentati come vere proposte lessicografiche i testi che avevano una natura completamente diversa: i
dialoghetti pieni di fiori di lingua, come quelli proposti dal padre Bresciani con il titolo Saggio di alcune
voci toscane d’arti, mestieri e cose domestiche.

4. IL “DIZIONARIO” DI TOMMASEO E L’UNITÀ D’ITALIA

4.1 Un dizionario d’autore


Il Dizionario di Tommaseo ha mantenuto la sua validità come strumento di consultazione fino a tutto il 900.
In quel secolo è stato l’unico vocabolario storico disponibile dalla A alla Z, visto che il Battaglia non era
terminato e la quinta Crusca era stata interrotta alla lettera O. Nel 1977 è stato ristampato in anastatica in una
collana molto diffusa con una nota illustrativa che ne confermava la dimensione di vero nazionale
monumento. Quando Tommaseo pubblicò il vocabolario era un autore ben noto al pubblico, anche nel
campo della lessicografia, per i Sinonimi, che avevano segnato il suo esordio in questa attività; i Sinonimi
furono la prova iniziale del più illustre vocabolarista italiano dell’800, e che è rimasto famoso per la forte
personalità travasata nelle voci del dizionario, che non sono caratterizzate da fredda oggettività e distacco.
Bàrberi Squarotti ha parlato per questo vocabolario di un’avventurosità arrischiata che ne fa uno dei grandi
esempi di invenzione letteraria dell’800. La partecipazione umorale del Tommaseo nella compilazione del
Dizionario della lingua italiana è riconoscibile soprattutto nelle voci che agli occhi dell’autore assumono
particolare valore ideologico, religioso o politico. La “T” (lettera iniziale del cognome dell’autore) marca
con atteggiamento personalissimo i lemmi in cui lo scrittore non ha voluto usare l’impersonalità vera o
simulata di cui si servono solitamente i lessicografi. Ma anche 30 anni prima, nei Sinonimi, Tommaseo
aveva messo in luce la sua personalità, facendo uso delle voci lessicografiche, con un gusto polemico che
anticipava gli esiti successivi. Si devono scorrere le voci di maggior peso ideologico o politico, come quelle
dedicata alla distinzione tra Senato consulto, Decreto del Senato, Plebiscito:

Plebiscito: era una legge fatta dalla plebe e si diceva scitum o perché si pensava che la plebe sapesse quello
voleva o faceva, o per indicare che, fattole sapere quello che gli altri volevano, ella deliberando sembrava
dire che anche lei lo sapeva e voleva la stessa cosa. Questa voce riappare in Francia, il paese delle novità
vecchie.

Questo commento non si trova nelle edizioni del 1830,1838 e 1851 del dizionario: infatti l’annotazione sul
plebiscito è legata all’attualità politica, cioè all’uso di questo strumento da parte di Napoleone III che nel
dicembre del 1851 vi fece ricorso per legittimare il colpo di stato con cui aveva abolito l’Assemblea
legislativa, e nel 1852 lo usò di nuovo per diventare imperatore. 30 anni dopo nel Dizionario della lingua
italiana, la voce Plebiscito fu registrata con un commento ancora polemico, ma più pacato: “Voce rifatta
stor. Da Luigi Napoleone; e ravvivata in Italia per le solite imitazioni di Francia, come Arrangiare e
Frisore”. Un lessicografo di oggi eviterebbe di far entrare così pesantemente e liberamente l’attualità
politica nelle definizioni, esplicitando il giudizio. La divagazione e il commento, del resto, sono caratteristici
del dizionario dei sinonimi di Tommaseo, che in alcuni casi non sembra neanche discutere di sinonimi, ma
di parole simili, o appartenenti a una sfera semantica simile, come è anche il caso di Senato consulto,
Decreto del senato, Plebiscito. Beccaria ha osservato che il gusto delle considerazioni personali, delle
citazioni scherzose, ironiche o maliziose nelle voci lessicografiche era già presente nel Gherardini e poi fu
ripreso dal Fanfani. Senza dubbio nella tradizione italiana esisteva uno spazio per questo tipo di interventi,
tanto è vero che nel 700 il Gigli ne aveva abusato a proprio danno. Tuttavia al Tommaseo si deve
riconoscere una certa eccellenza in questi interventi. Il procedimento assume un significato speciale quando
viene applicato non più ai sinonimi, ma a un dizionario generale, in cui l’impersonalità dovrebbe risultare
maggiore. Lo stesso Gherardini sembra abbandonare o attenuare questi ingredienti nel passaggio a una
struttura di dizionario più tradizionale, rispetto alla forma lessicografica di Gherardini, quest’ultima basata
soprattutto sull’Osservazione aggiunta come commento vivace e discorsivo a voci di altri.

4.2 Un dizionario dal Piemonte, negli anni dell’Unità


Le grandi compilazioni lessicografiche dell’800, anche quelle che, come il Tramater, rispondono meglio alle
esigenze dei tempi con innesti tecnico – enciclopedici innovativi, non si avvicinano al Dizionario del
Tommaseo. Il salto di qualità è sostanziale, anche perché quest’opera non segue la traccia delle altre
precedenti, ma si caratterizza per l’originalità, legata alla singolare figura dell’autore. Un valido
collaboratore di Tommaseo fu Bernardo Bellini, professore di materie classiche che aveva una buona
esperienza lessicografica attraverso la revisione del Tramater, e aveva realizzato sempre per il Pomba un
vocabolario latino. Il sodalizio con l’editore si segnala anche per le sue implicazioni socioculturali: era
un’iniziativa concepita da un imprenditore editoriale moderno, al di fuori della lessicografia tradizionale,
lontano da Firenze, e anzi, in Piemonte, la cui marginalità geografica aveva avuto conseguenze particolari:
qui l’italiano era stato considerato un elemento estraneo, un bene da conquistare attraverso un lungo studio,
con la fatica di chi arriva alla lingua partendo da un dialetto molto diverso, condizionato dall’influenza della
cultura d’oltralpe. La marcia di avvicinamento verso la lingua italiana si era fatta in Piemonte più vicina e
sicura. Con la Restaurazione si manifestò una nuova sensibilità verso l’italiano, un desiderio di possedere
questa lingua come non si era mai visto prima. Il Piemonte diventò una fucina di opere lessicografiche, con i
dizionari di Giuseppe Grassi, quello militare e quello dei sinonimi, con la riedizione della Crusca di
Antonmaria Robiola, con il Prontuario di Carena. Queste opere non lasciavano prevedere che proprio
dall’editoria piemontese sarebbe stato prodotto il più importante vocabolario italiano del secolo, destinato a
restare insuperato ancora oggi, fondando una tradizione lessicografica torinese di prim’ordine.
Per realizzare l’opera Giuseppe Pomba si rivolse a Tommaseo, intellettuale non piemontese. Da anni
guardava a lui, fin da quando, nel 1833 – 35, si era dato da fare per allestire una edizione italiana di
un’enciclopedia ispirata all’Encyclopaedia Britannica e al Conversations – Lexicon tedesco. Una lettera
al Tommaseo del 2 maggio 1835 parla di quest’opera con il titolo di Dizionario della conversazione,
modellato con un calco sul titolo tedesco. Oltre che a rivolgersi al Tommaseo, Pomba si era dato da fare per
ottenere la collaborazione di intellettuali come Pietro Giordani, Giacomo Leopardi, Giovan Battista
Niccolini. La collaborazione con il Tommaseo venne più tardi con il soggiorno torinese del Tommaseo,
quando maturò il progetto del Dizionario, diverso da quello di un’enciclopedia. Il Dizionario italiano fu
l’opera finale della carriera di Pomba imprenditore della tipografia. Venne quando il suo potere, nella
gestione delle società, si andava indebolendo. Abbiamo a disposizione un documento che mostra il lavoro di
preparazione e gli intenti dell’editore e dell’autore: le norme indicate dal Tommaseo per la compilazione e
un promemoria indirizzato dal Pomba al Tommaseo e ai suoi collaboratori, datato maggio 1857. È un
documento raro perché non resta molto a documentazione dell’attività lessicografica del Tommaseo, dopo la
distruzione degli archivi della Utet durante la guerra, con la perdita di ciò che poteva esservi depositato.
Esso tocca la questione della terminologia tecnico – scientifica.
Sulla presenza del linguaggio scientifico nel vocabolario, l’editore era forse più interessato e sollecito di
Tommaseo. Quale fu l’esito finale? Secondo Folena la registrazione dei neologismi tecnico – scientifici, è
moderata in un’opera che, come quella di Tommaseo, voleva reagire all’enciclopedismo, distinguendosi dal
Tramater. Infatti Pomba avvertiva gli scienziati e i lettori che questo non doveva essere un Dizionario
comprendente ciascuna scienza, arte e mestiere; vi devono essere inserite le voci e i modi che sono passati
negli usi comuni del vivere sociale.
La responsabilità che sentiva l’editore per l’operazione compiuta si può verificare attraverso la
presentazione dell’operazione, firmata dal successore di Giuseppe Pomba, Luigi. Essa è datata “Torino, 15
giugno 1861”: la data è sotto una frase in epigrafe ricavata dal trattato Dell’uso e dei pregi della lingua
italiana di Galeani Napione. Il vocabolario era andato avanti nonostante le difficoltà, tra tempeste fra
Tommaseo e gli editori, e fra Tommaseo e Bernardo Bellini, principale collaboratore all’impresa. Massimo
Fanfani ne ha riassunto i caratteri positivi e la forza innovativa: un dizionario in cui si sarebbero
compenetrate tradizione letteraria e lingua delle scienze, voci vive del toscano e risorse provenienti da tutti i
dialetti; in cui gli esempi della lingua scritta dovevano accostarsi a quelli del parlato e i diritti dell’uso
conciliarsi con i diritti della ragione. Un’opera che si annunciava pervasa da una profonda concezione
filosofica e religiosa della vita di una lingua, secondo quanto Tommaseo aveva già indicato nel 1841 nella
Nuova proposta di correzioni e di giunte al dizionario italiano, dovendo essa possedere fondamenta
appoggiate ad un retto sistema ideologico.
L’opera nasceva all’insegna dei tempi nuovi, sotto l’auspicio dell’unità politica raggiunta: i primi fogli erano
già pronti nel 1858 – 59, ma la pubblicazione era stata momentaneamente interrotta per la guerra
d’indipendenza, giacché alcuni collaboratori erano venuti a mancare, essendosi arruolati nell’esercito. I
fascicoli iniziarono ad uscire nel 1861, e Bruni ci informa dell’esistenza di un esemplare a dispense non
rilegate, quasi completo, che si conserva nella Biblioteca del Dipartimento di Italianistica e filologia
romanza dell’Università Ca’ Foscari di Venezia. Il 1861 per il battesimo della stampa: assieme all’unità
politica italiana nasceva il Dizionario della lingua. Esso veniva proposto al pubblico con l’avviso che la
lingua deve essere, ora ancora di più, studiata, capita e fatta cosa propria. La conquista dell’italiano
compiuta dal ceto intellettuale del Piemonte era indicata come una necessità e un dovere per il pubblico
italiano. È giusto parlare del vocabolario di Tommaseo, ma esso è anche il vocabolario di Giuseppe e Luigi
Pomba. E l’editore nella presentazione si preoccupava di richiamare i principi fondamentali a cui il
vocabolario si era ispirato fin dal 1858, a suo tempo esposti nel programma annunciato al pubblico.
L’editore è fiero della strada seguita, diversa da quella della Crusca, e usa un linguaggio nutrito di scienza
positiva, di fisiologia applicata alla lessicografia.

4.3 Giudizi espliciti e firmati


Tommaseo, che forse era meno interessato alla scienza e alla tecnica, si preoccupò di illustrare attraverso il
dizionario le idee morali, civili e letterarie, ed infatti molti termini politici e civili entrano per la prima volta
in un vocabolario italiano. In questo settore sono molto presenti le “T.” con cui Tommaseo firmò le proprie
voci. Tra queste, Comunismo, che compare per la prima volta in un lessico italiano (ma bollato con una
doppia croce), così come Positivismo, con una definizione umorale, non oggettiva. La grande lessicografia
del passato non era ancora condizionata come avviene oggi, dalla ricerca di una neutralità. Uno dei punti di
forza del nuovo vocabolario era, oltre alla sua mole e all’abbondanza di lemmi, la strutturazione delle voci.
Il criterio seguito non privilegiava il significato più antico e etimologico, ma l’ordine delle idee, seguendo
un criterio logico, a partire dal significato più comune e universale, ordinando gerarchicamente gli eventuali
significati diversi di una parola, individuati da numeri progressivi, e adottando il criterio dell’uso moderno,
pur documentando attraverso esempi tratti dagli scrittori delle varie epoche, l’uso del passato. Il criterio
dell’uso moderno veniva temperato dalla documentazione dell’uso antico. Proprio per la sua capacità di
coniugare il criterio della sincronia con quello della diacronia, quello di Tommaseo fu il primo vocabolario
storico della nostra lingua.
La soggettività di Tommaseo si esprime anche in una sede oggettiva, come il vocabolario. Sotto la voce
Comunismo egli inserisce il suo dissenso, così come sotto Socialismo (bollata da due croci). Sotto
Federale Tommaseo ha lanciato una freccia contro Bismarck. Celebre la faziosità contro Leopardi
dimostrata nel compilare la voce Procombere (bollata con due croci che individuano le parole da evitare):
dice che lo usa un verseggiatore moderno che voleva morire per la patria. Non essendo stato bravo neanche
a sostenere i dolori, la bravata sembrava essere solo segno di pedanteria. I giudizi su scrittori come Monti,
Foscolo, Leopardi, Manzoni si possono rintracciare anche nel lavoro lessicografico, che per questo acquista
vitalità, anche se non consueta nella realizzazione di opere di consultazione. Tommaseo riversò nel suo
vocabolario il senso della lingua grazie a letture estesissime, a schedature larghissime e vi aggiunse anche i
propri giudizi e opinioni. Nella storia della lessicografia italiana, forse proprio per questo motivo, il suo
vocabolario è quello che concilia meglio la dimensione del tempo presente e quello della durata, la quale noi
posteri possiamo verificare attraverso una constatazione: ancora oggi, spesso, è utile ricorrere al dizionario
di Tommaseo, magari nella versione elettronica, allestita dalla casa editrice Zanichelli.
Chi ha esaminato il dizionario di Tommaseo ha dovuto prendere atto della grande ricchezza di accezioni che
lo caratterizza: ogni lemma ha diverse scansioni, segnate da un numero: chiedere ha 25 accezioni, correre
ne ha 106, dare 252, dire 109, discordare 11, divertire 10, dividere 34, mettere 127, morire 53,
mormorare 9, pregare 11, togliere 32.
Nelle voci compare un numero arabo che indica le divisioni di maggior rilievo fra i diversi gruppi di
accezioni, anche se il modo di procedere trova un limite nella tendenza ad una eccessiva frammentarietà
analitica, dovuta alla minuzia e all’analisi.

4.4 L’edizione elettronica alla prova


A proposito dell’edizione elettronica del Dizionario di Tommaseo, essa presenta il vantaggio di rendere il
materiale adatto ad una consultazione rinnovata. Si consideri nel dizionario di Tommaseo una voce moderna
come Locomotiva, sostantivo femminili appartenente al settore del lessico tecnico. La parola Locomotiva
c’è nel dizionario, anche se non è stata posta a lemma: può essere facilmente rintracciata anche senza la
consultazione elettronica, se si pensa alle sue origini etimologiche. Infatti la locomotiva è posta sotto
l’aggettivo locomotivo nel significato di “atto a muovere”.
Questa voce però farebbe buon gioco a coloro che volessero esercitare la loro critica su un dizionario di
impianto molto letterario, che si presuppone non troppo aperto verso i termini della scienza e della tecnica.
Per averne la conferma, basta prendere atto che la macchina locomotiva, cioè la moderna locomotiva a
vapore, è condannata con le due croci, che contrassegnano quello che gli autori del dizionario giudicavano il
forestierume o la barbarie. Il nome di questa macchina si era diffuso attorno al 1830: al tempo del dizionario
di Tommaseo avrebbe dovuto essere ormai affermato.
La parola si era diffusa a partire da un anglismo e da un francesismo, e per questo era mal vista dai puristi o
dai letterati che combattevano le novità del secolo. Il giudizio sul vocabolario conferma una certa
indifferenza verso la tecnica e la meccanica. Eppure il giudizio può essere in parte corretto. Infatti la
consultazione dell’edizione elettronica ci mette sull’avviso: la locomotiva, intesa in senso positivo, senza
condanne puristiche, nel dizionario di Tommaseo, sta nascosta dove non sarebbe facile trovarla. Infatti i
motori di ricerca trovano non solo le parole a lemma, ma anche le parole in posizione defilata, all’interno
delle voci (ricerca a tutto testo). Bisogna andare alla voce Accoppiato per trovare una diversa accoglienza
della novità tecnica. Qui non si mettono doppie croci: anzi, vengono lodate le belle locomotive Piemontesi
di nuovo modello, se ne descrivono le caratteristiche. È vero che non si tratta di una voce firmata da
Tommaseo. Non compare la “T.” che individua l’autore principale del dizionario. La firma del compilatore è
quella del colonnello Pietro Conti. Senza l’edizione elettronica sarebbe stato più difficile mostrare nel
vocabolario “letterato” la presenza della locomotiva tecnicamente evoluta, nascosta nelle pieghe della voce
Accoppiato. La lettura elettronica di un antico dizionario lo ripropone come oggetto nuovo.

4.5 Le sorprese della scienza (qualche voce d’astronomia)


È poi così vero che il vocabolario di Tommaseo sia estraneo a ogni interesse scientifico e che il grande
letterato, curatore e ideatore dell’opera, sia il responsabile di questa impostazione? Una serie di voci, per
esempio Micrometria, sembrano contraddire questa tesi. Inoltre, le voci di interesse astronomico possono
offrire sorprese. Si consideri, per esempio, Nebuloso, dove ricorre l’accezione delle “nebulose” come le
intendono gli astronomi. Il generale Conti propone l’esempio del passo di Galilei, ma le giunte di
Tommaseo, regolarmente firmate “T.” propongono degli esempi senza riferimento ad autori, tecnicamente
impeccabili, relativamente alle caratteristiche delle nebulose non risolvibili in stelle in quanto di natura
gassosa o a emissione. Proprio Tommaseo ci informa che esistono nebulose di questo tipo. Egli si rese conto
che senza questa aggiunta la voce risultava imperfetta, e infatti in questo modo la voce è più precisa e
aggiornata rispetto a quella del Tramater che, grazie al suo carattere enciclopedico e grazie all’impostazione
datagli dagli autori, era stato attento alla tecnica e alla scienza più di qualsiasi altro vocabolario italiano,
proseguendo la linea inaugurata dall’Alberti. È firmata da Tommaseo la giunta relativa alla funzione del
moderno osservatorio astronomico, che non ha riscontro nel Tramater.
Sua è sempre la precisazione sulle caratteristiche dei telescopi rifrattori acromatici, in cui il sistema di lenti
corregge le aberrazioni, anche questa inesistente nel Tramater.
Sua è l’annotazione relativa alla scoperta di Cerere, nel 1801, da parte dell’astronomo Piazzi, direttore della
Specola di Palermo. Tommaseo questa volta riprende la notizia dal Tramater e forse in quest’ultimo la
giunta era anche dovuta al fatto che la redazione era napoletana, quindi attenta agli eventi del Regno delle
due Sicilie. Tommaseo registra in maniera più completa il procedimento di nominazione di Cerere,
richiamando (ciò che il Tramater non aveva fatto) il precedente di Galileo e dei pianeti Medicei.
Si potrebbe obiettare che in realtà Cerere, scoperto dal Piazzi, non era un pianeta ma un asteroide, e che il
termine asteroide esisteva già, trattandosi di un anglismo di origine greca, attestato in italiano fin dal 1829,
quando il termine fu registrato nel Tramater. In effetti la designazione all’inizio oscillò, prima che pianeta
cadesse completamente; ma il dizionario di Tommaseo, pur avendo usato pianeta sotto la voce
Ferdinandeo, registrava anche asteroide, così definito sulla scorta del Tramater.
Tuttavia l’esempio più sorprendente per dimostrare l’aggiornamento scientifico del dizionario di Tommaseo,
è fornito dalla voce Spettro, dove trovano posto le ricerche avanzatissime condotte da Angelo Secchi, uno
degli anticipatori dell’astrofisica. In questo caso i vocabolari precedenti come il Tramater, non aiutavano il
Tommaseo perché il Secchi aveva svolto le sue ricerche presso l’Osservatorio del Collegio Romano,
arrivando a una prima classificazione degli spettri stellari, tra il 1863 e il 1868. L’analisi spettrale non solo
permette di classificare le stelle, ma soprattutto ci informa sui componenti chimici di oggetti celesti che non
saranno mai raggiungibili dall’uomo, cioè permette di conoscere la natura di luci distanti e altrimenti
irragiungibili. Alcune delle registrazioni del vocabolario su questa materia sono di Giovanni Meini, ma le
ultime, tra cui quella sull’analisi dello spettro sono firmate con la “T.” di Tommaseo.
Almeno per quanto riguarda il linguaggio tecnico dell’astronomia non si può sostenere che il dizionario di
Tommaseo fosse arretrato. Lo stesso curatore Niccolò Tommaseo, almeno in questo caso e in questo settore,
è pronto ad aggiornare il dizionario alle più recenti ricerche, mostrando di apprezzarle. Prova ne è il fatto
che alla voce Spettroscopio, il Tommaseo, firmandosi con la “T.” dice che “lo spettroscopio è quasi un
senso nuovo aggiunto alla scienza astronomica”. Ma ciò non sappiamo quanto sia noto agli studiosi di oggi,
letterati e non, ma soprattutto di ieri, anche quelli che magari passano per i più concreti e scientifici e forse
irridono Tommaseo.
5. IL MODELLO MANZONIANO E LA SCOPERTA DEL PARLATO

5.1 I vocabolari nella “Relazione” del 1868


Nel 1868 si discusse su di un testo che rinnovava la questione della lingua accentuandone il significato
sociale e nazionale: la relazione Dell’unità della lingua e dei mezzi di diffonderla, resa pubblica da
Manzoni e dai suoi collaboratori Bonghi e Carcano, ma dovuta solo a Manzoni, che le affidò la versione
finale e operativa delle proprie tesi linguistiche. Manzoni, Bonghi e Carcano costituivano il gruppo della
sottocommissione milanese, all’interno di una Commissione più ampia, che si sdoppiava nel ramo milanese
e in quello fiorentino, nominata dal ministro dell’Istruzione Broglio, la quale doveva formulare suggerimenti
atti a rendere più universale in tutti gli ordini del popolo la notizia della buona lingua e della buona
pronuncia. La Relazione di Manzoni si concludeva con una proposta interessante in sede di storia della
lessicografia italiana: la proposta di un vocabolario diverso da quelli realizzati fino a quel momento in Italia.
Manzoni voleva infatti separare le due funzioni che si erano sovrapposte e confuse nei nostri dizionari, i
quali talora avevano pure lasciato trasparire l’uso vivente, ma sempre mantenendo fermo l’obiettivo
primario, ossia la documentazione degli scrittori del passato. Questa seconda finalità doveva essere rinviata
a lessici appositi, di tipo storico, mentre lo scopo principali doveva essere la documentazione dell’uso vivo,
che secondo lui era quello di Firenze.
Un altro obiettivo indicato nella Relazione del 1868 si legava a realizzazioni lessicografiche regionali: si
dovevano realizzare dei vocabolari dei dialetti i quali dovevano suggerire l’esatto equivalente fiorentino. Il
vocabolario veniva indicato in varie forme, come strumento primario per intervenire sulla realtà linguistica
nazionale. Manzoni prendeva le mosse dalla sua esperienza, dove la consultazione era stata lunga e continua,
spesso frustata dal carattere conservatore dei dizionari italiani. Manzoni aveva usato la Crusca veronese del
Cesari e il dizionario dialettale milanese del Cherubini, ma comunque preferì il dizionario dell’Académie
française, il quale era così come l’avrebbe voluto Manzoni. Si capisce perché Manzoni volesse assumere
come modello quest’ultimo per riformare la lessicografia italiana. La Crusca, per contro, era stata lo
strumento più deludente a cui si era accostato, come testimoniano le postille apposte dallo scrittore ai tomi
dell’esemplare che ha lui dell’edizione veronese del Cesari. Oggi questo è conservato nella Biblioteca
milanese di Brera. Molte di quelle annotazioni manoscritte, edite da Isella, mostrano l’insoddisfazione di
chi, letta la definizione, ponderati i rinvii agli scrittori, restava comunque in dubbio sull’effettiva vitalità
della parola, e infatti nell’impossibilità di distinguere se il termine fosse un relitto del passato o fosse ancora
usato dai parlanti.

5.2 Il problema dell’uso e le postille di Manzoni alla Crusca veronese


Manzoni possedette un esemplare della Crusca veronese e usò questo strumento per delle verifiche, con esiti
così disastrosi da convincersi della necessità di rifondare la lessicografia italiana, sul modello francese. La
differenza tra i due diversi impianti lessicografici si riconosceva in questo: il vocabolario italiano era basato
sulla citazione di scrittori assunti come autorità; il vocabolario francese, invece, non citava gli scrittori, ma
forniva parole e frasi della lingua d’uso, basandosi sull’autorità dei lessicografi, i quali si riferivano al bon
usage, ossia al buon uso degli ambienti più eleganti di Parigi. La Crusca non avvertiva il lettore
dell’effettiva vitalità del materiale lessicale registrato: per vitalità si intende la reale circolazione di parole ed
espressioni. I lessicografi italiani avrebbero avuto difficoltà nello stabilire quale fosse questo “buon uso”
perché da noi non esisteva una capitale dotata di prestigio indiscusso, centro della vita politica e culturale
della nazione. Nelle colonne dei lessici italiani antico e moderno si mescolavano. Vocabolari del genere
potevano andar bene per leggere gli autori e per fare studi filologici, ma erano utili e a volte dannosi per
guidare un parlante nella conversazione quotidiana.
Si può citare un esempio messo in luce da una delle postille di Manzoni. La Crusca registrava fare l’amore
con una citazione riferita all’incontro fra due santi: in questo incontro, Sant’Ambrogio aveva fatto l’amore
a sant’Eugenio. Il significato, come diceva la Crusca, era quello casto di fare buone accoglienze. La Crusca
non aggiungeva altro. Manzoni affiancò, nella postilla, il suo commento risentito, rilevando l’equivoco
ridicolo che il vocabolario rischiava di provocare.
Manzoni si stupiva che la Crusca non avesse pensato al significato più comune dell’espressione fare
l’amore.
Manzoni aveva consultato a lungo anche il vocabolario milanese del Cherubini, alla ricerca delle parole
italiane corrispondenti a quelle del suo dialetto natio: gli idiomi in cui si muoveva erano la favella della sua
città e la lingua di Parigi. La conquista manzoniana della lingua è emblematica del cammino di un
periferico, il quale, alla fine, scelto l’idioma di Firenze, tagliò con la tradizione aulica e letteraria che aveva
pesato negativamente sulla popolarità dell’italiano. Fu una scelta così radicale da suscitare la diffidenza di
coloro che avevano fatto appello al concetto di uso, come Tommaseo.

5.3 Il Giorgini – Broglio


Manzoni non vide il compimento del vocabolario che aveva proposto: quando morì, nel 1873, si era avviata
la pubblicazione del Novo vocabolario della lingua italiana secondo l’uso di Firenze, il cosiddetto
“Giorgini – Broglio”, dal nome dei due manzoniani che accollarono il lavoro. Esiste ora la ristampa
anastatica moderna dell’opera, con l’introduzione di Ghino Ghinassi. Giorgini era il genero di Manzoni,
Broglio era il ministro che aveva nominato la commissione del 1868. Il vocabolario, la cui realizzazione si
protrasse per molto tempo, diede lo spunto alla requisitoria di Graziadio Isaia Ascoli contro la soluzione
fiorentina alla questione della lingua.
Nonostante lo scarso successo, a questo vocabolario viene riconosciuta una capacità di rinnovamento. Per
rendersene conto si può confrontare con il Vocabolario della Crusca. Vennero eliminate le voci arcaiche,
come si può verificare attraverso un confronto con l’ultima edizione del vocabolario di Firenze, e la
limitazione del lemmario al lessico dell’uso vivo, più o meno comune: scompaiono, per esempio,
Ambasciare, Ambasciatorio, Ambassi -o, Ambi -o, Ambiare e derivati (ma resta Ambio). Queste voci
sono presenti nel Tommaseo – Bellini, seppur in parte bollate con croci o avvisi che segnalano la loro
arcaicità.
Può essere utile confrontare una stessa voce nei due vocabolari, la Crusca e il Giorgini – Broglio. Prendiamo
la voce Refe. Nella terza Crusca, a differenza dei dizionari moderni, non ci sono indicazioni grammaticali e
l’etimologia. Dopo la definizione ci sono gli esempi d’autore e un’espressione proverbiale, cucire a refe
doppio.
La definizione che segue il lemma è accurata e precisa. Gli esempi sono presi da testi antichi non sempre di
grande peso. Tra i citati compare anche Boccaccio, assieme a minori, minimi anonimi: si citano una vita di
San Giovanni Battista e un volgarizzamento di Vegezio. La tavola degli autori citati avverte che la vita di
San Giovambatista è un anonimo testo a penna di Pier Del Nero, cioè un manoscritto di proprietà privata. La
voce del dizionario secentesco era arrivata con poche modifiche fino al XIX secolo. Il Manuzzi aggiunge un
esempio del Cecchi nell’espressione proverbiale “cucire a refe doppio”.
Per quanto riguarda la voce corrispondente del Giorgini – Broglio, non ci sono citazioni di scrittori. La
definizione è data in forma più semplice rispetto alla Crusca. I sintagmi e le forme idiomatiche non sono
fondati sull’autorità di testi reputati canonici, ma sull’uso, con esempi anonimi forniti dai compilatori. Le
espressioni idiomatiche e proverbiali inserite sono tante, ma tra esse, manca il significato antico di “cucire a
refe doppio” nel senso di “ingannare qualcuno”, registrato a suo tempo dalla Crusca e poi ripreso da tutti i
lessici italiani. Il significato registrato qui per l’espressione cucire a refe doppio è diverso: “fare qualche
cosa con alacrità”, secondo l’uso vivo toscano del tempo. Tra i toscanismi fonetici presenti nella voce del
Giorgini – Broglio si deve osservare la forma monottongata toscana “omo” al posto di “uomo”, e il caso
simile di “vol” per “vuol”. A queste forme monottongate si oppose l’Ascoli nel Proemio all’Archivio
glottologico italiano. Ascoli diceva di reputare l’imposizione di forme toscanissime.
Si può estendere il confronto al dizionario di Tommaseo, dove la definizione che segue il lemma è analoga a
quella della Crusca, ma la ricchezza della voce è maggiore. Non è eliminata l’espressione cucire a refe
doppio nel senso di “ingannare qualcuno”: Tommaseo segue la Crusca, ma nella direzione di un dizionario
storico, capace di documentare l’uso di una parola nel corso del tempo. Tuttavia, una giunta di Tommaseo
(contrassegnata dalla famosa “T.”), seguita da un’altra di Giovanni Meini, mette a confronto il modo di dire
suggerito dalla Crusca a suo tempo e la forma introdotta ex novo dal Giorgini – Broglio sulla base dell’uso
toscano.
Ascoli usò nell’incipit del suo Proemio all’ “Archivio glottologico italiano” il titolo del Giorgini – Broglio,
Novo vocabolario della lingua italiana secondo l’uso di Firenze, mettendo sotto accusa il Nòvo alla
fiorentina con l’abolizione del dittongo, il quale era molto affermato nella lingua italiana in tutte le regioni
della penisola. Fin dal titolo, secondo Ascoli, il Novo vocabolario denunciava il suo provincialismo. Questo
giudizio pesò negativamente su un dizionario al quale spetta un posto importante nella storia della
lessicografia italiana, il quale gli è stato riassegnato durante una revisione critica recente. L’esame
dell’articolazione delle voci, pesando la capacità di analizzare i significati, ha rilevato un certo vantaggio del
Giorgini – Broglio rispetto al Tommaseo e alla quinta Crusca. Ogni rivalutazione non può prescindere dai
dati oggettivi: il Giorgini – Broglio non arrivò mai ad un largo pubblico, anche per la concorrenza di altre
iniziative lessicografiche che si collocavano in una posizione non troppo diversa, come il Vocabolario della
lingua parlata di Rigutini – Fanfani (1875) e il Nòvo dizionàrio universale della lingua italiana del
pistoiese Policarpo Petrocchi (1887 – 91). Petrocchi realizzò un compromesso tra l’impostazione nuova e
quella tradizionale perché divise la pagina in 2 fasce sovrapposte, relegando nella fascia bassa il lessico
arcaico che secondo l’impostazione manzoniana doveva essere eliminato.
Il Giorgini – Broglio, anche per scarsa iniziativa degli editori, dopo che fu portato a termine, scomparve
quasi del tutto dalla circolazione e rimase confinato in uno stato di semiclandestinità, dal quale oggi sarebbe
giusto tirarlo fuori. Il Giorgini – Broglio fu un esperimento pioneristico di lessicografia a orientamento
sincronico, in una tradizione come quella italiana in cui l’orientamento diacronico tendeva ad essere
prevalente. Anzi, la visione sincronica della lingua che lo ispira è la novità che meglio lo caratterizza.

6. REPERTORI PURISTICI: IL VOCABOLARIO CHE PROSCRIVE

6.1 Parole da cacciar via


Fin dall’inizio del XIX secolo, ereditando una tendenza già serpeggiante nella cultura del 700, si diffuse il
gusto per la raccolta delle voci da proscrivere per realizzare uno strumento di consultazione opposto al
vocabolario comune: il vocabolario raccoglie e definisce le parole degne di essere usate o usate dagli
scrittori del passato; repertori di voci da proscrivere, invece, si presentano come un ammasso di parole da
evitare. Nel 1812 il primo vero dizionario puristico era stato compilato da Giuseppe Bernardoni, capo
divisione del ministero dell’Interno nel Regno Italico, su sollecitazione dello stesso ministro. Nell’elenco di
Bernardoni che comprende neologismi di ambito burocratico, non tutte le parole sono però raccolte per
essere proscritte: in alcuni casi, infatti, si ammette la legittimità dell’uso generale. Gherardini replicò al
Bernardoni con un opuscolo anonimo, mostrando che molte voci avevano esempi d’autore e altre erano state
ricavate per derivazione e analogia; infine Gherardini richiamava la necessità di non esagerare con le
minuzie linguistiche, visto che gli impiegati pubblici avevano di meglio da fare che innervosirsi sui lessici e
gli elenchi: i due lavori, quello del Bernardoni e del Gherardini, sono paradigmatici per i simili lavori
successivi. Al Bernardoni si rifanno coloro che vogliono condannare i neologismi che dilagano nell’italiano
del XIX secolo, al Gherardini si rifarà una schiera di studiosi che rivendicheranno alla tradizione linguistica
e letteraria italiana molti dei neologismi condannati dai puristi.
Nel corso del secolo i lessici di parole evitande si moltiplicarono ed ebbero un grande successo editoriale.
Ricordiamo Lissoni che nel suo libro si definiva “ufficiale di cavalleria congedato”. Zolli ha fatto notare che
molte parole dell’elenco del Lissoni erano già in quello del Bernardoni, come abbonamento,
accapparamento e che molte parole difese dal Gherardini furono qui di nuovo condannate: è il caso di
bancarotta che Gherardini aveva giustificato in base alla presenza nel Codice dei delitti e delle pene del
1810, e che Lissoni reputava errore, da sostituire con fallimento.
Una trattazione ampia dei trattati ottocenteschi di parole da proscrivere si trova in Zolli che ha anche
studiato le parole di origine dialettale presenti in questi lessici, termini come prestinaio, ovvero fornaio. La
serie anonima del Catalogo di spropositi di Marc’Antonio Parenti iniziò ad uscire nel 1939, poi Valeriani
(1854), Ugolini (1855), Rodinò (1858 e 1994), che fu allievo di Basilio Puoti e Rosiello (1958) e poi il libro
milanese delle sorelle Errera. Di tutti il più famoso è forse il repertorio di Fanfani – Arlìa (1877), che nella
seconda edizione divenne il Lessico dell’infima e corrotta italianità. Molta fortuna ebbe Rigutini. Alcune
di queste opere escono dall’ambito lessicografico ed entrano in quello della pedagogia linguistica e
dell’educazione popolare. Anche Tommaseo produsse un libro simile, seppur più garbato e cauto di altri
simili, in cui si prendono le distanze dai puristi, senza rinunciare però a un giudizio sulla lingua grossolana e
imbarbarita dell’amministrazione, del commercio, delle officine, dei giornali e della politica, settori dove i
neologismi più oscuri dilagano. Tommaseo si preoccupò di avvertire i lettori del fatto che le sue sono
proposte e non norme.
L’atteggiamento di Tommaseo era diverso da quello dei puristi. Anche le parole analizzate sono diverse da
quelle che i repertori si passavano. La scelta dello scrittore sembra dettata dalla sua sensibilità,
dall’osservazione diretta e dalla lunga esperienza. Ciò non toglie che l’indicazione alternativa proposta non
abbia avuto successo e la parola accusata o osservata abbia finito per trionfare nell’italiano moderno: a tal
proposito, sfogliando i primi termini presenti nel dizionario, si nota la condanna del prestito dal francese
abrégé, o quella di acclimatare, accomodamento. In realtà spesso Tommaseo mostra un atteggiamento che
richiama il suo libro sui Sinonimi, per il gusto di indicare un termine più perfetto, più rispondente alle
necessità del discorso e alla chiarezza, o più coerente con il sistema morale che Tommaseo vedeva attuato
nella lingua.
Comune a tutti i vocabolari puristici è la lotta contro dialettismi e francesismi, i quali il più delle volte sono
entrati in italiano in barba alle smanie puristiche, come egoista e massacrare, condannati dal Lissoni.
Eppure a egoista, già 20 anni dopo, sembrava cedere l’Ugolini che teneva duro nella condanna di
massacrare. I francesismi costituiscono secondo i puristi la fonte di imbarbarimento dell’italiano; al
francese veniva attribuita l’azione negativa che oggi alcuni ritengono abbia l’inglese: la funzione corruttrice
viene data di volta in volta alla lingua egemone a livello internazionale. La lettura dei dizionari puristici è
interessante anche oggi, non solo per il radicalismo di queste opere che genera comicità, ma anche a scopo
documentario, in quanto spesso questo tipo di dizionario ci permette di ricavare informazioni sulla lingua
viva, sull’uso comune del tempo. Spesso vi troviamo registrati quei barbarismi, la cui vita è stata breve o
non è andata oltre all’uso popolare e regionale, come papetiere per “cartolaio”.
Parallelamente alla diffusione dei dizionari puristici, continuarono ad essere compilate e a circolare difese
delle parole accusate, come quella con cui il Gherardini aveva risposto al Bernardoni: così Viani, di cui
alcuni voci sono riportate in Zolli. Viani non difendeva parole come papetiere, ma dimostrando un miglior
senso della lingua rispetto ai puristi, spezzava una lancia a favore di termini come egoista. La tradizione dei
vocabolari puristici non è morta nel nostro secolo: si pensi a Panzini, più volte ampliato e ristampato, e che
ebbe un’appendice di Migliorini, e a Monelli. Serianni ha messo in luce i caratteri propri del purismo di
Panzini, che consistono nell’avversione per la lingua dell’alta borghesia, proclive ai francesismi di moda,
nell’avversione ai tecnicismi settoriali, alle metafore, alle iperboli, agli esotismi che sono quasi sempre
francesismi.

6.2 Novità sotto sorveglianza e parole mancate


Oggi non è più di moda raccogliere elenchi di parole da condannare e proscrivere. Viviamo in un’epoca in
cui si è sviluppata, in questo e in altri campi, la mitologia del nuovo che in quanto tale è bello. È difficile
quindi prendere sul serio atteggiamenti puristici o conservatori. Si è manifestata una corsa dei vocabolari
all’aggiornamento lessicale, anche a prezzo di introdurre occasionalismi, cioè parole occasionali di breve
durata, i neologismi destinati a non rimanere nell’uso. Un saggio di Coletti mostra quante parole non sono
rimaste nei dizionari e sono state eliminate, non solo quelle inventate dagli scrittori, ma anche quelle che
non potevano durare e sono morte precocemente. In realtà i dizionari più recenti evitano di contrabbandare
le tante parole nuove introdotte come un merito di aggiornamento. Un buon vocabolario deve registrare
parole che abbiano una stabilità tale da garantirne la durata. Però la vitalità della lingua fa sì che termini
nuovi nascano di continuo e abbiano a volte una certa fortuna, prima di cadere in disuso. Anche i dizionari
puristici dell’800, accanto a parole condannate ingiustamente, le quali, contro le aspettative dei puristi, sono
sopravvissute, portano molti di questi occasionalismi. La registrazione delle parole nuove, pur non essendo
compito primario del dizionario generale, è interessante per collegare la lingua all’evoluzione dei tempi,
all’attualità, per verificare il fermentare di novità nella stampa periodica, nei media, nei linguaggi settoriali e
in quelli giovanili.
La funzione documentaria un tempo assolta dai dizionari puristici è oggi svolta da una forma di lessicografia
specializzata che raccoglie i neologismi. Tra i dizionari di questo tipo, non tutti compilati da linguisti, ma
anche da giornalisti e scrittori, abbiamo il Migliorini (1963), Vassalli (1989), Cortelazzo – Cardinale (1986,
1989), Quarantotto (1987), Pittàno (1987), Lurati (1990), Novelli – Urbani (1995), Adamo – Della Valle
(2003 – 2005), Viola (2007), oltre agli Annali del lessico contemporaneo italiano (ALCI 1995, 1996,
1997) curati da Cortelazzo, infine i supplementi ai grandi dizionari italiani, come quello aggiunto al
Battaglia, o il settimo volume che si è affiancato ai 6 del GRADIT.
Spesso in questi dizionari, o in altri simili dedicati a settori particolari della lingua, i curatori assumono un
tono particolare, introducendo parole nuove e mettendone in luce le circostanze della diffusione e della
fortuna: il tono può essere narrativo, discorsivo, aneddotico, ironico, di critica verso atteggiamenti eccessivi
di moda o verso comportamenti sociali curiosi. Queste raccolte lessicali si distaccano dalla neutralità della
documentazione linguistica e si avvicinano al modello del dizionario di barbarismi del passato, anche se non
assumono per forza un atteggiamento di censura verso il materiale raccolto. A volte si trovano liste di
neologismi e di espressioni alla moda nei manuali che servono per migliorare il proprio italiano, come in
Della Valle – Patota: anche in questo caso le novità linguistiche non vengono presentata in modo
impersonale, perché sono accompagnati da un commento e da consigli sui limiti o difetti legati al loro uso,
quando non c’è il suggerimento esplicito di evitarle.

7. DIZIONARI DIALETTALI: L’ALTRA GUERRA LINGUISTICA


L’800 fu anche il secolo d’oro della lessicografia dialettale. Questo non significa che nei secoli precedenti
non ci sono stati esperimenti di lessici del genere. Cortelazzo dice che il 600 non fu un secolo molto propizio
per la lessicografia dialettale, e infatti i risultati più notevoli si limitarono a elenchi di parole posti in
appendice di opere letterarie, embrionali glossari dialettali. Secondo Cortelazzo, però, nel XVIII secolo
furono pubblicati 7 vocabolari dialettali importanti che interessano il Piemonte (il dizionario del Pipino nel
1783), la Lombardia (nel 1759 uscì il Vocabolario bresciano e toscano che è stato compilato dagli alunni
del seminario di Brescia, anche se a volte viene attribuito erroneamente a Paolo Gagliardi), il Veneto con il
vocabolario del Patriarchi del 1775, il Lazio e le Marche (è del 1768 l’anonima Raccolta di voci romane e
marchiane attribuita a Giuseppantonio Compagnoni di Macerata), la Campania (1789, anonimo), la Sicilia
(nel 1751 Del Bono, nel 1785 il Pasqualino che si presenta come un dizionario etimologico siciliano, italiano
e latino: più lingue come nel piemontese Zalli). Lo scopo di questi dizionari è l’insegnamento del toscano,
non del dialetto che resta il punto di partenza per arrivare alla voce in lingua. Esistono anche alcune raccolte
inedite di parole dialettali messe insieme in quest’epoca, che colpiscono per la mole del materiale: quella
torinese del Brovardi, quella veneziana di Francesco Zorzi Muazzo.
Nell’800, però, il dizionario dialettale assunse un’altra importanza ed ebbe altre ambizioni. Cortelazzo nota
come due dizionari dell’inizio del XIX secolo, il Dizionario mantovano – italiano di Francesco Cherubini
del 1827, e il Dizionario del dialetto veneziano del Boerio, si richiamassero all’insegnamento di Cesarotti,
autore del Saggio sulla filosofia delle lingue, il testo che riassumeva bene le tesi in Italia dell’Illuminismo,
nel quadro di una tolleranza linguistica di stampo antipuristico. Il riferimento al Cesarotti vi è anche nel
Vocabolario bresciano – italiano di Giovan – Battista Melchiorri. Infatti risalgono all’800 tutti i più
importanti vocabolari dialettali, ancora oggi perlopiù insostituiti. Queste opere furono realizzate per varie
concause: l’interesse romantico per il popolo e la cultura popolare, la curiosità della linguistica per la parlata
locale, a cui si attribuiva dignità, con i suoi documenti, la storia parallela a quella della lingua nazionale, a
partire dalle identiche origini latine: si pensi al Biondelli, dedicato alla descrizione dei dialetti gallo – italici
che erano il lombardo, l’emiliano, il piemontese o pedemontano. Il Saggio di Biondelli conteneva anche dei
brevi lessici alfabetici dei dialetti analizzati, proposti sotto il titolo di Saggio di vocabolario.
Lo studio dei dialetti si accompagnò ad una profonda curiosità per le tradizioni popolari e le forme letterarie
della cultura orale, canti e racconti (la raccolta di canzoni epico – liriche piemontesi allestita da Costantino
Nigra, pubblicata nel 1888). Il vocabolario del dialetto serviva anche per capire meglio questo materiale
popolare, poetico e letterario. Non è un caso che, proprio mentre si realizzava l’unità d’Italia, ci si desse così
tanto da fare per lo studio dei dialetti. Ciò serviva per scoprire le tradizioni italiane: la casa editrice Pomba,
che poi fu segnalata per l’iniziativa del dizionario di Tommaseo, già nel 1859 aveva stampato il Gran
dizionario piemontese – italiano di Vittorio di Sant’Albino. Nel presentare questo dizionario, l’editore
diceva di avere in cantiere il grande vocabolario italiano, e spiegava come il vocabolario dialettale fosse al
servizio di quello nazionale e dovesse servire all’apprendimento della lingua nazionale: qualcosa di simile a
quanto Manzoni propose nella sua Relazione del 1868, auspicando però la realizzazione di lessici dialettali
con il corrispondente fiorentino. Sempre in Piemonte, Michele Ponza, autore di diversi vocabolari dialettali,
aveva avviato l’esperienza lessicografica in funzione didattica, proprio insegnando l’italiano, e aveva
alternato questa attività alla compilazione di elenchi di voci regionali da eliminare, di errori di lingua, di
francesismi. Ponza si ispirava a Cesari che aveva proposto di usare il dialetto come via di accesso
all’italiano, in modo da accostare il noto all’ignoto. Maurizio Guigoni aveva scritto a Tommaseo, che allora
era a Corfù, per prospettargli un progetto di
Dizionario metodico comparato non solo della lingua, ma anche dei dialetti d’Italia. Poi la parte relativa ai
dialetti cadde, il Guigoni esitò, ma di qui ebbe origine il progetto del dizionario della casa editrice Pomba,
che poi fu il Tommaseo.
Lo sviluppo della lessicografia dialettale non è tipico solo del Piemonte, che comunque fu favorita con opere
di qualità come quella del Sant’Albino, del Capello di Sanfranco e dello Zalli (un dizionario quadrilingue,
piemontese, francese, italiano e latino). Per cogliere i rapporti tra purismo e dialetto, si pensi al Vocabolario
domestico napoletano e toscano di Basilio Puoti. Molte opere del genere, realizzate nel XIX secolo sono
ancora oggi importanti strumenti di consultazione: il Vocabolario milanese – italiano del Cherubini (uscito
nel 1814, in edizione più ampia nel 1839 – 56); il Dizionario del dialetto veneziano di Boerio (1829, 1856,
1867); il Nuovo dizionario siciliano – italiano di Vincenzo Mortillaro (1838 – 44; 1853; 1862;1876). Nella
seconda metà del secolo, con un fiorire continuo di iniziative, quasi tutte le aree dialettali italiane ebbero il
loro repertorio lessicale, dal Friuli alla Calabria, e in alcuni casi i dizionari disponibili furono più di uno.
Migliorini ricorda il Vocabolario dei dialetti della città e diocesi di Como di Pietro Monti (1845), in cui
ricorre un riferimento alla necessità di portare il contributo dei dialetti italiani alla linguistica d’Europa.
Infine, se si vuole mettere in evidenza il nesso tra il lavoro dei lessicografi e la ricerca linguistica
dialettologica, ricordiamo che il Vocabolario romagnolo – italiano di Antonio Morri servì a Mussafia per il
suo studio del dialetto romagnolo, definito da Ascoli la prima analisi compiuta di un dialetto italiano.
Un altro problema è quello del tipo di italiano che veniva introdotto nei dizionari dialettali. Poggi Salani ha
mostrato riferendosi al Cherubini come esso fosse spesso letterario e artificioso, cosa di cui si lamentavano
già i contemporanei. Gherardini rimproverava questo difetto all’edizione del 1814 del Vocabolario
milanese del Cherubini, e Manzoni se ne infastidì, constatando la composizione eterogenea di quello
strumento che anche lui aveva usato. Il problema del rapporto tra la voce dialettale registrata dal dizionario e
la voce italiana non si limita a questo problema e non finisce con l’800.

CAP. 7 – I DIZIONARI DI SINONIMI

1. I “SINONIMI” DEL TOMMASEO

1.1 Un libro in continua evoluzione


Nella prima metà del XIX secolo, uno spazio particolare occupa il dizionario dei sinonimi che si impose
allora in Italia, ma che aveva conosciuto un importante sviluppo in Francia nel 700. In questo campo,
Niccolò Tommaseo ebbe un grandioso successo. Progettò un Dizionario dei sinonimi dal 1827, ne aveva
anticipato una prova nel 1829 nella rivista “Nuovo Raccoglitore”, ma la prima edizione risale al 1830.
L’opera uscì quasi anonima: il nome dell’autore non era presente nel frontespizio, dove era indicato solo il
titolo: Nuovo dizionario de’ sinonimi della lingua italiana. L’identità del compilatore si ricavava dalla
firma messa alla fine della prefazione Al lettore, breve, di 8 pagine a stampa, diversa dalla lunga e articolata
trattazione presente nelle edizioni successive, a partire da quella del Vieusseux, uscita nel 1838, che segna
una svolta, come se si trattasse di un’opera nuova, come suggeriva Gamba, annunciando il libro sotto
torchio. Il lavoro di Tommaseo ha avuto un’evoluzione notevole, anche per l’ampliamento del corpus di
voci (le edizioni anteriori a quella del Vieusseux del 1838 sono in un solo volume, non in due).
Nell’edizione del 1830, seppur brevemente, l’autore delineava i suoi intenti e ribadiva il suo ideale di lingua.
Il successo fu immediato e l’opera si avviò a vita lunga. Fu ampliata e perfezionata nelle edizioni successive.
Durante il resto della sua vita, Tommaseo continuò a curare o autorizzare ristampe rivedute, modificate
anche nell’ordine dei lemmi. Il libro ebbe successo fino al 900, quando fu allestita la versione riveduta e
aumentata a cura di Giuseppe Rigutini. L’opera passò anche nelle mani di Cesare Pavese che l’annotò.
A partire dall’edizione Vieusseux del 1838, nei Sinonimi trovò posto l’introduzione con la rassegna degli
studi italiani e stranieri dedicati alla sinonimia. Tommaseo dimostrava di conoscere bene la tradizione
francese: Girard, Roubaud, Guizot, Boinvilliers; ammetteva di non conoscere il tedesco. Per il suo dizionario
aveva usato le tecniche messe a punto dagli studiosi d’oltralpe, cioè aveva accolto prima di tutto la
distinzione tra idee principali e idee accessorie. L’uso di questa terminologia si deve all’abate Girard, ma si
può risalire indietro fino alla Logique di Port – Royal, dove la stessa terminologia era usata per srotolare la
questione del significato delle parole, usate con l’arbitrarietà da cui deriva incertezza o abuso.
La teoria delle idee principali e accessorie sviluppata dalla Logique di Port – Royal e adottata da Girard fu
usata in Italia per la prima volta nel Frammento sullo stile pubblicato da Cesare Beccaria sul “Caffè” e poi
in Cesarotti, il quale additava a modello per i lessicografi italiani la raccolta di Girard, esortando a un lavoro
sulle sinonimie che tenesse conto anche dell’etimologia (come avrebbe fatto dopo il Grassi). La tradizione
francese era stata rinforzata dall’interesse per i sinonimi da parte di molti intellettuali, fra cui Du Marsais,
che ne parlò alla fine del suo trattato Des tropes. Il lavoro di esame e raccolta del materiale lessicologico fu
continuato nel 700, in Francia, da Beauzée e da Roubaud. Beauzée, l’autore di una delle più importanti
opere di Grammaire générale, riprese il lavoro di Girard, commentandolo e inserendo delle aggiunte. Lo
studio dei sinonimi era concepito dagli autori francesi come un’indagine filosofica per scongiurare
confusioni e sovrapposizion attraverso un procedimento razionalistico capace di definire e riconoscere l’uso
proprio, quello che nel titolo del libro di Girard era stato definito come la justesse de la langue française,
ossia “l’esattezza del francese”. Justesse è la parola chiave: infatti nel 700 la cultura razionalista scatenò la
polemica contro l’eccesso incontrollato di sinonimi, che poi fu riconosciuto come proprio di alcune lingue,
per questo giudicate imperfette. Si trova traccia di questa polemica in alcuni autori italiani influenzati dalla
cultura francese, per esempio nella Gramatica ragionata di Soave del 1771, nella riduzione scolastica delle
Istituzioni di rettorica, e belle arti di Blair realizzata da Soave negli scritti berlinesi di Denina. Soave
aveva auspicato che qualche autore italiano si desse da fare per realizzare un dizionario dei sinonimi
paragonabile a quelli francesi e, a scopo dimostrativo, aveva offerto un saggio di 15 voci. Infine il metodo fu
adottato dal Tommaseo. Al fine di illustrare questo metodo e spiegare l’uso delle idee principali e delle idee
accessorie nell’analisi del significato, Tommaseo illustrò la differenza fra termini come confratello, collega
e socio, notando come il concetto comune stesse nel vincolo morale, e poi ognuno dei 3 termini si
distinguesse per una specifica idea accessoria: confratello per quella religiosa, collega per quella di ufficio e
socio per quella di utile. Per specificare la maggiore o minore prossimità dei concetti, Tommaseo faceva
notare che mare e fiume non sono sinonimi, perché l’idea comune acqua è molto lontana; ma fiume e
corrente sono, perché l’idea comune d’acqua che corre, è più prossima. Nell’indagine entravano elementi di
semantica, anzi, proprio nelle ricerche sulla sinonimia va cercata la base della semantica moderna.
La prefazione al Nuovo dizionario dei sinonimi del 1838, rimaneggiata del tutto rispetto alla prima
edizione del 1830 e a tutte le altre precedenti, fu dedicata dall’autore a illustrare in maniera esauriente i
principi teorici, storia e realizzazioni nel campo degli studi sui sinonimi. Fu anche l’occasione per esporre la
sua posizione sulla questione della lingua. Tommaseo era favorevole alla toscanità viva, e infatti definì il
concetto di “uso”, attribuendogli una prevalenza che in seguito non si trova affermata in modo così chiaro
negli altri suoi scritti.
Tommaseo condannava i classicisti e i puristi, protagonisti del dibattito di inizio secolo. Da una parte
mostrava l’improponibilità dell’arcaismo perseguito dai seguaci del Cesari, dall’altra condannava il
classicismo di Perticari (anche Monti era condannato) per la sua antipatia nei confronti della parlata
popolare. Tommaseo affermava che i grandi avevano saputo obbedire all’uso popolare senza staccarsi da
esso, e che l’efficacia dell’uso è dovuta al rispetto delle forme comuni. L’affermazione risponde ad un
principio antiaristocratico, romantico, in base al quale ogni grande scrittore è anche espressione popolare. Il
“popolo” di Tommaseo è diverso dal “popolo” dei classicisti: seppure idealizzato, è identificabile con quello
che fin allora la tradizione italiana aveva definito con disprezzo come “volgo” e “plebe”. Non a caso
Tommaseo raccolse canti popolari toscani, sottolineando come quei testi poetici, patrimonio di gente incolta,
avessero tuttavia pregi di lingua. È vero che la scelta popolare di Tommaseo non era ancora molto radicale
per essere condivisa da Manzoni, il quale infatti, di fronte al primo fascicolo dei Sinonimi ricevuto tra la
fine di ottobre e i primi di novembre del 1830, espresse in due lettere (rimaste interrotte) i motivi del suo
dissenso, sul fatto che Tommaseo avesse integrato l’uso popolare con quello degli scrittori, cercandone le
concordanze e la continuità, non contrapponendo in maniera radicale l’impiego della lingua, come
contraddittorio e distinto, nel popolo e negli autori. Per Tommaseo una simile contraddizione radicale non
poteva esistere, pur attribuendo al popolo una sensibilità e una funzione fondamentale.

1.2 Vecchio e nuovo modello: retorica vs. “justesse”


Prima di Tommaseo, pochi italiani si erano occupati di sinonimie: si possono citare, tra i precursori, il Rabbi
nel 700, il Grassi e il Romani nel primo 800. L’Italia non era all’avanguardia in questo campo di ricerche
per quali si doveva fare riferimento agli studi d’oltralpe: anche il Tommaseo aveva preso le mosse dai
risultati ottenuti dalla cultura linguistica francese del 700, dagli studiosi Girard, Beauzée e Roubaud. I
principi elaborati dai francesi relativamente all’inesistenza della perfetta sinonimia e alla distinzione tra idea
principale e idea accessoria, vennero usati da Tommaseo che usò le nuove idee collegandole al problema
italiano della questione della lingua. Tuttavia in ciò era stato preceduto in parte dal lessicografo piemontese
Giuseppe Grassi, autore di un piccolo dizionario di sinonimi uscito nel 1821.
Per comprendere la nuova concezione della sinonimia ispirata alla linguistica francese, che influenzò il
Romani, il Grassi e il Tommaseo, si deve esaminare un libro ancora legato al passato, ossia il Frencia. La
Prefazione dell’opera mostra che il Frencia aveva esperienza di scuola e di giovani. Questo libro ci aiuta a
verificare la distanza che vi è tra la sinonimia intesa come ricerca della justesse, cioè dell’esattezza e
pertinenza del significato, alla maniera francese, e la sinonimia intesa come ricerca delle ricchezze di lingua,
alla maniera italiana. Paragoniamo alcune voci del Frencia con le corrispondenti del Grassi. Il confronto è
limitato perché il Grassi analizza nomi e verbi, mentre Frencia solo verbi. A volte però il confronto è
possibile: per esempio, Grassi registra la coppia Accordare – concedere, che ha qualche analogia con le
voci Accorder – concilier e Accorder – raccomoder – réconcilier di Girard: sotto questa voce, Grassi
illustra le differenze tra i due verbi, il primo dei quali vale per un accordo tra pari, mentre il secondo si usa
da superiore a inferiore, per cui le leggi concedono e non accordano determinate facoltà ai cittadini. Grassi
usa il procedimento storico: non solo per concedere richiama il latin cedere, ma, per accordare, spiega il
passaggio del significato da tecnicismo musicale fino a quello morale di “convenire”, sulla base dell’idea di
“accordo”, nata come “armonia” delle corde dello strumento musicale. Qui salta all’occhio una differenza
tra il metodo del Grassi e la ricerca sui sinonimi condotta dai francesi. In Girard e Beauzée, infatti, non si
trova una sola parola sull’etimologia di accordare e sul rapporto con il tecnicismo musicale. Tutta
l’attenzione dei lessicografi d’oltralpe andava agli ambiti semantici delle varie parole, in sincronia, senza
excursus diacronici. Più significativo è il confronto con il prete Frencia, cioè con il metodo tradizionale
retorico, interessato solo alla variatio e alla ricchezza di lingua: il Frencia, alla voce Concedere, dopo aver
suggerito la definizione “dare facoltà, o licenza di fare” e dopo aver proposto gli equivalenti latini
concedere e permittere, rovesciava sul lettore sinonimie come queste: “fargliela buona, passargliela per
buona, dar del buono”. Più interessante è il confronto tra la voce Contendere – disputare del Grassi e il
Contendere del Frencia: “essere in disputa, o in quistione”, “giostrare”. Ancora un altro esempio: nel Grassi
abbiamo Uccidere – Ammazzare, riportati alla differenza che corre tra occidere e necare, con tanto di
etimologia di ammazzare da “mazza”, rilevata anche attraverso alcuni documenti medievali. Per contro, alla
voce Uccidere del Frencia, sono registrate molte varianti peregrine, ricavate rovistando nei tesori degli
autori antichi. Il Frencia si muove ancora nella direzione del primo dizionario italiano dei sinonimi, quello
del Rabbi. Il dizionario del Rabbi era rimasto ad essi estraneo. Esso concepiva il dizionario dei sinonimi
come deposito o tesoro retorico, al servizio dell’eloquenza per suggerire le parole per rendere abbondante e
variato lo stile, mediante l’offerta di ricchezze accumulate senz’ordine, mescolate alla rinfusa senza
indicazioni sull’esatto uso, sulla fonte, sul prevedibile livello di comprensibilità o sull’eventuale arcaicità
dell’espressione. Lo stesso autore diceva che non vi era ordine nella trattazione.
L’attenzione ai sinonimi andava congiunta a quella per gli “aggiunti”, reputati allo stesso modo importanti.
Per spiegare cosa si intendesse con questa designazione, prendiamo la voce Abbajamento tratta da Rabbi: la
voce porta una definizione concettuale tratta dalla Crusca. Segue l’equivalente latino, quindi il sinonimo
preceduto da “S.”, con un esempio anonimo. Alla fine della voce, preceduti dall’indicazione “Agg.”, ci sono
gli “aggiunti”, cioè gli aggettivi che si possono applicare all’abbajamento, in ordine sparso, non alfabetico.
Lo scopo di questo dizionario è quello retorico di suggerire parole e di favorire la variatio stilistica. Lo
stesso intento rimane in Frencia, come dimostra la voce Morire del suo repertorio lessicale.
È facile immaginare quali esiti potesse produrre la consultazione di un dizionario del genere, presentato
dall’autore come uno strumento per alzare un po’ di più lo stile, usando espressioni metaforiche e figurate, le
quali essendo più elevate, possono chiamarsi il sale e il condimento del discorso. L’esistenza di dizionari
come quello del Frencia, spiega quale carica innovativa avesse l’applicazione dei principi d’oltralpe messa
in atto nelle opere di Grassi e Tommaseo, lessicografi mossi da una concezione diversa, i quali badavano
alla sostanza del significato e alla precisione della comunicazione. Anche il Romani aveva condannato
l’insensata caccia al sinonimo messa in atto dai letterati italiani.
Ci si potrebbe chiedere dove e in che modo il Romani riconoscesse i sinonimi del Vocabolario della Crusca:
forse l’autore si riferiva alle definizioni proposte da quel dizionario, le quali sono spesso costruite mediante
l’allineamento di sinonimi, secondo una tecnica nota.
In qualche caso, la Crusca avverte che una determinata espressione vale come un’altra, e l’indicazione
potrebbe essere interpretata come sinonimia.
Vi era la presenza occulta di un dizionario dei sinonimi, non ancora definito all’interno del dizionario
generale, all’interno della Crusca.
Il modello francese spiega la forma dei dizionari ottocenteschi di sinonimi, i quali non coprono tutto il
lessico, ma propongono una scelta di voci selezionate, considerate esemplari o interessanti. Un’altra
caratteristica ripresa dai modelli d’oltralpe, presente sia nel Grassi che nel Tommaseo, e ancora
rintracciabile in realizzazioni successive, sta nelle entrate costituite da più lemmi allineati l’uno a fianco
all’altro, in numero elevato, con un minimo di due, e non per forza in ordine alfabetico. La prima voce del
Grassi è “Accordare, Concedere”, la terza è “Allegrezza, Giubilo, Gioia, Letizia, Gaudio”. La prima voce di
Tommaseo è “Abbagliare, Abbarbagliare, Abbacinare, Offuscare”, ma poco più avanti troviamo una voce
complessa che porta come ricchissima entrata la serie multipla: “Abbassare, Avvilire, Umiliare. /
Abbassarsi, Umiliarsi, Degradarsi, Avvilirsi”. La trattazione illustra in maniera accurata la distinzione dei
vari elementi della serie. Questo era il risultato del modello francese che privilegiava l’aspetto
semasiologico.

2. I “SINONIMI” DEL GRASSI

2.1 Sinonimi e questione della lingua


Nel momento in cui si realizzò l’unità nazionale, si dovette fare i conti con una situazione difficile, a causa
dell’arretratezza culturale del popolo e dell’altissimo numero di analfabeti: la lingua nazionale esisteva nei
libri, era patrimonio dei dotti, ma proprio questa sua natura d’élite aveva determinato la sua forte valenza
letteraria. Per secoli l’italiano era stato strumento della cultura più elevata, senza mai raggiungere e cercare
una circolazione in tutta la società. Lo spazio della comunicazione familiare e quotidiana era dominato dai
dialetti. Per questo motivo, la lingua italiana si era trasformata, sotto la spinta del purismo conservatore e del
tradizionalismo cruscante, in un grande deposito stratificato e polveroso, un magazzino in cui era entrata una
grande quantità di merce, ma non era stato buttato nulla, poco era stato rinnovato. Tutto si accumulava in
questo serbatoio, dando l’illusoria impressione di un’enorme ricchezza, creando imbarazzo al momento
dell’utilizzazione pratica. I sinonimi colti e letterari erano infatti quasi sempre privi di reale riscontro
nell’uso.
Questa situazione fu chiara a Manzoni, ma anche prima di Lombardo molti intellettuali italiani, tra 700 e
800, come il Denina, Leopardi e il Romani, avvertirono il problema e reagirono condannando l’eccesso di
sinonimi, a cui si accompagnava la mancanza di parole necessarie nella vita comune e nei settori più
moderni, legati alle scienze e alla tecnica. Tommaseo si inserisce in questa linea. Il Dizionario dei sinonimi
di Tommaseo si trasformò in un manifesto per il rinnovamento della lingua italiana. In esso trovò spazio il
dibattito sulla questione della lingua, con l’elogio del toscano vivente e della modernità. Le posizioni
espresse in quell’occasione furono più radicali rispetto alla successiva evoluzione del pensiero dell’autore.
Nel 1868, infatti, Tommaseo fu tra coloro che non si schierarono dalla parte della Relazione di Manzoni
Sull’unità della lingua e sui mezzi per diffonderla, anzi fecero resistenza di fronte alla scelta del
fiorentino vivente. Il Dizionario dei sinonimi però era più vicino a una posizione toscanista di tipo
naturalistico. Anni dopo, per contro, l’autore avrebbe mostrato di avvertire di più il freno della tradizione
letteraria.
Tommaseo, nel momento in cui abbracciava la teoria dell’uso toscano vivente, dava al dizionario dei
sinonimi un compito che andava oltre la finalità di prontuario o ausilio alla buona scrittura. In una lingua si
doveva determinare il significato di ciascuna voce viva e bisognava togliere dall’uso le voci che non
esprimono idea né gradazione d’idea. Bisognava dare le differenze delle voci vive e di quelle morte. Il
dizionario dei sinonimi doveva svecchiare la lingua nazionale. In questo modo il problema dei sinonimi
veniva portato al di là dell’orizzonte speculativo che era stato proprio degli studiosi francesi del 700 che ne
avevano fatto soprattutto uno strumento filosofico per verificare il valore ideologico, la justesse della lingua
ai fini della verità e della chiarezza comunicativa.
Al tempo stesso Tommaseo respingeva la prospettiva storica avanzata dal lessicografo Giuseppe Grassi, il
quale nel Saggio intorno ai sinonimi aveva cercato di usare l’etimologia come guida per mettere ordine nel
significato delle parole. Tommaseo ribatteva che la scienza etimologica, sola per sé, non basta a governare
l’uso della lingua e a tenere le veci di quello. Erano le stesse osservazioni critiche fatte al Grassi nel 1819 da
Ludovico di Breme, uno dei suoi più cari amici, attivo nel gruppo milanese del “Conciliatore”. Lui aveva
sollecitato il Grassi a fare le ricerche nel campo della sinonimia, prendendo però le distanze dai risultati,
quando il Grassi aveva mostrato di dare troppo peso al valore dell’etimologia rispetto all’uso.
Il dizionario dei sinonimi, nel XIX secolo, è stato banco di prova delle idee sulla questione della lingua.
Come nel dizionario generale, in esso si manifesta lo scontro tra scuole di pensiero opposte. I dizionari di
sinonimi, soprattutto quelli piccoli, entrano anche nelle scuole come libri di testo o sussidi didattici: non
erano pensati solo per la consultazione, anzi, si prestavano ad una lettura continuata. Ciò vale per il
dizionario del Grassi così come per quello del Tommaseo. Giovanardi ha fatto notare che l’aspetto più tipico
di questo vocabolario sta forse proprio nella tendenza a presentare negli articoli delle digressioni discorsive
che vanno dall’aneddoto in chiave storica a forme prosastiche più strutturate come il dialogo. La serie dei
piccoli saggi semantici rende meno rigida la struttura di queste opere, rispetto all’impianto considerato
necessario nei dizionari di sinonimi di oggi, e li rendeva anche diversi dal dizionario generale, che già
nell’800 si era assestato nella forma canonica. Anche per questo venivano usati come strumenti didattici. Un
esempio per documentare l’uso didattico dei dizionari di sinonimi è questo: Alfonso, protagonista del
romanzo Una vita di Svevo, dà lezioni di italiano a Lucia, figlia della famiglia Lanucci, presso la quale
vive; dapprima tenta di insegnarle la grammatica del Puoti, ma entrambi si annoiano e quindi ricorre ai
Sinonimi di Tommaseo, del quale le fa studiare le parti autonome di cui è composto, scoprendo un giorno di
aver conquistato la lingua italiana.

2.2 Giuseppe Grassi


Il Saggio intorno ai sinonimi di Giuseppe Grassi ha meriti, pur presentando dei limiti: lo studio della
sinonimia qui ricalca i metodi francesi; inoltre il lavoro del Grassi non può competere con il Dizionario dei
sinonimi di Tommaseo sia per ampiezza che per qualità. Quello del Grassi resta un saggio svolto su di una
serie limitata di voci – campione, scelte dall’autore, tenendo spesso a portata di mano i Synonymes français
di Girard. Se dovessimo indicare l’opera del Grassi, la quale è originale nella scelta dell’argomento e si
impone per la consistenza, dovremmo tornare al Dizionario militare che ci permette di spiegare meglio
l’efficacia di alcune voci del Saggio intorno ai sinonimi relative alla vita militare e all’esercito, e la sua
attenzione ai linguaggi tecnici. Il Grassi fu un lessicografo dotato e geniale. L’impressione si rafforza se
teniamo conto della sua collaborazione alla Proposta di Monti con il Parallelo del vocabolario della
Crusca con quello della lingua inglese compilato da Samuele Johnson e quello dell’Accademia
spagnuola. Qui ricorrono alcune riflessioni sul problema della sinonimia e sono citati autori come Girard,
Beauzée, Roubaud. Resta la domanda: perché i Sinonimi hanno avuto tanta fortuna?
La loro fortuna non si concentra solo subito dopo la loro pubblicazione, ma dura per tutto l’800, anche
quando esisteva il Dizionario dei sinonimi del Tommaseo. Alla prima stampa torinese del 1821 seguì quella
milanese, l’anno dopo: questo era un risultato lusinghiero perché l’editore era la Società dei Classici Italiani,
nota per la grande collezione degli autori nazionali.
Il libro non rimase sempre lo stesso nelle varie edizioni. Il Saggio intorno ai sinonimi ebbe un’evoluzione,
testimoniata anche dalle carte conservate nel Fondo Peyron della Biblioteca Nazionale Universitaria di
Torino, dove oltre ai manoscritti delle voci edite, ci sono anche abozzi di voci nuove. La presenza di voci
inedite fa pensare che l’autore avesse intenzione di ampliare il lavoro, passando dal Saggio intorno a… a un
vero dizionario. Si deve ricordare la stampa definitiva di Le Monnier, nel 1885, curata da Giuseppe Manno,
riproposta nel 1862 come II edizione. Questa è diventata la vulgata dei Sinonimi, ripresa più volte fino al
900, visto che le riedizioni milanesi dell’editore Bietti varcarono la soglia del XX secolo. Tra l’edizione
Manno e le più recenti del Bietti, troviamo tante ristampe e riedizioni, allestite da piccoli e grandi editori:
Fiaccadori di Parma, Paravia di Torino e di Roma, Guigoni di Milano, Mazzaioli di Livorno, la Tipografia
Salesiana di Torino: il libretto del Grassi era diventato uno strumento scolastico, adottato per insegnare
l’italiano. Solo così si spiega la continua richiesta del mercato editoriale.
Il libretto del Grassi era per gli italiani dell’800 diverso e di alto valore. Bisogna riflettere sul significato
dell’introduzione dello studio dei sinonimi in Italia, all’inizio del XIX secolo, badando al contesto e ai
precedenti. La questione della sinonimia era allora sentita. Si era fatta strada l’opinione secondo la quale era
molto pericoloso che i sinonimi proliferassero incontrollabili. L’italiano, in base a questa premessa, era
giudicato difettoso, capace di generare dubbi e confusione negli utenti, ciò che non accadeva al francese.
Anche Manzoni nella lettera al Carena definisce i sinonimi “un inconveniente delle lingue” e anche
Leopardi, seppur partendo da presupposti diversi e originali, vide nei sinonimi il risultato dell’usura della
lingua, e nell’italiano una lingua povera poiché ricca di sinonimi inutili, ma priva di significati distinti, tanto
da dire che non è ricco quello che abbonda del superfluo e manca del necessario, sentenza poi simpatica a
Ludovico di Breme.
La questione dei sinonimi entrò nel dibattito sul primato del francese, la lingua con la massima dose di
justesse, cioè con la maggiore precisione razionale. È chiaro perché Ludovico di Breme, lettore degli
Idéologues francesi, esortasse il Grassi alla sinonimia. Il Breme recensendo nel 1819 sul “Conciliatore” la
Proposta di Monti, aveva toccato il tema delle sinonimie, spiegando che la loro analisi era questione logica
e filosofica, non questione da letterati, e che andava condotta mediante un albero delle idee, partendo da
quelle più generali per finire a quelle particolari, in modo da scoprire ciò che manca nella lingua per rendere
compiuta la serie di alcune idee. Questo atteggiamento era tipico degli Idéologues, che coltivavano il mito
della perfettibilità artificiale della lingua. La posizione di Grassi fu diversa, ma anche nell’ammirazione per i
pregi dell’italiano, ben lontano dalla critica del Breme, la fedeltà di molte voci del Saggio intorno ai
sinonimi all’impianto del Girard prova che il rapporto con la Francia era di dipendenza e che appunto questa
primeggiava. Lo stesso Grassi, in una nota, toccava il nodo del rapporto con la tradizione francese,
insistendo sul fatto che si era studiato di spostarsi dai grammatici stranieri, anche se ammetteva che la loro
influenza si era fatta sentire e diceva che i filosofi delle altre nazioni sono entrati prima dell’Italia in questa
materia e quindi, a malincuore, li si deve seguire.
Tante voci del Saggio intorno ai sinonimi riprendono quelle analoghe del Girard. La prima coppia di
sinonimi che incontriamo nel Saggio, Accordare – concedere corrisponde a Accorder – concilier di
Girard; la seconda voce con la cinquina Allegrezza – giubilo – gioia – letizia – gaudio trova una
corrispondenza in voci come Satisfait – content e Aise – content – ravi di Girard. Stessa cosa per Antico –
vecchio, Astrologia – astronomia, Battaglia – combattimento, Bellezza – leggiadria, Bravura –
coraggio. Quello di Grassi è un dizionario parziale, non una descrizione totale dei sinonimi italiani.
Scegliendo così poche voci, l’autore avrebbe potuto tenersi lontano da quelle che entravano nella raccolta di
Girard, la quale è anch’essa selettiva. La ripresa di così tante voci simili a quelle di Girard deve essere intesa
come una correzione del modello francese. Questa correzione era tra le aspirazioni più grandi del Grassi e
consisteva nell’introdurre un elemento estraneo agli studi sinonimici della tradizione francese, basati sulla
justesse: Grassi era convinto che l’etimologia avesse una funzione altrettanto importante.

2.3 Sinonimia e uso


Nei Sinonimi del Grassi, oltre alla questione dell’utilità dell’etimologia, emerge il problema dell’uso,
estraneo ad altri lessicografi autori di dizionari di sinonimi come il Rabbi, ma anche il Romani. Emerge con
una forza pari al peso che questo problema stava assumendo nell’Italia romantica e prerisorgimentale,
l’Italia di Manzoni. Anche per il Grassi, come per il primo Manzoni, il concetto di uso si presenta equivoco.
Nella prefazione al Saggio intorno ai sinonimi egli manifesta rispetto per l’uso toscano moderno, anche
popolare. La Toscana è chiamata la felicissima contrada dove scaturiscono le fonti della lingua parlata e si
conservano le vive testimonianze della scritta. Più avanti ritorna sulla Toscana, la più degna di essere
maestra, elencando le sue glorie, dove il passato sembra ricollegarsi al presente, dove vivono i nipoti di
quella generazione che aveva combattuto a Montaperti. Un’immagine idealizzata, un po’ alfieriana, ma
soprattutto simile a quella cara ad altri uomini dell’800, come il padre Giuliani o il Tommaseo, agli occhi del
quale i contadini toscani apparivano rinnovati personaggi della letteratura trecentesca o sopravvissuti del
Medioevo. È la scoperta della lingua viva, nella sua continuità rispetto alla scritta, in Toscana, l’unico posto
allora in cui ciò era possibile. Anche Grassi era stato in Toscana nel 1814 per preparare il Dizionario
militare; nell’occasione aveva conosciuto il Niccolini che poi l’avrebbe messo a contatto con il Vieusseux,
infatti nel 1828 Grassi si era adoperato, attraverso le sue conoscenze al ministero degli Esteri del Piemonte,
per liberare le copie dell’Antologia fiorentina dagli impacci della censura sabauda. Il Grassi provava
commozione di fronte alla Toscana. Nel Saggio intorno ai sinonimi ci sono due aneddoti curiosi, sotto le
voci Gradino – scalino – scaglione e Timore – paura. Grassi racconta di aver inciampato varcando la
porta di una bottega in una città toscana, mentre camminava. Dolorante, urlò: “Uh! Maledetto gradino!”, e il
“linguacciuto padrone” del negozio “che stava a sportello” (si noti l’uso del toscanismo spinto) aveva
risposto: “La dica pure scalino…”. Un’altra volta, durante una sosta a Barberino Val d’Elsa, una contadina
gli si era avvicinata, portando al collo un bimbo. Grassi accarezzò il bimbo, ma questo strillò e allora lui si
scusò con la donna dicendole: “Spiacemi d’avergli fatto paura” e la popolana rispose: “È timore, non paura”.
Grassi fu rapito da questa risposta e commentò dicendo che nessun filologo era capace di fare un
complimento con così tanta grazia. Qui infatti era materializzata la distinzione tra paura e timore, la prima
alterazione d’animo dettata da viltà, la seconda dettata da un sentimento di riverenza e ossequio. Non è un
caso che entrambi questi aneddoti siano stati ripresi da Tommaseo, sotto la voce Gradino, scalino,
scaglione, grado e sotto la voce Timore, paura in entrambi i casi con riferimento al Grassi; e forse se ne
trova una traccia più tardi, nel Dizionario della lingua italiana dove una nota firmata “T.” avverte che
“Timore” è meno di “paura”. La parte del popolo toscano è riconosciuta secondo un sentimento che si
accorda bene con i tempi e che accomuna Grassi a molti altri intellettuali settentrionali che si dedicavano
alla ricerca della lingua, anche se poi questo sentimento è limitato dall’affermazione di non poter usare il
criterio dell’uso popolare, non essendo egli toscano, per non peccare di “presunzione” e “temerità”.
Uso però, ha anche un altro significato, meno gradito al Grassi, e privo di relazioni con il popolo toscano: a
volte vale “uso degli scrittori”, un uso che non sempre è omogeneo e autorevole. Nella voce Udire –
ascoltare, per esempio, Grassi insiste sulla differenza tra la pura ricezione del suono e l’ascolto attento: il
primo è l’udire, il secondo l’ascoltare. La distinzione tra questi due verbi però, come Grassi ammette, è
stata ignorata dall’uso degli scrittori italiani, prima di tutto i poeti, ma a volte, anche i prosatori. Di fronte a
questo uso promiscuo, Grassi dice che “trattandosi delle proprietà delle lingue, convien farsi da più alto che
l’uso non è”. Per capire quale sia il principio di autorità superiore a quello dell’uso, bisogna soffermarsi
sulla voce Fronda – foglia che provocò una coda polemica e l’aggiunta di una precisazione successiva.
La distinzione Fronda – foglia prende le mosse da una critica che un professore dello studio di Pisa,
Giovanni Rosini, fece al Monti, la quale è contenuta in uno scritto del 1818 conosciuto dagli studiosi della
questione della lingua: Monti aveva usato l’espressione fronda d’insalata che al Rosini era sembrata
impropria. Grassi tornava sulla questione, dicendo che la critica del Rosini al Monti era vera ed acuta, ma si
chiedeva anche se la distinzione tra le due voci potesse essere fondata su di un’altra migliore autorità che
non fosse quella dell’uso, ossia dell’uso toscano, invocato da Rosini. Negava che l’autorità dell’erbaiola di
Mercato Vecchio dovesse essere anteposta a quella del Monti; però la premessa era stata messa a frutto per
confermare l’errore di Monti e non per scagionarlo. Infatti la distinzione era fondata sull’etimologia, per la
differenza tra frons (“fronda”, nel senso di ramoscello) e folium (“foglia”, senza ramo), che era già nel
latino: le lattughe non hanno rami, ma solo foglie, diceva Grassi. La giunta successiva, che entrò
nell’edizione del 1832 mostra che Monti si arrabbiò per la critica del Grassi e si difese. Grassi rincarò la
dose, lasciando da parte la sua moderazione che lo contraddistingueva. L’Aggiunta alla voce Fronda –
foglia è interessante perché ci mostra un Grassi polemico contro il Monti. Monti, per difendersi, aveva
evocato una serie di esempi letterari in cui l’uso scritto concordava con il proprio. Grassi rispondeva
accusando Monti di aver tradito il metodo della Proposta, alla quale aveva collaborato anche Grassi, dove
avevano combattuto insieme contro il principio di autorità. Rifiutava l’empirismo degli esempi dal quale si
deduce solo l’uso promiscuo degli scrittori contro il quale invoca l’uso del popolo, poiché questo non
sbaglia. Uso popolare e ragioni etimologiche sono dalla parte della filosofia, cioè guidano alla distinzione
dei sinonimi.
Il popolo toscano si accorda bene con l’etimologia, e questa è la condizione ideale a cui ambisce il sistema
di Grassi. Nelle voci dei suoi Sinonimi vengono messe in discussione le teorie illuministe di coloro che
pongono mente alle cose e non alle parole, dove si attacca la Crusca più volte (per esempio per la distinzione
Barba – radice), si censurano gli scrittori del 300, per esempio la famiglia dei Villani che poteva introdurre
nella nostra lingua i neologismi, mentre si loda sempre l’uso popolare, quando esso funge da chiarificatore
razionale (così sotto la voce Moderazione – modestia – temperanza), tanto più quando si può verificare
che l’etimologia conferma la distinzione (così sotto la voce Tuono – tono che si chiude citando i dialetti e
con un modello di scheda lessicografica esemplare per distinguere queste due parole).

2.4 Sinonimia, etimologia e storia della lingua


L’etimologia è il metodo preferito del Grassi. Il suo lavoro sulle sinonimie segna una svolta verso lo studio
della storia della lingua, la quale fu uno dei suoi più ambiziosi progetti, seppur non portato a termine. Le
note poste a molte voci del Saggio intorno ai sinonimi mostrano non tanto la venerazione verso le fonti
francesi della ricerca sinonimica, quanto verso autori utili a chi si occupa di storia delle lingue: il Monosini,
le etimologie francesi di Ménage, il dizionario di Du Cange, la dissertazione XXXIII del Muratori, lo
Schilter, l’Adelung, il Raynouard di Choix des poésies originales des Troubadours. Quest’ultimo è forse il
riferimento più importante perché permette di collocare gli interessi relativi alla storia linguistica e alla
linguistica storica nel contesto della nascente romanistica europea, in un ambito simile a quello di Perticare,
nei due saggi pubblicati all’interno della Proposta di Monti. Per quanto sia solito oggi prendere le distanze
dal Perticari, bisogna tenere conto di una cosa: la sua saggistica rappresentò l’esito più autorevole in Italia,
negli anni 20 dell’800, nel campo della linguistica storica. Tutti vi fecero riferimento, a cominciare da
Leopardi nello Zibaldone.
In realtà Grassi andò oltre alle tesi del Perticari, come dimostrano le carte della Storia della lingua italiana:
qui la distinzione tra lingue sintetiche e analitiche dipende dalla lettura del saggio di Wilhelm Schlegel
Observations sur la langue et la littérature provençales; da Schlegel discende la tipologia morfologica, la
distinzione nelle 3 classi: lingue senza struttura grammaticale, lingue ad affissi e lingue flessive. È
interessante trovare un raro riflesso italiano della classificazione dei fratelli Schlegel, e questo è uno dei
primi che si possono registrare. Il giudizio limitativo sugli interessi storici del Grassi va corretto anche alla
luce dei suoi programmi di studio, documentati dalle carte inedite della Biblioteca Nazionale di Torino.
Questi obiettivi non furono raggiunti soprattutto per l’insorgere della sua malattia che gli impedì di
procedere e realizzare due opere nuove: il dizionario etimologico della lingua italiana, che progettò e
cominciò a compilare, e la storia della lingua italiana, che progettò e scrisse in buona parte.
L’aspirazione alla storia e all’etimologia non è elemento accessorio: è lo sbocco di un sentimento che anima
una ricerca nata dallo spirito razionalistico del 700, portata avanti quando gli ideali romantici non solo
riproponevano in modo nuovo il concetto di uso, ma quando si rinnovava l’idea di storia linguistica, nel suo
legame con il sentimento e l’idea di nazione.

3. SUGGERIRE IL SINONIMO: DALL’ELENCO ALL’INTERPRETAZIONE


3.1 Dizionari di oggi
La fortuna che hanno avuto i dizionari dei sinonimi nel XIX secolo, non è venuta meno nel 900. Nella
produzione moderna dei dizionari di sinonimi italiani, lasceremo da parte delle opere meno significative che
si limitano a fornire per ogni lemma una lista di parole, senza distinzioni di significato o con indicazioni
molto generiche, come in Giocondi.
L’elencazione accomuna oggetti anche molto diversi rispetto alla parola posta a lemma; sono inclusi termini
forestieri ed è specificata solo la distinzione tra uso proprio e figurato (quest’ultimo ricorre in espressioni
idiomatiche come essere tutti nella stessa barca, la cui conoscenza è presupposta nel lettore, visto che
queste espressioni non sono riportate o richiamate). Verso questi tipi di dizionario, Rosselli mostrava
un’ironica diffidenza, paragonandoli al fast food rispetto al ristorante di qualità: suggeriva di chiamarli
“prontuari”, “repertori” e non “dizionari”, poiché mancavano al loro interno le “dizioni” o “frasi”. Il rischio
presente in opere del genere, secondo Rosselli, sta nella possibilità che la serie indifferenziata suggerisca un
termine fuori corso, o di registro inadeguato alla situazione. In realtà il rischio non sta solo nella possibile
contaminazione tra livelli stilistici e formali diversi, ma anche nella possibile confusione di aree semantiche.
La lista indifferenziata si giustifica in un prontuario piccolo, economico e di uso veloce. Un vocabolario del
genere serve per aiutare la memoria, con la funzione di “pronto soccorso lessicale”. Analoga è la funzione
del dizionario dei sinonimi che correda i programmi di scrittura per computer, i quali propongono una lista
di parole senza ulteriore indicazione. Si consulti, per esempio, il dizionario dei sinonimi (per l’italiano) che
correda Word 2003 di Microsoft, usando per campione la parola barca. Si otterrà la seguente lista
(nell’ordine): imbarcazione, natante, navicella, battello, chiatta, yacht, scialuppa, canotto, gondola,
canoa, piroga, lancia, schifo, zattera, motoscafo, peschereccio e poi, per l’amministrazione domestica,
famiglia, ménage, baracca, lavoro, affare, commercio. I suggerimenti sono analoghi a quelli che si
ottengono consultando il repertorio di Giocondi, cioè uno strumento tra i più semplici e senza ambizioni.
È ovvio che un dizionario dei sinonimi, per andare al di là del semplice elenco di parole, è costretto a
istituire gerarchie e a fornire precisazioni. Tutti i maggiori dizionari procedono in questo modo, articolando
le rispettive voci in maniera diversa. Paragoneremo la voce Barca in alcuni dizionari tra i più comuni e
usati. In Pittàno la struttura della voce è ancora vicina al modello dell’elenco indifferenziato da cui abbiamo
preso le mosse, anche se vengono aggiunti nuovi elementi. C’è l’aggiunta di Barca nel significato di “bica”
(con lemma autonomo), ci sono nuove indicazioni fraseologiche e nuovi rinvii, a cui si è guidati anche
attraverso alcuni espedienti grafici, come l’uso del fondino grigio.
Per staccarsi dalla scarna indicazione dei sinonimi indifferenziati, si deve ricorrere a una trattazione ampia e
commentata, che incrementa lo spazio occupato. Un esempio di questa soluzione si ha in Roselli dove è stata
introdotta entro parentesi quadra l’etimologia, ma troviamo soprattutto una serie di definizioni simili a
quelle del comune dizionario, attraverso le quali i sinonimi vengono differenziati in piccoli gruppi. Non
sono presenti alcuni pseudosinonimi molto specifici incontrati nei dizionari precedenti, per esempio non
compare il termine gondola. L’uso figurato viene limitato ad alcune frasi idiomatiche. I primi 3 sinonimi
indicati, battello, imbarcazione, scafo restano tra loro indifferenziati, mentre i sinonimi descritti nel seguito
della voce sono classificati in modo accurato. Eppure questi 3 primi sono proposti come più generici, quindi
destinati a rendersi subito disponibili. Il dizionario così concepito offre maggiori informazioni; lo spazio
occupato dalla voce si è fatto più ampio, anche se il numero totale dei sinonimi presentati può essere anche
minore rispetto ai suggerimenti dei dizionari a elenco indifferenziato. Una trattazione ancora più ampia si
ritrova in Cinti, in cui tutti i termini più o meno simili a barca, prima elencati senza nessun commento,
vengono definiti uno per uno. Questa ampiezza di descrizione è casuale perché la voce Barca fa parte di
quella serie limitata di voci per le quali la revisione editoriale del vecchio dizionario del Cinti ha comportato
l’aggiunta di una scheda di sinonimia ragionata (sono 400 queste schede). Questa scheda non fa nessuno
sforzo per organizzare la materia, ma fornisce una definizione o una descrizione molto discorsiva per
ognuno dei vari natanti proposti come possibili sinonimi di barca, più o meno come se l’utente cercasse i
vari termini in un comune dizionario dell’uso. Secondo la presentazione di Dossena, attraverso questi
inserimenti, il Cinti diventerebbe un ottimo dizionario analogico, il quale è un concetto problematico per la
sua ampiezza.
Solo i dizionari più recenti si sono posti il problema di conciliare spazio e informazione, cioè di far sì che
l’occupazione di righe fosse la minore possibile rispetto alla notevole quantità di informazioni date
relativamente all’uso e significato dei vari sinonimi proposti. Breve è la voce nel De Mauro.
Tralasciando il tratto caratteristico del dizionario di De Mauro, ossia l’impiego delle marche d’uso, le quali
sono costituite da coppie di lettere maiuscole, in carattere grigio per la voce a lemma, in carattere rosso per i
sinonimi proposti. A prescindere dalle marche d’uso la voce si articola in due sezioni, distinguendo la barca
“a remi” e “a motore” (non è presente la tipologia della “vela”) e individuando così una doppia serie
sinonimica. Anche in questo caso, come nel modello a elenco indifferenziato, mancano indicazioni
discorsive sulla differenza tra gli pseudosinonimi. Non vi è nessun commento del compilatore che può
essere usato come guida, ma in compenso si è fatto ricorso a una soluzione semplice e indiscutibile: si è
precisato che quelli elencati, tranne il primo, sono iponimi (IPON. In neretto). Aggiornata rispetto all’uso
comune dell’italiano è l’indicazione del significato di barca per “panfilo”, anche se non si ricava la litote, la
quale accompagna sovente questa designazione, applicata a quello che sarebbe “un cabinato con motore
entrobordo” o “un veliero con deriva fissa, a 2 o 3 alberi”. Molto sintetica è l’indicazione “tess.” Del
significato 4, che segue il 3 metaforico: si tratta di un significato tecnico, relativo all’industria tessile, come
precisa l’abbreviazione “tess.”; ma per capirne il senso si deve ricorrere al dizionario generale di De Mauro,
dal quale si capisce che la barca può essere anche una vasca speciale usata per la tintura delle stoffe. Il
dizionario di De Mauro, ricorrendo all’indicazione di “iponimo”, concilia la correttezza semantica con la
massima semplicità ed economia di struttura.
La soluzione usata non è molto diversa da quelle a cui fa ricorso Simone, il più ambizioso e innovativo tra i
recenti vocabolari di sinonimi: la voce presenta un’accurata etimologia (assente in altre opere del genere,
come in De Mauro). Entro quadre, e con un carattere diverso, viene introdotta per ognuno dei 2 significati
individuati la definizione lessicografica, dove viene menzionata anche la barca a vela, oltre a quelle a remi e
a motore (non è menzionato il termine tecnico dell’industria tessile. Nella voce viene usato (come già in De
Mauro) il rosso per i numeri arabi che individuano i significati, e anche per la serie di simboli che sono
fondamentali nella lettura della voce. Il segno simile ad un uguale, ma lievemente ondulato individua quelli
proposti come “sinonimi veri”. È dato spazio alle forme letterarie, assenti nella corrispondente voce del De
Mauro. Un tondino rosso introduce le espressioni idiomatiche e figurate. La doppia freccia introduce i
contrari. Vi è un altro simbolo stampato in colore nero, in forma di freccia diretta verso il basso, con l’asta
disegnata a linea doppia: introduce gli iponimi. Ne troviamo alcuni molto specifici, come la “gondola” che
era stata eliminata in altri dizionari. Le indicazioni fornite sono tante, espresse in modo sintetico e
formalizzate attraverso simboli.
Il dizionario di Simone indica con le sottolineature il sinonimo “tipico”, cioè quello corrente, sicuro e
usuale. Nella voce esaminata questa indicazione non è fornita perché un sinonimo del genere non esiste.
L’assenza del segno è fondamentale. Nonostante ciò restano aperti alcuni problemi che si riscontrano in ogni
trattazione relativa alle sinonimie dove in molti casi rimane un margine di soggettività. Infatti, se ci
limitiamo a confrontare i sinonimi suggeriti dai diversi dizionari, notiamo che non c’è un pieno accordo.
Pensiamo a barca: il dizionario di Simone propone battello, imbarcazione, natante, scafo prima della lista
degli iponimi. La scelta è uguale a quella di Rosselli, mentre De Mauro prima di indicare gli iponimi,
propone solo imbarcazione. La selezione segue un criterio condivisibile: infatti battello spesso indica unità
navali grandi, anche a vapore e per trasporto di passeggeri, sul modello del francese bateau; quanto a scafo,
il significato primario è quello di una specifica parte della barca o della nave. Tutti i sinonimi di pronto uso
che si possono usare per barca, quindi, se non sono iponimi, sono iperonimi, perché tale è anche il generico
imbarcazione proposto da tutti i dizionari: ma nessun dizionario avverte che le cose stanno così.
L’utente può trarre vantaggio da un dizionario dei sinonimi che fornisce un numero maggiore di
informazioni, evitando il semplice allineamento o accumulo indifferenziato di presunti termini equivalenti.
L’organizzazione sistematica della voce e l’uso di appositi simboli, come in Simone, permette di risparmiare
spazio rispetto alle descrizioni diffuse, usate per esempio da Rosselli, le quali evitano al lettore la fatica di
imparare l’uso dei simboli. Bisogna verificare se la compilazione di voci molto diffuse abbia comportato in
alcuni casi una diminuzione del numero dei lemmi. Verificheremo le voci presenti nei dizionari esaminati,
raccogliendo le cinque voci precedenti e le cinque voci seguenti il lemma Barca. Gli elenchi non sono
omogenei. Il corpus, spesso, nei dizionari dei sinonimi, è soggetto a condizioni prestabilite. La crocetta
indica la presenza nel singolo dizionario, la casella vuota indica l’assenza; nell’ultima riga è calcolata la
percentuale di presenze relativa al piccolo corpus preso in esame con questo metodo.
Indici statistici del genere hanno valore indicativo. Non servono a giudicare la qualità di un dizionario. Un
numero ridotti di voci può essere frutto di una precisa scelta nell’abbattimento dei lemmi. La ricognizione
mette in evidenza alcuni elementi: salta all’occhio il ridotto numero di voci presenti nel Giocondi, un
dizionario che non fornisce indicazioni d’uso. Un ottimo rapporto tra informazioni e impiego dello spazio è
stato raggiunto da De Mauro: nel confronto, quest’opera, raggiunge la massima percentuale statistica,
mostrando di raccogliere un buon numero di voci, senza rinunciare ad orientare il lettore in maniero però
veloce. Lo spazio è guadagnato anche eliminando ogni definizione e facendo a meno dell’etimologia. In
questo dizionario ci sono i termini scientifici di uso specialistico barbula e barbozza: termini del genere
rientrano tra i lemmi abbattuti. Il Rosselli è riuscito ad essere ricco di lemmi, pur affidandosi a spiegazioni
verbali che occupano molto spazio (non ha usato simboli codificati). Simone, di grossa mole, usa molti
simboli e seleziona i lemmi, arricchendo però l’informazione su quelli rimasti. Le procedure dei dizionari di
sinonimi possono essere molto diverse, e diverso il risultato.

3.2 Le intenzioni: dalla comunicazione sociale alla glottodiversità


Non tutti i dizionari di sinonimi dichiarano il loro obiettivo. In alcuni casi, le presentazioni degli autori
lasciano capire che le loro opere hanno lo scopo di soccorrere la memoria o aiutano a scrivere meglio. Solo
pochi autori si pongono il problema delle esigenze del pubblico o affrontano la questione delle
caratteristiche scientifiche richieste ad un moderno dizionario di sinonimi, che dovrebbe tener conto dei
progressi della linguistica. Non tutti i riferimenti alla teoria, anche quando presenti, si traducono in effettive
e specifiche indicazioni pratiche, in reali informazioni sull’organizzazione del dizionario.
Le indicazioni che giustificano in modo più puntuale l’operato del lessicografo, per esempio, sono presenti
in Rosselli, il quale si confronta più di tutti con la tradizione ottocentesca, esercitando la critica sui Sinonimi
di Tommaseo. L’autore segnala le sue novità rilevando i difetti di questo dizionario del XIX secolo: dichiara
di aver voluto illuminare il lemma e le differenze tra i sinonimi, divisi per vari gruppi scelti per ciascun
significato, anziché illuminare dall’interno ciascun sinonimo, come fece il Tommaseo. Rosselli poi si pone il
problema se sia legittimo indicare forestierismi e dice che un dizionario dei sinonimi della lingua italiana
non dovrebbe registrare nessuna parola straniera; tuttavia la presenza di esotismi si giustifica con il fatto che
oggi sono molto usati. L’autore guarda alla tradizione nostrana, non dimostra di interessarsi alle fonti
teoriche o pratiche straniere. Il dizionario soddisfa sia chi cerca un sinonimo da usare bene, sia chi vuole
conoscere le originarie e piccole differenze di significato. Il sintetico Folena – Leso vuole superare la
funzione di pronto soccorso lessicale perché vuole servire come un modesto, in quanto delimitato, strumento
di educazione linguistica, non alternativo, ma complementare a un buon dizionario generale. La Premessa
di questo dizionario si sofferma sul problema della ripetizione così deprecata dalla didattica linguistica ed
evitata dagli utenti più acritici dei dizionari dei sinonimi, la quale invece, in alcune condizioni, è inevitabile
e doverosa nei confronti della proprietà e correttezza dell’enunciato. È uno dei rari casi, se non l’unico, in
cui gli autori di un dizionario dei sinonimi prendono una posizione così decisa contro un luogo comune che
trova credito presso il largo pubblico. Si tratta di un problema complesso, percepito in modo diverso da
lingua a lingua, più sentito in italiano rispetto ad altri idiomi di cultura. La maggior parte degli utenti del
vocabolario non sarà in grado di distinguere una ripetizione determinata da povertà lessicale e una ripresa
volontaria, stilisticamente motivata.
Pittàno contiene un excursus sulle più recenti acquisizioni della linguistica nel campo della sinonimia, ma
poi non spiega in che modo ha usato questi studi. La prefazione di Pittàno risale all’edizione del 1987 del
dizionario, mentre l’edizione del 1997 è postuma, e porta in aggiunta una breve nota dell’editore, dove si dà
notizia di alcune novità introdotte, della crescita del 35% dell’opera e sono indicati i lessicografi che hanno
terminato il lavoro.
Per avere indicazioni più precise sulla funzione del dizionario dei sinonimi, biosgna prendere in
considerazione opere più recenti, realizzate da linguisti importanti come De Mauro o Simone. De Mauro
collega il suo dizionario alla battaglia per la chiarezza della comunicazione, alla quale lui e la sua scuola si
dedicano attivamente. L’introduzione tratta questo tema descrivendo il quadro dell’Italia dopo
l’ampliamento dell’uso parlato e scritto dell’italiano, il quale non ha prodotto perdita di complessità nella
lingua nazionale. Per questo il dizionario generale e quello dei sinonimi devono orientare. Come in altri
vocabolari della serie coordinata e diretta da Tullio De Mauro, la funzione dell’orientamento è affidata alle
11 marche d’uso segnate in rosso, FO (fondamentale), AU (ad alto uso), AD (ad alta disponibilità), CO
(comune), BU (a basso uso), TS (tecnico – specialistico), LE (letterario), RE (regionale), DI (dialettale), OB
(obsoleto), ES (esotismo). Queste marche sono in parte ricavate grazie a calcoli statistici. Quelle di più alto
valore, le più nuove, per guidare gli utenti sono le prime, perché tutti i dizionari di oggi, attraverso
indicazioni, specificano quali voci siano letterarie, obsolete, tecniche, dialettali o forestiere. La
classificazione delle parole più frequenti o più conosciute, invece, non è comune. L’ambizione che domina il
dizionario di De Mauro si ricollega agli obiettivi della moderna comunicazione sociale. Infatti questi
Sinonimi portano una postfazione, in forma di saggio autonomo, intitolata Scegliere i sinonimi parlando e
scrivendo: essa affronta il problema della leggibilità e della comprensibilità per rendere esplicita la funzione
affidata alla marcatura con le 11 sigle sopra elencate, destinate a permettere scelte consapevoli mediante il
controllo degli effetti comunicativi, in relazione all’interlocutore, alla situazione della comunicazione, alle
intenzioni dell’atto comunicativo.
Attento alle esigenze dell’utilizzatore è anche Simone, anche se in questo caso le istanze sociali sono meno
pressanti che in De Mauro e lasciano maggiore spazio ad altre esigenze di esplorazione del lessico. Simone
ha cercato di delineare una tipologia particolareggiata delle condizioni d’uso della sua opera lessicografica.
Il primo utilizzatore è stato individuato in uno scrivente che ha bisogno di aiuto per trovare la parola che
esprime nel modo più efficace ciò che ha in mente. Questo scrivente è immaginato sia come un utente
professionale della scrittura, sia come un utente occasionale, studente, o comune cittadino che elabora una
lettera di reclamo. Lo scrivente è l’utilizzatore primario. La sua identità corrisponde al tipo ideale a cui
avevano guardato tutit gli autori recenti di prontuari di sinonimi, lontani dalla prospettiva filosofica
suggerita dalla teoria settecentesca della justesse. Il secondo tipo di utilizzatore è incuriosito dai rapporti tra
le parole, vuole verificare quali siano le corrispondenze tra parole letterarie e parole comuni. Dietro questa
figura si nascondono le esigenze primarie di studio e ricerca in ambito semantico. Ma le esigenze di questo
utilizzatore riemergono anche in altro modo. Il terzo utilizzatore a cui guarda Simone è identificato nello
straniero che studia l’italiano, il quale deve scoprire a quale registro appartiene un determinato termine in
modo da distinguere subito l’uso di due verbi come cedere e mollare. Questo utilizzatore è forse
implicitamente previsto dagli altri lessicografi, ma solo i dizionari più ricchi di informazioni possono
venirgli incontro, e non è facile risolvere i suoi dubbi, pur offrendogli molti dati. Per la distinzione mollare
– cedere, per esempio, non la si trova in Rosselli né partendo dalla voce Cedere (dove mollare non è
previsto) e nemmeno partendo dalla voce Mollare dove cedere è sì indicato, ma all’interno di una serie che
non suggerisce distinzioni d’uso utili allo scopo specifico. Pittàno indica mollare sotto la voce Cedere, ma
non ci sono indicazioni d’uso adatte e lo stesso accade sotto la voce Mollare dove pur si trova il rinvio a
Cedere. Nemmeno De Mauro aiuta in questo caso perché dice che sì, mollare è un termine comune, ma
comuni sono classificati anche “crollare, darsi per vinto, demordere” che costituiscono la medesima serie in
cui compare mollare. In questo caso emerge forse un limite nella classificazione di De Mauro, fondata su
base statistica, non su base stilistica. Il termine cedere è classificato come FO, fondamentale, il termine
mollare come CO, comune, o AD, alta disponibilità: da questo punto di vista, mentre cedere appartiene alla
prima categoria basilare e necessaria del lessico, mollare appartiene ad una categoria diversa. La
classificazione si ferma qui e non ci avverte che mollare nel senso di cedere aggiunge una sfumatura
familiare e colloquiale. Solo Simone risolve il problema indicando tra gli equivalenti di cedere, nel
significato di “farsi indietro, cessare di opporre resistenza”, dapprima il corrispondente comune arrendersi,
poi capitolare e quindi mollare e piegarsi, ma mollare con l’indicazione di “familiare”. La distinzione
passa in questo caso attraverso l’indicazione del contesto, più o meno elevato, in cui il termine trova la sua
collocazione ottimale. Un risvolto del genere scappa dalla strategia educativa messa in atto da De Mauro, e
rientra tra gli obiettivi riconosciuti e fatti propri da Simone, secondo il quale il dizionario ha anche lo scopo
di conservare un bene culturale che versa in un grave pericolo di sopravvivenza: questo bene culturale è la
ricchezza delle parole di una lingua, definita con il neologismo glottodiversità, termine assunto per indicare
l’intricata sovrapposizione di strati sociali, registri, tonalità che è corradicata ad una lingua e che oggi si
tende sempre di più a livellare, appiattire e far scomparire. Il giudizio di Simone sulla situazione dell’italiano
contemporaneo è diverso da quello positivo, ottimistico di Tullio De Mauro.

3.3 Il sinonimo che non c’è


L’esempio di cedere/mollare, con il relativo riferimento alle distinzioni di registro, marca bene la differenza
che passa tra Simone e De Mauro. De Mauro privilegia l’aspetto comunicativo, mentre Simone vuole
restituire al dizionario dei sinonimi il compito che ebbe nei secoli passati, quando era considerato uno
strumento per sviluppare il gusto della lingua e la precisione del dire, analisi prima che comunicazione. In
Simone è chiaro lo sforzo fatto per attraversare la lingua nella sua complessità, offrendo il livello comune,
l’ordinarietà comunicativa, ma al tempo stesso suggerendo le discese verso il basso e le risalite verso l’alto,
evitando di dare l’impressione che l’alto non sia importante perché corrisponde ad una fascia statistica
minoritaria. Si può cogliere l’allarme nel passo di Simone relativo ai danni del livellamento, simile a quello
che Pasolini definì “l’omologazione linguistica” che si traduce nella povertà lessicale delle nuove
generazioni di italofoni. In Simone, sotto la voce Mollare, trovo, nel senso “familiare” di “lasciar perdere”,
gli equivalenti “abbandonare, arrendersi, capitolare, cedere, dare forfait, (non com.) decampare, demordere,
desistere, gettare la spugna, (fam.) piantarla, recedere, rinunciare, smettere”. Si avverte che cedere (per
questo sottolineato) è l’equivalente più normale non marcato, che piantarla è “familiare (stilisticamente il
più vicino a mollare), che decampare non è comune. Le indicazioni per l’uso elevato, però, non
restituiscono il senso della stratificazione, cioè non lasciano recuperare tutti gli elementi di cui si è
preoccupato Simone. Eppure lo sforzo dell’autore è andato in questa direzione, come si ricava da un’altra
indicazione: questo dizionario non contiene solo sinonimi e contrari, ma dà qualcosa di più vasto: è un
dizionario delle principali relazioni di significato tra le parole e della stratificazione sincronica e diacronica
del lessico. Nella lista dei sinonimi e dei contrari, infatti, sono state inserite parole di ogni origine: antiche,
moderne, popolari, familiari, volgari, tecniche, regionali, gergali, letterarie, poetiche, espressioni composte
da più parole (le polirematiche). Nel ricostruire questa complessa stratigrafia, la ricerca ha spaziato dalle
forme più antiche fino a quelle più recenti. In questo modo, il lettore potrà vedere, voce per voce, come una
parola abbia accumulato i suoi equivalenti e i suoi contrari attraversando tutti gli strati della lingua, in
sincronia e diacronia.
Questo programma viene perseguito così: prendiamo la parola pianeta. Molti dizionari suggeriscono
sinonimi: (est.) corpo celeste, stella, astro” in Pittàno, mentre in De Mauro “IPERON. CO astro, corpo
celeste”. Rosselli è il più ricco di suggerimenti discorsivi e avverte che, mentre pianeta è un corpo celeste
non dotato di luce propria, con il termine astro vengono indicati anche i corpi celesti forniti di propria luce,
e che stella vale “corpo celeste in generale” solo nel linguaggio poetico. Rosselli è più preciso degli altri, ma
Simone lascia ancora meno spazio ai dubbi perché al significato 1 di pianeta (legato all’astronomia), dopo
aver dato la definizione (“corpo celeste non risplendente di luce propria”), non pone nessun sinonimo,
mentre al significato 2 (poetico), dopo aver dato una definizione nuove e diversa rispetto a quella di 1
(“corpo celeste, compresi quelli splendenti di luce propria”), suggerisce i sinonimi “astro, sole, stella”.
L’attenzione al significato poetico rafforza il rigore della definizione scientifica, anche se si potrebbe
osservare che nel latino di Galilei (nel Sidereus nuncius) i termini planetae e sidera si alternano come
equivalenti, ed è pur vero che la distinzione moderna tra i significati 1 e 2 risulta come opposizione tra uso
scientifico e poetico, ma con l’avvertenza che nella scienza del passato le cose non stavano così. Qui la
ricerca semantica si intreccia con la storia della lingua, dalla quale emerge in una determinata fase
un’opposizione, laddove prima c’era interscambiabilità. L’unico modo per rendere informato il lettore
sarebbe il ritorno forse al dizionario dei sinonimi concepito come saggio, esposizione discorsiva e
sistematica, come i lessicografi ottocenteschi, come Grassi e Tommaseo. La complessità della stratificazione
è difficile da comunicare al lettore in modo sintetico, attraverso simboli, in voci lessicografiche brevi e
formalizzate. Però bisogna prendere atto della scelta che caratterizza il dizionario di Simone: ha fatto bene a
non indicare i sinonimi quando non esistevano, quando era poco utile rintracciarli a tutti i costi.

3.4 Teoria linguistica e “corpora”


Già Rosselli ha dedicato un’ampia discussione al dizionario di Tommaseo per definire il proprio indirizzo di
lavoro. In altri casi è presente il riferimento a principi più moderni, come in De Felice. L’introduzione di
Pittàno, la stessa della prima edizione, dice di acquisire i risultati della linguistica moderna: sintetizza 2
diverse classificazioni dei sinonimi, di Devoto e di Ullmann, con vari riferimenti alla manualistica di Lyons
e di Berruto, ma non è certo che queste nozioni abbiano influito sulla strutturazione dell’opera e
sull’organizzazione delle voci. Molti riferimenti teorici sono presenti anche nell’introduzione di De Mauro
che prende le mosse dall’etimologia greca delle parole sinonimo e sinonimia, e riassume il pensiero di
Aristotele e della retorica classica, per arrivare alla descrizione dei rapporti tra parole sulla base
dell’iperonimia e iponimia, introducendo anche il tema delle espressioni sinonimiche di tipo polirematico.
La parte finale del saggio illustra le marche d’uso, cioè motiva la struttura fondamentale del dizionario di cui
De Mauro è autore e ideatore. Quanto a Simone, la parte che fa riferimento a concetti della linguistica è
breve. Si tratta di una sintesi lucida, dedicata al problema della mancata economia che in questo caso si
manifesta nel sistema della lingua, dove la presenza di una miriade di sinonimi appare come un paradosso
che i teorici del linguaggio non hanno ancora sciolto. Come ci avevano già insegnato i teorici del XVIII
secolo, la perfetta sinonimia non esiste e molti sinonimi sono solo al servizio dell’espressività, anche in base
a scelte del parlante. Questa premessa, in cui la teoria settecentesca dell’inesistenza della perfetta sinonimia
viene ripresa e riconosciuta come valida, fa riflettere sulla leggerezza di Giampaolo Dossena che, fattosi
prefatore di un dizionario di sinonimi diceva che le persone rigorose che hanno da ridire su tutto e tutti,
dicono che non esiste nessun sinonimo e quindi non bisogna credere loro. Certa divulgazione può a volte
tradire la verità, facendo leva sul fallace senso comune.
Un altro correttivo è De Felice che avverte di aver mantenuto nel suo dizionario il termine sinonimo solo
per esigenze di praticità e chiarezza e dice che la relatività, la parzialità e la negazione del valore
tradizionale del termine sinonimo, sono rilevate già nel titolo dall’aggettivo critico che qualifica il
dizionario, e nel testo dà definizioni aggiuntive come “pretesi sinonimi, sinonimi parziali, sinonimia
parziale, possibile sinonimia”.
Infatti la sinonimia globale è negata, fuorché in alcuni casi eccezionali. De Felice dice che l’intento del
dizionario è, una volta individuate le sfere semantiche in cui possono concorrere due o più vocaboli, quello
di rilevare le specifiche differenziazioni di ognuno di essi sia all’interno di quel valore concettuale generale,
sia negli usi fraseologici e sintattici, nei valori stilistici, espressivi e affettivi, nella funzione e nel livello e
registro particolare. L’intento di definire, in tutti i casi di possibile e parziale sinonimia, il diverso statuto
linguistico ed extralinguistico di ognuno dei possibili e parziali sinonimi.
Il materiale raccolto in questo dizionario è troppo limitato per costituire un vero dizionario dei sinonimi
italiani, paragonabile alle altre opere di maggiore mole.
Non sempre i dizionari di sinonimi dichiarano in che modo è stato definito il corpus e quali sono stati gli
abbattimenti messi in atto per ridurre il numero dei sinonimi o per definire la scelta di quelli più utili. Quartu
dice di contenere 20.000 vocaboli italiani ordinati dal pc per gruppi di significato e campi di riferimento, ma
la menzione del pc come protagonista di un ordinamento non motivato lascia perplessi coloro che si
intendono di informatica. Quartu dice di aver abbattuto arcaismi, termini scientifici e disusati. Ventimila
vocaboli sono anche quelli presenti in Coppo che dice di aver limitato i sinonimi, avendo come obiettivo la
compilazione di un dizionario analogico della lingua italiana, l’erede del dizionario di aggiunti del 700,
anticipato dall’intento retorico di alcune raccolte lessicali del 500. I rinvii suggeriti da Coppo sono a volte
sorprendenti, come quando sotto barca rimanda a scarpa perché le scarpe vecchie possono essere dette
barche. Questo è l’unico dizionario dei sinonimi che offre un rinvio del genere, curioso e indicativo di una
certa estemporaneità caratteristica di questa opera diversa dalle altre proprio per l’aspirazione analogica che
si trasforma facilmente in un labirinto in cui il lessicografo si perde.
Quanto all’esplicitazione quantitativa dei dati, la quarta di copertina di Pittàno è molto precisa: dichiara 40
mila voci, 68 mila accezioni, 300 mila sinonimi, 130 mila sinonimi e contrari, 52000 locuzioni. La quarta di
copertina di Rosselli dichiara 30 mila voci, 10 mila espressioni e locuzioni figurate, 200 mila sinonimi.
Chiara è la provenienza dei materiali contenuti in De Mauro. Questo autore dichiara sempre come è arrivato
alla composizione del corpus (De Mauro ha ironizzato sul fatto che i lessicografi non amano dire da dove
prendono le parole dei loro dizionari, anche perché spesso hanno l’abitudine di copiarsi a vicenda). De
Mauro rielabora, integra e sistema ciò che riguarda i sinonimi e contrari che si trova nel Grande dizionario
italiano dell’uso, il GRADIT, che deriva dal Conciso Treccani, integrato e alleggerito di quelle voci che
non davano luogo a sinonimi o contrari pertinenti.

3.5 Materiali aggiuntivi: tavole, schede, cartine


Per esigenze commerciali, oltre che per curiosità scientifica, i dizionari di sinonimi si distinguono mediante
l’esibizione di sezioni aggiuntive in cui si esercita lo sforzo di inventiva degli autori e editori. In Rosselli c’è
un breve Prontuario dei termini linguistici usati nella trattazione dei vocaboli. Pittàno contiene
un’appendice di 3500 sinonimi geografici e una di 2500 pseudonimi. Si tratta di un repertorio che solo in
senso lato ha a che fare con la vera sinonimia. Più specifica è una serie di 248 schede di sinonimia strutturata
che somigliano al dizionario ottocentesco alla maniera del Grassi o del Tommaseo. Simili a queste sinonimie
strutturate sono le sinonimie ragionate inserite in De Mauro. Il loro numero è limitato: sono 35. In esse,
particolare attenzione è data all’etimologia remota che è assunta come punto di avvio per la spiegazione del
significato, inteso nel suo divenire diacronico (una lingua, il suo lessico, gli usi di ciascuna parola, i loro
significati, accezioni e sensi sono formazioni mobili e storiche). De Mauro è corredato di 54 tavole di
nomenclatura che spaziano da argomenti astratti come “Religione”, fino ad argomenti concreti e tecnologici
come “Telefonia” e “Computer e Internet”. Tavole di nomenclatura si trovano anche in Simone che propone
finestre di approfondimento con un’articolazione diversa a seconda dei casi. In esse si riconosce l’eredità
della tradizione discorsiva propria del dizionario etimologico ottocentesco, che ragionava sull’uso delle
singole voci (vi entrano puntate nell’italiano contemporaneo, scorribande tra gli usi metaforici e figurati, e
informazioni dettata da curiosità). Nuove in un dizionario dei sinonimi sono le carte geografiche inserite da
Simone, dedicate ai geosinonimi italiani. Sono il frutto di dati raccolti da colleghi accademici che hanno
fornito una consulenza per la regione in cui vivono (il dialettologo Tullio Telmon o lo storico della lingua
italiana Francesco Bruni). Queste mappe illustrano anche geosinonimi dell’italiano regionale, anche se
Simone ammette che non è sempre facile distinguere tra l’italiano regionale e il dialetto vero. Non vengono
date le denominazioni in uso nelle aree rurali, ma quelle diffuse nei capoluoghi delle varie regioni: la
precisazione è importante perché altrimenti molte carte risulterebbero sbagliate (in Piemonte la zona delle
Langhe conosce il tipo “canale” per “grondaia”, così come certe zone dell’Italia meridionale, mentre la
cartina indica solo il tipo “gronda” o “grunda” o “grundana”).
La tipologia degli strumenti che accompagnano i moderni dizionari di sinonimi è varia e originale.
Rappresenta un momento di sinergia tra l’inventiva degli autori e le esigenze di caratterizzazione care agli
editori, a cui non sono estranei gli intenti legati alla commercializzazione.

3.6 I sinonimi nei dizionari generali della lingua italiana (e nei loro cd – rom)
Anche molti dizionari generali contengono rinvii a sinonimi e contrari, tanto è vero che a volte uno specifico
dizionario dei sinonimi è nato dalla riutilizzazione di questi materiali. De Mauro è nato dal GRADIT, come
è dichiarato nella presentazione. In altri casi il dizionario dei sinonimi si collega a un progetto lessicografico
in cui il dizionario generale è il punto di riferimento: così Simone che completa il progetto del Vocabolario
della lingua italiana, il “Treccani”. Lo spazio dato ai sinonimi nei dizionari generali è limitato e sintetico.
Prenderemo in esame dei dizionari in un solo volume. Tra essi, lo Zingarelli che avverte che i sinonimi sono
stati registrati senza pretesa di completezza e sono dati come sinonimi termini non completamente
sovrapponibili, ma sostituibili. Questi sinonimi e contrari, dove presenti, sono introdotti da abbreviazioni in
maiuscoletto: SIN., CONTR. e CFR. Sotto la voce Attuale, per esempio, CFR. rinvia ad “abituale”; sotto
Abate, CFR. rinvia a “badessa”. Si tratta di un embrione di vocabolario analogico. Usando l’edizione
elettronica dello Zingarelli, dotata di un ottimo programma di interrogazione, si possono estrarre tutti i dati
relativi alla sinonimia. Le voci contrassegnate da un rinvio CFR. sono 1838; quelle contenenti rinvio SIN.
Sono 8240 e quelle con rinvio CONTR. sono 1715.
Tra gli altri dizionari generali in un solo volume, la vecchia edizione di Sabatini – Coletti del 2003 aveva
introdotto i sinonimi facendoli precedere da una “S” inserita in un circoletto, considerandoli parte integrante
della definizione, come avvertiva la Guida all’uso nella sezione relativa all’Area semantica. Nel
successivo Sabatini – Coletti del 2008, questo segno grafico è stato sostituito dall’abbreviazione SIN.
stampata su fondino grigio. Il dizionario, in aggiunta, contiene rinvii ad equivalenti semantici introdotti con
formule come “detto anche, noto anche come”, usate soprattutto per nomi di piante e animali o per
tecnicismi.
Altri dizionari possono offrire la stessa informazione in forma diversa. Nel caso di Ailanto, per esempio, lo
Zingarelli indica: “SIN. Albero del Paradiso”. La versione elettronica del Sabatini – Coletti del 2008, come
già quella del 2003, non permette di estrarre tutte le voci caratterizzate dalla presenza di sinonimi per
valutarne la quantità complessiva.
De Mauro porta sinonimi e contrari, contrassegnati da una “S” e una “C” in neretto. L’avviso editoriale che
apre il dizionario avverte che le espressioni polirematiche possono comparire come sinonimi sotto una
monorematica. Nell’edizione elettronica di questo dizionario, un pulsante apposito diventa attivo solo
quando nella voce sono presenti sinonimi e contrari, permettendone la visualizzazione: il sinonimo compare
e scompare, a seconda di come vuole l’utente, allargando o accorciando il testo della voce e rendendosi
visibile nel sottosignificato a cui si riferisce. Il programma pone però qualche vincolo: non permette una
libera ricerca di tutto il materiale relativo ai sinonimi contenuto nel dizionario, come invece permette lo
Zingarelli del 2008. Infatti ogni interrogazione passa attraverso l’uso dei pulsanti prestabiliti e non è data la
possibilità di usare liberamente operatori logici booleani su stringhe e campi scelti a piacere.
De Mauro deriva dal GRADIT, di cui è la versione ridotta. Anche nel GRADIT sono inseriti sinonimi e
contrari: in coda ai sinonimi sono riportati gli iponimi e gli iperonimi, con un contrassegno (“ipon.” e
“iperon.”). Anche qui, come nel GRADIT, le espressioni polirematiche possono comparire come sinonimi
sotto una monorematica e viceversa. Il dizionario è dotato di un cd – rom con una maschera di
interrogazione molto elaborata, di uso non sempre intuitivo, che prevede l’interrogazione sia nel campo dei
sinonimi che dei contrari. Inserendo nel campo “sinonimi” la parola casa, il dizionario suggerisce in maniera
indifferenziata la serie abitazione, alloggio, appartamento, casa astrologica, casata, dinastia, edificio,
residenza, stirpe. Vengono estratti i sinonimi posti come definitori nei vari sottosignificati della parola
casa. Cliccando sulla lista dei risultati, si possono aprire le finestre corrispondenti alle varie voci, da cui si
desume il significato specifico di ognuna. Quando si visualizza una voce del dizionario non appaiono in
video le indicazioni relative a sinonimi e contrari, le quali nella stampa sono poste alla fine della voce,
precedute da “SIN.” e “CONTR.” Vi sono però anche qui appositi pulsanti che permettono di vedere
l’elenco dei sinonimi e contrari, e di usarli per navigare in una sorta di ipertesto. Come in altri programmi di
interrogazione, non è possibile estrarre l’intero contenuto di sinonimi, contrari, iponimi, iperonimi presenti
nel dizionario e quindi non si può valutarne la consistenza quantitativa.
L’altro grande dizionario della lingua italiana, il Duro (1986 – 1994), non ha i sinonimi nell’edizione a
stampa perché questa funzione è delegata a Simone che si presenta come un completamento. Il Duro è
proposto anche in versione su cd – rom, commercializzata in una confezione di lusso, in una scatola a forma
di libro. Il cd – rom contiene la seconda edizione del dizionario cartaceo, corredata di un dizionario dei
sinonimi, diverso da Simone. Il dizionario presente nel cd – rom è stato allestito da una redazione diretta da
Massimo Arcangeli. Il Treccani del 2003 non permette non permette l’estrazione di tutto il materiale relativo
alle sinonimie, condivendo questo limite con quasi tutti gli altri dizionari (tranne lo Zingarelli). Nel Treccani
quando si consulta una voce, un apposito pulsante permette di aprire una finestra aggiuntiva che suggerisce i
sinonimi. Il manuale d’uso avverte che l’apparato di sinonimia riguarda cinquemila termini di uso più
frequente e precisa che si è preferito evitare un’accumulazione dei sinonimi e proporre un modello
alternativo: una scelta più mirata che legasse le serie sinonimiche a un dominio di appartenenza. A tal fine si
sono evidenziati degli esempi di contestualizzazione di ogni lemma, che rispecchiano le articolazioni delle
varie accezioni, e a ciascuno esempio si è affiancata una serie sinonimica.
La finestra di visualizzazione è divisa tra le varie accezioni del termine cercato. Per la parola casa i sinonimi
sono divisi in 9 sezioni.2 La strutturazione è molto diversa da quella di Simone, il quale riformula in un altro
modo l’organizzazione del significato, introduce molte locuzioni, non prevede il significato 9, aggiunge il
significato di “campo della squadra che ospita una gara”.

3.7 Elogio dei sinonimi


L’utente medio della lingua usa il dizionario dei sinonimi anche più volentieri del vocabolario generale, dal
quale, spesso, si desume con facilità la stessa informazione. La fame di sinonimi potrebbe essere il segno di
una crisi: rivelerebbe la condizione media dell’italofono alla ricerca di promozione linguistica, convinto di

2
Vedere esempi pag. 367 – 368.
risolvere così problemi di competenza. Infatti, le strategie messe in atto dai più recenti dizionari di sinonimi,
prevedono questa possibilità.
Lo scrittore Giuseppe Pontiggia, in Prima persona ha spezzato una lancia a favore dello studio accurato dei
sinonimi, necessario per raggiungere lo stile chiaro. Il lessico dei nostri giovani, secondo lui, si riduce di
estensione, ritirandosi come un pozzo nel deserto. I sinonimi sono sempre più difficili da trovare, anche
perché non si sa cosa sono. Per descrivere uno stato di crisi, Pontiggia ricorre alla questione della scelta tra
sinonimi, dando loro importanza perché rivelatori dell’abilità linguistica. Lo scrittore si è soffermato sul
problema dei sinonimi per ribadire con un paragone scientifico (i gemelli monozigoti) quanto ci è noto fin
dalla riflessione settecentesca: lui non ha mai creduto all’esistenza dei sinonimi e nemmeno all’uguaglianza
dei gemelli, che è apparente nei monozigoti. Inizialmente sono uguali, ma dopo nove mesi, dopo aver
convissuto, saranno diversi.
Tra abitazione, casa, domicilio, dimora, appartamento, residenza, ci sono differenze importanti non solo di
reddito, ma di educazione, ambiente e cultura. Solo una mente rozza può pensare che siano uguali.
Lo scrittore prosegue proponendo una prova dei sinonimi per selezionare chi può diventare scrittore e chi
può essere inteso come lettore qualificato. Chi, di fronte alla scelta tra due parole, dice che è lo stesso,
secondo Pontiggia, va espunto dall’albo dei lettori e degli scrittori. Lo scrittore non deve percepire solo i
suoni delle parole, ma anche gli ultrasuoni. Dopo ricorda un esperimento fatto da giovani del Piccolo Teatro
di Milano: invitati a mimare presunti sinonimi, essi hanno compiuto gesti diversi, mostrando proprio con
essi il significato delle distinzioni.
Uno scrittore di oggi si è interessato al problema dei sinonimi, interpretandone la varietà non come segno di
crisi, ma vedendo i segni della crisi là dove non si riconoscono le differenze.

CAP. 8 – VOCABOLARI DEL ‘900 E DEL 2000: DALLA CARTA AL COMPUTER

1. GLI SCRITTORI E IL VOCABOLARIO

1.1 Lo zibaldone di Faldella e la brughiera di Svevo


“Se una letteratura si giova di essere letta con il vocabolario, questa è l’italiana”, scriveva Nencioni, il quale
subito si lamentava del fatto che la critica letteraria non aveva usato molto il vocabolario per interpretare gli
autori. Se lo avesse fatto, avremmo meno medaglioni e più informazione sul travaglio di coscienze
professionali degli scriventi. Questo travaglio è esistito: si pensi al rapporto tra Manzoni e il vocabolario
italiano di Cesari e quello dialettale di Cherubini, forse quello dell’Alberti, usati come strumento di lavoro,
confronto e ricerca. La lunga consultazione di opere lessicografiche diverse, l’esperienza che ne aveva fatto,
sta all’origine della proposta al ministro Broglio per realizzare un nuovo vocabolario dove il Lombardo
sperava di veder realizzato lo strumento per l’unificazione linguistica nazionale. Consideriamo la posizione
individuale dello scrittore lombardo, in quanto legata alle sue scelte stilistiche, al suo insegnamento di
prosatore e al laboratorio della sua scrittura limpida: le postille che appose alla Crusca di Cesari permettono
di seguire lo svolgersi di un dialogo insoddisfatto con un vocabolario inadeguato, disinteressato alle
possibilità della lingua viva. Nelle postille, accanto al fastidio per la mancata distinzione tra lingua viva e
lingua morta, si riconosce la soddisfazione dello scrittore di fronte alle occasionali concordanze toscano –
milanesi registrare, quando si potevano riconoscerle, così come spesso sono registrati i corrispondenti
francesi alle voci della Crusca.
L’esperienza di Manzoni è eccezionale, ma non isolata nell’800. Si possono citare altri casi di scrittori alle
prese con il vocabolario, e non solo puristi come il padre Bresciani. Lo scapigliato milanese Carlo Dossi
diceva di preferire la lettura di un vocabolario a quella di un romanzo e apponeva segni alla copia in suo
possesso del dizionario scolastico del Bazzarini per evidenziare le parole rare. Lo scapigliato piemontese
Giovanni Faldella allestì un suo Zibaldone, vero dizionario personale, opera autonoma, anche se nata per
completare gli strumenti lessicografici usati dallo scrittore, prima di tutto il Vocabolario del Fanfani. Lo
Zibaldone di Faldella fu iniziato nel 1864 e in 20 anni arrivò a circa tremilaseicento lemmi. Vi confluirono
parole ricavate dagli autori comici toscani del 500, parole del toscano moderno, tratte dall’epistolario di
Giusti, da varie opere del Fanfani e dal volume del Giuliani Moralità e poesia del vivente linguaggio
toscano. Le voci derivano da spogli originali, non erano mediate attraverso lavori lessicografici di altri, ma
il vocabolario del Fanfani restava il termine di confronto principale. Ricorre continuamente l’annotazione
“manca nel Voc.”, “il Voc. Spiega”; il vocabolario del Fanfani era allora molto diffuso, anche per l’uso
scolastico. Per contro, Faldella non uso uno strumento superiore per qualità e ricchezza, il Dizionario della
lingua italiana di Tommaseo. Faldella introdusse nello Zibaldone segni particolari per evidenziare le parole
dove si riscontrava una convergenza con il dialetto piemontese, quelle bivalenti, al tempo stesso dialettali e
italiane, locali e nazionali. Anche Manzoni, come si legge nella lettera al Casanova, era colpito da quelle
parole perché simili alle milanesi, scambiate per idiotismi dialettali solo per scarsa conoscenza della lingua
toscana. La serie delle parole bivalenti, toscane e dialettali, rappresenta uno dei nuclei più interessanti dello
Zibaldone e svela l’intenzionalità stilistica di molti termini usati da Faldella nel suo esercizio di scrittore.
Come Manzoni, anche Faldella annota le concordanze con il dialetto, in voci come Aissare, Boccino,
Buccicare, Cappellata, Cimentare.
Lo Zibaldone è un tipo particolare di vocabolario, di strumento personale dello scrittore. In esso si incontra
il repertorio di voci preziose destinate a comporre la ricetta del suo mistilinguismo. I casi citati devono
essere completati con l’esempio di D’Annunzio. Nessuno come lui fu abile a percorrere i repertori lessicali,
raccogliendo materiale a piene mani: nel suo caso, il vocabolario da semplice strumento divenne vero
stimolo creativo. A questo scopo non usò solo il Tommaseo – Bellini, ma anche lessici specialistici come
quello dei termini di marina del Guglielmotti, o il vocabolario latino di Forcellini e lo hanno confermato le
ricerche successive: Nencioni e il bilancio di Gibellini. Il vocabolario, nel caso di D’Annunzio, è lo
strumento che, con un gioco raffinato di incastri, serve a mediare il rapporto con le fonti. Ne è un esempio
perfetto il termine catoblepa, usato nel discorso anteposto alla tragedia Più che l’amore. L’origine di
questo cultismo sta in un autore straniero a cui sovente D’Annunzio si ispirò, il Flaubert della Tentation de
Saint Antoine; ma D’Annunzio proprio nel momento in cui usava la fonte francese, ricorse al vocabolario
Tommaseo – Bellini, e quindi attraverso questa fonte lessicografica, citò un verso del Morgante di Pulci, un
verso in cui il catoblepa era nominato come la bestia che va col capo in terra e con la bocca. Il gioco di
incastri terminava con l’inserimento in una citazione di Flaubert di un compendio della corrispondente voce
del Tommaseo – Bellini. Ciò ha un doppio significato: da una parte lo scrittore ha cercato e trovato nel
vocabolario storico il fondamento per legittimare la propria citazione peregrina; dall’altra, lo scrittore ha
dato al lettore un aiuto come per fargli consultare il vocabolario, in modo che il lettore stesso fosse
informato sia della forma del misterioso catoblepa, sia della sua esistenza nella tradizione letteraria italiana.
Gli esempi di un rapporto privilegiato e speciale con il vocabolario sono tali da condurre ad una questione
più generale: alla soggezione degli scrittori italiani a questo strumento, inteso come codice e come guida.
Italo Svevo, nel racconto Una burla riuscita, accenna al fascino che il vocabolario esercita sullo scrittore
italiano periferico, simbolo di un rapporto difficile con la lingua letteraria. Mario, protagonista del racconto,
è uno scrittore triestino fallito, che però crede di aver raggiunto il successo e si prepara alla 2 edizione di un
suo romanzo dal titolo Una giovinezza: rimase attaccato al vocabolario. Mario trovò un’indicazione che gli
fece capire che in un altro punto del romanzo aveva sbagliato ad usare un ausiliare. Poco dopo, Mario,
offeso dall’amico Giulio, si allontana: porta con sé il libro che ha scritto e il vocabolario. Nell’ironia dello
scrittore triestino affiorano motivi autobiografici, legati al timore di scrivere male, al valore simbolico e
consolatorio del dizionario e alla sua funzione repressiva, quale simbolo autorevole della norma. Ma non si
tratta di una situazione solo italiana, se De Amicis poteva citare l’esempio di Théophile Gautier (accanto a
Manzoni per le postille alla Crusca e D’Annunzio per la passione per i vocaboli, compresi quelli tecnici),
che aveva sempre un vocabolario sul comodino. De Amicis stesso diceva che per imparare la lingua leggeva
oltre ai libri, anche il Vocabolario. Da questo punto di vista D’Annunzio non fu secondo a nessuno, come
mostra la collocazione strategica del Tommaseo – Bellini nel suo studio.
1.2 Gli appunti di lingua di Pavese
Un altro documento utile per esplorare il lavoro che porta uno scrittore a fabbricare da solo il suo
vocabolario è offerto dalle carte inedite di Pavese conservate nel Fondo Sini del Centro Studi di Letteratura
Italiana in Piemonte “Guido Gozzano – Cesare Pavese”, all’Università di Torino: si tratta di una raccolta di
toscanismi antichi e moderni. A differenza di quanto accade nello Zibaldone di Faldella, però, non sono
dichiarate le fonti da cui proviene il lessico e non è quasi mai riportato il contesto. Per Pavese, il
riconoscimento delle fonti è più difficile e andrà rinviato alla pubblicazione dell’inedito. Per Faldella, il
repertorio lessicale era uno strumento di lavoro per costruire il suo stile, con immediato riflesso sul
linguaggio narrativo; per Pavese, invece, il lessico toscano rimase un retroterra documentabile, ma in gran
parte sterile, senza esiti stilistici importanti.
Ci restano 2 fascicoli di appunti linguistici di Pavese, il cui interesse è stato sottolineato da Beccaria: il
primo è un quaderno scolastico con la copertina nera, il secondo è un mazzo di fogli malandati sciolti
formato protocollo. Il quaderno nero contiene delle parole annotate in disordine, quasi sempre senza
rispettare il rigo. Esaminiamo una delle carte sciolte del secondo fascicolo, nella cartella VIII 2 del Fondo
Sini. Trascuriamo il foglio 1, già edito da Marazzini, e scegliamo il foglio 4. È diviso in 4 colonne verticali
dove ci sono le parole schedate da Pavese una sotto l’altra. Sono selezionate per la loro toscanità. Non sono
in ordine alfabetico e non presentano altro ordinamento riconoscibile. Sono trascritte in stampatello, come
lemmi di un dizionario. A volte portano sottoscritta in corsivo una brevissima annotazione interpretabile
come definizione o precisazione del significato. Anche in questo caso, così come nel quaderno nero, non è
indicata la provenienza degli spogli, ciò che rende più difficile individuarne la fonte. Colpisce la sfera
semantica a cui riportano molte delle annotazioni: si tratta spesso di elementi legati al mondo agricolo e
contadino, al paesaggio rurale: mazzolare, menare acqua, ammacchiato, smacchiare, terre freddive,
spigato, immacchiarsi, disertare, schiccolare, svinare, maturo, nebbiata. Vi è la serie dei colori dell’uva
che matura: annericare, nereggiare, imbrunare, invaiolare, cambiare, saracinare. Poi appioppare,
appioppato, nevata, nevaglia, incuocere, accapare, poggiate (le colline), fruttare, appomato, fruttame,
farci (detto di piante), madrepianta, ombreggio, regnare (detto di coltivi), venire in orgoglio (detto di
piante), spanarsi (di radici), scimare, sugare, arrocciarsi, lettime, pacciame, pianaiuolo. Il confronto con
lo Zibaldone di Faldella dà risultati sorprendenti: le concordanze fanno sembrare che Pavese avesse proprio
tra le mani lo Zibaldone, ma sappiamo che esso rimase ignoto fino all’edizione del 1980. La concordanza si
deve spiegare in un altro modo: la maggior parte delle voci comuni a Pavese e a Faldella deriva da una fonte
comune, sfruttata da entrambi gli autori.
Molte delle voci che lo Zibaldone ha in comune con Pavese provengono da un libro di Giambattista
Giuliani, Moralità e poesia del vivente linguaggio toscano. Nuove ricerche. Così le voci Mazzolare,
Muglicchiare, Diliscare, Suonare a morticino, Bucicare, Annericare, Schianza, Accapare, Appomato,
Fruttame, Sgagliardire, Madrepianta, Pianaiuolo, Sbrividirsi. Tra queste, quelle più convincenti per
stabilire un rapporto diretto di Pavese con il Giuliani sono Annericare e Sbrividirsi perché Pavese non solo
ha registrato i due termini, ma ha fatto riferimento al contesto che ne dà una conferma.
La fonte (“Id.” dell’annotazione dello Zibaldone) è il Giuliani, citato da Faldella anche nella voce
precedente dello Zibaldone. Faldella, avendo constatato che la voce Sbrividire mancava nel vocabolario
del Fanfani, registrò il passo del Giuliani dove questa voce era documentata. Pavese, sotto Sbrividirsi,
annota il contesto d’uso: “le mani al fuoco”. La corrispondenza con il passo di Giuliani è perfetta. Si può
ricorrere ad un’altra prova. Pavese ha annotato in colonna vari termini che designano il cambiare del colore
dell’uva: annericare, nereggiare, imbrunare, invaiolare, cambiare, saracinare. Tutte queste parole sono
riunite nello stesso passo del Giuliani. Le aveva annotate anche Faldella. Le coincidenze sono singolari.
Tuttavia conviene ricordare brevemente qual è il libro di Giuliani a cui Faldella e Pavese hanno fatto spesso
riferimento.
Giambattista Giuliani era un somasco piemontese, nativo di Canelli, cittadina vicina a Santo Stefano Belbo,
luogo topico della geografia pavesiana. Trasferitosi nel 1853 in Toscana, il Giuliani era noto come dantista.
Seguendo le orme del Tommaseo, si era dedicato alla raccolta di materiali linguistici popolari. Giuliani
aveva conversato con la gente del campo, delle officine della Versilia, di Pisa, di Siena, Pistoia, del
Casentino, del Valdarno e di Firenze per attingerne il linguaggio. Aveva reso pubbliche le sue annotazioni in
delle lettere intitolate Sul moderno linguaggio della Toscana, poi ripubblicate con il titolo modificato in
Sul vivente linguaggio della Toscana. Poi aveva allestito un altro volume, Moralità e poesia del vivente
linguaggio toscano, anch’esso frutto delle visite in località rurali della Toscana, delle conversazioni
intrattenute con contadini, montanari, carbonari. Nel libro, il gusto per la lingua popolare, alla maniera del
Tommaseo, si arricchiva di una certa curiosità antropologica e demologica. Questo secondo libro è la fonte
delle schedature di Faldella. Faldella non andò a cercare il lessico interrogando direttamente i parlanti
toscani. Il viaggiatore quando volle conoscere le campagne toscane, scelse la via libresca. Viaggiò al
tavolino, sfogliando le pagine del Giuliani, le quali abbreviavano la fatica e fornivano facilmente il risultato
cercato. Pavese percorse la stessa strada di Faldella. Andò alla ricerca dei toscanismi rurali dell’uso vivente
e li schedò usando lo stesso libro.
Poiché il 2 volume delle Delizie del parlare toscano di Giuliani è dotato di un indice finale alfabetico, è
facile estendere i confronti: il mangime annotato da Pavese, per esempio, deriva dalla voce MANGIME del
Saggio di un nuovo dizionario del linguaggio volgare toscano contenuto nel 2 volume delle Delizie. In
questa voce, il Giuliani introduce il discorso di un contadino che parla della fatica di reggere la zappa dalla
mattina alla sera, sforzo che richiederebbe un buon mangime (mangime sta nel senso di “cibo per gli
uomini”). L’anonimo contadino del Valdarno inferiore dice: “Dalla mattina alla sera tener in mano questo
peso di 12 libbre, e maneggiarlo sempre in alto, sfiaccola l’ossa”. Infatti l’annotazione di Pavese riprende il
verbo sfiaccolare (le ossa). Dopo il Giuliani riporta le parole di un altro contadino del Mugello che cita un
proverbio: “A San Luca poi la merenda si rimbuca” e Pavese registra rimbucarsi. Gli spogli seguono una
lettura ordinata della fonte. Pavese registra affiochire, tratto dalla voce MANIERA del Giuliani. Mazzolare
è una voce in comune con lo Zibaldone; poi abbiamo menare acqua che viene dalla voce MENARE del
Giuliani e dalla stessa voce provengono ammollarsi e muglicchiare (quest’ultimo in comune con lo
Zibaldone). Pavese nella raccolta di lessico procede per blocchi. Il criterio dei blocchi di parole provenienti
da una stessa fonte va considerato per tutti gli appunti di Pavese, non solo quelli del fascicolo VIII 2, ma
anche quelli del quaderno nero VIII 1. Un sondaggio nel quaderno citato, alla carta 9v ha permesso di
identificare una serie di parole presenti nelle Veglie di Neri di Fucini: rammulinare, la romba della bufera,
intignato, pievania, benaffetto, affrittellare. Quest’ultimo è curioso perché ancora una volta si verifica la
concordanza con Faldella. Pavese annota: “affrittellare uova, friggerle”, sulla base di Fucini, Tornan di
Maremma. Nello Zibaldone anche Faldella aveva annotato affrittellare per “friggere le uova” ma usando
il Giuliani come fonte.
Altrove, sotto la lettera U, Faldella aveva annotato anche uova affrittellate, uova affogate, uova a bere: le
uova erano un campo interessante per gli scrittori periferici impegnati nella caccia di toscanismi. Simile
sondaggio alle carte 23r e 23v del quaderno nero di Pavese ha permesso di riconoscere una serie di parole
ricavate dalle lettere di Sassetti (da qui provengono paese allagaticcio, pianigiani, un giunco per “una
giunca”, espressioni annotate nella carta 23v). Lo spoglio degli autori toscani condotto da Pavese si estende
su un arco cronologico ampio, dal 500 fino all’inizio del 900.
Le analogie tra lo Zibaldone di Faldella e gli appunti di Pavese sono tante, anche se la forma degli appunti è
diversa. Faldella aveva messo in evidenza attraverso segni o avvisi, le concordanze tra toscano e dialetto
piemontese in cui si era imbattuto. Già la pagina VIII 2, 4r prima esaminata contiene riferimenti al dialetto: è
inserito il raffronto tra bruciare e il piemontese bugé (“muovere”) ed è menzionata la parola piemontese
strām, “strame”. Il quaderno nero ha dei segni di lapis rosso per parole come grumolo (spiegato come
“cuore verde di ciuffi), puzzare di selvaggiume, strusciare (spiegato come “consumare stazzonando”),
impannata (spiegato come “invetriata di vetro, tela o carta”), sgrignare (spiegato come “ridere per beffa”),
alzare (per “rubare”), palazzo agiato (per “si sta comodi, confortevole”), centellino (“sgocciolatura”),
mettere in mezzo, civettare qualcuno (spiegato con “di donna che accalappia”), sfatare qualcosa
(“pigliare in giro”), scavallare, dubitò se con questo o con quello, tempestare qualcuno a far qualcosa.
Questi segni di lapis rosso indicano le concordanze possibili con il dialetto. Lo scrittore, in questo caso,
faceva appello alla sua conoscenza della parlata locale. Lui si doveva anche essere accorto che l’effetto di
queste parole era diverso rispetto a quello dei toscanismi privi di equivalente dialettale. Ci avviciniamo a un
possibile uso stilistico simile a quello documentato nel Pavese maturo, perché emerge un’area lessicale più
realistica adatta all’uso nel quadro dell’ideale stilistico che si andava delineando nella sua mente, sulla linea
che porta al “cavagno da vendemmia” de La luna e i falò, dove il manoscritto mostra che il cavagno è stato
inserito cassando il precedente cesto. Cavagno viene preferito a cesto perché è allo stesso tempo parola
toscana e dialettalismo piemontese.
Altri scrittori periferici piemontesi avranno attraversato una simile esperienza, di cui potrebbero anche
venire alla luce le prove. Per esempio, lo stile di Augusto Monti, nel romanzo Sansôssì, può far sospettare
un comportamento simile di fronte al materiale lessicale: anche Monti avrà compilato le sue schede lessicali
personali. Anche Norberto Bobbio ha attraversato la stessa esperienza negli anni giovanili.

2. VOCABOLARI DELL’ITALIA FASCISTA

2.1 Una vittima illustre: la quinta Crusca


I vocabolari possono far parte della politica linguistica di una nazione. Nel 900, in Italia, il regime fascista
tolse alla Crusca il Vocabolario. In seguito si progettò la realizzazione di un nuovo lessico nazionale, ma
affidato all’Accademia d’Italia. Il Vocabolario della Crusca, giunto alla 5 edizione, fu interrotto; tuttavia,
alla fine, nemmeno il vocabolario del fascismo fu terminato.
La 5 edizione del Vocabolario della Crusca era stata avviata nel 1863. Il primo volume era dedicato a
Vittorio Emanuele II re d’Italia: era un omaggio accademico a un sovrano che non fu mai esperto nel
maneggio della lingua italiana, ma che, cacciando lo straniero, aveva reso all’Italia quella fierezza di spiriti e
quella forte coscienza di sé, che la fecero grande di nuovo. La mole del vocabolario del 1863 era notevole,
ma fu realizzato in tempi molto lunghi, mentre altre opere come il Tommaseo – Bellini si conclusero nei
tempi, acquistando immediata autorità. La pubblicazione della 5 Crusca, invece, si protrasse con lentezza.
L’antico vocabolario non aveva più la funzione determinante di un tempo, quando su di essa si era misurata
ogni scelta degli innovatori. Tuttavia, ancora nel primo 900, attorno alla Crusca fiorirono polemiche. Si deve
pensare alla raccolta di scritti di De Lollis, pubblicata nel 1922 con il titolo La Crusca in fermento.
Benedetto Croce, ministro dell’Istruzione nel 1920 – 21, nominò una commissione per studiare la riforma
della Crusca; nel 1923, diventato ministro Giovanni Gentile, fu tolto alla Crusca il compito di preparare il
vocabolario. Si interruppe così la 5 impressione, arrivata alla lettera O, dopo tanti anni. La storia della
lessicografia è fatta anche di tentativi falliti. La soppressione del vocabolario ebbe un vantaggio: assicurò
alla Crusca una sorta di patente antifascista che poi costituì un’immagine positiva dell’Accademia, anche se
in effetti nemmeno con la Repubblica l’istituzione fiorentina riuscì a realizzare il vocabolario nazionale.
Nencioni ha indicato anche un’altra conseguenza positiva, cioè la trasformazione dell’Accademia in uno dei
più pregevoli laboratori italiani di filologia, e quindi il legame strettissimo con la cultura universitaria
fiorentina, per la specializzazione nel campo della lingua antica. Infatti nel dopoguerra, l’impegno per
realizzare grandi opere lessicografiche fu svolto con esiti più concreti dall’industria editoriale commerciale.
Un’altra istituzione nazionale mantenne una notevole vitalità nel campo lessicografico, e questa fu l’Istituto
della Enciclopedia Italiana, nato durante il fascismo, nel 1933, sotto la presidenza di Guglielmo Marconi,
con la partecipazione di 5 enti: Banco di Napoli, Banco di Sicilia, Istituto Nazionale delle Assicurazioni,
Istituto Poligrafico dello Stato e Monte dei Paschi di Siena. L’Istituto della Enciclopedia Italiana continuava
l’Istituto Treccani, fondato dal mecenate conte Giovanni Treccani degli Alfieri. L’Istituto sviluppò all’inizio
una vocazione enciclopedica, non subito lessicografica, realizzando l’Enciclopedia italiana diretta da
Giovanni Gentile. Nel dopoguerra, però, l’esperienza maturata nelle opere enciclopediche si mescolò a un
nuovo interesse lessicografico, che ebbe come sbocco opere di grande qualità e prestigio come il Lessico
universale italiano e il Vocabolario. Queste opere, tuttavia, benché si leghino ad una tradizione
dell’Istituto, sono nuove e non hanno a che fare con l’impostazione gentiliana del Ventennio, anche se nel
Ventennio collaborarono con l’Istituto della Enciclopedia linguisti come Bertoni e Migliorini.

2.2 I vocabolari dell’Accademia d’Italia


Il ventennio fascista si inaugurava, dal punto di vista lessicografico, con la soppressione dell’antico
vocabolario dell’Accademia di Firenze, ma anche il vocabolario del fascismo, diretto da Giulio Bertoni,
prodotto dall’Accademia d’Italia, la più potente istituzione culturale del regime, non ebbe esito felice. La
pubblicazione era assicurata da una società di 10 editori (tra i quali Le Monnier, Paravia, Vallardi,
Zanichelli). Si arrivò al primo volume nel 1941, con le lettere A – C e lì ci si fermò. L’opera è stata
dimenticata. Eppure si tratta di un testo caratterizzato da importanti innovazioni. Raffaelli recentemente ha
messo in luce una relazione che unisce il Vocabolario dell’Accademia d’Italia al Battaglia, attraverso
l’apprendistato lessicografico di Salvatore Battaglia stesso: infatti Battaglia, a cui la Utet affidò poi la
direzione del progetto torinese di rifacimento del vecchio Tommaseo, si era fatto le ossa lavorando a lungo
nella redazione del Vocabolario dell’Accademia d’Italia.
L’Accademia, prima di mettere mano al grande dizionario della lingua nazionale, si era impegnata
nell’impresa del “Dizionario di arti e mestieri”. Era uscito all’inizio un Vocabolario di marina, nel 1937,
secondo un suggerimento di Ugo Ojetti e di Mussolini, al quale si deve l’idea di iniziare dal linguaggio
marinaresco. Raffaelli segnala inoltre che si arrivò alla realizzazione di un secondo dizionario della serie di
“Arti e mestieri”, dedicato all’aeronautica, come il primo era stato dedicato alla marina. I lavori terminarono
nel 1941, ma la stampa fu rinviata a causa della guerra e l’opera rimane ancora oggi inedita. Fu abbozzato
anche il progetto di un dizionario etimologico, affidato ad Alfredo Schiaffini, ma osteggiato da Bertoni. Il
vocabolario più importante è quello generale della lingua italiana, voluto da Mussolini che il 7 luglio 1934
scrisse a Guglielmo Marconi, presidente dell’Accademia dicendogli che quest’ultima doveva dare alla
nazione il vocabolario completo e aggiornato della lingua italiana in 5 anni.
Il progetto prevedeva un lessico agile che era meno difficile di quello normativo e che considerava la lingua
non come cristallizzata nelle sue antiche forme, ma come una cosa viva. In realtà, per risparmiare tempo, si
cercò di attingere ai lavori degli altri, acquistando opere già realizzate e tentando di mettere le mani sugli
spogli della 5 Crusca.
Il Vocabolario dell’Accademia d’Italia procedette, rispetto al Tommaseo, all’eliminazione di molte voci
antiche, di voci che appartengono alla grammatica e al fondo dialettale, non alla lingua, come osservavano
Bertoni e Formichi, citando parole come fiastro per “figliastro” o gioladro per “giullare” (queste erano
presenti nel Tommaseo, ma con una croce che indicava le parole morte). Anche nei confronti dei
neologismi, il vocabolario dell’Accademia prometteva un atteggiamento equilibrato che non concorda con la
politica linguistica del fascismo, xenofoba. Bertoni e Formichi, infatti, dicevano che si dovevano accettare
termini nuovi per designare idee e cose nuove, almeno là dove non fosse possibile la sostituzione con il
termine italiano (sostituzione che proponevano in casi come record/primato, menu/lista) e si mostravano
coscienti che i vocaboli non si impongono attraverso l’autorità di Accademie e decreti. Infatti i forestierismi
erano registrati (seppur con qualche omissione: manca atelier) anche nella forma di prestiti non adattati,
come boxe, camion posti entro parentesi quadra per segnalare la loro estraneità alla lingua italiana.
Un aspetto interessante è costituito dal criterio di citazione degli esempi, che rappresenta una sorta di
compromesso tra la forma tradizionale della Crusca e di Tommaseo (ampia citazione degli autori, con
riferimento in chiave per rintracciare i passi) e quella del Giorgini – Broglio che aveva eliminato il
riferimento agli autori. Nel Vocabolario dell’Accademia d’Italia sono citati gli scrittori, ma solo come
documentazione di un uso comune, senza riferimento all’opera da cui è tratto l’esempio; è dato molto spazio
agli autori del ‘900, maggiori e minori, come D’Annunzio, Graf, Gozzano, Slataper, Tozzi, Pirandello,
Deledda, Rovetta, Bontempelli, Paolieri, Oriani, Mussolini. Raffaelli ha fornito anche un elenco parziale dei
collaboratori addetti alle schedature degli autori. Tra essi ci sono anche i protagonisti della cultura italiana
del secondo ‘900, non solo studiosi, ma anche scrittori: Luciano Anceschi, Camillo Sbarbaro, Libero de’
Libero, Alfonso Gatto.
Questo vocabolario, pur caratterizzato da una certa modernità e efficacia (per esempio nel settore delle
etimologie: i curatori volevano coprire un vuoto della lessicografia italiana, e i vocabolari etimologici
italiani importanti, come il Prati, il Migliorini – Duro, l’Olivieri e il Battisti – Alessio, uscirono dopo), non
ebbe nessuna influenza. Troppo ridotta fu la parte realizzata a fronte del progetto, interrotto con la caduta del
fascismo. Se si vuole vedere un vocabolario fascistissimo, che dichiara il suo favore al regime e risente nelle
voci degli effetti di questa scelta, si deve prendere il dizionario prodotto dall’editoria privata, cioè il
Dizionario della lingua italiana del marchigiano Enrico Mestica, uscito nel 1937 presso la casa editrice
Lattes, sul quale si ricavano informazioni attraverso il materiale messo sul web da una tesi di laurea discussa
all’Università di Roma.

2.3 Un vocabolario per la radio


Un certo rilievo e un certo seguito ebbe un’altra iniziativa, più settoriale di Giuseppe Bertoni: un
vocabolario che doveva fornire la pronuncia esatta delle parole italiane, soprattutto per l’uso degli
annunciatori della radio. Nel 1939, infatti, Bertoni e Ugolini pubblicarono per l’Eiar, ente radiofonico di
stato, il Prontuario di pronunzia e di ortografia, dove si affrontava la questione della pronuncia romana,
là dove essa divergeva dalla fiorentina, come nel caso dell’apertura o chiusura nella vocale tonica di parole
come colonna, edera. Nel Prontuario veniva prospettata una soluzione imperiale della questione della
lingua, capace di rinnovare i fasti dell’antica Roma, e si lanciava la formula dell’asse Roma – Firenze,
coniata per analogia con la terminologia politica del tempo, in riferimento all’asse Roma – Berlino. Di lì a
poco l’italiano tornò ad essere una lingua minoritaria nel quadro europeo e mondiale, cadute le tentazioni
coloniali, seppur con l’intramontabile fierezza della sua grande e antica tradizione di cultura.
Il Prontuario dell’Eiar ebbe un seguito: nel dopoguerra un comitato scientifico composto da Contini,
Devoto, Fiorelli, Folena, Migliorini, Nencioni, Schiaffini, Tagliavini, fissò i criteri per un nuovo dizionario
di pronuncia che fu realizzato ed ebbe grande successo, diventando obbligatorio nella dotazione delle
redazioni dei giornali, delle case editrici e nella Rai. Questo strumento è noto con l’acronimo di DOP. Oggi,
oltre al nuovo DOP online, si deve ricorrere al più aggiornato DiPI di Canepàri, dizionario di pronuncia
italiana ricchissimo e che risolve quasi tutti i problemi. La presentazione dell’autore è polemica, forse
troppo, e ciò ha portato alcuni a sottovalutare questo strumento che merita di essere ricordato anche per
alcune novità che lo caratterizzano: le pronunce sono date in un alfabeto fonetico internazionale (Ipa): viene
suggerita più di una pronuncia, in modo che l’utente può scegliere, avvertendolo quando una soluzione è
affettata o esibita, quando è popolare, quando è tollerabile, o quando era di moda, ma oggi non più o è in
fase di abbandono. La concisione del dizionario si deve anche all’uso di simboli, tra cui delle freccette: in
alto per la pronuncia per fare sfoggio, in basso per la pronuncia da evitare, con la doppia punta in alto e in
basso per la pronuncia per scopi particolari. L’autore ha inserito questi simboli in una tavola di fono –
soccorso, e ha messo in luce il suo gusto per il neologismo anche in un ecceterario finale, ossia un’appendice
sulla fonetica delle lingue del mondo. Questo libro è in diverse occasioni molto eccentrico, ma fornisce
un’informazione di grande qualità e concentrata.

3. GRANDI VOCABOLARI DI OGGI

3.1 Il Battaglia
La casa editrice Utet di Torino è l’erede dell’Unione Tipografico – Editrice dei Pomba: per questo può
annoverare tra i propri meriti storicamente consolidati la pubblicazione del vocabolario di Tommaseo. Nel
1961 questa casa editrice stampò un’altra grande opera lessicografica, il Grande dizionario della lingua
italiana. La data di pubblicazione è significativa, così come lo era stata quella del vocabolario di
Tommaseo: il Tommaseo era nato contemporaneamente all’unità politica italiana, diventandone quasi il
simbolo nel terreno della lessicografia; il Battaglia iniziò ad uscire in coincidenza con il centenario
dell’Unità: la sua nascita si caricò di un valore simbolico, riallacciandosi a un glorioso passato editoriale e
nazionale. La direzione del vocabolario era affidata a un intellettuale e filologo estraneo al Piemonte e a
Torino: il napoletano Salvatore Battaglia. Nel corso della realizzazione il direttore cambiò e, per la prima
volta, un intellettuale piemontese (la cui attività si è svolta sempre nell’ateneo di Torino) assunse la
responsabilità di un grande vocabolario uscito dai torchi di una casa editrice della stessa città. Il primo
progetto fu tuttavia napoletano, essendo redatto a Napoli da Salvatore Battaglia.
Il progetto iniziale era più modesto di quello che fu poi l’esito finale, dopo oltre 40 anni. Si doveva
realizzare una revisione del dizionario di Tommaseo, rinnovandolo e aggiornandolo ai tempi. Il Battaglia
nasceva come vocabolario storico, con un peso importante degli spogli condotti sulla lingua letteraria. La
stampa dell’opera è durata fino al nuovo secolo: il XXI e ultimo volume è uscito nel 2002. Il 2002 è anche
l’anno della ricorrenza del bicentenario della nascita di Tommaseo.
Il Battaglia continua e continuerà a chiamarsi così, con il nome del suo primo direttore, quando per
chiamarlo non si usa la sigla GDLI, più asettica, coerente con la preferenza moderna per gli acronimi; ma la
denominazione del primo direttore non rende giustizia al lavoro del letterato che ha portato a termine e
diretto l’opera con piena responsabilità dal 7 volume. Battaglia morì nel 1971 e allora subentrò nella
direzione Giorgio Bárberi Squarotti, il quale trasformò completamente l’opera, la quale crebbe di
dimensione tantissimo. È facile constatare la differenza che c’è tra i primi e gli ultimi volumi: è aumentato il
numero delle voci, risultato di una crescita del progetto, di una sempre maggiore estensione degli spogli. Il
Battaglia è il più ampio vocabolario di tutta la tradizione italiana tra quelli portati a termine. Si caratterizza
come opera di ricchissima e preziosa documentazione storica, perché dà un’attenzione particolare alla lingua
letteraria di tutti i secoli, soprattutto a quella del 900, alla letteratura contemporanea, visto che una gran parte
dei volumi è uscita nel XX secolo. È uno strumento insostituibile non solo per i linguisti (i quali, tuttavia, a
volte, lo hanno criticato), ma prezioso anche per tutti gli studiosi di letteratura e linguaggio letterario. È
probabile che questo sia l’ultimo dizionario della storia della lessicografia italiana in cui alla lingua letteraria
è attribuito un tale peso, perché in realtà essa ha ormai perso la funzione di guida che ebbe per secoli. Un
vocabolario concepito come il Battaglia nasce come documentazione storica, ma è anche un atto di omaggio
verso una tradizione molto ricca.
L’interesse fortissimo verso la letteratura che caratterizza questo dizionario è il suo punto di forza, per la
mole degli spogli, ma è anche l’aspetto che si offre alle critiche di coloro che vorrebbero o avrebbero voluto
un’estensione maggiore nella lingua extraletteraria, la quale in alcuni casi documenta meglio lo stato
generale della lingua, la sua vitalità, i suoi progressi e le sue condizioni medie. Bàrberi Squarotti ha scritto
con sarcasmo, rievocando la storia lessicografica che lega il dizionario del Tommaseo al Battaglia, che i
linguisti servono per portare a termine un vocabolario della lingua italiana più oggi che ai tempi di
Tommaseo, ma non bastano per la stesura e la sua complessiva costruzione.
È una bella rivendicazione del primato dei letterati. In altre occasioni Bàrberi Squarotti ha usato una certa
ironia nei confronti della teorizzazione preventiva che rischia di prolungare all’infinito o di bloccare il
lavoro concreto. Il Battaglia è cresciuto senza mai rinnegare la sua vocazione e scelta iniziale, senza mai
esibire una complicata o ambiziosa teoria lessicografica. Si è sempre mosso sul terreno concreto del lavoro
quotidiano, con una redazione composta, in alcuni casi, da nomi poi importanti in campo scientifico, il cui
lavoro è stato controllato dal direttore dell’opera, a cui la tradizione orale che corre nell’ambiente
accademico torinese attribuisce il montaggio e la revisione finale di tutte le voci consegnate dai redattori. Il
Battaglia si è aperto nel tempo in misura sempre maggiore verso la lingua extraletteraria, anche se di questa
revisione non ha mai menato vanto. È istruttivo scorrere il catalogo degli autori citati, confrontando la
versione finale con i fascicoli pubblicati via via in corso d’opera, in modesta veste grafica, per servire da
chiave provvisoria delle citazioni. Essi documentano non solo il continuo aggiornamento nella scelta di
edizioni recenti degli autori, ma anche una progressiva attenzione estesa oltre il terreno della letteratura,
nella direzione della civiltà letteraria, ma poi anche nella direzione dei linguaggi giornalistico, scientifico e
d’attualità (anche con voci senza citazioni letterarie, contro la prassi usuale del Battaglia).
Nel 2002, in occasione della stampa dell’ultimo volume alfabetico del Battaglia, un convegno svoltosi a
Torino presso l’Archivio di Stato e a Vercelli presso l’Università del Piemonte Orientale, ha fornito
l’occasione per riesaminare le vicende che portarono alla nascita del GDLI. Francesco Bruni in questo
convengo ha ricordato come il progetto iniziale mostrasse oscillazioni sul numero dei volumi da realizzare,
come si pensasse a 3, 6, 8. La misura iniziale era molto minore rispetto al vecchio Tommaseo. Solo il lungo
lavoro redazionale ha fissato il numero finale dei volumi che sono cresciuti in maniera abnorme, fino ad
arrivare a 21, che Bruni definisce strana cifra perché non solo non risponde a un piano progettuale
preordinato prima, ma anche perché si distacca da qualunque standard e non è una cifra tonda. Oggi sono
stati anche pubblicati i criteri di lavoro compilati da Salvatore Battaglia. In questi criteri hanno uno spazio
notevole la lingua d’uso, la lingua quotidiana, la lingua tecnica dei settori dello sport, del diritto,
dell’economia, della politica, della scienza, della meccanica, la lingua che Battaglia definiva “della civiltà
contemporanea” o “condizione lessicale attuale”. Questo proponimento è stato realizzato soprattutto grazie
all’ampliamento apportato da Giorgio Bàrberi Squarotti; difficilmente però sono questi i settori della lingua
dei quali va in cerca l’utente avvertito che consulta questo grande dizionario storico il cui punto di forza
resta la tradizione letteraria, accostata attraverso le citazioni ricchissime che Battaglia diceva essere una
invenzione della tradizione lessicografica italiana. Tullio De Mauro si è soffermato sui criteri di Salvatore
Battaglia, insistendo sulla presenza non accessoria dell’interesse per la lingua della scienza e ha parlato di
un’idea poliedrica di lingua che i criteri lasciano vedere bene. Tuttavia questi proponimenti non incisero
troppo sulla natura letteraria e umanistica del dizionario. De Mauro concorda sul fatto che le fonti non
strettamente letterarie sono aumentate, mentre nei primi volumi erano di meno. Le cose sono cambiate, tanto
che appare evidente che da una ad altra stagione, Battaglia ha tralasciato sempre meno di registrare parole
delle tecniche e delle scienze e nel presentarle ha cercato sempre di più di inserirle in modo documentato nel
fluire degli usi linguistici.
Serianni dice che con il tempo Battaglia ha cambiato l’originaria preferenza per i testi di letteratura dando
più importanza alle fonti di lingua (dai giornali alla trattatistica scientifica alla legislazione) ed è cresciuto
tantissimo. Non su questo materiale lessicale tecnico – scientifico va giudicato e pesato il GDLI. Va
considerato perché è il maggior repertorio al servizio della lingua letteraria italiana mai realizzato.

3.2 Dal “VSLI” al “TLIO”: la lessicografia fiorentina e il tesoro delle Origini


Il vocabolario storico della lingua italiana oggi disponibile è il Battaglia, anche se per un po’ di tempo ci si
aspettò la realizzazione di un altro strumento del genere, ideato con principi più ambiziosi e anche più
moderni, in quanto pronti all’uso dell’informatica, sebbene fosse ancora quella di cui si disponeva anni fa,
basata su sistemi Ibm e su macchine di calcolo a schede, tanto è vero negli anni ’90 ci si trovò costretti a
recuperare i dati così schedati. L’officina del nuovo vocabolario doveva essere di nuovo la Crusca, che
risorgeva così dopo i danni subiti nel periodo fascista.
Nel 1923 era stato tolto alla Crusca il compito di portare a termine la 5 edizione del Vocabolario. L’attività
lessicografica dell’antica Accademia era stata sospesa. Nel dopoguerra, tuttavia, questa attività si avviò ad
una ripresa su basi rinnovate, sotto la direzione di Migliorini e Devoto. Quali prospettive si profilassero,
quale rinnovamento di metodi e di intenti vagheggiassero i linguisti fiorentini dell’epoca, si ricava da un
saggio di Nencioni, il quale poi venne ripubblicato insieme ad altri di simile tema lessicografico, ma che
risale al 1965, cioè all’origine del progetto. Nel 1964 era stato ottenuto il primo stanziamento finanziario e il
1964 è anche l’anno da cui si può far iniziare la storia del nuovo Vocabolario. La data si può fissare sulla
base della testimonianza di uno dei protagonisti di quella stagione, cioè Aldo Duro, definito uno dei grandi
lessicografi del nostro secolo. Indicazioni programmatiche erano venute già prima da Migliorini e Nencioni.
Si possono evocare altri precedenti remoti ma importanti, riconoscibili negli auspici di Michele Barbi e
Giorgio Pasquali per un vocabolario storico dell’italiano, uno strumento più efficace e completo degli altri
esistenti, paragonabile al Thesaurus linguae Latinae e ispirato allo stesso rigore.
L’avvio del Vocabolario con le discussioni testimoniate dal saggio di Nencioni (relative alla definizione
rinnovata di “vocabolario storico”, alle demarcazioni tra le varie fasi storiche da documentare, al peso della
componente normativa, al peso della modernità contemporanea, all’elemento di interpretazione e di scelta
che entra in una impresa del genere, al peso della toscanità e alla coabitazione con le esperienze linguistiche
eccentriche, al significato da dare alle manipolazioni della lingua letteraria maccheronica e pedantesca), si
caratterizzò non solo per questo tentativo di raggiungere una consapevolezza metodologica matura e
adeguata agli avanzamenti della linguistica, ma anche per il grande sforzo di aggiornamento tecnologico, sul
terreno pratico dell’esecuzione materiale, oltre che in relazione alle premesse teoriche, e per il confronto con
simili esperienze condotte in altri centri di studio europei. Lo stesso Duro in alcune pagine autobiografiche,
ricorda i contatti con il sacerdote padre Busa, pioniere dell’informatica applicata alla schedatura dei testi, e i
viaggi all’estero, per esempio a Nancy, al centro del Trésor della lingua francese, e a Leiden, per incontrare
Félicien de Tollenaere, redattore capo del vocabolario storico della lingua neerlandese. Analogo quadro
emerge dalle indicazioni di Nencioni, della Massariello Merzagora e di Duro. Il respiro di questa redazione
fiorentina era internazionale. Nel 1972 Aldo Duro finì di collaborare con la Crusca. Egli lasciò la direzione
del Vocabolario storico della lingua italiana e passò ad un’altra attività lessicografica all’Istituto
dell’Enciclopedia Italiana. Gli subentrò nell’incarico d’Arco Silvio Avalle, già titolare della cattedra di
Filologia romanza all’Università di Torino. Il progetto del nuovo vocabolario fiorentino spiccava per una
caratteristica di alto merito, anche se comunque non accelerò i lavori perché poneva esigenze sempre più
raffinate nel controllo delle fonti: si collegava ad un ufficio filologico istituito presso l’Accademia,
finalizzato all’attività lessicografica, diretto dal 1965 da Domenico De Robertis. Dal 1972 – 73 però
l’obiettivo del grande vocabolario storico subì una riduzione quantitativa stabilendo una sorta di gradualità,
e ponendo come tappa primaria su cui dirigere gli sforzi, la realizzazione di un Tesoro della lingua italiana
delle Origini, un vocabolario storico completo ed affidabile, limitato però al periodo che arriva fino al 1375,
la morte di Boccaccio. L’Opera per il Vocabolaro (OVI) presso l’Accademia della Crusca non abbandonò
l’ipotesi del VSLI, Vocabolario storico della lingua italiana, ma voleva realizzare in tempi non troppo
lunghi la prima parte di esso, denominata TLIO, cioè Tesoro della lingua italiana delle Origini. Oggi il
TLIO, in corso di realizzazione sotto la guida di Pietro Beltrami, direttore dell’OVI dal 1992, ha mantenuto
le promesse. Si è imposto come una delle più notevoli e avanzate realizzazioni della nostra cultura,
mantenendo l’ambizione tecnologica maturata ereditando la tradizione del VSLI. Bisogna però considerare
che il grande vocabolario storico dell’italiano, riferito a tutti i secoli della storia linguistica, è stato realizzato
non a Firenze, ma a Torino, presso la redazione Utet del Battaglia e senza l’ausilio degli strumenti
informatici di schedatura, anzi esibendo un distacco forte dalle nuove tecnologie. Il grande vocabolario
storico fiorentino è di là da venire.
Il TLIO, nato dalla costola del VSLI, è un vocabolario storico di tutte le varietà dell’italiano antico che
copre l’arco cronologico fino al 1375. Continua ad essere presentato dai suoi artefici come la prima sezione
cronologica di un vocabolario storico complessivo della lingua italiana, obiettivo che mantiene la funzione
di punto di riferimento, anche se le ragioni pratiche lo hanno fatto scivolare in secondo piano. Anticipando
la sezione cronologica antica, si è sfruttata la possibilità di spogliare il materiale testuale senza essere
costretti a farne una selezione: infatti i testi antichi, per quanto costituiscano un corpus di dimensioni ampie,
sono più gestibili e controllabili, in confronto alla vastità della tradizione italiana. Inoltre offrono un terreno
di lavoro allettante per gli specialisti di materie filologiche, e la cultura toscana, anche grazie all’eredità di
Contini, era ben preparata a questo compito.
Il Vocabolario dell’italiano antico o TLIO, si fonda sulla base di dati dell’OVI, e questa raccolta di testi è
stata digitalizzata e la si può consultare in rete (da un server dell’Università di Chicago). Questa è un’altra
caratteristica nuova che non ha precedenti in Italia. I materiali con i quali si sta fabbricando il vocabolario
sono di pubblico dominio, anche se l’accesso richiede un’autorizzazione: ma la password viene concessa
facilmente agli studiosi che ne fanno richiesta. Il corpus non è solo una raccolta di testi letterari ma
comprende anche testi documentari, giuridici, scientifici; è attento a tutte le varietà del sistema italiano, dal
lombardo, veneziano, fiorentino al siciliano. Infatti il TLIO non è redatto a partire da lessici preesistenti, ma
è fabbricato sul corpus: questa è un’altra sua peculiarità. Anche la struttura delle voci è nuova. Può essere
definita modulare perché si articola in singole sezioni numerate (i compilatori parlano di punti), simili ai
“campi fissi” di un database. La sezione 0.1 contiene, in ordine alfabetico, l’elenco di tutte le forme grafiche
riferibili al lemma presenti nella base di dati del vocabolario; il punto 0,2 contiene una nota etimologica; il
punto 0,3 porta la più antica attestazione del lemma; il punto 0,4 indica le prime attestazioni nei testi
appartenenti alle diverse varietà linguistiche considerate, visto che qui non c’è solo l’italiano ma anche i
volgari delle altre regioni (una varietà più difficile da documentare mano a mano che si procede nel tempo);
il punto 0,5 contiene eventuali annotazioni linguistiche; il punto 0,6 contiene informazioni sulle attestazioni
della parola in antroponimi e toponimi (quando la parola oggetto della voce ricorre nei nomi di persona o nei
nomi di luogo: per esempio, il termine avellana, “nocciola”, è servito per un gioco di parole sul nome
proprio “Donna Avellana”); il punto 0,7 contiene un riepilogo della struttura della voce; il punto 0,8 indica il
nome del redattore responsabile (quasi tutte le voci sono firmate). Dopo questi punti numerati (che hanno
sempre la stessa articolazione, anche se in alcuni di essi possono non essere presenti se superflui), seguono
le citazioni degli autori, divise per accezioni e messe in ordine cronologico. Qui, a differenze del Battaglia, il
riferimento va a un periodo storico limitato, però la serie dei rinvii è più completa: autori minori e minimi,
ma anche testi extraletterari.
Il TLIO è uno strumento specialistico che non serve al largo pubblico, ma la sua realizzazione è motivo di
vanto per la cultura italiana. Benché strumento d’élite, è facile consultarlo perché lo si consulta su internet,
attraverso il sito web dell’OVI. La pubblicazione in rete è requisito caratteristico di un vocabolario
strutturato fin dalla progettazione per essere consultato tramite canali informatici. Le voci possono essere
aggiunte, rese consultabili o corrette a mano a mano che vengono compilate o riviste dai redattori, senza
aspettare la pubblicazione in forma di volume tradizionale.

3.3 “VOLIT” e “GRADIT”, la grande lessicografia di oggi


I due maggiori dizionari dell’uso che abbiamo oggi in Italia sono il GRADIT di Tullio De Mauro e il
VOLIT di Aldo Duro. Una volta preso atto che si tratta in entrambi i casi di prodotti di alta qualità, si può
provare a confrontarli pur sapendo che non solo li divide uno scarto cronologico, ma anche la diversità di
intenti. Qui conta la constatazione di quanto possa essere diverso il lavoro del lessicografo. La lessicografia
non è mai un’operazione neutrale, anche quando si nasconde dietro il paravento della scienza o
dell’impersonalità, soprattutto se questa scienza è la linguistica, il cui status umanistico garantisce una larga
dose di opinabilità. Questi due dizionari non sono anonimi, nascosti dietro una redazione collettiva, perché
la personalità degli autori – ideatori – direttori ha molto rilievo, anche se siamo lontani dai personalismi di
Tommaseo e dai suoi eccessi umorali, oggi improbonibili.
Tra i due dizionari, il primo in ordine cronologico è il VOLIT, acronimo di Vocabolario della lingua
italiana il cui autore è Aldo Duro e la casa editrice è la Treccani, cioè l’Istituto della Enciclopedia Italiana.
Il Duro affonda le sue radici nelle opere di consultazione della Treccani, quindi ha alle spalle una forte
tradizione enciclopedica. Nel dopoguerra, dopo la realizzazione dell’Enciclopedia italiana di scienze,
lettere ed arti diretta da Giovanni Gentile, l’Istituto si impegnò in varie edizioni che coniugavano
enciclopedismo e lessicografia, in particolare il Dizionario enciclopedico italiano, pubblicato tra il 1955 e
il 1961, la cui parte lessicografica è dovuta ad Aldo Duro in accordo con Bruno Migliorini. Da questo
Dizionario enciclopedico ha avuto origine il Vocabolario, uscito in 5 tomi dal 1986 al 1994, sotto la
direzione dell’autore Aldo Duro, e questo abbinamento di funzione (autore e direttore), è eccezionale nella
prassi della Treccani, se Giuseppe Alessi, presidente di quella istituzione, ha scritto che il Vocabolario è
l’unica opera dell’Istituto della Enciclopedia Italiana che ha un direttore autore. Aldo Duro lasciò la
direzione del dizionario nel 1972, ma già dal 1950 faceva parte della redazione del Dizionario
enciclopedico. Quindi nel VOLIT si può riconoscere l’ultimo risultato di una grande tradizione fiorentina,
legata al magistero di Migliorini e all’enciclopedismo di Gentile. Quanto al legame con l’autorità linguistica
di Firenze, è significativa un’affermazione di Arrigo Castellani, il filologo che amava intervenire nelle
questioni di lingua contemporanea suscitando le scandalizzate reazioni dei liberali più accesi e degli
antipuristi radicali. Castellani non accordava a tutti i vocabolari la stessa autorevolezza normativa. Tra i
moderni, tra quelli dotato di questo carisma, riconosceva il primato a quello di Duro. Quanto al confronto
con la tradizione enciclopedica della Treccani, basta la premessa al primo volume dell’opera (breve, in
proporzione alla mole e al rilievo della realizzazione): rileggendola, si può vedere quanto fosse avvertito il
problema dell’autore, il quale gli dedicò tutto lo spazio. Duro riteneva che il compito del lessicografo fosse
cambiato. Un tempo vi era il primato della filologia perché il vocabolario era composto sulla lingua degli
autori, con qualche incursione nella lingua viva e parlata del popolo. La situazione degli anni ’80 però gli
sembrava cambiata per l’incremento e il peso sempre maggiori dei linguaggi speciali, combinati con
l’influenza determinante della lingua della radio e della televisione. L’aggiornamento continuo dello
schedario del lessicografo era reso problematico dalla caduta dell’autorità normativa: al lessicografo, che
prima si sentiva sorretto da questa autorità o la assumeva egli stesso, non è più consentito di fare scelte con
motivazioni genetiche o glottotecniche, accogliendo solo le parole di buona origine e regolarmente formate,
e respingendo quelle di origine o coniazione spuria.
La parola glottotecnica è legata alla memoria di Migliorini, il cui neopurismo aveva per base una
concezione della linguistica utile per la società, al servizio dei dotti delle varie branche della scienza, per
offrire una consulenza linguistica, un parere competente (di cui oggi, forse, i tecnici, diventati superbi, non
sentono nessun bisogno). Quale compito resta allora al lessicografo, se non vuole trasformarsi nel notaio
della lingua? La selezione, se si fa, può avvenire solo tra parole necessarie o utili e parole inutili o di vita
effimera. Stabilito questo principio, il vocabolario si apre verso le novità della scienza e della tecnica, si
confronta con l’enciclopedia (anche nell’uso delle illustrazioni), e la distanza è sempre minore, anche se il
vocabolario avrà, rispetto all’enciclopedia, definizioni più piane e sintetiche e quindi più accessibili,
sufficienti per soddisfare le esigenze di una prima informazione.
In nessun modo questo vocabolario può essere accusato di purismo o conservatorismo, anche se è facile
verificare che non è un lessico, il quale, nella prassi, prescinde dalla norma o accoglie tutti gli usi. Anzi,
colpisce il riferimento da parte del Duro alla fine della funzione selettiva del “buratto”, alla conclusione del
mandato della Crusca, alla quale sentiva di doversi collegare, ultimo erede di una linea fiorentina, anche se il
suo vocabolario era stampato da un’istituzione culturale romana.
Confrontata con quella del VOLIT, è diversa l’origine del GRADIT. Innanzitutto è geograficamente
diversa perché è stato prodotto da una casa editrice torinese specializzata nelle grandi opere, la Utet, l’erede
della tipografia del Pomba, quindi la casa editrice di Tommaseo e del Battaglia. Realizzato il dizionario
storico dell’italiano, la Utet volle lasciare il segno anche nel settore della grande lessicografia dell’uso.
Secondo la tradizione piemontese, si rivolse ad un collaboratore che venne da lontano: così come avvenne al
tempo di Tommaseo dalmata, di Battaglia siciliano e professore a Napoli, così fu per De Mauro, di famiglia
apulo – napoletana, romano di accademia, mai filofiorentino. I due dizionari sono diversi già nella
presentazione degli autori, anche se in entrambi viene affrontato il problema del rapporto con i linguaggi
tecnico – scientifici e settoriali, questione inevitabile a causa della trasformazione dell’italiano di oggi, dopo
la fine del mandato della letteratura, durato secoli.
Il VOLIT si presentava sobrio di informazioni introduttive, mentre era abbondante l’informazione e la
riflessione che De Mauro ha offerto prima e dopo il suo dizionario, visto che dobbiamo fare riferimento a
un’Introduzione e ad una Postfazione, e ad una introduzione all’appendice di Nuove parole italiane
dell’uso che è il settimo volume del vocabolario. Un tema colpisce nell’Introduzione: la volontà di
dichiarare le fonti usate, sottraendosi all’abitudine invalsa di impersonale anonimato, e riallacciandosi alla
tradizione antica che dava conto con la massima cura degli autori spogliati e dell’origine delle schedature.
De Mauro, secondo il suo stile, ha detto ciò con parole tecniche e con parole comuni, con una verve
polemica collegata all’istanza sociale che gli è cara: secondo De Mauro il dizionarista italiano parla sempre
ed è incontrollabile perché non dice che fonti ha usato e non esplicita i criteri di selezione, cosa che invece
De Mauro ha cercato di fare non solo per quanto riguarda le citazioni d’autore, ma anche per l’uso di altri
vocabolari. Tra le fonti a cui il GRADIT dice di aver ricorso, abbiamo il Dizionario enciclopedico italiano
della Treccani, il Lessico universale italiano della Treccani (rifacimento e ampliamento del Dizionario
enciclopedico), e il VOLIT, accanto a vocabolari dell’uso più piccoli come lo Zingarelli e il Devoto – Oli.
Queste sono le prime fonti citate, a cui segue un’esplicitazione accurata dei criteri di selezione, in ossequio
al parlare chiaro e scoperto a cui De Mauro dedica attenzione, citando provocatamente il popolo di
Pascarella che, ne La scoperta de l’America, chiede al narratore come sa quelle “fregnacce”. De Mauro
dice di voler rispondere a questo popolano perché non si sottrae alle domande più disarmate, che spesso
sono le più imbarazzanti.
Altri temi emergono nell’Introduzione. De Mauro rivendica una posizione speciale per il suo dizionario, il
primo redatto dopo l’ampliamento dell’uso parlato e scritto dell’italiano (verrebbe da chiedersi perché non lo
sia anche il VOLIT, di scala e ampiezza uguale), e l’uso viene invocato con la citazione manzoniana di
“signor Uso” con la maiuscola, tale da giustificare l’atteggiamento di liberalismo linguistico del
lessicografo. Siamo arrivati al problema della norma. Abbiamo visto le aperture del Duro. Se la necessità di
larga apertura verso le innovazioni linguistiche si era fatta strada già in modo così sensibile, è facile
immaginare quanto ampia debba essere la disponibilità di un antipurista radicale. De Mauro definisce il
proprio liberalismo linguistico, in cui è implicito il rifiuto di censurare qualsiasi novità. Tutta la gamma
dell’uso possibile. Questa è una posizione di De Mauro nota da tempo, largamente condivisa, diffusa grazie
ai suoi ripetuti interventi teorici, divulgativi e didattici, con la precisazione che “liberalismo linguistico” non
è “irresponsabilità”, e quindi da esso deriva un uso responsabile della lingua. De Mauro dichiara che il suo
vocabolario accoglie anche quello che può risultare antipatico agli utenti avvertiti, severi. Su questo terreno
si misura lo scarto fra il controllo normativo di altri lessici, nello stile del VOLIT. Qualche esempio: De
Mauro registra l’attimino su cui si è discusso qualche anno fa perché molti lo condannavano come inutile
vezzo. Si tratta di un diminutivo e quindi è impossibile trovarlo a lemma (potrebbe essere richiamato sotto
attimo). De Mauro gli dà piena autonomia lessicale, pur avvertendo che si tratta di forma familiare. Altro
esempio: il Treccani registra la locuzione avverbiale a mano a mano avvertendo che può essere anche man
mano; il GRADIT registra come equivalenti a mano a mano, mano mano, mano a mano, quest’ultimo
senza avviso, come fanno anche lo Zingarelli (non il Sabatini – Coletti, il De Felice – Duro e il Devoto –
Oli, quest’ultimo omette man mano). Nel caso di arancio per “arancia”, le posizioni si invertono perché il
GRADIT non lo menziona, mentre il Treccani lo prevede come caratteristico dell’uso comune, avvertendo
che è meno proprio di arancia. Il GRADIT registra redarre per “redigere” senza nessun avviso di cautela,
salvo l’indicazione che è un verbo da usare solo all’infinito; il Treccani, pur introducendo il lemma
Redarre, dice che si tratta di una forma a volte usata in modo sbagliato in luogo di redigere. Sconcentrare
per “perdere concentrazione” è assente in entrambi i due grandi dizionari, ma il GRADIT registra
l’aggettivo sconcentrato. Entrambi i dizionari ammettono l’uso delle forme correlative “sia … sia” e “sia…
che”, senza avviso. Nessuno dei due dizionari riesce a registrare il neonato “piuttosto che” in funzione di “o”
in frasi disgiuntive equivalenti. È probabile quindi che il Treccani (che è meno recente) sia più conservatore
e attento alla norma tradizionale, ma non si può dire che il GRADIT faccia dell’infrazione della norma una
religione. Però a volte esibisce in modo quasi provocatorio l’accoglimento di innovazioni dell’uso comune e
popolare, come nel caso di attimino e redarre. Si tratta di innovazioni – bandiera, che assumono un
significato simbolico nel quadro del liberalismo a cui accennava De Mauro, ovviamente liberalismo non
guidato, in cui l’utente non sa che l’innovazione non è del tutto condivisa perché sta ancora nella zona grigia
che esiste tra norma ed errore.
Il Grande Dizionario Italiano dell’Uso rappresenta il lessico della lingua italiana in uso nel 900 tra gli
italofoni, dice De Mauro. Nessun altro lessicografo ha mostrato di aspirare a rappresentare il proprio
momento storico con questa determinazione. Non a caso le chiarificazioni teoriche che accompagnano il
vocabolario sono state l’occasione per fare il punto sulla lingua italiana di oggi, tanto da costituire un
capitolo descrittivo. Ciò vale soprattutto per la Postfazione del settimo volume, che fa considerazioni sulla
formazione e la composizione del lessico italiano: queste pagine hanno troncato una discussione suscitata da
una teoria controcorrente, secondo la quale è un luogo comune la mancanza di grandi alterazioni
dell’italiano, lo stato di continuità grazie al quale la lingua antica è da noi ancora viva e comprensibile, ciò
che non accade ad altri popoli d’Europa. De Mauro ha fatto notare che il vocabolario fondamentale
dell’italiano era già costituito al 60% quando Dante cominciò a scrivere la Commedia e che alla fine del
‘300 esso era già configurato e completo al 90%. La Postfazione è il luogo in cui il lessicografo si è
dedicato al bilancio delle componenti antiche e moderne, in cui ha affrontato il discorso sui termini tecnico –
scientifici, mostrando come da certi settori si sarebbero potute attingere parole in quantità tale da superare la
soglia di tolleranza di qualsiasi dizionario: le specie vegetali etichettate con nome specifico sono circa
300mila, le specie viventi, esclusi microrganismi e virus, sono circa 2 milioni. Una minima parte di questi
nomi è entrata nel dizionario, in base a criteri selettivi messi a punto dalla lessicografia. Questa è la prova di
un fatto che spesso sfugge al largo pubblico, che crede che si possa giudicare la ricchezza di una lingua dal
numero di parole contenute nel suo dizionario, mentre il dizionario può far crescere il numero delle parole a
dismisura modificando un po’ le scelte redazionali.
La Postfazione si chiude con una pagina di alto significato morale e ideale, dove, nelle ultime parole, vibra
l’ottimismo per le sorti dell’italiano, ottimismo che ha sempre caratterizzato la prospettiva di De Mauro, e
che assume una valenza particolare quando illumina un imponente lavoro sul lessico, condotto spesso sulla
base di elaborazioni quantitative rese possibili grazie al grande corpus raccolto nel GRADIT. Alla fine si
parla del rapporto tra lingua comune, letteraria, della scienza e della tecnica, argomento che aveva già
occupato tanto spazio nella presentazione del Treccani di Aldo Duro: in Italia è stato fatto anno dopo anno
un grande lavoro non solo di impossessamento della lingua comune, ma anche di accrescimento e
ampliamento dei campi semantici e piani del contenuto dicibili e articolabili in buona lingua italiana. E
proprio questo ha aiutato alcuni dei maggiori poeti e prosatori del secolo, Gadda, Montale, Sciascia, Primo
Levi, Calvino, a portare nei loro testi contenuti e parole delle scienze e delle tecniche. L’italiano con il suo
lessico è tornato ad essere usato e può essere anche utilizzabile per parlare con il mondo tecnologico e
industriale, scientifico, filosofico e civile moderno.
La caratteristica più specifica del dizionario di De Mauro è la schedatura di tutto il lessico attraverso delle
marche d’uso, secondo una tipologia stabilita su base statistica. Queste 11 marche in parte sono simili a
quelle che già sono presenti negli altri dizionari, per quanto concerne le categorie di letterario, obsoleto,
regionale, dialettale, ma in parte sono innovazione, soprattutto quando sono applicate al lessico di uso più
comune, prima di tutto per individuare le parole dell’italiano fondamentale, e poi le categorie meno
ricorrenti o meno familiari ai parlanti. I dizionari hanno sempre segnalato i termini rari, preziosi, ma non
hanno sentito il bisogno di avvertire quando il termine era comune e abituale a un determinato tipo di utenti,
classificati in base al livello di scolarità. De Mauro, invece, lo ha fatto, offrendo una tipologia molto
articolata. Altri vocabolari dell’uso usati nella scuola, percorrono solo in parte questa strada, quando
mettono in risalto la categoria dell’italiano fondamentale, segnalata dallo Zingarelli e dal Devoto – Oli (che
non usa la denominazione “italiano fondamentale” ma “lessico di base”).
Le 11 marche d’uso sono diventate il segno distintivo di vari dizionari di De Mauro, opere che sono derivate
dall’esperienza maggiore del GRADIT, madre di tutti i dizionari, come il De Mauro. Dall’esperienza del
lessicografo è anche derivata la serie indirizzata a specifiche fasce d’età: il Prime Parole, dizionario
illustrato di base della lingua italiana (dai 5 ai 7 anni); il DIB (Dizionario di base) dagli 8 agli 11 anni; il
DAIC (Dizionario avanzato dell’italiano corrente), dagli 11 ai 15 anni.

3.4 Piccoli vocabolari


Sono piccoli vocabolari se paragonati alle opere in molti volumi, ma in realtà la mole delle informazioni che
offrono è di tutto rispetto e non sempre fa rimpiangere le opere maggiori. Alcuni di questi lessici si legano o
collegano alle opere maggiori, per esempio De Mauro che deriva dal GRADIT, o Simone che prosegue la
tradizione della Treccani, anche se il vocabolario maggiore, il Duro, è di diverso autore. Anche in questo
vocabolario compatto la presentazione, firmata dal direttore, è occasione per verificare la fine del ruolo –
guida della letteratura, la nuova funzione dei media, delle mode culturali, dei contatti con gli altri paese, la
globalizzazione planetaria (che ha influenza sulla diffusione delle parole mondiali), il rimescolarsi
dell’italiano con le varietà regionali.
In altri casi il vocabolario dell’uso in un solo volume, destinato perlopiù all’uso scolastico (il bacino che
assicura la commercializzazione e rende il vocabolario una risorsa preziosa per gli editori che ne devono
produrre uno di successo) è diventato il perno attorno a cui ruota un intero settore di attività. La Zanichelli di
Bologna, con lo Zingarelli, detiene una solida leadership non facile da contrastare. Il vocabolario Zingarelli
porta quel nome solo come marchio nobile, ricordo dell’antico compilatore, lo storico della letteratura e
dantista Nicola Zingarelli, nato a Cerignola nel 1860, morto a Milano nel 1935. La prima edizione in volume
risale al 1922 nella casa editrice Bietti & Reggiani, ma già nei 5 anni precedenti il libro era stato pubblicato
in fascicoli presso lo stesso editore, come per saggio: lo ricorda lo stesso Zingarelli ripercorrendo le tappe
della storia editoriale della sua opera. Dal 1935 il vocabolario passò alla Zanichelli di Bologna. La 7ima
edizione riporta ancora la prefazione degli editori alla quinta edizione dove si racconta un aneddoto: in
occasione del trasferimento della proprietà del vocabolario, Zingarelli disse agli editori riuniti nel suo studio
che avevano acquistato una bella campagna e dovevano però ricordare che le campagne fruttano solo se
sono coltivate bene, tirando fuori una mole di correzioni, varianti e aggiunte, spiegando che il vocabolario
doveva seguire l’evoluzione della lingua. Ciò è avvenuto, tanto che oggi lo Zingarelli, trasformato nel corso
del tempo, è arrivato alla 12esima edizione; si è stabilita l’abitudine di far uscire all’inizio di ogni anno
scolastico un volume millesimato, con in copertina l’indicazione dell’anno solare successivo. La serie delle
riedizioni e ristampe ne fa un vero testimone del nostro tempo, osservatore della continua evoluzione della
lingua, permettendo di registrare neologismi e retrodatazioni di parole (visto che ora lo Zingarelli porta
anche la data della prima attestazione dei termini posti a lemma).
Come i lessicografi del tardo ‘900, anche Zingarelli nella Prefazione del suo vocabolario diceva di aver
cercato le informazioni più esatte nelle parole del linguaggio scientifico e tecnico, pietre, piante e animali
che non potevano essere accennate alla buona, ma dovevano essere registrare con le classificazioni degli
scienziati. Uguale accortezza richiedevano le scienze mediche, fisiche e chimiche. Nicola Zingarelli faceva
riferimento alle parole straniere e ai neologismi, arrivando a richiamare la parentela sempre maggiore tra il
vocabolario e l’enciclopedia: come Aldo Duro, che avrebbe sostenuto tesi simili, favorito però dall’Istituto
dell’Enciclopedia Italiana. Quanto al sentimento del lessicografo, che si sente interprete del suo tempo, è
importante il passo di una lettera di Nicola Zingarelli al proprio editore, riprodotta in facsimile, scritta da
Druogno Orcesco in Val Vigezzo il 18 agosto 1934, dove era in vacanza. È quasi il suo testamento
spirituale, mentre dava alle stampe la 7ima edizione del vocabolario: diceva che il vocabolario era
aggiornato e con il patrimonio della lingua sembrava la ricchezza della civiltà e cultura italiana. Ricorda
anche che lui non ha mai voluto fare un’enciclopedia, ma la lingua è astratta e assoluta, sebbene pratica, e
relativa alle cose, e senza di queste è niente.
Il dizionario ha sentito l’attrazione delle cose e per questo si è sempre di più avvicinato all’enciclopedia. Nel
processo in atto, documentato fin dagli anni ’20 attraverso le affermazioni di Nicola Zingarelli. Devoto e Oli
però avvertivano un pericolo e avvisavano i lettori firmando la Prefazione di un dizionario per la scuola: sul
modello del dizionario enciclopedico, si è fatta sempre più larga parte all’enciclopedismo. La sete di notizie
intorno ai vari rami del sapere ha fatto sì che il dizionario tradizionale sia stato sottratto a poco a poco alle
parole e attratto dalle cose, e si sia avvicinato nell’attività scolastica a una enciclopedia minore: il dizionario
tradizionale sembra destinato ad entrare in crisi.
Anche il Dizionario Devoto – Oli, dizionario d’autore (come lo Zingarelli, il Palazzi – Folena, il Sabatini –
Coletti) ha avuto vita proteiforme, sopravvivendo alla morte dei 2 autori. Oggi è stato tra i primi a dotarsi di
edizione elettronica. È rinato nella revisione moderna degli storici della lingua Luca Serianni e Maurizio
Trifone.
Per un esame analitico della produzione lessicografica attuale si può ricorrere ai confronti proposti da
Rigual, Pfister, Serianni, oltre che alle indicazioni bibliografiche di Muljačić, il quale ha anche fornito un
quadro teorico molto dettagliato di tutte le possibili categorie lessicografiche, modificando la terminologia
corrente: per esempio sostituendo le due classi di “dizionari bilingui” e “monolingui” con quelle di dizionari
“di (quasi) equivalenze” e di “definizioni”. Il vocabolario italiano rincorre oggi l’evoluzione della lingua
non solo accogliendo i neologismi, i quali anzi, stanno cadendo in sospetto. La loro accoglienza
indiscriminata o troppo larga, a volte confusa con l’aggiornamento, rischia di far imbarcare occasionalismi
effimeri. Ogni vocabolario deve fare una distinzione tra neologismi significativi e occasionalismi, anche
perché esigenze di mercato e semplificazioni pubblicitarie richiedono che si mostri aggiornatissimo, ciò che
avviene anche accogliendo nuovi materiali e adeguandosi alle nuove tendenze grafiche. Si è sviluppata una
gara tra dizionari nell’arricchire le voci non solo con le etimologie tradizionali, ma anche con la data delle
prime attestazioni, con la divisione sillabica (non presente nello Zingarelli), con la segnalazione del
vocabolario di base, con la proposta di materiale accessorio (inserti, immagini, tavole, sigle, nomi propri,
abbreviazioni correnti…). Il Sabatini – Coletti ha strutturato le voci dei verbi in base al numero degli
argomenti, ma l’edizione più recente (2007 – 8), modifica l’impostazione presentandone le valenze. In
questo senso, il Sabatini – Coletti è il vocabolario che usa in modo più radicale alcune innovazioni della
linguistica moderna, nelle espansioni sintattiche e nella testualità. Sono innovazioni ambiziose, che spesso
non fanno piacere al largo pubblico. Nella vita di un dizionario, nelle sue continue trasformazioni, oltre ad
avere peso i cambiamenti strutturali, hanno peso anche le innovazioni grafiche. Lo Zingarelli, nell’edizione
millesimata del 2008, e anche in quella del 2009, ha adottato per la prima volta il colore azzurro per i lemmi
e la scaletta alfabetica laterale in colore (presente anche nelle ultime edizioni del Sabatini – Coletti e del
Devoto – Oli). L’evoluzione grafica ha importanza nella storia della lessicografia (si deve ricordare, per i
secoli passati, l’evidenziazione delle parole a lemma, o la distinzione tra le sezioni alfabetiche U e V), e in
alcuni casi la grafica si collega alla struttura vera. Si pensi ad una caratteristica dello Zingarelli, oggi
abbandonata, che consisteva nella collocazione di più parole sotto uno stesso lemma, in forma di famiglia di
vocaboli, per cui sotto Abbreviamento stavano Abbreviare, Abbreviativo, Abbreviato,
Abbreviatamente, Abbreviatore, Abbreviatura, Abbreviaturina, Abbreviazione. Oggi, la serie delle
entrate, tutte indipendenti, è Abbreviamento, Abbreviare, Abbreviativo, Abbreviato, Abbreviatore,
Abbreviatura, Abbreviazione; solo l’avverbio Abbreviatamente è ancora collocato sotto l’aggettivo
corrispondente, mentre il diminutivo Abbreviaturina è stato eliminato.
Nell’adozione di elementi nuovi, accanto all’etimologia, alla divisione sillabica, alle datazioni, è stata
introdotta a volte la trascrizione fonetica. L’11esima edizione dello Zingarelli, curata da Miro Dogliotti e
Luigi Rosiello, introdusse la trascrizione fonematica in alfabeto fonetico internazionale (Ipa) per tutte le
parole. Nella 12esima, questa trascrizione è stata riservata solo ai termini stranieri, per i quali viene
registrata in forma doppia, come pronuncia adattata e come pronuncia nella lingua d’origine. Il dizionario
preferisce adottare dei segni diacritici applicati alla normale grafia italiana del lemma. Anche gli altri più
noti dizionari italiani dell’uso (ma non il GRADIT) evitano la trascrizione integrale nell’alfabeto fonetico
internazionale, che ha avuto poca fortuna in Italia, lamentata da Canepàri, il quale ha insistito sui limiti e
difetti degli altri sistemi di trascrizione.

4. Il vocabolario diventa elettronico


Tutti i vocabolari importanti di oggi sono corredati da supporto elettronico, in forma di cd – rom.
L’innovazione ha investito anche la lessicografia del passato, perché di alcuni vocabolari antichi sono state
realizzate edizioni elettroniche, spesso consultabili in rete. Per quanto riguarda il dizionario 800entesco, il
Tommaseo, è stata messa alla prova l’edizione su cd – rom per verificare i vantaggi che possono venire fuori
da uno strumento moderno al servizio di un’opera del passato. È stato verificato il funzionamento dei cd –
rom dei vocaboli dei sinonimi. L’informatica può essere un valido supporto per la lessicografia attuale, sia
nella fase di elaborazione del materiale, sia nella fase di realizzazione del prodotto destinato all’utente, il
quale trarrà grande beneficio dalla sostituzione di un volume cartaceo (o di una serie di volumi) con un disco
facile da trasportare, il cui difetto sta solo nella possibile obsolescenza tecnologica, per eventuali modifiche
nei sistemi operativi dei computer. Non vi è dubbio che qualsiasi volume a stampa garantisce una durata
temporale maggiore dell’informatica, sebbene in forma più rustica. Però nell’elettronica vi è un compenso
grande: la maggiore praticità in caso di consultazione raffinata, per la ricchezza dei risultati possibili. Il
discorso si dovrebbe spostare dal contenuto del dizionario in sé, uguale a quello della stampa, alle
caratteristiche del motore e della maschera di ricerca di cui è corredato, perché non tutti i motori sono
uguali, non tutti sono veloci allo stesso modo, non tutti permettono di raggiungere l’obiettivo che l’utente si
è prefissato e non sempre il vocabolario di dimensioni maggiori, o più sofisticato o costoso, offre la
consultazione elettronica migliore o più ricca, più facile, più intuitiva.
Non vi è dubbio che il futuro della lessicografia ha a che fare con il rapporto con i corpora, sia per la
selezione delle voci da inserire, sia per gli esempi e la fraseologia da selezionare, sia per l’individuazione
della probabilità statistica di una parola, cioè per la sua collocazione nella scala di frequenza e disponibilità
del lessico. Non sempre l’inserimento è facile. In sede di bilancio storico, è interessante notare come i
progetti lessicografici della Crusca, a partire dal dopoguerra, si siano collegati ad un aggiornamento
tecnologico costante, e la realizzazione lessicografica più notevole, il TLIO, il tesoro della lingua antica,
venga prodotto per essere inserito online.
Oltre ai dizionari consultabili online e su cd – rom, bisogna ricordare “La fabbrica dell’italiano”, una
realizzazione di tipo diverso, consultabile su Internet accedendo al portale dell’Accademia della Crusca.
Responsabile scientifico del progetto è Teresa Poggi Salani, aiutata da collaboratori come Mirella Sessa. La
banca dati di questo dizionario, per la sezione della lessicografia comprende le 2374 opere lessicografiche
conservate nel Fondo Dizionari della Biblioteca dell’Accademia della Crusca. Per ogni opera si può
consultare la scheda bibliografica, accompagnata dalla digitalizzazione di alcune pagine caratterizzanti
(immagini dei frontespizi, delle pagine introduttive e di alcune pagine del lemmario). Non si possono più
consultare o scaricare opere complete (come invece accade in altri siti della Rete: si pensi alla francese
“Gallica” della Bibliothèque Nationale di Parigi), ma almeno si possono osservare le pagine campione di
opere lessicografiche rare, difficili da reperire.
Il sito de “La fabbrica dell’italiano” è a metà tra biblioteca virtuale e museo delle opere di lingua, in
particolare quelle di lessicografia.

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