Ci si potrebbe chiedere se il dizionario sia uno strumento antico, se fosse già presente in forme simili a
quelle moderne nel mondo greco e latino. Gli storici della lessicografia indicano nelle letterature classiche
alcuni precedenti, anche se sono strumenti molto diversi rispetto al vocabolario odierno, per forma e scopo.
A tal proposito possiamo citare il De verborum significatu di Marco Verrio Flacco che conosciamo
attraverso l’epitome di Pompeo Festo: ne resta una parte riguardante la seconda metà dell’alfabeto, dalla M
in poi. Essa fu poi riassunta da Paolo Diacono nell’VIII secolo. Sicuramente l’opera originale di Flacco
condivide con il vocabolario odierno la mole. Tuttavia, anche nell’epitome si ha l’impressione che non sia
un vocabolario così concepito come lo intendiamo noi oggi: non è una raccolta completa del lessico che
vuole rappresentare il patrimonio della lingua. Si tratta di un repertorio erudito che riunisce informazioni
disomogenee per illustrare parole antiquate o difficile per un romano del tempo (parole di Plauto, per
esempio, che ormai non si usano più). Si danno informazioni sui significati particolari o curiosi: il
lessicografo ci dice che mantare spesso vale aspettare e cita la battuta di una commedia di Cecilio Stazio.
Mantare è usato in modo simile da Plauto, vissuto all’epoca di Cecilio Stazio. L’opera di Plauto ci è
arrivata parzialmente, mentre quella di Cecilio Stazio si è perduta, salvo pochi frammenti superstiti come
questo tramandato da Verrio Flacco.
Il vocabolarista – glossatore, in questo caso, raccoglie, commenta e conserva un arcaismo che ricorreva
ancora nel III secolo e che altrimenti si sarebbe perduto. Nella raccolta di Verrio – Festo entrano materiali
diversi, anche nomi propri: il nome osco Mamerco o la famiglia dei Mamili. La raccolta documenta parole
rare e arcaiche, ci trasmette frammenti di opere disperse, di cui si salva qualche scheggia grazie al
commento e alla spiegazione lessicale. Però non contiene tutta la lingua latina perché non era l’obiettivo
dell’autore. Alcuni grandi vocabolari delle lingue europee, invece, sono o sono stati il simbolo della nazione
che li ha prodotti, ne hanno rappresentato la cultura: il Vocabolario degli Accademici della Crusca,
l’Oxford Dictionary. Nell’antichità classica mai una raccolta di parole ha assunto un valore simbolico così
alto: in una posizione del genere potevano essere collocati solo capolavori di grandi autori come Omero e
Virgilio, visti come il segno di una tradizione culturale. Quindi, il forte peso del vocabolario nella cultura di
una nazione è un fatto moderno.
1.1 Parole delle Tre Corone: Liburnio (1526), Minerbi (1535), Alunno (1539 – 46)
La lessicografia italiana diversificata rispetto alle glosse e alle raccolte occasionali di parole, iniziò con delle
opere stampate nella prima metà del 500, dove il peso delle teorie letterarie relative alla fisionomia ideale
della lingua volgare si fece subito sentire. L’autore più notevole è Francesco Alunno di Ferrara il quale
raccolse voci del Petrarca, di Boccaccio e completò un dizionario metodico generale, la Fabrica del mondo,
la cui fortuna è provata anche dalle 10 edizioni del XVI secolo. Bembo aveva invitato ad imitare Petrarca e
Boccaccio: infatti il primo dizionario dell’Alunno, intitolato Osservationi sopra il Petrarca, è uno spoglio
del lessico petrarchesco. Per quanto riguarda Boccaccio, il nome di questo autore non compare subito nel
frontespizio dell’opera a lui dedicata, perché nella prima edizione il titolo scelto dall’Alunno fu Le
ricchezze della lingua volgare: la precisazione “sopra il Boccaccio” all’inizio non c’era.
L’Alunno voleva completare la triade ispirata alle 3 corone trecentesche realizzando un dizionario della
lingua di Dante, ma questo 3 volume non uscì. Tuttavia la Fabrica del mondo è ricca di esempi delle 3
corone, i tre grandi autori del 300, Dante compreso. L’omaggio alla triade è scontato. In questo modo
l’Alunno proseguiva l’opera del primo lessicografico del XVI secolo, il friulano venezianizzato Niccolò
Liburnio, il quale però, invece di “3 corone” aveva parlato di Dante, Boccaccio e Petrarca come di Tre
fontane, 3 sorgenti che con le loro linfe alimentavano la lingua volgare. Per quanto riguarda Boccaccio,
Lucilio Minerbi raccolse il lessico di questo autore, compilando il Vocabulario aggiunto all’edizione
veneziana del Decamerone del 1535. Boccaccio era un’ottima occasione per compilare raccolte di parole,
come prova il lavoro successivo di Brucioli e il dizionario dell’Alunno di Ferrara. Il lessico boccacciano del
Minerbi parve poca cosa alla Olivieri, prima di tutto per la dimensione del lavoro, trattandosi di 74 pagine, e
poi per il fatto che forse si servì delle Tre fontane del Liburnio. La breve spiegazione delle parole del
Minerbi è quasi sempre in veneziano, secondo l’Olivieri: ma l’affermazione non è del tutto condivisibile.
Minerbi infatti non spiega tutti i vocaboli che elenca, anzi, di solito, come fece il Liburnio prima di lui, si
limita a fornire un riferimento alla fonte, in questo caso alla pagina del Boccaccio. Per ciò che riguarda la
forma grafica, a sinistra dei lemmi, compaiono tre lettere – guida che aiutano l’occhio nello scorrimento
delle liste alfabetiche: “Mig”, per esempio, individua le parole che vanno da “miglio” a “migliaccio”, cioè
tutte quelle che iniziano con “mig-“. Tra queste parole che sono miglio, miglia, migliaia, una si presenta
unita a un aggettivo (miglia picciole) e solo 2 sono accompagnate da una spiegazione. Infatti l’autore spiega
solo quelle parole che hanno bisogno di una spiegazione. Tra le parole che iniziano per Mig-, la prima ad
essere accostata a un equivalente è “migliaia cioè migliara”: ma introduce solo una variante fonetica. La
parola migliaccio è invece accompagnata da una vera spiegazione.
Qui non ricorre il dialetto veneto o veneziano, così come non ricorre in altre spiegazioni simili. Ciò non
toglie che a volte il venetismo esplicativo ricorre come in “macino cioè il masinar”. Lo scopo del Minerbi
è quelle di rendere più semplice la comprensione del capolavoro di Boccaccio che venera molto, tanto che
nella dedicatoria paragona la prosa del Decameron alla viva luce del sole.
La linea maestra della lessicografia italiana delle origini presenta due caratteri fondamentali: è fondata quasi
sempre sulla letterarietà, mediante spogli tratti da autori; si caratterizza per l’orientamento arcaicizzante, in
coerenza con l’indirizzo bembiano, perché guarda agli stessi autori che servirono come riferimento anche
per la stabilizzazione normativa, da Fortunio e Bembo in poi.
La Olivieri notava che i primi lessici italiani a stampa del XVI secolo provengono quasi solo dalla regione
padano – veneta, con poche eccezioni, tra cui il napoletano Luna e il marchigiano Pergamini da
Fossombrone; le stampe dei lessici sono perlopiù veneziane, anche se tra le eccezioni abbiamo il vocabolario
del Luna e il rimario del Di Falco. La storia dei primi lessici è simile a quella delle prime grammatiche
italiane a stampa, le quali sono settentrionali, soprattutto venete, e quando sono stampate altrove (Fortunio)
sono sempre legate alla cultura veneta.
3.2 Il Calepino
Simile percorso verso il riferimento a più lingue aveva compiuto il dizionario latino per eccellenza, il
Calepino di Ambrogio da Calepio, la cui prima edizione uscì nel 1502 a Reggio Emilia pressio Dionigi
Bertocchi, per poi essere ristampata a Venezia nel 1506 da Pietro Liechtensteyn di Colonia. Questa opera
divenne così famosa da produrre il passaggio dal nome proprio dell’autore a nome comune, se il termine
calepino poté stabilizzarsi in italiano con il significato di “librone” e molto recentemente in quello di
“quaderno”, “taccuino”. Il Calepino forniva la spiegazione dei termini latini proponendo esempi d’uso tratti
dagli autori classici, però nelle voci si introdussero piano piano i termini corrispondenti nelle lingue
moderne. I traducenti italiani comparvero nel 1550 e divennero sempre più numerosi, fino a 5, 7 e infine alle
8 lingue dell’edizione del 1609. Il dizionario latino, compilato nella lingua che allora funzionava come una
lingua internazionale, divenne uno strumento importante per accedere a una pluralità di lingue moderne.
Non si trattava di un dizionario bilingue o plurilingue in senso proprio, vista la funzione marginale e
approssimativa dei traducenti, ma l’equivalenza dei termini era suggerita al lettore e poteva essere sfruttata
in tanti modi, anche non subito prevedibili: lo si è visto parlando delle chiose presenti nell’esemplare del
Vocabulista ecclesiastico conservato al Museo Camillo Leone di Vercelli, chiose che sembrano apposte
tenendo a portata di mano il Calepino e sfruttandone i suggerimenti. Il vocabolario latino aveva una certa
flessibilità e varietà di funzioni, tanto che poteva anche servire come guida a chi fosse interessato alla lingua
italiana.
Per quanto riguarda gli strumenti nati per lo studio del latino, e poi adattati, in modo da essere funzionali al
rapporto con le lingue straniere, possiamo citare la raccolta di lessico ciceroniano allestita da Mario Nizzoli
nel 1535, il Thesaurus ciceronianus. Nell’edizione veneziana del 1606 fu corredato dagli equivalenti
italiani, spagnoli e francesi. Questa scelta è ispirata dal Calepino. Il Dittionario volgare e latino del
poligrafo veneziano Orazio Toscanella, di cui si conosce l’edizione del 1568, contiene anch’esso liste di
parole straniere, e tra queste le più numerose sono quelle spagnole. Il Toscanella, più volte si servi del
Calepino, adattandolo alle proprie esigenze di divulgazione didattica in opere che contenevano liste di
vocaboli italiani e latini.
Alcuni lessici plurilingui in cui entrava anche l’italiano furono stampati all’estero. Gallina ha segnalato il
dizionario fiammingo – francese di Noel de Berlaimont, stampato ad Anversa nel 1530: l’edizione più antica
sembra essere del 1536. Il libro fu accresciuto dopo la morte dell’autore: le lingue incluse furono prima 4,
poi 8 in varie combinazioni. Nel Nomenclator omnium rerum propria nomina variis linguis explicata di
Hadrianus Junius, uscito ad Anversa nel 1567, entravano greco, tedesco, fiammingo, francese e italiano.
Edizioni di questo libro, con l’aggiunta dell’italiano, apparvero anche a Francoforte, Colonia, Lione,
Ginevra. Le liste lessicali non erano contenute solo nei libri destinati allo studio e alla consultazione
linguistica, nei repertori di lessico latino o nei vari nomenclatori. Gallina ha infatti rilevato l’importanza di
un libro di tipo diverso, che tuttavia ha una simile propensione poliglotta: nelle Historiae animalium di
Konrad von Gesner, uscite a metà del 500 a Zurigo, i nomi degli animali sono presentati nelle varie lingue.
La stessa cosa accade nel libro italiano di farmacia e botanica del XVI secolo, i Discorsi sopra il
Dioscoride del medico toscano Pier Andrea Mattioli, in cui piante e animali vengono descritti per un sicuro
riconoscimento e per suggerirne il possibile uso terapeutico: in aggiunta alle informazioni naturalistiche e
mediche, sono indicati i nomi di piante e animali in italiano, latino, greco, arabo, tedesco, spagnolo e
francese.
1. PROGETTI E PROVE
1.1 Divulgazione moderna sul politicamente scorretto: il rogo del “Vocabolario cateriniano”
Bruno Migliorini ripropose all’attenzione dei linguisti, in un saggio del 1940 poi raccolto in volume, il
Vocabolario cateriniano del Gigli, un’opera del primo 700 la cui storia è stata ripercorsa di recente da
Pietro Trifone con il titolo Il libro che Firenze mise al rogo. In tutta la tradizione lessicografica italiana,
questo è il caso più noto di un intervento di censura che abbia colpito un dizionario e il suo autore. Il Gigli
era stato politicamente scorretto. Aveva usato troppo la satira e il sarcasmo, sali non estranei alle dispute
linguistiche: si pensi, nel 500, allo scontro tra Annibal Caro e Castelvetro, o nella prima metà dell’800 le
polemiche del Monti contro il Purismo e la Crusca e più tardi il sarcasmo di Carducci contro i manzoniani.
Gigli aveva deriso la fiorentinità, ne aveva deriso la gorgia (la spirantizzazione delle occlusive sorde
intervocaliche), aveva sbeffeggiato il “frullone” cruscante.
Le polemiche provocate dal contenuto delle voci di un vocabolario ritenute offensive, non sono solo un fatto
del passato. Questo incidente rischiò di travolgere un’intera impresa lessicografica destinata alla scuola. Nel
1993 presso le Sei di Torino uscì il Vocabolario italiano di Emidio De Felice e Aldo Duro. L’opera fu
accusata, attraverso un attacco di stampa, per la formulazione razzista della voce Ebreo. La seconda
accezione registrata sotto il lemma Ebreo era infatti questa: “fig., spreg. Persona assai attaccata all’interesse,
avida di guadagno, molto abile e priva di scrupoli negli affari; avaro, usuraio”. Si esaminò anche la
possibilità di ritirare dal commercio il vocabolario.
La voce Ebreo del De Felice – Duro aveva registrato la realtà in maniera anche troppo puntuale. Si paragoni
questa voce con quella presente nello Zingarelli del 2008: “Secondo un’antica tradizione antisemitica, chi (o
che) mostra grande attaccamento al denaro”. La definizione negativa è presente, ma meno analitica,
preceduta da una presa di distanza: il vocabolario avverte che quando si troverà in questa accezione,
risponde a pregiudizio, non a verità. Questa cautela è sufficiente fino a quando non intervengono richieste di
censura totale, simili a quelle di stampo femminista proposte anni fa dalla Commissione Nazionale per la
realizzazione della parità tra uomo e donna, dove si proponeva la sostituzione di alcune parole che
indicavano lavori femminili uscenti con il suffisso in -essa, come studentessa, vigilessa. Anche in questo
caso le scelte dei vocabolari venivano vagliate: lo Zingarelli del 1983 aveva registrato vigilessa come
“evitando”. Questa indicazione d’uso è presente anche oggi nell’edizione del 2008, con il rinvio alla nota
d’uso “Femminile”, dove una parte delle raccomandazioni per l’uso non – sessista della lingua italiana
diffuse dalla Commissione sulle pari opportunità comunque sono state accolte. Lo Zingarelli di oggi si
conferma tra i vocabolari più attenti al politicamente corretto. Il De Felice – Duro, per vigilessa, anziché
condannare la parola come “evitanda”, ha apportato al termine la marca d’uso “scherz.”, ovvero scherzoso.
Lo Zingarelli è tra i più attenti a cogliere le indicazioni di chi vuole limitare il pericolo dei pregiudizi
presenti nella lingua. Questo atteggiamento fa parte della storicità del dizionario, il quale è quasi sempre uno
strumento di conformismo, tranne casi eccezionali, di cui il Gigli è un esempio. Il confronto fra le edizioni
dello Zingarelli uscite a distanza di anni dimostra come la sensibilità al peso delle parole possa cambiare e
come il vocabolario vi si adegui. L’edizione del 1943 dello Zingarelli, per esempio, proponeva l’accezione
negativa di ebreo senza avviso e senza marche d’uso. Era stata aggiunta anche una frase proverbiale oggi
espunta dai dizionari dell’uso: “In questo posto c’è morto un ebreo” per indicare il posto “dove siede un
giocatore in disdetta”. La compilazione della voce ebreo fu più delicata dopo la 2 guerra mondiale e dopo la
Shoah. L’edizione del 1963 dello Zingarelli era più cauta di quella del 2008 nel censurare ogni pregiudizio
linguistico: non portava nessun riferimento ai caratteri negativi attribuiti agli ebrei. Lo Zingarelli di oggi è
intervenuto per arricchire il lemma, ha inserito di nuovo l’accezione n.2, quella negativa, prima eliminata.
Ci si potrebbe chiedere con che mezzi il vocabolario debba avvertire il lettore quando una forma, una parola,
una metafora, un’espressione derivino da pregiudizio o luogo comune: se lo deve fare con note e chiose,
oppure se deve inserire solo delle marche d’uso per scaricare la propria responsabilità che comunque tocca
comunità lontane o poco pronte a difendere i propri diritti: si vedano voci come Ottentotto, Gesuita, in cui
molti vocabolari registrano il significato spregiativo solo con la marca d’uso, mentre lo Zingarelli del 2008
usa il generico rinvio alla nota di Stereotipo, oltre che ad usare la marca d’uso.
La compilazione del vocabolario può comportare rischi legati al politicamente corretto e all’ipersensibilità
dei lettori, spesso così marcata da destare reazioni imprevedibili. Gli astrofili, per esempio, hanno protestato
per la definizione della loro categoria presente nella maggior parte dei dizionari italiani: si sono offesi per la
qualifica di “astronomi dilettanti” perché per loro “dilettante” ha una connotazione negativa rispetto ai
professionisti. Questo può essere segno non solo del valore che danno alle parole la gente comune, ma anche
del significato che assume un vocabolario.
Anche negli annali della lessicografia dialettale si conservano incidenti del genere. Nel 1819 la 1 edizione
del Vocabolario milanese – italiano del Cherubini corse il rischio di essere censurato dalla Chiesa perché
avevano suscitato irritazione queste voci:
- GESUITTA. (met). Verro. Majale. Porco.
- GESUITTA. (met). Scarabocchio
Erano voci dell’uso popolare, ma furono avvertite come offensive, benché contrassegnate con la marca
d’uso “metaforico”. Lo stesso Danzi riporta una lettera del conte Giuseppe Taverna, protettore del
Cherubini, scritta dopo l’incidente provocato dalla voce Gesuitta. In essa non è solo presenta una
spiegazione dell’appellativo gesuitta per “porco” ma viene dimostrato che non sempre gli stereotipi sono
segno di un atteggiamento offensivo. Il conte Taverna invitava il Cherubini ad affrontare i critici. Però,
l’edizione definitiva del Vocabolario milanese – italiano del Cherubini eliminò la voce Gesuitta.
1. PURISMO E ANTIPURISMO
1
Aggiunta presente nella “Minerva”.
seconda (1845 – 56) edizione del Tramater si collocano vicino alle edizioni del vocabolario del Manuzzi,
quasi ad indicare la coesistenza di due diverse anime nella lessicografia italiana.
Il Tramater introdusse nel 7imo volume del 1840 la distinzione tra le sezioni alfabetiche U e V, rompendo
una tradizione antica e di Crusca che si era conservata nella “Minerva”, nel dizionario di Bologna, nel
Manuzzi. Non si trattava di una novità perché la distinzione è anche adottata dall’Alberti nell’edizione
milanese (1825) per iniziativa del curatore Antolini, e dal Gherardini (1838 – 40); la stessa soluzione grafica
era già in Bazzarini (1824 – 36), preceduto dal Romani (1826) e dal Tommaseo (1830), secondo la
preferenza manifestata fin dal 700 dal Dictionnaire de l’Académie française che servì da modello.
Notevole è il caso del Romani che introdusse la distinzione in una serie alfabetica nata come revisione
critica alla Crusca, tanto che l’autore sperava di poter inserire le proprie osservazioni nella serie di volumi
della Proposta di Monti, cosa che poi non avvenne. Non tutti si adeguarono subito: la tradizione italiana
pesò a lungo, se si pensa che il Cardinali, a metà secolo, ha un’unica sezione alfabetica per le 2 lettere.
Plebiscito: era una legge fatta dalla plebe e si diceva scitum o perché si pensava che la plebe sapesse quello
voleva o faceva, o per indicare che, fattole sapere quello che gli altri volevano, ella deliberando sembrava
dire che anche lei lo sapeva e voleva la stessa cosa. Questa voce riappare in Francia, il paese delle novità
vecchie.
Questo commento non si trova nelle edizioni del 1830,1838 e 1851 del dizionario: infatti l’annotazione sul
plebiscito è legata all’attualità politica, cioè all’uso di questo strumento da parte di Napoleone III che nel
dicembre del 1851 vi fece ricorso per legittimare il colpo di stato con cui aveva abolito l’Assemblea
legislativa, e nel 1852 lo usò di nuovo per diventare imperatore. 30 anni dopo nel Dizionario della lingua
italiana, la voce Plebiscito fu registrata con un commento ancora polemico, ma più pacato: “Voce rifatta
stor. Da Luigi Napoleone; e ravvivata in Italia per le solite imitazioni di Francia, come Arrangiare e
Frisore”. Un lessicografo di oggi eviterebbe di far entrare così pesantemente e liberamente l’attualità
politica nelle definizioni, esplicitando il giudizio. La divagazione e il commento, del resto, sono caratteristici
del dizionario dei sinonimi di Tommaseo, che in alcuni casi non sembra neanche discutere di sinonimi, ma
di parole simili, o appartenenti a una sfera semantica simile, come è anche il caso di Senato consulto,
Decreto del senato, Plebiscito. Beccaria ha osservato che il gusto delle considerazioni personali, delle
citazioni scherzose, ironiche o maliziose nelle voci lessicografiche era già presente nel Gherardini e poi fu
ripreso dal Fanfani. Senza dubbio nella tradizione italiana esisteva uno spazio per questo tipo di interventi,
tanto è vero che nel 700 il Gigli ne aveva abusato a proprio danno. Tuttavia al Tommaseo si deve
riconoscere una certa eccellenza in questi interventi. Il procedimento assume un significato speciale quando
viene applicato non più ai sinonimi, ma a un dizionario generale, in cui l’impersonalità dovrebbe risultare
maggiore. Lo stesso Gherardini sembra abbandonare o attenuare questi ingredienti nel passaggio a una
struttura di dizionario più tradizionale, rispetto alla forma lessicografica di Gherardini, quest’ultima basata
soprattutto sull’Osservazione aggiunta come commento vivace e discorsivo a voci di altri.
3.6 I sinonimi nei dizionari generali della lingua italiana (e nei loro cd – rom)
Anche molti dizionari generali contengono rinvii a sinonimi e contrari, tanto è vero che a volte uno specifico
dizionario dei sinonimi è nato dalla riutilizzazione di questi materiali. De Mauro è nato dal GRADIT, come
è dichiarato nella presentazione. In altri casi il dizionario dei sinonimi si collega a un progetto lessicografico
in cui il dizionario generale è il punto di riferimento: così Simone che completa il progetto del Vocabolario
della lingua italiana, il “Treccani”. Lo spazio dato ai sinonimi nei dizionari generali è limitato e sintetico.
Prenderemo in esame dei dizionari in un solo volume. Tra essi, lo Zingarelli che avverte che i sinonimi sono
stati registrati senza pretesa di completezza e sono dati come sinonimi termini non completamente
sovrapponibili, ma sostituibili. Questi sinonimi e contrari, dove presenti, sono introdotti da abbreviazioni in
maiuscoletto: SIN., CONTR. e CFR. Sotto la voce Attuale, per esempio, CFR. rinvia ad “abituale”; sotto
Abate, CFR. rinvia a “badessa”. Si tratta di un embrione di vocabolario analogico. Usando l’edizione
elettronica dello Zingarelli, dotata di un ottimo programma di interrogazione, si possono estrarre tutti i dati
relativi alla sinonimia. Le voci contrassegnate da un rinvio CFR. sono 1838; quelle contenenti rinvio SIN.
Sono 8240 e quelle con rinvio CONTR. sono 1715.
Tra gli altri dizionari generali in un solo volume, la vecchia edizione di Sabatini – Coletti del 2003 aveva
introdotto i sinonimi facendoli precedere da una “S” inserita in un circoletto, considerandoli parte integrante
della definizione, come avvertiva la Guida all’uso nella sezione relativa all’Area semantica. Nel
successivo Sabatini – Coletti del 2008, questo segno grafico è stato sostituito dall’abbreviazione SIN.
stampata su fondino grigio. Il dizionario, in aggiunta, contiene rinvii ad equivalenti semantici introdotti con
formule come “detto anche, noto anche come”, usate soprattutto per nomi di piante e animali o per
tecnicismi.
Altri dizionari possono offrire la stessa informazione in forma diversa. Nel caso di Ailanto, per esempio, lo
Zingarelli indica: “SIN. Albero del Paradiso”. La versione elettronica del Sabatini – Coletti del 2008, come
già quella del 2003, non permette di estrarre tutte le voci caratterizzate dalla presenza di sinonimi per
valutarne la quantità complessiva.
De Mauro porta sinonimi e contrari, contrassegnati da una “S” e una “C” in neretto. L’avviso editoriale che
apre il dizionario avverte che le espressioni polirematiche possono comparire come sinonimi sotto una
monorematica. Nell’edizione elettronica di questo dizionario, un pulsante apposito diventa attivo solo
quando nella voce sono presenti sinonimi e contrari, permettendone la visualizzazione: il sinonimo compare
e scompare, a seconda di come vuole l’utente, allargando o accorciando il testo della voce e rendendosi
visibile nel sottosignificato a cui si riferisce. Il programma pone però qualche vincolo: non permette una
libera ricerca di tutto il materiale relativo ai sinonimi contenuto nel dizionario, come invece permette lo
Zingarelli del 2008. Infatti ogni interrogazione passa attraverso l’uso dei pulsanti prestabiliti e non è data la
possibilità di usare liberamente operatori logici booleani su stringhe e campi scelti a piacere.
De Mauro deriva dal GRADIT, di cui è la versione ridotta. Anche nel GRADIT sono inseriti sinonimi e
contrari: in coda ai sinonimi sono riportati gli iponimi e gli iperonimi, con un contrassegno (“ipon.” e
“iperon.”). Anche qui, come nel GRADIT, le espressioni polirematiche possono comparire come sinonimi
sotto una monorematica e viceversa. Il dizionario è dotato di un cd – rom con una maschera di
interrogazione molto elaborata, di uso non sempre intuitivo, che prevede l’interrogazione sia nel campo dei
sinonimi che dei contrari. Inserendo nel campo “sinonimi” la parola casa, il dizionario suggerisce in maniera
indifferenziata la serie abitazione, alloggio, appartamento, casa astrologica, casata, dinastia, edificio,
residenza, stirpe. Vengono estratti i sinonimi posti come definitori nei vari sottosignificati della parola
casa. Cliccando sulla lista dei risultati, si possono aprire le finestre corrispondenti alle varie voci, da cui si
desume il significato specifico di ognuna. Quando si visualizza una voce del dizionario non appaiono in
video le indicazioni relative a sinonimi e contrari, le quali nella stampa sono poste alla fine della voce,
precedute da “SIN.” e “CONTR.” Vi sono però anche qui appositi pulsanti che permettono di vedere
l’elenco dei sinonimi e contrari, e di usarli per navigare in una sorta di ipertesto. Come in altri programmi di
interrogazione, non è possibile estrarre l’intero contenuto di sinonimi, contrari, iponimi, iperonimi presenti
nel dizionario e quindi non si può valutarne la consistenza quantitativa.
L’altro grande dizionario della lingua italiana, il Duro (1986 – 1994), non ha i sinonimi nell’edizione a
stampa perché questa funzione è delegata a Simone che si presenta come un completamento. Il Duro è
proposto anche in versione su cd – rom, commercializzata in una confezione di lusso, in una scatola a forma
di libro. Il cd – rom contiene la seconda edizione del dizionario cartaceo, corredata di un dizionario dei
sinonimi, diverso da Simone. Il dizionario presente nel cd – rom è stato allestito da una redazione diretta da
Massimo Arcangeli. Il Treccani del 2003 non permette non permette l’estrazione di tutto il materiale relativo
alle sinonimie, condivendo questo limite con quasi tutti gli altri dizionari (tranne lo Zingarelli). Nel Treccani
quando si consulta una voce, un apposito pulsante permette di aprire una finestra aggiuntiva che suggerisce i
sinonimi. Il manuale d’uso avverte che l’apparato di sinonimia riguarda cinquemila termini di uso più
frequente e precisa che si è preferito evitare un’accumulazione dei sinonimi e proporre un modello
alternativo: una scelta più mirata che legasse le serie sinonimiche a un dominio di appartenenza. A tal fine si
sono evidenziati degli esempi di contestualizzazione di ogni lemma, che rispecchiano le articolazioni delle
varie accezioni, e a ciascuno esempio si è affiancata una serie sinonimica.
La finestra di visualizzazione è divisa tra le varie accezioni del termine cercato. Per la parola casa i sinonimi
sono divisi in 9 sezioni.2 La strutturazione è molto diversa da quella di Simone, il quale riformula in un altro
modo l’organizzazione del significato, introduce molte locuzioni, non prevede il significato 9, aggiunge il
significato di “campo della squadra che ospita una gara”.
2
Vedere esempi pag. 367 – 368.
risolvere così problemi di competenza. Infatti, le strategie messe in atto dai più recenti dizionari di sinonimi,
prevedono questa possibilità.
Lo scrittore Giuseppe Pontiggia, in Prima persona ha spezzato una lancia a favore dello studio accurato dei
sinonimi, necessario per raggiungere lo stile chiaro. Il lessico dei nostri giovani, secondo lui, si riduce di
estensione, ritirandosi come un pozzo nel deserto. I sinonimi sono sempre più difficili da trovare, anche
perché non si sa cosa sono. Per descrivere uno stato di crisi, Pontiggia ricorre alla questione della scelta tra
sinonimi, dando loro importanza perché rivelatori dell’abilità linguistica. Lo scrittore si è soffermato sul
problema dei sinonimi per ribadire con un paragone scientifico (i gemelli monozigoti) quanto ci è noto fin
dalla riflessione settecentesca: lui non ha mai creduto all’esistenza dei sinonimi e nemmeno all’uguaglianza
dei gemelli, che è apparente nei monozigoti. Inizialmente sono uguali, ma dopo nove mesi, dopo aver
convissuto, saranno diversi.
Tra abitazione, casa, domicilio, dimora, appartamento, residenza, ci sono differenze importanti non solo di
reddito, ma di educazione, ambiente e cultura. Solo una mente rozza può pensare che siano uguali.
Lo scrittore prosegue proponendo una prova dei sinonimi per selezionare chi può diventare scrittore e chi
può essere inteso come lettore qualificato. Chi, di fronte alla scelta tra due parole, dice che è lo stesso,
secondo Pontiggia, va espunto dall’albo dei lettori e degli scrittori. Lo scrittore non deve percepire solo i
suoni delle parole, ma anche gli ultrasuoni. Dopo ricorda un esperimento fatto da giovani del Piccolo Teatro
di Milano: invitati a mimare presunti sinonimi, essi hanno compiuto gesti diversi, mostrando proprio con
essi il significato delle distinzioni.
Uno scrittore di oggi si è interessato al problema dei sinonimi, interpretandone la varietà non come segno di
crisi, ma vedendo i segni della crisi là dove non si riconoscono le differenze.
3.1 Il Battaglia
La casa editrice Utet di Torino è l’erede dell’Unione Tipografico – Editrice dei Pomba: per questo può
annoverare tra i propri meriti storicamente consolidati la pubblicazione del vocabolario di Tommaseo. Nel
1961 questa casa editrice stampò un’altra grande opera lessicografica, il Grande dizionario della lingua
italiana. La data di pubblicazione è significativa, così come lo era stata quella del vocabolario di
Tommaseo: il Tommaseo era nato contemporaneamente all’unità politica italiana, diventandone quasi il
simbolo nel terreno della lessicografia; il Battaglia iniziò ad uscire in coincidenza con il centenario
dell’Unità: la sua nascita si caricò di un valore simbolico, riallacciandosi a un glorioso passato editoriale e
nazionale. La direzione del vocabolario era affidata a un intellettuale e filologo estraneo al Piemonte e a
Torino: il napoletano Salvatore Battaglia. Nel corso della realizzazione il direttore cambiò e, per la prima
volta, un intellettuale piemontese (la cui attività si è svolta sempre nell’ateneo di Torino) assunse la
responsabilità di un grande vocabolario uscito dai torchi di una casa editrice della stessa città. Il primo
progetto fu tuttavia napoletano, essendo redatto a Napoli da Salvatore Battaglia.
Il progetto iniziale era più modesto di quello che fu poi l’esito finale, dopo oltre 40 anni. Si doveva
realizzare una revisione del dizionario di Tommaseo, rinnovandolo e aggiornandolo ai tempi. Il Battaglia
nasceva come vocabolario storico, con un peso importante degli spogli condotti sulla lingua letteraria. La
stampa dell’opera è durata fino al nuovo secolo: il XXI e ultimo volume è uscito nel 2002. Il 2002 è anche
l’anno della ricorrenza del bicentenario della nascita di Tommaseo.
Il Battaglia continua e continuerà a chiamarsi così, con il nome del suo primo direttore, quando per
chiamarlo non si usa la sigla GDLI, più asettica, coerente con la preferenza moderna per gli acronimi; ma la
denominazione del primo direttore non rende giustizia al lavoro del letterato che ha portato a termine e
diretto l’opera con piena responsabilità dal 7 volume. Battaglia morì nel 1971 e allora subentrò nella
direzione Giorgio Bárberi Squarotti, il quale trasformò completamente l’opera, la quale crebbe di
dimensione tantissimo. È facile constatare la differenza che c’è tra i primi e gli ultimi volumi: è aumentato il
numero delle voci, risultato di una crescita del progetto, di una sempre maggiore estensione degli spogli. Il
Battaglia è il più ampio vocabolario di tutta la tradizione italiana tra quelli portati a termine. Si caratterizza
come opera di ricchissima e preziosa documentazione storica, perché dà un’attenzione particolare alla lingua
letteraria di tutti i secoli, soprattutto a quella del 900, alla letteratura contemporanea, visto che una gran parte
dei volumi è uscita nel XX secolo. È uno strumento insostituibile non solo per i linguisti (i quali, tuttavia, a
volte, lo hanno criticato), ma prezioso anche per tutti gli studiosi di letteratura e linguaggio letterario. È
probabile che questo sia l’ultimo dizionario della storia della lessicografia italiana in cui alla lingua letteraria
è attribuito un tale peso, perché in realtà essa ha ormai perso la funzione di guida che ebbe per secoli. Un
vocabolario concepito come il Battaglia nasce come documentazione storica, ma è anche un atto di omaggio
verso una tradizione molto ricca.
L’interesse fortissimo verso la letteratura che caratterizza questo dizionario è il suo punto di forza, per la
mole degli spogli, ma è anche l’aspetto che si offre alle critiche di coloro che vorrebbero o avrebbero voluto
un’estensione maggiore nella lingua extraletteraria, la quale in alcuni casi documenta meglio lo stato
generale della lingua, la sua vitalità, i suoi progressi e le sue condizioni medie. Bàrberi Squarotti ha scritto
con sarcasmo, rievocando la storia lessicografica che lega il dizionario del Tommaseo al Battaglia, che i
linguisti servono per portare a termine un vocabolario della lingua italiana più oggi che ai tempi di
Tommaseo, ma non bastano per la stesura e la sua complessiva costruzione.
È una bella rivendicazione del primato dei letterati. In altre occasioni Bàrberi Squarotti ha usato una certa
ironia nei confronti della teorizzazione preventiva che rischia di prolungare all’infinito o di bloccare il
lavoro concreto. Il Battaglia è cresciuto senza mai rinnegare la sua vocazione e scelta iniziale, senza mai
esibire una complicata o ambiziosa teoria lessicografica. Si è sempre mosso sul terreno concreto del lavoro
quotidiano, con una redazione composta, in alcuni casi, da nomi poi importanti in campo scientifico, il cui
lavoro è stato controllato dal direttore dell’opera, a cui la tradizione orale che corre nell’ambiente
accademico torinese attribuisce il montaggio e la revisione finale di tutte le voci consegnate dai redattori. Il
Battaglia si è aperto nel tempo in misura sempre maggiore verso la lingua extraletteraria, anche se di questa
revisione non ha mai menato vanto. È istruttivo scorrere il catalogo degli autori citati, confrontando la
versione finale con i fascicoli pubblicati via via in corso d’opera, in modesta veste grafica, per servire da
chiave provvisoria delle citazioni. Essi documentano non solo il continuo aggiornamento nella scelta di
edizioni recenti degli autori, ma anche una progressiva attenzione estesa oltre il terreno della letteratura,
nella direzione della civiltà letteraria, ma poi anche nella direzione dei linguaggi giornalistico, scientifico e
d’attualità (anche con voci senza citazioni letterarie, contro la prassi usuale del Battaglia).
Nel 2002, in occasione della stampa dell’ultimo volume alfabetico del Battaglia, un convegno svoltosi a
Torino presso l’Archivio di Stato e a Vercelli presso l’Università del Piemonte Orientale, ha fornito
l’occasione per riesaminare le vicende che portarono alla nascita del GDLI. Francesco Bruni in questo
convengo ha ricordato come il progetto iniziale mostrasse oscillazioni sul numero dei volumi da realizzare,
come si pensasse a 3, 6, 8. La misura iniziale era molto minore rispetto al vecchio Tommaseo. Solo il lungo
lavoro redazionale ha fissato il numero finale dei volumi che sono cresciuti in maniera abnorme, fino ad
arrivare a 21, che Bruni definisce strana cifra perché non solo non risponde a un piano progettuale
preordinato prima, ma anche perché si distacca da qualunque standard e non è una cifra tonda. Oggi sono
stati anche pubblicati i criteri di lavoro compilati da Salvatore Battaglia. In questi criteri hanno uno spazio
notevole la lingua d’uso, la lingua quotidiana, la lingua tecnica dei settori dello sport, del diritto,
dell’economia, della politica, della scienza, della meccanica, la lingua che Battaglia definiva “della civiltà
contemporanea” o “condizione lessicale attuale”. Questo proponimento è stato realizzato soprattutto grazie
all’ampliamento apportato da Giorgio Bàrberi Squarotti; difficilmente però sono questi i settori della lingua
dei quali va in cerca l’utente avvertito che consulta questo grande dizionario storico il cui punto di forza
resta la tradizione letteraria, accostata attraverso le citazioni ricchissime che Battaglia diceva essere una
invenzione della tradizione lessicografica italiana. Tullio De Mauro si è soffermato sui criteri di Salvatore
Battaglia, insistendo sulla presenza non accessoria dell’interesse per la lingua della scienza e ha parlato di
un’idea poliedrica di lingua che i criteri lasciano vedere bene. Tuttavia questi proponimenti non incisero
troppo sulla natura letteraria e umanistica del dizionario. De Mauro concorda sul fatto che le fonti non
strettamente letterarie sono aumentate, mentre nei primi volumi erano di meno. Le cose sono cambiate, tanto
che appare evidente che da una ad altra stagione, Battaglia ha tralasciato sempre meno di registrare parole
delle tecniche e delle scienze e nel presentarle ha cercato sempre di più di inserirle in modo documentato nel
fluire degli usi linguistici.
Serianni dice che con il tempo Battaglia ha cambiato l’originaria preferenza per i testi di letteratura dando
più importanza alle fonti di lingua (dai giornali alla trattatistica scientifica alla legislazione) ed è cresciuto
tantissimo. Non su questo materiale lessicale tecnico – scientifico va giudicato e pesato il GDLI. Va
considerato perché è il maggior repertorio al servizio della lingua letteraria italiana mai realizzato.