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LA

© 2005, Gius. Laterza &


Figli

COLLEZIONE STORICA
Volume pubblicato con il contributo
del JN^fCJR e dell’Università degli
Studi di Firenze p Dipartimento di
Scienze dell’Antichità «G.
Pasquali»
© 2005, Gius. Laterza &
Figli

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Antonio La Penna
L’IMPOSSIB
ILE
© 2005, Gius. Laterza &
Figli

GIUSTIFICA
ZIONE
DELLA
STORIA
© 2005, Gius. Laterza &
Figli

UN'INTERPRETAZIO
NE DI VIRGILIO
Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari

Finito di stampare nel maggio 2005 Poligrafico Dehoniano - Stabilimento di


Bari per conto della Gius. Laterza & Figli Spa CL 20-763 9-X ISBN 88-420-
7639-2
dis aliter vis^.
Aen. II, 428

Il dubbio di Virgilio sulla giustizia deUa storia fu avvertito


dal più grande e affezionato dei suoi lettori, cioè da Dante. Egli
collocò Rifeo in paradiso, nel cielo di Giove, cioè nel cielo
assegna-IO ai giusti (Par. ^X, 67-69):
Chi crederebbe giù nel mondo
errante, che Rifeo Troiano in questo
tondo fosse la quinta de le luci
sante?
Rifeo compare nel libro II~àeÙ’Eneide (426-428) fra i Troiani
che cadono in uno scontro furibondo contro i Greci, nel vano
tentativo di difendere Cassandra, strappata dall’altare di
Minerva:
cadit et Ripheus, iustissinius
unus qui fuit in Teucris et
servantissimus aequi (dis aliter
visum)...
[cade anche Rifeo, il più giusto, senza confronti, I che vi
fosse fra i Troiani, e il più rigoroso neila fedeltà alla
giustizia / (altrimenti giudicarono gli dèi)...]
Molto simile è il commento lirico di Virgilio a proposito di
Galeso, un nobile latino, iustissimus unus I quifuit, ucciso men-
tre cerca di mettere pace nel primo scontro fra Latini e Troiani
(Aen. VII, 535-539). Dante avvertì il dubbio, rassegnato e pio,
ma profondo, del suo maestro sulla giustizia divina e ritenne
che solo il cristianesimo potesse risolverlo, realizzando
nell’altro mondo la giustizia che non ritroviamo in questo.
VI Premessa
vni Premessa
Premessa IX
parte, e la parte più viva, della nostra cultura. Ho sempre rite-
nuto e ritengo positivo che l’esperienza del tempo in cui vive
stimoli i problemi delio storico; ritengo, però, dannoso che quel-
l’esperienza dia allo storico le soluzioni già confezionate dei
problemi. Spero di non essere caduto in questo vizio.
Ho cercato di delineare il filo saggistico di quest’opera; ma
essa non vuol essere solo un saggio: ho cercato di affrontare, al-
meno parzialmente, quelli che mi sembrano i principali problemi
che si pongono ad un lettore di Virgilio: rapporti con le fonti,
strutture compositive, aspetti delio stile, ecc. Insomma ho
cercato di dare una mia interpretazione dell’opera e delle opere
di Virgilio e, nello stesso tempo, di offrire una trattazione
generale che possa servire di introduzione alla lettura: generale,
ma senza nessuna pretesa di completezza (che, nel caso di
Virgilio, sarebbe segno di stoltezza). In questo intento continua
ad operare la mia preferenza per la rappresentazione a tutto
tondo. Intendiamoci, non nutro affatto disprezzo per le opere
unilaterali: anzi fra queste vi sono opere ammirevoli per
originalità di prospetti-va e novità di apporti; ma per
l’unilateralità non bisogna obliterare gli altri aspetti: c’è il
rischio che l’unilateralità divenga deformante. Voglio dire che è
stata mia intenzione dare di Virgilio un ritratto a tutto tondo,
illuminarlo nei suoi aspetti diversi, fossero o no coerenti fra
loro, senza costruire armonie fittizie.
Firenze, maggio 2005
A.L.P.
Parte prima

LE «BUCOLICHE» OVVERO
L’IMPOSSIBILE ARCADIA
1
1
12 Parte prima. Le «Bucoliche» ovvero l'impossibile Arcadial
n
LE «BUCOLICHE» E TEOCRITO

Epicureismo e neoterismo, dunque, liberi da ogni impegno


polemico. Tale disimpegno ben s'accorda con la scelta di Teocrito
come autore prediletto: il Teócrito degli idilli campestri e marini,
molto meno quello, più vivace anche se meno lirico, delle scene
cittadine.
A Teocrito Virgilio non deve soltanto dettagli di paesaggi e di
dialoghi: anche nell'impianto compositivo ciascuna ecloga pre-
suppone uno o due idilli di Teocrito, mentre echi più sporadici
provengono da altri idilli1. L'elemento più importante che egli abbia
assimilato dal poeta siracusano è, io credo, l'abbandono dolce, quasi
voluttuoso (anche se non panico) alla natura come spettacolo,
abbandono che si confonde con la gioia del canto, con la voluttà
della musica come melodia semplice che riempie
lo spazio e il mondo. H sentimento della natura in Teocrito e in
Virgilio non deve la sua forza alla ricchezza e all'originalità del
paesaggio: anche se l'uno e l'altro conoscono la campagna e il mare
per esperienza diretta, persiste, specialmente in Teocrito, un
paesaggio formato di tratti comuni, quasi convenzionali (na-
turalmente più convenzionali al tempo di Virgilio che al tempo di
Teocrito): è quello che i filologi chiamano locus amoenus e che
domina nella letteratura e nella pittura antiche; elementi essenziali
ne sono l'albero (o gli alberi), l'erba, l'acqua (fonte o ruscello);
spesso si aggiungono un antro gentile e un tempietto rustico2. H
paesaggio su cui si apre la prima ecloga è emblematico: Titiro
suona la sua zampogna disteso all'ombra di un faggio. L'emblema è
suggerito da Teocrito che, col mormorio del pino e la musica delle
acque e della zampogna, apre il primo idillio:
Dolce, o capraio, è il mormorio di quel pino che canta
presso le fonti, dolce la musica deila tua zampogna...
All’inizio dell’ecloga 5 i pastori Menalca e Mopso s’incontrano
vicino a un gruppo di olmi e di noccioli: il vento muove leg-
germente le loro ombre; poco più lontano è un antro, rivestito in
parte di una vite selvatica. Nell’ecloga 7 un leccio sussurrando
offre la sua ombra ai pastori che gareggiano nel canto; il focus
14 Parte prima. Le «Bucoliche» ovvero l'impossibile Arcadial
amoenus è presso la _ riva del Mincio, rivestita di tenere canne; più
lontano è una quercia maestosa, che offre ricetto a un alveare.
Questi pastori che cantano in riva al Mincio sono ambedue, con nostra
sorpresa, Arcadi (Bue. 7, 4). Dunque da regione geograficamente
determinata . l’Arcadia può diventare in Virgilio un paesaggio
ideale di pastori-cantori, collocabile in molte parti deila terra,
Probabilmente egli ha scoperto la sua
Il [,e «Bucoliche» e Teocrito 15
16 Parte prima. Le «Bucoliche» ovvero l'impossibile Arcadial
ni
L'EMARGINAZIONE DEL REALISMO ALESSANDRINO

Il distacco dal realismo alessandrino di Teocrito si 'avverte nella


rappresentazione della vita pastorale ancora più che in quella del
paesaggio. Ben inteso, c’è un impianto della tradizione bucolica
(ma tradizione bucolica per noi significa Teocrito) che resta
abbastanza saldo: se volessimo civettare inutilmente con una moda
dei nostri tempi, potremmo anche dire che il mondo pastorale di
Virgilio conserva un codice di comportamento bucolico. A parte le
malattie d’amore, questi pastori menano una vita semplice e sana,
in buona parte oziosa; anche l’accompagnare il gregge somiglia
molto all’ozio, e senza l’ozio non sarebbe possibile dedicare tanto
tempo al canto. Le fatiche dei campi (aratura, cura della vigna,
apicultura) hanno, nella vita dei pastori, una parte marginale, anche
se maggiore che in Teocrito1: per esempio, Coridone, alla fine del
suo lamento {Bue. 2, 70 s.), si ricorda di aver trascurato le sue viti;
anche quando le fatiche appaiono, non sembrano pesanti. Poiché
bisogni e consumi dei pastori sono molto limitati (Titiro promette a
Melibeo frutta e formaggio; la torta rustica di Testili nella seconda
eclo- ga è destinata ai mietitori, non ai pastori), le preoccupazioni
economiche si avvertono ben poco: se Titiro si trova con un pe-
culio troppo scarso, è perché la perfida Galatea lo ha costretto a
una prodigalità eccezionale. Oltre all’amore, più dell’amore, il
piacere che conta per i pastori è il canto. Nella loro vita poco
programmata, per nulla affannosa, s’incontrano spesso fra loro
nella serenità della campagna: conversano volentieri, si scambiano
notizie, si divertono a punzecchiarsi, ma soprattutto suonano la
zampogna e cantano, La semplicità pastorale era un luogo comune,
ma è bene notare che né Teocrito né Virgilio ci tengono a
presentare i loro personaggi come particolarmente probi: invidia e
maldicenza sono vizi diffusi; i ladri non sembrano rari neppure fra i
pastori. Proprio Teocrito e Virgilio, i padri della poesia bucolica,
sfuggono a clichés elaborati soprattutto dalla poesia pastorale
moderna. Noterei, soprattutto, che la contrapposizione del mondo
pastorale, come mondo sereno e incorrotto, a quello cittadino,
come mondo travagliato, affannoso, corrotto, agisce scarsamente
18 Parte prima. Le «Bucoliche» ovvero l'impossibile Arcadial

nella bucolica di Teocrito e di Virgilio. La contrapposizione, si


capisce, non è moderna, anzi trova un'espressione incisiva proprio
nelle Georgiche (II, 495 ss.); ma nelle Bucoliche non ricorrono
satire o invettive contro la vita di città. Coridone invita Alessi in
campagna, come Poli- femo invitava Galatea sulla terra, ed esprime
per la città un certo disprezzo {Bue. 2, 61 s.):
III. L’emarginazione del realismo alessandrino 19
20 Parte prima. Le «Bucoliche» ovvero l'impossibile Arcadial
Virgilio tralascia la casacca di pelle, tralascia il pescatore: tutto è
meno preciso; ma in compenso lo sfondo è vasto e deserto [aérii
specula de montis in undas), il movimento passionale e rapido
(praeceps... deferar), il pathos profondo (extremum hoc munus
morientis habeto). .
Quest'atteggiamento di Virgilio di fronte a Teocrito ci fa toc-
care un problema d'importanza primaria nella storia della lette-
ratura latina ed europea: il problema perseguito coerentemente e
acutamente da Auerbach. Il realismo alessandrino può diventare
seriamente drammatico, può acquistare una nuova dimensione
patetica a condizione di perdere la sua precisione realistica, di non
essere più realismo: il «realismo tragico» resta al di fuori
dell’orizzonte delle letterature classiche: i personaggi umili per
diventare tragici debbono essere idealizzati, cioè non rimanere
umili. Il grande tentativo euripideo di creare personaggi che
fossero nello stesso tempo tragici e immersi nella vita di ogni gior-
no restò nell’antichità un tentativo (del resto sotto questo aspetto
Euripide andrebbe oggi reinterpretato). I pastori di Virgilio hanno
talora un pathos lirico nuovo, ma conservano ben poco di pastorale.
IV. Il canto pastorale 21
22 Parte prima. Le «Bucoliche» ovvero l’impossibile Arcadia

Per esprimere il piacere suscitato dalla poesia di Pollione (o dal


canto pastorale a cui quella poesia qui viene assimilata) Virgilio
varia una battuta dell’agone del quinto idillio teocriteo, anche
se quella battuta non rientra in un contesto analogo (124 s.):
«Limerà faccia scorrere latte invece di acqua, e tu, o Crathis,
possa imporporarti di vino, e le canne portino frutti» (Imera e
Crathis sono fiumi della zona del Bruzio dov’è collocata la
scena dell’idillio). Un interprete (uno di quegli interpreti
ierofanti di cui parlava Jachmann a proposito dell’ecloga 4) ha
cercato di dimostrare che i nova carmina di Pollione sono carmi
esoterici rivelatori di una religione segreta ispirata da
platonismo, pitagorismo, or- fismo: intorno a Pollione, come
già intorno a Nigidio Figulo, si sarebbe raccolta una specie di
setta religiosa, a cui i nova carmina annunciavano una nuova
età dell’oro; anzi non l’annunciavano, ma la riportavano essi
stessi sulla terra con la primitiva potenza magica della parola
che non esprime, ma crea 8. Interpretazione che forza il testo, e
assurda perché neppure nell’ecloga 4 l’oracolo sibillino crea la
nuova età dell’oro, ma si limita ad annunciarla. Non si
sottovaluta e non si deforma l’esaltazione virgiliana del canto,
se al canto si attribuisce la sola funzione che i testi autorizzano:
la funzione edonistica, estetica; il canto trascina per il piacere,
per l’ebbrezza che suscita: non rivela misteri religiosi. E
quando, come nel caso della quarta ecloga, rivela qualche cosa,
ciò è detto esplicitamente; tanto meno pretende di creare la
realtà.
D’altra parte, per quanto importante sia nelle Bucoliche la
celebrazione del canto e la riflessione sulla poesia, non è giusto
generalizzarle fino ad esaurire in esse tutta l’opera 9: questa
deformazione sarà meno grave, ma è anch’essa una
deformazione. Nell’agone il pastore si presenta come cantore, e
il canto esaurisce la sua funzione nel piacere che suscita: il
contenuto è indifferente. La situazione, però, non è
generalizzabile, anche se si estende al di là degli agoni.
Nell’ecloga 9 la nostalgia e il desiderio di canto sono, come
vedremo, al centro; ma non è del tutto lo stesso nell’ecloga
prima. Melibeo rimpiange il campo, la patria perduta: certo
rimpiange anche di non poter più cantare (1, 77: carmina nulla
canard) > ma la pena dell'esilio non si riduce a questo. Otia e
IV. Il canto pastorale 23

Musa sono uniti più strettamente per Titiro; ma neppure per lui
il primo termine si risolve nel secondo. Si può forse dire che la
funzione primaria di Coridone sia quella di poeta-cantore?
Certamente no; egli non canta il suo amore infelice per trovare
una materia di canto, ma per dare sfogo, anche se vano, alla sua
passione e soprattutto per convincere Alessi: disperato d'amore,
egli non potrebbe cantare di altro; sarebbe più giusto concludere
che egli è innanzi tutto l'amante infelice (la situazione, sotto
questo aspetto, è diversa per Gallo). Neppure nell'ecloga 5,
come abbiamo visto, la funzione di Dafni è primariamente
quella di poeta. La riflessione più impegnativa sulla poesia, che
si ha nell'ecloga sesta, è quella che porta più lontano dalla poe-
sia bucolica.
Se l'interpretazione filosofica e religiosa riduce il mondo bu-
colico a simbolo di altro, l'interpretazione delle Bucoliche come
Dichtung der Dichtung, pur illuminando felicemente una parte
dell'opera, porta a fraintenderne un'altra (e certamente non la
peggiore). La «poesia della poesia» costruisce un mondo ideale
chiuso e completo in sé, che non si misura con la realtà, che
ignora la realtà10. Che nelle Bucoliche operi questa tendenza, è
innegabile; ma il muro che divide dalla realtà si dimostra
illusorio, e tutta una parte essenziale dell'opera nasce dall'urto
con la realtà.
L’EROS INFELICE

Prima che dalla realtà esterna, cioè dalla storia con la sua
violenza, il mondo bucolico è minacciato al suo interno, e
proprio da una forza che è il primo alimento del canto stesso,
cioè dalla forza dell'eros. L'amore ha una gran parte nella poesia
di Teocrito: egli è, a suo modo, poeta d'amore di grande finezza
(Le incantatrici ne sono una bella prova); ma la sua poesia
d'amore attenua il pathos o addirittura gioca col pathos, mentre
Virgilio si muove decisamente in direzione inversa. L'eros ha
una parte notevole, come abbiamo già visto, nell'agone
dell'elegia 3, dove alcune battute sono cariche d'incanto o di
malinconia (oltre 64 s., cfr. 72-75; 78 s.). Nel giudizio finale
Palemone dà all'eros un risalto ancora più netto, anzi quasi un
posto esclusivo nel canto (109 s.):
24 Parte prima. Le «Bucoliche» ovvero l’impossibile Arcadia

Et vitula tu dignus et hic et quisquis


amores aut metuet dulcis aut experietur
amaros
[Meriti tu la vitella, e la meriti tu, e chiunque / temerà le
delizie d’amore o ne proverà le amarezze].
Non senza ragione questi due versi tormentano gli interpreti
da secoli: molte, e molto diverse, le interpretazioni, molti i
tentativi di emendare. La difficoltà è nello squilibrio
dell'antitesi: con dulcis (amores) ci si aspetterebbe un verbo che
indicasse desiderio o piacere. Ma probabilmente lo squilibrio è
voluto: l'assurdità è nell'amore stesso che non è mai solo dolce,
che anche nel migliore dei casi è dolce-amaro, mai privo di
timori e di ansie. Nell'eros, prima che nella morte ante diem,
l'esperienza virgiliana della vita tocca l'assurdità del mondo:
l'amore, che è forza irresistibile della natura
(Bue. 2,65: trahit sua quemque voluptas, eco di Lucrezio), urta
contro il rifiuto della natura; il bisogno più intenso di
comunicare e di abbandonarsi diventa passione che isola sempre
più decisamente: la dolcezza del desiderio o della memoria
diventa dementia irrimediabile, che non sa accettare la realtà e
la sconfitta. Il lungo monologo di Coridone nella seconda
ecloga, anche se gravato da troppi motivi bucolici ed erotici
convenzionali, anche se inficiato da una certa leziosità, riesce,
al principio e alla fine, ad esprimere questo senso tragico
dell’eros1. Sul senso dell’assurdità del mondo è incentrato
nell’ecloga 8 il monologo prima del suicidio: il topos degli
adynata vi è utilizzato in questa funzione. Neppure qui tutto
riesce drammaticamente necessario e convincente, ma questo è
il pezzo delle Bucoliche che fa presentire meglio il poeta di
Didone. Verso il monologo spingeva una grande tradizione
letteraria che andava da Euripide ai poeti nuovi, ma è evidente
che in Virgilio la spinta è nettamente favorita dal senso
dell’incomunicabilità delle passioni, dell’isolamento tragico:
oltre il monologo di Coridone, oltre i due monologhi dell’ecloga
ottava, un monologo è in sostanza, se non formalmente, il
lamento di Gallo neU’ultima ecloga.
Nell’approfondimento e nella liricizzazione del pathos eroti-
co, le suggestioni più che da Teocrito provengono da altra lette-
IV. Il canto pastorale 25

ratura alessandrina e ancora più da quella neoterica latina: dopo


il continuo contatto con la poesia bucolica greca questa è l’espe-
rienza letteraria più importante che è dietro 1 e Bucoliche; e,
mentre la presenza di Teocrito sparirà dopo questa prima opera,
la poesia e la poetica alessandrina (cioè la poetica callimachea
di cui dirò in seguito) dimostreranno un’influenza tenace anche
nelle opere successive. Virgilio partecipò con passione e con
gusto vigile ai problemi e ai progetti letterari che si
presentarono dopo la maturità del movimento letterario
neoterico: una testimonianza importante, anche se oscura e
complicata, è nell’ecloga sesta. Dopo la fioritura di epilli, in cui
i temi erotici, le «sofferenze d’amore», erano i temi preferiti, si
sentiva il bisogno di disegni unitari e più vasti; e si affacciò la
possibilità che la risposta si trovasse in un modello esiodeo. La
poesia alessandrina e neoterica aveva posto Esiodo fra i suoi
autori prediletti: non solo l’Esiodo didascalico degli Erga, ma
ancora più l’Esiodo dei miti, della Teogonia e ancora più dei
Cataloghi delle donne, fonte utile per narrazioni patetiche. In
edizioni antiche Teogonia e Cataloghi delle donne (cioè delle
donne amate da dèi) erano uniti m un’opera sola. NelTecloga 6
Virgilio sembra vagheggiare un vasto disegno poetico che vada
dalla cosmogonia fino alle storie di amori infelici, come quelle
di Ila, di Pasifae, di Scilla figlia di Niso, di Filomela, ed
auspicare che esso sia realizzato da Gallo. Il canto di Sileno
incomincia da una cosmogonia di stile lucreziano e di fondo
epicureo, ma forse non ortodossamente epicurea 2, e arriva alla
rievocazione vagamente catalogica di questi miti; nel corso del
suo svolgimento ci fa vedere Gallo condotto sull’Elicona da una
delle Muse: lassù Lino (un antichissimo poeta mitico) gli porge
la zampogna di Esiodo e gli ordina di cantare il bosco Grineo
(un bosco sacro ad Apollo, su cui Gallo effettivamente scrisse
un’elegia). Gallo viene presentato ed esaltato come il nuovo
Esiodo, come il poeta più capace di realizzare il nuovo disegno 3.
Non meno importante che riattaccarsi all’autorità di Esiodo è il
saper modernizzare Esiodo: la cosmogonia sarà epicurea (o
quasi epicurea), le storie d’amore avranno il profumo dell’arte
alessandrina e saranno immerse nel pathos neoterico. H resto è
lasciato nel vago: la nuova opera potrebbe essere un tessuto di
epilli o un tessuto di elegie narrative. Entro un decennio circa i
26 Parte prima. Le «Bucoliche» ovvero l’impossibile Arcadia

mutamenti del clima politico e culturale porteranno alla


rinascita del modello omerico, non di quello esiodeo; ma il
disegno esiodeo, pur con modifiche notevoli (la cosmogonia
non avrà più niente di epicureo!), verrà un giorno realizzato da
Ovidio: si direbbe che nell’età augustea Esiodo vince Omero in
un nuovo agone.
Anche se il disegno unificante conta, l’accento batte sul
pathos dell’amore infelice. Come il carme 64 di Catullo, così
altri epilli neoterici dalle passioni struggenti, talvolta morbose,
dominavano nella memoria e nella sensibilità di Virgilio.
Poiché, eccettuato Catullo, la letteratura neoterica è in massima
parte perduta, non possiamo renderci conto della misura e del
modo in cui essa ha agito su Virgilio; ma, a parte l’influenza
evidente di Catullo 64, ci sono indizi significativi: per esempio,
nel catalogo dell’ecloga 6 è rievocato rapidamente il mito della
passione mostruosa di Pasifae (45 ss.):
et fortunatam, si numquam armenta fuissent,
Pasiphaen nivei solatur amore iuvenci.
A, virgo infelix, quae te dementia cepit?
[e compiange Pasifae per l’amore del candido giovenco, /
fortunata se giammai fossero esistiti gli armenti: / «Ah
sventurata fanciulla, quale follia ti prese?»].
Dal commento antico di Servio sappiamo che quest'ultimo ver-
so ne riecheggiava uno di un celebre poeta neoterico, Licinio
Calvo, il quale aveva composto un poemetto su Io, la donna
amata da Giove, perseguitata poi dall'ira di Giunone e
trasformata in vacca (fr. 9 M.):
A, virgo infelix, herbis pasceris amaris!
[Ah, vergine infelice, di erbe amare dovrai nutrirti!].

Ma anche il primo dei versi citati da Virgilio è


rielaborazione di un motivo neoterico. L'Arianna di Catullo (64,
171 s.) aveva detto nel suo lamento:
Iuppiter, omnipotens, utinam ne tempore
primo Gnosia Cecropiae tetigissent litora
puppes...
IV. Il canto pastorale 27

[Onnipotente Giove, non fossero mai, dall'origine, /


quelle navi cecropie approdate alle rive di Cnosso... (trad.
di E. Man- druzzato)].
Catullo rielabora questo motivo da Apollonio Rodio, Apollonio
Rodio da Euripide; Ennio, rifacendo la Medea di Euripide, l'a-
veva svolto in un esordio famoso, che molti scolari romani
sapevano a memoria. Virgilio conosceva tutti questi autori; ma,
quando riprenderà il motivo in un monologo di Didone {Aen.
IV, 657 s.), si vedrà ancora chiaro il sigillo catulliano:
felix, heu nimium felix, si litora tantum
numquam Dardaniae tetigissent nostra
carinae!
[felice, troppo felice, se solo le navi / dardanie non
avessero mai toccato le nostre rive!].
Le rievocazioni di miti patetici nell'ecloga 6, fra cui quello
di Pasifae ha il posto più ampio, sono importanti anche come
indizio di un metodo narrativo che sarà poi una componente
essenziale dello stile epico di Virgilio: un metodo narrativo in
cui la partecipazione affettiva del narrante urge continuamente
e si esprime nel commento lirico dell'autore. Ma l'eredità più
importante, che Virgilio arricchisce, probabilmente anche per
suggestione di Lucrezio, è il senso dell'eros come malattia
inguaribile, che isola e distrugge l'uomo4.
Con la malattia dell'eros si misura, nell'ultima ecloga, la ca-
pacità di consolazione del canto bucolico; e il confronto è, dopo
alcuni ondeggiamenti, una sconfitta. La scena è qui dominata da
Cornelio Gallo, ed essenziale è il riferimento alla sua opera di
poeta elegiaco: la perdita di quest'opera rende più difficile, e in
parte aleatoria, l'interpretazione di quest'ultima fatica bucolica
(che sia l'ultima anche cronologicamente, è forse l'unico punto
su cui quasi tutti gli interpreti sono d'accordo). Il collaboratore
di Ottaviano, impegnato nella politica e nella guerra, si trasferi-
sce in Arcadia (un'Arcadia, come abbiamo detto, più ideale e
poetica che geografica) per cercarvi un lenimento alle sue pene
d'amore. Tutta la natura partecipa alla sua infelicità; cercano di
consolarlo i pastori, cercano di consolarlo le divinità agresti, ma
anche Apollo: il primo idillio di Teocrito, più precisamente il
28 Parte prima. Le «Bucoliche» ovvero l’impossibile Arcadia

compianto per Dafni infelice d'amore, offre, com'è noto, lo


sfondo e i motivi. E dapprima sembra che il mondo pastorale
attenui
il suo dolore: anche le sue ossa riposerebbero dolcemente fra le
musiche di Arcadia. La crudeltà di Licoride che, per seguire un
altro amante, affronta coi suoi teneri piedi i geli delle Alpi, con-
tinua a ferirlo, ma egli spera, per un momento, di trovare in Ar-
cadia la medicina adeguata: i canti d'amore nei nuovi modi pa-
storali, la caccia sui monti selvosi. Ma, dopo una pausa, la ferita
si riapre più crudele, la disperazione prevale: l'amore è invinci-
bile in Arcadia come in qualunque altra parte del mondo.
L'ecloga è, innanzi tutto, un omaggio al poeta elegiaco. Echi
degli Amores di Gallo ricorrevano già nelle Bucoliche, e anche
nei pochi versi scoperti in papiro se ne avverte uno evidente
(Bue. 2, 26 sa non ego Daphnin / iudice te metuam, da
confrontare con w. 8-9 del frammento: non ego... Kato, iudice te
vereor)5; ma, per ovvie ragioni, è in quest'ecloga finale dedicata
a Gallo che l'elegia di Gallo è più presente. Al v. 46 il
commento di Servio ci avverte: hi autem omnes versus Galli
sunt de ipsius translati carmi- nibus [E tutti questi versi sono di
Gallo, presi dalle sue poesie].
La nota ha scatenato la libido coniectandi. Che cosa proviene
effettivamente dai versi di Gallo? In ripresa diretta, con gli op-
portuni adattamenti, forse solo i versi patetici rivolti a Licoride
lontana (46-49); forse anche i due versi precedenti (44-45),
dove Gallo lamenta Yinsanus amor duri... Martis, che lo
trattiene nelle fatiche della guerra: gli elegiaci latini cantano
tanto il bisogno di otium quanto la preoccupazione che Yotium
li porti alla nequitia, al rifiuto dei munera e dei valori del buon
cittadino (il termine nequitia compare nei versi di Gallo). Su un
piano più generico, è probabile che alcuni motivi delle elegie di
Gallo, comuni agli elegiaci posteriori, siano trasferiti
nelTecloga. Il poeta bucolico scrive per Gallo, ma spera che
legga anche Licoride (sed quae le- gat ipsa Lycoris): già Gallo
avrà presentato la sua elegia come werbende Dichtung, cioè
come poesia utile a conquistare il favore della donna 6, E già
Gallo avrà presentato la poesia come possibile medicina della
malattia d'amore e poi la malattia d'amore come irrimediabile.
Data la diffusione del motivo sepolcrale nell'elegia latina (che
IV. Il canto pastorale 29

ne ha ricavato alcune delle sue più belle pagine), sarei incline a


credere che anche il sogno della morte e della tomba in
Arcadia, qui attribuito a Gallo (31-34), sia trasposizione bu-
colica (ma non verbale) di qualche pezzo degli Amores. E pru-
dente, invece, non presupporre in Gallo tutto ciò che è più pro-
priamente rustico e bucolico: le divinità agresti consolatrici, la
dimora nelle selve, la caccia 7; altrimenti la traslatio dall'elegia
alla bucolica perderebbe senso.
La traslatio aveva una parte notevole di htsus letterario, che
era piaciuto a poeti alessandrini e di ascendenza alessandrina: ci
si compiaceva, per esempio, di svolgere gli stessi miti nel
poema epico, nell'epillio, nell'elegia. La contrapposizione
polemica o Yaemulatio erano più frequenti dell'omaggio, e la
differenza di scopi comportava differenze di procedimenti (più
che di tecniche sistematiche). Gallo stesso amava questo genere
di lusus: egli svolgeva in narrazioni elegiache miti che
Euforione aveva svolti in epilli (oggi è generalmente ammesso
che Euforione non scrisse elegie e Gallo non scrisse epilli); a
sua volta Euforione doveva avere operato trasferimenti dalla
trattazione elegiaca a quella esametrica. Nel caso della decima
ecloga è evidente che si tratta di omaggio: il procedimento ha
qualche vaga somiglianza con l'intreccio di allusioni a Virgilio
nell'omaggio di Properzio al grande poeta (II, 34, 61 ss.); ma
romaggio può ben accompagnarsi al gusto di far riascoltare lo
stesso motivo in tono diverso, di modulare in maniera diversa il
canto dell’amico, di contrapporre in qualche misura i due
generi, mostrandone nello stesso tempo l’affinità e la diversità 8.
Eppure ogni lettore di gusto, non irretito dalle dispute sui ge-
neri letterari, sente che l’ecloga va al di là del lusus. In realtà al
centro dell’ecloga non è la contrapposizione o meno di due ge-
neri: è in questione la capacità della poesia di liberare l’uomo
dalla malattia, di offrire alla vita una consolazione e una gioia
più alta9. Teocrito (11, 1 ss.) aveva espresso la sicurezza che le
Pieri- di (e solo le Pieridi) davano la medicina d’amore; e
Callimaco (.Epigr,: 46 P£) aveva scherzato amabilmente sulla
sua sicurezza. Per Virgilio, forse anche per Gallo, il problema
era più serio, com’era stato serio per Catullo. Nella funzione di
consolatrici e liberatrici le Muse ora falliscono: la bucolica
fallisce non meno dell’elegia; il dono poetico, che Gallo ha
30 Parte prima. Le «Bucoliche» ovvero l’impossibile Arcadia

richiesto e che Virgilio gli offre, è un dono vano: conclusione


non solo dell’ecloga decima, ma di tutte le Bucoliche. D’altra
parte la drammaticità della sconfìtta non va accentuata oltre un
certo limite: la bucolica non è la tragedia. Non è facile
esprimere la sensazione d’incertezza che prende l’interprete alla
fine del lamento di Gallo come alla fine dell’epillio di Orfeo nel
IV delle Georgiche: da un lato la sconfitta del canto sembra
portare oltre il velo dell’Arcadia o della fiaba, dall’altro persiste
la potenza di un fascino fantastico che sembra attutire i colpi del
destino.
V
I
VI. La violenza della storia 41

ve la finzione è in un certo senso realtà e non si contrappone


ad altra realtà, presuppone gli otia di Titiro, e gli otia
presuppongono la pace nella società e nello stato: nelle tempeste
politiche e sociali il fragile incanto della poesia viene travolto.
Soprattutto nelTecloga 9 risuona il lamento elegiaco della Musa
che si sente impotente di fronte alla violenza della barbarie (11
ss.):
sed carmina tantum nostra
valent, Lycida, tela inter Martia, quantum
Chaonias dicunt aquila veniente columbas
[ma i nostri canti / valgono tanto, o Licida, tra le armi di
Marte, / quanto, si dice, le colombe caonie al
sopraggiungere dell'aquila].
La conversazione dei due pastori riguarda le vicende
dolorose di Menalca, che adombra lo stesso Virgilio. Sembrava
che Menalca dovesse conservare la sua proprietà grazie alla sua
fama di poeta: invece è stato scacciato anche lui, e poco è
mancato che non perdesse la vita in una lite con l'usurpatore.
Benché assente, Menalca domina la scena, e domina la scena in
quanto pastore-poeta: Meri (uno dei due personaggi, un vecchio
che sente malinconicamente il peso dell'età) è pieno del ricordo
dei suoi canti e ne cita alcuni frammenti; anche Licida, il più
giovane, ne ricorda qualcuno. Secondo un'ipotesi che risale
almeno fino a F. Skutsch e a F. Leo, i pezzi citati provengono
da ecloghe virgiliane più antiche; l'ipotesi, però, è tanto dubbia
quanto attraente. Per fortuna Menalca non è stato ucciso, e la
speranza di riascoltare i suoi canti non è perduta; ma il trauma
delle guerre civili e delle loro dolorose conseguenze, soprattutto
la perdita della terra e della tranquillità, è incancellabile: il
poeta ha sentito tutta la precarietà del mondo bucolico, tutta
l'impotenza della poesia. In Meri questa Stimmung è accentuata
dalla tristezza della vecchiaia, un male anch'esso irrimediabile,
come l'amore: persino il ricordo prezioso dei canti giovanili la
vecchiaia si porta via (51 ss.):
Omnia fert aetas, animum quoque: saepe ego
longos cantando puerum memini me condere
soles; nunc oblita mihi tot carmina...
42 Parte prima. Le «Bucoliche» ovvero l’impossibile Arcadia

[Il tempo rapisce tutto, anche la memoria, ricordo / che


da fanciullo spesso cantando passavo intere giornate; / ho
scordato tante canzoni...].
In Licida, tuttavia, sentiamo che il bisogno di canto non si
estingue, o si estingue solo con la vita. Le molte citazioni di
(veri o presunti) frammenti di ecloghe anteriori può dare
l'impressione del mosaico, anche se di un mosaico fatto di
bellissimi pezzi. Sarebbe impressione superficiale: incentrata
intorno al motivo della gioia del canto e del desiderio
inesauribile di questa gioia così alta e così fragile, questa ecloga
è, io credo, la più unitaria, la più compatta come valore estetico;
non vi si avverte mai il peso o la futilità della convenzione
letteraria: per me è la regina delle ecloghe virgiliane1. E forse
non v'è pagina di Virgilio che più di questa faccia risentire
perennemente la sua attualità: giacché
il senso dell'impotenza dell'arte, o della cultura in genere, di
fronte alla violenza, sia quella aperta della guerra sia quella
occulta, talvolta non meno distruttrice, delle varie forme di
potere, continuamente ritorna nella storia. Soprattutto a questa
ecloga pensava Paul Valéry, quando, durante la guerra, sotto
l'occupazione nazista, scriveva nelle variations premesse alla
traduzione delle Bucoliche: «lei se placerait assez bien une
petite considération des rapports du poète avec le pouvoir.
Vaste sujet, question qui est de tous les temps» 2. Naturalmente
anche dei tempi dopo Valéry.
Nella prima ecloga Virgilio ha tramandato ai posteri la sere-
nità (forse effimera) in cui si sentì per aver conservato (o riac-
quistato) il suo campo, e la riconoscenza verso Ottaviano, vene-
rato quasi come un dio in terra (il poeta è adombrato in Titiro
che, all'ombra dell'ampio faggio, effonde la gioia della sua
musica pastorale)3; ma ancora più intensamente ha tramandato
la tristezza, l'angoscia dei piccoli coltivatori spogliati dei loro
campi, che trascinano con sé il poco che è stato loro lasciato e
vanno verso terre ignote, conservando nel cuore il ricordo
struggente della patria perduta (uno di questi piccoli coltivatori
è Melibeo, l'altro personaggio della prima ecloga): anche la
gioia musicale di Titiro è soprattutto il bene che gli altri
perdono irrevocabilmente. Tuttavia non pochi interpreti hanno
avvertito in Titiro insensibilità ed egoismo: almeno l'egoismo
VI. La violenza della storia 43

epicureo del saggio che dalla riva guarda la tempesta del mare e
gli stolti che ne sono in balia 4. La sgradevole sensazione non è
del tutto ingiustificata, anche se si attenua di fronte alla celebre
e bellissima chiusa, dove l'invito di Titiro sembra anch'esso
impregnato della mestizia dell'esule. ’
A proposito dei rapporti fra poeta e potere Valéry, nelle va-
riations citate poco fa, aggiungeva: «Le problème admet autant
de solutions que l’humeur et la condition de chacun, ou les cir-
constances en proposent». Il problema si poneva presto per qua-
lunque letterato romano che non fosse già nelYélite dei potenti.
Dunque a Virgilio si sarebbe posto (o si pose) anche senza la
violenza delle spoliazioni di terre; ma in una situazione così
precaria la protezione dei potenti si poneva come una necessità,
se egli voleva restare fedele alla sua vocazione di letterato. I
rapporti con Pollione e con Gallo, uomini di politica e di guerra,
ma dediti alle Muse, conobbero certamente il calore
dell’amicizia. Queste protezioni non furono sufficienti:
l’intervento di Ottaviano, a quanto pare, fu necessario per
conservare (o riacquistare) la proprietà mantovana o per
continuare, comunque, una vita senza preoccupazioni
economiche. La gratitudine per Ottaviano fu accompagnata da
devozione e venerazione, ma l’espressione poetica non superò
le convenzioni letterarie panegiristiche che venivano
affermandosi insieme coi mutamenti di regime: non sarà di-
versamente nelle liriche di Orazio. Ciò resta vero anche se a Ot-
taviano, all’erede di Cesare, Virgilio ha dato un certo rilievo
nell’architettura delle Bucoliche: l’ecloga dove egli è celebrato
è posta all’inizio; e in questa prima ecloga le lodi religiose per il
dominatore, il deus, sono poste poco dopo l’inizio (6-10) e poi
al centro del componimento (42-45). Ciò non deve ingannare
chi conserva il senso della poesia autentica: la struttura
dell’ecloga è basata sul contrasto fra il pastore fortunato e il
pastore esule; e la disperazione dell’esule poteva essere sentita
anche come un’accusa o una protesta contro la violenza del
potere: è persino sostenibile (ma è meglio essere prudenti) che
la prima ecloga implichi un atto di coraggio5.
La crisi sanguinosa, se generò angoscia e disperazione,
generò anche immense attese, speranze non sempre artificiali e
talvolta grandiose; tra gli aspetti importanti della politica di
44 Parte prima. Le «Bucoliche» ovvero l’impossibile Arcadia

Ottaviano fu, com’è noto, la tendenza a concentrare su di sé


attese e speranze di carattere fra politico e religioso; si sa quanti
miti palingenetici ebbero presa nei tempi di Cesare e di
Augusto. Le Bucoliche certamente risentono in parte di questo
clima, ma fino a che punto e in quali modi, con quali contenuti
precisi, è difficile dire: nell’interpretazione dell’opera questo è
il terreno più spinoso. Che significato attribuire al mito della
morte e resurrezione di Dafni nelTe- cloga 5, cioè nelTecloga
centrale? Come ho già detto, non mi pare che Dafni venga
celebrato come cantore e che la sua morte e la sua resurrezione
simboleggino, quindi, la morte e l’immortalità della poesia; non
sono convinto che tutto si svolga nel mondo ideale del canto e
che la resurrezione è solo la resurrezione nella poesia. Poco
solide, tuttavia, mi sembrano anche le prove che Dafni sia
un’allegoria di Cesare. L'interpretazione politica, risalente
all’antichità, non è futile in questo caso, perché il pensiero del
lettore ricorre facilmente all’apoteosi di Cesare. L'accenno al
sidus lulium in Bue. 9,46 ss., in uno dei passi presentati come
frammenti di ecloghe anteriori, rimanda al clima religioso
formatosi intorno a Cesare divinizzato e al divifilius suo erede6.
D’altra parte questo Dafni vagamente assimilato a Dioniso non
ha niente di romano e, se è portatore di civiltà, è troppo poco
conquistatore e dominatore. Mi guardo bene dal mettere
l’interpretazione allegorica di Dafni come Cesare sullo stesso
piano delle spericolate interpretazioni allegoriche diffuse in
Belgio e in America, nelle quali Galatea diventa Sesto Pompeo
e Amarillide Antonio; tuttavia anch’essa resta incerta. Non
pretendo offrire un’interpretazione di ricambio. Cercando di
non rinunziare alla prudenza, suppongo che Virgilio abbia in
que- st’ecloga caricato il suo eroe pastorale delle attese
palingenetiche allora diffuse; ma in questo caso egli ha voluto
rimanere all’interno del suo mondo pastorale: non fame il
simbolo di qualche cosa che ne è al di fuori, ma piuttosto
trovare in esso ciò che risponde al bisogno dell’umanità
contemporanea: Dafni, l’eroe del mondo pastorale, può dare, in
questo mondo di mitezza e di humanitas, ciò che altri trovano in
Dioniso o in qualche messia. Si può, certo, anche obiettare che
la poesia bucolica, assorbendo esigenze religiose, rispondendo a
bisogni religiosi, diventa in qualche misura religione; o che,
VI. La violenza della storia 45

sostituendo Dafni al dio liberatore Epicuro, prenda in qualche


modo le funzioni della filosofia: acutamente è stato notato eh e
Bue. 5,64 {Deus, deus Me, Mendica!) riecheggia l’elogio
lucreziano di Epicuro (V, 8: deus ille fuit, deus, inclute
Menimi), forse presente anche nell’elogio di Ottaviano, il deus
che ha assicurato gli otia ai pastori {Bue. 1, 6 s.). L'ipotesi di
una funzione an- tilucreziana dell’ecloga non è affatto assurda;
comunque, si ammetta o no l’intenzione polemica, è evidente
che siamo in un clima lontano da Lucrezio7.
Benché carica di problemi irrisolti, l'ecloga 4 ha un senso
più chiaro, almeno quanto al tipo di rapporto con la realtà
contemporanea. Essa annunzia la nascita di un bambino
prodigioso (forse un figlio di Asinio Pollione): la nascita
coinciderà con l'inizio di un nuovo saeclorum orcio, di un
nuovo ciclo del mondo, che porterà una nuova età dell'oro, i
Saturnia regna profetizzati da un oracolo sibillino; le varie età
del nascituro coincideranno con le varie fasi attraverso cui il
nuovo regno della pace e della prosperità verrà affermandosi.
Sia l'identificazione del bambino sia il rapporto fra le età del
bambino e lo sviluppo del nuovo ciclo presentano problemi di
interpretazione difficilissima8; probabilmente una parte delle
difficoltà è dovuta alla sovrapposizione forzata di due
prospettive: secondo l'una il nuovo ciclo non richiedeva un
messia e lo sviluppo verso la nuova età dell'oro avveniva
gradualmente; secondo l'altra la palingenesi coincideva con
l'avvento del messia e il mutamento radicale si compiva rapida-
mente, quasi come un subitaneo miracolo. Non è detto che sia
stato Virgilio a cercare di fondere le due prospettive non in tutto
conciliabili: può darsi che la sovrapposizione fosse tentata già
in profezie anteriori.
L'ecloga 4 nacque nel clima di serenità e di speranze prodot-
to dalla pace di Brindisi nell'autunno del 40. Non c'è dubbio,
però, che il suo significato va molto al di là della circostanza
contingente (e ciò spiega la grande fortuna che ebbe nel
cristianesimo): essa dà espressione (che però quasi solo
nell'esordio e nella chiusa è vigorosamente poetica) a speranze
di palingenesi molto diffuse nell'impero, specialmente fra i
popoli orientali, che da tempo subivano il dominio rapace di
Roma; nelle sofferenze delle guerre civili le attese e le speranze
46 Parte prima. Le «Bucoliche» ovvero l’impossibile Arcadia

della nuova era miracolosa di pace si erano fatte più vive. La


connessione dell'ecloga 4, attraverso un oracolo sibillino, con
profezie messianiche orientali (anche se è difficile precisare
quali) si può ritenere sicura: in questo senso anche
l'interpretazione cristiana contiene qualche cosa di vero. In
massima parte quelle profezie vedevano la palingenesi come
una liberazione dall’impero romano. Naturalmente nel- l'ecloga
4 la palingenesi si opera dentro e sotto l'impero. Tuttavia
neppure l'ecloga 4 è poesia «romana»: Roma e l'impero non vi
hanno nessuna importanza centrale; la palingenesi vi ha un si-
gnificato umano e religioso, ma non particolarmente romano.
Interpretare le Bucoliche solo alla luce delle opere virgiliane
successive è un errore tenace, specialmente della critica tedesca,
con cui si vuole salvare a ogni costo una continuità postulata a
priori; l’intento sarà più o meno nobile (a residui del culto della
romanità si mescola il desiderio di fare dell’opera di Virgilio un
tempio coerente, armonioso); ma porta, comunque, a forzare il
senso delle Bucoliche.
L'INTEGRAZIONE BUCOLICA

Siamo arrivati lontano da Teocrito; eppure Virgilio voleva


restare entro un genere poetico, che per lui era teocriteo. Nella
teoria e nella storia dei generi letterari ci ritroviamo oggi
davanti a storture che credevamo superate per sempre. La
liquidazione idealistica dei generi letterari rispondeva in parte a
esigenze giuste, ma ebbe conseguenze negative pesanti; oggi
spesso ci si deve chiedere se il rimedio non sia peggiore del
male. Trasportando meccanicamente alla storia letteraria
concetti presi dalla linguistica (e ripetendo, così, uno degli
errori capitali del positivismo che, almeno, perseguiva un nobile
ideale di unità del sapere), si trattano i generi letterari come
«sistemi» o come «codici»; e ciò, se si può fare senza troppi
danni per i grandi generi - epica, tragedia, commedia - (giacché
per questi generi era stata elaborata una poetica), porta spesso a
schemi arbitrari per i generi minori. Altre volte ci si accorge che
i termini di «sistema» o «codice» sono puramente gratuiti:
perché essi siano usati legittimamente, non basta la fissità né la
compresenza, ma occorre la funzionalità reciproca delle singole
VI. La violenza della storia 47

parti. Il peggio, però, è che questi generi letterari si evolvono da


sé, per leggi interne, in una specie di empireo al di sopra dei
poeti e dei movimenti culturali; quando entrano in conflitto fra
loro, sembra di assistere a guerre stellari.
Ora giova ricordarsi che il genere bucolico si concretava per
Virgilio in una raccolta di componimenti di Teocrito. Non pos-
siamo illuderci di ricostruire l’edizione usata da Virgilio (cono-
scesse o no il commento di Teone) 1; ma dai confronti coi testi
teocritei vediamo che la raccolta non conteneva solo componi-
menti strettamente bucolici: Virgilio conosceva anche idilli
come il 15 (Le Siracusane), il 16 (Gerone), il 17 (l'encomio per
Tolomeo), il 24 (lo Herakliskos)2. Dunque il suo Teocrito era
un Teocrito vario, che si spostava fuori del mondo pastorale. Se
potessimo addentrarci nella ricerca, dovremmo cercare di
vedere sino a che punto Teocrito estendesse la coloritura
bucolica al di fuori del mondo bucolico: il procedimento mi
pare presente, per esempio, nell'idillio 18 (Epitalamio di Elena).
Non posso addentrarmi qui in tale questione, ma posso ribadire
che, anche per l'impostazione del genere letterario, bisogna
partire dal confronto diretto con Teocrito3. Indubbiamente
Virgilio, forse anche per influenza della bucolica posteriore a
Teocrito, tende decisamente a generalizzare a tutti i temi la
coloritura bucolica: da Teocrito si sente autorizzato ad
affrontare anche temi non strettamente pastorali, ma la
coloritura unitaria gli sembra un elemento indispensabile per
l'armonia dell'opera. Ci troviamo, così, di fronte al paradosso
del genere bucolico in Virgilio: il genere deve rimanere aperto,
soprattutto perché il poeta non vuole chiudersi ai problemi della
cultura e della realtà contemporanee: aperto, come saranno
l'elegia augustea e la lirica di Orazio; ma nello stesso tempo
deve chiudersi per rimanere dovunque bucolico, per preservare
una sua identità.
Questa chiusura, per non escludere l'esigenza dell'apertura,
ha indotto a un procedimento che in altri generi (elegia, lirica) è
molto meno sensibile, se non quasi irrilevante. Metafore e sim-
boli sono attinti prevalentemente dal linguaggio bucolico (natu-
ralmente non quello dei pastori, ma quello della poesia pastora-
le). Si può dire già vicina a un procedimento simbolistico la
chiusura dell'ecloga e del canto con la fine della giornata
48 Parte prima. Le «Bucoliche» ovvero l’impossibile Arcadia

pastorale: si è notato più volte che metà delle ecloghe (1,2, 6,


9,10) si chiudono con l'annuncio della sera. Naturalmente per la
Stimmung di Virgilio ciò ha un significato che va molto al di là
del procedimento di cui sto parlando: la sera con cui si chiude
l'ecloga prima ha un segreto legame con la mestizia dell'esule,
mentre, come abbiamo visto, la quiete notturna annunciata dalla
sera alla fine dell'ecloga 2 è in contrasto con l'implacabile follia
erotica di Coridone; un'altra bellissima chiusa è quella
dell'ecloga 9 (63 ss.), dove la sera preannuncia una notte
tempestosa: c'è un segreto legame con la tristezza dell'ecloga,
con le vicende tempestose ricordate prima, col rinvio dei canti a
un futuro migliore4. Tornando al nostro tema, basti richiamare
la fine dell'ecloga 3:
Claudite iam rivos, pueri: sat prata biberunt
[Chiudete i canali, ragazzi: i prati sono sazi] 5.

Con simboli bucolici è adombrata la poetica callimachea ere-


ditata nelle Bucoliche, incentrata sull'unione del carattere humi-
lis del genere con l'eleganza dell'elaborazione formale. Il caso
delle humiles myricae di Bue. 4, 2 è il più chiaro. Verso la fine
dell'ecloga 10 (e delle Bucoliche) il poeta è raffigurato (71)
dum sedet et gracili fiscellam texit hibisco [mentre
siede e intreccia un cestello di gracile ibisco].

Dal commento di Servio sappiamo che l’interpretazione alle-


gorica era già antica: Allegoricos autem significai se
composuisse hunc libellum tenuissimo stilo [E vuol dire
allegoricamente che ha composto questo libro in stile molto
umile]. L'interpretazione deve risalire parecchio indietro, perché
è presupposta sia dall'autore ignoto del Culex (1: Lusimus,
Odavi\ gracili modulante Thalia [Abbiamo cantato, Ottavio,
alla musica di una gracile Talia]) sia dall'altro poeta ignoto che
premise i quattro versi proemiali all'S- neide (Ille ego, qui
quondam gracili modulatus avena / carmen...)6. Ma, se è così,
possiamo congetturare che un simbolo sia la tennis avena di
Titiro all'inizio dell'opera, come simbolo era, probabilmente, nel
proemio di Catullo il libellus ben levigato con arida pomice; e
VI. La violenza della storia 49

possiamo credere che il simbolo torni, insistente, in altre


ecloghe: verso la fine dell'ecloga quinta, nella fragilis cicuta che
Menalca dona a Mopso (Menalca qui è chiaramente identificato
con l'autore delle ecloghe 2 e 3, cioè con Virgilio); nella tennis
ha- rundo del proemio dell'ecloga 6 (v. 8). In questo stesso
proemio la metafora callimachea della vittima grassa per
indicare la poesia pingue subisce un leggero adattamento
bucolico (4 s.):
Pastorem, Tityre,
pinguis pascere oportet ovis...
[Titiro, bisogna che il pastore pasca le grasse pecore...].
Un procedimento più vistoso e più incisivo è la similitudine
in cui il secondo termine è preso dal mondo pastorale. Il pastore
vedeva la differenza di grandezza tra Roma e Mantova come
quella fra i cani e i cagnolini, le capre e i capretti; ora che ha po-
tuto recarsi nell’immensa capitale, la differenza appare come
quella tra i cipressi e i viburni (Bue. 1, 19-25). In questo proce-
dimento, e altri simili, si avverte la convenzionalità bucolica:
questi ricami non sono sempre buona poesia; ma l’incanto della
bucolica virgiliana riscatta talvolta anche ricami del genere: si
legga la similitudine con cui è segnata l’eccellenza di Menalca
nel canto (Bue. 5, 17-19):
Lenta salix quantum pallenti cedit
olivae, puniceis humilis quantum
saliunca rosetis, iudicio nostro tantum
tibi cedit Amyntas
[Quanto il flessibile salice cede al grigio olivo / e l’umido
nardo selvatico ai purpurei rosai, / a nostro giudizio, tanto
ti cede Aminta],
Nell’affrontare temi che sono più ai margini del mondo bu-
colico, Virgilio ricorre alla coloritura bucolica per ribadire la fe-
deltà al genere: il procedimento è chiaro nell’ecloga 4, special-
mente nella descrizione dell’età dell’oro (18-25). Qui il risultato
non è molto felice; ma nell’ecloga dei miti d’amore, la sesta, c’è
almeno un quadro bucolico (53-54) che è forse il più affascinan-
te delle Bucoliche, per il contrasto e le sfumature dei colori (il
50 Parte prima. Le «Bucoliche» ovvero l’impossibile Arcadia

fianco niveo del giovenco, l’elce nereggiante, le erbe pallide) e


per il contrasto dei sentimenti che è implicito: da una parte l’in-
differenza crudele del bellissimo giovenco, dall’altra l’infelicità,
la disperazione dell’amore mostruoso di Pasifae:
ille, latus niveum molli fultus
hyacintho, ilice sub nigra pallentis
ruminat herbas...
[e quello adagiato il niveo fianco sul molle giacinto /
sotto una bruna elee rumina le pallide erbe...],
E, infine, l’allegoria, che ha dato l’avvio a tante speculazioni e
fantasticherie di antichi e moderni. Nessuno può disconoscere
che gli appigli nelle Bucoliche ci sono; Teocrito stesso, pur mol-
to più parco nell'uso del procedimento, aveva dato l'avvio con le
Talisie, un idillio particolarmente caro a Virgilio (e non aveva
certamente torto). Nelle ecloghe 5 e 9 il cantore Menalca
adombra il poeta Virgilio; nella prima Virgilio è adombrato in
Titiro. Come si vede, non c’è una corrispondenza fissa tra il
simbolo e la realtà; ma l’allegoria bucolica è più sfuggente
perché il personaggio bucolico corrisponde al personaggio reale
solo in alcuni tratti o per alcuni momenti: è fatica sprecata
cercare corrispondenze complessive e precise (i commentatori
antichi erano consapevoli di questi limiti: all’inizio delle
Bucoliche Servio annotava, a proposito di Titiro: «qui sotto la
maschera di Titiro dobbiamo intendere Virgilio, ma non
dappertutto: solo dove la ratio
lo esige»). Nella prima ecloga l'assunzione di vicende contem-
poranee e biografiche nella finzione pastorale ha creato compli-
cazioni inestricabili, su cui gli interpreti si sono affaticati e si af-
faticheranno non senza ragione. La figura del pastore schiavo
Titiro che, messo da parte il suo peculium, si reca a Roma per
acquistare dal padrone, pagando, la sua libertà, figura
comprensibile in sé, viene fusa con quella di Titiro-Virgilio che
va a Roma per chiedere ad Ottaviano la conservazione (o la
restituzione) del suo campo. La finzione riesce molto stentata, e
questa mi sembra la prima causa delle difficoltà 7. È probabile
che Virgilio ritenesse tollerabili o legittime certe incoerenze del
lusus bucolico; non so se ci si possa spingere fino a credere che
VI. La violenza della storia 51

Virgilio scegliesse tali incoerenze come segno della libertà


fantastica della sua finzione8: io crederei, piuttosto, che Virgilio
le tollerasse (o quasi le subisse) come prezzo per fare entrare la
realtà contemporanea nel mondo bucolico.
Se Virgilio ha offerto l'appiglio, è ovvio che nessuno può te-
nerlo responsabile dei giochi futili con cui si sono divertiti gli
interpreti, specialmente nel Novecento. Secondo me, alla
cautela nella ricerca di allegorie politiche invita anche il fatto
che o i personaggi contemporanei, come Pollione, Gallo, sono
nominati espressamente o le allusioni, come nel caso di
Ottaviano, sono abbastanza chiare: perché in tanti altri casi
avrebbe dovuto ricorrere a velami così oscuri?
L'assunzione nel mondo bucolico di temi estranei poneva un
altro problema a cui qui dobbiamo contentarci di accennare: per
certi temi il genere humilis non era adatto. Come risolvere il
problema? Lacerando completamente la finzione bucolica,
uscendo dai confini del mondo bucolico? Virgilio, scartando
questa soluzione, ricorre a una certa differenziazione di stili
all’interno del genere bucolico: differenziazione delimitata che
non viola i confini del genere; è la via che egli batte
esplicitamente nella quarta ecloga. Su questa via lo spingevano
già, probabilmente, esperienze di Callimaco, del Callimaco
degli Aitia. H problema si ripresenterà per i poeti elegiaci
dell’età augustea e per Orazio lirico, e la soluzione sarà, press’a
poco, la stessa: rimanere nel genere differenziandolo al suo
interno; le Bucoliche avevano già sbloccato la difficoltà.
vm
L’ARCHITETTURA DELLE «BUCOLICHE»

Le Bucoliche si presentavano come una grande novità già


per l’ordinamento dei carmi: l’ordinamento aveva di per sé una
funzione artistica; il libellus aveva certamente un’architettura, il
cui senso, però, era difficile a cogliersi e difficile resta per noi.
Anche in questo campo di ricerche troppe sono le costruzioni
fragili, troppe le sottigliezze e gli arbitri; tuttavia dopo le
ricerche degli ultimi settantanni circa, a cui il primo e maggiore
impulso è venuto dalla Francia, alcuni risultati sembrano in-
52 Parte prima. Le «Bucoliche» ovvero l’impossibile Arcadia

negabili1.
Contentiamoci di ciò che riesce meno oscuro. La collocazio-
ne della decima ecloga alla fine, come ecloga di commiato, è un
omaggio a Gallo. Le restanti nove ecloghe formano un corpo
armonico avente come nucleo centrale l’ecloga 5, l’ecloga di
Dafni, l’eroe del mondo pastorale, che era in scena nel primo
idillio di Teocrito (altri dicono di Dafni come allegoria di Ce-
sare)2. Intorno a questo nucleo 1 e 9 si corrispondono come
ecloghe autobiografiche e 1 ha un posto d’onore, all’apertura
del libro, in omaggio ad Ottaviano; 2 e 8 si corrispondono come
monologhi amorosi; 3 e 7 come dialoghi; si capisce meno la
corrispondenza fra 4 e 6: forse ambedue sono viste come in par-
te estranee al mondo pastorale; d’altra parte 6, come programma
poetico, è adatta ad aprire la seconda metà del libro. Avremmo
dunque lo schema:
Vili. L'architettura delle «Bucoliche» 53
54 Parte prima. Le «Bucoliche» ovvero l’impossibile Arcadia

Più romano, anche se l'influenza greca non va esclusa nep-


pure sotto questo aspetto, è il gusto per l'espressività metrica e
fonica. Il lamento per la partenza di Titiro si chiude con un esa-
metro che ha quattro spondei (1, 39):
ipsi te fontes, ipsa haec arbusta vocabant.

Con un verso simile incomincia, lentamente, solennemente,


il lamento per la morte di Dafni (5, 20):
Extinctum nymphae crudeli funere Daphnin...
[Le Ninfe piangevano Dafni rapito da crudele morte...].

E poco dopo, alla ripresa del lamento (5, 24):

Non udii pastos illis egere diebus...


[Nessuno, o Dafni, in quei giorni condusse i buoi /
pasciuti...].
È famosa la musicalità dei primi due versi della prima
ecloga, che vuol richiamare all’orecchio il suono della
zampogna. Ecco, invece, una musica aspra, un secco cozzare di
corna caprine (9,25):
occursare capro, cornu ferit ille, caveto [evita il capro che
colpisce di corna].
■ La musica dolcemente cupa del mare, seguita da quella
dell’acqua dei fiumi che lotta fra le rocce (5, 83 ss.):
nec percussa iuvant fluctu tam litora, nec quae saxosas
inter decurrunt flumina valles
[né la riva percossa dalle onde, né il fluire / fragoroso dei
fiumi che discendono tra le rocce delle valli].
È facile cogliere l’effetto delle u e delle t nel primo verso, l’ef-
fetto degli spondei nel secondo. Un tale gusto musicale presup-
pone Ennio e Lucrezio, ma Virgilio è più sobrio e nello stesso
tempo più raffinato. Virgilio, a cominciare dalle Bucoliche, va
letto con l’orecchio attento a questi effetti: altrimenti una parte
Vili. L'architettura delle «Bucoliche» 55

importante del suo fascino va perduta.


GLI STUDI SULLE «BUCOLICHE» (1984-2003)1

Negli anni Ottanta è comparso in Italia un sussidio impor-


tante, YEnciclopedia Virgiliana, uscita in cinque volumi dal
1984 al 1991 a Roma per l'Istituto dell'Enciclopedia Italiana. È
qua impossibile elencare o, ancora meno, valutare le singole
voci che rivestono interesse per le Bucoliche e le Georgiche (si
può rimandare alle acute pagine di A. Traina, in «Riv. di fìlol. e
di istruz. class.», 114,1986, pp. 231-238, e ivi, 120,1992, pp.
111-123, ambedue ristampati in Poeti latini (e neolatini). Note e
saggi filologici, IV, Bologna 1994, pp. 115-137), ma va
considerato che pressoché ogni problema qua accennato vi è
trattato con dovizia di particolari e un'aggiornata bibliografìa (la
voce Bucoliche è a I, pp. 540-582).
Le principali questioni che riguardano le Bue. sono affronta-
te da A. Perutelli nel II capitolo di N. Horsfall (ed.), A Compa-
nion to thè Study ofVirgil, Leiden-New York-Kòln 1995, pp.
2762. In The Cambridge Companion to Virgil, ed. by Ch.
Martin- dale, Cambridge-New York 1997, il capitolo dedicato
alle Bue. dallo stesso curatore Martindale offre una veloce
panoramica (pp. 107-124) sull'interpretazione generale del
liber.
Negli ultimi anni le Bue. hanno avuto un nuovo importante
commento di Wendell Clausen, Oxford 1994. Il lavoro di Clau-
sen, già un benemerito degli studi virgiliani, propone un taglio
nuovo alla lettura dell'opera. Legato più di altri a una concezio-
ne positivistica del commento, Clausen tende a tralasciare, forse
eccessivamente, alcuni aspetti squisitamente poetici. Inoltre
la prospettiva della tradizione è un po’ sbilanciata verso i
precedenti, alessandrini e neoterici, mentre resta in ombra la
visione delle Bue. come fucina della successiva produzione
poetica di Virgilio. Malgrado queste e altre riserve, il lavoro
di Clausen porta con sé una salutare reazione a
interpretazioni precedenti inficiate da estetismo o simbolismi
vari e si qualifica come un sussidio oggi fondamentale.
1 Questo capitolo è stato scritto da Alessandro Perutelli.
56 Parte prima. Le «Bucoliche» ovvero l’impossibile Arcadia

Per la ricostruzione del paesaggio pensato e immaginato


da Virgilio, in relazione alla sua esperienza personale e alla
tradizione della poesia antica, è oggi indispensabile il
poderoso volume di R. Jenkins, Virgili Experience. Nature
and History: Times, Names, Oxford 1998. Ritorna alla tanto
dibattuta questione dell’Arcadia D. Kennedy, Arcades Ambo.
VirgilGallus and Arcadia, in «Her- mathena», 143,1987, pp.
47-59, proponendo una complicata simbologia. Sul confronto
con la descrizione della primavera in Lucrezio V. Buchheit,
Fruhling in den Eclogen. Vergil und Lukrez, in «Rhein.
Mus.», 129, 1986, pp. 123-141. Più in generale sui rapporti
Lucrezio-B^.: L. Ramorino Martini, Influssi lucreziani nelle
Bucoliche di Virgilio, in «Civ. class, crist.», 7,1986, pp. 297-
331.
Per il genere pastorale e i suoi caratteri è molto utile P.
Al- pers, What is Vastoral?, Chicago-London 1996, con
numerosi riferimenti specifici a Teocrito e Virgilio.
Una grossa monografia in lingua francese, R. Leclercq, he
divin loisir. Essai sur les Bucoliques de Virgile, Bruxelles
1996, è in gran parte solo una panoramica poco originale
della poesia antica e soprattutto di quella bucolica. Sul
rapporto Teocrito-Virgi- lio c’è anche la puntuale analisi
lessicale di L. Rumpf, Bukolische Nomina bei Vergil und
Theocrit, in «Rhein. Mus.», 142,1999, pp. 157-175.1 criteri
dell’ordinamento all’interno del liber sono stati riformulati
(ma senza novità importanti) da Sv. Lindhal, Die Anordnung
in den Hirtengedichten Vergils, in «Class. & Med.»,
45,1994, pp. 161-178. Più recente è una monografìa tedesca,
che riconsidera tutto il problema della datazione: H. Seng,
Vergils Ek~ logenbuch. Aufbau, Chronologie und
Zahlenverhdltnisse, Hildes- heim-Zùrich-New York 1999.
Preziose le indicazioni sullo stile di R.G.M. Nisbet, The Style
ofVirgiVs Eclogues, in «Proc. of Virg. Soc.», 20, 1991, pp. 1-
14 (ora in Collected Papers on Latin Lite- rature, ed. by S.J.
Harrison, Oxford 1995, pp. 325-337).
Per Teologa 1 si registra un'accentuazione dei significati di
programma poetico nei w. 1-2 (F. Cairns, Virgil Eclogue 1.1-2:
a Literary Programme, in «Harv. Stud. Class. Philol.»,
99,1999, pp. 289-293). Una precisa lettura della chiusa, che
Vili. L'architettura delle «Bucoliche» 57

purtroppo ignora la fine interpretazione di A. Traina (che risale


al 1968), si deve a Chr. Perkell, On Eclogue 1.79-83, in «Trans,
and proc. of Amer. philol. Ass.», 120,1990, pp. 171-181.
L'infinita questione dei suoi rapporti con la politica è riproposta
da W. Wimmel, Vergib Tity- rus und der Perusinische Konflikt:
zum Verständnis der 1. Ecloge, in «Ehein. Mus.», 144, 1998,
pp. 348-361, che ha proposto un riferimento al bellum
Perusinum,
Nell'ecloga 2 tengono ancora banco il confronto con Teocri-
to e tante osservazioni sui singoli particolari. Similmente il cen-
tro degli interessi rivolti all'ecloga 3 continua ad essere il suo
stretto rapporto con Teocrito e altri poeti ellenistici (per cui cfr.
J. Farrell, Literary Allusion and Cultural Poetics in Vergil's
Third Eclogue, in «Vergilius», 38, 1992, pp. 64-71). Sta in
disparte un discutibile tentativo di rimotivare il carme come il
coinvolgimento del lettore in un mondo idealizzato (J.
Henderson, Virgil's Third Eclogue: How Do you Keep an Idiot
in Suspence?> in «Class. Quart.», n.s. 48, 1998, pp. 213-228).
Sull'ecloga 4 pare riaprirsi lo iato fra due diverse prospettive
rappresentate una dallo studio di Clausen, in Poetry and
Prophe- cie. The beginnings of a Literary Tradition, ed. by J.
Kugel, Ithaca 1990, pp. 65-74, il quale propone
un'interpretazione tutta sbilanciata verso una caratterizzazione
neoterica; l'altra da L. Nica- stri, La quarta egloga di Virgilio e
la profezia deir Emmanuele, in «Vichiana», 18, 1989, pp. 221-
261, che mette ancora in risalto la marcata presenza di una
componente messianica di ascendenza orientale. Il risultato è
quello di avere perduto il prezioso equilibrio già proposto
alcuni anni prima da R.G.M. Nisbet, Virgil's Fourth Eclogue;
Easterners and Westerners, in «Bull. Inst. Class. Stud.», 25,
1978, pp. 59-78 (ora in Collected Papers on Latin Literature
cit., pp. 47-75). Un riesame del rapporto con il carme 64 di
Catullo è stato condotto da E. Lefèvre, Catulls Parzenlied und
Vergils vierte Ecloge, in «Philologus», 144, 2000, pp. 62-80.
Piuttosto statica è l'interpretazione dell'ecloga 5, troppo con-
dizionata dal problema dell'identificazione di Cesare con Dafni,
già prospettata nell'esegesi antica. Più complessa è la situazione
della 6, dove spesso si tende ancora a formulare
interpretazioni unilaterali, che non tengono conto dello
58 Parte prima. Le «Bucoliche» ovvero l’impossibile Arcadia

spettro di tradizioni diverse che si allineano nel carme.


Accanto alla presenza di Gallo, sottoposta ad attenta verifica
da P, Gagliardi, Gravis cantabimus umbra. Studi su Virgilio
e Cornelio Gallo, Bologna 2003, se ne possono trovare altre:
in tale ricerca si è impegnato Clausen nel suo commento (pp.
174 ss,) con una interpretazione ancora una volta in chiave di
poetica alessandrina, che ridimensiona eccessivamente la
presenza di Esiodo. Anche l'influsso di Lucrezio è messo in
ombra da Clausen, il quale per il canto cosmogonico di
Sileno preferisce privilegiare il riferimento al passo di
Apollonio Rodio, in cui Orfeo intrattiene gli Argonauti col
suo canto di simile argomento. Sostanzialmente sulla stessa
linea (con una preferenza per Callimaco) E. Courtney,
Virgil’s Sixth Eclogue, in «Quad. urbin. d. cult, class.», 34,
1990, pp. 99-112. Tra i più recenti studi italiani, merita di
essere ricordato F. Cupaiuolo, Sul- l}alessandrismo delle
strutture formali dell’Ecloga VI di Virgilio, in «Boll. d. stud.
lat.», 26,1996, pp. 482-503, valido soprattutto per ricchezza
di informazione e molteplicità dei temi affrontati. Quanto
alla ricostruzione e alla funzione della dottrina filosofica che
sottende il canto di Sileno, cfr. M. Paschalis, Semina ignis.
The Interplay of Science and Myth in thè Song ofSilenus, in
«Am. Journ. of Philol.», 122, 2001, pp. 201-222.
Per Teologa 7 si continua a disputare sulla possibilità di
individuare nei versi recitati dai due cantori in gara
(Coridone e Tirsi) quegli elementi stilistici che potrebbero
determinare la vittoria di Coridone; cfr. per esempio C.
Fantazzi e C.W. Querbach, Sound and Substance. A Reading
of Virgili Seventh Eclogue, in «Phoenix», 39, 1985, pp. 355-
367.
Vari studi sulTecloga 8 si concentrano ancora
sull'identificazione del dedicatario e sulla datazione. Già gli
antichi indicavano due possibili dedicatari, Pollione e
Ottaviano, e i moderni hanno di gran lunga preferito il primo.
Clausen nel suo commento (pp. 233 ss.) propone con vigore
una datazione molto tarda (37 a.C.) e la dedica a Ottaviano,
che in quel periodo si sarebbe dedicato alla composizione di
una tragedia di ispirazione sofoclea, YAiace. Poco prima
Vili. L'architettura delle «Bucoliche» 59

l'identificazione del destinatario in Ottaviano era stata


sostenuta da D. Mankin, The Addressee of
Virgil’s Eighth Eclogue: a Reconsideration, in «Hermes», 116,
1988, pp. 63-76.
Mentre non si registrano grosse novità sulTecloga 9, gli
studi sull’ecloga 10 si concentrano soprattutto sulle
implicazione della presenza di Gallo e sulla scelta poetica di
Virgilio, il quale con questo componimento si congeda dal
genere bucolico. Su questa linea si colloca l'ampia monografia
di L. Rumpf, Extremus labor. Vergils 10. Ekloge und die Poesie
der Bucolica, Gòttingen 1996, ma sono da registrare anche le
puntualizzazioni di Chr. G. Perkell, The «Dying Gallus» and
the Design of Eclogue 10, in «Class. Philol.», 91, 1996, pp.
128-140.
LE «GEORGICHE»;
IL POEMA ESIODEO E LUCREZIANO DEL LAVORO
E DELLA NATURA
6
0
I La nascita delle «Georgiche» 86
72 Parte seconda. Le «Georgiche»: il poema esiodeo e lucreziano

prima che questo avvenisse il poeta aveva preso coscienza


della sua missione etica, civile, politica. Nella acpQayi^ finale
egli si presenta come poeta umbratile, studiis florentem
ignobilis oti (Ge. IV, 564), ma altrove - specialmente nelle
digressioni politiche dei primi due libri - è chiaro che egli si
sente già, accanto al principe, quale vate, come si sentirà nell
'Eneide e come si sentirà Orazio nelle odi romane: il vate,
stretto collaboratore del capo politico, guida anche lui il mondo
romano sulla via che lo salverà dalla crisi, dalla disperazione,
dall'angoscia4. Gli accenti enniani e pindarici del proemio del
III libro5 sono una novità, non sorprendente, anzi già avviata nel
corso dell’opera.
II. Dalle «Bucoliche» alle «Georgiche». La teodicea del lavoro 73
74 Parte seconda. Le «Georgiche»: il poema esiodeo e lucreziano

dell’agricola (terzo dopo l'età dell'oro e l'atarassia epicurea) è la


vita delle antiche popolazioni italiche, popolazioni di contadini
semplici e laboriosi e di soldati valorosi (513 ss., spec. 532 ss.):
sono richiamati i Sabini, i Romani dei tempi di Romolo; vi sono
anche gli Etruschi, la terza componente della Roma del Palatino
(e la componente più cara al cuore dell'etrusco Virgilio); e, na-
turalmente, anche gli Etruschi - famosi da secoli per i loro raffi-
nati e smodati piaceri, - sono qui esempio di semplicità e di par-
simonia. Non è qui necessario discutere se tutti i punti di riferi-
mento siano coerenti fra loro2.
La differenza fra la teodicea del lavoro nel I libro e il maka-
rismós dell'agricola nel II corrisponde, grosso modo, alla diffe-
renza fra i due libri nella caratterizzazione del lavoro 3. Nel libro
esiodeo il lavoro è spesso una lotta tenace, e non priva di vio-
lenza, contro la natura: ecco, per esempio, la lotta per liberare il
campo dalle erbe nocive e quella dell'aratura [Gè. I, 94 ss.):
Multum adeo, rastris glaebas qui frangit
inertis vimineasque trahit cratis, iuvat arva
[...] et qui, proscisso quae suscitat aequore
terga, rursus in obliquum verso perrumpit
aratro exercetque frequens tellurem atque
imperat arvis
[Molto giova ai campi chi infrange con il rastrello / le
zolle inerti e trascina graticci di vimini... / e colui che
solcata arando la pianura, ne suscita dorsi / e vólto di
traverso l'aratro li rompe di nuovo / e travaglia spesso il
terreno e signoreggia i campi].
Altre metafore, più di imperare, fanno pensare alla guerra
(Ge. I, 104 s.):
iacto qui semine comminus arva insequitur
cumulosque ruit male pinguis harenae
[di colui che appena seminato segue / i solchi e rompe i
cumuli di terra infeconda].
Il quacjro è quello del soldato che, scagliata la lancia, attacca
con un assalto corpo a corpo e abbatte la fortificazione
conquistata4. Nel II libro il lavoro dedicato alle piante richiede
II. Dalle «Bucoliche» alle «Georgiche». La teodicea del lavoro 75

accanto alla forza, che raffrena e domina, la delicatezza


dell'artista che plasma: ecco, per esempio, il lavoro del
vignaiolo che cura la tenera vite, eliminando le foghe superflue
con la mano, senza toccarla con la falce (Ge. II, 362 ss.):
Ac dum prima novis adolescit frondibus
aetas, parcendum teneris, et dum se laetus
ad auras palmes agit laxis per purum
immissus habenis, ipsa acies nondum falcis
temptanda, sed uncis carpendae manibus
frondes interque legendae
[Mentre è ancora agli inizi la crescita delle fronde, / non
toccarle così tenere, e mentre il tralcio si estende /
rigoglioso all'aria, proteso a briglie sciolte nel sereno, /
non si deve ancora toccare con il filo della falce, ma le
fronde / si devono scegliere e spiccare con dita adunche],
0 del vignaiolo che raffrena l'esuberanza dei tralci (Ge. II, 405
ss.):
iam tum acer curas venientem extendit in
annum rusticus et curvo Saturni dente
relictam persequitur vitem attondens fingitque
putando
[il colono protende alacre i pensieri versò l'anno seguente
/ con il curvo dente di Saturno tosa intorno / la vite
abbandonata e potando le dà forma].
Gli alberi da frutta richiedono in parte lavoro duro, la vite in
modo particolare, in parte donano spontaneamente (Ge. II, 426
ss.). Fra le varie terre che Virgilio conosce, una, divenuta molto
cara al suo cuore, la Campania, asseconda più delle altre la fati-
ca dell'agricoltore e del pastore (Ge. II, 221 ss.). Si capisce che
la corrispondenza di cui parlo non va spinta troppo in là: nel II
libro, come ho detto, non mancano le fatiche pesanti, special-
mente nel trattamento del terreno per la vigna, mentre anche nel
1 il lavoro è talvolta alacre e festoso: per esempio, quando
l'agricoltore è trattenuto in casa dalla pioggia e affila il vomere
dell'aratro o scava delle tinozze o imprime il marchio al
bestiame o segna con numeri i mucchi dei prodotti o prepara i
sostegni per le viti o abbrustolisce e macina alcuni cereali (Ge.
76 Parie seconda. Le «Georgiche»: il poema esiodeo e lucreziano

I, 259 ss.); quando si dedica a quei lavori che sono permessi


anche nei giorni di festa, deviare ruscelli, preparare siepi o
difese contro gli uccelli dannosi, bruciare sterpi, bagnare greggi
nei fiumi, andare al mercato (Ge. I, 268 ss.).
Si direbbe che nel libro IV, cioè nel libro dell'apicoltura,
Virgilio tenda a colmare lo hiatus fra la vita dei campi come
lotta accanita e la vita dei campi come ozio tranquillo. Il libro
dell'apicoltura, che nel complesso dev'essere l'ultimo anche
cronologicamente, ci mostra un lavoro non facile (le api non
vivono semplicemente dei doni della natura generosa, ma
elaborano quei doni), assiduo, disciplinato; ma quel lavoro,
ispirato da un costante amore, è anche una perpetua felicità: un
istintivo e misterioso piacere allieta tutta la loro attività (Ge. IV,
55 ss.):
Hinc nescio qua dulcedine
laetae progeniem nidosque fovent, hinc
arte recentis excudunt ceras et mella
tenacia fingunt
[Da allora, non so per quale dolcezza, liete / curano la
prole e i nidi, plasmano ad arte le cere / recenti e danno
forma al miele tenace].
H vecchio di Corico, in Cilicia (probabilmente un ex-pirata),
che si è stabilito su un pezzo di terreno aspro, poco fertile nella
regione di Taranto e ne ha fatto un florido giardino per l'alleva-
mento delle api, lotta con la natura, ma nel lavoro,
contentandosi di una vita semplice, sufficiente a se stesso,
raggiunge una sua sicura felicità. Naturalmente neppure per il
libro IV si può dire che Virgilio abbia scoperto la miseria, la
chiusa amarezza, la sofferenza della vita dei campi (del resto
tutto questo rimarrà chiuso alla letteratura europea, si può dire,
fino a tutto il Settecento); e tuttavia non è trascurabile il fatto
che la visione puramente arcadica sia superata. Ormai Virgilio
non pensa tanto all'Arcadia dell'ozio e della contemplazione
della natura quanto allo stato augusteo, i cui cittadini
dovrebbero integrarsi pienamente nella comunità e vivere una
disciplina spontanea, ispirata dalla devozione alla patria fino
alla dedizione della vita. Lo stato delle api non è una realtà, ma
un modello, anzi un'utopia. La tendenza a far coincidere l'utopia
II. Dalle «Bucoliche» alle «Georgiche». La teodicea del lavoro 77

con la realtà del regime augusteo può essere interpretata, non


senza ragione, come un segno di conformismo; ma è
caratteristico di Virgilio il riempire modelli della tradizione o
del regime di un contenuto suo proprio (come si vede, per
esempio, nel caso di Enea): il sogno della sintesi di disciplina e
felicità, di lavoro e gioco, aveva radici lontane, affondate fin
nelle civiltà primitive, e poteva diventare un forza
anticonformistica per società alienate, disumanizzate. Di
Virgilio si sono fatti e si possono fare molti usi; ma, tutto
considerato, usarlo in senso anticonformista è operazione
difficile.
m
IL LAVORO E LA NATURA

Il vario modo di sentire il lavoro è un vario modo di sentire


la natura: ora forza da domare con energia e tenacia, ora vitalità
da guidare con accortezza, ora donatrice generosa che assecon-
da la fatica dell'uomo. Dopo i paesaggi delle Bucoliche ci si
aspetterebbe che la natura come paesaggio dominasse nel suo
poema dell'agricoltura; ma non è così, ed è questo uno dei tanti
segni che egli ha voluto imboccare una via nuova. Il paesaggio
più vicino all'Arcadia è ancora quello che, nella digressione
finale del II libro, Virgilio vagheggia per sé: il paesaggio in cui
egli potrebbe raggiungere, in un ritiro senza gloria, un modo di
vita simile a quello epicureo (Ge. II, 485 ss.):
rura mihi et rigui placeant in vallibus amnes,
flumina amem silvasque inglorius. O ubi
campi Spercheosque et virginibus bacchata
Lacaenis Taygeta! o qui me gelidis
convallibus Haemi sistat et ingenti ramorum
protegat umbra!
[mi piacciano allora i campi e le acque che irrigano le
valli, / e oscuro ami i fiumi e le selve. O le campagne, / e
lo Spercheo, e il Taigeto dove folleggiano per Bacco le
vergini / laconie! Oh chi mi porterà nelle gelide convalli /
dell'Emo e mi proteggerà con la vasta ombra dei rami!].
78 Parie seconda. Le «Georgiche»: il poema esiodeo e lucreziano

La somigliànzà all'ideale epicureo è sottolineata dall


'inglorius che sembra riecheggiare una massima famosa del
maestro: «vivi nell'ombra». E si noterà anche come, nei
momenti in cui il bisogno di quiete e di bellezza è più acuto e
più si avvicina al sogno,
Virgilio pensa alla Grecia piuttosto che all’Italia, di cui ha cele-
brato le lodi. Ma luoghi come questi non sono i più frequentati
dagli agricolae. La natura domina, sì, nelle Georgiche, ma non
attraverso digressioni descrittive, bensì attraverso il processo
del lavoro, nel contatto continuo con l’uomo. Se Virgilio
raccomanda di seminare il farro dove l’anno prima sono
cresciute piante leguminose, ci fa vedere queste piante
rigogliose col guscio agitato e risonante (laetum siliqua
quassante legumen, dove si nota anche l’onomatopea
lievemente giocosa), la veccia dai tenui semi, il lupino folto
dagli steli fragili e rumorosi (Ge. I, 73 ss.); se richiama il
costume di irrigare durante la siccità il campo seminato, evoca
insieme il quadro agreste: il campo bruciato, le erbe che
muoiono, l’acqua ristoratrice che l’accorto agricola fa scendere
dal ciglio di un pendio (Ge. I, 109 ss.):
illa cadens raucum per levia murmur
saxa ciet scatebrisque arentia temperat
arva
[quella cadendo tra sassi levigati solleva / un murmure
roco, e ristora con zampilli l’arida campagna].
Nel brano sul pascolo del bestiame minuto (Ge. Ili, 322 ss.),
il lavoro pastorale e il paesaggio che lo condiziona si uniscono
in una serie di quadri bucolici che è tra le gemme non solo della
poesia di Virgilio, ma della poesia antica. I quadri corrispondo-
no alle diverse ore della giornata estiva. Il pastore mena il suo
gregge al pascolo mentre Lucifero brilla ancora in cielo e la ru-
giada sparsa sull’erba tenera la rende più gradita al gregge.
Quando il mezzogiorno si avvicina e il lamento delle cicale fa
scoppiare gli arbusti, il pastore fa abbeverare i suoi animali; poi,
nelle ore di caldo più feroce, li mette al riparo di ombre dense,
nel fondo di una valle; poi di nuovo abbeveratura e pascolo fino
al tramonto: Lucifero torna come Vespero a riportare il ristoro
II. Dalle «Bucoliche» alle «Georgiche». La teodicea del lavoro 79

della frescura, la luna rugiadosa è ancora più benigna, mentre


l’armonia del canto degli uccelli riempie lidi e boschi. La
freschezza della sera è come un ritorno alla freschezza del
mattino, e la coincidenza sottolinea il carattere unitario del
polittico. È probabile che con alcune allusioni (326: ros in
tenera pecori gratissima herba, eco di Bue. 8, 15; 328: cantu
querulae rumpent arbu- sta cicadae, eco di Bue. 2, 13) Virgilio
abbia voluto richiamare la grazia delle ecloghe; ma, senza far
torto al loro incanto, qui il registro è diverso, l'armonia è più
alta: l'impressione è un po' simile a quella che si ha talvolta nel
riascoltare motivi ed espressioni della Vita nova nella Divina
Commedia.
Il meraviglioso polittico si riferisce all'Italia, i cui paesaggi e
la cui vita rustica costituiscono quasi tutta l'esperienza delle
Georgiche; ma per l'allevamento degli animali Virgilio ha
voluto ampliare l'orizzonte, offrirci un paio di squarci
etnografici: al polittico citato egli aggiunge, quindi, con un
effetto di contrasto, due quadri esotici, di colore diverso fra
loro. Il primo quadro [Gè. Ili, 339-348) si riferisce ai pastori
nomadi africani. Il deserto monotono, che si stende a perdita
d'occhio, fa da sfondo ai lunghi viaggi dei nomadi, che portano
con sé tutte le loro modeste ricchezze e nel poeta latino
suscitano il confronto con gli eserciti romani in marcia. Ecco il
deserto [Gè. HE, 341 ss.):
Saepe diem noctemque et totum ex ordine
mensem pascitur itque pecus longa in deserta
sine ullis hospitiis: tantum campi iacet
[Spesso di giorno e di notte, l'intero mese continuo, /
pascola e va il gregge privo di ripari per gli immensi /
deserti; tanto si stende la pianura].
H quadro successivo ritrae un altro deserto, quello della Sci-
zia coperta di ghiaccio, Gli abitanti sono costretti a tenere gli ar-
menti sempre al chiuso (Ge. Ili, 352 ss.):
Illic clausa tenent stabulis armenta, neque
ullae aut herbae campo apparent aut arbore
frondes; sed iacet aggeribus niveis informis
et alto terra gelu late septemque adsurgit in
80 Parie seconda. Le «Georgiche»: il poema esiodeo e lucreziano

ulnas
[Là tengono gli armenti chiusi nelle stalle, / non appaiono
erbe sulla terra o fronde sugli alberi, / ma giace
ampiamente il suolo informe per mucchi di neve / e
spesso ghiaccio: s'innalza fino a sette cubiti].
Qui non è possibile illustrare questo squarcio etnografico
virgiliano come meriterebbe. E un pezzo piuttosto anomalo
nell'opera di Virgilio. Secondo il gusto dell'etnografìa antica, vi
fanno spicco gli aspetti paradossali: i carri che viaggiano sul
ghiaccio, il ghiacciarsi dei vestiti, delle barbe, del vino. Le
bestie di allevamento muoiono in gran numero sotto la neve che
cade incessante, monotona (367: Interea toto non setius aere
ninguit)\ in compenso la caccia è facile, e gli Sciti, al contrario
di quanto ci si potrebbe aspettare, vivono sotto terra
allegramente, bevendo e giocando. Nella descrizione di Virgilio
una festosa comicità fa da contrappeso alla tristezza del deserto
invernale.
Ostile o assecondatrice, la natura non è sentita come un mon-
do sostanzialmente diverso dall'uomo, come un complesso di
forze brute opposte alla sensibilità dell'uomo, anzi è avvicinata
il più possibile alla sua sensibilità e ai suoi sentimenti:
l'umanizzazione della natura è un carattere delle Georgiche che
colpisce anche a prima vista, benché occorra poi molta cura per
coglierne tutte le manifestazioni nelle pieghe del linguaggio
poetico, specialmente nell'aggettivazione e nei verbi. In tale
modo di sentire la natura, Virgilio deve qualche cosa a
Lucrezio, il quale - almeno sul piano della sensibilità - non
distingue fra la natura come meccanismo e la natura come forza
vitale, ed è, anzi, decisamente portato a sentirla nel secondo
modo (si potrebbe parlare di un vitalismo di Lucrezio). Tuttavia
forza vitale non significa necessariamente sensibilità umana:
l'importante passaggio dall'una all'altra è piuttosto di Virgilio ed
è in piena coerenza sia col modo di sentire la natura delle
Bucoliche1 sia con la poesia del dramma umano neìl’Eneide.
D'altra parte Virgilio si preoccupa molto meno che Lucrezio di
arrivare a una concezione filosofica della natura; vi sono solo
pochi accenni, poco coerenti fra loro, probabilmente anche per
il mutare delle convinzioni di Virgilio nel periodo delle
II. Dalle «Bucoliche» alle «Georgiche». La teodicea del lavoro 81

Georgiche: nel I libro (415 ss.) egli mostra di non credere


all'ispirazione divina dei corvi che preannunziano la pioggia, e
ciò ha fatto pensare (ma la deduzione non è proprio sicura) a in-
fluenza epicurea; nel IV (219 ss.) considera le api come parteci-
panti a una mente divina, che è un soffio etereo diffuso per tut-
tala natura: la concezione del mondo è la stessa che sarà esposta
più ampiamente da Anchise nel VI deH’Eneide, e risale a uno
stoicismo misticheggiante, fortemente impregnato di
pitagorismo e platonismo. Il senso delle Georgiche non va
cercato nelle professioni filosofiche; ma, pur non essendo il
Virgilio georgico un epicureo, pur polemizzando egli, anzi,
contro la concezione epicurea, l'impronta di Lucrezio resta
grande, e non solo da un punto di vista letterario, Io direi ch'essa
è soprattutto nel contrasto non risolto fra la natura come forza
prorompente, piena di gioia e donatrice di gioia, e la natura
come forza distruttrice: se il poema lucreziano della natura si
apre con l'inno a Venere, cioè alla natura perennemente
creatrice, e si chiude coi quadri atroci della peste di Atene,
anche le Georgiche contrappongono alla natura felice,
soprattutto nella gioia della primavera, la natura che tormenta
gli animali con l'amore o li distrugge senza pietà con la peste: di
questo contrasto le Georgiche non indicano nessuna soluzione
religiosa. Di Lucrezio si può dire che egli vuole spiegare il
mondo, non giustificarlo; di Virgilio georgico che né lo spiega
né lo giustifica2.
Se la filosofìa delle Georgiche è poca e poco definita, la
forte presenza della natura, però, vi porta una tensione cosmica
che nelle Bucoliche era molto rara. Nelle Georgiche si avverte,
ed è stata sottolineata talvolta dagli interpreti, l'attenzione alle
piccole cose; l'amore della vita umile coincide non raramente
col piacere dei dettagli (secondo una tendenza che Pascoli, uno
dei poeti che più ha amato Virgilio, ha molto sviluppata).
Tornerò poi su questo aspetto; ma qui vorrei sottolineare che
l'attenzione per
i dettagli è controbilanciata dall'attenzione per le forze universa-
li della natura, dall'apertura sul cosmo (e anche questo aspetto
opposto è forte in Pascoli): tendenza più evidente nelle digres-
sioni (come quella bellissima sulla primavera in Ge. II, 315-345
o quella sull'amore in Ge. Ili, 205-283), ma sensibile anche nel
82 Parie seconda. Le «Georgiche»: il poema esiodeo e lucreziano

resto del poema.


1
0
2
88 Parte seconda. Le «Georgiche»: il poema esiodeo e lucreziano

balatu pecorum et crebris mugitibus amnes


arentesque sonant ripae collesque supini
[Risuonano del belato delle pecore e di frequenti
muggiti / i fiumi, e le rive inaridite, e i colli distesi].
Anche Ì mostri infernali escono dalle sedi loro proprie e
straripano sulla terra. Il quadro è degno di attenzione, perché fa
pensare all'azione di Aletto nel VII àél’Eneide e ancora più a
quadri simili nelle tragedie di Seneca e nella Tebaide di Stazio.
Questa catena è molto più che la trasmissione di un topos
letterario, perché rimanda a una paura di forze devastatrici
oscure e misteriose che dopo Virgilio andrà crescendo, a
un'ondata di irrazionalismo e di angoscia. Credo di potere
azzardare che il terrore di una forza diabolica e oscura pervade
anche la fine di questa descrizione della peste. Virgilio
sottolinea (559-566) che degli animali appestati non si può
utilizzare niente: né pelli né carni né lana; se qualcuno toccava
vestiti tessuti con quella lana, si copriva subito di pustole e di
IV. Le forze devastanti della natura: Amore e Morte 89

sudore immondo e un «fuoco sacro» (sacer ignis) gli divorava


le membra infette. La forza che provoca il contagio è sentita
ancora qui come una potenza magica, diabolica.
Questa Stimmung irrazionale, religiosa porta ormai lontano
da Lucrezio, ma non può certo cancellare la grande impronta
che Lucrezio ha dato al libro III. Questo della vita animale è il
libro più propriamente lucreziano, perché certamente i due
excursus ~ quello sull'amore e quello sulla morte ~ rimandano
consapevolmente all'inizio e alla fine del De rerum natura,
all'inno a Venere e alla descrizione della peste di Atene: come il
I libro era il libro esiodeo, il III è il libro lucreziano. Solo che i
due excursus di Virgilio non si contrappongono come 1 due
pezzi di Lucrezio: la descrizione della Morte si contrappone
all'inno della voluptas\ ma per Virgilio anche la voluptas, anche
l'Eros è violenza e distruzione. Come il poema di Lucrezio,
anche il IH libro delle Georgiche è libro di Amore e Morte; ma
sono cambiati i rapporti fra
i due divini compagni, divenuti ambedue forze della distruzione
e dell'assurdo.
LA FIABA TRAGICA DI ORFEO

Alla serenità luminosa, all'armonia del mondo delle api con-


tribuisce molto la mancanza dell'eros: le api non hanno bisogno
di sesso per riprodursi: raccolgono i loro figli dalle erbe e dalle
foglie {Ge. IV, 197 ss.: la scienza antica non sapeva niente delle
funzioni dell'ape regina); neppure il vecchio di Corico sembra
avere una famiglia. Se la forza devastatrice dell’Amore è
bandita da questo mondo, non si può dire lo stesso della Morte;
e tuttavia, se le api sono di breve vita, genus immortale manet
{Ge. IV, 208); la peste può distruggere gli alveari, ma le api
possono essere riprodotte con un processo che fu rivelato,
secondo la tradizione, all'eroe Aristeo. Il IV libro, dunque,
dovrebbe essere il rovescio del libro precedente e liberare il
lettore dall'angoscia che
il libro IH ha ispirato, specialmente con Yexcursus finale. La
contrapposizione è credibile,, anche perché sembra rientrare
nell'architettura generale delle Georgiche: già Yexcursus
luminoso con cui si chiude il libro II, cioè l'elogio della vita dei
90 Parte seconda. Le «Georgiche»: il poema esiodeo e lucreziano

campi, si contrappone a quello cupo con cui si chiude il libro I,


cioè la rievocazione dei prodigi seguiti alla morte di Cesare.
Tuttavia questa architettura fondata su antitesi ed equilibri
sembra più un'intenzione che una piena realizzazione:
Yexcursus finale del libro II e quello finale del I stanno
degnamente, per ampiezza e respiro, l'uno di fronte all'altro;
invece la riproduzione prodigiosa delle api da carcasse di buoi
ha nel libro IV molto meno rilievo, e per un lettore
spregiudicato che prescinda dai rapporti strutturali, il fenomeno
pare scelto solo per introdurre il lungo epillio che occupa la
seconda metà del IV libro e che risalta come un pezzo a sé. Una
notizia di Servio sulla genesi dell'epillio, anziché aiutar-

Pur all'interno di un gusto alessandrino, Virgilio ha voluto


dare ai due racconti una diversa profondità. L'epillio di Aristeo
è dominato dalla grazia fiabesca, quello di Orfeo dal pathos
della tragedia d'amore; il viaggio di Aristeo rivela le meraviglie
riposte nei segreti della natura, Orfeo l'inesorabilità del destino.
La sconfitta del canto da parte dell'amore richiama la sconfitta
di Gallo nell'ultima ecloga: pur non essendoci, forse, tra i finali
delle due opere un legame strutturale e consapevole, il ritorno
del motivo della sconfitta del poeta alla fine delle Bucoliche e
delle Georgiche sembra presupporre un dramma vissuto dal
grande intellettuale dell’età augustea. Altri fili più importanti
legano Tepillio di Orfeo come canto di Amore e Morte al libro
HI, dove Amore e Morte sono i motivi predominanti. Le due
grandi forze distruttrici della vita erano state esorcizzate dal
IV. Le forze devastanti della natura: Amore e Morte 91

mondo delle api; ma tornano a dominare, invincibili, attraverso


il velo fiabesco del mito di Orfeo. Anche del velo fiabesco,
però, va tenuto conto: l’incanto dell’epillio, come quello della
poesia pastorale, sembra attutire i colpi del destino, velare la
tragedia. E l’eros, sebbene forza .terribile, sebbene follia fatale,
conserva qui, più che in altre pagine della poesia d’amore
virgiliana, qualche cosa della divina follia.
L'ARCHITETTURA DELLE «GEORGICHE»

Uno svolgimento puramente didascalico del poema difficil-


mente avrebbe potuto esprimerne tutto il senso ideologico. Ma
Virgilio poteva approfittare dei proemi e dei pezzi finali di cia-
scun libro, ai quali recentemente Lucrezio aveva dato uno svi-
luppo nuovo; inoltre egli moltiplicò le digressioni, ma nello
stesso tempo si preoccupò di legarle profondamente all'opera
affidando loro l'espressione più ampia e più esplicita dei motivi
idea
li, di togliere loro il carattere esornativo. In questo processo di
composizione egli utilizzò certamente esperienze di Esiodo, di
Lucrezio, di Arato, di poeti ellenistici per noi perduti; ma l'opera
che ne venne fuori, carica di digressioni eppure generalmente
armonica, era, anche dal punto di vista architettonico, qualche
cosa di veramente nuovo. Benché nella composizione delle
Georgiche parecchi problemi restino insoluti, possiamo fissare
un disegno d'insieme, in cui i singoli libri hanno una larga
autonomia e all'interno di ciascun libro ogni sezione è
contraddistinta da una propria digressione:
Libro I. Cereali
1-41 Proemio.
42-203 Lavori per la coltivazione dei cereali.
Digressione: la teodicea del lavoro, 118-159.
204-350 Tempi dei lavori e calendario.
Digressione: l'origine del calendario, 231-258.
351-514 Pronostici del tempo.
Digressione: i prodigi seguiti all'assassinio di
Cesare, 464-514.
Libro II. Piante
92 Parte seconda. Le «Georgiche»: il poema esiodeo e lucreziano

1-8 Proemio.
9-258 Coltivazione delle piante in generale; varietà delle
pian
te, dei lavori, dei climi, dei terreni.
Digressione: le lodi delTItalia, 136-176.
259-419 Coltivazione della vite.
Digressione: le lodi della primavera, 315-345.
420-540 Coltivazione di altre piante di particolare interesse,
come l’olivo, il melo ecc.
Digressione: le lodi della vita agreste, 458-540.
Libro IH. Animali
1-48 Proemio.
49-283 Allevamento del bestiame grosso.
Digressione: l’amore, 205-283.
284-566 Allevamento del bestiame piccolo, capre e pecore.
Digressione: la peste degli animali nel Norico, 470-
566.
Libro IV. Api
1-7 Proemio.
8-280 Allevamento delle api e loro natura.
Digressione: il vecchio di Corico, 116-148.
281-558 Riproduzione delle api distrutte dal morbo.
Digressione: il mito di Aristeo e di Orfeo, 315-558.
559-566 «Sigillo» finale.
Struttura tripartita nei primi due libri, bipartita negli altri due.
Ma l’ampiezza e il carattere dei proemi uniscono chiaramente il
I libro al III, il minor respiro dei proemi con la semplice funzio-
ne di argumenta unisce il II al IV. Le digressioni finali sono le
più ampie e le più importanti. Il finale del I libro è di tono cupo,
quello del II di tono lieto, quello del III di nuovo di tono cupo:
ci aspetteremmo nel IV un finale lieto. L’epillio di Aristeo, por-
tando incastrato dentro di sé l’epillio di Orfeo, può dirsi tale fino
a un certo punto; le lodi dell’Egitto, se veramente costituivano il
finale del libro IV nell’edizione originaria, rispettavano l’al-
ternanza dei toni.
L’alternanza dei toni vale anche per gli interi libri oltre che per i
pezzi finali? Si può rispondere di sì, ma le opposizioni sono
certamente più tenui: la fatica umana, come abbiamo visto, è più
IV. Le forze devastanti della natura: Amore e Morte 93

dura nel libro I, meno nel E; il mondo delle api è molto più
luminoso e sereno di quello degli altri animali; ma per i primi
tre libri si può parlare solo di toni predominanti, non di tono
uniforme; anzi anche le differenze di tono all'interno di ciascun
libro hanno una funzione importante.
Le digressioni non sono sempre legate alle singole sezioni
quanto alla materia, ma - ripeto - sono legate intimamente ai
motivi ideali dell'opera. L'architettura è complessa, forse anche
complicata; tuttavia il disegno d'insieme è classico 1.
Dentro questo disegno Virgilio non poteva, ma ancora meno
voleva, abbracciare tutta la materia dell'agricoltura: sia perché
l'opera non aveva un fine tecnico, sia perché la poesia deve
sempre scegliere l'essenziale (non rispecchiare la realtà, ma
interpretarla) e proprio la poesia classica ha avuto la coscienza
più profonda di tale compito.
Non ego cuncta meis amplecti versibus opto,
non, mihi si linguae centum sint oraque
centum, ferrea vox (Ge. II, 42 ss.)
[Non desidero abbracciare tutto con questi miei versi, /
neanche se avessi cento lingue e cento bocche, / e ferrea
voce].
H procedimento selettivo induce a tralasciare i legami di un
punto con l'altro; né i criteri di selezione riescono sempre chiari;
a volte, inoltre, Virgilio preferisce affidarsi ad associazioni
spontanee, di carattere intuitivo, più che a legami logici. Per
questi e per altri motivi le articolazioni secondarie delle
Georgiche presentano difficoltà serie, a volte insolubili.
1
1
8
104 Parte seconda. Le «Georgiche»: il poema esiodeo e lucreziano

Sed fugit interea, fugit inreparabile tempus,


singula dum capti circumvectamur amore
[Ma fugge intanto, fugge l'irreparabile tempo / mentre
presi da amore ci aggiriamo tra i singoli argomenti].
L’amore delle piccole cose si unisce talvolta, e con
insistenza nel libro IV, al delicato lusus che consiste nel
parva... componere magnis {Ge. IV, 176), nel confrontare le
cose piccole alle grandi: gli alveari alle città e alle fortezze
degli uomini, il lavoro alacre delle api per costruirli al lavoro
dei Ciclopi nella loro grande officina nel cuore dell’Etna.
A parte questo lusus di gusto ancora alessandrino, v’è nelle
Georgiche una spinta autentica al grandioso. L’eleganza
callima- chea e neoterica voleva essere il contrario del sublime;
le Georgiche, pur portando quell’eleganza a un punto di
perfezione, non rinunciano al sublime. H soffio dell’epica
omerica s’.avverte in vari modi, soprattutto, credo, nelle
similitudini. I livelli più alti sono toccati nel libro III, più
precisamente nella parte dedicata agli animali da armento,
VII. Orientamenti generali nello stile delle «Georgiche» 105

cavalli e tori. Le prime prove sicure del cavallo destinato alle


grandi gare di corsa fanno pensare all’impeto del vento del nord
(Ge. HI, 196 ss.):
qualis Hyperboreis Aquilo cum densus ab
oris incubuit Scythiaeque hiemes atque
arida differt nubila: tum segetes altae
campique natantes lenibus horrescunt
flabris summaeque sonorem dant silvae
longique urguent ad litora fluctus...
[Come Aquilone quando prorompe violento / dalle
plaghe iperboree e disperde le tempeste della Scizia / e le
aride nubi: allora le alte messi e i campi ondeggianti /
rabbrividiscono ai lievi soffi, le cime delle selve /
stormiscono, e lunghi flutti urgono a riva...].
H toro esule che, sanate le ferite, si prepara a sfidare di nuo-
vo il rivale vincitore, fa pensare al flutto che dall’alto mare
s’avvicina alla spiaggia ingrossandosi e poi scaglia sulla terra
tutta la sua furia {Ge. Ili, 237 ss.):
fluctus uti medio coepit cum albescere
ponto, longius ex altoque sinum trahit,
utque volutus ad terras immane sonat per
saxa neque ipso monte minor procumbit; at
ima exaestuat unda verticibus nigramque
alte subiectat harenam
[al pari di un flutto, quando comincia a biancheggiare da
lontano / in mezzo al mare, e dal largo trae la sua curva, e
rovesciandosi / verso terra risuona immane tra le rocce e
ricade / non meno grande di un monte; Tonda ribolle dal
fondo / i vortici e scaglia in alto nera sabbia].

In ambedue questi casi sono evidenti gli effetti musicali (ot-


tenuti, per esempio, con onomatopee, allitterazioni), che risen-
tono della grande tradizione enniana e lucreziana.
Naturalmente sono soprattutto i proemi maggiori (cioè quelli
del I e del III libro) e le digressioni ad alzare il tono. Al sublime
Virgilio è spinto, senza contare altre ragioni, dal soffio potente
di Lucrezio, il poeta di cui egli è più impregnato negli anni
delle Georgiche. Ancora una volta, però, il confronto con Lu-
106 Parte seconda. Le «Georgiche»: il poema esiodeo e lucreziano

crezio mostra la novità della via seguita. Il sublime di Lucrezio


è quasi continuo, perché si regge su una tensione pressoché co-
stante del suo enthousiasmós: questo poeta bramoso della
quiete non nutre quasi mai sentimenti che non siano esasperati,
o nel senso della violenza o nel senso della dolcezza e
dell'incanto. Nelle Georgiche la tendenza al sublime è tanto
forte quanto la tendenza alla varietà dei toni, alla poikilta cara
agli alessandrini: dalla precettistica piana, paziente, minuta
all'accensione lirica dei brani luminosi sulla primavera o di
quelli foschi sui prodigi per la morte di Cesare o sulla peste la
gamma è ricca. I toni sono distribuiti secondo criteri che a noi
talora sfuggono; è certo, però, che la loro varietà è uno degli
elementi essenziali dell'armonia e dell'arte propria delle
Georgiche,
vni

La voce Georgiche neWEn ciclop e dia Virgiliana si trova


nel volume II alle pp. 664-698. Il capitolo dedicato da W.
Batstone alle Ge. in The Cambridge Companion to Virgil, ed.
by Ch. Mar- tindale, Cambridge-New York 1997, pp. 125-144,
risulta, in conformità con T orientamento del volume, piuttosto
generico e indulgente ad alcuni luoghi comuni. Più efficace, nel
limite degli aspetti affrontati, Horsfall in A Companion to the
Study of Virgil, Leiden-New York-Kòln 1995, pp. 63-100.
Si può dire che la linea perseguita da Clausen per le
Bucoliche è ripresa per le Ge. dal suo scolaro Richard Thomas,
con rischi maggiori, in quanto il poema didascalico, a
differenza del liber bucolico, non scaturisce da una scelta
poetica alessandrina. Thomas con una serie di lavori specifici
(R.F. Thomas, From Recusatio to Commitment. The Evolution
of the Vergilian Programme, in «Pap. of the Liverpool Latin
Sem.», 5,1986, pp. 51-73; Id., Virgil's Georgies and the Art of
Reference, in «Harv. Stud, in Class. Philol.», 90,
1986, pp. 171-198; Id., Old Man Revisited: Memory, Reference,
and Genre in Virg.} Georg. 4, 116-148, in «MD - Mater, e disc.
p. Tan. d. test, class.», 29, 1992, pp. 35-70; ecc.) ha cercato di
VII. Orientamenti generali nello stile delle «Georgiche» 107

incrementare la serie di rimandi alla poesia alessandrina.


E una tendenza rispecchiata nella sua edizione commentata
(in due volumi, Cambridge 1988), per la quale è inevitabile un
confronto con quella del più blasonato R.A.B. Mynors, Oxford
1990, uscita postuma per le cure di R.G.M. Nisbet. Non è pos-
sibile qui esprimere un giudizio comparativo senza poterlo so-

* Questo capitolo è stato scritto da Alessandro Perutelli.


stenere con adeguati esempi: tuttavia i due lavori sono entrambi
da considerarsi molto importanti. Thomas sarà più utile nell’in-
dagine su singoli rimandi interni ed esterni (soprattutto alessan-
drini), Mynors eccelle nell’interpretazione dei passi importanti
e del poema nel suo complesso, In Thomas non compaiono le
introduzioni alle singole sezioni, che caratterizzano in positivo
il lavoro di Mynors (costituiscono oggi il punto di partenza
fondamentale per ogni studio su singole sezioni del poema), ma
in Mynors non vi sono tutti i riferimenti puntuali proposti da
Thomas.
Oltre a questi due commenti, merita di essere ricordato quel
lo al IV libro di A. Biotti (con una prefazione di N. Horsfall,
Bologna 1994), che si fa apprezzare soprattutto per la grande
ricchezza di informazioni su qualsiasi tipo di problema.
L. Nosarti, Studi sulle Georgiche di Virgilio, Padova 1996, a
parte un primo capitolo sulla peste nel Norico, si concentra a ri-
pensare i grandi problemi del IV libro, fornendo anche un dovi-
zioso repertorio bibliografico.
Un discrimine tra due correnti interpretative delle Ge. oppo-
ne una lettura in chiave ottimistica a una pessimistica (che
affiora tra l’altro nel commento di Thomas, epigono della
scuola di Harvard): la compresenza dei due sentimenti era già
stata ammessa in studi precedenti: tuttavia ha tentato ima nuova
conciliazione Chr. Perkell, The Poet’s Truth. A Study ofthe Poet
in Virgili Georgics, Berkeley 1989, la quale esamina senza
pregiudizi l’atteggiamento del poeta di fronte alle singole
occasioni del poema. Un orientamento per certi versi analogo si
scorge nel volume di L. Morgan, Patterns of Redemption in
Virgil’s Georgics, Cambridge-New York 1999. Una più
importante proposta di lettura proviene dal volume di J. Farrell,
VergiVs Georgics and thè Tradition of Ancient Epic, New
108 Parte seconda. Le «Georgiche»: il poema esiodeo e lucreziano

York;-Oxford 1991, il quale percepisce, nell’incremento


progressivo dei riferimenti a Omero, il segno che il poema
didascalico costituisce un momento fondamentale di raccordo
tra bucolica ed epos nella carriera poetica di Virgilio (su una
prospettiva analoga si muove L. Landolfi, Preannunci di
(
epische Technik’ nelle Georgiche, in «Pan», 8,
1987, pp. 55-73).
Il linguaggio militare e politico e le immagini che con esso
si compongono nelle Ge. sono stati analizzati (con qualche so-
vrainterpretazione) nella dissertazione di H. Heckel, Das
Wider- spengstige zähmen: die Funktion der militärischen und
politischen Sprache in Virgils Georgica, Trier 1998. H lessico
dell5umanizzazione della natura è visto da M. Carilli, Aspetti
lessicali delVu- manizzazione di elementi naturali nelle
Georgiche, in «Civ. class, crist.», 7, 1986, pp. 171-184. Più
specifica la ricerca di F. Cu- paiuolo, Alcune osservazioni
sull*esametro delle Georgiche di Virgilio, in «Boll. stud, lat.»,
15, 1985, pp. 3-17.
Le filosofie e la concezione dell'universo presupposte nelle
Ge. sono state esplorate e definite in modo eccellente da D.O.
Ross Jr., Virgil's Elements. Phisics and Poetry in the Georgies,
Princeton 1987.
Per gli aspetti tecnici, sono uscite due importanti
monografie: sulla coltivazione dei campi M.S. Spurr, Arable
Cultivation, in «Journ. Rom. Stud. Monographs», 3, 1986; il
lessico botanico di Virgilio è stato sistematicamente esaminato
da G. Maggiulli, In- cipiant silvae cum primum surgere, Roma
1995.
Pochi (se si fa eccezione per l'epillio del IV libro) i lavori su
singoli episodi esaminati nel loro complesso. Sulla prima
digressione del poema cfr. E. Leonotti, Il primo excursus delle
Georgiche (Georg. 1, 118-159), in «Civ. class, crist.», 10, 1989,
pp. 363-403. Per la chiusa del III libro J. Foster, The End of the
Third Geòrgie, in «Proc. Virg. Soc.», 19, 1988, pp. 32-45,
stabilisce connessioni della narrazione della peste con
l’assoggettamento dei popoli settentrionali. Ad altri episodi,
soprattutto in riferimento all’influsso di Lucrezio, sono dedicati
alcuni saggi di Luciano Landolfi (ad es. Durus amor
Uecfrasigeorgica sull'insania erotica, in «Civ. class, cri- st.», 6,
VII. Orientamenti generali nello stile delle «Georgiche» 109

1985, pp. 177-198; Id., Virgilio, Lucrezio e le Landes veris, in


«Quad, urbin. cult, class.», 49,1985, pp. 91-109).
Sulla questione delle pretese laudes Galli nella I edizione
delle Georgiche si registrano numerosi nuovi interventi, tra cui
ricordiamo almeno H. Jacobson, Aristaeus, Orpheus, and the
laudes Galli, in «Am. Journ. of Philol.», 105, 1984, pp. 271-
300.
Sul significato dell’intreccio tra i due miti di Aristeo e Orfeo
è importante il saggio di J. Griffin, The Fourth Geòrgie: Virgil
and Rome, versione migliorata di un articolo precedente inserita
in Id., Latin Poets and Roman Life, London 1985, pp. 165-182.
In tale saggio è possibile reperire un’amplissima bibliografia
sull'episodio. Vi è ritornato di recente anche G.-B. Conte nel
cap. IV del volume Virgilio. Uepica del sentimento, Torino
2002, pp. 65- 89 (giaAristeOj Orfeo e le Georgiche: una
seconda volta, in «Stud. class, e or.», 46, 1996, pp. 103-136).
Rivisita vecchie posizioni, che vedevano in Orfeo una sorta
di controfigura dello stesso Virgilio, M.O. Lee, Virgil as
Orpheus: a Study ofthe Georgics, Albany 1996; su più solidi
riscontri testuali l'accostamento a Enea proposto da L.
Bocciolini Palagi, Enea come Orfeo, in «Maia», 42, 1990, pp.
133-150. Sulla tecnica narrativa delTepillio nuove
considerazioni di A. Perutelli, La poesia epica latina, Roma
2000, pp. 63-73.
L«ENEIDE»: IL COSTO TRAGICO DEL POTEEE
1
1 EPICO AUGUSTEO
L’ATTESA DEL POEMA
0

La famosa notizia che Virgilio, sentendo la morte vicina,


raccomandasse agli amici Vario e Tucca di bruciare YEneide
non è incredibile: la religione della perfezione compositiva e
stilistica era in lui tale che la prospettiva di far circolare
un’opera imperfetta, tale da prestarsi facilmente agli attacchi
dei critici, doveva tormentarlo. Si può congetturare che qualche
tormento lo prendesse anche quando, finite le Georgiche,
limatele alla perfezione, si accinse al poema epico. Certamente
un poema che contribuisse alla gloria del nuovo Cesare, reduce
dalle vittorie in Oriente, rifondatore dello Stato, restauratore
della coscienza morale, religiosa, politica; ma quale contenuto
dargli? Naturalmente lo stile doveva essere alto, come
richiedeva la tradizione epica e ancora più esigeva la dignità del
personaggio da celebrare; YEneide è la manifestazione più
importante e più evidente di un avvio della poesia latina verso
una grandiosità che corrispondesse a quella della Roma
restaurata e dell’impero, avvio che si avverte, in modi diversi,
in Orazio lirico e in Properzio (un orientamento affine a quello
che si avrà, per esempio, sul modello augusteo al tempo del Re
Sole); come variarlo, a quali tradizioni poetiche rifarsi e come
rielaborarle in modo che l’originalità e la modernità non
restassero schiacciate dagli auctoresì
Quando la composizione era già incominciata, quando si sa-
peva che il protagonista era Enea e che il poema avrebbe com-
portato una celebrazione della vittoria di Azio, Properzio (II,
34, 61-66) annunciava entusiasta che qualche cosa di più
grande del- YIliade stava nascendo; ma ancora due o tre anni
prima, subito dopo la composizione delle Georgiche, l’attesa
più diffusa nel
1
1
pubblico non era quella di un poema omerico che gareggiasse
con Omero: l'attesa era rivolta 1ad un poema epico-storico che
avesse il nuovo Cesare come protagonista o in cui egli avesse,
comunque, un posto molto rilevante. Innanzi tutto va ricordato
che i poeti latini non avevano mai scritto ex novo un poema
epico di tipo omerico, cioè di argomento mitico e di vaste
dimensioni: Livio Andronico aveva tradotto V Odissea; poeti di
scarsa fama tradussero Ylliade; Gneo Mazio, tra la fine del II e
l'inizio del I sec. a.C., e Ninnio Crasso, probabilmente
contemporaneo, tradussero Ylliade; nello stesso periodo un
poeta di nome incerto, forse Nevio (ma si sospetta che sia lo
stesso Ninnio), tradusse uno dei poemi ciclici, le Ciprie (Cypria
Ilias); invece i poemi epici di temi originali furono, da Nevio ed
Ennio in poi, poemi storici. Dopo Ennio per circa un secolo la
storiografia in prosa emarginò anche il poema storico: solo
negli ultimi decenni del II sec. a.C. compaiono oscuri poeti che
riprendono questo genere letterario: Ostio, autore di un Bellum
Histricum che comprendeva una campagna di guerra svoltasi
nel 129 a.C.; Furio Anziate, probabilmente lo stesso a cui
Lutazio Catulo dedicò un'opera di storia in prosa sulle proprie
imprese. Una fioritura più visibile si ebbe nei due decenni che
precedono il periodo augusteo. Cicerone, oltre ad un poemetto
sulla giovinezza di Mario, scrisse poemi storici più impegnativi,
uno sul proprio consolato e sulla repressione della congiura di
Catilina - impresa per la quale egli si considerava salvatore
della patria - un altro sulle vicende del proprio esilio. Poesia del
genere, di forte impronta enniana, veniva considerata con
disprezzo dai nuovi poeti (notissima la qualificazione
graveolente coniata da Catullo per gli annales Voltisi), ma
veniva richiesta da personaggi politici in cerca di gloria.
Cicerone vagheggiò per un momento il disegno di un poema
epico sulle imprese di Cesare in Gallia. H grande conquistatore
1
1
riusci poi a trovare di meglio proprio fra i poeti che seguivano
2 con tutta probabilità, scrisse
la nuova moda: sulla guerra gallica,
un poema Furio Bibaculo, e su una campagna della guerra (il
Bellum Sequa- nicum) Varrone Atacino, dunque un poeta che
dalla Gallia proveniva, lo stesso che tradusse elegantemente
Apollonio Rodio. Si può supporre che la nuova arte volesse
sposare la sua grazia alla veneranda tradizione enniana senza
distruggerla; o si può supporre, specialmente nel caso di
Varrone Atacino, che la poesia epico-storica si collocasse in una
prima fase. Superfluo aggiungere che il nuovo orientamento
ellenizzante della poesia, da cui nell'epica nacquero alcuni
poemetti di raffinata eleganza e di intenso pathos, si dimostrò
più vitale della tradizione epico-storica, ma non la emarginò né
la sommerse.
1
1
3
n

LA SCELTA DELLA LEGGENDA DI ENEA

Una volta scartato il poema epico-storico, la scelta della leg-


genda di Enea come tema di un poema «omerico» romano po-
trebbe apparire come quasi ovvia, ma una tale conclusione pog-
gerebbe su un presupposto che non è ovvio affatto: sul presup-
posto, cioè,, che la leggenda di Enea fosse da secoli leggenda
«popolare» e «nazionale». Invece alla domanda se, verso la
metà del
I sec. a.C., la leggenda di Enea fosse «popolare» e «nazionale»
è difficile rispondere con un sì o con un no. Innanzi tutto sarà
opportuno precisare che cosa intendiamo qui con questi termini
moderni. Con leggenda «popolare» intendiamo che essa è diffu-
sa ampiamente al di là delVélite cólta (che, com’è ben noto, nel
mondo latino era di gran lunga più ristretta di quanto non sia og-
gi in Europa); con leggenda «nazionale» intendo che essa servi-
va a dare al popolo romano un'identità contrapponibile a quella
di altri popoli. Ora è discutibile che prima di Augusto la
leggenda di Enea avesse queste caratteristiche.
Resta pur sempre incerto quando la leggenda di Enea si sia
saldata con quella di Romolo, ed Enea, figlio di Venere, sia di-
ventato. il progenitore del popolo romano 1. Fino ad una trentina
di anni fa, si riteneva, per lo più, che la leggenda di Enea scam-
pato all’eccidio di Troia ed emigrato in Italia fosse arrivata a
Roma attraverso TEtruria. Che la leggenda fosse nota agli
Etruschi ci è attestato da vasi e statuette. Su ima oinochóe,
conservata presso la Bibliothèque Nationale di Parigi e risalente
alla fine del VII sec. a.C., è raffigurata una Uiupersis; in una
scena vediamo un uomo con un bastone e una donna
accompagnata da due bambini2. In questo caso ridentificazione
delle figure con Enea e la moglie è solo un’ipotesi attraente; ma
in due vasi del V sec. a.C., provenienti dall’Etruria, si
riconoscono con certezza Enea e membri della sua famiglia. Su
un’anfora proveniente da Vulci, conservata
neU’Antikensammlung di Monaco e risalente al 470/460 a.C.,
II. La scelta della leggenda di Enea 115

sono raffigurati Enea che porta Anchise sul dorso, Ascanio,


Creusa; quest’ultima porta un piccolo vaso, che forse contiene
oggetti sacri3. Su un vaso di cornalina, conservato nella
Bibliothèque Nationale di Parigi e risalente anch’esso al primo
quarto del V sec. a.C., troviamo Enea con Anchise sul dorso;
Anchise porta in mano una cista, che contiene, probabilmente,
oggetti sacri della città4. Di datazione più incerta sono le ben
note statuette provenienti da Veio e conservate a Roma nel
Museo di Villa Giulia, raffiguranti Enea con Anchise sul dorso:
datate un tempo nella prima metà del V sec. a.C., ora vengono
collocate nel IV5. Raffigurazioni come queste, simili ad altre che
conosciamo da pitture vascolari greche dei secoli VI e V a.C.,
non offrono nessun appiglio per connettere la leggenda di Enea
con la fondazione di Roma.
116 Parie iena. L’«Eneide»: il costo tragico del potere

morfosi. L'episodio nello stesso tempo evoca e crea lo


sfondo orrido e tragico della Tracia e incomincia in tono alto e
cupo la narrazione del viaggio.
Dopo la delusione della prima speranza Enea cerca un'indi-
cazione dall'oracolo di Apollo in Deio (Aen. Ut, 68-120); anche
il viaggio a Deio si trova, brevemente annotato, in Dionigi (Ant.
Rom. I, 50, 1), cioè era nella tradizione storico-antiquaria (Dio-
nigi accenna anche a testimonianze archeologiche del passaggio
dei Troiani); anche secondo Dionigi re dell'isola è Anio, sul
quale esisteva un'ampia e molteplice leggenda22. Invece non
troviamo in Dionigi il viaggio di Enea a Creta (Aen. Ut, 121-
191): probabile che esso sia un'innovazione di Virgilio,
suggerita da connessioni onomastiche e rituali fra Creta e la
Troade (in ambedue i paesi c'era un monte Ida, e il culto dei
Cureti presentava somiglianze rituali con quello di Cibele).
Il viaggio a Creta è una nuova delusione; torna un cupo
smarrimento, ma, da un sogno in cui gli appaiono i Penati, Enea
ricava almeno una certezza: deve cercare la terra di Esperia,
quindi deve navigare verso occidente.
Dopo la partenza da Creta i Troiani devono affrontare una
violenta tempesta di ben tre giorni; poi approdano alle isole
Stro- fadi. Dionigi (Ant. Rom. 1,50, 2-4) non conosce queste
isole, ma informa su una lunga sosta nell'isola di Zacinto. Fra
Zacinto e le Strofadi la distanza è di 45 km: il corso della
navigazione, come si vede, differisce di poco. Ma prima di
Zacinto Dionigi segnala una sosta a Citerà, dove Enea innalza
un tempio ad Afrodite (l'isola era ben nota per il culto della
dea). Secondo una tradizione Zacinto era imparentata con Troia:
infatti l'eroe eponimo dell'isola era figlio di Dardano. Anche a
Zacinto Enea erige un tempio alla madre e istituisce riti, ancora
celebrati al tempo di Dionigi; un altro tempio ad Afrodite erige
in un'isoletta presso Leu- cade. La sosta dei Troiani nelle
Strofadi è insozzata dall'assalto delle Arpie e segna l'esperienza
di più ripugnante orrore durante il viaggio. Tutto l'episodio è
un'innovazione di Virgilio, che, com'è noto, ha preso lo spunto
da Apollonio Rodio.
Dopo il culmine di orrore la narrazione si rasserena. I Troia-
ni si fermano ad Azio (luogo fatidico), approdano poi a Butroto
e qui hanno il lungo incontro con Andromaca ed Eleno: episo-
II. La scelta della leggenda di Enea 117

dio ampio e centrale del libro, con una funzione importante an-
che nel complesso del poema, carico di senso e di poesia. Per
l'itinerario, a cui qui ci limitiamo, la traccia si poteva rinvenire
nella tradizione: anche' secondo Dionigi (Ant. Rom. I, 50, 4-51,
2) Enea passava per Azio, approdava poi nel porto di Butroto e
di là raggiungeva l'oracolo di Dodona; in quell’occasione
incontrano i Troiani ivi stanziati sotto la guida di Eleno.
Durante la navigazione lungo le coste sud-orientali
dell'Italia, Virgilio {Aen. Ut, 533-547) colloca una sosta presso
il Castrum Minervae (nella penisola Salentina, poco prima della
punta estrema): la sosta è segnalata anche da Dionigi (Ant. Rom.
I, 51, 3), ma egli ne segnala un'altra, per un'offerta votiva ad
Era, al capo Lacinio, mentre in Virgilio (Aen. Ili, 552) i Troiani
vedono il tempio dal mare. In Sicilia Dionigi (Ant. Rom. I, 52)
pone una sola sosta, presso Aigestos, sulle cui vicende si
sofferma relativamente a lungo, e narra l'incendio delle navi da
parte delle donne, che Virgilio colloca nel libro V, durante il
secondo passaggio di Enea nell’isola23. Giustamente si ritiene
che siano innovazioni virgiliane l'episodio di Achemenide (col
recupero del Polifemo omerico) e la morte di Anchise in Sicilia.
E chiara anche la ragione dell’aggiunta dell’episodio di
Achemenide: Virgilio vuole esaltare, in contrapposizione con i
Greci, il comportamento dei Romani verso i nemici supplici; i
Troiani mantengono i loro princìpi morali anche dopo avere
sperimentato la perfìdia dei Greci. Notevoli, infine, le
coincidenze nel corso della navigazione lungo le coste
meridionali del Tirreno: Dionigi (Ant. Rom. 1,53, 2-3) segnala
le tracce lasciate in varie località dal passaggio dei Troiani:
Palinu- ro, Leucosia (dal nome di una cugina di Enea), Miseno,
Prochy- ta, Caieta: come si vede, in Virgilio mancano Leucosia
e Prochy- ta (che, però, era in Nevio: fr. 9 Mariotti). Dionigi
conosce l'approdo finale di Enea nella zona di Laurento (Ant.
Rom. 1,53, 3), mentre Virgilio fa entrare i Troiani, avvolti dalla
luce dell'aurora, nella foce del Tevere24.
Non abbiamo segnalato ancora la differenza più vistosa:
Dionigi non conosce la sosta di Enea a Cartagine né Didone;
per questa parte, così importante, del poema Virgilio ha preso lo
spunto, anche se solo lo spunto, dal poeta latino arcaico Nevio.
Questa ascendenza non è una certezza esente da dubbi, tuttavia
118 Parte terza. L‘«Eneide»; il costo tragico del potere

è una conclusione probabile e largamente accettata;


probabilmente da Nevio veniva l'interpretazione della tragedia
di Didone come causa dell’inimicizia, lunga e mortale, fra
Cartagine e Roma25. L’innovazione di Nevio non passò nella
storiografìa e nell’antiquaria greche e non trovò credito neppure
presso gli storici latini: fu Virgilio a renderla immortale. Questa
differenza vistosa conferma quanto si ricavava già dai confronti
precedenti: Virgilio ci tiene a mostrare che egli segue un filo
già tessuto dalla tradizione, storica e antiquariale o poetica; ma
dimostra, nello stesso tempo, che egli si ritiene libero di
modificare alcuni elementi e di introdurne altri non marginali.
Quando si parla di elementi nuovi, non si vuole escludere che in
essi siano presenti altre tradizioni, estranee alla leggenda di
Enea, come, per esempio, Euripide nella tragedia di Polidoro,
Apollonio Rodio e ancora Euripide nella tragedia di Didone.
Il comportamento è press’a poco lo stesso nella seconda par-
te del poema (tutt’al più si potrà riscontrare qualche differenza
nella misura dell’innovazione): Virgilio parte da una trama for-
matasi attraverso l’annalistica e l’antiquaria romana, ma opera
grossi spostamenti e introduce ampie innovazioni. Anche
Dionigi (Ant. Rom. I, 55, 3 s.) conosce il fausto prodigio delle
mense divorate dai Troiani (cfr. Aen. VH, 107-148); prima, cioè
subito dopo l’approdo, Dionigi (Ant. Rom. 1,55,19) pone un
altro prodigio, omesso da Virgilio: dalla terra arida sprizza una
sorgente d’acqua per i Troiani assetati.
Latino, Mezenzio, le guerre di Enea nel Lazio erano nell’an-
nalistica arcaica (particolarmente importanti le Origines di
Catone); senza addentrarci nella complicata questione 26,
vediamo la sistemazione che Dionigi, sulla base dell’annalistica
romana, ha data al racconto delle guerre di Enea nel Lazio. Al
suo arrivo, il re Latino è in guerra contro i Rutuli, Avvisato
dello sbarco degli stranieri (che ritiene Greci), muove contro di
loro, ma un ammonimento divino lo induce a cercare la pace
con gli immigrati; nella stessa notte Enea è ammonito dai Penati
a trovare un accordo col re Latino (Ant. Rom. I, 57, 2-4). Si
conclude un’alleanza fra i Troiani (considerati come Greci) da
un lato e Latini e Aborigeni dall’altro (Ant. Rom. I, 58-59, 1).
Gli alleati conducono una campagna contro i Rutuli; intanto
Enea fonda Lavinio; Dionigi, che ama la documentazione
II. La scelta della leggenda di Enea 119

archeologica, riferisce che nell 'agorà di Lavinio si trovano


ancora le statue in bronzo di un lupo, un’aquila e una volpe, che
furono personaggi di una vicenda prodigiosa alla fondazione
della città (Ant. Rom. I, 59, 25), awenuta due anni dopo la
partenza dalla Troade (63, 1-2). Nell'alleanza di Troiani e Latini
figurano altre componenti etniche, tutte di origine greca: gli
Aborigeni (all'inizio Greci provenienti dal Peloponneso al
séguito di Oinotro, trasferitosi dall'Arcadia), i Pelasgi
provenienti dalla Tessaglia, gli Arcadi di Evandro {Ant. Rom. I,
60, 3). Vinti una prima volta, i Rutuli si ribellano; il loro capo è
Tirreno - cugino di Amata, la regina dei Latini - irritato per le
nozze di Enea con Lavinia, figlia del re Latino. In battaglia
cadono sia Latino sia Tirreno, quattro anni dopo (quindi sette
anni dopo la partenza dalla Troade) muore anche Enea; i Rutuli
trovano un potente alleato in Mezenzio, re dei Tirreni (Ant Rom.
I, 64, 2-65,1). Latini e Troiani cercano un accordo con
Mezenzio, ma le trattative falliscono: il tiranno etrusco pone
condizioni esose: richiede le primizie della vendemmia. Ma
Latini e Troiani, guidati da Ascanio, il figlio di Enea, con un
attacco notturno a sorpresa, infliggono a Mezenzio una grave
disfatta. Nella battaglia muore Lauso, figlio del tiranno, e la
morte lascia nel padre un disperato dolore. La guerra si
conclude con una pace fra Mezenzio e Ascanio; si noterà che
Mezenzio sopravvive alla guerra.
Vediamo ora, succintamente, come Virgilio ha modificato il
quadro e le vicende. Enea e Latino, seguendo, l'uno e l'altro, se-
gni mandati dai fati, stringono un patto; Turno (il Tirreno di
Dionigi) e la regina Amata lo rompono e fanno scoppiare la
guerra, in cui i Latini, contro il volere del loro re, si trovano
dalla parte dei Rutuli, Turno ha un potente alleato in Mezenzio,
ma questi, tiranno etrusco cacciato da Cere a furor di popolo,
non ha dietro di sé gli Etruschi: costoro, combattendo contro il
tiranno, sono alleati dei Troiani. Altri alleati dei Troiani sono,
come in Dionigi, gli Arcadi di Evandro. Nella guerra cade
dapprima Lauso, il figlio di Mezenzio; segue di poco la morte
dello stesso Mezenzio, che cerca invano di vendicare il figlio;
l'ultimo a morire, nel poema, è Turno (come Ettore nell 'Iliade);
Enea e Latino sopravvivono. I personaggi della tradizione
annalistica rimangono, ma la vicenda viene sconvolta da
120 Parte terza. L‘«Eneide»; il costo tragico del potere

Virgilio, che aggiunge due personaggi da lui coniati: Drance, il


demagogo nemico di Turno, e Camilla, che ha un lontano
modello nellEtiopide del ciclo epico27. Anche così sconvolta la
vicenda, restava un vuoto: non c'era la città assediata, elemento
essenziale nell'Iliade. Poiché Lavinio veniva fondata da Enea e
non poteva figurare come capitale dei Latini, Virgilio ha
inventato la città di Laurento: l5annalistica conosceva il
territorio di Laurento, non una città con questo nome 28. Virgilio
ha riempito il vuoto solo in piccola parte: Laurento non ha certo
il rilievo di Troia. Resta, e non è facile, il compito più
importante: cercare di capire le ragioni e il senso di questo scon-
volgimento.
Poiché YEneide finisce con la morte di Turno, il futuro,
compreso quello prossimo fino alla fondazione di Roma,
emerge in prospettiva attraverso profezie o visioni di altro
genere. Ho già accennato alla rottura che Virgilio opera nei
riguardi di Nevio e di Ennio, adottando la cronologia
delTannalistica, da Fabio Pittore in poi. Ciò ben si vede dalla
profezia di Giove a Venere nel libro I (267-277): Ascanio,
identificato con Iulo, fonderà Alba e vi regnerà per trentanni;
dopo trecento anni di re albani nascerà, da Dia e da Marte,
Romolo, il fondatore di Roma. Nella rassegna dei discendenti
che Anchise svolge nei Campi Elisi, egli indica anche alcuni re
di Alba (Aen. VI, 760-787). Incomincia con Silvio, figlio
postumo di Enea, generato da Lavinia: anche se egli non è
indicato come il fondatore della città, la versione sembra
divergere da quella del I libro, dove il fondatore è Ascanio-Iulo.
L'età del regno di Alba è gloriosa per conquiste; da questa stirpe
regale nascerà Romolo. I due gemelli nutriti dalla lupa si tro-
vano raffigurati sullo scudo di Enea {Aen. Vili, 630-634). La si-
stemazione data da Dionigi non presenta differenze rilevanti:
fondatore di Alba è Ascanio (Ant. Rom. I, 66, 1); dai re albani
discendono Romolo e Remo; Dionigi narra dettagliatamente
(Ant Rom. I, 77-90) la leggenda di Numitore, di Amulio, dei due
gemelli fino alla fondazione della città. Egli conosce il prodigio
della scrofa e dei trenta porcellini, che preannunziano la
fondazione di Alba (Ant. Rom. 1,56,5), e interpreta i trenta
porcellini come simbolo dei trentanni che passeranno prima
della fondazione della città (tralascio qui il problema delle varie
II. La scelta della leggenda di Enea 121

interpretazioni che del prodigio danno le fonti; neìYEneide il


prodigio è annunziato in DI, 389-393 e si manifesta in VH, 81-
85). La tradizione della prima annalistica romana si è ben
consolidata ed è largamente accettata.
Se non poche sono le incertezze che ci lasciano i confronti
con
Dionigi di Alicarnasso, sono pur sempre minori di quelle che ci
restano a proposito della parte anteriore al viaggio dalla Troade,
cioè sulla Hiupersis narrata nel II libro déSYEneide. Tutti i
tentativi di fissare da quali opere Virgilio partisse, che scelte
operasse, che innovazioni introducesse, come ristrutturasse la
narrazione approdano, per la scarsezza di testimonianze, a
risultati vaghi. Sull’uso diretto dei poemi ciclici, in particolare
della Iliupersis e dell'Etiopide di Aretino, oggi i filologi sono
meno scettici che quelli dell’inizio del XX secolo;
probabilmente alcuni elementi narrativi vengono di là, alcuni
episodi ne prendono spunti. Ma Virgilio poteva ispirarsi ad
opere più complesse, molto più elaborate e «moderne», come le
tragedie di Sofocle: una tragedia di questo poeta s’intitolava
Smone, un’altra Laocoonte; di ambedue, e specialmente della
prima, sappiamo ben poco; personaggi ed episodi della
distruzione di Troia comparivano in epica ellenistica, per
esempio Euforione. È molto probabile che di Virgilio siano la
strutturazione e la sceneggiatura, fondamentale per capire il
senso (narratologico e poetico) della Iliupersis virgiliana: per
esempio, la divisione in due parti (Aen. II, 40-56 e 199-233)
della tragedia di Laocoonte, fra le quali si svolge l’episodio
dell’inganno di Sinone (57-198), e la collocazione della morte
di Priamo. Non mi sono proposto di entrare in questi
difficilissimi problemi, che da soli richiederebbero una
trattazione non breve.
Fin qua abbiamo avuto a che fare soprattutto con letteratura
(poeti, storici, antiquari); ma a Roma la leggenda di Enea si era
diffusa anche per altra via, e di là venne a Virgilio lo stimolo
decisivo per la scelta. Alcune famiglie nobili romane si
facevano discendere da eroi troiani o da Albalonga; le
ascendenze troiane di alcune famiglie furono illustrate e
valorizzate proprio al tempo di Cesare da antiquari molto noti
ed agguerriti, come Varrone e Attico; se ne occupò anche
122 Parte terza. L‘«Eneide»; il costo tragico del potere

Marco Valerio Rufo, console nel 53 a.C. Più indietro risaliva,


ed era stato sostenuto con più impegno, il vanto della gens
hdia29. Questa gens patrizia era di prestigiosa antichità: vantava,
infatti, personaggi che avevano ricoperto alte cariche nel V e IV
sec. a.C.; ma poi per due secoli circa restò nell’oscurità. Una
modesta eccezione fu il primo membro della gens che portò il
cognomen di Caesar, cioè Sesto Giulio Cesare, pretore nel 208
a.C. La famiglia dei Giuli Cesari conobbe una ripresa, peraltro
non vistosa, verso la fine del II e l’inizio del I sec. a.C. Il nonno
di Cesare sposò una donna dei Marcii Reges, che si vantavano
di discendere dal re Anco Marzio; il padre di Cesare raggiunse
la pretura; Sesto Giulio Cesare, probabilmente zio, fu console
nel 91 a.C.; una zia di Cesare, Giulia, sposò Mario.
La gens Iulia, e in particolare la famiglia da cui Cesare nac-
que, si ritenevano provenienti da Bovillae, un piccolo centro
abitato vicino ad Alba, la capitale dei Latini che era stata
distrutta da Tulio Ostilio. Dunque origini albane: infatti gli lulii
discendevano da lulus, il figlio di Enea che aveva fondato Alba.
Vi sono indizi che inducono a supporre un'identificazione di
Iulo con Vediovis o Veiovis, considerato e venerato come un
Giove ancora giovane; il culto a Bovillae di questa divinità da
parte della gens Iulia è testimoniato da un altare, con iscrizione,
della fine del II sec. a.C. Uno dei membri della famiglia di
Cesare, o forse Cesare stesso, innalzò a Vediovis un tempio sul
Campidoglio30. La discendenza degli lulii da Iulo fu poi
sostenuta e valorizzata verso la metà del I sec. a.C. da uno
storico appartenente alla gens, Lucio Giulio Cesare (a noi noto
da citazioni delYOrigo gentis Ro~ manae).
Discendenza da Iulo e da Enea significava discendenza da
Venere, e su questo punto soprattutto insistè la famiglia per
risollevare il proprio prestigio. Da Dionigi abbiamo visto come
gli storici greci segnavano alcune tappe di Enea con la
fondazione di templi ad Afrodite; uno storico romano del II sec.
a.C., Cassio Hemina (fr. 7 Peter), indicava in Enea colui che
aveva introdotto dalla Sicilia sulla costa laurentina il culto della
Venere di Erice. Che negli ultimi decenni del II sec. a.C. la gens
Iulia facesse di Venere la propria divinità progenitrice e
protettrice è testimoniato da monete con l’immagine della dea
emesse da membri della gens, Sesto Giulio Cesare nel 130-125
II. La scelta della leggenda di Enea 123

a.C. e Lucio Giulio Cesare nel 105; dunque Cesare rinnovava


un vanto familiare, quando, nel 69 a.C., pronunziò la celebre
orazione funebre per la zia Giulia31. Che questa orazione vada
inquadrata in un disegno politico e propagandistico già chiaro
allora alla mente di Cesare è poco probabile; la valorizzazione
decisiva dell’ascendenza troiana e, attraverso di essa,
dell’origine della gens da Venere, si colloca negli anni dalla
guerra civile alla morte di Cesare: Venus Victrix è la divinità
protettrice proclamata dall’esercito di Cesare nella battaglia di
Farsàlo; Cesare porta l’immagine di questa divinità incisa sul
suo anello (Dione Cassio XLIH, 43,3); un tempio a Venus
Genetrix viene votato da Cesare nel 48 a.C., dedicato il 26
settembre del 46, con svolgimento di ludi, fra cui il lusus
Troiai2.
Le testimonianze di storici greci e di annalisti e antiquari ro-
mani, i poemi venerandi di Nevio e di Ennio - ormai sentiti co-
me opere di un’altra età - non bastavano a rendere «popolare»
la leggenda di Enea; ma ora la tradizione di una famiglia diven-
tava la tradizione di colui che aveva nelle sue mani il destino
dell'impero, e si saldava con quella, nata, indipendentemente,
da secoli, di Enea progenitore di Romolo, il fondatore di Roma.
Ottaviano recepì e sviluppò, in un contesto per altri aspetti
diverso, questa parte dell’eredità di Cesare; i monumenti, le
immagini, i culti furono mezzi più efficaci di divulgazione, ma
la svolta che determinò la «popolarità» della leggenda, era stata
data da Cesare33. Dunque Virgilio scelse un mito che solo da
poco era diventato «nazionale» e «popolare»; fu lui che, con
YEneide, da un lato rafforzò decisamente questo carattere,
dall’altro fece di quel mito un simbolo del destino dell’uomo.
in
IL MITO E LA STORIA

La scelta del mito e del poema omerico non portava all’e-


sclusione della storia: tutt’altro era il disegno di Virgilio! Egli
volle e realizzò una profonda compenetrazione fra mito e storia,
tale che è ben diffìcile trovare confronti adeguati nella poesia di
altri popoli, antichi e moderni. L’impostazione, tuttavia, se non
124 Parte terza. L‘«Eneide»; il costo tragico del potere

partiva da Omero, aveva probabilmente appigli nell’epos storico


ellenistico, cioè in poemi epici che comportavano celebrazioni
di dinastie regnanti o nobili famiglie o narrazioni di fondazioni
(xti- aei^) di città o storie di popoli: specialmente poemi o brani
poetici su fondazioni di città offrivano ovvie analogie. E
improbabile, però, che si avesse una compenetrazione così
organica come néY Eneide; se di questo non possiamo essere
certi, con più sicurezza possiamo constatare che non sono
confrontabili, sotto questo aspetto, i poemi epici moderni, dove
le genealogie dei potenti dedicatari sono generalmente
appiccicate al corpo della narrazione. Per VEneide possiamo
ben dire che vi «troviamo un’interpretazione coerente della
storia romana, interpretazione che costituisce, in larga misura, il
vero senso e scopo del poema»1.
Lo stimolo più vivo ad una costruzione del genere, Virgilio
lo trovava certamente nell’epica storica arcaica latina, quella di
Ennio e specialmente di Nevio. In entrambi le origini erano pre-
senti, in Ennio all’inizio del poema, in Nevio, più probabilmen-
te, all’inizio dell’«archeologia» inserita nel corso della narrazio-
ne. Nevio, elaborando il mito secondo le sue esigenze, inventò
un soggiorno di Enea a Cartagine, e all’inimicizia insorta con
Di- done faceva risalire la causa delle grandi guerre puniche.
Dunque mito e storia costituivano un blocco unico2.
Il poeta dél’Eneide, come abbiamo visto, non ignorò la criti-
ca a cui la storiografia aveva sottoposto la cronologia di Nevio e
di Ennio: egli staccò con tutta la genealogia dei re albani l'arrivo
di Enea nel Lazio dalla nascita di Romolo e dalla fondazione di
Roma; ma la sua posizione, ampiamente giustificata, del resto,
dai diritti della poesia, si caratterizza diversamente da quella
dello storico Livio, che scriveva in quegli stessi anni. Anche
Livio dedica alcune pagine al mito della migrazione di Enea, e
ne giustifica la presenza: «all'antichità si concede il permesso di
rendere più venerandi (augustiora) gli inizi delle città
mescolando l'umano al divino»; e, se si accorda un tale diritto, a
nessun popolo spetta meglio che al popolo romano. Ma egli si
guarda dal garantire la verità della leggenda: «gli avvenimenti
precedenti la fondazione di Roma o che portarono al disegno
della fondazione, sono ornamenti poetici leggendari, non sono
II. La scelta della leggenda di Enea 125

attestati da documenti attendibili: non ho intenzione né di


riferirli come veri né di confutarne la realtà (nec adfirmare nec
referre in animo est)» (Livio, praef. 6-7). Il poeta epico non
distingue: non solo non segna una cesura fra la leggenda e la
storia, ma ritrova nel mito le origini, le radici e, in un certo
senso, la garanzia divina della storia umana.
L'impianto neviano non deve indurre, però, a sottovalutare la
netta differenza di prospettiva: Nevio richiamava il mito per
spiegare e fondare la storia, Virgilio guarda, in prospettiva, la
storia dal mito; ciò non fa della storia un’appendice: la storia
resta un elemento costitutivo essenziale, ma non rappresenta il
centro né si configura come un contrappeso equivalente. Senza
la storia, d’altra parte, il mito perderebbe di attualità e vitalità.
Anche in questo l’atteggiamento di Virgilio differisce da quello
di Livio: lo storico si volge al passato romano e vi si immerge
(prisca illa tota mente. repeto) per stornare lo sguardo dalle
sciagure del passato recente (ut me a conspectu malorum quae
nostra tot per annos vidit aetas... avertam) (Praef. 5); Virgilio
rievoca il passato mitico che è radice viva del presente e porta a
riflettere su di esso.
Per aprire la prospettiva dal mito sulla storia e sul presente,
Virgilio non aveva bisogno di ricorrere a procedimenti poetici
nuovi, ma si servì di quelli che l'epica, la tragedia, la lirica cora-
le avevano già usati e di cui si avevano i primi esempi in
Omero: la profezia (nell'Iliade usata proprio a proposito di
Enea), la rassegna di eroi nell'oltretomba, Yékphrasis, Ma il
confronto con Omero serve soprattutto a dare il senso della forte
distanza - e la distanza è segnata, come è ben visibile e come da
tempo è stato visto a proposito della rassegna degli eroi e della
descrizione dello scudo - proprio dall'ampia presenza della
storia: non senza ragione è stato ricordato che i primi poeti epici
latini avevano scritto poemi storici.
Il rapporto e l'unità di mito e storia nell 'Eneide poggiano su
un'altra caratteristica fondamentale: il mito non serve solo a
spiegare le origini, ma a dare nello stesso tempo un modello
etico, religioso, politico per la comunità e specialmente per
Yélite politica. Questa funzione di archetipo etico conferita ad
Enea è così evidente che non ha bisogno di venire
ulterioremente rilevata: Enea è il primo padre della patria e il
126 Parte terza. L‘«Eneide»; il costo tragico del potere

primo e più alto modello per i cives romani; Augusto è colui


che realizza il modello nel modo più pieno. Questa funzione di
archetipo è caratterizzata dalla sacralità del re, cioè dalla stretta
unità di compiti sacerdotali, prestigio morale e autorità politica:
Virgilio ha plasmato il suo protagonista secondo il modello dei
primi re di Roma, specialmente di Romolo e di Numa. Il
modello, anche se rientra in quello antico dei fondatori di città o
di stirpi o di popoli, si può accostare anche a quello dei
fondatori di religioni, come, per esempio, Mosè, o di certi le-
gislatori. Un'opera in gran parte superata, ma ancora di qualche
utilità per capire la funzione di tali archetipi e i loro rapporti
con la comunità è La cité antique di Fustel de Coulanges.
A Roma, al contrario che presso altri popoli indoeuropei, co-
me, per esempio, i Celti e gli Indiani, non si formò una casta sa-
cerdotale: Yélite politica assolveva anche le funzioni religiose,
ma il politico della repubblica romana non si caratterizza
particolarmente per i suoi compiti sacrali (che restano, però,
necessari). H prestigio è dato dalla clientela, dalle qualità
oratorie, dalle capacità militari; ma Cesare puntò molto sulla
carica di pontifex maximus e ne fece un uso politico efficace;
siccome la carica veniva attribuita a vita, Augusto non potè
occupare la carica prima della morte di Lepido, ma, morto
Lepido, ci tenne a succedergli. Tuttavia, nella crisi della
repubblica, il prestigio religioso delprin- ceps si fonda molto
più sul culto carismatico del capo, le cui origini sono molto più
ellenistiche che romane, ma che, per legittimarsi, usò anche il
modello di Romolo. Non mi dilungo su cose ben note: voglio
solo ricordare che il protagonista ddì’Eneide non può essere
compreso senza tener conto del nuovo orientamento politico-
religioso.
Enea è il capo che garantisce l'identità della civitas: ciò risal-
ta specialmente grazie al compito, che egli assolve, di salvare
gli dèi Penates di Troia e di portarli nel Lazio; sono i Penati il
simbolo divino e perpetuo di quell'identità, che non è solo
identità di Troia e di Roma, ma anche di mito e storia: da qui il
rilievo che essi acquistano nel poema. Dei 24 casi in cui
ricorrono, richiamo alcuni che, messi insieme, ben dimostrano
quell'identità che ho cercato di sottolineare. Giunone, quando
vede che i Troiani navigano tranquillamente verso l'Italia, sa
II. La scelta della leggenda di Enea 127

bene che essi portano con sé Ilium... victosque Penatis (Aen. I,


67 s.). La prima volta in cui Enea si presenta in terra d'Africa
(ad una caccia- trice, in realtà alla madre), si dichiara come
colui che porta sulla sua nave i Penati strappati al nemico: Sum
pius Aeneas raptos qui ex hoste Penatis / classe veho mecum...
(Aen. I, 378 s.): son quegli stessi Penati che la patria gli ha
affidati per bocca di Ettore (Aen. II, 293), che Anchise, salvato
dal figlio, ha portati con le sue mani fuori dalla città distrutta
(Aen. II, 717), che Enea ha consegnati momentaneamente ai
compagni, quando ha deciso di tornare nella città incendiata per
cercare Creusa (II, 747 s.). Durante la sosta a Creta, dove i
Troiani credono di aver trovato la nuova patria loro assegnata
dal destino, sono i Penati, apparendo in sogno ad Enea, che
indirizzano il viaggio verso l'Occidente e fanno, per la prima
volta dopo la partenza dalla Troade, il nome dellTtalia.
Nell'allocuzione si fanno intermediari fra Apol
lo ed Enea, ma il loro coinvolgimento va molto al di là: essi so-
no, nelle sofferenze dell'oggi, i garanti della grandezza del futu-
ro (Aen. Ili, 156 ss.):
Nos te Dardania incensa tuaque arma secuti, ./
nos tumidum sub te permensi classibus aequor,
idem venturos tollemus in astra nepotes
imperiumque urbi dabimus
[Noi che, da Troia incendiata, seguimmo te e le tue
armi, / noi che sotto la tua guida attraversammo sulle
navi il mare tempestoso / saremo noi ad innalzare agli
astri i nipoti che verranno, / e a dare alla città l’impero
del mondo].
Credo che nella lettura vada accentuato Yidem, all'inizio del
verso 158. Nella loro profezia il viaggio verso l'Italia si
configura come il ritorno all'antica madre, poiché Dardano era
arrivato nella Troade dalla città di Còrito (probabilmente
Cortona): un motivo che resterà secondario rispetto alla
migrazione dall'Oriente verso l'Esperia. Enea, secondo una
vicenda frequente per i capi di migrazioni (per esempio, Proto,
il capo dei Focesi che fondano Marsiglia, sposa la figlia del re
della regione), si unisce in matrimonio con la figlia del re
Latino e fonde il suo popolo con quello della nuova patria: il
128 Parte terza. L‘«Eneide»; il costo tragico del potere

nome dei Troiani non si conserverà, ma i Penati sì; ed essi


saranno accanto a Cesare (cioè Augusto) nella decisiva battaglia
di Azio (Aeri. Vili, 679)3,
La continuità fra mito e storia viene rinsaldata col far risalire
al mito alcuni riti religiosi: mi limito a tre esempi. Il ludus
Troiae, che chiude le celebrazioni funebri in onore di Anchise,
è passato dai Troiani ad Albalonga, da Albalonga a Roma (Aen.
V, 596602). Nel V libro, com'è noto, vi sono accenni alle
origini troiane di alcune grandi famiglie di Roma, origini
illustrate poco prima da Varrone in un'opera apposita.
Attraverso Albalonga è giunto a Roma, oggi capitale del
mondo, il rito dell'apertura delle porte del tempio di Giano allo
scoppio di una nuova guerra (Aen. VII, 601-615): un rito
solenne, che Giunone non lascia alla Furia Aletto, ma compie di
mano propria; solo ad una grande dea si poteva attribuire l'atto
che il console compiva nel sacro abbigliamento rituale.
1
5
6
142 Parte terza. L‘«Eneide»; il costo tragico del potere
143 Parte terza. Lf «Eneide»: il costo tragico del potere

riero, nel sistema virgiliano emergono e predominano pietas,


giustizia, clemenza ecc. Non sono valori solo romani: in parte
presuppongono sviluppi della morale greca nell’età attica e in
quella ellenistica; è ovvio, però, che siamo in un mondo e una
civiltà lontani da quelli dei poemi omerici. Ma da questo non
bisogna dedurre che Virgilio intenda segnare il distacco da un
mondo di barbarie, che abbia la pretesa di scrivere una poesia
«civile» da contrapporre ad una poesia primitiva: i valori del
coraggio, dell’onore militare, della gloria restano saldi; anche la
nuova etica dei rapporti umani trova un punto di partenza
nell’ospitalità dei Feaci. Per Virgilio, però, la nuova etica ha
una sua validità anche in guerra, senza che per questo la guerra
venga considerata di per sé barbarie; e nel complesso il sistema
di valori è molto diverso. Perciò risulta deformante, e assurda,
l’analogia - escogitata da Knauer in base al concetto di
«figuralità» elaborato da Auerbach 25 - del rapporto fra l’Eneide
e i poemi omerici col rapporto fra Antico e Nuovo Testamento.
UIliade, tranne che nella breve profezia su Enea, non è rivol-
ta verso il futuro; YOdissea lo è di più, ma si tratta sempre del
futuro dello stesso Ulisse; il rapporto fra Nuovo e Antico Testa-
mento si basa sull’attesa messianica, realizzata dal Cristo: non
vedo niente, non dico di eguale, ma neppure di lontanamente
affine nei poemi omerici e nell’interpretazione che ne dava
Virgilio; un rapporto del genere si può configurare, se mai, fra
Enea ed Augusto, fra la leggenda troiana e l’impero di Roma. Io
non credo neppure ad altri tentativi di attribuire a Virgilio
intenti di completare o perfezionare Omero.
Con l’omerismo delle strutture, degli episodi, delle scene è
coerente l’omerismo, non meno importante e più fitto, della
lexis: non tanto contano i calchi linguistici quanto l’adozione
dello stile epico e i procedimenti stilistici. Formule, epiteti,
similitudini non sono che i segni più visibili di un rapporto
quasi continuo, tessuto con Yarte allusiva, che rimanda a precisi
versi omerici e, nello stesso tempo, richiedendo dal lettore cólto
il confronto, se ne distacca nell’elaborazione verbale e stilistica.
Virgilio percorre più sistematicamente, e in modi propri, una via
già battuta dai poeti alessandrini: per l’elaborazione dello stile
omerico trovava già un grande esempio in Apollonio Rodio. Per
la maggior parte le allusioni rimandano al contesto (episodio,
IV. V«Eneide» come poema omerico 144

scena) dell’origi-
naie; ma in parte non irrilevante rimandano a passi vari dei due
poemi (le prime si potrebbero dire omocontestuali o isotopiche,
le seconde eterocontestuali): anche in questo grande libertà di
comportamento. Dare un’idea, anche generica, del modo in cui
Virgilio lavora, verso per verso, sul testo omerico è impresa im-
mane; del resto un’idea adeguata si può avere solo dai buoni
commenti. Sempre lasciando da parte grandi ambizioni, qualche
assaggio cercherò di dare in sèguito. '
V. Omero interpretato 145
1
7
7
VI. L’«Eneide» e il ciclo epico 163
164 Parte terza. L‘«Eneide»; il costo tragico del potere
VII. L'assenza della lirica e la presenza della tragedia greca 165
166 Parte terza. Lf «Eneide»: il costo tragico del potere

ge, secondo me, anche nell'episodio di Camilla, prediletta,


come Ippolito, da Artemide, che promette, dopo la morte, di
vendicarla e di farla onorare 19. Ippolito è in Euripide uno dei
personaggi spenti ante diem\ un motivo importante per Virgilio
quanto per il suo auctor tragico; al di là dei rapporti, già
rilevanti, documentabili con raffronti di testi, Euripide ha
contato molto per il poeta epico latino nel rafforzare la sua
visione della condizione umana come esposta all'ingiustizia
arbitraria degli dèi.
167 Parte terza. L‘«Eneide»; il costo tragico del potere
Vili. L'eredità alessandrina 111
178 Parte terza. L‘«Eneide»; il costo tragico del potere
I
X
IX. L’eredità neoterica 183
184 Parte terza. L‘«Eneide»; il costo tragico del potere
IX. L’eredità neoterica 185
[Non queste promesse, o Pallante, avevi date al padre]
prendendo spunto, anche lui, dal lamento di Arianna (64,139 s.):
At non haec quondam blanda promissa dedisti voce mihi,
non haec miserae sperare iubebas...
[Ma non queste promesse mi desti un tempo con voce
blanda, / non questo a me, infelice d’amore, facevi
sperare...].

Il tumulo di Dercenno {Aen. XI, 850)


terreno ex aggere bustum [tomba
(innalzata) su una massa di terra]

rimanda a quello di Achille in Catullo (64, 363):


teres excelso coacervatimi aggere bustum
[il tumulo raccolto e arrotondato su un'alta massa (di terra)].
Le acque del Tevere riscaldate dal sangue dei guerrieri uccisi
(Aen. XII, 35 s.)

recalent nostro Thybrina fluenta


sanguine adhuc
[i flutti del Tevere sono caldi ancora / del nostro sangue]
rimandano a quelle dello Scamandro (Catullo 64, 359 s.),
cuius iter caesis angustans corpora acervis alta tepefaciet
permixta flumina caede
[il cui corso (dello Scamandro) restringendo con mucchi di
cadaveri, / (Achille) riscalderà i flutti fin nelle profondità
rimescolandoli di sangue];

analogamente il re Latino (Aen. XH, 611)


fcanitiem immundo perfusam pulvere turpans
[deturpando la canizie col riversarsi sopra sozza polvere]
ha dietro di sé l'immagine del vecchio re Egeo, angosciato per la
186 Parte terza. L‘«Eneide»; il costo tragico del potere

partenza del figlio Teseo (Catullo 64, 224):

canitiem terra atque infuso pulvere foedans [deturpando


la canizie col versarvi sopra terra e polvere].
La presenza diffusa, e ben visibile, del poemetto epico non tro-
va confronto con quella di altri carmi di Catullo; ve ne sono, però,
altri due che hanno colpito profondamente la sensibilità di Virgilio
e sono rimasti tenaci nella sua memoria. L'uno è, tra i carmi po-
limetri, l'undicesimo. La similitudine finale (21-24) dell'amore tra-
dito col fiore reciso, ai bordi del prato, dal passaggio dell'aratro -
una similitudine che sembra lenire delicatamente l'angoscia - ha
suggerito, com'è ben noto, la similitudine di Eurialo caduto e
morente col fiore purpureo succisus aratro (Aen. IX, 433-43 6).
Ma an- ‘ che le indicazioni di terre lontane dell'esordio del
carme hanno lasciato delle tracce in Virgilio. Ircani ed Arabi
(11,5) si troveranno uniti in Aen. VII, 605; l'epiteto
septemgeminus riferito al Nilo (Aen. VI, 800) proviene da
questo stesso esordio catulliano (11,7, già qui riferito al fiume
dell'Egitto). Forse non è dovuta solo al caso la coincidenza
verbale fra il messaggio che Turno affida ad un araldo per Enea
(Aen. XII, 75 s.)

Phrygio mea dieta


tyranno haud placitura refer
[al re frigio riferisci le mie parole / che non gli
suoneranno gradite],

e quello che Catullo affida a Furio ed Aurelio per la puella infa-


me, (11, 15 s.)

pauca nuntiate meae puellae non bona dieta


[poche parole portate alla mia donna / di sgradevole sapore].
Una straordinaria forza di suggestione (e non solo su
Virgilio) ha dimostrato l'esordio di uno dei carmi elegiaci, il
101:

Multas per gentes et multa per aequora vectus advenio...


IX. L’eredità neoterica 187
[Dopo avere attraversato molte genti e mari / sono giunto...]
emana stanchezza e mestizia, senso di solitudine e di esilio in
una vita errabonda attraverso il mondo infinito: una pregnanza
quasi mai conservata interamente, per lo più sbiadita e
cancellata nei poeti che riecheggiano il passo. La prima eco di
quell'esordio si ode in Ge. I, 206: ventosa per aequora vectis
(riferito a naviganti), emistichio ripreso in Aen. VI, 335; l'eco
ritorna, più fedele, in Aen. I, 376: diversa per aequora vectus;
poi, con variazioni, in VI, 692: quanta per aequora vectum e
VH, 228: vasta per aequora vecti2.
Echi sparsi da altri carmi sono stati segnalati, e la ricerca con-
tinua; indicherò pochi esempi fra i tanti. Ho ricordato, or ora, l'eco
di Catullo 101,1 in Aen. VI, 335; forse anche la prima metà di
questo verso, quos simul a Troia (quos da unire con vectos alla fine
del verso), serba traccia di un altro carme di Catullo (46, 10) longe
quos simul a domo profectos3. Giunone (Aen. V, 608)
multa movens necdum antiquom saturata dolorem
[molti progetti agitando, con l'antico dolore non ancora
placato]

viene ricalcata con finezza, e forse anche con ingegnosità, su Lao-


damia, che, senza la guerra di Troia (Catullo 68b, 83),
noctibus in longis avidum saturasset amorem [in lunghe
notti avrebbe placato l'avido amore].

Quando Iulo affida a Niso ed Eurialo i messaggi per il padre, il


poeta commenta (Aen. IX, 312 s.):
sed aurae
omnia discerpunt et nubibus inrita donant
[ma i venti / tutto disperdono e donano (le parole) vanificate
alle nubi]:

un luogo comune che Virgilio svolge richiamando, ancora una


volta, il poemetto epico di Catullo (64, 142):
quae cuncta aérii discerpunt irrita venti
188 Parte terza. L‘«Eneide»; il costo tragico del potere

[ma tutte queste (promesse) disperdono e vanificano i venti


dell’aria];

ma un dettaglio di più, nubibus, ci avverte che Virgilio aveva in


mente anche un altro carme di Catullo (30,9 s.):
tua dieta omnia factaque ventos irrita
ferre ac nebulas aérias sinis
[tutte le tue parole e le tue azioni / lasci che li portino via i
venti e le nebbie dell’aria].
Può sorprendere che il quadro del leone in una nota similitudine
all'inizio del libro XII delTjEneide (6 s.), del leone che
gaudet... comantis
excutiens cervice toros
[gode scuotendo / sul collo muscoloso la rossa criniera],
conservi una traccia catulliana: Cibele ordina ad uno dei suoi leoni
(63; 83):
rutilam ferox torosa cervice quate iubam
[la rossa criniera sul collo muscoloso ferocemente scuoti].
Notevole raffinamento stilistico da parte di Virgilio (<comantis...
toros). Più chiara un'eco dal secondo epitalamio: Virgilio (Aen. XI,
581 s.) dice di Camilla, aliena da nozze, che
multae illam frustra Tyrrhena per oppida matres optavere
nurum
[invano molte madri nelle città dei Tirreni / la desiderano
nuora];
Catullo (62, 44) aveva detto del fiore a cui è assimilata la vergine
sposa:
multi illuni pueri, multae optavere puellae [molti ragazzi lo
desiderarono, molte ragazze];

ma il contesto in cui è collocato questo verso, cioè la similitudine,


di straordinaria grazia e delicatezza, della vergine col fiore
IX. L’eredità neoterica 189

cresciuto intatto nel giardino, che perde pregio dopo essere stato
còlto, ha suggerito molto di più, la delicata e mesta similitudine di
Pallante morto col fiore troncato (Aen. XI, 68-71). Naturalmente ci
sono casi in cui la traccia è così evanescente da restare dubbia: per
esempio, Aen. II, 519 s.
Quae mens tam dira, miserrime coniunx,
impulit...
[Quale tanto funesta intenzione, infelicissimo sposo / ti ha
spinto...]

(nell’allocuzione di Ecuba a Priamo) può richiamare alla memoria


del lettore Catullo (15, 14 s.)

Quod si te mala mens furorque vecors in tantam impulerit,


sceleste, culpam
[Che se una malvagia intenzione e un’insensata follia / ti
hanno travolto, o scellerato, in ima così grave colpa...],

o anche 40, 1 s.
Quaenam te mala mens, miselle Ravide, agit...?
[Quale malvagia intenzione, povero Ravido, / ti spinge...?].
Ci sono poi casi in cui la trasposizione è sorprendente: per
esempio, lumen ademptum, bellissima metafora con cui Catullo
indica il fratello morto (68, 93), viene ripreso da Virgilio in senso
proprio per indicare l’occhio accecato .di Polifemo (o la luce
strappatagli) (Aen. HI, 658)4. Ma il caso più sorprendente resta la
citazione di Catullo nell’allocuzione di Enea a Didone nell’ol-
tretomba (Aen. VI, 460):

invitus, regina, tuo de litore cessi


[contro la mia volontà, o regina, mi allontanasti dalla tua ter-
ra...]

è una citazione adattata di Catullo (66, 39 s.)


Invita, o regina, tuo de vertice cessi, / invita...
190 Parte terza. L‘«Eneide»; il costo tragico del potere

[contro la mia volontà, o regina, mi allontanasti dal tuo


capo, / contro la mia volontà...],

che traduce Callimaco. Virgilio non ha avvertito l’elegante lusus di


Callimaco e Catullo, e ha trovato nell’allocuzione alla chioma più
pathos di quanto non ne sentiamo noi? O al contrario, Virgilio ha
voluto dare una prova di virtuosismo? Comunque si resta stupiti
per la capacità di integrazione lirica dimostrata dal poeta dell
'Eneide. Un caso analogo, ma meno certo, nella famosa sentenza di
Didone (Aen. I, 630)
non ignara mali miseris succurrere disco
[avendo conosciuto la sventura, imparo a correre in aiuto de-
gli infelici]:

vi si è visto l'adattamento della chiusa di un epigramma giocoso di


Meleagro (AP XH, 70, 4)
oi5a jtaGobv èXeetv

[avendo sofferto, ho imparato ad aver compassione].


Qui è lecito sospettare che i due poeti attingano da una fonte più
antica, e più nobile.
È congettura non azzardata che Catullo abbia contato per il
poeta deU'Eneide molto più degli altri poeti nuovi, anche se, per
ovvie ragioni, non possiamo misurare la presenza di questi ultimi
poeti; è probabile, inoltre, che questa presenza fosse attenuata
rispetto alle Bucoliche. Nell'allocuzione di Ecuba a Priamo, che ho
citato poco fa, è stata notata una certa affinità con un frammento di
Calvo (10 Morel)5:
Mens mea, dira sibi praedicens omnia, vecors
[la mia mente, che a sé prediceva solo tremende sventure, folle]
(probabilmente da un lamento di Io); ma la derivazione mi pare
dubbia; invece è probabile che, come già videro commentatori
antichi e leggiamo in Servio Danielino, la Cerere legifera - che
appare come divinità venerata a Cartagine, città in via di costru-
zione - presupponga la raffigurazione della dea come legislatrice,
IX. L’eredità neoterica 191

propizia ai matrimoni, fondatrice di città, quale la celebrava Calvo


(fr. 6 M.)6.
Né di Cinna né di Gallo si scorgono tracce nell 'Eneide; si scorge,
invece, traccia di un altro poeta amico di Catullo, non dei più
IX. L’eredità materica 192
IX. L’eredità neoterica 193

[il piede è premuto dal piede, e le armi vengono sfregate


contro le armi].

Questa volta Virgilio, che certamente conosceva il suo Ennio, si è


riaccostato ad Omero, ma attraverso Furio Bibaculo (fr. 10 M.):
pressatur pede pes, mucro mucrone, viro vir
[il piede è premuto dal piede, la spada dalla spada, il
guerriero dal guerriero]7.
Rispetto a tutti e tre i poeti precedenti Virgilio ha elegantemente
condensato.
Queste segnalazioni, notevolmente limitate, danno, io credo,
indizi sufficienti sull'ampiezza dell'eredità neoterica neQ’Eneide;
ma va sottolineato che essa è più ampia di quanto possa apparire
da indizi del genere. Catullo e altri poeti nuovi hanno contribuito
in modo essenziale alla formazione dello stile poetico di Virgilio,
specialmente nelle scelte lessicali, nelle iuncturae, nel-
l’arricchimento semantico del lessico, nell'uso di metafore talvolta
ardite; hanno dato la spinta decisiva sia verso Yempathy della
narrazione sia verso il commento lirico. Con la stessa nettezza va
sottolineato il mutamento di indirizzo: Virgilio si è tenuto più
spesso al .di qua del limite che separa l'eleganza dalla raffinatezza,
l'arte dall'artificio e dal virtuosismo; è più sobrio nel cercare rarità
da erudito, nel ricorso a «glosse»; nel poema epico, investendo
temi per i quali i poeti nuovi non avevano interesse, aprendosi
all'ispirazione etica, civile, religiosa, rifugge dal lusus e dalla
futilità, che i poeti della generazione precedente amavano e tal-
volta ostentavano.
194 Parte terza. L‘«Eneide»; il costo tragico del potere

Trova riscontro néYEneide (II, 250)


Vertitur interea caelum et ruit Oceano nox [Gira intanto il
cielo e la notte si lancia dall’Oceano]
anche un’altra punta, molto affine, di sublime cosmico (Ann. 205
Sk.):

Vertitur interea caelum cum ingentibus signis [Gira


intanto il cielo con le sue grandi costellazioni].

Giustamente si ritiene che presupponga Ennio, e non solo


Omero, il verso con cui Virgilio raffigura il cenno maestoso del
capo di Giove (Aen. IX, 106 = X, 115):

adnuit et totum nutu tremefecit Olympum [annuì


e col cenno fece tremare tutto l'Olimpo],

dunque una formula (cfr. Ennio, Ara., Vestigia II Sk.). La più chia-
ra impronta che il senso enniano del sublime abbia lasciata in Vir-
gilio si scorge nel quadro del silenzio cosmico che si produce
quando Giove parla nell’assemblea degli dèi (Aen. X, 101-103):
(eo dicente deum domus alta silescit
et tremefacta solo tellus, silet arduus
aether, tum zephyri posuere, premit placida
aequora pontus)
[(mentre egli parla, l’alta dimora degli dèi si fa silenziosa, /
la terra tremò, tace il sublime etere, / anche gli zefiri
posarono, il mare trattiene e placa i suoi flutti)].

Sin dall’antichità è stato segnalato il riflesso di un quadro cosmico


analogo dello Scipio di Ennio (9-12 V.2):

mundus caeli vastus constitit silentio,


et Neptunus saevus undis asperis pausam dedit,
Sol equis iter repressit ungulis volantibus,
IX. L’eredità neoterica 195

constitere amnes perennes, arbores vento vacant


[la volta vasta del cielo si fermò in silenzio, / e il crudele
Nettuno diede posa ai?flutti sollevatisi, / il Sole trattenne la
corsa dei suoi cavalli dagli zoccoli volanti, / si fermarono i
fiumi perenni, gli alberi non sono sfiorati dal vento].
D'altra parte Ennio scrivendo un poema storico, dava
spazio*, come già Nevio, allo stile della cronaca, quindi ad una
certa prosaicità: ciò contribuiva al colore romano del poema.
Naturalmente Virgilio concede alla prosaicità di questo tipo uno
spazio molto più limitato; ma, nella parte iliadica, se ne scorge
qualche rara traccia. Per esempio, in scene di battaglia in cui
vengono usate torri, si parla di tabulata (.Aen. II, 464; XII, 672),
come in Ennio (Ann. 388 Sk.); in un'altra scena (Aen. IX, 705)
compare un pesante proiet-, tile con punta metallica, la
phalarica, come in Ennio (Ann. 551 Sk.); per caratterizzare la
pesante asta di Messapo Virgilio (Aen. XH, 294) ricorre
all'aggettivo trabalis: ora teloque trabali è un'allusione ad Ennio
(Ann. 607 Sk.). A casi come questi si può accostare, credo,
quello di toma, «remo» (Aen. VII, 28; X, 299 da Ennio, Ann.
218; 215; 219 Sk.). La presenza di questo lessico «prosaico» in
Ennio «autorizzava» ad introdurlo nell'epica: nel nuovo testo
esso poteva assumere una funzione arcaizzante.
La suggestione di Ennio agisce più nel profondo quando ispi-
ra il pathos tragico: se la drammatizzazione tragica ha una parte
rilevante nell 'Eneide, non è assente dagli Annales di Ennio, che
forse conosceva, oltre Callimaco, anche Apollonio Rodio. La
scena di disperazione e solitudine della donna violentata, scena
che viene evocata nel sogno di Dia (Ann. 34-50 Sk.), rivive in
qualche modo nel sogno angoscioso di Didone, quando è certa
di essere abbandonata (Aen. IV, 465-468):
Ann. 39-42 Sk.:
Ita sola
postilla, germana soror, errare videbar
tardaque vestigare et quaerere te neque
posse corde capessere: semita nulla pedem
stabilibat
[E così, sola, / poi mi pareva, o sorella, di errare, / di
muovere a fatica i passi in cerca di te / e di non riuscire a
196 Parte terza. L‘«Eneide»; il costo tragico del potere

capire; su ogni sentiero vacillavo];


Aen. IV, 465-468:
Agit ipse
furentem in somnis ferus Aeneas,
semperque relinqui sola sibi, semper
longam incomitata videtur ire viam et
Tyrios deserta quaerere terra
[in sogno Enea, lui stesso, / la insegue posseduta dal furore e
le pare di essere abbandonata / sempre sola a se stessa, di er-
rare sempre, senza compagnia, / per una via lunga e di
cercare i Cartaginesi in una terra deserta].
Ennio sembra aver già toccato uno dei motivi di fondo deU’E-
neide: il costo di sofferenze umane che richiede e nasconde il
cammino trionfale della storia. Anche per l’eroina delYEneide più
affine a Didone, la regina Amata {Aen. VII, 344 s.)
quam super adventus Teucrum Turnique hymenaeis
femineae ardentem curaeque iraeque coquebant
[che riguardo all’arrivo dei Troiani e le nozze di Turno /
preoccupazioni e ire con femminile passione infiammavano
e bruciavano]
Virgilio è ricorso a metafore del pathos enniano {Ann. 337 s. SL):
curamque levasso quae nunc te coquit et
versat in pectore fixa
[e ti allieverò l’angoscia, / che ora, confina nel petto, ti
brucia e ti agita].
In una scena di guerra sul mare Ennio {Ann. 507 Sk.) evocava un
nocchiero che assolveva il suo compito tristi cum corde, forse nella
previsione di un pericolo imminente: Virgilio ha ripreso la
iunctura per rappresentare Enea in ansiosa attesa {Aen. VI, 185;
VIE, 522).
Virgilio segue il suo auctor arcaico anche oltre, nell’esaspera-
zione di sensazioni, di sentimenti, di spettacoli orridi e macabri.
Tra gli spettacoli di grandioso orrore rimasti impressi nella me-
moria di Virgilio era Yexcidium Albanum, cioè la distruzione di
Albalonga da parte di Tulio Ostilio: secondo Servio il poeta del-
YEneide si ispirava da quel pezzo in alcuni punti della sua Iliu-
IX. L’eredità neoterica 197

persis: proveniva di là {Aen. II, 313)


Exoritur clamorque virum clangorque tubarum
[Si levano grida di guerrieri e squilli di trombe]
198 Parte terza. Lf «Eneide»: il costo tragico del potere
X. LJ «Eneide» e la poesia latina arcaica 199
200 Parte terza. L‘«Eneide»; il costo tragico del potere
X. LJ «Eneide» e la poesia latina arcaica 201

irarum effunde quadrigas


[lancia senza freni le quadrighe dell’ira],
ma è ritoccata: hic moderate locutus est (sdì Vergilius), annotò
Servio, non senza finezza. Ma qualche traccia del barocco en-
niano si scorge talvolta anche in Virgilio: per esempio, i cavalli del
sole che in Ennio (Ann. 115 Sk.)

fundunt... elatis naribus lucem


[riversano luce dalle narici levate],

tornano in Aen. XII, 115:


lucem elatis naribus efflant [e dalle
narici levate soffiano luce].

Ci sono poi casi in cui Virgilio gioca anche col pater Ennius:
famoso il caso di Aen. VI, 404: it nigrum campis agmen [avanza
nella pianura la negra schiera], riferito alle formiche, che ripete
pari pari Ennio, Ann. 502 Sk.; ma Ennio si riferiva ad una marcia
di elefanti!
Non solo in quest’ultimo caso, ma generalmente Virgilio assi-
mila elementi enniani prescindendo dal contesto; poiché abbiamo a
che fare con frammenti, occorre cautela; comunque solo in
pochissimi casi abbiamo la certezza che Virgilio ha trasportato
nella sua narrazione episodi o situazioni degli Annales; ciò, del
resto, riusciva difficile, perché gli Annales riflettevano pur sempre
una realtà storica e un tipo di guerra diverso da quello dell’epica.
Fra i casi già citati si possono prendere in considerazione, per
esempio, quello della Discordia che apre le porte della guerra, e
quello dell'exddium Albanum. H caso più notevole è l’episodio di
Pandaro e Bitia, i due giganteschi fratelli troiani che difendono
l’entrata dell’accampamento, e di Turno che entra da solo
nell’accampamento stesso. Virgilio ricavò alcune linee della
narrazione da vicende di una guerra in Istria, svoltasi durante la
vecchiaia di Ennio8. In particolare la scena di Turno assediato da
ogni parte dai Troiani, bersaglio di una fitta pioggia di dardi (Aen.
IX, 806-814), è simile ad ima di Aiace nelYIliade (XVI, 102111),
ma più da vicino segue quella di un tribuno militare raffigurata da
Ennio (Ann. 391-398 Sk.). La descrizione minuta evoca
202 Parte terza. L‘«Eneide»; il costo tragico del potere

fonicamente il fitto tinnire dei proiettili sull’elmo, la grandine


203 Parte terza. Lf «Eneide»: il costo tragico del potere
204 Parte terza. L‘«Eneide»; il costo tragico del potere
X. LJ «Eneide» e la poesia latina arcaica 205
206 Parte terza. Lf «Eneide»: il costo tragico del potere
X. LJ «Eneide» e la poesia latina arcaica 207
208 Parte terza. L‘«Eneide»; il costo tragico del potere
2
3
3
XIL’eredità lucreziana 219
220 'Parte terza. L’«Eneide»: il costo tragico del poterà
XI. L’eredità lucreziana 221
222 Parte terza. Lf «Eneide»: il costo tragico del potere
XI. L’eredità lucreziana 223
[blandendo l’aria coi loro movimenti],

dove la felicissima iunctura si riferisce alle nubi che accarezzano


il cielo! Passata attraverso il filtro di Lucrezio, la bucolica acquista
tutt’altro sapore: ora può conciliarsi con l’epica e diventare idillio
eroico4,
I brani dell 'Eneide che per la tematica sono più affini al De
rerum natura ~ cioè il canto di Iopa (I, 742-746) e il famoso ex-
cursus, recitato da Anchise, sulla sorte delle anime (VI, 724-751) -
non sono costellati di precise allusioni a Lucrezio, ma, special-
mente nel secondo brano, il colore stilistico è nettamente lucre-
ziano (cfr., per esempio, nel primo brano, imber per indicare l’ac-
qua come elemento, nel secondo la sequela principio, inde, hinc,
ergo). La facies di ogni trattazione filosofica in poesia è sempre
quella nobile del De rerum natura: rispetto delle regole di un ge-
nere letterario, ma non è certo errato interpretare questo orien-
tamento come un omaggio al poeta amato della giovinezza. È ov-
vio che la religione e la filosofia delYEneide sono ben lontane dal
messaggio epicureo di Lucrezio; Virgilio ha già imboccato altra
via quando, nelle Bucoliche, canta la resurrezione di Dafni o il ri-
torno dell’età saturnia; néYEneide l’epicureismo lascia traccia so
lo in opinioni e in proteste di qualche personaggio (ben nota la
protesta di Iarba in Aen. IV, 206-210). Ma il grande poeta non è
legato necessariamente alla sua filosofia: qualche altra volta ho
confrontato la vicenda di Lucrezio con quella di Leopardi, am-
mirato e amato come poeta anche da chi era ben lontano dal suo
materialismo.
La presenza di Lucrezio nelYEneide non si esaurisce qui: come
ho già detto, l’influenza nel lessico e nello stile è diffusa e non
facilmente afferrabile né valutabile. Se, come Ennio, ha contribuito
alla nobilitazione dello stile, d’altra parte ha, come Ennio,
«autorizzato» Virgilio a introdurre altro lessico dalla prosa. Del-
l’importanza di Lucrezio nella poesia di Virgilio ho dato solo una
vaga idea.
224 Parte terza. L‘«Eneide»; il costo tragico del potere

Meno frequenti, ma non rari, sono i casi in cui l'ingegnosità


sfrenata porta a proposte molto ardite o assurde; la frequenza va
parecchio al di là dei pochi casi che qui cito. In I, 174 vediamo
Acate che, sfregando una pietra, fa sprizzare una scintilla: silici
scintillam excudit: Servio ci ricorda che il nome Achates indica
anche una specie di pietra; ma a proposito di I, 312, dove Acate
accompagna Enea nella prima esplorazione dopo l'approdo in
Africa, Servio ritiene che Achates sia connesso etimologicamente
con axo? («forte preoccupazione»); tra l'altro il poeta nel contesto
non sottolinea tale stato d'animo. Durante l'incendio di Troia
rovina la casa di Deifobo, brucia la dimora di Ucalegon (II, 310-
312); secondo De La Cerda e alcuni interpreti dell'ultimo mezzo
secolo Virgilio delinea un contrasto fra Deifobo, il cui nome
indica paura, e Ucalegonte, il cui nome significa O'ùx àXéycov,
cioè «uomo che non se ne cura» e, dunque, dorme tranquillo; chi
ci avrebbe mai pensato! In III, 250 Celeno, una delle Arpie, am-
monisce i Troiani perché ascoltino attentamente la sua sinistra
profezia: Accipite ergo animis atque haec mea figite dieta...; se-
condo un'interpretazione testimoniata da Isidoro, probabilmente un
gioco della tarda antichità, da accipite ergo si ricava il nome
accipiter, cioè lo sparviero, sinistro uccello predatore, affine alle
Arpie; non manca chi ha preso sul serio l'interpretazione accolta
da Isidoro. Il nome di Achaemenides, il compagno di Ulisse
dimenticato presso l'Etna (III, 614) sarebbe da connettere con
Achaeus, ma è poco credibile che il suffisso -jisv-, strettamente
unito al finale -CSrig, significhi «colui che è rimasto indietro». In
IV, 347 hic amor; haec patria est il termine amor è usato come
anagramma di Roma (interpretazione di virtuosi recenti). Fra le
escogitazioni più stupefacenti si colloca l'interpretazione di un
famoso verso dell'allocuzione di Enea a Didone nell'oltretomba
(VI, 460): invitus, regina, tuo de litore cessi («contro mia voglia, o
regina, mi allontanai dalla tua terra»); è ben noto che Virgilio ha
caricato di pathos un verso frivolo di Catullo (66, 39), che traduce
la Chioma di Berenice di Callimaco: invita, o regina, tuo de
vertice cessi (è la chioma che si lamenta di essere stata tagliata e
così staccata dal capo di Berenice); ora il taglio si indicherebbe
con caesaries; ma caesaries sarebbe anche il taglio cesareo, da cui
derivava il cognomen Caesan dunque il verso di Enea rivolto a Di-
done è un'allegoria di Cesare che saluta Cleopatra partendo dal-
XI. L’eredità lucreziana 225
l'Egitto: un velame davvero complicato ed oscuro! Quasi altret-
tanto complicata la trama attraverso cui si passa per interpretare
una descrizione del Tevere in Vili, 63: il fiume con la sua corrente
rade le sponde e attraversa le feconde campagne (.stringen- tem
ripas et pinguia culta secantem)\ non un'etimologia del nome
Thybris, ma del nome che il Tevere aveva prima, cioè Rumon, in-
terpretato press'a poco in questo modo da grammatici antichi
(dobbiamo la spiegazione a Servio); si noti che il nome non com-
pare nell'Eneide, tranne in una variante per rumore in Vili, 90,
variante non accolta da nessun editore. Per ammonire Ascanio
Apollo prende le sembianze di Butes, che era stato armiger (pres-
s'a poco «scudiero») di Anchise (IX, 646-648); un ingegnosissimo
latinista nordico accosta Butes a Bootes; Bootes a sua volta ri-
chiama la costellazione del carro, in greco $Q[Xa, contenuto in ar-
miger, Bute viene designato anche come custos di Anchise e cu-
stos allude ad Arcturus (una stella della costellazione di Boote). In
XII, 521-528 Enea e Turno vengono paragonati a ignes che
bruciano una selva; la similitudine si chiude col quadro dei due
eroi che non segnius ambo/... ruunt per proelia («con non minor
vigore si precipitano in battaglia»); secondo un'interpretazione del
Servio Danielino l'etimologia di segnius è sine igne e si ha, quindi,
dopo sei versi, un richiamo a ignes. Forse il capolavoro di queste
ricerche ingegnose è la scoperta dell'inizio deil’IUade Mfjviv
aeiòe, 0eà nel primo monologo di Giunone irata I, 37: Mene
incepto desistere victam («Io, vinta, dovrei rinunziare al compito
incominciato?»). Come si vede, parecchi interpreti moderni,
specialmente dell'ultimo secolo, gareggiano con i grammatici
antichi nella scoperta e soluzione di sciarade (sull’ermeneutica
delle sciarade avrò occasione di tornare in seguito) 12.
Tutta questa caccia agli indovinelli ha un’attenuante, ripeto, nel
fatto che il gioco etimologico è ben presente nell’opera di Virgilio.
Credo che O’Hara abbia ragione nel dare il peso maggiore
all’influenza del gusto alessandrino del lusus più o meno elegante;
v’è, inoltre, un’ostentazione di erudizione, benché in Virgilio più
misurata che in Callimaco e in Apollonio Rodio. Ma un peso
tutt’altro che secondario va attribuito alla ricerca della verità
storica: l'etimologia era una via per risalire alle origini, spe-
cialmente nella civiltà romana: su questa via Virgilio era sospinto
dalla tradizione antiquaria latina, e specialmente da Varrone, con
226 Parte terza. L‘«Eneide»; il costo tragico del potere

cui si scorgono parecchie consonanze.


Di più Virgilio deve avere attinto da Varrone a proposito di
costumi degli antichissimi Latini ed Italici; mi limiterò ad alcuni
esempi. Nel descrivere la reggia di Latino (Aen. VII, 175 s.) Vir-
gilio ricorda che i senatori riuniti a banchetto erano seduti, non
sdraiati (come nell’uso dei triclini):
hic ariete caeso perpetuis soliti patres
considere mensis
. [qui, dopo il sacrifìcio di un ariete, / i senatori insieme
erano soliti sedersi a lunghe mense].
Servio annota che su questo costume informava Varrone in libris
de gente populi Romani (= fr. 37 Fraccaro). C’è qualche proba-
bilità che da Varrone provengano informazioni sull’armamento di
antiche popolazioni latine e italiche. Nell’armamento delle truppe
di Aventino, figlio di Ercole - dunque truppe provenienti dalla
zona della futura Roma - troviamo (Aen. VII, 664 s.) do- lones-e il
veru Sabellum\ ora, secondo la nota di Servio, di dolo- nes àveva
trattato Varrone, descrivendoli come grossi pali con una punta
relativamente piccola di ferro; anche il veru Sabellum proverrà da
Varrone. Tra i guerrieri uccisi da Camilla v’è Orny- tus armato di
un agrestis sparus (Aen. XI, 682): di quest’arma, secondo la nota
del Servio Danielino, aveva trattato Varrone, spiegandone, forse
giustamente, il nome con la somiglianza alla forma di un pesce, U
basta pura su cui si appoggia Silvio, il futuro figlio di Enea e
Lavinia, è, come spiega Servio, l’asta senza ferro, premio che si
dava un tempo al giovane alla sua prima vittoria:
il commentatore cita come autorità Varrone, anche questa volta
per il De gente populi Romani (= fr. 36 Fraccaro). Sappiamo che
Varrone, in quest’opera e forse anche in altre, approfondì una
convinzione già spuntata in Catone il Censore e Polibio, secondo
cui i Romani assimilarono costumi e altri elementi di civiltà da
altri popoli, Greci, Sabini, Etruschi, Galli ecc.; un tempo era
opinione diffusa che egli attingesse il concetto da Posidonio 13.
Partendo da questo presupposto, si può ritenere probabile che da
Varrone provengano a Virgilio altre indicazioni sulle origini di
alcune armi: la cateia, una specie di giavellotto, che alcune po-
polazioni provenienti dalla Campania scagliano Teutonico ritu
(.Aen. VII, 741); gli scudi dipinti dei Labìci, probabilmente i La -
XI. L’eredità lucreziana 227
bicani, una popolazione del Lazio {Aen. VII, 796); gli Alpina gae-
sa, una forma di giavellotto, di cui sono armati i Galli {Aen. VIU,
661 s.); si aggiungano i calzari etruschi di Evandro {Aen. VHI,
458)14.
In tutti questi casi un margine di incertezza resta: non è im-
possibile che Virgilio attingesse la notizia da altre fonti antiquarie
o storiche, ma la congettura dell'origine varroniana si può
considerare probabile e Varrone avrà contribuito a rinsaldare in
Virgilio l'amore per una cultura remota che era elemento essen-
ziale dell'identità romana: giacché l'eredità romana non era più
solo latina, ma latina ed italica insieme, e questo concetto nell'età
augustea si rafforzò in misura decisiva. Invece oggi appare molto
dubbia l'ipotesi, sostenuta dal Norden, di Varrone come tramite fra
Posidonio e Virgilio della dottrina sulle anime enunciata nel libro
dell'oltretomba.
Molto più incerte, néH’Eneide, le tracce di Nigidio Figulo, un
dotto contemporaneo di Varrone, esperto anche di antiquaria e più
di lui impregnato di pitagorismo. Virgilio, nell'episodio di Camilla
{Aen. XI, 701; 715), raffigura i Liguri come fraudolenti, mendaci,
vanagloriosi; in una nota (a 715) il Servio Danielino cita un passo
di Nigidio (fr. 101 Swoboda), che li qualificava come latrones,
insidiosi, fallaces, mendaces\ si tratta di un giudizio diffuso,
presente già nelle Origines di Catone (nel libro II, fr. 3132 P2). Ma
neppure della lettura di Catone abbiamo indizi consistenti. Si
potrebbe supporre che dalle Origines (II, fr. 59 P.2) Virgilio {Aen.
VII, 678 ss.) conoscesse Cèculo, figlio di Vulcano, trovato
bambino in un focolare; ma Virgilio lo indica come «nato fra le
greggie dei campi»: la fonte sarà diversa, Varrone o altri. Delle
letture storiche del poeta non sappiamo niente; si può fare
eccezione per Sallustio; tuttavia anche per Sallustio i casi certi
sono pochi, benché i commenti antichi lo citino parecchie decine
di volte15. Può darsi che dalle Historiae di Sallustio (IV fr. 26
Maurenbrecher) Virgilio {Aen. IH, 414-419) abbia accolto la
spiegazione dello stretto di Messina, secondo cui Italia e Sicilia,
prima congiunte, erano state separate violentemente da uno
sconvolgimento tellurico. Sallustio, citato da Servio nel com-
mento, presentava l’alternativa fra un’invasione del mare, che co-
priva la sutura collocata in basso, e una scissione violenta della
massa eccessiva per lo spazio ristretto: medium spatium aut per
228 Parte terza. L‘«Eneide»; il costo tragico del potere

humilitatem obrutum esset aut per angustiam scissum. Virgilio po-


trebbe avere preferito la seconda spiegazione:

Haec loca vi quondam et vasta convolsa


ruina ... dissiluisse ferunt
[Questi luoghi un tempo (così tramandano), sconvolti / da
violenti e vasti crolli, si scissero...];

ma non è una certezza. In Aen. VH, 623 :


Ardet inexcita Ausonia atque immobilis ante
[Arde TAusonia, prima tranquilla e
immobile...]
si potrebbe avvertire un’eco di Sallustio, Hist. I fr. 85 M.: Arde-
bat omnis Hispania citerior\ ma metafora e iunctura non sono rare.
Certamente, però, è stato Sallustio ad ispirare a Virgilio quella
raffigurazione dell’oltretomba sullo scudo di Enea in cui vediamo
Catilina nel Tartaro, appeso ad una roccia e atterrito dalle Furie, e
Catone l’Uticense fra le anime pie, di cui ha il governo (Aen. VIII,
666-670): la contrapposizione è quella che un lettore preoccupato
dalle sedizioni, desideroso dell’ordine, poteva ricavare dalla lettura
del Bellum Catilinae\ da una parte un criminale della politica,
dall’altra il salvatore dello Stato e della società dalle discordie e
dalla sovversione; sia Cicerone, il pater patriae, sia Cesare,
politico meno inflessibile, restano fuori dalla sc^na 16.
2
5
7
XIV. La -poesia dei rituali 243
244 Parte terza. L‘«Eneide»; il costo tragico del potere
2
6
6
252 Parte terza. L‘«Eneide»; il costo tragico del potere
253 P'arte'terza, L‘ «Eneide»: il costo tragico del potere
2
7
3
XVI. La cultura filosofica 259
260 Parte terza. L‘«Eneide»; il costo tragico del potere

contaminano con le passioni: la metafora della malattia (737:


cor- poreae... pestes) indica il peccato, concepito in modo
abbastanza simile a quella che sarà la concezione cristiana (e
che è comune, del resto, a molte religioni, anche primitive).
Dopo la morte le anime impure espiano le loro colpe
incarnandosi in corpi di animali, nell’aria e nelle acque; alcune
si purificano nel fuoco. Le anime purificate passano nei Campi
Elisi, ma solo poche vi restano permanentemente; le altre
devono aspettare mille anni per tornare alla piena purezza; allora
bevono le acque del fiume Lete (dimenticando così le vite
anteriori) e tornano a incarnarsi in corpi umani: tra queste anime
in attesa di essere ammesse a bere l’acqua del Lete Anchise
mostra ad Enea i futuri personaggi illustri della storia di Roma.
La teoria dell’anima su cui si fonda la rassegna degli eroi
romani fu ricondotta da Norden a Posido- nio (la prima edizione
del famoso commento di Norden risale al 1903); i successivi
studi sul filosofo greco (i più importanti e innovativi furono
svolti da Reinhardt) non hanno confermato l’ipotesi di Norden,
che tuttavia non si può considerare del tutto tramontata. Oggi
gode di maggior credito, pur non potendosi considerare come
dimostrata con certezza, l’ipotesi che fa risalire la teoria stoico-
pitagorico-platonica ad Antioco di Ascalona e all’Accademia,
da lui guidata, della prima metà dell sec. a.C. (cioè
contemporanea di Posidonio); come fonte diretta di Virgilio
vengono indicate la Res divinae di Varrone, che di Antioco fu
discepolo3.
La parte «filosofica» del libro dell’oltretomba è preceduta,
com’è ben noto, da una parte (268-627) che evoca il mondo de-
gli inferi, dove sono puniti i colpevoli: è la parte che Norden de-
nominava «mitologica», che presuppone la nékyia dell 'Odissea
e catabasi, influenzate dall’orfismo, dei secoli posteriori, fino
all’età ellenistica: secondo Norden una catabasi di Eracle e una
catabasi di Orfeo. Il grande filologo tedesco riteneva che anche
questa letteratura avesse un riflesso in Posidonio e che Virgilio
presupponesse il filosofo di Rodi anche nella parte
«mitologica»; tuttavia egli non intendeva escludere che Virgilio
usasse direttamente catabasi anteriori. La presenza di Posidonio
in questa parte ha trovato, giustamente, ben poco credito, mentre
l’uso di catabasi anteriori è stato confermato dalla
XVI. La cultura filosofica 261

pubblicazione, circa mezzo secolo fa, del testo di un papiro


conservato a Bologna, che fu subito messo a confronto col libro
virgiliano dell’oltretomba4. Ciò che si può leggere nel papiro,
scritto nel sec. Ili o IV d.C., non è molto, ma alcuni elementi
comprensibili trovano riscontri notevoli in Virgilio. Nei fogli I
v, II r il testo, sia pure molto lacunoso, del papiro dà un catalogo
di peccatori e di relative pene; in questo catalogo, più ampio di
quello di Virgilio, alcune categorie di peccatori sono comuni.
Nell’elenco di Aen. VI vengono per primi quelli che hanno
odiato i fratelli o percosso il padre; nell’elenco del papiro (II r)
compare chi ha ucciso il fratello per abitare da solo la casa del
padre; Virgilio ha aggiunto una categoria romana: quelli che
hanno tramato frodi contro i clienti. Nel passo dèi*Eneide
vengono poi gli avari, che custodiscono le ricchezze accumulate
e non le dividono neppure con i loro familiari (;maxima turba,
commenta il poeta); anche nel papiro compare l’avaro che ha
accumulato oro con assidua fatica e odia (chi può sottrarglielo).
Seguono, in Virgilio, coloro che sono stati uccisi per adulterio;
nel papiro corrisponde, sia pure genericamente, chi vende la
moglie per lucro (si aggiunge il corruttore di fanciulli). Infine,
nell’elenco virgiliano (612 s.), qui... arma secuti / impia nec
veriti dominorum fallere dextras: probabilmente i ribelli contro
la patria (nelle guerre civili) e gli schiavi ribelli ai padroni; in
questo caso il riscontro nel papiro è approssimativo: vi com-
paiono quelli che hanno tradito l’amicizia e, forse, vincoli di pa-
rentela.
Anche più rilevanti sono nella parte «filosofica» - che, dopo
Vexcursus e prima del catalogo di grandi personaggi romani,
contiene anche un breve catalogo di beati - le analogie fra il
testo di Virgilio (Aen. VI, 660-665) e quello del papiro (IH r).
Nell’E- neide vengono per primi coloro che sono stati feriti
combattendo per la patria; dal papiro si possono mettere a
riscontro coloro che sono caduti per salvare amici (si trovano
nella parte del catalogo che Max Treu indica come «etica»).
Virgilio, dopo aver richiamato i sacerdoti puri e i pii vati (cioè
indovini), colloca gli inventori delle arti e coloro che per i loro
meriti hanno lasciato memoria di sé (cioè che hanno acquistato
gloria); ora nel catalogo del papiro segue una parte che Max
Treu indica come «storico-culturale», cioè riguardante l’origine
262 Parie iena. L’«Eneide»: il costo tragico del potere

della civiltà, e che menziona poeti, medici, esperti nella


lavorazione dei metalli, esperti nell’agricoltura e nello
sfruttamento del suolo, anche selvaggio (non per tutte le
categorie il testo è chiaro). Colpisce specialmente un'analogia
verbale (Aeh. VI 663):
qui vitam excoluere per artis
[coloro che impegnarono la loro vita nell'invenzione delle

arti] è affine all'indicazione di una categoria di beati data dal

papiro: al 5è (3Cov aocp(,r)iaiv exóa|i80v


[alcune (anime) ornarono la loro vita con le invenzioni
dei loro ingegni].
Anziché pensare ad ima fonte comune, Max Treu avanzò l'i-
potesi che Virgilio conoscesse la catabasi del papiro; l'indizio è
un po' tenue, ma l'ipotesi non è assurda. Comunque Virgilio co-
nosceva letteratura, probabilmente poetica, di questo genere.
Fra le anime che dimorano nei Campi Elisi, non vi sono, co-
me abbiamo visto poco fa, solo guerrieri e politici, anzi, poco
dopo l'inizio della descrizione, ha un posto d'onore Orfeo; ma è
evidente che sono guerrieri e politici ad avere più spazio: i
magnanimi heroes troiani, nati mèlioribus annis (Aen. VI, 649),
cioè i progenitori come Dardano, Ilo, Assaraco e, soprattutto, i
grandi personaggi della storia romana. Ciò deve ricordarci che
fra i presupposti della parte riguardante i Campi Elisi va messo
anche il Somnmm Scipionis di Cicerone, un pezzo di spicco nel
VI libro del De republica\ il paradiso di Cicerone è innanzi tutto
il premio accordato ai grandi uomini politici; già Cicerone si
ispirava a Platone (cioè, com'è ben noto, al mito di Er nel X
libro della Repubblica). Non credo, tuttavia, che l'influenza di
Cicerone sull'oltretomba di Virgilio vada al di là di questa
significativa analogia di impronta romana; tra l'altro Cicerone
non ricorre alla metempsicosi5.
Se si guarda nel complesso l'esile cultura filosofica deWEnei-
de, si possono ricavare due conclusioni generali. Si conferma
l'importanza di base dello stoicismo come concezione del cosmo
XVI. La cultura filosofica 263

e come guida nei comportamenti etici; ma una nuova ansia reli-


giosa pervade la concezione del mondo e della vita. Il razionali-
smo stoico restava sostanzialmente estraneo alle attese soteriolo-
giche, verso le quali spingeva la terribile crisi politica e morale
delle guerre civili; con quelle attese, che caratterizzano la fine
della repubblica e l’età augustea, meglio si conciliava il
platonismo rinato nella prima metà del I sec. a.C.: VEneide si
capisce meglio se accostata alla rinascita del platonismo, che
convisse per seco
li accanto allo stoicismo, fino a scalzarlo nel III sec. d.C. E va
aggiunta un’altra considerazione: nell’ambito di credenze
trasmesse dal platonismo, ma anche da varie forme di religione,
Virgilio dà un sensibile risalto a miti di resurrezione: un mito di
resurrezione, quello di Dafni, è al centro delle Bucoliche; con la
resurrezione delle api, per quanto appannata dalla forte presenza
del mito tragico di Orfeo, si chiudono le Georgiche; la
trasmigrazione delle anime, nell’Exeide, le riporta sotto il cielo,
alla luce del giorno e a nuova vita: anche qui si può parlare di
resurrezione:
il mito della resurrezione, come il mito dell’età dell’oro, percor-
re tutte e tre le opere e costituisce imo dei fili che le unificano.
xvn
I TRE PIANI NON COERENTI DELL’«ENEIDE»

UEneide ha un suo nucleo ideologico, che emerge con parti-


colare chiarezza nella conclusione del discorso di Giove a Vene-
re nel I libro (294-296). Il poema vuol essere la giustificazione e
Pesaltazione della vittoria e della pace instaurate da Augusto,
collocate, come ho già detto, al culmine della storia di Roma,
fondatrice di un impero ecumenico. Alla fine di quel discorso la
vittoria di Augusto si configura come la vittoria sul Furor, un
mostro che è stato incatenato e imprigionato:
Furor impius
intus saeva sedens super arma et centum
vinctus aenis post tergum nodis fremet
horridus ore cruento
264 Parie iena. L’«Eneide»: il costo tragico del potere

[all'interno il Furore empio, / seduto sulle armi crudeli e


con le mani legate dietro la schiena / da cento nodi di
bronzo, fremerà, spirando orrore, dalla bocca
insanguinata].
Un brutto quadro allegorico, che ci richiama alla mente altri
prodotti del neoclassicismo moderno, ma importante per capire
rEneide come poema augusteo. Nei versi precedenti (291-294)
vediamo la pace augustea come il regno della Fides, di Vesta, di
Romolo e Remo riconciliati: la pace augustea ha purificato
Roma dal nefas orribile del fratricidio, che era alla sua origine;
ora il tempio di Giano è chiuso. Se il Furor impius, che
simboleggia non tanto la guerra in genere quanto la guerra
civile, è stato domato, il domatore è la ragione, il consilium che
guida la forza ed è unito strettamente allap/éto. In una delle odi
«romane» di Orazio (Carm. HI, 4, 43-80) la vittoria di Augusto
sui nemici è assimilata alla Gigantomachia, cioè alla vittoria di
Giove e degli dèi olimpici contro i mostri ribelli: i Greci
avevano da secoli interpretato questo mito antichissimo come
allegoria della vittoria della ragione {nous, logos) contro la forza
bruta, e l’ideologia augu- stea ricalcò e utilizzò
quell’interpretazione; il quadro di Virgilio, anche se non ricalca
figurativamente la Gigantomachia o la Titanomachia, è
certamente affine nell’ispirazione. Come si vede, la guerra non
ammette conciliazione e finisce col dominio completo sul
nemico, ridotto all’impotenza (anche se non ucciso). Questa
concezione del rapporto col nemico non è estranea, natural-
mente, alla storia di Roma - basterà ricordare il caso di Cartagi-
ne, che venne completamente distrutta - ma i Romani elabora-
rono e seguirono anche un’altra concezione, che finì col preva-
lere: quella, cioè, secondo cui i nemici vinti andavano trattati
con clemenza e assimilati nell’organismo dell’impero 1; ma non
c’è da stupirsi se la prima concezione, molto diffusa tra i popoli
del vicino Oriente, fosse sentita come valida dopo la vittoria su
Antonio e Cleopatra.
Questo nucleo ideologico, che fa dei rapporti tra il fato - con-
cepito come la ragione degli Stoici - e le forze opposte un con-
trasto irriducibile, trova sviluppo coerente solo in alcune parti
del poema: in modo più evidente nella raffigurazione della bat-
XVI. La cultura filosofica 265

taglia di Azio sullo scudo di Enea, specialmente nello scontro


fra gli dèi di Roma e le mostruose divinità egiziane {Aen. Vili,
696700). Ha giustamente richiamato l’attenzione il racconto
della lotta di Ercole contro Caco (Aen. Vili, 185-272): anche qui
una lotta della forza giusta contro una forza iniqua e mostruosa,
per di più armata di astuzia, un contrasto irriducibile fra il bene e
il male, affine a quello fra Augusto e i suoi nemici. Si può
aggiungere, tra l’altro, l’inimicizia fra Cartagine e Roma nella
profezia di Didone. Se questa ispirazione manichea è stata poco
feconda di buona poesia, serve, però, ad ancorare l’azione, la
profezia, la storia ad un fondo cosmico grandioso2.
Alla lotta fra ragione e Furor corrisponde, nella sfera divina,
quello fra Giunone e Venere; ma l’opposizione è ben diversa.
Opponendosi al giusto corso del fato, l’azione di Giunone è in-
giusta e, in fin dei conti, vana; ma dal racconto effettivo una sua
responsabilità morale non emerge. Venere agisce in piena armo-
nia col corso del fato, ma la motivazione che emerge dal raccon-
to è ramore materno più che l’obbedienza alla superiore giustizia
del destino: dopo tutto, gli dèi di Virgilio restano ancora troppo
vicini alla amoralità e alla irresponsabilità degli dèi omerici.
Ancora più che in questo la differenza dal contrasto ragione /
Furor è nell’esito: Giunone, divinità passionale ma mai
ripugnante
o esecrabile, si concilia alla fine col fato. Sul piano del mondo
divino il contrasto non è tragico.
Tragico è, invece, sul piano del mondo umano: per Didone il
suicidio è la soluzione necessaria, se vuole mantenere la sua di-
gnità; Turno deve andare incontro alla morte, non schivarla, se
vuole salvare il suo onore. Sul piano del mondo umano i nemici
del fato non sono personaggi collocati al di fuori della sfera dei
valori positivi. Turno è un guerriero valoroso ed è caratterizzato
da un profondo senso dell’onore, una motivazione che, dalla
narrazione effettiva, emerge molto più che l’amore per Lavinia.
Virgilio non nega la culpa di Didone, giacché, a rigore, ella ha
pur sempre la possibilità di opporsi alla passione; tuttavia
l’amore, una malattia che viene dal di fuori, ma che arriva a
possederla neH’intimo della sua persona, una forza irrazionale
che il poeta sa quanto difficilmente sia domabile, è degna di
pietà, molto più che di condanna. Mezenzio viene contrapposto
266 Parie iena. L’«Eneide»: il costo tragico del potere

ad Enea, il re pio, come il tiranno empio ed esecrabile, eppure è


nobilitato dall’amore per il figlio. Camilla, la guerriera
prodigiosa, è posseduta interamente (o quasi) dall’ardore della
battaglia e non sa di combattere contro il fato. Insomma
néYEneide gli antagonisti non sono personaggi «negativi»: a
parte mostri come Polifemo e Caco, i personaggi «negativi» si
trovano piuttosto dalla parte del fato: il fraudolento Sinone, il
demagogo Drance. Sul piano del mondo umano ed eroico il
contrasto muta di nuovo e si delinea come contrasto fra il
destino e valori positivi: quindi si differenzia nettamente da
quello che si pone sul piano cosmico o teologico. Ma si
differenzia non meno da quello che si svolge sul piano del
mondo divino, perché è, come quello del piano teologico,
irriducibile: Giunone può conciliarsi col fato, Turno no: il mon-
do degli uomini e degli eroi resta, quindi, un mondo tragico. Se-
gnare le differenze fra i modi in cui il contrasto si delinea sui tre
diversi piani, è essenziale per capire YEneide: per esempio, non
è solo segno di cattivo gusto, ma anche di scarsa comprensione
della dinamica del poema il mettere sullo stesso piano Caco e
Turno e vedere nel primo la prefigurazione del secondo 3: è come
fare di Turno, o di Ettore, un mostro. L'ossessione di cercare ad
ogni costo nelYEneide coerenza ed armonia porta ad assurdità di
questo genere. Non sarà superfluo aggiungere che nessuno di
questi tre piani va troppo isolato: i tre piani non sono coerenti
fra loro, ma sono interdipendenti: anche se studiamo e
valutiamo solo una parte dell'edificio, dobbiamo tenere sempre
presente l'insieme4, altrimenti si giunge ad interpretazioni unila-
terali e, alla fine, deformanti. UEneide diventa solo un poema
trionfalistico augusteo, come spesso nelle interpretazioni tede-
sche5, o solo il poema dei vinti, segretamente antiaugusteo, co-
me spesso in interpretazioni americane 6. Infine sarà opportuno
avvertire che la poesia dei vinti, il senso tragico déWEneide si
possono e si debbono ricavare da espressioni più o meno
esplicite del testo, non escogitando, con giochi degni della
settimana enigmistica, duplici o molteplici sensi al di là di
quello manifesto.
xvm
L'«ENEIDE» COME POEMA AUGUSTEO
XVI. La cultura filosofica 267

La funzione dél’Eneide come poema augusteo è emersa più


volte nel corso di questa trattazione, specialmente quando ho in-
sistito sul legame essenziale fra mito e storia e su Augusto come
culmine della storia romana; ora cerchiamo di vedere, molto ra-
pidamente, come viene illuminata la figura del princeps e quali
elementi del poema sono connessi più immediatamente all'ideo-
logia augustea1.
Come Orazio, Virgilio privilegia, nella figura del principe,
l'aspetto carismatico: accogliendo la teologia imperiale nella
forma datale dopo l'assetto politico del principato nel 27 a.C.,
egli assimila l'imperatore ai grandi benefattori dell'umanità,
come Ercole e Bacco, assunti fra gli dèi dopo la morte grazie ai
loro meriti. L'assimilazione compare esplicitamente nel
panegirico di Augusto che Anchise pronuncia nella rassegna dei
grandi personaggi romani (Aen. VI, 801-805): l'apoteosi dopo la
morte è pressappoco la stessa che veniva celebrata per
l'imperatore nel proemio delle Georgiche. Liberata la terra dai
mostri, cioè dai nemici esterni dell'impero romano e, soprattutto,
dalla follia sanguinaria delle guerre civili, dal Furor impius, il
nuovo eroe riporterà sulla terra l'età dell'oro (oltre il panegirico
pronunciato da Anchise cfr. la fine della profezia di Giove a
Venere in Aen. I, 286295). L'assimilazione di Augusto a Ercole
è, come viene generalmente riconosciuto, tra i motivi ispiratori
del racconto, relativamente ampio, della lotta dell'eroe tebano
contro Caco (Aen. Vili, 185-279). L'avvento di eroi liberatori
come Ercole ed Augusto è preceduto dall’attesa angosciosa degli
uomini oppressi. Così fu per gli Arcadi di Evandro (200 s.):
Attulit et nobis aliquando optantibus
aetas auxilium adventumque dei.
[Anche a noi, che lo bramavamo, / il tempo infine apportò
l'aiuto e l'arrivo di un dio].
Ad esprimere l'angoscia dell'attesa concorre fortemente l'allitte-
razione con a. Riflessi lontani, ma non trascurabili, del messia-
nismo dell’età augustea si possono avvertire, io credo, anche
nella rappresentazione dello stato d’animo dei Troiani assediati
da Turno, mentre Enea si è recato da Evandro: per esempio, in
questa invocazione che Ascanio rivolge a Niso ed Eurialo (Aen.
EX, 261 s.):
268 Parie iena. L’«Eneide»: il costo tragico del potere

revocate parentem, reddite conspectum;


nihil ilio triste recepto
[«richiamate il padre, rendeteci la sua presenza; / ogni
tristezza svanirà al suo ritorno»].
(Qui si noterà l’efficacia espressiva dell’apprefissazione con
re-). Ricordando questo stato d’animo, si capisce in tutto il suo
senso l’esultanza dei Troiani assediati alla vista di Enea, che
dall’alto della poppa ha innalzato il suo scudo balenante: è
l’arrivo sfolgorante del salvatore.
Da secoli rientrava fra gli eroi divinizzati anche il fondatore
di Roma, Romolo, assunto dopo la morte fra gli dèi col nome di
Quirino. L’accostamento a Romolo era discreto, perché Augusto
riteneva inopportuno (e certamente vedeva giusto) proclamarsi
come un nuovo rex: ciò avrebbe significato una rottura violenta
con l’ideologia antimonarchica instauratasi da secoli, cioè dalla
cacciata dei Tarquini in poi. Tuttavia, già a partire da Siila, la
cultura politica romana, specialmente quella greca in contatto
con Roma, aveva dato un certo risalto alla figura del bonus rex,
contrapposto all’empio tiranno: l’Enea di Virgilio rientra in
questo modello politico e morale; anche Virgilio gli
contrappone un empio tiranno, cioè Mezenzio2. Se si tiene conto
di questo contesto ideologico, riesce significativa la
collocazione del panegirico di Augusto nella rassegna svolta da
Anchise (Aen. VI, 789-807): viene subito dopo l’elogio di
Romolo (777-787). Ambedue saranno
269 Parte terza. Lf «Eneide»: il costo tragico del potere
XVUL U«Eneide» come poema augusteo 270
271 Parie iena. L’«Eneide»: il costo tragico del potere
IL MONDO DEGLI
DÈI
284 Parte terza. L‘«Eneide»; il costo tragico del potere
XIX. Il mondo degli dèi 285
3
0
9
XX. Il mondo degli eroi. Il protagonista 295
3
1
7
XXI. L’«Eneide» come poema dei vinti 303
XXL L’«Eneide» come poema dei vinti 304
305 Parte terza. Lf «Eneide»: il costo tragico del potere
306 Parte terza. L‘«Eneide»; il costo tragico del potere
XXL L’«Eneide» come poema dei vinti 307
tenere che Turno accetti il fato come giusto, quale lo considera
Latino21. ■
Anche dopo avere illuminato la Stimmung «stoica» di Turno
bisogna considerarlo, è ovvio, un antagonista di Enea: egli viene
opposto al protagonista perché non sa riconoscere, come il re La-
tino, la giustizia del fato, perché manca di ponderazione e di mi-
sura, perché ha carattere poco saldo e, anche se lontano dalla viltà,
non è esente da debolezze, perché si macchia di hybris; bisogna,
però, evitare anche contrapposizioni schematiche e deformanti.
Credo errato contrapporre ad Enea come bonus rex Turno come
cattivo re22; ancora peggio farne un ribelle contro gli dèi, -un
egoista che sacrifica il suo popolo alle proprie ambizioni23, o
addirittura un nemico dello Stato24; mostruosa, infine, l'as-
similazione a Caco, una di quelle interpretazioni in cui è difficile
dire se sia maggiore l'improbabilità o il cattivo gusto 25. Si capisce
che gli eccessi in senso contrario, cioè degli interpreti che
accostano troppo Turno al suo avversario, sono molto più vicini al
vero26. Tra gli antagonisti della seconda parte del poema Amata,
come abbiamo visto, è la più vicina a Didone; si sono cercate
anche affinità di Turno con la regina di Cartagine, ma per lo più si
tratta di escogitazioni sottili (come quella di Pòschl, secondo cui
nella similitudine di Turno col leone ferito all'inizio del libro XII -
Poenorum in arvis ~ alluderebbe a Didone, che dovrebbe essere
immaginata come una leonessa). Un'affinità notevole credo si
possa scorgere nel progressivo isolamento dei due personaggi: la
morte di Mezenzio, di Camilla, di Amata, l'abbandono da parte di
Giunone, il forzato ritiro di Giuturna rendono l’eroe sempre più
solo: quando arriva al duello finale sa di essere stato abbandonato
dagli dèi e dagli uomini. Ad Enea, che
lo irride con ferocia (Aen. XII, 880 saevo... pectore) e con sarca-
smo, risponde (894 s.):
Non me tua fervida terrent dieta, ferox: di
me terrent et Iuppiter hostis.
[Non me i tuoi ribollenti insulti / atterriscono, o crudele ne-
mico; gli dèi mi atterriscono e l'ostilità di Giove].
Risposta ispirata da senso della propria dignità e da giusto di-
sprezzo27.
Fra tante questioni spinose possiamo fare a meno di chiederci
se Turno sia o no personaggio «tragico». Qualche tempo fa è stato
308 Parte terza. L‘«Eneide»; il costo tragico del potere
sostenuto che egli è eroe «untragisch»28. Partendo dalla definizione
di Aristotele si può rispondere di no: una condizione necessaria,
secondo Aristotele, perché si abbia tragedia, è che l'eroe,
commettendo errore Chamartia), sia innocente: se si è macchiato
di colpa (<adikema), non è eroe tragico, perché può suscitare
condanna, ma non compassione (éleos) e terrore (phóbos): Turno
si è macchiato di una colpa, è «untragisch», mentre è tragica
Didone. Ma quante tragedie antiche rientrano nella definizione di
Aristotele? Comunque non vi rientrano molte tragedie moderne:
Riccardo IH sarebbe personaggio «untragisch». Si capisce che noi
parliamo di tragedia in senso moderno e generico.
Al di là del ruolo dei due grandi avversari, la fine agghiacciante
deH’Eneide segna una sconfitta della clemenza: poiché c'è una
hybris che non può essere cancellata, il giusto dominio richiede un
prezzo di sangue: non c'è, come nel mondo degli dèi fra Giunone e
Venere, conciliazione possibile. La sconfitta della clemenza alla
fine del poema è parallela all’esito della tragedia di Didone nella
prima parte: la lacerazione dell’amore e il suicidio della regina non
sono la sola conclusione della vicenda; la conclusione è, nello
stesso tempo, la sconfitta della humanitas della regina: dalla
comprensione delle sofferenze degli altri la regina arriva ad un
odio inestinguibile, che si prolungherà in un’apocalittica vicenda
storica, la sconfitta e la distruzione di Cartagine. Mentre, però, i
lettori hanno sempre sentito la tragedia di Didone come un
dramma compiuto, non tutti si sono rassegnati ad accettare la fine
dél’Eneide come una conclusione adeguata: alcuni si sono sentiti
smarriti e sgomenti di fronte a questa fine agghiacciante, davanti
all’anima di Turno che scende nell’oltretomba sdegnata contro il
suo destino. I letterati umanisti che vollero dare aWEneide una
continuazione cercavano di evitare questa fine stridente e
agghiacciante; ma questa sensazione non era nata con loro e non
finiva con loro: risaliva fino a Stazio, che non volle concludere la
Tebaide con la morte di Eteocle e Polinice, ma aggiunse un libro
che finiva con la vittoria della Clemenza, anche se questo trionfo si
poneva alla fine di una guerra sostenuta da Teseo ed Atene contro
Creonte e Tebe. UIliade non finiva con la morte di Ettore, ma con
l'incontro fra Priamo e Achille e la restituzione del cadavere:
Stazio si riaccostava, in qualche modo, ad Omero.
Va ribadito che i nemici del fato non possono essere identificati
col Furor impius: sono uomini ispirati anche da sentimenti e valori
XXI. L’«Eneide» come poema dei vinti 309
positivi. Comunque il compimento del fato richiede la morte di
giovani innocenti, come Pallante, Lauso, Eurialo, Niso, e di
uomini giustissimi, come Rifeo e Galeso. Il dominio, anche se
giusto, richiede un prezzo ingiusto, ha un costo troppo alto: in
questo hanno ragione i latinisti della «scuola di Harvard» 29. Io
preferisco la formula che usai più di trentanni fa, cioè l'ingiusti-
ficabilità della storia30; ma la differenza non è rilevante.
Per questa scuola nutro grande rispetto, perché è uno dei rivoli
di un grande filone della cultura democratica americana, qualche
volta capace di criticare e condannare l'arroganza e le conseguenze
funeste del potere; ma mantengo alcune riserve non irrilevanti, che
qui espongo schematicamente:
1. L'interpretazione delVEneide come poema dei vinti non è na-
ta nella seconda metà del secolo XX: credo che risalga al romanti-
cismo e forse più indietro fino ad Agostino, che piangeva sulle pe-
ne di Didone; comunque in Italia questa interpretazione ha avuto,
da Tommaso Fiore {La poesia di Virgilio, Bari 1931), che era do-
minato dall'estetica crociana, ma aveva anche venature tolstoia-
ne31, e dal Funaioli fino al Giancotti, un ampio e continuo svilup-
po. Anche nell'ultimo mezzo secolo gli studi virgiliani non si sono
ridotti ad uno scontro di harvardiani antiaugustei e tedeschi au-
gustei. Questa è una visione da bibliografi, miopi, non da storici
degli studi 'classici.
2. Linterpretazione harvardiana sottovaluta l'aspetto «augu-
steo». È vero che recentemente la rotta è stata un po’ corretta.
3.1 seguaci della scuola di Harvard, parecchio influenzati dal
simbolismo avventuroso di Pòschl (quello secondo cui i lampadari
nella sala del banchetto di Didone preannunziano l'incendio di
Troia), si affidano a interpretazioni dei testi spesso fragili e ri-
schiose: Parry, per esempio, vuol ricavare dal lamento per Um-
brone, l'incantatore marso di serpenti, una protesta contro la
conquista dellTtalia da parte di Roma e contro la distruzione della
cultjura italica: interpretazione elegante e affascinante; ma in
Virgilio - mentre è chiaro il concetto che l'Italia ha dato un con-
tributo essenziale alla formazione dell'impero e che Roma e l'Italia
sono strettamente unite come cuore dell'impero - non c'è traccia di
spirito italico antiromano. L'interpretazione avrebbe fatto piacere a
Giuseppe Micali e ai nostri federalisti dell'Ottocento, ma non è
persuasiva.
310 Parte terza. L‘«Eneide»; il costo tragico del potere
4. La constatazione del costo del potere 32 non porta Virgilio a
nessuna rivolta nascosta contro il regime, in cui egli ha piena
fiducia. È la giustizia divina, la razionalità del fato che a Virgilio
resta misteriosa: perciò in altra occasione io ho accostato la pro-
testa di Virgilio più a quella di Sofocle che a quella di Euripide,
5. Non si può distinguere fra ima voce «pubblica» da una voce
«privata»; è vero che la celebrazione trionfalistica della storia di
Roma, dell'impero, del regime augusteo non ha ombre, mentre la
protesta contro il fato è carica di dubbi; ma il paradosso di un
poema che si presenta come celebrazione del destino imperiale e
ne fa apparire l'ingiustificabilità, è affidato alla meditazione di tutti
i lettori: come si potrebbe sostenere che la tragedia àdSUnfelix
Dido è una voce «privata» e non «pubblica»?
xxn
IL CONFRONTO FRA LA PARTE ODISSIACA E LA PARTE
ILIADICA

I grammatici latini della tarda antichità, nel confrontare la parte


iliadica con la parte odissiaca del1*Eneide, adottarono uno schema
che grammatici greci avevano costruito nel confronto fra Iliade e
Odissea: la parte iliadica, per il tema trattato e per altezza di stile,
era tragicum opus; la parte odissiaca, caratterizzata da varietà di
personaggi e di rhéseis, presentava affinità con la commedia1. È
ovvio che a noi questa opposizione serve poco: nessuno, oggi,
parlerebbe di «commedia» a proposito del libro di Didone, mentre
Servio faceva rientrare generalmente nel comico ciò che era
«amatorio»; ma bisogna riconoscere che una tale opposizione non
era ignota a Virgilio e che ebbe su di lui qualche incidenza.
Quando, nell’invocazione a Erato che introduce la seconda parte
dell’opera, egli annunzia un maior rerum... ordo e un maius opus
(Aen. VII, 44 s.), intende parlare di una maggiore altezza di
contenuto e di stile, di un’altezza più vicina a quella della tragedia:
anche se il giudizio non ha avuto conseguenze rilevanti sui lettori
(la seconda parte del poema comunemente ha goduto di meno
favore che la prima), è vero che, in segmenti narrativi in qualche
modo paralleli, troviamo nella seconda parte un colore più cupo,
più orrido.
In uno studio scritto più di trent’anni fa cercai di dimostrare
XXI. L’«Eneide» come poema dei vinti 311
come Virgilio, nel delineare il personaggio e l’azione della regina
Amata, utilizzasse parecchi spunti offerti dalla tragedia di Didone:
la ripresa è inferiore, per organicità e altezza drammatica, al-
l’originale, ma il risultato è tutt’altro che infelice 2. Ora, mentre il
pathos della regina di Cartagine mai suscita ripugnanza né si co-
lora veramente di orrore, ciò succede in qualche punto della tra-
gedia della regina dei Latini. Didone assorbe la malattia d'amore
guardando intensamente, stringendosi al petto, accogliendo sul
grembo Cupido che ha preso le sembianze di Ascanio (Aen. I, 717-
722). Amata viene devastata da un furore morboso dopo che Aletto
le ha gettato addosso un serpente strappato dal proprio capo: la
bestia le instilla il suo veleno; le avvolge il collo trasformandosi in
collana, la testa trasformandosi in benda, e resta, tuttavia, una
bestia viscida (Aen. VII, 346-353). Tutta l'operazione è l'insinuarsi
di una schifosa malattia: a suscitare lo schifo contribuisce una
sottile scelta dei suoni, per esempio, la ricchezza di / in 349 s., che
evoca il viscido movimento delle spire3. Una differenza analoga
fra Amata e Didone risalta dal modo della morte: Didone si uccide
con la spada di Enea, Amata si impicca. Ambedue queste vie di
suicidio provengono dalla tragedia greca, ma la morte per
impiccagione è per i Romani più ripugnante e più orribile: informe
letumA.
Questa è una delle operazioni con cui la Furia infernale scatena
la guerra. Ora è evidente che, nel noto parallelismo fra il VH e il I
libro, la funzione della Furia corrisponde, pur evitando simmetrie
dettagliate, a quella di Eolo; ma Eolo è una divinità maestosa (Aen.
I, 56 s.): •
celsa sedet Aeolus arce
312 Parte terza. L‘«Eneide»; il costo tragico del potere
3
4
1
XXIII. La coerenza interna dei singoli libri 34 5
328 Parte terza. L‘«Eneide»; il costo tragico del potere
XXIII. La coerenza interna dei singoli libri 34 5
338 Parte terza. L‘«Eneide»; il costo tragico del potere
XXIII. La coerenza interna dei singoli libri 34 5
346 Parte terza. L‘«Eneide»; il costo tragico del potere
347 Parte terza. L‘«Eneide»; il costo tragico del potere
XXIIL La coerenza interna dei singoli libri 348
XXIII. La coerenza interna dei singoli libri 34 5

Enea, sarcastico, invita Turno a fermarsi e ad affrontarlo;


brevissima la risposta di Turno: non Enea lo spaventa, ma
l’ostilità degli dèi. Scaglia contro il nemico un sasso enorme;
ma gli manca il vigore consueto: il sasso va a vuoto. Turno è
come uno che in sogno corre e sente mancarsi le forze. Ora è
senza scampo: Enea scaglia l’asta e gli trapassa una coscia;
Turno, abbattuto, rivolge al vincitore una breve preghiera:
riconosce la sconfitta; il vincitore abbia pietà del vecchio padre
e risparmi la vita al figlio. Enea esita, inclina verso la clemenza;
ma vede sul corpo di Turno il bàlteo che ha strappato a Pallante:
allora tornano furore ed ira, Pallante dev’essere vendicato, è
Pallante ad uccidere Turno. Il vincitore affonda la spada nel
petto; la vita fugge dal corpo del nemico vinto (ultima fase del
duello: 887-952).
Nell'analisi strutturale dei libri dal I alTVIH abbiamo fatto
molto conto del variare dei colori dal luminoso al cupo e vice-
versa; il libro Vili è un'ampia plaga luminosa prima dell'inizio
della guerra. Nei quattro libri di guerra (IX-XED la variazione è
scomparsa: il colore è più o meno cupo, mai luminoso. Collo-
cando all'inizio l'impresa dei due giovani, Virgilio ha voluto ren-
dere omaggio a tutti quelli che hanno dato la giovinezza per la
patria. Chiudendo due libri, il X e il XII, col gelo della morte, ha
messo sul poema un suggello tragico e solenne, oltre il quale la
salvezza svanisce.
350 Parte terza. L‘«Eneide»; il costo tragico del potere
3
9
0
376 Parte terza. L‘«Eneide»; il costo tragico del potere
XXV. La genesi dell1 «Eneide» 377

o perché Virgilio non lasciò nel manoscritto nessuna indicazione


o perché l'editore non se ne accorse. A questo punto sorgono al-
tri interrogativi e supposizioni: ci saranno stati altri casi del ge-
nere; in questi casi l'editore ha sempre scelto 1'alternativa
giusta? È probabile che l'eliminazione di redazioni alternative
rientrasse nel compito di superflua demere, affidato a Vario e
Tucca secondo la Vita di Servio (29):11.
In altre similitudini troviamo un segno diverso di redazione
non definitiva. In II, 624-633 Troia, contro cui si accaniscono le
divinità ostili e che ormai, sotto le fiamme, crolla fin dalle fon-
damenta, viene paragonata ad un vecchio albero abbattuto. Il
primo termine di paragone, cioè Troia (la protasi), è dato in
624625; viene poi introdotto il quadro della similitudine, cioè
l'orno contro cui si accaniscono i contadini e che infine si
abbatte a terra (apodosi): questa parte viene introdotta (636) con
ac veluti. Data la presenza della congiunzione coordinante ac, ci
aspettiamo che al quadro segua una ripresa del primo termine di
paragone (antapodosi), ripresa che troviamo in casi analoghi;
invece dopo 633 la ripresa manca: ci troviamo di fronte ad un
anacoluto sintattico. Prima della similitudine, in 623, abbiamo
un verso incompleto; un altro verso incompleto è restato poco
prima (614) nell'evocazione degli dèi che distruggono la città:
tutto questo pezzo attendeva una revisione. Lo stesso anacoluto
si riscontra nel passo della similitudine che paragona i Troiani
in partenza da Cartagine con le laboriose formiche (IV, 401-
407): prima i Troiani (protasi), poi il quadro delle formiche
introdotto da ac velut (apodosi); manca la ripresa del primo
termine (antapodosi). Anche in questo caso la similitudine è
preceduta da un verso incompleto (400). Ancora lo stesso
anacoluto nel passo che contiene la similitudine della folla di
anime in riva al Lete, nei Campi Elisi, con le api vaganti sui
fiori (VI, 706-712); in questo caso non abbiamo nessun verso
incompleto12.
Ho ricordato solo pochissimi tra i casi che mostrano segni di
rielaborazione; in altri casi bisogna limitarsi al sospetto. I ritoc-
chi talora sembrano operati per influenza di un passo sull'altro;
in alcuni casi si ha ragione di credere che il passo è stato ritoc-
cato per influenza di un altro passo che è stato scritto dopo; i
pezzi che danno luogo a ipotesi del genere ricorrono più spesso,
378 Parte terza. L‘«Eneide»; il costo tragico del potere

oltre che nelle similitudini, nei discorsi. Nel I libro, nel discorso
che Ilioneo tiene davanti a Didone, egli riferisce verso quale ter-
ra erano diretti i Troiani (530-533):

Est locus, Hesperiam Grai cognomine dicunt,


terra antiqua, potens armis atque ubere
glaebae;
Oenotri coluere viri; nunc fama minores
Italiam dixisse ducis de nomine gentem.
[V’è un luogo (i Greci lo chiamano Esperia), / una terra
antica, potente per le armi e per la fecondità dei gampi; /
Abitarono gli Enotri; ora è fama che i discendenti / dal
nome del capo chiamarono Italia la loro nazione].

Poi riprende ad esporre le vicende recenti:


Hic cursus fuit,
cum subito adsurgens fluctu nimbosus
Orion in vada caeca tulit...
[Qui si dirigevano le navi, / quando all’improvviso
Orione tempestoso, levandosi coi flutti, / ci spinse verso
bassifondi invisibili...].

Ora i quattro versi che indicano ITtalia, si ritrovano nel libro III
(163-166), nel discorso che i Penati, apparsi in sogno, tengono
ad Enea. Qui il contesto non presenta nessuna crepa; invece nel
libro
I abbiamo un verso incompleto e una proposizione subordinata,
introdotta dal cum invermm, che si lega a mala pena al moncone
di verso. In questo caso la ricerca analitica approda ad un
risultato probabile: i quattro versi, scritti in un primo tempo per
il libro IH, sono stati adattati anche al discorso di Ilioneo; per
introdurli in questo punto è stato eliminato un pezzo precedente,
a cui si riattaccava il cum inversum\ come nel caso della
similitudine in VII, 698-702, la rielaborazione si è fermata, in
attesa di una revisione e di un completamento 13. In tanti altri
casi la situazione è meno chiara e le proposte più incerte. Qui
non posso inoltrarmi in questo ginepraio; ma va ribadito che
l’analisi di questo tipo non è fatta so
lodi sottigliezze futili. Oggi viene rivalutato il fiuto del Cartault,
XXV. La genesi dell1 «Eneide» 379

che annotò in molti casi versi o gruppi di versi lasciati in


margine da Virgilio e introdotti nel testo, a torto o a ragione, dal
primo editore; il Cartault era interprete molto fine, anche se il
rigore non era pari alla finezza. Comunque YEneide va letta
come un poema in corso di elaborazione; d’altra parte va
ribadito, nello stesso tempo, che la mancata rielaborazione non
ha lasciato tracce diffuse: i casi sono pur sempre, rispetto
all’ampiezza del poema, pochi: insomma, malgrado i 58 versi
incompleti, la rielaborazione era vicina alla mèta14.
LO STILE EPICO DELL’«ENEIDE»

Lo stile dell 'Eneide è fortemente condizionato dalla tradizio-


ne dell'epos come genere poetico. Lo stile (la léxis) dell'epos è
quello che Aristotele (Poetica 1458a) distingue come semnós,
cioè «nobile», qualifica che si contrappone a idiotikós,
«comune», «volgare», e a tapeinós, «umile», «basso». Lo stile
nobile si distingue per il ricorso a parole non comunemente
usate, «glosse» (tra cui, per esempio, parole straniere), per il
ricorso alla metafora e all'ampliamento (epéktasis) delle parole.
«Nobili» erano, pur con forti diversità, anche lo stile della
tragedia e lo stile di una parte della lirica, cioè della lirica corale
e specialmente del ditirambo; nell'area non nobile si
collocavano la commedia, la lirica giambica e, sia pure a diverso
livello, l'elegia (qui vado un po' al di là delle distinzioni
aristoteliche). Nell’epos era fortissima, e ineliminabile,
l'impronta di Omero; ma lo stile deWEneide, per quanto vistosa
sia la sua omericità, ha come presupposti fondamentali
Apollonio Rodio, Ennio e Lucrezio; anche l'uso di Omero da
parte di Virgilio è molto condizionato dal modo in cui
Apollonio si era «appropriato» di Omero (su Apollonio come
mediatore di Omero per Virgilio credo che non esista ancora
un'analisi approfondita).
Per caratterizzare lo stile dell 'Eneide, allo sfondo di
«nobiltà» bisogna aggiungere alcuni procedimenti essenziali
dell'epos omerico: innanzi tutto la formularità del linguaggio.
Nell'antichità non c'è poema epico, lungo o breve, che vi
rinunzi: formule fisse, limitate a parte di un esametro o ad un
esametro intero, che evocano l'inizio o la fine della giornata, che
380 Parte terza. L‘«Eneide»; il costo tragico del potere

segnano l'inizio o la fine di un discorso, che caratterizzano


preghiere o riti religiosi e rispondono
a tante altre funzioni, o vengono attinte da Omero o rielaborate e
variate: Virgilio accetta pienamente questa norma: si tratta di
vedere come egli la applica e la piega a nuove esigenze 1.
Ripetizioni formulari troviamo anche nelle Bucoliche, ma ri-
spondono a tutt’altra funzione, cioè ricalcano l’uso dei ritornelli
nella poesia pastorale; nelle Georgiche sono molto ridotte di fre-
quenza (le ripetizioni comprendenti da cinque elementi, cioè un
emistichio, all’intero esametro, si trovano nel 2,7% dei versi di
fronte al 6,5 % delle Bucoliche) ; le ripetizioni di formule epiche
nel- YEneide arrivano quasi al triplo che nelle Bucoliche
(18,2%)2. Per dare un’idea della frequenza delle formule
neìYEneide riferisco un assaggio comparativo sulle formule
indicanti inizio o fine di discorso presenti nel libro
dell’oltretomba dell’ Odissea (XI), nel I libro degli Argonautica
di Apollonio Rodio e nel libro dell’oltretomba deSYEneide: in
Odissea XI su 41 casi si hanno 26 ripetizioni (dunque più della
metà); in Apollonio I su 53 casi 9 ripetizioni, in Aen. VI su 48
casi 8 ripetizioni3: vediamo Virgilio comportarsi come
Apollonio. Dall’osservazione delle formule che evocano l’alba e
la notte, si ricava che Apollonio riduce drasticamente le
ripetizioni rispetto ad Omero (rxéY Iliade 69 ripetizioni su 99
casi, ndY Odissea 93 su 139, in Apollonio 12 su 71), ma
Virgilio vi ricorre più spesso di Apollonio (26 su 77): dunque
Virgilio segue Apollonio, ma nel
lo stesso tempo si riaccosta, in una certa misura, ad Omero 4.
Ennio negli Annales usava formule epiche: poiché dell’opera
abbiamo so
lo frammenti, è prudente tralasciare il confronto. Dal confronto
con Lucrezio si ricava che Virgilio ricorre a ripetizioni
formulari, ma in quelle più ampie, che vanno da 10 a 12
elementi, Lucrezio presenta rispetto a Virgilio una frequenza
tripla5. Segno di misura e cautela, da parte di Virgilio, nell’uso
di ripetizioni formulari, è che egli non riporta lo stesso verso
all’interno dello stesso libro e che nell’intero poema raramente
ripete un verso più di due volte; colpisce un’eccezione a
proposito di Messapo (VH, 691):
XXV. La genesi dell1 «Eneide» 381

At Messapus equom domitor, Neptunia proles


[Ma Messapo domatore di cavalli, figlio di Nettuno]

ritorna in XI, 523 e, con una lieve variazione (et per at), in XII,
128. La cura di variare, anche se talvolta di poco, nella ripetizio-
ne (per esempio, Giove è divum pater atque hominum rex in I,
65; Et, 648; X, 2; 743, divum sator atque hominum rex in XI,
725; XII, 524: molto probabilmente la seconda formula è una
variazione posteriore alla prima), è, néYEneide, un orientamento
netto: i casi di versi interamente ripetuti si riducono a pochi: per
esempio, III, 589:
umentemque Aurora polo dimoverat umbram [e
l'Aurora aveva allontanato dal cielo l’ombra
umida]

si ritrova in IV, 7; DI, 208:


adnixi torquent spumas et caerula verrunt
[remando a tutta forza, sollevano vortici di schiuma / e
spazzano la distesa turchina (del mare)],

in IV, 583 (ma il libro Ut è, probabilmente, posteriore al IV);


IH, 290:
Certatim sodi feriunt mare et aequora verrunt
[A gara i compagni battono il mare e spazzano la distesa
(delle acque)],

in V, 7786; non mancano, però, casi in cui la ripetizione formu-


lare va al di là di un singolo esametro (per esempio, la presenta-
zione di Camilla in VH, 803 s. viene ripresa in XI, 432 s.) o si
estende a più versi (III, 192-195 tornano con qualche variazione
e ampliamento in V, 8-11; lasciamo da parte il caso di 1,530-
533, ripetuti in III, 163-166, caso discusso per altre ragioni, a
cui ho già accennato).
Le formule omeriche ricorrono in contesti diversi senza par-
ticolari ragioni, cioè non hanno particolari legami coi propri
contesti; ma non è sempre così: per esempio, non si può
382 Parte terza. L‘«Eneide»; il costo tragico del potere

considerare casuale la ripetizione della formula usata per la


morte di Patroclo (IL XVI, 856 s.) nel racconto della morte di
Ettore (IL XXII, 362 s.): la ripetizione sigilla la corrispondenza
della vendetta con la colpa. Virgilio analogamente usa, come
abbiamo già visto, la stessa formula per la morte di Camilla
(Aen. XI, 831) e per la morte di Turno (XII, 952): caso
rarissimo, perché in Omero la funzione della formula è anche
più calzante che in Virgilio. Generalmente è il contrario, cioè
Virgilio molto più spesso di Omero carica la ripetizione
formulare di una funzione di raccordo e confronto fra due
contesti, che dal raccordo e confronto vengono iUuminati nel
loro pieno senso. Richiamo due casi che altrove ho già presi in
considerazione: il rapporto fra il dialogo di Venere e Giove nel I
libro (223-296) e il dialogo di Giunone e Giove nel XH (791-
842) viene sottolineato con luso, per ritrarre Giove, della stessa
formula, leggermente variata (I, 254):
Olii subridens hominum sator atque deorum
[A lei, con un sorriso, il progenitore degli uomini e degli
dèi],

ripreso in XII, 829:

Olii subridens hominum rerumque repertor


[A lei, con un sorriso, il creatore degli uomini e delle
cose].

H rapporto di contrasto fra l’episodio di Achemenide e quello


di Si- none, rapporto non ovvio, viene suggerito dalla ripresa di
II, 74:
hortamur fari quo sanguine cretus [lo
esortiamo a dire da quale stirpe sia nato]

in III, 608 s. In alcuni casi la ripetizione formulare segnala l’af-


finità di personaggi e situazioni: per esempio, un personaggio
ricalcato sul tiranno etrusco Mezenzio è il tiranno volsco
Mètabo, padre di Camilla: la formula usata per Mezenzio (X,
852):
XXV. La genesi dell1 «Eneide» 383

pulsus ob invidiam soìio sceptrisque paternis


[cacciato per l’odio dal trono e dallo scettro dei
padri],

torna, con variazioni, per Mètabo (XI, 539 s.).


Parecchi altri casi del genere sono stati segnalati giustamente,
ma anche in questa ricerca l’ermeneutica dell’ultimo mezzo
seco
lo ha ecceduto, elaborando faticosamente proposte poco persua-
sive. Per esempio, il quadro delle Ninfe che favoriscono la
navigazione spingendo la nave viene elaborato nel libro V (239-
243) per Cloanto nella rappresentazione dei ludi, nello stesso
libro (822826) per la nave di Enea che procede verso lTtalia;
viene poi ripreso per la nave di Enea che torna dalla visita ad
Evandro (X, 246248): nei primi due casi il quadro è dipinto con
un gusto rococò che qualche volta affiora in Virgilio, nel terzo
caso si riaccosta di più alla dignità dell’epos: un buon esempio
di elegante variazione artistica. Mi pare, invece, interpretazione
eccessiva e poco credibile vedere nella vittoria di Cloanto una
prefigurazione della vittoria di Enea7. Vi sono affinità di
immagini e di espressioni, che non possono certo stupire, fra
l’attacco alla reggia di Priamo nel II libro (479-505) e l’attacco
alla capitale dei Latini nel XII (574582); ma non è detto che
Virgilio intendesse accostare particolarmente Enea a Pirro8: tutti
gli eroi combattenti sono accomunati, in una certa misura, dalla
crudeltà della guerra. L’uso di una stessa formula per invitare a
tavola (quare agite, o iuvenes) [«Dunque orsù, giovani...»] per il
banchetto di Didone (I, 627) e per una libagione rituale presso
Evandro (Vili, 273:275) non significa necessariamente che
Virgilio richiedesse un confronto fra il banchetto di Cartagine e
la festa sul Palatino9. Una formula usata per Laocoonte che dalla
rocca accorre per mettere ili guardia i Troiani dall’insidia del
cavallo di legno (II, 40):
Primus... magna comitante caterva
[Per primo... seguito da una grande folla...],
384 Parte terza. L‘«Eneide»; il costo tragico del potere

viene applicata ad Androgeo, il primo dei Greci in cui Enea e i


compagni si imbattono nella città devastata (II, 370): l’interpre-
tazione secondo cui Virgilio vuole mettere insieme la prima vit-
tima troiana e la prima vittima greca dell’ultima lotta per
Troia10, parrà meno forzata di altre, ma io resto dubbioso.
Qui non è affatto necessario affrontare la questione di fondo
sull’uso omerico delle formule, cioè decidere se quell’uso vada
spiegato con l’oralità di quella poesia: è ovvio che nella
tradizione epica la ripetizione formulare era un procedimento
letterario destinato a conservare l’impronta omerica, un segno di
distinzione e di nobiltà; non è escluso che l’immutabilità fosse
sentita come una forma della maestà. Giove affida a Mercurio il
messaggio da trasmettere ad Enea (Aen. IV, 232-236); Mercurio
ripete ad Enea il messaggio (271-276) quasi con le stesse parole
(ci sono ritocchi verbali e uno spostamento): un ordine divino è
un testo che va trasmesso fedelmente; va però rilevato che
Virgilio evita la ripetizione in casi analoghi di messaggi divini.
Funzione analoga hanno le ripetizioni formulari a proposito di
riti e preghiere: l’immutabilità fa tutt’uno con la sacralità, e
questo, probabilmente, valeva già per Omero. La relativa fissità
delle formule indicanti l'alba accentua nell 'Eneide la maestà
cosmica, che non era assente dai poemi omerici. Credo che sia
diverso il caso del quadro notturno dell’accampamento dei
Rutuli nel libro IX. Quando Niso comunica ad Eurialo il suo
progetto di sortita, mostra il quadro dei Rutuli immersi nel
sonno e nell’ubriachezza, che hanno allentato la vigilanza (189
s.):
Lumina rara micant: somno vinoque
soluti procubuere; silent loca...
[Rare luci brillano (ancora); grazie al sonno e al vino /
giacciono liberi da ogni cura; per ampio spazio tutto
tace].
Il quadro torna, con riprese verbali e variazioni, quando Niso
propone la sortita al consiglio dei capi troiani (236 s.) e si arric-
chisce con l’evocazione del fumo che s’innalza dai fuochi in
gran parte spenti (239 s.):
XXV. La genesi dell1 «Eneide» 385

Interrupti ignes aterque ad sidera


fumus erigitur...
[I fuochi ardono a intervalli, un fumo nero verso il cielo /
sale...].
Torna ancora, arricchito di molti dettagli, nella narrazione
della sortita (316-319): di nuovo guerrieri immersi
nell’ubriachezza e nel sonno, riversati confusamente sul prato;
oltre il prato vediamo sulla spiaggia i carri col timone ritto, le
armi sparse, accanto vino rovesciato dai vasi. Le ripetizioni di
questo quadro - che noi diremmo di gusto fiammingo, già
presente alla fantasia di Virgilio nelTIliupersis (II, 252 s.) e di
lontana ispirazione enniana {Ann. 288 Skutsch; cfr. anche 367
s.) - hanno una buona giustificazione narrativa e si inseriscono
senza nessuna forzatura nel corso del racconto; assumono, però,
anche una funzione analoga a quella del Leitmotiv nelle
composizioni musicali.
Tra le formule hanno un posto notevole gli epiteti: per lo più
aggettivi qualificativi o patronimici o nomi, uniti ad un nome
(spesso un nome proprio): per esempio, pius, bonus, magnani-
mus, pater, riferiti ad Enea, fidus riferito ad Acate, pater riferito
ad Anchise, puer riferito ad Ascanio, infelix e Sidonia riferiti a
Didone, Saturnia, maxima, regia riferiti a Giunone ecc. 11. Gli
interpreti di Virgilio da secoli hanno notato e valorizzato la con-
nessione degli epiteti col contesto: cioè di volta in volta l'epiteto
non viene collocato a caso, ma scelto coerentemente con l'azio-
ne e la situazione: il famoso epiteto pius, che ricorre 15 volte,
viene usato generalmente quando la pietas dell'eroe ha una sua
funzione o è, comunque, opportuno farla risaltare; l'epiteto
Anchi- siades è riferito ad Enea dalla Sibilla (VI, 126), mentre
egli si prepara al viaggio nell'oltretomba, alla fine del quale
vedrà l'ombra del padre, e mentre la sua nave è spinta dalla
Ninfa Cimodocea (X, 250): in questo secondo caso gli epiteti
Troius Anchisiades, uniti, servono a sottolineare il legame con
Troia e con la dea protettrice Cibele (Cimodocea è una Ninfa
nata dalla trasformazione di una delle navi troiane,
trasformazione dovuta all'intervento di Cibele presso Giove).
Invece i Troiani vengono insultati come Laomedontiadae
dall'Arpia Celeno (HI, 248), che intende ricordare lo spergiuro
386 Parte terza. L‘«Eneide»; il costo tragico del potere

del loro avo. Il processo di integrazione lirica degli epiteti è


certamente forte; tuttavia anche in questo caso è prudente
parlare di una tendenza piuttosto che di una norma: non credo
che si potrebbe giustificare sempre con ragioni analoghe l'uso di
pater o di Troius per Enea.
E ovvio che l’uso degli epiteti è tra i procedimenti che con
più evidenza contribuiscono a fare dell 'Eneide un poema
omerico, ma Virgilio si stacca da Omero non solo per
l'integrazione lirica: egli procede anche ad una riduzione
dell’uso. Da una statistica su 13 nomi di Omero, 10 di
Apollonio, 16 dell 'Eneide, limitata alle occorrenze (che sono,
però, le più numerose) al nominativo, si ricava che in Omero i
casi con epiteto sono press’a poco eguali a quel
li senza epiteto (732 contro 724); invece in Apollonio si
contano 24 casi con epiteto contro 111 senza, neH'Eneide 187
contro 288.
Dunque Virgilio ha seguito Apollonio solo in parte: la riduzione
operata da Apollonio gli è parsa eccessiva12.
A nobilitare lo stile poetico contribuiscono, come già
indicava Aristotele (.Retorica 1405 b 35), le parole composte: il
riferimento va, in massima parte, ai composti nominali: nell
’Eneide, per esempio, omnipotens, ignipotens, arquipotens,
Appenninicola, Graiuge- na, Nubigena, horrificus, luctificus
ecc.13 Virgilio ha considerato i composti di questo genere come
necessari a caratterizzare l’epica, ma non ne ha abusato
(ricorrono nel 2,7% dei versi). E evidente che anche questa
caratteristica risale ad Omero, ma Virgilio, proseguendo una
tendenza già presente in Ennio, tende decisamente ad escludere
da questa area prestiti dal greco: sui 98 composti nominali che
usa, 95 sono di formazione latina. È la tradizione latina che egli
intende valorizzare: 50 provengono da poeti latini (34 da testi
epici, 16 da altri testi poetici): dunque quasi la metà sarebbero
coniati da Virgilio (è ovvia, però, la riserva che potevano
trovarsi in testi a noi non conservati). Ma questo quadro non
deve dare un’idea eccessiva dell’autonomia rispetto alla
tradizione epica greca: più della metà dei 48 composti coniati da
Virgilio hanno corrispondenti o equivalenti in greco.
Alla nobilitazione dello stile e, nello stesso tempo, alla valo-
rizzazione della tradizione poetica latina danno un contributo
XXV. La genesi dell1 «Eneide» 387

evidente gli arcaismi14. Neppure degli arcaismi Virgilio ha abu-


sato: i versi deH3Eneide in cui ricorrono arcaismi, arrivano solo
al 2,52%. In massima parte si tratta di arcaismi lessicali, mentre
molto ridotti sono gli arcaismi morfologici (il genitivo singolare
della prima declinazione in -airicorre solo quattro volte). In
massima parte gli arcaismi provengono da testi poetici:
pochissimi rientrano fra gli arcaismi che altrove ho proposto di
definire «an- tiquariali» (in contrapposizione a quelli
«letterari»), ricavati, cioè, da documenti religiosi o giuridici. È
ovvio che la fonte più ricca è per Virgilio negli Annales di
Ennio, ma una parte notevole degli arcaismi virgiliani è per noi
attestata solo in testi tragici; in rari casi sono testimoniati solo
da Plauto o da Terenzio o da Lucilio, ma si può sempre
presupporre che questi abbiano attinto da testi epici o tragici.
Una forte patina arcaizzante è data al poema dal largo uso
dell’allitterazione, di cui, però, è più opportuno trattare a
proposito della scelta dei suoni e degli effetti fonici.
L’equilibrio cercato da Virgilio tra aggancio alla tradizione e
bisogno di modernizzare si coglie bene confrontandolo con
Lucrezio e con Ovidio epico: nell'uso degli arcaismi e dell'allit-
terazione è più misurato di Lucrezio, ma evita decisamente la
rottura con la tradizione voluta da Ovidio.
Aristotele nella Poetica (1458a), dopo avere indicato nelle
metafore e nelle «glosse» le caratteristiche della lexis poetica
nobile, aggiunge: «Ma se la lexis è fatta tutta di parole di questo
genere, sarà o enigma o barbarismo: enigma se sarà fatta tutta di
metafore, barbarismo se sarà fatta tutta di “glosse”». Avesse let-
to o no la Poetica, Virgilio ha ben appreso questa lezione: egli
dà alla sua lingua una solida base in cui la lingua della
tradizione poetica non differisce, specialmente nel vocabolario e
nella morfologia, dalla lingua latina parlata: certamente egli
intendeva rivolgersi non ad un pubblico ristretto di letterati
dottissimi, non ad un pubblico specializzato, ma ad un largo
pubblico di cultura anche modesta: la sua lingua poetica voleva
restare nobile senza diventare incomprensibile; a proposito degli
arcaismi va ricordato che i poeti da cui egli attingeva erano
ancora letti nel mondo di lingua latina 15. Va aggiunto che
Virgilio non considerava la lingua poetica tradizionale come
chiusa: una parte non trascurabile del lessico poetico latino
388 Parte terza. L‘«Eneide»; il costo tragico del potere

risulta a noi entrata in poesia con Virgilio16; in qualche caso


Virgilio si sentiva legittimato da Lucrezio a introdurre in poesia
lessico prosaico (per esempio, terebrarell)\ un processo inverso,
cioè l'entrata di lessico poetico nella prosa, si avrà nel secolo
successivo a Virgilio.
L'introduzione, di lessico «prosaico», però, serve a «nobilita-
re» il lessico introdotto, non ad abbassare la «nobiltà». E diffici-
lissimo trovare in Virgilio aperture, per così dire, verso il basso:
anche quando egli, omerizzando, rappresenta scene di vita umi-
le, come la preparazione del cibo e della mensa, usa una lingua
eletta. Ecco Acate che accende il fuoco con foglie e pezzi di le-
gno secchi (Aen. I, 174-176):
Ac primum silici scintillam excudit
Achates succepitque ignem foliis atque
arida circum . nutrimenta dedit rapuitque
in fomite flammam
[E innanzi tutto Acate fece sprizzare dalla pietra la
scintilla; / accolse il fuoco nelle foglie e, secca materia
ammucchiando, / gli diede nutrimento; (così) dall'esca
fece scoppiare la fiamma].
Eleganza nel lessico (persino sttccipere per susciperè) e ancora
più nelle iuncturae: scintillam excudere, rapere flammam. I
compagni tirano dal deposito il grano, guastato dall’acqua
marina, e si preparano a cuocerlo (177-179):
Tum Cererem corruptam undis Cerealiaque
arma expediunt fessi rerum frugesque receptas
et torrere parant flammis et frangere saxo
[Poi i cereali corrotti dalle onde e gli strumenti di Cerere /
traggono fuori, pur spossati dalle sventure, e il grano
salvato / si apprestano ad abbrustolire e a macinare sotto
le pietre].
Ancora più elegante e sostenuta la rappresentazione della
scena dell’allestimento delle mense dopo l’arrivo nel Lazio
(VH, 109-115): due arcaismi, dapes e adorea («di farro»),
riferito a liba, per indicare le focacce collocate sul prato; così è
allestita la mensa fatta di focacce, Cereale sohm, una iunctura
paradossale ed elegantissima; la scarsezza del cibo costringe ad
XXV. La genesi dell1 «Eneide» 389

addentare anche le focacce che costituiscono la mensa:


vertere morsus exiguam in Cererem
penuria adegit edendi
[a rivolgere i morsi / contro le lievi foglie di pasta li
spinse la penuria di cibo];
alla fine solo malae («le mascelle»), crustum (la focaccia cotta),
qtiadrae (le mense quadrate sostituite dalle focacce) ci
accostano, con linguaggio più umile, all’umile realtà. H
procedimento, elaborato e diffuso dalla poesia ellenistica, è
quello che ho cercato di definire col termine di «realismo
prezioso».
Ma, se lo stile «nobile» è generalmente chiuso verso lo stile
umile, sale però, dal suo livello generale, vari gradini verso l’al-
to; qui non è possibile seguire i passaggi (bisognerebbe com-
mentare molti brani), ma è opportuno dare indicazioni almeno
sommarie; mi limiterò a brani dei libri I e IH e lascerò da parte
i mutamenti di tono indotti dal pathos e dall’orrore (vi
accennerò in seguito).
Una solennità che si pone almeno un gradino al di sopra
della normale «nobiltà» si avverte nelle profezie, come quella di
Giove a Venere (I, 257-296), come il responso dell'oracolo di
Apollo ad Enea a Deio (III, 94-98), il chiarimento - che viene
subito dopo (103-117) - di questo responso da parte di Anchise,
la profezia di Eleno, particolarmente nell'esordio (III, 374 ss.).
La profezia di Apollo a Deio è preceduta da un terremoto, che
scuote il tempio,
il bosco di alloro, il vicino monte Cinto, e da un boato che
proviene dai penetrali del tempio (Ut, 90-93): è la solennità alta
che accompagna per lo più i prodigi; un caso molto affine è il
terremoto che accompagna l'entrata di Enea e della Sibilla
nell'oltretomba (VI, 355-358): prodigi come questi sono una
forma di epiphàneia della divinità. L'esordio della profezia è di
una solennità meno alta, ma ben intonata col prodigio (IH, 94
ss.):
Dardanidae duri, quae vos a stirpe
parentum prima tulit tellus, eadem vos
ubere laeto accipiet reduces
390 Parte terza. L‘«Eneide»; il costo tragico del potere

[O duri Dardanidi, la terra che, dalla radice degli avi / per


prima vi portò (alla luce), la stessa nel suo seno fecondo /
vi accoglierà tornati (a lei)].
Alla solennità delle profezie si può accostare, naturalmente,
quella delle preghiere e dei riti. Ricorderò di nuovo la bellissima
evocazione del rito funebre per Polidoro (IH, 62-68), dominato
da immobilità monumentale e da precisione e lentezza ieratica:
ingens
aggeritur tumulo tellus; stant manibus
arae, caeruleis maestae vittis atraque
cupresso, et circum Iliades crinem de
more solutae...
[altissima / viene accumulata sulla tomba la terra;
s'innalzano altari ai Mani, / ornati a lutto con bende
turchine e fosco cipresso; / intorno le troiane, dalle
chiome sciolte secondo il rito...].
La solennità dello stile, che accompagna, più o meno, tutte le
evocazioni di riti e in qualche caso è accentuata anche dal ricor-
so ad arcaismi antiquariali, parrà, giustamente, ovvia nella sfera
religiosa; ma una solennità, sia pure diversa, caratterizza non di
rado i rapporti nell’aristocrazia eroica, improntati ad una corte-
sia carica di gravitas, che da un lato ricorda le origini omeriche,
dall’altro fa pensare alla diplomazia e alla vita pubblica romana.
Si ricordi, per esempio, l’esordio del discorso di Ilioneo a Dido-
ne (I, 522 s.):
O regina, novam cui condere Iuppiter urbem
iustitiaque dedit gentis frenare superbas...
[O regina, a cui Giove ha concesso di fondare una città
nuova e di frenare con la giustizia popoli superbi...].
Esordi come questo presentano qualche affinità con gli esor-
di di preghiere: ascoltiamo, per esempio, l’invito che Enea
rivolge all’indovino Eleno (IH, 359-362):
Troiugena, interpres divom, qui numina
Phoebi, qui tripodas, Clarii lauros, qui sidera
sentis et volucrum linguas et praepetis omina
XXV. La genesi dell1 «Eneide» 391

pennae, fare age...


[O Troiano, interprete degli dèi, che dai segni intendi / il
nume di Febo, i tripodi, i lauri di Claro, gli astri / e le
lingue degli uccelli e i presagi delle loro penne in volo, /
orsù, parla...].
Di tono poco meno alto è l’esordio della profezia di Eleno, ri-
volto ad Enea (374 ss.); più solenne l’esordio del breve discorso
con cui Eleno indica ad Anchise vicina la terra d’Italia (475):
Coniugio, Anchisa, Veneris dignate superbo,
cura deum, bis Pergameis erepte ruinis...
[Anchise, tu che Venere degnò del suo splendido amore, /
protetto dagli dèi, due volte strappato alle rovine di
Pergamo...].
L’affinità con le preghiere religiose è sottolineata anche dai par-
ticipi al vocativo. Anche quando non si tratta di cerimonie pub-
bliche, sembra che gli eroi delYEneide, messi l’uno di fronte al-
l’altro, occupino una scena pubblica. Una chiara impronta della
solenne gravitas della vita pubblica romana si avverte nel ben
noto quadro dell’uomo politico autorevole che seda il tumulto
della plebe (I, 148 s.); una solennità affine caratterizza il quadro
del consiglio dei duci troiani raccolti nella notte insieme con
Asca- nio; anche qui immobilità monumentale, espressa con la
musica degli spondei (EX, 229 s.):
stant longis adnixi hastis et scuta
tenentes castrorum et campi medio
[In piedi si ergono, appoggiati alle lunghe aste, con gli
scudi al braccio, / nel mezzo dell’accampamento e della
pianura].
Per solennità spicca il breve quadro dell'immagine di Pico nella
reggia del re Latino, seduto sul trono nel suo semplice e mae-
stoso abbigliamento sacerdotale (VII, 187-189).
Un gradino al di sopra del normale livello «nobile» stanno
anche gli esordi dei singoli libri. Ciò apparirà ovvio per i
proemi, quello del I libro (1-11) e quello, spostato dopo l'inizio
del libro (VH, 37-49), della parte iliadica; a questi pezzi sono
392 Parte terza. L‘«Eneide»; il costo tragico del potere

accostabili, è ovvio, le invocazioni alle Muse, come quelle che


precedono cataloghi (VH, 641-646; X, 163-165), e altre che il
poeta colloca in punti che ritiene salienti (IX, 77-79, prima della
trasformazione delle navi in Ninfe; IX, 525-529, prima di
un'aristeia di Turno); affine ad un'invocazione alle Muse è la
richiesta dell'aiuto di un dio per cantare le azioni di Enea e di
Turno nell'ultima battaglia (XH, 500-504); aggiungerei la
famosa apostrofe ad Eurialo e Niso dopo la loro morte (EX,
446-449). Altri esordi, però, oltre i poemi, hanno tono solenne o
sostenuto: quello del HI libro, che evoca la caduta fatale della
città (alla solennità contribuisce l'ampio periodo, con la
subordinata introdotta da postquam)\ nel VI libro poco dopo
l'esordio è collocata Yékphrasis del tempio, col ricordo di
Dedalo (in scala minore un procedimento simile a quello di
Ovidio, che colloca all'inizio del II libro delle Metamorfosi
Yékphrasis del tempio del Sole); il libro VHI si apre con
musiche di guerra, mentre lo stendardo belli signum è innalzato
sulla rocca di Laurento (anche qui un periodo di notevole am-
piezza, 1-6, aperto da una subordinata con u£)\ il X si apre con
un concilio degli dèi. Gli esordi del II, del IV, del XH s'innalza-
no per un pathos accentuato; esordi più pianamente narrativi
hanno il V, il EX, l'XL
Ancora un gradino più in su possiamo collocare i brani in cui
è chiara la tendenza alla grandiosità. Spiccano, per esempio, i
quadri di tempesta. Il più famoso è quello del I libro (81-193):
non solo è illimitata la furia dei venti e dei flutti, ma il quadro
assume le dimensioni di una notte cosmica, squarciata da tuoni e
lampi: la morte che incombe dal cielo e dal mare sugli uomini
(88-92). Analoghe dimensioni cosmiche ha la tempesta che per
tre giorni affrontano i Troiani prima di arrivare alle isole Strofa-
di (IH, 189-204). Simile ad un cataclisma cosmico è lo sconvol-
gimento del mare che i Troiani affrontano passando accanto a
Cariddi (III, 555-567): i naviganti si vedono sbattuti fra il cielo e
Pinferno (564 s.). Segue di poco (571-582) lo spettacolo gran-
dioso dell’Etna in eruzione, un quadro non per caso ispirato, co-
me abbiamo visto, da Pindaro. Pochissimi esempi, ricavati dal
libro IH, di un orientamento della fantasia di Virgilio,
affascinato, anche per ispirazione di Lucrezio, dall’immensità
cosmica18. Con questo orientamento ben si accorda il largo uso
XXV. La genesi dell1 «Eneide» 393

nel poema di aggettivi come ingens, ìmmanis, magnus,


maximus, vastus, altus, al- tissimus ecc.
Una grandiosità di carattere diverso, luminosa, serena,
talvolta maestosa, viene usata (ma non sempre) per
rappresentare il mondo divino. Tale lo vede Enea quando
incontra la madre Venere sotto le sembianze di cacciatrice (I,
327-329) e, ancora meglio, quando la dea, nel dileguarsi, rivela
la sua bellezza (402405). Maestoso è Nettuno che, dopo l’aspro
rimprovero lanciato contro i venti, placa il mare (I, 142 s.):
Sic ait et dicto citius tumida aequora
placat collectasque fugat nubes
solemque reducit
[Così parla e prima di aver finito placa il mare gonfiato, /
disperde le nubi addensate e riporta il sole].
In questo caso, però, vediamo pure come questa maestà lu-
minosa fosse insidiata dal gusto della rappresentazione
dettagliata e leziosa, dal gusto che noi indichiamo col termine di
rococò: infatti, prima della similitudine con l’uomo politico
autorevole, segue il quadro della Ninfa Cimotoe e di Tritone che
disincagliano le navi, e di Nettuno che, armato del tridente,
scivola col suo carro sulla superficie delle acque (144-147). Lo
splendore divino illumina e innalza anche una parte del mondo
umano: ben
lo vediamo, nel I libro, a Cartagine. Luminoso e maestoso l'arri-
vo della regina al tempio (I, 496 s.):
regina ad templum, forma pulcherrima Dido,
incessit magna iuvenum stipante caterva
[la regina, Didone dalla splendida bellezza, verso il
tempio
avanzò; un grande corteo di giovani le si accalcava
intorno].
Segue la similitudine della regina con Diana. Cartagine, nella
rappresentazione di Virgilio, è tanto operosa quanto fastosa: lo
si vede, per esempio, dalla reggia, dalla sala del banchetto, dalle
tovaglie usate per coprire le mense, splendide di porpora, dal va-
sellame di argento, su cui sono istoriate in oro le gesta degli avi
394 Parte terza. L‘«Eneide»; il costo tragico del potere

(637-642), dai lampadari, appesi a lacunari d'oro, che illumina-


no la notte (723-727): fasto ed orgoglio. Nella civiltà ionica di
Omero, come in quella micenea in cui egli colloca i suoi raccon-
ti, ricchezza e lusso venivano valorizzati; ma più che il lusso dei
Feaci Virgilio avrà in mente il fasto delle corti ellenistiche o di
alcuni palazzi dell'aristocrazia romana.
Ciò che ho qualificato come grandioso rientra in quello che
gli antichi chiamavano sublime; tuttavia mi pare opportuno col-
locare il sublime un gradino più in su e restringerne l'area. Punte
sublimi non mancano certamente nell ’Eneide. Guardiamo, per
esempio, il quadro di Giove che, dall'alto del cielo (aethere
stemmo), volge la sua attenzione a Cartagine: prima di arrivare
all'Africa egli percorre con lo sguardo il mare popolato di navi
[mare velivolum, con allusione ad Ennio), le vaste pianure
(terras... iacentis), le coste, i grandi paesi popolati (latos
populos): lo spettacolo maestoso del mondo (I, 223-296); la
maestà di Giove più sicuramente tocca il sublime quando viene
evocato il silenzio dell'universo mentre egli si accinge a dare
agli dèi un ordine perentorio (X, 191-193): Virgilio qui è
ispirato da Ennio, che, come Omero e come Lucrezio, si trova
spesso dietro la grandiosità e la sublimità dell ’Eneide. Mi sono
limitato a Giove e a due esempi; altre punte sublimi si possono
segnalare nel poema, ma si direbbe che Virgilio, ben
consapevole di quanto il sublime sia rischioso, non volesse
frequentare spesso le alte cime.
xxvn
I DISCORSI

Anche nell'ampio uso dei discorsi Virgilio si attiene alla tra-


dizione epica, anzi omerizza in misura accentuata: nei poemi
omerici i discorsi occupano la metà dello spazio; Virgilio vi si
avvicina molto (46,75%)1.1 discorsi, dalle ampie orazioni (che
costituiscono la minor parte) finto a battute brevissime, sono
333 (secondo il calcolo di Highet; secondo altri criteri si oscilla
da 331 a 343). Specialmente per l'ampiezza dello spazio
occupato Virgilio si discosta da Apollonio Rodio, tornando ad
Omero; ma l'influenza omerica si riduce in misura notevole se si
guarda alle caratteristiche dei discorsi. L'influenza dell’epica
ellenistica si scorge anche in particolari di modesta importanza:
per esempio, nei poemi omerici il discorso incomincia con
inizio di verso e si chiude con fine di verso; Virgilio incomincia
e, sia pure solo in tre casi, finisce anche all’interno di verso: di
questo procedimento si trovano esempi in Callimaco ed Ennio,
per la fine all’interno del verso solo in Callimaco.
Credo che sia opportuno collocare in margine, se non esclu-
dere, i discorsi che direi «diegetici», cioè quelli che
«sostituiscono» la narrazione, specialmente per richiamare
vicende del passato2; non intendo sostenere che questi discorsi
non siamo condizionati dal narrante, ma solo che la funzione di
caratterizzare
il narrante, di esprimere i suoi sentimenti nella situazione deter-
minata, è secondaria e talvolta marginale. Il caso più vistoso è il
racconto di Enea nei libri II e HI; ma già nel I libro il discorso
di Venere al figlio è quasi tutto (338-368) un racconto delle vi-
cende di Didone. Sebbene più emotivo, ha funzione prevalente-
mente diegetica il secondo discorso di Achemenide ai Troiani
(HI, 613-650). L'incontro di Enea col padre nei Campi Elisi ha
una sceneggiatura non trascurabile, ma sia il discorso cosmolo-
gico (VI, 724-751) sia la rassegna dei grandi personaggi romani
prima dell'esortazione finale e prima di Marcello (756-846) han-
no funzione didascalica e diegetica: questa interpretazione si
396 Parte terza. L‘«Eneide»; il costo tragico del potere

può mantenere senza ignorare la funzione parenetica che ha la


rassegna (806):
397 Parte terza. Lf «Eneide»: il costo tragico del potere
xxvin
LE SIMILITUDINI

Le similitudini, ancora più dei discorsi, costituiscono un'ere-


dità della tradizione epica e caratterizzano fortemente il genere
epico: è ovvio che Virgilio ne era pienamente convinto; un po'
meno ovvio è che il largo uso delle similitudini è un altro segno
importante del riaccostamento di Virgilio ad Omero dopo l'epi-
ca ellenistica1. Un po' sorprendente è che, all'interno dell'opera
di Virgilio, le similitudini non sono una novità: già nelle
Georgiche se ne contano 29, di cui 15 risalenti ad Omero. Nell
'Eneide Virgilio segue Omero persino nella distribuzione delle
similitudini: neìY Iliade si contano 214 similitudini, néY
Odissea 51; nel- YEneide ricorrono 104 similitudini (il numero
ha subito qualche lieve variazione secondo i criteri adottati
nell'identificare la similitudine), ma la parte iliadica, con 64
similitudini, supera di parecchio la parte odissiaca, che ne ha 40.
Delle 104 similitudini 79 risalgono ad Omero (24 nei libri dal I
al VI, 55 nei libri dal VII al XII); nella parte iliadica Virgilio si
accosta ancora di più ad Omero (nella parte odissiaca le
similitudini non omeriche sono
16 su 40, nella parte iliadica 9 su 64). Diseguale, ma non casua-
le, è la distribuzione nei singoli libri. Sorprendente è che il HI
libro, il più «odissiaco», contenga una sola similitudine (675-
683,
i Ciclopi paragonati ad alberi). Secondo alcuni ciò si spiega con
la composizione alta (cronologicamente) del libro; più probabile
è che il libro sia tardo e che Virgilio non abbia fatto in tempo ad
aggiungere le similitudini: ciò si concilia con l'ipotesi che le
simihtudini in parte venissero aggiunte nella composizione più
tardi. Anche nella parte iliadica la distribuzione è diseguale: le
similitudini non sono numerose nei libri VII e VTH (rispettiva-
mente 7 e 6); ma si infittiscono, anche se non proprio progressi-
vamente, nei libri strettamente di guerra (11 nel IX, 14 nel X, 9
nelTXI, 17 nel XII): dunque le similitudini caratterizzano di più
il racconto di guerra, e il libro XII è il libro di guerra per eccel-
lenza; non per caso fra gli ultimi quattro libri il meno ricco di si-
XXVIII. Le similitudini 399
militudini è l’XI, che in gran parte è dedicato a cerimonie fune-
bri e al lungo dibattito nel concilium regis.
400 Parte terza. L‘«Eneide»; il costo tragico del potere
xxtx
ALCUNE CONSIDERAZIONI E NOTE
SULL’ESPRESSIONE DEL PATHOS NELL’«ENEIDE»

Dare un quadro adeguato dell’espressione del pathos nell’E-


neide è compito immenso, diffìcile, delicato: già è diffìcile, e in-
certa, la separazione del linguaggio del pathos da quello stretta-
mente epico; più difficile cogliere i mutamenti rispetto alla tra-
dizione in cui l’espressione virgiliana del pathos è radicata: la
tragedia greca, la tragedia latina, Apollonio Rodio, Catullo. Co-
munque neppure per il pathos e le sue espressioni si può sradi-
care Virgilio da Omero: Y Iliade cantava l’ira di Achille;
YEneide nell’invocazione alla Musa che segue, nel proemio, alla
protasi (I, 8-11), parte dall’ira di Giunone; e dolor e ira, passioni
connesse, hanno una parte rilevante nel poema 1.
Come nella tendenza alla grandiosità, così nell’espressione
del pathos ci sono gradi e toni diversi. Le punte di pathos
intenso ed esasperato non predominano nell’Eneide, ma non
sono certo marginali. Ve ne sono nei discorsi di Didone: per
esempio, nelle prime accuse ad Enea (IV, 305 ss.), ancora più
nella replica alla difesa di Enea (365 ss.), nel famoso discorso
che finisce con l’invocazione del vendicatore (590-629). Ve ne
sono in discorsi di Amata, in parte, come abbiamo visto, affine a
Didone: per esempio, nell’aggressione al marito (VII, 359-372);
ancora di più in discorsi dell’emotivo Turno: per esempio, nel
monologo indignato in cui protesta contro l’inganno di Giunone
(X, 468-679). Un pathos più acuto della mestizia, pur senza
punte di parossismo, si avverte nel lamento funebre della madre
di Eurialo (IX, 481-197).
Io credo, però, che i posteri siano stati conquistati di più da
un pathos meno intenso ed agitato, ma più profondo, dal tono
più accorato, che a noi fa venire in mente l’elegia, ma che ha an-
ch’esso le sue radici nella tragedia e a cui Virgilio ha dato
accenti della più alta liricità. Mi riferisco, per esempio, al
discorso di Bidone alla sorella Anna, mentre ha sotto gli occhi lo
spettacolo dei Troiani che, alacri e lieti, preparano la partenza; la
402 Parte terza. L‘«Eneide»; il costo tragico del potere

prega di supplicare Enea perché conceda almeno una dilazione;


il dolore che opprime la donna nel profondo, trova accenti
sorprendenti di una rassegnata mestizia (IV, 419 ss.):
403 Varie terza. U«Eneide»: il costo tragico del potere
404 Parte terza. L‘«Eneide»; il costo tragico del potere
X X I X . Alcune considerazioni e note sull1espressione del pathos ATI
428 Parte terza. L‘«Eneide»; il costo tragico del potere

exspectate solo Laurenti arvisque


Latinis, hic tibi certa domus...
[O nato da stirpe di dèi, tu che la città di Troia salvata dai
nemici / riporti a noi e conservi per l’eternità Pergamo, /
atteso nella terra di Laurento e nei campi latini, / qui è la
tua dimora fissa...].
Si può supporre (ma solo supporre) che expectate richiami Tal-
locuzione di Enea ad Ettore in sogno (II, 282 s.):
quibus Hector ab oris
expectate venis?
[da quali plaghe, Ettore, / giungi, tu (da noi) atteso?].

Ora T«atteso», e T«atteso» realmente arrivato, è Enea. Lo stile-


ma viene trasferito ad Ascanio, nell'allocuzione che gli rivolge
Apollo (IX, 641 s.):
Macte nova virtute, puer, sic itur ad
astra, dis genite et geniture deos.
[Lode a te, figlio, per il valore nuovamente dimostrato:
così si sale alle stelle, / o generato da dèi e progenitore di
dèi].
Anche il pathos meno agitato ha, nél’Eneide, le sue parole-
guida. La più diffusa è miser, punta espressiva del dolore e della
pietà, che costituiscono tanta parte nei sentimenti del poema:
miser ricorre 72 volte; se si aggiungono parole connesse,
misera- bilis, misereo ecc., si arriva a 1239; l'apostrofe o
miserande puer unisce nella pietà i giovani stroncati ante diem,
Marcello (VI, 882), Lauso (X, 825), Pallante (XI, 42);
miseranda anche Camilla (XI, 593). L'epiteto che nella memoria
del lettore diventa proprio di Didone, è infelix: infatti per
Didone ricorre 8 volte, per Amata 2 volte; ma nel poema ha una
diffusione notevole (48 casi); va notato che non è mai riferito né
ad Enea né a Turno10. Tra i vocaboli-guida metterei anche
maestus (36 occorrenze, più 8 di maereo)11. Un problema che
forse meriterebbe più attenzione è se il pathos riesca a saldarsi
sempre senza stridore con la narrazione: citerò un solo caso. Il re
Latino, come abbiamo visto, è pa- mgonato ad uno scoglio che
X X I X . Alciine considerazioni e note sull’espressione del pathos 429
resiste alle ondate urlanti (VII, 585790): la similitudine è uno
degli emblemi distintivi della narrazione epica; ma subito dopo,
davanti all'impossibilità di superare la violenza, il re cade e si
sente trasportato dalla tempesta {Aen. VII, 594):
«Frangimur heu fatis» inquit «ferimurque procella!»
[«Ahimè! Siamo infranti», egli disse, «dai fati e trascinati
dalla tempesta!»].
Direi che il bisogno di pathos si impone. Il passaggio non è un
po’ brusco?
jutfhy, condusse non poche felici analisi1. Segnalerò pochi
esempi di Empfindung, che non sarebbe difficile moltiplicare2.
Come abbiamo già visto, il quadro «fiammingo» dell'accam-
pamento dei Rutuli viene presentato la prima volta da Niso ad
Eu- rialo (Aen. IX, 188-190), la seconda volta da Niso ai capi
dei Troiani (IX, 23 6-240); la terza volta compare nella
narrazione della sor- lita, ma visto con gli occhi di Eurialo e
Niso, avidi di approfittare della situazione e di passare all'azione
(316-319); il quadro è preceduto da un «commento» del poeta
narrante, presentimento della morte, ma anche elogio dei
giovani coraggiosi (315 s.):
multis tamen ante futuri
exitio
[ma a molti tuttavia avrebbero prima portato / morte].
Un quadro di Bidone, ormai ossessionata dall'immagine di
Enea: un quadro di solitudine, dopo che Enea e la regina si sono
separati (IV, 80-83):
Post ubi digressi lumenque obscura vicissim luna
premit suadentqae cadentia sidera somnos, sola
domo maeret vacua stratisqne relictis incubat
[Poi, quando si sono separati, la luna a sua volta fa
impallidire / la sua luce e gli astri che tramontano
conciliano il sonno, / solitaria piange nella sua dimora
vuota e si getta sul letto / che egli ha abbandonato].

La luna spenta, la solitudine, il vasto palazzo vuoto, il letto ab-


bandonato sono visti attraverso la sofferenza della donna; anche
X X I X . Alciine considerazioni e note sull’espressione del pathos 430
gli astri che tramontando invitano al sonno, son visti attraverso
il suo vano desiderio di quiete. I primi sospetti della donna, che
la passione rende ipersensibile e insicura (IV, 296-298):
436 Parte terza. L‘«Eneide»; il costo tragico del potere
X X X I . U espressionismo dell'«Eneide» 437
438 Parte terza. L‘«Eneide»; il costo tragico del potere
recalent nostro Thybrina fluenta sanguine adhuc
campique ingentes ossibus albent
[ancora la corrente del Tevere è calda / del nostro sangue e
la pianura immensa biancheggia di ossa].

Probabilmente nel vasto quadro il rosseggiare del sangue e il


biancheggiare delle ossa nella pianura sono messi in contrasto.
Difficile dire se la guerra sia più o meno orribile dell'inferno, che
è, anch'esso, ben presente nell'Exeide. Ma l'orrore sconvolgente
dell'inferno, più che nella descrizione del Tartaro, è nell'inferno
che straripa in terra: Aletto che si leva a volo, tra uno stridore delle
ali che fa tutt'uno con quello dei serpenti (VH, 561 s.); la voragine
della valle di Ampsanto, con le sue gole pestifere spalancate,
attraverso cui Aletto torna nell'inferno (VII, 569 s.); la caverna
immensa di Caco, che sembra l'inferno spalancato da una
lacerazione della terra (VTH, 241-246). Nella descrizione di questa
caverna il quadro più macabro e ripugnante è quello delle teste
pallide degli uccisi appese, come spoglie di guerra, alle porte (Vili,
195-197):
semperque recenti
caede tepebat humus foribusque adfixa superbis
ora virum tristi pendebant pallida tabo
[e sempre di strage recente / era caldo il terreno e, inchioda-
te sulle superbe porte, / erano appese teste di uomini, pallide
di macabro marciume].
Forse quadri come questo ossessionavano la fantasia di Virgilio.
La vasta caverna buia di Polifemo è cosparsa di sangue marcito e
di carni ancora sanguinanti (IH, 673 s.). Nel libro dell'oltretomba
Cerbero appare come una bestia gigantesca che dalle sue tre gole
fa risuonare in eterno i suoi latrati, spaventando le ombre esangui
(VI, 400 s.; 417 ss.); ma nell'inno cantato dagli Arcadi in onore di
Ercole vediamo Cerbero, nel suo antro cosparso di sangue,
accovacciato sulle ossa di carni divorate a metà (VHI, 297):
ossa super recubans antro semesa cruento...
[accovacciato nella caverna insanguinata su ossa divorate a
metà...].
Turno, dopo avere ucciso due guerrieri fratelli, ne appende le teste,
X X X I . U espressionismo dell'«Eneide» 439
orribile trofeo, al carro con cui scorrazza per il campo di battaglia
(XII, 511 s.):
curru... abscisa duorum suspendit capita et
rorantia sanguine portat
[al carro le teste tagliate dei due guerrieri / appende e le por-
ta in giro stillanti di sangue]:
un flash allucinante sull'aspetto barbarico di Turno. La metafora
della rugiada di sangue, che ha ascendenze nella tragedia greca,
aveva qualche fascino su Virgilio: nella punizione inflitta da Tulio
Ostilio al traditore Metto Fufezio vediamo le sue viscere strasci-
nate per la selva e i cespugli cosparsi di sangue (VHI, 644 s.):
raptabat... viri mendacis viscera Tullus per
silvam et sparsi rorabant sanguine vepres
[Tulio strascinava le viscere del mentitore / per la selva e i
cespugli erano cosparsi di una rugiada di sangue];

da ricordare che la scena era già negli Annales di Ennio. 11 gusto


espressionistico ha ispirato anche alcuni ritratti dèi*Eneide. Al
primo posto metterei quello di Caronte, tanto vigoroso quanto
squallido di canizie e di cenci, i cui occhi fiammeggiano immobili
e severi (VI, 298-304). Rapido, ma incisivo, il ritratto della
sacerdotessa Càlibe, di cui Aletto assume le sembianze, una vec-
chia dalla fronte rugosa e ributtante, dai capelli bianchi coperti
dalla sacra benda (VII, 416-418). Nell'episodio di Camilla risalta,
fra i guerrieri da lei uccisi, un certo Òrnito, dalla statura im-
ponente, con le spalle coperte dalla pelle di un pugnace giovenco,
con la testa coperta da un elmo che incute spavento: è rivestito da
una testa di lupo, con la bocca spalancata, da cui biancheggiano i
denti (XI, 677-683). Aggiungo solo il ritratto di un Tritone, che fa
da vistoso ornamento alla nave di un capo etrusco. Le descrizioni
delle Ninfe e di altre divinità marine minori sono ispirate di solito,
e anche in Virgilio, da un gusto rococò; ma qui Tritone è un
mostro dal volto ispido di uomo, dal ventre di belva marina
(pristis): anche il mare ne resta atterrito (X, 209212). Mi sonò
soffermato sull'espressionismo più vistoso; ma és- so si insinua
anche in metafore ed immagini audaci: per esempio, sentiamo
«stridere» la ferita mortale di Didone (IV, 689); Enea, davanti a
mostri infernali, se non fosse trattenuto dalla Sibilla,
«squarcerebbe le ombre» (diverberet umbras).
440 Parte terza. L‘«Eneide»; il costo tragico del potere
Dopo aver tanto insistito sull'espressionismo di Virgilio, dopo
avervi segnalato persino colori lucanei, devo, però, ribadire che
Virgilio generalmente lo frena e lo doma con la misura classica;
ma, senza fermenti come questo, anche la classicità di Virgilio
sarebbe stata più esposta al pericolo di cadere in una vuota e
decorosa compostezza, quella di cui abbiamo non pochi esempi
nel neoclassicismo del Settecento e dell'Ottocento.
4
5
7
X X X I I . L'eredità alessandrina e neoterica nello stile dell’«Eneide» 443
444 Parte terza. L‘«Eneide»; il costo tragico del potere
X X X I I . L'eredità alessandrina e neoterica nello stile dell’«Eneide» 445
In senso contrario va ribadito che nél*Eneide una parte di quel-
l'eredità viene scartata: soprattutto l'orientamento che portava a
togliere l'epica dal piedistallo su cui era stata collocata da secoli,
ad attenuare o eliminare, anche con l'ironia, la sua solennità e ad
accostarla alla vita comune: per questa via si voleva uscire da for-
me stereotipate o rigide, su cui la tradizione gravava come un peso
morto. Virgilio riuscì nel rischioso tentativo di creare un'epica
446 Parte terza. L‘«Eneide»; il costo tragico del potere
xxxm
I COLORI DELL'«ENEIDE»

Nell'evocazione di luce e di colori si avverte qualche volta la


l radizione come peso ingombrante: per esempio, i colori del-
l’aurora sono quelli, stereotipati, di Omero: roseo, rosso, giallo
(luteus); gli aggettivi indicanti colore qualche volta sono prestiti
dulia tradizione poetica greca (per esempio, croceus, purpureus),
qualche altra volta calchi (per esempio, caeruleus ricalcato su
yXcXDXÓ^). Ciò è vero solo in piccola parte; per lo più anche Iu-
re e colori subiscono il processo di integrazione lirica 1.
La luce diffusa nell 'Eneide non è solo quella del giorno e degli
ustri nella notte, a cui si aggiunge la luce «purpurea» dei Campi
1 ilisì (VI, 640 s.). Come ho già accennato, il fasto ha nell
'Eneide un suo posto (anche se non ampio) e un suo fascino: l'oro,
per esempio, vi ricorre 78 volte. Il verbofulgeo ricorre una ventina
di volte; se si aggiungono i composti (come refulgeo, praefulgeó)
efulgor, si oltrepassa la trentina; invece è rarissimo (e di ciò non
saprei dare spiegazione) splendeo (due casi, più un caso di
splendidus)\ due volte il riferimento va al lusso: alla reggia di
Cartagine regali splendida luxu [splendida di regale fasto] (I, 637),
ai vasi di cui Venere si serve nel curare Enea (XII, 417); un'altra
volta, però, serve ad evocare il quadro del mare che splende alla
luce della lima (VII, 9). Molto più forte del fascino del lusso è il
fascino della guerra: il fulgore e i colori delle armi percorrono la
parte iliadica del poema. Segnalo di nuovo il fulgore abbagliante
delle armi di Enea che sbarca dal Tevere dopo il viaggio presso
Evandro (X, 270 s.):
Ardet apex capiti cristisque a vertice fiamma
funditur et vastos umbo vomit aureus ignis,..
[Arde sul suo capo la punta dell’elmo e dalle creste in cima /
si riversa la fiamma e lo scudo d’oro vomita fuoco...].
Il fiammeggiare delle armi è paragonato a quello delle comete, il
cui colore è di rosso sangue (271 s.: cometae / sanguinei lugubre
rubent2): il rosso vivo, indicato con rutilus meglio che con ruber,
caratterizza sia le armi di Enea fabbricate da Vulcano, quando
448 Parte terza. L‘«Eneide»; il costo tragico del potere
appaiono in cielo (Vili, 528 s.), sia la corazza di Turno (XI, 487) 3.
Si capisce che anche Turno rifulge nella sua armatura, anch'essa
splendida di oro in varie parti (XI, 488-490); il quadro, già ri-
cordato, di Turno che si arma prima del duello, è carico di colori
variegati (XII, 87-89):
X X X I I I . I colori dell1 «Eneide» 449
450 Varie terza. U«Eneide»: il costo tragico del potere
VA' X I I I . I colori dell'«Eneide» 451
xxxrv
LA SCELTA DEI SUONI

La poesia latina, fin dalla fase arcaica, puntava molto su quella


elaborazione dei suoni che gli studiosi tedeschi indicarono col ter-
mine felice di Lautmalerei e che può essere compresa anche sotto
l'etichetta, più recente, di fonosimbolismo: cioè il poeta, nell'evo-
care immagini, quadri, emozioni, dà una funzione essenziale alla
scelta dei suoni. L'allitterazione, di cui tratterò brevemente in se-
guito, rientra solo in parte, anche se non marginalmente, nella
Lautmalerei. Virgilio resta solidamente agganciato alla tradizione
latina, soprattutto agli Annales di Ennio e a Lucrezio, ma è molto
più fine e misurato, pur senza perdere, neppure in questo, di vi-
gore1. La cura nella scelta dei suoni è, si può dire, continua, ma si
avverte meglio in alcune punte, non rare, dove gli effetti sonori
salgono al di sopra del livello consueto. Delineare orientamenti
riesce difficile; preferisco affidarmi ad alcuni esempi, cercando,
però, di raggrupparli secondo una certa affinità di effetto musicale;
data l'abbondanza dei casi, mi limiterò alla prima metà del poema.
Cominciamo dalla Lautmalerei che suscita sensazioni di
asprezza e di violenza. L'effetto dei venti tempestosi sul mare
(1,58 s.):
maria ac temzs caelumque
profundum ...ferant rapidi secum
vemzntque per auras
[i mari, le terre e il cielo profondo / essi trascinerebbero con
sé nella loro rapida corsa / e li spazzerebbero via nell’aria].
È facile cogliere l'effetto espressionistico ottenuto con la molte-
plice ripresa dell'aspra sillaba ra. Ma sentiamo i venti in azione sul
mare (I, 83):
rnunt et terras Orbine perflmt.
[i venti) irrompono e il turbine soffia su tutta la terra].
I ,e urla di Polifemo (III, 672-674):
clamorem immensum follit, quo pcwtus et omn.es
contremuere &#dae penitusque exterrita tellus Italiae
W'XIV. La scelia dei suoni 453
a/rvisque iz^^&giit Aetna cavemis
\XX1V. La scelta dei suoni 454
X X X I V . La scelta dei suoni 455
456 Parte terza. L‘«Eneide»; il costo tragico del potere
X X X I V . La scelta dei suoni 457
amens è uno dei vocaboli guida nell'allitterazione di questo tipo
(cioè torna più volte in nessi allitteranti affini per l'espressività).
La passione devastante di Didone (IV, 101):
^Lrdet <zmans Dido...
[Arde di amore Didone...].

Espressività intensificata dalla posizione all'inizio del verso. L'af-


fanno dei compagni di Mnesteo in una fase della gara di corsa
delle navi, dopo l'ardente esortazione del loro capo (V, 199 s.):
tum creber ^nhelitus drtus tfridaque ora
quatit; sudor fluit undique rivis
[inoltre un frequente respiro ansimante / scuote le membra e
la bocca secca, il sudore scorre a ruscelli].
Più profondo l'affanno del vecchio Entello durante la gara di pu-
gilato (V, 432):
vastos quatit <zeger dnhelitus tfrtus [un
respiro affannoso scuote le vaste membra].
XXXIV. La scelta dei suoni AGI
468 Parte terza. L‘«Eneide»; il costo tragico del potere
\XX1V. La scelta dei suoni 469
470 Parte terza. L‘«Eneide»; il costo tragico del potere
X X X I V . La scelta dei suoni 471
4
8
8
474 Parte terza. L‘«Eneide»; il costo tragico del potere
XXXV. Poche note sull'espressività metrica 475
476 Parte terza. L‘«Eneide»; il costo tragico del potere
At me tum primum saevus circumstetit horror.
Obstipui: subiit cari genitoris imago, ut regem aequaevum
crudeli volnere vidi vitam exhalantem...
[Ma io allora per la prima volta fui stretto da un feroce orro-
re. / Rimasi immobile: mi venne in mente l'immagine del
padre caro, / appena vidi il re della sua stessa età esalare la
vita / per la crudele ferita...].
L’orrore per l'uccisione di Priamo, che per un momento paralizza
Enea: quattro spondei in 559 e 561, a brevissima distanza. Merita
attenzione, credo, anche l'uso di versi con quattro spondei nei
discorsi; per esempio,
I, 437:
«O fortunati, quorum iam moenia surgunt!
[O fortunati coloro che vedono innalzarsi le loro mura!].
Esclamazione di Enea davanti a Cartagine in costruzione, all'inizio
di una breve rhésis. Con un verso affine incomincia il discorso di
Diomede, in risposta all'ambasciata di Turno (XI, 252):
O fortunatae gentes, Saturnia regna...
[O popoli fortunati, regno di Saturno...].
Con un esametro carico di spondei incomincia il suo discorso
Drance (XI, 343 s.):
Rem nulli obscuram, nostrae nec vocis
egentem, consulis, o bone rex...
[Su una questione per nessuno oscura, che non ha bisogno
della mia parola, / tu ci consulti, o saggio re...].

Gli spondei servono anche a scandire le parole in certi punti del


discorso: per esempio, I, 597, nel discorso di Enea a Didone:
O sola infandos Troiae miserata labores
[O tu che sola hai avuto pietà delle indicibili sofferenze di
Troia...];

XI, 346, nel discorso di Drance contro Turno, dopo due versi
dall'inizio citato:
Det libertatem fandi flatusque remittat...
XXXV. Poche note sull'espressività metrica 477
[Dia libertà di parola, raffreni le sue vanterie...].
Insomma, un terreno inesauribile di ricerca.
La funzione espressiva dei dattili, che è più rara, si coglie più
facilmente. Ho già accennato al verso famoso della corsa della ca-
valleria; musica affine a proposito della fuga delle schiere di cervi
nella caccia offerta da Didone (IV, 155):
pulverulenta fuga glomerant montisque relinquunt
[raccolgono (i cervi) le (loro schiere) avvolte di polvere nella
fuga e lasciano i monti].
Va notata anche revocazione, subito dopo, della corsa di Asca- nio;
At puer Ascanius mediis in vallibus acri gaudet equo...
, [Ma il giovinetto Ascanio, in mezzo alla valle, guida con
gioia / il suo cavallo animoso...].
Ho già avuto occasione di citare il verso che evoca musical-
mente lo svanire di Mercurio (IV, 288 = IX, 658, riferito ad Apol-
lo); altri casi ben noti il verso sui mille colori dell’arcobaleno (IV,
701 e altrove) e quello che risuona della musica violenta e sinistra
delle ah della Dira, che sbattono sullo scudo di Turno (XII, 865 s.):
Turni se pestis ob ora fertque refertque sonans
clipeumque everberat alis...
[la peste davanti al volto di Turno / passa e ripassa con stre-
pito e flagella lo scudo con le ali...].
All’effetto qui concorre la scelta dei suoni. Ma al di là dei casi ben
visibili come questi, anche la funzione espressiva dei dattili va
seguita con attenzione (qui ricavo alcuni esempi dai primi quattro
libri; per lo più si tratta di versi con quattro dattili, compreso il
dattilo in penultima sede). Il quadro di Aiace Oileo fulminato, nella
tempesta, da Minerva (I, 42-45):
Ipsa, Iovis rapidum iaculata e nubibus ignem, disiecitque
rates evertitque aequora ventis,
illum expirantem transfixo pectore
flammas turbine corripuit scopuloque
infixit acuto
[Ella, scagliando dalle nubi il rapido fuoco di Giove, /
478 Parte terza. L‘«Eneide»; il costo tragico del potere
disperse le navi e coi venti sconvolse la distesa del mare, / e
lui che spirava fiamme dal petto trafitto, / afferrò con un
turbine e confisse sulla punta di uno scoglio].
I quattro dattili del primo verso accompagnano la corsa del ful-
mine; i dattili diminuiscono nel secondo verso e scompaiono,
tranne che nella quinta sede, per evocare l'atroce agonia di Aiace;
poi tornano i dattili per evocare la violenza della tempesta. La
supposta partenza liberatrice dei Greci (II, 25, che segue ad un
verso con quattro spondei);
Nos abiisse rati et vento petiisse Mycenas
[Noi credemmo che fossero partiti e col vento navigassero
verso Micene],
L'effetto è sensibile, anche se i dattili sono solo tre: è dovuto alla
collocazione di due dattili all'inizio. Enea che affretta la partenza
da Cartagine (IV, 579-582):
Dixit vaginaque eripit ensem
Fulmineum strictoque ferit retinacula ferro.
Idem omnis simul ardor habet rapiuntque ruuntque;
litora deseruere; latet sub classibus aequor...
[Disse e strappa dal fodero la spada / fulminea e, impugnato
il ferro, / colpisce le gomene. / Nello stesso momento lo stes-
so ardore invade tutti, / si affrettano, si precipitano; hanno
lasciato la costa, / sotto la flotta il mare è scomparso...].
Ma segue un verso con quattro spondei:
adnixi torquent spumas et caerula verrunt
[con sforzo fanno turbinare la schiuma, spazzano la cerulea
distesa],
adatto alla fatica della navigazione a remi.
479 Parte terza. L‘«Eneide»; il costo tragico del potere
480 Parte terza. Lf «Eneide»: il costo tragico del potere
XXXV. Poche note sull'espressività metrica 481
482 Parte terza. Lf «Eneide»: il costo tragico del potere
Haec tum multiplici populos sermone replebat gaudens...
[Questa allora riempiva i popoli di dicerie molteplici, / con
gioia...].

La gioia maligna della Fama.


VI,589 s.:
divum... sibi poscebat honorem,
demens!

[reclamava per sé onori divini, / folle!].

Funzione analoga a quella di nescius in IV, 72.

VIE, 639-641:
reges
armati Iovis ante aram paterasque tenentes stabant...
[i re / armati, con le coppe in mano, davanti all’altare di Gio-
ve / si ergevano immobili...].

Romolo e Tito Tazio celebrano il sacrifìcio nella cerimonia che


sancisce il patto di alleanza; evidente come la collocazione di sta-
bant accresce solennità e monumentalità.

X, 841 s.:
At Lausum socii exanimem super arma ferebant flentes...
\XXV. Poche note sull1 espressività metrica 483
484 Parte terza. L‘«Eneide»; il costo tragico del potere
\XXV. Poche note sull1 espressività metrica 485
quam fors inopina salutem
ostentata Fatis huc te poscentibus adfers
[questa salvezza da una sorte inattesa / ci viene mostrata. È
per volontà del destino che tu arrivi da noi].
In un discorso di Evandro ad Enea; la collocazione iniziale di
ostentat, lo spondeo (seguito da altri tre spondei) danno salda
certezza.
VETI, 527:
Suspiciunt; iterum atque iterum fragor increpat ingens
[Guardano in alto; di nuovo e poi di nuovo un fragore im-
menso (di rami) risuona].
Enea ad Acate, mentre le armi appaiono in cielo: la pausa esprime
l’attesa dell’animo; la fuga di dattili evoca il rapido susseguirsi
delle manifestazioni prodigiose.
Vale anche la pena di notare l’effetto della pausa dopo il tro-
cheo del secondo piede: casi rari; per esempio:
IX, 189 s.:
somno vinoque soluti
procubuere...
[Liberati (dai pensieri) sotto l’effetto del sonno e del vino, /
si sono distesi...].
I Rutuli sprofondati nel sonno; ritmo adatto al rilassamento. L’ef-
fetto si ripete nella ripresa del quadro (IX, 236 s.):
Rutuli somno vinoque soluti
conticuere...
XXXV. Poche note sull'espressività metrica 486
487 Varie terza. U«Eneide»: il costo tragico del potere
\XXV. Poche note sull1 espressività metrica 488
XXXV. Poche note sull'espressività metrica 489
490 Parte iena. L} «Eneide»: il costo tragico del potere
XXXV. Poche note sull'espressività metrica 491
492 Parte terza. L‘«Eneide»; il costo tragico del potere
Negli ultimi due casi si aggiunge l'allungamento in arsi dell'ultima
sillaba di canti e di profugus, facilitato dall'aspirazione della prima
vocale della parola greca che segue; raffinatezza analoga in
XI, 69:
florem
seu mollis violae, seu languentis hyacinthi...
[il fiore / o della molle viola o del languente giacinto...].

L’esametro richiama, anche per mollezza e delicatezza, Bue. 6,53 :

ille, latus niveum molli fultus hyacintho...


[quello (il giovenco) col fianco candido e appoggiato sul
molle giacinto...].

Questo tramite riporta alla molle grazia alessandrina e neote-


rica. Tracce come queste sono rare nel poema, ma bastano a dargli
un tenue profumo alessandrino, elemento non marginale di quella
grande sintesi di tendenze e orientamenti diversi che è YEneide.
Appendice. Le opere e gli anni 493
NOTE E BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
NOT
E
510 Note
Note alla Parte prima 511
512 Note
3
Sulla storia del genere bucolico (e sul concetto di genere letterario) con-
siderazioni equilibrate e convincenti ho trovate nel libro di Schmidt, Poetische
Reflexion cit., pp. 11 ss., spec. 13 s.
4
Un accenno, in questo senso, all'articolo di Traina, Poeti latini cit., p. 195.
5
Chi vuole un saggio esemplare delle odierne interpretazioni allegoriche,
legga J.J.H. Savage, in «Trans, and Proc. of thè Amer. Philol. Ass.», 89, 1958, p,
158: dopo avere identificato Galatea lasciva puella con Sesto Pompeo, scorge
nella chiusura dei rivi la chiusura dei porti d’Italia contro le irruzioni del grande
pirata.
6
Su questi rapporti cfr. T.E.V. Pearce, in «Class. Quart.», n.s. 20, 1970, pp.
335 ss.
7
Anche per questo problema rimando alla mia nota introduttiva nel com-
mento scolastico citato.
8
Questa, press’a poco, l’opinione di G. Jachmann. Die dichterische Technik
in Vergils Bukoliküy in «Neue Jahrbücher für das klass. Altertum», 49,1922, pp.
101-120, un articolo che sgombrò il terreno da molte discussioni improprie; giu-
ste obiezioni sono state mosse da Schmidt, Poetische Reflexion cit., pp. 177 ss.

VTH. lì architettura delle «Bucoliche»


1 Punto di partenza è lo studio di P. Maury, Le secret de Virgile et Varchi-
tecture des Bucoliques> in «Lettres d’humanité», 3, 1944, pp. 71-147. La tesi di
Maury fu accolta e divulgata da J. Perret nella sua monografia su Virgilio (Vir-
gile > Paris 1959; 19652). Un buon bilancio di questi studi, con riserve e con-
clusioni convincenti, si deve a O. Skutsch, Symmetry and Sense in thè Eclogues,
in «Harvard St. in Class. Philol.», 73, 1969, pp. 162-169. Lo scetticismo di E. de
Saint-Denis, in «Rev. de philol.», 50, 1976, pp. 7-21, è comprensibile, ma non
intacca, mi pare, le conclusioni prudenti di Skutsch, con le quali io concordo.
Sull’ordinamento artistico del libellus in età augustea una breve (e non
esauriente) trattazione in J. Michelfeit, Das augusteiche Gedichtbuch, in «Rhein.
Mus.», N.F. 112, 1969, pp. 347-370.
2 Alcuni sostenitori dell’allegoria di Cesare adducono Ge. IH, 16: In medio
mihi Caesar erit\ ma lì Virgilio si riferisce a un progetto futuro: la prova po-
trebbe essere utilizzata anche in senso contrario.
3 Di più si può trovare in molte opere, per esempio, in F. Cupaiuolo, Tra-
mapoetica delle Bucoliche di Virgilio, Napoli 1969, pp. 26-36; molto di più (fino
a complicazioni discutibili) in E. Coleiro, An Introduction to Vergil’s Bucolics
with a Criticai Edition of thè Texty Amsterdam 1979. Nel Cupaiuolo e spe-
cialmente nel Coleiro ampia bibliografia sull’argomento.
4 E sostenuta, tuttavia, da alcuni: con particolare impegno e ampiezza da J.
van Sickle, The Design of Vergili Bucolics, Roma 1978. Anche chi non condivi-
de la tesi centrale, potrà trovare in quest’opera interpretazioni interessanti.
5 Da tempo ho rinunciato a fondarmi su un tentativo che feci una quaran-
tina d’anni fa (cfr. «Maia», n.s. 15, 1963, pp. 490 ss.); resta però vero, secon-
do me, che la maggiore o minore vicinanza a Teocrito non dà un filo cronolo-
gico valido.
6 Strano, e poco convincente, il tentativo, condotto con dottrina e ingegno-
sità, di spostare l’ecloga 8 al 35 a.C.: lo si deve a G.W. Bowersock, in
«Harvard St. in Class. Philol.», 75,1971, pp. 73 ss.: il dedicatario non sarebbe
Pollione, che non guidò campagne militari nell’Illirico, ma Ottaviano, poeta
Note alla Parte prima 513

sofocleo in quanto autore dell’incompiuta e ripudiata tragedia Aiax. Virgilio


avrebbe dunque incensato l’imperatore per questo ignoto aborto! W. Clausen,
in «Harvard St. in Class. Philol.», 76,1972, pp. 201 ss., si è messo
zelantemente sulla stessa strada e ha spostato al 35 a.C. anche la data della
prima ecloga: in quell’anno si collocherebbe meglio il culto di Ottaviano.
Ancora più in là si è spinto E.A. Schmidt, Zur Chronologie derBklogen
Vergils, «Sitzungsber, der Heidelberger Akad. der Wiss», Philos.-hist. Klasse,
1976, 6. Abhandlung: accogliendo la proposta del Bowersock (ma non quella
del Clausen), egli colloca Teologa 8 nel 35 a.C. e 10 e
7 dopo 8; 2,3 e 5 si collocherebbero nel 42, 9 e 1 nel 40; fra 1 e 8 si
collocherebbero 6 e 4. Nello Schmidt buona bibliografia sul tema.

IX. Lo stile del canto bucolico


1
Su lingua, stile, metrica delle Bucoliche parecchio materiale è raccolto
(anche se non sempre ben valutato) nell’appendice al comm. di H. Holtorf
(Frei- burg-Munchen 1959). Un buon orientamento si può avere dall’analisi
dello stile della prima ecloga condotta da P. Fedeli, in «Giorn. ital. di filol.»,
n.s. 3, 1972, pp. 273 ss. Cfr. anche F. Cupaiuolo, Trama poetica cit., pp. 65-
104.
2
Di schema Cornelianum ha parlato O. Skutsch, in «Rhein. Mus.», N.F.j
99, 1966, pp. 198 ss., indicando Cornelio Gallo come presupposto di Bue. 1#
57 e Properzio DI, 3, 31.
3
Su questo aspetto e altri della poetica di Virgilio bucolico: A. Grillo,
Poe• tica e critica letteraria nelle Bucoliche di Virgilio, Napoli 1971 (con
ampia bibliografia).

Parte seconda LE «GEORGICHE»: IL POEMA ESIODEO E


LUCEEZIANO DEL LAVORO E DELLA NATURA

I. La nascita delle «Georgiche»


1
Convincente (e non meno divertente che convincente e serio) è l’artico
lo di E. de Saint-Denis, Mécène et la genèse des Géorgiques, in «Rev. des étu-
des latines», 46, 1968, pp. 194-207 (molto utile anche per la storia all’inter-
pretazione degli haud mollia iussa e per quella del dibattito prò e contro il me-
cenatismo in Francia).
Note alla Parie seconda 514
Note alla Parte terza 515
516 Nota

II. La scelta della leggenda di Enea


Note alla Parte terza 517
518 Note

IH. Il mito e la
storia
Note alla Parte terza 519
19
Ivi, p. 191.
20
Ivi, p. 264.
21
Ivi, p. 274.
22
Ivi, p. 327.
23
Ivi, p. 239.
24
Ivi, p. 291.
25
Ivi, pp. 354 ss., cfr. anche Id., Vergil und Homer dt., p. 889.

V. Omero interpretato
1
Rimando ad una mia nota su Servio e la crùyKQioig fra l'Iliade e
l’Odissea. Un dubbio sul testo di Servio ad Aen. VII, 1, in «Maia», n.s. 50, 1998,
pp. 147150. Sulla teoria aristotelica che qui interessa, cfr. S. Koster, Antike
Epostheorien, Wiesbaden 1970 («Palingenesis», 5), pp. 58; 66.
2
Cfr. Knauer, Die Aeneis und Homer cit., p. 168 n. 2 (l’autore ha accolto
suggerimenti di altri studiosi); cfr. anche Id., Vergil und Homer cit., p. 888, nota
22.
3
Per i cataloghi dei temi di filosofia della natura in Virgilio rimando al mio
studio Per la storia del catalogo poetico dei temi filosofici, risalente al 1992, ora
in Da Lucrezio a Persio, Firenze 1995, pp. 169 ss.
4
The Homeric Scholia and thè Aeneid. A Study of thè Influence of Ancient
Homeric Criticism on Vergil, Ann Arbor 1974.
5
Ivi, cit., pp, 18 ss. Cfr. Schol ADad IIVII, 39 e ad II. IV, 515.
6
Cfr. Schlunk, The Homeric Scholia dt., pp. 17 s.
7
Cfr. ivi, p. 20. La nota al verso dell 'Iliade in Schol D.
8
Cfr. ivi, pp. 23 s.
9
Cfr. ivi, pp. 51ss., spec. 53.
10
Cfr. ivi, pp. 89-91; cfr. anche 42 ss.
11
Ivi, pp. 95-99.
12
Ivi, pp. 37 ss.
13
Per tutta la questione ivi, pp. 22 s.
14
T. Schmit-Neuerburg, Vergib Aeneis und die antike Homerexegese. Un-
tersuchungen zum Einfluss ethischer und kritischer Homer-rezeption auf «imita-
tio» und «aemulatio» Vergils, Berlin-New York 1999.
15
Cfr. ivi, pp. 27-37, spec. 28; 29 s.; cfr. anche pp. 223 s.
520 Note
Note alla Parte terza 521
522 Note

Vili. L'eredità alessandrina


Note alla Parte terza 523
5
Per Calvo, come in parecchi altri casi, la numerazione di Mord è conservata
nella recente edizione di E. Courtney, The Fragmentary Latin Poets, Oxford
1993.
6
La voce Calvo nell'EV> I, Roma 1984, pp. 624-626, è stata curata con so-
lida competenza e buon vaglio critico da V. Tandoi.
7
Credo anch’io che l’autore dei due frammenti citati sia Furio Bibaculo e il
poema storico il Bellum Galliatm\ ha tuttavia credito anche l’attribuzione a Furio
Anziate, autore, dd tempo di Lutazio Catulo, di un poema storico. La distinzione
tra i Furii poeti (che alcuni fanno arrivare a quattro ! ) è questione ben nota: cfr.,
per esempio, M. Wigodsky, VergilandEarly Latin Poets, Wiesbaden 1972
(«Hermes», Einzdschriften,Heft24),pp. 148-150; Courtney, The Fragmentary
Latin Poets cit., pp. 198-200. NelTEVmancano sia la voce Furio sia la voce
Egnazio.

X. U«Eneide» e la poesia latina arcaica


1
Sui rapporti fra Virgilio e i poeti latini anteriori, fino a Lucrezio, un’opera
di grande utilità resta quella di Wigodsky, Ver gii and Early Latin Poetry cit.);
ottima l’informazione sulla ricerca precedente.
2
Ivi, pp. 16-21.
3
Una buona trattazione, ma non sempre accettabile, in ivi, pp. 22-35; più
524 Note
Note alla Parte terza 525
5
2
6
Note alla Parte terza 527

XVHI U«Eneide» come poema


augusteo
528 Note
Note alla Parte terza 529

XX. Il mondo degli eroi II


protagonista
530 Note
Note alla Parte terza 531
24
Questa condanna nella dissertazione di R. SaUenbauch’, Das Menschen-
bild Vergils in den Heldengestalten derbeiden Hauptgegner Aeneas und Turnus,
Freiburg 1952.
25
Mi riferisco in particolare a G.K. Galinsky, The Hercules-Cacus Episode
in Aeneid VIII, in «Amer. Journ. of Philol.», 87, 1966, pp. 18-51.
26
Oltre a Di Benedetto, Pathos e ideologia nel finale dell’Eneide cit., cfr.
R.F. Thomas, The Isolation ofTurnus, Aeneid Book 12, in AA.W., Virgil’s Ae-
neid. Augustan Epic and Politicai Context cit., pp. 271-302, che è, però, più cau-
to e più fine.
27
Sulla solitudine di Turno, accostata a quella di Didone, un accenno nel la
voce Didone, da me redatta per YEV, II, 1985, p. 55; più ampiamente nella mia
antologia virgiliana, p. 774. In séguito questo aspetto di Turno è stato illuminato
meglio da studi di Traina.
28
Cfr. Schenk, Die Gestalt des Turnus cit., spec. 337-395, che parte da uno
studio di von Albrecht.
29
Cito quello che viene considerato l'iniziatore, Adam Parry, The Ttvo Voi-
ces of Virgil’s Aeneid, in «Arion», 2,1967, spec. p. 78. Ora pare che anche qual-
che tessitore di ragnatele semiotiche sia approdato alla stessa conclusione: con
Tincapacità di elaborare concetti nuovi si unisce la tenace disonestà di riciclare
concetti diffusi e largamente condivisi aggiungendovi un po’ di vernice ter-
minologica, anch’essa, ormai, vecchia.
30
La Penna, Virgilio cit., pp. LXXX ss., spec. LXXXEV.
31
Rimando al mio saggio Tommaso Fiore interprete di Virgilio, risalente al
1978, ora in Concetto Marchesi. La critica letteraria come scoperta dell’uomo,
Firenze 1980, pp. 105-131.
32
La metafora appare nel titolo di un saggio di un latinista americano: J.H.
Bishop, The Cost of Power. Studies in thè Aeneid of Vir gii, Armidale, Univ. of
NewEngland, 1998, spec. p. 338.

XXII.Il confronto fra là parte odissiaca e la parte iliadica


1
Rimando alla mia nota Servio e la crùyKQiOig fra l’Iliade e l’Odissea cit.,
pp. 147-150; un supplemento a questa nota è in «Maia», n.s. 53, 2001, p. 643.
Sullo stile comico nel IV delYEneide secondo Servio una valida trattazione in
W.S. Anderson, Servius and thè «comic style» in Aeneis 4, in «Arethusa», 14,
1981, pp. 115-125.
2
Cfr, La Penna, Amata e Didone cit., pp. 309-319, e la voce Amata, da me
redatta, in EV cit.
3
Una nuova e persuasiva interpretazione di questo episodio in un belTar-
ticolo di L. Bocciolini Palagi, Amata e Viniziazione dionisiaca, in «Maia», n.s.
53, 2001, pp. 565-581.
4
La Penna, Amata e Bidone cit., p. 316; Id., Amata cit., pp. 127 s., e la bi-
bliografia ivi segnalata.
3
Credo che si parta da R.S. Conway, The Architecture of thè Epicy in «Har-
vard Lectures on thè Vergilian Age», Cambridge 1928; largo consenso di G.E.
Duckworth, The Architecture of thè Aeneid, in «Amer. Journ. of Philol.», 75,
1954, pp. 1-15.
6
Cfr., per es., G.E. Duckworth, The Aeneid as a Trilogy, in «Trans, and Proc.
of thè Amer. Philol. Ass.», 88, 1997, pp. 17-30; Id., Tripartite Structure in thè
532 Note

Aeneid, «Vergilius», 7, 1961, pp. 2-11.


7
Proposta da Conway, The architecture cit., accolta da Duckworth, The Ar-
chitecture cit., e da altri. Una rapida, ma chiara, rassegna dei vari tentativi di
raggruppamenti e articolazioni dei libri delYEneide si trova in Lesueur, L’Énéi-
de de Virgile cit., pp. 22-40. Il tentativo ampiamente sviluppato dell’autore nel-
l’opera è fra i meno persuasivi. Egli raggruppa i dodici libri in quattro teme; ma è
assurdo staccare i due libri di Didone, il I e il IV; molto difficile anche non
comprendere il libro IX fra i quattro libri di guerra (DC-xn). Il ritmo ter nario
dell’insieme troverebbe corrispondenza nel ritmo ternario di molti episodi; ma le
terne sono formate riunendo fra loro segmenti narrativi ritagliati per
lo più arbitrariamente. Meno artificialmente è fissato il ritmo ternario a livello
della concreta espressione e della sintassi; ma i casi di tribola, con o senza con-
giunzione, sono frequenti nell’oratoria latina, nella storiografia, nella poesia, co-
sicché non possono costituire una caratteristica déYEneide. La struttura di cia-
scuna terna, a livello di episodi e di stile, sarebbe AA’B, cioè i due primi kola
sarebbero più affini o più connessi tra loro, mentre il terzo avrebbe carattere più
marcato e funzione spesso decisiva o conclusiva; il terzo kólon avrebbe ampiezza
pressappoco equivalente alla somma dei primi due. Un orientamento dell’opera
degno di attenzione è che il poema non va guardato tanto come un’architettura,
ma seguita nel suo dinamismo, come un’opera musicale.
8
Mi riferisco specialmente a Duckworth, Mathematical Symmetì'y in Vergili
Aeneid, in «Trans, and Proc. of thè Amer Philol. Ass.», 91, 1960, pp. 183220; Id.,
Structural Patterns and Proportions in Vergili Aeneid. A Study in Mathematical
Composition, Ann Arbor 1962.
9
Fra le molte proposte sono degne di attenzione, per es., quelle di O.A.W.
Dilke, Do Line Totals in thè Aeneid Show a Preoccupation with Significant Num-
hers?, in «Class. Quart.», n.s. 17,1967, pp. 322-326: per esempio, nel discorso di
Iride (nelle sembianze di Beroe) alle donne troiane i sette anni di viaggi per mare
vengono evocati in sette versi {Aen. V, 623-629); la prima descrizione dello scu-
do fabbricato da Vulcano per Enea, formato da sette strati, è svolta in sette versi
(VEH, 447-453). Comunque neppure in casi come questi sono del tutto persuaso.

XXIII. La coerenza interna dei singoli libri


1
Qui amplio di molto la brevissima trattazione che chiedi in Virgilio cit., pp.
Lin-LV. Analisi dei singoli libri si troveranno nei grandi commenti di tutta
l’Eneide (Forbiger, Conington-Nettleship), nei commenti separati a ciascun libro
(di cui citerò alcuni), in Lecturae Vergilianae cit., Ut; sull’architettura dei singoli
libri molto ho ricavato da K. Quinn, VirgiVs Aeneid. A Criticai De- scriptiony
London 1968.
2
Commenti separati al I libro: Armando Salvatore, Napoli 1947; R.G. Au-
stin, Oxford 1971; di carattere scolastico M. Martina, Firenze 1987.
3
Sul libro II abbiamo ampi e solidi commenti in Italia: V. Ussani jr., 1952
(19612); Feliciano Speranza, Napoli 1964; più succinto, ma di egregie qualità,
R.G. Austin, Oxford 1964,
4
Questo problema è stato affrontato adeguatamente da L.E. Harrison, The
Strutture of thè Aeneid, in ANRW cit., pp. 359-395. Anche se i legami fissati fra
libro e libro non sono sempre persuasivi, è giusto l’orientamento generale.
5
Su questo difficile problema mi discosto poco dall’opinione che espressi
oltre venti anni fa: cfr. Deifoho ed Enea in «Riv. di cultura class, e mediev.», 20,
Note alla Parte terza 533

1978, pp. 994-997; sulla tradizione risalente a Lesche di Lesbo pp. 990 s. Tra gli
argomenti più fragili a favore dell’autenticità sono quelli, la cui novità è solo
apparente, ricavati dalla tessitura di ragnatele semiotiche. Un riesame accurato e
minuto, che conclude per l’autenticità, in Th. Berres, Vergil und die Helenszene
mit einem Exkurs zu den Halbeversen, Heidelberg 1992.
6
II IH libro è ben commentato da R.D. Williams (Oxford 1962); commento
non amplissimo, ma ben ponderato, di P.V. Cova (Milano 1994).
7
Per la lettura del libro IV sono sempre utili vecchi commenti: C. Busca-
roli, Milano 1932; quello amplissimo e dottissimo di A.S. Pease, Cambridge
(Mass.) 1935 (rist. anast. Darmstadt 1967); più succinto, ma notevole, quello di
R.G. Austin, Oxford 1955.
8
Sul libro V bel commento di Giusto Monaco (Firenze 1953,1958 2); il mi-
gliore è quello di R.D. Williams (Oxford 1960).
9
Sulla rivolta delle donne, in cui si rinvengono motivi e scene delle rivolte
militari, rimando al mio studio La stanchezza del lungo viaggio cit., pp. 52-69.
10
Sul VI libro resta sempre importantissimo il commento del Norden (Lipsia
1903; 19263; rist. anast. Stuttgart 1957); molto più succinto, ma, come al solito,
egregio, quello di R.G. Austin (Oxford 1977).
11
Cfr. il mio studio Deifobo ed Enea cit., pp. 993 s., in polemica con un’in-
terpretazione di Otis. La successione Palinuro-Didone-Deifobo ricalca Omero.
12
Sul libro VH commento di C J. Fordyce, Oxford 1977 (unito col com-
mento al libro Vili); ampio, minuto e di alto livello il recente commento di N.
Horsfall, già cit. Commento scolastico notevole di G. Garuti (Firenze 1961).
13
A questa spiegazione data da E. Fraenkel mi attenni in Virgilio cit., p. LIV;
cfr. anche L'arrivo di Enea alla foce del Tevere cit., pp. 103 s., e la bibliografìa
ivi citata; ora si veda anche il commento di N. Horsfall.
14
Rimando di nuovo al mio studio L’arrivo di Enea alla foce del Tevere cit.
15
Per la bibliografia più nota rimando all’ampio commento di R.A.B. My-
nors alle Georgiche, Oxford 1990, pp. 2 s.
16
Commento al libro Vili di C.J. Fordyce, Oxford 1977 (unito col libro VH);
di P.T. Eden, Leiden 1975 («Mnemosyne», Suppl. 15). Un commento limitato
agli aspetti antiquari, storici e ideologici in G. Binder, Aeneas und Augustus.
Interpretationen zum 8. Buch der «Aeneis», Meisenheim 1971.
17
Sul IX libro commento di Ph. Hardie, Cambridge 1994, non molto ampio,
ma impegnativo e accurato; ampio e accurato il commento recente di J. Dingel,
Heidelberg 1997,
18
Sul X libro commento impegnativo, ma non amplissimo, di St. J. Harri-
son, Oxford 1991; giuste riserve di A. Perutelli, in «Gnomon», 67, 1995, pp. 311-
315.
19
Sul libro XI commento di K.W. Gransden, Cambridge 1991, ora si ag-
giunge il ricchissimo commento di N. Horsfall, Leiden-Boston 2003.
20
Sul libro XII commento di A. Traina, Torino 1997, destinato alla scuola,
ma utile ad ogni livello, corredato di amplissima bibliografia.

XXIV. Le corrispondenze interne e l'integrazione lirica


1
Cfr. La Penna, L'arrivo di Enea alla foce del Tevere cit., pp. 108-110; 115.
2
Galinsky, The Hercules-Cacus Episode cit., pp. 42 ss.
3
Ivi, pp. 45 s.; 47 s.
4
Lyne, Further Voices cit., p. 135.
534 Note
3
Ivi, pp. 196 s.
6
Ivi, p. 129.
7
Hardie, Virgil’s Aeneid cit., p. 276.
8
Don Fowler, Opening thè Gates ofWar. Aeneid 1. 601-640 in AA.W.,
Augustan Epic and Politicai Context cit., p. 166.
9
Ivi, p. 162.
10
Ivi, p. 165.
11
W.S. Anderson, The Art of thè Aeneid, Duckworth, London 1969 (19931),
pp. 76 s.
12
Lyne, Further Voices cit., pp. 10 ss.
13
Ivi, pp. 47 s.
14
Ivi, p. 124.
15
Ivi, p. 133.
16
Ivi, pp. 235 s. Una salutare reazione a questo metodo del Lyne è venuta da
A. Traina, Le troppe voci di Virgilio, in «Riv. di fìlol. e di istruzione class.», 118,
1990, pp. 490-499. È giusto, però, aggiungere che non sempre il Traina si è
tenuto a sufficiente distanza dall’ermeneutica di questo tipo. Da qualche parte
(ma non ricordo dove) ho letto che in Aen. I, 457: bella... iam fama totum volgàta
per orbem (si tratta della guerra di Troia divenuta famosa in tutto il mondo),
Yorhis non indicherebbe solo la terra, ma anche il xi»dog epico: infatti orbis è la
traduzione di m»dog. Dunque la diffusione della fama della guerra di Troia
sarebbe dovuta agli screditati poeti del ciclo: una sciarada la cui in gegnosità è
pari solo alla sua futilità. Questa sciarada mi suggerisce un’equazione:
l’ermeneutica virgiliana della seconda metà del secolo XX sta all’ermeneutica
della prima metà come i poemi ciclici ai poemi omerici.
17
Cfr. Thomas, The Isolation ofTurnus cit., p. 288.
18
Rimando di nuovo al mio studio, L’arrivo di Enea alla foce del Tevere cit.
19
Ivi, p. 112 nota 15.
20
Egil Kraggerud, Aeneisstudien cit., pp. 56 ss.
21
Ivi, p. 61.
22
Ivi, p. 62
23
Ivi, p. 66.
24
Ivi, p. 68.
25
M.C J. Putnam, Daedalus, Virgil and thè End ofArt, in «Amer. Journ. of
Philol.», 108, 1987, p. 188. Questo studio è stato poi ripubblicato in Virgili
Aeneid cit., pp. 73-99.
26
Ivi, p. 184; 196; 197.
27
Cfr. F. Zevi, Gli Eubei a Clima. Dedalo e VEneide, in «Riv. di filol. e di
istruzione class.», 123, 1995, pp. 185 ss., spec. 191. Questo studio è molto utile
per la dossografìa; inoltre vi è dibattuta con grande competenza la questione
della presenza del mito di Dedalo in Italia.
28
Cfr. Schenk, Die Gestalt des Turnus cit., p. 105, seguito da Glei, Der
Vater derDinge cit., p. 350; trattazione impegnativa, con buona dossografia, di
S .J. Harrison, The Sivord-belt ofPalias: Moral Symbolism and Politicai
Ideology. Aeneid 10.495-505, in AA.W., Augustan Epic and Politicai Context
cit., pp. 223-242.
29
Rimando alla dossografia di Harrison, ivi, pp. 233 ss.
30
Cfr. Kraggerud, Aeneisstudien cit., pp. 38-40. Con Pòschl, invece, pare
d’accordo Ph. Hardie, che fa rientrare l’Adante in una geografia stoica e ad
1 Oltre il citato Williams, cfr. Th. Berres, Die Entstehung der Aeneis, Wie-
sbaden 1982 («Hermes», Einzelschr., Heft 45), pp. 167 s.
Note alla Parte terza 535

Adante
12
assimila
Sulle Enea che
similitudini conprende sullecfr.
anacoluto spalle lo scudo:
Berres, cfr. Virgil’s
Die Entstehung des Aeneid
Aeneis cit.,
pp. 282;
91 ss.373. ^ ^
13
Discussione esauriente ivi, pp. 56-72; benché Berres sostenga una data-
zione alta per il libro Ut, ammette che il discorso dei Penati sia fra le parti tarde;
ma nello stesso tempo mantiene l’anteriorità del passo del libro HI rispetto a
quello del I: uno zig-zag molto complicato (cfr. spec. p. 58; 68). Nuova tratta -
zione del problema in Günther, Überlegungen zur Entstehung cit., p. 35.
14
A questo proposito conclusióni persuasive si possono leggere nelle ultime
pagine dell’opuscolo del Günther, ivi.

XXVI. Lo stile epico dell*«Eneide»


1
Utile, anzi indispensabile, è l’opera accurata, e non priva di finezza, di W.
Moskalew, formular Language and Poetic Design in thè Aeneid, Leiden 1967
(«Mnemosyne», Suppl. 73). Trovo strana la mancanza di una voce apposita nel-
YEV.
2
Ivi, p. 94.
3
Ivi, pp. 63 s.
4
Ivi, pp. 68 s.
3
Ivi, pp. 56 s. •
6
Cfr. anche V, 543, ripetuto in VLI, 690; Ut, 250 ripetuto in X, 104 (e con
variazione in V, 304); TV, 177 ripetuto in X, 766; VII, 641 ripetuto in X,
163. Su questi casi ed altri affini ivi, pp. 93 ss.; 107.
7
L’interpretazione ivi, pp. 145 s.
8
Ivi, pp. 152 ss.
9
Mi riferisco all’interpretazione di Moskalew, ivi, p. 176.
10
Ivi, p. 127.
11
Buona trattazione ivi, pp. 80-87. Neppure sugli epiteti c’è una voce spe-
cifica nelT-EV.
12
Cfr. la tabella statistica data da Moskalew, p. 85.
13
Per la raccolta, la digestio, l’illustrazione del materiale sempre molto utile
A. Cordier, Études sur le vocabulaire épique dans V«Énéide», Les Belles Let-
tres, Paris 1939; pp. 215-310; un buon quadro aggiornato sui composti nominali
nella voce relativa déYEV, I, Roma 1984, pp. 860-866, dovuta ad Enza Colonna.
14
Anche per gli arcaismi la trattazione più ricca e più utile resta quella di
Cordier, ivi, pp. 3-87, anche se questa parte ed altre dell’opera, specialmente
quella sul vocabolario «tecnico», avrebbero bisogno di aggiornamento.
15
Sulla convinzione che la lingua di Virgilio non era riservata ai letterati
insistè giustamente il Cordier, ivi, spec. pp. 314 ss. Il successo delYEneide, che
fu immediato, certamente fu favorito da questa caratteristica della sua lingua.
16
Secondo Cordier, ivi, p. 320, si trovano ndl'Enetde più di 200 parole
poetiche non attestate in poeti epici e tragici precedenti; alcune fini ricerche sono
state condotte a questo proposito da R.O.A.M. Lyne, Words and Poet.
Characteristic Techniques of Style in VirgiVs Aeneid, Oxford 1989, pp. 43 ss. (su
uxorius; mutabilis, edax)\ 117 ss. (su confertus, confligere, congemere, aedi-
ficare ecc.). Questa seconda opera virgiliana di Lyne, a parte le incredibili elu-
cubrazioni su Aen. IV, 474 concepii furias, secondo cui Didone «ha concepito
Furie nel suo grembo» e frutto del concepimento sarà il vendicatore Annibaie
(pp. 25 ss.), è più attendibile dell’altra sulle «further voices».
536 Note
17
Caso da me studiato in «Maia», n.s. 51, 1999, pp. 18-21.
18
Questo aspetto dél'Eneide è ampiamente e minutamente illustrato-nel
volume di Hardie, VergiVs Aeneid cit.

XXVII. I discorsi
1
Sui discorsi nél'Eneide l’opera più impegnativa e più utile resta quella
di
G. Highet, The Speeches in VergiVs Aeneid, Princeton 1972; dello stesso Hi-
ghet cfr. Speech and Narrative in thè Aeneid, in «Harvard St. in Class. Philol.»,
78, 1974, pp. 188-229. Prima di Highet e dopo Heinze sarà opportuno segnalare
K. Billmayer, Rhetorische Studien zu den Reden in Vergils Aeneis, Würzburg
1932; M.L. Clarke, Rhetorical Influences in the Aeneid, in «Greece and Rome»,
18, 1949, pp. 14-27; J.R. Gjerlow, Bemerkungen zu einigen Einleitungen zur
direkten Rede in Vergib Aeneis, in «Symbolae Osloenses», 32, 1956, pp. 44-68;
dopo Highet si può segnalare S. Lundström, Acht Reden in der Aeneis, Uppsala
1977. Un’informazione essenziale, molto accurata, si trova in A. Setaioli, voce
Discorso diretto in EV, II, Roma 1985, pp. 102-105.
2
Highet, The Speeches in VergiVs Aeneid cit., pp. 310 s., enumera 25 casi di
discorsi con funzione narrativa, esplicativa o descrittiva, ma io mi riferisco solo a
pochi di quei casi, cioè a quelli che non hanno, o hanno poca, funzione
drammatica.
3
Ivi, pp. 311-313. Scelgo solo pochi casi, cioè i meno «drammatizzati».
4
Per dati più precisi rimando alla voce Ilioneo in EV, II, Roma 1985, pp.
913 s., redatta da G. Milanese.
5
Per indicazioni più precise rimando alla mia Lettura del nono libro del-
l’Eneide cit., p. 332.
6
Cfr. Highet, The Speeches in Vergil’s Aeneid cit., spec. p. 278; 282 s.
Vorrei segnalare anche i notevoli contributi che Highet ha dati sui rapporti con
i modelli (pp. 185-276), contributi forse non abbastanza noti e utilizzati.
7
Ivi, pp. 49 s.; 56.
8
Oltre alcuni accenni di Highet sarà utile leggere Ph. Hardie, Fame and
Defamation in the Aeneid: the Council of Latins Aeneid 11.225-467 in
AA.W., Augustan Epic and Political Context cit., pp. 243-270, spec. 249.

XXVTEL Le similitudini
1
Una buona informazione, anche dossografica, è data da R. Rieks, Die
Gleichnisse Vergils in AA.W., ANRW cit., pp. 1011-1110. Tra gli studi
precedenti segnalo M. von Duhn, Die Gleichnisse in den ersten sechs Büchern
von Vergib Ae- neis, Diss. Hamburg 1952; D. West, Multiple-correspondence
Similes in the Aeneid, in «Journ. of Roman St.», 59, 1969, pp. 40-49; R.A.
Hornsby, Patterns of Action in the Aeneid. An Interpretation ofVergil’s Epic
Similes, Iowa City 1970; W. Briggs, Narrative and Simile from the Georgics
to the Aeneid, Leiden 1980.
2
Per la classificazione tematica delle similitudini è particolarmente utile
Hornsby, Patterns of Action in the Aeneid cit.
Note alla Parte terza 537
3
Ivi, p. 73: l’autore suppone che Tarcone venga confrontato con l’aquila
perché discendente di Giove. Non ne sono sicuro.
4
Non credo che il riferimento al lupo nella similitudine riferita ai Troiani
e in quella riferita a Turno basti ad associare l’eroe rutulo con i compagni di
Enea; ma secondo Hornsby, ivi, p. 65, la prima delle due similitudini su Turno
richiama quella del II libro per prefigurare la distruzione di Turno. Inter-
pretazione sottile ed ingegnosa!
5
La presenza, relativamente ampia, di serpenti nel libro II ha dato luogo a
costruzioni raffinate: mi riferisco in particolare ad un noto studio di B.M.W.
Knox, The Serpent and the Piarne, in «American Journ. of Philol.», 71, 1959,
pp. 379-400, che gioca con grande agilità e facilità su associazioni dimostrate
in base al comune uso di certe immagini e metafore. Indico qualche esempio:
in II, 2J3 (soporfessos complectitur artus) il sonno è assimilato al serpente
perché complecti è usato (II, 214) anche per i serpenti che avvinghiano i due
figli di Laocoonte (pp. 387 s.); la fiamma è assimilata al serpente perché
stiperare («sovrastare») è usato sia per i serpenti che, avvinghiato Laocoonte,
sovrastano con la testa e il collo (II, 219) sia per le fiamme che s’innalzano dal
palazzo di Deifobo (II, 310: Volcano superante domus) e dal palazzo di Enea
(II, 759) (p. 390); l’uso di latere o latebrae unisce in una sola immagine il
serpente che ferisce Euridice, i Greci nascosti nel ventre del cavallo, Sinone
nascosto nella palude, Elena nascosta nel tempio di Vesta (pp. 393; 395 s.);
lambere unisce la fiamma che scorre sul capo di Iulo e i serpenti (pp. 396 s.);
Pirro è assimilato al serpente anche quando afferra Priamo per i capelli
(l’immagine del serpente è in implicuit... comam) (p. 393); il dolus dei Troiani
travestiti li assimila a serpenti (p. 392); il serpente dalla pelle rinnovata, a cui
viene paragonato Pirro (e perché non lo stesso Pirro?), diventa simbolo della
resurrezione
538 Note
Note alla Parte terza 539
540 Note

XXXI. LJespressionismo
dell*«Eneide»
541 Note
5
l allitterazione a vocale interposta variabile costituisce certamente una forma
a sé, ma dubito che le funzioni siano specifiche, cioè diverse da quelle dell’allit-
terazione in generale. Comunque le analisi di Ceccarelli sono attente e ben degne
di attenzione.
5
Avverto che userò il termine allitterazione nell’accezione più ristretta
(senza per questo considerare illegittime altre accezioni), cioè come ripetizione
del suono o di suoni iniziali, senza considerare come iniziale il suono che nei
composti viene dopo il prefisso; l’accezione, però, è larga sotto un altro aspetto:
vengono presi in considerazione anche i casi in cui le parole allitte- ranti non
sono nella stessa unità sintattica, purché la distanza non superi tre
o quattro parole.
6
All’allitterazione dell’angoscia ho accennato più volte nei miei studi vir-
giliani: più chiaramente nella Lettura del libro nono dell’Eneide cit., pp. 323325,
dove sono indicate anche le ascendenze lucreziane ed enniane.
7
Sull’allitterazione mediante v giuste e fini osservazioni in Ceccarelli, L’al-
litterazione cit., pp. 110 ss. (a proposito àìAenNl, 833); p. 148 (a proposito di VI,
356); ma l’effetto è lo stesso in parecchi altri casi, anche senza la vocale
interposta variabile.

XXXV. Poche note sull'espressività metrica


1
Dopo trattazioni molto notevoli, in parte ancora utili, dell’Ottocento la
metrica di Virgilio è stata studiata minutamente, e talvolta con grande finezza,
nell’ultimo secolo. Una miniera, anche per la metrica, è il commento di Norden
al VI libro delYEneide; segnalo, inoltre, solo alcune delle opere più impegnative:
G.E. Duckworth, Vergil and Classical Hexameter Poetry. A Study in Metrical
Variety, Ann Arbor 1969; W.F.J. Knight, Virgilio romano, trad. it. Milano 1949,
pp. 264-405; Id., Accentuai Symmetry in Vergil, Oxford 1939 (19512); F.W.
Shipley, VergiVs Verse Technique, Washington 1924; J. Soubi- ran, Vélision
dans lapoésie latine, Paris 1966. Un repertorio elaborato con molta acribia e ben
ordinato si trova nei volumi di Metriscbe Analysen zu Vergila riguardanti
ciascuno un libro delle opere virgiliane, che W. Ott va pubblicando a Tubinga
dal 1973 in poi; un’informazione chiara e adeguata in voci del- YEV dovute a F.
Cupaiuolo, che si fonda anche su ricerche da lui pubblicate: Eneide. La metrica,
H, Roma 1985, pp. 278-282; Esametro, II, Roma 1985, pp. 375-379; a queste
voci rimando anche per la bibliografia.
2
Sull’enjambement in Virgilio una buona informazione rapida nella voce
relativa dell’EV, II, Roma 1985, pp. 310-312, redatta da M. Squillante Saccone,
a cui rimando anche per la bibliografia.
3
Cfr., per es., II, 325; HI, 62; 99; 635 s.; V, 155; VI, 64; VHI, 241.
4
Cfr, per es., II, 307; V, 443; VI, 599; 603; IX, 617; XII, 365.
Appendice LE OPERE E GLI ANNI
1
La ciotta e piacevole opera di B. Nardi, Mantuanitas Vergiliana, Roma
1963, è ricca anche di bibliografia; per la discussione successiva cfr. K. Welles-
ley, Virgils’s Home, in «Wiener St.», 79,1966, pp. 330-350; P. Veyne, L histoire
agraire et la biograpbie de Virgile dans les Bucoliques I et IX, in «Rev. de phi-
lol.», 54, 1980, pp. 233-257; la voce Andes in Enciclopedia virgiliana, I, Roma
1984,pp. 164-166, redatta da P. Tozzi (molto esperto in topografìa padana an-
tica); D. Nardone, Vicus Andicus (Essay of Experimental Philology), in «Hel-
Note all1 Appendice 542
mantica», 45, 1994, pp. 251-268.
2
Sull’epicureismo giovanile di Virgilio, cfr. Parte prima, pp. 8 s.; Parte terza,
pp. 258 s.
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

EDIZIONI CRITICHE

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Note all1 Appendice 543
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INDICI
Indice dei nomi di persona e divinità 551

INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DIVINITÀ

Absirto, 438. Alete, 304, 306, 351.


Acate, 237, 277, 289, 301, Aletto, 91, 140, 146-147, 170,
342, 349, 390, 392, 446, 228, 256,284,293,309,322-
486, 534. 323, 346
Acca, 359. 347,369,409,437,439,441,462.
Accio, 119, 167-168, 170, 198, Alfeno Varo, Publio, 7, 58,
215217, 220, 472, 526. 117, 502.
Aceste, 247, 339-340, 493. Alfesibeo, 29.
Achemenide, Alfieri, Vittorio, 453.
129,167,281,282,336, 365, Aloadi, 343.
387, 399. Amarillide, 18, 44.
Achille, 118, 125, 142, 145, Amata, 131, 148-149, 184,
148-149, 161, 184, 203 , 229, 277, 302-303,
187,226, 228,286,292, 306-307, 309, 315, 317,
295-296, 313,331, 334, 321-322,346, 360, 362,
420,476, 529. 408, 419-421, 424-426,
Aconzio, 512. 428, 523, 540.
Adrasto, 168. Amazzoni, 252.
. Afrodite, vedi Venere. Amfiarao, 168.
Agamennone, 147, 158, 357. Amfio, 154.
Agostino, Aurelio, vi, 8, 319. Amore, vedi Cupido.
Agrio, 123. Amulio, 132.
Agrippa, 117, 277, 301, 445. Anchemolo, 236.
Aiace di Oileo, 163, 215, 478, Anchise, 122, 124, 126, 129,
479. 132, 139-140, 144, 147-
Aiace Telamonio, 148, 163, 198-
145,147,154,166167, 209, 199,223,230,238,245,262,2
369. 70271, 275-276, 291, 305,
Alba, 124. 332-333, 335-336, 339-
Alceo, 164. 340, 344-345, 349, 371-
Alcesti, 169-170. 372,376,378, 390, 395,
Alcimedonte, 16, 26, 29. 400
Alcimo, 124. 401,405,410,422,427,459,4
Alcinoo, 141,144,148,153,160- 63, 493.
161. Anco Marzio, 134.
Alcmeone, 168. Androgeo, 160, 371, 388, 410,
Alessandro Magno, 272, 348. 488.
Alessi, 14, 16, 21, 28, 32. Andromaca, VI, 128, 171, 296,
552 Indice dei nomi di persona e divinità

300, 334-335, 448. 426.


Anio, 128, 333. Aristarco di Samotracia, 154-
Anna, 166, 259, 323, 337, 407, 155, 159-161.
421, 445. Aristeo, 93-98, 101, 111, 516.
Annibaie, 166, 542. Aristotele, 152, 278, 318, 326,
Antenore, 124, 149. 384, 391-392.
Anticlea, 147. Armonia, 168.
Antigone, 337. Arpie, 128, 175, 230, 235, 237,
Antiloco, 160, 162, 306. 333334, 336, 376, 470.
Antioco di Ascalona, 262, 530. Arrunte,
Antioco HI, 519. 160,256,308,359,413,415.
Antonio, Marco, 44, 70, 158, Artemide, vedi Diana.
193, Ascanio, 122, 131-132, 148,
267, 273, 277, 279-280, 215-216,
282, 367, 503. 230, 238, 247, 271, 288,
Apollo, 35, 37, 128, 139, 166- 290-291, 301, 304, 306,
168, 198, 226-227, 235, 322, 328,334-335,
238, 246-247, 249,274,290- 340, 351-354, 390, 396,
291,304,313,333334, 341, 403, 407,
353, 366, 368-369, 371, 412,418,428,438,448,478,4
373, 394-395, 418,461, 478, 82, 487, 519.
493. Asclepio, 246.
Apollonio Rodio, 10, 36, 65, Asdrubale, 275.
116, Asinio Pollione, 27,30-
128,130,141,150,153,173,1 31,43,45,51, 58, 65,
75181, 183,193, 198, 502,514.
202,234-236, Assaraco, 264.
238,247,285,288,344,370,3 Astianatte, 335, 448.
77, 384-385, 390-391, 399, Atena, vedi Minerva.
420, 443, 448-450, 454, Atia, 233.
492, 520, 524. Adante, 200, 348, 373, 533,
Appiano, 533. 540.
Apuleio, 105. Atreo, 472.
Arato, 74, 100, 106, 193. Attico, 133.
Archiloco, 10, 164. Attilio Regolo, 276.
Aretino di Mileto, 133, 162, Atys, 233.
522. Augusto, VI, 37,42-44,51,53,
Ares, vedi Marte. 65, 69, 70, 72, 94, 98, 117-
Argo (ignoto), 234. 121, 135,138,
Argo (mostro), 370. 140,150,226,228,231,233,2
Argonauti, 65, 176-177. 61,
Arianna, 10, 36, 183, 186, 371, 266- 267, 270-280,
Indice dei nomi di persona e divinità 553

286, 290-292, Camilla, 131, 145-146, 148-


299,301,313,334,347,367,3 149, 160, 162-163, 172,
73, 500, 501-505,514, 531. 190, 236, 239-240, 252,
Aurelio (nemico di Catullo), 255-256,268,297, 302,306,
188. Aurora, 163, 386. 308-309, 317, 324-325,
Aventino, 239. 347, 358- 359, 386-387,
400, 413, 418, 428, 441,
Baccanti, 165, 184, 419. 444, 521, 524, 527.
Bacchilide, 522. Capys, 124, 234.
Bacco, 44, 170, 197, 228, 270. Carmenta, 234.
Barce, 166. Caronte, 157, 342-343, 441,
Bauci, 175. 446.
Baudelaire, Charles, 300, 422. Cassandra, V, 165-166, 253,
Bavio, 27. 330-331, 333, 409.
Berenice (figlia di Magas), 237, Cassio Hemina, 134.
443. Beroe, 490, 537. Catilina, 116, 241,273,531.
Bione di Smirne, 17, 509, 532. Catone il Censore, 126,130,239-
Bitia, 209, 217, 353,407,418. 240,
Borea, 409. 276, 291,519.
Boreadi, 175. Catone Uticense, 241, 273, 291,
Bruto, 274-275. 531, 534.
Bute, 238, 291, 306. Catullo, 10,35-
36,39,49,64,96,116,
Caco, VII, 174-175, 228-229, 164, 173, 182-192, 195-196,
250, 198,
267- 268, 270, 307- 208,218,221, 232,
234,237, 411, 420, 426,
308, 317, 349, 366-367,
430, 442-444, 448, 450,
400, 408, 439, 453, 530. 473, 492, 494,500-
Caieta, 344. 501,512,516,
Calcante, 156, 163, 480. 525.
Càlibe, 441. Ceculo, 240.
Calipso, 144, 149, 165. Celeno, 237, 333-335, 376, 390.
Callia, 519. Centauri, 118, 193, 409.
Callimaco, 23 , 39, 52, 60, 65, Cerbero, 343-344, 440.
105, Cerere, 192, 393.
165, 173-176,180, 191, Chaon, 234.
202, 234, 237-238, 399, Chateubriand, Frangois-René
442, 450, 473,492, 512, de, VI.
517, 524. Chimera, 254, 370.
Calliope, 352. Cibele, 125, 128, 190, 226, 290,
Camene, 9. 308, 350, 354, 359, 366,
554 Indice dei nomi di persona e divinità

369, 390. Comifìcio, 193.


Cicerone, 8, 74, 116, 198, 211, Creonte, 318.
241, Creusa, 122, 139, 332, 379,
261,264,295,304,312,404,5 435, 463.
01, 534, 544. Crisotemi, 337.
Ciclopi, 107, 159,336, 406, 473, Cromi, 22.
486. Crono, vedi Saturno.
Cidippe, 524. Cupido, 176-177, 288, 322,
Cimodocea, 159, 290, 354, 366, 328, 377, 445.
390, 490. Cureti, 128.
Cimotoe, 397. Curiazi, 119.
Cinna Elvio, 182, 192, 501.
Circe, 123, 146, 149, 155, 159, Dafni, 19, 28-29, 32, 37, 44, 53,
345. 6061, 64, 224, 265.
Cirene (ninfa), 96. Dameta, 17, 22, 28-30.
Claudio Marcello, Marco, 119. Damone, 13, 18, 29, 445.
Claudio Nerone, Gaio, 275. Danaidi, 312, 372-373.
Clelia, 273. Dante Alighieri, v-vi, 218, 499.
Cleopatra, 158, 238, 267, 367, Dardano, 128, 140, 264, 282,
453, 333,
503. 345- 346, 348, 401,
Cllmene, 97. 532.
Clitennestra, 168. Darete, 412, 446, 467.
Cloanto, 233, 388, 449. Dauno, 254.
Cloreo, 290, 359. Decii, 274-275.
Columella, 517. Dedalo, 184, 341, 371-372, 396,
Concordia, 275. 540.
Corebo, 253. Deianira, 166, 169.
Coridone, 14, 16, 18, 20-21, 24, Deifobo, 213,237,281,331,343-
2728, 32, 34, 48, 57, 65, 344, 390, 432, 438, 538.
511. Demodoco, 148, 153, 177.
Cornelio Cosso, Aulo, 276. Demofoonte, 173.
Cornelio Gallo, vm, 13,18- Dercenno, 44, 186.
19,32,34, 35, 37-39, 43, 51, Diana, 27, 172-173, 177, 211,
53, 55, 59-60, 65-66, 94, 308309, 313,351, 358-359,
97-98, 111, 182, 192, 502, 366, 368, 398, 400, 414,
504,511-512,514. 418.
Cornelio Scipione Africano, Didone, VI, 18, 34, 36, 129-130,
Publio, 136, 142,144,147,153, 158-
206, 235, 276-277, 400. 160, 165-
Cornelio Scipione Emiliano, 166, 169, 174, 176-179,
Publio, 235, 276, 295. 182-184, 191-192, 197,
Indice dei nomi di persona e divinità 555

202-203, 220, 230231, 236- 519.


237, 244, 246-247, 249, Egitto (re), 372.
259, 267, 268, 277-279, Egle, 23.
288, 290, 296, 302, 307, Egnazio, 193.
317-319, 321-328, 337-338, Elena, 148-149, 158, 163, 330-
343, 366, 368-369, 371- 331, 379.
372,382,388, 395,398-401, Eleno, VI, 128-129, 146, 234,
404405, 407, 411-414, 416, 236, 300, 334-336, 394-395,
418-421, 427.
423,426,428,431,433,435,4 Elettra, 337.
38, 441, 443, 445-446, 453- Elettra (moglie di Dardano),
455, 462, 466-469, 475, 348.
477,478, 481, 485, 488-489, Elio Stilone, 235.
491,535,538,540,542, 545. Ellanico, 519.
Diocle di Pepareto, 126. Elpenore, 145-146, 149.
Diomede, 145, 154, 156-158, Emilio Paolo, Lucio, 119, 276,
161, 163, 281-282, 314, 295.
348, 357, 402, Empedocle, 218.
409, 477, 488. Encelado, 165.
Dione di Prusa, 157. Enea, VI, 81, 98, 112, 115, 118,
Dionigi di Alicarnasso, 123, 121142, 144-150, 155-168,
127-130, 132-134, 282, 518. 171, 173
Dioniso, vedi Bacco. 179,183,185, 188,
Dioscuri, 228. 191,196-198, 203,208, 212-
Dirae, 229, 249, 293, 310, 478. 214,216,219, 225226, 228,
Discordia, 204, 209, 229. 230-231, 237-239, 241,
Dite, 169. 243-245, 247, 249-252,
Donato, 299,379,404,501,504- 254-255, 259-262, 268, 271,
505. 274, 276-283, 286-303 ,
Drance, 131, 148-149, 268, 314, 305-308, 310-313 , 315317,
357358, 402, 405, 477. 322, 325, 327-339, 341-351,
Drusi, 274. 354- 363, 366-377,
382, 388-390, 394-397,
Ecale, 175. 399-409, 412-413, 416428,
Ecate, 246, 249, 342. 431-432, 434, 438, 441,443,
Ecuba, 191-192, 419. 445-446, 451-452, 454, 457,
Edipo, 167. 459, 464-468, 472-473, 477,
Efesto, vedi Vulcano. 479, 481
Egeo, 187. 482, 484-486, 489-491, 494,
Egeone, 297,313,408,418. 501, 516,518-519,
Egesianatte di Alessandria 524,529,531,533, 536-537,
Troas, 540, 543-544.
556 Indice dei nomi di persona e divinità

Ennio, 36, 61, 71, 116, 119-120, Esperidi, 443.


126127,132,135- Eteocle, 296,315,318, 534.
137,141,194,196, 198-212, Ettore, 139, 142, 145, 148-149,
214, 217-218, 220, 224, 156, 158, 160-161, 163,
234,251,254,273,347,352,3 166,213,230,
84385,391,398-399,414, 269,281,295,300,308,313,3
441,443, 449, 454, 458, 15-
464, 473-474, 487, 491-492, 316,332,342,386,428,438,5
523, 526, 545-547. 22, 534.
Entello, 247, 339, 412, 466-467, Euforione, 38, 60, 133, 181.
481, 490-491. Eumeo, 142.
Eolo, 228, 250, 284, 322, 327, Eumolpo, 405.
470, Eurialo, 148, 155, 158-159,
474. 163, 171, 188-189, 271,
Epicuro, 44, 218, 258. 291, 301, 303-304,
Epidio, 501. 306,319, 323,351-
Epigoni, 119. 353,369,378, 389,396,
Er, 263. 404,411,418,420-421,
Era, vedi Giunone. 431,436, 438, 447.
Eracle, vedi Ercole. Euridice, 96, 543.
Eraclide Pontico, 519. Eurileonte, 519.
Erato, 141, 176, 321, 344-345. Euripide, 25, 34, 36, 127, 130,
Eratostene, 106. 152, 158, 165, 168-172,
Ercole, vn, 119, 123, 174-175, 177, 179, 288, 320, 423-
178179, 228-229, 239,242, 425, 449, 523,544.
250, 262, 267,270,282, 349, Eurisace, 167.
355,366-367, Euristeo, 485.
400, 427, 440, 485, 517, Euritione, 339.
532. Evandro, 131, 142, 174, 186,
Erifile, 168. 228, 234, 240, 244, 249,
Erinni, 165, 215, 229, 323, 527. 255, 270-271, 277, 281,
Eris, vedi Discordia. 299-300, 303, 305-306,
Ermione, 494. 308, 312, 316, 341, 348-
Ero, 89. 349,355, 388, 400-401,
Eros, vedi Cupido. 421-422, 446, 451,
Eschilo, 165-166, 168, 215, 486, 493-494, 532, 533.
229, 296, 315,
423,523,532-534,544. Fabio Massimo, Quinto, 199,
Esiodo, 34-35, 65, 74-75, 97, 276,
100, 104, 123, 163-164, 277, 400.
236,511. Fabio Pittore, 126, 132, 232.
Esione, 349. Fabrizio Luscino, Gaio, 276.
Indice dei nomi di persona e divinità 557

Fama, 229, 337, 352, 368, 436, 231, 249-250, 257-260,


446, 266-267, 270, 280, 283-
483. 286, 288-290, 292,
Fauno, 229, 245, 345, 362. 314,317, 322-323,326-
Febo, vedi Apollo. 328, 337338,340, 345,
Fichte, Johann Gottlieb, 76. 350,353-355,362363,365,
Filemone, 175. 368,370,386-387,389390,
Filippo II di Macedonia, 348. 394-395, 398, 400, 402,
Filita di Cos, 512. 405,
Fillide (personaggio bucolico), 417,427,432,450,455,479,
28. 483, 489, 532, 543.
Fillide (principessa tracia), 173. Giulia (moglie di Mario), 134.
Filodemo di Gadara, 8, 11, 532- Giulio Cesare, Gaio, 43-44, 53,
533. 64, 70-72,
Filomela, 35. 93,100,108,116,133-135,
Filone di Larissa, 530. 138, 226,238,241,272,275,
Filottete, 167, 236. 279, 297-299, 501-503,
Fineo, 175. 512-513, 519.
Fortuna, 340. Giulio Cesare, Lucio
Foscolo, Ugo, 104, 400, 489. (magistrato),
Francesca da Rimini, VI. 134.
Fulvia, 277. Giulio Cesare, Lucio (storico),
Furie, 241. 134.
Furio (nemico di Catullo), 188. Giulio Cesare, Sesto (console
Furio Anziate, 116, 525. nel 91 a.C.), 134.
Furio Bibaculo, 116, 194, 501, Giulio Cesare, Sesto (pretore
525. nel 208 a.C.), 133.
Furio Camillo, Marco, 273, 275. Giunone, 36, 129, 139-140,
146-147,
Galatea, 16, 20-21, 24, 26-27, 161, 176-177,180,189, 199,
44. 204, 225-226, 228,231, 233,
Galeso, v, 154, 319. 238, 249250, 260, 267-268,
Ganimede, 326, 449, 480. 280, 283-289,
Gesù Cristo, 150, 348. 291,306,309,311,314,317-
Giano, 140, 204, 266, 347, 368. 318, 323,326-328,331, 335,
Giasone, 175-179. 337,340
Giganti, VII, 118. 341, 346-347, 350, 353-
Giove, vn, 36,75,118,132,134, 355, 360,
147, 363,365,368,370,387,390,4
153,178,186,197,201,226,2 03,
405,420,426,436,449,475,4
28
558 Indice dei nomi di persona e divinità

85. 149,161,187,216,229,233,2
Giuturna, 157, 228-229, 233, 39, 243,245, 250, 254,305-
292293,315,317,360- 306,314315, 317, 345-
363,369,412, 414-415. 347,360,362, 396, 401-402,
Gyas, 233. 405, 407, 418, 426,428,
439, 519.
Hermes, vedi Mercurio. Latona, 414.
Lauso, 131, 148-149, 162, 303,
Iapige, 361. 306, 308,311,316,319,355-
Iarba, 178, 224, 250, 337, 368, 356,366, 373, 428, 453,
405, 436.
484-485, 491.
Icaro, 341,371-372.
Lavinia, 123, 131-132, 149,
Ifigenia, 219.
Ila, 35. 207, 239,
Hia, 126, 132, 202. 268,277,307,345,360,362,3
Ilioneo, 327, 345-346, 382, 73,
395, 400 402, 412, 426, 455, 534.
401. Leandro, 89.
Ilo, 264. Leda, 494.
Inaco, 254. Leopardi, Giacomo, 9, 18, 24,
Io, 36, 192, 254, 370, 491, 532. 88, 104, 224, 298, 453,
Iopa, 153, 177, 223. 489.
Ipermestra, 373. Lepido, 138.
Ippocoonte, 339. Lesche di Lesbo, 331, 538.
Ippolito, 172-173, 309. Lete, 262.
Issìpile, 178-179. Leucosia, 129.
Iride, 169, 175, 228. Levio, 211-212, 526.
Isidoro di Siviglia, 237. Licida, 6, 23, 41-42, 55.
Ismene, 337. Licinio Calvo, 36, 182, 192,
Italo, 345. 525.
Iulo, 132, 134, 177, 184, 189, Licofrone, 124, 519.
233, Licoride, 14, 37-38.
304,346,519, 527, 543. Linceo, 179, 373.
Lino, 35.
Landino, Cristoforo, 277. Livia, 277.
Laocoonte, 133, 154, 156, 163, Livio Andronico, 116, 196-197,
167, 234.
235,329,367,388,410,416,4 Livio Druso Salinatore, Marco,
71, 274.
475, 543. Livio, Tito, 137, 254, 500, 528.
Laodamia, 189. Lucano, 323,418, 437,540.
Latino, 123, 130-131, 140, 146, Lucilio, 391, 491-492, 526.
148- Lucrezio, Vin, 8-9, 11, 34, 37,
Indice dei nomi di persona e divinità 559

44, 61, 63,65,71,85-86, 89, Menalca, 13,16-17,22,28,49-


90, 92,100, 103-104, 108, 51,55.
111, 143,180,194, 197, Menandro, 175.
199-200, 208, 211, 218- Menelao, 148, 156, 158-160,
224, 234, 243, 246, 258- 207, 331, 357.
259, 289, 314, 384-385, Mercurio, 144, 226, 228, 235,
392, 397-398, 424-425, 301, 327, 338, 349, 373-
438, 443, 453,458, 464, 374, 389,417, 459,
472-473, 487, 491-492, 463,465-466, 478, 492.
511-512, 525-526, 528- Meri, 41, 55.
529, 547. Messapo, 202, 227, 255, 350,
Luna, vedi Diana. 380,
Luperci, 273. 385, 409, 452.
Lutazio Catulo, 116, 525. Mètabo, 387.
Lyssa, 170. Metisco, 157, 293, 361-362.
Metto Fufezio, 204, 273, 440.
Macrobio, 143, 197. Mevio, 27.
Madre degli dèi, vedi Cibele. Mezenzio, 130-131, 145, 148-
Magia Polla, 500. 149,
Maia, 349. 162,185, 243,252,255,268,
Malatesta, Paolo, VI. 271, 291, 297, 302, 306-
Mani, 394. 308, 311-314, 316-317,
Manlio Torquato, Tito, 275. 324-325, 347, 349-350,
Mann, Thomas, 278. 355- 356, 387, 400,
Marcelli, 274-275. 407-408, 410, 413, 417-
Marcello (nipote di Augusto), 418, 422, 438, 467, 491,
292, 304,372, 400, 428, 531.
504. Minerva, V, 146, 154, 156-157,
Mario, Gaio, 116, 118-119. 161, 176,217,
Marte, 132, 153, 185, 221, 226, 226,228,232,235,286,
243, 257, 409, 423. 312, 329-330, 358, 446,
Massimo di Tiro, 157. 478.
Mazio, Gneo, 116. Minosse, 343.
Mecenate, 69-70, 118, 301, Minotauro, 184, 371-372, 450.
447, 502505, 531. Miseno, 146, 243-244, 292,
Medea, 169, 176-180, 324, 344, 301, 342.
438. Mnasillo, 22.
Meleagro di Gadara, 16, 192, Mnesteo, 233, 339, 353, 408,
444, 509. 419,
Melibeo, 20, 31, 42, 57-58, 466, 531.
444-445. Moira, 260.
Memnone, 162-163. Molorco, 174-175.
560 Indice dei nomi di persona e divinità

Mopso, 13, 28, 49. 136-138, 141, 143-144,


Mosè, 138. 146, 149-150, 152-154,
Mummio, Lucio, 276. 157-158, 160
Muse, 162, 165, 177, 180, 194,
9,10,35,39,41,147,326,281, 198-201,
290,347,350,354,396,420,524. 207, 210, 225-229, 232,
248-249, 251-254, 285,
Nausicaa, 144, 158, 160, 177, 288-289, 316, 319, 337,
412. 367, 384-385, 387, 389-
Nautes, 232, 306, 340. 391, 398-400, 406-407,
Nestore, 142, 162, 296, 306, 414-416, 420, 430, 435,
349. 438, 442-443, 447-449,
Nettuno, 226-227,291-292, 451, 473, 481, 487, 493-
323,327, 331,340,385,397,412, 494,504,
480. 520, 528, 538.
Nevio, 116-117, 123, 126-127, Omfale, 517.
129130, 132, 135-137, 141, Opis, 309, 358-359.
197-198, 202, 220, 254, Orazi, 119.
302, 520. Orazio Coclite, 273.
Nigidio Figulo, 31, 240. Orazio Fiacco, 7,
Ninfe, 96- 9,43,48,52,72-73, 115, 117-
97,290,345,354,388,396, 118,143,164, 173, 266,
441, 446. 270,282,304,373,415,418,5
Ninnio Crasso, 116. 02
Niso (padre di Scilla), 35. 504, 529.
Niso (troiano), 148, 158-159, Or cadi (ninfe), 414.
163, 171, 189,215, Oreste, 158, 165, 166, 168, 171,
271,303-304,319, 323,351- 296, 299,304,413.
353,369,378,389,396, 410, Orfeo, vm, 29, 39, 65, 93-99,
431,438, 482-483. 101, 111-112, 153, 177,
Notte, 345. 262, 264-265, 516.
Numa Pompilio, 138, 272, 274, Orione, 297, 408, 413, 418.
534. Ornito, 239, 441.
Numano, 280, 291, 352-353, Oronte, 437.
405, Ostio, 116, 210.
484. Ottavia, 504.
Numitore, 132. Ottaviano, vedi Augusto.
Ovidio, 11,35,
Odisseo, vedi Ulisse. 98,119,175,392,396, 403,
Oinotro, 131. 446, 540.
Omero, 35, 96-
97,103,110,116,120, 126, Pacuvio, 171,214-215,217,
Indice dei nomi di persona e divinità 561

437,526. Pieridi, vedi Muse. ,


Palemone, 27, 33. Pilade, 158, 168, 171, 304:
Palinuro, 145, 149, 166, 222, Pindaro, 153, 164-165, 397,
292, 339-344, 366, 372, 515. Piritoo, 118.
377-378, 538, 540-541. Pirro (figlio di Achille), 252,
Pallade, vedi Minerva. 331,
Pallante (antenato di Evandro), 334,367,388,410,424,485,543.
234. Pirro (re delTEpiro), 125, 518.
P aliante, 145- Platone, 75, 153, 261, 264, 519.
148,163,168,190,243- Plauto, 234, 391, 447.
244,256,281,297,299,303,3 Plozio Tucca, 7, 115, 381, 504-
11 505. Plutarco, 126, 161, 295.
313, 316, 319, 348-349, Polibio, 239, 261,295, 533.
354-357, 363, 366, 372- Polidamante, 149, 313-314,
373, 410-411, 416418, 534. Polidoro, 127, 130, 170,
421,428, 493,521. 230, 242, 332-334, 394, 435,
Pan, 13. 471.
Pandaro, 161, 209, 353, 407. Polifemo, 16, 21, 24, 129, 191,
Panezio, 261. 204,
Panto, 330. 268, 308, 336, 440,
Paolo Malatesta, VI. 453, 459. Polinice, 168,
Parche, 184. 318.
Paride, 149, 158, 160, 254, 326. Polissena, 171.
Partenio di Nicea, 494. Polite, 424, 547.
Pascoli, Giovanni, 86. Poliziano, Angelo, 21.
Pasifae, 35-36, 50, 371-372, Pompeo, 275, 501.
454. Pontico, 119.
Patroclo, 118,145-147,163,313- Posidone, vedi Nettuno.
314, Posidonio, 75, 239, 240, 262.
386, 521. Potizio, 242.
Peleo, 516. Priamo, 133, 170, 191-192, 204,
Penati, 122-123, 128, 130, 139- 252,
140, 295,318, 329,330, 332-
230,286,296,330,333,336,3 333,349,
82, 405, 527, 541. 367, 388, 409-410, 424,
Penelope, 149. 436, 462, 470, 472, 476-477,
Penteo, 165, 296, 413. 543, 547. Priapo, 27.
Pentesilea, 162. Procne, 369.
Perseo, 295. Prometeo, 296, 423.
Perseo (re di Macedonia), 119. Properzio, 11, 38, 96, 115, 118-
Petronio, 405. 119,
Pico, 229, 396. 174,272,376,405,504,512,514.
Proserpina, 342-343.
562 Indice dei nomi di persona e divinità

Proteo, 96, 98. Servio Tullio, 200.


Proto, 140. Sesto Pompeo, 44, 70, 118, 513.
Shakespeare, William, 218, 404.
Quintilio Varo, 7, 58, 504. Sibilla, 246, 290, 335, 341-343,
Quinzio Flaminino, Tito, 125. 371,
Quirino, vedi Romolo. 379,390,394,423,427,432,4
Racine, Jean, 300, 404, 453. 41, 481.
Ramnete, 154-155. Sicheo, 424.
Remo, 126, 132, 266, 272, 519. Sileno, 22-23, 29, 35, 65.
Reso, 154-155, 162. Siila, 271.
Rifeo, V, 319. Silvano, 123.
Romolo, 78, 119, 121, 124, 126, Silvia, 247, 253, 346.
132, Silvio, 123, 132, 239, 274.
135, 137-138, 228, 266, Sinone, 133, 167, 184, 216,
271-272, 268, 281,
274,483,519. 329,336,365,405,469,480,4
85, 493, 543.
Sabino, 233, 345. Sirene, 460.
Saffo, 10, 164, 214. Sirone, 7-8, 258, 502.
Salii, 229, 242, 250, 273. Sofocle, 133, 166-169, 216,
Sallustio, 211,240- 320, 533.
241,273,277,297, 299, 519. Sofonisba, 207.
Salmoneo, 343. Sogni, 342.
Sarpedonte, 521. Sonno, 222, 340, 366, 377-378.
Saturno, 71-72, 75, 227, 233- Stazio, 91,318-319, 446.
234, 279, 284, 345, 477. Stenelo, 156.
Scilla, 35. Stesicoro, 124.
Sempronio Gracco, Tiberio, Svetonio, 379, 501, 504-505.
276.
Seneca, 8, 75-76, 91, 323, 515, Tacito, 254.
517. Tanaquil, 200.
Sergesto, 233, 415, 481. Tanit, 284.
Serrano, vedi Attilio Regolo. Tarcone, 148, 281, 350, 354,
Serse, 118. 359,
Servio, 36-37,49,51, 93- 410, 414,418, 543.
94,152,154, 159,181, Tarquinii, 274.
192,203,209,215,229, 232- Tarquinio il Superbo, 273.
233, 235-240, 259, 299, Tarquinio Prisco, 200.
321, Telamone, 349.
330,381,404,432,437,447,5 Telemaco, 142, 148-149.
27, Teocrito, 5-6,12-13,15-24,26-
536, 544. 28,30,
Indice dei nomi di persona e divinità 563

33- 34, 37, 39-40, 47-48, 147149,156-


51, 53, 157,161,163,168,188,
56- 58, 63-64, 103, 209,216,229,233,238,243,2
105, 175, 223, 247, 449, 49, 251-255, 257, 268-269,
509-510,512-514. 271, 277, 280,283,286-
Teone di Alessandria, 47. 287,292, 295, 297299, 302-
Terenziano Mauro, 211. 303, 306-318, 323-325,
Terenzio, 234, 391, 544. 346- 348, 350-353,
Terra, 345, 485. 357-367, 369-
Tersite, 149. 370,372,387,396,402,405,4
Teseo, 118, 167, 184, 187, 318, 07
544. Testili, 20. 411, 413-415, 417-421,
Teti, 148, 226, 228, 286,516. 423-424, 428, 437, 439-
Tevere (dio), 147,231,348,366, 440, 452, 454-455,
427, 467, 477-478, 482, 494,
524,527. 530-531, 533, 535-536,
Thanatos, 169. 543.
Tibullo, 19, 512.
Tieste, 438. Ucalegonte, 237.
Tifeo, 165, 530. Ulisse, VI, 123-124,141-
Timeo di Tauromenio, 122,125, 142,144-150, 155, 158-160,
282, 518-519. 204, 226, 234,237, 282,
Tiodamante, 174. 286, 295-296, 299-300,
Tiresia, 146. 329,
Tirrenia, 124. 334,336,357,434,480,512,5
Tirreno, 131. 20.
Tirro, 253. Umbrone, 319, 444.
Tirsi, 27-28, 65, 510.
Tisifone, 356. Valerio Catone, 501.
Titani, 118, 343. Valerio Fiacco, 446.
Titiro, 12, 18, 20, 32, 41-42, 49, Valerio Proculo, 505.
51, Valerio Rufo, Marco, 133.
57- 58, 60, 444,512. Valéry, Paul, 42-43, 512.
Tito Tazio, 483. Vario Rufo, 7, 115, 193 , 279,
Tolomeo II Filadelfo, 48. 381, 503-504.
Tolstoj, Lev, 278. Varrone Atacino, 116, 182,
Tolumnio, 361. 193.
Tritone, 342, 397, 441. Varrone Reatino, 122, 133, 229,
Troilo, 163. 232, 233,235, 239-240,262,
Tucidide, 90, 400. 347,517,
Tulio Ostilio, 134,203- 527.
204,273,440. Venere, VE, 28, 86, 92, 121,
Turno, vn, 131-132, 142, 145,
564 Indice dei nomi di persona e divinità

125-126, 128, 132, 134, 487, 493,519,532, 544.


135,144, 147-148, Venilia, 307.
153,161,167,176,180,197,2 Venulo, 357, 401.
21, 225-226, 228, 230-231, Vesta, 266, 330, 543.
260, 266, 267, 270, 284- Virbio, 173, 528.
290, 292-293, 318, 322, Volcente, 252.
327-328, 330-331, 337, Volusio, 116.
340, Vulcano, 163, 179, 193 , 221,
342, 349-350, 354, 361- 227,
362, 365, 240,254,288,349,448,452,4
368, 387, 394-395, 397, 86,
399-401, 537, 544.
403, 427, 449, 451, 456-
457, 484, Zeus, vedi Giove.
Indice dei nomi di persona e divinità 565

INDICE DEGLI AUTORI MODERNI


Albrecht, M. von, 536. Castagnoli, F, 518, 528.
Alpers, P, 63. Castelli, G, 526.
Anderson, R.D, 511. Ceccarelli, L, 547-548.
Anderson, W.S, 536, Cetrangolo, E, XI, 528.
539. Arrighetti, G., Chirassi, Colombo I., 519.
511. Clarke, M.L, 542.
Auerbach, E., 25, 150, 415, Clausen, W., 62-65, 109,
435. Austin, KG., 538. 514, 524. Coleiro, E, 513.
Coleman, R, 510, 512, 527.
Bailey, C., 526-527. Colonna, E, 542.
Barchiesi, A, 515, 523. Conington, J, 522-523, 537.
Barigazzi, A, 525. Conte, G.-B, 111,512,516.
Bartelink, G.J.M., 527. Conway, R.S., 537.
Batstone, W, 109. Cordier, A, 443, 542, 547.
Battegazzore, A.M., 527. Cossarini, A, 515, 517.
Berres, Th, 538, 540-541. Couissin, P, 529.
Betensky, A, 515-516. Courtney, E, 65, 525.
Bianco, G, 528. Cova, P.V., 520, 538. •
Bicks, B., 533. Cupaiuolo, F., 65, 111, 513-
Billmayer, K, 542. 514,548.
Binder, G, 520,538,
Biotti, A, 110. Dahlmann, H, 510.
Bishop, J.H, 536. De Rosalia, A, 547.
•Bocciolini Palagi, L, 112, Desideri, P., 531.
537. Bornmann, F, 524. Desport, M, 510.
Bowersock, G.W., 514. Di Benedetto, V., 535-536.
Boyancé, P, 527, 530. Dilke, O.A.W., 537.
Boyle, A.J., 515-516. Dingel, J, 538.
Briggs, W.W, 524, 543. Dion, J, 544-546.
Buchheit, V., 63, 512, 515- DTppolito, G, 520.
516, 530. Buscaroli, C, 538. Drew, D.L, 531.
Duckworth, G.E., 537, 548.
Cabani, M.C, 534. Duhn, M. von, 543.
Cairns, F, 64, 531, 534-536. Dunlop, J, 277, 531.
Canali, L., XI. Dury-Moyaers, G., 518-519.
Canciani, F, 518. Eden, P.T., 538.
Carcopino, J, 519. Edgeworth, R.J., 527, 546-547.
Cardinali, L, 534. Effe, B., 520.
Carilli, M, 111. Erler, M.,533. .
Cartault, A, 382-383, 509,
531. Casanova, A, 531. Facchini Tosi, C., 545, 547.
566 Indice dei nomi di persona e divinità

Faller, S., 523. Guillemin, A., 418.


Fantazzi, C., 65, 510. Günther, H.-C., 541.
Fantham, E., 534. Hardie, Ph, 445, 529-530, 538-
Farrell J., 64, 110. 540, 542-543.
Farrington, B., 512. Harrison, L.E., 538.
Fedeli, P., 514. Harrison, S.J., 63, 540.
Feeney, D., 534. Heckei, H., 110.
Fiore, T., 319, 510. Heinze, R., 153, 162, 297, 309,
Forbiger, A., 537. 326, 376-377, 400,
Fordyce, C.J., 538. 430,523,531,533, 542, 545.
Foster, J., 111. Henderson, J., 64.
Fowler, D., 539. Heyne, C.G., 522.
Fraenkel, E., 162, 181, 522- Heyworth, S J., 524.
523, 538. Funaioli, G., 319. Highet, G., 399-400, 404, 542-
Fustel de Coulanges, N.D., 138. 544. Hollis, A.S., 524.
Holtorf, H., 514.
Gagliardi, P., 65. Hornsby, R.A., 543-544.
Galinksy, G.K., 530, 533, 536, Horsfall, N, 62, 109-110, 520,
539. Garuti, G., 538. 527
Gentili, B., 522. 528, 532, 538-
George, E.V., 524. 539, 541. HubauxJ.,
Gercke, A., 376, 540. 509-510.
Germanus, vedi Vaillant de
Gueslis, Jachmann, G., 31,
G. 509, 513. Jacobson,
Geymonat, M., 524. H., 111.
Giancotti, F., 319, 533.
Jeanneret, R., 528-529.
Gigante, M., 523, 528.
Jenkins, R., 63.
Gjerlow, J.R., 542.
Glei, R.F., 529-530, 533, 540. Jocelyn, H.D., 516.
Glenn, J., 525.
Kennedy, D., 63.
Gonnelli, G., 525.
Kettemann, R., 515.
Görler, W., 546.
Gotoff, H.C., 534-535. Kilpatrick, R.S., 531.
Gransden, K.W., 539. Kilroy, G., 525.
Grassi, C., 512, 530. Klingner, F., VII, 516, 531.
Grassmann-Fischer, Knauer, G.N., 143,146-
B., 527. Greimas, 150,520,521. Knight, W.F.J.,
A.J., 520. 548.
Griffin, J., 111. Knox, B.M.W., 543-544.
Grilli, A., 530. König, A., 523, 526.
Grillo, A., 514. Kopff, E.C., 163, 522.
Gruen, E.S., 518. Koster, S., 521.
Indice dei nomi di persona e divinità 567

Kraggerud, E., 533,


539-540. Krenkel,
W., 491.
Kugel, J., 64.
Kühn, W., 527, 529.
Kvicala, J., 547.

La Bua, G., 529.


La Cerda, J.L. de, 236-237,
444,522. La Penna, A.,
515,517,523-524,530, 532-537,
539-540.
Lachmann, K., 119.
Lamacchia, R., 530.
Indice degli autori moderni 515
Landolfi, L., 110, 112. Narducd, E., 540.
Leach, E.W., 509. Negri, A.M., 546.
Leclercq, R., 63. Nelis, D.P., 524.
Lee, M.O., 112. Nettleship, H., 537.
Lefèvre, E., 64. Nicastri, L., 64.
LelH, E., 532. Nisbet, R.G.M., 63-64, 109, 511.
Leo, F., 41. Norden, E., 240, 262, 272, 523, 525-
Leonottl, E., 111. 526, 531, 538, 548.
Lesueur, R., 523, 537. Nosarti, L., 110.
Lieberg, G., 532.
Lindhal, S., 63. O’Hara, J.J., 238, 527-528.
Luck, G., 526. Oksala, P., 525.
Lundstròm, S., 542. Orsini, F., 522.
Lyne, R.O.A.M., 532, 539, 542. Otis, B,, 374,430,516-517, 531, 538,
545.
Mackie, C.J., 527. Ott, W., 548.
Maggiulli, G., 111.
Malavolta, M., 529. Mandruzzato, Pace, N., 534.
E., 36. Paduano, G., 524.
Mankin, D., 65. Pallottino, M., 532.
Manuwald, G., 523. Palmucci, A., 532.
Martina, A., 523. Parise, N., 519.
Martina, M., 538. Parroni, P., 526.
Martindale, C., 62.
Parry, A., 319, 536.
Marx, F., 491.
Parsons, P.J., 511.
Maselli, G., 546.
Paschalis, M., 65.
Maury, P., 513.
Mayer, R., 524. Pasoli, E., 515, 517,
Mazzocchini, P., 529. Pasquali, G., 509.
McKay, A.G., 531. Pearce, T.E.V., 513.
Melandri, E., 523. Pease, A.S, 523, 529, 538.
Mendell, C.W., 525. Perkell, C.G., 64, 66, 110.
Merrill, W.A., 526. PerretJ., 124, 325,513,518. Perrotta,
Micali, G, 320. G., 517, 533.
Michelfeit, J., 513. Perutelli, A., XI, 62, 112, 527, 539,
Milanese, G., 542. 545.
Miles, G.B.,516. Pfeiffer, E., 509.
Momigliano, A., 518, 532. Monaco, Pike, K.L., 528.
G., 538. Pohlenz, M., 294.
Morel, W., 525. Posch, S., 509-510, 513.
Morgan, L., 110. Pöschl, V., 291, 300, 315, 317, 319,
Moskalew, W., 541-542. Muecke, 325, 367,368, 371-372, 374,510,
F., 516. 512,516, 531-533,535, 540. Putnam,
Musti, D., 532. M.C.J, 372, 510, 512, 516, 533,539,
Mynors, R.A.B., 109-110, 538. 544.

Nardi, B., 549. Querbach, C.W., 65.


Nardone, D., 549. Quinn, K., 538.
576 Indice degli autori moderni

Radke, G, 520. Stroh, W., 511.


Ramorino, Martini L., 63. Syme, R., 275.
Reinhardt, K, 262.
Renger, C, 299, 533, 535. Tandoi, V., 525.
Ribbeck, O., 168, 380. Thomas, R.F, 109-110, 536, 539.
Richter, W, 517. Tissol, G, 524.
Rieks, R., 543-545. Torelli, M, 518.
Rohde, G, 512. Tozzi, P, 549.
Roiron, F.X.M.J, 547. Tracy, S.V., 525.
Ronconi, A., 512. Traina, A., 62, 64,512-513,532,535-
Ross, D.O., 111. 536, 539.
Rossi, L.E, 510. Treu, M, 263-264, 530.
Rumpf, L, 63 , 66. Tupet, A.-M, 527.
Turcan, R., 530.
Sabbadini, R., 375, 376, 540. Saint-
Denis, E. de, 513-514. Sainte-Beuve, Ussani, V. jr., 523, 538.
C.A. de, VI, 295, 298, 422, 533. Vaillant de Gueslis, G. (Germanus),
SaHenbauch, R, 536. 523.
Salvatore, A., 512, 517, 524, 538. Van Sickle, J., 513.
Saunders, C., 529. Veremans, J., 511.
Savage, J.J.H, 513. Veyne, P., 549.
Sbordone, F., 509. Vretska, K., 519.
Scaligero, G.G., 417.
Scarcia, R, XI. Waszink, J, 515.
Schenk, P., 535-536, 540. Weber, T., 531,534.
Schlunk, R.R., 153-155, Weinreich, O, 348.
521. Schmidt, E.A, 511, Weinstock, S., 519.
513-514. Schmiel, R, 525. Wellesley, K, 549.
Schmit-Neuerburg, T, 157-159, 521. Wendling, E, 528.
Schönbeck, G, 509. West, D., 543.
Schubert, W., 531. Westendorp Boerma, R.E.H, 525.
Segal, Ch, 511, 516, 547. Wickert, L., 529.
Seng, H, 63. Wigodsky, M., 525-526, 529.
Setaioli, A., 522, 530, 542. Wilamowitz-Moellendorf, U. von,
Shipley, F.W., 548. 254. Wilkinson, L.P, 515.
Skutsch, F., 41. Williams, G., 540, 545, 546.
Skutsch, O., 390, 443, 510, 513-514, Williams, R.D, 538.
526, 544-545. Wimmel, W., 64.
Snell, B., 509. Woodman, AJ, 528.
Soubiran, J, 548. Wülfing-von Martitz, P., 510.
Speranza, F, 538.
Spoerri, W, 511. Zaffagno, E, 546.
Spurr, M.S., 111. Zevi, F., 540.
Squillante Saccone, M, 548. Zinn, E, 521.
Stahl, H.-P, 299, 531, 533, 536.

Premessa V
577 Indice degli autori moderni

Nota dell’autore XI

Parte prima Le «Bucoliche» owero l'impossibile


Arcadia 3
I. La formazione culturale giovanile di Virgilio 5
IL Le «Bucoliche» e Teocrito 12
IIL L'emarginazione del realismo alessandrino 20
IV. Il canto pastorale 26
V. L'eros infelice 33
VI. La violenza della storia 40
VH. L'integrazione bucolica 47
VHL L'architettura delle «Bucoliche» 53
IX. Lo stile del canto bucolico 57
X. Gli studi sulle «Bucoliche» (1984-2003) 62

Parte seconda Le «Georgiche»: il poema esiodeo


e lucreziano del lavoro e della natura 67
I. La nascita delle «Georgiche» 69
57 Indice del volume
8
IL Dalle «Bucoliche» alle «Georgiche». La 7
teodicea del lavoro 4

m Il lavoro e la natura 8
2
.IV Le forze devastanti della natura: Amore e 8
. Morte 7
V. La fiaba tragica di Orfeo 9
3
578 Indice degli autori moderni

VI L’architettura delle «Georgiche» 1


. 0
v Orientamenti generali nello stile delle 1
«Georgiche» 0
n. 3
v Gli studi sulle «Georgiche» (1984-2003) 1
0
m 91
Pa terza L’«Eneide»: il costo tragico del potere
rte 1
I. L’attesa del poema epico augusteo 31
1
IL La scelta della leggenda di Enea 1
2
ni Il mito e la storia 1
3
.IV L’«Eneide» come poema omerico 1
. 4
V. Omero interpretato 1
5
VI L’«Eneide» e il ciclo epico 1
. 6
v L’assenza della lirica e la presenza della 1
tragedia greca 6
n. 4
v L’eredità alessandrina 1
7
m
rx L’eredità neoterica 1
8
.X. L’«Eneide» e la poesia latina arcaica 1
9
XI L’eredità lucreziana 2
. 1
x La religione nell’«Eneide» 2
2
n.
x Antiquaria e storiografia 2
3
ni
XIV. La poesia dei rituali 242
XV. La guerra neU’«Eneide» 251
XVI. La cultura filosofica 258
XVII. I tre piani non coerenti dell’«Eneide» 266
579 Indice degli autori moderni

XVm. L’«Eneide» come poema augusteo 270


XIX. Il mondo degli dèi 283
XX. H mondo degli eroi. Il protagonista 294
XXI. L’«Eneide» come poema dei vinti 302
XXn. Il confronto fra la parte odissiaca e la parte
iliadica 321
XXIII. La coerenza interna dei singoli libri 326
XXIV. Le corrispondenze interne e l’integrazione lirica 365
XXV. La genesi delT«Eneide» 375
XXVI. Lo stile epico dell’«Eneide» 384
XXVH. I discorsi 399
XXVTH.Le similitudini 406
XXIX. Alcune considerazioni e note sull’espressione
del pathos nell’«Eneide» 420
XXX. Lo stile «soggettivo» dell’«Eneide» 430
XXXI. L’espressionismo dell’«Eneide» 435
XXXII. L’eredità alessandrina e neoterica nello stile
dell’«Eneide» 442
XXXHI. I colori deU’«Eneide» 451
XXXTV.La scelta dei suoni 458
XXXV. Poche note sull’espressività metrica 473
Appendice Le opere e gli anni 497
1. La famiglia e gli studi giovanili, p. 499 - 2. Il trauma delle
guerre civili, p. 502 - 3.1 rapporti con Mecenate ed Augusto, p.
503
580 Indice degli autori moderni

Note 509
Bibliografia essenziale 551
Indice dei nomi di persona e divinità 563
Indice degli autori moderni 573
Indice del vohime
11
repertori più ampi di passi paralleli sono ancora W.A. Merril, Parallels
and coincidences in Lucretius and Virgil, in «Univ. of California Public, in
Class. St.», 3,1918, pp. 135-247, e C. Bailey, Virgil and Lucretius, London
1947. H primo elenca 1635 passi di Lucrezio e trova confronto in 2638 passi
di Virgilio; il secondo riduce i passi di Lucrezio a 1000. C’è ancora bisogno di
un vaglio rigoroso, presupposto necessario per cercare di fissare delle linee di
orientamento di Virgilio rispetto al De rerum natura; io mi limiterò a fissarne
qualcuna. Una breve trattazione, per lo più giusta, in Wigodsky, Vergil and
Early Latin Poeùy cit., pp. 132-139; utile anche la voce Lucrezio delTEV^,
HE, Roma 1987, pp. 264-271 (sulYEneide, pp, 268-270), redatta da G.
Castelli, che dà una ricca (e forse eccessiva) bibliografìa.
2
Cfr. Wigodsky, Vergil and Early Latin Poetry cit., p. 134.
3
II resto del verso di Lucrezio (terram genibus summissa petebat) ha sug-
gerito Aen IH, 93: Summissi petimus terram.
1
Qui sviluppo uno spunto dal mio saggio pubblicato quasi quarantanni
fa: Virgilio e la crisi del mondo antico, introd. a Virgilio, Tutte le opere
tradotte da Enzio Cetrangolo, Firenze 1967, p. XLVn.
3
Un’attenta e chiara analisi, condotta secondo lo strutturalismo del lin-
guista americano K.L. Pike, si trova nell’opera di R. Jeanneret, Recherches
sur rhymne et la prière chez Vergile, Bruxelles-Paris 1973. La tradizione
poetica vi è presente in parte: sono analizzate alcune preghiere nei poemi
omerici, ma non nella poesia greca tra Omero e Virgilio (lirica, tragedia,
poesia alessandrina); dalla poesia latina sono presi in esame preghiere e
inni di Lucrezio e di
1
La Penna, Virgilio cit., pp. LXXVI s.
2
Una discussione accurata e ponderata del problema è stata data da
R.O.A.M. Lyne, Further Voices in VergiVs Aeneid, Oxford 1987, pp. 71 ss.,
spec. 79, che inclina per l’identificazione, mettendo da parte i passi in cui la
rappresentazione di Giove è omerizzante e non stoica.
4
A proposito di Venere ho condensato una trattazione più ampia, pubbli-
cata in una miscellanea in onore del vecchio amico Luca Canali: Arma virum-
que...y a cura di E. Lelli, Pisa-Roma 2002, pp. 97-107.
5
Per ascendenze poetiche (Bione) e filosofiche (Filodemo) del motivo ri-
mando alle indicazioni date da A. Traina nel commento al libro XH, Torino
1997, p. 180 (nota al v. 882). Io ritengo, anche se non ho le prove per dimo -
strarlo, che il motivo risalga a tragedie greche in cui comparivano eroine vio-
lentate dagli dèi, come la Io del Prometeo di Eschilo.
1
Cfr. G. Williams, Technique and Ideas in thè Aeneid, New Haven-Lon-
don 1983, pp. 245-285. Non credo che l’autore abbia convinto qualcuno, ma
l’analisi del diverso ruolo di Enea narrante nel II e nel Ut libro è condotta con
finezza e merita attenzione. Ho trovato strano che il dotto latinista non faccia
mai il nome di Sabbadini, omesso anche nella bibliografia.
2
Poco prima e poco dopo la metà del secolo scorso la proposta del Gercke
è stata difesa e sviluppata in Italia più con prolisse esercitazioni sofistiche che
con dimostrazioni filologiche. L’ultimo sostenitore è stato, per quanto ne so,
un assecla fedele e miope, che per tutta la vita si è industriato a spostare qual-
che virgola nelle opere di latinisti anteriori. La posteriorità della seconda parte
è stata sostenuta anche da me in base ad un confronto fra la narrazione re-
lativa ad Amata e quella relativa a Didone: cfr. La Penna, Amata e Didone cit.
Indice del vohime

Oggi mi esprimerei con meno riserve.


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