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Il problema dell’«Iliade»:
dialettica della morale pre-politica
Una storia culturale della morale antica non può che trovare nell’Iliade la
sua scena d’origine. La scelta è obbligata, ma non esente da rischi di
equivoco: obbligo ed equivoco dipendono entrambi dall’ambigua posizione
dell’Iliade nella tradizione culturale greca, dal suo statuto paradossale che
ne fa, insieme, un inizio e una fine.
Un inizio l’Iliade lo è certamente per noi, rappresentando l’insieme di
testi più antichi che quella tradizione ci abbia trasmesso; nei loro versi,
abbiamo l’illusione inevitabile di ascoltare direamente la voce delle
origini, o quella, ancora più pericolosa, di possedere il documento di una
società antichissima e primigenia. Ma anche per i Greci, almeno a partire
dal V secolo, l’Iliade costituiva senza alcun dubbio il testo degli inizi e
delle origini, e proprio nel senso di questa duplice illusione: essi vi
leggevano il fondamento della loro cultura, della loro visione del mondo,
della loro morale (tanto che non riuscirono mai, malgrado sforzi tenaci e
ripetuti, a dimenticare davvero Omero); e i loro storici, come Tucidide,
non poterono fare a meno, malgrado ogni cautela critica, di usare il poema
come l’unica fonte possibile per l’evento primario della storia greca, la
guerra di Troia.
Eppure, noi sappiamo altreanto bene che l’Iliade si colloca piuosto
nello stadio finale di un universo culturale. Il poema è stato composto ed
eseguito per un pubblico e in un ambiente sociale già lontani di secoli dal
tempo in cui è situata la finzione poetica, ed è stato trascrio ancora più
tardi nella forma in cui noi lo leggiamo: le tre fasi corrispondono
rispeivamente a un mondo vagamente post-miceneo, alla nascente
società della polis e a quella della polis compiuta. L’espressione «società
omerica», con la quale viene usualmente designato il mondo del poema,
appare dunque assai appropriata, anche se non sempre la si usa con questa
consapevolezza critica: essa non deve far pensare ad una società storica di
cui il poema sarebbe documento direo, bensì precisamente alla società,
all’universo di credenze e di valori, che la finzione poetica costruisce e
rappresenta. C’è tuavia qualcosa che l’Iliade documenta: ed è la memoria
che il nuovo mondo nascente ha conservata di quello vecchio e sparito, la
memoria di un tempo degli inizi concluso e però ancora efficace nella
coscienza, nella rappresentazione morale, nella visione del
mondo. L’ambiguità dell’Iliade, che al tempo stesso conserva e
necessariamente trasforma una memoria, è tale dunque non solo per noi e
per i suoi leori greci del V secolo, ma, in forma diversa, probabilmente
anche per i suoi primi ascoltatori e fruitori. Essi vi avranno visto, forse,
un’imprescindibile eredità culturale e insieme i segni del suo logoramento
inevitabile.
L’importanza della «società omerica» per una storia della morale antica
è comunque accresciuta, non diminuita, dal fao che l’Iliade non è un
documento storico ma rappresenta un universo della finzione poetica. La
tensione fra tradizione e mutamento, fra conservazione e trasformazione
della memoria, la stessa ambiguità temporale che la struura, ne fanno per
noi un documento ancora più importante: il documento di una fase, certo
antica se non originaria, della consapevolezza morale dei Greci, delle
figure che la popolano, della crisi che la araversa.
Occorre subito dire che — a differenza della tragedia del V secolo — la
messa in scena della crisi non costituisce il senso né lo scopo deliberato
dell’Iliade (o dei poemi che vi confluiscono). Essa non è un testo
intenzionalmente problematico: i problemi, e la crisi, sembrano emergere
piuosto della logica interna dell’universo poetico rappresentato, come
effeo necessario delle tensioni di cui si è deo, e della sua ambigua
contestualità. Al contrario, crisi e problemi sono resi più acuti proprio
dalla chiusura, dalla compaezza non incrinata del sistema dei valori dai
quali la «società omerica» appare governata, dal rigido rilievo delle figure
eroiche su cui essa si impernia. este figure appaiono i modelli di
riferimento di una cultura «testualizzata», nel senso di Lotman: una
cultura cioè in cui i codici di comportamento non sono orientati da
grammatiche, norme o regole formali il cui effeivo riempimento possa
variare a secondo delle situazioni e delle persone, ma sono piuosto
affidati, appunto, alla rappresentazione poetica di figure perfee ed
esemplari, che fungono da regole per così dire incarnate e viventi, capaci
di colpire immediatamente l’immaginazione e di ispirare l’emulazione.
Con una ulteriore limitazione: poiché l’eroe della «società omerica»
è innanzituo una figura legata a uno status, quello di un’aristocrazia
regale e militare, la sua esemplarità non vale evidentemente per tui, nel
senso che l’emulazione è concessa soltanto ai suoi simili per status; se è
estensibile anche ad altri, questa sua universalizzazione può assumere solo
la forma di un principio di esclusione e soomissione. Il celebre episodio
di Tersite nel libro II dell’Iliade (212 sgg.) ne è la prova migliore. Il plebeo
Tersite, che osa prendere la parola nell’assemblea degli eroi, viene irriso e
infine percosso non perché egli sia incapace di adeguarsi al modello eroico
(per la sua condizione sociale questo è impossibile ed impensabile), ma
perché, non acceando la regola di esclusione insita nel modello, si
comporta come se esso fosse estensibile fino a lui, e dice in effei cose non
dissimili da quelle sostenute — con ben altra legiimità e autorevolezza —
da un vero eroe come Achille.
Chi è dunque l’eroe della «società omerica», e in che cosa consiste la
sua esemplarità morale? Egli è innanzituo il capo di una casata (oikos)
che detiene la sovranità su di una comunità umana e sul suo territorio, di
solito entrambi assai piccoli. esta sovranità è da un lato illimitata, nel
senso di non essere soggea ad alcun ulteriore potere esterno né al
controllo istituzionalizzato di organismi colleivi interni. D’altro lato,
però, essa è radicalmente indebolita dall’assenza di qualsiasi
legiimazione istituzionale che garantisca la continuità e la trasmissione
dinastica del potere del signore (l’assenza di Odisseo da Itaca riduce il suo
oikos in balia di nobili estranei, né Telemaco può vantare alcun dirio
certo alla successione del padre). La sola legiimazione della sovranità
eroica nella «società omerica» sta nella sua capacità — da dimostrare ogni
volta — di assolvere il suo specifico compito sociale, che è in primo luogo
la difesa armata della comunità, e in secondo luogo la difesa strenua del
proprio status, del proprio onore. Da esse dipendono quel consenso
colleivo, quel «rispeo», che sono il solo fondamento di fao di una
sovranità così priva di legiimità istituzionale: il vecchio eroe incapace di
incutere rispeo per il venir meno della sua forza sul campo di baaglia è
costreo di fao a delegare la sovranità al figlio, come accade a Laerte con
Odisseo o a Peleo con Achille.
C’è un passo dell’Iliade che riassume con chiarezza questa connessione
fra sovranità eroica, difesa dello status e valore guerriero. Glauco e
Sarpedone sono due signori della Licia accorsi in aiuto di Troia; soo le
sue mura essi combaono non certo in difesa della loro comunità, che
nessuno minaccia, ma piuosto per confermare la propria condizione di
eroi, da cui dipendono il loro «onore», dunque la legiimazione del loro
potere e ancora, indireamente, la sicurezza della comunità loro soggea.
Si chiede Sarpedone, esortando il compagno alla baaglia:
L’eroe non può scegliere i valori per cui si bae. Egli rappresenta il valore,
anzi è il valore, e a tale condizione lo vincolano le aspeative dei suoi
sudditi e dei suoi pari, che costituiscono la consapevolezza che egli ha di
se stesso. L’eroe è per eccellenza agathos, «buono», ma il valore di questo
termine non ha, nella «società omerica», nessuna delle connotazioni che
un’etica più tarda gli avrebbe aribuito. Agathos è in primo luogo
un’indicazione di status, e vale dunque «nobile»; ma poiché lo status
va sempre di nuovo legiimato dal comportamento, agathos significa
anche immediatamente «buono a», «capace di», in grado dunque di
erogare una prestazione che è in primo luogo guerriera. ando Nestore
esorta Agamennone a non compiere l’errore fatale di togliere ad Achille la
schiava Briseide, gli si rivolge in questi termini: «Tu pur essendo agathos,
non togliere a lui la giovane…» (Il. 1.275). La condizione di agathos non è
dunque tale da sconsigliare a chi la detiene di compiere un gesto arbitrario
e violento, ma al contrario lo legiima in linea di principio, benché altre
considerazioni possano sconsigliarlo.
L’insieme delle prestazioni eccellenti di cui l’agathos è capace
costituiscono la sua arete, la sua «virtù». Anche questo termine va leo al
di fuori dei significati aribuitigli dalla riflessione morale più tarda. Si
traa in Omero di una «virtuosità», che si esprime soprauo ed
essenzialmente nell’agone guerriero, nella capacità di far prevalere la
propria forza su nemici e rivali.
Nulla è più indicativo del valore fondamentale di arete che il suo uso in
endiadi con bia (Il. 9.498): «la virtù e la violenza», «la virtù cioè la capacità
di esercitare violenza». Il contesto agonale e guerriero di arete è più volte
ribadito. Di un giovane eroe si dice che è dotato di «ogni tipo di aretai, nel
correre e nel combaere» (Il. 15.642); altrove si parla «dell’agguato, in cui
davvero si vede l’arete degli uomini» (Il. 13.277).
La virtù eroica è spesso anche definita come capacità di ben parlare «in
consiglio». Ma non si traa in ogni caso del rigore o della soigliezza
dell’argomentazione razionale, quanto piuosto della capacità di prevalere
di fronte all’assemblea dei pari; una sorta di trasferimento, dunque, della
forza, del kratos eroico, dalla spada alla parola (che la prima dev’essere
comunque pronta a confermare, se non si traa di un vecchio e
indebolito eroe di secondo piano come Nestore).
Il riconoscimento sociale tributato alla virtù, che è essenziale per la
sopravvivenza e la legiimazione della condizione eroica, prende due
forme streamente correlate: la «fama» (kleos), che si sparge e si consolida
tra gli uomini grazie al racconto delle gesta dell’eroe; e soprauo il
rispeo e l’onore (time) di cui egli deve godere presso i pari, i sudditi, i
nemici. Ma è proprio nella figura della time che compaiono tensioni, crepe
capaci di intaccare il compao universo morale della «società omerica».
Da un lato la time è il riconoscimento dovuto allo status, alla
ricchezza, alla prodezza guerriera dell’eroe, e anche alla sua capacità di
adeguarsi alle regole fondamentali di convivenza fra gli uomini,
al necessario rispeo della divinità. Figura limite tra la condizione umana
e quella divina, l’agathos non può rescindere i legami che lo conneono ad
entrambe; e in primo luogo, non può non riconoscere ai suoi pari quel
dirio al riconoscimento, alla time, che è per lui esigenza vitale. D’altra
parte, però, il caraere fondamentalmente agonale della virtù eroica, la
difesa a oltranza della propria tinte non possono acceare i vincoli della
convenzione sociale (e neppure, come vedremo, della stessa
condizione umana). Per asserire la propria virtù, per difendere il
proprio onore in una situazione di crisi, l’eroe è indoo — anzi è
necessariamente spinto — a violare la time altrui.
L’affermazione di sé richiede allora la negazione dell’altro, la
distruzione di quella tinte che ne fa — che potrebbe farne — un proprio
pari, laddove la dinamica implacabile della virtù non consente situazioni di
eguaglianza. Se Agamennone si prende Briseide, è perché, egli afferma
rivolgendosi al rivale, «tu sappia / quanto son più forte di te, e tremi anche
un altro / di parlarmi alla pari (ison), o di levarmisi a fronte» (Il. 1.184
sgg.). esta violazione del tacito pao di mutuo riconoscimento,
questa espropriazione della time altrui che appartiene alla
dinamica inerziale della virtù eroica, è la hybris. Agamennone
commee hybris nei riguardi di Achille (Il. 1.203), ne viola la
condizione eroica togliendoli la sua tinte, disonorandolo (Il. 1.353, 507).
Il suo kratos colpisce in questo modo nel cuore e nell’animo la
condizione eroica, la stessa consistenza umana del rivale, abbassandolo
alla condizione di uomo privo d’onore (atimeton), al pari di un Tersite.
L’effeo più immediato è un dolore violento, pari a quello di una ferita
mortale: «questo dolore tremendo l’anima e il cuore (thymon/kardien) ini
penetra / quando un uomo vuol spogliare un suo pari (homoion) / e
levargli il suo dono, perché per potenza (kratos) va innanzi» (Il. 16.52 sgg.).
Sul piano psicologico la risposta a questo dolore è l’ira, il desiderio
incontenibile di vendicare il torto subito (è questa, come vedremo, una
definizione che diventerà canonica nell’etica greca per la passione con la
quale l’Iliade si apre, poiché menis è la prima parola del poema, e da cui è
interamente permeata). Ma al livello dell’interazione sociale la perdita
della time dà luogo a due figure irrimediabilmente lesive della condizione
eroica, a meno che la vendea sia prontamente e totalmente consumata:
oggeivamente, quel «biasimo» o disprezzo (elencheie), dove si rovescia
specularmente la «fama» di cui l’eroe integro godeva; soggeivamente, la
«vergogna» (aidos), un sentimento, o piuosto una condizione
esistenziale, in cui si esprime la radicale vulnerabilità dell’eroe a quel
giudizio sociale onde egli traeva la sua sola possibile legiimazione. Così
come la virtù dell’eroe si fondava sul successo delle sue prestazioni
agonali, la «vergogna» costituisce la sanzione definitiva della sua
défaillance di fronte alla forza altrui, che lo costringe a subire l’affronto
della hybris, la perdita dell’onore. Non sono la colpa né il peccato, ma
appunto la vergogna, a sancire il decadimento dell’eccellenza dell’eroe, la
perdita della sua condizione di esemplarità — e anche, socialmente, del suo
solo dirio alla sovranità. Eppure, per quanto tremenda sia, egli deve
essere pronto ad infliggere — dunque anche a subire — questa lesione della
sua costitutiva time, perché in ciò consiste l’essenza della sua virtù, che
tende dunque contraddioriamente a violare quel pao di mutuo
riconoscimento su cui si fonda l’unica possibilità di sopravvivenza della
«società omerica».
2. La cià impossibile
Ma anche i gesti non compiuti per direa istigazione divina non possono
venir riferiti al controllo di una soggeività unificata, responsabile di
deliberazione volontaria. Nell’uomo omerico, la vita, l’emozione, l’azione
appaiono disaggregati in una pluralità di esperienze non accentrabili
intorno ad un io consolidato, a un complesso psicosomatico unitariamente
governato:
Ed ecco dentro di me, nel peo, lo thymos
con vogliu maggiore si volge a loare e a combaere,
e soo fremono i piedi e sopra le braccia (Il. 13.73 sgg ).
Nota