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Si alzò fra loro l’eroe figlio di Atreo, il potente Agamennone, infuriato.

Le vene
erano gonfie di rabbia terribilmente, gli occhi rosseggiavano di fiamme; subito
guardando storto Calcante gridò: «Indovino di sciagure, mai per me hai predetto un
buon augurio, sempre e solo disgrazie ti è gradito predire: non dici mai una buona
parola, né tantomeno la compi! E adesso in mezzo a tutti i Greci vai blaterando la
profezia che per questa ragione il dio che da lontano saetta dà loro la pestilenza,
per il fatto che io non abbia voluto accettare l’infinito riscatto per Criseide:
molto io desidero averla in casa, davvero la trovo preferibile a Clitemnestra,
benché sia lei la sposa legittima, perché in nulla è vinta da lei, non di bellezza,
di eleganza, di mente, di opere. Ma anche così acconsento a renderla, se questo è a
vantaggio di tutti: io voglio che l’esercito sia in salute e che non muoia.
Tuttavia io voglio un dono subito, preparatelo per me: non io soltanto dei Greci
resti privo del mio bottino, perché non è giusto. Dunque guardate tutti quale altro
dono mi possa saettare». Gli rispose di contro Achille divino dalla veloce corsa:
«Gloriosissimo figlio di Atreo, avido sopra tutti gli altri, come possono darti un
dono i generosi Greci? In nessun luogo ci sono ricchi tesori ancora da spartire:
quelli delle città che abbiamo bruciato, sono stati tutti divisi. Non è giusto che
i guerrieri li mettano di nuovo in comune. Perciò tu cedi ora al dio questa: per
noi Greci tre, quattro volte la riscatteremo se Zeus ci concederà di abbattere la
rocca di Troia dalle superbe mura». Gli rispose il potente Agamennone: «Ah no, no,
Achille, per quanto tu sia valente e pari agli dei, non dissimulare la tua
intenzione, perché io la intendo e non puoi persuadermi. Dunque tu pretendi – tu
che intanto hai il tuo ricco bottino – che io in questo modo me ne lasci privare e
vuoi farmi rendere questa? Ma se mi daranno un dono i generosi Greci, un dono che
si adatti al mio desiderio, sta bene; altrimenti, se non lo daranno, io stesso
verrò a prendermi il tuo, o il dono di Aiace o quello di Odisseo; lo prenderò e lo
porterò via. Eccome se si infurierà colui che avrò raggiunto. Suvvia queste cose
potremo trattare anche dopo: adesso, presto, una nave nera sia spinta nel mare
divino, raduniamo i rematori nel numero giusto e imbarchiamo l’ecatombe, facciamo
salire la figlia di Crise dalle belle guance: uno dei capi consiglieri la guidi:
Aiace, o Idomeneo, oppure il luminoso Odisseo, o anche tu, figlio di Peleo,
tremendo tra tutti gli eroi: che tu ci renda benigno, compiendo questo rito, Apollo
liberatore!». Ma guardandolo torvo Achille dal piede rapido gli disse: «Ah
spudorato, avido di bottino, come può obbedirti volentieri un acheo o marciando o
combattendo contro i guerrieri con forza? Davvero io non sono venuto per i
bellicosi Troiani a combattere qui, perché contro di me nulla hanno fatto: mai
hanno rapito le mie vacche o i miei cavalli, ma hanno distrutto il raccolto a Ftia
dai bei campi, nutrice di eroi, perché ci separano numerose montagne e il mare
rumoroso. Ma te abbiamo seguito, te insolente, perché tu gioissi cercando
soddisfazione per Menelao da parte dei Troiani, per te, brutto cane; e tu a questo
non pensi, non ti tocca minimamente, anzi addirittura minacci che verrai a
togliermi il dono per il quale mi sono sforzato e che mi è stato dato dai figli dei
Greci. Però io non ricevo mai un dono che pareggi il tuo, quando i Greci abbattono
una rocca ben popolata dai Troiani; nonostante il peso maggiore in guerra sia sulle
mie mani; se poi si giunge alle parti, tu hai sempre il dono maggiore. Io, al
contrario, mi porto via alle navi un dono piccolo e assai caro, dopo essermi
sforzato penosamente nella battaglia. Ma ora me ne andrò a Ftia, perché certo è
molto meglio andarsene in patria sopra le navi ricurve. Io non restero qui,
oltraggiato e umiliato, a raccogliere ricchezze per te». Gli rispose allora
Agamennone signore di eroi: «Vattene pure se il cuore ti spinge a farlo: io davvero
non starò qui a pregarti di restare con me, perché con me ci sono già altri a farmi
onore e, soprattutto, c’è il saggio Zeus. E tu se per me il più odioso tra i re
alunni di Zeus: vuoi sempre fare contesa, guerre e battaglie: se tu sei tanto
forte, è solo perché un dio te l’ha concesso! Vattene pure a casa con le tue navi e
i tuoi compagni; torna a regnare sopra i Mirmidoni: non mi importa di te, non temo
la tua ira; anzi dirò questo: siccome Apollo mi porta via Criseide, la rimanderò
con la mia nave, scorata dai miei compagni, mi prenderò al suo posto Briseide dalle
guance graziose, e andrò io stesso alla tenda; sì, è il tuo dono, così saprai
quanto più forte di te io sono, e anche un altro tremi di parlarmi da pari a pari,
o di affrontarmi a viso aperto». Disse così e il dolore si aggrumò in Achille, il
suo cuore nel petto irsuto gli suggeriva due cose: se, sfilando la spada acuminata
via dalla coscia, aizzasse gli altri compagni e ammazzasse l’Atride o se calmasse
l’ira e contenesse il fremito del suo cuore. E mentre si agitava e stava già per
sfilare dalla guaina la sua spada, dal cielo giunse Atena: l’aveva mandata Era
dalle bianche braccia, poiché amava ugualmente di cuore entrambi e di entrambi
aveva cura. Gli stette dietro, per la chioma bionda prese il figlio di Peleo,
visibile solo a lui: nessuno degli altri la vide. Restò sbigottito Achille, si
girò, riconobbe subito Pallade Atena: i suoi occhi lampeggiarono in modo terribile
e rivolgendosi a lei disse parole alate: «Perché sei venuta, figlia di Zeus egìoco?
Forse sei qui per vedere la violenza di Agamennone figlio di Atreo? Io ti dichiaro
e so che questo avrà compimento: per i suoi atti arroganti perderà presto la vita!»
E gli parlò la dea Atena dagli occhi azzurri: «Io sono venuta dal cielo a calmare
la tua ira, se tu mi ubbidisci: mi ha inviato la dea Era dalle bianche braccia, che
entrambi ama e cura ugualmente. Avanti, smetti la contesa, non tirare via la spada
con la mano: ma ingiurialo a parole, dicendo come accadrà; così ti dico, infatti, e
questo avrà compimento: tre volte tanto splendidi doni si offriranno a te un giorno
per questa violenza; per cui adesso trattieniti, e obbedisci». E disse
ricambiandola Achille dal piede veloce: «Dea, è necessario rispettare una vostra
parola, anche chi è molto irato nel cuore: così è meglio: chi obbedisce agli dei, è
ascoltato molto da loro». Così sull’elsa d’argento trattenne la mano pesante,
spinse giù nel fodero la grande spada, non disobbedì alla parola di Atena; lei se
n’era andata verso la casa di Zeus egìoco, con gli altri dei.

trama
In questo brano veniamo a conoscenza della contesa tra Achille e Agamennone: i due
si affrontano su una questione d’onore poiché afferente al loro prestigio di
guerrieri (la areté), cioè il bottino di guerra, la preda, il ghéras. Criseide
deve essere riconsegnata da Agamennone al padre affinché si plachi la pestilenza
punitiva inviata da Apollo all’accampamento greco. Lei è il bottino di guerra di
Agamennone che non vuole restare senza dono. A nulla vale che Achille abbia provato
tranquillizzarlo, dicendogli che è solo questione di tempo e che presto avranno un
bottino altrettanto grande da offrirgli; Agamennone, infatti, ha letto con malizia
le parole di Achille: è solo un modo per sviarlo dal prendersi un dono di altri,
magari proprio il suo.La provocazione di Agamennone colpisce nel segno: Achille
viene obbligato a risarcire Agamennone con la sua schiava Briseide: davanti a tutti
i guerrieri greci vede il suo prestigio subire uno smacco. I due si ingiuriano,
offendendosi con violenza: Achille sottolinea che i suoi guerrieri non sono lì per
vendicarsi dei Troiani, che nulla hanno fatto loro, ma solo per aiutare l’avido
Agamennone a fare bottino e Menelao a vendicare l’offesa di Elena; a queste
condizioni è meglio andarsene.
Agamennone, pur sapendo che perdere Achille sarà un grave danno, non può mostrarsi
debole davanti agli altri eroi greci e acconsente con sarcasmo alle intenzioni del
glorioso guerriero: che se ne vada pure a casa, i Greci possono fare a meno di lui.
È il colmo. Achille sta per assalirlo quando Atena lo ferma, trattenendolo per i
capelli biondi: non è adesso il momento, gli dice.
analisi
Siamo nel primo libro dell’Iliade e in questo passo vediamo affrontarsi Agamennone
e Achille, i quali assomigliano a due giocatori in una stessa squadra di calcio. Il
primo può vantare il prestigio del potere (è un primo tra pari, primus inter
pares), il secondo il potere delle armi, essendo il migliore tra tutti i
combattenti, un semidio. Restando nella metafora calcistica, Agamennone è il
capitano della squadra, Achille è il centravanti. I due litigano e quindi possiamo
dire – restando nella metafora calcistica – che gli Achei hanno seri “problemi di
spogliatoio”, un dissidio all’interno delle loro stesse fila.
Perché la contesa? Agamennone è avidissimo, bramoso di guadagno, desideroso di
rimarcare il proprio potere. Achille crede di avere ascendete su tutti perché
indispensabile dal punto di vista militare: si mostra inizialmente ragionevole e
ricorda ad Agamennone perché si trovano lì: per vendicare Menelao e fare bottino,
niente che lo riguardi personalmente. Agamennone ha trascinato il fiore dei Greci
in un’impresa molto faticosa, forse fallimentare.
Biografia
Come sempre accade in Omero, lo scontro fisico (qui evitato da Atena) è anticipato
dal duello verbale: tutti gli eroi parlano prima di giungere a contesa, si sfidano
apertamente, si ingiuriano. La civiltà greca aveva sempre dato una grande
importanza alla parola – al lògos. I personaggi, infatti, agiscono come combattenti
e come oratori. Le parole sono fugaci, “alate”, quando rivelano; sono pesanti come
incudini quando devono demolire l’avversario: Omero, in questo passo, fa partire le
parole dallo sguardo dei due contendenti infuriati: uno sguardo truce, torvo,
bieco.
Altro elemento tipicamente omerico è il cospicuo uso delle ripetizioni che
conferiscono al passo un ritmo incalzante (ad es. «Indovino di mali, mai per me il
buon augurio / tu dici, sempre malanni t’è caro al cuore predire, / buona parola
mai dici, mai la compisci!»).
Domina il dialogo in discorso diretto con le consuete formule introduttive («Ma
guardandolo bieco Achille piede rapido disse»; «Ma ricambiandolo disse il potente
Agamennone»).

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