Sei sulla pagina 1di 2

A FABIO MASSIMO

Se ti avanzasse, concedi un po’ di tempo al profugo amico,


astro della gente Fabia, Massimo, accostati
mentre dico a te ciò che vedo, o ombra di un corpo
o vera presenza che fosse quella, o sogno.
Era notte e la luna penetrava le bifore finestre
Quanto suole splendere quasi a metà mese.
Il sonno mi aveva, riposo comune dalle fatiche,
E le languide membra in tutto erano state sciolte dal letto.
All’improvviso l’aria inorridì smossa da penne
e la finestra sbattuta/smossa gemette per il piccolo suono.
Essendo spaventato, nel gomito sinistro sollevo le mie membra
E il sonno respinto esce dal inquieto petto.
Stava Amore, non col volto che soleva essere prima,
tenendo/aderendo triste con la mano sinistra le basi d’acero del letto.
Non avendo né collana al collo né diadema ai capelli,
le chiome non bene in ordinate e acconciate come un tempo.
Sull’orrido/severo viso pendevano i morbidi capelli,
e ai miei occhi sembravano orride penne,
come sogliono essere sul dorso dell’aerea colomba
che molte mani hanno toccato per/ad accarezzar. Non appena riconobbi questo (infatti altri a me non è più noto),
Con tali suoni la lingua libera implorò/ si rivolse:
o fanciullo, all ingannato maestro/all maestro sfuggito per l’esilio
che per me non fu più utile aver istruito
anche qui venisti, dove c’è pace in alcun momento ,
e l’Istro barbaro si raccoglie in acque dense?
Per quale motivo a te il viaggio, se non per vedere la nostra sofferenza?
Che, se ignori, ha in odio te./sono ostili - odiose- sgradite a te
Tu per primo mi hai dettato i carmi della gioventù,
quando mi guidasti ad aggiungere i cinque piedi ai sei.
Tu non mi permettesti né di elevarmi nel carme meonio
Né di dire le gesta dei grandi capi.
Forse modeste, tuttavia una specie, arco e fuochi
Hanno ridotto le forze del mio estro.
Infatti mentre cantavo il regno tuo e di tua madre,
la mia mente vagava nel nulla per l’opera grandiosa.
Né ciò fu sufficiente: con uno sciocco poema ho fatto anche
In modo che tu potessi essere meno rude con le mie Artes.
Per queste cose a me misero è stato dato per punizione l’esilio,
questo persino in terre estreme e senza pace.
Eumolpo Chionide però non fu tale con Orfeo,
né col frigio Satiro fu tale Olimpo.
Né Chirone prese tale bottino da Achille,
né, si dice, a Pitagora nocque Numa.
Basta parlare di nomi per lungo tempo raccolti:
solo io mi rovinaiper il mio discepolo.
Dunque ti do le armi, te, lascivo, istruisco,
e il maestro ha questi doni da te discepolo.
Tuttavia lo sai e potresti, avendo giurato, dirlo chiaramente:
io non ho smosso letti legittimi.
Ho scritto queste cose per quelle delle quali non toccano pudichi
I capelli dalle bende né fino ai piedi la lunga stola.
Di’, ti prego, quando imparasti ad ingannare le spose
E a rendere incerta la prole per ordine mio?
Non sono forse respinte rigidamente da questi libelli tutte
(le donne) che la legge impedisce di avere uomini furtivi?
Tuttavia a chi è importante ciò se pensano che abbia composto
Norme di adulterio da severa legge condannato?
Ma tu (così abbia tu saette che colpiscono ovunque,
così mai le torce si svuotino di fuoco rapido,
così regga l’impero e unisca tutte le terre
Cesare, da Enea che a te è fratello tuo),
fa’ che sia non implacabile l’ira verso di me
e che voglia me punito in un luogo più comodo”.
Queste cose sembrò che io dicessi all’alato fanciullo,
questi suoni mi sembrò che egli desse a me:
“Per le mie armi, fiaccole, e per le mie armi, saette,
per mia madre e per la testa di Cesare giuro:
nulla di non concesso io imparai da un maestro come te
e non si trova nessuna colpa nelle tue Arti.
E come questo, magari così potessi difendere il resto:
tu sai, è altro che ti ha rovinato di più.
Sia quel che sia (infatti il dolore, quello, né deve essere riferito
Né puoi dire di mancare dalla tua colpa).
È lecito che tu mascheri il crimine sotto l’immagine dell’errore,
l’ira del vindice non fu più grave del dovuto.
Per vederti, tuttavia, e per consolare te avvilito,
le mie ali sciolte hanno percorso immense vie.
Questi luoghi vidi per primo quando, con mia madre ordinante,
con i miei dardi fu trafitta la fanciulla del Fasi.
Ora tu fai, o amico soldato dei miei castri, in modo che
Dopo lunghi secoli veda ciò di nuovo.
Allora, senza paura: l’ira di Cesare si placherà,
e verrà un’ora più tenera per i tuoi voti.
Ecco il tempo che cerchiamo, affinché tu non tema indugi,
e il trionfo avrà tutte le cose piene di letizia.
Ora che a casa sia i figli sia la madre Livia gioiscono,
ora che gioisci tu, grande padre della patria e dell’eroe,
ora che il popolo si compiace e per tutta l’Urbe
ogni ara brucia profumi infuocati,
ora che il tempio venerabile offre facile accesso,
è giusto sperare che le nostre preghiere possano valere.
Disse, e o quello si dissolse nell’aria tenue
O i miei sensi ripresero a vigilare.
Se dubitassi che tu appoggi le parole, o Massimo,
reputerei i cigni essere del colore di Memnone.
Ma né il latteo umore muta in nera pece,
né l’avorio candido che era si fa terebinto.
Il tuo casato è conforme all’animo tuo: infatti hai un cuore
Nobile e schietto come quello di Ercole.
L’invidia, vizio inerte, non cresce in caratteri alti,
come vipera si nasconde e striscia sottoterra.
La tua stessa mente si leva sublime sopra la stirpe,
né a te è il nome più grande dell’ingegno.
Altri allora nuocciano ai miseri e vogliano essere temuti,
e portino frecce intinte di fiele mordace:
ma il tuo casato è avvezzo a dare aiuto ai supplicanti,
e nel numero dei quali voglia tu che io faccia parte, ti prego.

Potrebbero piacerti anche