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Ad Artemide
non è cosa lieve per i poeti dimenticarla
Cantiamo un inno, a lei che ama l’arco e la caccia alle lepri
E il vasto coro e il giocare sui monti. Cominceremo
da quando una volta, seduta sulle ginocchia del padre,
ancora bambina, così si rivolse al genitore:
“Dammi Babbo di conservare per sempre la verginità
E molti nomi, affinchè Febo non mi superi;
dammi frecce e arco- no padre no, la faretra
e il grande arco non te li chiedo: a me subito i Ciclopi
forgeranno i dardi, a me l’arco ricurvo; fa invece
che io porti la fiaccola e indossi un chitone frangiato,
lungo fino al ginocchio, per cacciare le fiere selvagge.
E dammi compagne di danza sessanta Oceanine
Tutte di nove anni, tutte bambine ancora senza cintura,
dammi ancora perché siano mie ancelle, venti Ninfe amnisie
che si curino dei miei calzari e dei cani veloci,
quando da caccia a linci e cervi farò ritorno.
I monti dammeli tutti. Le città delle donne visiterò
solo quando le donne, provate da acuti dolori del parto,
Invocheranno il mio aiuto
Poiché mia madre non patì alcuna pena nel portarmi e nel darmi alla luce.
Così disse la bimba e voleva toccare la barba del padre
Ma invano protese più volte le mani
Per afferrarla; sorrise il padre e annuì, poi disse
Accarezzandola: ”Se le dee mi partorissero sempre creature
come questa, ben poco mi curerei della stizza, della gelosia
di Era! Prendi pure figlia, quello che chiedi, tuo padre aggiungerà altre cose.