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Da Callimaco.

Artemide e suo padre Zeus

Ad Artemide
non è cosa lieve per i poeti dimenticarla
Cantiamo un inno, a lei che ama l’arco e la caccia alle lepri
E il vasto coro e il giocare sui monti. Cominceremo
da quando una volta, seduta sulle ginocchia del padre,
ancora bambina, così si rivolse al genitore:
“Dammi Babbo di conservare per sempre la verginità
E molti nomi, affinchè Febo non mi superi;
dammi frecce e arco- no padre no, la faretra
e il grande arco non te li chiedo: a me subito i Ciclopi
forgeranno i dardi, a me l’arco ricurvo; fa invece
che io porti la fiaccola e indossi un chitone frangiato,
lungo fino al ginocchio, per cacciare le fiere selvagge.
E dammi compagne di danza sessanta Oceanine
Tutte di nove anni, tutte bambine ancora senza cintura,
dammi ancora perché siano mie ancelle, venti Ninfe amnisie
che si curino dei miei calzari e dei cani veloci,
quando da caccia a linci e cervi farò ritorno.
I monti dammeli tutti. Le città delle donne visiterò
solo quando le donne, provate da acuti dolori del parto,
Invocheranno il mio aiuto
Poiché mia madre non patì alcuna pena nel portarmi e nel darmi alla luce.
Così disse la bimba e voleva toccare la barba del padre
Ma invano protese più volte le mani
Per afferrarla; sorrise il padre e annuì, poi disse
Accarezzandola: ”Se le dee mi partorissero sempre creature
come questa, ben poco mi curerei della stizza, della gelosia
di Era! Prendi pure figlia, quello che chiedi, tuo padre aggiungerà altre cose.

Omero Iliade (XXI, 461 sgg.)


E gli rispose il sire Apollo:
“Poseidone, tu sano di cervello non mi diresti
Se combattessi con te per dei mortali
Meschini, simili a foglie, che adesso
Crescono in pieno splendore, mangiando il frutto del campo,
e fra poco imputridiscono esanimi, presto,
lasciamo la lotta: combattano soli!”
Dicendo così si voltò indietro: ché non osava
Di venire alle mani col fratello del padre.
Ma acerba lo rimbrottò la sorella, signora delle belve,
Artemide selvaggia, gli disse parola di scherno:
“Ah fuggi fratello e a Poseidone vittoria
Intera lasci e vanagloria concedi.
Sciocco, e perché porti quell’inutile arco?
Bada che io non ti senta più nella casa del padre
Vantarti come in passato tra i numi mortali
Che Poseidone sapresti affrontare in duello!”.
Disse così, non parlò Apollo,
ma irata la veneranda sposa di Zeus
rimbrottò l’Urlatrice con parole ingiuriose:
“Come, cagna sfrontata, tu osi metterti
Contro di me? Ardua è la mia forza a sostenersi
Anche se porti l’arco perché leonessa alle donne
Ti fece Zeus, ti concesse di uccidere quella che vuoi.
Va. È meglio ammazzare le fiere sui monti
E le cerve selvagge, che lottare coi più forti,
Ma se vuoi, conosci la guerra, per ben sapere
Quanto io ti supero, tu che con me vuoi misurare la forza”.
Disse, e le mani le afferrò al polso
Con la sinistra, e con la destra l’arco strappò dalle spalle
E sorridendo si mise a colpirla agli orecchi con esso,
mentre l’altra si rivoltava; caddero a terra le frecce veloci.
Piangendo riuscì a sfuggirle la dea, come colomba
Che sfugge al nibbio e vola alla roccia incavata,
al covo: non era destino che fosse presa.
Così ella fuggì piangendo, e abbandonò l’arco,
il Messaggero allora, Ermos, parlò a Latona:
“Latona, io non voglio certo lottare con te: troppo duro
Battersi con le spose di Zeus che le nubi raduna.
E tu piena di gioia in mezzo ai numi immortali
Vantati che m’hai vinto con la forza selvaggia”.
Disse così, e Latona raccolse l’arco ricurvo
E le frecce cadute in una nube di polvere.
E tornò indietro, raccolto l’arco della figliola,
che intanto giunse all’Olimpo, alla soglia di bronzo di Zeus;
piangendo sulle ginocchia del padre sedette la vergine,
e le tremava intorno la veste ambrosia: il padre
Cronide l’attirò sé, le chiese dolce ridendo:
“Chi t’ha fatto questo, creatura mia, fra i celesti,
a torto, quasi che tu avessi fatto del male alla vista di tutti?”
E gli rispose l’ urlatrice, bella corona:
“La sposa tua m’ha colpito, padre, Era braccio bianco,
per cui in mezzo ai numi litigio e lotta s’attaccano”.
Così dicevano queste cose tra loro.
E Febo Apollo intanto penetrò in Ilio sacra,
gli stava a cuore il muro della sacra città
che non lo atterrassero quel giorno i Danai contro il destino.
Infuria la battaglia i Teucri aprono le porte per accogliere i guerrieri in fuga.
E pronto Apollo ne balzò fuori ad evitare la rovina ai Teucri.
Febo Apollo spronò il glorioso Agènore,
perfetto e potente. Gli gettò in cuore coraggio, gli stette vicino lui stesso
dalle pesanti mani della morte a salvarlo,
appoggiato alla quercia: ma era nascosto da molta nebbia.
Mosse il Pelide Achille su Agènore pari agli dei
Ma Apollo non gli permise di acquistar gloria,
glielo rapì, lo coperse di nebbia,
lo guidò a ritornare salvo dalla lotta.
Intanto con un inganno allontanò dal suo popolo Achille,
simile in tutto ad Agènore gli stette davanti,
e quello balzò coi piedi a inseguirlo.

E quando alla fine è sazia, l’arciera cacciatrice,


e ha rallegrato l’animo, distendendo il flessibile arco
si reca alla dimora maestosa del fratello,
Febo Apollo, nelle pingui contrade di Delfi
Per guidare la bella danza delle Muse e delle Grazie.
Ivi depone l’arco ricurvo e le frecce,
e, splendidamente adorna, conduce la danza
segnando il ritmo,levando la voce divina, le fanciulle
cantano Leto dalle belle caviglie, come generò i suoi figli
eccelsi fra gli immmortali er la saggezza e le imprese.
Salve figli di Zeus e di Leto dalle belle chiome:
io mi ricorderò di voi, e di un altro canto ancora.
Omero, Inno ad Artemide

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