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INTRODUZIONE ALL’AUTORE
Italo Svevo (pseudonimo di Ettore Schmitz) è una singolare figura di scrittore clandestino, che ha
vissuto a lungo l'attività letteraria come una specie di colpa sociale, oltre che come una difficile
conquista. Circondato da impiegati nel commercio e nell'industria e avviato fin da ragazzo agli studi
commerciali, pratica la letteratura come una sorta di "secondo mestiere", esercitato quasi di nascosto e
con fatica linguistica, nei margini di tempo lasciati liberi dal lavoro di impiegato di banca prima, di
dirigente industriale poi. Dopo i primi due romanzi, pubblicati a sue spese e accolti con totale
indifferenza della critica e dal pubblico, Svevo si costringe al silenzio letterario per venticinque anni, al
fine di non usare energie nella letteratura più che in diligenti affari. Pubblica il suo terzo romanzo a più
di sessant'anni, sempre a proprie spese, e ottiene infine il riconoscimento della critica grazie alla
segnalazione dello scrittore irlandese James Joyce, suo insegnante di inglese e amico. Fa appena in
tempo a gustare il tardivo successo e la legittimazione pubblica della propria passione letteraria perché
muore all'improvviso, a sessantasette anni, per le conseguenze di un incidente stradale.
LA PERSONALITÀ DELL’AUTORE
L'esistenza di Svevo è caratterizzata dal contrasto tra l'essere e l'apparire, in particolare, tra i dubbi della
propria coscienza e la volontà di conformarsi alle certezze altrui, tra il desiderio e la necessità. Sempre
incerto e inquieto, desideroso di compiacere gli altri e di aderire a un'immagine sicura e forte di sé,
Svevo trascorre la vita a imboccare vie che vorrebbe definitive e non lo sono, incapace di adeguarsi
davvero al mondo e di rinunciare all'analisi insistente di sé, degli altri e della realtà.
LA VITA
Ettore Schmitz nasce a Trieste nel 1861, l'anno dell'Unità d'Italia, ma a quel tempo la città appartiene
all'Impero austro-ungarico. Per l'importanza portuale della città spesso viene accolta una popolazione di
provenienza etnica, culturale e religiosa molto varia. A Trieste è possibile trovare affacciate sulla stessa
via una chiesa cristiana, una moschea e una sinagoga; la comunità ebraica in particolare è numerosa e
occupa posizioni rilevanti nel piccolo e grande commercio. Infatti Ettore proviene da una famiglia di
ebrei “assimilati" (cioè non rigorosamente osservanti) e sposerà una donna ebrea convertita alla
religione cristiana, mantenendo per tutta la vita una sostanziale indifferenza religiosa.
L'ambiente economico della città condiziona la sua formazione: suo padre ha una fabbrica di vetrami e
nella sua famiglia gli affari sembrano essere un destino inevitabile; Ettore e i suoi fratelli sono avviati a
studi tecnici e frequentano in Germania una scuola di avviamento al commercio. Le difficoltà della
fabbrica paterna, che chiuderà nel 1884, impongono che i figli trovino rapidamente un lavoro. Il lavoro
impiegatizio è grigio e noioso; all'uscita dall'ufficio il giovane corre alla polverosa biblioteca civica
della città dove trascorre tutto il tempo libero, e scrive recensioni di libri per il giornale triestino
"Indipendente".
LETTERATURA / COMMERCIO
Fin dall'adolescenza Svevo riconosce in sé una passione profonda e istintiva per la letteratura. Il primo
ambito del suo interesse è il teatro, a cui si dedica inizialmente come spettatore, poi come commentatore
di spettacoli sui giornali di Trieste e per tutta la vita come autore; scrive diverse commedie e
numerosissimi abbozzi, ma la sua attività di commediografo resta secondaria e minore. Nonostante
l'amarezza per il fallimento letterario, la letteratura resta presente in lui come sogno e tentazione segreta;
egli la nega con uno sforzo della volontà ma prova al contempo un senso di colpa e tradimento
nell'abbandonarla, come confessa in una lettera alla moglie del 26 maggio 1898:
«Forse se arrivo alla vecchiaia avrò tempo di pentirmene sentendo di avere offesa la mia intima natura
mancando al compito a cui per 38 anni mi credetti nato». Per venticinque anni Svevo non pubblica
nulla; soltanto allo scoppio della Prima guerra mondiale, trovandosi senza lavoro, inizia il suo terzo
romanzo, La coscienza di Zeno (1923), e lo conclude rapidamente, come spinto da una necessità
interiore: «Non c'era possibilità di salvarsi. Bisognava fare quel romanzo».
Ma anche negli anni in cui Svevo si impone di rinunciare al mestiere di scrittore la letteratura resta una
necessità invincibile ed egli continua a comporre novelle, abbozzi teatrali, racconti, favole, pagine di
diario.
Per sfuggire alla tentazione di scrivere egli decide di riprendere a suonare il violino, che aveva studiato
da ragazzo. Accanto al violino, sono le sigarette a costituire per lo scrittore frustrato una specie di
oggetto sostitutivo: Svevo è un fumatore accanito fin dall'adolescenza e nonostante dichiari
ripetutamente la propria intenzione di smettere non riuscirà mai a rinunciare al piacere momentaneo e
colpevole che ricava dal fumo.
Assai significative a questo proposito sono le lettere indirizzate alla moglie Livia, che rappresenta ai
suoi occhi la personificazione della solidità borghese. È evidente che la giovane donna è a suo agio nella
vita e si muove con sicurezza e soddisfazione tra le incombenze quotidiane: Svevo è combattuto tra il
desiderio di somigliarle e la coscienza della propria differenza intellettuale, arrivando persino a
dichiararle il proprio timore che il contatto con la sua tranquilla fiducia possa indurlo alla stupidità.
LA VITA MATRIMONIALE
Svevo si sposa a trentacinque anni, subito dopo la morte della propria madre (cioè quando non si sente
più assoggettato all'autorità della famiglia d'origine), e si avvia a compiere una scelta prudente e
assennata: la cugina Livia potrebbe garantire all'inquieto scrittore una sistemazione tranquilla e sicura.
Tuttavia i dubbi lo tormentano quasi subito. Livia ha tredici anni meno di lui ed è molto più ricca; nei
suoi confronti egli prova un senso di inferiorità economica (almeno fino a quando non viene assunto
nell'industria del suocero) e una tormentosa gelosia, nei momenti in cui erano costretti a separarsi, Svevo
le scrive lettere ansiose, in cui manifesta disappunto per i vestiti eleganti indossati da lei in sua assenza o
perché non l'ha trovata in casa durante una telefonata. Persino quando nasce la figlia Letizia, nel
settembre 1897, egli teme che quella nascita gli sottragga una parte delle attenzioni della moglie.
Nei confronti di Livia Svevo tenta inizialmente un'opera di "educazione", cercando di renderla adatta a
lui perché gli offra il sostegno di cui ha bisogno, ma anche in questo caso il suo proposito fallisce: la
donna con cui egli aveva inizialmente sperato di condividere i propri sogni letterari si rivela presto
estranea a quegli interessi, evita accuratamente ogni discussione e preferisce indirizzare il discorso sugli
argomenti della vita pratica.
Nonostante questo, il rapporto coniugale è spesso fatto di momenti leggeri e affettuosi; Svevo la prende
bonariamente in giro, chiamandola "mia buona e vecchia capra" o "bonbon", e si aggrappa al suo buon
senso pratico nascondendo le proprie paure e debolezze dietro l'ironia, lo strumento a cui ricorre per
reagire alle difficoltà della vita. Ad esempio, Svevo scrive una serie di lettere dove le promette
ripetutamente di smettere di fumare (ogni volta alle quattro precise, l'ora in cui era morto il proprio
padre) e chiama la moglie a testimone dei suoi irrealizzati propositi.
Quando esce La coscienza di Zeno, nel 1923, la critica accoglie il romanzo con la consueta freddezza.
Demoralizzato dal nuovo insuccesso, Svevo decide di reagire; invia una copia del romanzo a Joyce, che
si trova a Parigi e che elogia largamente il romanzo. Da quel momento Joyce, che dopo la pubblicazione
dell'Ulysses ha raggiunto la fama, si mette in moto, divulgando il romanzo di Svevo tra gli studiosi
francesi, che propongono di pubblicarne una traduzione. Anche i letterati italiani del circolo "Il
Convegno", tra i quali c'è il giovane poeta Eugenio Montale (che in seguito pubblicherà un articolo
‘’omaggio a Italo Svevo’’), sono messi in allerta dalla promozione compiuta da Joyce.
SVEVO LETTERATO
Svevo reagisce al tardivo successo con un entusiasmo e uno stupore infantili (egli stesso si definisce
«un bambino di 64 anni»). Finalmente la letteratura diventa per lui una pratica socialmente autorizzata, e
lo scrittore ha fretta di ripubblicare le sue opere e di scriverne di nuove. Il tema dei suoi nuovi lavori è
soprattutto la vecchiaia: i protagonisti sono uomini anziani che osservano la vita con saggezza e ironia,
mantenendo intatti i loro desideri ma senza alcuna prospettiva futura. Tra le tante opere iniziate in questi
anni e non finite figurano le cosiddette "continuazioni" della Coscienza di Zeno, che avrebbero dovuto,
nelle intenzioni dell'autore, costituire un nuovo romanzo. Intanto scrive alcuni articoli e tiene conferenze
in omaggio all'amico Joyce e alle sue opere. Nonostante il successo letterario, rimane invariata l'altra
identità di Svevo, quella dell'uomo d'affari, che mantiene notevole anche nei suoi rapporti letterari.
L’INCIDENTE
Il 12 settembre 1928, tre anni dopo la clamorosa scoperta della sua opera, Svevo subisce insieme con la
moglie e il nipotino un incidente stradale a Motta di Livenza, nei pressi di Treviso. Ricoverato in
ospedale, si aggrava rapidamente per complicazioni cardiache probabilmente indebolito anche
dall’abuso di fumo. Il giorno dopo l'incidente Svevo muore; alla figlia piangente di fronte al suo letto ha
ancora la forza (e l'ironia) di rivolgere in dialetto un conforto affettuoso "Non piangere Letizia, non è
niente morire!".
La poetica
I RIFERIMENTI CULTURALI DI SVEVO
Svevo, che sin dalla giovinezza manifesta una viva curiosità culturale, si sente attratto dai filosofi
moderni che sottopongono a giudizio critico le certezze generalmente condivise sull'uomo e sul mondo
(autori come Marx, Nietzsche e Freud, i cosiddetti «maestri del sospetto») che con le loro teorie hanno
contribuito a demolire le basi delle verità considerate fino ad allora indiscutibili. Questi pensatori hanno
in comune la convinzione che le scelte morali dell'uomo non siano libere e che esista una struttura
profonda della realtà di cui l'io non ha coscienza: essi affermano cioè che all'individuo spesso sfugge la
piena comprensione del mondo a causa di condizionamenti (sociali, economici, psicologici ecc.) di cui
egli stesso non è consapevole. Occupano un posto importante nell'orizzonte filosofico di Svevo anche
Arthur Schopenhauer e Charles Darwin, dai quali lo scrittore tra l'idea che la realtà sia una spietata lotta
per la vita, in cui è destinato a prevalere l'individuo più "adatto" (lottatori si affermano sui
contemplatori, la specie più debole viene sopraffatta da quella più forte).
CRISTALLIZZARSI O EVOLVERSI
L’influenza avuta da queste teorie filosofiche sfocia in una serie di frammenti di datazione incerta da cui
si può ricavare una concezione dell'uomo che si ispira a quella Darwiniana, ma che giunge a conclusioni
del tutto originali. Per Darwin gli individui più sviluppati e forti rappresentano il segno del
perfezionamento della specie, mentre Svevo ritiene che il potenziamento delle qualità che
«immediatamente servono alla lotta per la vita» sia da considerarsi piuttosto un arresto dello sviluppo,
perché coloro che hanno raggiunto la forza e la supremazia cessano di evolversi ulteriormente e si
cristallizzano in una forma fissa. Migliore è la condizione di chi - e qui Svevo mette in campo se stesso -
resta indeterminato e aperto, e perciò sempre disponibile a modificarsi in diverse direzioni, sapendo di
«non essere altro che un abbozzo».
Con il termine «abbozzo», privo di connotazioni negative, Svevo si riferisce qui alla figura dell'inetto
(parola solitamente connotata in senso dispregiativo), cioè a colui che è in-aptus, inadatto alla vita,
incapace di inserirsi nel mondo in una posizione ben definita, come sono i protagonisti dei suoi tre
romanzi e come egli stesso sente di essere. Ecco dunque che in questa riflessione Svevo rovescia l'idea
generalmente condivisa dell'inetto, mostrando di credere che il punto più alto dell'evoluzione di una
specie non sia l'individuo più adattato e apparentemente più forte, ma quello che conserva in sé la
disponibilità al cambiamento.
Non si può infatti risolvere il conflitto tutto contro tutti tramite progresso o alternative; l'unico elemento
che gli appare estraneo alla lotta (e quindi emarginato dal mondo) è l'inetto, cioè colui che non si adatta
alla logica del profitto e rimpiange la vita autentica, prima delle nuove tecnologie e delle degenerazioni
della civiltà. L’evoluzione di questa figura approderà a un ruolo di resistenza e sorda opposizione al
mondo esistente.
LA FIGURA DELL'INETTO
Scegliendo l'inetto come protagonista dei propri romanzi, Svevo respinge i due modelli di personaggio
più diffusi nella narrativa del suo tempo: l'inetto dei romanzi di Svevo non assomiglia né al superuomo
di Gabriele d'Annunzio, la cui diversità dagli altri consiste nella presunzione di forza e superiorità, né ai
vinti di Giovanni Verga, la cui sconfitta è dovuta a cause sociali e umane ben riconoscibili; si tratta
invece di un uomo dubbioso e inerte, privo di coerenza interiore, le cui scelte hanno ragioni difficili da
individuare. Il lettore, costretto ad assistere alle simulazioni e alle bugie di un personaggio che cerca
costantemente di assolvere se stesso, non è infatti mai in grado di individuare con certezza le cause delle
sue azioni.
Notiamo infatti una affinità nell’inettitudine alla vita propria dei tre personaggi dei suoi romanzi,
personaggi ricchi di una natura riflessiva e intellettuale: Alfonso Nitti (Una vita), Emilio Brentani
(Senilità) e Zeno Cosini (La coscienza di Zeno), che lui considera fratelli. Essi vorrebbero assomigliare
a coloro che affrontano l'esistenza con sicurezza e determinazione ma appaiono incerti e paralizzati,
incapaci di realizzare le proprie ambizioni e privi di doti spiccate in nessun campo; avvertono la propria
superiorità culturale, ma non riescono a trasformarla in supremazia, e assistono al contrario
all'affermazione vittoriosa nel mondo da parte di coloro che non si pongono domande e sanno sempre
che cosa sia giusto fare.
LA FIGURA DELL'ANTAGONISTA
Il personaggio che ha la funzione di fare emergere i limiti dell'inetto è l'antagonista, cioè il tipo umano
perfettamente adattato alla società borghese, di fronte al quale l'inetto si sente inadeguato e inferiore,
cercando inutilmente di assomigliargli. Questa figura risulta vincente nella competizione per conquistare
la donna desiderata ma che rivela una sostanziale mediocrità: è un individuo banale, del tutto incapace di
applicarsi alla riflessione e all'autocritica, che sono le qualità peculiari dell'inetto.
Oltre al rivale in amore si trovano nei romanzi anche altre figure di antagonisti maschili, ugualmente
energici e conformisti, come i padri, i fratelli, i suoceri, i medici, caratterizzati tutti dall'abilità pratica e
dall'istinto di potenza e sopraffazione.
Nonostante Svevo riconosca il ruolo rivestito dalla teoria di Freud nell'elaborazione della Coscienza di
Zeno il romanzo viene considerato del tutto estraneo all'ortodossia freudiana; questo non fermerà però
l’autore dal sottolineare il proprio ruolo pionieristico nell'impiego della psicoanalisi in letteratura,
specialmente in Italia.
PSICOANALISI E SCRITTURA
L'andamento analitico della scrittura di Svevo è ben riconoscibile già prima del suo incontro ufficiale
con la psicoanalisi. Nei primi due romanzi la narrazione è condotta in terza persona, ma al centro del
racconto c'è un personaggio che percorre avanti e indietro le ramificazioni della propria psiche, pensa,
sente, sogna, si contraddice, non è mai sicuro di sé, mai pacificato. Il lettore fatica a identificarsi con il
protagonista perché il narratore lo mette di fronte ai suoi ripetuti autoinganni, mostrando lo stato
instabile e contraddittorio della sua coscienza. Questa situazione si radicalizza nel terzo romanzo in cui
la parola è affidata direttamente al protagonista, e il lettore perde ogni punto di riferimento stabile per
dare credito o no al suo racconto.
Una vita
LA STORIA DEL TESTO
Svevo pubblica ‘’Una vita nel 1892" ma inizia a scrivere il romanzo cinque anni prima, mosso da vive
speranze letterarie. Dopo il rifiuto di pubblicazione da parte dell'editore Treves, che lo ritiene poco
invitante per il pubblico, lo scrittore lo affida a proprie spese all'editore Ettore Vram, con la
pubblicazione di mille copie, modificando il titolo originale, che sarebbe dovuto essere ‘’Un inetto",
poiché il protagonista si mostra inadatto a vivere e ad adattarsi alla vita stessa. Il romanzo ottiene
scarsissima attenzione dalla critica e dai lettori.
LA TRAMA
A ventidue anni, per alcune difficoltà economiche, Alfonso Nitti è costretto a lasciare il paese in
campagna dove vive con la madre per trasferirsi a Trieste; li si impiega presso la banca Maller e conduce
una vita grigia da impiegato, sognando tuttavia di riuscire a realizzare i suoi sogni letterari.
In città Alfonso affitta una camera presso la famiglia Lanucci, piccolo-borghesi poveri che aspirerebbero
a fargli sposare la figlia Lucia, una ragazza a cui il giovane dà lezioni di lingua italiana, che considera
priva di particolari qualità. Le sue ambizioni di letterato gli aprono l'accesso al salotto della bella
Annetta, la figlia del banchiere Maller, con la quale Alfonso inizia una relazione.
Per sedurla egli accetta la sua proposta di scrivere un romanzo insieme con lei, ma ben presto deve
constatare che le idee letterarie della ragazza sono ordinarie e scadenti, dirette a ottenere il successo
commerciale dell'opera più che ad assicurarne il valore estetico. Comprende quanto le aspettative di una
affinità letteraria valgono poco, e non perde l’occasione per riconoscere i limiti altrui. Tuttavia la
relazione procede finché Alfonso, dopo avere avuto un primo rapporto sessuale con Annetta, si rende
conto del proprio disinteresse per lei; quando la ragazza gli propone di allontanarsi due settimane da
Trieste per darle modo di affrontare il proprio padre e proporgli un matrimonio riparatore, Alfonso torna
al suo paese e vi si trattiene molto più a lungo del previsto.
Egli infatti trova a casa la madre gravemente malata e dopo la sua morte si ammala anche lui,
trattenendosi lontano da Trieste per un mese e mezzo senza dare ad Annetta spiegazioni adeguate; al suo
ritorno in città egli apprende che la ragazza si è fidanzata con il cugino Macario, un giovane energico e
volitivo, ben determinato a promuovere la propria ascesa sociale. Egli dirà ad Alfonso che ‘’Se uno
nasce senza ali non può volare’’ consigliandogli quindi di rassegnarsi a una condizione dalla quale non
può in effetti emergere.
É proprio quando rivede Annetta fidanzata, che lui capisce di amarla; questa vicenda è l’ennesima
conferma del suo arrivare sempre tardi ed è proprio a causa del mancato perseguimento di un obiettivo,
questo perché lui non ha in realtà alcun reale obiettivo. In più, Alfonso subisce un declassamento del
proprio ruolo in ufficio e viene accusato dai Maller di avere tentato di ricattarli. Egli chiede allora ad
Annetta un incontro per scagionarsi dalle accuse, ma all'appuntamento viene il fratello di lei, che lo sfida
a duello. Alfonso si sottrae anche a questo estremo confronto e senza scrivere ad Annetta alcuna lettera
di spiegazioni si suicida. Il suicidio è rappresenta in realtà l’unico momento della sua esistenza nella
quale prenderà le redini della sua stessa vita: lo farà proprio per distruggerla.
Del resto la madre stessa non incoraggia il figlio all'indipendenza, anzi non perde occasione per
sottolineare come la sua partenza dal paese abbia gravato la sua situazione. Per sentirsi di nuovo
innocente agli occhi materni, Alfonso dissimula allora i suoi sentimenti per Annetta e rinnega il proprio
amore, ma la madre non si lascia ingannare e ammonisce il figlio con gelosia tirannica.
Dunque, assai prima che Freud pubblichi le sue opere e Svevo possa leggerle, il romanzo mette in scena
una situazione a cui l'analista viennese avrebbe presto dedicato una prolungata attenzione: il blocco della
maturazione sentimentale e sessuale di un figlio condizionato da un rapporto morboso e ossessivo con la
madre. In questo senso il suicidio finale di Alfonso può essere interpretato come una rinuncia alla lotta
ma anche come una regressione patologica: egli infatti, incapace di reagire all'emarginazione subita
dagli altri e privo ormai di ogni rifugio affettivo, realizza con la propria morte non soltanto la fuga da
una competizione per il successo che si sente incapace a sostenere, ma anche il desiderato
ricongiungimento con la figura materna.
Un emblematico esempio si mostra nel capitolo diciassette, in cui si descrive lo stato d'animo di Alfonso
di fronte all'ostilità dei colleghi dopo il suo ritorno al lavoro: