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VITA DI UN CHIMICO SCRITTORE

1) GLI ANNI DELLA FORMAZIONE


Primo Levi nacque a Torino nel 1919; il padre era laureato in ingegneria, fu lui a trasmettergli
l’interesse per le scienze e una buona dose di curiosità per il sapere. La madre sarebbe sopravvissuta
al figlio. Abbiamo più informazioni sul rapporto di Levi con il padre che con la madre; il motivo è
molto semplice ed è dovuto alla perdita del padre in anni giovanili. La figura del padre viene
inserita in una duplice cornice: quella della Torino positiva di fine 800 e primo 900 e quella della
cultura ebraica piemontese.
Più artificiosamente costruita è l’immagine del padre che esce dalle pagine di Argon, il racconto
sugli antenati ebrei piemontesi che apre il Sistema periodico. Questo racconto sulle proprie radici fu
lentamente messo a punto da Levi per costruire un’immagine divertita e umoristica dei propri
antenati. Perchè occorre ricordare che Levi, notoriamente conosciuto come il testimone del Lager, è
stato anche uno scrittore pervaso da una profonda vena umoristica. La descrizione del padre che
emerge da Argon è una descrizione umoristica e bonaria.
La consapevolezza di essere cresciuto in una società trilingue, dove dal dialetto piemontese si
affiancano due lingue imposte in modo diverso, l’italiano e l’ebraico. Levi giungerà a interpretare
questo plurilinguismo attraverso la metafora degli strati geologici: le lingue si sovrappongono
appunto come livelli geologici in uno stesso territorio e nelle anime di quelle persone che lo
abitano.
Benché proveniente da genitori ebrei, Levi non vive questa come una diversità nella sua infanzia e
adolescenza; non presenta mai se stesso alle prese con i problemi della fede e della religione.
Il problema dell’appartenenza religiosa non sembra essere per Levi un problema, non rappresenta
una diversità culturale al tempo dell’adolescenza. Piuttosto presenta se stesso negli anni
dell’adolescenza sempre alle prese con il problema della conoscenza, della spiegazione scientifica
delle cose. La ricerca delle spiegazioni scientifiche per la sua formazione ha avuto il sopravvento su
una spiegazione religiosa della vita.
Frequenta il liceo classico. La solida preparazione umanistica ricevuta, il severo metodo di studio
che imponeva serietà e onestà con se stessi, furono in certo modo anche per la generazione
successiva dei deterrenti contro la propaganda e la retorica fasciste. Di questa educazione
impartitagli nel ginnasio e nel liceo rimarranno tracce evidenti nella sua scrittura, in particolare nel
costante riferimento di Dante e a Manzoni, o nei richiami a poeti classici come Pindaro e Orazio, a
poeti italiani come Leopardi. Anche quando partirà per la sua prima esperienza in fabbrica a
Milano, porterà con sé quell’eredità, ma volta verso la sperimentazione linguistica e letteraria, come
di chi ha voglia di intraprendere la carriera dell’esploratore. Folengo e Rabelais si aggiungeranno
alle letture liceali.
Ma la propria spiegazione del mondo poteva realizzarsi soltanto attraverso lo studio della materia;
fu questa convinzione a spingerlo nell’autunno del 1937 a iscriversi alla facoltà di chimica
all’università di Torino.

2) LA SCOPERTA DELLA CHIRALITÀ


Nel 1938, l’anno successivo all’iscrizione, il fascismo promulgò le leggi razziali: tra le altre cose,
veniva proibito agli ebrei di iscriversi all’università; fortunatamente per Levi, chi era già iscritto
poteva terminare gli studi. Fu questo un periodo di acceso fervore intellettuale per Lev. Furono
proprio le leggi razziali a far prendere coscienza del proprio essere ebreo, di aver dietro alle spalle
una cultura che aveva teso a dimenticare. Sono gli anni in cui restituirà con uno sguardo tra l’epico
e l’ironico nel Sistema periodico del 1975 e che vede centrali nella sua formazione. Con molta
difficoltà riuscì a trovare un professore col coraggio di assegnare, a lui, ebreo, una tesi di laurea che
le leggi ostacolavano. Riuscì a discuterla nel 1941 e ottenne il massimo dei voti con la lode.
Una proposta di lavoro clandestino lo portò a cercare di estrarre nichel nella cava di amianto di
Balanghero. Questa prima esperienza lavorativa gli consentì di approfondire la sua analisi delle
persone con cui veniva in contatto e che nelle lunghe sere passate alla cava scrisse i suoi primi
racconti. La sua vocazione a diventare scrittore nacque prima di Auschwitz e la prima realizzazione
dei racconti Piombo e Mercurio verrano inclusi e opportunamente rivisti nel Sistema periodico.
Dopo il fallimento della ricerca del nichel, Levi accettò un impiego a Milano presso una fabbrica
svizzera di medicinali.

3) LA CENSURA DI AUSCHWITZ
Nel luglio 1943 Mussolini viene arrestato. Levi, che ha stretto legami con attivisti antifascisti,
decise di entrare nella Resistenza e si unisce a un gruppo partigiano attivo in Valle d’Aosta. La
mattina dicembre del 1943 viene catturato dai fascisti. Dopo un breve periodo di detenzione,
affermò di essere di razza ebraica e per questo motivo venne inviato al campo di raccolta di Fòssoli.
Furono deportate anche le amiche Vanda Maestro, con il quale Levi ebbe una relazione amorosa e
Luciana Nissim. I prigionieri pensavano di arrivare a un campo gestito da italiani, ma il comando
era stato appena assunto dalle SS. Quella sorta di limbo durò un mese, in seguito i 650 ebrei furono
deportati verso la Germania. Vennero trasferiti in pullman e lì avvennero le prime percosse, gli
ordini in tedesco che non venivano compresi e l’operazione di stipare 650 persone in dodici vagoni
adibiti al trasporto merci.
Il viaggio durò 4 giorni e 4 notti tra le persone ammassate nei vagoni, senz’acqua ne servizi igienici.
Il treno arrivo ad Auschwitz nel febbraio 1944; uomini e donne furono subito divisi. In ogni gruppo
fu fatta una scelta sommaria: alcuni a destra, altri a sinistra e così per le donne. Levi venne poi a
sapere che quella scelta sommaria aveva deciso della loro permanenza in vita.
Levi riuscì a sopravvivere fino alla liberazione del campo, avvenuta nel gennaio del 1945.riuscì a
salvarsi a causa del contagio di scarlattina e dovette rimanere in infermeria; mentre il suo amico
Alberto, che possedeva gli anticorpi perchè già contagiato in infanzia, dovette affrontare la
cosiddetta “marcia della morte”. Levi assistette all’abbandono del campo e rimase fortunosamente
salvo, poiché nella fuga, i nazisti non eseguirono l’ordine di sterminare i prigionieri dell’infermeria.
La liberazione nel ’45 non rappresentò una gioia perchè l’uomo era oppresso dalla vergogna, dalla
vergogna di essere uomo e di aver assistito a ciò che l’uomo può fare.
Dopo una lunga peregrinazione e un avventuroso viaggio di ritorno, tutti fatti narrati anni più tardi
nella Tregua, Levi giunse a casa nell’ottobre del 1945.

4) LA RETROAZIONE: CHIMICO E SCRITTORE


Il narrare era un bisogno primario, come mangiare o respirare. Furono dapprima narrazioni orali,
forse confuse, senza un filo conduttore. Non si trattava solo di testimoniare, ma di trasmettere
l’esperienza vissuta, le passioni, le emozioni e i traumi, che soli potevano far comprendere al
mondo l’enormità amorale al quale l’umanità era giunta nei campi di sterminio.
La vocazione a scrivere divenne impellente.
Accanto all’aspirazione alla scrittura urgevano però altre necessità pratiche. La famiglia era salva, la
madre e la sorella erano sopravvissute alla persecuzione e alla guerra, ma occorreva trovare un
lavoro per il sostentamento quotidiano. Nel racconto che ne fece anni più tardi, Cromo, legò
insieme l’amore, il lavoro e la scrittura coerente in una sorta di ritorno alla vita.
Riuscì a trovare un impiego presso una fabbrica di vernici. In quella fabbrica, mentre la situazione
di Primo si normalizzava e tornava a delle prospettive di felicità, anche la scrittura divenne
un’operazione di sistemazione del passato: da semplice sfogo, divenne risarcimento, un qualcosa
che la sua mente e la sua mano ricreavano ponendo ordine al caos. Emerse anche la teoria della
retroazione, che poneva l’uomo tra le due direzioni verticali, il giù e il su, in mezzo alle quali
trovare la condizione dell’omeòstasi, della posizione intermedia con dei gradi di variazione nella
quale l’uomo resiste. Nessun essere umano può vivere costantemente in condizioni-limite, un
qualche correttivo c’è sempre. La retroazione permette di risalire quando si è gettati sul fondo: così
se il capitolo che descrive l’ingresso nel Lager si intitola Sul fondo, quando Levi narrerà la notizia
della partenza per il rimpatrio, userà la metafora contraria, quella del viaggio all’insù, della risalita.
Anche per questo movimento verticale, Levi che ha sempre avuto cara la Divina Commedia e l’ha
citata spesso all’interno dei suoi scritti: la discesa agli inferi e la risalita corrispondono per lui a
questo movimento di retroazione che simboleggia la vita.
Nella ditta che si occupava di vernici, in particolare di smalti conduttori, divenne uno dei pochi
esperti e fu nominato prima direttore tecnico dell’azienda e poi direttore generale.
Se questo è un uomo venne pubblicato soltanto nel 1958 da Einaudi; in seguito riprese le sue
capacità narrative e ricominciò a scrivere racconti scientifici e progettò la Tregua, che sarà
pubblicato nel 1963.
Levi non si sentì pienamente riconosciuto come scrittore: pesava su di lui la definizione di scrittore
memorialista. Per difendersi e rimediare a questo giudizio limitante iniziò a parlare di se stesso
come di un centauro, cercò in questo modo di imporre un’immagine di sé come essere dimidiato tra
la letteratura e la scienza.
Nel 1975 decide di dimettersi dalla ditta e di andare in pensione. La decisione di smettere di
lavorare come chimico lo proiettava verso l’altra sua metà, verso l’attività di scrittore.
In quello stesso 1975 appare un altro suo capolavoro, Il sistema periodico, una sorta di romanzo di
formazione composto da racconti che potevano si avere in fondo una ispirazione puntiforme ma che
avevano raggiunto un’unità grazie alla disposizione cronologica che seguiva le tappe della sua
esistenza. I racconti prendevano il titolo da uno degli elementi della tavola degli elementi periodici
di Mendeleev, ma finivano per costruire un percorso di formazione sotto il segno degli elementi
chimici che avevano caratterizzato varie esperienze. Soltanto il primo e l’ultimo racconto, Argon e
Carbonio, uscivano da una serie autobiografica per allargarsi l’uno verso il passato antropologico,
l’altro verso il richiamo al simbolo della vita.
Nel 1978 uscì La chiave a stella, una serie di racconti fondati sul dialogo tra narratore e il
montatore Faussone, che vive la perdita dell’esperienza e delle conoscenze tramandate dai suoi avi
che lavoravano lo stagno e il rame. Questa perdita viene in lui tradotta in una vita nomade che lo
porta in giro per il mondo a montare tralicci e altro; non può accettare il lavoro in fabbrica, deve far
si che la sua mano crei qualcosa personalmente e che abbia la possibilità di inventare le modalità
del proprio lavoro. Questo personaggio permette a Levi di dare testimonianza del gergo italo-
piemontese delle officine.
Nel 1979 tenne un’importante conferenza sull’intolleranza razziale.

6) IL BRUTTO POTERE
Nel saggio del 1983, Il brutto potere, Levi afferma la mancanza di retroazione nel mondo
contemporaneo; tutto gli sembra precipitare verso la perdita di energia, verso l’entropia e una forza
nera che porta al caos.
Si tratta di un vero e proprio approdo ad un pensiero tragico, che prevede l’uomo in lotta con un
nemico che non potrà mai sconfiggere e ha come ultimo grande risultato l’abissale ricerca de I
sommersi e i salvati.
Nel 1987 non dovette più trovare ragioni per resistere a una tale forza; anche la tromba delle scale
gli sembrò una risposta, un’uscita definitiva nel “giù” senza possibilità di retroazione.
SE QUESTO È UN UOMO

1) LA STORIA DEL TESTO


La brama di raccontare la sua esperienza e quella dei compagni deportati era nata ed era stata
vissuta come un bisogno primario ad Auschwitz; il prigioniero sognava di essere tornato a casa e di
raccontare la sua esperienza limite, ma gli ascoltatori si defilavano a uno a uno, mostrando di non
credere o di non essere interessati al racconto.
La necessità di raccontare si scontra con la consapevolezza che l’argomento è difficilmente
credibile per un uomo che ha continuato a vivere nel consorzio civile.
Già ad Auschwitz i tentativi di scrivere furono più di uno.
Tornato a casa la necessità di raccontare, di testimoniare quello che era successo, si fece ancora più
impellente. Raccontava oralmente e trovava sollievo nello scrivere poesie.
La costruzione di Se questo è un uomo ebbe in realtà una storia piuttosto complessa: la prima parte a
essere scritta fu l’ultima, la Storia di dieci giorni, il racconto della sopravvivenza nel lager
abbandonato dai tedeschi. Venne redatta in forma dattiloscritta, il testo di 14 pagine è datato
febbraio 1946. Nella seconda edizione del libro, pubblicata presso Einaudi nel 1958, Levi datò così
l’origine del libro: “Avigliana-Torino, dicembre 1945-gennaio 1947”; Avigliana rimanda al lavoro
alla Duco.
In diverse interviste Levi ricorderà come quello di scrivere fosse diventato un vizio che rischiava di
farlo sembrare uno squilibrato: scriveva febbrilmente a lavoro, durante la pausa pranzo, a mano nel
tragitto ferroviario tra Avignana e Torino.
La copia di un dattiloscritto che Levi inviò alla cugina Anna Yona, contiene dieci dei sedici capitoli
di quella che sarà la prima edizione di Se questo è un uomo. Questo documento riproduce alcune
date, probabilmente quelle della redazione che fu presentata agli editori. Questo conferma quella
che sarà poi una caratteristica della scrittura di Levi: ovvero di non scrivere delle narrazioni
continue, ma di procedere secondo un’ispirazione tipica del racconto breve e di unire poi questi
racconti come gli atomi di una molecola. E’ questa una caratteristica che probabilmente contribuì a
non far apprezzare il testo alla prima lettura presso alcuni grandi editori; celebre fu il rifiuto che
ricevette da Einaudi, al quale aveva presentato un dattiloscritto. Molto si è detto su quel rifiuto ma
si può anche pensare che la struttura narrativa a non convincere del tutto i lettori dell’Einaudi. Non
possiede una struttura per avanzamento logico-temporale, al contrario, a un capitolo di ingresso e
uno di uscita pone in mezzo una lunga palude narrativa che vuole rendere l’idea della mancanza di
prospettiva temporale del prigioniero.
Infine il testo venne proposto a Franco Antonicelli, che allora dirigeva la casa editrice De Silva,
presso cui Se questo è uomo uscì nell’ottobre 1947.
Antonicelli ne comprese subito l’importanza, non solo come testimonianza, ma come testo letterario
di altissimo valore. Il libro ebbe poche recensioni: circolò tra amici e conoscenti e si formò un
piccolo gruppo di sostenitori di Levi, ma non sfondò, non ebbe la risonanza che avrebbe meritato.
Il volume venne riproposto per l’ennesima volta all’Einaudi, che stavolta accettò di pubblicarlo nel
1958. Il libro iniziò a diventare un caso letterario e iniziò a essere ristampato e tradotto in varie
lingue.

2) VIAGGIO ALL’INFERNO
La sua non è una testimonianza, ma un a ricerca delle cause che hanno portato al lager. E si noti
l’oscillazione linguistica tra “campo di distruzione” e “lager”: Levi deve inventare le definizioni per
una realtà che non aveva nome né in italiano né in tedesco. Per quanto concerne l’italiano, il
termine campo di concentramento riguarda una situazione diversa, di ammassamento delle persone,
ma non indica la precipua funzione di annientamento fisico tramite selezione per le camere a gas. Il
discorso per quanto riguarda il termine lager, in tedesco significa soltanto “campo” e non fu usato
da testimoni parlanti altre lingue. Levi usa come termine per indicare l’idea lata del sistema che
includeva campi di concentramento e di sterminio.
L’odio per lo straniero, il razzismo trasformato in sistema di pensiero hanno portato alla costruzione
dei lager; comprendere quel percorso non è solo doveroso per poter evitare il ripetersi di quelle
esperienze, ma richiede uno sforzo di analisi rigorosa e precisa nei concetti e nelle forme.
Nel capitolo Il viaggio, il ritmo cambia improvvisamente quando si giunge alla notizia della
deportazione e ai preparativi per il viaggio. Allora il passaggio dalla descrizione generale dei fatti
alla reazione individuale di fronte all’annuncio della quasi certa condanna a morte conduce a vedere
le differenze di comportamento, di addio alla vita; e queste differenze vengono descritte grazie
all’uso ritmato della paratassi, all’accumulazione di frasi coordinate.
Sono gli spazi bianchi a segnalare i passaggi. Iniziano i primi segnali dell’opera di
disumanizzazione che i tedeschi vogliono compiere; gli uomini vengono chiamati “pezzi”, questa
riduzione degli uomini è un’anticipazione narrativa che collega il momento della partenza al
momento dell’arrivo, dove è possibile vedere l’opera compiuta, l’uomo disumanizzato dalla
metamorfosi indotta che i tedeschi hanno compiuto con l’immane operazione di ingegneria genetica
e sociale dei lager.
L’arrivo ad Auschwitz è preparato accuratamente: il convoglio viene fatto giungere a destinazione
di notte, gli ordini urlati in lingua straniera, la divisione tra uomini e donne e la sommaria
distinzione tra chi è abile al lavoro e chi no. Il racconto riprende e segue la vicenda degli uomini
abili al lavoro: caricati su un autocarro vengono inviati verso l’inferno. Non a caso emergono qui i
primi richiami danteschi: a parte l’indicazione “andiamo tutti giù” che è legata all’idea di perdita di
potenza della materia ma anche all’immaginario dantesco, il soldato che li accompagna sul camion
è una sorta di parodia del Caronte dantesco. E nel capitolo successivo, Sul fondo, si trova la porta
del nuovo inferno, sulla quale non c’è la triplice scritta, ma una scritta irridente e amara “il lavoro
rende liberi”.

3) INTERPRETAZIONE DEL LAGER


La parte centrale del libro non presenta uno sviluppo temporale di causa ed effetto. I capitoli da
Iniziazione a I sommersi e i salvati presentano più che altro l’esperienza del sopravvivente; i
capitoli da Esame di chimica a L’ultimo presentano non una speranza, ma una resistenza di fronte al
tentativo di annientamento intellettuale prima ancora che fisico. E’ proprio questo tentativo di
abbassare l’uomo a cosa o a bestia che diventa per Levi l’essenza del lager, ancor prima della
soppressione fisica.
La riduzione dell’uomo a bestia, il suo annullamento e abbassamento allo stadio animale o vegetale
viene perseguito con metodo scientifico dai nazisti. Il prigioniero viene privato, oltre che dal suo
ambiente, spesso anche dalla sua lingua e dalla possibilità di comunicare con gli altri prigionieri; gli
vengono sottratti gli abiti e la possibilità di avere intimità anche nelle attività che in società sono
coperte dal senso del pudore; gli vengono imposti un lavoro schiavistico senza risultati e una dieta
assolutamente insufficiente; viene esposto a tutte le intemperie, ma soprattutto gli viene tolto il
futuro. Ma la distruzione dell’individuo ha un passo fondamentale: dopo averlo isolato da tutto, egli
viene privato del nome, sostituito da un numero inciso sulla pelle come si fa con certi animali.
Levi giunse in lager con un atteggiamento scientifico per il quale la chimica è l’arte di distinguere,
pesare, separare: ma questo approccio scientifico ricorda da vicino le operazioni che compie Dio nel
libro della Genesi per creare il mondo, seguite strettamente dalla geniale operazione tutta umana di
assegnazione dei nomi.
La privazione del senso del futuro, ridotto animalescamente a lotta per la sopravvivenza, si
accompagna talvolta alla rimozione del passato.
Un altro fattore è quello della barriera linguistica: a Levi è rimasta l’eco della varietà di lingue
parlate nel lager e ne dà un’efficace immagine rappresentata dalla torre del carburo, che per i
prigionieri ebrei richiama l’immagine biblica della torre di Babele, costruita dalla protervia umana e
poi privata di senso dalla confusione delle lingue imposta da dio. La maggior parte dei deportati
italiani morì nei primi giorni per mancanza di informazioni.
Tutti questi motivi di spersonalizzazione rendono quasi “trasparente” il prigioniero: egli non si sente
più preso sul serio dagli altri e rischia di perdere la propria personalità.

4) UNO SCIENZIATO NEL LAGER


Levi organizza la narrazione ponendosi dal punto di vista della sua esperienza, e non da quella delle
conoscenze successive sul lager, egli non fornisce una descrizione sociologica della struttura
gerarchica ma usa lo sguardo dell’etologo e gli strumenti intellettuali del naturalista per trasmettere
l’esperienza vissuta del prigioniero.
Levi ci da molto di più delle mere spiegazioni storiche: di tutte le testimonianze sul lager, la sua si
eleva al di sopra perchè diventa letteratura che riporta l’esperienza vissuta e organizza questa
conoscenza grazie all’applicazione di una visione del mondo strutturata in modo chiaro.
Nella gerarchia del lager Levi vede riprodotta e resa ancor più opprimente, la gerarchia dello stato
totalitario: rifiutare il modello visivo della rappresentazione gerarchica o piramidale, significa per
lui rifiutare la società totalitaria, introdurre l’imperfezione, il grano di sale o di senape che
diversifica e fruttifica. Significa anche che egli non vuole dare una rappresentazione del lager come
i nazisti volevano che fosse: significa appropriarsi di schemi mentali diversi, che troverà nella
chimica e nella biologia.
Un altro schema visivo assai diffuso, ma che Levi rifiuta è quello del cerchio come immagine della
perfezione. Il cerchio diviene il simbolo del perfezionismo inutile, del lavoro utilizzato come
violenza inutile. L’essere senza fine viene rappresentare una sorta di insostenibile condizione
tantalio, oltre che richiamare un famoso stilema dantesco. Proprio la mancanza di direzione di fuga,
priva di senso il cerchio. La mancanza di principio e fine toglie al cerchio ogni possibilità di
direzione.
Il secondo è quello della retroazione: il movimento di discesa che porta i prigionieri a essere “giù”,
“sul fondo”, sarà bilanciato dalla risalita raccontata nella Tregua.
Questi modelli visivi sono forse una delle ragioni per cui il libro non venne preso subito in
considerazione dai grandi editori, rappresentano probabilmente uno dei motivi per cui non venne
subito compreso da tutti.
Il lager è descritto talvolta come un organismo, soprattutto nel momento dell’abbandono da parte
dei tedeschi in fuga.
Ma la stessa narrazione muta; dopo una sequenza di capitoli in cui il progresso temporale è quasi
inavvertito e certo non presentato, l’ultimo capitolo presenta un ritmo scandito e numerato: il
prigioniero ridiventato uomo si appropria del tempo, del futuro ma anche del passato.

5) DELLA DIVINA COMMEDIA E DI ALTRE TECNICHE DI SOPRAVVIVENZA


I capitoli vennero scritti di getto, ma il lavoro di raccordo è posteriore, come viene detto da Levi
stesso nella prefazione. Nei primi capitoli l’Io narrante è costretto ad abbandonare tutte le
convenzioni e i saperi della società civile per sopravvivere nella nuova realtà in cui è stato gettato.
E’ costretto ad apprendere di essere un grande esperimento biologico nel quale non valgono le
regole della società civile, ma quelle della lotta animale per la sopravvivenza.
Questa facoltà di apprendimento caratterizza gli otto capitoli da Sul fondo a I sommersi e i salvati
ed è la chiave che permette a Levi di sfuggire alla facile via della retorica dell’indicibile o
dell’inimmaginabile. Levi sostiene che è sempre possibile comunicare l’esperienza e che questa può
essere resa in immagini.
Il capitolo Esame di chimica riporta la sua fondamentale vittoria per la sopravvivenza; il posto in
laboratorio gli permetterà di passare l’inverno successivo al coperto ed evitare i lavori più pesanti.
Ma l’esame, raccontato retrospettivamente, è il momento in cui, nonostante la paura e la tensione, il
personaggio riacquista la fiducia di sé e ritrova la necessaria statura morale per giudicare gli altri.
Subito dopo l’esame di chimica giunge la salvazione del sapere letterario, che riconduce alla statura
morale dell’uomo; il capitolo successivo è infatti quello celeberrimo del Canto di Ulisse: qui, Levi
viene scelto per andare a prendere la zuppa per la squadra in compagnia del segretario del
capobaracca, quello che Levi chiama Pikolo. I due tentano un contatto che vada al di là della
situazione in cui sono, tentano di ritrovare la loro stesura umana nel dialogo con l’altro. E mentre
Pikolo vorrebbe imparare qualche parola di italiano, a Levi viene in mente il XXVI canto
dell’Inferno, quello del viaggio della conoscenza di Ulisse. Il racconto, inframezzato dalla ricerca
spasmodica dei versi nella memoria, ha due picchi di attenzione: il primo riguarda l’allocuzione di
Ulisse ai compagni durante l’orazion picciola.
Il richiamo a una vita intellettuale che superi la condizione del “bruto” è un richiamo per loro stessi
prigionieri alla necessità di scampare alla destituzione dalla stesura umana che il lager vuole
realizzare. Il secondo picco di attenzione riguarda, così, proprio la ricerca delle cause, della forza
che li ha condannati e si manifesta attraverso l’anacronismo del dio che condanna Ulisse senza
ancora essersi manifestato al mondo.
Il tentativo di evadere mentalmente per recuperare una dimensione intellettuale là dove quella è
negata è un’occasione rara nel lager; in questo senso la poesia, anche quella di Dante, può riportare
al mondo prima della deportazione e può servire a verificare le proprie qualità intellettuali, oltre a
fornire gratificazione mentale al prigioniero.

6) PROSECUZIONI DEL TESTO


Alcuni sceneggiatori sveno preparato una versione radiofonica di Se questo è un uomo; la reazione
di Levi fu una sorta di shock seguito dall’entusiasmo: quello che lo colpì prima di tutto fu la
riproduzione sonora del multilinguismo di Auschwitz, la ricostruzione della Babele linguistica,
ovvero degli effetti fonici legati al lager: rumori, voci, lingue, silenzi.
L’adattamento radiofonico fece da presupposto a una trascrizione teatrale del testo, anche se il
passaggio dal testo radiofonico a quello teatrale non furono problemi da poco. Il copione teatrale di
Se questo è un uomo venne scritto dallo stesso Levi. Ancora una volta ciò che colpì di più gli
spettatori fu il multilinguismo.

NASCITA DEL CENTAURO: LA TREGUA E LE STORIE NATURALI

1) RITORNO ALLA SCRITTURA


Quando, dopo il successo della Tregua nel 1963, verrà etichettato come scrittore-testimone, cioè
scrittore capace di scrivere soltanto della deportazione e dello sterminio, Levi reagirà rivendicando
in sé una doppia natura, di chimico e di scrittore, di letterato e di uomo di scienza: in breve, si
definirà un centauro, un essere che partecipa di una doppia natura e che ha una sorta di spaccatura
interna, di schizofrenia culturale. Si crea cioè una maschera per essere riconosciuto come scrittore;
quando non ne avrà più bisogno, se ne disferà e negherà che ci sia una separazione tra cultura
scientifica e cultura umanistica. Questa maschera di comodo fu lo stratagemma che consentì gli
consentì di nascondere che i due libri che avrebbe pubblicato, La tregua e Le storie naturali,
avevano una matrice comune che rinvia alla negazione di dio e all’accettazione dell’evoluzione
come condizione primordiale per l’evoluzione delle specie in un irripetibile momento di furore
generativo.
I due testi riportano a uno stesso problema: la creazione da parte di dio è insostenibile; la
procreazione e l’incrocio tra le specie è un fatto animale, biologico; esiste soltanto l’evoluzione, non
la creazione.
La vera creazione dirà Levi nel racconto Quaestio de centauris, non è quella che si racconta fatta da
dio, ma la seconda, dopo il diluvio, che è una creazione totalmente terrestre alla quale concorrono
mondo vegetale e mondo animale.

2) LA TREGUA, ROMANZO ANCIPITE


Di certo si sa che Levi scrisse gran parte de La tregua a mano su un quaderno scolastico tra il 1961
e il 1962 e come detto, il primo titolo a cui pensò fu Vento alto, che rimanda a un’idea di
generazione caotica del mondo; prevalse poi il titolo La tregua, che rinvia all’idea di una tregua del
mondo tra due guerre.
Il testo completo e dattiloscritto venne consegnato all’Einaudi e pubblicato nel 1963. Ancora una
volta si tratta di un romanzo scritto per segmenti narrativi, ma il motivo del viaggio riunisce i vari
episodi e da continuità alla storia dell’esodo e del rimpatrio.
La tregua è un libro centauresco, con una doppia natura, dove non si dimentica che l’allegria è solo
una “tregua” tra due guerre, la seconda guerra mondiale e la guerra fredda, e dove la verità ultima
non è la pace, ma il lager.
Il primo capitolo del romanzo riprende la Storia di dieci giorni che concludeva Se questo è un
uomo, ma rispetto a quel testo c’è qui un approfondimento che va verso la riflessione morale. Levi
ribadisce che la liberazione non portò gioia. Nella condizione di sopravvissuto sente un vuoto che
corrisponde alla condizione del mondo prima della creazione, al caos della materia in cui l’uomo
non può mettere ordine.
L’apparizione dei soldati russi a cavallo porta un altro sentimento, la vergogna. La vergogna per il
male introdotto nel mondo dall’uomo stesso è strettamente legata al risentimento per l’offesa. Il
male inflitto o subito non si ritorce solo su chi lo compie, ma penetra e infetta chi lo subisce creando
altro male.
I primi passaggi narrativi sono contrassegnati dalla ritualità: il trasferimento dalla Buna al campo
grande di Auschwitz è segnato da un bagno cui Levi assegna valore di rito, che confronta con quello
precedente e con quello segnato altamente tecnicizzato cui sarebbe stato sottoposto più tardi dagli
americani.
Levi introduce uno dei personaggi più straordinari della letteratura di tutti i tempi: è il bambino
Hurbinek, vittima del nazismo e di una società infera che non solo gli ha precluso l’amore ma non
gli ha assegnato un nome né insegnato la parola.
Dopo questa presentazione o meglio interpretazione della condizione del bambino, che viene
ricreato attraverso la parola e del quale emerge l’impossibile sforzo comunicativo, Levi introduce
un paragone pedagogico tra gli sforzi didattici del ragazzo ungherese Herenk e la la frivolezza delle
infermiere polacche.
Un poco più sviluppato di Hurbinek è il Kleine Kiepura che viene presentato subito dopo; un
ragazzino di 12 anni cresciuto in lager come attendente del lager-kapo, cioè il capo in assoluto. La
figura dell’attendente era quella che in una delle ultime baracche in cui fu Levi era tenuta da
quell’eccezione che era Pikolo; di solito l’attendente era un ragazzo che era anche lo schiavo
sessuale del Kapo. Levi inizia una descrizione nella quale la deformità fisica accompagna la
degradazione morale.
Il Kleine Kapura diventa l’anti-Hurbinek: anch’egli giunge nella camerata caratterizzato dal
mutismo. Abbandonato dal suo protettore che è fuggito da Auschwitz, si chiude nel silenzio, dal
quale esce in un delirio di potere, sognando di aver fatto carriera, di essere diventato Kapo:
dapprima canta le marchette che ad Auschwitz scandivano le giornate di lavoro, poi passa a urlare
ordini e minacce di mandare tutti ai crematori.
Levi definisce la situazione in cui si trova come un limbo o come purgatorio. In quella situazione
riceverà anche la visita di Olga, una partigiana ebrea croata che lo ragguaglierà sulla morte
immediata dei suoi compagni di trasporto e di quella, avvenuta nel 1944 di Vanda, selezionata per la
camera a gas.

3) DAL VIAGGIO ALLA RISALITA


Il capitolo successivo, Il greco, da inizio alle peregrinazioni del protagonista, che esce dall’ospedale
improvvisato ad Auschwitz e raggiunge dapprima Katowice, poi Cracovia e infine viene mandato in
un campo di raccolta in Bielorussia; dopo alcuni mesi sarà rimpatriato con un tortuoso e lungo
viaggio in treno. Il suo primo compagno di viaggio è il greco Mordo Nahum, caratterizzato dalla
personale visione mercantilista e agonistica della lotta per la vita.
L’immagine che delle avventure e dei compagni di viaggio Levi ci ha dato è stata spesso definita
con l’aggettivo “picaresca”: che si ritrova nella letteratura maccheronica e in Rabelais. Sono questi
ultimi gli autori cui si ispira per narrare le sue peripezie odeporiche, come lo stesso Levi avrebbe
rivelato anni dopo, facendo l’elenco delle cose importanti che si era portato a Milano nel 1942.
Il viaggio non segue direzioni precise, ma è tortuoso a causa della situazione disastrosa delle linee
ferroviarie; sono giorni di incontri improvvisi, in cui emerge continuamente il problema della
comunicazione linguistica, uno dei temi portanti del libro.
Ma è la partenza a essere presentata da Levi in forma particolare, poiché, dopo tutto il lungo
vagabondare in direzioni opposte, essa assume un valore simbolico. E’ a quel punto che, come già
ricordato, scatta la retroazione rispetto al giù, al fondo di Auschwitz e la partenza diventa essa stessa
direzione simbolica; per un viaggio che è tutto verso sud e poi sud-ovest, cioè un viaggio all’in giù,
prevale la visione simbolica.
Ma questa risalita dal fondo coincide anche con l’uscita dalla condizione di tregua dell’umanità.

4) NASCITA DEL CENTAURO: LE STORIE NATURALI


Il volume Storie naturali venne pubblicato nel 1966 sotto lo pseudonimo di Damiano Malabaila e
contiene dodici racconti e tre radiodrammi.
Il legame tra le Storie naturali e il lager è evidente: non si testimonia qui del lager, ma delle
perversioni che l’uomo produce nella storia contro l’uomo; della distorsione a cui viene sottoposta
la scienza e degli effetti che essa può avere sull’uomo.
Anche il titolo della raccolta è ironico ed è ispirato a una fantasiosa citazione dell’opera di Plinio
fatta da Rabelais nel sesto capitolo del Gargantua. Si tratta anche di uno dei pochi esperimenti
linguistici nel quale Levi cerca di imitare Rabelais e la sua tendenza al pastiche, all’unione di stili
diversi, tecnica necessaria qui per presentare un racconto che cerca di fondare la sua
verosimiglianza sull’autorità degli antichi.

5) IL SIGNOR SIMPSON, LE MACCHINE E LA TORAH


All’interno delle Storie naturali c’è un personaggio che ritorna, anzi due. In un radiodramma e
cinque racconti il narratore trova infatti un doppio retroattivo nel signor Simpson. E’ il signor
Simpson a presentare il versificatore, la macchina in grado di comporre poesie, che affascina il
narratore-poeta per un certo grado di umanità che sembra scaturire dalla macchina stessa.
Il Torec è una macchina per la realtà virtuale che sfrutta la comunicazione diretta tra circuiti
elettronici e circuiti nervosi e trasmette al cervello le emozioni registrate su nastro. Il Torec è stato
pensato per i pensionati, per sottrarli alla noia e offrir loro emozioni fittizie: purtroppo, la macchina
non porta alla saturazione da prodotto né all’assuefazione. Produce, invece, un continuo bisogno di
emozioni fittizie.
Al di là dell’umorismo riservato al suo personaggio, appare qui anche la macchina, il grande golem,
ha schiacciato l’uomo, lo ha ridotto a una dipendenza totale. La metamorfosi causata
dall’asservimento, dalla schiavitù alla macchina è ciò che lega le Storie naturali ai libri precedenti
dedicati all’esperienza del lager.
La riduzione a macchina, cioè ad automa, corrisponde alla “confiscazione” attuata in lager: non più
la creazione divina diventa il modello per creare il golem; Auschwitz è il principio, il punto
insuperabile della storia umana, dove la metamorfosi dell’uomo in automa è stata pianificata.

L’ISPIRAZIONE SCIENTIFICA: DA VIZIO DI FORMA AL SISTEMA PERIODICO

1) “SCIENTIFIC AMERICAN” COME FONTE DI ISPIRAZIONE


Storie naturali aprì una nuova stagione della produzione di Levi, per l’approccio di fondo che
sarebbe stato sviluppato nelle raccolte successive, in particolare Vizio di forma e Lilit.
Vizio di forma è una raccolta pubblicata nel 1971.
Vizio di forma è una metafora: l’espressione appartiene al linguaggio giuridico e burocratico e
indica la mancanza di uno di quegli elementi formali che sono prescritti a pena di invalidità
dell’atto; Levi la traduce in una mancanza di attenzione per gli effetti del disastro ecologico che si
sta preparando e per differenze economiche tra nord e sud del mondo, ma soprattutto nella messa a
fuoco dell’incapacità del pensiero umano a dare le risposte ai problemi che la natura e la storia
pongono al genere umano.
Il caos opposto al kosmos già in quei presocratici ai quali ritornerà nei racconti degli ultimi anni, si
approfondisce con le teorie del caos deterministico elaborate dagli scienziati a partire proprio dal
1963.
Il volume Vizio di forma ha una sua unitarietà di concezione e di relazione e vuole affrontare il
problema già posto nella lettera all’editore di qualche anno prima: affrontare, cioè il problema di un
cambiamento epistemologico che riesca a dare delle risposte alle domande dell’uomo sulla natura e
sulla storia. Levi ha lasciato qualche traccia, soprattutto in Vizio di forma e Lilìt, di dove si
aggiornava sulle teorie e le scoperte scientifiche e da dove traeva le fonti di ispirazione per i
racconti scientifici.
Un constante aggiornamento gli veniva dalla lettura di una rivista di alta divulgazione scientifica,
cioè Scientific American.
In Vizio di forma il problema più interessante riguarda il racconto finale, Ottima è l’acqua, titolo
probabilmente frutto di una reminiscenza liceale: l’incipit della prima Olimpica di Pindaro. Il titolo
però è funestamente ironico: nel racconto si immagina che l’acqua della terra subisca una variazione
della viscosità e si addensi. A parte il fatto che la viscosità è sempre in Levi un fattore negativo che
accompagna sempre le catastrofi, in questo racconto ogni forma d’acqua sulla terra e nel corpo
umano conosce l’alterazione di viscosità.
L’immaginario apocalittico di Levi prende lo spunto da una presunta scoperta di alcuni scienziati
sovietici: la teoria della Poliacqua, una delle più grandi cantonate scientifiche del XX secolo. Si era
creduto che esistesse un’acqua con poteri speciali e invece era soltanto un’acqua inquinata.
Diverso il caso del racconto di Levi, che in un’opera narrativa aveva tutto il diritto di inventare una
corruzione planetaria del liquido vitale.

2) CRISI DEL DETERMINISMO


Tra Vizio di forma e Lilìt avviene una fondamentale modificazione dell’approccio scientifico di
Levi, che proprio da Vizio di forma inizia a mettere in discussione l’approccio deterministico.
Il racconto Verso occidente tratta del suicidio in massa dei lemming (una specie di roditori), ma
anche della scelta della morte volontaria in una tribù dell’amazzonia; l’approccio etologico era già
stato usato da Levi in Se questo è un uomo per spiegare la realtà del lager, ma il suicidio dei
lemming è diventato una sorta di metafora della morte degli ebrei inermi nei lager.
I due fatti sono correlativi anche in base alle accuse, lanciate negli anni sessanta-settanta dalle
nuove generazioni israeliane, secondo le quali gli ebrei d’Europa si erano lasciati massacrare senza
opporre resistenza. Un’accusa che Levi riteneva infondata e a cui avrebbe continuato a rispondere
con Se non ora quando? Per Levi il problema va posto in modo diverso: occorre spiegare come la
Germania è giunta a progettare un simile genocidio. Quello della possibilità di trovare una
spiegazione deterministica causa-effetto per spiegare un sistema complesso come un processo
storico.
Se torniamo al racconto, qui viene data una causa deterministica al suicidio dei lemming e non solo
al loro: la mancanza di un alcool, di struttura piuttosto complessa, nel sangue dei roditori e in quello
della tribù amazzonica; la scoperta viene confermata dopo la morte di Walter, travolto dalla corsa
dei lemming. Verso occidente diventa così la rappresentazione allegorica di un problema teorico:
l’impossibilità o incapacità di dare una spiegazione univoca e deterministica alla deriva irrazionale
del popolo tedesco che giunge alla “soluzione finale” nei confronti della razza ebraica.

3) IL SISTEMA PERIODICO, UN BILDUNGSROMAN


Nel Sistema periodico i racconti indicizzati sotto il nome di alcuni elementi della tavola periodica
degli elementi di Menedelev vengono uniti da legami tanto forti, come degli atomi in una molecola
complessa.
Non è possibile stabilire precisamente quando l’idea di organizzare insieme i racconti in una
struttura coerente abbia preso consistenza nella mente dell’autore.
Levi non parlò mai di questo libro come di un’autobiografia in senso stretto, ma come
dell’avventura del chimico che affronta la materia.
Il libro non è solo il racconto di una formazione, ma si muove in direzioni diverse: dal recupero
della lingua degli antenati ebrei in Argon, ai racconti di invenzione (Titanio, Mercurio, Piombo),
alla costruzione epica della vita di un atomo di carbonio.
Il Sistema periodico si apre con un racconto che prende le mosse da un altro suo interesse, quello
per le lingue, in particolare per le lingue scomparse. E’ un racconto dal tono umoristico, che vuole
dare un ritratto divertito degli ebrei piemontesi dopo l’unità d’Italia e fino al primo novecento;
l’umorismo, oltre che dalle situazioni riprese da narrazioni orali, si ricava dalla lingua particolare,
un misto ebraico e di piemontese dalla quale sgorga una mirabile forza comica.
Argon giugno fino ai ricordi infantili dello scrittore, ai ritratti comici del padre e dei nonni: un
ritratto condotto secondo una modalità ironica o, meglio, per stare al succinto yiddish subalpino,
“bahalòm”, “in sogno”, da aggiungere burlescamente ad un’affermazione affinché venga intesa dal
partner, e solo da lui, come il suo contrario.
Una delle caratteristiche di quel gergo è proprio quella del linguaggio furbesco, da far intendere
solo agli eletti col preciso scopo di non farsi capire dagli altri.
Il secondo racconto, Idrogeno, è dedicato a un esperimento chimico all’interno di una sorta di pola
adolescenziale; dal terzo, Zinco, si inizia con gli anni dell’università e del confronto con la materia.
Il racconto seguente, Potassio, racconta delle sue difficoltà per trovare un professore disposto a
fargli da relatore per la tesi sperimentale: a lui, perchè ebreo, toccarono molti rifiuti; infine trovò un
assistente di fisica che gli assegnò la tesi.
Nel racconto Nichel emerge la similitudine trovata da Levi tra il meccanismo di retroazione e la
rappresentazione grafica del viaggio di Dante nella Divina Commedia, similitudine che spiega
perchè al di là delle reminiscenze scolastiche, Levi fosse così legato al poema dantesco.
Pubblica di seguito Piombo e Mercurio: sono due racconti d’invenzione dedicati, rispettivamente, a
un cercatore di piombo che dall’Europa del nord finisce per arrivare in una Sardegna preistorica e
un’avventura di naufragi che in parte scoprono una propensione alchimia.
Dopo il racconto del colloquio con l’ambiguo compagno di cella, cercatore d’oro nella Dora Baltea,
c’è un salto, una censura: si arriva direttamente ad Auschwitz col racconto Cerio e di come col furto
di pietrine per accensione lui e il suo amico Alberto poterono ricavare razioni di pane per due mesi
ciascuno.
Di seguito un’altra censura: la narrazione a posteriori del primo lavoro dopo il ritorno, della
riconquista della vita, dell’amore e della scrittura. Cromo svolge una funzione essenziale nel
romanzo di formazione, è il vero e proprio punto di svolta, di passaggio dalle velleità adolescenziali
e dai dolori della deportazione, al raggiungimento della vita adulta, della stabilità economica e della
costruzione della famiglia borghese.

L’ETICA DEL LAVORO E LA SUA LINGUA: LA CHIAVE A STELLA

1) ETICA DEL LAVORO


Con La chiave a stella, pubblicato nel 1978, Levi affronta direttamente un tema a lui molto caro,
quello del lavoro. Le due figure sono d’invenzione: se il narratore è un chimico-scrittore che ricorda
da vicino i tratti biografici di Levi, Libertino Faussone è un personaggio d’invenzione al quale
l’autore prepara un’accurata biografia, che ne fa una sorta di eroe moderno, ma di eroe disadattato
proveniente da un mondo contadino-artigiano distrutto dal progresso industriale e dal boom
economico.
Il linguaggio è caratterizzato dagli anacoluti e dall’inserzione di evidenti calchi di piemontese, con
inserzioni di tecnicismi, di linguaggio delle boite (officine), trascrizioni letterali da lingue straniere.
Il libro uscì durante la temperie storico-politica del 1977, con la protesta del movimento operaista:
in questa situazione, un libro sul lavoro sollevò a sinistra più critiche che altro; Libertino Faussone
era tutto il contrario di un operaio organizzato, era un anarchico che rifiutava il lavoro di fabbrica
sotto padrone e non sapeva che farsene dei sindacati o della coscienza di classe. Era un lavoratore
che intendeva il lavoro come costruzione, come avventura solitaria in cui si impara a lottare per la
vita e a porsi da uomini liberi di frotte agli altri e ai propri problemi da risolvere.
Faussone, così piemontese fin dalla desinenza del nome richiama altri nomi piemontesi e che ha
come radice la più famosa imprecazione piemontese (boia fàus), vive in giro per il mondo a
montare tralicci, ma la sua vita volontariamente raminga è in realtà frutto di un lutto, di una perdita.
Non può più continuare la tradizione dei suoi antenati calderai e stagnini: ha dimenticato il sapere
pratico del martello che piega il rame, lo incrudisce fino a renderlo non modificabile e perciò deve
nuovamente passarlo sul fuoco.
Fondamentale è l’idea del lavoro libero, nel quale il lavoratore inventa ogni volta la risoluzione dei
problemi. Anche il suo nome ha quel significato di libertà che è dato dal saper fare il proprio
mestiere.
Da questa meditazione sui racconti faussoniani, Levi prende le mosse per esporre la propria teoria
del lavoro, il lavoro come una delle più efficaci approssimazioni alla felicità sulla terra per l’uomo.
Sentirsi realizzati nel proprio lavoro, poter constatare che le proprie mani formano un oggetto, un
prodotto; comprendere che il sapere non sta solo nel cervello, ma che le mando modellano il
pensiero e hanno un loro sapere pratico che agisce sul sapere teorico ed è complementare a esso, è
una delle soddisfazioni maggiori che l’uomo possa raggiungere nella sua vita.
Fra tutte le interpretazioni del lavoro date nel ‘900 piemontese, quella di Levi è forse la più
moderna, quella che non nasce dalla tradizione contadina ma dal lavoro dell’artefice e conduce non
a una concezione del lavoro come dovere di produrre, ma come realizzazione del sé. In ogni caso,
anche Levi è d’accordo che tutti i lavori sono altrettanto impegnativi e devono esserlo per portare
felicità, la felicità dei risultati, della creazione data dalle proprie mani, dalle proprie conoscenze; e
solo il lavoro può dare la pienezza dei giorni, la felicità sulla terra.

2) LE LINGUE DI LEVI E LA LINGUA DI FAUSSONE


Quando si pensa alla lingua di Levi si pensa alla lingua di Se questo è un uomo: una lingua classica,
anzi costruita sui classici italiani e che non ammette uscite dalle norme sintattiche e a livello di
lessico può consentire non invenzioni, ma semmai arcaismi letterari.
Levi però introduce delle variabili, a seconda del genere e dell’opera alla quale sta lavorando. Se in
Se questo è un uomo doveva prevalere la testimonianza diretta del narratore e i personaggi
dialoganti erano forzatamente effimeri, a partire dalla Tregua i personaggi possono acquistare una
loro personalità a tutto tondo, un loro statuto autonomo. Prosegue e giunge al suo massimo grado
con il suo Faussone della Chiave a stella.
Più complesso il discorso sulle lingue settoriali e le lingue perdute: è il caso dello yiddish, il cui
studio sarà approfondito per Se non ora quando?, ma soprattutto della parlata ebraico-piemontese di
Argon, che Levi ricostruisce accuratamente interrogando chi aveva lavorato in negozi ebraici nel
primo ‘900, e ancora della lingua della Chiave a stella, dove la lingua di Faussone è modellata
sull’italiano regionale piemontese e in particolare su quello parlato nelle officine.
In Se questo è un uomo la sintassi è controllata e segue le norme della lingua scritta; la struttura è
prevalentemente paratattica e questo produce talvolta l’inserzione di brevi incisi parentetici oppure
di sdoppiamenti racconto/commento. Altra caratteristica è la frequente presenza di frasi brevi.
E’ il tempo verbale o l’aspetto verbale che costituisce l’aspetto più evidente della narrazione di Se
questo è un uomo; qui il presente “storico” diventa il tempo verbale predominante e a esso si
riferiscono gli altri tempi narrativi o commemorativi e pure l’uso alternativo dei normali passati
narrativi. Grazie all’uso del presente storico si produce un effetto di drammatizzazione e di
attualizzazione delle vicende narrate, quasi a voler trasportare il lettore sul luogo delle vicende
narrate.
Nelle opere successive si intensificano le inserzioni del linguaggio parlato e vengono introdotte
inflessioni dialettali e calchi da lingue straniere a caratterizzare i parlanti.

LE RADICI DELL’ES

1) VERSO LA TEORIA DEL CAOS


Il problema evidenziatosi con Vizio di forma, quella perdita di fiducia nel determinismo come
strumento conoscitivo, era stato soltanto allontanato, ma non risolto con i progetti del Sistema
periodico e della Chiave a stella.
La questione non cessò però di presentarsi a Levi e produsse una vera e propria crisi che dalla fine
degli anni ’70 si protrasse fino alla sua morte. Il problema di spiegare l’esistenza storica e
soprattutto la possibilità della nascita dei lager non poteva essere spiegato come un processo
deterministico, come un effetto derivato da una unica causa; per comprenderlo occorreva un
pensiero diverso e questo gli sembrò essere offerto dalla teoria del caos, che poteva essere spiegato
come un processo deterministico, come un effetto derivato da una unica causa; per comprenderlo
occorreva un pensiero diverso e questo gli sembrò essere offerto dalla teoria del caos, che poteva
essere applicata allo studio di un sistema complesso come la storia, dove le variabili in gioco sono
molte. Levi insisteva sul fatto che l’interpretazione storica non potesse essere ridotta a un principio
deterministico.
Nel principio degli anni ’80 Levi giunge a un principio epistemologico complesso, fondato non più
sul principio e sul meccanismo di retroazione, ma sul momento effimero di contatto tra opposti, non
sulla situazione di stasi ma sui momenti di turbolenza e di congiunzione tra opposti.
La “teoria degli stadi intermedi” verrà precisata nel corso degli anni ’80 fino a giungere a una vera e
propria teoria dei regni di mezzo, dei punti di connivenza tra opposti, che lo condurrà, infine, a
teorizzare la zona grigia. Momento fondamentale in questo percorso, sarà però la sconfessione della
retroazione: a quel punto il suo pensiero sarà diventato così pessimistico da coinvolgere l’universo e
perdere fiducia, appunto nella possibilità di retroazioni. A queste conclusioni Levi a un principio
epistemologico complesso, fondato non più sul principio della distinzione e sul meccanismo di
retroazione, ma sul momento effimero di contatto tra opposti, non sulla situazione di stasi ma sui
momenti di turbolenza e di congiunzioni tra opposti. La teoria degli stadi intermedi verrà precisata
nel corso degli anni ’80 fino a giungere a una vera e propria teoria dei regni di mezzo, dei punti di
connivenza tra opposti, che lo condurrà infine, a teorizzare la zona grigia. Momento fondamentale
in questo percorso, sarà però la sconfessione della retroazione: a quel punto il suo pensiero sarà
diventato così pessimistico da coinvolgere l’universo e perdere fiducia, appunto, nella possibilità di
retroazioni. A queste conclusioni Levi giungerà nel 1983, in un articolo non a caso leopardiano, Il
brutto potere: qui afferma il suo pessimismo cosmico fondato sulle nuove teorie scientifiche. Levi
giunge a un pensiero, nuove teorie scientifiche. Levi giunge a un pensiero, frutto delle interferenze
tra cultura scientifica e letteraria, così complesso e pessimistico che nella storia della letteratura
italiana moderna può essere paragonato solo a quello di Leopardi: a parlare per lui di “depressione”
come hanno fatto biografi e psicologi della domenica, significa aver compreso poco del suo
pensiero e applicare banalmente a lui terminologia e intrpretazioni schematiche senza giungere a
una comprensione del soggetto.
La ricerca della causa deterministica è abbandonata a favore di una teoria dei sistemi complessi: e di
questi l’uomo e la storia umana sono un esempio per eccellenza.
Vorrei parlare di un tema che è accennato in Se questo è un uomo e nella Tregua, e che ho trovato
già in Manzoni, quando Renzo Tramaglino minaccia Don Abbondio con il coltello. Manzoni
osserva che l’oppressore, don Rodrigo, è responsabile anche delle minori oppressioni fatte dalle sue
vittime. E’ un errore stupido il vedere tutti i demoni da una parte e tutti i santi dall’altra; invece non
era così, questi santi o oppressi erano in maggiore o minore misura costretti a compromessi, anche
molto gravi qualche volta, davanti a cui il giudizio può essere assai difficile.
La triste lezione manzoniana comporta una revisione del rapporto tra vittima e oppressore, ma non
nel senso voyeuristico di identificazione o di legame di dipendenza, bensì alla luce di un nuovo
approccio conoscitivo, a quello che in un’altra intervista del 1979 Levi inizia a definire una teoria
degli stadi intermedi, cioè al raggiungimento di un punto di contatto tra bene e male, tra luce e
ombra, tra vittima e carnefice; non è più sufficiente il separare, pesare, distinguere, del chimico:
occorre comprendere le dinamiche che si instaurano tra opposti, come in chimica ci possono essere
osmosi di liquidi o compenetrazioni di solidi.

2) LILÍT
Nel 1981 compare una nuova raccolta di racconti, Lilít, che a differenza delle precedenti presenta
un’inedita tripartizione degli argomenti; ogni sezione prende il nome da un tempo, e magari da un
modo verbale: passato prossimo, futuro anteriore, presente indicativo.
Al soggetto che è la prima parte di passato prossimo, e che si apre di più al lettore nelle altre due
sezioni: futuro anteriore e presente indicativo. La tripartizione è però anche il segnale di una
mescola non riuscita, di un libro che nasce da spunti diversi e porta in sé diverse anime. I racconti
apparvero su “La stampa” a partire dal 1976. La prima sezione, riguardante un passato dichiarato
prossimo, è dedicata ad Auschwitz, alla persecuzione degli ebrei.
Il più riuscito è forse proprio il racconto che dà il titolo alla raccolta, con la disputa tra l’ebreo pio e
quello incredulo a proposito dell’interpretazione della creazione della donna da parte di dio nel libro
della Genesi. Secondo una lettura cabalistica della Torah, dio creò la donna due volte: la prima
donna non sarebbe stata Eva, bensì Lilít che, ribellatasi, divenne una diavolessa che tenta di
soffocare i neonati e ruba lo sperma perduto dagli uomini per generare piccoli diavoli. A loro volta,
questi si presenteranno al funerale del defunto padre per reclamare la loro parte d’eredità. Ma lo
scandalo enorme, che porta il male sulla terra, è che dio ha abbandonato la sua compagnia, la sua
stessa presenta nel creato e ha iniziato una relazione con Lilít.
La seconda sezione, futuro anteriore, è anche più eterogenea. Alcuni racconti sono ancora ispirati ad
articoli apparsi su “Scientific American”, altri riprendono in vario modo il tema della panspermía
enunciato in Quaestio de centauris, altri hanno a loro volta origini difficilmente rintracciabili.
Andrà qui posta attenzione al tema della natura nemica, che ritornerà e sarà esplicitato da Levi ne Il
brutto potere del 1983.
La terza sezione del libro, presente indicativo, presenta ancora congerie di argomenti: si va dai
racconti etologici, alla ricerca artistica nel passato, a quella poliziesca su un disegnatore di
svastiche, a ricerche di persone immaginarie.

3) LA RICERCA DELLE RADICI


Nel 1981 Levi pubblica da Einaudi La ricerca delle radici. Antologia personale. Si tratta di una
scelta di letture, di passi di libri che hanno influenzato la preparazione e la formazione dello
scrittore. L’antologia personale di Levi raccoglie trenta passi di autori che lo hanno in qualche modo
influenzato. Vi sono inclusi scrittori antichi (Omero, Lucrezio) e moderni; scrittori della Bibbia,
come Giobbe, e testi di scienziati, scrittori che hanno inventato una propria lingua, come Rabelais e
Stefano D’Arrigo.
Questa congerie di autori e testi disparati avrebbe spaventato e confuso qualsiasi lettore: Levi se ne
rese conto e preparò delle chiavi di lettura alle quali riuscì anche a dare la forma di una
visualizzazione grafica; una mappa; Levi la definisce un grafo; oggi, forse, verrebbe definita un
diagramma di flusso.
Il grafo parte da Giobbe e giunge ai buchi neri, all’antimateria: è una raffigurazione, una mappa che
svolge quella visione del mondo negativa alla quale Levi è giunto in quegli anni. Su questa via che
dalla sofferenza umana porta alla materia oscura, negativa, sono disegnate quattro rotte, quattro
meridiani che presentano però una freccia di direzione, la direzione verso il nulla. In questa rotta
verso la materia informe, la vita umana, direbbe Levi “disegna un ansa” che dimostra la dignità
umana.
Fino ad allora Levi aveva dato un’impronta strenuamente logica alla sua opera e si era creato una
maschera da razionalista: questa maschera ora cade e Levi assume a propria impresa l’immagine
dello sguardo interno, del voyeur delle proprie viscere.

IL CONFRONTO CON L’EBRAISMO

1) SE NON ORA QUANDO?


Nel 1982 Levi pubblica da Einaudi il suo primo vero romanzo. Con Se non ora quando? Levi
progetta un romanzo con una trama che segue uno sviluppo causale e cronologico.
La trama era quella cara del viaggio, ma su questa trama potè innestare due argomenti che gli
stavano a cuore. Il primo è quello contro la pretesa arrendevolezza degli ebrei davanti al massacro:
si trattava di rispondere a una polemica male impostato e peggio cresciuta negli ambienti ebraici e
palestinesi, con le nuove generazioni che lanciavano accuse sulle precedenti. Il secondo tema è
quello antropologico, quell’amore che lo spingeva a parlare della tristezza non medicale che cresce
sulle rovine delle civiltà perdute e che gli fece condurre degli studi sulla lingua yiddish e sulla
civiltà degli ebrei dell’Europa orientale.
Il titolo è una variazione di un detto rabbino citato nel Pirké Avoth e attribuito al leggendario
rabbino Hillel.
Il romanzo ha un protagonista, Mendel, nel quale Levi si identifica e gli fa assumere alcuni suoi
temi di sempre, come il nome o il tempo. Questi temi per Mendel sono rovesciati: egli è
sopravvissuto alla distruzione del suo villaggio perpetrata dai nazisti, che hanno fatto scavare la
fossa ai suoi compaesani e poi li hanno uccisi. Mendel è orologiaio, ma ha ormai problemi con il
tempo; la sua vita è stata sradicata ed egli si dovrebbe aggirare come un astro spento per l’Europa,
ma si redime attraverso la lotta armata, che è la sua unica speranza di poter pensare a un futuro.
Nella costruzione del personaggio Mendel ha certo influito la memoria degli orologiai di Aushwitz,
gli unici capaci di mantenere il senso del tempo, delle feste prescritte e la dignità data da un lavoro
di precisione. Ma per Mendel, la distruzione del villaggio ha segnato una sfasatura del tempo:
vorrebbe essere capace di farlo tornare indietro, ma il povero orologiaio non può arrivare a tanto.

2) LEVI E L’EBRAISMO
Primo Levi aveva ricevuto l’iniziazione alla religione ebraica nell’adolescenza, ma poi si era
distaccati dalla religione e aveva fatto a meno di dio.
Prima della deportazione era però soggiunto un evento che aveva fatto nascere in lui la coscienza di
essere ebreo: le leggi razziali avevano avuto come risultato quello di rinvigorire il senso di
appartenenza a una cultura e a una tradizione, religiosa e culturale, negli ebrei italiani.
Ad Auschwitz aveva potuto avere un primo approccio con la cultura ebraica, un approccio falsato
dalla condizione del lager. Più approfondito fu il contatto che ne ebbe durante i mesi di
vagabondaggio in Polonia e durante il viaggio di ritorno verso l’Italia.
Negli anni però, Levi fu catalogato come scrittore ebreo: il fatto di essere stato deportato ad
Auschwitz per motivi razziali, l’aver scritto del lager e della condizione degli ebrei laggiù, lo
facevano classificare tra gli scrittori ebrei, benché egli si sentisse, semmai, uno scrittore italiano e
avesse riflettuto in Se questo è un uomo sulla condizione umana, non su quella ebraica in
particolare. Questa situazione si acuì con la pubblicazione di Se non ora quando?. In realtà, anche
stavolta, quello di Levi era un ebraismo acquisito intellettualmente, attraverso lo studio per giungere
a una cultura ebraica, quella dell’Europa orientale, che non esisteva più.

SCONFINAMENTI

1) L’ALTRUI MESTIERE
Nel 1985 Levi pubblica sempre da Einaudi un volume di articoli apparsi, prevalentemente su “La
Stampa”, e scritti in gran parte nel decennio precedente, tra il 1976 e il 1985. Si trattava di articoli
che sconfinavano in materie di cui non era specialista ma che attiravano la sua curiosità.
Questi articoli e altri entrarono a far parte del volume L’altrui mestiere col titolo Lo scriba. In quel
1984 Levi aveva acquistato un calcolatore munito di un programma di videoscrittura.
Il primo approccio fu segnato dalla paura dell’ignoto, dal pregiudizio di dover sapere tutto della
macchina e dalla paura di perdere il testo composto. Proprio l’immaterialità del testo, l’abbandono
del supporto cartaceo e la virtualizzazione del testo furono i traumi del passaggio dalla
composizione a mano o a macchina alla videoscrittura.
Il computer di allora aveva necessità che il programma di avvio fosse inserito dall’esterno sul
supporto di un disco magnetico, questo fatto ricordò a Levi un proprio racconto, Il servo, inserito in
Vizio di forma e in cui riparava la vecchia leggenda del rabbino Arié e dell’invenzione del golem:
quella porzione di materia, ossia di caos riceveva la legge che lo faceva muovere e obbedire sotto
forma di un versetto della Torah che gli veniva infilato in bocca; solo così il golem poteva prendere
vita e funzionare. L’analogia con il computer gli sembrò subito evidente.
Il computer fu però nel 1984 una sfida che lo fece sentire al passo coi tempi e gli fece sparire
l’uggia del sopravvissuto al suo tempo.

3) LEVI TRADUTTORE
Con Lasciapassare per Babele, un articolo apparso su La Stampa il 5 novembre 1980, Primo Levi
affrontava il problema della traduzione a partire, ancora una volta, dal racconto biblico della torre di
Babele.
Levi fa discendere alcune motivazioni della diffidenza per lo straniero e una delle cause del
razzismo.
L’articolo proseguiva con l’indicazione di alcune difficoltà conosciute da ogni traduttore: la
polisemia assunta da certi termini nelle diverse lingue, i “falsi amici” ecc, e terminava con un breve
accenno ai sentimenti ambivalenti che prova l’autore tradotto verso il suo traduttore.

IL BRUTTO POTERE

1) Il BRUTTO POTERE
A partire almeno dal 1983, questo modello di lettura del mondo si tinge di un profondo pessimismo:
la scoperta dell’antimateria, di una forza negativa volta all’in giù, gli sembra la conferma che il caos
e l’entropia finiscano per prevalere nella natura.
Contro questa forza che conduce al caos possiamo combattere col cervello o con meccanismi che
rientrano nel principio dell’omeòstasi e che, attraverso la retroazione, consentono di ripristinare
l’equilibrio.
A livello stilistico non possiamo parlare di leopardismo per Levi; ma di sicuro e forse per la
maggior ragione che per Leopardi, possiamo parlare di pessimismo cosmico per l’ultimo Levi, che
non trova più forze da opporre alla distruzione; nel mondo il ciclo di retroazione si è spento e
nessuna forza consente di ristabilire i parametri di omeòstasi.
La stupidità, il caos, il groviglio sono intrinseci alla materia: la hyle primigenia di cui parlavano i
presocratici, la roccia con la quale Levi si confrontava in montagna, e anche l’uomo in quanto
materia, e tutti i suoi manufatti, ricevono in eredità la loro quota di caos o stupidità.

2) LA POESIA AD ORA INCERTA


Quando nel 1984 apparve presso Garzanti il suo volume di poesie Ad ora incerta, si potè vedere che
la produzione poetica di Levi era numericamente concentrato in alcuni periodi. La raccolta si apre
con una poesia in sestine rimate. Segue una poesia del 1945 e ben 14 del 1946. La composizione si
infittisce tra il 1978 e il 1984, periodo per le quali nella raccolta sono attestate ben 34 poesie.
All’interno della sua produzione poetica si possono ritrovare vari testi legati al filone della poesia
scientifica, di cui Levi ritrova l’origine in Lucrezio: uno dei più significativi riguarda la scoperta
dell’antimateria, dei buchi neri ed è ispirata allo stesso testo letto su “Scientific American”.
Si trovano poesie che descrivono il naturale processo evolutivo; o ancora poesie sulla distruzione
dell’ambiente; poesie in cui di solito si fa riferimento a tempi lunghi, talvolta non umani ma
cosmologici, che danno la sensazione del processo epico o delle metamorfosi intervenute durante
l’evoluzione.
La linea comico-satirica della poesia di Levi emerge soltanto negli anni ’80 ed è piuttosto variegata.
Cerca con decisione una vena comica o decisamente parodica; talvolta è un’autoparodia, come nel
caso della poesia Alla musa.
Altre volte il tema si fa più duro, diventa violenta satira sociale, come accade a proposito della
gioventù ignorante e violenta dedita alla distruzione, simile alla base delle camicie nere.
L’altro filone della sua produzione poetica, quello della poesia sull’uomo che soffre ingiustamente,
ha la sua esemplificazione moderna nel campo di sterminio. Si pensi alla famosa Shemà che fa da
epigrafe a Se questo è un uomo e ad altre poesie per lo più della prima stagione poetica di Levi; qui
molte altre composizioni riprendono l’esperienza di Auschwitz e del nazismo.
La poesia Il superstite è strettamente legata al titolo della raccolta: abbiamo sottolineato più volte
come Levi avesse preso a proprio emblema The rime of Ancient Mariner di Coleridge, per quanto
concerneva la propria condizione di reduce che raccontava le proprie esperienze e che egli
assimilava a quella del vecchio marinaio che infligge le sue storie di malefici a chi incontra. Ma
nella poesia Il superstite, il primo verso cita la “uncertain hour” la stessa che dà il titolo alla raccolta
poetica del 1984 e che servirà a epigrafe de I sommersi e i salvati nel 1986.
E’ qui che viene annunciata l’alternativa tra chiaro e scuro, tra giorno e notte, tra veglia e sonno, tra
vita e morte: è questa alternativa che aveva dovuto colpire Levi insieme alla polisemia
dell’espressione uncertain hour: non soltanto, e non tanto ora imprecisata, quanto ora trascolorante
di mutazione dal giorno alla notte, ora vespertina e crepuscolare che segna il passaggio metaforico
da uno stato di veglia razionale a uno in cui prevalgono gli impulsi inconsci.
Quest’ora incerta è allora un’ora molto precisa, è l’ora dell’incertezza tra il giorno e la notte, tra la
veglia e il sogno, è quella in cui il dominio del super-io viene messo in discussione dall’Es; è l’ora
in cui nessuna delle opposizioni prevale sull’altra, è l’ora intermedia, delle zone grigie in cui
scompare la fiducia illuminista nel separare e distinguere, in cui bisogna fare i conti con una realtà
complessa, fatta di connivenze, corruzione, abiezione.

3) ZWISCHENREICHE, STADI INTERMEDI


Con il saggio il Brutto potere del 1983 Levi distrugge la fiducia nella retroazione, quella forza che
nella sua visione del mondo si opponeva all’entropia, al caos che tutto volge all’in giù; giunto a
questo punto, egli mostra sfiducia anche nella teoria del caos come utile a spiegare i sistemi
complessi: lo fa con un saggio del 1985 intitolato Riprodurre i miracoli. Qui Levi ricorda 3 eventi
inspiegabili e non riproducibili avvenuti durante la sua attività di chimico.
Da questo dubbio sulla possibilità di spiegare provengono due risultati: il primo è il mettere in forse
le capacità della memoria; l’altro è l’interesse per il non spiegabile, non a partire dal paranormale
ma a partire da quella scoperta dell’inconscio non razionalizzabile. Levi giunse ad un altro
paradigma epistemologico, non derivato dalla scienza ma dalla cultura letteraria e filosofica, con il
quale sostituire la teoria del caos. Per la prima volta abbandonò parzialmente il paradigma chimico
del separare, pesare e distinguere per giungere a una teoria degli stadi intermedi, della zona in cui le
diversità o gli opposti si incontrano, pur restando separati.
Nel libro lo stadio intermedio più rilevante sarà la teoria della zona grigia, la zona della connivenza
e dell’impossibilità di distinguere il bene dal male.
E’ arduo decidere attraverso quali influenze letterarie egli sia giunto a questa storia: certo la ricerca
dei regni di mezzo, degli stati di passaggio e delle figure della sospensione ha una notevole fortuna
novecentesca: dal transfert definito da Freud come uno Zwischenreiche, un regno di mezzo tra
salute e malattia, all’elaborazione della terra di mezzo cui Tolkien giunse attraverso l’esperienza
della guerra di trincea, fino alla dialettica del risveglio elaborata da Walter Benjamin come
momento in cui si compenetrano e superano gli stadi della coscienza onirica e di quella desta.
Gli stadi intermedi sono un tema fondamentale di un poeta col quale Levi, a partire dal 1976, aveva
iniziato un lungo confronto: voglio dire Paul Celan. Nella poesia di Celan, al di là dell’oscurità
proclamata da Levi, si scorge una continua ricerca degli stadi intermedi: già soltanto nei titoli delle
sue raccolte poetiche è facile trovare una congiunzione tra opposti, o meglio ancora, la ricerca di un
istante intermedio dove trovare la verità.
Proprio il momento intermedio tra giorno e notte, quello in cui la luce è incerta, affascina Levi che,
nei suoi ultimi anni, assegna valore emblematico ai versi di Coleridge: l’ora incerta è dunque un’ora
molto precisa, quella dello stadio intermedio tra giorno e notte, tra luce e buio, è l’ora del
crepuscolo.
Il Superstite: segno di una riflessione o di un rimuginamento che era continuato e che avrebbe
trovato l’espressione più completa nel capitolo La vergogna de I sommersi e i salvati. La clausola
finale riporta a un altro stadio intermedio, quello tra il mondo dei vivi e il mondo dei morti, tra i
sommersi e i salvati. In altre poesie anteriori o posteriori Levi si augurava che l’incubo dei morti
che appaiono in sogno si manifestasse ai carnefici e a coloro che avevano tratto profitto dai
cadaveri. Ma la parte di tenebra che Auschwitz gli aveva lasciato in retaggio continuava
probabilmente a riemergere nel suo lato notturno: anche se non provava più incubi, il senso di
colpa, la vergogna di essere sopravvissuto diventava l’aspetto più subdolo e sottile e quella
condanna inflittagli, come all’Ulisse dantesco, da un potere che non conosceva.

4) RACCONTI E SAGGI
Il volume Racconti e saggi fu pubblicato dall’editrice “La Stampa” alla fine del 1986, come raccolta
di scritti apparsi sul quotidiano; sembra che Levi volesse intitolarlo Il fabbricante di specchi, titolo
che è stato assunto nelle traduzioni straniere. Contiene materiali eterogenei per argomento e data di
composizione.

TRA LE PIEGHE DEL MALE

1) I SOMMERSI E I SALVATI
Nel 1979, Levi annunciava il progetto di un libro in cui sarebbe tornato a meditare su Auschwitz e
sulla realtà concentrazionaria. Una riflessione storica sui lager e sulla loro ricezione nel mondo di
quasi quarant’anni dopo.
La domanda su come avesse potuto svilupparsi una simile officina di distribuzione non aveva
ancora trovato risposte soddisfacenti. Levi continuava a pensare ai rapporti interni al lager, alle
situazioni e alle posizioni dei prigionieri che erano diverse e variegate nella gerarchia dei campi,
alla condizione dei sopravvissuti, alla difficoltà di comunicare, alle reazioni dei tedeschi. Il punto di
partenza era una riflessione manzoniana sul male, sul potere che il male ha di corrompere anche chi
lo subisce.
Il libro non fu scritto di getto, ma fu pensato per anni e le poche parti già pubblicate furono
variamente rimodellate e ripensate da Levi per confluire nel progetto complessivo. Il volume uscì
nel 1986, presso Einaudi e in questa versione definitiva alla prefazione seguono otto capitoli e una
conclusione.

2) COLPA E MEMORIA
Questo straordinario libro di indagine sull’uomo e sui meccanismi che usa per interagire con il male
e con il dolore ha ispirato numerose riflessioni sulla memoria e la testimonianza.

a) PREFAZIONE
La prefazione accenna a temi molto dibattuti sui lager; in primo luogo, come potevano non sapere i
tedeschi dei campi di concentramento? A questa domanda Levi risponde che la mancata diffusione
della verità sui lager costituisce una delle maggiori colpe collettive del popolo tedesco, e la più
aperta dimostrazione della viltà a cui il terrore hitleriano lo aveva ridotto: una viltà entrata nel
costume e così profonda da trattenere i mariti dal raccontare alle mogli, i genitori ai figli; senza la
quale, ai maggiori eccessi non si sarebbe giunti, e l’Europa ed il mondo oggi sarebbero diversi.
Un altro tema deve poi essere affrontato e detto una volta per tutte: nella storia umana i massacri, i
genocidi, i campi di concentramento si sono tristemente ripetuti, ma quello nazista si distingue per
la volontà di estirpare un popolo attraverso una macchina burocratica che sfrutta prima la forza
lavoro del prigioniero e poi il suo stesso corpo materiale.

b) Memoria dell’offesa
Levi affronta un problema epistemologico col quale il giudice e lo storico hanno sempre a che fare e
che spesso l’uomo comune sottovaluta o non prende in considerazione: la memoria non è fatta solo
di registrazioni, ma nel suo meccanismo agiscono altri fattori, volontari o involontari, che
modificano la registrazione dei ricordi.
C’è una forza nella natura che porta verso la perdita, verso l’annullamento, della vita come dei
ricordi personali; è quella, già ricordata, che porta alla morte, al ritorno della materia, allo stato di
caos, al giù senza ritorno.
La trasformazione dei ricordi ha un naturale nemico: i fatti. Molto più facile è manipolare le
intenzioni, arrivando perfino a sopprimere i ricordi sgradevoli. Non a caso i nazisti erano molto
abili a proteggere le coscienze degli addetti ai lavori sporchi. L’allontanamento dai fatti, dalla verità,
può avere come ultima conseguenza l’abbandono della realtà, e questo forse è successo durante la
fine del Terzo Reich.

c) La zona grigia
Una delle preoccupazioni maggiori di Levi riguardava il comprendere, far comprendere l’esperienza
del lager agli altri comportava delle semplificazioni: la narrazione o la comunicazione devono
ricorrere a degli schemi comunemente accettati, e questi possono causare equivoci, fraintendimenti,
equiparazioni tra avvenimenti totalmente diversi.

d) La vergogna
Il tema della vergogna del sopravvissuto era già emerso dalle pagine di Se non ora quando? E nella
poesia Il superstite. Il capitolo si apre con la constatazione che il momento della liberazione, come
era già stato narrato nella Tregua, non fu momento di gioia; assaliva il prigioniero un senso di
angoscia, di vergogna per quanto subito, per la destituzione dalla condizione umana, e insieme un
senso di vuoto, di paura del futuro. Vi si aggiungeva un vago senso di colpa per non essersi ribellati
e aver combattuto eroicamente fino alla morte.
Il senso di vergogna del sopravvissuto è dovuto ad altro. Chi è rimasto in vita ad Auschwitz lo ha
fatto perchè era riuscito a ottenere una razione alimentare ulteriore, visto che quella del campo era
insufficiente a sopravvivere per più di tre mesi. Il senso di colpa proviene da quello, dal fatto di aver
raggiunto una posizione di superiorità rispetto al grande numero dei “sommersi”, di coloro che non
ce l’hanno fatta a sopravvivere.
Ma non è solo la causa della propria sopravvivenza a inquietarlo, quanto un dubbio che cresce a
poco a poco in lui a proposito della testimonianza stessa. Se egli fosse stato salvato per deporre di
fronte agli uomini, come pretendeva l’amico, sarebbe comunque stato un testimone imperfetto, solo
chi è morto ha raggiunto la conoscenza ultima del lager.
E’ questo un tema che Levi svolge fino in fondo, quasi in una sorta di ansia di discolparsi
dimostrando che la sua esperienza è stata imperfetta, che il testimone perfetto non poteva esistere,
poiché, come in ogni caso di omicidio, questi coincide con il morto.
L’attenzione di Levi si sposta sulla condizione del prigioniero testimone, sugli impulsi che lo
spingono ad attestare della realtà del lager.
3) COMPRENDERE, NON PERDONARE
Dopo il nucleo dei primi tre saggi dedicati all’analisi interna del lager e della trasmissione che di
quell’esperienza è stata fatta dai sopravvissuti, seguono gli altri 5 saggi dedicati per lo più a
problemi di ricezione di quell’esperienza da parte di chi non l’ha vissuta. Il quarto saggio,
Comunicare, riguarda il problema della comunicazione linguistica all’interno del lager e il fatto che
capire gli ordini urlati in lingua straniera fosse un discrimine per la sopravvivenza iniziale; ma
anche il fatto che poter comunicare i propri pensieri a qualcuno fosse un bisogno essenziale del
lager, alla pari del trovare nutrimento per il corpo. Il quinto saggio riguarda l’analisi della violenza
inutile all’interno del lager: ad Auschwitz non solo incombeva quotidianamente la morte, ma la
violenza gratuita era costruita inizialmente dalla privazione del pudore, delle più elementari regole
igieniche, dalla costrizione a ferree e stupide regole da caserma, fino al lavoro inutile e vessatorio.
Ci sono però due capitoli, il sesto e l’ottavo che affrontano un altro aspetto: quello del rapporto con
i possibili alleati o nemici dei suoi libri su Auschwitz. Il primo in particolare istituisce un confronto
a distanza con Jean Améry, un filosofo sopravvissuto ai campi di sterminio e morto suicida nel
1978, dopo aver sostenuto una linea di intransigenza contro l’oblio dell’offesa. Levi e Améry non si
incontrarono direttamente ma entrarono in contatto grazie a una comune conoscente.
Améry aveva definito Levi “il perdonatole”, definizione che egli non accetta.
Credo che la distanza tra di loro derivi in parte dalla diversa impostazione culturale, in parte dal
manzonismo di Levi che cerca di proteggere la vittima dalla continuazione della violenza nella sua
anima.
Che Levi non fosse un “perdonatole”, ma un uomo che cercava di non essere oppresso dal
risentimento in modo da poter condurre una vita serena, è confermato dal capitolo Lettere ai
tedeschi.

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