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La svolta autobiografica.

Infanzia e memoria nell’Ottocento italiano - Anna Maria Iuso

Introduzione
Secondo Levi-Strauss (antropologo) è stata la storia la prima disciplina che ha conferito alla
narrazione di una vita la dignità di una forma di conoscenza particolare. A tal proposito, egli
propone una gerarchia delle storie. In Pensiero Selvaggio sostiene infatti che esistono “storie di
ineguale potenza”, ovvero una storia grande che consiste in “spiegazioni” e una storia piccola che
consiste in “informazioni”. La grande storia di lunga durata ordina i millenni, le epoche, i secoli e i
periodi, mentre la storia biografica e aneddotica si trova in fondo a questa scala. Per Levi-Strauss la
storia biografica e aneddotica è la meno esplicativa, ma è la più ricca sul piano dell’informazione,
poiché considera gli individui nella loro particolarità e precisa, per ognuno di loro, le sfumature del
carattere, i motivi che li spingono all’azione e le fasi delle loro scelte. Tutte queste sono
informazioni uniche che si perderebbero se si passasse ad una storia di rango superiore, più estesa
nel tempo e nello spazio. Di conseguenza, per Levi-Strauss si impone una scelta fra una storia che
insegna di più e spiega di meno (storia piccola), e una storia che spiega di più e insegna di meno
(storia grande). Inoltre, secondo Levi-Strauss, ogni interpretazione deve quindi far coincidere
l’oggettività dell’analisi storica con la soggettività dell’esperienza vissuta. Verso la seconda metà
del XVIII secolo avviene un cambiamento tale che rende la narrazione di sé una pratica comune. La
scrittura autobiografica, a passo con i tempi in cambiamento e con la progressiva alfabetizzazione,
conquista il suo status e tocca l’insieme degli ambienti sociali. Questa narrazione prende forma in
tre pratiche: la narrazione retrospettiva di un’esistenza, ovvero l’autobiografia; il diario personale,
che inizialmente è riservato ai pensatori, ma poi diventa anche una pratica piuttosto femminile e
giovanile; la corrispondenza privata.

PARTE I
La svolta autobiografica
In Italia l’autobiografia rappresenta una realtà paradossale, in quanto anche se da tempo
riconosciuta e celebrata nella storia della letteratura, è stata identificata come fenomeno sociale in
quanto tale solo nel momento in cui si è diffusa a livello popolare. Prima era solo una questione
letteraria dei grandi autori come in Petrarca, Alfieri, Cellini e Casanova; nei secoli XVIII e XIX
sono nate vere e proprie inchieste tese a sollecitare la pratica autobiografica. Gli archivi
autobiografici sono pieni di scritture personali nati da eventi storici come la guerra, le emigrazioni.
In italia ci sono due archivi autobiografici come quello a trento che raccoglie 700 unità
archivistiche e arezzo presenta 7000 testi. Gli archivi autobiografici hanno lo scopo di raccogliere
diari, carteggi, memorie di gente comune che decide di depositarli.

CAPITOLO I – INDAGINE SU DUE INCHIESTE


da Porcìa a roux
Nel 1728 Giovan Artico da Porcìa lanciò il Progetto ai Letterati D’Italia, che si inseriva in un
vasto dibattito sul rinnovamento culturale italiano. Egli voleva ridefinire il ruolo del letterato
esponendo al pubblico le biografie di alcuni letterati italiani. L’autobiografia intesa come nuovo
genere saggistico diventa così lo strumento proposto per questa rivoluzione culturale, poiché
permetteva l’organizzazione sistematica e scientifica del lavoro intellettuale. Il Progetto aveva
quindi carattere formativo, ma anche polemico, perché mirava ad opporsi all’egemonia dei Gesuiti,
soprattutto nell’area pedagogica. Ciò che veniva richiesto ad ogni letterato era di descrivere prima
la propria formazione scolastica e poi l’evolversi del proprio pensiero. Anche se condiviso da molti
a livello teorico, il progetto ebbe una lunga gestazione e inoltre, le adesioni ideologiche cedettero
presto il posto alle difficoltà pratiche, in quanto tra gli intellettuali regnava una certa reticenza ad
esporsi in tale modo. Dunque, solo poche biografie giunsero ad Artico, di cui alcune con richiesta
di pubblicazione postuma. Fu Giambattista Vico a scrivere la prima e unica autobiografia
realmente rispondente ai canoni di Artico. L’autobiografia può essere definita come un fulcro di
osservazione privilegiato per apprendere e conoscere i mutamenti culturali e sociali in cui
l’elemento chiave è l’individuo, inteso come luogo in cui questi cambiamenti sono percepibili.
Siamo ancora lontani dall’autobiografia moderna, concepita come strumento di auto-coscienza, ma
qui sono poste tutte le condizioni affinché l’esperienza autobiografica sia vista come la
testimonianza dell’individuo posto nel flusso della storia. Artico non ebbe successo nel suo
progetto.

Un Trattato precoce - Callimaco Mili/Almici


Nel 1768 fu pubblicato il Trattato di Callimaco Mili del modo di scrivere le Vite degli Uomini
illustri, con un’appendice Circa lo scrivere la Vita di sé medesimo. Nel secolo delle grandi raccolte
autobiografiche, Almici traccia il canovaccio della biografia ideale. I punti focali sono la scelta del
soggetto; l’ordine dell’esposizione e lo stile. Lo scopo è sia dare giustizia al merito e alla virtù sia
dare al pubblico un modello cui potersi ispirare. L’Appendice è invece un vero e proprio manuale
dell’autobiografia che Almici legittima proponendo modelli laici e religiosi, da Giulio Cesare a
Santa Teresa, giustificando così la doppia natura dell’autobiografia, che può avere un fine
esclusivamente secolare, ovvero dare notizie di sé nei secoli, o perseguire uno scopo più alto,
ovvero confessare a Dio il bene e il male di sé. Alla dimensione pedagogica, già presente in Artico,
si aggiunge la dimensione morale, aprendo nuovi orizzonti al genere autobiografico: si possono
scrivere sia vite parziali, il cui oggetto è la crescita intellettuale, sia vite integrali, quelle che
maggiormente comportano una dimensione morale. La vera difficoltà dello scrivere di sé è quella di
esagerare le proprie virtù e sottovalutare i difetti; questo tema è ripreso da Philippe Lejeune, che
definisce il genere dell’autobiografia attraverso il “patto autobiografico” che l’autore deve stipulare
con il lettore. L’obbligo di veridicità che l’autore contrae nei confronti del pubblico distingue infatti
l’autobiografia da qualsiasi testo storico. Le esperienze di Almici e di Artico non saranno
valorizzate successivamente né verranno prese molto in considerazione dai teorici dei decenni
successivi.

L’infanzia dei grandi uomini - Onorato Roux


Onorato Roux fu uno scrittore molto impegnato sul versante educativo e direttore della rivista Il
Giornaletto dei Ragazzi, settimanale per l’infanzia, che nel 1891 ha cominciato a pubblicare dei
ricordi d’infanzia di uomini illustri. Roux intraprende una vasta opera di raccolta di autobiografie
edite nel corso dei secoli (60 autobiografie) che descrivono le infanzie di italiani che hanno dato
lustro alla nazione, come Marco Aurelio, Petrarca, Cavour, Garibaldi, ecc.: uno sguardo diacronico
sulla cultura italiana incentrato però non tanto sulla vita intellettuale dei suoi protagonisti, ma sulla
loro infanzia, poiché Onorato Roux riteneva che la nuova nazione si dovesse forgiare attraverso la
sua gioventù. Inoltre, egli apre un’inchiesta per raccogliere i racconti d’infanzia dei suoi
contemporanei, cosa che ancora una volta ottenne scarsi seguaci. I rifiuti furono probabilmente
dettati da pudore e disagio, dovuti al problema di scrivere di una parte di sé stessi lontana e difficile
da riconoscere, nonché dal fatto che l’infanzia era spesso considerata indegna di essere raccontata
perché priva di episodi straordinari. L’infanzia degna di essere raccontata era, infatti, per i
contemporanei di Roux quella di bambini prodigio, dei testimoni di eventi storici o di soggetti di
azioni speciali. Ad un secolo e mezzo di distanza, sebbene in entrambe le inchieste l’esperienza
autobiografica sia vista come momento conoscitivo, le esperienze di Artico e Roux si
contrappongono: Artico richiedeva un’autobiografia intellettuale che limitasse al minimo qualsiasi
componente personale, senza fare alcuna allusione all’infanzia; era incentrato sul processo di
formazione dell’uomo celebre in quanto intellettuale. Invece, Onorato Roux chiedeva solo una
narrazione dell’infanzia, concepita come periodo di formazione; l’attenzione era rivolta
all’individuo in quanto tale, nelle sue manifestazioni più spontanee e naturali.

CAPITOLO II –
CERCANDO GLI AUTOBIOGRAFI
Lejeune nel 1971 pubblica l’Autobiographie en france in cui presenta la definizione, la storia e le
problematiche dell’autobiografia intesa come una narrazione a posteriori del corso di una vita.
gusdorf ha analizzato le autobiografie tedesche e anglosassoni. Grazie a loro due si è delineata le
dimensioni enormi del fenomeno dell’autobiografia. i tedeschi già nel 1796 scrivevano
autobiografie, gli inventari inglesi si concentrano su donne, neri e operai. In Francia lejeune ha
raccolto vite di industriali, criminali e omosessuali. Dunque il 19 secolo è stato un secolo in cui si
ha avuto la diffusione maggiore della pratica autobiografica.

UNO SGUARDO ITALIANO: L’AUTOBIOGRAFIA COME GENERE E COME PRATICA


Per nicoletti, lo studio dell’autobiografia era superficiale perché mancava di una sistemazione
documentaria. Chi sceglieva di volgere lo sguardo verso tale autobiografia si rifaceva alla querelle
tra gusdorg e lejeune. Il primo si affidava all’ambito filosofico e antropologico, il secondo a quello
letterario. Le riflessioni di guglielminetti portano l’autobiografia da oggetto culturale a soggetto
culturale.

L’Ottocento antologico e i primi passi verso un inventario


In questo periodo, Alessandro D’Ancona (storico della letteratura e politico) sottolinea come la
funzione centrale dell’autobiografia diviene quella di fare in modo che uomini straordinari, che
condensano in sé lo spirito della propria nazione, siano conosciuti da vicino, in modo da fornire un
esempio su cui riflettere e da imitare. A tal proposito, nel 1882 Ferdinando Martini cura una
raccolta di brani autobiografici, intitolata Il primo passo, il cui obiettivo è quello di svelare al
pubblico quali sono stati, appunto, i primi passi di personaggi illustri nel loro approccio alla
scrittura, prediligendo soprattutto quelle parti di vita inedite in cui maturano le idee e la vocazione.

CAPITOLO III – L’IO E LA STORIA


Lejeune
Nel 1971 Philippe Lejeune pubblica L’autobiographie en France, un volume in cui presenta
sommariamente la definizione, la storia e le problematiche dell’autobiografia, concepita come una
narrazione a posteriori del corso di una vita. Lejeune identifica come autobiografia moderna quella
che narra non della carriera sociale o intellettuale di un individuo, ma dello sviluppo della sua
personalità. Egli identifica l’atto di nascita di questa nuova autobiografia nelle Confessioni di
Rousseau (titolo che si rifà probabilmente alle confessioni di Sant’Agostino), ovvero un’opera
autobiografica pubblicata postuma nel 1782, in cui l’autore racconta i suoi primi 53 anni di vita in
12 libri. I primi sei capitoli ricoprono gli anni della formazione, dalla nascita a Ginevra all’arrivo a
Parigi, quando Rousseau ha 28 anni; mentre gli ultimi sei capitoli trattano la sua introduzione
nell’ambiente della capitale e si dedicano alla filosofia e agli attacchi subiti in seguito alla
pubblicazione di Emilio, attacchi che lo portano a fuggire in Svizzera. Questa transizione verso
un’autobiografia moderna viene notata anche da Amalia Guglielminetti (scrittrice), la quale nel
1986 studia gli scritti autobiografici settecenteschi e nota che l’autobiografia nasce come racconto
di sé concepito in funzione della propria attività d’intellettuale o scrittore. Amalia nota, però, una
sorta di graduale evoluzione verso l’autobiografia moderna, quella rousseauiana, che non consiste
nella presentazione di un individuo in quanto produttore di altre opere, ma rappresenta l’autore
come uomo a tutto tondo. Secondo Lejeune, l’autobiografia è la narrazione retrospettiva che
qualcuno fa della propria esistenza, mettendo l’accento sulla vita individuale e sulla storia della sua
personalità. Questa definizione mette in gioco tre elementi che appartengono a categorie diverse;
un’autobiografia è, infatti, tale solo se soddisfa tutte le seguenti condizioni indicate per ciascuna
categoria: la forma del linguaggio nel caso del racconto o della prosa; il soggetto trattato, quindi la
vita individuale e la storia di una personalità; la situazione dell’autore, in riferimento all’identità tra
autore, narratore e personaggio, e alla prospettiva retrospettiva della narrazione.
Memorie o Autobiografie?

Dalla critica letteraria a quella antropologica


Dopo la prima definizione, Lejeune ha lavorato su un elemento proprio dell’autobiografia: una
sorta di “patto autobiografico” che l’autore fa con il proprio lettore in cui afferma l’identità tra
autore, narratore e personaggio, assicurando di essere lui stesso il soggetto della narrazione, e si
impegna a rispettare la veridicità dei fatti narrati, pur essendo certo di non dire tutta la verità. Una
volta acquisiti gli elementi che ci consentono di collocare l’opera all’interno della produzione
letteraria, bisogna affrontare la questione in termini di individuo-mondo. Il problema che si trova di
fronte la critica letteraria è di tipo strutturale, essendo lo statuto dell’autobiografia a metà strada tra
la produzione letteraria e la pratica sociale. Per Lejeune il solo modo di lettura dell’autobiografia
che è veramente adatto è la critica antropologica, poiché l’interpretazione delle scritture dell’io deve
esplorare le evoluzioni del vissuto intimo, a prescindere dalla questione stilistica.

Un’autobiografia per chiunque?


Ogni persona cerca il filo rosso nella propria vita, indicando le tappe fondamentali e stabilendo i
punti di riferimento, ma per arrivare all’autobiografia basta il semplice desiderio di parlare di sé, di
lasciare una traccia della propria esistenza, anche se ordinaria. Bisogna riconoscere che scrivere
un’autobiografia significa ricomporre la propria vita secondo l’ordine dei valori che la giustificano.
ra i presupposti per l’emergere dell’autobiografia come pratica culturale nell’800 troviamo
innanzitutto l’alfabetizzazione, che gioca un ruolo fondamentale come strumento di
modificazione dei modi di pensare. Al di là della semplice diffusione della capacità di saper leggere
e scrivere, bisogna considerare l’alfabetizzazione come l’ingresso nella società di nuove modalità di
apprensione del reale. Essa si realizza attraverso due movimenti: a) imposizione dell’istruzione
scolastica e la produzione di documenti indispensabili per una corretta gestione dei nuovi rapporti
con lo Stato; b) la diffusione lenta e progressiva della scuola. Altro presupposto è il cambiamento
della sensibilità rispetto a sé stessi e al mondo, che è dovuto in buona parte ai cambiamenti radicali
del XIX secolo, che hanno creato la possibilità di poter scoprire e concedere il piacere di dedicarsi a
sé stessi. Poi abbiamo i mutamenti della struttura delle società occidentali, avvenuti appieno con
l’avvento dell’industrializzazione: l’inversione dei valori, delle priorità sociali, la maggiore
attenzione al benessere individuale, i nuovi rapporti con lo Stato portano ad una concezione
dell’individuo in cerca di sé stesso. ESEMPIO: NOBILI: avvocato e pubblicista, scrive poche
pagine, esempio letterario e antropologico, scegli i personaggi che sono stati determinanti per la sua
formazione, eventi. Descrive il luogo di nascita, poi presenta nonni, genitori, balie, cuochi. Scegli
eventi straordinari per lui e il paese dell anno 1859. Si descrive fisicamente, poi i metodi educativi,
la religione, la patria, la scuola, i giochi con gli amici, il primo amore e poi gli eventi che lo hanno
cambiato.

PARTE II
CAPITOLO IV – L’UNIVERSO DELLA SCRITTURA
I cavalli di Troia
La scrittura assume diverse funzioni: già indispensabile per i rapporti con lo Stato, mantiene
anche i legami tra coloro che partono e coloro che restano a casa. Leggere, scrivere e contare è
una triade che si è formata solo progressivamente; saper leggere insegne o numeri non comportava,
infatti, il saper scrivere. Tuttavia, grazie ad alcuni elementi scrittori che, come cavalli di Troia, sono
entrati in una cultura che era essenzialmente orale, per forgiare la “literacy”, ovvero una cultura
alfabeta in cui la scrittura ordina il reale. nel XIX secolo il luogo principale di trasmissione del
sapere era la famiglia, le figure di transizione tra i cavalli di Troia e l’istituzione scolastica erano i
maestri informali o stagionali, maestri con nessuna specifica specializzazione pedagogica. Bastava
saper leggere e scrivere per insegnare in un paese di analfabeti. Un esempio è emilio bandelloni,
che decise di trasferirsi a sorano dove insegna a leggere o scrivere ma anche a scrivere teatro o
lettere amministrative.

L’odiosamata
Sebbene l’800 sia considerato il secolo dell’alfabetizzazione in tutta Europa, non si trattò di un
processo né uniforme né costante. Quando il dispositivo della scuola fu messo in atto, non era di
certo un organo equilibrato. I dati sull’alfabetizzazione mostrano disparità tra l’istruzione scolastica
delle città e delle campagne, tra Nord e Sud. Sostanzialmente a fine Ottocento solo la metà della
popolazione italiana era “istruita”. Anche se introdotta, molto spesso la scuola non era facilmente
fruibile, poiché composta da spazi fatiscenti, angusti, insalubri e miseri. Le condizioni delle scuole
cittadine erano migliori rispetto a quelle rurali, che erano spesso fonte di scandalo per i visitatori.
Allo stesso modo, il maestro cittadino aveva una sorte migliore di quello paesano; per buona parte
del secolo, il maestro è stato privato, cioè pagato quasi integralmente dai genitori. All’indomani
dell’unità d’Italia, laddove si tentava di costruire nuovi ceti medi attraverso un insegnamento che
uscisse dai modelli ecclesiastici, l’incompetenza e il clientelismo erano ancora all’ordine del giorno
e la scuola era ancora, nelle zone più remote del nuovo regno, un’istituzione estranea. Quando il
nuovo Stato italiano cominciò ad inviare i giovani e colti insegnanti del centro-nord a prestare
servizio nelle umili scuole del sud, il divario presentato dalle statistiche si concretizza. Ne fa un
esempio l’autobiografia di Placido Cerri, un giovane neolaureato torinese che viene trasferito tra il
1870 e il 1871 in un piccolo paesino sperduto del sud, nell’Agrigentino, per insegnare. Il paesino
non era collegato, non vi erano trattorie, alberghi o svaghi, e la scuola era una piccola baracca
malandata e fatiscente, in cui facevano anche scorrazzare i maiali. Si ritrova quindi ad insegnare in
un paesino in cui i luoghi scolastici erano inadatti a educare dei bambini. Per molto tempo le scuole
non ebbero luoghi deputati all’insegnamento, ma furono collocate laddove il comune trovava
spazio, inclusa la casa del maestro. Solo lentamente divenne un luogo realmente chiuso in cui poter
tenere sotto controllo il bambino, modellare il suo spirito e educare il suo corpo; e solo
progressivamente il maestro divenne insegnante a tempo pieno, senza dover più alternarlo con altre
attività: infatti, spesso le scuole si svuotavano quando i ragazzi venivano chiamati a lavorare nei
campi.

La promozione della scuola


I pochi autobiografi che descrivono la scuola secondaria come luogo di reale apprendimento sono
coloro che potevano frequentare scuole private o le migliori scuole pubbliche delle grandi città del
nord, luoghi in cui gli allievi erano seguiti da personaggi di calibro, spesso autori di libri di testo o
protagonisti della cultura italiana dell’epoca. Ma si tratta di una minoranza. Poi vi è un gruppo che
ha usato l’istruzione per risalire nella società. Francesco Tarducci fu uno scrittore italiano che,
nonostante fosse nato in condizioni di estrema povertà, fu spronato a studiare dalla madre e infine
arrivò ad insegnare in varie scuole prestigiose, diventando uno storico. Daniel Fabre analizza il
passaggio dalla ecole buissonniere a quella tout court, un tipo di scolarizzazione che prevedeva
pratiche adolescenziali, quali la scoperta della natura e l’interazione con gli animali (per esempio,
gli uccelli erano considerati uno strumento di formazione della virilità e di apprendimento del
linguaggio amoroso); nel 19 secolo la scuola impone ai ragazzi di stare in classe si crea uno scontro
tra questo modello e quello formativo. Si giunge ad una mediazione ovvero usare piume al posto di
penne, il maestro spiega la differenza tra uccelli utili e nocivi. D’ora in avanti i ragazzi useranno gli
abbecedari per trovare la formazione alla virilità.

CAPITOLO V
SPAZI E VALORI DELLA VITA PRIVATA
Il nuovo individuo della modernità
Monaldo leopardi padre di giacomo scrisse una breve autobiografia da lasciare ai suoi figli un
ricordo e dei consigli. inizia a scriverla dalla sua infanzia, nasce in un ambiente aristocratico, ha una
stanza tutta sua, vive in un palazzo con scuderie. Ma nonostante tutto questo spazio, non ha intimità
in quanto vive con la sua famiglia che cita nella sua autobiografia come la madre, il prozio, la
sorella, il pedante, il cappellano. Aveva tre insegnanti, uno per la scrittura, uno per il latino e l’altro
per l’alfabeto. Ma a 18 anni leopardi sperava di poter uscire da solo avendo preso le redini ma in
realtà il codice non prevedeva che uscisse da solo ma con il pedante. Norbert elias studia i
cambiamenti dei codici della convivenza sociale. Vi erano regole ferree riguardo il corpo, il
camminare, il cibo, l’individuo non mostrava le pulsioni ma imparava a reprimerle. Leopardi
avverte questo cambiamento e lui vorrà sempre distinguersi. Altro esempio è angelo de gubernatis.
Era borghese, la famiglia si trasferisce da torino in campagna. Il padre però nota che i figli sono
pallidi e decide di mandarli in palestra ma angelo ha un problema, arcua le gambe. Il padre prova
diversi ortopedici fin quando poi guarisce. Elias appunto dice che l’uomo si contiene per ottenere
con il proprio lavoro il massimo profitto sociale. Per esempio, Gabriele Rosa, scrittore e patriota di
origini modeste, viene educato dalla madre all’idea di perseguire gli studi. Ottiene il permesso di
fare lunghe escursioni e grandi viaggi, testimoniando un processo di democratizzazione di pratiche
che prime erano riservate solo alla nobiltà.

Un’intimità per tutti

Maurizio bufalini è figli di un medico, inizialmente non era bravo a scuola poi ottenne ottimi
risultati. Come leopardi studio a casa con un solo insegnante. Come leopardi critica il metodo
tradizionale di insegnamento e criticava lo studio mnemonico in quanto non efficace. Abitava in
una casa con un giardino, aveva la propria intimità come quella che doveva esserci tra paziente e
medico. La casa rispecchiava l’igiene, la comodità e un mobilio adeguato. Era di origine borghese
facente parte in seguito della aristocrazia di provincia. In Ciofro, emilio bandelloni, di umili
origini, la centralità dello spazio domestico è maggiormente delineata. Nasce a sorano ma poi
decide di lasciare il paese dopo la morte dei genitori. Si reca da uno zio materno. Dunque egli
sperimenta la differenza tra campagna e città. Descrive prima il suo paese da povero, poi descrive la
casa a Firenze. Si evidenziano le abitudini modeste. Emergono altri fattori nuovi come il vestiario, i
giocattoli. Altro esempio è edmondo de amicis. Dà interesse ai giocattoli con i quali giocava da
piccolo, descrive il rito di separazione da questi giocattoli che consegna agli amici da dare ai propri
fratelli. Anche guido nobili descrive il fatto che lui odiava come le bambine interagivano con le
bambole. Descrive anche l’affetto che provava per l’animale domestico lisetta.

Prodotte per la maggior parte dai rappresentanti di classe agiate all’inizio del XIX secolo, poi da
rappresentanti di classe sempre più modeste, le autobiografie sono testimonianze innanzitutto dei
cambiamenti culturali e della diffusione dei nuovi modelli di vita, che avviene secondo un processo
discendente, dalle classi più agiate fino a quelle piccolo-borghesi alla fine del secolo. A tal
proposito, un cambiamento fondamentale che si evince nella maggior parte delle autobiografie è
l’instaurazione di un nuovo modello di vita incentrato sulla sfera privata. Philippe Ariès nella sua
autobiografia dà una testimonianza dei cambiamenti culturali del tempo, che riguardano la nascita
della sfera privata e l’invenzione della nozione di intimità. L’ambiente domestico subisce una
parziale modificazione per adattarsi alla nuova famiglia nucleare, frazionata in salotti, camere o
studi per consentire maggiore intimità. Inoltre, nel XIX secolo la vita spirituale e morale viene
coltivata maggiormente, soprattutto nei momenti di solitudine e riflessione individuale.
Inoltre, tutto ciò che concerne il corpo è sottoposto ad una regolamentazione, il che rende
l’individuo un soggetto isolato. Durante il XIX secolo i segni della privatizzazione della vita
quotidiana riempiono le pagine delle autobiografie, l’individuo si rifugia in una nuova nozione di
intimità per coltivare la propria personalità e per trovare in sé stesso il senso della vita.
SCRIVERSI
Giuseppe ricciardi nacque a Napoli, sua madre era aristocratica e il padre borghese il quale era
ministro di grazia e giustizia. Frequentavano gente di alto livello, la loro vita si svolgeva tra la corte
e la campagna. Ricciardi racconta l’istruzione privata, l’educazione impartita dai genitori, il menu
servito a corte. Leggevano, seguivano degli spettacoli teatrali. La madre pregava di nascosto e
quando il figlio sarà colpito da una malattia lunga 6 anni scriverà un diario di malattia. In questi 6
anni ricciardi legge, scrive. Poi scrive un diario di viaggio.
De gubernatis scrisse molta corrispondenza interna riguardo una dura punizione impartita dal padre.
Fu isolato, mangiava pane e acqua e i fratelli non potevano parlargli. La punizione durò due mesi
fino a quando il giorno dell’onomastico era tradizione scrivere una lettera al padre. Quando il padre
lesse la lettera di angelo si commosse e fece liberare il figlio.

CAPITOLO VI

INDIVIDUO E MODERNITÀ
Il sentimento di sé

Accanto alla diffusione di un sapere alfabeta e l’instaurazione di una categoria di vita privata, il
terzo movimento che apre all’autobiografismo è la trasformazione della olista. Il mutamento
profondo che, a partire dal Rinascimento, investe la società occidentale, portandola da un sistema
olista a uno individualista, viene studiato da tre figure chiave: Louis Dumont, Marcel Gauchet e
Norbert Elias.
Secondo Dumont, lo stretto legame esistente tra individualismo ed autobiografismo occidentale
mette in luce il rapporto tra società e individuo. Mentre le società tradizionali erano organizzate in
funzione della collettività, per Dumont nelle società moderne ogni uomo, in quanto essere biologico
e soggetto pensante, incarna l’umanità stessa. Il processo di affermazione dell’individuo come
persona morale più che sociale culmina con la Dichiarazione dei diritti dell’uomo (1789), che
sancisce la libertà e l’uguaglianza di ogni singolo individuo e apre l’era delle forme politiche
concepite per le esigenze dell’individuo stesso – la democrazia e il socialismo. I principi di libertà e
di uguaglianza fanno sì che i fini della collettività corrispondano a quelli di ogni singolo uomo,
cosicché il valore supremo non è più la sopravvivenza del gruppo, ma la soddisfazione delle
esigenze del singolo individuo.

Il filo rosso : Bildung e autobiografia - Humboldt


Dumont si concentra sulle ideologie francese e tedesca, osservando la formazione del nuovo
individuo moderno attraverso la biografia di Wilhelm von Humboldt, in una dimostrazione che
propone un’accurata interpretazione del concetto di Bildung. Per Humboldt il Bildung, che in
tedesco significa letteralmente formazione, consiste in una ricerca spirituale volta a realizzare una
pratica di formazione dell’io; si tratta di una fobriotrma di valorizzazione delle capacità e delle
potenzialità dell’individuo che, visto come essere embrionale, deve avere esperienza con il mondo
circostante, al fine di poter maturare sia personalmente che culturalmente. Poiché le autobiografie
riguardano l’evoluzione del protagonista dall’interno, esse sono narrazioni di Bildung. Gli
autori di queste narrazioni sentono la necessità, per conoscersi, di sondare il proprio essere
attraverso la scrittura, a partire dall’infanzia e dall’adolescenza, periodo in cui cominciano a
manifestarsi le proprie inclinazioni e che termina con l’accettazione di un ruolo e un inserimento
sociale. Anche il Wilhlem Meister di Goethe rappresenta la formazione di sé stessi, il proprio ruolo
nel mondo, il tentativo di esaltare la propria unicità inserendosi nel tessuto sociale.

Religione, democrazia, individuo


Secondo Gauchet, la società moderna è soggetta solo a sé stessa e alle proprie leggi, senza dover
far riferimento a istanze superiori o divine. Si parla di désenchantement du monde: gli dèi non sono
più sulla terra accanto agli uomini, nella natura che essi temono e tentano di placare, ma in un al di
là da raggiungere dopo una vita terrena, mentre la ricerca del senso del proprio vivere si sposta nella
vita “mortale”. Ogni società, per avere un fondamento, ha bisogno di un’alterità sulla quale fondare
la propria esperienza e, se nella società precedente questa alterità era costituita dal divino, nella
società moderna diviene lo Stato. La conseguenza più diretta di tale organizzazione è, a livello
dell’individualità, una profonda rottura, perché ciò che si pone in opposizione è di ordine umano.
Questo causa dei cambiamenti anche nella diffusione della scrittura: da un lato si accresce lo spazio
delle scritture obbligate, che fissano e rinnovano il legame con le istituzioni e assicurano la presenza
attiva dello Stato; dall’altro si sviluppa una scrittura privata, intima, domestica, nella quale
esplorandosi, il soggetto si rivela. In questo quadro è facile riconoscere l’atteggiamento
dell’autobiografo, che esalta una vita incentrata sempre di più sulla sfera privata della famiglia, del
lavoro e delle amicizie personali. Per Gauchet con l’elaborazione della nozione di inconscio,
l’uomo occidentale diventa un essere che contiene “l’altro da sé”, rispetto al quale egli cerca di
definirsi. L’autobiografia diviene quindi la messa in pratica di questo tentativo di esplorare “l’altro”
che è in sé.

Il doppio individuo della modernità


Relativamente al processo di individualizzazione del soggetto occidentale, Elias riflette soprattutto
sulle pratiche di civilizzazione attraverso cui l’individuo elabora nuovi codici di rapporto con sé
stesso e con il mondo. Il quadro originale di Elias concerne il processo di civilizzazione dei paesi
europei, i quali, passando alla forma dello Stato moderno, hanno conosciuto la monopolizzazione
dell’esercizio della violenza, dell’economia e del potere, con la risultante di isolare l’individuo nel
suo rapporto con lo Stato, che è più diretto, e con la società, che è più complesso. Il processo di
civilizzazione dei paesi europei parte, secondo Elias, nelle corti rinascimentali, luogo in cui si
sviluppa una nuova concezione della vita, per cui l’uomo lavora per ottenere il massimo profitto
sociale. Con il passare dei secoli, si nota un sempre maggiore irrigidirsi delle regole del vivere
civile: tutto ciò che concerne il corpo è sottoposto ad una regolamentazione sempre più severa, il
che rende l’individuo un soggetto isolato, che non mostra più le sue pulsioni, ma che impara
piuttosto a reprimerle e padroneggiarle, come nell’autobiografia di Monaldo Leopardi. Per Elias,
l’interiorizzazione di questo meccanismo rappresenta una trasformazione fondamentale della
struttura della personalità, poiché si necessita di un apprendimento precoce delle regole di condotta
pubblica. Infatti, nel XIX secolo il periodo infantile è una fase in cui bisogna formare l’individuo
abituandolo alle regole di rapporto con il mondo esterno. Poiché il bambino non è ancora
individualizzato ed è dunque incapace di dominare le sue pulsioni, dev’essere sottoposto ad
un’educazione che lo renda in grado di disciplinare il corpo e lo spirito, fino al momento in cui il
controllo di sé diventa una seconda natura.

PARTE III
Il territorio dell’infanzia

CAPITOLO VII – L’INFANZIA DALLA STORIA ALLA MEMORIA


Il continente inesplorato
Per gli autobiografi dell’Ottocento, l’infanzia, intesa come periodo in cui l’individuo aspetta di
essere riconosciuto e riconoscersi per “essere”, è la grande avventura che apre la narrazione.
Tuttavia, come sottolinea Ariès, per scrivere dell’infanzia è necessario che l’esperienza
dell’infanzia vada di pari passo con il suo sentimento, ovvero con una valorizzazione del bambino
in quanto essere specifico. Questo sentimento nasce, non a caso, nel XIX secolo: infatti, mentre nel
Medioevo il bambino era già inserito nel tessuto sociale e venivano ignorate le sue specificità, nel
XIX secolo inizia ad essere considerato un essere distinto dall’adulto. Parallelamente, il periodo
infantile inizia a essere riconosciuto come un momento specifico della vita di un individuo, come
una “categoria altra”, cosa che porta ad accogliere gli echi di un passato leggendario. Attorno a
questo nuovo essere dotato di una sua specificità psicologica e affettiva, nascono la psicologia
infantile e la pediatria, la scuola, i giardini dell’infanzia e abbigliamento e letteratura specifici.

Un nuovo territorio del sapere


Il punto focale intorno al quale ruotano le valenze del bambino nell’Ottocento è il mito del
selvaggio. Nato con la scoperta dell’America nel 1492, esso vede l’altro come essere naturalmente
buono ma anche irrazionale e incontrollabile. Il mito del selvaggio si è incarnato prima nei popoli
delle terre conquistate, poi ha preso forma nella nozione di ‘popolo’, geneticamente diverso dalla
classe dominante e infine, in epoca illuminista ha investito anche il bambino. Secondo questo mito,
i bambini nascono come esseri buoni, ma vengono poi corrotti dalla società e diventano malvagi;
come scrisse Rousseau all’inizio di Emilio (1762), “ogni cosa degenera nelle mani dell’uomo”.
Come per le autobiografie, anche per le concezioni dell’infanzia il pensiero di Rousseau segna una
svolta: Emilio risulta essere un trattato teorico sull’educazione che ha influenzato sia le teorie
scientifiche sia le pratiche pedagogiche. Rousseau presenta Emilio come simbolo della positività
dell’elemento naturale che rischia di essere guastato dalla società. Emilio è fondamentalmente
buono, ma deve essere educato a vivere in armonia col suo elemento, imparando gradualmente le
regole del vivere civile. In questo modo, Rousseau pone il bambino come soggetto della propria
vita. Nelle cinque parti che compongono l’opera, egli ripercorre tutte le tappe dell’educazione del
giovane Emilio, il quale viene seguito da un precettore, al fine di sottolineare l’importanza
dell’educazione per evitare che i ragazzi vengano corrotti dalla società. Nei testi di Paola
Lombroso si evince che la morale del bambino è molto più negativa che positiva: tutti gli istinti più
pericolosi, quali la vanità, l’egoismo, la crudeltà, si ritrovano nel bambino. Questo concetto si lega
al pensiero di Elias, secondo cui l’infanzia veniva riconosciuta come un periodo in cui il bambino
non è ancora individualizzato ed è incapace di dominare i propri istinti; dunque, deve essere educato
alle regole del vivere civile fino al momento in cui prevale il controllo di sé.

Costruire l’infanzia
Bisogna partire dalla medicina, essa si concentra sullo studio di malattie epidemiche, vi è una cura
della salute, e coloro che ricevono questi privilegi sono i bambini. Si diffonde un’igiene
pedagogica. Ci furono tre tipi di infanzie contadina, proletaria e borghese. Sulle prime due però ci
fu un controllo in quanto nacquero le prime strutture scolastiche. Owen ad esempio fu un piccolo
industriale che si occupò della istruzione dei bambini dei figli dei lavoratori per rendere la
manodopera efficiente e dare un futuro migliore ai bambini. La scuola di owen era divisa per fasce
di età.
Per lungo tempo molti bambini non hanno potuto accedere alla scuola, e questo portava a
un’infanzia molto breve. All’inizio del XIX secolo in Italia la borghesia e la nobiltà illuminata
favorirono lo sviluppo di asili per il popolo, nel tentativo di procurarsi manodopera efficiente,
migliorando le condizioni dell’infanzia, esposta ad un altissimo tasso di mortalità. Ben presto però
le opposizioni ad una scolarizzazione di massa furono schiaccianti, in quanto la Chiesa vedeva le
scuole come centri propulsori di mentalità laica, e i nobili e i proprietari terrieri più
conservatori temevano che le scuole potessero diventare sede di focolai di ribellione. Fu solo
nel 1848 che in Piemonte fu emanata la “legge Boncompagni”, il primo deciso atto di
laicizzazione della scuola, grazie al quale l’istruzione pubblica finì sotto il controllo dello Stato.
Poi, grazie alla “legge Casati” nel 1859 l’intero ordinamento scolastico fu riformato e l’obbligo
scolastico fu esteso a livello nazionale. Le scuole elementari divennero obbligatorie per i più poveri,
mentre i figli dei ricchi continuavano ad essere seguiti da istitutori privati e solo molto più tardi da
quelli pubblici. Fu questa scuola a fornire la diffusione capillare delle norme igieniche. Nei primi
decenni di vita la scuola si mosse tra mille difficoltà, compresa quella di non avere un corpo docenti
adeguatamente formato. Alla prima generazione di educatori furono inculcati i nuovi valori
attraverso libri di lettura che venivano usati a loro volta come strumenti pedagogici: tra questi
troviamo, in particolare, Giannetto di Parravicini (1836) e Giannettino di Collodi (1877). Nel
primo caso, Giannetto è il figlio di un artigiano, un po’ scontroso, che nel corso della narrazione
diventa un ragazzo saggio, poi un uomo onesto e lavoratore, e infine un piccolo industriale e
filantropo che aiuta i poveri e li educa attraverso i suoi racconti morali. Il libro è diviso in tre
volumi: nel primo i bambini imparano i propri doveri e bisogni e trovano insegnamenti sui mestieri,
nel secondo trovano nozioni di geografia e scienze, e nell’ultimo vengono esposti a una raccolta di
racconti morali tratti dalla storia d’Italia. Nel volume la religione è data come fondamento superiore
del vivere civile. Nel secondo caso, il protagonista non è più un figlio di un artigiano, ma di un
professionista cittadino e, anche se la sua storia si ferma all’infanzia, si capisce che seguirà le orme
del padre. Abbandona il popolo alle sue sorti e promette vantaggi.

L’irraggiungibile infanzia
Uno dei problemi centrali dell’infanzia, oltre al funzionamento della psiche, è in che modo il
bambino entra nel mondo degli adulti e come apprende. Per l’autobiografia e la costruzione della
coscienza di sé, il passato diventa l’elemento costitutivo dell’identità stessa dell’individuo. È
proprio nell’infanzia che va ricercato il primo momento in cui il bambino assume coscienza di sé
stesso. Secondo Ian Hawking, attraverso il movimento di laicizzazione della società è avvenuto un
processo di desacralizzazione del concetto di anima, che non è più qualcosa di morale posto al di
fuori dell’uomo, ma qualcosa che caratterizza la sua identità, che si costituisce in base
all’interpretazione del proprio passato.
angelo brofferio scrive sul suo ritorno al collegio in un incontro piu o meno casuale coi luoghi di
infanzia. Si rifà a costatazioni mediche. Tenta di rimuovere le motivazioni più superficiali per
accedere al fondo di se stesso. I luoghi ovviamente non sono più gli stessi ma esiste un legame. Il
passato è vivo nella sua mente e tratta i luoghi come se fossero vivi. Brofferio quando arriva in
camera si mette a cercare una traccia di se nel muro, nel nome che aveva scritto.

Monaldo leopardi scava nella sua mente mentre scrive. Si sofferma sui ricordi remoti chiedendosi
come è possibile che un essere di pochi mesi si ricordi di cose per sempre. Egli afferma che si
ricorda di alcune cose perché hanno colpito la sensibilità del bambino, ferito o confortato. Anche la
simpatia e l’antipatia funzionano cosi. Egli associa delle idee o sovrapposizioni di immagine nei
suoi ricordi.

De amicis riporta il linguaggio giovanile descrivendo i fiordalisi e i papaveri come fiori rossi e
azzurri che fanno tra il grano. Da adulto ovviamente sa che hanno un nome ma da piccolo no.

Luoghi, tópoi e autoritratti


Lo spazio è ciò che domina le prime pagine di molte autobiografie, poiché la questione dei luoghi
investe due livelli: il vissuto infantile e la ricerca identitaria dell’adulto autobiografo. Secondo
Cesare Picchiarini (mastro vetraio), le immagini della casa natale sono le prime ad emergere
dall’oscurità delle sensazioni più remote. La casa, lo spazio godono di un ricordo preciso. La casa di
giorno assumeva felicità ma la sera aveva una aria angosciante a causa della attesa del padre.

Giovanni Segantini (pittore) ricostruisce dettagliatamente gli oggetti della stanza dove la sorella lo
aveva chiuso a chiave dopo aver fatto la bravata di buttare dei pezzetti di carta. Non ha amici,
giochi, non va a scuola, è abbandonato. Il tempo non è ben decifrato ma lo spazio ovviamente lo è.
Rinchiuso nella stanza apre un baule dove trova una maschera la quale gli trasmette paura. Poi vi
sono dei topi che corrono lungo la stanza. Alla fine si mette su una sedia dalla quale osserva il cielo.

Il colleggio di brofferio, le case di ciofro.


la casa di castagnola dove vi sono la famiglia, gli amici, i giochi e la scuola. Castagnola dopo la
scuola veniva portato dal maestro al giardino botanico conoscendo dunque le prime immagini della
vita all’aperto.

Parissi: descrive prima la sua casa, poi passa alle strade e poi descrivi i diversi lavori compiuti. I
luoghi sono per parissi momenti vivi della propria vicenda esistenziale.

Agostini (farmacista e poeta) disegna una mappa ideale dei suoi momenti e quelli dei suoi
compagni, parla del senso di angoscia provato a scuola e del desiderio di evadere verso spazi liberi.
Egli trascorre la sua infanzia tra la casa, la scuola e la campagna. Descrive le mani strette alla fune
della campana, il pane oliato. Descrive anche il gioco piu frequente che faceva, la guerra.
Immaginava di essere un soldato. Un giorno incontra un vecchio amico che ha perso la ragione e lo
porta nei luoghi dove da piccoli hanno giocato per cercare di fargli tornare la memoria e questo
amico dice ah da ragazzi.

Picchiarini: fu costretto dal padre a non giocare con la guerra e quindi lesse libri sulla guerra per
poi scrivere.

De Amicis (scrittore) racconta di sé stesso e degli amici del quartiere che formavano una specie di
banda e andavano in giro per il quartiere a giocare alla guerra. Erano equipaggiati con diversi arnesi
che simboleggiavano le armi e si interfacciavano con altri gruppi di bambini, che consideravano
come bande rivali per il semplice fatto che abitavano in altri quartieri. Lo spazio è quindi visto
come luogo di crescita del bambino, una dimensione sociale nella quale, come in questo caso, i
bambini si interfacciano con altri bambini. Quando parla della sua infanzia, De Amicis descrive
anche il cosiddetto rito di separazione dai giocattoli, che avviene quando il bambino deve andare al
collegio/scuola e raduna tutti i suoi giocattoli, preparando una specie di festa di addio, chiamando a
raccolta tutti i bimbi più piccoli per regalare loro i suoi giocattoli. È così che il bambino si allontana
in un certo senso dalla sua infanzia.

Tomasi da lampedusa: usa il metodo delle piantine e mostra il debito intellettuale.

Secondo il filosofo Deleuze, i luoghi e gli oggetti sono le coordinate del proprio sentire. Di
conseguenza, la dovizia di particolari spaziali che troviamo nella maggior parte delle autobiografie
si può spiegare grazie alla necessità che provano i bambini di verbalizzare le proprie azioni,
ancorandole allo spazio. Le autobiografie d’infanzia sono dunque delle topografie dell’io.

Infanzia senza tempo


L’autobiografo che si accinge a raccontare la sua infanzia deve ritrasportare il suo modo di essere
bambino nel linguaggio adulto, poiché da bambini si gode di una diversa modalità del sentire. Ci si
ritrova di fronte ad un paradosso, in quanto la necessità di conoscere sé stessi riporta l’individuo a
percorrere di nuovo le fasi più remote della sua esistenza, trovandosi però di fronte all’impossibilità
di padroneggiare e interpretare pienamente quel proprio vissuto.
Come dimostra Monaldo Leopardi, la logica narrativa infantile non è cronologicamente ordinata;
la sua autobiografia lascia trasparire la diversa percezione che l’autore ha della propria infanzia
rispetto al periodo successivo. I capitoli relativi ai ricordi d’infanzia sono organizzati non secondo
un ordine temporale ma in base a come i ricordi affluiscono per associazioni mentali. Solo con la
prima istruzione comincia un ordinamento dei ricordi.
Francesco De Sanctis, a sua volta, dimostra una forte difficoltà nella ricostruzione temporale e
nella sua autobiografia vicende ed epoche spesso si accavallano: quando narra l’età adulta, parla
della vecchiaia e passeggia sui luoghi della giovinezza.
Tomasi da Lampedusa struttura le sue memorie intorno alle case della sua infanzia, quella di
Palermo e quella di campagna. Dopo l’introduzione, segue il capitolo i ricordi, fissati a ciascun
luogo. Poi vi è il capitolo infanzia, i luoghi, le altre case, il viaggio, la casa.
Michel Beajour distingue l’autobiografia dall’autoritratto, genere in cui l’autore cerca di dire ciò
che è e non ciò che ha fatto; mentre l’autobiografo mira a fare un viaggio psicanalitico verso il sé
stesso del passato, indagando la propria infanzia e riscoprendo un “sé” che non è più, l’auto
ritrattista vuole descrivere il sé presente indagandolo al di là degli schemi sociali. Sia i ritrattisti che
gli autobiografi dell’infanzia condividono l’uso di strategie narrative comuni, quali il metodo dei
tópoi, dei loci communes e delle artes memoriae.
Su questi antichi modelli si basavano anche gli esercizi spirituali di Ignazio di Loyola, fondatore
dell’ordine dei Gesuiti, esercizi poi praticati, attraverso la meditazione e l’esame di coscienza, da
generazioni intere di allievi collegiali. Attraverso questo canale, le antiche arti della memoria non si
sono perdute. È noto il loro contribuito nel modo di classificare e modellare il mondo per secoli, sin
da Cicerone fino all’età moderna, finché non arrivano al declino nel XIX secolo. Per capire come si
è prodotto questo passaggio proprio nel momento più fiorente per le narrazioni d’infanzia, la prima
condizione decisiva da considerare risiede nei cambiamenti che colpiscono la nozione stessa di
memoria, che non è più considerata un contenitore di dati esterni all’individuo, bensì un luogo in
cui risiedono tutti quegli elementi essenziali sui quali è costruita ogni psiche individuale.
l’educazione gesuita, diffusa attraverso il catechismo e poi per mezzo dei collegi, ha promosso
un’incorporazione delle arti della memoria nella spiritualità e nella formazione dei giovani. I gesuiti
propongono una confessione frequente ricordando i peccati. Questo sforzo porta poi alla redazione
di manuali contenenti dei casi numerati utili a far ricordare i peccati. La potenzialità della scrittura
permetteva di ripercorrere il proprio passato in modo minuzioso. Molti autobiografi fanno quindi
ricorso alle mnemotecniche delle artes memoriae, ovvero delle arti della memoria, tecniche di
memorizzazione basate sullo spazio. Il mito fondatore delle arti della memoria consiste nel racconto
di un banchetto durante il quale crolla il soffitto della sala da pranzo e i commensali muoiono
schiacciati e orribilmente sfigurati, il che impediva, ovviamente, di poter attribuire identità ai corpi.
In quel caso, Simonide (poeta greco) riuscì ad attribuire le identità ai cadaveri grazie alla sua
memoria spaziale, ovvero ricostruendo dov’era seduto ognuno di loro. Da lì nasce quindi la tecnica
dei loci, tecnica mnemonica secondo la quale gli elementi da ricordare vengono associati a luoghi
fisici.

PARTE IV
Biografemi
La prima infanzia viene vista dagli autobiografi come scopo essenziale della loro impresa, una vera
e propria sfida, che può essere superata attraverso due forme: prendere coscienza della discontinuità
e della forza sconvolgente delle impressioni infantili, ammettere il loro carattere poetico e
organizzarle; raccogliere e sottolineare nell’infanzia le circostanze che, retrospettivamente, rivelano
la mano del fato. I biografemi sono gli eventi fondamentali, i momenti di svolta all’interno della
propria vita, quelli che vengono considerati come punti di riferimento. Gli autobiografi
dell’Ottocento cercavano infatti il filo rosso nella propria vita, indicando le tappe fondamentali del
proprio percorso e stabilendo i punti di riferimento come la famiglia o la professione. Per esempio,
Guido Nobili ripercorre la sua vita dall’infanzia, focalizzandosi su tre attività fondamentali che
hanno forgiato la sua identità, ovvero la scuola - e la vita all’aria aperta di cui essa lo privava - i
giochi con gli amici e il primo amore, attraverso le assi portanti della famiglia, della religione e
della patria.

CAPITOLO VIII – IL PRESAGIO. LOTTA E PREDESTINAZIONE

Michele di gè, brigante lucano, racconta dei sogni infantili, angoscianti e funesti che
preannunciavano una vita piena di sciagure.
Ricciardi descrive prima una connotazione politica della sua autobiografia per poi descrivere il suo
carattere già ribelle nel ventre materno. La sua debolezza sembra annunciargli un destino
travagliato.
Vallauri: si tratta di una autobiografia intellettuale del grande latinista. Descrive prima la vocazione
latinista poi passa a scrivere riguardo un incidente in cui perde l’equilibrio e cade in acqua. Lui
descrive sempre sé stesso e i suoi studi.
Molte autobiografie presentano il racconto di un incidente o di una malattia che, quando il
protagonista era in tenerissima età, ha minacciato in qualche modo di porre fine ai suoi giorni.
Molti autobiografi si presentano, quindi, come sopravvissuti. Questo si può vedere
nell’autobiografia di Giovanni Segantini che, dopo essere scappato di casa, si perde in campagna e
viene salvato da due contadini a cui narra un’incidente vissuto nella sua prima infanzia, con molta
dovizia di particolari.
Un altro modo di introdurre la propria autobiografia è narrare di un episodio premonitore. Questo
schema riprende il vecchio modello dell’eroe, dell’infanzia di Cristo o di quella dei re; dunque,
riguarda personaggi straordinari che vedono la propria nascita sotto il segno di una configurazione
cosmica ed eccezionale, la cui funzione è quella di designarli come esseri fuori dal comune, il cui
destino è già determinato fin dall’inizio.
Una novità dell’autobiografia è il ribaltamento del fatto che ogni essere nasce come continuazione
del padre. Nel XIX secolo a quest’idea si oppone l’idea della vocazione, che implica una chiamata e
fa uscire dal percorso prestabilito. In questo senso, le vite degli artisti e degli intellettuali esprimono
con evidenza il valore di un destino e di una vita concepiti come unici. Spesso, infatti, nelle
autobiografie al pericolo di vita si accompagnano le prime manifestazioni di una vocazione, come
nell’autobiografia di Adamo Tadolini, che narra le proprie vicende alternando costantemente due
assi, uno relativo agli impedimenti fisici che hanno minacciato la sua esistenza, e l’altro relativo ai
segni della propria vocazione. I due assi però sono convergenti e il destino si prospetta in una
doppia valenza: un destino personale, nelle mani del personaggio; Tadolini, ad esempio, si distingue
per merito personale in Accademia; un destino sociale, imposto dall’esterno; il padre di Tadolini, ad
esempio, non favorisce le sue inclinazioni personali.
Cappellini: la vecchia gli presagisce che avrebbe conseguito alte onorificenze nonostante i gravi
pericoli per seguire la sua vocazione. Un secondo incidente minaccia la sua vita. gli era stato detto
che soffriva di gastroenterite ma la diagnosi è stata sbagliata, altro scherzo del destino. Riesce a
camminare bene di nuovo e questo è un segno di rinascita che coincide con la sua vocazione.
Desiderava ciò che gli era proibito. Seguendo il filo della sorte a cui è stato predestinato,
l’autobiografo si presenta come soggetto che evade dagli schemi prestabiliti. Il presagio, dunque,
introduce il concetto di forma moderna di destino.
Pierre Bourdieu critica l’illusione biografica, egli considera le storie di vita costruzioni fittizie
perche invece di raccontare gli spazi sociali, raccontano in senso cronologico come se il tempo
fosse necessario.

La fuga
I duprè vivono in condizioni povere e il padre porta con sé il figlio giovanni periodicamente a
firenze per cercare lavoro. Il bambino però soffre la mancanza della madre e decide di scappare di
casa per raggiungere la mamma, in questo periodo ebbe la sua vocazione. I due fatti sono legati
temporalmente ma non logicamente. Da pistoia i due si trasferiscono a prato e il bambino si
appassiona al designo ma deve nascondere tale passione al padre perché vuole che il figlio sia bravo
nell’intaglio. Poi il bambino a volte viene lasciato da solo a casa perché il padre torna a casa a
visitare la moglie ma succede un incidente. Allo stesso tempo è una prova di maturità per il
bambino visto che rimane da solo a casa. Ma il bambino è talmente magro che viene deciso che puo
tornare dalla madre ma poi ritorna con il padre. Decide poi di fuggire, viene accolto in un casolare,
offertogli da bere e da mangiare. Questa fuga è importante perché gli viene riconosciuto il diritto di
essere stato levato dalla madre troppo presto.
Giovanni Segantini (pittore) si ribella allo stato di ubbidienza assoluta voluto dalla famiglia e
decide di scappare dopo che la sorella è uscita di casa; decide di scappare dopo che ha origliato una
conversazione con le vicine di casa sua. L’obbedienza matura l’idea di ribellione. Ricorda molto
bene i colori, le sensazioni provate. Sebbene dopo l’ebrezza iniziale sopraggiungano il buio e la
paura. Due uomini lo raccolgono e lo portano a casa loro da una brava famiglia. Segantini minaccia
di fuggire di nuovo se il giorno dopo lo riaccompagnano a casa della sorella. grazie alla fuga
acquisisce una profonda coscienza di sé stesso e riesce a dare valore alla propria nuova esistenza. Si
rende utile, e diventa guardiano dei porci.

Le narrazioni di queste due fughe dunque hanno un profondo legame con l’epoca anteriore della
infanzia poetica e l’inizio di una nuova identità. Il fuggitivo torna sui suoi passa ma qualcosa è
cambiato in lui. Con la fuga infantile si passa da una narrazione di sogno poetica alla
narrazione di sé stessi.

Dopo la morte della madre, Gabriele Rosa (scrittore) viene costretto dal padre a lavorare
nell’azienda di famiglia, lui si ribella e fugge di casa, anche se la sua fuga è più un viaggio di
piacere, perché si ferma a fare visita ai parenti, mettendosi nella condizione di essere scoperto; alla
fine però la sua fuga porta a un risultato; infatti, non potendo tornare a scuola, gli si consente di
studiare qualche ora al giorno. La crisi era nata perché la famiglia aveva progettato di farlo studiare
e di farlo diventare un uomo colto.

Giuseppe Ricciardi (patriota e letterato) a 15 anni si ribella alle norme di vita che per il giovane
rappresentano un regresso e tramite la sua fuga mostra tutto il suo rifiuto nei confronti di queste
leggi; tutti i colli intorno alla sua casa sono però di proprietà del padre e quindi anche scappando
viene riconosciuto dai dipendenti del padre. Egli decide di compiere questa fuga per sottrarsi alla
legge del padre, per diventare indipendente, valica la siepe come se fosse una montagna, erompe nei
campi con la forza di chi si sente padrone di se stesso. La fuga risulta difficile perché il colle è tutto
proprietà del padre e viene riconosciuto da una signora, poi giungono due uomini e alla fine lui
ritorna a casa. La madre gli dice che è stato fortunato a ricevere cibo e altro grazie alla influenza del
padre. Ricciardi è scappato per diventare uomo ma si è dimostrato un bambino perché si lascia
imbrogliare. Il padre riprende il suo controllo, isolandolo per un po' di tempo.

Andrea Giannelli (pittore) descrive il suo apprendistato presso un pittore, durante il quale diventa
svogliato e bugiardo e viene rimandato a casa; decide dunque di fuggire, prima a Livorno e poi in
America; quando fa ritorno a Firenze viene preso a lavorare nello studio di ottimi pittori.

Secondo le tesi di Pividal, in molti romanzi l’allontanamento dal tetto domestico fonda lo statuto
eroico del soggetto protagonista, rappresentando una rottura che instaura l’individuo come soggetto
della propria esistenza. In questo senso l’autobiografia è quindi il romanzo della propria vita, in
cui la fuga spesso serve a mettere in moto la narrazione.

Verdier distingue tre generi: fiaba, mito, romanzo. Il mito non ha un eroe propriamente detto. La
fuga è inizio assoluto nel mito. Nella fiaba vi è la costituzione dell’individuo socialmente inteso e
termine con il matrimonio che attesta che l’eroe si è attestato socialmente. La fuga è una tappa di
base. Nel romanzo l’eroe è alla ricerca di sé stesso e la fuga rappresenta una rottura della propria
esistenza nel romanzo.

Nelle autobiografie l’infanzia è volta a rintracciare i momenti in cui l’autore si è confrontato con il
sistema sociale, scegliendo una strada più o meno diversa da quella prevista, da quella considerata
come il suo destino, laddove con destino si intende la strada che la sua tradizione aveva scelto. Per
questo motivo, la fuga è un evento importante, raccontato sempre dettagliatamente. La fuga mette in
atto la prova del carattere e la capacità decisionale: è un gesto adulto da parte del fanciullo, un
segno di emancipazione da uno stato infantile, un simbolo di potere sul proprio destino. Per
definizione la fuga è una falsa partenza, un viaggio che non va al di là del suo inizio. Il fuggitivo
torna sui suoi passi, eppure qualcosa è cambiato in lui e nei suoi rapporti con gli altri. In questo
senso, la fuga è un gesto di rottura liberatrice, in quanto apparentemente nulla sarà più come prima.
Quest’atto di ribellione è fondamentale perché segna una rottura col passato e proietta in una
dimensione futura, nella quale il piccolo eroe si avvierà ad essere autore della sua storia. Sarà il
momento del “vero viaggio”, quello verso l’autonomia personale. la fuga attiva la funzione di auto-
analisi.

Il viaggio
Gioacchino Toma, pittore italiano, narra come la sua vocazione al disegno sia stata riconosciuta e
abbia imparato a disegnare in un ospizio per poveri, al quale arriva dopo un viaggio, una volta
abbandonati i luoghi natali in seguito alla morte dei genitori. Toma prova l’indifferenza della
famiglia come il cugino che lo accoglie sull’uscio di casa, subisce il sopruso del cocchiere leccese
che lo fece viaggiare dietro facendogli rompere i pantaloni. Poi subisce il malinteso con lo
sconosciuto che pensa stia facendo dei bisogni essendo accovacciato ma in realtà si sta cucendo i
pantaloni ed infine vive la solidarietà manifestata dal cocchiere avellinese che l’ha fatto viaggiare
davanti e l’ha accompagnato all’ospizio con le lacrime agli occhi. Lascia dunque la sua famiglia per
trovare la sua vocazione.

Gabriele Rosa racconta del suo primo viaggio in treno per andare da alcuni familiari. Lui ha ancora
la famiglia ma si separa da loro per gli studi. Il distacco dalla famiglia è commovente, come quello
con la madre, la nonna. Il ragazzo parte verso una meta sconosciuta ma importante ovvero la sua
istruzione.

Emilio Bandelloni (Ciofro) è un orfano che viene mandato in città per frequentare la scuola e deve
quindi responsabilizzarsi e imparare a gestire il mondo esterno e lo fa in modo repentino, capisce
proprio che essendo solo, deve diventare adulto. Descrive la paura di non aver mai visto un treno,
una stazione, si affida al protettore di un capo treno che deve lasciarlo e consegnarlo nelle mani
dello zio.

Brofferio descrive con minuzia il rito di separazione dalla famiglia. Parte per andare a asti in un
collegio. Brofferio è portato da un asino scelto da due possibilità di donne. Lui scelse quella che
non era del quartiere. Il mezzo è descritto con cura. Descrive quando parte. All’alba parte e inizia a
salutare la famiglia come sorelle, vicinato. E poi per ultimo saluta la madre nel punto in cui avviene
la separazione dal mondo infantile, luogo importante dove aveva vissuto una notturna avventura. La
madre piange, lo stringe fino all’ultimo e il bambino dall’asino vede la città. Poi giunge ad asti e
nota che il padre non saluta nessuno nel bar e scorge le prime differenze tra il suo paese e la città.

Il viaggio si differenzia dalla fuga perché nella fuga si scappa da qualcosa, mentre nel viaggio si va
verso qualcosa. Il primo viaggio fa parte del programma di socializzazione del bambino e deve
avvenire in funzione della sua formazione. La fuga è una rivolta, affermazione del soggetto. La
prima partenza conduce verse una società estranea che è il collegio.

Il collegio: l’istruzione del soggetto


Brofferio cambia tono dalla mattina al suo ingresso nel collegio. Quando vi entra, si spaventa e
grida perché vede degli orsi e dei lupi imbalsamati ma non ne era a conoscenza. Tutto ciò che vede
gli è estraneo, il padre e l’amato padre soteri è cambiato da come era nel paese. L’unico soldone che
possedeva l’ha dovuto cedere al cameriere perché diceva che era usanza.
Cesana ha un diverso ingresso nel collegio, brutale, riceve pugni e calcio dopo che il rettore ha
presentato il bambino ai 60 ragazzi. Ma capisce che è un rito che tocca a tutti i novelli del collegio,
usano temperini, chiodi per colpire i ragazzi. Cesana usa il gergo militare che è appropriato al
cruente ingresso nel collegio.

Il doppio programma
La prima partenza che conduce verso una società estranea dai costumi molto particolari è il
collegio. L’inizio il più delle volte è scioccante e violento. All’arrivo in collegio il primo
cambiamento è nei ritmi di vita e nella disciplina che viene richiesta. Alzarsi sempre alla stessa ora
e ad ore ben precise mangiare, pregare, fare i compiti, giocare, uscire. Tutto si svolge all’insegna
dell’ordine, della disciplina e dell’efficienza. Anche i rapporti con i compagni sono strettamente
regolamentati e l’uniformità delle condotte si traduce in anonimato fisico: l’uniforme tende a
livellare la propria individualità. Il programma scolastico di questi collegi, per la maggior parte dei
quali tenuti dai Gesuiti, è molto legato alle discipline umanistiche, impostando un metodo di
insegnamento spesso considerato retrogrado, troppo mnemonico. Ma dietro tutto questo si cela un
secondo mondo, una piccola società organizzata secondo leggi proprie, il suo linguaggio e i suoi
riti. I collegi vivono una doppia socialità, quella prevista dal programma del collegio e quella messa
in atto da loro stessi. Queste leggi sono spesso contraddittorie. La legge e il costume hanno lo scopo
di mettere il ragazzo di fronte all’urgenza di un apprendimento delle cose della vita, di una Bildung
personale. Chi infrange la barriera riportando notizie dal mondo sommerso a quello istituzionale era
una spia. Brofferio non capisce cosa accade nei giochi dell’ora della ricreazione. Gioca e accumula
debiti e da in scambio il suo pasto per il debito. Fu chiamato medoro come il cane del padre soteri.

Totalità e individualità
Una delle prime sensazioni negative dell’allievo all’arrivo al collegio è l’anonimato a cui è
destinato: tutto è uguale per tutti, spoglio, squallido e impersonale. Il collegio mira alla costruzione
di una conformità nell’educazione degli allievi e nelle condotte. Entrando, Brofferio perde la sua
libertà, come perde anche la sua privacy e la sua intimità. Uno dei passaggi fondamentali è, per
esempio, l’apprendistato sessuale: che si tratti di una ragazzina che si prostituisce o di pratiche di
masturbazione di gruppo, anche questa sfera dell’intimo si trasforma in una pratica collettiva. Ci
sono 4 esperienze particolari che fanno convergere l’universo del collegio e quello del costume. 1)
la gerarchia dei meriti: brofferio risulta essere bravo in grammatica, invece i compagni che hanno la
furbizia e la forza sono inferiori a lui. 2) le affinità elettive: nessun allievo è completamente solo in
collegio. Intorno a lui, oltre alla molteplicità dei compagni, c’è sempre una figura speciale, un
amico, un professore. La struttura del collegio consente e richiede un’apertura dello spazio affettivo,
esaltando il sentimento dell’amicizia infatti brofferio fa amicizia con giovanni garino. In inverno si
curano a vicenda, dormono in camere vicine. 3) la consapevolezza e il controllo di sé: La
convivenza tra soli uomini scatena pulsioni inevitabili, quali la violenza fisica. È in questo contesto
che il ragazzo comincia veramente a sondare sé stesso e la sua essenza, facendo una specie di esame
di coscienza. Broffferio vede che garino non si piega alla legge del collegio. 4) la cultura
dell’espressione: Vengono approfondite pratiche di scrittura (Gesuiti), che permettono ai ragazzi
l’espressione del sé (cultura dell’espressione). Brofferio si cimenta in gare di eloquenza,
raccontando tutte le vere storie ai suoi compagni e si confronta con la scrittura creativa.

Il microcosmo collegio
Nel collegio i rapporti con i compagni e i superiori sono regolamentati da due contratti sovrapposti
(legge e costume giovanile) e la mobilità sociale è garantita da un sistema meritocratico, il più delle
volte; ma c’è comunque l’umanità più disparata, e questo lo rende una vera società in miniatura.
Brofferio lo descrive come una piccola società, caratterizzata dai suoi riti, dal suo linguaggio, dalle
sue regole, dai suoi membri. Nonostante alcuni ricordi siano penosi, esperienze traumatizzanti,
l’esperienza del collegio è integrata nella prospettiva generale di una Bildung personale. Diventa un
passaggio obbligato, una tappa esistenziale attraverso la quale bisogna passare per costruire la
propria identità. Il collegio è il luogo in cui sperimentare la propria individualità rispetto agli altri. Il
collegio è uno strumento di formazione e civilizzazione individuale, il quale prepara i giovani
uomini alla società che li attende e di questo gli autobiografi sono consapevoli. Il collegio è una
società, nel collegio vi è uno scambio di opinioni, libertà politica.

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