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Giovanni Pascoli
LA VITA
La giovinezza travagliata
Giovanni Pascoli nacque il 31 dicembre 1855 a San Mauro di Romagna, da una famiglia della piccola
borghesia rurale, di condizione abbastanza agiata.
Era una tipica famiglia patriarcale, molto numerosa.
La vita sostanzialmente serena di questo nucleo familiare venne però sconvolta da una tragedia,
destinata a segnare profondamente l’esistenza del poeta: il 10 agosto 1867, mentre tornava a casa dal
mercato di Cesena, Ruggero Pascoli fu ucciso a fucilate, probabilmente da un rivale che aspirava a
prendere il suo posto di amministratore. Sicari e mandanti non furono però mai individuati e ciò
diede al giovane Pascoli il senso di un’ingiustizia bruciante.
La morte del padre creò difficoltà economiche alla famiglia, che dovette lasciare la tenuta, trasferirsi
a San Mauro e in seguito a Rimini, dove il figlio maggiore aveva trovato lavoro, assumendo il ruolo
paterno. Al primo lutto in un breve giro di anni ne seguirono altri, in una successione
impressionante: nel 1868 morirono la madre e la sorella maggiore, nel 1871 il fratello Luigi, nel 1876
Giacomo.
Giovanni sin dal 1862 era entrato coi fratelli Giacomo e Luigi nel collegio degli Scolopi ad Urbino,
dove ricevette una rigorosa formazione classica, che costituì la base essenziale della sua cultura.
Nel 1871, per le ristrettezze della famiglia, dovette lasciare il collegio, ma, grazie alla generosità di
uno dei suoi professori, poté proseguire gli studi a Firenze, dove terminò il liceo.
Nel 1873, grazie al brillante esito di un esame, ottenne una borsa di studio presso l’Università di
Bologna, dove frequentò la Facoltà di Lettere.
Negli anni universitari Pascoli subì il fascino dell’ideologia socialista, che proprio allora si andava
diffondendo.
Partecipò a manifestazioni contro il governo, fu arrestato nel 1879 e dovette trascorrere alcuni mesi
in carcere.
L’esperienza fu però per lui traumatica e determinò il suo definitivo distacco dalla politica
militante. Restò fedele anche in seguito all’ideale socialista, ma di un socialismo vagamente
umanitario, che propugnava la bontà e la fraternità fra gli uomini.
Ripresi con impegno gli studi, si laureò nel 1882. Iniziò subito dopo la carriera di insegnante liceale.
Qui chiamò a vivere con sé le due sorelle, Ida e Mariù, ricostituendo così idealmente quel «nido»
familiare che i lutti avevano distrutto. Nel 1887, sempre con le sorelle, passò ad insegnare a Livorno,
dove rimase sino al 1895.
Il «nido» familiare
La chiusura gelosa nel «nido» familiare e l’attaccamento morboso alle sorelle rivelano la fragilità
della struttura psicologica del poeta, che, fissato dai traumi subiti ad una condizione infantile,
cerca entro le pareti del «nido» la protezione da un mondo esterno, quello degli adulti, che gli
appare minaccioso ed irto di insidie. A questo si unisce il ricordo ossessivo dei suoi morti, le cui
presenze aleggiano continuamente nel «nido», riproponendo il passato di lutti e di dolori, inibendo
al poeta ogni rapporto con la realtà esterna, ogni vita di relazione, che viene sentita come un
tradimento nei confronti dei legami oscuri, viscerali del «nido».
Questa serie di legami inibisce anche il rapporto con l’“altro” per eccellenza, quel rapporto in cui si
misura la maturità e la pienezza della persona: non vi sono relazioni amorose nell’esperienza del
poeta, che conduce una vita forzatamente casta. C’è in lui lo struggente desiderio di un vero
«nido», in cui esercitare un’autentica funzione di padre, ma il legame ossessivo con il «nido»
infantile spezzato gli rende impossibile la realizzazione del sogno. La vita amorosa ai suoi occhi ha
un fascino torbido, è qualcosa di proibito e di misterioso, da contemplare da lontano, con palpiti e
tremori.
Le esigenze affettive del poeta sono, a livello conscio, interamente soddisfatte dal rapporto
sublimato con le sorelle, che rivestono un’evidente funzione materna.
Si può capire allora perché il matrimonio di Ida, nel 1895, fu sentito da Pascoli come un tradimento,
una profanazione della sacralità del «nido», e determinò in lui una reazione spropositata,
patologica, con vere manifestazioni depressive.
Questa complessa e torbida situazione affettiva del poeta è una premessa indispensabile per
penetrare nel mondo della sua poesia, perché costituisce il punto d’avvio della sua esperienza
fantastica, il materiale su cui egli lavora. Ed è una chiave necessaria per cogliere il carattere
turbato, tormentato, morboso della poesia di Pascoli, carattere che si cela dietro l’apparenza
dell’innocenza e del candore fanciulleschi, della celebrazione delle piccole cose, delle realtà più
semplici e umili: senza tener presente quel punto di partenza si rischia di scambiare la sua poesia
per un modesto idillio, senza scorgere la sua vera, inquietante e proprio per questo affascinante
sostanza.
L’insegnamento universitario e la poesia
Nel 1895, dopo il matrimonio di Ida, Pascoli prese in affitto una casa nella campagna lucchese. Qui,
con la fedele sorella Mariù, trascorreva lunghi periodi, lontano dalla vita cittadina che detestava e di
cui aveva orrore, a contatto con il mondo della campagna che ai suoi occhi costituiva un Eden di
serenità e pace, di sentimenti semplici e puri. La sua vita era quella appartata, senza scosse e senza
grandi avvenimenti esterni, del professore, tutto chiuso nella cerchia dei suoi studi, della sua poesia,
degli affetti familiari. Una vita esteriormente serena, ma in realtà turbata nell’intimo da oscure
angosce e paure, paure per l’addensarsi di incombenti cataclismi storici, minacciati dalla violenza
latente nella società del tempo, angosce per la presenza ossessiva della morte.
Intanto, nel 1895, Pascoli aveva ottenuto la cattedra di Grammatica greca e latina all’Università di
Bologna, poi di Letteratura latina all’Università di Messina, dove insegnò sino al 1903.
Passò quindi a Pisa ed infine dal 1905 subentrò al suo maestro Carducci nella cattedra di Letteratura
italiana a Bologna.
All’inizio degli anni Novanta aveva pubblicato una prima raccolta di liriche, Myricae (1891), poi negli
anni seguenti diverse poesie in varie e importanti riviste. Myricae si ampliava sempre più ad ogni
nuova edizione.
Nel 1897 uscirono i Poemetti, poi arricchiti in successive ristampe, nel 1903 i Canti di Castelvecchio,
nel 1904 i Poemi conviviali. La sua fama di poeta si allargava e consolidava.
Dal 1892 per ben dodici anni vinse la medaglia d’oro al concorso di poesia latina di Amsterdam,
consacrandosi così anche squisito poeta latino, capace di dare forza espressiva originale e moderna
alla lingua antica.
Negli ultimi anni volle gareggiare col maestro Carducci e col «fratello minore e maggiore»
d’Annunzio nella funzione di poeta civile.
Al poeta schivo, chiuso nel suo limitato ambito domestico e provinciale, inteso a celebrare il valore
delle realtà più umili e dimesse, si affiancò così il letterato ufficiale, che si assunse il compito di
diffondere ideologie e miti. Oltre che con le sue poesie Pascoli espletò questo suo compito con una
serie di discorsi pubblici, tra i quali è rimasto famoso La grande proletaria si è mossa, tenuto il 26
novembre 1911 per celebrare la guerra coloniale di Libia. Il poeta però era ormai minato dal male, un
cancro allo stomaco. Si trasferì a Bologna per le cure, ma si spense poco dopo, il 6 aprile 1912.
LA VISIONE DEL MONDO
La crisi della matrice positivistica
La formazione di Pascoli fu essenzialmente positivistica, come era inevitabile, dato il clima
culturale che dominava negli anni in cui egli compì i suoi studi liceali e universitari; ma impregnati
di cultura positivistica restavano anche gli ambienti accademici in cui lo scrittore operò in seguito.
Tale matrice è ravvisabile nell’ossessiva precisione con cui, nei suoi versi, egli usa la nomenclatura
ornitologica e botanica, e di impianto positivistico sono spesso le fonti da cui trae le osservazioni
sulla vita degli uccelli, protagonisti di tanti suoi componimenti poetici; così come da letture di testi
di astronomia ispirati alle cognizioni scientifiche del tempo scaturiscono i temi astrali che
occupano un posto rilevante nella sua poesia.
Ma in Pascoli si riflette quella crisi della scienza che caratterizza la cultura di fine secolo, segnata
dall’esaurirsi del Positivismo e dall’affermarsi di tendenze spiritualistiche e idealistiche. Anche in
lui insorge una sfiducia nella scienza come strumento di conoscenza e di ordinamento del mondo:
anche per lui, al di là dei confini limitati raggiunti dall’indagine scientifica, si apre l’ignoto, il
mistero, l’inconoscibile, verso cui l’anima si protende ansiosa, tesa a captare i messaggi enigmatici
che ne provengono, non traducibili in nessun sistema logicamente codificato.
Questa tensione verso ciò che trascende il dato sensibile in Pascoli non si concreta in una fede
religiosa positiva. Di Dio vi è in lui nostalgia, mai possesso. Il fascino su di lui esercitato dal
cristianesimo non attinge mai la sfera teologica, della verità rivelata, ma resta nei limiti del
messaggio morale di fraternità e mansuetudine evangelica, come vedremo in seguito.
Il mondo, nella visione pascoliana, appare frantumato, disgregato.
Non esistono neppure gerarchie d’ordine fra gli oggetti: ciò che è piccolo si mescola a ciò che è
grande, il minimo, apparentemente trascurabile particolare può essere ingigantito come attraverso
una lente d’ingrandimento sino ad occupare tutto il quadro, e ciò che è grande può essere
rimpicciolito, miniaturizzato, come se fosse visto con il cannocchiale alla rovescia. Tutto ciò ha
riflessi di grande portata sulla costruzione formale dei testi, sulle strutture logico-sintattiche e
ritmiche, sulle parole scelte per designare gli oggetti.
I simboli
Gli oggetti materiali hanno un rilievo fortissimo nella poesia pascoliana, ma ciò non significa
affatto che vi sia in essa un’adesione di tipo veristico all’oggettività del dato: i particolari fisici,
sensibili sono filtrati attraverso la peculiare visione soggettiva del poeta e in tal modo si caricano di
valenze allusive e simboliche, rimandano sempre a qualcosa che è al di là di essi, all’ignoto di cui
sono come messaggi misteriosi e affascinanti.
Anche la precisione botanica e ornitologica con cui Pascoli designa fiori, piante, varietà di uccelli,
assume ben diverse valenze: il termine preciso diviene come la formula magica che permette di
andare al cuore della realtà, di attingere all’essenza segreta delle cose. Dare il nome alle cose è
come scoprirle per la prima volta, con occhi vergini e stupiti, possederle intimamente, arrivare ad
un’immedesimazione profonda con esse.
Perciò, data questa soggettivazione del reale, alla nettezza vivida delle impressioni e alla precisione
scientifica della terminologia botanica ed ornitologica può accostarsi senza stridori né
contraddizioni una percezione visionaria, onirica: il mondo è allora visto attraverso il velo del
sogno e perde ogni consistenza oggettiva, le cose sfumano le une nelle altre, in un gioco di
metamorfosi tra apparenze labili e illusorie.
Si instaurano così legami segreti fra le cose, che solo abbandonando le convenzioni della visione
corrente, logica e positiva, possono essere colti. La conoscenza del mondo avviene attraverso
strumenti interpretativi non razionali, che trasportano di colpo, senza seguire tutti i passaggi del
ragionamento logico, nel cuore profondo della realtà. Tra io e mondo esterno, tra soggetto e oggetto
non sussiste quindi per Pascoli vera distinzione. La sfera dell’io si confonde con quella della realtà
oggettiva, le cose acquistano una fisionomia antropomorfizzata, si caricano di significati umani.
Come si vede, la visione del mondo pascoliana si colloca a buon diritto entro le coordinate della
cultura decadente e presenta cospicue affinità, al di là delle difformità di tono, con la visione
dannunziana.
LA POETICA
Il fanciullino
Da questa visione del mondo scaturisce con perfetta coerenza la poetica pascoliana, che trova la sua
formulazione più compiuta e sistematica nell’ampio saggio Il fanciullino, pubblicato nel 1897.
L’idea centrale è che il poeta coincide col fanciullo che sopravvive al fondo di ogni uomo: un
fanciullo che vede tutte le cose «come per la prima volta», con ingenuo stupore e meraviglia, come
dovette vederle il primo uomo all’alba della creazione. Anche il poeta «fanciullino» dà il nome alle
cose e, trovandosi come in presenza del «mondo novello», deve usare una «novella parola», un
linguaggio che si sottragga ai meccanismi mortificanti della comunicazione abituale e sappia andare
all’intimo delle cose, scoprirle nella loro freschezza originaria, rendere il «sorriso» e la «lacrima»
che c’è in ognuna di esse.
Dietro questa metafora del «fanciullino» è facile scorgere una concezione della poesia come
conoscenza prerazionale e immaginosa, concezione che ha le radici ancora nel terreno romantico,
ma che Pascoli piega ormai in direzione decisamente decadente.
Grazie al suo modo alogico di vedere le cose, il poeta-fanciullo ci fa sprofondare immediatamente
nell’«abisso della verità».
L’atteggiamento irrazionale e intuitivo consente quindi una conoscenza profonda della realtà,
permette di cogliere direttamente l’essenza segreta delle cose, senza mediazioni. Non solo, ma il
«fanciullino» scopre nelle cose «le somiglianze e le relazioni più ingegnose», scopre cioè quella
trama di rispondenze misteriose tra le presenze del reale che le unisce come in una rete di simboli
e che sfugge alla percezione abituale, prigioniera delle sue stanche e trite convenzioni. Il poeta, in
una parola, appare come un “veggente”, dotato di una vista più acuta di quella degli uomini comuni,
colui che per un arcano privilegio può spingere lo sguardo oltre le apparenze sensibili, attingere
all’ignoto, esplorare il mistero. Si vede chiaramente come anche la poetica pascoliana rientri in un
ambito decadente.
La poesia “pura”
In questo quadro culturale si colloca altresì la concezione della poesia “pura”: per Pascoli la poesia
non deve avere fini estrinseci, pratici; il poeta canta solo per cantare, non vuole assumere il ruolo di
«consigliatore» e di «ammonitore», non si propone obiettivi civili, morali, pedagogici,
propagandistici. Tuttavia, precisa Pascoli, la poesia, proprio in quanto poesia «senza aggettivi»,
poesia “pura”, assolutamente spontanea e disinteressata, può ottenere «effetti di suprema utilità
morale e sociale».
Il sentimento poetico, dando voce al «fanciullino» che è in noi, sopisce gli odi e gli impulsi violenti
che sono propri degli uomini, induce alla bontà, all’amore, alla fratellanza; non solo, ma placa quel
desiderio di accrescere i propri possessi che spinge gli uomini a sopraffarsi a vicenda. Nella poesia
“pura” del «fanciullino» per Pascoli è quindi implicito un messaggio sociale, un’utopia umanitaria
che invita all’affratellamento di tutti gli uomini, al di là delle barriere di classe e di nazione che li
separano e li contrappongono gli uni agli altri.
Questo rifiuto della «lotta tra le classi» si trasferisce al livello dello stile. Pascoli ripudia il principio
aristocratico del classicismo che esige una rigorosa separazione tra ciò che è alto e ciò che è basso
ed accetta solo la prima categoria di oggetti nel campo selezionatissimo della poesia. Ricchi di
poesia per lui non sono solo gli argomenti elevati e sublimi, ma anche quelli più umili e dimessi. La
poesia è anche nelle piccole cose, che hanno un loro “sublime” particolare, una dignità non minore
di quelle auliche.
In tal modo Pascoli porta alle estreme conseguenze la rivoluzione romantica, che estendeva il
«diritto di cittadinanza a tutti gli elementi della realtà». Tra oggetti aulici e umili, e tra le parole che
li esprimono, non vi è più conflitto ed esclusione, ma vi può essere pacifica convivenza. A questo
principio Pascoli si attiene fedelmente nella sua attività poetica, proponendosi sia come cantore
delle realtà umili e dimesse, scoprendo il loro valore segreto ed elevandole alla dignità che loro
compete, sia come celebratore delle glorie nazionali ed evocatore dei miti e degli eroi classici.
L'IDEOLOGIA POLITICA
L'adesione al socialismo
Dai princìpi letterari di Pascoli affiora una concezione di tipo socialista, di un socialismo
umanitario e utopico, che affida alla poesia la missione di diffondere l’amore e la fratellanza.
Durante gli anni universitari, il giovane Pascoli subì l’influenza delle ideologie anarco-socialiste.
L’adesione all’anarchismo e al socialismo era un fenomeno diffuso tra gli intellettuali piccolo
borghesi del tempo. L’insofferenza ribelle nei confronti delle convenzioni e la protesta contro le
ingiustizie avevano una matrice culturale, ma avevano anche più concrete motivazioni sociali, quali
le inquietudini di un gruppo che si sentiva minacciato nella sua identità dall’avanzata della civiltà
industriale moderna, che toglieva prestigio alla tradizionale cultura umanistica, privilegiando nuove
competenze e nuovi saperi, scientifici e tecnologici; a ciò si univa il risentimento e la frustrazione
per i processi di declassazione a cui il ceto medio tradizionale era sottoposto dall’organizzazione
moderna della produzione, processi da cui gli intellettuali erano particolarmente colpiti.
In questo quadro sociologico rientrava perfettamente la figura del giovane studente
Giovanni Pascoli, proveniente dalla piccola borghesia rurale, declassato e impoverito,
che quindi trasformava in rabbia e in impulsi ribelli contro la società l’emarginazione di cui era
vittima. Pascoli sentiva soprattutto gravare su di sé il peso di un’ingiustizia immedicabile,
l’uccisione del padre, lo smembramento della famiglia, i lutti, la povertà: tutto ciò gli sembrava
l’effetto di un meccanismo sociale perverso, contro cui era necessario lottare. Aderì quindi
all’Internazionale socialista.
Il movimento anarco-socialista, ai suoi primordi, non aveva basi ideologiche rigorosamente definite,
il suo impegno politico obbediva più al «cuore» che alla «mente». Di tal genere fu anche l’adesione
di Pascoli. Arrestato per una manifestazione antigovernativa, come si è accennato, il giovane
studente venne tenuto mesi in carcere e processato. Fu per lui un’esperienza terribile: quando uscì
assolto dal processo, abbandonò definitivamente ogni forma di militanza attiva.
Dal socialismo alla fede umanitaria
Ma questo distacco deve essere collocato nell’ambito più vasto di una generale crisi della sinistra. Il
1879, l’anno del processo subito da Pascoli, fu anche l’anno di una svolta capitale del socialismo
romagnolo che abbandonò il pensiero utopico di Bakunin per accostarsi a quello di Marx.
Il socialismo marxista si fondava essenzialmente sul concetto di lotta di classe, sull’inconciliabilità
di interessi fra capitale e lavoro e sullo scontro violento, rivoluzionario che doveva opporli, sino al
trionfo di una delle due forze, il proletariato, che avrebbe cancellato l’altra e tutto il sistema
economico e sociale che su di essa si reggeva. Era questo un principio che ripugnava alle tendenze
più profonde dell’animo di Pascoli, il quale, nella sua prospettiva utopica, idealistica, intrisa di pietà
evangelica, non poteva accettare conflitti violenti, ma sognava un affratellamento di tutti gli
uomini, di tutte le classi sociali, come si è visto nel Fanciullino.
Il poeta non rinnegò gli ideali socialisti, ma, rifiutando recisamente la «gelida» dottrina marxista, li
trasformò in una generica fede umanitaria, nutrita di elementi provenienti dal cristianesimo
primitivo... Socialismo per lui era un appello alla bontà, all’amore, alla fraternità, alla solidarietà fra
gli uomini, voleva dire impegno ad alleviare le sofferenze degli infelici e le miserie dei poveri, a
diffondere la pace.
Alla base vi era un radicale pessimismo, la convinzione che la vita umana non è che dolore e
sofferenza, che sulla terra domina solo il male: per questo gli uomini, vittime della loro infelice
condizione, devono cessare di farsi del male fra loro, sopire odi e contese, amarsi e soccorrersi a
vicenda dinanzi alle dure prove dell’esistenza. Dal cristianesimo primitivo Pascoli traeva la
concezione del valore morale della sofferenza, che purifica ed eleva: dolore e lacrime possono
divenire un tesoro prezioso,
le vittime del male del mondo sono per un certo verso delle creature privilegiate, perché la
sofferenza le rende moralmente superiori. Per questo, pur dinanzi ai soprusi e alle ingiustizie, non
bisogna abbandonarsi agli odi, ai rancori e al desiderio di vendetta: il dolore, perfezionando il
nostro animo, deve insegnare il perdono.
La mitizzazione del piccolo proprietario rurale
Tali princìpi dovevano per lui valere non solo tra gli individui, ma a maggior ragione nei rapporti fra
le classi. Ogni classe doveva conservare la sua distinta fisionomia, la sua collocazione nella scala
sociale, ma doveva collaborare con tutte le altre, con amore fraterno e spirito di solidarietà. A
questo fine era necessario evitare la bramosia di ascesa sociale, che poteva generare scontri e
sopraffazioni, frustrazione e infelicità.
Il segreto dell’armonia sociale consiste per Pascoli nel fatto che ciascuno si contenti di ciò che ha,
che viva felice anche del poco. Il suo ideale di vita si incarna nell’immagine del proprietario rurale,
che coltiva personalmente la terra e guida con equilibrata, amorevole saggezza la sua famiglia. La
proprietà è per il poeta un valore sacro e intangibile, la base indispensabile della dignità e della
libertà dell’individuo. Ma il poco è preferibile al molto, il piccolo al grande: la felicità è possibile
solo nella dimensione del piccolo podere.
Pascoli mitizza così il mondo dei piccoli proprietari agricoli come mondo sereno e saggio, baluardo
che difende i valori fondamentali, la famiglia, la solidarietà, la laboriosità. Era un mondo che in
realtà, negli anni di Pascoli, stava ormai scomparendo, cancellato dai processi di concentrazione
capitalistica che si facevano sentire anche nelle campagne ed assorbivano la piccola proprietà,
schiacciata dall’insostenibile concorrenza. In luogo del piccolo proprietario subentravano grandi
entità impersonali, come banche e società anonime.
Pascoli lo sapeva bene, ma innalzava egualmente il suo inno a quella realtà che andava
scomparendo, rifugiandosi nel sogno di un passato idealizzato e contrapponendolo ai processi
moderni di sviluppo capitalistico che generavano in lui orrore e angoscia.
Il nazionalismo
Il fondamento dell’ideologia di Pascoli è la celebrazione del nucleo familiare, che si raccoglie entro
la piccola proprietà, cementato dai legami di sangue, dagli affetti, dai dolori e dai lutti
pazientemente sopportati. Ma questo senso geloso della proprietà, del «nido» chiuso ed esclusivo,
si allarga agevolmente ad inglobare l’intera nazione. Si collocano qui le radici del nazionalismo
pascoliano. Per questo egli sente con tanta partecipazione il dramma dell’emigrazione, che proprio
in quegli anni tocca proporzioni impressionanti: l’italiano che è costretto a lasciare il suolo della
patria è come colui che viene strappato dal «nido», dove ci sono le radici più profonde del suo
essere.
La tragedia dell’emigrazione induce Pascoli a far proprio un concetto corrente del nazionalismo
italiano primo-novecentesco: esistono nazioni ricche e potenti, “capitaliste”, e nazioni “proletarie”,
povere, deboli, oppresse. Tra queste vi è l’Italia.
Ebbene, le nazioni “proletarie” hanno il diritto di cercare la soddisfazione dei loro bisogni, anche
con la forza. Pascoli arriva dunque ad ammettere la legittimità delle guerre condotte dalle nazioni
proletarie per le conquiste coloniali, in modo da dar terra e lavoro ai loro figli più poveri. In tal
caso, per il poeta, si tratta di guerre non di offesa, ma di difesa, e pertanto sacrosante.
Sulla base di questi princìpi, nel 1911 Pascoli celebra la guerra di Libia come un momento di
riscatto della nazione italiana.
In tal modo Pascoli fonde insieme socialismo umanitario e nazionalismo colonialistico.
I TEMI DELLA POESIA PASCOLIANA
Il cantore della vita comune
Si è sottolineato come la poesia pascoliana riveli una sensibilità squisitamente decadente.
Quasi certamente quegli aspetti della sua sensibilità e della sua visione scaturiscono da una sua
esperienza originaria, più che da radici culturali, ma comunque l’affinità col clima culturale del
Decadentismo europeo è evidente.
Tuttavia Pascoli è l’esatto contrario del poeta “maledetto”, che rifiuta radicalmente la normalità
borghese e ostenta atteggiamenti provocatori, di rottura totale nei confronti dei suoi valori e dei
suoi comportamenti codificati. Nel suo vissuto, Pascoli incarna esemplarmente l’immagine
dell’uomo comune, appagato della sua vita modesta, all’interno della sfera protettiva degli affetti
domestici, degli studi, del lavoro di insegnante, nella pace raccolta del «nido» ricostruito entro le
mura della sua casa. Dal punto di vista letterario, l’immagine del poeta corrisponde perfettamente a
quella dell’uomo: Pascoli si presenta programmaticamente come il cantore della realtà comune e
dei suoi valori.
Una parte quantitativamente cospicua della sua poesia è destinata proprio alla funzione di proporre
quella determinata visione della vita, in nome di intenti pedagogici, morali, sociali. È la
celebrazione del piccolo proprietario rurale, è la celebrazione del «borghesuccio» che vive
contento nel «suo appartamentino ammobigliato sia pur senza buon gusto ma con molta pazienza e
diligenza», come si legge nel Fanciullino.
In questo ambito di poesia per così dire “pedagogica” rientra l’invito ad accontentarsi del poco,
l’ideale utopistico di una società in cui ogni ceto viva entro i propri confini, senza conflitti con le
altre classi sociali, in un clima di cooperazione e di concordia fraterna.
A questo filone della poesia pascoliana appartiene quindi anche la predicazione sociale e
umanitaria, il sogno di un’umanità affratellata, che nella solidarietà trovi una consolazione al male
di vivere, ai dolori e alle miserie connaturati con la condizione esistenziale stessa dell’uomo e
aggravati dalle situazioni sociali.
Da questo umanitarismo scaturisce poi una serie di temi collaterali che rimandano alla tematica
della letteratura umanitaria di fine Ottocento.
Pascoli conferisce a quei temi una nota tutta personale.
Questa predicazione si avvale anche di miti, impiegati per il loro valore suggestivo: il «fanciullino»
che è al fondo di ognuno di noi, che rappresenta la nostra parte naturalmente ingenua e buona e
può garantire la fraternità degli uomini, al di là degli odi e dei conflitti violenti di interessi; il «nido»
familiare caldo e protettivo, in cui i componenti si possono stringere per trovare conforto e riparo
dall’urto di una realtà esterna paurosa e minacciosa.
Col «nido» si collega il motivo ricorrente del ritorno dei morti, che spesso accampano la loro
spettrale, lugubre presenza nei versi pascoliani. Anche qui però l’ossessione privata è assorbita
entro l’intento pedagogico: la tragedia familiare scaturita dall’assassinio del padre è trasformata da
Pascoli in una vicenda esemplare, da cui si può ricavare l’idea del male che serpeggia tra gli uomini,
la necessità del perdono e della concordia.
Il poeta ufficiale
Pascoli, oltre a farsi cantore delle idealità dell’uomo comune, può allargare la sua predicazione a
temi più vasti, che investono l’umanità intera. Per questo può anche assumere le funzioni del poeta
ufficiale, del poeta “vate”, che canta le glorie della patria, che indica gli obiettivi del suo riscatto
nelle guerre coloniali, destinate ad assicurare uno sfogo all’emigrazione, ed esalta il compito di
assicurare la coesione nazionale proprio dell’esercito.
Affrontando in poesia questi temi Pascoli interpretava la visione della vita e i sentimenti di larghi
strati della popolazione italiana: mentre d’Annunzio offriva alle masse piccolo borghesi un sogno
evasivo di gloria, di lusso e di lussuria, che le strappava alla loro mediocrità quotidiana, Pascoli
radicava invece nel pubblico le convinzioni profonde che esso già possedeva, ribadiva la fede in
alcuni valori elementari ma fondamentali, la proprietà, la famiglia, la devozione e la fedeltà ai morti,
l’accontentarsi del poco, la pietà per i sofferenti e i derelitti.
La prova di questa sintonia instauratasi tra il poeta e il pubblico è la sua fortuna scolastica. Egli
stesso nei suoi scritti indicava esplicitamente i fanciulli come suo uditorio ideale.
Questa immagine di Pascoli fu accolta anche dalla critica, che a lungo parlò di poeta delle piccole
cose, del poeta «fanciullino» cantore della bontà, dell’innocenza, dei valori domestici e civili, della
funzione sublime della sofferenza, fornendone un’immagine edulcorata e riduttiva, che ne
esorcizzava e ne rimuoveva gli aspetti più inquietanti ma anche più validi, quelli che fanno di lui il
maggiore poeta italiano a cavallo dei due secoli, e uno dei più grandi in assoluto.
Il grande Pascoli decadente
Le trasformazioni del clima culturale e del gusto hanno portato alla luce un Pascoli tutto diverso,
scoprendo un Pascoli inquieto, tormentato, morboso, visionario.
È il Pascoli che è in perenne auscultazione del mistero che è al di là delle cose più usuali, che sa
rendere la presenza di questa seconda, inquietante dimensione del reale caricando gli oggetti più
comuni, le “piccole cose” appunto, di sensi allusivi e simbolici; che proietta nella poesia le sue
ossessioni profonde, portando alla luce i “mostri”, le zone oscure e torbide della psiche, una
sensualità morbosa, espressa nel simbolo del fiore maligno, velenoso e al tempo stesso
ammaliatore; che traduce nel simbolo della pianta parassita, il vischio, la consapevolezza della
duplicità della psiche, dell’urgere di forze profonde, sconosciute, che possono stravolgere gli
impulsi razionali; che sa esprimere le sconfitte esistenziali e le delusioni dell’anima moderna, il
senso di inadeguatezza della realtà rispetto al sogno, il fascino dell’irrazionale, delle forze oscure
che si agitano oltre il limite della conoscenza umana; che sente ovunque in ciò che lo circonda la
presenza della morte e trasfigura il reale in un clima visionario, sospeso tra la realtà e il sogno; che
traduce le acquisizioni della moderna scienza astronomica in una percezione sgomenta degli abissi
dello spazio siderale e con angoscia anticipa future, misteriose catastrofi cosmiche o dà voce al
terrore di precipitare nell’infinità senza limiti del cielo; che trasforma i dati oggettivi, offerti dalle
sensazioni, in un gioco di parvenze illusorie; che disgrega l’ordine del reale, dilatando
smisuratamente il minimo particolare, con una fissità allucinata, ma può egualmente
miniaturizzare ciò che è grande.
Al di là del poeta pedagogo, cantore della vita comune, si delinea un grandissimo poeta
dell’irrazionale, capace di raggiungere profondità inaudite. In questo, Pascoli è ben più radicale di
d’Annunzio, le cui intuizioni geniali sono spesso soffocate dal peso degli intenti ideologici e
propagandistici. Perciò il poeta «fanciullino» può a buon diritto essere ritenuto il nostro scrittore
più autenticamente decadente, riconoscendo al termine un valore culturale del tutto positivo.
Le angosce e le lacerazioni della coscienza moderna
I due Pascoli che abbiamo individuato hanno ovviamente una radice comune, sono connessi da
legami profondi e necessari: la celebrazione del «nido», delle piccole cose, della modestia appagante
della vita comune, della fraternità umana, è proposta proprio per erigere un baluardo rassicurante
dinanzi all’urgere di forze minacciose, che Pascoli avverte con inquietudine, sgomento e paura.
In un discorso del 1900 leggiamo considerazioni illuminanti, che ci fanno capire con quale animo
Pascoli guardasse alla realtà contemporanea.
Il poeta dimostra di avere ben chiari i processi contemporanei della concentrazione monopolistica, i
conflitti imperialistici tra le potenze che minacciano una prossima apocalisse bellica, il pericolo
dell’instaurarsi di regimi totalitari che renderanno schiava tutta l’umanità, e ne prova orrore. Sono
queste paure che lacerano la coscienza della modernità e fanno affiorare i “mostri” nascosti nel
profondo. Chiudersi entro i confini ristretti del «nido» assume il valore di un esorcismo, al fine di
neutralizzare ciò che il poeta avverte oscuramente muoversi al fondo della sua anima. Però non
tutta la sua poesia obbedisce a questo bisogno di rimozione: Pascoli sa anche scandagliare quel
fondo buio, lasciarlo affiorare sulla pagina con tutta la sua forza dirompente, guardare
in faccia i “mostri”: e questa è la sua grandezza.
LE SOLUZIONI FORMALI
Il modo nuovo di percepire il reale si traduce, nella poesia pascoliana, in soluzioni formali
fortemente innovative, che aprono la strada alla poesia novecentesca.
La sintassi
La sintassi di Pascoli è ben diversa da quella della tradizione poetica italiana, che era modellata sui
classici e fondata su elaborate e complesse gerarchie di proposizioni principali, coordinate e
subordinate: nei suoi testi poetici invece la coordinazione prevale sulla subordinazione, di modo
che la struttura sintattica si frantuma in serie paratattiche di brevi frasi allineate senza rapporti
gerarchici tra di loro, spesso collegate non da congiunzioni, ma per asindeto. Di frequente le frasi
sono ellittiche, mancano del soggetto, o del verbo, o assumono la forma dello stile nominale.
La frantumazione pascoliana rivela il rifiuto di una sistemazione logica dell’esperienza, il prevalere
della sensazione immediata, dell’intuizione, dei rapporti analogici, allusivi, suggestivi, che indicano
una trama di segrete corrispondenze tra le cose, al di là del visibile. È una sintassi che traduce
perfettamente la visione del mondo pascoliana, una visione “fanciullesca”.
La conseguenza è che gli oggetti più quotidiani e comuni, visti attraverso quest’ottica, presentano
una fisionomia stranita, appaiono come immersi in un’atmosfera visionaria, o di sogno. Non
essendovi più gerarchie, nel mondo pascoliano si introduce un relativismo «che non ha più punti di
riferimento esterni, oggettivi».
Il lessico
Pascoli non usa un lessico “normale”, fissato entro un unico codice: mescola tra loro codici
linguistici diversi, allinea fianco a fianco termini tratti dai settori più disparati. Non nascono tuttavia
scontri di livelli, conflitti di registri: come le cose convivono senza gerarchie, così avviene delle
parole che le designano. È un principio formulato nel Fanciullino: il poeta vuole abolire la “lotta”
fra le classi di oggetti e di parole.
Troviamo quindi nei suoi testi termini preziosi e aulici, della lingua dotta, o ricavati dai modelli
antichi; termini gergali e dialettali, riferentisi alla realtà campestre; una minuziosa, precisa
terminologia botanica ed ornitologica, ad indicare le infinite varietà d’alberi, fiori, uccelli che
popolano i suoi versi; termini dimessi e quotidiani del parlato colloquiale; parole provenienti da
lingue straniere; si aggiunge ancora il gusto per i nomi propri antichi.
Gli aspetti fonici
Grande rilievo hanno poi gli aspetti fonici. Quelle che più colpiscono sono quelle espressioni che si
situano al di sotto del livello strutturato della lingua e non rimandano ad un significato concettuale,
come è proprio del linguaggio grammaticalizzato, ma imitano direttamente l’oggetto.
Sono in prevalenza riproduzioni onomatopeiche di versi d’uccelli o suoni di campane, non a caso i
suoni che in Pascoli si caricano di più intenso valore simbolico.
Queste onomatopee indicano un’esigenza di aderire immediatamente all’oggetto, di penetrare nella
sua essenza segreta evitando le mediazioni logiche del pensiero e della parola codificata, rientrano
insomma in quella visione alogica del reale che è propria di tutta la poesia pascoliana.
Al di là delle vere e proprie onomatopee, costantemente i suoni usati da Pascoli possiedono un
valore fonosimbolico, tendono ad assumere un significato di per se stessi, senza rimandare al
significato della parola. Tra questi suoni si crea una trama sotterranea di echi e rimandi. Questa
trama viene a costituire la vera architettura interna del testo, a supplire l’assenza di strutture
logico-sintattiche. Allo stesso fine concorrono altri procedimenti usati sistematicamente da Pascoli,
quali assonanze ed allitterazioni.
La metrica
La metrica pascoliana è apparentemente tradizionale, nel senso che impiega i versi più consueti
della poesia italiana, endecasillabi, decasillabi, novenari, settenari ecc., e gli schemi di rime e le
strofe più usuali, rime baciate, alternate, incatenate, terzine, quartine, strofe saffiche. Ma in realtà
questi materiali son piegati dal poeta in direzioni personalissime. Con il sapiente gioco degli
accenti Pascoli sperimenta cadenze ritmiche inedite, con una varietà inesauribile di modulazioni.
Anche il verso è di regola frantumato al suo interno, interrotto da numerose pause, segnate
dall’interpunzione, da incisi, parentesi, puntini di sospensione. La frantumazione del discorso è
accentuata dal frequentissimo uso degli enjambements, che spezzano sintagmi strettamente uniti,
quali soggetto-verbo, aggettivo-sostantivo.
Pascoli non fa esplodere l’universo linguistico tradizionale, ma li piega in direzioni assolutamente
inedite.
Le figure retoriche
Al livello delle figure retoriche, Pascoli usa largamente il linguaggio analogico. Il meccanismo è
quello della metafora, la sostituzione del termine proprio con uno figurato, che ha col primo un
rapporto di somiglianza.
Ma l’analogia pascoliana non si accontenta di una somiglianza facilmente riconoscibile: accosta in
modo impensato e sorprendente due realtà tra loro remote, eliminando per di più tutti i passaggi
logici intermedi e identificando immediatamente gli estremi, costringendo così ad un volo
vertiginoso dell’immaginazione.
Non ci sono passaggi intermedi, di tipo sintattico, che esplicitino il legame logico: il secondo
termine è semplicemente dato come apposizione del primo. È un discorso fortemente ellittico,
allusivo, che punta sul non detto e arriva quasi al limite dell’enigmatico, del cifrato.
Un procedimento affine all’analogia è la sinestesia, che possiede del pari un’intensa carica allusiva e
suggestiva, fondendo insieme, in un tutto indistinto, diversi ordini di sensazioni.
L’effetto è quello di una maggiore indefinitezza: la realtà corposa, materiale, sfuma in una notazione
cromatica, con un effetto puramente suggestivo.
Pascoli e la poesia del novecento
Queste soluzioni formali aprono la strada alla poesia del Novecento. Avremo modo di trovare in
tanti poeti successivi, in particolare negli ermetici, scelte espressive analoghe a quelle pascoliane.
Per questo si è potuto parlare di un Pascoli «verso il Novecento» o addirittura «dentro» il
Novecento.
LE RACCOLTE POETICHE
I componimenti pascoliani furono raccolti dal poeta in una serie di volumi, pubblicati tra il 1891 e il
1911. Tuttavia cercare di ricostruire uno sviluppo interno della sua poesia seguendo la successione
cronologica di queste raccolte è sicuramente fuorviante, in quanto il loro ordine di uscita non
coincide con quello della composizione dei singoli testi.
Nel corso degli anni Novanta Pascoli lavora contemporaneamente a vari generi poetici, affronta
temi diversi con soluzioni formali anche lontane fra loro: ebbene, le poesie nate nello stesso
periodo confluiranno poi in Myricae, nei Poemetti, nei Canti di Castelvecchio, nei Poemi conviviali,
in Odi ed inni.
La distribuzione nelle varie raccolte obbedisce non tanto all’ordine cronologico di composizione,
quanto a ragioni formali, di natura stilistica e metrica.
Le raccolte si arricchiscono, nelle successive edizioni, di testi nuovi, oppure presentano
rielaborazioni profonde di testi più antichi. Disgregando le raccolte e ridistribuendo le singole
poesie nella loro successione cronologica, sarebbe difficile ricostruire uno sviluppo nel tempo, un
chiaro, lineare processo evolutivo.
La poesia di Pascoli è sostanzialmente sincronica: sono ovviamente riconoscibili arricchimenti e
approfondimenti di temi, mutamenti di soluzioni stilistiche nel corso del tempo, ma svolte
veramente radicali, che possano legittimamente far parlare di fasi diverse e distinte, non possono
essere individuate.
MYRICAE
La prima raccolta vera e propria fu Myricae, uscita nel 1891 in edizione fuori commercio e
contenente 22 poesie dedicate alle nozze di amici. Il volume si ampliò già dalla seconda edizione del
1892, che conteneva 72 componimenti, ma cominciò ad assumere la sua fisionomia definitiva solo a
partire dalla quarta, del 1897, in cui i testi salivano a 116.
Il titolo è una citazione virgiliana, tratta dall’inizio della IV Bucolica, in cui il poeta latino proclama
l’intenzione di innalzare un poco il tono del suo canto.
Pascoli assume invece le umili piante proprio come simbolo delle piccole cose che egli vuole porre
al centro della poesia, secondo i princìpi di quella poetica che di lì a qualche anno esporrà nel
Fanciullino.
Si tratta in prevalenza di componimenti molto brevi, che all’apparenza si presentano come
quadretti di vita campestre, ritratti con un gusto impressionistico, con rapide notazioni che colgono
un particolare, una linea, un colore, un suono. Ma in realtà i particolari su cui il poeta fissa la sua
attenzione non sono dati oggettivi, resi naturalisticamente, ma si caricano di sensi misteriosi e
suggestivi, sembrano alludere ad una realtà ignota e inafferrabile che si colloca al di là di essi, sono
i segnali di un enigma affascinante ed inquietante insieme.
Spesso le atmosfere che avvolgono queste realtà evocano l’idea della morte; ed uno dei temi più
presenti nella raccolta è il ritorno dei morti familiari, che vengono a riannodare i legami spezzati
dall’uccisione del padre e dai tanti lutti successivi. Già a partire da Myricae Pascoli delinea quel
romanzo familiare che è il nucleo doloroso della sua visione del reale. Compaiono poi quelle
soluzioni formali che costituiscono la profonda originalità della poesia pascoliana: l’insistenza sulle
onomatopee, il valore simbolico dei suoni, l’uso di un ardito linguaggio analogico, la sintassi
frantumata. Pascoli sperimenta anche una varietà di combinazioni metriche inedite, utilizzando in
genere versi brevi, in particolare il novenario, un verso poco frequente nella tradizione italiana.
I POEMETTI
Il «romanzo georgico»
Una fisionomia diversa possiedono i Poemetti, raccolti una prima volta nel 1897, poi ripubblicati con
aggiunte nel 1900, ed infine, nella veste definitiva, divisi in due raccolte distinte, Primi poemetti
(1904) e Nuovi poemetti (1909). Si tratta di componimenti più ampi di quelli di Myricae, che
all’impianto lirico sostituiscono un più disteso taglio narrativo, divenendo spesso dei veri e propri
racconti in versi. Muta anche la struttura metrica: ai versi brevi subentrano, di regola, le terzine
dantesche, raggruppate in sezioni più o meno ampie.
Anche qui, però, assume rilievo dominante la vita della campagna. All’interno delle due raccolte si
viene a delineare un vero e proprio «romanzo georgico», cioè la descrizione di una famiglia rurale
di Barga, colta in tutti i momenti caratteristici della vita contadina. La narrazione è articolata in veri
e propri cicli, che traggono il titolo dalle varie operazioni del lavoro dei campi, La sementa,
L’accestire nei Primi poemetti, La fiorita e La mietitura nei Nuovi poemetti.
Questa raffigurazione della vita contadina si carica di scoperti intenti ideologici: il poeta vuole
celebrare la piccola proprietà rurale, presentandola come depositaria di tutta una serie di valori
tradizionali e autentici, solidarietà familiare e affetti, laboriosità, bontà, purezza morale, schiettezza,
semplicità, saggezza, in contrapposizione alla negatività della realtà contemporanea. La vita del
contadino, chiusa nelle dimensioni ristrette del podere e del «nido» domestico, scandita dal ritorno
ciclico delle stagioni e dall’avvicendarsi sempre eguale dei lavori dei campi, appare al poeta come un
rifugio rassicurante.
La rappresentazione della vita contadina assume quindi la fisionomia di un’utopia regressiva, nel
senso che Pascoli proietta il suo ideale nel passato, in forme di vita che stanno scomparendo,
travolte dallo sviluppo della realtà sociale ed economica moderna, in un processo ormai
irreversibile.
È evidente perciò come questa raffigurazione della campagna non abbia punti di contatto con quella
che pochi anni prima era stata offerta dal Verismo, in particolare da Verga: il mondo rurale
pascoliano è idealizzato e idillico, ignora gli aspetti più crudi della realtà popolare, il bisogno, la
miseria, la degradazione e l’abbrutimento della natura umana, ignora i conflitti sociali, la violenza
della lotta per la vita, la disumanità delle leggi economiche, che fanno sì che la campagna sia nella
sua essenza equivalente alla società delle «Banche» e delle «Imprese industriali» anziché un Eden
intatto di autenticità e innocenza.
Pascoli si sofferma sugli aspetti più quotidiani, umili e dimessi di quel mondo, designando con
minuziosa precisione gli oggetti e le operazioni del lavoro dei campi, ma anche questa precisione
non ha nulla di naturalistico, di documentario: al contrario risponde all’intento di ridare la sua
vergine freschezza originaria alla parola, per esprimere una stupita meraviglia dinanzi alle cose.
Non solo, ma il poeta vuole mettere in rilievo quanto di poetico è insito anche nelle realtà umili, la
loro dignità “sublime”, per cui le più consuete attività quotidiane della vita di campagna sono da lui
trasfigurate in una luce di epos, mediante il ricorrere di formule tratte dagli antichi poeti. Si ha
quindi, nei Poemetti, una singolare mescolanza di elementare semplicità e di preziosa raffinatezza,
che talora però suona falsa e rivela lo sforzo artificioso.
Gli altri temi
Al di fuori di questo ciclo “georgico” si collocano però numerosi poemetti, che presentano temi più
inquietanti e torbidi, densi di significati simbolici, come Il vischio, che insiste sull’immagine
mostruosa di una pianta parassita e “vampira”, che succhia la vita di un albero da frutto, dando
origine ad un ibrido ripugnante, Digitale purpurea, con al centro un «fiore di morte» che emana un
profumo inebriante e insidioso e turba l’innocenza delle educande di un convento, Suor Virginia,
che crea un’atmosfera notturna arcana, sospesa e visionaria, in cui aleggia un presagio di morte;
oltre a questi, vanno poi ricordati altri testi famosi: L’aquilone, tutto giocato sul tema della memoria
che riporta a stagioni passate, facendo rivivere l’infanzia; Italy, che affronta invece un tema sociale,
quello dell’emigrazione che tanto sta a cuore a Pascoli, descrivendo il ritorno temporaneo di una
famiglia di emigranti al paese natale e il conflitto fra due mondi, quello moderno e industriale della
nuova patria, l’America, e quello arcaico della campagna lucchese; La vertigine, che esprime
l’angoscia originata dal percepire la terra muoversi negli infiniti spazi siderali e il terrore di
precipitare in essi senza mai trovar fine.
I CANTI DI CASTELVECCHIO
I Canti di Castelvecchio (1903) sono definiti dal poeta stesso, nella prefazione, «myricae», quindi si
propongono intenzionalmente di continuare la linea della prima raccolta.
Anche qui ritornano immagini della vita di campagna, canti d’uccelli, alberi, fiori, suoni di campane,
e ricompare una misura più breve, lirica anziché narrativa. I componimenti si susseguono secondo
un disegno segreto, che allude al succedersi delle stagioni: ancora una volta l’immutabile ciclo
naturale si presenta come un rifugio rassicurante e consolante dal dolore e dall’angoscia
dell’esistenza storica e sociale.
Ricorre con frequenza ossessiva, infatti, il motivo della tragedia familiare e dei cari morti, che si
stringono intorno al poeta a rinsaldare quel vincolo di sangue e d’affetti che la brutale violenza degli
uomini ha spezzato. Vi è anche il rimando continuo del nuovo paesaggio di Castelvecchio a quello
antico dell’infanzia in Romagna, quasi ad istituire un legame ideale tra il nuovo «nido» costruito
dal poeta e quello spazzato via dalla tragedia.
Non mancano però anche in questa raccolta i temi più inquieti e morbosi, che danno corpo alle
segrete ossessioni del poeta: l’eros, contemplato col turbamento del fanciullo per il quale il
rapporto adulto è qualcosa di ignoto, affascinante e ripugnante insieme e la morte, che a volte
appare un rifugio dolce in cui sprofondare, come in una regressione nel grembo materno. Dalle
piccole cose della realtà umile lo sguardo si allarga poi agli infiniti spazi cosmici, ad immaginare
misteriose apocalissi future che distruggeranno forse la vita dell’universo.
I POEMI CONVIVIALI, I CARMINA, LE ULTIME RACCOLTE, I SAGGI
I Poemi conviviali
Un carattere apparentemente molto diverso dai Canti di Castelvecchio presentano i Poemi
conviviali (1904).
Si tratta di poemetti dedicati a personaggi e fatti del mito e della storia antichi, dalla Grecia sino alla
prima diffusione del cristianesimo: vi compaiono così Achille, Ulisse, Elena di Troia, Solone,
Socrate, Alessandro Magno. La ricostruzione del mondo antico si fonda su una preziosa erudizione,
che si compiace di esplorare aspetti marginali e poco noti del mito e della storia, con un gusto che
appare vicino a quello dell’alessandrinismo, l’epoca della letteratura greca successiva ad Alessandro
Magno.
Anche il linguaggio è raffinatamente estetizzante e spesso mira a riprodurre in italiano il clima e lo
stile della poesia classica, con un gusto che deriva scopertamente dalla poesia parnassiana.
Non si tratta però di un arido ed esteriore esercizio erudito: sotto le vesti classiche, in questi
poemetti compaiono tutti i temi consueti della poesia pascoliana. Il mondo antico, nei Poemi
conviviali, non è dunque un mondo di immobile e gelida perfezione, ma si carica delle inquietudini
e delle angosce della sensibilità moderna.
I Carmina e le ultime raccolte
Ai Poemi conviviali si possono accostare i Carmina latini. Si tratta di trenta poemetti e di settantuno
componimenti più brevi, scritti da Pascoli per il concorso di poesia latina di Amsterdam, per i quali
egli ottenne numerose volte la medaglia d’oro. Non furono raccolti organicamente dal poeta e videro
la luce solo postumi, nel 1915. Sono in genere dedicati agli aspetti più marginali della vita romana
ed hanno per protagonisti personaggi umili, gladiatori, schiavi, un’umanità minore, dolente, ma
riscattata da un’intima bontà. Vi si proietta l’ideologia umanitaria di Pascoli, che della civiltà
romana, per altri aspetti tanto amata, respinge il crudele costume della schiavitù, e vi si delinea
l’attenzione affascinata per il messaggio cristiano di riscatto spirituale degli umili e degli oppressi. Il
latino di Pascoli non è una lingua morta, ma una lingua intimamente rivissuta, che rivela profonde
affinità col linguaggio delle poesie italiane, soprattutto nel suo ritmo spezzato, che appare
lontano dall’armonia del latino classico.
Nelle ultime raccolte Pascoli assume le vesti del poeta ufficiale, celebratore delle glorie nazionali e
inteso a propagandare princìpi morali e civili, prendendo spunto ora dall’attualità ora da fatti della
storia medievale, rinascimentale, risorgimentale, ed emulando il maestro Carducci e l’amico rivale
d’Annunzio. Sono versi che rivelano spesso virtuosismi linguistici e metrici del tutto artificiosi, e
che oggi appaiono per gran parte illeggibili.
Il saggista e il critico
Insieme alle raccolte poetiche è necessario ricordare l’attività di saggista e di critico propria di
Pascoli.
Il Pascoli propriamente critico è quello che si trova nei tre volumi dedicati a Dante, Minerva oscura
(1898), Sotto il velame (1900), La mirabile visione (1908), in cui viene offerta una complessa, sottile
interpretazione allegorica ed esoterica della poesia dantesca, intesa a ricostruire il sistema dei suoi
sensi riposti. In questa vasta fatica Pascoli aveva profuso grandi ambizioni, ma in realtà i volumi
incontrarono reazioni fredde o addirittura ostili nella critica del tempo.
Accanto agli scritti critici si possono collocare i lavori scolastici di Pascoli, le antologie italiane Sul
limitare (1898) e Fior da fiore (1901) e quelle latine Lyra (1896) ed Epos (1897), in cui le scelte
antologiche riflettono puntualmente il gusto personale del poeta, tanto che i passi degli altri
scrittori da lui raccolti sembrano in qualche modo diventati suoi.
Lo stile della prosa pascoliana è molto lontano da quello della prosa erudita del tempo: lo scrittore
adotta un tono colloquiale, pacato, dimesso, che però nella sua voluta semplicità ha spesso
qualcosa di manierato e lezioso. Più sostenuto e non privo di enfasi retorica è invece lo stile dei
discorsi ufficiali, pronunciati in varie occasioni pubbliche.
ANALISI
-UNA POETICA DECADENTE
Una teoria della poesia e un programma poetico
In queste pagine risaltano, attraverso un linguaggio metaforico, i punti essenziali della teoria
pascoliana della poesia, che contiene al tempo stesso un programma poetico, quello che Pascoli
andava realizzando proprio in quegli anni nelle varie edizioni di Myricae e nei Poemetti. Tali punti
sono, in sintesi: il tipo di conoscenza prerazionale e immaginoso che è proprio del «fanciullino» e
che consente di cogliere la realtà nella sua essenza profonda, senza seguire le tappe del
ragionamento logico; la verginità primigenia della parola poetica; la scoperta delle corrispondenze
segrete fra le cose; il poeta come colui che può spingere lo sguardo oltre i limiti della realtà visibile;
la poesia “pura” che non deve proporsi finalità estrinseche, ma che proprio per questo può ottenere
effetti di «suprema utilità morale e sociale», indicando un’utopica società senza conflitti, in cui tutti
gli uomini siano affratellati; il rifiuto della separazione classica degli stili, la dignità poetica che va
scoperta anche nelle cose piccole e umili, non solo in quelle sublimi e aristocratiche.
Le metafore floreali
Quest’ultimo concetto è espresso da Pascoli attraverso le metafore floreali che gli sono care: belli e
degni di essere cantati sono non solo gli esotici e rari fiori delle «agavi americane» ma anche i
piccoli fiori della «pimpinella». A questa poetica delle piccole cose Pascoli si ispira abitualmente
nella sua poesia: vi allude lo stesso titolo della sua prima raccolta, Myricae, che, citando il Virgilio
della IV Bucolica, si riferisce proprio a piante umili, le tamerici.
Oltre a distaccarsi dal gusto aulico della tradizione poetica italiana, qui Pascoli prende le distanze
anche dalla contemporanea poesia di d’Annunzio, sontuosa e preziosa nel suo estetismo
superomistico, che punta decisamente verso un’aulicità sublime nelle scelte tematiche e stilistiche.
-ARANO
Un quadro apparentemente bozzettistico
Come è consueto nella poesia di Myricae, il quadro appare a prima vista realistico, ma cela
significati più profondi. La lirica si apre con una serie di impressioni visive, che sembrano registrate
oggettivamente: la netta macchia di colore del pampano «roggio», lo sfondo della nebbia che invece
sfuma i contorni. Poi il quadro si precisa e si popola di figure umane e animali in movimento, come
se l’occhio del poeta compisse una “carrellata”, per usare una metafora cinematografica. Lo stacco
tra i due momenti è segnato dal verbo «arano» al verso 4, a cui conferiscono particolare rilievo la
collocazione all’inizio di verso e di strofa e al termine del periodo sintattico, l’accento sulla prima
sillaba, il forte enjambement, il soggetto indeterminato.
Si delinea il quadro delle opere umane tipiche della campagna in autunno, care a Pascoli cantore
della realtà rurale. Può sembrare una semplice immagine bozzettistica, quasi nel gusto dei quadretti
dei lavori dei campi proposti dalla pittura di genere settecentesca, di ispirazione arcadica. Ma al di
sotto si avverte un senso vago di malinconia, dato dalla nebbia che sale, dalle voci sperdute dei
contadini che echeggiano nella campagna brulla d’autunno, dalla fatica paziente che ripete gesti
secolari e che però è insidiata dagli uccelli che sicuramente beccheranno le sementi. C’è il senso
della lotta dell’uomo contro la natura, faticosa eppur sempre condotta con stoica tenacia.
Un ribaltamento di prospettive
La quartina finale, inaspettatamente, ribalta le prospettive. La scena è ora presentata attraverso un
altro punto di vista, quello degli uccelli, che vengono dal poeta umanizzati. Quella che per i
contadini è fatica pesante e sempre insidiata, per gli uccelli è fonte di vita. La nuova prospettiva
introduce nella poesia un tono più gioioso, quasi ilare. Esso si concreta nell’ultima impressione
fonica, in quel «sottil tintinno come d’oro» che risuona allegro nello scenario triste della campagna
autunnale e nebbiosa. Nel paragone è celata una sinestesia: non solo il verso del pettirosso richiama
il tintinnio dell’oro, ma il suono evoca anche una sensazione visiva, il luccichio del metallo. La
poesia si chiude così con un’altra notazione di colore brillante, in simmetria con il rosso del
pampano che «brilla» in apertura. Come si vede, dietro le immagini apparentemente oggettive si
delinea una trama più segreta di allusioni e suggestioni.
-LAVANDARE
Il paesaggio autunnale
Valgono per questo testo le considerazioni fatte per Arano.
A prima vista si ha una registrazione di dati oggettivi, veristici e bozzettistici: la prima terzina è
dominata da impressioni visive, giocate su tonalità spente, autunnali (la terra mezza grigia e mezza
nera) e per di più sfumate dalla nebbia leggera; la seconda si incentra invece su impressioni uditive,
lo «sciabordare», i «tonfi», i canti delle lavandaie che provengono da lontano (senza che le figure
umane entrino visivamente nel quadro). La quartina finale potrebbe sembrare la trascrizione di
gusto veristico di un puro “documento”, di un canto popolare. In realtà tutti questi dati assumono un
valore simbolico. Si stabilisce una corrispondenza segreta tra lo stornello delle lavandaie e il
particolare, presente all’inizio, dell’aratro dimenticato nel campo arato solo a metà: gli oggetti, il
campo, l’aratro, rendono un senso di incompiutezza, di abbandono, carico di tristezza, accentuata
dall’atmosfera autunnale desolata, grigia e nebbiosa; ciò che gli oggetti esprimono è poi ripreso dal
canto popolare, che ribadisce la malinconia della lontananza, del passare del tempo, dell’attesa
inutile, della solitudine e dell’abbandono.
Lo stile
Dal punto di vista stilistico e metrico la semplicità del dettato come sempre cela sottili artifici. Si
possono notare: l’enjambement tra i versi 2 e 3, che conferisce un forte spicco a «dimenticato»,
termine chiave in cui è racchiuso tutto il senso segreto del componimento; l’assonanza interna
«aratro» / «dimenticato», tra il verso 2 e il verso 3; le rime interne tra il verso 3 e il verso 4,
«dimenticato» / «cadenzato», e al verso 5 tra il primo e il secondo emistichio, «sciabordare» /
«lavandare», che creano una cadenza lenta e prolungata di cantilena; la quasi assonanza delle sillabe
finali in -ero e -are; l’assonanza tra i versi 7 e 9, «frasca» / «rimasta», tipica della poesia popolare;
l’allitterazione tra «vapor», «gora», «sciabordare», «torni ancora»; il chiasmo del verso 6, sostantivo
e aggettivo – aggettivo e sostantivo, col gioco fonico simmetrico tra le vocali accentate: vocale cupa,
o, u («tonfi», «lunghe») e vocale chiara e («spessi», «cantilene»), che conferisce al verso un
andamento lento, cadenzato, quasi a riprodurre il ritmo monotono del lavoro delle lavandaie, con
un effetto analogo alla rima interna del verso precedente. Come si vede, non sono artifici gratuiti,
fini a se stessi, ma ciascuno di essi riveste un preciso valore espressivo.
-X AGOSTO
La costruzione della poesia
La poesia appare molto diversa dalle altre di Myricae in precedenza riportate: non è un quadro di
natura, reso con rapide notazioni impressionistiche, che si carichi di sensi simbolici, ma un
discorso ideologicamente strutturato, in cui il poeta, prendendo le mosse dalla propria tragedia
familiare, affronta i grandi temi metafisici del male e del dolore, del rapporto tra la dimensione
terrena e il trascendente. Il risultato dà l’impressione di qualcosa di troppo costruito, di
scopertamente patetico, enfatico e predicatorio.
La poesia è molto famosa, consacrata da una lunga tradizione scolastica, ma oggi il Pascoli più
autentico e valido non ci appare più questo: più vicino al nostro gusto è invece il Pascoli
“simbolista”, che sa rendere con tocchi suggestivi e con un linguaggio di rivoluzionaria forza
innovativa il senso del mistero, creando atmosfere magiche e incantate, oppure quello che esprime
la sua visione del reale tormentata, angosciata, funebre, in forme visionarie, oniriche, torbide e
sconvolte; il Pascoli che, per usare la famosa definizione di Luciano Anceschi, va decisamente
«verso il Novecento».
La costruzione tutta predicatoria e retorica della poesia è rivelata dalle sue geometriche, studiate
simmetrie: la prima strofa corrisponde all’ultima, proponendo il motivo del pianto del cielo che
guarda da un’infinita lontananza il male della terra, e a sua volta il gruppo delle strofe 2 e 3 risponde
esattamente al gruppo della 4 e della 5. Evidenti e insistite sono anche le rispondenze a livello
microstrutturale.
Si possono poi ravvisare rispondenze meno scoperte: gli «spini» tra cui cade la rondine ricordano la
corona di spine della passione di Cristo, e la conferma viene subito dopo dall’immagine della croce
(«Ora è là, come in croce», v. 9): la rondine uccisa diviene il simbolo di tutti gli innocenti perseguitati
dalla malvagità degli uomini e allude alla figura della vittima per eccellenza, Cristo; ma anche il
padre che, morendo, perdona i suoi uccisori, ricorda Cristo in croce che perdona i suoi persecutori.
Non è però questa la segreta trama di rispondenze simboliche, affidata ad immagini suggestive e
dissimulata sotto il discorso di superficie, che connota la poesia del Pascoli “simbolista”, ma è una
trama costruita tutta dall’esterno e cerebralmente, esibita con insistenza a scopi predicatori, di
ammonimento, di edificazione, di persuasione.
I temi centrali
In obbedienza al vago spiritualismo proprio dell’anima decadente, delusa e respinta dal fallimento
della scienza positivistica, che è incapace di risolvere i problemi dell’esistenza, Pascoli imposta il
problema del male in chiave metafisica e religiosa: ogni vittima innocente che soffre è immagine di
Cristo, e il cielo piange sull’«atomo opaco del Male», verso 24.
Ma, appunto come è proprio della religiosità decadente, il poeta non approda a una religione
positiva: come ha osservato Angelo Marchese, il sacrificio delle vittime innocenti non ha il
significato del sacrificio di Cristo, che annuncia la salvezza. Così il pianto del cielo non sembra
implicare una prospettiva di riscatto, di purificazione: il cielo appare impotente a riscattare tanto
male e si limita ad uno sterile compianto. Il cielo è remoto, come inaccessibile: tra la dimensione
terrena e quella trascendente non vi è comunicazione.
Il testo è significativo anche perché vi compare in piena luce uno dei miti centrali della poesia
pascoliana, quello del «nido». L’analogia tra rondine e uomo non è solo nel loro sacrificio, ma anche
nel fatto che essi vengono violentemente esclusi dal «nido». Come ha indicato Bàrberi Squarotti, il
«nido» compendia perfettamente l’idea pascoliana della famiglia, dei suoi legami oscuri e viscerali,
che inglobano l’individuo e lo proteggono dal mondo esterno pieno di insidie, escludendolo dalla
vita sociale e vincolandolo solo ad una fedeltà ossessiva ai morti.
-L'ASSIUOLO
La struttura
La poesia esteriormente è la descrizione di un notturno lunare, reso attraverso una serie di
sensazioni visive e uditive, ma come sempre il quadro apparentemente impressionistico si rivela
immerso in un’atmosfera arcana, gravida di sensi suggestivi, legati da una trama sotterranea di echi
e rimandi. Tutt’e tre le strofe si strutturano secondo un analogo schema: la prima quartina propone
immagini quiete, serene e di pace, mentre nella seconda si delineano immagini più inquietanti:
un’atmosfera iniziale incantata e sospesa si converte poi in un motivo di angoscia, di dolore e di
morte, che si materializza nel verso lugubre dell’assiuolo.
La prima strofa
All’inizio della prima strofa viene colto un momento fuggevole e impalpabile di trapasso, il
momento in cui sta per sorgere la luna (l’incertezza e la labilità sono accentuate dall’interrogazione
che apre il discorso, «Dov’era la luna?»); il cielo è invaso da un chiarore perlaceo, ma l’astro non è
ancora apparso da dietro l’orizzonte. La natura è protesa nell’aspettazione della sua comparsa (il
mandorlo e il melo si ergono per meglio vederla), come dinanzi ad un’apparizione divina;
apparizione che sembra possedere una magica funzione rasserenante e purificatrice, a cui allude sia
la nota di bianco sia l’idea di nascita, di inizio che è implicita nella metafora dell’alba («un’alba di
perla», v. 2).
A contrasto con questa calma pienezza, nella seconda parte della strofa si delinea un’immagine
inquietante, di vaga e imprecisata minaccia: il «nero» delle nubi, che si profilano in una lontananza
remota e indeterminata («laggiù»), si contrappone al biancore perlaceo dell’alba lunare, ed ancora
più inquietanti sono i silenziosi lampi di calore che da esse scaturiscono, evocati con suggestivo
procedimento sinestetico («soffi di lampi», v. 5), per cui l’impressione visiva di luce è assimilata a
quella tattile (o, se si preferisce,bacustica) del soffio.
Il negativo implicito nelle notazioni visive si precisa poi in una voce, il verso dell’assiuolo che viene
da uno spazio indefinito, nella notte. Sappiamo che la voce degli uccelli, in Pascoli, ha sempre il
valore di un messaggio arcano, oracolare, pieno di sensi simbolici: in questo testo il canto
dell’assiuolo, col suo tono malinconico e misterioso e il risuonare nelle tenebre notturne, ha
qualcosa di lugubre, di vagamente funebre.
La seconda strofa
All’inizio della seconda strofa si ripresentano immagini quiete e serene, le stelle che rilucono nel
chiarore diffuso e lattiginoso (è ribadita la nota di bianco della strofa precedente, con lo stesso
valore simbolico), il rumore del mare che si associa a immagini consolanti (la metafora del «cullare»
rievoca sensazioni di abbandono infantile alla dolcezza materna). Il rumore indistinto che proviene
dalle fratte introduce già una nota più misteriosa e segna il passaggio al clima della seconda
quartina: al guizzo dell’imprecisato essere tra la vegetazione risponde il «sussulto» nel cuore del
poeta al sorgere di un’eco di dolore, che è come ridestato dai rumori notturni. Il «grido» che risuona
nell’interiorità dell’io lirico è ripreso dal verso dell’assiuolo: ora la nota vagamente inquietante si
precisa, quella che era semplicemente la «voce» dell’uccello suona come un «singulto».
La terza strofa
All’inizio della terza strofa ritorna, in simmetria con le precedenti, l’immagine della
luce lunare, che qui colpisce le cime degli alberi, ma subito poi si inseriscono notazioni più negative,
il «sospiro» del vento che trema, il suono finissimo delle cavallette. È questa un’impressione fonica
che è ambigua come il «fru fru tra le fratte» (v. 12), e reca anch’essa un messaggio misterioso.
L’incertezza e l’ambiguità sono di nuovo sottolineate da una domanda, che ipotizza il valore
simbolico di quel suono: le «invisibili porte» sono plausibilmente quelle della morte.
Come opportunamente ricorda Giuseppe Nava, attento commentatore di Myricae, i «sistri» erano
strumenti sacri alla dea egiziana Iside, ed il suo culto era un culto misterico che prometteva la
risurrezione dopo la morte. Ma se per il poeta le porte della morte non si aprono più, si comprende
la vaga angoscia che pervade tutte le sensazioni del notturno lunare: è l’angoscia della morte che
non consente la rinascita della vita, non permette il ritorno dei cari scomparsi.
A conferma del valore simbolico dei «sistri» delle cavallette e delle «invisibili porte», in chiusura
della strofa e della poesia il verso dell’assiuolo si concreta in un «pianto di morte». L’atmosfera
inquietante, angosciosa, funebre che pervade tutto il componimento assume nella sua conclusione
una fisionomia più precisa: evocato dai rumori misteriosi della notte e dal grido lontano
dell’assiuolo, riaffiora alla memoria del poeta il pensiero della sua tragedia personale, dei lutti che
hanno funestato la sua vita, l’idea dei suoi morti che non possono più tornare, della morte che
incombe anche su di lui. È questa l’eco «d’un grido che fu» (v. 14), che rinasce dentro di lui facendolo
sussultare.
Ma tutto ciò non è detto esplicitamente, in un discorso logicamente strutturato: è alluso attraverso
una rete di immagini indefinitamente suggestive, ed è questo che costituisce il fascino
incomparabile della poesia, in confronto a tante altre in cui la tragedia familiare del poeta è
rievocata in forme retoriche, patetiche e predicatorie.
Gli aspetti formali
L’atmosfera indefinita e magica si riflette in una serie di espressioni dal carattere suggestivamente
analogico: «alba di perla», «soffi di lampi», «nero di nubi», «nebbia di latte», «cullare del mare»,
«sospiro di vento», «finissimi sistri d’argento», «pianto di morte». Per capire il funzionamento del
linguaggio analogico si prenda un’espressione come «notava in un’alba di perla». Vi è implicita tutta
una serie di paragoni, che si potrebbe così esplicitare: il sorgere della luna è come un’alba, il cielo
chiaro ha il biancore della perla ed è invaso come da un liquido trasparente, in cui sembra nuotare.
Tutti i passaggi intermedi che abbiamo indicato sono saltati e gli estremi sono immediatamente
identificati. L’effetto è una maggior densità del linguaggio poetico: la cancellazione dei passaggi
logico-discorsivi accresce la sua forza suggestiva, che sembra alludere a segreti legami tra le cose,
inattingibili ad una visione puramente razionale.
Significativo è poi il sintagma «nero di nubi»: l’uso del sostantivo astratto con il complemento di
specificazione, in luogo del concreto «nubi nere», accresce l’indefinitezza dell’espressione e
accentua il carattere simbolico, inquietante e minaccioso dell’immagine. A ciò concorre anche
l’indicazione di indeterminata lontananza spaziale che l’accompagna, «laggiù». All’effetto suggestivo
del linguaggio analogico si associa ancora il simbolismo fonico, così caro a Pascoli: l’allitterazione
«fru fru tra le fratte», col suo valore onomatopeico, accresce il carattere misterioso e inquietante
dell’immagine indeterminata. Nel sintagma «finissimi sistri» (v. 20) il fonosimbolismo è scoperto:
l’insistenza sulle vocali dal suono sottile, le i (sono ben sei in due parole) rende fonicamente
l’impressione del verso delle cavallette, così come successivamente «tintinni» ed «invisibili» (altre
otto i in due parole consecutive).
La poesia è un affollarsi di sensazioni, in cui si delinea sempre più qualcosa di misteriosamente
angoscioso: ebbene, il processo è reso attraverso una struttura verbale prevalentemente anaforica,
che dà appunto l’idea di un affollarsi ripetitivo, incalzante. Si noti la collocazione dei verbi tutti
all’inizio del verso: «notava», «ed ergersi», «parevano», «Venivano», «veniva», «sentivo», «sentivo»,
«sentivo», «Sonava», «tremava», «squassavano», «e c’era». Su ventiquattro versi, ben dodici iniziano
con un verbo.
L’effetto è ribadito dalla costruzione sintattica, sistematicamente fondata sulla paratassi: si ha
l’allinearsi in parallelo di brevi membri tra loro coordinati, quasi tutti collegati per asindeto, cioè
senza congiunzione. Non si ha una struttura sintattica complessa, gerarchizzata, i membri si
succedono semplicemente uno dopo l’altro. Non si crea quindi una struttura logica, che sarebbe
l’effetto di un insieme di proposizioni gerarchicamente subordinate: il reale si frantuma in
impressioni isolate, e il legame che le unisce non è logico ma analogico, simbolico, allusivo, segreto.
-NOVEMBRE
Il carattere illusionistico del quadro iniziale
Anche qui, come spesso accade in Myricae, in apertura si ha apparentemente un quadretto di
natura, impressionistico e naturalistico, colto con notazioni intensamente sensuali, visive e olfattive,
e con immagini nitide e vivide (l’aria limpida come una gemma, il sole luminoso, gli albicocchi
fioriti, il profumo del biancospino, di cui viene resa con precisione la sfumatura amarognola). Ma in
realtà quel paesaggio primaverile si colloca in un’altra dimensione rispetto a quella effettuale: il
reale non è quello che appare, è labile e sfuggente, la primavera è solo illusoria; gli albicocchi in
fiore, il profumo dei biancospini non sono veramente percepiti coi sensi, ma creati
dall’immaginazione. La realtà sensibile sfuma nell’immaginario. Si conferma così subito come la
poesia di Pascoli sia evocativa, suggestiva, illusionistica, non si fermi mai al dato fisico, oggettivo,
ma rimandi sempre a un “di là” dalle cose.
Apparentemente in contrasto con questo carattere illusionistico è la precisione della nomenclatura
botanica, così tipica della poesia pascoliana (ed in altri componimenti ancora più accentuata): il
poeta non parla genericamente di alberi, ma di «albicocchi» e di «prunalbo». In realtà questa
terminologia non conserva nulla della precisione scientifica e naturalistica della matrice da cui è
tratta. Si ricordi come, nel Fanciullino, il poeta sia definito «l’Adamo che mette il nome a tutto ciò
che vede e sente». Il nome preciso è come la formula magica che permette di andare oltre la
superficie consueta e morta degli oggetti, di cogliere l’essenza primigenia, fresca e intatta delle cose,
il loro mistero, di giungere «d’un tratto», senza «scendere a uno a uno i gradini del pensiero»,
«nell’abisso della verità». La precisione terminologica naturalistica è al servizio di una poesia intesa
come illuminazione e rivelazione, che ne muta totalmente il significato.
Le immagini di morte
Nella seconda strofa si inserisce una nuova dimensione: all’illusoria primavera subentra la reale
stagione autunnale. I particolari individuati dall’occhio corrispondono a quelli creati
dall’immaginazione, ma rovesciati di segno: il «pruno» non emana profumo ma è secco, le piante
non sono fiorite ma disegnano le nere trame dei loro rami nudi sul cielo sereno. Tornano immagini
fortemente visive, ma anche questo quadro di natura, che dovrebbe restituire il vero volto della
realtà contro l’illusione, non è realistico; anche qui si sovrappone un’altra dimensione: dietro il
paesaggio si disegna l’immagine simbolica della morte. Alla morte alludono i rami stecchiti come
scheletri e il nero delle loro trame, che nega l’azzurro del cielo sereno, simbolo di vita, il cielo vuoto
di voli d’uccelli, il terreno non ricco di semi e di succhi fecondi, ma sterile e morto, ridotto a una
consistenza puramente minerale.
Immagini di morte sono anche il silenzio che apre l’ultima strofa ed il rumore delle foglie secche
che cadono. Sotto la superficie letterale del discorso poetico si crea una trama sotterranea di
immagini allusive: si conferma come quella di Pascoli sia una poesia analogica, evocativa.
Ad essa rispondono le scelte linguistiche, che giocano su segrete suggestioni. Così è per l’immagine
del «cader fragile» delle foglie, che non è solo una figura retorica ornamentale e preziosa,
un’ipallage: lo spostamento dell’aggettivo «fragile» dal suo termine proprio («foglie») ad uno
contiguo, il verbo sostantivato «cader», è una vera e propria sinestesia, in cui una realtà astratta
come il movimento evoca una sensazione tattile, e questa a sua volta si fonde con una sensazione
uditiva, il lieve rumore delle foglie secche che cadono.
Noi sappiamo come la sinestesia sia un procedimento caro alla sensibilità decadente e valga a
sottolineare la rete di segrete corrispondenze consentita dalla sotterranea fusione di io e mondo,
soggetto e oggetto.
Così è per l’espressione «È l’estate, / fredda, dei morti» (vv. 11-12). Propriamente è definibile come
un ossimoro, ma non vi si può ravvisare un semplice gioco retorico: al contrario essa allude al
nucleo profondo della poesia, l’apparenza di vita della natura che cela in realtà la presenza della
morte. Non a caso quindi è posta in chiusura, a suggellare l’intero componimento, in
contrapposizione alle immagini vitali e gioiose, ma puramente illusorie, che lo aprivano.
Novembre quindi dimostra come solo apparentemente la poesia di Myricae (e quella pascoliana in
generale) sia poesia semplice, fatta di piccole cose osservate con occhio candido e ingenuo. È questa
un’immagine riduttiva di Pascoli che ha avuto credito, ma che oggi appare decisamente superata. In
realtà anche i quadretti più impressionistici celano un sistema complesso di significati e rivelano
una sensibilità tormentata, torbida e complicata, una visione del mondo angosciata e stravolta. È
l’«oscuro tumulto della nostra anima» ad avere la meglio sulla visione fresca e ingenua del
«fanciullino».
La struttura linguistica
Alla sensibilità complessa e tormentata risponde la struttura linguistica della poesia pascoliana, una
struttura che innova profondamente la tradizione del linguaggio poetico italiano. Il tessuto
connettivo della sintassi si frantuma, attraverso le continue ellissi dei verbi copulativi («Gemmea
l’aria», «il sole così chiaro», «e vuoto il cielo») o l’uso dello stile nominale («Silenzio, intorno»). La
struttura sintattica è essenzialmente una struttura logica, fatta di precisi nessi e rapporti, tra
soggetto, predicato e complementi, tra proposizioni principali e subordinate. La sua frantumazione
è dunque la negazione di ogni tessuto logico, la ricerca di un discorso alogico, fatto di lampi
intuitivi, di illuminazioni momentanee, frammentarie, collegate tutt’al più da segrete analogie e
corrispondenze.
All’effetto contribuisce anche il fatto che il periodo e l’unità ritmica del verso sono continuamente
spezzati da pause, segnate da una fitta interpunzione. Questa frantumazione, impedendo la facile
scorrevolezza del discorso, dà un senso di fatica angosciata e vale a rendere la conflittualità
tormentosa che si cela al fondo dell’anima pascoliana.

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