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POSITIVISMO

Il positivismo è un movimento filosofico e culturale, nato in Francia nella prima metà


dell'Ottocento e ispirato ad alcune idee guida fondamentali riferite in genere
all'esaltazione del progresso scientifico. Questa corrente di pensiero, trainata dalle
rivoluzioni industriali e dalla letteratura a esso collegata, si diffonde nella seconda
metà del secolo a livello europeo e mondiale influenzando anche la nascita di
movimenti letterari come il verismo in Italia e il naturalismo in Francia. Il positivismo
non si configura dunque come un pensiero filosofico organizzato in un sistema
definito, ma piuttosto come un movimento per certi aspetti simile all'illuminismo, di
cui condivide la fiducia nella scienza e nel progresso scientifico-tecnologico, e per
altri affine alla concezione romantica della storia che vede nella progressiva
affermazione della ragione la base del progresso o evoluzione sociale.
- fiducia nel progresso e l’esigenza di realismo nella quale l’intellettuale non era più
poeta “vate” e neppure portatore di valori sentimentali, religiosi, nazionali.
L’intellettuale positivista aveva un’illimitata fiducia nella scienza e nel progresso.
NATURALISMO E VERISMO
In concomitanza con le formulazioni teoriche del Positivismo, si affermarono nella
letteratura europea della seconda metà dell’Ottocento le poetiche del Naturalismo
(in Francia) e del Verismo (in Italia), che possono essere considerate prosecuzioni e
sviluppi del Realismo degli anni Trenta dell’Ottocento. Questo termine indica la
tendenza del genere romanzo a rappresentare la realtà in maniera concreta e
oggettiva. Il romanzo naturalista condivise con il romanzo realista l’attenzione per la
realtà sociale contemporanea. Alla sua base c’è il proposito di applicare alla
rappresentazione letteraria e artistica i metodi di ricerca impiegati nelle scienze
naturali. La letteratura ha il compito di rivelare la vera natura umana e far capire a
un ampio pubblico come essa sia determinata da una serie di fattori, a cominciare
dall’ambiente in cui un individuo è nato e cresciuto.
EMILE ZOLA
Zola nacque a Parigi ma visse la sua infanzia e l’adolescenza a Aix-en-Provence dove
strinse amicizia con il Cézanne, il suo compagno al collège Bourbon. Nel 1847 la
morte del padre lo toccò duramente. Nel 1858, all’età di 18 anni seguì la madre a
Parigi. Furono anni difficili a causa della mancanza di soldi e del fallimento all’esame
di maturità. Trovò un lavoro nella libreria Hachette, ne approfittò per fare leggere al
direttore alcuni suoi versi e tre anni dopo dal 1°marzo 1862 al 31 gennaio 1866
diventò capo del servizio pubblicitario. Si trovò così in stretto contatto con il mondo
degli scrittori.
Divenuto famoso con il crudo romanzo L’Assommoir, Emile Zola (1840-1902)
raccolse intorno a sé un gruppo di giovani scrittori. Sempre nel 1880 Zola pubblicò il
romanzo sperimentale, una raccolta di scritti teorici sul naturalismo; nel saggio di
apertura è esposto il programma letterario dello scrittore, secondo il quale il
romanzo deve:
- far proprio il metodo sperimentale delle scienze fisiche;
- osservare con il massimo scrupolo i caratteri e i comportamenti degli individui;
- essere totalmente impersonale.
Gli orientamenti ideologici e letterari di Zola erano condivisi da un gruppo di
intellettuali che andavano a trovarlo nella sua casa di Médan; con loro pubblicò una
raccolta di NOVELLE, Le serate di Médan, elaborandovi quello che fu poi definito il
manifesto collettivo della scuola naturalista. Divenuto il caposcuola del Naturalismo,
Zola espose le sue teorie letterarie nel saggio Il romanzo sperimentale (1880).
Elaborò la sua teoria del romanzo sotto l'influsso del pensiero deterministico di
Hippolyte Taine 1828-1893; il quale riteneva che il comportamento dell'uomo e le
sue opere artistiche fossero determinate da tre elementi fondamentali a lui esterni:
la razza, l'ambiente e il momento storico. Zola era interessato anche agli studi di
fisiologia di Claude Bernard (1813-1878), il quale affermava che esiste uno stretto
legame tra psicologia e fisiologia e che, quindi, le reazioni e i comportamenti
dell'individuo dipendono dalla sua costituzione fisica. Per Zola scrivere un romanzo
sperimentale significa lavorare in due direzioni: quella che permette allo scrittore di
osservare la realtà che intende descrivere, cioè gli uomini calati in un determinato
ambiente e in particolari circostanza storiche, e quella che gli consente di
immaginare lo svolgimento dei fatti e il comportamento umano non affidandosi alla
sua libera fantasia, ma cercando di attenersi a una rigorosa logica di causa - effetto.
L'autore di un romanzo sperimentale, quindi, prima di iniziare a scrivere tra le pareti
della sua stanza, deve raccogliere dati e informazioni sulle abitudini e sul modo di
vivere degli uomini reali ed analizzare come può evolversi una determinata
situazione secondo un meccanismo di causa ed effetto, così da poter rappresentare
la sua vicenda in modo convincente e realistico.
L’Assommoir: Il titolo del ROMANZO deriva dal nome della taverna dove si recano gli
uomini per annegare nell'alcool le loro sventure. Gervasia è stata per anni l'amante
del cappellaio Lantier, da cui ha avuto due figli: Claudio e Stefano. La famiglia si tra
sferisce a Parigi, nella speranza di migliorare la sua condizione. Lantier si dimostra
sfaticato e libertino e finisce per lasciare la donna che, diventata lavandaia, continua
a sacrificarsi per amore dei figli, finché un giorno incontra lo stagnaio Coupeau e
accetta di sposarlo. Grazie all'aiuto di Goujet, un vicino di casa innamorato di lei,
Gervasia compra una lavanderia e conduce una vita benestante e serena finché
Coupeau si ferisce gravemente cadendo da un tetto, diventa pigro e indolente e si
abbandona al vizio e all'alcol. Dietro l'esempio del marito, per dimenticare la sua
misera condizione, anche Gervasia comincia a bere e finisce per prostituirsi.
Coupeau muore all'ospizio; poco dopo Gervasia viene trovata morta di fame e di
stenti in un sottoscala.
IL VERISMO IN ITALIA
La vitalità dell'intera opera di Zola deriva, paradossalmente, dalla felice
contraddizione tra la teoria del metodo sperimentale, a cui voleva rigorosamente
attenersi, e la sua indisciplina stilistica, che si esprime attraverso un vasto repertorio
di immagini, SIMBOLI E METAFORE, che esasperano in senso caricaturale i mali del
mondo moderno e le forze oscure che si agitano dentro l'individuo.
In Italia le idee positiviste e la poetica del Naturalismo ebbero una grande risonanza.
I principali scrittori italiani apprezzarono molto l'opera di Zola e, in particolare, il
fatto che vi fossero rappresentati criticamente i mali e le contraddizioni della società
francese. Dalle suggestioni dei ROMANZI zoliani sorse così il movimento del
Verismo, attivo a partire dagli anni Settanta circa. Il principale centro di diffusione
del Verismo fu Milano, dove il dibattito sulle trasformazioni economiche e sociali
innescate dal processo di unificazione territoriale italiano era più vivo. I maggiori
esponenti del Verismo, tuttavia, furono meridionali, giacché era nel Sud che si
riscontravano in maniera più macroscopica quelle condizioni di arretratezza e di
degrado che i veristi intendevano fare ogge tto della loro narrazione; in particolare si
distinsero due autori siciliani, Luigi Capuana e Giovanni Verga, e il napoletano
Federico De Roberto.
GIOVANNI VERGA
LA VITA
Verga nacque a Catania nel 1840 da una famiglia di proprietari terrieri. Interruppe gli
studi giuridici per iscriversi alla Guardia Nazionale, interessato alle imprese
garibaldine. Nel 1865 si trasferì a Firenze dove conobbe Capuana. Nel 1872 si
trasferì a Milano e qui venne in contatto con gli ambienti della Scapigliatura: sono
questi gli anni della " conversione " al Verismo. Nel 1893 tornò a Catania, e la sua
produzione lettera ria subì un arresto. Si orientò politicamente su posi zioni
reazionarie e si schierò sul fronte interventista alla vigilia della prima guerra
mondiale. Nel 1920 fu nominato senatore e morì a Catania nel 1922.
LE OPERE
Si distinguono tre fasi nella produzione poetica di Verga.
La prima fase comprende le opere del periodo preverista ed è ispirata a temi storico
- patriottici (I carbonari della montagna, 1861; Sulle lagune, 1863). sentimentali e di
critica sociale (Una peccatrice, 1866; Storia di una capinera, 1870; Eva, 1873; Tigre
reale, 1873-1875; Eros, 1874), dove spiccano figure femminili. Caratterizzati dalla
scelta di argomenti umili e di un linguaggio popolare sono la novella Nedda (1874) e
la prima raccolta di racconti Primavera e altri racconti (1876), ispirata a temi
scapigliati e romantici.
La seconda fase coincide con l'adesione al Verismo e comprende le sue opere
principali, come Rosso Malpelo (1878) in cui il protagonista è un ragazzo, la raccolta
di novelle Vita dei campi (1880), ambientate nel mondo degli umili contadini e
pescatori siciliani. L'opera contiene anche alcuni testi in cui l'autore espone i propri
principi di poetica (Fantasticheria e la lettera - prefazione dell'Amante di Gramigna):
tali testi possono essere considerati dei manifesti del Verismo. A Vita dei campi
seguono I Malavoglia (1881), romanzo che narra le vicende di una famiglia di
pescatori di Aci Trezza, paesino del Catanese. Nel romanzo, il primo ciclo dei Vinti,
emerge una visione pessimistica della vita: i protagonisti, infatti, combattono una
perenne lotta contro mali e avversità con la consapevole rassegnazione propria di
chi sa che la legge di natura impone che il pesce più grosso mangi quello più piccolo.
Nei Malavoglia, Verga applica le sue più innovative strategie narrative. Al 1883
risalgono le Novelle rusticane, nuovi racconti di ambientazione siciliana nei quali
domina il mito della «< roba » ; seguono le novelle di Per le vie ( 1883 ) , ambientate
in una Milano dominata da interessi economici. Nel 1884 Verga riadatto per il teatro
la novella Cavalleria rusticana. Sono raccolte in Vagabondaggio (1887) le novelle
nate da spunti elaborati durante la stesura del romanzo Mastro - don Gesualdo
(1888-1889), incentrato sulla storia di un muratore che, divenuto ricco grazie a un
ostinato e duro lavoro, tenta senza successo di migliorare il proprio stato sociale. In
questo romanzo viene meno la tecnica della regressione e il narratore, da popolare,
si fa borghese, in linea con la diversa ambientazione della vicenda. Mastro - don
Gesualdo è il secondo romanzo del ciclo dei Vinti.
Alla terza fase della produzione verghiana appartengono raccolte di novelle, come I
ricordi del capitano d'Arce (1891), storie di argomento sentimentale, e Don
Candeloro e C.i. (1894), incentrata sulle contraddizioni dei rapporti umani. Verga
applicò i principi del Verismo anche al teatro: La Lupa (1896) è ispirata all'omonima
novella di Vita dei campi, mentre Dal tuo al mio (1903) è un'opera teatrale sulla lotta
dei lavoratori delle solfatare siciliane, da cui Verga ricavò poi un romanzo pubblicato
nel 1906.
IL PENSIERO E LA POETICA
Dopo una prima fase di ispirazione patriottica e sentimentale, Verga si orientò alla
ricerca di una narrativa più oggettiva, ispirata soprattutto alla realtà degli umili. La
concezione dell'esistenza umana che emerge nelle opere veriste è decisamente
pessimistica e risente dei modelli ideologici dominanti del tempo come il
Positivismo, il Naturalismo, il determinismo e l'evoluzionismo darwiniano: la vita,
infatti, secondo Verga, è un impari lotta contro il destino, una lotta per la
sopravvivenza che prescinde dalla collocazione sociale dell'individuo e che si
conclude con la sconfitta di chi cerca di mutare la propria condizione. Verga non
credeva che l'arte potesse essere uno strumento di denuncia sociale e quindi un
mezzo di rinnovamento e miglioramento: lo scrittore non può che limitarsi a
registrare la realtà così come essa si presenta, in modo oggettivo e senza alcun filtro,
ma basandosi esclusivamente sull'analisi dei sentimenti umani, regolati da leggi di
natura. Per ottenere questo risultato Verga ricorre al canone dell'impersonalità
dell'opera letteraria, realizzato con nuove tecniche narrative:
-L'eclissi dell’autore. L'intervento dell’autore, con i suoi giudizi e i suoi commenti,
scompare, e il punto di vista del narratore si colloca all'interno del mondo
rappresentato, coincidendo con quello della comunità in cui vivono i personaggi;
-La regressione. Il narratore regredisce al livello sociale e culturale dei personaggi;
-Lo straniamento. Evidenzia il divario fra il punto di vista del narratore e dei
personaggi da un lato e quello (implicito) dell'autore e dei lettori;
-Il discorso indiretto libero. In terza persona, non è preceduto dal " che " e da verbi
come " dire " o " pensare “, presenta fatti, pensieri e ricordi secondo il punto di vista
e il modo di sentire dei personaggi. Al linguaggio è affidata la funzione di ricostruire i
fatti con la massima precisione e fedeltà. A ciò concorrono il lessico, la sintassi, i
proverbi popolari.
I MALAVOGLIA
Il romanzo narra la storia di una famiglia di pescatori che vive e lavora in un piccolo
paese siciliano nei pressi di Catania. Ha un'impostazione corale e rappresenta
personaggi uniti dalla stessa cultura ma divisi dalle loro diverse scelte di vita,
soverchiate comunque da un destino tragico ed inevitabile.
Lo scrittore adotta la tecnica dell'impersonalità, riproducendo alcune caratteristiche
del dialetto e adattandosi quanto più possibile al punto di vista dei differenti
personaggi, rinunciando così all'abituale mediazione del narratore.
L'opera va inserita nel Ciclo dei Vinti, insieme a Mastro-don Gesualdo e a La
duchessa di Leyra, opere che affrontano il tema del progresso visto dal punto di vista
degli "sconfitti" della società. La Duchessa de Leyra rimase solo abbozzato, mentre
gli altri due romanzi previsti nel Ciclo (L'Onorevole Scipioni e L'uomo di lusso) non
vennero neppure iniziati.
L'autore sottolinea come le disgrazie si succedano l'una dopo l'altra fino ad
affondare le sorti di una famiglia intera, che non può fare altro che subirle con
rassegnazione. Quella in questione è una famiglia di tipo patriarcale con due
capisaldi: Padron ‘Ntoni e l'imbarcazione "La Provvidenza".
Il primo è il senex, il galantuomo, custode della saggezza; si ricordino, a tal
proposito, i tantissimi proverbi sciorinati in ogni momento. È possibile ipotizzare che
l'autore, attraverso queste manifestazioni della cultura del popolo, esprima il
proprio giudizio e le proprie opinioni: egli comunica con il lettore attraverso i detti e
le sentenze.
La seconda, la barca, è la fonte di guadagno, simbolo della vita: in essa sono
racchiuse le speranze di una buona pesca e quindi della sopravvivenza. Il nome
beneaugurante si tramuta poi, con amara ironia, nel simbolo della condizione
infelice della famiglia.
PREFAZIONE
l brano è tratto dalla prefazione ai Malavoglia, datata 19 gennaio 1881, nella quale
l'autore chiarisce il significato del romanzo e insieme i suoi intenti generali per
quanto riguarda l'intero ciclo dei Vinti. Egli intende rappresentare gli effetti del
progresso nei diversi strati sociali a partire da quello più basso (del primo romanzo),
dove è più facile osservare i meccanismi che regolano la lotta per la sopravvivenza,
indagare cioè le motivazioni dell'agire umano legate al soddisfacimento dei bisogni
materiali. Nei romanzi successivi la «ricerca del meglio» sarà condotta nelle classi
sociali via via più alte, dalla borghesia cittadina all'aristocrazia. Verga vede il
progresso come una necessità inarrestabile che porta con sé vincitori e vinti: è a
questi ultimi che lo scrittore deve interessarsi, ritraendo la realtà senza però
giudicarla.
La famiglia Malavoglia
Nel primo capitolo del romanzo sono presentati i componenti della famiglia e già si
profilano gli eventi successivi. Spicca la figura di padron ‘Ntoni, capo indiscusso del
gruppo familiare, uomo all’antica, tutto d’un pezzo e dotato di grande equilibrio, che
parla di proverbi, espressione della saggezza popolare. Ruotano attorno a lui
Bastianazzo, figlio di padron ‘Ntoni, sua moglie Maruzza, soprannominata la Longa, e
i loro figli: ‘Ntoni, il maggiore, Luca, Mena; Alessi e Lia.
L’arrivo e l’addio di ‘Ntoni
Dopo aver trascorso cinque anni in prigione per il ferimento del brigadiere don
Michele, che lo aveva sorpreso a fare contrabbando, ‘Ntoni una sera torna a casa. Il
fratello minore, Alessi, ha riscattato la casa del nespolo e lì, nella staticità della
tradizione e nella continua lotta contro le avversità, ha ripreso la vita modesta ma
dignitose della famiglia Malavoglia. ‘Ntoni avverte la sacralità di quel focolare
domestico e si stente indegno di rimanere.
NOVELLE RUSTICANE
Novelle rusticane è una raccolta di dodici novelle scritta da Giovanni Verga e
pubblicata a Torino nel 1883. La raccolta appartiene alla fase ormai dichiaratamente
verista dell’autore e segue la raccolta Vita dei campi (1880), il romanzo I
Malavoglia (1881) e i primi abbozzi di Mastro-don Gesualdo, che risalgono al 1881-
1882.
Il tema attorno a cui ruota la raccolta è la roba, il possesso materiale, visto dai
protagonisti come unica possibilità di contrastare la miseria della condizione umana,
in una lotta per la sopravvivenza che ha solo vinti e nessun vincitore.
Da NOVELLE RUSTICANE: La roba
In questa novella troviamo già diversi esempi di “straniamento”, una delle tecniche
narrative usate dallo scrittore che verrà ulteriormente sviluppata anche in Mastro
Don Gesualdo, e che è volta a disorientare il lettore tramite la narrazione di un
avvenimento attraverso un punto di vista estraneo all’oggetto.
Il tema dell’opera è la bramosia del possesso, l’avarizia e l’attaccamento ai beni
materiali. “La roba” è una ricchezza che si misura in pascoli, terre, animali, fattorie,
magazzini: è un bene che può produrre ricchezza. Il protagonista dell’opera,
ambientata a Catania, è Mazzarò, un contadino. Tutto ruota intorno alla sua ascesa
sociale e tragedia personale.
RIASSUNTO
La tecnica narrativa che apre la novella è quella della narrazione indiretta per
presentare la ricchezza del personaggio principale: un viandante che attraversa
la pianura di Catania, lungo la strada che costeggia il Lago Lentini, contempla stupito
la vastità delle proprietà di Mazzarò.
Poi lo stesso Mazzarò ci viene descritto seguendo un profilo sia fisico (basso e con
una grossa pancia) che psicologico, e quest’ultimo viene davvero ben delineato
grazie al racconto di come l’uomo abbia accumulato tanta “roba”. Mazzarò è un
uomo che ha sacrificato tutto nella sua vita, con fatica, perseveranza e ostinazione
per accumulare più beni materiali possibili, ma è incapace di godere dei benefici
che possono scaturire da tanta ricchezza. Non ha famiglia, vive in condizioni di
povertà per non sprecare le sue ricchezze, lavora come un mulo nei campi. Non ha
vizi, non ha amici. Ha allontanato tutti nella sua vita, per paura che potessero
sottrargli la sua roba.
La sua ribalta da povero bracciante sfruttato e sottopagato a proprietario di tutti i
beni che sottrae a quello che una volta era il suo padrone è un’ascesa sociale
sterile. La sua scalata riesce grazie al sacrificio e alla furbizia, ma una volta
guadagnata una posizione migliore, l’uomo sembra mandare in fumo ogni possibilità
di crescita personale. Sleale nei confronti di chi lavora per lui e ossessionato
dall’accumulo della ricchezza, Mazzarò vive nel terrore della morte. Durante la sua
vecchiaia Mazzarò si rende conto di quanto vuota e povera sia, in senso metaforico,
la sua vita, e dunque il suo attaccamento ai beni materiali diventa, se possibile,
ancora più tossico. Non avendo eredi né conoscenti, va in fumo anche la possibilità
di trasferire i suoi beni a qualcuno. Il pensiero di non poter portare con sé i suoi beni
nella vita ultraterrena lo fa addirittura impazzire e il testo si conclude con una scena
pietosa e indimenticabile: lui che vaga nei campi, accecato dalla follia, distruggendo
raccolti e colpendo animali e gridando "Roba mia, vientene con me!”
MASTRO-DON GESUALDO
Mastro don Gesualdo è uno dei più noti romanzi dello scrittore siciliano Giovanni
Verga, e fa parte del ciclo di detto Ciclo dei vinti. Pubblicato dall’autore verista nel
1889, Mastro don Gesualdo ha richiesto a Giovanni Verga circa 9 anni di lavoro,
avendo come risultato la costruzione di una complessa operazione linguistica.

Il romanzo Mastro don Gesualdo è diviso in quattro parti ed è ambientato a Vizzini,


paese natale di Giovanni Verga, e si apre con la scena di un incendio che sta
distruggendo la casa dei nobili decaduti Trao. Tra chi accorre alla casa c’è anche
Mastro don Gesualdo Motta, un muratore che si era arricchito attraverso la
costruzione di mulini. Mastro don Gesualdo, il quale punta all’elevazione sociale,
vuole sposare una dei fratelli Trao: Bianca. Bianca era però stata sorpresa in camera
da letto con il cugino Ninì Rubiera ma la madre di quest’ultimo si oppone al
matrimonio riparatore. Mastro don Gesualdo sposa Bianca ma finisce per soffrire di
una sorta di esclusione: si sente escluso da una parte dal mondo aristocratico, e
dall’altra dal mondo dal quale veniva. Insomma: se per gli aristocratici era sempre
rimasto un mastro, per il popolo era diventato un don.

Uno dei dolori maggiori gli è però arrecato dalla moglie e dalla figlia, nata in verità
dalla precedente relazione della moglie con il cugino Ninì Rubiera. Il nostro
protagonista, infatti, non si sente amato dalla propria famiglia.
Manda la figlia in un collegio per nobili e la vizia ma i due si allontanano quando la
ragazza si innamora del cugino Corrado La Gurna. Mastro don Gesualdo però aveva
altri programmi per la figlia Isabella: darla in sposa a un nobile palermitano.
Alla fine mastro don Gesualdo si ritrova vedovo, lascia il paese a causa dei moti del
1848 e di un cancro incurabile e si stabilisce a vivere a casa della figlia, dove assiste
alla dilapidazione delle sue stesse ricchezze.
ANALISI
Mastro don Gesualdo è però un escluso: inizia con il mestiere di muratore – ed è per
questo che viene soprannominato Mastro – e finisce per sposare una nobildonna,
dopo essersi arricchito, guadagnando l’appellativo di don. È quindi visto male sia dai
paesani di basso ceto sia dai nobili a causa della sua ascesa sociale.
Con il romanzo Mastro don Gesualdo, Giovanni Verga rappresenta la decadenza
dell’aristocrazia e tratteggia le caratteristiche dell’ascesa della borghesia
contemporanea del suo tempo. Una borghesia votata all’individualismo e al
materialismo.
Da Mastro-don Gesualdo: L’addio alla roba
Gesualdo consapevole di dover morire, si fa portare nei suoi possedimenti dove,
invece di trovare conforto, si lascia andare alla più cupa disperazione. I suoi gesti
contro animali e piante richiamano alla mente la fine di Mazzarò, protagonista della
novella La roba. Gesualdo accetta di trasferirsi poi a Palermo, a casa della figlia,
lasciando con profonda nostalgia la sua “roba” e le persone che gli vogliono bene,
come Diodata, la sua serva fedele.
Da Mastro-don Gesualdo: La morte di don Gesualdo
Mastro-don Gesualdo, gravemente malato, vive a Palermo nella casa della figlia e
del genero, un palazzo nobiliare in cui si trova come un intruso, circondato da mobili
e oggetti preziosi e da una servitù che lo tratta con disprezzo. Sempre più isolato,
tenta disperatamente di non arrendersi alla malattia, ma, quando capisce che la fine
è inevitabile, in preda ai rimorsi e al rimpianto, cerca di sistemare la sua “roba” e di
riconoscere, tramite un lascito, i due figli illegittimi avuti da Diodata.

LA SCAPIGLIATURA
Con l'esaurirsi delle idealità romantiche, ormai scadute in un sentimentalismo
languido ed estenuato, si impose soprattutto a Milano il movimento artistico
letterario della Scapigliatura, così chiamato dal nome di un romanzo di Cletto
Arrighi, La Scapigliatura e il 6 febbraio (1862). I suoi esponenti, poeti, romanzieri e
pittori accomunati da anticonformismo, spirito d'Indipendenza e tormento interiore,
non accettavano i principi e i modi di vita borghesi e si rivolgevano a forme e
contenuti scandalosi, assumendo spesso pose da "poeti maledetti". Essi
contribuirono a sprovincializzare la cultura italiana, introducendo temi insoliti per la
nostra tradizione: il macabro, il funereo, l'umorismo nero, il brutto, il patologico, il
sogno e l'incubo. I loro principali modelli furono gli autori del tardo Romanticismo
europeo, come Hoffmann, l'americano Edgar Allan Poe e soprattutto I fiori del male
di Baudelaire. Gli scapigliati contestavano i valori borghesi del pro fitto e del
guadagno, in nome di concetti quali il Bello, il Vero, la Virtù; tale contrapposizione
assunse spesso le forme di un dualismo tra la vita degradata e l'aspirazione a
un'esistenza ideale. Proprio l'attenzione agli aspetti più bassi e materiali della
quotidianità fu uno dei temi caratteristici della letteratura scapigliata e aprì la strada
all'interesse per il Naturalismo.
IL SUPERAMENTO DEL POSITIVISMO
Nella seconda metà dell'Ottocento si diffuse nella cultura europea una nuova
sensibilità che rifiutava l'ottimismo positivista e la pretesa di scientificità del
Realismo e del Naturalismo e, in polemica contro i valori borghesi, esaltava alcuni
motivi tipici del Romanticismo, come l'interiorità, l'eccezionalità dell'artista e il suo
sentimento di esclusione nei confronti della società. Tali fermenti si tradussero in
nuove esperienze artistiche e letterarie, che vanno sotto il nome di Decadentismo e
che hanno origine nel Simbolismo francese e nell'Estetismo inglese.
SIMBOLISMO
II Simbolismo, che prese il nome dalla rivista "Le Symboliste" (1886), è una corrente
poetica nata in Francia e ispirata all'esperienza del Parnassianesimo, un movimento
letterario che sosteneva un'ideale di poesia ispirata ai canoni della bellezza e della
perfezione classiche. Alla base del Simbolismo vi è l'idea che l'artista può penetrare i
significati nascosti della realtà e scoprire le corrispondenze che si celano dietro alle
cose, grazie al potere evocativo e allusivo della parola: dal momento che le parole
acquistano un significato simbolico, grande importanza riveste l'aspetto fonico e
musicale del linguaggio. Precursore del movimento fu Charles Baudelaire (1821-
1867). Egli condusse una vita di eccessi e sregolatezza, in polemica contro le
convenzioni borghesi, e con la sua raccolta I fiori del male apri la stagione dei " poeti
maledetti ". Temi centrali della poetica di Baudelaire sono le corrispondenze tra le
varie manifestazioni della realtà e la noia esistenziale che assale l'individuo nella vita
squallida e degradata delle città. A Baudelaire si ispirò esplicitamente Paul Verlaine
(1844-1896), sia per la condotta di vita ribelle e anticonformista, sia per i temi della
malinconia e dello spleen e per la ricerca continua della musicalità del verso. Fu
proprio Verlaine a pubblicare, nel 1884, l'antologia poetica dal nome I poeti
maledetti.
ESTETISMO
L'Estetismo è un movimento artistico e letterario nato in Inghilterra e ispirato al
principio dell’ ”arte per l'arte", che esalta la bellezza come valore supremo e
polemizza con la fiducia nella scienza e nella ragione. Ciò si traduce nell'esaltazione
dell'artista, figura eccezionale che deve vivere la propria vita come un'opera d'arte,
rifiutando la mediocrità della vita borghese: tale concezione si espresse nella figura
dell'esteta, un individuo che ama circondarsi di piaceri raffinati e non tiene conto
delle regole della morale comune. I principali esponenti dell'Estetismo furono il
francese Joris - Karl Huysmans (1848-1907, A ritroso), l'inglese Oscar Wilde (1854-
1900), Il ritratto di Dorian Gray) e l'italiano Gabriele D'Annunzio (1863-1938, II
piacere), che con le loro opere diedero vita al nuovo genere del romanzo
estetizzante. Huysmans, in particolare, introdusse alcune novità narrative destinate
a influenzare il romanzo del Novecento come l'attenzione su un solo personaggio,
una focalizzazione interna al personaggio, un tempo del racconto non lineare ma
modellato sui pensieri del protagonista, lo spazio come luogo simbolico.
DECADENTISMO
Da queste diverse esperienze nacque il Decadentismo, una corrente difficilmente
classificabile, la cui influenza si estende dagli anni Ottanta dell'Ottocento fino quasi
alla prima guerra mondiale. Il termine "decadenza" fu usato per la prima volta da
Verlaine, per esprimere l'idea di un'epoca ormai al tramonto ed ebbe inizialmente
una con notazione negativa, con cui la critica indicava la nuova generazione dei
"poeti maledetti". Intellettuali e artisti decadenti erano accomunati dalla critica
all'ottimismo positivista e alla società borghese e per il risalto dato alla soggettività e
alla dimensione interiore. Negli stessi anni questi aspetti furono analizzati
filosoficamente e scientificamente da alcuni pensatori, che crearono di fatto le
premesse per la crisi del razionalismo ottocentesco. Friedrich Nietzsche (1844-1900),
con il suo nichilismo, negò la possibilità di attribuire all'esistenza una verità oggettiva
e auspicò la nascita di un "superuomo“, in grado di realizzare le proprie infinite
possibilità superando gli ostacoli imposti dalle convenzioni sociali e dalla morale.
Henri Bergson (1859-1941) introdusse il concetto di tempo interiore e individuo
nell'intuizione la forma suprema di conoscenza. Sigmund Freud (1856-1939) teorizzò
l'esistenza dell'inconscio come l'insieme dei processi psichici che rimangono sotto la
soglia della coscienza. Applicò l'interpretazione dei sogni come metodo per
comprendere il funzionamento dell'attività psichica e suddivise la vita psichica
dell'uomo in tre livelli (Es, Super - lo e lo). Sulla cultura del tempo ebbe grande
influsso anche la teoria della relatività di Albert Einstein (1879-1955). In campo
letterario, molte di queste teorie diedero vita a un'arte nuova fondata
sull'eccezionalità dell'artista (definito di volta in volta come veggente, esteta e
superuomo) e sull'esaltazione di valori soggettivi. Tra i più importanti temi della
letteratura decadente ricordiamo: la malattia e la morte, il vitalismo, il sogno, il
vagheggiamento di epoche e paesi lontani, il rifiuto della morale e dei valori
borghesi. In poesia, i decadenti si ispirarono alla lezione simbolista, privilegiando
l'aspetto fonico e musicale e il potere simbolico ed evocativo della parola, rifiutando
i modelli tradizionali in favore del verso libero.
GIOVANNI PASCOLI
LA VITA
Giovanni Pascoli nasce a San Mauro di Romagna nel 1855. All'età di 7 anni
incomincia gli studi classici a Urbino, presso il collegio degli Scolopi, ma ben presto la
sua vita è funestata da gravi lutti familiari. Nel 1867 il padre viene ucciso in
circostanze misteriose e negli anni successivi muoiono la madre, una sorella e un
fratello. Le condizioni economiche della famiglia subiscono un deciso
ridimensionamento. Durante gli anni universitari trascorsi a Bologna, Pascoli
frequenta gruppi socialisti anarchici e viene arrestato. Nel 1895 si trasferisce con la
sorella Maria a Castelvecchio di Barga. Gli ultimi anni lo vedono impegnato
nell'insegnamento universitario, prima a Messina, poi a Pisa quindi a Bologna, dove
muore nel 1912.
LE OPERE
Le più importanti raccolte poetiche di Pascoli sono Myricae (1891) e i Canti di
Castelvecchio (1903): in esse i temi campestri e familiari e il ricordo dei cari defunti
sono espressi in versi ricchi di musicalità e di giochi fonici. I Primi poemetti (1904) e i
Nuovi poemetti (1909) sono composti in terzine dantesche, sullo sfondo di
un'ambientazione agreste. I Poemi conviviali (1904), pur riprendendo diverse
tematiche precedenti, richiamano il mondo classico e rievocano miti e personaggi
greci e romani, che assumono in Pascoli un profilo decadente. Pascoli compose
anche liriche di ispirazione civile e patriottica (Odi e inni, 1906; Canzoni di re Enzio,
Poemi italici, Poemi del Risorgimento). Tra gli scritti saggistici, oltre al Fanciullino
pubblicato nel 1897 (e poi, rielaborato, nel 1903), ricordiamo anche tre saggi su
Dante.
IL PENSIERO E LA POETICA
Gli eventi luttuosi della fanciullezza vissuti dopo la morte del padre, contribuiscono a
creare sia il mito del " nido " familiare, simbolo di rifugio protettivo dai mali del
mondo esterno, sia una visione amara dell’esistenza. Questi elementi trovano
riscontro in una poetica incentrata sul " fanciullino “. Per Pascoli, il poeta è l'uomo
che sa ascoltare e dare voce al fanciullino che è dentro ciascuno di noi, il quale non è
attratto dai fatti importanti della storia, ma dai particolari più minuti e sensibili, dalla
segreta poesia delle cose che egli, al contrario dell’adulto, sa coglie re. Il poeta è
colui che sa esprimere la meraviglia dei bambini, sa guardare al mondo con il loro
sguardo stupito e ingenuo, sa scoprire «< nelle cose le somiglianze e le relazioni più
ingegnose» >. I temi di questa poesia sono quelli più vicini alla sensibilità del
fanciullino. Sono le piccole cose: il rimpianto per il mondo dell’infanzia, il tema del "
nido " e degli affetti familiari, la descrizione della natura come fonte di consolazione
e come luogo simbolico in cui poter rievocare un passato e un'innocenza perduti.
Non mancano nella poesia di Pascoli temi di più ampio respiro, come lo sgomento di
fronte al mistero del cosmo e la ricerca dell’interiorità, la celebrazione dei miti e
degli eroi dell'antichità classica, rivisitati però in forma moderna e riletti come
uomini con le loro debolezze e i loro dubbi. Tali tematiche si ricollegano alla
sensibilità decadente e alla poesia simbolista, soprattutto per l'idea che il poeta -
fanciullino possa indagare la realtà e cogliere significati arcani e segrete
corrispondenze sotto la superficie delle cose. Il linguaggio rifugge dalle architetture
logiche e razionali preferendo le analogie, i significati allusivi, le risonanze
onomatopeiche e fonosimboliche delle parole. Nuovo è il plurilinguismo, soprattutto
nei Primi poemetti.
FANCIULLINO (è dentro di noi un fanciullino)
Nelle prime pagine de Il Fanciullino è racchiusa tutta la poetica di Giovanni Pascoli, al
punto che in un certo senso quest'opera può essere definita il suo testamento
letterario.
Secondo Pascoli, la poesia non è invenzione, ma è scoperta: si trova nelle cose
stesse e in esse bisogna saper vedere.
Non tutti hanno però la possibilità di farlo: per vedere davvero si deve osservare le
cose in maniera pura, con occhio puro, come se le vedesse per la prima volta.
Questo modo di guardare è proprio del bambino, del fanciullo. Il poeta deve perciò
ricordare e ripetere le impressioni che provò da bambino. La poesia deve essere
spontanea, intuitiva, priva di sovrastrutture culturali, proprio come la concezione del
mondo che ci formiamo nell’infanzia.
La poesia porta ad abolire l’odio, a un senso di fratellanza e di scoperta.
In questo saggio Pascoli enuncia le linee importanti della sua poetica: spontanea,
immaginifica, lontana dalla razionalità. Il tema principale è il poeta, inteso come
colui che dà voce al fanciullino che è in noi.
Altro tema fondamentale è la semplicità e la purezza dello spirito poetico: in
ciascuno vive un fanciullino, che grazie alla sua innocenza e sensibilità incorrotta può
arrivare al cuore delle cose e di scorgerne il senso profondo.
Vi sono due sequenze descrittive da evidenziare:
Nella prima sequenza vi è la metafora del fanciullino, che col tempo perde spazio
dentro di noi, ma resta in fondo la nostra parte più autentica. Potenzialmente tutti
possono essere poeti: il fanciullino alberga in ciascuno di noi. Non tutti però lo sanno
ricordare e far venire fuori: il poeta sì.
Nella seconda sequenza Pascoli dice che la poesia non è frutta di un’attività logica e
razionale: esiste nelle cose e nella natura e per vederla è necessario avere gli occhi
giusti. Il compito del poeta non è creare, ma rivelare la poesia che già esiste. Lo può
fare solo a condizione che si identifichi col fanciullino e che aderisca al mondo con
l’immediatezza con cui guarda la realtà che lo circonda. C’è una sorta di equazione
tra il poeta e il fanciullo: il poeta non deve dare messaggi, né tantomeno mettersi al
servizio del potere.
Il fanciullino è un attestato della sua visione della vita di Pascoli: dietro a questa
figura si nasconde la paura per il mondo, il rifiuto della donna e dell’eros, e più
generale il vissuto autobiografico di un uomo testimone di gravi lutti e dolore.
Myricae [1891-1911]
Composizione e struttura
La gestazione di questa raccolta fu lunghissima. I primi testi risalgono agli anni
settanta; il titolo comparve per la prima volta nel 1890 a raggruppare nove poesie
pubblicate sulla rivista “Vita Nuova”, e quindi l’anno successivo in un piccolo volume
a stampa, offerto come dono di nozze a un amico, comprendente 22 poesie.
Seguirono altre edizioni: nel 1892 (72 poesie); nel 1894 (116 poesie); nel 1897 (152
poesie); nel 1900 (156 poesie), in cui venne definitivamente fissato l’indice. Pascoli
intervenne ancora negli anni successivi con diverse varianti d’autore: l’ultima
edizione è del 1911. Evolutasi di edizione in edizione, in quella definitiva del 1900 la
struttura della raccolta è articolata in 15 sezioni di ampiezza variabile intercalate da
testi isolati. Prevale il criterio della varietà e i temi appaiono legati a distanza da un
sottile intreccio circolare.

Titolo e genere
Myricae è termine latino (preso a prestito dalla IV Bucolica di Virgilio) per indicare le
tamerici, umili arbusti comuni in area mediterranea, impiegati dai contadini per far
ramazze o accendere il fuoco. Per Pascoli simboleggiano il mondo umile delle piccole
cose legate alla terra; inoltre rappresentano un legame con il luogo natale perché
particolarmente abbondanti proprio nei paraggi di San Mauro di Romagna. La scelta
del termine latino è assieme un omaggio a Virgilio, una specificazione di genere
(poesia bucolica) e una dichiarazione di poetica (fondata su semplicità di materia e
stile).
Temi: la morte, il nido
Fin dalla Prefazione Pascoli suggerisce la chiave di lettura del libro, dominato dal
tema funebre della rievocazione dei lutti di famiglia: la morte, nel giro di dieci anni,
del padre, della madre e di tre fratelli. Ma la dimensione privata assurge a visione
del mondo, in cui al bene assicurato da madre natura si mescola il male provocato
dalla malvagità dell’uomo. Il nido è il grande archetipo attorno al quale ruota il
mondo poetico pascoliano. Esso è il luogo degli affetti e il rifugio contro la cattiveria
degli uomini; ogni distacco dal nido è un trauma, così come ogni ritorno è una
regressione alla beatitudine della prima infanzia (al nido il fanciullino guarda come al
grembo materno). Il nido è anche simbolo del riparo offerto dalla natura contro la
violenza della storia: pertanto è legato al polo positivo della campagna (ricco di
risvolti ideologici, come la celebrazione della piccola proprietà terriera e della serena
semplicità della vita contadina), contrapposto alla città (dove gli uomini si riuniscono
solo per farsi del male). La tensione drammatica che anima la raccolta è data dal
fatto che anche nel nido la violenza si abbatte comunque, trasformando lo spazio
edenico nel teatro di un dramma. Il tema della morte si innesta quindi nell’idillio
bucolico spezzandolo; il nido appare alla fine come il campo in cui il bene, la natura
e la vita danno battaglia contro il male, la storia e la morte.

Le forme:
Sperimentalismo metrico Pascoli adopera versi e versicoli di varia lunghezza, dal
trisillabo all’endecasillabo, e in particolare il novenario, raro nella tradizione
precedente. Per quanto riguarda gli schemi strofici passa dal sonetto al madrigale,
dall’ottava alla strofe saffica, dalla quartina alla ballata, raggruppati in sezioni
metricamente omogenee.

MYRICAE (lavandare)
Lavandare, è un componimento di Giovanni Pascoli scritto nel 1894 ed incluso nella
raccolta Myricae. Ecco il testo, le figure retoriche, i temi trattati e un breve riassunto
dell’opera.
Lavandare – Testo:
Nel campo mezzo grigio e mezzo nero
resta un aratro senza buoi, che pare
dimenticato, tra il vapor leggero.
E cadenzato dalla gora viene
lo sciabordare delle lavandare
con tonfi spessi e lunghe cantilene:
il vento soffia e nevica la frasca,
e tu non torni ancora al tuo paese!
quando partisti, come son rimasta!
come l’aratro in mezzo al maggese.

 Riassunto
Il poeta passeggia tra i campi in una giornata velata dalla nebbia e vede un aratro
solo, come lui. Poi sente il canto delle lavandaie al canale che accompagna il loro
lavoro.

 Figure Retoriche
tonfi spessi – chiasmo

lunghe cantilene – chiasmo


il vento soffia – chiasmo

nevica la frasca – chiasmo

 Analisi
Le due figure centrali del componimento sono le lavandaie, che stanno cantando, e
l’aratro: simbolo della solitudine (senza buoi e dimenticato). Nella prima strofa
prevale l’elemento visivo, nella seconda e nella terza quello uditivo. Ritroviamo il
frequente uso delle tipiche figure retoriche usate da Pascoli, il quadretto
naturalistico della campagna, la descrizione di un paesaggio non ben definito, anche
se reale, e l’uso di una sintassi spezzata.

MYRICAE (X agosto)
San Lorenzo , io lo so perché tanto
di stelle per l'aria tranquilla
arde e cade, perché si gran pianto
nel concavo cielo sfavilla.

Ritornava una rondine al tetto :


l'uccisero: cadde tra i spini;
ella aveva nel becco un insetto:
la cena dei suoi rondinini.

Ora è là, come in croce, che tende


quel verme a quel cielo lontano;
e il suo nido è nell'ombra, che attende,
che pigola sempre più piano.

Metrica:

Sei quartine di decasillabi e novenari a rima alternata (AbAb, CdCd)


Quartina: strofa di quattro versi

Decasillabo: Verso composto di dieci sillabe

Novenario:…….

Rima: l'identità consonantica e vocalica nella terminazione di due


o più parole a partire dall'accento tonico

(due parole sono in rima quando sono uguali a partire dalla sillaba che
porta l’accento)

FIGURE RETORICHE D’ORDINE DI SIGNIFICATO: metonimia (il suo


Nido che pigola) e (al suo nido), similitudine (come in croce)
Personificazione del Cielo; parallelismo tra la rondine e il padre

FIGURE RETORICHE D’ORDINE: anafora (ora è la, ora è là; aspettano


Aspettano), Ritornava una rondine al tetto = iperbato,

Nella prima strofa: troviamo nei primi due versi una consonanza della
Lettera L e un’assonanza tra le parole “arde e cade”. Nel primo verso
Invece troviamo un enjambement.

Nella seconda strofa: contrariamente troviamo in tutta la strofa una


Consonanza della lettera "R" e nel secondo verso si ha una cesura ad "
Uccisero".

Nella terza strofa: Nel primo verso si ha un enjambement

Nella quarta strofa: Nel secondo verso ci sono due cesure e una rima
Interna (mondi/inondi).

In tutta la poesia si ha un climax ascendente ed è circolare.

MYRICAE (novembre)

Novembre è uno dei numerosi componimenti scritti da Giovanni Pascoli, incluso


nella raccolta Myricae e scritto nel 1891. Il poeta si riferisce alla cosiddetta Estate di
San Martino che invoca nell’autore sensazioni primaverili.
Testo
Gemmea l’aria, il sole così chiaro
che tu ricerchi gli albicocchi in fiore,
e del prunalbo l’odorino amaro
senti nel cuore…
Ma secco è il pruno, e le stecchite piante
di nere trame segnano il sereno,
e vuoto il cielo, e cavo al piè sonante
sembra il terreno.
Silenzio, intorno: solo, alle ventate,
odi lontano, da giardini ed orti,
di foglie un cader fragile. E’ l’estate
fredda, dei morti
Figure Retoriche
Le principali figure retoriche di Novembre sono:
 L’odorino amaro: sinestesia e anastrofe

 Prunalbo l’odorino amaro: allitterazione della R


 Di nere trame segnano il sereno: anastrofe

 Cavo al piè sonante: anastrofe

 L’estate fredda: ossimoro

 Foglie un cader fragile: anastrofe e metafora

Riassunto:
La prima strofa del componimento ci introduce in un paesaggio soleggiato quasi
primaverile dove gli albicocchi stanno già per fiorire e il profumo del biancospino si è
già sparso.
Il componimento prosegue e dal verso n°5 la poesia cambia tono: l’avversativo “ma”
ci porta in autunno. Tutto intorno v’è silenzio: i rami secchi delle piante sembrano
proiettati nel cielo, il terreno fa rimbombare il suono del calpestio e le folate di
vento fanno cadere le foglie. Il freddo autunnale è arrivato, come la festività dei
morti nel mese di novembre.

Analisi:
Il componimento non presenta un andamento lineare infatti ha un incipit solare, ma
termina con la figura del buio. La seconda strofa invece si apre con l’avversativo
“Ma” capovolgendo così il tono della poesia.
Se nella prima strofa prevalgono l’elemento visivo ed olfattivo, nella seconda
quello visivo ed uditivo invece in quella finale solo quello uditivo.
Ritroviamo il frequente uso delle tipiche figure retoriche usate da Pascoli, il
quadretto naturalistico della campagna, quindi un luogo reale, la descrizione di un
paesaggio non ben definito (Impressionismo pascoliano) e l’uso di una sintassi
spezzata.

Il tema della morte è molto più esplicito, infatti sia dal titolo che dal testo del
componimento si intuisce ciò infatti il poeta fa riferimento al fenomeno stagionale
della cosiddetta “estate di San Martino” preceduta dalla ricorrenza dei morti (2
novembre).

MYRICAE (temporale)
Un bubbolìo lontano…

Rosseggia l’orizzonte,

come affocato, a mare:

nero di pece, a monte,

stracci di nubi chiare:

tra il nero un casolare:

un’ala di gabbiano.

PARAFRASI (esposizione di un testo con parole proprie, spesso accompagnata da


sviluppi o chiarimenti)
Si sente in lontananza un brontolio. In direzione del mare l’orizzonte si colora di
rosso, come se fosse infuocato. Verso il monte il cielo è nero come la pece. Ci sono
degli stralci di nuvole chiare. In mezzo al nero si vede un casolare, che sembra l’ala
di un gabbiano.
Metrica:
Una ballata sette versi spezzettati in sei frasi, quasi una per ogni verso, a rima sciolta
ballata
Rima: l'identità consonantica e vocalica nella terminazione di due o più parole a
partire dall'accento tonico
(due parole sono in rima quando sono uguali a partire dalla sillaba che porta
l’accento)
FIGURE RETORICHE
Onomatopea: La parola riproduce il suono così come esso si sente, è come se il
poeta dipingesse una sensazione uditiva; questo contribuisce a calare il lettore
nell’atmosfera che si vuole creare.
Similitudine: Si ha una similitudine ogni volta che due termini sono accostati
attraverso espressioni che indicano un paragone…….
Metafora: La metafora consiste nel sostituire una parola con un’altra parola
appartenente a un campo semantico diverso, ma che è sentita come simile grazie ad
alcune qualità condivise.
Analogia: L’analogia è la figura retorica su cui si basa gran parte del linguaggio
poetico pascoliano. Essa consiste nell’accostamento diretto di due immagini, senza
parole di collegamento che indichino il paragone

IL LAMPO
E cielo e terra si mostrò qual era:

la terra ansante, livida, in sussulto;

il cielo ingombro, tragico, disfatto:

bianca bianca nel tacito tumulto

una casa apparì sparì d’un tratto;

come un occhio, che, largo, esterrefatto,

s’aprì si chiuse, nella notte nera.

PARAFRASI (esposizione di un testo con parole proprie, spesso accompagnata da


sviluppi o chiarimenti)
E il cielo e la terra apparvero come erano:
la terra affannata, buia, in agitazione;
il cielo occupato dalle nuvole, cupo, a pezzi:
nel silenzioso tumulto una casa bianchissima
apparve all’improvviso e subito scomparve;
come un occhio che, grande, stupito,
si aprì e si chiuse, nella notte buia.
Metrica:
Una ballata sette versi spezzettati in sei frasi, quasi una per ogni verso, a rima sciolta
Ballata
Rima: l'identità consonantica e vocalica nella terminazione di due o più parole a
partire dall'accento tonico
(due parole sono in rima quando sono uguali a partire dalla sillaba che porta
l’accento)
FIGURE RETORICHE
La figura del climax è presente al v. 2 (ansante, livida, in sussulto), al v. 3 (ingombro,
tragico, disfatto) e al v. 6 (largo, esterrefatto).
Al v. 4 bianca bianca è una ripetizione del termine che ne rafforza il significato,
mentre tacito tumulto è un ossimoro con allitterazione del suono /t/.
Al v. 5 si ha una antitesi apparì sparì, figura che ritroviamo anche al v. 7 con s’aprì si
chiuse.
Ai vv. 6-7 è presente un enjambement (come un occhio, che, largo, esterrefatto /
s’apri); i due versi sono al tempo stesso una similitudine.
Nel verso finale troviamo l’allitterazione dei suoni /n/ ed /e/ (nella notte nera).
Climax: l climax è una figura retorica che consiste nell’utilizzo di due o più elementi
del discorso disponendoli secondo un ordine che si basa sull’intensità crescente del
loro significato;
Ossimoro: è una figura retorica di significato che consiste nell’accostamento, nella
medesima espressione, di termini dal significato opposto allo scopo di ottenere un
paradosso apparente”;
Allitterazione: è una figura retorica consistente nella ripetizione di un suono
all’inizio, oppure all’interno, di parole successive;
Antitesi: è una figura retorica che consiste nell’accostamento di termini o frasi che
hanno significato opposto;
Enjambement: è una figura retorica che si realizza quando il senso logico di un verso
non si conclude con il medesimo, ma prosegue in quello successivo;
Similitudine: La similitudine è una figura retorica di significato ovvero basata sul
trasferimento di significato da un’espressione a un’altra
IL TUONO
E nella notte nera come il nulla,
a un tratto, col fragor d’arduo dirupo
che frana, il tuono rimbombò di schianto:
rimbombò, rimbalzò, rotolò cupo,
e tacque, e poi rimareggiò rinfranto,
e poi vanì. Soave allora un canto
s’udì di madre, e il moto di una culla.

PARAFRASI (esposizione di un testo con parole proprie, spesso accompagnata da


sviluppi o chiarimenti)
E nella notte nera come il nulla,
all’improvviso, con il fragore di una rupe
scoscesa che frana, il tuono rimbombò di colpo:
rimbombò, riecheggiò a tratti, rotolò cupamente,
e tacque, e poi risuonò come fa l’onda che rifluisce dopo essersi infranta sugli scogli,
e poi svanì. Allora si udì il canto
di una madre, e il movimento di una culla.
Metrica:
Si divide in 7 versi endecasillabi(ABCBCCA)
Endecasillabo: Verso composto di undici sillabe
Rima: l'identità consonantica e vocalica nella terminazione di due o più parole a
partire dall'accento tonico
(due parole sono in rima quando sono uguali a partire dalla sillaba che porta
l’accento)
FIGURE RETORICHE
Per quanto riguarda le figure retoriche, frequente è l’allitterazione: quella della /n/
al v. 1 («nella notte nera come il nulla»), della /r/ al v. 2 («a un tratto, col fragor
d’arduo dirupo») e al v. 4 («rimbombò, rimbalzò, rotolò»).
Al v. 1 troviamo anche una similitudine: il colore nero, riferito alla notte, viene
paragonato al vuoto assoluto. Il «nulla» del primo verso rima con la «culla» del verso
finale, a simboleggiare che l’angoscia del vuoto ha lasciato spazio alla serenità del
nido.
Al v. 4 troviamo la figura dell’enumerazione per asindeto, che raggruppa una serie di
parole come un elenco («rimbombò, rimbalzò, rotolò») e, in questo caso, velocizza il
ritmo della poesia.
Sempre al v. 4 possiamo notare la presenza della figura
dell’onomatopea (rimbombò) e di quella della sinestesia («rimbombò, rimbalzò,
rotolò»; sono associate infatti la sensazione uditiva e quella visiva).
L’enumerazione, stavolta per polisindeto, la troviamo anche ai vv. 5-6 («e tacque, e
poi rimareggiò rinfranto, / e poi vanì»), dove si rintraccia anche un anticlimax, come
dimostrano i termini posti dal poeta in ordine decrescente di intensità: questo non
solo segna lo svanire del tuono, ma anche il passaggio dall’atmosfera negativa e
angosciosa a quella positiva e rassicurante del finale.
Allitterazione: è una figura retorica consistente nella ripetizione di un suono
all’inizio, oppure all’interno, di parole successive;
Similitudine: La similitudine è una figura retorica di significato ovvero basata sul
trasferimento di significato da un’espressione a un’altra;
L’asindeto una figura retorica che consiste nell’assenza di congiunzioni fra due o più
proposizioni, che sono fra loro strettamente coordinate;
L’onomatopea è una figura retorica con la quale, attraverso il suono di una parola, si
descrive o comunque si suggeriscono acusticamente determinati oggetti e azioni.
La sinestesia è una figura retorica che si realizza attraverso l’associazione di due
elementi appartenenti a sfere sensoriali differenti;
Il polisindeto è una figura retorica che consiste nel ripetere una congiunzione tra più
proposizioni, periodi oppure membri di proposizione coordinati fra loro.
Anticlìmax, detta anche gradazione discendente, che consiste nel disporre una serie
di concetti o di vocaboli in ordine a mano a mano decrescente di forza e d'intensità,
per lo più in opposizione stilistica a una gradazione ascendente (o climax).

Canti di Castelvecchio [1903-1914]

Composizione e struttura

Comparsi singolarmente su giornali e riviste a partire dal 1897, i Canti di


Castelvecchio furono riuniti in volume nel 1903; altri testi furono aggiunti nelle
edizioni successive: l’ultima, postuma ma controllata dall’autore, è del 1912. Altre
due liriche inedite furono inserite, per volontà della sorella Maria, nella settima
edizione del 1914, portando il totale a 59 (cui segue una sezione a parte di nove
poesie: Ritorno a San Mauro). I testi formano un coerente percorso stagionale da un
autunno all’altro, con richiami espliciti a Myricae: in apertura di raccolta è
nuovamente citato l’incipit della IV Bucolica virgiliana, mentre nella Prefazione, alle
precedenti tamerici primaverili sono contrapposte le presenti, autunnali. Un
autunno anche biografico, che coincide con il trasferimento nella casa di
Castelvecchio di Barga e la ricostituzione del nido; sicché, se Myricae è il libro del
passato e del nido infranto, Canti di Castelvecchio è il libro del presente e del nido
ritrovato.

I temi:

La poesia come risarcimento Dominante è ancora il tema funerario. La poesia trova


giustificazione in quanto risarcimento contro il destino crudele che ha infierito sulla
famiglia del poeta; scrivere dei familiari defunti equivale a richiamarli in vita: «il
figlio ridona al padre attraverso la poesia ciò che l’assassino impunito gli ha tolto»
(Nava).

Canti di Castelvecchio (gelsomino notturno)

La poesia “Gelsomino notturno” è stata scritta da Pascoli in occasione del


matrimonio dell’amico Raffaele Briganti. Il tema principale del componimento è
l’unione dei due sposi ed il germogliare di una nuova vita.

Attraverso questo componimento Pascoli descrive la prima notte di nozze, un rito di


fecondazione che il poeta sente come una violenza inferta alla
carne. Pascoli attraverso i suoi versi trasmette la sua inquietezza e la sua infelicità
nei confronti del congiungimento tra i due sessi, uno stato d’animo che lo
condannerà ad essere come l’ape tardiva che appare alla fine del poema, solo e
destinato a non avere una sua famiglia.

La lirica venne inizialmente pubblicata in un opuscolo nel luglio del 1901 e poi nei
“Canti di Castelvecchio” (1903).

IL GELSOMINO NOTTURNO, TESTO

E s’aprono i fiori notturni,


nell’ora che penso ai miei cari.
Sono apparse in mezzo ai viburni
le farfalle crepuscolari.

Da un pezzo si tacquero i gridi:


là sola una casa bisbiglia.
Sotto l’ali dormono i nidi,
come gli occhi sotto le ciglia.

Dai calici aperti si esala


l’odore di fragole rosse.
Splende un lume là nella sala.
Nasce l’erba sopra le fosse.

Un’ape tardiva sussurra


trovando già prese le celle.
La Chioccetta per l’aia azzurra
va col suo pigolio di stelle.

Per tutta la notte s’esala


l’odore che passa col vento.
Passa il lume su per la scala;
brilla al primo piano: s’è spento...

È l’alba: si chiudono i petali


un poco gualciti; si cova,
dentro l’urna molle e segreta,
non so che felicità nuova.

ANALISI, METRICA DE IL GELSOMINO NOTTURNO

La lirica è composta da sei quartine di versi novenari a rima alternata. Nonostante i


versi siano uguali (novenari), c’è una differenza di ritmo; in ogni strofa i primi due
novenari hanno un ritmo incalzante e ascendente, con una impennata causata
dall’accento sulla seconda sillaba, sulla quinta e sull’ottava. Gli ultimi due sono
invece caratterizzati da un ritmo discendente, pausato nel mezzo con accento sulla
terza, quinta e ottava sillaba.

Il poeta, immerso in un’atmosfera trepidante ma anche di smarrimento, trasmette il


mistero che palpita nelle piccole cose della natura. Si accorge che la notte è viva più
che mai e che quando tutto intorno è silenzioso (e si pensa che sia anche
addormentato) è tutto più vivo che mai: i fiori sbocciano e le farfalle volano. Vite che
iniziano quando la vita consueta normalmente si ferma. Il momento della vita
notturna rappresenta anche un momento di malinconia per il poeta che ripensa ai
suoi morti.

Da un ossimoro, dalla presenza di termini antitetici, i simboli di morte si trasformano


in simboli di vita come nel verso “nasce l’erba sopra le fosse”.

La notte è avvolta da un senso di pace a cui viene contrapposto l’agitarsi della vita
nella casa.

Nei versi successivi c’è l’immagine dei nidi in cui i piccoli dormono sotto le ali della
madre, immagine rassicurante del nido come casa, ambiente protetto, tema molto
caro al poeta.

La musicalità dei versi crea un’atmosfera sospesa e incantata contrapposta al


torpore della sera.

“L’odore di fragole rosse” è una sinestesia in cui il profumo - percezione olfattiva -


sembra acuito dal rosso delle fragole, percezione visiva. E’ qui evidente il tema
dell’attrazione, della tentazione sensuale, della curiosità per la vicenda degli sposi.
Su tutto si diffonde un senso di mistero: vita e morte si compenetrano tra loro ed
infatti, alla fine, “nasce l’erba sopra le fosse”.

L’ape che trova già prese le celle del suo alveare è una immagine che trasmette il
senso di esclusione che il poeta, incuriosito dall’eros ma anche intimorito da questo,
diffidente.

Le Pleiadi trasmettono l’idea di una chioccia che si trascina dietro i suoi pulcini e il
pigolio è una sinestesia che sposta nella percezione uditiva la percezione visiva del
tremolio della luce delle stelle.

All’odore del fiore si accompagna il salire della luce sulla scala e infine il suo
spegnersi al primo piano con i punti di sospensione che alludono al congiungersi
degli sposi e al mistero della vita che continua a palpitare anche se è buio.

La lirica si chiude ancora con un ossimoro: “E’ l’alba”, il momento del risveglio, che
contrasta con “si chiudano i petali un poco gualciti”. “Nell’urna molle e segreta”, che
simbolicamente rappresenta il grembo materno, si dischiude una nuova vita, si cova
“non so che felicità nuova”.

IL SIMBOLISMO PASCOLIANO

Gelsomino notturno è uno dei grandi esempi del simbolismo pascoliano dove viene
descritta una notte ricca di vita ed eventi. La poesia sprigiona allusioni che creano un
clima ambiguo in cui viene esaltata la sensualità, il vagheggiamento del fiorire della
vita ma anche il senso di solitudine ed il ricordo dei morti. Il ricorso al simbolismo è
evidente soprattutto in due momenti:

 Quando fa riferimento all’ape tardiva.


Qui l’ape, esclusa dall’alveare, nella sua solitudine è la personificazione della
figura del poeta che solo e chiuso nel suo nido familiare, è destinato a non
avere una sua famiglia.

 Quando parla dell’aia del cielo su cui si muove la chioccia seguita dal suo
pigolio di stelle.
Il cielo è l’aia su cui si muove la chioccia e le stelle sono i suoi piccoli che la
seguono pigolando.

GABRIELE D’ANNUNZIO

LA VITA

D’Annunzio, dopo l'infanzia trascorsa a Pescara, compì gli studi liceali a Prato per poi
trasferirsi a Roma, dove entrò in contatto con ambienti letterari e iniziò a
collaborare con giornali e riviste. Il matrimonio non gli impedì di coltivare l'ideale del
" vivere inimitabile “, fuori dal comune, e allacciò di verse relazioni amorose,
dissipando le proprie risorse tanto da essere costretto alla fuga a Napoli per eludere
i creditori (1891). Conobbe l'attrice Eleonora Duse, con la quale visse vicino Firenze,
ma la relazione si interruppe; dopo qualche anno, D'Annunzio si trasferì in Francia,
rientrando in Italia allo scoppio della guerra e distinguendosi come uno dei più con
vinti interventisti. Si rese poi protagonista di alcune celebri azioni militari (la " beffa
di Buccari “, il " volo su Vienna " e, alla fine della guerra, l'impresa di Fiume).
Emarginato da Mussolini, trascorse gli ultimi anni sul lago di Garda, a Gardone, nel "
Vittoriale degli Italiani “, dove morì nel 1938.

LE OPERE

D'Annunzio fu un autore versatile e prolifico: giornalista, romanziere, novelliere,


drammaturgo, poeta coltivo i generi più disparati, imprimendo su tutti il segno della
propria personalità eccentrica e ambiziosa: seppe sempre elaborare modelli con
inestinguibile creatività e con uso elegante e suggestivo della parola. Fu aperto alle
suggestioni letterarie più diverse, da Carducci a Verga, ai simbolisti francesi,
all'estetismo di Huysmans, ai romanzieri russi, specialmente Tolstoj e Dostoevskij,
Tra le sue opere più significative ricordiamo il romanzo Il piacere (1889), il cui
protagonista, Andrea Sperelli, nacque da una sovrapposizione con l’autore, in una
costante identificazione tra arte e vita. Alla " fase della bontà " appartengono i
romanzi Giovanni Episcopo e L’innocente, e i componimenti poeti ci di Poema
paradisiaco. Eroi tipicamente dannunziani, nati dalla suggestione della lettura di
Nietzsche, sono Giulio Aurispa, protagonista del romanzo Il trionfo della morte
(1894), e Claudio Cantelmo delle Vergini delle rocce. A questa fase appartiene anche
il capolavoro poetico dannunziano, i cinque libri delle Laudi, specie Alcyone. Il
Notturno (1921) è espressione dell'ultima fase della produzione poetica
dannunziana, caratterizzata da toni più intimi e autobiografici e da uno stile
impressionistico dove il discorso procede per associazioni di idee e per suggestioni,
attraverso una sintassi fatta di frasi brevi e spezzate che apre la strada a molta prosa
novecentesca.

IL PENSIERO E LA POETICA

In una prima fase D'Annunzio fu influenzato dal classicismo carducciano in poesia e


dal Verismo verghiano in prosa e nel teatro; ma l'ambientazione popolare fu spesso
solo un pretesto per rappresentare gli istinti primordiali di un ambiente violento e
selvaggio. D'Annunzio incarnò con la sua vita l'eroe decadente, facendo
dell'estetismo l'aspirazione a un'esistenza d’eccezione, dedita al culto della bellezza
e ispirata all'ideale della vita come opera d’arte. In un forte intreccio fra elementi
biografici e letteratura, D'Annunzio tratteggia il prototipo dell'eroe decadente
nell'Andrea Sperelli del Piacere, che insegue il mito del " vivere inimitabile “.
Successivamente, sotto l'influenza di Tolstoj e Dostoevskij (fase della " bontà “),
mostrò interesse per le cose semplici e per un'ideale aspirazione alla purezza,
mentre nei personaggi dei romanzi approfondì l'analisi psicologica. Dopo la lettura di
Nietzsche si aprì la fase del superuomo, che si intreccia ad altri temi decadenti come
il panismo e la lezione dei simbolisti francesi, e che trova traduzione poetica nelle
Laudi: qui la parola si fa musica, soprattutto nella celebrazione della natura come
fonte di ispirazione per l’uomo, che in essa si identifica fino alla piena
compenetrazione (panismo).

IL PIACERE

Il Piacere è un romanzo di Gabriele D'Annunzio, scritto nella seconda metà del 1888
a Francavilla al Mare e pubblicato l'anno seguente dai Fratelli Treves. A partire dal
1895 recherà il sopratitolo I romanzi della Rosa, formando un ciclo narrativo con
L'innocente e Il trionfo della morte, trilogia dannunziana di fine Ottocento.

SINTESI
Andrea Sperelli è un nobile romano (nato però in Abruzzo) che risiede a Palazzo
Zuccari a Roma. Il suo amore per Elena Muti, anch'essa nobile, conosciuta ad una
festa mondana, è ormai finito, così Andrea, dopo la definitiva separazione da lei, si
lascia andare ad incontri amorosi. Ferito durante un duello, viene ospitato dalla
cugina nella villa di Schifanoja a Rovigliano (Torre Annunziata), dove conosce la ricca
Maria Ferres, moglie del ministro plenipotenziario di Guatemala, di cui subito
s'innamora e dalla quale viene ricambiato. Andrea, appena guarito, torna a Roma e
si rituffa nella sua solita vita mondana. Anche Donna Elena è tornata a Roma dopo
due anni, durante i quali aveva preso in seconde nozze Lord Heathfield. Andrea è
combattuto tra due amori: Elena Muti e Maria Ferres, anche lei trasferitasi a Roma
con il marito e la figlia Delfina. Presto Andrea viene a sapere di una crisi finanziaria
del marito di Maria che, avendo barato ad una partita a carte, è costretto a
trasferirsi con tutta la famiglia. Prima di partire, Donna Maria vuole concedersi per
l'ultima notte ad Andrea, ma lui, essendo troppo innamorato di Elena, rovina tutto.
Ad Andrea non resta che la solitudine e la consapevolezza di stare osservando
un'epoca storica che cambia: ossia il passaggio del potere della nobiltà di Roma alla
democrazia popolare.

Da Il Piacere: Il ritratto di un esteta

D'Annunzio ci presenta in questo secondo capitolo, il ritratto del suo protagonista:


un vero esteta, come si coglie dall'educazione ricevuta, dal suo gusto, dal mondo in
cui vive.
Rimasto orfano da poco, ricchissimo a soli ventun'anni, Andrea Sperelli ha posto dal
1884 la sua residenza a Roma, la città che merita la sua speciale predilizione. Vive in
uno splendido palazzo e coltiva i suoi gusti signorili ed esclusivi, tra cui l'amore
passionale. L'esordio del romanzo ci mostrava in azione il personaggio, nell'ultimo
giorno del 1886, mentre attendeva, in casa sua, l'arrivo dell'ex amante Elena; ora
l'autore presenta la storia precedente del personaggio, come un flashback
dell'autore stesso.
Il passo delinea il ritratto dell'esteta: rievoca la sua formazione intellettuale,
letteraria e artistica, e contemporaneamente mette a fuoco le sue aspirazioni
superiori, che lo distinguono dagli altri uomini.
Due caratteri fondamentali contraddistinguono il giovane personaggio:
-Da una parte, la forte sensibilità estetica: Andrea è tutto impregnato di arte;
possiede il gusto delle cose d'arte, il culto passionato della bellezza;
-Dall'altra, la sua scelta di vivere secondo gli istinti: dotato di grande forza sensitiva,
egli fu fin dal principio... prodigo di sé, disposto, com'era il padre, alla vita voluttaria,
all'avidità del piacere.
Il narratore precisa che Andrea non è nato così, cioè esteta e sensitivo: è invece, il
prodotto di un apposito programma educativo, di un'educazione estetica. Fu infatti
suo padre, un gentiluomo aristocratico cresciuto in mezzo agli estremi splendori
della corte borbonica, a insegnare al figlio il gusto delle cose d'arte, il culto
passionato della bellezza. Lo scopo è quello proprio della classe nobiliare:
distinguersi dalla rozzezza del popolo, incapace di bellezza. In questo brano il
narratore interrompe la narrazione d'intreccio per costruire, a beneficio dei lettori,
un vero e proprio ritratto del protagonista. Ma si tratta di un ritratto speciale,
ovvero di un ritratto d'esteta.
Il narratore sembra censurare la debolezza morale del suo personaggio, anche se poi
si mostra in piena consonanza con lui. In tal senso è assai indicativo il trinomio
(gruppo di tre termini) che figura nel primo capoverso del brano.
Eppure il narratore non teme di orchestrare un ambiguo gioco di luci e di ombre,
notando come Andrea sia interiormente malato, debole, incapace di riprendere su
sé stesso il libero dominio.
Andrea predilige nettamente la Roma barocca, la Roma delle grandi famiglie
aristocratiche e soprattutto la Roma splendida e un po' corrotta dei papi
rinascimentali.

Da Il Piacere: Il verso è tutto

In questa pagina del Piacere (1889) d’Annunzio esprime un concetto-base del


Decadentismo: la concezione della vita fondata sull’estetismo, sul valore supremo,
cioè, riconosciuto all’arte. Il brano esprime il punto di vista di Andrea Sperelli, il
protagonista del romanzo, il quale pone tutta la sua esistenza sotto il segno
dell’arte. Sperelli cita all’inizio un emistichio, estremamente significativo («Il Verso è
tutto»), dello stesso d’Annunzio, tratto dall’Isottèo (1886, poi 1889): «O Poeta,
divina è la Parola; / né la pura Bellezza il ciel ripose / ogni nostra letizia; e il Verso è
tutto». Appare già in questi versi quella religione della parola poetica che è uno dei
fondamenti dell’estetismo decadente. Nel brano il verso poetico è esaltato in
quanto capace di esprimere l’infinito e l’Assoluto. La poesia affonda le sue radici in
una zona oscura dell’essere umano e della lingua e da lì si congiunge con l’anima
stessa delle cose e della natura.

LAUDI

La raccolta delle Laudi del cielo, del mare, della terra e degli eroi comprende le
opere poetiche della maturità: secondo il progetto iniziale doveva articolarsi in sette
libri, tanti quante le stelle della costellazione delle Pleiadi, dalle quali prendono il
nome (Maia, Elettra, Alcyone, Merope, Asterope, Taigete e Selene) , ma il progetto
non fu mai completato. D'Annunzio incluse nell'edizione definitiva solo i primi
quattro, escludendo quindi Asterope, rimasto incompleto, e Taigete e Selene, di cui
ci restano solo dei titoli.
Da Laudi-Alcyone

Alcyone è una raccolta di liriche di Gabriele D'Annunzio pubblicata nel 1903,


composta tra il 1899 e il 1903 ed è considerato il terzo libro delle Laudi del cielo, del
mare, della terra e degli eroi.

Da Laudi-Alcyone: La pioggia nel pineto

La pioggia nel pineto è una lirica composta fra luglio e agosto 1902 dal poeta
Gabriele D'Annunzio nella celebre Villa La Versiliana, dove abitava immerso nel
verde della pineta a Marina di Pietrasanta in Versilia. Quest'opera appartiene
all'Alcyone, una raccolta di poesie di D'Annunzio scritte tra il giugno del 1899 e il
novembre del 1903.

La poesia è composta da 128 versi divisi in quattro strofe. I versi sono totalmente
liberi, ossia non rispettano un preordinato numero di sillabe, tuttavia è stato notato
che ricorrono spesso i ritmi ternario (tre sillabe), senario (sei sillabe) e novenario
(nove sillabe). I versi sono anche sciolti, perché non seguono uno schema metrico
fisso di rime, ma le rime sono presenti in tipi diversi. Il poeta descrive un'immagine
raffinatissima e suggestiva di un'atmosfera naturale espressa con una struttura
frammentaria dei versi e con la ripetizione di parole e di frasi e dal susseguirsi di
sensazioni uditive, visive, olfattive, tattili, ritmate dal ripetersi di due verbi chiave,
"piove" e "ascolta", in cui però le sensazioni uditive prevalgono sulle altre. La poesia,
infatti, è come una sinfonia: il poeta sceglie le parole non tanto per il loro significato
quanto per il loro suono — caratteristica tipica del decadentismo e di D'Annunzio in
particolare —, per creare la suggestione di una musica. Le strategie tecniche che
utilizza per creare musicalità e suggestione sono varie e diversificate e il linguaggio
risulta molto ricercato e raffinato. L'autore spezza i legami sintattici e crea una
sequenza di effetti sonori con le rime, variamente disposte, le assonanze, le
onomatopee e le similitudini.

FIGURE RETORICHE

Varie sono le figure retoriche presenti nel componimento di D’Annunzio.


Come spiegato nel paragrafo relativo all’analisi, importante è la figura
dell’anafora (Piove, nella prima parte del testo; poi Ascolta)

D’Annunzio ricorre anche alla figura dell’apostrofe (Taci; Ascolta).

Al v. 6 si può notare la figura della personificazione (che parlano gocciole e foglie).

Ricorrenti sono le similitudini ( come una foglia; come / le chiare ginestre; il cuor nel
petto è come pesca; son come polle tra l’erbe; son come mandorle acerbe).

L’espressione si spegne è un’epifora, una figura retorica che consiste nella


ripetizione di una o più parole alla fine tra loro successivi, per rafforzare un concetto.

E’ presente una sineddoche (fronda sta per albero; la parte identifica il tutto in
questo caso).

Come sempre, in D’Annunzio, è presente un notevole utilizzo di allitterazioni e,


soprattutto, di enjambement.

CREPUSCOLARISMO

il Crepuscolarismo fu una corrente poetica attiva tra il 1903 e il 1911 ,


principalmente a Roma e a Torino. L'origine del termine si deve al critico Borgese,
che intendeva definire il declino (crepuscolo) della poesia ottocentesca incarnata da
Carducci e D'Annunzio. La sensibilità crepuscolare si ispirava al Simbolismo francese
(soprattutto alla poesia malinconica e intimistica di Verlaine), alla poesia delle
"piccole cose" di Pascoli e all'estetismo sensuale e decadente del Poema paradisiaco
di D'Annunzio: da questi modelli discende un sentimento di crisi dei valori in un
mondo ormai dominato dalla massificazione della cultura, e la perdita di centralità
del ruolo del poeta, che si traduce in atteggiamenti isolati e appartati, ma anche in
accenti ironici nei confronti della società borghese. I maggiori esponenti della poesia
crepuscolare sono Corazzini, Gozzano, Moretti e Palazzeschi. Tra gli elementi centrali
del Crepuscolarismo si possono citare: i temi quotidiani e dimessi, legati alle piccole
cose familiari (le «buone cose di pessimo gusto»> di Gozzano); i toni sommessi e
distaccati, ma venati da una continua ironia; un lessico comune e quotidiano,
impreziosito però da termini aulici e da citazioni della tradizione poetica italiana e
straniera; una sintassi lineare e prevalentemente paratattica, che crea un ritmo
cadenzato simile alla prosa; l'uso prevalente dell'endecasillabo e, in misura minore,
di settenari e novenari. Il più precoce fra i poeti crepuscolari fu Sergio Corazzini, sia
per la sua giovane età (morì a ventuno anni), sia perché le sue raccolte furono le
prime a essere conosciute. Corazzini attenua e smorza il suo senso tragico della vita
entro un'atmosfera di stanchezza e di abbandono. Molti dei suoi motivi e scenari
(desolati pomeriggi domenicali, vie senza luci e colori) furono poi ripresi da Moretti.
Guido Gozzano espresse la consapevolezza del ruolo ormai periferico del poeta
attraverso il distacco ironico, affiancando toni "bassi" e quotidiani a parole preziose
e arcaicizzanti, specchio del contrasto tra un passato nobile e un presente grigio e
anonimo. La vena ironica caratterizza anche la produzione poetica di Marino
Moretti, in cui però, rispetto a Gozzano, prevale una visione amara della realtà che
ne rivela il vuoto e l'assenza di valori. Il linguaggio è prosastico e dimesso, quasi a
significare che la poesia è ormai diventata un'occupazione inutile e oziosa. Meno
lineare fu l'opera di Aldo Palazzeschi, che dapprima condivise temi e forme dei
crepuscolari e in seguito aderì al Futurismo, per poi distaccarsene nel 1914.
Palazzeschi mantenne sempre uno stile personalissimo, arguto e bizzarro, al di là
della corrente di appartenenza.

MARINO MORETTI

Marino Moretti (Cesenatico, 18 luglio 1885 – Cesenatico, 6 luglio 1979) è stato


un poeta, romanziere e drammaturgo italiano, noto soprattutto
come poeta crepuscolare.
Iniziò come poeta, cantando le cose semplici e umili di tutti i giorni, seguendo
un'influenza pascoliana, usando toni dimessi e parole semplici; passò in seguito a
scrivere novelle e romanzi, tra cui Puri di cuore, dove il linguaggio diventa più
complesso e analitico, tornando ancora alla poesia negli ultimi anni.
Poesie di tutti i giorni (1911)

Poesie di tutti i giorni è la terza raccolta. Già il titolo, non diversamente, del resto, da
quello del libro precedente, Poesie scritte con lapis, dà la misura del tono dismesso
con cui l’autore vuole affrontare i temi da lui cari: la semplicità degli affetti familiari,
dei luoghi e dei personaggi della vita quotidiana. La vicinanza alla poetica pascoliana
è evidente, ma qui il tono è più intimo, raccolto, “crepuscolare”, appunto.

Poesie di tutti i giorni: Io non ho nulla da dire

Il componimento può essere letto sia come una manifestazione dell’atteggiamento


schivo e dimesso del poeta sia come una sorta di dichiarazione della sua poetica,
antiretorica e antidannunziana. Il poeta, infatti, per moretti e per i crepuscolari, non
ha nulla di speciale affermare, non ha modo di rispondere agli assillanti interrogativi
posti dalla contemporaneità.

Metrica: quartine di novenari, ciascuna con schema metrico ABBA.

FUTURISMO
Il Futurismo nacque nel 1909 con il Manifesto del Futurismo scritto dall'italiano
Marinetti. Alla base di questo movimento vi è la volontà di rompere radicalmente
con i modelli del passato e di contestare apertamente il perbenismo della società
borghese. La poetica futurista, infatti, si diffuse non solo attraverso vari manifesti
programmatici, ma anche con spettacolari serate nei teatri (le " serate futuriste "),
polemiche e provocazioni, che avevano l'obiettivo di far conoscere il programma
culturale del gruppo; importante fu anche il ruolo della rivista " Lacerba " che, per
circa due anni, fu di fatto l'organo ufficiale del movimento. La letteratura futurista si
proponeva di sovvertire sia i contenuti sia le forme tradizionali, attraverso nuovi
temi (esaltazione delle macchine e della velocità, celebrazione della guerra e del
vitalismo, rifiuto della dimensione intima e soggettiva, attenzione verso l’intuizione)
e nuove soluzioni stilistiche (distruzione della sintass , abolizione della
punteggiatura, uso del verso libero, linguaggio analogico secondo il principio delle
«<parole in libertà»>, uso delle onomatopee, sconvolgimento dell'aspetto grafico
della pagina). I principali autori futuristi furono gli italiani Marinetti, Palazzeschi e
Govoni e il russo Majakovskij. Mentre i primi erano interessati soprattutto allo
sconvolgimento stilistico e grafico (poesia visiva) e alla sperimentazione linguistica,
quella di Majakovskij fu una poesia antilirica, che si proponeva soprattutto di
scuotere le masse in favore dell'ideologia rivoluzionaria. Legato in parte al
Futurismo, ma sensibile anche alle proposte di altre avanguardie artistiche, specie
pittoriche (Cubismo, pittura metafisica), fu il poeta francese Guillaume Apollinaire. Il
vertice della sua ricerca forma le è rappresentato dalla raccolta Calligrammi (1918),
in cui le poesie sono disposte sulla pagina in modo da formare immagini evocative
dei contenuti del testo.

FILIPPO TOMMASO MARINETTI

Filippo Tommaso Marinetti (Alessandria d'Egitto, 22 dicembre 1876 – Bellagio, 2


dicembre 1944) è stato un poeta, scrittore, drammaturgo e militare italiano. È
conosciuto soprattutto come il fondatore del movimento futurista, la prima
avanguardia storica italiana del Novecento.

MANIFESTO DEL FUTURISMO

La genesi Mentre stava elaborando la sua idea di poesia e d’arte, Marinetti ebbe un
" incontro " decisivo: quello con l’automobile. Affascinato dal mito della velocità e,
in generale, delle macchine, il poeta venne così elaborando un breve testo che
potesse servire allo stesso tempo da provocazione al perbenismo della società
borghese dell'epoca e da dichiarazione di poetica. Scritto sul finire del 1908, il
Manifesto fu pubblicato in un paio di giornali italiani di provincia all'inizio del
febbraio 1909; ma, non contento della scarsa eco suscitata, Marinetti riuscì a far
pubblicare il testo su un giornale ben più autorevole. Fu così che, il 20 febbraio
1909, il Manifesto del Futurismo uscì sulla prima pagina del quotidiano parigino "Le
Figaro", suscitando commenti e polemiche in tutta Europa.

Da Il Manifesto del Futurismo: Aggressività, audacia, dinamismo

Marinetti espone il programma ideologico che sarà alla base del nuovo movimento.
Accanto all’elogio della velocità, delle macchine, della tecnica e in generale di tutto
ciò che è moderno, compaiono esortazioni aggressive, belliciste, antimoraliste,
antifemministe e avverse a ogni aspetto che nella cultura e nella società può aver
sentore di vecchio.

ZANG TUMB TUMB

Un poemetto provocatorio: Nel poema Zang Tumb Tumb (1914) Marinetti volle
rappresentare e celebrare, secondo la sua innovativa e provocatoria poetica, il
conflitto bulgaro - turco scoppiato nel 1912 per contrasti etnici e territoriali. La
Bulgaria aveva fatto parte dell'Impero ottomano dalla fine del Trecento fino al 1878,
e nel 1912 i due paesi erano confinanti.

Lo stile: Il poema "parolibero" di Marinetti è basato sulla ricerca FONOSIMBOLICA,


cioè sull'uso di parole il cui suono e la cui disposizione sulla pagina dovrebbero
trasmettere simultaneamente la realtà sul piano sia visivo sia uditivo. Rinunciando
alla tradizionale suddivisione in VERSI, in base alle idee esposte nel Manifesto della
letteratura futurista (1910), che teorizzava fra l'altro l'abolizione della sintassi e, di
conseguenza, la tecnica delle parole in libertà, l'autore si concentrò sull'aspetto
grafico della pagina poetica, allo scopo di rendere con maggiore efficacia e
immediatezza la percezione anche fisica della guerra.

Da Zang Tumb Tumb: Il bombardamento di Adrianopoli (Turchia)

Marinetti, che nel Manifesto del Futurismo del 1909 aveva celebrato la guerra come
«sola igiene del mondo»> ed esaltato il «militarismo, il patriottismo, il gesto
distruttore dei liberatori», fu inviato nel 1913 come corrispondente sul fronte
balcanico, dove assistette al conflitto. Nel passo, il poeta trascrive simultaneamente
le sensazioni visive, uditive e olfattive suggeritegli dallo spettacolo dell'assedio
bulgaro alla città di Adrianopoli, nella Turchia europea. Di fronte alla potenza delle
macchine da guerra -cannoni e mitragliatrici- i cui rumori sollecitano le facoltà
sensoriali come i suoni prodotti da un'orchestra, si manifesta tutta l'esaltazione
psicofisica di Marinetti.

ALDO PALAZZESCHI
Aldo Palazzeschi, pseudonimo di Aldo Giurlani, nacque a Firenze nel 1885. Dopo il
diploma in ragioneria, si dedicò per un certo periodo alla recitazione, lavorando
nella compagnia di Lyda Borelli, una famosa attrice dell'epoca. Esaurita la parentesi
di attore, si impegnò esclusivamente nella letteratura, abbracciando, in un primo
momento, scelte poetiche di tipo crepuscolare. La sua prima raccolta di poesie,
pubblicata a sue spese, fu Cavalli bianchi (1905), seguita da Lanterna (1907) e Poemi
(1909), firmata con il nome del suo gatto, Cesare Blanc. Del 1910 è L'incendiario, che
segna l'avvicinamento del poeta al Futurismo, dal quale tuttavia si distaccò nel
1914, in aperto dissenso con la posizione interventista del movimento; da allora,
Palazzeschi non partecipò più attivamente alla vita pubblica del paese, limitandosi a
non aderire al fascismo e conducendo una vita appartata. Dopo aver soggiornato a
lungo tra Firenze e Parigi, si trasferì a Roma nel 1941, dove morì nel 1974.
Interessante e significativa la produzione narrativa, il cui esordio avvenne nel 1911
con Il codice di Perelà, un divertente ROMANZO ALLEGORICO in cui un omino di
fumo ripercorre le vicende di Cristo. Tra gli altri romanzi ricordiamo Le sorelle
Materassi (1934), I fratelli Cuccoli (1948) e Storia di un'amicizia (1971).

L’incendiario

La poetica e lo stile: La raccolta appartiene al breve periodo di avvicinamento al


Futurismo, elaborato però da Palazzeschi in modo personale e disincantato, privo di
ENFASI e retorica e caratterizzato da grande brio e divertimento. Fu con questa
raccolta che lo scrittore rivelò pienamente tutta la sua carica ironica, divertendosi a
dissacrare il ruolo del poeta, dando sfogo al suo amore per il NON - SENSE.
Nell'Incendiario Palazzeschi attacca, con un tono scanzonato e irriverente, i
conformismi della società, assegnando al poeta una funzione provocatoria.

Da L’incendiario: E lasciatemi divertire

In questa lirica, dal tono divertito e disimpegnato, Palazzeschi esprime la sua


concezione sulla funzione della poesia e sul compito del poeta in un contesto sociale
che ne ha decretato la nullità e la perdita di importanza.

Metrica: versi liberi con numerose rime e assonanze (Forma di rima imperfetta che si ha
quando, in due o più versi, le parole terminali contengono le stesse vocali a cominciare da quella
accentata)

CONTESTO STORICO-CULTURALE

Con "età della crisi" si indica l'ultima parte dell'Ottocento fino agli anni Trenta del
Novecento. La società si trovava affrontare, in quel periodo, una serie di
cambiamenti che ne minavano le stesse fondamenta: a una rapida trasformazione
della società, della tecnologia, della vita lavorativa, si affiancavano nuove idee,
nuove scoperte scientifiche, nuove frontiere del pensiero filosofico.
VERSO IL ROMANZO MODERNO
Il Decadentismo estetizzante rivalutava individualità d'eccezione, caratterizzate però
anche da un forte disagio esistenziale. A tale disagio diedero voce nel primo
Novecento alcuni importanti narratori che, approdando a soluzioni tematiche e
stilistiche diverse, diedero un grande contributo alla nascita del moderno romanzo
europeo. Le principali innovazioni consistono nella rappresentazione di una realtà
soggettiva, che può essere letta in base a numerose chiavi interpretative: ci si
concentra su un unico personaggio, sempre un antieroe (malato, inetto, nevrotico);
l'intreccio è debole e il tempo del racconto è frammentato; si narra in prima
persona e spesso usando la strategia narrativa del monologo interiore e del flusso
di coscienza, operando così una forte caratterizzazione psicologica.

LUIGI PIRANDELLO
LE OPERE
La produzione letteraria di Pirandello è estrema mente vasta: l'autore siciliano ha
scritto saggi, romanzi, novelle e opere teatrali. Proprio in quest'ultimo campo, dopo
un esordio influenzato dal Verismo, realizza un'innovazione drammaturgica che
influenza tutto il teatro del Novecento. Tra i saggi ricordiamo L'umorismo (1908),
dove Pirandello distingue l'umorismo dalla comicità e lo definisce come «sentimento
del contrario»> che provoca la compassione dell'osservatore. Le novelle di
Pirandello sono composte a partire dal 1894 fino a poco prima della sua morte e
inserite nelle Novelle per un anno (1922-1938). Si possono suddividere in due filoni:
uno ambientato nel mondo contadino della Sicilia e l'altro che ha per protagonisti
impiegati della piccola borghesia romana, oppressi da vite infelici e frustranti. In
linea con l'ultima fase della produzione pirandelliana sono le novelle surreali,
caratterizzate da un'atmosfera onirica e fiabesca. I romanzi principali sono Il fu
Mattia Pascal (1904) e Uno, nessuno e centomila (1926). Il primo racconta la storia
di Mattia Pascal che, in seguito alla notizia della sua falsa morte, tenta di ricostruirsi
una vita sotto falsa identità, ma rimane sospeso in una condizione anomala, di
"straniero" alla vita. La storia è narrata in prima persona con un ampio uso di
monologhi interiori e presenta molti dei temi dell'opera pirandelliana: il tentativo di
definire la propria identità e di sfuggire alle maschere che la società impone
all'individuo, la filosofia del lontano, l'umorismo, il desiderio di evadere da una vita
alienante, il relativismo conoscitivo. Uno, nessuno e centomila racconta la storia di
Vitangelo Moscarda che, non riconoscendosi più nell'identità con cui lo vedono la
società e gli altri, si autoesclude dalla vita in un percorso di liberazione che lo porta a
essere finalmente nessuno, L'esordio teatrale avvenne con testi dialettali di
ambientazione siciliana (spesso tratti da novelle) e rappresentati sia in dialetto sia in
italiano. Ma l'innovazione nel teatro si coglie soprattutto con i drammi incentrati
sulla tragedia personale del personaggio, che l'autore indaga attraverso gli strumenti
dell'umorismo e dell'ironia (di qui la definizione di teatro umoristico), mettendo in
luce il conflitto tra uomo e società, le ipocrisie che regolano i rapporti umani, la
solitudine angosciosa e tragica che rappresenta la condizione esistenziale dell'uomo
moderno. Nascono i drammi del relativismo conoscitivo e della follia, caratterizzati
dall'impossibilità di conoscere il reale e dalla pazzia come mezzo per liberarsi dalle
maschere: Così è (se vi pare), 1917; Enrico IV, 1922. La novità più significativa è
quella del "teatro nel teatro" (o metateatro), a cui appartengono le opere più note
di Pirandello: Sei personaggi in cerca d'autore (1921), Ciascuno a suo modo (1924),
Questa sera si recita a soggetto (1930). L'autore mette in scena temi relativi al teatro
come il conflitto tra attori e personaggi, tra attori e spettatori, tra attori e regista, e
l'impossibilità dell'arte di riprodurre la vita. L'ultima fase della produzione teatrale è
quella del "teatro dei miti", in cui Pirandello prospetta un'utopica visione della
società fondata sulla vita comunitaria (La nuova colonia, 1928), sulla religione
(Lazzaro, 1929), sull'arte (I giganti della montagna, 1930).
PENSIERO E POETICA
Nonostante la sua formazione verista, la poetica di Pirandello si fonda su tre principi
legati alla psicologia di Binet e alla filosofia di Simmel: il problema dell’identità, una
concezione della vita come incessante fluire e il relativismo conoscitivo, secondo
cui non esiste una verità oggettiva e valida per tutti, ma tante verità quanti sono i
punti di vista, come esprime il titolo del dramma Cosi è (se vi pare). Come gli altri
esponenti della narrativa della crisi, anche Pirandello è convinto dell'inconoscibilità
del reale. Poiché ognuno ha un'immagine del mondo esterno relativa al suo punto di
vista, anche il linguaggio è fonte di incomunicabilità, e l'uomo vive dunque in una
condizione di disagio esistenziale, che si riflette nella perdita di certezze e nella crisi
d'identità. Centrale nel pensiero pirandelliano è anche il contrasto tra vita e forma,
cioè tra il flusso incessante di sentimenti e istinti e la morale comune e le
convenzioni imposte dalla società. Per riuscire a sopravvivere, l'uomo è costretto ad
adeguarsi indossando delle maschere, a seconda dei ruoli o delle circostanze della
"commedia" della vita. Altre gli vengono attribuite dalla società e lo imprigionano
nelle trappole delle convenzioni sociali (il lavoro e, soprattutto, la famiglia): se tenta
di sottrarvisi cade preda di gravi crisi d'identità; spesso il tentativo di superare
questi limiti porta alla disgregazione e alla follia (che peraltro per l'autore siciliano è
una possibile via di fuga, come nell'Enrico IV). Da ricordare, infine, la poetica
dell'umorismo, esposta nell'omonimo saggio: l'umorismo rappresenta, per
Pirandello, un sentimento del "contrario": si sorride, infatti, solo quando si è
appresa la realtà dolorosa che sta dietro al riso. Dal punto di vista stilistico, l'autore
rinuncia a tutti i mezzi retorici, per approdare a uno stile molto vicino al parlato,
ricco di dialoghi e privo di enfasi. Questa lingua "media" è facilmente comprensibile
e traducibile in altre lingue, e non manca di ricorrere a parole di origine dialettale o
tecnica, o a termini stranieri.

UMORISMO
Il noto saggio di Luigi Pirandello su L'umorismo, pubblicato nel 1908, non tocca solo
un argomento fondamentale della riflessione filosofica-estetica di inizio Novecento
ma presenta anche notevoli punti di contatto tra l'attività speculativa dello scrittore
agrigentino e la sua produzione romanzesca, da Il fu Mattia Pascal fino a Uno,
nessuno e centomila.
L'originale forma discorsiva del saggio mette a fuoco non solo la storia
dell'umorismo, ma anche la sua natura profonda: la differenza tra "comico" ed
"umorismo" è quella che - nel famoso esempio della "vecchia signora [...] tutta
goffamente imbellettata e parata d'abiti giovanili" - corre tra l'"avvertimento" e il
"sentimento del contrario". Al centro di tutto, c'è la "riflessione" che permette di
scorgere una verità diversa dietro alla facciata del mondo. L'umorismo pirandelliano
diventa allora una forma di percezione della realtà, oltre le nostre finzioni e
addirittura al di là della nostra stessa identità, secondo uno "strappo" (per dirla con
Mattia Pascal, cui il saggio è dedicato) che scaturire da un momento qualunque,
anche dal fischio di un treno (come dimostrato dall'omonima novella). Una lezione,
quella umoristica, che Pirandello terrà ben presente quando, nel suo metateatro,
porterà in scena le "maschere" della nostra coscienza.
Da Umorismo: Il sentimento del contrario
Il brano, tratto dalla seconda parte del saggio, è probabilmente la pagina più
famosa: prima abbiamo la distinzione tra l’opera d’arte in generale e l’opera
umoristica, poi la definizione dell’umorismo come “sentimento del contrario”.
Pirandello distingue fra comicità e umorismo, fra «< avvertimento del contrario» e
«sentimento del contrario»>. Il comico nasce quando si avverte in modo superficiale
e immediato che una situazione o una persona (nel brano la vecchia imbellettata) è
«il contrario»> di quello che dovrebbe essere («avvertimento del contrario>>).
L'umorismo invece trae origine dalla riflessione che induce il «sentimento del
contrario», cioè il sentimento della pietà che scaturisce dal cogliere le ragioni
profonde per cui quella situazione o quella persona è il contrario di quello che ci
aspetteremmo. La vecchia imbellettata suscita il riso solo se viene meno la
riflessione sui motivi che la spingono a «< ararsi così come un pappagallo»>.
NOVELLE PER UN ANNO
Pirandello compose NOVELLE per più di cinquant’anni: dapprima le pubblicava su
giornali e riviste, poi le raccoglieva in volumi, nei quali compariva anche qualche
novella inedita. La prima raccolta, Amori senza amore fu pubblicata nel 1894,
l'ultima nel 1919 col titolo Il carnevale dei morti. Nel 1922 decise di raccoglierle tutte
in un'opera in più volumi dal titolo Novelle per un anno. Dalle novelle Pirandello
attinse il materiale per molte opere teatrali: 10 novelle diventarono altrettanti atti
unici e altre 29 ispirarono DRAMMI in più atti. Il titolo della raccolta rappresenta una
sfida dell'autore a se stesso nel prefiggersi di raggiungere il numero di 365, quanti
sono appunto i giorni dell'anno. Nell'edizione definitiva le novelle sono 255: l'ultima
apparve sul "Corriere della Sera" il giorno prima della morte dell'autore, col titolo
Effetti di un sogno interrotto. Spesso la novella inizia in medias res, cioè quando
l’azione è già a un buon punto del suo sviluppo; a volte la conclusione è addirittura
anticipata e la novella è l’analisi delle circostanze che hanno provocato
quell’epilogo; a volte, invece, l’inizio è antefatto di cui la novella è lo svolgimento. La
successione logica e cronologica dei fatti è manipolata dall’autore mediante un
intreccio libero e vario. Nelle novelle sono presenti tutti gli aspetti della
problematica pirandelliana: dall’uomo soffocato dalle trappole della famiglia, del
lavoro, della società, al contrasto tra la vita e la forma, alla frantumazione dell’io, al
relativismo conoscitivo.
Da Novelle per un anno: La patente
La patente è una novella di Luigi Pirandello, pubblicata nel 1911 sul Corriere della
Sera, inclusa nella raccolta Novelle per un anno nel 1922.
Protagonista della novella è Rosario Chiàrchiaro, un uomo scacciato dal banco dei
pegni per essere stato considerato uno iettatore. I superstiziosi temono talmente gli
influssi della malasorte che egli apporta che, al suo passaggio, fanno i più svariati
segni scaramantici: toccano il ferro, fanno il gesto delle corna. Agli occhi del giudice
D'Andrea sembra che Chiarchiaro abbia querelato due giovani che in sua presenza
hanno fatto "gli scongiuri di rito": ma non è così. Nell'ufficio del giudice, Chiarchiaro,
per lo stupore di D'Andrea, arriva vestito come un perfetto menagramo. Il
protagonista dichiara che non ha nessuna intenzione di far condannare i due
giovani: il suo obiettivo è invece quello di ottenere una patente di iettatore con cui
pretendere di essere pagato per evitare i suoi malefici. Infatti Chiarchiaro, stanco
della schifosa umanità, vuole ora vendicarsi sfruttando la superstizione popolare
imponendo una tassa che nessuno al suo passaggio rifiuterà di pagare.
Anche in questa novella, dal carattere pessimistico e dallo stile verista verghiano,
Pirandello espone il suo gioco delle maschere dove con un atto grottesco di
ribellione vince una finta giustizia su una reale ingiustizia. La patente affronta il tema
tipicamente pirandelliano del contrasto fra ciò che siamo e ciò che pensano di noi.
Questo tema emerge attraverso una vicenda legata all'ignoranza e alla superstizione
di una società culturalmente arretrata, in cui perfino i giudici credono alla iettatura e
al malocchio. Di fronte a questa società, che impone all'individuo una "maschera"
odiosa e opprimente, l'uomo non può ribellarsi, ma solo accettare il proprio destino.

IL FU MATTIA PASCAL
Il fu Mattia Pascal è uno dei romanzi più famosi di Luigi Pirandello, drammaturgo
siciliano. Qui vengono anticipati temi a lui cari, che saranno ripresi successivamente
in opere come Uno, nessuno e centomila. Il fu Mattia Pascal è stato scritto da
Pirandello in una fase importante, sia dal punto di vista storico che personale.
Il libro di Pirandello racconta la storia di Mattia Pascal, che vive a Miragno, in Liguria.
Mentre si trova nella biblioteca della città, Mattia Pascal decide di raccontare la sua
storia. Il protagonista del romanzo racconta che in precedenza viveva insieme alla
madre e al fratello Roberto in condizioni agiate grazie al lavoro del padre, che investì
soldi in proprietà. Dalla sua morte, avvenuta quando Mattia aveva quattro anni e
mezzo, si erano affidati a Batta Malagna, il quale per pagare i debiti iniziò a venderle,
arricchendosi sfruttando l’ignoranza della madre. Mattia Pascal era stato perciò
costretto a cercare lavoro trovandolo presso la biblioteca. L’amico Pomino è
innamorato di Romilda Pescatrice, la quale però si innamora di Mattia, che la sposa.
Mattia e Romilda vivono insieme alla suocera. La famiglia e il lavoro rappresentano
una trappola per Mattia Pascal. Lui e la moglie hanno due gemelle: la prima muore
subito la seconda dopo un anno; poco dopo muore anche la madre, così Mattia
decide di andare in America. Si ferma a Montecarlo, dove gioca d’azzardo al casinò
per 12 giorni, andandosene con un bottino di 82 mila lire. Mentre in treno escogita
un modo per scappare dalla sua vita, legge il suo necrologio: la moglie e la suocera,
credendolo morto, lo avevano riconosciuto in un cadavere ritrovato in quei giorni.
Mattia decide di iniziare una nuova vita e sentendo due signori discutere
sull’iconografia cristiana, ricava il nuovo nome: Adriano Meis. Adriano getta via la
fede e si inventa un nuovo passato. Decide di operarsi l’occhio strabico e tagliare
barba e capelli. Dopodiché, da Milano si trasferisce a Roma. Qui vive in affitto in una
camera ammobiliata. Stringe amicizia con l’affittuario, la figlia Adriana e l’altra
donna in affitto. Presto si accorge che non avere un passato lo costringe alle bugie:
molti iniziano a fargli domande personali, alle quali lui risponde con storie inventate.
Adriano continua a ripetere di essere libero, ma molto spesso il ricordo va alla
famiglia. Si innamora di Adriana e durante una seduta spiritica la bacia. La vuole
sposare ma non può, perché Adriano Meis non esiste. Sapendo di essere vivo per la
morte ma morto per la vita, decide di fingere un suicidio. Lascia vicino al ponte un
biglietto d’addio e torna al suo paese. Qui trova la moglie sposata con Pomino, con
una figlia.

Decide di non riprenderla in moglie ma di lasciarla all’amico, fa due giri intorno al


villaggio ma nessuno se ne accorge, poi si dirige verso la biblioteca. Ogni tanto va al
cimitero, dove lascia dei fiori per leggere la sua epigrafe.
Da Il fu Mattia Pascal: Cambio treno
Mattia Pascal si trova sul treno che da Montecarlo, dove ha vinto al gioco una grossa
somma di denaro, lo condurrà a Miragno, il paese dove abita. Mentre sfoglia
distrattamente il suo giornale, legge la notizia che un uomo si è suicidato e che si
tratta, secondo l’articolo, di Mattia Pascal. Ripresosi dallo stupore, egli matura l’idea
di non smettere affatto quella falsa notizia e prende una decisione che cambierà
radicalmente la sua vita.
Da Il fu Mattia Pascal: Io e l’ombra mia
Mattia Pascal, divenuto Adriano Meis, si è illuso di potersi rifare una vita, stabilire
nuovi legami, addirittura formare una nuova famiglia. Ma le circostanze lo
riconducono sempre alla sua condizione di individuo senza una personalità giuridica:
egli come Mattia Pascal è morto e come Adriano Meis non può comprovare la sua
esistenza. Sente il peso di questa situazione assurda che gli appare ora in tutta la sua
tragica evidenza: è stato vittima di un furto, sa chi lo ha derubato, ma non può
presentarsi a fare la denuncia perché è… nessuno. Per farlo, dovrebbe dimostrare di
esistere e dare troppe spiegazioni. È angosciato per se stesso e anche per le persone
che si trovano coinvolte in buona fede nella sua esistenza paradossale.

UNO, NESSUNO E CENTOMILA


La storia raccontata nel romanzo Uno, nessuno e centomila inizia con un evento
fortuito e apparentemente insignificante. Vitangelo Moscarda, il protagonista,
scopre dalla moglie di avere il naso storto, un dettaglio di sé stesso che egli non
aveva mai notato. Questa piccola coincidenza innesca un vortice di ragionamenti
che lo portano, attraverso vari esperimenti, alla consapevolezza di non essere per gli
altri come egli è per sé stesso. I ragionamenti continuano ad affollarsi nella sua testa
fino ad un altro momento di rottura. Vitangelo pensa al padre, un padre distante e
arcigno che, secondo lui, di professione faceva il banchiere. Ma all’improvviso ecco
l’illuminazione: il padre non era un banchiere, ma un usuraio! Questo intensifica la
sua frustrazione. Dunque per gli altri lui è il figlio dell’usuraio e, dal momento che ha
ereditato la banca del padre, usuraio egli stesso, un ruolo nel quale non si era mai
visto. Decide allora di iniziare a scompigliare le carte, distruggendo le immagini di lui
che gli altri si erano fatti, gli altri “lui” che vivono negli occhi delle persone che lo
conoscono. Vitangelo comincia a compiere delle azioni che ai suoi occhi hanno un
senso e uno scopo preciso, ma che agli occhi degli altri appaiono come segni di follia.
Il primo esperimento è quello con Marco di Dio e sua moglie Diamante, due poveri
sognatori, vecchi clienti del padre usuraio, che vivono in una catapecchia di
Vitangelo. Il protagonista decide di inscenare lo sfratto dei due, salvo poi, a
sorpresa, donargli una casa. Di fronte a questo gesto, col quale Vitangelo vorrebbe
allontanare la fama di usuraio che egli ha in paese, la gente reagisce gridandogli:
«Pazzo! Pazzo! Pazzo!». La seconda azione folle che Vitangelo compie, questa volta
in preda alla rabbia, è di ritirare il proprio capitale dalla sua banca, mandandola
fallita. Le reazioni degli altri questa volta sono più violente. La moglie va via di casa e
lui litiga col suocero. Tutti, in primis gli amministratori della sua banca, ormai lo
credono impazzito. Ma interviene qui un nuovo personaggio, Anna Rosa, amica della
moglie, che lo fa chiamare e lo avverte che tutti stanno cospirando contro di lui per
farlo dichiarare insano di mente. Per fare ciò lo fanno parlare con il vescovo, ma
Vitangelo lo riesce a sviare motivando le sue scelte con la bontà e la carità. Con
Anna Rosa Vitangelo si apre, cerca di spiegargli i suoi pensieri, lei li capisce e,
sconvolta e con un gesto inaspettato, cerca di ucciderlo con una pistola. Dopo il
tentato omicidio di Vitangelo, c’è il processo contro Anna Rosa. La versione che
Vitangelo dà al giudice è che si sia trattato di un incidente, ma Anna Rosa ha già
confessato. Nel finale, Vitangelo ci dice che ora vive in un ospizio e che ormai ha
accettato la propria condizione attraverso l’accettazione del nulla, del fatto che la
vita “non conclude”. Egli è ormai fuori dal mondo e lontano dalle persone e il libro si
chiude con queste parole: «muoio ogni attimo, io, e rinasco nuovo e senza ricordi:
vivo e intero, non più in me, ma in ogni cosa fuori».
Da Uno, nessuno e centomila: “Salute!”
Vitangelo Moscarda, che è riuscito a mandare la moglie a far visita a un’amica, si
accinge a controllare indisturbato la sua figura nello specchio, sforzandosi non di
“vedersi”, ma di vedere “l’altro”. È però difficile staccare da sé la propria immagine:
egli si accorge di esserci riuscito quando vede nello specchio l’effetto di una “coppia
di sternuti.”

COSI’ È (SE VI PARE)


Tratto dalla NOVELLA La signora Frola e il signor Ponza, suo genero, il DRAMMA
racchiude già nel titolo la problematica che Pirandello vi affronta: l'impossibilità di
avere una visione unica e certa della realtà. Il tema viene esplicitato fin dalle prime
parole di Lamberto Laudisi (il personaggio che di fatto è il portavoce dell'AUTORE),
poste all'inizio dell'opera: «Io sono realmente come mi vede lei. Ma ciò non toglie,
cara signora mia, che io non sia anche realmente come mi vede suo marito, mia
sorella, mia nipote e la signora qua».
Il signor Ponza, impiegato della prefettura trasferito in una nuova città, prende in
affitto due appartamenti: uno per sé e la moglie, l'altro, al piano di sotto, per la
signora Frola, sua suocera. Le due donne comunicano tra di loro esclusivamente
tramite dei bigliettini calati in un paniere; il fatto suscita, ben presto, la curiosità
prima dei vicini, quindi di tutto il paese. Si apre quasi un'indagine collettiva finché il
signor Ponza e la suocera non rivelano le loro verità. La signora Frola sostiene che il
genero è impazzito, crede di essere rimasto vedovo e di essersi risposato con
un'altra donna, perciò lei è costretta a mantenere i rapporti con la figlia di nascosto.
Il signor Ponza, invece, sostiene che è la suocera a essere impazzita e, non volendo
accettare la morte della figlia, si ostinerebbe a considerare tale la seconda moglie di
Ponza; lui, per assecondare questa follia, deve impedire che le due donne si
incontrino. Le persone più in vista del luogo si accaniscono a voler conoscere la
verità, chiamando in causa perfino il prefetto. Nemmeno l'apparizione della giovane
signora Ponza chiarisce il mistero: ella, infatti, appare sulla scena coperta da un velo
nero e afferma di sé: «Io sono colei che mi si crede»>.
Così è (se vi pare) può essere considerato come un dramma che segna il passaggio
dalla precedente produzione teatrale pirandelliana, ancora tradizionale, a quella
successiva, imperniata sul metateatro e sulla completa disgregazione del
personaggio. Qui, infatti, assistiamo ancora a una rappresentazione apparentemente
tradizionale, in cui la chiave della storia sembra possa trovarsi assieme allo
svelamento del mistero. Ma, giunti alla fine, scopriamo che non è così: il relativismo
conoscitivo pirandelliano sta prendendo il sopravvento e sta occupando la scena
non solo come componente tematica ma anche in modo più profondo e strutturale.
La vicenda irrisolta dei tre personaggi, dei quali non sapremo mai la vera natura, è
già una presa di posizione (come poi sarà, ancor più radicale, nei Sei personaggi) sul
fatto che non c'è un'unica e definitiva soluzione della vicenda rappresentata:
ognuno può scegliere quella che preferisce, in ogni caso la verità è inattingibile.
Da Così è (se vi pare): Come parla la verità
La vicenda è alla stretta finale. Chi è la signora Ponza? È la seconda moglie del signor
Ponza o la prima, cioè la figlia della signora Frola? Oppure è, come lei stessa dice,
colei che gli altri vogliono che sia?

ITALO SVEVO
LA VITA
Nato nel 1861 a Trieste, città di confine vivace e cosmopolita, Italo Svevo
(pseudonimo di Ettore Schmitz) ebbe una formazione culturale ampia e varia, aperta
agli influssi europei. Vissuto sempre in ambiente borghese, Svevo conciliava la sua
attività imprenditoriale nella ditta del suocero con la passione per la letteratura:
scrive i suoi due primi romanzi (Una vita, Senilità), ma rimane molto deluso dal
disinteresse della critica. Dopo un lungo silenzio, durante il quale si avvicina alle
teorie psicanalitiche di Freud, volte all'indagine dell'inconscio, Svevo torna alla
letteratura con il suo romanzo più innovativo, La coscienza di Zeno, che ottiene
grande successo. Muore nel 1928.
LE OPERE
Nei suoi romanzi Svevo riflette la mentalità, i vizi e, soprattutto, le nevrosi della
società borghese. Fin dalle sue prime prove, pone al centro della vicenda figure di
inetti, uomini insoddisfatti di sé e della propria vita che, per un difetto di volontà,
non riescono a cambiare concretamente le proprie condizioni e si rifugiano nel
mondo illusorio della fantasia e dell'autoinganno. Alfonso, il protagonista del
romanzo Una vita (1892), è un intellettuale che non sa inserirsi nella società e che
giunge, infine, al suicidio; Emilio, in Senilità (1898), finisce per rinunciare alla vita e al
godimento e si chiude in una passività precocemente senile. Il protagonista della
Coscienza di Zeno (1923), Zeno Cosini, è anche lui un inetto che si sottopone alla
terapia psicanalitica per curare una forma di nevrosi e scrive, su consiglio del dottore
che lo ha in cura, le proprie memorie. Al termine del percorso introspettivo, volto
alla comprensione e alla cura della propria malattia, Zeno scoprirà che non lui, ma la
vita stessa è malata. Svevo scrisse anche un'autobiografia in terza persona (Profilo
autobiografico, 1927) e un romanzo incompiuto (Il vecchione, 1928), ideale
continuazione della Coscienza.
IL PENSIERO E LA POETICA
Nell'impostazione strutturale, i primi romanzi restano legati a modelli di matrice
realista e naturalista sulla scia di Balzac, Flaubert, Zola; l'ambiente in cui operano i
personaggi è indagato con precisione e realismo. L'inchiesta sociale riveste un ruolo
predominante in Una vita, dove si avverte l'influsso della teoria darwiniana della
selezione naturale; Senilità si concentra invece principalmente sullo scavo della
psiche, condotto soprattutto alla luce della filosofia di Schopenhauer. Per quanto
riguarda le tecniche narrative, nei primi due romanzi il racconto si svolge in terza
persona e la struttura è costruita tradizionalmente secondo l'ordine cronologico
degli eventi. La Coscienza di Zeno, invece, scardina l'impianto narrativo del romanzo
ottocentesco:
-il racconto è scritto in prima persona e la narrazione esprime il punto di vista
interno alla coscienza del protagonista;
-il narratore non è onnisciente, ma segue le vicende nel suo evolversi e le scopre
insieme al lettore;
-l'io narrante (Zeno che scrive a 57 anni) è distinto dall'io narrato (Zeno durante la
giovinezza e la maturità): il narratore guarda al proprio passato con ironia e
disincanto e svela le vere motivazioni che hanno guidato il suo modo di agire, le sue
meschinità e le sue ipocrisie, come se parlasse di un altro;
-vi è una continua mescolanza di passato e presente e si annulla l'ordine cronologico
dei fatti. Secondo Svevo, infatti, il tempo della coscienza è un tempo misto, dove
non esiste un prima e un dopo. Viene usata spesso la tecnica del flashback che
determina repentini cambi di tempo e di luogo. Per quanto riguarda lo stile, Svevo si
esprime in una lingua non letteraria, ma anche per questo molto espressiva. La
sintassi è spezzata, il linguaggio spontaneo e privo di formalismi; non mancano
spunti ironici.
SENILITA’
Senilità è il secondo romanzo di Italo Svevo, pubblicato a Trieste nel 1898. Il
protagonista del romanzo è Emilio Brentani, un uomo inetto, irresoluto, lacerato tra
la brama di amore e piacere e il rimpianto per non averli goduti. Svevo affronta il
problema dell'inettitudine, dell'incapacità da parte del protagonista di gestire la
propria vita interiore e sentimentale. L'indecisione, l'inerzia con cui Emilio affronta le
vicende della sua vita lo portano a chiudersi nei suoi ricordi, in uno stato di torpore
o vecchiaia spirituale, al quale allude il titolo Senilità.
Anche Senilità pare contenere spunti autobiografici: la vicenda è ambientata a
Trieste ed Emilio, come Alfonso di Una vita, è un piccolo - borghese con aspirazioni
letterarie, costretto a un impiego che non lo soddisfa. La trama ruota intorno alla
storia del fallimento di un uomo, Emilio Brentani, un modesto impiegato con la
passione della letteratura che vive con la sorella Amalia, dal carattere mite e
introverso. Egli, che si rammarica di aver sprecato il suo talento letterario, guarda
con invidia allo scultore Balli, uomo brillante e favorito da un enorme successo con
le donne. Emilio si innamora di Angiolina, una bella e giovane donna incontrata per
caso; egli non vorrebbe farsi coinvolgere in una storia d'amore impegnativa, ma,
nonostante i consigli di Balli, si abbandona totalmente al fascino di lei e ne accetta il
torbido passato e le reiterate bugie. Una volta deciso a lasciare definitivamente
Angiolina, Emilio scopre con amarezza che la sorella Amalia, da lui trascurata, si è
innamorata segretamente di Balli. Intanto quest'ultimo si è invaghito di Angiolina,
che si è riavvicinata, seppur solo per una notte d'amore, a Emilio. Amalia, che di
nascosto abusa dell'etere, inizia a dare segni di squilibrio ed Emilio, dopo un nuovo
incontro con Angiolina, sempre ostinata a continuare con i suoi inganni e le sue
bugie, rompe il rapporto in modo violento. Intossicata dall'etere, Amalia, assistita
dal fratello, muore. Emilio riprende allora la propria vita, confondendo nella sua
mente il ricordo della sorella con quello dell'amata. Ne scaturisce un supremo
autoinganno, un'immagine che non abbandonerà più la sua fantasia: una donna
giovane e bella come Angiolina, ma buona e mite come la scomparsa Amalia.
ETERE: liquido volatile usato un tempo come anestetico ma anche come droga
poiché, inalandolo, produce gli stessi effetti dell’alcool.
In Senilità, la ricostruzione d'ambiente e l'indagine sociale, che tanta parte avevano
avuto nella prima prova narrativa di Svevo, sono relegate sullo sfondo. L'attenzione
dell'autore si concentra piuttosto sullo scavo psicologico dei personaggi e sull'analisi
dei complessi rapporti che si stabiliscono tra loro. Anche questo romanzo, come Una
vita, ha per protagonista un inetto incapace di vivere, condannato a una condizione
di precoce senilità, diviso tra il grigiore della propria esistenza di impiegato e la
speranza di riscatto, affidata a inappagate velleità culturali. Accanto a lui, secondo
una struttura narrativa che tornerà nella Coscienza di Zeno, sono presenti altri
personaggi importanti, legati a un sottile sistema di simmetrie e opposizioni.
Amalia, sorella di Emilio, è, come lui, una figura debole e apatica, che non ha mai
vissuto pienamente la vita; agli antipodi si pongono invece Angiolina e Balli, brillanti,
vivaci, cui i fratelli Brentani guardano come a una possibile occasione di riscatto
dalla loro vita non vissuta, per poi scoprire la natura illusoria delle loro aspettative.
La narrazione, secondo i canoni del Naturalismo, ha un andamento cronologico ed è
affidata a una VOCE NARRANTE che si esprime in terza persona. Il NARRATORE,
tuttavia, segue le vicende interiori del protagonista, i suoi autoinganni, la sua
"coscienza", prevalentemente secondo il PUNTO DI VISTA di Emilio. Affiorano, però,
anche interventi del narratore, che con ironia mette a nudo le contraddizioni del
personaggio, le sue incoerenze, la sfasatura esistente tra il dato oggettivo e la sua
personale interpretazione dei fatti. Pur ancora legato al modello naturalista, Senilità,
come Una vita, ne anticipa già il superamento, che sarà pienamente realizzato nella
Coscienza di Zeno.

Da Senilità: Emilio incontra Angiolina


Senza introduzione o ambientazione di sorta, si è subito immersi nel vivo della
vicenda, a contatto con i personaggi che ne sono interpreti e, addirittura, calati nella
coscienza del protagonista -Emilio- e chiamati a condividerne i meccanismi. Quando
il romanzo apre il suo sipario, Emilio ha appena incontrato Angiolina, che è l’esatto
opposto di lui. Il volto illuminato dalla vita, piena di bella salute, risoluta e sicura di
sé. Emilio ne è affascinato. Desidera profondamente avere una relazione con lei, per
dare una svolta al grigiore della propria vita, ma teme inconsciamente di non essere
in grado di padroneggiare la situazione. Perciò si prefigge di impostare il rapporto in
maniera non troppo impegnata, si illude di riuscire a non farsi coinvolgere più di
tanto: ne resterà invece completamente travolto. La sua malata senilità – il suo
traversare la vita cauto, lasciando da parte tutti i pericoli ma anche… la felicità -
nulla potrà contro la sana, vitale giovinezza della donna.

LA COSCIENZA DI ZENO
La coscienza di Zeno è un romanzo psicoanalitico di Italo Svevo, pubblicato nel 1923
dall'editore Cappelli a Bologna.
Il romanzo si presenta come se fosse la confessione di Zeno Cosini. La narrazione,
svolta in prima persona, non segue un ordine cronologico, ma si articola
focalizzandosi sugli eventi principali della vita di Zeno: l'ordine degli eventi è basato
dunque sui rapporti analogici tra gli episodi ricordati. Svevo utilizza molto l'ironia e
adotta un linguaggio non letterario, ma una lingua di uso quotidiano con dialetto
triestino, toscano e qualche termine in tedesco. Zeno Cosini, il protagonista
dell'opera, è un commerciante che proviene da una famiglia ricca, vive nell'ozio e ha
un rapporto conflittuale con il padre, che si rifletterà su tutta la sua vita. Nell'amore,
nei rapporti coi familiari e gli amici, nel lavoro, egli prova un costante senso di
inadeguatezza e di "inettitudine", che interpreta come sintomi di una malattia. Con
questo romanzo Svevo ci presenta un personaggio nuovo, fuori dagli schemi abituali,
né positivo né negativo, combattuto tra diverse possibilità e sempre in precario
equilibrio sul filo del fallimento e della malattia. Un personaggio, insomma, che nulla
ha a che vedere con i personaggi che abbiamo conosciuto fino a questo momento
nella storia della letteratura del nostro paese.
Il protagonista de La coscienza di Zeno è Zeno Cosini, un ricco triestino che per
liberarsi dal vizio del fumo si sottopone a una cura psicanalitica che consiste nel
mettere per iscritto la propria vita. In una breve Prefazione il dottore presenta la sua
decisione di pubblicare le memorie di Svevo. Nel successivo Preambolo la parola
passa a Zeno, che ci dice di non poter recuperare la sua infanzia, ormai troppo
lontana nella memoria.
Il capitolo Il fumo è dedicato al famoso proposito dell’ultima sigaretta, che Zeno non
riesce mai a mettere in pratica, perché ogni volta che si impone di smettere di
fumare fallisce per i sotterfugi che egli stesso mette in pratica.
Nel capitolo La morte di mio padre invece Zeno torna indietro alla sua giovinezza e
al difficile rapporto col padre che, in punto di morte, gli dà uno schiaffo (che poteva
anche essere una carezza), che Zeno interpreta come ultima punizione e sberleffo
del padre nei suoi confronti.
Nel capitolo La storia del mio matrimonio si parla della frequentazione di Zeno con
la famiglia Malfenti e le quattro sorelle Ada, Augusta, Alberta e Anna. Zeno è
innamorato della bellissima Ada, ma l’impossibilità di questo amore lo induce a
ripiegare verso Alberta e infine, quasi senza rendersene conto, verso la meno bella
Augusta, che però si rivela una moglie modello, dotata di quella concretezza e quella
salute di cui Zeno si sente privo. Questo tormento continuo porta Zeno, marito
felice, a instaurare un rapporto clandestino con Carla, di cui si racconta nel capitolo
La moglie e l’amante.
Nel capitolo Storia di un’associazione commerciale Zeno ci conduce all’interno del
suo mondo lavorativo e ci racconta il suo rapporto con Guido Speier, marito di Ada,
la cui abilità nel lavoro e la cui fortuna in tutte le cose della vita fanno da contraltare
ai continui fallimenti di Zeno. Tuttavia Guido si rivelerà alla fine più fragile di quello
che sembrava e le improvvise difficoltà lo porteranno al suicidio.
Nell’ultimo capitolo, Psico-analisi, la narrazione torna al presente e Zeno annuncia
la sua decisione di abbandonare la cura, criticando il metodo psicanalitico del
medico e dichiarando di essere guarito dalla sua malattia grazie a una serie di
successi commerciali favoriti dallo scoppio della Prima Guerra Mondiale.
Zeno è il rappresentante perfetto dell’inetto sveviano. L’inetto Zeno è un uomo
eternamente indeciso, incapace di prendere in mano le situazioni. Zeno è
inadeguato a vivere nel mondo borghese di cui fa parte, si sente a disagio e prova un
continuo senso d'inferiorità. Egli insegue sempre una felicità che si dimostra illusoria
e irrealizzabile ed è tormentato da un eccesso di coscienza, cioè dal voler sempre
analizzare le cose della vita e svelarne le falsità e gli inganni, su cui si basa la vita
borghese. Tuttavia Zeno non riesce a sottrarsi a quei valori borghesi che capisce
essere falsi e continua a vivere in questa contraddizione.
A differenza dei precedenti romanzi di Svevo, La coscienza di Zeno è narrato in prima
persona, con un narratore interno. Si può definire questo romanzo come
un’autobiografia aperta, in cui il protagonista Zeno Cosini ci racconta la sua vita per
episodi sparsi, saltando da un momento all’altro, come se in ogni capitolo aprisse
una finestra su un diverso momento della sua vita, fino alla brusca interruzione
finale. Un elemento originale de La coscienza di Zeno è la cornice. Si dice infatti che
il romanzo sia stato scritto su incitamento del medico e interrotto per l’insofferenza
di Zeno nei confronti del dottore, il quale decide, un po’ per vendetta, di pubblicare
queste memorie. Svevo inventa un finto pretesto, che avrebbe spinto il suo
personaggio a raccontare la propria vita.
Per questo romanzo si è parlato di un tempo misto: il continuo intrecciarsi dei piani
temporali della narrazione (presente, passato prossimo e passato remoto) allontana
dall’impianto narrativo del romanzo tradizionale, in cui gli eventi si disponevano in
ordine cronologico. L’io narrante usa il monologo interiore per confrontare presente
e passato ed esprimere sentimenti e giudizi, riflessioni e ricordi. Il risultato è un libro
simile a un’autobiografia, senza esserlo in modo classico.
Da La coscienza di Zeno: L’ultima sigaretta
Con il terzo capitolo entriamo nel vivo della narrazione di Zeno. Qui egli ricorda i
suoi reiterati tentativi di liberarsi dal vizio del fumo, tutti miseramente falliti a causa
della sua mancanza di volontà, della sua inguaribile inettitudine.

L'ERMETISMO
L’ermetismo si ispirava a un ideale di poesia "pura" e all'esperienza dei poeti
simbolisti ed esaltava il potere allusivo della parola, un movimento attivo a Firenze
tra il 1933 e il 1942 e caratterizzato dall'oscurità e dalla ricerca di uno stile difficile,
che esprimeva anche l'isolamento degli intellettuali durante gli anni del regime
fascista. Tra le principali innovazioni stilistiche dei poeti ermetici, derivate in parte
dal primo Ungaretti, ricordiamo:
• la scelta di privilegiare la musicalità del linguaggio rispetto ai normali legami logici
e sintattici;
• l'uso di un linguaggio oscuro ed evocativo, ottenuto attraverso un duplice registro
linguistico, che combina termini comuni con parole rare e preziose;
• la frammentazione della sintassi, mediante l'abolizione della punteggiatura e
dell'articolo;
• la scelta del verso libero e la ricerca della brevità, che portano a componimenti
spesso brevi;
• la grande attenzione ai legami fonici (assonanze, allitterazioni ...).
Tra i maggiori rappresentanti dell'Ermetismo, che per molti poeti del Novecento
rappresentò la fase iniziale dell'attività poetica, ricordiamo Quasimodo, la cui
produzione ermetica è contrassegnata dalla parola allusiva e dal gusto per analogie,
metafore e sinestesie, Luzi, Gatto, Sereni, Betocchi.
LE LINEA ANTIERMETICA
All'oscurità dell'Ermetismo si oppose una linea antiermetica, attenta ai temi e al
linguaggio della vita quotidiana, che ebbe il suo principale modello nella "poesia
semplice" di Saba. Tra i più importanti esponenti di questo filone vi furono Penna,
Cardarelli e Pavese.

GIUSEPPE UNGARETTI
LE OPERE
La produzione poetica di Ungaretti può essere distinta in tre fasi.
• Alla prima fase appartengono le raccolte Il porto sepolto (1916) e Allegria di
naufragi (1919) con fluite nell'Allegria (1931), in cui prevalgono gli elementi
biografici: l'esperienza della guerra e l'infanzia trascorsa in Egitto. L'analisi interiore
si traduce, sul piano formale, in una continua ricerca della purezza e
dell'essenzialità della parola.
• La seconda fase, legata alla raccolta Sentimento del tempo (1933), è segnata da
una profonda crisi spirituale; vi predomina la riflessione sul tempo, sulla morte, sul
sentimento religioso.
• Della terza fase della poesia di Ungaretti è soprattutto rappresentativa la raccolta
Il dolore (1947), i cui temi sono il dolore privato per la morte del figlioletto e il
dolore collettivo per le atrocità della seconda guerra mondiale.
Di questo periodo ricordiamo anche La terra promessa (1950), Un grido e paesaggi
(1952) e ll taccuino del vecchio (1960).
Vita d'un uomo (1969) è la raccolta completa di tutta la produzione poetica di
Ungaretti sotto forma di un diario della propria esistenza.
IL PENSIERO E LA POETICA
La poetica di Ungaretti segue un'evoluzione in tre fasi, come le opere. Nella prima
fase, la poesia è vista come strumento per cogliere l'essenza della vita di cui si
avverte la caducità con un senso di angosciosa pena. Questa fase si distingue per lo
sperimentalismo: vengono aboliti la rima e il verso tradizionale; la punteggiatura
viene sostituita da spazi bianchi, pause, silenzi. Il lessico è quotidiano, comune; la
sintassi è frammentata, spesso nominale. Nella seconda fase la meditazione sul
tempo si ricollega alle teorie di Bergson. Per quanto riguarda lo stile, si assiste a un
progressivo recupero delle forme tradizionali (punteggiatura, rima, forme metriche
della tradizione); la sintassi si fa più articolata, il lessico più ricercato. È questa la fase
del " barocco " ungarettiano. Nella terza fase il poeta guarda al proprio dolore con
un forte senso di distacco dalla vita. Il dolore si trasforma da esperienza individuale
in esperienza collettiva di fronte all'assurdità della seconda guerra mondiale. Sul
piano formale viene portato a compimento il processo di recupero delle forme
tradizionali con esiti di maggiore compostezza.
L'ALLEGRIA
L'allegria (1931), raccolta di liriche suddivisa in cinque sezioni, prende forma dopo
una complessa gestazione durata quasi vent'anni. I componimenti nascono da
elementi biografici come l'esperienza della guerra (il tema della vita del soldato,
vista come una drammatica lotta per sopravvivere da cui scaturisce un continuo
senso di precarietà), l'infanzia trascorsa in Egitto e la natura, spesso rappresentata
dal paesaggio carsico arido e desolato. L'analisi interiore si traduce, sul piano
formale, in una continua ricerca della purezza e dell'essenzialità della parola,
ottenuta attraverso una costante opera di lima, fino al raggiungimento di parole
<<scavate>> dalla vita.
Da L’allegria: Veglia
La lirica scritta alla fine del 1915, è ispirata a un episodio realmente vissuto da
Ungaretti durante la guerra: la veglia accanto al cadavere di un compagno rimasto
ucciso durante il combattimento. Il contatto così ravvicinato con la morte suscita in
lui un grande desiderio di vita. Così il poeta scrisse, commentando questa poesia: “…
nella mia poesia non c’è traccia d’odio per il nemico, né per nessuno: c’è la presa di
coscienza della condizione umana, della fraternità degli uomini nella sofferenza,
dell’estrema precarietà della loro condizione. C’è volontà di espressione, c’è
esaltazione, quell’esaltazione quasi selvaggia dello slancio vitale, dell’appetito di
vivere, che è moltiplicato dalla prossimità e dalla quotidiana frequentazione con la
morte. Viviamo nella contraddizione”.
Metrica: versi liberi.
Da L’allegria: Fratelli
Tema della lirica è il sentimento di fratellanza tra gli uomini che emerge dal senso di
fragilità della vita sconvolta dalla guerra. È notte. L’aria è squarciata da lampi di
battaglia. Due reparti combattenti si incontrano sulla linea del fronte. Mentre si
salutano e si scambiano notizie, ecco nel buio risuonare la parola che il mondo
impazzito sembra aver dimenticato: fratelli. È come un grido di rivolta contro gli
orrori della guerra. “Fratelli” è la parola che apre e chiude la poesia.
Metrica: versi liberi.
Da L’allegria: Sono una creatura
San Michele è un monte del Carso, vicino Gorizia, noto per le sanguinose battaglie
combattute durante la prima guerra mondiale. È una zona aspra e arida: la roccia è
porosa e l’acqua che cade dal cielo sprofonda nel terreno permeabile. Simile a
quell’acqua, che subito scompare all’interno della roccia, è il pianto del poeta, un
pianto senza lacrime, un dolore profondo, severo, che per la sua durata ha reso il
poeta incapace di reagire.
Metrica: versi liberi.
Da L’allegria: Soldati
Composta nel 1918 a Courton, sul fronte francese, questa breve lirica riesce a
rendere l’atmosfera di incertezza e di amarezza in cui vivevano il poeta e i suoi
compagni soldati. Il titolo generico, senza alcun accenno al “colore” di una divisa,
allude alla condivisione di un comune destino da parte di tutti coloro che
combattono, da qualsiasi parte del fronte si trovino.
EUGENIO MONTALE
LE OPERE
Le principali raccolte poetiche di Montale sono:
• Ossi di seppia (1925): gli oggetti e il paesaggio ligure rivelano la tragicità della
condizione umana, il "male di vivere ", a cui il poeta non riesce a opporre altro che l
'indifferenza.
• Le occasioni (1939): la poesia nasce dal ricordo di eventi e persone (le «occasioni
>>) della vita passata, che rende il poeta consapevole del trascorrere inesorabile del
tempo. Centrale è il ruolo di Clizia, che rappresenta la donna angelo in grado di
guidare il poeta verso la salvezza.
• La bufera e altro (1956): raccolta incentrata sulla tragedia della seconda guerra
mondiale e sui difficili anni della ricostruzione, si apre con Clizia, che non riesce però
a "salvare" l'umanità dagli orrori della guerra, e si chiude con Volpe, a cui il poeta si
rivolge per ottenere una salvezza "privata".
•Satura (1971), in cui il poeta ricorda la moglie scomparsa (Mosca) e critica
satiricamente la società dei consumi. Ricordiamo anche i brevi racconti di Farfalla di
Dinard (1956), venata da un umorismo corrosivo e ironico verso la società moderna.
IL PENSIERO E LA POETICA
Secondo Montale la poesia è la “forma di vita chi veramente non vive”. Tra “vita” e
“poesia”, quindi; c’è un’antitesi che è generata fondamentalmente dall'incapacità
delle parole di esprimere esattamente gli stati d'animo. Per questo, la produzione di
Montale è caratterizzata dalla poetica degli oggetti: attraverso l'uso del correlativo
oggettivo (che Montale riprende dal poeta inglese T.S. Eliot), gli oggetti e i luoghi
evocano un determinato sentimento, uno stato d'animo, soprattutto, la tragica
condizione umana, il "male di vivere". L'unico rimedio è rappresentato dalla ricerca
di un "varco", in grado di rivelare l'essenza metafisica delle cose. La memoria, il
tempo, il ricordo, nei loro reciproci legami, divengono così fonte di sofferenza e
simboli dell'irrecuperabilità del passato; il "male di vivere", l'impossibilità di essere
felici sono sempre presenti nelle liriche di Montale. Il suo è un pessimismo
profondo, che trae nutrimento da un senso di impotenza, di fatale rassegnazione al
dolore che solo l'indifferenza può lenire. Due sono le costanti che attraversano la
poetica di Montale: gli oggetti e la figura femminile. Mentre i primi, come abbiamo
detto, evocano sentimenti e stati d'animo, la seconda assume varie connotazioni:
donna angelo e figura salvifica in grado di salvare il poeta dalla "bufera" della guerra
(Clizia); incarnazione di sensualità e vitalità (Volpe); espressione di buon senso e
capacità di adattarsi alla vita reale (Mosca). Montale predilige un lessico semplice,
fatto di parole comuni, quotidiane, adatte a esprimere la realtà degli oggetti (come
accade in Ossi di seppia, in cui il linguaggio scarno e sofferto è simbolo del disagio
esistenziale), anche se non mancano riprese dalla tradizione letteraria (Dante,
Pascoli e i crepuscolari) e termini ricercati e preziosi che, soprattutto nelle
Occasioni, rendono le liriche di difficile comprensione. Montale utilizza
prevalentemente metri tradizionali, che tenta tuttavia di rinnovare attraverso
combinazioni nuove.

OSSI DI SEPPIA
Ossi di seppia è un'opera molto complessa, in cui è impossibile individuare un
motivo principale. Vi sono però alcuni temi che attraversano le varie sezioni della
raccolta:
• un profondo senso di negatività esistenziale, di mancanza di certezze, che rende il
poeta capace di dire solo «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo» (Non chiederci
la parola);
• una visione pessimistica dell’esistenza, che si riflette nelle immagini di morte e
aridità presenti in molti componimenti (come le «crepe del suolo» di Meriggiare
pallido e assorto, il «rivo strozzato» di Spesso il male di vivere ho incontrato; le
«pozzanghere / mezzo seccate» di I limoni);
• il mare, SIMBOLO positivo di una felicità ancora influenzata dal panismo
dannunziano, contrapposta alla terra, luogo di sofferenza e sacrificio; è un tema
particolarmente presente nella sezione Mediterraneo;
• l'individuazione di oggetti concreti come emblema della condizione di sofferenza e
alienazione dell'uomo (CORRELATIVO OGGETTIVO): il più delle volte, l'oggetto evoca
già un'immagine dolorosa, come accade con la «muraglia / che ha in cima cocci
aguzzi di bottiglia» (Meriggiare pallido e assorto) o con il «cavallo stramazzato»
(Spesso il male di vivere ho incontrato);
• il desiderio impossibile di recuperare il passato: attraverso suggestioni evocative,
come “l'immagine che ride” in un secchio (Cigola la carrucola del pozzo), il poeta si
illude per un momento di riuscire a far rivivere il ricordo di una persona cara e con
esso la felicità perduta. Questo tema sarà poi centrale nella poetica delle Occasioni;
• la ricerca di un "varco" che consenta al poeta di sfuggire al dramma della
condizione umana.
Con la prima edizione di Ossi di seppia la poetica montaliana passa da una giovanile
adesione alle avanguardie crepuscolari ed espressioniste, al superamento dei due
maggiori poeti di inizio Novecento, Pascoli e D'Annunzio. Lo stile della raccolta
riflette questa progressiva maturazione e può essere sintetizzato da questa
dichiarazione di Montale: “la mia volontà di aderenza restava musicale, istintiva, non
programmatica. All'eloquenza della nostra vecchia lingua aulica volevo torcere il
collo, magari a rischio di una controeloquenza”. Questo programma poetico implica
la scelta di un linguaggio antiletterario, aspro e asciutto, in grado di esprimere la
vera realtà dell'esistenza attraverso immagini rappresentative ed eloquenti, e la
ricerca di una nuova musicalità legata alla condizione di disagio esistenziale.
Tuttavia, dal punto di vista metrico linguistico, la nuova poetica non rifiuta il
linguaggio e la METRICA tradizionali: al registro aulico si affiancano termini
colloquiali e tecnici, mentre l'uso dei VERSI "nobili" come ENDECASILLABI e
SETTENARI si alterna all'impiego del VERSO LIBERO.
Da Ossi di seppia: Non chiederci la parola
Questa lirica è una vera e propria dichiarazione di poetica, in cui Montale nega la
possibilità di proclamare certezze o verità assolute. Il poeta si rifugia in formule dal
contenuto negativo.
Metrica: tre quartine di versi di lunghezza variabile rimati secondo lo schema ABBA,
CDDC, EFEF (rima verso 7 è ipermetra: Si ha quando una parola piana rima con una
sdrucciola e la sillaba in più viene contata nel verso successivo o elisa).
FIGURE RETORICHE
Varie sono le figure retoriche individuabili in questa celebre poesia di Montale.
Nella richiesta del primo verso (Non chiederci…) è ravvisabile la figura dell’apostrofe
(discorso fatto con toni accorati, di affetto o di rimprovero, a persone scomparse o
assenti o a cose personificate).
Ai vv 2, 4 e 8 possiamo notare tre suggestive immagini metaforiche (lettere di fuoco;
polveroso prato; scalcinato muro).
Varie volte ricorre l’anastrofe (l’animo nostro, polveroso prato; l’ombra sua;
scalcinato muro; che mondi possa aprirti, storta sillaba).
Sia al v. 3 che al v. 10 è presente la figura della similitudine (risplenda come un
croco; secca come un ramo).
Notiamo anche l’anafora dei vv. 1 e 9 (Non… / Non…).
Di notevole impatto l’epifonema dei vv. 11-12 (Codesto solo oggi possiamo dirti, /
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo). L’epifonema è una figura retorica che
consiste nel chiudere un discorso con una frase caratterizzata da enfasi e/o
solennità. Sono presenti numerosi enjambement (vv. 1-2, 2-3, v.3-4, 7-8, 9-10) e
allitterazioni (della r: chiederci, domandarci, croco; della p: perduto, polveroso,
prato; della s: sì, storta, sillaba, secca).
Da Ossi di seppia: Meriggiare pallido e assorto
Questa poesia, composta nel 1916, è senz’altro una delle più suggestive della
raccolta. Centrale è il paesaggio ligure, colto nella sua aridità, nelle ore in cui il sole
brucia e abbaglia; la natura diventa così emblematica della dolorosa condizione
esistenziale.
Metrica: i versi sono di varia misura (decasillabi, novenari, endecasillabi), a rima
baciata (AABB) quelli della prima e terza strofa, mentre quelli della seconda strofa
sono a rima alternata (CDCD); l’ultima strofa è composta di cinque versi con rime
EEFF e consonanze.
FIGURE RETORICHE
l componimento è caratterizzato da un uso insistito dell’infinito (meriggiare,
ascoltare, osservare, etc.). Questa continuità, spezzata solo da un gerundio, priva di
un effettivo soggetto, universalizza la poesia e le riflessioni dell’io lirico.
Un’altra caratteristica evidente della poesia è la sua ricercatezza fonica. Moltissime
le allitterazioni presenti e, in particolare, gli scontri consonantici (con s, r, t, ch). La
musicalità aspra che ne deriva (e che presenta echi dell’Inferno dantesco)
richiamare il tema trattato. A queste si aggiungono le molte assonanze (es. merli-
serpi), le consonanze che chiudono tutti i versi della quinta strofa e le onomatopee
presenti ai vv. 4 o 11 (schiocchi, frusci, scricchi).
Le figure di suono appena elencate sono solo alcune delle figure retoriche di
Meriggiare pallido e assordo. Tra le altre, troviamo:
-sinestesia: “osservare tra frondi il palpitare/ lontano di scaglie di mare” (vv. 9-10);
-enjambements (vv. 5-6, 9-10, 11-12...);
-ossimoro: “triste meraviglia” (v. 14);
-metafora: la muraglia finale è metafora esplicita della vita;
-paronomasia: “sterpi”-"serpi" (vv. 3-4);
-analogia: “calvi picchi” (v. 12);
-climax ascendente: struttura l’intera poesia, dalle crepe del suolo ai calvi picchi alla
muraglia.
Da Ossi di seppia: Spesso il male di vivere ho incontrato
Il testo è l’esempio più evidente della poetica del correlativo oggettivo: il concetto di
male di vivere trova la sua espressione nelle cose che lo rappresentano (“rivo
strozzato”, “foglia riarsa”, “cavallo stramazzato”) e la sofferenza esistenziale si
concretizza nella realtà.
Metrica: due quartine di endecasillabi tranne l’ultimo (un settenario doppio); rime
incrociate (ABBA) nella prima quartina; anomale nella seconda quartina (CDDA).
Temi: l'universalità del dolore, connaturato alla vita stessa - l'indifferenza come
antidoto al male di vivere.
La lirica famosissima, è tra quelle che più esplicitamente esprimono il doloroso
senso dell'esistere che caratterizza un po' l'opera di Montale.
La prima quartina dichiara inizialmente il tema fondamentale: il male di vivere (v.1).
Esso viene espresso con tre immagini:
il ruscello impedito nel suo libero scorrere;
la foglia che inaridisce per la calura e si accartoccia su di sé;
il cavallo caduto (stramazzato dice il poeta).
Anche la seconda quartina comincia (vv. 5-6) con un'affermazione: quel poco di
bene (precario bene) che è concesso agli uomini coincide con la divina Indifferenza.
Altre tre immagini vengono a illustrare tale affermazione:
-la statua;
-la nuvola;
-il falco che volteggia in cielo.
FIGURE RETORICHE
Allitterazione, suoni aspri e duri = "era il rivo strozzato che gorgòglia" (v. 2), "era
l'incartocciarsi della foglia/riarsa" (vv. 3-4), "era il cavallo stramazzato" (v. 4), "e il
falco alto levato" (v. 8).
Enjambement: vv. 3-4; 5-6; 7-8.
Anafora: "era" (vv. 2-3-4-6-7)
Climax ascendente = "stramazzato" (v. 4).
Antitesi = "stramazzato" (v. 4) che indica un movimento dall'alto verso il basso e
"levato" (v. 8) che indica un momento dal basso verso l'alto.
"era il rivo strozzato che gorgoglia" = correlativo oggettivo e simboleggia il suo stato
d’animo.
"era l'incartocciarsi della foglia riarsa, era il cavallo stramazzato"= correlativo
oggettivo come una metafora del male.
"era la statua nella sonnolenza del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato" =
correlativo oggettivo come metafora del bene.

SALVATORE QUASIMODO
Salvatore Quasimodo nacque a Modica (Ragusa) nel 1901, e durante l'infanzia seguì
in varie località siciliane gli spostamenti del padre ferroviere. Nel 1919 si trasferì a
Roma per frequentare il Politecnico, ma dovette rinunciare a laurearsi per problemi
economici. Nel 1926 trovò un lavoro al Genio civile e fu inviato a Reggio Calabria e
poi, nel 1929, a Firenze. Qui, grazie a suo cognato Elio Vittorini, conobbe i letterati
raccolti intorno alla rivista "Solaria", presso la quale pubblicò la sua prima raccolta di
versi, Acque e terre (1930). Seguirono poi Oboe sommerso (1932), Odore di
eucalyptus e altri versi (1933), Eraton e Apollion (1936), Poesie (1938). Nel 1941, per
l'apprezzata traduzione dei Lirici greci (1940), venne nominato “per chiara fama”
professore di letteratura italiana al conservatorio "Giuseppe Verdi" di Milano. Nel
1942 pubblicò una raccolta delle sue poesie antiche e recenti, Ed è subito sera, che
prende il titolo dalla sua lirica più conosciuta. Dopo la seconda guerra mondiale,
Quasimodo si allontanò gradualmente dall'Ermetismo, nella convinzione che la
poesia non dovesse rivolgersi a una ristretta cerchia di lettori, ma coinvolgere un
pubblico più vasto e affrontare problematiche sociali e civili. Questa connotazione
caratterizzò le sue raccolte successive: Con il piede straniero sopra il cuore (1946),
Giorno dopo giorno (1947), La vita non è sogno (1949), Il falso e vero verde (1956),
La terra impareggiabile (1958), Dare e avere (1966). Nel 1959 gli fu conferito il
premio Nobel per la letteratura. Quasimodo morì a Napoli nel 1968.
ACQUE E TERRE (1930)
I temi
In Acque e terre Quasimodo raccoglie 25 liriche, composte tra il 1920 e il 1929, che
hanno carattere autobiografico. Venati di un sentimento di pessimismo di fronte al
tempo che passa, i temi sono legati alla sua esperienza personale: la nostalgica
rievocazione dei luoghi dell'infanzia trascorsa in Sicilia, l'amore del poeta per una
donna, il suo rapporto con Dio e con la natura, con la quale egli tende a identificarsi,
accomunando in un unico destino la vita dell'uomo e delle piante.
L'adesione all'Ermetismo
La raccolta appartiene alla prima fase della produzione poetica di Quasimodo,
quando la sua poetica è decisamente orientata verso l'Ermetismo, come sarà poi
fino a Ed è subito sera (1942). Sul piano stilistico si colgono ancora influssi del
linguaggio pascoliano e dannunziano, ma risuonano anche echi leopardiani, ed è
forte la vicinanza ai simbolisti francesi, per il frequente uso dell'ANALOGIA, del
SIMBOLO, della SINTASSI NOMINALE. Più che alla musicalità e al RITMO, Quasimodo
punta alla perfezione geometrica della forma e del VERSO, che spesso è breve e
FRAMMENTATO.
Da Acque e terre: Ed è subito sera
In soli tre versi di folgorante sintesi il poeta riassume la sua visione dell’esistenza
umana: la solitudine, il sentirsi al centro del mondo, la speranza di dare un senso
all’esistenza, l’arrivo improvviso della sera, del buio.
Metrica: versi liberi.
Ognuno sta solo sul cuore della terra
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera.
GIORNO DOPO GIORNO (1947)
La poetica e i temi
Giorno dopo giorno è la seconda raccolta pubblicata da Quasimodo dopo la seconda
guerra mondiale; riflette la svolta della sua produzione poetica, dalla piena adesione
all'Ermetismo a una concezione della poesia meno intimista, più corale e più
accessibile, vicina al Neorealismo. La guerra e i suoi orrori convinsero Quasimodo
dell'impossibilità di rifugiarsi nella solitudine e lo spinsero a dare il suo contributo
per "rifare l'uomo" attraverso la poesia: «l’uomo vuole la verità dalla poesia, quella
verità che egli ha il potere di esprimere e nella quale si riconosce». Il VERSO si fa più
disteso e lineare, più discorsivo, la parola riacquista il suo valore concreto e
immediato, anche se il tono diventa talvolta retorico e magniloquente. I temi di
questa nuova poesia sono tratti dalle problematiche storiche e sociali del tempo.

Da Giorno dopo giorno: Alle fronde dei salici


Alle fronde dei salici, che apre la raccolta Giorno dopo giorno del 1947, è stata
composta da Quasimodo nel pieno della Seconda Guerra Mondiale ed esprime tutta
l’amarezza del poeta per l’oppressione del “piede straniero”, dei nazisti che hanno
invaso l’Italia. Si tratta di una poesia sofferta e partecipata, che rappresenta tutta
l’impotenza del poeta, che vorrebbe esprimere tutto il suo dolore, ma si chiede
quale sia realmente il significato ed il valore della poesia di fronte agli orrori della
guerra. La risposta è negativa: di fronte all’efferatezza della guerra, che cancella
persino i sentimenti più elementari di pietà e di umanità, anche i poeti non possono
far altro che tacere e appendere le loro cetre, simboli del loro canto, ai rami dei
salici. Come emerge anche dalla congiunzione iniziale “e”, sembra che Quasimodo
voglia interloquire, seppure in modo fittizio, con qualche critico che gli ha imputato il
suo ermetismo e il suo silenzio. La lirica prende spunto dal Salmo 136 della Bibbia,
che esprime il lamento degli ebrei in esilio a Babilonia:” Sui fiumi di Babilonia, / là ci
sedemmo piangendo/ al ricordo di Sion. / Ai salici di quella terra / appendemmo le
nostre cetre. / Là ci chiedevamo parole di canto / coloro che ci avevano deportato /
Come cantare i canti del Signore in terra straniera?”.
Metrica: versi endecasillabi sciolti.
FIGURE RETORICHE
Allitterazioni della “R”: “[…] cantare / Con il piede straniero sopra il cuore” (vv. 1-2);
“urlo nero” (v. 5), “madre” (v. 6); “incontro” (v. 6) “crocifisso” (v. 7), “telegrafo” (v.
7); della “L”: “al lamento / d’agnello dei fanciulli” (vv. 4-5), “oscilavano lievi” (v. 10);
Metafore “cantare” (v. 1); “dura di ghiaccio” (v. 4); “triste vento” (v. 10);
Metonimia “piede straniero” (v. 2); “sopra il cuore” (v. 2);
Sinestesia “all’urlo nero” (v. 5);
Analogia “lamento / d’agnello” (vv. 4-5);
Enjambements “lamento / d’agnello” (vv. 4-5); “urlo nero / della madre” (vv. 5-6);
“figlio / crocifisso” (vv. 6-7).

Da Giorno dopo giorno: Uomo del mio tempo


La lirica Uomo del mio tempo, scritta nel dicembre del 1945, è l’ultima di Giorno
dopo giorno (1947). Per questo assume il valore di una sentenza morale sulla quali il
poeta intende fondare il suo programma poetico. Essa infatti è il sofferto
riconoscimento di quella condizione umana che la poesia, per Quasimodo, ha il
compito di esprimere.
Metrica: versi liberi.
La poesia Uomo del mio tempo può essere suddivisa in due macrosequenze: la
prima (vv. 1-13) è caratterizzata da tempi al passato (passato prossimo, imperfetto,
passato remoto) e presenta attraverso una serie di riferimenti simbolici la lunga
sequela di barbarie commesse dagli uomini nel corso dei secoli; la seconda (vv. 14-
17) è costituita da un appello particolarmente intenso e partecipato rivolto agli
uomini del presente e del futuro, con l’utilizzo dell’imperativo.
FIGURE RETORICHE
Allitterazioni v. 3: “con le ali maligne, le meridiane di morte”; v.4:” – t’ho visto –
dentro il carro di fuoco, alle forche”; v.5:” alle ruote di tortura. T’ho visto: eri tu”;
v.6: “con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio”; v.11: “quando il fratello disse
all’altro fratello”; v.15:” salite dalla terra, dimenticate i padri”; v.17:” gli uccelli neri,
il vento, coprono il loro cuore”;
Enjambements vv. 1-2; 2-3; 4-5; 5-6; 8-9; 10-11; 12-13; 14-15;
Assonanze vv. 3-4: “forche” /” morte”;
Endiadi v. 1:” quello della pietra e della fionda” = sdoppiamento di un concetto per
indicare l’uomo primitivo;
Perifrasi v. 1:” quello della pietra e della fionda”; vv. 11-12: “quando il fratello disse
all’altro fratello:/ “Andiamo ai campi” (indica Caino e Abele senza nominarli
direttamente, in questo contesto sono i “fratelli” per antonomasia).
Metafore v. 3: “ali maligne”: per indicare le ali degli aerei, viste con terrore dalla
popolazione civile poiché durante la guerra segnalavano un imminente
bombardamento; “meridiane di morte”: le meridiane sono strumenti di alta
precisione utilizzate dai soldati per rilevare la posizione dei bersagli sui quali
sganciare le bombe, per cui diventano portatrici di morte; v. 4: “carro di fuoco”
indica il carro armato; v. 17: “gli uccelli neri” sono gli avvoltoi che si aggirano nei
pressi dei cadaveri insepolti.
Analogia v. 14: “nuvole di sangue”: indica il sangue raggrumato sul terreno che,
evaporando, sembra formare delle nuvole che salgono dalla terra al cielo;
Similitudini vv. 10-11: “E questo sangue odora come nel giorno/ quando il
fratello…”;
Epanadiplosi vv. 4-5: “– t’ho visto” /” T’ho visto”; vv.14-15: “Dimenticate, o figli, le
nuvole di sangue… dimenticate i padri” (il sintagma ripetuto a distanza incornicia la
frase collocata fra le due occorrenze);
Metonimia v. 7: “senza Cristo”: si nomina il messaggero (Cristo) per indicare il
messaggio di pace e carità da lui diffuso;
Sineddoche v. 2: “carlinga”, v.3: “ali”, “meridiane”: si indica l’aereo attraverso tre
sue componenti (la parte per il tutto);
Sinestesia v.10: “questo sangue odora” (sfera visiva + sfera olfattiva); v.12: “eco
fredda” (sfera uditiva + sfera tattile);
Tricolon vv.8-9: “come sempre, come uccisero i padri, come uccisero/ gli animali”
(parallelismo nella struttura di tre enunciati che si susseguono)
Iperbato v. 14: “Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue”.

NARRATIVA TRA LE DUE GUERRE


LE NUOVE TENDENZE DEL ROMANZO ITALIANO
A partire dagli anni Venti, si assiste in Italia a una ripresa della narrativa realista
(soprattutto dopo il saggio di Borgese, Tempo di edificare, del 1923), accompagnata
da un'evoluzione del genere: la letteratura di questi anni, infatti, recupera da una
parte la tradizione del Verismo, dall'altra subisce l'influenza della letteratura
realista americana. Molto importante, in questi anni, fu il ruolo svolto dalle riviste,
tra cui:
-" La Ronda “, che promosse una prosa d'arte ispirata a un nuovo classicismo;
-" Solaria ", che mostrò una forte apertura alla letteratura europea contemporanea,
subendo per questo anche gli attacchi della censura fascista;
• " 900 ", che sostenne la commistione tra letteratura e nuove forme di
comunicazione (cinema, musica jazz) e operò per una letteratura popolare e fruibile
da tutti.
La linea narrativa del "nuovo realismo", lontano sia dall'esperienza di " Solaria " sia
da quella del Verismo, era ispirata soprattutto ai grandi romanzieri americani di
inizio Novecento (Steinbeck, Faulkner, Dos Passos) ed era interessata a mostrare le
contraddizioni socioeconomiche dell'Italia, un paese diviso tra zone ricche e altre
profonda mente arretrate e popolato da svariate realtà. Moravia, nel suo romanzo
Gli indifferenti (1929), presenta la corruzione spirituale e il vuoto di valori del mondo
dell'alta borghesia romana, denunciando le ipocrisie e il perbenismo imposti dalla
morale fascista. Alvaro nella raccolta di racconti Gente in Aspromonte (1930) e
Silone in Fontamara (1933) narrano la dura realtà del mondo contadino del Sud,
denunciando situazioni di sopraffazione e ingiustizia spesso di stampo quasi ancora
feudale. Bernari, in Tre operai (1934), rappresenta invece la vita della fabbrica in un
contesto urbano e operaio, analizzando il tema dell'alienazione provocata dalla
società industriale. Diversamente dal " nuovo realismo ", gli esponenti del realismo
simbolico sono interessati a rappresentare la realtà evocando i significati simbolici
prodotti dagli effetti del paesaggio o dalla riflessione interiore dei protagonisti. In
Conversazione in Sicilia (1939) Vittorini racconta un viaggio che il protagonista
compie per tornare dalla madre al paese natale; rappresenta una sorta di percorso
iniziatico in cui, attraverso incontri con persone e visite a luoghi, l'io narrante (una
proiezione dello stesso Vittorini) giunge a una diversa consapevolezza di sé. Nel
romanzo La cognizione del dolore (1938-1941) di Gadda, invece, l'apparente
impianto giallo è un pretesto per una riflessione satirica sulla situazione dell'Italia
fascista (l'opera è ambientata in un immaginario stato sudamericano) e per
un'analisi psicologica del protagonista e delle sue nevrosi; il romanzo, inoltre, si
segnala per la sua straordinaria ricchezza linguistica, ottenuta tramite l'impasto di
linguaggi tecnici, dialetti e lingua colta. La corrente del realismo magico è ispirata
alla produzione della rivista " 900 ". Tra i suoi esponenti ricordiamo Bontempelli,
Savinio e Landolfi, ma soprattutto Buzzati, che nel romanzo Il deserto dei Tartari
(1940) racconta una vicenda sospesa tra simbolismo e fantasia, metafora della vita
e delle sue problematiche esistenziali.

NEOREALISMO
La stagione del Neorealismo iniziò nel 1943, in un'Italia stremata dagli eventi bellici e
dalla guerra civile. Nell'immediato dopoguerra il sollievo procurato dal ritorno alla
libertà dopo il crollo del fascismo determinò sentimenti di ottimismo e di fiducia nel
futuro. Il Neorealismo si espresse principalmente nel campo del cinema e della
narrativa, anche se la sua influenza si diffuse in tutti i campi della cultura. In campo
letterario l'orientamento neorealista si espresse nella produzione di romanzi e
racconti, i cui modelli letterari erano:
•i narratori veristi dell’Ottocento;
• la letteratura americana del primo Novecento;
• il realismo italiano degli anni Trenta (Moravia e Alvaro).
I caratteri stilistici del Neorealismo si possono così sintetizzare:
• rappresentazione oggettiva di fatti realmente accaduti;
• lingua antiletteraria e simile al parlato (ampio uso del dialogo).
La letteratura neorealista si articolò in due tendenze principali:
•la testimonianza della guerra, della Resistenza, della prigionia;
•la descrizione della miseria e del sottosviluppo dell'Italia postbellica.
Della prima corrente fa parte la letteratura partigiana, rappresentata da Beppe
Fenoglio e dalla prima produzione di Italo Calvino, a cui si aggiungono autori come
Renata Viganò, Cesare Pavese e Mario Tobino. In questo clima in cui si rende
evidente il desiderio di raccontare le drammatiche esperienze legate alla guerra,
emerge anche la letteratura memorialistica, che trova i più significativi
rappresentanti in Primo Levi, Giacomo Debenedetti, Natalia Ginzburg e Mario
Rigoni Stern. La seconda tendenza è rappresentata dai romanzi di Vasco Pratolini,
che descrivono la vita del proletariato fiorentino, da Carlo Levi e da alcune opere di
Alberto Moravia e di Pier Paolo Pasolini, ambientate a Roma. Un caso a sé è
costituito dal neorealismo "intimista" di Carlo Cassola.

PRIMO LEVI
LE OPERE
Le più importanti opere di Levi sono strettamente legate alla sua esperienza di
deportato ad Auschwitz. Se questo è un uomo racconta il periodo passato nel
campo mentre l'esperienza del lungo rientro in Italia dopo la liberazione gli fornì
ispirazione e materia per la stesura del suo secondo romanzo, La tregua, e per il
romanzo Se non ora, quando? che ha come protagonisti un gruppo di ebrei in
viaggio dalla Russia verso la Palestina, attraverso l'Europa devastata dalla guerra. La
sua professione di tecnico e scienziato ispirò altri suoi scritti, come i racconti
pubblicati nella raccolta La chiave a stella. Nella sua ultima opera saggistica, I
sommersi e i salvati, l'autore mette in evidenza le difficoltà incontrate nell'offrire un
contributo alla memoria degli orrori passati, in una società disinteressata alla
tragedia. Da ricordare anche le raccolte poetiche Ad ora incerta e L'osteria di Brema.

IL PENSIERO E LA POETICA
Ad animare la più importante produzione narrativa di Levi è la volontà di
comunicare con i suoi simili, di condividerne l’esperienza per capire, di fornire una
testimonianza oggettiva e documentaria della tragica esperienza del lager. In questo
approccio scientifico di fiducia nella ragione umana, quale unico mezzo di cui
dispone l'uomo per emergere dall'orrore e dall’assurdo, risiede il suo profondo
rispetto per la dignità umana. Dalla necessità di instaurare una comunicazione
diretta con il lettore deriva la scelta di una lingua chiara e limpida, espressa in uno
stile asciutto con un taglio scientifico. Questa scelta vale tanto per la prosa quanto
per la poesia, con cui Levi intendeva avvicinarsi a tutti gli uomini, prendendo le
distanze dall'oscurità che caratterizzava la corrente ermetica. A ciò si aggiungono
toni che talvolta si caricano di ironia, che fanno quasi da contrappunto alla tragicità
dei temi.
SE QUESTO È UN UOMO
Se questo è un uomo fu scritto tra il novembre del 1945, quando Levi era appena
rientrato in Italia, e il dicembre del 1946. Dopo il rifiuto di Einaudi, l'opera fu
pubblicata da un piccolo editore nel 1947, ma ebbe una scarsissima risonanza. Solo
nel 1958, quando Einaudi accettò di pubblicare il romanzo, Se questo è un uomo si
impose come uno dei più importanti libri sull'Olocausto, ottenendo un enorme
successo. Il romanzo racconta il periodo di circa un anno trascorso ad Auschwitz; fu
scritto sotto l'impulso di rendere partecipi tutti gli uomini delle atrocità e degli orrori
del lager e si propone come una testimonianza e un monito per le future
generazioni. A questo scopo Levi utilizza una prosa "scientifica" e uno stile analitico
e rigoroso, che procede in modo argomentativo per dimostrare, da un lato la
razionalità della macchina di sterminio messa in piedi dai tedeschi, dall'altro per
persuadere il lettore della veridicità delle sue affermazioni, rinunciando a toni
retorici e dominati dall'emozione del ricordo. I fatti narrati sono infatti filtrati
attraverso l'occhio di Levi autore, che in questo modo si distingue dal Levi narratore.
Da Se questo è un uomo: I sommersi e i salvati
Di questo capitolo, centrale nella struttura del libro, riportiamo due passi: nel primo,
Levi analizza la situazione dei “sommersi”, cioè delle persone che non hanno saputo
scoprire le regole di sopravvenienza nel lager e, in quanto non-uomini, sono
diventati essi stessi la causa della propria rovina; nel secondo, l’autore porta
l’esempio di un uomo, l’ingegner Alfred L., che, grazie alla sua caparbia volontà di
“non essere confuso col gregge”, con la massa degli altri detenuti, è riuscito a
ottenere un posto di responsabilità nella Buna. È un tipico esempio di “salvato”.
Da Se questo è un uomo: Il canto di Ulisse
Levi, con altri sei compagni, fa parte di un Kommando chimico, una sorta di squadra
di specialisti. Con altri detenuti sta raschiando e pulendo all’interno di una cisterna
quando Jean, il “Pikolo” della squadra, cioè il fattorino-scritturale del gruppo, lo
chiama per andare a ritirare il “rancio” del giorno. L’autore lo segue volentieri, tanto
più che è una bella giornata e potrà respirare un po’ d’aria fresca. Durante il tragitto
a Levi tornano in mente alcuni versi danteschi, che cerca di spiegare al suo
compagno.
PIER PAOLO PASOLINI
Pier Paolo Pasolini è definito senza alcun dubbio come uno degli intellettuali più
importanti del secondo dopoguerra oltre che il massimo interprete della nuova
Italia repubblicana, verso la quale fu molto critico. Si scagliò contro la borghesia e a
favore della classe operaia, dei poveri e degli oppressi. Dal punto di vista politico
Pier Paolo Pasolini era di orientamento marxista, ma il suo pensiero fu sempre
indipendente. Criticò i movimenti studenteschi del ‘68 definendo i rivoltosi “figli di
borghesi che giocavano a fare la rivoluzione con i soldi di papà”. Pasolini aderì al
Partito Comunista, ne fu espulso a causa della sua omosessualità, ma interpretò
meglio dello stesso partito i principi di uguaglianza e fratellanza. Per lui la cultura
doveva intervenire nella realtà affermando dei valori. Per questo nella vita fu
sempre contro ogni pregiudizio e prepotenza, costantemente controcorrente e
anche per questo, probabilmente, fu assassinato sul litorale romano nel 1975.

UNA VITA VIOLENTA


La trama
Una vita violenta può essere definito un ROMANZO DI FORMAZIONE. Racconta la
storia di Tommasino, un ragazzo appartenente a una famiglia del sottoproletariato,
priva di un lavoro e costretta a vivere di espedienti, di crimini e di prostituzione; una
famiglia che, come tante, affollava le misere borgate della periferia di Roma nel
dopoguerra e fino agli anni Cinquanta. Il protagonista, seguendo i modelli proposti
dell'ambiente di miseria e di violenza in cui è cresciuto, commette scippi e rapine e,
dopo una lotta al coltello con un ragazzo di una banda rivale, finisce in carcere.
Scontata la pena, Tommasino progetta di cambiare vita: matura lentamente in lui la
consapevolezza dell'ingiustizia sociale che condanna al degrado e alla miseria la
gente come lui e prende la tessera del PCI, convinto di poter contribuire, con
l'impegno politico, a modificare la situazione e a dar vita a un nuovo ordine sociale.
Il difficile cammino del giovane verso un riscatto umano e civile (e questo è il motivo
per cui l'opera si può definire un "romanzo di formazione") viene però troncato:
Tommasino muore per l'aggravarsi della tubercolosi causatagli dagli stenti che ha
patito nella sua infanzia e adolescenza.
Il genere e i temi
Una vita violenta forma, insieme con il precedente Ragazzi di vita, una coppia di
romanzi di ispirazione neorealista. I protagonisti sono giovani che vivono in
condizioni di miseria, a ridosso della società evoluta di una grande città come Roma;
essi fanno parte di quel sottoproletariato che non ha lavoro, non ha istruzione e
sconta, senza colpa, le conseguenze della propria arretratezza. I romanzi hanno
dunque un valore di denuncia nei confronti dell'Italia borghese, ritenuta
responsabile della mancata promozione sociale ed economica delle classi
emarginate. Nella presa di coscienza di Tommasino, rappresentata nella seconda
parte di Una vita violenta, Pasolini esprime la speranza di una possibilità di riscatto
da questa dolorosa ingiustizia sociale.
Lo stile
Lo stile tende a imitare il modo di pensare e di esprimersi dei personaggi
rappresentati. Ne deriva che:
• i DIALOGHI dei personaggi sono in dialetto: un romanesco denso di espressioni
gergali usate dai ragazzi di borgata, quasi con l'orgoglio di mostrare la loro diversità
rude e sguaiata in contrasto con il parlare elevato dei ceti superiori;
• anche nelle parti narrative e descrittive Pasolini, pur non usando più il romanesco
come nei dialoghi, si serve di una mescolanza di lingua e dialetto, ben intonata agli
eventi che racconta.
Da Una vita violenta: Il coraggio di Tommasino
Le pagine appartengono all’ultimo dei dieci capitoli in cui il romanzo è suddiviso.
Tommasino ha preso coscienza della condizione di vita del ceto cui appartiene, il
sottoproletariato, e crede nella possibilità di una salvezza da ricercare attraverso la
lotta politica. In questo suo nuovo orizzonte di speranza e di solidarietà con gli
umiliati e gli offesi si inserisce l’episodio del gesto generoso e un po’ incosciente col
quale salva una vita.

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