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POSITIVISMO E NATURALISMO FRANCESE

Nell’800, in pochi decenni, assistiamo a grandi cambiamenti su tutti i fronti: incontriamo in Italia autori
come Giovanni Verga, Giosuè Carducci, Giovanni Pascoli, Gabriele D’Annunzio, Italo Svevo. Anche a
livello storico assistiamo a grandi trasformazioni politiche, come l’unità d’Italia nel 1861, quella della
Germania nel 1870. Il positivismo è una corrente filosofica che nacque in Francia grazie a Spencer, Darwin
e Comte; è caratterizzato da una straordinaria fiducia nelle capacità conoscitive della scienza, che è l’unica
forma di conoscenza possibile (afferma Comte) e tutti i campi del sapere devono applicare il suo metodo se
vogliono migliorare il mondo in cui viviamo. Il positivismo concepisce la realtà come un complesso di forze
materiali meccaniche in movimento stabilite da precise leggi della natura: compito della scienza è quello di
studiare queste leggi in vista di un continuo progresso. Scienza e progresso sono quindi i concetti attorno a
cui ruota la filosofia del positivismo. Il progresso, per Comte e i positivisti, è inteso solo come progresso
materiale, cioè un modo per liberare l’uomo dai suoi mali fisici, psichici e sociali; il termine positivismo, non
indica la visione entusiasta di questi pensatori, ma è un termine che deriva dal latino “positum”, ovvero
“fondato su leggi scientifiche” e quindi vero (non a caso in Italia parleremo di Verismo). Le cause della
nascita di questo pensiero sono da cercare nell’incredibile sviluppo tecnologico prodotto dalle due grandi
rivoluzioni industriali, che in poco più di 100 anni avevano cambiato il mondo occidentale in tutti i suoi
aspetti (es: nasce la vita notturna). Questo clima di enorme fiducia nella scienza influenzò un altro
movimento nato sempre in Francia: il Naturalismo, che è trasposizione artistica della filosofia del
Positivismo. I maggiori esponenti del Naturalismo francese furono: il precursore Honoré de Balzac, i fratelli
Goncourt, Flaubert, Maupassant e, l’autore di riferimento per tutto il movimento letterario, Emile Zola, che
scrisse il “Romanzo Sperimentale” del 1880, da cui sono tratti i concetti principali della scuola naturalista. Il
positivismo influenzò il naturalismo almeno per 3 fattori:
1. per la grande spinta verso il realismo dei romanzi, verso una descrizione il più possibile oggettiva,
una vera e propria fotografia.
2. la cosiddetta scientificità dell’opera d’arte: anche il romanzo deve applicare il rigoroso metodo
sperimentale della scienza per diventare un vero e proprio documento umano. Lo scrittore si deve
comportare come uno studioso in camice, recarsi nel luogo in cui vuole ambientare il romanzo e
compiere uno studio sulla realtà storica, sociale e topografica delle città. I naturalisti sono
attentissimi anche alla lingua. Il romanzo diventa un esperimento sociale, espone e dimostra le leggi
che regolano i rapporti umani del presente e quindi si propone di dimostrare delle ipotesi
sociologiche.
3. la visione deterministica della realtà: il determinismo è una concezione secondo cui la realtà
procede su rapporti meccanici di causa ed effetto, date alcune premesse sono necessarie le
conclusioni; ciò si può ben vedere nella legge dell’ereditarietà, ogni uomo, e quindi anche il
personaggio all’interno dei romanzi, nasce già condizionato da 3 fattori (come sostiene Taine):
l’indole, ovvero il complesso dei caratteri ereditari, l’ambiente, ovvero l’educazione ricevuta, e
infine l’epoca storica nella quale vivi, non c’è libertà di scelta davanti al destino.
I naturalisti non scriveranno semplici romanzi, ma veri e propri cicli di romanzi, per mostrare il
determinismo meccanico della legge dell’ereditarietà. Tra i vari protagonisti dei romanzi ci saranno dei
rapporti di sangue. Il grande nemico letterario del naturalismo è il Romanticismo, che esaltava la libertà,
l’originalità, la possibilità idealista di miglioramento, il sentimento. Il personaggio dei romanzi naturalisti,
non è più l’eroe romantico, ma è un individuo concreto proveniente da un determinato ambiente e
identificato da una determinata indole, dovuta alla trasmissione ereditaria di caratteri genetici. Questa
opposizione al romanticismo, possiamo notarla anche nella nuova tipologia di narratore che questi autori
creano: non siamo più davanti al narratore giudicatore è soggettivo del romanticismo, ma ad un narratore
fortemente impersonale che non espone mai il proprio punto di vista ma lascia parlare i fatti, è
oggettivo e freddo, è quindi il lettore a trarre la conclusione in base agli indizi che il narratore dà. Per i
naturalisti l’arte deve avere una funzione chiara, ovvero una funzione sociale, cioè denunciare i problemi
sociali che affliggono il presente, mostrarne le cause e gli effetti, affinché coloro che hanno in mano il potere
politico possano migliorare la società; infatti per i naturalisti, il progresso è un mezzo irrinunciabile per
migliorare le condizioni di vita di tutti gli individui, in particolare di coloro che vicino ai margini delle nuove
metropoli, gli operai sfruttati, le prostituite e gli orfani. I protagonisti dei romanzi naturalisti, infatti, sono
spesso casi patologici, ossia portatori di malattie fisiche o psichiche. Questo accade nel famoso romanzo di
Zolà, l’ammazzatoio. I naturalisti vogliono farci vedere ciò che noi preferiamo non vedere.
IL VERISMO
È una corrente letteraria che si sviluppa attorno alla metà degli anni 70 dell’800 e finirà grosso modo alla
fine del secolo. Il Verismo si sviluppa sotto l'influenza del clima positivista e si ispira direttamente al
Naturalismo francese con cui condivide l'avversione nei confronti del romanticismo, in particolare punta al
superamento del romanzo storico, infatti tutti i testi veristi saranno ambientati esclusivamente nel presente. Il
verismo parte da un rifiuto netto del sentimentalismo romantico: nel Romanticismo il narratore penetrava
nell'anima dei personaggi, nel Verismo invece gli autori vogliono semplicemente presentare dati oggettivi e
osservabili in modo che sia il lettore a giungere a delle conclusioni e a dei giudizi. Il carattere dei personaggi
deve emergere a poco a poco come dice Verga, “un personaggio dovrebbe farsi da sé”. Il più importante
teorico del verismo è Luigi Capuana, egli può essere considerato l'autore di raccordo tra il naturalismo
francese e il verismo italiano. Capuana fu il primo a leggere i romanzi francesi e a credere che anche nel
nostro paese dovesse nascere una letteratura di denuncia su base scientifica. Capuana a Firenze conoscerà
Giovanni Verga, capirà il suo valore artistico e lo convincerà a iniziare con lui questa avventura, Verga
infatti prima di aderire alla fase verista era un romantico e il romanzo. Capuana oltre a scoprire Verga
qualche anno dopo scoprirà anche Luigi Pirandello la cui prima fase sarà verista. Federico de Roberto è il
terzo esponente più significativo del verismo con il suo romanzo “i vice re”, di Roberto è di una generazione
più piccola rispetto a Verga e Capuana ma diventerà grande amico dei due. Differenze tra Naturalismo e
Verismo:
1. il naturalismo ha carattere nazionale, mentre il verismo ha carattere regionale . Ciò significa che il
naturalismo si sviluppa in tutta la Francia e ha autori provenienti da diverse città, il Verismo invece
si sviluppa esclusivamente in Sicilia e in parte in Calabria
2. l'ambiente in cui sono rappresentati i romanzi: nel naturalismo si tratta di una realtà urbana, nel
verismo invece troviamo paesi e province, una realtà rurale
3. i personaggi: nei romanzi naturalisti i personaggi sono tendenzialmente provenienti dal proletariato
urbano o comunque provenienti dalla città, quindi borghesi, operai o anche prostitute. Invece i veristi
trattano esclusivamente di pescatori, pastori e contadini.
4. la funzione sociale dell'arte: per i naturalisti francesi il romanzo doveva denunciare i mali della
società e innanzitutto i problemi legati alla forte industrializzazione della Francia, ad esempio il
problema dell'alcolismo, della prostituzione, dello sfruttamento minorile. Invece nel verismo italiano
la funzione sociale dell'arte è esaudita dalla denuncia di uno dei problemi più gravi dell’Italia appena
unita, cioè la questione meridionale, il latifondismo, i contrasti tra ceti sociali, l'analfabetismo, la
superstizione, il forte fatalismo e tutti i problemi che affliggono il meridione d’Italia. Da una parte il
nord che inizia ad essere industrializzato ed economicamente più avanzato e dall'altra un sud fermo.
5. la lingua: i naturalisti francesi utilizzano una lingua mimetica, ovvero a seconda della regione o
della città in cui è ambiente il proprio romanzo, compiendo uno studio linguistico sulla parlata locale
e di conseguenza la imitano fedelmente all'interno dei loro romanzi. Ciò non accade nel verismo:
Verga è siciliano, ambienta tutte le sue opere in Sicilia, i suoi personaggi sono siciliani e di
conseguenza come lingua usata ci verrebbe da dire il dialetto siciliano, ma in realtà Verga utilizza un
italo toscano con qualche modo di dire proveniente dalla realtà locale siciliana. I veristi hanno una
grande attenzione nel creare una lingua che riesca a imitare la sintassi elementare e disarticolata di
personaggi provenienti da una scarsa cultura. Sceglie l’italiano perché il pubblico al quale si rivolge
Verga deve capire questi romanzi, che non sono i siciliani che stanno male, bensì è il pubblico
elettivo il lettore ideale, la borghesia ambrosiana milanese che ha in mano il potere di cambiare le
sorti del meridione.
6. l'impersonalità del narratore: potremmo definire il narratore impersonale naturalista che sta dalla
parte dell'autore, mentre il narratore impersonale verista sta dalla parte dell'opera. Il narratore
naturalista si presenta come uno scienziato in camice che documenta senza minimamente far
apparire il suo personaggio; il narratore di Verga invece attua una vera e propria regressione al punto
di vista popolare presentando quindi un narratore che a volte giudica, o meglio presenta dei giudizi
che sono dei veri e propri pregiudizi popolari, un esempio è l'incipit di Rosso Malpelo. Verga non
crede assolutamente a questo pregiudizio, ha creato però un narratore e l'ha fatto regredire al punto di
vista popolare per riuscire a presentare in modo più oggettivo possibile al lettore il pensiero
ignorante di un paese della Sicilia. Dunque, da una parte un narratore impersonale che è tutto rivolto
dal punto di vista dell’autore, dall'altra un narratore impersonale che invece è completamente
immerso all'interno dell'opera. Per questo motivo Luigi Capuana dirà che alla fotografia dei
naturalisti lui preferirà il quadro. Il quadro è fatto di un artificio letterario, di mezzi e tecniche che
Verga sta creando in questi anni per riuscire a creare il suo narratore. Una delle più importanti oltre
alla regressione del narratore è l'uso dell'indiretto libero: il racconto presenta un affermazione senza
virgolette che potrebbe essere pronunciata tranquillamente dal personaggio, in realtà il narratore che
la dice e in questo modo si confondono i pensieri del personaggio con le parole del narratore

GIOVANNI VERGA
Nacque a Catania nel 1840, da una famiglia di agiati proprietari terrieri. Compì i primi studi presso maestri
privati, in particolare il letterato Antonino Abate, da cui assimilò il patriottismo e il romanticismo. Un
esempio è il suo primo romanzo, Amore e Patria, scritto quando aveva 16 anni, e rimasto inedito. I suoi
studi superiori non furono regolari: iscritto a 18 anni alla Facoltà di Legge a Catania, col denaro datogli dal
padre per concludere i suoi studi, pubblicò il suo secondo romanzo “I carbonari della montagna”,1861-
1862. Si discosta dalla tradizione di autori che hanno una cultura umanistica, i testi su cui si forma sono
quelli degli scrittori moderni, ai limiti con la letteratura di consumo, ovvero scrivere per il mercato. Nel
1865 Verga va una prima volta a Firenze, dove torna nel 1869 e soggiorna per lungo tempo. Nel 1872 si
trasferisce a Milano, qui entra in contatto con gli ambienti della Scapigliatura (i poeti vengono definiti
maledetti, sul modello dei naturalisti francesi). Nel 1878 si ha la svolta verso il Verismo con la
pubblicazione di Rosso Malpelo ,seguono nel 1880 le novelle di Vita dei Campi, nel 1881 si ha il primo
romanzo il ciclo dei Vinti, ossia I Malavoglia ,nel 1883 le Novelle rusticane e Per le vie, nel 1884 il dramma
Cavalleria rusticana, nel 1887 le novelle di Vagabondaggio. Nel 1889 il secondo romanzo del ciclo, Mastro-
don Gesualdo. Negli anni successivi Verga lavora al terzo, la Duchessa di Leyra, ma non riesce a portarlo a
termine. Dal 1893 torna definitivamente a Catania. Dopo il 1903, anno della pubblicazione del suo ultimo
dramma Dal tuo al mio, Verga si chiude in un silenzio totale. La sua vita è dedicata alla cura delle sue
proprietà agricole. Le lettere di questo periodo mostrano un inaridimento anche della passione che prova per
la contessa Dina Castellazzi di Sordevolo. Le sue posizioni politiche si fanno più conservatrici. Allo scoppio
della prima guerra mondiale è un interventista (ossia coloro che volevano l’intervento dell’Italia in guerra) e
nel dopoguerra si schiera dalla parte dei nazionalisti. Muore nel gennaio del 1922(anno della marcia su Roma
e salita al potere del fascismo).
POETICA
Il “periodo catanese” coincide con la produzione giovanile dell'autore. Verga in questa fase è molto vicino
al gusto del romanticismo e in particolare a quel movimento storico che è il risorgimento; fanno parte di
questa fase i romanzi: amore-patria, che scrive quando aveva appena 16 anni, i carbonari della montagna
del 1861 in cui Verga racconta la resistenza dei partigiani calabresi durante l'invasione dei francesi guidati da
Gioacchino Murat attorno al 1810; in seguito sulle lagune nel 1863 che racconta una storia d'amore
ambientata a Venezia il cui modello è “le ultime lettere di Jacopo Ortis” di Ugo Foscolo. In seguito una
peccatrice del 1866 iniziato a Catania e poi conclusa a Firenze, una storia d’amore-passione e anche questa
molto vicina al gusto del romanticismo.
Il 2° tempo della produzione di Verga riguarda il cosiddetto “periodo fiorentino” che va dal 1869-72: in
questa città Verga comporrà un romanzo di un certo successo che è storia di una capinera pubblicato nel
1871, egli lo definirà una storia intima: la protagonista è Maria, un'orfana da parte di madre cresciuta in un
collegio e destinata a diventare monaca. Ha l'occasione di trascorrere un periodo a casa del padre, finalmente
quindi esce dal collegio dove era rinchiusa e ha l'occasione di scoprire cosa c'è cosa nella vita e si innamora
di un ragazzo che si chiama Nino; purtroppo non può sposarlo perché Maria non ha la dote quindi alla fine si
farà suora ma continua a pensare al suo amore. Nel frattempo Nino sposa la sorellastra di Maria e la ragazza
per la delusione amorosa si ammalerà gravemente quasi fino ad impazzire.
Il 3° tempo della produzione di verga, il cosiddetto “periodo milanese” va dal 1872-93: qui Verga entrerà in
contatto con la scapigliatura milanese, frequenterà i salotti letterari e i caffè e noterà soprattutto a Milano
quella che lui chiama “l'ansia per il benessere”. Comporrà nel primo periodo tre romanzi che sono Eva del
73, tigre reale ed Eros entrambi del 75: questi romanzi sono ancora legati al tardo gusto romantico,
l'ambiente altoborghese raffinato e l'amore viene visto semplicemente come un’evasione dalla noia
quotidiana. Nel frattempo, Verga aveva conosciuto Luigi Capuana e tra i due nasce un fervido rapporto
letterario e non è un caso che nel 1874 venga pubblicata “Nedda”, considerata una tappa decisiva verso
quello che sarà poi il verismo (Verga la definirà un bozzetto siciliano). La storia di Nedda è estremamente
triste: è una ragazza orfana che lavora duramente raccogliendo le olive per mantenere la madre malata. Nel
corso del racconto la madre morirà e la ragazza si innamorerà di un giovane contadino Jano, anche
quest'ultimo si ammalerà di malaria e morirà cadendo da un albero. Nedda era rimasta incinta e si rifiuta di
consegnare il povero bambino agli orfanotrofi dove venivano consegnati i figli illegittimi; in questo modo
subirà la condanna da parte del prete e del paese intero. Alla fine del racconto la piccola bambina nata,
morirà. Nedda, come dice Verga, è una vicenda vera legata a dolori veri di gente vera che lotta per la vita (si
crede infatti che questo racconto Verga l'abbia ascoltato in età infantile). Non c'è però ancora pienamente
un'adesione al Verismo in quanto il narratore non è ancora impersonale.
VITA DEI CAMPI
Le opere più propriamente veriste sono innanzitutto la raccolta di novelle “Vita dei Campi” pubblicata nel
1880 che conta 8 novelle nella prima edizione a cui poi verrà aggiunto un altro testo e diventeranno 9. È di
ambientazione siciliana, i protagonisti sono contadini, pastori, minatori.
Ci sono tre testi molto importanti: il primo è “Fantasticheria”, il secondo è “Rosso Malpelo” e il terzo è
“L'amante di Gramigna”.
 Fantasticheria: è una novella un po' particolare rispetto alle altre perché assume la forma di una
lettera rivolta a un'amica del nord che aveva compiuto un viaggio in Sicilia accompagnata da Verga
durante una vacanza, era stata ad Acitrezza (sfondo dei Malavoglia). Aveva compiuto un giro in
barca ed era rimasta affascinata dalle bellezze del paesaggio siciliano, aveva comprato le arance da
una piccola donna che sarà poi la Longa dei Malavoglia; insomma questo paesaggio bellissimo
opposto alla grigia città milanese l'aveva fortemente infiammata. Tant'è che a un certo punto afferma
di voler rimanerci un mese intero, dopo questa affermazione al terzo giorno la donna è già con i
bagagli pronti per ripartire verso Milano, in quanto la donna è meravigliata dal fatto che gli abitanti
della Sicilia compiono quotidianamente sempre gli stessi gesti, tutto è ripetitivo e monotono a
differenza di Milano. La donna è in fondo la metafora del pubblico ideale elettivo al quale si rivolge
verga, ovvero la borghesia ambrosiana milanese che non riesce a cogliere quello che è “L’IDEALE
DELL’OSTRICA”: lui chiama ostrica quella che in realtà è la cozza l'ostrica, che vive attaccata allo
scoglio e da esso trae tutto il nutrimento necessario per continuare a vivere. Se però l’ostrica si
stacca dallo scoglio convinta che in mare ci sia un posto migliore dove vivere, i pesci sono pronti a
mangiarsela. Verga è infatti un convinto conservatore: secondo lui ognuno deve rimanere al proprio
posto, in particolare gli umili, altrimenti si perderebbero nel mondo. Il mondo della città invece è in
continua evoluzione e non è soggetto all'ideale dell'ostrica, infatti la donna milanese con la sua
rendita da centomila lire al giorno, può permettersi di cambiare vita ogni giorno a differenza dei
contadini, dei pastori siciliani che se tentassero di migliorare il proprio stato, affonderebbero.
 La novella più importante è Rosso Malpelo: è un ragazzo che lavora in una miniera di rena. Il
narratore non ci comunica il suo nome poiché tutti lo chiamano Rosso Malpelo fin dalla nascita, egli
infatti è nato con i capelli rossi e di conseguenza seguendo il pregiudizio popolare è cattivo. Ci viene
presentato da Verga attraverso la tecnica della regressione del narratore, ovvero il narratore
regredisce al punto di vista popolare e ci presenta il ragazzo come cattivo, persino la madre e la
sorella lo trattano malissimo. L'unico che gli vuole bene è il padre Mastro Misciu, detto la bestia, un
grandissimo lavoratore che viene trattato come un animale da soma, accetta i lavori più duri e più
umili pur di portare qualche soldo in più a casa. Un sabato accetta di mettere al sicuro un pilastro
all'interno della miniera e Malpelo lo aiuta; durante questo lavoro nella miniera c'è un crollo e
Mastro Misciu rimane sepolto vivo. Subito gli operai corrono dal proprietario della miniera per dirgli
che mastro Misciu è rimasto sepolto e, il proprietario, essendo passate 3 ore, dice che ormai non c'è
più niente da fare, quindi tranquillamente se ne ritorna a godersi il suo teatro. Malpelo è disperato,
scava con le unghie alla ricerca del padre nei giorni successivi, tratta tutti malissimo. A un certo
punto troverà una scarpa del padre e rimane terrorizzato da questo e si allontana dal luogo dove è
rimasto sepolto il padre. Nei giorni seguenti apparirà il cadavere e si scopre che in realtà mastro
Misciu era rimasto incastrato nella miniera e quindi è morto di stenti e se i soccorsi fossero
intervenuti tempestivamente forse si sarebbe salvato. La madre non capisce il disagio di Malpelo e
l'unica cosa che fa è adattare la camicia e i pantaloni del padre alla statura del figlio. Malpelo è molto
orgoglioso di portare questi abiti, in particolare i pantaloni: li tocca e sembra che siano dolci e lisci
come le mani del padre quando gli accarezzavano i capelli, le scarpe le appende in casa, diventano
quasi sacre. Qui il narratore ci dà un giudizio popolare rimuginando sui pensieri nella “testaccia di
Malpelo”: questa è la tecnica dello straniamento, ovvero qualcosa che per il lettore appare
normale, ma al narratore appare strano e diverso. In seguito all'interno della cava viene a lavorare un
ragazzo più giovane di Malpelo, malato e offeso a una gamba che viene chiamato da tutti Ranocchio;
si lega a Malpelo e quest’ultimo lo tratterà malissimo perché deve imparare a reagire altrimenti non
ce la farà a sopravvivere nella miniera. Lo picchia, lo insulta, ma in fondo è anche l'unico modo che
Malpelo ha imparato di voler bene a una persona. Un giorno i due osservano il cadavere di un asino
che viene mangiato dai cani e ragionano sulla morte, che secondo loro è l'unica alternativa e salvezza
nella vita. “Se non fossi mai nato sarebbe stato meglio”: questa è la vera morale della vita di
malpelo. In seguito Ranocchio si ammalerà e morirà; durante l'agonia di Ranocchio, Malpelo si
dimostra molto generoso nei suoi confronti, infatti è disposto a cedere metà del suo pane giornaliero
per aiutare l'amico. Tuttavia con la morte di Ranocchio, Malpelo si troverà completamente solo, la
sorella si sposa, la madre si risposa e lui rimarrà solo in casa. La fine del racconto è estremamente
triste: bisogna scavare un nuovo passaggio all'interno della miniera e il lavoro è molto pericoloso,
però consentirebbe di dimezzare i tempi. Tutti gli operai, soprattutto i padri di famiglia, si rifiutano
di compiere il mestiere e si rifiutano anche di mandare i loro figli. Malpelo invece è solo ed è pronto
ad affrontare questo rischio, prende gli arnesi del padre, il piccone, la zappa, la lanterna, il fiasco di
vino, e parte per non tornare più. Verga chiude la novella dicendoci che i ragazzi entrando nella cava
hanno ancora paura di vedersi apparire il fantasma di quel ragazzo cattivo che era Malpelo. Ancora
una volta la tecnica dell'indiretto libero, dello straniamento e della regressione del narratore
non ci fa percepire quella che in realtà è la figura di Rosso Malpelo, ovvero un eroe che ha
sacrificato la propria vita per salvare quella degli altri.
 L'ultima di vita dei campi è “l'amante di Gramigna”: un bandito che si innamora di una giovane
casta e pura e i due scapperanno insieme. Quello che è importante in questa vicenda è la prefazione
che può essere considerata un piccolo manifesto del Verismo, è una lettera diretta Salvatore Farina,
un editore, in cui Verga sintetizza la propria poetica: innanzitutto dice di voler fare un documento
umano, ovvero vuole puntare su fatti di cronaca attuale per stimolare gli intellettuali a riflettere sulle
tristi condizioni della Sicilia. Tutto ciò deve essere fatto attraverso la tecnica dell'impersonalità,
ovvero il narratore non deve dare giudizi sulla vicenda narrata, la storia deve farsi da sé, i dati
devono emergere come dati di fatto.
I MALAVOGLIA

La trama copre un arco di 10 anni, dall'unità d'Italia fino a data indeterminata, infatti spesso nel romanzo non
vengono indicate le coordinate temporali, sappiamo ad esempio della battaglia di Lissa, conosciamo l'anno
1866, un’epidemia di colera che investe la Sicilia nel 67 e da qui ricaviamo grosso modo le linee
cronologiche del romanzo. I Malavoglia sono una famiglia di pescatori che vive ad Acitrezza presso Catania,
il loro cognome è toscano. Il soprannome Malavoglia ha valore antifrastico, infatti è dato dagli abitanti del
paese e significa l'esatto opposto di quello che vuole dire, infatti Malavoglia dovrebbe voler dire che non
hanno voglia di lavorare, invece sono dei grandissimi lavoratori. Sono una famiglia patriarcale, composta dal
nonno padron ‘Ntoni, dal figlio Bastianazzo, sua moglie Maruzza detta “la Longa” (anche qua valore
antifrastico il soprannome, Maruzza è piccola) e i loro cinque figli, Luca, Filomena detta Mena e i più piccoli
Alessi e Lia e Fido il primogenito, che prende il nome del nonno, il giovane ‘Ntoni. Il nonno padron ‘Ntoni è
il più stimato della famiglia, egli è chiamato padrone perché possiede due status symbol che rendono la vita
di un individuo dignitosa: è possessore di una casa, la casa del Nespolo, e di una barca “la Provvidenza”,
attraverso cui compie la professione di pescatore. Padron ‘Ntoni è un lavoratore autonomo e non dipende da
nessuno, grazie a ciò i Malavoglia sono una famiglia tutto sommato agiata che riesce a sopravvivere. Il
romanzo inizia con alcuni deficit che peggiorano questa condizione:

Mena ha 18 anni, quindi è in età da marito, bisogna farle una dote e i soldi non bastano; il giovane ‘Ntoni
parte per il servizio militare, la leva di mare a Napoli, quindi due braccia in meno per lavorare; il mare ha
una minor pescosità in questo momento del romanzo; viene indetta una tassa sul sale: i Malavoglia sono
pescatori di acciughe, le salano e poi le vendono al mercato, quindi una tassa sul sale fa diminuire i
guadagni.
Per risollevare le sorti della famiglia Padrón ‘Ntoni compie un grandissimo errore, infrange l'ideale
dell'ostrica, ovvero vuole diventare commerciante: acquista quindi un carico di lupini presso zio Crocifisso,
l'usuraio del paese, per 500 lire. Queste 500 lire non le ha quindi ipoteca la casa, i lupini vengono caricati
sulla Provvidenza e Bastianazzo si incarica del viaggio, la nave purtroppo fa naufragio e Bastianazzo muore.
Non potendo pagare il debito i Malavoglia perdono anche la casa, quindi subiscono un declassamento
sociale, non sono più padroni. È importante il fatto che la barca si chiami Provvidenza perché è un chiaro
attacco a uno dei più grandi romanzi dell’800, “i promessi sposi” di Manzoni, infatti lì la provvidenza era il
motore agente della trama, faceva sì che gli umili riuscissero a risolvere i loro problemi e che gli antagonisti
o morissero o si convertissero. Verga non crede che la speranza della religione possa risollevare le sorti dei
Malavoglia, dunque iniziano per tutti i membri della famiglia una serie di disgrazie: Luca arruolatosi in
marina, morirà nella battaglia di Lissa; il giovane ‘Ntoni, che aveva compiuto la leva militare a Napoli, si
innamora della città e della vita brillante e quando torna diventa veramente un malavoglia, non ha voglia di
lavorare e quindi inizia a frequentare l'osteria. In Verga come in Manzoni c'è la contrapposizione tra la casa e
l'osteria: la casa è il luogo del bene, l'osteria invece è il luogo del male, dell'ipocrisia, dell'egoismo, del
contrabbando. Giovane ‘Ntoni lascerà la famiglia per fare fortuna nel continente, in seguito si scoprirà che si
è dato al contrabbando di vino e accoltellerà il brigadiere della guardia di dogana, don Michele, sarà fatto un
processo per cui prenderà solo 5 anni di carcere perché un abilissimo avvocato riesce a dimostrare che il suo
è stato un delitto d'onore. Infatti il brigadiere se le intendeva con Lia, la sorella del giovane ‘Ntoni,
quest’ultima agli occhi del paese risulta ormai svergognata, scapperà e inizierà a lavorare come prostituta.
Anche per gli altri Malavoglia la situazione è tragica: Padrón ‘Ntoni si ammala e morirà in ospedale,
Maruzza sarà vittima dell'epidemia di colera, Mena, che era stata promessa in sposa al figlio di padron
Cipolla, non potrà più sposarsi perché viene declassata socialmente. Lei è felicissima in realtà perché ama
compare Alfio, purtroppo però ormai Mena ha 27 anni e quindi non è più in età da marito e per non
alimentare ulteriori critiche da parte della gente del paese decide di non sposarsi. L'unico vincitore dei
malavoglia è Alessi, che per tutto il romanzo rimane attaccato allo scoglio come fa l'ostrica, rimane un
pescatore e col duro lavoro riuscirà a riscattare la casa e restaurare la barca per riportare i Malavoglia alla
certezza iniziale. Nel finale del romanzo il giovane ‘Ntoni esce di galera e si reca a casa dove trova ad
accoglierlo Alessi e Mena, i due sono felicissimi di vederlo, gli offrono un letto ma il giovane ‘Ntoni decide
di non rimanere. I Malavoglia si sono faticosamente risollevati, sia a livello economico ma soprattutto a
livello morale, se ‘Ntoni rimanesse ci sarebbe una nuova caduta morale; la mattina dopo essere tornato
guarda per l'ultima volta il suo paese e se ne va per non tornare mai più.

La prefazione da già un'ottima definizione dell'opera, perché il racconto sarà oggettivo, spassionato, senza
l'intervento dell'autore, dunque impersonale. Con i malavoglia Verga inizia il cosiddetto “ciclo dei vinti”, 5
romanzi su coloro che volevano migliorare la loro condizione ma sono stati sconfitti da quella che l'autore
chiama “la fiumana del progresso”, un'immagine con cui Verga paragona il progresso a un fiume
inarrestabile e devastante; il ciclo vuole rappresentare come la lotta per la vita si estenda dal “cenciaiolo”,
mestiere più umile, fino al ministro. Il ciclo dei vinti doveva prevedere cinque romanzi, in cui vuole
rappresentare cinque classi sociali diverse tutte alla ricerca di una condizione migliore che cambia a seconda
della classe sociale, ma Verga ne scriverà soltanto 2.

Il primo romanzo sono “i Malavoglia”, il secondo romanzo “mastro don Gesualdo”, terzo romanzo non
scritto “la duchessa di Leyra”, il quarto romanzo “l'onorevole Scipioni”, il quinto romanzo “l'uomo di
lusso”. La prefazione dei Malavoglia si ordina in due tipi di considerazioni: alcune di carattere letterario
sull'impersonalità, in secondo luogo alcune di carattere sociale dove Verga presenta la sua concezione del
progresso, che non porta mai alla felicità individuale. Ogni pagina del romanzo è strettamente collegata alla
pagina successiva, il narratore non deve mai intervenire non dare mai giudizi, mimetizzarsi il più possibile,
regredire nel coro delle voci del paese i metodi attraverso cui Verga realizza l'impersonalità sono
principalmente 4:

1. la regressione del narratore;


2. il discorso indiretto libero;
3. lo straniamento e il contro-straniamento, lo straniamento consiste nel presentare come strani dei
fatti in realtà sono normali, il contro-straniamento invece è l'esatto contrario, cioè presentare come
normale ciò che in realtà è strano; 4. l'uso narrativo del dialogo, Verga spesso presenta la trama non
attraverso il narratore ma attraverso i dialoghi della gente che di solito hanno una funzione
psicologica, ci aiutano a capire il carattere del personaggio.
NOVELLE RUSTICANE

Nella seconda fase che comprende le novelle rusticane e mastro don Gesualdo, tutti i personaggi sembrano
dominati da un unico ideale che diventa il motivo centrale di questa fase, LA ROBA. Per roba Verga intende
l'avidità di ricchezza e l'accumulo di beni materiali. Le Novelle rusticane sono una raccolta di 12 novelle
pubblicata nel 1883, 2 sono i testi più importanti di questa raccolta:

1. Libertà: una novella che unisce la tematica della roba e della politica. Racconta un episodio
realmente accaduto nel 1860 a Bronte, paese ai piedi dell’Etna, siamo all'indomani dell'arrivo di
Garibaldi e dei suoi mille in Sicilia. Sul campanile della chiesa sventola una bandiera tricolore e
inizia così una violenta rivoluzione dei poveri contadini contro i padroni delle terre. I contadini
uccidono, il barone, il prete, il guardaboschi, lo sbirro, colpiscono anche persone innocenti come
donne e bambini, in particolare il figlio del notaio e il neonato della baronessa. Essi sono convinti
che con l'arrivo dell'unità d’Italia la libertà significherà ridistribuzione della roba e quindi della terra.
All'arrivo di Nino Bixio dei garibaldini i contadini vengono puniti: l'ottica che emerge è quella
conservatrice, ognuno deve rimanere al suo posto, l'ideale dell'ostrica, non ci si ribella al padrone.
Alcuni vengono fucilati sul posto, altri dopo un processo che dura tre anni verranno condannati
all'ergastolo e ai lavori forzati. Con l'unità d’Italia è cambiata la famiglia reale, dai Borboni si è
passati ai Savoia.
2. La roba: il protagonista è Mazzarò, un contadino poverissimo che lavora come bracciante ma grazie
alla sua tenacia e abilità riesce a comprarsi tutte le terre del barone. Egli però non si gode la sua
ricchezza perché è ossessionato dall'accumulare roba. Sotto di se ha migliaia di contadini e si
lamenta che deve dare da mangiare a tutti; li tratta malissimo pur provenendo dalla loro stessa
estrazione sociale. A Mazzaro non interessano i soldi, sono soltanto un mezzo per acquistare altra
roba, indossa vestiti sgualciti, non si sposa e non ha figli perché costerebbero troppo; addirittura
ricordando la madre morta la maledice perché il funerale gli è costato ben 12 tari. Alla fine del
racconto, ormai vecchio, si dispera non perché deve morire ma perché non può portarsi tutta la sua
roba con sé e chiama questa “un’ingiustizia di Dio”. Invidia i ragazzi perché hanno l'unico bene che
lui ora non può comprare, la giovinezza. In punto di morte in un momento di follia inizia a
distruggere tutto ciò che ha, uccide le sue anatre, le sue galline al grido “roba mia vienitene con me”.

MASTRO DON GESUALDO

È un romanzo che uscì a puntate nel 1888 e in volume nell’89. Il titolo è un vero e proprio ossimoro, accosta
due termini che non potrebbero stare insieme, mastro (muratore) e don (nobile). Gesualdo infatti tenterà di
diventare un nobile partendo da questa umile professione. Proprio come nella novella “la roba”, Gesualdo
Motta è un muratore, il padre Nunzio ha una fornace in cui vengono cotti i mattoni e da buon patriarca
vorrebbe che il figlio lavorasse li. Gesualdo va invece a lavorare per lo zio e risparmiando, investe i soldi con
intelligenza e diventa il più ricco non solo del paese ma dell'intera regione. Il romanzo comincia proprio con
Gesualdo che è già ricco e non ha più voglia di rimanere in famiglia dove sente sia l'ostilità da parte del
padre che da parte della sorella che gli spilla i suoi preziosi denari. A differenza di Mazzarò, Gesualdo
compirà un grandissimo errore, si sposerà. Egli ha già avuto due figli da una serva, la trovatella Diodata
innamoratissima di lui. Non la sposa e lei accetta la decisione ma nonostante sia completamente subordinata
al suo padrone, egli non riconosce i due figli e li manda all'orfanotrofio. A questo punto viene combinato un
matrimonio con la famiglia più nobile del paese, “i Trao”, nobilissimi ma allo stesso tempo poverissimi e
sono mantenuti dai loro cugini. La famiglia in casa ha una giovane, Bianca che all'inizio del romanzo è stata
scoperta in camera da letto con il suo amante, il baroncello Ninì Rubiera. Don Diego Trao, il fratello, si
reca dalla baronessa Rubiera per organizzare un matrimonio, tuttavia questo sfuma perché i Trao non hanno
soldi e quindi non possono permettersi neanche una dote. Gesualdo si presenta come l'unica soluzione per
Bianca ormai compromessa. I due si sposeranno ma avranno sempre l'ostilità dei fratelli che per orgoglio si
oppongono a un muratore arricchito e lo snobberanno per tutta la vita. Bianca in fondo vuole bene a
Gesualdo ma è freddissima con lui. I due hanno avuto una figlia Isabella che sarà la protagonista del terzo
romanzo di Verga, “la duchessa di Leyra”. Isabella è in tutto e per tutto come la madre e Gesualdo nei suoi
confronti compirà un errore grandissimo, la farà educare in uno dei più prestigiosi collegi di Sicilia; lei si
vergognerà del padre in collegio e darà il cognome della madre. Quando Gesualdo andrà a trovarla tutti lo
saluteranno come il signor Trao e questo sarà per lui una grandissima umiliazione. Comincia a poco a poco
la crisi di questo personaggio, Isabella ha una relazione con un giovane di nobile famiglia ma poverissimo,
un poeta che sarà il protagonista del quinto romanzo del ciclo dei vinti, cioè “l'uomo di lusso”. Gesualdo si
oppone a questa unione dalla quale nascerà tra l'altro un figlio illegittimo che sarà il protagonista del quarto
romanzo, “l'onorevole Scipioni”. Bisogna sposare Isabella e si presenta un'occasione, il duca di Leyra
nobilissimo ma senza soldi, interessato solo alla dote della ragazza. I due si sposeranno e il duca di Leyra
inizierà a vivere una vita sfarzosissima e brillante con i soldi del suocero. Gesualdo è sempre più solo,
snobbato dai membri della nuova famiglia e privato anche dell'affetto degli amici, si chiuderà in una
solitudine sempre più rancorosa. Il finale del romanzo è ancora una volta molto tragico: la moglie di
Gesualdo, Bianca morirà di tisi e lui stesso scoprirà di essere malato di cancro allo stomaco. Non potrà più
vivere da solo e sarà costretto a trasferirsi a Palermo nel palazzo dell'odiato genero della figlia. Prima di
recarsi qui compie lo stesso gesto di Mazzarò: distrugge la sua roba, strappa le sementi dai campi e ammazza
gli animali da cortile. Giunto nel palazzo verrà relegato all'interno di un mezzanino con i servi. Non ha più
un rapporto con la figlia e morirà solo nell’indifferenza generale.

IL DECADENTISMO

Un movimento che ha segnato profondamente la letteratura, l'arte e più in generale la storia del pensiero
occidentale, fu una tendenza di pensiero, un movimento culturale che influenzò tutte le arti, in particolare la
poesia. Precisamente nacque in Francia attorno all’1880 ed è quindi parallelo al positivismo, è infatti un
movimento di ribellione e contestazione proprio al positivismo, prima di tutto contro l'ottimismo della
scienza e della borghesia. Il decadentismo si estende fino alla fine della Prima guerra mondiale, 1918,
sebbene sia difficile stabilire esattamente quando l'influenza di questo movimento si esaurisca. Molte
correnti artistiche del 900 devono alcuni aspetti delle loro poetiche proprio al decadentismo. Il termine
Decadentismo venne coniato in senso negativo per definire un gruppo di intellettuali, i cosiddetti “poeti
maledetti”, che vivevano una vita sregolata e non condividevano l'ipocrita ottimismo ufficiale della
borghesia e del positivismo. Il nome del movimento è una forma di insulto, una presa in giro, che questi
pensatori, poeti, artisti, accettarono in modo polemico fondando nel 1886 la rivista “le décadente” e
proponendo così una nuova definizione del termine decadente e un nuovo modo di pensare che, anziché
esaltare il progresso con tutte le sue ombre, consacra invece la decadenza, l'irrazionalità con tutte le sue
accecanti illuminazioni. Il più grande ispiratore fu Charles Baudelaire, il suo capolavoro “i fiori del male”
1857, insieme ad “ossi di seppia” di Eugenio Montale, sono senza dubbio tra le raccolte più importanti per la
poesia dal decadentismo. Dal decadentismo discendono due correnti letterarie : il “simbolismo”, al cui
interno troveremo alcuni dei poeti maledetti, e “l'estetismo”, che può essere definito quasi come un
atteggiamento tipico di alcuni artisti decadenti. Spesso il decadentismo viene studiato come una forma di
estensione o prolungamento estremizzato del Romanticismo, le differenze tra i due pensieri sono:

 il poeta romantico: è un uomo di azione, un poeta animato da un forte sentire che lo porta sempre
ad agire e a combattere per la libertà, per l’unità d’Italia
 il poeta decadente: ama vedersi vivere, è passivo, predilige l'indagine interiore piuttosto che il
confronto con la società, l’ostacolo principale contro cui combatte non è esterno bensì è un mostro
che si agita dentro il suo io

Da una parte il poeta romantico si sente un vate, una guida, non solo politica ma spirituale, che può animare
il popolo al sentimento di libertà, dall'altra il poeta decadente, chiuso invece nella sua soffitta, sotto l'effetto
di stupefacenti, si pone come un veggente che vede ciò che la massa non riesce a vedere attraverso foreste di
simboli. La natura fortemente polemica e contestatrice del decadentismo su tre piani:

Sul piano filosofico, il decadentismo è il nemico dell'ottimismo, del positivismo: la scienza non è per loro
l'unica forma di conoscenza, la realtà non è soltanto materia, ma spirito, la verità non è ciò che cade sotto ai
sensi ma ciò che è nascosto dal mistero invisibile che sta al di là delle cose. La ragione viene così svalutata
come strumento di conoscenza e sostituita da forme di conoscenza irrazionali come l'immaginazione, il
sogno, la fantasia. Bisogna utilizzare l'intuizione, procedimento conoscitivo immediato quasi irrazionale,
un'illuminazione spontanea che può bucare la rete della realtà e mostrarci ciò che c'è dietro. Sul piano etico
sociale il decadentismo si pone contro i modelli borghesi, contro il moralismo, il perbenismo e contro
l'ipocrisia di questa classe sociale che domina l’800: il borghese ha una facciata impeccabile, è educato,
colto, ben vestito, ma in realtà sfrutta gli operai nelle fabbriche, permette che i bambini compiano mansioni
pericolosissime ed è proprio questa maschera che i decadenti rifiutano, loro si autoemarginano da una società
in cui non si riconoscono e da cui sono emarginati. Sul piano letterario gli autori decadenti si schiereranno
contro il naturalismo e il verismo perché tali correnti si limitavano a rappresentare la realtà esteriore e
oggettiva, senza penetrare gli aspetti più profondi della natura dell'uomo. Sono i primi poeti a capire e
cercare di tradurre in letteratura, l'inconscio, il poeta tenta di mettere in versi le emozioni, gli istinti, gli
impulsi che sono rivelati attraverso i sogni o attraverso gli stati di coscienza alterati dovuti all'assunzione di
droghe. Carducci, all'interno di una delle sue poesie più famose che gli valsero il premio Nobel per la
letteratura, scrisse una vincente definizione di decadentismo: “o qual caduta di foglie, gelida, continua,
multa, greve, sull'anima”, questo clima culturale è come un autunno infinito, non più scaldato dal sole della
razionalità, bensì gelido in cui piove pesante, “greve” e tutto questo avviene nell’interiorità della nuova
coscienza moderna. I decadenti furono i primi a parlare di inconscio, sebbene non in termini scientifici.

IL SIMBOLISMO FRANCESE

Il simbolismo è sicuramente la migliore espressione del clima decadente il cui fondatore fu Charles
Baudelaire, autore nel 1857 dei “i fiori del male”, la raccolta di poesie più importanti e rivoluzionarie
dell'800 e forse dell'intera modernità letteraria, opera che venne la censura e condannata perché troppo avanti
per essere capita nel suo presente ma che diventerà il fondamento del movimento simbolista 30 anni dopo
quando, nel 1886, Jean Moreau fondò la rivista “le simbolist”. I più importanti esponenti del simbolismo
furono Rimbaud, Mallarmé, ma anche Verlaine sebbene non aderì mai alla separazione simbolista dai
decadenti. Proprio quest’ultimo, nel 1884 coniò l'espressione di “poeti maledetti” per definire un gruppo di
intellettuali alla ricerca di forme poetiche sempre nuove, sconosciute al grande pubblico, che conducevano
una vita sregolata, ricercavano l'estasi. Come scrisse Baudelaire “il poeta della modernità ha perso l'aureola”,
è libero dal peso della morale, dall'essere una guida per il popolo, può andare a prostitute senza nascondersi.
Con i simbolisti cambia radicalmente il ruolo del poeta e della poesia: la poesia acquista un potere
gnoseologico, ovvero una capacità conoscitiva, alternativa alla scienza; le poesie, che fino a quel momento
erano state scritte per elogiare un signore, per cantare la bellezza di una donna o per criticare certi aspetti
della realtà, ora si poteva affermare che la poesia poteva conoscere aspetti della realtà in modo alternativo
alla scienza. Queste verità sono suggerite al poeta dai simboli, che sono delle realtà materiali che cadono
sotto ai sensi del poeta e che accendono un'illuminazione su un significato universale dell'esistenza. Questo
tipo di conoscenza è basata sull'intuizione, i simbolisti la chiameranno “poetica dell'illuminazione”, una
rivelazione istantanea che ci mostra ciò che sta dietro lo schermo del visibile. La poesia fa dunque emergere i
lati più oscuri della realtà, quelli che la scienza in fondo non riuscirà mai a spiegare. Il simbolo rispetto alla
metafora e alla similitudine è più difficile da decifrare ed è per questo che dal simbolismo in avanti e per
tutto il 900 le poesie diventeranno sempre meno chiare, perderà importanza la struttura della frase, la sintassi
in favore della parola a volte isolata all'interno di un verso e svincolata dai nessi logico-grammaticali così da
assumere un valore assoluto e caricarsi di questa nuova forza simbolica. Essa inoltre evoca in modo sintetico
e maggiormente espressivo gli stati d'animo del poeta che ogni lettore interpreterà in modo soggettivo.
Queste illuminazioni diventando a sua volta una sorta di poeta virtuale, proprio perché come scrive Ungaretti
“le poesie dei simbolisti non vanno capite, vanno sentite”. La poesia simbolista rifiuta la logica e la
sostituisce con l'analogia che è un collegamento non logico che nasce nell'inconscio del poeta; si arriverà
addirittura alla scrittura automatica dei surrealisti che registravano sulla pagina i loro pensieri così l'inconscio
li dettava, senza quasi la mediazione della coscienza.

GIOVANNI PASCOLI

Pascoli è prima di tutto un poeta simbolista dunque anche quando descrive la cosa più semplice aratro in
evoca, proprio come farebbe un pittore impressionista, sempre gli stessi fantasmi tra i quali il più ricorrente è
la morte del padre. Pascoli è convinto che la poesia abbia una funzione sociale capace di risvegliare in noi il
fanciullino che eravamo. Pascoli può essere inoltre definito o l'ultimo poeta dell'800 o il primo poeta del 900.
Ciò non dipende da una semplice questione cronologica ma dal fatto che la sua poesia unisce in modo
equilibrato: tradizione, innovazione, continuità e rottura. Ha avuto una formazione classica, fu allievo e
successore di Carducci. Tuttavia può essere considerato il primo poeta del 900 per la sua forte vocazione
sperimentale, soprattutto a livello lessicale e metrico. Ha infatti il merito di aver allargato il lessico della
poesia italiana inserendo vocaboli provenienti da linguaggi diversi ma anche forme dialettali, vere e proprie
contaminazioni dall'inglese, onomatopee cioè la riproduzione di versi di animali o rumori di oggetti. Può
essere definito un poeta simbolista, la sua poetica infatti ha molti tratti comuni a quella del simbolismo.
VITA

Giovanni Pascoli nacque nel 1855, 4° di 10 figli, a San Mauro di Romagna. Trascorse un'infanzia serena e
spensierata immerso nella natura, frequentò le scuole dei padri scolopi di Urbino che gli diedero un’ottima
formazione nelle lettere classiche. L’avvenimento più importante della vita di Pascoli è il 10 agosto 1867 che
diventerà tra l'altro il titolo della sua poesia più famosa, quel giorno il padre rientrando verso casa subì un
agguato e venne assassinato da una fucilata, sparata forse da alcuni rivali in ambito lavorativo. Non venne
mai trovato il colpevole e crescendo Pascoli si ostinò nel cercare l'assassino del padre illudendosi di aver
individuato gli esecutori. Questo episodio segnò profondamente la psiche del figlio che vivrà per tutta la vita
nel tentativo di ricostruire quel nido che gli fu strappato con la morte del genitore. L'anno seguente morì
anche la sorella maggiore di tifo, la madre di cardiopatia e i due fratelli. Nel 1872 la famiglia sarà costretta
ad abbandonare la casa dove il padre lavorava e si trasferì a Rimini.

Si legherà sempre più alle due sorelle più piccole Ida e Maria e vivrà nel sogno di poter ricreare insieme alle
sorelle quel nido familiare ormai perduto. Nel 1873 grazie a una borsa di studio si iscrisse alla facoltà di
lettere all'università di Bologna dove seguì con passione il corso di letteratura italiana tenuto da Carducci.
Durante gli anni universitari si dedicò anche alla politica: fu in questa prima fase un socialista militante che
credeva nella giustizia sociale e nell'uguaglianza tuttavia nel 1876 perse il diritto alla borsa di studio per aver
partecipato a una manifestazione contro il ministro della pubblica istruzione. In quest'anno incontra infatti il
socialista anarchico Andrea Costa e la sua adesione ai movimenti romagnoli bolognesi gli costò caro. Nel
1879 con l'accusa di oltraggio ai carabinieri verrà arrestato e recluso in carcere per quasi quattro mesi.
All'uscita dal carcere abbandonerà il socialismo militante, la lotta di classe, la violenza sociale per
abbracciare la seconda fase del suo pensiero politico: un socialismo più umanitario basato sulla fratellanza
tra gli uomini. Nel 1882 riprese gli studi si laureò in letteratura greca e iniziò a insegnare nei licei di Matera.
L’obiettivo della sua esistenza diventò la ricostruzione del nido familiare; convisse con le sorelle Ida e
Maria senza cercare altre donne. Fuori da questo nido c’è l’atomo opaco del male, un mondo che lo
impaurisce. Questo tema è sicuramente uno dei più importanti della raccolta di poesie Myricae uscita nel
1891. Il 1895 può essere considerato il secondo anno cruciale della vita del poeta per via di tre eventi molto
importanti:

 la sorella Ida decise di sposarsi, Pascoli e Maria si sentirono profondamente traditi, il poeta entrò in
una vera e propria depressione come dimostrano le molte lettere intrise di gelosia; addirittura non si
presentò al matrimonio
 in questo stesso anno abbandonò l'insegnamento liceale e iniziò la carriera universitaria
 acquistò a Castelvecchio in provincia di Lucca, una casa isolata in campagna che diventerà il rifugio
del poeta insieme alla sorella Maria fino alla morte. I due infatti si legheranno sempre più
morbosamente

Parallelamente ottenne diverse cattedre universitarie a Messina, Pisa, in particolare il “periodo messinese” è
il più fecondo a livello poetico. Qui scriverà i canti di Castelvecchio, il saggio il fanciullino e pubblicò i
poemetti. Infine ottenne nel 1905 la cattedra di letteratura italiana a Bologna che era stata proprio del suo
maestro Carducci. Egli si sentiva sempre più l'educatore ideologico delle nuove generazioni e si spostò su
posizioni conservatrici e nazionaliste. Nel frattempo trovò rifugio dal suo malessere esistenziale anche nel
vino che forse causò il tumore maligno che lo uccise nel 1912. Pascoli, come tutti gli autori del
decadentismo, supera l’ottimismo del positivismo. Il mondo per lui è un “atomo opaco del male”. La poesia
di Pascoli nasconde una forte inquietudine psicologica, sicuramente la morte del padre ha rappresentato un
grande trauma e da questo lutto deriva forse la sua paura nei confronti della società e il suo rancore, in
particolare verso il mondo cittadino. Infatti le principali raccolte di Pascoli trattano prevalentemente il tema
della campagna e della natura intesa principalmente come luogo di serenità, tranquillità ma anche di
semplicità, soprattutto nella sua veste diurna. La notte invece la natura si trasforma, appare così il mistero
dell'inconscio che lascia emergere i fantasmi del passato. In generale la natura è una sorta di rifugio, un
luogo di difesa dalla violenza della società. L’atteggiamento di Pascoli è una forma di escapismo, una fuga
da una realtà che non vuole vedere.

Pascoli può essere definito un poeta simbolista e il simbolo che meglio rappresenta questa fuga e che ricorre
più volte nelle sue poesie è il nido. Esso simboleggia la casa, la famiglia, un luogo chiuso incomunicante con
l'esterno e in cui sono presenti amore, protezione e solidarietà. Il nido è dunque il luogo del bene e che si
oppone a ciò che sta al di là, la società che diventa quindi il luogo del male. Questo confine è spesso
rappresentato da un secondo simbolo, la siepe, oltre la quale Pascoli non vuole guardare. Il primo a parlare
della siepe fu Giacomo Leopardi all'interno della sua poesia più famosa, l’infinito. L’atteggiamento dei due
poeti nei confronti della siepe è radicalmente opposto, a tutti e due è cara la siepe ma:

 per Leopardi: essa rappresenta un confine necessario per poter sprigionare tutta la forza
dell'immaginazione così che lui possa evadere da Recanati, dalla sua gabbia dorata e raggiungere
almeno con il pensiero quegli arcani mondi e quella arcana felicità che va cercando
 per Pascoli: la siepe rappresenta una protezione, il limite oltre il quale non dover guardare perché là
fuori c'è il male del mondo. Questa barriera viene rappresentata da Pascoli anche attraverso altri
simboli, come il muricciolo di cinta o la nebbia

Un altro aspetto della poetica di Pascoli sta nel fatto che la sua poesia è ricchissima di oggetti di piccole
cose davanti alle quali il poeta manifesta un’osservazione stupita e minuziosa. Le realtà più semplici e umili,
soprattutto del mondo della campagna e del mondo domestico, accendono in lui delle vere e proprie
illuminazioni. Per Pascoli tutta la natura è poetica, tutto ciò che è naturale è in automatico poetico. Solo il
poeta è in grado però di cogliere queste illuminazioni perché nei confronti della natura ha un
atteggiamento molto particolare, quello del fanciullino.

IL FANCIULLINO: è il nome del saggio più rilevante di Pascoli, pubblicato per la prima volta nel 1897,
rappresenta un vero e proprio manifesto di poetica. Pascoli ci spiega che per cogliere gli aspetti più profondi
della realtà bisogna tornare bambini perché solo loro riescono a meravigliarsi davanti a tutto . I bambini non
si annoiano mai ma colorano con l'immaginazione il mondo che li circonda, come disse Aristotele “la
meraviglia è la scintilla della conoscenza”, cioè solo quando ci meravigliamo davanti a qualcosa siamo
veramente pronti a conoscerlo. I bambini hanno innata dentro di loro questa attitudine alla meraviglia e
quindi alla conoscenza. Il fanciullino sa vedere, ma non sa dire, non sa esprimere ciò che sente. Con il
passare degli anni questa capacità sparisce, ma per Pascoli il fanciullino rimane per sempre dentro di noi.
L’uomo adulto è capace di dire ma non sa più vedere, l’unico ancora in grado di sentirlo è il poeta, egli è
l’unico in grado di vedere il mondo con gli occhi del bambino, è capace di trasmettere queste illuminazioni.
Anche per i simbolisti francesi il poeta è un veggente, vede ciò che gli altri non riescono a vedere. La più
grande differenza però sta nel fatto che in Pascoli il poeta non ha bisogno di assumere droghe per riuscire a
cogliere queste rivelazioni. Come per i simbolisti francesi, questo tipo di conoscenza è basato
sull’introduzione e non sui procedimenti conoscitivi razionali. La poesia dunque non si può inventare ma la
si scopre, la vera poesia per Pascoli è rivivere ciò che fu. Il fanciullino rappresenta la parte più semplice,
buona e inconscia di ogni uomo, è la nostra naturalità, il nostro io più profondo e autentico che si sente
vicino alla natura, apprezza le piccole cose e scopre delle relazioni spesso analogiche che l'adulto non sa più
vedere. Il fanciullino è dunque il nostro sentimento poetico, la nostra bontà originaria. Il fanciullino rifiuta
il male proprio perché non lo conosce. Il quarto concetto è la funzione della poesia: secondo Pascoli è
una funzione sociale che può migliorare il mondo. La poesia fa emergere i fanciullini presenti dentro
ognuno di noi, in tal modo ci rende buoni, ci consola dai nostri dolori e contribuisce a spegnere l'odio e la
violenza sociale. Il male del mondo secondo Pascoli è rappresentato dalla morte, il destino inevitabile di
ogni uomo. Il male cosmico non si può combattere, il poeta si limita semplicemente a contemplarlo, a
prenderne atto. Davanti a questo male il suo atteggiamento è quello tipico di tutti gli autori decadenti, si
limita a esprimerlo all'interno dei suoi testi senza poter far niente, è un atteggiamento passivo. Il secondo
male invece è un male storico prodotto dall'uomo, dall'odio, dalla violenza e dalla rivalità tra gli individui.
Questo male si può attenuare grazie alla poesia, la quale consolando i lettori elimina le cause della violenza
sociale e finalmente diffonde tra gli uomini la concordia. Le più importanti raccolte di poesie di Pascoli: le
Myricae e i canti di Castelvecchio.

Myricae ha molte edizioni: la prima risale al 1891 e comprende 22 testi e l’ultima al 1903. Viene ampliata e
conta ben 156 poesie divise in 15 sezioni che hanno una certa omogeneità sia metrica che tematica. Tra una
sezione e l'altra sono presenti alcune poesie isolate e più lunghe. Il titolo è una parola latina, “Myricae”
significa tamerici, ovvero quei piccoli arbusti tipici della macchia mediterranea. Questo termine viene
ripreso dalle “bucoliche” di Virgilio, le tamerici diventano il simbolo di una poesia che racconta piccoli
eventi della vita quotidiana. Le stesse tematiche le troviamo anche all'interno della seconda raccolta i canti di
Castelvecchio e ha diverse edizioni: la prima risale al 1903 e l’ultima al 1910 che presenta la giunta. In totale
l'opera conta 60 poesie questa volta non suddivise in sezioni. Il titolo è ispirato al luogo di soggiorno di
Pascoli, la casa che riuscì a comprarsi a Castelvecchio di Barga sull'appennino toscano. Lo stile di Myricae e
di canti di Castelvecchio è molto simile, Pascoli utilizza una sintassi fortemente paratattica, cioè lineare, con
poche subordinate. È particolarmente attento alle figure di suono, sono presenti quindi onomatopee, cioè
riporta sulla pagina il suono degli oggetti o il verso degli animali. Pascoli utilizza parole che richiamano il
rumore, ad esempio il bubolio del temporale per rappresentare il rumore del temporale che si avvicina. Oltre
a ciò sono presenti anche tantissimi giochi vocalici, si parla spesso della tecnica impressionistica di Pascoli
che rappresenta la realtà. Una terza raccolta di Pascoli forse meno importante sono i poemetti pubblicati per
la prima volta nel 1897, in seguito divisi i primi poemetti e nuovi poemetti. Sono poesie più lunghe e
maggiormente narrative ma le tematiche sono sempre le stesse delle raccolte precedenti. Ultima opera sono i
poemi conviviali, la prima edizione risale al 1904. Lo stile di questa raccolta è più elevato e classicheggiante,
infatti la raccolta è dedicata al mondo greco e orientale, il mito e la storia sono al centro di questa raccolta.

X AGOSTO

Il 10 agosto 1867 Ruggero Pascoli, padre del poeta, fu ucciso da una persona ignota, mentre tornava a casa
della sua famiglia. Questa ferita nel cuore del poeta non si rimarginerà mai e 30 anni dopo, il 9 agosto 1896,
Pascoli compone questo testo che entrerà a far parte della sezione Elegie. Questo testo rievoca la morte del
padre attraverso un ricco gioco di parallelismi strutturali: la morte del padre è paragonata a quella di una
rondine uccisa senza motivo mentre tornava al nido dove l'attendevano i suoi piccoli. A guardare questa
scena c'è il cielo che ha assistito sia all’uccisione della rondine sia del padre. Il 10 agosto è la notte di San
Lorenzo, quando le stelle cadono più abbondantemente e allora il poeta prende questo evento astronomico e
lo trasforma in un pianto del cielo che ricorda ogni anno la morte del padre. SIMMETRIE:

 “ritornava una rondine al tetto, l’uccisero”: sineddoche (figura retorica che indica la parte del tutto),
sta a casa
 “anche un uomo tornava al suo nido, l’uccisero”: paragone tra uomo e rondine che lascia il nido
scoperto
 “ella aveva nel bello un insetto” - “portava due bambole in dono”
 v.10 “cielo lontano” v.20 “cielo lontano”
 Terra: atomo (perché il mondo è piccolo), opaco (non riflette la luce), del male (perché maligno).

L’ASSIUOLO

Questa poesia, pubblicata per la prima volta nel 1897, fa parte di Myricae. Un paesaggio notturno, fremiti
misteriosi di piante e animali, un lieve chiarore lunare, fanno da cornice al richiamo lugubre e lamentoso
dell'assiuolo che costituisce il motivo conduttore della poesia. Il canto lamentoso dell'uccello notturno, il cui
verso chiude ogni strofa, suscita inquietudine, evoca dolori lontani, racchiude in sé il mistero della morte.
Attraverso il paesaggio notturno e le immagini della natura il poeta esprime la propria realtà interiore, da
forma alla propria visione della vita come doloroso procedere verso la morte. La poesia è composta da tre
strofe di sette novenari, più il ritornello chiù che rima con il sesto verso di ogni strofa. Il linguaggio, denso di
simboli, è ricco di onomatopee e di metafore. Linguaggio allusivo e simbolico, ogni strofa termina con
l’anafora del verso dell’assiuolo “chiu”.

 V. 2 metafora: “alba di perla


 V. 3 precisa i nomi degli alberi: positivismo
 V. 4 personificazione alberi
 V. 5 “soffi di lampi”: sinestesia
 V. 6: “nero di nubi”: simbolismo di Pascoli, gioca con le immagini per dare mistero e inquietudine:
“voce dei campi”
 V. 12: “cullare del mare”: personificazione, perifrasi (giri di parole per indicare un concetto)
/metafora - V. 18 “tremava un sospiro di vento”: personificazione
 V. 13 allitterazione della F “fru fru”: onomatopea
 V. 14: “come eco di un grido che fu” similitudine, trauma padre
 “voce” “singulto” “pianto”: climax, termini che vanno ad intensificare il loro significato
 queste cavallette muovevano le ali emettendo un suono sottile e acuto simile a quello dei sestri:
rimando al mito di Iside e Osiride (alla Resurrezione)
NOVEMBRE

È una poesia di Giovanni Pascoli tratta dalla raccolta poetica Myricae e pubblicata per la prima volta nel
1891. Il titolo originario era “San Martino”, come la poesia omonima di Carducci da cui prende spunto.
Nella poesia è l’11 novembre a essere definito “l’estate di San Martino”, poiché dopo l’arrivo del primo
freddo, si torna a un relativo tepore. Nel componimento ci sono richiami di luce e di gioia portati nell’aria, ai
quali la natura non dà risposta. Tutto intorno è secco e il colore funebre dell’autunno è la sola cornice che fa
da ricordo a coloro che non ci sono più. All’inizio c’è l’illusione di una bella giornata primaverile in atto, ma
presto il poeta fa notare i particolari che la rendono evidentemente autunnale (il pruno secco, le foglie che
cadono, le sagome nere degli alberi spogli). Questo testo è particolarmente rappresentativo della poetica di
Pascoli, poiché fonde la sua sensibilità nella descrizione del mondo naturale e la sua percezione del dolore
insito nella natura umana. La felicità è precaria e poco duratura, messa in parallelo con il mondo naturale
che, come essa, è completamente caduco e illusorio. Nella prima strofa Pascoli descrive un giorno che
sembra quasi primaverile, caratterizzato da una serie di immagini felici e solari. In chiusura, si può già notare
una prima nota cupa data da una brutta sensazione a livello olfattivo (l’odore del prunalbo è "amaro). Nella
seconda strofa i primi segnali positivi cedono il passo alla negatività dell’autunno e del dolore umano. Nel
mondo, che prima era aperto e pronto a nuova vita, si notano con lo sguardo solamente segnali di morte.
Nella terza strofa, infine, tutti questi segnali vengono poi amaramente confermati in una desolata sentenza e i
segnali visti lasciano lo spazio a quelli uditi, le ventate che spezzano il silenzio e il solo rumore di foglie
morte che cadono. Ecco qui dipinta l’estate dei morti. In questa poesia, tratta dalla raccolta Myricae, sono
presenti alcune tematiche ricorrenti nel lavoro di Pascoli, dall’ambiguo fascino che esercita il paesaggio
naturale alla presenza costante della morte, che viola il nido. Si nota anche il tentativo di ricostruire in modo
esasperato una realtà familiare che lo protegga dalle mille asperità della vita. Ricorrente è anche il
fonosimbolismo pascoliano: anche in Novembre si ricorre alle sensazioni visive, olfattive e uditive per
veicolare un discorso simbolico più profondo. La poesia è composta da tre strofe saffiche di tre endecasillabi
più un quinario a rima alternata (con schema ABAB). Si tratta di una forma metrica rara, già presente in
Parini e Carducci. La cesura netta dell’ultimo verso e la rigidità della metrica sono per Pascoli funzionali
all’espressione di un sentimento oscuro e inafferrabile, di una continua lacerazione. Come i versi sono
tronchi, così sono tronche la vita e la felicità umane. A enfatizzare la lacerazione dei versi sono gli
enjambement presenti. Altre figure retoriche presenti nel componimento sono:

 Sinestesie: "Gemmea l’aria" (v. 1) e "odorino amaro" (v. 3) sono due espressioni che uniscono due
sensazioni legate a campi sensoriali diversi.
 Ossimoro: "estate fredda" (v. 11)
 Chiasmi: "Gemmea l’aria, il sole così chiaro" (v. 1), "tu ricerchi gli albicocchi in fiore, / e del
prunalbo l’odorino amaro / senti nel cuore" (vv. 2-4)
 Parallelismi: "secco è il pruno", "stecchite piante" "vuoto il cielo", "cavo al piè" (vv. 5-7)
 Metafore: "Gemmea l’aria" (v. 1), "vuoto il cielo" (v. 7), "estate dei morti" (vv. 11-12)
 Allitterazioni e ricorrenze sonore: tutto il componimento è caratterizzato dalla ricorrenza di suoni
aspri e duri, r, t, s. La strofa centrale è percorsa dall’allitterazione della s ("secco", "stecchite",
"segnano", "sereno", "sonante", "sembra").

TEMPORALE

L’incipit della poesia è caratterizzato da ellissi del verbo e da un neologismo, «bubbolìo», che indica il
brontolio lontano dei tuoni; si tratta anche di una onomatopea con valenza fonosimbolica poiché, di per sé,
non ha un significato legato al temporale, ma la ripetizione del suono /b/ suggerisce un suono che rimbomba,
come quello dei tuoni. I tre punti di sospensione che separano il primo verso dal resto della poesia creano un
senso di attesa. La realtà è rappresentata attraverso colori (il «rossastro» e «affocato» dell’orizzonte, il «nero
di pece» di alcune nubi, che però a tratti sono anche «chiare») e impressioni: verso il mare, l’io poetico
osserva un orizzonte rossastro mentre in direzione dei monti appare un’atmosfera cupa a causa delle nubi
temporalesche. Ciò che emerge è un clima minaccioso e inquieto e l’unico elemento “umano” che appare è
un «casolare» il cui colore bianco o la cui apparizione rapida in mezzo al nero delle nubi richiama, per
analogia, un’ala di gabbiano. FIGURE RETORICHE:

 Bubbolìo: onomatopea. Comunica una sensazione di tristezza.


 Allitterazione: segnata dal colore rosso. Comunica la sensazione di prolungamento del temporale.
 Similitudine: “Rosseggia l’orizzonte come affocato, a mare”. Comunica sensazione di un paesaggio
caldo.
 Metafora: “nero di pece” e “stracci di nubi”. La prima comunica una sensazione di buio e la seconda
di tristezza.

GABRIELE D’ANNUNZIO

D’Annunzio, insieme a Oscar Wilde, è il maggiore esponente dell'estetismo europeo. L’estetismo si può
definire come un atteggiamento tipico del decadentismo. Il dandy, ovvero l'esteta, è colui che è alla ricerca
del bello e del piacere ma svincolato da qualsiasi norma morale, da qualsiasi atteggiamento comportamentale
o funzione sociale. L'unico fine dell'arte per l'esteta è l'arte stessa: “arte per arte”. D’Annunzio creò
un’identità indissolubile tra vita e arte. I personaggi dei suoi romanzi hanno sempre molti tratti della sua
personalità e forse egli stesso costruisce artificialmente la propria vita ricalcando le figure che inventa.
D’Annunzio in fondo non fa arte, ma trasforma la sua vita in un'opera d'arte. L'esteta rifiuta tutto ciò che è
banale, quotidiano, coniugale e in fondo borghese e ricerca un'esistenza aristocratica, che non vede nel
denaro un fine ma solo un mezzo per godersi la vita, per circondarsi di “cose inutili”; non a caso D’Annunzio
sarà sempre pieno di debiti. Qualsiasi legame non è mai eterno, il suo potere seduttivo è sconfinato.
D'Annunzio collezionò i più diversi tipi di femminilità: dalla donna dolce e materna a quella bizzarra e
stravagante, dalla bisessuale all’intellettuale emancipata. Otre a essere un’esteta D'Annunzio fu anche il
primo grande comunicatore della storia italiana, fu il primo poeta con un reale seguito da parte delle
masse, un vero e proprio status simbol, un divo, che capì che l'unico modo per essere sempre alla moda è di
creare la moda attraverso una spettacolarizzazione continua della propria vita inimitabile. La sua esistenza fu
ricca di scandali promozionali, capì per primo che non era importante che di lui si parlasse bene ma che di lui
si parlasse sempre. Fu un grande comunicatore sia in veste pubblicitaria che politica: ad esempio, l'etichetta
dietro la bottiglia dell’amaro Montenegro riporta ancora lo slogan che D’Annunzio coniò per questo famoso
alcolico, ovvero “il liquore delle virtù”. Altro esempio, un negozio di abbigliamento milanese venne raso al
suolo da un incendio e gli imprenditori chiesero e pagarono D'Annunzio affinché coniasse un nuovo nome
per rilanciare l'attività ed egli lo chiamò “la rinascente”. In campo politico i suoi slogan furono ancora più
importanti: inventò l'espressione di “vittoria mutilata” per sottolineare il tradimento del patto di Londra.
Infine D’Annunzio fu un letterato eclettico, abilissimo in tutti i generi della letteratura. Scrisse novelle,
romanzi, poesie, opere teatrali, pubblicità e addirittura fu uno dei primi letterati che si dedicò al cinema.
Inoltre fu un letterato eclettico anche perché attraversò molte correnti letterarie e a ciò si aggiunge la sua
straordinaria apertura alle letterature europee. D’Annunzio ebbe infatti il merito di aver sprovincializzato la
letteratura italiana, iniziarono a circolare nel nostro paese autori esteri. Dall’altra parte però si appropriò
anche della nostra tradizione letteraria, persino di quella più antica utilizzando in modo sempre originale
molte fonti. D’Annunzio quindi non fece arte, ma trasformò la sua vita in un'opera d'arte, che è il suo
più grande capolavoro. D’Annunzio nacque a Pescara nel 1863 da una famiglia borghese. Il suo vero
cognome sarebbe in realtà Rapagnetta ma preferisce scegliere il cognome di un ricco zio che aveva adottato
il padre. A 16 pubblica sotto falso nome la sua prima raccolta di poesie “primo vere”. L'opera venne accolta
in modo tiepido dalla critica allora D’Annunzio diffuse ai giornali a proprie spese la notizia falsa che l'autore
del testo si era suicidato, i critici subito spesero buone parole e in questo modo il poeta si fece una pubblicità
gratuita. Nel 1881 si trasferì a Roma dove ha inizio il cosiddetto “periodo romano” dedicato alla ricerca del
piacere, alla conquista del successo tra polemiche, duelli e mille amanti. Nel 1883 sposò la duchessina
Maria di Gallese per motivi economici e perché l'aveva messa incinta, il padre in seguito la diseredò e
D’Annunzio la lasciò, da lei ebbe tre figli. Nello stesso anno pubblicò alcune raccolte di poesie che
suscitarono scandalo per i loro espliciti contenuti erotici, iniziò a condurre un'esistenza raffinata e
dispendiosa in quella che lui chiamava la Roma bizantina. Nel 1887 incontrò una delle due donne più
importanti della sua vita, Barbara Leoni che diventerà la musa ispiratrice del suo più famoso romanzo, il
Piacere, pubblicato nel 1889 che gli darà grandissima fama. D’Annunzio abbandonò Roma e si trasferì dal
1891-93 a Napoli, periodo che definì di “splendida miseria”. Qui convisse con una principessa siciliana già
sposata, Maria Gravina e questo fece scandalo, da lei ebbe anche una figlia e subito una condanna per
adulterio da parte del marito. Pieno di debiti dovette abbandonare anche Napoli e si trasferì in Abruzzo, qui
inizia il “periodo abruzzese” trascorso a Francavilla Quincy. Si apre una nuova fase della vita di
D’Annunzio in seguito alla scoperta Nietzsche e Richard Wagner si sentì l'incarnazione del Superuomo che
grazie alla sua volontà di potenza poteva innalzarsi sopra ogni legge morale e al di sopra delle masse. Nel
1894 incontrò la seconda donna più importante della sua vita, Eleonora Duse, la più famosa attrice
d'Europa. Nel 1895 compì una crociera in Grecia molto importante perché segna profondamente la sua
ispirazione letteraria. Nonostante la sua situazione finanziaria fosse disastrosa si trasferì con la Duse presso
Firenze dove visse in una lussuosissima villa, la Capponcina dal 1898 al 1910. Qui è spinto da
un'inesauribile “volontà di dire” e comporrà diversi romanzi come: il Fuoco, alcuni libri di poesie delle laudi
e alcune importanti opere teatrali come la figlia di Iorio. Nel 1897 D’Annunzio entrò in politica, venne eletto
come deputato nelle fila della destra anche se pochi anni dopo passò nelle fila della sinistra e nelle elezioni
non venne rieletto.

In questi anni nacque lui anche “il mito della velocità” forse si sentiva vicino alla vecchiaia e decise di
accelerare: prese la patente di guida, comprò un aeroplano e si dice che aumentò esponenzialmente il giro di
donne. Nel 1916 era talmente pieno di debiti che fu costretto ad abbandonare l'Italia e si trasferì in Francia,
tutti i suoi beni vennero messi all'asta. A Parigi venne accolto e celebrato con grandi feste e poté
ricominciare la sua vita da dandy. Nel 1914 scoppiò la prima guerra mondiale, la Francia entrò in guerra e
vista l'incredibile influenza di D’Annunzio sull'opinione pubblica italiana l'ambasciatore francese gli pagò
tutti i debiti affinché il poeta potesse rientrare nel nostro paese e suscitare l'interventismo. D'Annunzio tornò
in Italia e fece comizi, infiamma le masse e l'Italia entrò in guerra. Partecipò in prima persona al conflitto
mostrando grande coraggio in imprese via terra, mare e aeree ma nel 1916 in un incidente aereo rimase
gravemente ferito all'occhio destro. Durante la degenza a Venezia compose quasi cieco il Notturno, un'opera
scritta per il lungo su quasi 10.000 striscioline di carta, in seguito tornò a volare e a combattere. Si distinse in
alcune clamorose imprese belliche come “la beffa di Buccari” un'incursione navale notturna nella baia di
Buccari una protettissima base navale Austriaca in Croazia in cui tre marinai italiani entrarono di nascosto
per silurare alcune navi nemiche. D’Annunzio lancerà in mare alcune bottiglie di champagne contenenti un
messaggio di scherno. L'esperienza militare più famosa della vita di D'Annunzio fu l'impresa di Fiume
ovvero dopo i trattati di Versailles e l'assegnazione della Dalmazia alla Jugoslavia D’Annunzio ritenne che la
vittoria italiana fosse stata mutilata, marciò con un gruppo di volontari su Fiume e la occupò. Da quest'anno
in avanti il poeta si legò sempre più al fascismo anche se Mussolini e D’Annunzio pur rispettandosi si
guarderanno sempre con sospetto, D’Annunzio sarebbe infatti potuto risultare un valido rivale. Con
l'instaurazione della dittatura fascista D'Annunzio si ritirò a Gardone sul lago di Garda in una splendida
villa, il Vittoriale. Mussolini lo mantenne insieme a tutti i suoi vizi fino alla morte a patto che rimanesse ai
margini della scena politica, venne addirittura nominato principe di Monte Nevoso nel 1924. Le droghe
saranno l'unico e D'Annunzio si spense nel 1938.

IL PIACERE

Pubblicato nel 1889, rappresenta il risultato migliore dell'estetismo italiano ed è anche la sintesi dell'intero
periodo romano del poeta. La scrittura del piacere venne preceduta da una lunga lettura di testi stranieri da
parte di D'Annunzio e possiede molti aspetti in comune con il romanzo Controcorrente di Wissman
pubblicato cinque anni prima e viene inoltre paragonato al il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde che però
verrà pubblicato qualche mese dopo il romanzo di D’Annunzio. Il Piacere è un'opera molto autobiografica: il
protagonista della vicenda è il conte Andrea Sperelli appartenente a un mondo aristocratico sfarzoso e
sofisticato anche privo di valori e ipocrita. Egli vuole mettere in pratica l'importantissimo insegnamento che
gli ha lasciato il padre prima di morire ovvero “fare della propria vita un'opera d'arte”, ma fallirà perché
non sa mettere in pratica un altro grande principio del padre cioè, “habere non haberi” che significa
“possedere e non essere posseduto” dalla ricchezza, dagli oggetti ma anche dalle donne. Andrea è un esteta
che fallisce, completamente privo di forza di volontà e in balia dell'istinto, dell'eros e della passione. In lui il
senso estetico è sempre più forte del senso morale, vorrebbe realizzare due grandi progetti di vita: da una
parte riuscire a produrre un'opera d'arte che sia un capolavoro sublime; dall'altra trovare la donna perfetta
con cui scoprire quel piacere. Andrea Sperelli non riuscirà a raggiungere questi due obiettivi ed è per questo
che il piacere può essere definito come la storia fallimentare di un progetto di vita. Con quest'opera
D’Annunzio vuole superare il romanzo naturalista e avvicinarsi alle nuove correnti che stanno sorgendo in
Francia, in particolare il simbolismo e in effetti nel testo sono presenti alcuni simboli. A inizio romanzo il
Andrea Sperelli è in trepida attesa di Elena Muti con cui aveva avuto una relazione molto coinvolgente due
anni prima, una donna fatale, molto sensuale e dalla conturbante carica erotica. Si apre un lungo flashback in
cui ci viene raccontata la storia d'amore tra i due: il loro primo incontro, il corteggiamento, l'esplosione della
passione e l'improvviso abbandono da parte di Elena che avendo trovato un nuovo amante, un lord inglese,
era partita per l'Inghilterra sposandosi con lui. Andrea si era lasciato andare ad una vita sregolata
conquistando ben 7 nobildonne anche già sposate. Scoperto da un marito era stato sfidato a duello e
gravemente ferito da un colpo di scherma. Durante la convalescenza trascorsa in Abruzzo Andrea aveva
riscoperto l'amore per l'arte e il desiderio di una vita più tranquilla, qui aveva conosciuto la seconda figura
femminile molto importante del romanzo, Maria Ferres, moglie di un diplomatico del Guatemala, la quale è
l'esatto opposto di Elena Muti, ovvero una donna pura, amante dell'arte e della musica, intelligente, che
riaccende un sentimento amoroso e autentico in Andrea. Maria resiste al corteggiamento del protagonista che
però a poco a poco nel corso del romanzo riuscirà a sedurla; qui finisce il lungo flashback.

Elena Muti è tornata, a questo punto le due donne si alternano nella vita e nei pensieri del protagonista. I loro
nomi sono fortemente simbolici: Elena richiama la memoria di una donna che per la sua bellezza fisica causò
una guerra; Maria ricorda la vergine Maria, un'icona di castità, purezza e amore spirituale. Andrea sperelli
non sa scegliere tra le due donne e finisce quasi per fonderle insieme grazie a un secondo simbolo: una
sciarpa di piume indossata da Elena che gli ricorda la treccia nera di capelli di Maria. Andrea capisce così
di essere alla ricerca di una terza donna, la fusione di Elena e Maria, che sommi le qualità sensuali della
prima con quelle morali della seconda, una donna che non esiste. La situazione precipita: Maria finalmente
dopo un lungo corteggiamento si concede ad Andrea, tuttavia suo marito è stato scoperto mentre barava al
gioco e i due sono costretti a ripartire per il Guatemala. Nel loro ultimo incontro Andrea compie un
grandissimo errore: proprio quando la donna si sta lasciando andare a un momento di sincera intimità Andrea
chiama Maria con il nome di Elena, Maria fugge inorridita e ritorna in Guatemala con il marito. Nel
frattempo anche Elena rifiuta il protagonista preferendo il lord inglese e così Andrea si ritrova solo nella
profondità della sua inettitudine. Il finale del romanzo è fortemente simbolico: Andrea torna per l'ultima
volta a casa di Maria in cui si sta svolgendo un'asta per vendere tutti i mobili e pagare i debiti lasciati dal
marito della donna. Il protagonista è inorridito nel vedere quella che era la casa dell'arte e della purezza
profanata da facchini e operai volgari che strillano senza un motivo razionale. Mentre si sta vendendo
l'armadio di Maria Andrea quasi inconsciamente alza la mano e vince l’asta. Nella chiusa del romanzo il
protagonista segue i facchini che trasportano un enorme armadio fino a casa sua. Il terzo simbolo del
romanzo: un armadio gigante ma completamente vuoto che simboleggia ciò che è rimasto ad Andrea delle
due donne. Ci verrebbe da rispondere nulla e invece gli rimane un armadio ingombrante e inutile che avrebbe
dovuto accogliere gli abiti di una delle due donne. L'armadio è il simbolo del pentimento, del rimorso, della
coscienza per non aver saputo e voluto scegliere, il peso del rimpianto che lo accompagnerà per sempre.
Questo romanzo nonostante sia stato pubblicato nel 1889 possiede già molte caratteristiche tipiche dei
romanzi del ‘900: il protagonista non è più un eroe bensì è un vero e proprio inetto, incapace di decidere è
destinato alla sconfitta; la gestione del tempo non più lineare, ma viene in parte frantumato; il finale: siamo
di fronte a una chiusa aperta a molteplici interpretazioni, relativa e non più oggettiva.

ALCYONE E LE LAUDI

L'Alcyone non è un libro di poesie autonomo, perché è a sua volta inserito in un gigantesco e complesso
progetto poetico comprendente più raccolte di poesie e si può ben capire già dal titolo, “le laudi del cielo, del
mare, della terra e degli eroi” indicato spesso con “le laudi”, che sono un ciclo di raccolte di poesie che fu
ideato da D'Annunzio nel 1896 e doveva comprendere 7 libri intitolati con i nomi mitologici di sette donne
trasformate nelle sette stelle che formano la costellazione delle Pleiadi. Il poeta però ne scriverà soltanto 5:
nel 1903 pubblicò i primi tre: Maya, Elettra e Alcyone, nel 1912 Merope e infine nel 1934 Asterope. La
parola “laudi” ci ricorda la poesia religiosa del medioevo, in particolare il Cantico delle Creature di San
Francesco, “laudato si mi signore”, dunque D’Annunzio si fa portatore di una nuova spiritualità, non
cristiana bensì pagana. L'idea di questo poema viene al poeta durante una crociera che compì in Grecia. Nel
titolo sono presenti le parole: cielo, mare e terra che rimandano alla natura. A queste si uniscono gli eroi che
nel mito classico sono quegli esseri che stanno a metà tra gli uomini e gli dei. Questi eroi devono diventare
uno stimolo per gli italiani del presente al fine di ricreare una super nazione.

I LIBRI

1. Maya: è una vera e propria lode della vita, in più di 8.000 versi, diviso in 21 parti. D'Annunzio si
sente investito durante il suo viaggio in Grecia di una missione: far riscoprire al mondo moderno la
madre della cultura occidentale, la Grecia.
2. Elettra: celebra la grandezza di Roma, dell'Italia e dei grandi eroi del passato come Dante e
Garibaldi che devono essere modelli per il presente
3. Alcione: è il più importante
4. Merope: comprende i canti della guerra d'oltremare ovvero un piccolo poemetto dedicato alla
celebrazione della conquista della Libia
5. Asterope: comprende gli inni sacri della “guerra giusta” (riferimento alla prima guerra mondiale
nella quale d'Annunzio combatte).

ALCYONE
Il più importante è Alcyone, l'espressione più alta della poesia di D’Annunzio rispetto alla retorica
celebrativa degli altri libri delle laudi. Esso rappresenta una piccola pausa, la pausa dell'estate, infatti si
configura come un diario poetico composto da 88 testi e 5 sezioni che segue la nascita, lo sviluppo e il
tramonto dell'estate, dalla mietitura alla vendemmia. Il titolo è molto importante poiché oltre ad essere il
nome di una Pleiade, Alcyone è il nome con cui gli antichi pescatori chiamavano il “martin pescatore”.
Questo uccello depone le sue uova solo quando c'è bonaccia, ossia quando al mare non c'è vento. Ecco che
Alcyone diventa il simbolo del poeta: D’Annunzio dopo una vita scandita dal vento delle passioni cerca una
pausa dal suo superomismo per deporre le sue uova, ovvero scrivere poesie. Ciò viene espresso nella poesia
introduttiva intitolata “la tregua”. In questa pausa d'Annunzio tenta una vera e propria metamorfosi con la
natura come ben si vede ad esempio nella “la pioggia nel pineto” o in “meriggio”. Per questo si parla di
libro del panismo, che deriva dal dio Pan che in greco significa “tutto”, l’antica divinità pagana della natura
L'estate invece simbolo dell'altrove, del vuoto, dell'assenza della storia, un vuoto che non va riempito da
valori e progetti ma solo dal piacere passivo offerto dalla natura. In Alcyone il poeta raggiunge delle vette
formali talmente alte dal punto di vista lessicale, che dopo di lui è quasi impossibile fare poesia in Italia, se
non cambiando completamente lo stile e le tematiche e ciò avverrà solo con Eugenio Montale, che sarà
proprio il più grande oppositore di D’Annunzio.

LA SERA FIESOLANA

E’ una sera di giugno, pioviggina, Gabriele D’Annunzio passeggia nella campagna toscana, tra olivi e
vigneti, insieme alla donna amata, l’attrice Eleonora Duse. La sera fiesolana è stata pubblicata nel 1899 nella
nuova antologia e poi è stata inserita in Alcyone. Abbiamo in questa poesia 3 strofe di 14 versi che hanno
una varia lunghezza e sono intervallate da 3 riprese di 3 versi, quindi il primo verso rima con l'ultimo della
strofa precedente. Il sonetto richiama alla struttura della lauda francescana. Ci sono diverse figure retoriche
notiamo: l'anafora, allitterazione, antitesi, varie metafore e anche un’onomatopea. In tutte e tre le riprese
inoltre abbiamo “o sera” che è una invocazione alla sera, il viso di perla è una metafora e abbiamo “i grandi
umidi occhi della sera” quindi una personificazione. Troviamo la ripetizione della formula “laudato sì” e
questa scelta è stata proprio voluta e rimanda proprio a Francesco d’Assisi e c’è lo dice D’Annunzio stesso
nei taccuini dannunziani e dice che ha contemplato la campagna di Assisi. A questa impressione si
sovrapporrà il paesaggio di Fiesole. Questa sera rimanda al dolce stil novo ed alle caratteristiche della donna
angelicata, quindi il biancore, il candore della pelle era uno tra i requisiti delle donne angelo. La seconda
strofa inizia con “dolci le mie parole”, prima le parole erano fresche ora sono dolci. Notiamo poi il “ti sien
come” che torna in anafora. Inoltre troviamo il verbo bruiva che è un onomatopea, troviamo poi varie
personificazioni, “il cinto che ti cinge” è una paronomasia, bisticcio di parole. La “pioggia bruisce” è un
francesismo che vuol dire rumore e la parola assume un valore onomatopeico. Gli olivi sono fratelli in
riferimento a Francesco d’Assisi e al canticum, l’ulivo nella tradizione è simbolo di pace però caratterizza
anche il paesaggio dell'Umbria La terza e ultima strofa e la sua ripresa. Anche qui ci sono enjambemant,
l'anafora, la figura etimologica, la metafora “pura morte” che rappresenta la sera che muore e la
personificazione della curva delle colline paragonata alle labbra chiuse da un misterioso divieto, queste
labbra desiderano rivelare i segreti e quindi sono consolatrici e la sera le ama di un amore sempre più forte.
Nella prima strofa troviamo una teofania della luna. Ogni strofa è autonoma dalle altre, forma quasi una
specie di lirica, tant'è che D’Annunzio aveva intitolato la prima strofa la natività della luna. La luna ha 3
facce anche nella mitologia: Ecate la dea oscura della luna calante, Selene la prima dea lunare e Artemide
vergine selvatica della luna crescente. La poesia è una sorta di formula magica perché la parola del poeta
evoca la nascita della luna. La sera è personificata perché è una divinità femminile, ha un viso di perla e
come la luna porta il refrigerio della pioggia. È una vergine, questo carattere della figurazione femminile
potrebbe anche rimandare alla religiosità francescana. La seconda strofa invece è dedicata alla pioggia infatti
il titolo originale era la pioggia di giugno. La strofa si chiude con l'olivo, simbolo di umiltà. La terza strofa
invece vede il panismo, la sensualità panica.

LA PIOGGIA NEL PINETO

Il tema centrale di questa poesia è quello dell’amore del poeta per Eleonora Duse. Qui la donna amata
accompagna il poeta durante una passeggiata estiva in campagna finché un temporale non li sorprende,
lasciandoli soli e intimi nel pineto, sotto l’acqua che cade e che crea un’atmosfera surreale. La pioggia nel
pineto non è un testo autonomo ma è inserito all'interno dell’Alcyone. Siamo tra luglio e l'agosto del 1902,
Gabriele D’Annunzio nelle laudi pubblica questa canzone di 4 strofe di 32 versi liberi. D’Annunzio è un
uomo a cui piacevano molto le belle donne e uno degli amori di D’Annunzio è l'attrice Eleonora Duse, con
la quale soggiorna nella zona di Marina di Pietrasanta per seguire l’attrice. A D’Annunzio piace molto
viaggiare, infatti ha una casa a Firenze che si chiama la Capponcina. Anche Eleonora ha una casetta vicina
che invece viene chiamata la Porziuncola. Dal 1899 D’Annunzio trascorre le estati presso la casa della
dogana che prende anche in affitto Eleonora. I due stanno insieme, si spostano poi in un'altra villetta al secco
e amano molto spiagge incontaminate. Iniziamo con l’imperativo “taci” e notiamo la ripetizione della parola
“odio”, si tratta di una epifora. Lui si rivolge direttamente ad Ermione e le dice “ascolta piove”, “piove” è
una anafora perché si ripete. Tra le altre figure retoriche notiamo l’allitterazione in “salmastre ed arse”. Ci
sono molti enjambement, spezzature del verso che danno proprio l’idea di pioggia che cade. Le tamerici
sono delle piante umili e Pascoli sceglie proprio di chiamare la sua raccolta poetica Myricae, infatti tra
Pascoli e D’Annunzio non scorreva buon sangue e questo è un rimando proprio a Pascoli. Il mirto invece era
una pianta sacra a Venere dea dell'amore e della bellezza. Abbiamo parlato anche con Leopardi delle
ginestre, le quali vengono qui a rappresentare il fiore ma anche il rinnovamento e ginestre sono accolte solo
a mazzetti. Si nota nuovamente l'anafora di “piove”, “le coccole aulenti” sono una onomatopea e lo stesso
vale per le “ginestre fulgenti” quindi la parola fulgente così come le coccole aulenti danno anche un valore
sonoro, fonico. “Volti silvani” il poeta ed Ermione diventano dello stesso colore e della stessa sostanza del
bosco, infatti silvano viene da silvestre, proprio del bosco, inizia la metamorfosi, c’è il panismo tema tipico
nella poesia di D’Annunzio. C'è una sorta di trasfigurazione. “Freschi pensieri” che è una sinestesia
accostamento dei due sensi differenti. Con la “favola bella” d'annunzio richiama il canzoniere di Petrarca,
infatti questo termine ha un grande significato per d'annunzio Ermione è la figlia di Menelao e di Elena
quindi stiamo parlando del ciclo troiano e d'annunzio sceglie di chiamarla così perché e una donna molto
bella dietro la quale si cela Eleonora Duse. “Solitaria verdura” personificazione della vegetazione solitaria. Il
“pianto” è una metafora il pianto chiaramente è la pioggia. Pini, mirti e ginepri sono strumenti della pioggia
ed hanno suoni diversi sulla base delle gocciole che cadono. Ermione dunque si immedesima nella natura ed
è presa da una sorta di ebbrezza, sembra scaturita dalla terra come la vegetazione, come le ninfe dei boschi.
“Ascolta, ascolta” una ripetizione e “a poco a poco”. Le cicale che d'annunzio chiamerà poi “figlie dell'area”
friniscono tra i rami degli alberi e il loro suono si espande nella natura. La voce del mare anche questa nostra
età di personificazione perché il mare non ha una voce rumore ora si sente su tutte le fronde scrosciare la
pioggia argentata che purifica la scroscio che si modifica in base al fogliame che incontra più o meno foto
qui la pioggia e argentea perché i fili della pioggia luccicano come se fossero raggiunta ti però anche
l'aggettivo potrebbe rimandare al suono argentino quindi questo suono non so se lo sentite anche voi delle
gocce di pioggia. Vediamo qui la vera e propria trasformazione: troviamo una sorta di similitudine “par da
scorza tu esca”, poi troviamo la similitudine “come pesca intatta”, “come poi tra l'erba” e “come mandorle
acerbe”. Abbiamo una ripetizione dell'ultima parte relativa proprio alla trasformazione dei volti silvani, delle
mani nude, delle vesti leggere che portano la pioggia a contatto con i due per la trasformazione vera e
propria. Abbiamo una struttura musicale, la metamorfosi e il panismo: una struttura musicale perché le 4
strofe sono organizzate come una sorta di sinfonia: la pioggia, la sinfonia, ci sono poi le voci degli elementi
naturali che sono dei solisti e la natura è una specie di orchestra: la sinfonia della natura piove su gli elementi
naturali, le tamerici, i pini, i mirti, le ginestre, i ginepri piove sugli elementi umani volti silvani le mani i
vestimenti e anche sugli elementi sentimentali i freschi pensieri e la favola bella. La parola poetica rivela
dunque l'essenza e qui abbiamo un tema del decadentismo, c'è una corrispondenza tra la parola poetica e la
realtà oggettiva: la parola è collegata con l'essenza misteriosa delle cose e lo stesso accade nella sera
fiesolana.

La metamorfosi è panica perché il poeta ed Ermione si trasformano nella natura stessa, Ermione ha il volto
bagnato dalla pioggia come una foglia, ha i capelli che profumano di ginestra, sembra una ninfa dei boschi e
ha un cuore di pesca ancora da cogliere. C’è un invito a partecipare a questo rito iniziatico che viene ufficiato
dalla pioggia che purifica.

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