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GIOVANNI VERGA

Nasce nel 1840, la famiglia è di orientamento antiborbonico. Studia nella scuola privata di
Antonino Abate, letterato e patriota. Abbandona la facoltà di legge intriso di queste idee
romantiche e si dedica all’attività letteraria. Inizia a scrivere opere che riprendono la storia della
patria come il romanzo I carbonari della montagna. Si arruola nella Guardia nazionale catanese nel
1860 e incontra Garibaldi. Pubblica un altro romanzo Sulle lagune. La sua formazione è romantica e
patriottica e la prima produzione riflette questi ideali. Nel 1865 si sposta a Firenze, voleva
diventare uno scrittore importante, ma prova un senso di colpa per aver lasciato la famiglia, la sua
terra e perché è mantenuto dalla famiglia. Voleva affermarsi come letterato. Viene presentato a
Francesco dell’Ongaro e incontra letterati dell’epoca come Capuana. Inizia a distaccarsi dal
romanticismo e si avvicina al verismo. In questo periodo inizia a conoscere anche i filosofi che
riportano in Italia il pensiero positivista. Inizia però ad avere successo, nel 1866 pubblica Una
peccatrice e poi Storia di una capinera, romanzo epistolare in cui la protagonista Maria, è
paragonata a una capinera perché costretta a farsi suora. Ci avviciniamo al mondo verista,
ambientazione prettamente siciliana, personaggio vinto dal mondo, impersonato da Maria che
cerca di ribellarsi, si innamora anche di un giovane e muore di dolore. Si intravedono elementi
veristi, ma anche romantici per le sensazioni, le angosce, le paure della protagonista. Nel 1872 si
trasferisce a Milano, frequenta i salotti letterari, entra a contatto con I letterati scapigliati come
Boito, Praga, De Roberto e Giacosa invece sono legati al pensiero verista. Di questo periodo Eva,
Eros e tigre reale. Si avvicina al verismo, non in Sicilia, dopo Nedda ci si avvicina al verismo, ma ci
sono ancora tratti romantici. Lo studio del naturalismo grazie all’amicizia con Capuana, fino ad
arrivare alla prima vera opera verista Rosso Malpelo, che segna la conversione di Verga al verismo.
A 16 anni scrive la sua prima opera, Amore e Patria, influenzato dalle idee risorgimentali, il suo
maestro era un esponente di questa corrente. Dopo questo periodo di prova in cui lui cerca di
inserirsi in questo mondo intellettuale, anche se la famiglia lo vuole avvocato, è fermo nel suo
intento. Nel secondo periodo si sposta a Firenze, qui inizia ad ampliare le sue vedute, essere meno
provinciale, conosce gli intellettuali del tempo e stringe amicizia con Capuana, è il periodo in cui si
rifà di più al romanticismo e al realismo. Le opere di questo periodo sono romanzi d’amore, amore
tormentato, che si conclude in tragedia, sullo sfondo di una società vuota, ormai senza valori. Già
nel periodo fiorentino Verga inizia a distaccarsi dal romanticismo e dal realismo, i critici tradizionali
considerano la novella Nedda il primo esempio di scritto verista, in realtà sappiamo che è Rosso
Malpelo che segna il passaggio ufficiale al verismo. Perché la novella Nedda è ancora legata agli
elementi caratteristici del romanticismo, in particolare la presenza del narratore onnisciente che
critica la tragica situazione di Nedda. Successivamente si sposta a Milano, entra in contatto con gli
scapigliati, è proprio qui che compone le opere veriste più importanti, le altre novelle dei campi, I
Malavoglia Mastro Don Gesualdo, anche se lui avrebbe voluto scrivere altri 3 romanzi, il ciclo dei
vinti. Finalmente ha successo come scrittore, diventa famoso, viene nominato senatore d’Italia,
negli ultimi anni della sua vita rientra in Sicilia e muore a Catania nel 1922.

POETICA
Verga scrive per circa cinquanta anni della sua esistenza. L’ultima grande sua opera è Mastro Don
Gesualdo (1889). Scrive molte raccolte di novelle e 12 romanzi, che occupano un trentennio, dal
1850 al 1880, il periodo più produttivo è quello dei romanzi. Tutte le sue opere hanno in comune
una ricerca costante dei meccanismi che regolano il mondo contemporaneo, i rapporti tra le
persone, gli stili di vita delle persone. Verga è lo scrittore che più si confronta con la modernità e
con le sue contraddizioni tanto che uno dei critici più importanti di Verga, Luperini, scrive un lavoro
intitolato Verga Moderno. I suoi primi esperimenti da scrittore li fa da sedicenne, diciassettenne,
con I romanzi Amore e Patria, che non viene mai pubblicato, I carbonari della montagna, che ha
come protagonisti i carbonari calabresi, ambientato sull’Aspromonte (1861) e il romanzo Sulla
laguna, ambientato a Venezia (1863). Questi sono solo primi esperimenti, pubblicati a sua spese,
inizia ad avere un po’ di successo con la pubblicazione del romanzo Una peccatrice nel 1866 , è la
storia di uno scrittore che si innamora di una donna, non viene ricambiato finché non diventa
famoso, c’è un po’ di autobiografico, finisce tragicamente perché la donna si suicida e lui smette di
scrivere quando è ancora a Catania e successivamente a Firenze con Storia di una capinera. Storia
di una capinera è la storia di Maria che vive in un collegio, d’estate conosce un giovane Nino,
vorrebbe sposarlo, Nino si sposa con la sorellastra di Maria perché lei è destinata a diventare
suora. Si ammala e poi muore… il tema comune è quello dell’amore passionale secondo la moda
dell’800, ma troviamo già il confronto con un mondo ormai nuovo regolare soltanto dalle leggi
economiche, mondo in cui l’intellettuale non si trova più a suo agio. Un altro romanzo di passaggio
tra la produzione più vicina al romanticismo e l’avvicinamento al verismo è il romanzo scritto a
Firenze nel 1873, Eva, Eva è una ballerina di successo che si esibisce nei teatri più importanti di
Firenze, di lei si innamora un intellettuale puro, ingenuo, che si chiama Enrico Lanti, viene dalla
Sicilia, mantiene gli ideali della sincerità, dell’integrità che si scontrano con la società cittadina,
falsa. I due si innamorano e decidono di vivere lontano dalle luci della ribalta, questo provoca una
profonda crisi tra di loro perché si rendono conto che la loro vita diventa solo una noia, non ha
nulla di concreto, ma dipendeva da quel mondo scintillante della città. Si separano, lui si ammala,
diventa povero perché non riesce più a scrivere, la cosa più grave è che lui abbandona la sua
passione, la sua vocazione di diventare pittore intellettuale, infatti Verga dice in modo molto triste
che Enrico si ridurrà a dipingere oleografie commerciali, si adeguerà anche lui a questa ricerca
costante di successo, di denaro. Il mercato vince quindi sull’arte. Nella prefazione di Eva, abbiamo
una dichiarazione di Verga, dice che racconta una storia vera, e lo ripete più volte, dice che
mantenendo un forte spirito polemico, dice che la società ormai vive in un’atmosfera di banche e
imprese industriali, una società che cerca soltanto il profitto e il benessere. Non c’è nulla che
riguardi la cura dello spirito. Per spiegare questo concetto fa un confronto con il passato, mentre
della civiltà greca noi vediamo la statua di Venere, i posteri vedranno della società moderna il can-
can litografato (una stampa delle ballerine che ballano il cancan), un surrogato commerciale
dell’arte in generale. Ci stiamo avvicinando al verismo, ma ancora con un Verga polemico, che
pensa che l’opera possa essere strumento di denuncia sociale. Gli altri romanzo di passaggio, che
hanno come argomento l’amore passionale sono Tigre Reale e Eros del 1875. Parliamo della
novella Nedda scritta nel 1874, Nedda è una giovane che vive in un ambiente poverissimo,
arretrato, siciliano, il mondo contadino di allora, per vivere fa la raccolta delle olive, la sua vita è
contraddistinta da tante morti familiari, perde i genitori e dalla violenza che subisce più volte. Si
innamora da un giovane che però lavorando cade da un albero e muore. Lei però rimane incinta
degli abusi, nel paese vorrebbero che lei non tenesse il bambino, le propongono di lasciare il
bambino e continuerà la sua vita, ma lei vuole tenere il suo bambino nonostante le sue difficoltà e
subisce l’onta della ragazza madre con tutte le critiche del paese. Alla fine il bambino muore di
stenti, non riesce a mantenerlo. Viene fuori un nuovo Verga, che non scrive più romanzi con
personaggi borghesi e altolocati, ma i protagonisti sono i personaggi più poveri, i rifiutati dalla
società. La svolta verista l’abbiamo nel 1878 con la pubblicazione della novella, che prima di
pubblicare ha fatto anche leggere a Capuana, Rosso Malpelo. Le novità fondamentali sono l’uso
dell’impersonalità e della lingua che rimanda al dialetto siciliano, da qui l’ingresso ufficiale di verga
nel verismo e da qui la sua produzione ha più successo, la raccolta Vita dei Campi, all’interno della
quale c’è Rosso Malpelo, ma anche altre sette novelle, che pubblica nel 1880. Nel 1881 pubblica I
Malavoglia, poi altre raccolte di novelle tra cui Novelle Rusticane nel 1883 e Mastro Don Gesualdo
nel 1889.

Mentre nell’800 il narratore è figura esterna alla narrazione, superiore ai personaggi che descrive,
con Verga la figura del narratore onnisciente viene distrutta. Il narratore sparisce quasi, non viene
dall’alto, ma spesso si confonde con i personaggi. Nella prefazione di una delle novelle di Vita dei
Campi che si intitola L’amante di Gramigna,( la storia di questo bandito che in un piccolo paese
conosce una fanciulla pura e casta si innamora e scappano insieme, la gramigna è un’erbaccia),
abbiamo quasi un manifesto letterario verista di Verga, dice che la mano dell’artista deve essere
assolutamente invisibile, il racconto avrà l’impronta dell’avvenimento reale e l’opera sembrerà
essersi fatta da sé. Per ottenere questo effetto scrive è necessario che l’autore abbia avuto il
coraggio divino di ecclissarsi e sparire nella sua opera immortale. La storia quindi viene raccontata
da un personaggio del popolo che in realtà però non si identifica in nessuno dei personaggi del
racconto, ma si capisce che fa parte di quella comunità, perché conosce le caratteristiche di
ognuno, del luogo, i modi di pensare, i modi di dire, per questo trovandosi sulla scena è come se
accettasse in modo incondizionato quello che succede, anche se noi lettori possiamo considerarle
stranezze (ad es. Rosso malpelo considerato cattivo per i capelli rossi). Il narratore non potrà mai
giudicare ciò che succede, in altre novelle come Pentolaccia troviamo altri elementi che
caratterizzano la poetica verghiana, capiamo che il linguaggio, dal momento che il narratore fa
parte del luogo raccontato, deve essere un linguaggio adatto, un linguaggio popolare. Un altro
elemento importante è una lettera che scrive a Capuana in cui delinea la differenza tra le opere di
Zola che lui ben conosce e le sue, mentre i personaggi di Zola hanno speranza di migliorare la loro
condizione, la realtà di Verga è immodificabile, anzi chi cerca di sfuggire dalla realtà, da questa vita
così complicata, inesorabilmente è destinato a morire. Tra le tecniche narrative utilizzate da Verga:
l’impersonalità, il discorso indiretto libero, riporta i dialoghi dei personaggi senza inserire i verba
dicendi (disse che; affermò che), quindi frasi e pensieri dei personaggi sono riportati in modo
indiretto. Un’altra tecnica subito teorizzata da Luigi Russo,(che quasi recensisce I malavoglia) è la
tecnica della regressione, l’autore non c’è, si eclissa diventa personaggio popolare e quindi
regredisce a pensare come i suoi personaggi.

ROSSO MALPELO
Dal primo capoverso capiamo che lui è già catalogato dalla società come malizioso e cattivo, perché
aveva i capelli rossi, e per questo chiamato Malpelo. Questo lo dicono i compaesani. Persino la
madre non ricorda più il suo vero nome e lo chiama Malpelo. Quando portava i soldi a casa, per
essere sicure che avesse portato tutti i soldi lo picchiavano, perché lui era Malpelo. Viene
paragonato a un cane rognoso, toccato solo con i piedi perché può essere pericoloso. Tutte queste
cose dette, sono cose che dice il popolo. Queste affermazioni si intercalano nella narrazione della
vicenda, con esempi, per esempio quando mangiavano gli operai lui era isolato e beffeggiato. Non
è degno di stare nella cava ma ci lavora solo perché il padre è morto lì. Inizia con un flashback la
storia del padre (Mastro Misciu). Il padre era un grande lavoratore, che però non era capace di fare
affari e guadagnare dal suo grande lavoro, era considerato un minchione che si faceva gabbare, gli
davano sempre più lavoro e lui non attaccava briga anche se non guadagnava. Fin da piccolo
Malpelo seguiva il padre nel suo lavoro. Mastro Misciu si trova nella cava e rimane anche il sabato,
quando tutti vanno via, perché vuole finire questo lavoro molto pericoloso, deve togliere un
pilastro, lui continua a lavorare mentre gli altri lo prendevano in giro. Crolla una parte della cava e il
padre muore. Già da qui capiamo come Malpelo sia legato al padre e si preoccupi per lui,
considerati i personaggi che erano considerati due bestie è qualcosa di importante. Le donne
vanno a chiamare l’ingegnere, che piangevano e si battevano il petto, cosa tipica siciliana. Il padre
di Malpelo nel momento in cui sta lavorando crolla tutto, l’ingegnere capo dei lavori, si mostra
totalmente indifferente e continua a guardare lo spettacolo perché ormai non c’è più nulla da fare
e per liberare la zona serve una zona. Malpelo si trova vicino al padre, viene deriso, dimostra
l’attaccamento al padre cercando di scavare e di trovare il padre, ma viene beffeggiato e
nonostante ciò però lui non ha altro posto dove andare, la famiglia ha bisogno di farlo lavorare e
quindi la stessa madre lo riporta alla cava che è come se fosse casa per lui, perché era abituato a
stare lì con il padre. Continua a scavare ed è come se rimanesse più vicino al padre. Lui si chiude
ancora di più in sé stesso, diventa più animalesco, è arrabbiato perché solo lui ha cercato di salvare
il padre, viene fuori la società cattiva e indifferente. Malpelo aveva il cane, lui se la prende con
l’asino, lo picchia in modo da farlo morire più presto, siccome era sfruttato come lui e con la morte
pone fine alle sofferenze dell’asino. Come succedeva a casa qualsiasi cosa succedeva nella cava era
sempre colpa sua. Come Malpelo non ha un suo nome, ma un soprannome cattivo, così il bambino
che arriva alla cava e che zoppica viene chiamato Ranocchio. Verga ci dice che Malpelo vuol bene a
Ranocchio ma lo picchia per farlo diventare più forte, lo vedeva troppo debole, preso in giro da
tutti e quindi vuole fargli del bene, ma lui non sa come si fa, perché non ha mai avuto qualcuno che
gli facesse del bene. Vuole insegnargli a reagire, a suo modo, con l’unico modo che conosce la
violenza. Capiamo la motivazione per cui Malpelo non reagisce, ma colpisce di più la rena come se
fosse un diavolo, Ranocchio vuole che si difenda, ma lui è rassegnato perché è Malpelo. Abbiamo
un’altra sorta di flashback. Non ha neanche l’amore della mamma. Lo mandano in esplorazione
perché c’è da fare un lavoro pericoloso nella cava e nessuno vuole farlo. Con quest’azione di
sacrificarsi per tutti, diventa eroe, nonostante sia animalesco, criticato e insultati.

+ leggere 5 novelle (Rosso Malpelo, Fantasticheria(rappresenta la contrapposizione,


l’incomunicabilità, l’impossibilità di comprendere quel mondo e la novella è una lettera che verga
scrive a questa donna nella quale ricorda quello che lei ha provato e fondamentale è l’ideale
dell’ostrica, i personaggi che rappresenta sono come un’ostrica che vive perché attaccata alla
roccia, quando si stacca si perde perché rischia di essere mangiata dagli altri pesci, il valore della
famiglia e stare uniti e chiusi è fondamentale per quei personaggi e sopravvivere perché il mondo
intorno li può fagocitare, è considerata anche preludio ai malavoglia perché sono presentati dei
personaggi che troveremo nei malavoglia) , la lupa,(troviamo i sentimenti animaleschi, a volte
paragonata a rosso malpelo, una vecchia che si innamora di un giovane che però sposa la famiglia
fanciulla casta che soffre la condizione della madre, è in relazione con rosso malpelo perché
criticata ed emarginata dalla società, così come Rosso malpelo) Cavalleria Rusticana(è la storia di
un Delitto d’amore, il binomio amore e morte e il tema del duello, l’amore visto come passione,
l’onore, due giovani innamorati della stessa ragazza si combattono in duello) e la Roba ( è
un’anticipazione di Mastro Don Gesualdo, i protagonisti delle 2 opere sono 2 persone che si sono
arricchite grazie alle loro terre, non sono nobili e sono attaccati ala Roba talmente Tanto che
vivono da soli e sono schivati da tutti e alla fine faranno una brutta morte). Verga criticava il mondo
a lui contemporaneo che cercava solo ricchezze, qui abbiamo una velata denuncia.
Il secondo periodo del verismo Novelle rusticane e le più importanti sono Libertà e La Roba,
mentre nelle opere della prima parte del verismo di verga, i concetti analizzati di più sono la vita
misera dei personaggi, la condizione misera, nelle opere del secondo verismo, l’elemento
caratterizzante è la ricerca quasi ossessiva del potere e della ricchezza, verga dice che la sua società
è basata sull’economia, sulla ricchezza. Libertà è una novella di denuncia anche politica perché
troviamo Garibaldi che arriva a Bronte e diciamo è visto come un liberatore e con l’arrivo dei
garibaldini sono tutti contenti anche i contadini si ribellano ai nobili. I contadini poi vengono puniti
dagli stessi garibaldini per la loro ribellione e ci si rende conto che si è passato dal dominio dei
Borbone al dominio dei Savoia, l’arrivo di questi uomini non è in realtà un preludio alla libertà.
L’altra novella La roba, Mazzarino precedentemente è un semplice contadino, però riesce ad
acquisiate tutte le terre del suo padrone a diventare ricco e potente però non ha una vita perché
tutto è considerato uno spreco di soldi, se la prende con la mamma perché è morta e gli ha fatto
spendere soldi per il funerale. Morirà solo e disperato ma prima di morire quando si rende conto
che sta per morire prende un bastone r inizia ad ammazzare le galline, le anatre, l’ultima frase è
Roba mia vienitene con me, non poteva portarsi la roba come sé e qualcun altro avrebbe
sperperato il suo patrimonio. Come la novella Fantasticheria introduzione ai malavoglia, questa
introduce a Mastro Don Gesualdo, e un ossimoro viene associato il termine Mastro (operaio) a
don(titolo dato ai ricchi), Gesualdo viene da una famiglia semplice, di operai, ma cerca in tutti i
modi di acquistare non nobiltà ma ricchezze, spende soldi solo per comprare le terre, ha una
relazione con una contadina che lavora le sue terre, ha pure due figli con lei ma non li riconosce, li
manda in orfanotrofio perché avrebbero compromessi la sua immagine perché stava diventando
ricco. Si sposa solo con bianca figlia di un nobiluomo, ma in realtà non ha nulla, vive di prestiti, ma
la sposa per avere il titolo nobiliare. Diventa ricco e nobile, ma rimarrà sempre Mastro, un
muratore, la famiglia d’origine faceva i mattoni. Il matrimonio con Bianca non è assolutamente
d’amore, Bianca ha anche un amante, protagonista del successivo romanzo dei vinti (dovevano
essere 5, la duchessa di Leira, ha come protagonista l’amante di Bianca e la figlia di Bianca e
Gesualdo, è una ragazza moderna, ha confidenza solo con la madre, ha una sorta di repulsione per
il padre perché lo vede come una persona rozza e rustica, lei sarà vicino al padre nel momento in
cui morirà, però lo abbandonerà proprio quando sta per lasciare la vita, per dare quest’idea di
grande solitudine vissuta dai personaggi attaccati solo la ricchezza. Viene fiori anche questa nobiltà
ormai decaduta che è solo apparenza, una società ormai vecchia che non riesce a inserirsi in
questo mondo nominato dal ceto medio borghese, verga fa una sorta di critica nei confronti di
questa società. Abbiamo la tecnica dell’impersonalità e del discorso indiretto libero, ma a
differenza dei Malavoglia Mastro Don Gesualdo e visto quasi con pietà dallo scrittore che non
interviene, ma Gesualdo gli fa quasi pena per la sua condizione, nonostante sia un personaggio
freddo e calcolatore dedito solo alle sue ricchezze. Quando si ammala don Gesualdo va a vivere a
casa della figlia però non riesce a sopportare di vivere lì. Conosciamo la sua morte attraverso i
commenti anche superficiali dei servitori.
Mastro Don Gesualdo è diverso dagli altri componimenti perché l’approfondimento psicologico è
maggiore in confronto ai Malavoglia r soprattutto alle novelle del primo Verga.

IL VERISMO E I SUOI IDEALI


Nella seconda metà dell’800, il Verismo italiano, di cui le opere di Verga rappresentano il risultato
più felice, all’attenzione per gli “umili” già presente nella letteratura romantica aggiunse, almeno
negli intenti, il metodo positivista di analisi e indagine sociale.
Sulla scorta del naturalismo francese, gli autori veristi intendevano analizzare il “documento
umano” con rigore scientifico, attraverso una narrazione “impersonale” che celasse la mano
dell’autore e una lingua che ricalcasse quella dell’ambiente narrato, non necessariamente umile
come dimostrato dal progetto del ciclo dei Vinti di Verga o dai Viceré di De Roberto. L’esperienza
verista in Italia si allontanò presto dal naturalismo francese, con l’eccezione di qualche pagina di
Luigi Capuana che ne era stato promotore, ed ebbe in Giovanni Verga, Federico De Roberto e
Matilde Serao, oltre che lo stesso Capuana, i suoi massimi esponenti.
VERGA VERISTA
Il primo passo di Verga verso il Verismo è tradizionalmente datato al 1874, di quell’anno è infatti la
pubblicazione della novella Nedda, in cui non più il mondo borghese, ma la Sicilia rurale è
rappresentata dall’autore. Tuttavia, il metodo verista è ancora lontano: la voce dell’autore è ben
presente nella condanna al moralismo ipocrita e alle leggi di sfruttamento della società
contemporanea.
Gli studi e le inchieste che andavano diffondendosi in quegli anni sulla questione meridionale
sicuramente condizionarono lo scrittore nella scelta di rappresentare il mondo popolare, mentre
l’influenza del naturalismo francese poneva la questione sul metodo, e dunque su come realizzare
un’obiettiva rappresentazione artistica di un “documento umano”. Nelle novelle composte tra il
1878 e il 1880, poi raccolte in volume col titolo di Vita dei campi, troviamo un primo tentativo di
attuare questo ideale artistico, espressamente dichiarato dall’autore in una lettera a Salvatore
Farina (direttore della rivista che avrebbe pubblicato la novella L’amante di Gramigna appartenente
alla raccolta): “la mano dell’artista rimarrà assolutamente invisibile, allora avrà l’impronta
dell’avvenimento reale, l’opera d’arte sembrerà essersi fatta da sé, aver maturato ed esser sorta
spontanea come un fatto naturale, senza serbare alcun punto di contatto col suo autore, alcuna
macchia del peccato d’origine”.

L'ORIGINALITÀ DI VERGA
Oltre all’adesione ai dettami del naturalismo, troviamo in queste novelle alcuni elementi
assolutamente originali: la rinuncia alle tinte forti e alla drammatizzazione emotiva, così come la
scelta di un linguaggio che fosse davvero rappresentativo del mondo narrato, attraverso un punto
di vista interno alla vicenda, e dunque come se un narratore appartenente a quel mondo ne
narrasse le vicende.
Il pessimismo profondo, che esprime nella sua opera, è l’altro elemento di originalità del Verga
scrittore, che non condivide l’euforia dell’affermazione borghese e la fiducia nel progresso della
società a lui contemporanea.
Dalle sue opere emerge la condanna per un sistema che non ha pietà per le sue vittime.
È il risultato del disincanto di Verga rispetto all’esperienza risorgimentale, di cui lucidamente intuì i
limiti: moto guidato dalla borghesia per i propri interessi, indifferente rispetto alle condizioni
drammatiche in cui versavano le classi più umili. Le plebi, del resto, troppo ignoranti e arretrate,
avevano dimostrato di essere incapaci di salvarsi da sole, né si poteva confidare in uno Stato che si
era dimostrato solo strumento di oppressione manovrato dalle classi più agiate. Non esiste
speranza per i vinti perché non esiste una Provvidenza salvifica né l’aspettativa di un miglioramento
sociale: la “fiumana del progresso” travolge tutti, non solo gli umili ma anche gli appartenenti alle
classi più elevate come il Ciclo dei Vinti (che inizialmente doveva chiamarsi Marea) era inteso a
dimostrare.
Nella società moderna, gli interessi economici sono il moderno fato a cui nessuno sfugge.

I VINTI NEI ROMANZI E NELLE NOVELLE


Pubblicato nel 1881, I Malavoglia è il primo di un ciclo di cinque romanzi, intitolato I vinti, che nelle
intenzioni dell’autore avrebbe dovuto rappresentare il tema del progresso dell’umanità, in un moto
sociale ascendente dall’umile pescatore all’Uomo di lusso.
Verga accetta in astratto l’idea del progresso inevitabile, ma rifiuta la narrazione trionfalistica che
ne dà la società borghese. Il pessimismo amaro dell’autore è evidente nella scelta di concentrare lo
sguardo sulle vittime travolte dalla “fiumana del progresso”, come spiega nella prefazione all’opera:
“Solo l’osservatore travolto anch’esso dalla fiumana, guardandosi attorno, ha il diritto di
interessarsi ai deboli che restano per via, ai fiacchi che si lasciano sorpassare dall’onda per finire
più presto, ai vinti che levano le braccia disperate, e piegano il capo sotto il piede brutale dei
sopravvegnenti, i vincitori d’oggi, affrettati anch’essi, avidi anch’essi d’arrivare, e che saranno
sorpassati domani.”
Il conflitto tra vecchio e nuovo, motivo dominante del romanzo, è espresso da padron ‘Ntoni e dal
nipote, portatori di due diverse concezioni della vita: da un lato l’accettazione di ciò che si è e ciò
che si è sempre stati, dall’altro l’inquietudine e il desiderio di migliorare la propria condizione.
Con Novelle rusticane, scritte tra il 1881 e il 1882 e pubblicate in volume nel 1883, l’autore
conferma il proprio interesse nei confronti del mondo rurale, qui analizzato dal punto di vista delle
leggi socio-economiche che lo regolano e che ad ogni livello, anche all’interno della famiglia, si
impongono sui sentimenti. Nello stesso anno, viene pubblicata un’altra raccolta di novelle, Per le
vie, in cui il metodo verista di Verga è applicato alla grande città: protagonisti sono infatti gli umili
di Milano.
Del Mastro Don Gesualdo, secondo capitolo del ciclo dei Vinti, rimangono due edizioni, l’una
pubblicata a puntate nel 1888 e una seconda, pubblicata in volume l’anno successivo e frutto di
una profonda revisione della prima.
Nel romanzo, la grandezza epica di Gesualdo, dimostrata nei suoi sforzi incessanti per crearsi la
roba e poi per guadagnarsi un posto in un mondo che non l’accetterà mai, si risolve infine in una
più amara sconfitta, nella consapevolezza della vanità della sua lotta, del fallimento di una vita.

I MALAVOGLIA
I Malavoglia è il romanzo più famoso di Giovanni Verga e quello in cui l’autore riesce a esprimere al
meglio la poetica del Verismo.
Si tratta del racconto delle sventure di una famiglia di pescatori siciliani negli anni successivi
all’Unità d’Italia. I Malavoglia viene pubblicato nel 1881 dall’editore Treves e inizialmente è accolto
con freddezza da lettori e critici. Come succede spesso per le grandi opere della letteratura, solo
più tardi il romanzo sarà recuperato e valutato positivamente.
Il romanzo è frutto di un lungo lavoro di progettazione e stesura e rappresenta la prima tappa di
quello che doveva essere il Ciclo dei vinti. In questo primo romanzo Verga parte dal livello sociale
più basso e descrive la vita del villaggio di pescatori siciliano di Aci Trezza.
Curioso è constatare come spesso temi e tecniche che poi saranno sviluppati nei romanzi siano già
presenti nelle novelle.
Dal punto di vista delle tecniche in questo romanzo Verga ricorre all’impersonalità e al narratore
popolare, che già aveva usato ad esempio Rosso Malpelo.
Il romanzo narra la storia della famiglia Toscano, detta malignamente dal popolo “Malavoglia”, una
famiglia di pescatori del piccolo paese siciliano di Aci Trezza.
Padron ‘Ntoni è il capofamiglia e l’unità e l’economia familiare sono garantite dalla casa del
nespolo e dal peschereccio, chiamato “La Provvidenza”, ma una serie inarrestabile di disastri
colpirà la famiglia.
Il giovane ‘Ntoni, nipote di Padron ‘Ntoni, deve partire per il militare e la famiglia è costretta ad
assumere un lavoratore. A ciò si aggiunge una cattiva annata per la pesca e il bisogno di una dote
per Mena, la figlia maggiore, che si deve sposare.
Il naufragio delle "Provvidenza"Padron ‘Ntoni decide allora di tentare la via del commercio, ma la
Provvidenza - la barca che serve al sostentamento di tutta la famiglia - naufraga e muore
Bastianazzo, figlio di Padron ‘Ntoni e futuro capofamiglia. La nave era carica di lupini comprati a
credito dall’usuraio Zio Crocefisso. Questo evento causa la rovina economica dei Malavoglia, che
perdono anche la casa del nespolo.
Poco dopo il colera uccide la madre. La Provvidenza, che era stata riparata, naufraga di nuovo, i
membri della famiglia rimangono senza lavoro e sono costretti ad arrangiarsi con lavoretti poco
redditizi. Intanto il giovane ‘Ntoni, partito per il militare, entra in contatto con il mondo esterno.
Finito il servizio militare si rifiuta di tornare a casa per dedicarsi al duro lavoro che le difficoltà
economiche della famiglia gli imporrebbero. Decide di dedicarsi al contrabbando e a una vita
dissipata. Finisce in carcere dopo una rissa con la guardia che aveva tentato di sedurre la sorella
Lia. L’altro nipote, Luca, muore durante la battaglia di Lissa del 1866. Lia, dopo l’episodio con la
guardia, si sente disonorata e fugge a Catania, dove finisce per lavorare come prostituta. A causa di
questo Mena non può più sposarsi.
Il nucleo familiare è completamente distrutto e Padron ‘Ntoni, ormai malato, si avvicina alla morte.
Tuttavia, dopo tanti sacrifici, l’ultimo nipote, Alessi, riesce a ricomprare la casa del Nespolo e tenta
di ricostruire il nucleo familiare senza però riuscirci: Padron ‘Ntoni muore in ospedale, lontano
dalla casa e dalla famiglia mentre il giovane ‘Ntoni, uscito dal carcere, capisce di non poter più
esser parte di quella vita e abbandona per sempre il paese natale.

Le contrapposizioni all'interno del romanzo I Malavoglia è un romanzo dominato da forze opposte,


che si contrappongono. Vedremo ora quali sono queste forze e come esse interagiscono tra di loro.
Prima di tutto possiamo distinguere nell’intreccio due filoni principali, che presentano due
strutture narrative diverse:
Il filone delle vicende di ‘Ntoni, che si dispone secondo una struttura lineare. ‘Ntoni parte per il
servizio militare, torna al paese, ma poi riparte definitivamente.
Il filone delle vicende della famiglia, che ha una struttura circolare imperfetta. Inizia con la rottura
dell’equilibrio preesistente, da cui derivano una serie di sventure, fino a una ricomposizione
dell’equilibrio quando Alessi ricompra la casa. Ma non si tratta di un circolo perfetto, perché la
situazione di partenza non coincide esattamente con quella di arrivo. L’universo arcaico è stato
compromesso ormai dall’irruzione della storia e la ricostruzione del nido familiare è contrastata
dalla partenza di ‘Ntoni, lasciandoci con un dubbio sull’effettiva riuscita dell’operazione di Alessi.
Anche il tempo assume nel romanzo due configurazioni differenti, che riflettono il conflitto tra
mondo tradizionale e mondo moderno:
Il tempo circolare della natura, fatto di ritmi che si ripetono sempre uguali ogni anno, le stagioni,
che scandiscono i lavori dei campi e la pesca. È un tempo che torna sempre su sé stesso,
escludendo ogni novità.
Il tempo rettilineo della storia, scandito dagli eventi che modificano per sempre il mondo e il
destino dei Malavoglia, le morti e le disgrazie che li colpiscono. È un tempo che porta con sé un
continuo e irreversibile rinnovamento.
Anche lo spazio raccontato nel romanzo si suddivide in due luoghi differenti in lotta tra di loro:
Spazio interno al villaggio, che per i Malavoglia è conosciuto e rassicurante, caratterizzato da
elementi ricorrenti come il rumore del mare e che corrisponde al tempo ciclico.
Spazio esterno al villaggio, indeterminato e minaccioso, che invade con i suoi effetti negativi lo
spazio del villaggio e corrisponde al tempo lineare della storia.
In entrambi gli spazi domina la lotta per la vita ed entrambi sono sottomessi a forze distruttive e
conflitti. All’interno dello spazio chiuso del villaggio si può infatti individuare il conflitto tra gli
appartenenti alla famiglia del Malavoglia e gli altri abitanti del paese, che contribuiscono alla
rovina della famiglia.
I Malavoglia può essere considerato come la descrizione di una società arcaica rappresentata nel
momento del cambiamento. Le sventure che colpiscono i personaggi derivano dall’irruzione della
storia e della modernità all’interno del loro mondo immobile e fuori dal tempo.
Questi eventi sono in particolare:
L’Unità d’Italia, che determina la chiamata al servizio militare per ‘Ntoni e Luca. Il primo viene a
contatto col mondo e non riesce più a tornare alle sue origini, mentre il secondo muore in
battaglia.
La Rivoluzione Industriale, i cui effetti inducono i Malavoglia a tentare il commercio di lupini e a
indebitarsi con Zio Crocefisso.
Il romanzo rappresenta la fiumana del progresso che travolge i vinti, coloro che non riescono a
stare al passo con la storia. Nella storia il mondo tradizionale, rappresentato dai Malavoglia, si
oppone alla logica economica moderna, rappresentata dagli altri abitanti del villaggio.
Il vecchio ‘Ntoni e il giovane ‘Ntoni rappresentano due modi diversi, entrambi destinati alla
sconfitta, di confrontarsi con il mutamento:
Il vecchio ‘Ntoni difende i valori antichi e la famiglia, ma tenta la strada del commercio che lo porta
alla rovina.
Il giovane ‘Ntoni a contatto con il mondo della città perde le proprie radici e non si riconosce più
nei valori tradizionali, decidendo alla fine per una partenza senza ritorno.
La vicenda dei Malavoglia assume un carattere mitico, diventa simbolo assoluto e descrive le
vicende di tante famiglie dell’epoca e la fine di un mondo che interessò moltissime persone.
Tuttavia quello tradizionale non è un mondo idealizzato poiché viene rappresentato in tutti i suoi
aspetti negativi. La nostalgia che deriva dalla lettura delle vicende narrate nasce solo dalla distanza,
dal nostro trovarci altrove, nel mondo borghese e moderno che ha sostituito quello tradizionale.

Verga, "Vita dei campi": introduzione alla raccolta


Vita dei campi è una raccolta di otto novelle (nell’ordine: Fantasticheria, Jeli il pastore, Rosso
Malpelo, Cavalleria rusticana, La lupa, L’amante di Gramigna, Guerra di santi, Pentolaccia) di
Giovanni Verga pubblicata dall’editore milanese Treves nel 1880. Oltre a contenere una delle
novelle più note dell’autore siciliano, è considerata un anello di congiunzione fondamentale tra le
prime opere verghiane (come Storia di una capinera, Eva o Nedda) e il ciclo romanzesco dei “vinti”,
aperto da I Malavoglia nel 1881.

Tematiche, modelli e contenuti


Preceduta da una raccolta di carattere intermedio come Primavera e altri racconti (Brigola, 1876),
in cui comunque l’autore manifestava il suo favore per le posizioni del realismo letterario, Vita dei
campi riunisce testi già usciti su rivista nel biennio 1878-1880 1. Nel corso degli anni l’autore rivede
più volte Vita dei campi, aggiungendo o togliendo testi e intervenendo spesso sulla forma delle
novelle stesse; tuttavia, è la prima edizione del 1880 a riassumere al meglio i criteri e le linee
portanti del “metodo” verista.
Le trame delle novelle ricostruiscono allora il microcosmo di un mondo arcaico ed ancestrale, che
spesso risulta del tutto alieno rispetto alle abitudini urbane e borghesi dei lettori (come spiega
Fantasticheria, il testo di apertura che ha un’importante funzione di introduzione e prefazione
complessiva). I temi portanti della raccolta sono così la radicale distanza tra il mondo moderno e
l’incontaminato mondo di natura siciliano (come in Jeli il pastore), l’analisi impietosa delle leggi di
sopraffazione del più debole (come in Rosso Malpelo), i drammi dell’amore e della gelosia (come in
Cavalleria rusticana, La lupa o Guerra di santi), senza dimenticare l’importanza di chiarire i risvolti
teorici della propria scrittura (la Prefazione all’Amante di Gramigna).
Verga arriva a Vita dei campi dopo anni determinanti per la sua formazione: il contatto con il
gruppo milanese degli Scapigliati, la lettura dei grandi maestri del naturalismo francese (dal Balzac
della Commedia umana fino allo Zola del ciclo dei Rougon-Macquart) e il crescente interesse di
quegli anni per la cosiddetta “questione meridionale” (sostenuta dall’inchiesta La Sicilia nel 1876
dei parlamentari Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino e dalle Lettere meridionali dello storico
Pasquale Villari) indirizzano evidentemente i gusti verghiani, stimolati pure dall’amicizia con Luigi
Capuana (uno dei primi teorici del verismo) e dalla costante riflessione teorica su mezzi e finalità
dell’atto narrativo.

Lo stile di Vita dei campi


Obiettivo di Verga è riprodurre e ricreare sulla pagina il mondo popolare siciliano secondo un’ottica
che non sia né quella intrinsecamente superiore (e spesso sprezzante) dell’intellettuale e del
letterato, né quella ingenua e superficiale dell’empatia populistica per le classi più umili. L’autore
cioè vuole evitare sia la prospettiva distaccata di un osservatore esterno sia cadere nel facile
tranello di immedesimarsi troppo nei protagonisti delle proprie narrazioni. Si capisce che
l’operazione verghiana è tanto stilistica quanto ideologico-concettuale: raccontare al pubblico
milanese la Sicilia più remota significa innanzitutto mostrare gli esiti del Progresso, vero e proprio
mito per la corrente filosofica del Positivismo allora dominante, o della Marea (così Verga voleva
titolare il suo incompiuto “ciclo”) sulle classi più deboli. Ma per fare ciò è anche necessario
impiegare gli strumenti tecnico-stilistici più appropriati: occorre abbandonare volontariamente il
punto di vista del narratore borghese per modellare la propria visione del mondo (e, di
conseguenza, la propria lingua) su quello di ciò che si vuol descrivere, provando ad aderire ad una
mentalità corale e collettiva, non sempre affidabile nel giudizio sui protagonisti (come
esemplarmente dimostrato da Rosso Malpelo).
L’indiretto libero verghiano (e cioè quella forma ibrida tra discorso diretto e discorso indiretto, che
mescola alla parola del narratore quella dei suoi personaggi) e la contaminazione linguistica tra
lingua ufficiale e sintassi modellata su quella del siciliano, muovono quindi in una direzione
nettamente antiletteraria, riproducendo sulla pagina scritta idee, abitudini, convenzioni discorsive,
modi di dire e proverbi, fenomeni tipici dell’oralità, che vogliono portare in primo piano i veri
protagonisti delle vicende narrate che rappresentano. Questo è allora il carattere davvero
innovativo non solo di Vita dei campi ma anche de I Malavoglia.
1 Questo particolare svela un elemento importante ovvero l’esistenza di un doppio canale di
comunicazione col pubblico: il primo è costituito dai periodici, diffusissimi all’epoca, e l’altro dalla
pubblicazione di libri veri e propri, siano essi raccolte di racconti brevi o romanzi lunghi. Com’è
noto, le novelle di Verga sono spesso un “terreno di prova” per i romanzi dell'autore stesso.

Verga, il Positivismo e la "questione meridionale"


Tra politica, inchiesta sociale e romanzo
La critica ha opportunamente messo in luce la relazione che intercorre, da un lato, tra la cosiddetta
“conversione” di Giovanni Verga alla poetica del Verismo, e, dall’altro, l’affacciarsi della "questione
meridionale" nel dibattito della neonata opinione pubblica nazionale. A fronte dei problemi (su
tutti, le altissime percentuali di analfabetismo, il brigantaggio, la distanza percepita dai cittadini
rispetto al Paese legale, le drammatiche condizioni di vita dei contadini) di integrazione del
Mezzogiorno d’Italia con il resto del Regno, il futuro parlamentare Sidney Sonnino (1847-1922),
con Leopoldo Franchetti (1847-1917), compie nel 1876 un viaggio nell'isola da cui deriva l’inchiesta
La Sicilia nel 1876, pubblicata l’anno successivo sulla «Rassegna Settimanale». I due esponenti della
Destra Storica consegnano insomma all’opinione pubblica nazionale e alla fantasia dello scrittore
un fondamentale documento (e si ricordi l’importanza che al termine “documento” si dà nella
Prefazione all’Amante di Gramigna) che indaga le ragioni e le cause del sottosviluppo del Meridione
d’Italia. Il dito è puntato sia contro questioni economiche strutturali (come la mancata riforma
agraria, fatto che tutela il potere feudale di nobili e gli interessi dei “baroni” del latifondo) e ferite
aperte di natura sociale, come lo sfruttamento del lavoro minorile nelle zolfare 1. La prospettiva di
Sonnino e Franchetti è insomma di due liberal-conservatori che, dalle basi epistemologiche del
Positivismo, propongono un progetto di riformismo illuminato e filantropico, poi confluito nel
“meridionalismo” di figure quali Stefano Jacini e Pasquale Villari, che sosterranno anch’essi la causa
della riforma agraria come leva dello sviluppo del Sud e per una più equa redistribuzione del
tenore di vita tra le due Italie di fine Ottocento. Si può ben capire allora come, a partire da queste
premesse, il Verga trapiantato a Milano - proprio al tempo della propria adesione alla poetica da
cui deriveranno Vita dei campi (1880), I Malavoglia (1881), e le altre opere maggiori - possa essere
fortemente influenzato dall’Inchiesta e dall’insieme di idee e di prospettive politico-sociali che ne
stanno alla base.

Verga e la Sicilia di fine Ottocento


È, in primo luogo, al livello contenutistico che, nelle opere verghiane, si riconoscono i riferimenti
dello scrittore all’inchiesta di Franchetti e Sonnino 2; e una novella rappresentativa della raccolta
Vita dei campi come Rosso Malpelo li rivela con particolare efficacia. Il protagonista Malpelo -
lavorante presso la stessa cava dove è impiegato, e dove trova la morte, il padre - sembra
modellato sul ritratto che i due studiosi fanno dei bambini impiegati in miniera.
Anche a proposito del romanzo I Malavoglia, sono molti i nuclei contenutistici che Verga, con ogni
probabilità, deriva dalla lucida disamina di Franchetti e Sonnino. Gli elementi della prepotenza,
dell’ingiustizia, della necessaria sopraffazione del più debole da parte del più forte, all’interno di un
tessuto sociale invischiato di favori, personalismi, di stampo quasi feudale - come d’altro canto è
ben rappresentato ancora nel più tardo Mastro don Gesualdo 4 - che muovono la vicenda
romanzesca, fanno da sfondo costante alle pagine dell’inchiesta. Il povero è in balia di questo
contesto sociale, per lui, insidioso e sfuggente: l’avvocato a cui, vanamente, si rivolgono i
Malavoglia per salvare qualcosa della propria condizione 5, richiama significativamente da vicino
quegli “avvocatucoli” 6 citati nell’inchiesta.
Sembra, però, soprattutto un altro elemento ad avvicinare I Malavoglia all’Inchiesta del 1876; in
essa si legge: “il Governo e tutto ciò che lo rappresenta o che è da lui rappresentato, è in molti
luoghi profondamente disprezzato” 7. È la già citata distanza tra il Paese reale, quello della
complessa e immobile società siciliana, e il Paese legale: quello del nuovo Stato nazionale, e delle
sue leggi; per i contadini e i pescatori siciliani - come per i personaggi del romanzo verghiano -
quello del Regno che sottrae i figli per mandarli a morire come soldati in guerre lontane e ignote
(contro “nemici che nessuno sapeva bene nemmeno chi fossero” 8), che mette in prigione, e
soprattutto che impone le tasse:
Dunque, anche presso il letterario borgo di Aci Trezza, l’“autorità pubblica” è “simile a un esercito
in mezzo a paese nemico” 10, come si legge ancora nel resoconto di Franchetti e Sonnino. Il tema
non era inedito per l’opinione pubblica contemporanea, e risale almeno alla diffusione, nel 1863,
della Relazione sulle cause del brigantaggio nel Mezzogiorno di Giuseppe Massari. Giovanni Verga
coglie dunque lucidamente questo aspetto, della distanza tra il nuovo Stato e i suoi cittadini, i quali
si percepiscono - nella migliore delle ipotesi - alla stregua sudditi di un regno straniero; l’autore dei
Malavoglia potrebbe così essere posto all’inizio di una particolare linea della nostra narrativa, che
insistendo sul tema della “questione meridionale” ne analizza le implicazioni e le molte
sfaccettature: come fanno ad esempio Carlo Levi, in Cristo si è fermato ad Eboli, e più
recentemente Roberto Saviano, indugiando sulle condizioni che permettono il proliferare della
criminalità organizzata, in Gomorra.

Verga, la Destra storica e l’Unità d’Italia: un progetto incompiuto


La vicinanza che si è descritta, al livello contenutistico, tra le opere di Verga e i contributi fondativi
della questione meridionale, dipende naturalmente anche da una sostanziale adesione dello
scrittore verista siciliano all’atteggiamento di analisi positivista degli studiosi e uomini politici
impegnati in questa impresa di messa a fuoco del fenomeno. Sonnino diventerà infatti, negli anni
immediatamente successivi all’Inchiesta, figura di riferimento di quella Destra storica a cui pure è
vicino lo scrittore, soprattutto negli anni della maturità. L’unità nazionale e il suo rafforzamento
sono per questi intellettuali, e per gli esponenti di questa parte politica, gli obiettivi centrali del
loro impegno 11. La modernizzazione del Paese e l’educazione degli strati popolari sono per essi da
assumere come strumenti per la risoluzione dei problemi sociali, anche in chiave di prevenzione di
rivolgimenti di matrice socialista (ricordiamo che il Partito Socialista italiano nasce di lì a poco, nel
1892).
Questa tendenza – di ricostruzione scientifica di un ambiente sociale, come presupposto
funzionale per un’azione di risoluzione dei problemi individuati – è in effetti alla base dell’impianto
stesso, di tipo sociologico e politico, del romanzo verghiano. Da tutto ciò, dipendono, dunque le
note componenti documentarie, sociologiche, etnologiche del verismo di Verga. Il quale aveva in
un primo tempo previsto di pubblicare I Malavoglia su «Rassegna Settimanale», la rivista degli
stessi Franchetti e Sonnino; e che dichiara, con forte intento programmatico e spiccata
consapevolezza delle difficoltà del suo compito.
Anche il rifiuto - pur a fronte della presa d’atto delle disuguaglianze delle coeva società siciliana - di
un’istanza effettivamente progressista 13 potrebbe spiegarsi con l’adesione alla Destra storica, a cui
premeva soprattutto la stabilità del quadro sociale. Sembra però, in questo carattere della
letteratura verghiana, giocare un ruolo rilevante specialmente il parziale indugiare, da parte dello
scrittore, anche in atteggiamenti di lirico (e romantico) “idoleggiamento - più mitico che realistico -
della realtà popolare siciliana” 14. Per questa via, dunque, Verga si rivela voce originale sul piano
romanzesco. Illuminata, specie nelle sue tinte più lievi e malinconiche, da una più tradizionale
forma di rimpianto per un mondo rurale minato dal progresso, la scrittura letteraria di Verga è in
ogni caso da comprendere tra gli esiti culturali delle contemporanea propensione all’analisi
scientifica della condizione di un mondo, ormai legalmente italiano, ma nella realtà confinato in
una distanza storica e sociale che rappresenta uno dei problemi più cogenti dell’Italia postunitaria;
con qualche riflesso, ancora, sulla realtà attuale.

Verga, "Fantasticheria": riassunto e commento


Primo testo della raccolta Vita dei campi, Fantasticheria (già comparsa sul «Fanfulla della
Domenica» del 24 agosto 1879) svolge un’importante funzione nell’introdurre la determinante
silloge verghiana, in quanto teorizza esplicitamente alcuni capisaldi della poetica verista degli anni
a venire, oltre ad introdurre per rapidi accenni quelli che saranno i personaggi principali del
romanzo I Malavoglia, che frattanto sta lievitando nella mente dello scrittore catanese.
Assai interessante, appunto per le finalità teoriche che Verga assegna al suo testo, la forma che egli
sceglie di conferirgli: quello di una sorta di lettera, scritta da un protagonista maschile, dietro cui
pare intravedersi l’autore reale, ad una figura femminile non meglio identificata, dalla provenienza
settentrionale e dalla estrazione sociale alto-borghese. I due, probabilmente legati da un rapporto
sentimentale (come pare di intuire tra le righe del testo), trascorrono un breve periodo ad Aci
Trezza, là dove verrà ambientato il romanzo. Subito si percepisce la distanza tra la ricca e
benestante protagonista e l’ambiente che la circonda.
La questione in gioco è insomma quella della differente maniera con cui i due personaggi
osservano e giudicano la realtà rurale ed arcaica del paesino siciliano, fatto di “casipole
sgangherate e pittoresche, che viste di lontano vi sembravano avessero il mal di mare anch’esse”.
Da un lato, l’atteggiamento superficiale e quasi snobistico della donna, che nel corso di una breve
vacanza cerca qualcosa di divertente e di folklorico, cadendo involontariamente nel ridicolo.
Dall’altro, la percezione da parte di chi scrive della radicale distanza tra sé e questo mondo
primitivo, che necessita di uno sforzo notevole per essere compreso e capito a fondo, senza
maschere e mistificazioni. È da questa consapevolezza che prende corpo il progetto perseguito con
Vita dei campi, e cioè quello di “farci piccini anche noi, chiudere tutto l’orizzonte fra due zolle, e
guardare col microscopio le piccole cause che fanno battere i piccoli cuori” 4, come spiega il
protagonista quasi alludendo alle pratiche della ricerca scientifica. E si capisce sin da ora che al
problema della prospettiva (e, quindi, dello stile letterario) si affianca quello dell'impegno etico del
narratore che, pur non facendo parte di questa realtà, deve sforzarsi di aderirvi nella maniera più
piena e “vera”.
Si spiega così l’ironia sarcastica contro le vanità e i disvalori della classe borghese, cui contrappone
quell’“ideale dell’ostrica” che costituisce la miglior sintesi della caparbia mentalità popolare, che
per Verga costituisce un prezioso lascito di valori. Solo vivendo ancorati allo scoglio dove il destino
li ha collocati, gli abitanti di Aci Trezza possono sperare di salvarsi nella lotta per la sopravvivenza, e
sfuggire al “dramma” che il vedrà sempre sconfitti.
E così le ultime righe di Fantasticheria, oltre che anticipare il ciclo aperto da I Malavoglia, forse
alludono anche al profondo impegno etico che Giovanni Verga si assume d’ora innanzi: una
missione letteraria che lo vedrà, nel volgere di poco più di un decennio, produrre alcune delle
opere più alte della nostra storia letteraria e di trovarsi, alla fine, sconfitto dal proprio stesso
progetto.

"La Lupa" di Verga: riassunto e commento


Introduzione
Pubblicata inizialmente sulla «Rivista nuova di Scienze, Lettere e Arti» nel febbraio del 1880 e poi
oggetto di una riduzione teatrale negli anni Novanta dell’Ottocento, La Lupa è una novella cruciale
per comprendere come la tematica amorosa (presente pure in Cavalleria rusticana e che
ricomparirà, in forme più umoristiche, anche in Guerra di Santi o Pentolaccia) sia l'altro polo
d'interesse del Verga verista.
Riassunto e commento
Al centro della novella c’è infatti uno dei personaggi memorabili di Vita dei campi, la “Lupa”
appunto; il narratore, riproducendo l’ottica della mentalità popolare, ci concede in apertura un suo
icastico ritratto.
Nella figura della “lupa” si fondono così la sensualità animalesca e conturbante (sottolineata dalla
ripetizione delle “labbra rosse”), l’esclusione dalla cerchia chiusa della comunità di paese e
addirittura il paragone diabolico (“con quegli occhi di satanasso”) e l’aggressività (“che vi
mangiavano [...]”). La donna, quindi, rappresenta tutto ciò che è estraneo (e quindi, peccaminoso e
malvagio) alla mentalità popolare, tanto da riecheggiare, nel proprio soprannome (peggiorativo
come quello di Rosso Malpelo...) una suggestione dantesca .
La situazione si complica quando, sullo sfondo dell’assolata campagna siciliana del periodo della
mietitura, la “gnà Pina” 3 si innamora di Nanni, un giovane contadino che invece vuol sposare
Maricchia, figlia della protagonista. La Lupa, per realizzare il proprio progetto di seduzione, non
esita a costringere Maricchia al matrimonio, così da vivere accanto all’oggetto del proprio
desiderio. La “gnà Pina” diventa così un elemento fortemente disturbante all’interno della società,
proprio perché trasgredisce alcuni tabù e alcune convenzioni ritenute immodificabili dalla
mentalità arcaica che la circonda. Non a caso, è una frase modellata su un proverbio siciliano che la
bolla agli occhi di tutti.
Pina invece sfrutterà proprio le ore pomeridiane per sedurre Nanni che, convocato dalle forze
dell’ordine a seguito della denuncia di sua moglie per giustificare il suo ripetuto adulterio, non
potrà che confessare la propria disperazione di fronte alla Lupa e alla tentazione che lei
rappresenta.
Al tormento di Nanni corrisponde la determinazione della Lupa, che è la vera forza agente del
racconto e che, anche di fronte ai rappresentanti della legge, non rinuncia alla propria passione
assoluta e totalizzante.
La vicenda non può che avere un esito tragico, come quello di altre novelle verghiane costruite
attorno ad un problema erotico-sentimentale (come la già citata Cavalleria rusticana e in parte Jeli
il pastore). Nanni riceve infatti un “calcio dal mulo” che lo porta vicino alla morte e acquieta
momentaneamente la sua insostenibile passione; ma presto il legame tra il protagonista e la Lupa
torna ad essere morbosamente ossessivo.
L’unica soluzione possibile, nella mente allucinata dell’uomo, non può che essere quella più
estrema, come il finale de La Lupa, in una sorta di tragedia rurale, sintetizza in maniera
emblematica.
Le metafore sessuali de La Lupa
Al di là dello spunto documentario (sembra che Verga si sia ispirato ad un fatto realmente
accaduto), la novella mostra al meglio come la tecnica verista di Verga si presti non solo
all’indagine dei motivi socio-economici alla base della società arcaica siciliana, ma anche alla
rappresentazione delle pulsioni inconsce che attraversano l’animo umano e dei loro effetti spesso
dirompenti. La caratterizzazione del personaggio principale investe allora molti livelli distinti.
Innanzitutto, c’è il soprannome della “gnà Pina”, che la accomuna al mondo animale e ad un
animale pericoloso (e tradizionalmente ritenuto uno dei simboli del male) come il lupo. La donna
viene esclusa dal contesto sociale perché simbolo del peccato carnale, e come tale ci ricorda il
destino di altri esclusi o “vinti” verghiani, da Jeli a Rosso Malpelo, da Turiddu a Gramigna sino al
giovane ‘Ntoni dei Malavoglia. Oltre che nei suoi tratti fisici, la carica sessuale della Lupa si traduce
nella sua forza animalesca 9 e nell’ossessione della sua passione, che viene descritta come una
forza bruciante ed insaziabile, spesso associata alla sensazione divorante della sete.
Anche sotto questo aspetto, La Lupa è una figura assai originale: è infatti lei a rappresentare il polo
attivo della coppia, mentre Nanni gioca un ruolo passivo e succube della femminilità di gnà Pina.
Al confronto con il mondo naturale si aggiunge l’utilizzo da parte del narratore di alcuni colori
ricorrenti, che servono a caratterizzare la Lupa: in particolare, spicca il nero dei capelli di gnà Pina e
il rosso, colore delle labbra della donna e simbolo della passione erotica. Lo si vede molto bene
proprio nella scena finale, quando le tensione giunge al culmine e Nanni decide di uccidere la Lupa,
che “seguità ad andargli incontro, con le mani piene di manipoli di papaveri rossi, e mangiandoselo
con gli occhi neri”. Altra caratteristica della Lupa e della sua forza ferina, oltre al pallore che la fa
sembrare “malata” 13, sono gli occhi “da satanasso” 14 che diventano uno strumento di dominio e
di sopraffazione nei confronti di Nanni, quasi fossero dotato di un potere magico.
La diversità della Lupa ha però due ragioni profonde che il narratore popolare di Verga - sulla cui
attendibilità di giudizio occorre sempre dubitare, come nel caso di Malpelo - non rende del tutto
esplicite. Da un lato, gnà Pina è del tutto estranea alla morale religiosa della comunità popolare,
divenendo una sorta di incarnazione demoniaca 16, tanto che Nanni, per salvarsi da lei, ricorre
addirittura ai conforti della fede e alla penitenza.
In secondo luogo, la Lupa, simbolo dell'eros e del tabù dell'incesto, è completamente aliena alla
legge della “roba”, ed anzi non esita a trasgredirla e a violarla, sacrificando la figlia, la sua dote e
anche i propri averi per avere ciò che desidera.
L’omicidio finale a colpi di scure rappresenta allora una sorta di rito di catarsi, con cui la comunità
elimina dal proprio interno un elemento scomodo e perturbante.

Giovanni Verga, "La roba": riassunto e commento


Introduzione: La roba e le Novelle rusticane
La novella verghiana La roba, contenuta nella raccolta Novelle rusticane pubblicate dall’editore
Casanova di Torino nel 1882, è un vero e proprio anello di congiunzione della carriera letteraria
verghiana, di cui costituisce uno dei testi fondamentali. Elaborata durante i mesi della revisione de
I Malavoglia (editi nel 1881 da Treves a Milano), il breve testo non racconta solo la vicenda di
ascesa sociale del contadino Mazzarò, assai vicino al protagonista del Mastro-don Gesualdo, ma
segna anche un passo in avanti della tecnica rappresentativa verista inaugurata da Vita dei campi e
dal romanzo che apre il ciclo dei “vinti”.
Verga sceglie infatti nelle Novelle rusticane di ampliare il panorama della propria analisi, provando
a descrivere la società siciliana del tempo nel suo complesso, come dimostrato anche da altri testi
della raccolta (si vedano, a questo proposito, Che cos’è il re? Don Licciu Papa, e Pane nero, solo per
citarne alcuni). E non manca nemmeno - come tipico nel Verga verista, basti pensare a
Fantasticheria o alla Prefazione all’Amante di Gramigna - il classico testo teorico (Di là del mare),
collocato in ultima posizione. Parallelamente, si evolve anche il metodo dell’indagine socio-
letteraria: l’autore progressivamente riduce il peso della tematica amorosa (quella di Cavalleria
rusticana o de La Lupa) per sottolineare meglio l’effetto di quelle dinamiche economiche, che,
come già illustrato da I Malavoglia, mettono in crisi le strutture tradizionali e l’identità stessa
dell’individuo.
Riassunto e analisi
Così avviene ne La roba, novella sull’ascesa sociale e la tragedia personale di un contadino
arricchitosi fino a estendere i propri possedimenti a gran parte delle terre a sud di Catania. La
tecnica descrittiva dell’apertura del racconto è ancora quella che, nell’incipit de I Malavoglia, ci
presentava l’abitato di Aci Trezza e la famiglia di Padron ‘Ntoni.
Il paesaggio che si presenta nella descrizione è un paesaggio sovrabbondante di “cose”, tutte di
proprietà di Mazzarò, che viene introdotto e presentato dal punto di vista del narratore popolare
(vicino al “lettighiere” che risponde al viandante) che ne celebra le ricchezze ricorrendo a termini
di paragone enfatici, tipici della mentalità contadina e rurale.
Il narratore corale sottolinea le qualità di Mazzarò che gli hanno permesso di giungere al rango di
possidente terriero grazie a “una testa come un brillante”; la tecnica dell’accumulo serve ad
elencare le difficili condizioni di quest’ascesa sociale 3 e le sconfinate ricchezze che Mazzarò ha
accumulato nel corso degli anni.
La rigidissima regola di vita di Mazzarò è imperniata sul senso totalizzante del proprio lavoro che,
per obbedire all’accumulo senza fine di beni e proprietà, sacrifica ogni altra realtà della vita (sino a
considerare eccessivo l’esborso per il funerale della madre).
È sempre il narratore popolare, entusiasta del successo e della scalata sociale di Mazzarò, a
sintetizzare il sistema di valori del personaggio, con una frase assai simile ad un proverbio popolare
6 che viene ulteriormente sottolineato da un’affermazione di Mazzarò stesso.
Tuttavia, nel microcosmo verghiano c’è sempre l’altro lato della medaglia. Se il possesso fine a sé
stesso non assicura a Mazzarò il riconoscimento e il rispetto sociale (come avverrà anche per
Gesualdo, anche se qui il protagonista pare curarsene ben poco), è la legge naturale a costringere
Mazzarò ad un’amarissima resa dei conti. La conclusione della novella, che muta drasticamente il
tono del racconto, mette in luce, con concisione tragica, gli esiti perversi del meccanismo della
“roba”. Mazzarò, ossessionato dal possesso, realizza in maniera grottesca di non potersi portare le
sue proprietà all’altro mondo.
“Roba mia, vientene con me!” 8.
Quelle che insomma sono delle linee-guida per costruire, di qui a pochi anni, il personaggio di
Mastro don Gesualdo, diventano ne La roba il ritratto icastico e penetrante di una mentalità
monomaniaca, schiavizzata dalla legge del continuo accumulo. E il cupo pessimismo del Verga
narratore dipenderà certo anche da questa analisi impietosa dell’animo umano.

"Cavalleria rusticana" di Verga: riassunto e commento


Introduzione
Pubblicata sul «Fanfulla della Domenica» del 14 marzo 1880, Cavalleria rusticana è una delle
novelle più rilevanti di Vita dei campi, se non altro perché all’epoca fu una di quelle di maggior
successo, tanto che Verga intentò e vinse una causa per plagio contro l’opera omonima di Pietro
Mascagni. Il motivo dell'apprezzamento del pubblico è del resto chiaro: Cavalleria rusticana
sviluppa in maniera incisiva un tema ricorrente in Vita dei campi, ovvero quello del dramma di
amore e gelosia, che mette bene in luce, nell’ottica di Verga, i meccanismi profondi della mentalità
popolare, ch'egli si propone di indagare con la lente oggettiva del metodo verista.
Dal punto di vista stilistico e letterario, Cavalleria rusticana conferma alcuni elementi fondamentali
di poetica: il ricorso alla narrazione impersonale di una voce collettiva anonima, che si modula in
espressioni tipiche del parlato, modi di dire dialettali (riprodotti in italiano da Verga), proverbi ed
imprecazioni.

Riassunto e commento
La vicenda vede al centro il personaggio di Turiddu Macca che, tornato a casa dall’esperienza
militare che lo ha momentaneamente strappato al contesto rurale, “si pavoneggiava in piazza
coll’uniforme del bersagliere e il berretto rosso, che sembrava quello della buona ventura, quando
mette su banco colla gabbia dei canarini” 1. Turiddu diventa il centro d’attenzione di tutto il paese,
proprio perché catalizza su di sé la novità dell’ignoto e del diverso.
Egli aveva portato anche una pipa col re a cavallo che pareva vivo, e accendeva gli zolfanelli sul
dietro dei calzoni, levando la gamba, come se desse una pedata.
Se l’effetto è quello per cui “le ragazze se lo rubavano con gli occhi”, Turiddu vuole riconquistare
Lola che, in sua assenza, s’è “fatta sposa con uno di Licodia” 3, compare Alfio, che ha “quattro muli
in stalla” 4; la reazione del protagonista è un buon esempio dell’emersione, in indiretto libero, delle
sue parole e dei suoi pensieri.
Alla vicenda sentimentale si contrappone però il motivo economico: Lola ha sposato un uomo ricco
per godere di un migliore tenore di vita, mentre Turiddu, roso dalla gelosia, deve lavorare come
“camparo” (e cioè, come guardiano delle terre) presso massaro Cola, il vicino di casa di Alfio che
“era ricco come un maiale, dicevano, e aveva una figliuola in casa” 6. Turiddu attua così il proprio
piano, volgendo le sue attenzioni su Santa, figlia del ricco massaro Cola 7 ; la situazione si così
inverte, tanto che Lola diventa l’amante di Turiddu.
La reazione di gelosia di Alfio 8, dopo la rivelazione da parte della gelosa Santa del tradimento della
moglie, asseconda appunto le leggi non scritte della “cavalleria rusticana” e della necessità di
lavare col sangue, in duello, l’onta del tradimento.
È in questo momento che compare Turiddu lascia intravedere, attraverso le sue parole, l’amore
filiale per la madre, che, stimolandolo a combattere pur sapendo d’essere in errore, rappresenta
un altro aspetto del suo carattere passionale.
Siamo insomma al culmine della tensione melodrammatica; durante il duello, Alfio acceca Turiddu
con una manciata di polvere e lo ferisce mortalmente. La novella si chiude così sull’immagine
plastica del protagonista morente, ennesima immagine di “vinto” verghiano.
Cavalleria rusticana, nella sua incisiva descrizione della forza brutale delle passioni (e del loro
conflitto insanabile con i moventi economici) nel mondo arcaico siciliano, rappresenta allora l’altra
parte dell’operazione verista del narratore: alla descrizione degli effetti delle leggi economiche sul
mondo ristretto della Sicilia rurale corrisponde, con gli stessi mezzi stilistici, il tentativo di rendere
esplicite ed evidenti le pulsioni più oscure del cuore umano.

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