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Augusto Del Noce

ARTICOLI
Rivoluzione gramsciana

L’influenza gramsciana nell’ultimo quarto di secolo è stata


enorme, solo paragonabile a quella della cultura idealistica nel
primo; ma i tipi di intellettuale che oggi prevalgono sono quello
del "dissacratore" o "demistificatore" e quello dell’"esperto" o del
"tecnico"; quale rapporto hanno con la figura gramsciana
dell’intellettuale "organico"? Rispondo che sono il frutto della sua
decomposizione. All’intellettuale era assegnata da Gramsci una
funzione un po’ simile a quella che Marx assegnava al
proletariato: quella di chi, liberando se stesso, libera il mondo. La
decomposizione lo trasforma in funzionario dell’industria
culturale, dipendente da una classe di potere che ha bisogno così
dell’intellettuale dissacratore (quale "custode del nichilismo")
come dell’esperto aziendale. Il processo che vi ha portato non è
del resto difficile da ricostruire, per via negativa. Come si
configura, infatti, questo intellettuale? Messo da parte
l’economismo, l’opposizione diventerà quella tra intellettuali
tradizionali e intellettuali progressivi.
[...]
Avveniva che questa secolarizzazione del modo di pensare del
popolo italiano, rimasto fedele in linea di principio alla "morale
cattolica" anche nei tempi del massimo dominio
dell’anticlericalismo, si avverasse proprio dopo un trentennio di
governo da parte del partito dei cattolici. Che cosa si doveva
concluderne? Giungere al giudizio - la cui estrema importanza è
superfluo sottolineare - che il vero soggetto della storia italiana
nell’ultimo trentennio era stata la "riforma intellettuale e morale"
gramsciana che aveva potuto avanzare senza grandi ostacoli;
riforma indirizzata, in conseguenza della strategia rivoluzionaria
intesa come guerra di posizione, a raggiungere la direzione
intellettuale prima del dominio. In conformità di questa
distinzione, si doveva arrivare a dire che la direzione era stata
esercitata dal partito comunista, che aveva potuto raggiungerla in
quanto la sua politica era stata la precisa concrezione pratica del
pensiero gramsciano. Attraverso il referendum non veniva
semplicemente confermata una legge, ma si illuminava il senso
morale e intellettuale del trentennio, come vittoria di Gramsci.

[Da Augusto Del Noce, "Il suicidio della rivoluzione",


Rusconi 1992, pp.189-256]
Il dialogo tra la Chiesa e la cultura moderna

Cercherò di delineare, nelle conseguenze ultime di cui sono


suscettibili, due tipiche posizioni cattoliche rispetto al mondo
moderno, quella della condanna e quella dell’apertura. Successiva
mente porrò la domanda se è possibile una terza posizione, e se in
essa debbano ravvisarsi le condizioni per un dialogo non
modernista.

1.Condanna

Per la prima il mondo successivo alla rottura cinquecentesca


della cristianità, e poi all’illuminismo e alle rivoluzioni è diretto a
una catastrofe certa: forse al suicidio cosmico, di cui unica
possibile alternativa è il suicidio morale. Riforma protestante,
deviazione dell’umanesimo nel naturalismo rinascimentale,
cartesianismo, illuminismo, rivoluzione francese, panteismo
tedesco, scientismo, ateismo, rivoluzione comunista, scomparsa
presente del pudore, sono tappe di un processo unitario di
dissoluzione. Si può caratterizzare il mondo moderno come presa
progressiva di coscienza di un processo orientato a distruggere in
noi la "moindre parcelle de la divinité"; questa frase del più
blasfemo tra i poeti "maledetti", Lautréamont, è un’illuminazione
sul prometeismo moderno, come ricerca della conciliazione
dell’uomo con la natura attraverso il rifiuto di Dio. Autore
insuperato in questa direzione, di critica della catastroficità del
mondo moderno in conseguenza del suo ateismo, e del resto degno
della maggior riflessione, è Donoso Cortés.
Al mondo moderno c’è soltanto dunque da resistere. Ma in che
modo? Fino al 1914 tracce di un mondo cristiano esistevano
ancora; l’impero d’Austria era pur sempre l’erede del sacro
romano impero, riformabile, per decaduto che fosse. Dopo la
prima guerra mondiale si manifestarono delle forze che, generate
dallo stesso mondo moderno, erano però in rivolta, sia pure per
motivi non cattolici, contro le forze massoniche e atee. Ci fu, da
parte di molti cattolici, l’illusione della possibilità di utilizzarle;
soprattutto la prima fra esse, il fascismo, in ragione dei comuni
avversari. Non c’è da mendicare scuse, dopo tutto, perché chi tra il
’29 e il ’35 credeva nell’evoluzione cattolica del fascismo, e
cercava il punto di concordanza per esempio, nella dottrina
corporativa, certamente si sbagliava, ma non pronunziava un
giudizio più azzardato di quello di chi oggi crede nell’evoluzione
del comunismo. Comunque, oggi, una cosa si è fatta chiara;
nell’assertore di questa posizione si stabilisce una frattura tra la
vita e il pensiero. Il suo pensiero è la pura coscienza della
catastroficità; per vivere deve ricorrere a un compromesso col
minor male, zona del minor male che continuamente si restringe.

2.Apertura

C’è poi, tra i cattolici stessi, la tesi direttamente opposta. La


dualità delle posizioni cattoliche è stata certamente continua in
tutta l’età moderna: oggi però ha raggiunto un’acuità che non ha
precedenti. Il modernista (chiamiamolo così perché è il termine
esatto, quello del resto che oggi accetta, pur rifiutando l’accusa di
eresia) dice: "durante l’età moderna l’uomo è cresciuto. Tra questa
storia in sviluppo e il pensiero cattolico si generò un disgraziato
malinteso; la controriforma ignorò la crescita, e volle mantenere il
mondo in minorità. Così i cattolici finirono con l’identificare il
male con la novità; così il nesso tra il cristianesimo e una sua
incarnazione storica diventò il mondo cristiano termine
intercambiabile con "latino", "occidentale", "europeo". Così,
essere cattolici ed essere storicamente a destra parvero diventare
sinonimi: coerentemente il mondo cattolico si alleò in pratica con i
suoi avversari di ieri, al momento in cui avevano perduto
l’iniziativa storica, le monarchie assolute prima, poi la borghesia.
Oggi il cristianesimo deve riconoscere che, trascendente a tutte le
culture, può tutte adattarle a sé. Ciò che a suo tempo fu fatto per
l’aristotelismo, si deve farlo oggi per evoluzionismo e marxismo".
Quando si infila una certa direzione, diventa inevitabile
percorrerla sino in tondo; è impossibile fermarsi a metà.
Guardiamo alla punta estrema cui si deve pervenire. C’è un Dio
"latino" sorto "nel clima dell’Italia pagana" (curiosa la
permanenza in molta parte del pensiero francese, del giudizio, che
si formò agli ultimi del ’500 sull’"irreligione italiana"), sostituto di
Giove, visto ora come benefattore, ora come giudice, sempre però
estraneo all’uomo. Dio della teologia "catafatica", che applicava a
Dio le categorie razionali elaborate per rapporto al mondo degli
oggetti. E c’è poi il Dio della teologia "apofatica", di Plotino
piuttosto che di Aristotele, che sarà poi nel pensiero cristiano
quello dei padri greci, dello pseudo Dionigi, di Eckhart, del
Cusano: l’Uno, l’inattingibile. Il pensiero tradizionale della Chiesa
ha cercato di fondere il Dio inattingibile, col Dio Essere puro,
persona giuridica; il principio di analogia servendo a realizzarne
l’immagine antropomorfica,
Ora, la cancellazione di questa idea di Dio è stata l’opera del
pensiero moderno, la quale, prima, ha distrutto le prove classiche
della sua esistenza, e poi, attraverso l’evoluzionismo, i miti del
Genesi e del peccato originale, e la stessa idea di Redenzione
come atto espiatorio giuridico. Quindi il senso di liberazione che
apporta oggi l’ateismo, non differente nella sua qualità, si giudica,
da quello che provarono i pagani convertiti al cristianesimo
rispetto ai loro dei passati. Grande positività, perciò, dell’ateismo
contemporaneo; la cui opera liberatrice deve però essere
riconosciuta valida solo nei riguardi di "quella immagine di Dio".
L’atteggiamento dei cattolici si misurerebbe dunque dalla loro
posizione nei riguardi dell’ateismo di oggi; negazione massiccia o
inveramento. Chi si ferma alla negazione massiccia, è nell’ultima
linea della difesa del paganesimo. Di qui il parallelo, che spesso
mi è accaduto di sentire, tra Pio XII e Giuliano l’apostata, come
tra le due figure simboliche della difesa estrema di un mondo
ormai condannato. Giudizio, notiamo, che in questa posizione è
necessario, anche se motivi di prudenza possono portare quei
cattolici che lo professano a pronunziarlo a bassa voce.
Riconosciamo pure l’elemento di fascino che c’è nel nuovo
modernismo: tornare a sacralizzare le attività del mondo profano,
uscire dal dualismo invivibile tra una radicale condanna teorica e
un compromesso pratico necessariamente accettato senza più
illusione sulla sua provvisorietà, riprendere l’iniziativa nel mondo
storico in nome del cristianesimo. E tuttavia sono troppe le ragioni
che persuadono della sua insostenibilità.
Modernismo, abbiamo detto, che non vuole essere eretico.
Nulla, infatti, di un modernismo alla Loisy, auspicante un pacifico
trapasso dalla religione cattolica a una religione dell’umanità,
senza misteri e senza miracoli. Invece, sforzo di comporre
un’imitazione di Cristo all’uso dell’uomo moderno, come fu detto
da un ammiratore di Teilhard, con giustizia per quel che riguardale
intenzioni. Riconosciamo pure che non si può parlare di una
continuazione diretta del modernismo dei primi anni del secolo.
Ma, ciò posto, bisogna riconoscere che è altrettanto vero che alle
tesi di tale modernismo il nuovo si ricollega, attraverso la
mediazione di un processo di pensiero che prese occasione dalla
storia politica. Siamo con ciò portati a considerare la nuova
posizione cattolica a partire dalla sua genesi, che è poi il modo
migliore per definirne il significato e il valore. Essa sorge in
Francia negli anni più bui della seconda guerra, come
ritrovamento della speranza al momento in cui tutto sembrava
autorizzare la disperazione. È naturale che in quel tempo il
nazismo venisse, per così dire, astratto dal contesto storico in cui
era sorto, per diventare la somma di tutti i mali che avevano
insidiato il cammino della civiltà; e il comunismo tendesse invece
a passare, per questa prospettiva, da alleato di fatto in ragione di
circostanze storiche, ad alleato di diritto.
Bisogna cioè domandarsi se la ripresa modernistica non accetti
già dall’inizio una visione della storia contemporanea in termini di
materialismo storico. Nel tempo successivo alla rivoluzione russa,
che pur con i suoi limiti e difetti segnerebbe il fatto che l’umanità
sta ora compiendo il passaggio al "momento della
socializzazione", i ceti minacciati chiamano a loro difesa quel tale
Dio-Giove custode dell’ordine anziché promotore del progresso.
Ma il culto di questo Dio è così pagano che i "difensori
dell’Occidente" finiscono col subordinarsi ai partigiani della
Razza, di necessità portati alla più oppressiva delle guerre. Questo
esito della controrivoluzione del nostro secolo servirebbe a
mostrare quanto fosse artificiosa la contrapposizione, in termini di
avversari irriducibili, di cristianesimo e di marxismo.
Di qui la conseguenza manifesta: il marxismo deve essere
cristianizzato. Ma, in che modo? Nella forma più elementare si
pensa di staccarne una parte, la sociologia, e di rifiutarne un’altra,
la filosofia. Si tratta però, evidentemente, di una via del tutto
insoddisfacente. Resta l’altra, di ridurre l’intero marxismo a
scienza. Costretto qui ad abbreviare i passaggi, dirò che l’unico
processo possibile in questa via, è quello di universalizzare
l’evoluzionismo, sino a raggiungere un panbiologismo in cui il
passaggio alla socializzazione appaia un momento richiesto
dall’evoluzione stessa. Non voglio pronunciarmi qui sul pensiero
del padre Teilhard. Esiste però oggi un fenomeno culturale dai
tratti ben definiti, il teilhardismo, che ha soppiantato presso i
cattolici cosiddetti di sinistra il maritainismo e il mounierismo.
Pronunziarsi nel suo riguardo è lecito, facendo provvisoriamente
astrazione dalla domanda se esso non tradisca la sostanza più
profonda del pensiero dell’autore a cui si richiama. E per vedere lo
sviluppo e la pericolosità delle posizioni ultime del pensiero
cattolico di sinistra, cominciamo a osservare come l’argomento
essenziale del Maritain contro l’ateismo contemporaneo si trovi
annullato nel teilhardismo. Perché per Maritain a tale ateismo è
immanente una contraddizione: sorto come rivolta morale contro
un Dio filosofico, chiamato a giustificare i mali del mondo, ha
finito con l’assoggettarsi al peggiore dei falsi dei, la storia, e al suo
immanente progresso che ha il diritto di tutto travolgere. E, ora,
appunto questa morale del "senso della storia" che viene assunta
dal teilhardismo corrente, scomparendo la distinzione, essenziale a
Maritain, tra cooperazione a Dio e cooperazione alla storia.
Nei riguardi di questa posizione mi limiterò a menzionare tre
punti che servono a manifestarne le difficoltà. Il primo, che gli
ammiratori laici dell’opera teilhardiana non si sono sentiti
menomamente scossi nel loro ateismo o nel loro panteismo. Il
filosofo comunista Garaudy vi ha in sostanza visto la formula
coerente dei cattolici compagni di strada. Si sa che per il
marxismo l’ateismo è un risultato: il comunista potrà procedere
con il cristiano quando questi condivida il suo giudizio sul
movimento della storia, senza entrare direttamente in controversia
per quel che riguarda le questioni religiose. Il celebre scrittore
Huxley, sostanzialmente panteista, ha dichiarato, affermando la
sua ammirazione per Teilhard, che "la verità evoluzionista ci libera
dalla paura servile dell’Ignoto e del soprannaturale... Il solo modo
per colmare l’attuale frattura fra scienza e religione è di fare
accettare alla scienza il principio che la religione è un organo
dell’uomo in evoluzione, organo suscettibile di numerose
modificazioni; e di fare accettare alla religione il fatto che le
religioni si evolvono e devono evolversi". Si ripete cioè la vicenda
del modernismo che, sorto per parlare agli uomini moderni, non ha
però di fatto mai convertito nessuno. Né si può negare
l’impressione che la "fede cristica" sia nel teilhardismo
semplicemente il sovrapposto alla fede in un’evoluzione che
porterà alla divinizzazione dell’uomo, senza essere da questa
direttamente richiesta. Non è stupefacente il passo "se in seguito a
qualche rivolgimento interiore, venissi a perdere successivamente
la mia fede nel Cristo, la mia fede in un Dio personale, la mia fede
nello Spirito, mi sembra che continuerei a credere nel mondo (il
valore, l’infallibilità e la bontà del mondo qual è, in ultima analisi,
è la prima e la sola cosa in cui credo)" — in Comment je crois —?
Se dovessimo prendere alla lettera questo passo, sembrerebbe che
la fede cristiana si riduca a un’aggiunta gratuita, a una fede nella
storia, che da sola basta a fondare tutti i miei atteggiamenti pratici.
Si dirà che si tratta di una frase imprudente: resta sempre che il
passaggio dall’immanenza alla trascendenza non appare
giustificato, al modo che non lo era nelle forme modernistiche del
primo novecento. Non ho certo bisogno di dirlo io, dato che ho
soltanto da riportare il passo di un teilhardiano estremista e
intransigente, F. A. Viallet: "... Il fondo del pensiero di T.: un Dio
immanente, che nella creazione, come lo pensava Spinoza, andava
fino ai limiti del suo potere. "Dio non può creare che
organicamente" dice ancora T. Questa visione si raddoppia però
per lui con un’altra che sarebbe quella della trascendenza divina,
ma tra le due visioni egli non ci dà una connessione logica" (Le
dépassement, Fischbascher, Paris, 1961, p. 195). Di più, tutti i
critici del teilhardismo hanno osservato come il tema del peccato
si trovi estremamente attenuato. Al più si può dire che Adamo ha
peccato perché era ancora fanciullo, e che, con il peccato, ha
acquistato maggiore coscienza (Cfr. il volume di saggi di G.
FREMAUD O.S.B., L. JUGNET, R. Th. CALMEL O. P., raccolti
sotto il titolo Gli errori di Teilhard de Chardin, Dell’Albero,
Torino, 1964, p. 145).
Ora dalla considerazione della fenomenologia dell’ateismo da
un punto di vista puramente teoretico (che ho svolto nel mio
recente libro Il problema dell’ateismo. Il Mulino, Bologna, 1964)
mi è sembrato di dover giungere alla seguente conclusione; non è
la scienza e non è per sé la morale, non è neppure lo scandalo per
le infedeltà storiche del mondo cristiano (insomma il processo che
porta all’eresia) a poter dare una spiegazione dell’ateismo; esso è
invece il punto terminale del processo del razionalismo,
successivo alla sua fase metafisica. Disvelante, nel suo carattere
postulante, la postulazione originaria che è alla base del
razionalismo. La negazione del soprannaturale che si esprime in
un primo momento non è già nella negazione di Dio, ma nel
rovesciamento del significato del peccato (così la caduta è vista
come salutare dal Bruno, perché la moralità dell’uomo non è
innocenza, ma conoscenza del bene e del male; nel "Dio che
conferma le parole del serpente" in Hegel). Nel processo ulteriore
della dialettica che porta all’ateismo, Dio viene visto come il
peccato, come la ferita dell’uomo, la cui rinascita può avvenire
soltanto attraverso un riacquisto (o una conquista) dei poteri che
aveva "alienato" o che aveva dovuto alienare durante il processo
storico nella creazione di Dio. Di qui la essenzialità all’ateismo di
termini come "surrealtà", come "uomo totale", come "superuomo",
designanti un nuovo stadio cui si giungerà attraverso un "salto
qualitativo" generalmente detto "rivoluzione". Onde il carattere
mistico, di restaurazione di un "sacro" rovesciato che è intrinseco
all’ateismo vero e proprio, e che rende possibile anche gli
equivoci al suo riguardo di pensatori religiosi, nella misura in cui
confondono l’ateismo con una forma di rozzo materialismo
naturalistico, e sono perciò portati a vedere nell’ateismo autentico
una contraddizione che invece non c’è.
Non penso certo di accusare le forme modernistiche di essere
inserite in un processo che per necessità logica concluda
all’ateismo. Mi sembra tuttavia innegabile di dover parlare di una
loro situazione di relativa inferiorità nel dialogo che impegnano
con l’ateo: non c’è del resto una connessione tra l’attenuazione del
tema del peccato e l’idea del passaggio a uno stato superiore
all’umano, e questi due temi non sono propri, nella loro massima
coerenza e forza, dell’ateismo? Sono stato perciò colpito da molte
osservazioni del Calmel (lette dopo che la mia ricerca era già stata
conclusa), rivolte ora espressamente al pensiero del Teilhard.
Come, ad esempio, questa: "anche divinizzato l’uomo mantiene la
costituzione dell’uomo: non passa all’ultra-umano" (CALMEL,
op. cit., p. 120, e cfr. il suo svolgimento nelle pp. successive).
Penso poi che la critica della posizione modernistica del dialogo
debba cogliere soprattutto la sua radice, che sta in
quell’interpretazione della storia contemporanea, a cui sopra si è
accennato. In questa connessione il pensiero del Teilhard diventa il
"teilhardismo". A mio modo di vedere non si possono astrarre
fascismo e nazismo dal contesto generale della storia
contemporanea per unificarli e farne l’essenziale avversario. In
realtà, ciò che caratterizza la storia contemporanea è l’espansione
dell’ateismo, perché essenziale all’ateismo è l’oltrepassare la pura
posizione teoretica per "farsi mondo" secondo la celebre frase di
Marx, e cercare nella trasformazione totale del rapporto fra l’uomo
e la realtà, il suo criterio di verità. Da ciò il carattere transpolitico
della storia contemporanea: essa ha il suo carattere precipuo
nell’essere storia filosofica, di spiegamento di un’essenza
spirituale, quella dell’ateismo, e, a mio giudizio, della sua già
avvenuta sconfitta. È proprio dal fallimento dell’ateismo marxista
come rivoluzione mondiale che sono suscettibili di trovar
spiegazione fascismo e nazismo come forme di opposizione al
marxismo che tuttavia sono a esso subordinate. Necessaria
involuzione staliniana del comunismo e nazismo sono perciò due
facce di uno stesso fenomeno; o è anche forse lecito dire che
comunismo e nazismo sono i due aspetti del dramma in cui si
consuma, nel giungere alla pratica, la filosofia classica tedesca
(per una maggiore delucidazione su questo punto mi permetto
rinviare al mio libro Il problema dell’ateismo, cit., introduzione, p.
CXXVIII e ss.).

3. Dialogo non modernista

Inteso alla maniera modernistica il dialogo tra il pensiero


cattolico e il pensiero moderno è un dialogo in situazione di
inferiorità. Ad esempio, il dialogo col marxismo potrà mettere in
luce certe esteriori concordanze, ma mai la contraddizione per cui
il marxismo dovrebbe deporre quella figura ateistica... che è la sua
essenza. Da quel che sinora si è visto risulta però la possibilità che
il dialogo si svolga in tutt’altra forma. Cioè quella che mette in
luce nella storia contemporanea la verifica dello scacco di ogni
forma del pensiero normalmente detto laicistico; e che da questo
scacco trae le condizioni per un’autocritica che deve svolgersi
all’interno dello stesso pensiero laico e che il pensiero cattolico
deve stimolare e aiutare.
Consideriamo infatti la storia del mondo dopo il 1870, cioè
dopo l’almeno provvisoria vittoria dello spirito laico contro la
restaurazione cattolica. Possiamo distinguerci tre momenti: quello
dal 70 al ’14, caratterizzato dal laicizzamento del cristianesimo,
tentato in varie forme; quello della rivoluzione atea, tentata a
partire dalla politica (comunismo) oppure dall’arte (fenomeno più
significativo sotto questo riguardo, il surrealismo); prevalenza
dell’irreligione naturale, sempre più accentuata nel secondo
dopoguerra.
Il tentativo di laicizzamento del cristianesimo caratterizza
infatti il periodo 70-’14; ora sotto la forma di conservazione, in
termini di umanitarismo, della morale cristiana; ora in quella di
una religione nei limiti della ragione che conservi come postulati
necessari per la vita morale la credenza in Dio e nell’immortalità
dell’anima; ora in quella di filosofie idealistiche dell’immanenza
del divino. La rivoluzione ateistica ha senza dubbio distrutto
questo mondo, senza però attingere affatto quella superumanità
che era il suo scopo; ha servito come mediazione per il passaggio
dal mondo cristiano-laico a quello dell’irreligione naturale,
caratterizzato dalla perdita della facoltà del sacro.
Che cosa intendo per "irreligione naturale"? Una posizione
completamente diversa dall’ateismo, perché di esso rifiuta
l’appello a uno stadio ulteriore dell’umanità. È caratterizzata dal
rifiuto della stessa posizione del problema in termini di teismo e di
ateismo, perché non interessa; da un relativismo assoluto per cui
tutte le idee vengono viste come relative alla situazione
psicologica e sociale di chi le afferma, e perciò come valutabili da
un punto di vista utilitario, di stimolo alla vita. Per cui tutto in
conseguenza diventa puro oggetto di scambio. Simbolo, la
scomparsa del pudore; nelle forme più elementari la riduzione di
tutto ad "acqua, sonno, sesso", la caduta insomma,
nell’animalismo puro.
"Eclissi del sacro" è termine ormai così corrente che riesce
fastidioso il ripeterlo. Quel che però importa osservare è come sia
del tutto superficiale la spiegazione consueta che ne cerca le
ragioni nello sviluppo della tecnica. In realtà la stessa forma in cui
culturalmente si presenta questa eclissi, di sociologismo, ossia di
marxismo oggettivato e rovesciato in assoluto relativismo, mostra
come ben più profonda e ideale ne sia la ragione. L’ateismo ha
raggiunto la realtà storica, ma rovesciandosi in qualcosa di affatto
diverso da quelle che erano le sue promesse. Consideriamo,
infatti: ogni forma di pensiero ateistico, così quello della "rivolta
cosmica", da Sade al surrealismo, come l’ateismo di Marx, come
quello di Nietzsche, muove contro tre comuni avversari, la
religione trascendente, la filosofia del divino immanente, e lo
spirito borghese; intendendo per borghese l’uomo la cui vita è del
tutto determinata dalla categoria dell’utile, così che dissacra tutto
ciò che pensa. Ora, senza dubbio, la situazione presente può venire
raffigurata come lo stadio ultimo cui deve giungere nel processo di
dissacrazione lo spirito borghese. Ma ha poi l’ateismo marxista
un’effettiva capacità di oltrepassarlo, o la sua potenza storica si è
paradossalmente esaurita nel riuscire a portare lo spirito borghese
a questo stadio ultimo? La risposta non pare dubbia, se si
considera la situazione ultima del comunismo. Giustamente si è
parlato, a proposito del krusciovismo; di una "seconda crisi
socialdemocratica" del comunismo, ma qui, attenzione! La prima
crisi socialdemocratica era avvenuta nel riguardo del mondo del
cristianesimo laicizzato; la seconda avviene nell’accettazione di
un mondo da cui il sacro è scomparso. L’antica socialdemocrazia
poteva riferirsi a dei valori universali; il comunismo di oggi cerca
di situarsi come forza particolarmente potente in un mondo di cui
sono scomparsi i valori, abbandonando di fatto ogni idea di
trasfigurazione messianica. Poco importa se in questo stadio, che
altri giudicherà evolutivo e io invece involutivo, possa conseguire
dei successi, dato che li ottiene cedendo totalmente allo spirito
borghese, ed esattamente nell’aspetto peggiore della sua
decadenza.
È chiaro come debba limitarmi qui a una semplice
enunciazione senza poter ragionare questo punto in maniera
realmente adeguata. Tuttavia non si tratta proprio di asserzioni
paradossali, ma di critiche che al krusciovismo vengono
generalmente mosse. Ora se è così, se all’ateismo è essenziale un
reale cangiamento della natura umana in modo che la comunità
diventi il vero io e il mondo degli egoismi sia superato, chi non
vede che oggi la sua impresa si manifesta come fallita? Né può
evitare di intenderlo l’intellettuale che al marxismo abbia
sinceramente aderito. Ora, è proprio a partire dalla persuasione,
nel cattolico, di questa duplice catastrofe del mondo moderno, così
nell’aspetto di cristianesimo laicizzato, come in quello di radicale
ateismo, che il dialogo tra il pensiero cattolico e quello cosiddetto
moderno, nel senso di pensiero caratterizzato dalla negazione della
trascendenza religiosa, può avere inizio.

[Da «Studi cattolici», 1964, n. 50, pp.45-50]


L’errore di Mounier

Un'acuta disamina di Del Noce sugli errori di Emmanuel Mounier, iniziatore del
«progressismo cattolico», e la sua interpretazione equivoca del fenomeno ateistico.

La lettura di un recente, assai interessante libro di un giovane


studioso (Lucio Pala, I cattolici francesi e la guerra di Spagna,
Argalia, Urbino) mi ha riportato alle questioni che fervevano nel
1937, in ambienti, in quel tempo molto ristretti, di giovani
cattolici. Ne era occasione la guerra di Spagna col suo duplice
aspetto; perché erano innegabili le persecuzioni antireligiose
stimolate, prima della guerra civile, dalle forze radicali e socialiste
al potere, continuate poi dai comunisti e dagli anarchici; e
altrettanto innegabile il fatto che gli aiuti alle forze tradizionaliste
avessero dato al conflitto le sembianze di momento decisivo della
marcia, che allora appariva irresistibile, del fascismo. Per la
maggior parte dei cattolici si trattava di una «guerra santa», di una
«crociata»; una minoranza, in Italia davvero minima, attenta al
secondo aspetto, vi vedeva invece una lotta mortale tra «coloro
che volevano servirsi di Dio, fingendo di servirLo» e «coloro che
combattevano contro la religione confondendola con “quella
religione di cui i potenti si servono”».
Apparvero in quell’anno le encicliche di condanna del
comunismo (Divini Redemptoris, 19 marzo) e del nazismo (Mit
brennender Sorge, 14 maggio). Il 1° maggio Mounier pubblicò
nella sua rivista, Esprit, un commento alla prima. Possiamo fissare
in quella lontana data l’inizio di ciò che poi maturò come
«progressismo cattolico».
Non che fosse un commento particolarmente audace. Ma
mentre, almeno dalla conclusione delle controversie sul
modernismo in poi, le encicliche pontificie venivano lette dai
fedeli come documenti infallibili, nell’articolo di Mounier si
vedeva, come ben osserva il Pala, l’intenzione di.«ridurre la
portata del documento pontificio al livello di un contributo, e
neppure di primaria importanza, ad un dibattito in corso che
continuava a restare aperto». In questa accettazione condizionata,
in forma di limitazione del significato, si può scorgere un sia pur
lontano germe di quel rifiuto dell’infallibilità, che è oggi
pronunziato da certi teologi.
Non che Mounier fosse un cattolico-marxista, nel senso che ha
oggi il termine, né che lo sia diventato negli anni successivi.
Anche la sua posizione nei riguardi della Spagna era tutt’altro che
oltranzista; in conclusione, si limitava a proporre una mediazione
internazionale, non dissimile da quella auspicata
dall’ortodossissimo Sturzo. Potrebbe anzi sembrare che le sue idee
non differissero nella sostanza dalla condanna correlativa di
comunismo e di nazismo pronunziata dal Papa. Eppure a ben
guardare, la diversità c’era. Ce ne accorgiamo se portiamo
l’attenzione su una frase, poco ricordata, della Divini
Redemptoris: «Per la prima volta nella storia stiamo assistendo ad
una lotta freddamente voluta e accuratamente preparata dall’uomo
contro tutto ciò che è divino» (la sottolineatura, che è nel titolo,
significa l‘importanza che il Pontefice le annetteva). Ossia, la
storia contemporanea è prima che storia sociale e politica, storia
dell’espansione dell’ateismo.
Mounier pensa invece esattamente l’opposto. Non sottovaluta
certo il fenomeno dell’ateismo, ma ne spiega la genesi con
motivazioni sociali. Ridotto all’essenziale il suo ragionamento è il
seguente:
1. Ci sono dei cristiani per cui esiste una sorta di vincolo
necessario tra la religione e il rispetto dell’ordine costituito.
Soggettivamente la loro fede può essere fuori di discussione;
possono essere esemplari nell’esercizio delle virtù private,
nell’osservanza dei Comandamenti. Resta però che il loro è un
cattolicesimo conservatore; lo vogliano o no, sono di conseguenza
«dalla parte dei ricchi». Quando quest’ordine vacilla, essi
finiscono con l’allearsi con avventurieri, miscredenti a ogni senso
del sacro, che accorrono a difendere, per padroneggiarla, questa
società «chiusa»; dopo che essa è caduta nelle loro mani, l’aspetto
per cui la religione è strumento di conservazione balza in primo
piano. I cattolici dell’«ordine costituito» si identificano nel
consenso ai fascismi; e poco importa se di buona o di cattiva
voglia.
2. Il difetto della riduzione della vita religiosa alla pura
interiorità si manifesta nella sua dissociazione dalla politica; quel
che ne consegue non è però una religione «pura», ma ridotta, sotto
il riguardo politico, a strumento di conservazione. Ed essa non può
non essere vista come tale da coloro che, sensibili alle ingiustizie e
alle miserie sociali, vedono «l’organizzazione del disordine» là
dove gli altri scorgono un ordine che la legittimità esteriore basta,
se non a rendere sacro, almeno a porre al di fuori della critica. I
ribelli contro i’ingiustizia sono dunque portati, al limite, ad unire
rivoluzione e ateismo.
3. Per uscire da questo dilemma, che è la tragedia del nostro
tempo, occorre che così i religiosi come i rivoluzionari rinunzino
ai rispettivi «integralismi» (per servirci di un termine che
diventerà di uso comune negli anni successivi): che i religiosi
rinuncino a unire «religione» e «conservazione», e i rivoluzionari
«rivoluzione» e «ateismo». Ma il primo passo devono muoverlo i
religiosi; i rivoluzionari sono infatti dei «cristiani anonimi», e
quando il carattere cristiano delle loro rivendicazioni sarà
riconosciuto, comincerà il loro, sia pur lento, processo di
conversione.
4. Tutto questo può sembrare persuasivo. L’ateismo può essere
convinzione di intellettuali; ma essi non possono parlare al popolo
se non secondando la sua sete di giustizia (qui il motivo populista
che associa Mounier a Péguy). Ma vediamo, a distanza di decenni,
se le cose siano così semplici, o se il presente non confermi invece
il pensiero dell’Enciclica.

Sono almeno quindici anni che queste tesi sono diventate i


presupposti pressoché indiscussi dell’ordinaria pubblicistica
cattolica; basta sfogliare le riviste o guardare le vetrine delle
librerie. Si è andati, nel progressismo, molto oltre a quelle che
erano le intenzioni di Mounier. Quanto ai cattolici della «sacralità
dell’ordine costituito», della rassegnazione, del sacrificio, delle
virtù ascetiche, sono scomparsi e sarei grato a chi sapesse ancora
mostrarmene un esemplare schietto, deciso, intransigente.
Domandiamoci dunque se, da quando questo periodo ha avuto
inizio, siano scomparsi i segni di una rinascita religiosa, o almeno
quelli di un progresso di coscienza morale che possa preludervi,
negli anni che verranno.
La risposta alla prima domanda e lampante: i cosiddetti
«cristiani anonimi» hanno tratto dalla loro parte molti cristiani
«progressivi», mentre neppur uno di loro si è aperto alla fede e
alla morale religiosa. O, se lo ha fatto, non è perché sia passato al
progressismo cattolico, ma perché ha ravvisato il carattere
catastrofico dell’ateismo rivoluzionario. Quanto alla seconda, i più
ottimisti continuano a parlare di «crescita», guardandosi però bene
dallo specificare verso che cosa sia diretta. Si osservi: di
«crescita», neppur più di «progresso».
Se i cattolici possono trarre qualche insegnamento da quel
che è avvenuto negli ultimi quindici anni, esso mi par consistere
proprio in questo: l’errore di Mounier e del gruppo «Esprit», si è
fatto manifesto. La sua analisi dell’odio antireligioso, della lotta
contro «tutto ciò che è divino» era affatto superficiale; pure
curiosamente intoccabile, anche se raramente formulata, continua
a sottendere quella cultura cattolica che si professa «aperta».
L’odio contro il divino, presente in ogni uomo sotto forma di
tentazione, sperimentabile da ognuno quando si abbandona alla
fantasticheria, ha radici ben più profonde di quelle che possono
essere cercate nella socialità. Non consegue in alcun modo ad un
amore frustrato della giustizia. Anche se, in chi lo assume, deve
giustificarsi con una promessa menzognera di beni terreni: la
liberazione, il progresso, la felicità, la realizzazione della persona,
eccetera. Possiamo accorgercene se portiamo l’attenzione sulla
forma d’irreligione che, proprio in questo periodo, si è
straordinariamente diffusa: lo scientismo, da ben distinguere,
naturalmente, dalla scienza. Il suo primo asserto, «non esiste che
quel che è sperimentalmente verificabile», non è suscettibile di
alcuna prova. Esso è perciò tanto più intollerante in quanto, pur
avendo la gratuità della fede, non può riconoscerlo, e deve
presentarsi come espressione della ragione: ha l’intolleranza della
ragione mistificata. Ora è ben difficile vedere in questo scientismo
una protesta «morale» contro il «mondo cristiano», e le ingiustizie
che esso può aver storicamente coperto e coprire. In quel farsi
storia dell’ateismo in cui la Divini Redemptoris vedeva il tratto
che caratterizza il nostro tempo, bisogna distinguere degli stadi: lo
stadio raggiunto oggi non permette più le illusioni che erano
spiegabili al tempo in cui Mounier pensava.
Albert Béguin, che fu suo successore nella direzione di Esprit,
vedeva il maggior merito di Mounier nell’aver liberato il
cattolicesimo francese dalla tracce del pessimismo giansenista.
Sarebbe più giusto dire che cadde nell’errore opposto e più
pericoloso. C’era già in germe nella sua opera quella perdita del
senso del peccato, che caratterizza certo cattolicesimo
secolarizzato e «demitizzato» di oggi; e la cui natura difficilmente
può essere compresa se non si risale alle sue prime origini, e alle
occasioni storiche che spiegano come qualcuno possa essere
giunto a tale benevola interpretazione, senza riscontro nella
tradizione dell’ateismo.
Risposte alla scristianità

Dopo Loreto, Augusto del Noce legge il processo di secolarizzazione alla luce
del discorso del Papa.

Il processo di cristianizzazione che caratterizza il momento


presente ha inizio, in parte, immediatamente dopo il 1948 e, in
forma più decisa, fino a giungere a una vera e propria intolleranza
laicista, dopo il 1960.
Se noi consideriamo il nostro secolo, ci accorgiamo
dell’esistenza di fasi alterne, dal punto di vista religioso. Non
credo si debba pensare perciò a una continuità di processo di
scristianizzazione, che proseguirebbe in ininterrotta e irreversibile
catena dal Rinascimento o dall’Illuminismo ad oggi. Abbiamo
piuttosto in questo processo delle fasi delle fasi alterne. Per
esempio, nell’immediato dopoguerra ci fu un risveglio cattolico
che ebbe una delle manifestazioni più sensibili nelle elezioni del
18 aprile del 1948, come se da una rinnovata cristianità ci si
potesse attendere l’unica via di salvezza, e questo rinnovamento
della cristianità fosse possibile. Ci fu un momento non troppo
lontano nel tempo in cui l’Italia e l’Europa si rivolgevano al
cattolicesimo per trovare salvezza rispetto a quella che era
l’espansione sovietico-comunista e per trovare un’identità, così
italiana come europea.
Che esistesse un risveglio religioso, o anzi un risveglio
esplicitamente cattolico, nel ’48, è provato dall’esame della
pubblicistica dell’epoca. Come la Francia aveva con la rivoluzione
iniziato una civiltà laico-borghese, come la Russia aveva con la
rivoluzione affermato una società ateo-comunista, così dal
successo cattolico del ’48 in Italia si pensava dovesse aver inizio
una civiltà cristiana. dall’Italia sarebbe, dunque, partita una
riconquista cattolica del mondo.
Subito dopo il ’48, però, abbiamo avuto due controffensive:
quella della cultura marxista e quella del laicismo propriamente
detto. Tuttavia queste due offensive non avrebbero potuto portare
ai risultati così rilevanti a cui hanno condotto senza far leva su una
certa parte della cultura cattolica.
Occorre qui sfatare un luogo comune. Va messo in chiaro che
il processo di cristianizzazione non è legato
all’industrializzazione. certamente si può dire che
l’industrializzazione con tutte le sue conseguenze sulla vita sociale
indubbiamente crea certe condizioni che facilitano un processo
scristianizzante, ma non ne è la causa essenziale.
La causa essenziale è, invece, culturale. Cioè sono state
proprio quelle forze culturali e borghesi anticattoliche che già
preesistevano al ’48, che hanno scatenato una sorta di rivoluzione
culturale contro il cattolicesimo. Il termine rivoluzione culturale
potrebbe far pensare a un fenomeno unitario, cosa che non è stata.
Si è verificata, invece, la confluenza da due versanti diversi della
cultura marxista con quella borghese. Esse procedono in qualche
modo separate, ma ognuna tenta di servirsi dell’altra.

Dalla critica all’indifferenza

Fra il 1950 e il 1960 si sviluppa l’attacco della rivoluzione


marxista. il marxismo italiano, attraverso Gramsci, si presenta
come l’erede della cultura crociata (così come il marxismo dei
fondatori si presentava come l’erede della filosofia classica
tedesca). Il comunismo italiano si presenta, cioè, come l’erede di
quanto di meglio ci sia stato nella cultura italiana dal
Risorgimento in poi.
Questa prima offensiva, però, non è stata sufficiente. verso il
1960, anzi, essa è già da un punto di vista culturale in relativo
declino. però lascia delle tracce. Il marxismo si presenta, in quanto
materialismo storico, come critica radicale di ogni assolutezza ed
eternità dei valori. Quindi come critica dell’idea stessa di una
verità assoluta.
In certo modo la cultura laico-borghese successiva accetta
questa critica dei valori permanenti compiuta dal marxismo e
quindi sostituisce al vecchio tipo laico-borghese un altri tipo. Il
"tipo" a cui particolarmente si era arrivati era quello del "cristiano-
borghese". Si affermava, cioè, un cristianesimo senza trascendenza
religiosa, che però salvava la morale cattolica. Era proposta come
una specie di purificazione dell’idea del divino nell’immanente.
La figura più rappresentativa di questa posizione è Benedetto
Croce.
Dopo il 1960, invece, abbiamo un laicismo post-marxista. Un
laicismo che abbandona del marxismo gli aspetti messianici ma
conserva gli aspetti non cristiani: non tanto nella forma di
persecuzione, quanto in quella di indifferenza. L’idea di Dio
avrebbe avuto una funzione nella storia, oggi però esaurita; in
ragione di questo esaurimento risulta inutile occuparsi della sua
corrispondenza alla realtà. In questa prospettiva il cristianesimo è
morto, almeno nella forma che ha assunto nella tradizione
cattolica. da qui si passa alla rivoluzione sessuale, che per sé è
estranea o molto limitata, nel marxismo. Si avvia, dunque, in
questo modo lo scardinamento della morale cattolica. ma tale
scardinamento, ripeto, non sarebbe stato possibile se il
cattolicesimo non avesse un nemico interno. Questo avversario
interno è il risvegliato modernismo.

Il risveglio del modernismo cattolico

Il carattere generale del modernismo è l’anticoncilio di Trento


e l’anti-Controriforma. ma esso viene risvegliato a proposito di
una certa utilizzazione dell’antifascismo. nell’epoca del fascismo
vi sarebbe stata un’alleanza necessaria tra la Chiesa cattolica e il
fascismo, dovuta alla comune concezione gerarchica. da questa
pretesa necessità dell’incontro derivava l’idea che le scelte
politiche compiute in quel periodo dalla Chiesa non dovevano
essere spiegate come contingenti errori o come illusioni, ma come
conseguenza di una concezione della vita religiosa e della
funzione della Chiesa nella società che risalivano ben oltre al
periodo fascista e ai problemi che esso poneva al mondo cattolico.
Si aggiungeva a questo l’idea, errata, e oggi abbandonata dalla
maggior parte degli storici, del fascismo come «fascio delle forze
reazionarie», a cui la Chiesa avrebbe dato il suo consenso per
l’obbligazione di essere - sempre in ragione della concezione di
cui si è detto - "a destra". Ma da quando questa concezione
reazionaria sarebbe prevalsa nella Chiesa? dal Concilio di Trento e
dalla Controriforma per non risalire, quanto ai germi, più oltre
sino all’epoca costantiniana.
In sintesi: non si deve parlare di un processo di
scristianizzazione legato soltanto all’industrializzazione. ma si
deve parlare di un’offensiva sul piano culturale e sul piano politico
contro il cattolicesimo. Questa offensiva cercava di realizzare una
divisione all’interno del mondo cattolico: tendeva a dividere i
cattolici fra antiquati o integralisti e progressisti. nell’ottica
anticattolica si poteva pensare a buon diritto che questo
progressismo legato al mito della modernità non fosse che la tappa
di un processo che portava alla fine del cattolicesimo. Questo
effettivamente è vero. Attraverso il modernismo si deve
necessariamente passare al secolarismo, come negazione della
trascendenza religiosa e del soprannaturale. Cosa di cui si ha
esperienza, per esempio, nei cattolici-comunisti. Quel movimento
non è riuscito certamente a convertire nessun comunista al
cattolicesimo, ma dei cattolici comunisti originari ben pochi sono
rimasti cattolici. tutti i movimenti di apertura al "moderno" hanno
condotto in ultima analisi al secolarismo.

L’unità dei cattolici

Il processo di cristianizzazione, che deriva da cause culturali e


non tecniche, avviene dunque grazie alla divisione dei cattolici.Si
spiega quindi, in questo contesto, l’insistenza del Papa sull’unità
dei cattolici.
Il punto del discorso di Giovanni Paolo II che è stato oggetto
di varie contestazioni è proprio quello del riflesso politico
dell’unità dei cattolici. Il riflesso politico dell’unità dei cattolici è,
in qualche modo, ovvio. Non già che si voglia confondere, come
pensano alcuni, fede religiosa e politica. Piuttosto vi è la necessità
di un impegno politico dei cattolici perché le forze politiche oggi
esistenti si fanno portatrici di una cultura non solo non cattolica,
ma decisamente anticattolica dal punto di vista morale. Mentre nel
vecchio laicismo si poteva pensare ad una conciliazione da attuare
sul campo dei valori morali essenziali, oggi invece appare chiaro
che non c’è principio della morale cattolica che non venga
combattuto da certe parti politiche.
E’ chiaro che se ci fosse un accordo sul piano morale fra le
varie forze politiche non ci sarebbe alcun bisogno di un partito di
cattolici e la fede religiosa in queste condizioni sarebbe
rigorosamente distinta dalla politica. il rapporto fede-politica non
può essere visto in astratto secondo un modello assoluto (unità-
divisione), deve essere visto in relazione a certe particolari
situazioni.
Nella situazione presente e date le forme che
l’anticattolicesimo assume oggi, l’impegno politico dei cattolici
diventa necessario.
Ci si accorda generalmente nel riconoscere che il cattolicesimo
non è una dottrina di spiritualità separata dalla vita ma che esso
piuttosto cammina insieme con l’umanità, come ha ricordato a
Loreto il Papa. E quindi è essenziale l’inculturazione. Non si può
pensare a una laicità assoluta dei cattolici in politica. Laicità
significa che essi si occupano di questioni temporali, ma sempre
mantenendo il senso della connessione del temporale con l’eterno.
Quindi il cristianesimo non è soltanto una fede in una realtà
soprasensibile, ma determina anche il senso e dà orientamento
all’esistenza. Tutto questo non significa affatto aconfessionalità
della politica.
L’unità nella verità

Nel discorso tenuto a Loreto il Papa ha affermato che l’unità


va costruita nella verità. la verità a cui si riferisce il pontefice è
quella assolutamente oggettiva ed eterna del cristianesimo. Il papa
insiste su questo carattere di verità eterna assoluta del
cristianesimo e insiste anche sul pericolo di penetrazione di idee
non cattoliche che in qualche modo offuschino questo primato
della verità, questa eternità oggettiva della verità, non soggetta alla
storia.
I temi della verità, dell’unità dei cattolici, del riflesso politico
di questa unità, sono punti strettamente legati fra loro, inscindibili.
L’indebolimento dell’unità, pertanto, consegue a un offuscamento
dell’idea di eternità della verità.

Gli esiti dell’umanesimo ateo.

Il mondo di oggi assiste a un processo di autoconfutazione di


coloro che combattevano il cristianesimo in nome della modernità.
Il caso più rilevante è quello della rivoluzione marxista.
Non dobbiamo dimenticare la frase di Gramsci del 1916: «Il
socialismo è la religione che deve ammazzare il cristianesimo», il
socialismo, cioè la religione che deve succedere al cristianesimo.
Il marxismo, però, per via di un processo necessario si è realizzato
nel socialismo reale, come ha messo bene in chiaro anche Vittorio
Strada. Secondo questo processo di necessità dall’ateismo iniziale
di Marx (che voleva essere una liberazione dell’uomo da qualsiasi
dipendenza) si è arrivati al socialismo reale. per questo assistiamo
oggi ad un’autoconfutazione del marxismo.
D’altra parte nel mondo occidentale che cosa avviene? Si è
verificato l’approdo a un libertarismo, cioè a una perdita dell’idea
stessa di verità. Un puro pluralismo senza unità morale: quello che
si manifesta nel materialismo pratico e nell’edonismo
contemporanei.
Oggi la modernità che doveva succedere al cristianesimo si
manifesta come fallimentare. Da una parte abbiamo nel socialismo
reale l’unità fondata non sulla verità ma sull’errore riconosciuto
come tale. nessuno più può credere alla verità del materialismo
dialettico. Questa dottrina viene imposta come vera, quando
nessuno può più credere che lo sia.
Dall’altra parte, nell’Occidente, abbiamo l’anarchismo fondato
sulla perdita dell’idea di verità. Mentre nell’Ottocento si parlava di
una verità che si sostituisse alla verità cristiana, adesso abbiamo la
perdita dell’idea stessa di verità. Perdita che porta a due estremi.
Al totalitarismo, che è una sostituzione del mito alla verità (non il
mito destinato a prolungarsi, a essere superato dalla verità, ma il
mito sostituito per ragioni pratiche alla verità), e al libertarismo
come anarchismo borghese. Non più l’anarchismo terroristico che,
in qualche modo, pensava ancora a una nuova umanità, ma il puro
relativismo morale.
In ragione di tutto ciò il tema della "restaurazione" cattolica,
nel senso che alla parola dà il cardinale Ratzinger, si presenta
come tema rigorosamente attuale. E qui si mostra l’errore
completo di quei modernisti o progressisti cattolici che vogliono
aprire il cattolicesimo a una modernità che oggi è massimamente
in crisi. L’idea del superamento del cristianesimo nella modernità
attraversa oggi la maggiore crisi che abbia conosciuto nei secoli.
In questo senso vale la pena rileggere le parole del Papa sui
pericoli di «una "espropriazione" effettiva di ciò che è
sostanzialmente cristiano sotto l’apparenza di una
"appropriazione" che in realtà resta soltanto verbale, con la
conseguenza della "assimilazione" al mondo invece che della sua
cristianizzazione».
I modernisti pensano di cristianizzare il mondo e in realtà il
loro tentativo si rovescia. Essi ignorano la crisi della modernità e
finiscono col coinvolgere il cristianesimo in essa.
Il cristianesimo come possibilità di salvezza

La prospettiva del progresso legata all’idea di modernità sia


sta rovesciando in quella di una catastrofe del mondo. Il
cristianesimo si presenta oggi come possibilità di salvezza della
civiltà. ma per poter salvare la civiltà non deve lasciarsi
coinvolgere in questa crisi.
Noi viviamo nella situazione delle rovine di una rivoluzione,
quella marxista. Nelle rovine di quel socialismo che doveva
sostituirsi al cristianesimo. Quindi il discorso del Papa a Loreto è
perfettamente coerente. Lo si può rifiutare dal punto di vista
laicistico, ma non si può non accettarlo e non esprimere il
completo consenso da un punto di vista cattolico.
Certo i cattolici hanno un vizio maledetto: pensare alla forza
della modernità e ignorare come questa modernità, nei limiti in cui
pensa di voler negare la trascendenza religiosa, attraversi oggi la
sua massima crisi, riconosciuta anche da certi scrittori laici.
In questo contesto si può capire anche il senso di un
movimento come Comunione e Liberazione: esso parte dal
riconoscimento pieno della crisi a cui la modernità è soggetta e
dunque riconosce attualità alla "restaurazione" (nel senso usato da
Ratzinger) del cattolicesimo. Al contrario una parte notevole del
mondo cattolico è nella posizione di volersi combinare in qualche
modo con la "modernità". Ma la combinazione diviene
subordinazione.

[Da «Il Sabato» del 1-7 giugno 1985]


La sconfitta del modernismo

Due alternative per la Dc

Sono passati ormai molti giorni dal 26 giugno, e penso sia


giunto il momento di stringerne il significato in una formula che,
pure nel riconoscimento dello scacco democristiano, ne
circoscriva i limiti e indichi le due vie che la Dc può battere:
quella che, alla lunga, può portarla al disastro, e quella invece che
la guida a un rinnovamento effettivo, capace di farne davvero
farne l’architrave della politica italiana.
Ritengo che questa formula altra non possa essere che "la
sconfitta del modernismo"; intendendo per modernismo non
l’"eresia modernista" quale fu condannata nel primo decennio del
nostro secolo, e neanche quel modernismo risorto per opera di
certi teologi postconciliari e diventato, secondo l’espressione di
Maritain, «da ruscello fiume» - la cui influenza sulla Dc è stata del
resto assai minore di quel che si possa pensare - ma quel
"modernismo moderato" di cui Pietro Scoppola parlava in un libro
di più di vent’anni fa; libro che ebbe una funzione importante
nell’incoraggiare e nel promuovere tante ricerche, svolte
successivamente in tutti gli angoli d’Italia, di cattolici
"disobbedienti", o almeno sofferenti rispetto alle ingiunzioni di
una curia, di un episcopato, di un clero allora nella massima parte
integralisti.
I termini di cui questo modernismo si è servito sono stati
quelli di "laicità", di "modernizzazione", di "autonomia della
politica", di "rifiuto dell’integralismo", di abbandono del
"paradigma medioevalistico", talvolta di "secolarizzazione";
termini ambigui, a cui si può anche dare un significato positivo,
ma si tratta di vedere il modo in cui sono stati intesi, e perché ciò
sia avvenuto. Quel che è certo è che l’evoluzione della Dc degli
anni di guerra a oggi è stata nel suo senso e che è diventata del
tutto esplicita nel "rinnovamento" che ha preso inizio lo scorso
anno e che ha incontrato la sconfitta il 26 giugno.
Questo modernismo come lo definiremo? Qual è la sua
prospettiva storica? Secondo essa, i pensatori laici e razionalisti,
se non avevano ragione in assoluto, l’avevano però per quel che
riguarda il giudizio sui secoli dell’età moderna; o, quanto meno, il
loro errore era scusabile, dato quello più grave dei loro avversari.
In questi secoli si sarebbe acquisito il senso dell’autonomia dei
valori temporali, perché l’umanità, attraverso un processo di
maturazione nei cui riguardi il contributo del cristianesimo
sarebbe stato essenziale, non avrebbe avuto più bisogno, per
reggersi temporalmente, di quella "supplenza" della Chiesa che
definirebbe invece i tempi medievali. Processo che, anche da
autorevoli teologi, viene detto, con non dissimulato piacere (quello
dell’ «inginocchiamento davanti al mondo», di cui parlava
Maritain), di "secolarizzazione", e considerato perfettamente
normale e organico allo sviluppo del mondo cattolico: e che si
sarebbe trasformato in "secolarismo", come negazione del
trascendente e del soprannaturale, soltanto per l’incomprensiva
avversione degli arretrati teologi che erano alla guida della cultura
e dell’insegnamento cattolico.
Se il "medioevalismo" e l’"antimoderno" (che avevano dato,
rispettivamente, il titolo all’articolo con cui il P. Gemelli, nel 1914
inaugurò la rivista Vita e Pensiero e nel 1922 a un libro di
Maritain) avevano ancora prevalso nel ventennio tra le due guerre,
si può dire che negli ultimi decenni l’omaggio al mondo moderno,
o il perdono richiesto a esso, siano stati il "primo atto culturale"
del democristiano. Si arrivò così a una sorta di cultura per cui la
trascendenza religiosa venne a significare che religione, metafisica
e morale, riguardano il mondo "di là" mentre il mondo "di qua"
deve essere amministrato secondo semplici tecniche sociologiche;
onde il riferimento a qualsiasi concezione generale della vita
venne escluso dalla politica, così che la "laicità" venne a
coincidere con la caduta della "pregiudiziale ideologica", e
l’"ispirazione cristiana" a significare un generico umanitarismo.
Uno storico potrebbe vedere in questo senso che la linea
prevalente nella Dc ha conferito sinora, più o meno
consapevolmente, alla laicità il punto di arrivo di una "laicità
agnostica", corrispondente a una certa linea positivistica del
pensiero italiano, ma non certo ad alcune delle tradizioni
risorgimentali. O fors’anche, sotto certi aspetti, a quel
"guicciardinismo" che non è quello del Guicciardini, ma quello
che invece credette di ravvisare Francesco De Sanctis, parlandone
come della crisi finale del Rinascimento. Nel senso che in teoria i
cattolici possono pensare ai principi già enunciati da San
Tommaso e a un loro allargamento, ma nella pratica la loro ricerca
di organizzare una forza politica capace d esercitare funzioni di
governo non può dar luogo che a un partito che rappresenti la
difesa dell’uomo del Guicciardini, inteso alla maniera
desanctisiana come colui che si propone di condursi in modo e con
tanta prudenza da riuscire a godersi questa vita e l’altra, senza mai
nulla sacrificare dei suoi interessi e dei suoi comodi.
Si parla a volte della necessità a cui la Dc deve subordinasi, di
attenuare il suo carattere religioso in ragione della sua funzione
politica di architrave della democrazia italiana, dato che i cattolici
rappresenterebbero ormai n a minoranza che raggiungerebbe
appena il 20%, e in processo, si dice, di progressiva diminuzione.
Credo che questi discorsi su maggioranza e minoranza siano
scarsamente fondati: la migliore risposta può forse essere che gli
italiani di oggi siano, per difetto di idealismo e per difetto di
speranza, tiepidamente cattolici e tiepidamente non cattolici;
guicciardiniani, appunto, nel senso desanctisiano, a riprova che
talvolta la storia effettiva imita le vedute storiografiche, anche se
erronee; e siano tali anche per colpa della classe politica che è alla
loro guida. Ricordo come nel ’48 la Civiltà Cattolica scrivesse che
spettava all’Italia dare l’esempio di una civiltà veramente ispirata
al cristianesimo; di fare quel che la Francia aveva realizzato sotto
l’ispirazione della cultura illuministica e la Russia sotto
l’ispirazione del marxismo; e l’idea di una guida morale dell’Italia
nella ricostruzione mondiale era quella di Pio XII. Dove sono
queste speranze? Negare un insuccesso morale della Dc è
impossibile, e la diminuzione della fede o della pratica religiosa
non ne è che un segno. Il dislivello fra i principi e la pratica di cui
si è fatto cenno, ha certamente giocato, generando quell’apparenza
dell’impossibilità di vivere secondo i principi cattolici che a
giudizio di Gramsci sarebbe la prova essenziale della fine storica
del cattolicesimo, e del suo "suicidio" che avrebbe proprio al
momento in cui tenta di informare la vita politica.
Nel declino della fede religiosa e in quello della Dc c’è quindi
un rapporto reciproco di causa e di effetto. Non bisogna però
neanche esagerare; è innegabile un risveglio religioso della
gioventù, di cui è segno, anche se piccolo, il migliore risultato che
la Dc ha ottenuto nelle elezioni alla Camera rispetto a quelle al
Senato (con voti che non sono stati certo dati alla Dc
secolarizzata); e ciò mentre gli anziani andavano a votare con
quella scarsa convinzione che è premonitrice di sconfitta. Questo
risveglio fa pensare che l’analogia, di cui molto si è discorso, tra il
declino della Dc e il disfacimento del MRP francese non abbia
grande fondamento.
Laicità, intesa nel senso che il cattolicesimo, in ragione della
sua impostazione trascendente, permetterebbe una piena
autonomia per quel che riguarda la realtà mondana; autonomia
talvolta pensata, ed esaltata, sul modello di quello della scienza
( ma la scienza interviene nella pratica per quel che riguarda i
mezzi, non i fini, e la questione etico-politica è perciò diversa
dalla scientifica); un abbandono della religiosità della vita politica
in cui già Croce vedeva, a proposito del liberalismo, un segno di
decadimento; il conseguente declino del sentimento di
aggregazione ideale di cui il guicciardinismo è conseguenza. Tutti
i temi della crisi della Dc si collegano e possono venire riassunti
nel motivo di una falsa "modernizzazione".
Ma come questo "modernismo" si è infiltrato nella Dc? Si può
parlare, entro certi termini, di un’influenza della cultura
marxistico-gramsciana; soltanto entro certi limitati termini, però.
Penso invece che occorra, per spiegare questo punto, riferirsi
piuttosto agli inizi del Comitato di Liberazione Nazionale e alla
maniera in cui veniva inteso negli ultimi anni della guerra; e ciò
deve far parte, secondo il mio giudizio, di quel ripensamento della
nostra repubblica a partire dai suoi principi che è necessario per
uscire dalla crisi attuale.
Il CLN era una coalizione contro un comune avversario di
partiti che avevano fondamenti ideali originari assolutamente
diversi o anzi opposti? Così lo intendeva certamente la Dc di
allora. Ma emergeva, per opera particolarmente del Partito
d’Azione, dunque dal partito degli intellettuali, un’interpretazione
diversa: quella di un’unità organica delle forze democratica di cui
il liberal socialista Partito d’Azione fosse l’asse portante, e la
forza verso cui dovessero convergere, nel loro processo verso la
democrazia, i cattolici e i comunisti. E’ ben vero che l’azionismo
come partito politico ebbe breve vita; ma si dissolse per
impadronirsi del dominio della cultura, e in questo riuscì ben più
dei comunisti; onde si ebbe il fenomeno delle due repubbliche,
quella della politica della cultura a guida laico-azionista,
informante la più gran parte della pubblicistica, e quella della
politica effettuale. Ora, l’unità ideale del CLN, imponeva che i
termini della lota ideale e politica fossero visti tra i progressivi e i
reazionari, e ai progressivi annesso lo stesso comunismo, visto
come democratico nella sostanza, e quindi in necessario processo
di democratizzazione, anche se per ragioni particolari connesse
alle situazioni dei paesi in cui aveva raggiunto il potere avesse
mutuato da un potere autocratico o da una tradizione orientale un
carattere totalitario.
Si guardi ora al processo avvenuto nella Dc: non può
altrimenti venir definito che nei termini di una subordinazione
sempre più accentuata non al pensiero comunista, si badi, ma al
laico-azionista; coerenza che nell’ultimo decennio è diventata
visibilissima, nella rigorosa necessità di cui ho parlato in un
passato articolo, della linea che va dall’arco costituzionale alla
fine della pregiudiziale ideologica, alla piena laicità in cui questo
partito si è presentato nelle recenti elezioni, alla riduzione del
programma a una politica del "rigore" già affermata dagli
economisti cari al partito repubblicano; la sinistra culturale
modernistico-cattolica ben si allea con una destra economica,
alleanza che caratterizza il laicismo azionista e la borghesia
illuminata. Lo storico futuro avrà il compito facile nel parlare di
un processo di secolarizzazione nel senso autentico del termine,
dell’Italia, che si sarebbe compiuto attraverso la Dc, e che
paradossalmente non avrebbe potuto compiersi che attraverso
l’apparente egemonia di questo partito.
Molto giustamente si è detto che per la Dc si tratta di una
scelta tra partito elitario-tecnocratico - in cui l’élite farebbe da
mediazione per portare una massa che il pensiero laico giudica
solo parzialmente matura, alla subordinazione a quel partito
elitario-tecnocratico che è oggi il repubblicano, così da realizzare
il partito repubblicano di massa - e partito popolare; perdendo nel
primo caso così il carattere popolare come il carattere cristiano.
Con pari ragione si è aggiunto che il partito popolare sarebbe tale
se in pari tempo fosse il partito della "difesa dell’identità
nazionale", e della coincidenza tra la causa nazionale e la causa
religiosa.

[Da "Il Tempo", 11 agosto 1983]


La morale comune dell’ottocento e la morale di oggi

Per cominciare subito da quel che più oltre si chiarirà dover


essere il cominciamento, portiamo l’attenzione su quel giudizio
definitorio della situazione morale presente che ha oggi maggior
corso.
Si può enunciarlo così: nell’ottocento si è svolta l’ultima
resistenza del cristianesimo, sulla trincea della morale; le
valutazioni pratiche continuarono a essere conformi alla morale
cristiana anche se, generalmente, gli uomini di cultura fossero
persuasi che della verità dei dogmi non si potesse parlare, e, nei
riguardi del soprasensibile, fossero, nel migliore dei casi,
agnostici.
I più recenti decenni del nostro secolo hanno segnato il crollo
definitivo di quest’ultimo baluardo. Oggi vivremmo in un’età
postcristiana: lo stesso anticristianesimo sarebbe venuto meno, per
la scomparsa dell’avversario; il problema della verità del Dio
cristiano sarebbe scomparso, allo stesso modo che non si fa più
questione della verità o meno delle divinità antiche.
Può sembrare che tutto nell’esperienza presente lo confermi,
sino a fondare la possibilità di un giudizio che non è più soltanto
empirico: il nostro tempo segna la fine storica del cristianesimo. Si
adduce, a sua riprova, il fatto che oggi neppur più si saprebbe dire
quale sia l’insegnamento cristiano. Il cristianesimo è teista o è
ateo? Ieri una simile domanda sarebbe sembrata folle. Oggi, in
facoltà di teologia protestanti, ma anche, sia pur in forma velata, in
facoltà cattoliche, viene insegnata la tesi, che non ha precedenti
nella tradizione, della morte di Dio. Per il cristianesimo l’anima
individuale è o non è immortale? Su questo punto il silenzio di
molti teologi è quanto meno imbarazzante. Nel pensiero cattolico
queste tesi si propagano attraverso l’affermazione dell’ateo come
cristiano incosciente, frase facilmente rovesciabile in quella del
cristiano come ateo incosciente. Su documenti capitali, come il
giuramento antimodernista, e come l’Enciclica Pascendi, viene
mantenuto il silenzio più completo. Ora, in altra occasione ho
cercato di mostrare che l’Enciclica Pascendi contiene, nella più
rigorosa delle forme, la definizione dell’essenza del modernismo.
Data la sua organicità, nessuna delle sue tesi può essere
pretermessa: l’asserto secondo cui colpirebbe il vecchio
modernismo, ma non il nuovo, è del tutto privo di fondamento.
Dimenticarne l’insegnamento per un solo istante equivale perciò a
riconoscere che il modernismo è vero; ora, l’esito del modernismo
è necessariamente ateo, come già in quegli anni lontani avevano
dimostrato, sancendo il giudizio dell’Enciclica, due filosofi non
certo preoccupati di ortodossia cattolica, Giovanni Gentile e Rene
Berthelot (1).
Naturalmente, gli occhi della fede portano a veder le cose in
tutt’altro modo: a esser certi che il cristianesimo non può perire,
per duri che siano i momenti che può attraversare. Se noi
compariamo i due giudizi, quello che ci viene dai dati
dell’esperienza e quello che ci viene dagli occhi della fede,
possiamo dare un significato preciso alla parola "crisi". Certo
questa parola ha ormai perduto ogni fascino, la si ripete da
quarant’anni (ma chi dice che il monotono sia il falso? è del falso
che bisogna aver paura, non di ciò che può apparire banale).
Avranno dunque ragione di esorcizzarla coloro che pensano che il
tramonto del sacro sia irreversibile. Ma, attenzione!, non si ha il
diritto di farlo dal punto di vista cristiano; come non dire che il
tempo massimo di crisi è proprio questo, in cui il cristiano "serio"
soffre la massima delle persecuzioni, quella del completo
disinteresse per le verità e i valori in cui crede (su questa
situazione attuale del cristiano è da vedere il bellissimo recente
libro di Urs von Balthasar, Cordula, ovvero il caso serio).
Ora, dirò subito quale vuoi essere oggi il mio assunto:
mostrare che se dal punto di vista, diciamo così, quantitativo,
l’espansione dell’irreligione non è mai stata così vasta, dal punto
di vista della ragione è invece il pensiero che suol venir detto laico
a essere in crisi, non il pensiero cristiano. Il pensiero laico è forse
oggi giunto alla sua crisi decisiva, al momento in cui la
contraddizione diventa manifesta. Il tradizionale pensiero religioso
— cioè il pensiero teologico collegato con la metafisica classica,
intendendo questo termine nel senso più ampio tale da includervi
così S. Agostino, come S. Tommaso, come Rosmini — si chiarisce
invece oggi come non affatto intaccato dalla critica; anzi come tale
da render ragione della natura degli errori e delle deviazioni
presenti. Sarei portato a proporre, senza poterla qui illustrare
adeguatamente, la proposizione seguente: le tesi tradizionali del
pensiero cristiano possono oggi venire riscoperte nel loro
significato autentico, a partire dalle contraddizioni insuperabili in
cui deve necessariamente involgersi il pensiero che pretende
averle superate, È nello sfondo di queste contraddizioni insolubili
che le verità della metafisica classica (2) appaiono nella loro vera
luce. Perciò antimodernismo sia - e antimodernismo intransigente
e assoluto -, se modernismo vuol dire ricerca di adeguazione del
pensiero religioso a una realtà ormai secolarizzata. Anche se è
difficile per l’uomo di oggi rivolgervi l’attenzione, in conseguenza
di tante abitudini intellettuali e, diciamo pure, di tanti stimoli
pratici al divertissement.
Ho parlato di cominciamento. E di fatto, quale può essere il
primo compito di chi intende oggi continuare a dirsi cristiano se
non liberarsi dal giudizio che sopra si è esposto, e dal senso di
inferiorità che ne deriva? Perché, diciamolo francamente: chi di
noi non ha dubitato, almeno per un istante, che quel tale giudizio
suggerito dalla storia non contenga un elemento di verità, e che il
cristianesimo sia dunque oggi da presentare in una forma
"nuova"? Molti, della cui sincerità e della cui fede non è lecito
dubitare, si sono accinti a questo compito. E il risultato l’abbiamo
sott’occhio: il cristianesimo aggiornato, "adeguato all’uomo
moderno" non ha più nulla di comune col cristianesimo
tradizionale. Fermarsi a mezza via non è possibile: il cristianesimo
"demitizzato" non può essere che un cristianesimo per cui le verità
di fede sono diventate "miti": non più peccato, non più paradiso,
non più inferno, ecc., sino alla conclusione inevitabile, "la morte
di Dio". Ora, penso che nulla serva come la considerazione della
realtà morale di oggi a mettere in luce la crisi del pensiero laico e
l’attualità del pensiero cattolico tradizionale, proprio nella sua
forma non modernizzata.

Comincerò perciò col tracciare le linee più generali della


morale tradizionale, della morale autonoma prevalente
nell’ottocento, dell’ideale di tipo di condotta che sottende
generalmente le valutazioni pratiche di oggi. Come modello
dell’etica tradizionale assumerò quella del Rosmini, sia per il suo
rigore, sia perché il pensiero rosminiano si è formato avendo come
avversario essenziale l’illuminismo; e ora il pensiero prevalente in
Occidente dal 1950 a oggi è un rinnovato illuminismo, cioè un
illuminismo separato da ogni elemento per cui aveva ceduto di
fatto a quel che oggi si suol chiamare la reazione romantica.
Il comando morale viene dal Rosmini enunciato come segue:
"Ama l’essere ovunque lo conosci, in quell’ordine che egli
presenta alla tua intelligenza" (3). L’accento deve essere portato
soprattutto sulla nozione di ordine; per Rosmini, come per tutta la
tradizione greca e cristiana, esiste un ordine dell’essere e la
volontà umana è morale in quanto vi si adegua. Ordine dell’essere,
cioè quello che S. Agostino chiama "dispositio plurium secundum
inferius et superius", cioè la gerarchia dei preferibili. Primato
dell’ordine, primato dell’immutabile, primato dell’intuizione
intellettuale formano nella morale classica una sequenza
necessaria.
Del Rosmini ricordiamo ancora un altro passo sulla distinzione
fra gli enti intelligenti e i non intelligenti. I primi, cioè gli
intelligenti, "hanno per fine, secondo la natura dell’intelligenza, la
pienezza dell’essere, l’unione con l’Ente assoluto. Gli altri, privi
di intelligenza, non possono aver questo fine, perocché non
possono partecipare dell’Ente in sé, epperò sono ordinati in
servigio degli enti intelligenti, e non hanno che un fine a questi
relativo. Può dunque affermarsi che gli enti intelligenti hanno un
fine assoluto, poiché hanno l’essere assoluto per fine, e sotto
questo rapporto si deve considerarli nella stima che si fa di essi.
Gli enti non intelligenti, all’opposto, non hanno altro valore che
quello di puri mezzi" (4).
Questo passo inserisce la morale nel sistema generale della
filosofia classica come centrata sull’idea di partecipazione. È
soltanto in ragione alla partecipazione all’assoluto che gli enti
intelligenti hanno valore di fini in sé; di più, l’idea della
strumentalità degli enti non intelligenti serve a definire la
giustificazione che ha l’attività tecnica nel pensiero tradizionale.
Mi sia concesso fermarmi un momento su questo punto, che
giudico di estrema importanza. L’hybris dell’attività tecnologica è
ciò che caratterizza il mondo di oggi. Questa è forse l’unica realtà
di fatto su cui tutti siano concordi. Ora, come impedire questa
hybris pur riconoscendo quel che non è possibile disconoscere, il
progresso dell’attività tecnologica? Altra via, oltre quella già
pronunziata da Rosmini, non ne conosco. E, insieme, questa verità
della metafisica classica serve a distruggere un pregiudizio oggi
molto diffuso: quello che il progresso dell’attività tecnologica e
l’eclissi del sacro siano fenomeni necessariamente connessi.
Effettivamente, le concezioni panteistiche e acosmistiche
rappresentano un impedimento allo sviluppo dell’attività
tecnologica; invece il pensiero teistico la promuove, però
collocandola allo stesso tempo nell’ordine e impedendone la
dismisura. Se noi consideriamo il pensiero orientale e l’ideale del
sommergersi in un Tutto in cui si perde la distinzione fra realtà
umana e realtà infra-umana, vediamo come in quelle civiltà vi
fosse un’opposizione difficilmente sormontabile fra pensiero
religioso e attività tecnica. La cosa cambia completamente col
cristianesimo; anzi con la concezione dell’uomo signore della
natura, come è già affermata nelle prime righe del Genesi.
Certamente può sembrare che in queste formule rosminiane
non vi sia nulla di suggestivo o di conforme al gusto dei nostri
tempi. Sembra che oggi ogni discorso cattolico abbia l’obbligo di
accentuare la creatività dell’uomo e la sua libera
autorealizzazione; la contrapposizione di un cristianesimo nuovo e
attivistico a un cristianesimo vecchio e passivistico è oggi a livello
di edicola, di giornali e di rotocalchi. L’intellettuale cerca poi le
formule sull’uomo cooperatore di Dio nella patristica; e aggiunge
che il cristianesimo nuovo riscopre il senso autentico del
cristianesimo contro la deformazione che durerebbe da non so
quanti secoli; il loro numero può variare secondo i gusti e le
occasioni di discorso dei vari interpreti.
Ora il Rosmini non vuoi certo negare la cooperazione
dell’uomo alla creazione; quella cooperazione che S. Tommaso
definisce nei termini seguenti: "Quum igitur per multa tendat res
creata in divinam similitudinem, hoc ultimum ei restat ut divinam
similitudinem quaerat per hoc quod sit aliorum causa". (Contra
Gentiles, III, 21), riferendosi alla parola di Dionigi: "Omnium
divinius est Dei cooperatores fieri", e al celebre passo della lettera
ai Corinzi: "Dei sumus adiutores".
Questa idea essenziale al pensiero cristiano può però venir
intesa in due sensi diversi. Forse si può precisare: a seconda che si
consideri l’analogia come forma dell’equivocità, o invece
dell’univocità; ma sarebbe inoltrarsi su un terreno arduo.
Può infatti significare: in quanto adeguo la mia azione a un
ordine increato, che è la guida della creazione divina, io partecipo
alla creazione e sono in qualche maniera concreatore; e il
sovrappiù di vitalità che è la piena mia realizzazione consegue a
quella relativa mortificazione che sta nel mio adeguarmi a un
ordine che mi trascende; mortificazione nel senso che appare
sacrificio rispetto al piano che si è lasciato, non rispetto a quello
che si è raggiunto. Questo mi pare il suo significato esatto. Ma
posso anche piegarla al senso seguente: l’affermazione di Dio è
condizione per la mia piena realizzazione, e posso sentirmi come
creatore solo in quanto sento la mia azione sostenuta dalla
collaborazione di Dio (5).
Nell’intenderla così si introduce nel pensiero cristiano un
elemento di pragmatismo e di vitalismo. Al limite, sarei portato a
vedere, nella distinzione tra i due sensi, quella tra la posizione che
vorrei chiamare ontologismo e l’altra che si presentò come
esistenzialismo cristiano. Personalmente sono tanto favorevole
alla prima, quanto avverso alla seconda: che giudico veramente
posizione degna di essere battuta, come lo è stata,
dall’esistenzialismo ateo. Pure è innegabile che il pensiero
cattolico recente ha portato l’attenzione piuttosto sul secondo che
sul primo senso: in fondo io credo che il germe della rinascita
presente del modernismo stia nell’esistenzialismo e personalismo
degli anni tra il ’30 e il ’40. Penso altresì che in Rosmini vi sia la
chiara distinzione tra i due significati in quel passo dei Principi
della Scienza morale, in cui egli stabilisce la netta distinzione tra
etica ed eudemonologia: "L’obbligazione di uniformare noi stessi
all’onestà e alla giustizia è semplice, immediata, assoluta, è
indipendente dalla considerazione degli effetti che apporta una tale
uniformazione in chi la opera, è un’autorità che si manifesta a noi
col solo presentarsi alla mente la regola dell’onestà; la quale
regola per se’ stessa, non per altro risguardo di sorta alcuna, chiede
somma e non dispensabile riverenza. Or qui apparisce cosa nuova;
egli apparisce che la dottrina della perfezione umana, di
quest’effetto dell’operare virtuoso, si divide dalla dottrina della
morale: e che la morale, tutta da sé, piena di autorità e di potenza,
niente chiede, niente accatta, dalla perfezione umana che le viene
dietro, non mutua da questa splendore, quando anzi ella sola
splendore a questa comunica. Quindi l’origine di due scienze
distinte nella loro natura, sebbene sommamente affini: l’Etica e la
Scienza della perfezione umana" (6).
Passiamo ora alle valutazioni morali correnti nel mondo laico
durante il secolo scorso, e soprattutto nella seconda metà
(naturalmente parlo qui in termini di prevalenza, perché in realtà
l’ottocento non porta soltanto i germi di ogni posizione in campo
morale che si sia prodotta nel nostro secolo; ma si può addirittura
parlare di questi primi due terzi del nostro secolo come dell’età dei
neo — neohegelismo, neomarxismo, neopositivismo, ecc. — vale
a dire del tempo in cui non è apparsa, nel riguardo della
concezione dell’uomo, alcuna idea nuova, ma sono soltanto giunti
a maturazione piena quelli che nel secolo scorso erano germi).
Esse si ispiravano al principio seguente: i valori morali sono
indeducibili e indipendenti da ogni concezione morale e religiosa
della vita. Sono oggetti di una valutazione intrinseca; ed è anzi a
partire dalla morale che si possono spiegare le concezioni
metafisiche e religiose come espressioni della speranza
dell’accordo tra l’Essere e i valori. Ma quali valori?
Appariva normalmente indiscusso che per tutte le coscienze i
valori morali fossero identici, e corrispondessero nella sostanza a
quelli della morale cristiana. Cioè il formalismo della morale
kantiana assicurava per un verso l’autonomia della morale rispetto
alla metafisica e alla religione; e per l’altro, nel liberare le
coscienze da ogni considerazione soggettiva, portava
all’affermazione di un contenuto valido per tutti e tale che
corrispondeva ai dettami del cristianesimo come morale.
Consideriamo ora la distanza di tale veduta dal giudizio
estremamente diffuso, oggi, e che qui, per comodo di esposizione,
si può ridurre nei termini più semplici: che sia la repressione degli
istinti ciò che porta all’aggressività, e che quando questa
repressione venga meno, si passerà allo stadio, diciamo così, della
"coscienza felice", per rovesciare la frase di Hegel sulla
"coscienza infelice".
Ora si tratta di accennare al modo in cui è avvenuto questo
trapasso, che è, anzi, un vero e proprio rovesciamento.
Nell’ottocento si sperava in un’unità morale della umanità dopo
dissolta l’idea dell’unità metafisico-religiosa. Oggi, invece, noi
assistiamo alla consunzione di questa idea dell’unità morale. Si
presentano due morali come opposte e inconciliabili. Ritornerebbe
qui il discorso sul termine di post-cristianesimo. Non lasciamoci
ingannare. Post-cristianesimo sembra alludere a una
conservazione; quanto nel cristianesimo c’era di positivo sarebbe
conservato nella morale laica di oggi, ed elevato a un livello
superiore, così come il cristianesimo aveva conservato,
purificandoli, i valori morali dell’antichità classica. In realtà, le
valutazioni pratiche del mondo non religioso di oggi sono in
rapporto di opposizione radicale per riguardo a quelle che
dipendevano dall’antropologia cristiana; si direbbe pertanto che ne
siano condizionate in ragione stessa dell’opposizione. Lascio da
parte ora la considerazione dei riflessi politici di tale opposizione:
ci si può domandare se sia possibile parlare oggi di una società in
senso proprio, quando manchi nei suoi membri un qualsiasi
principio di unità. Se trattassimo l’argomento ci si renderebbe
anche conto dell’insoddisfazione presente rispetto a qualsiasi
posizione politica, rispetto a qualsiasi partito politico. Essa
consegue a una crisi che in realtà è morale, e che fa sì che al
principio del bene comune si sia in pratica sostituito quello del
minor male; che si sia passati, cioè, dall’oggettivo (bene comune)
al soggettivo (minor male).
Ora è da considerare come si sia giunti a questo rovesciamento
all’interno della morale laica stessa. È avvenuto attraverso un
lunghissimo processo di cui bisogna determinare rapidamente i
momenti essenziali.
Il processo di svolgimento della morale autonoma coincide
con quello dello spirito laico. Pongo qui senza giustificarla
appieno la proposizione che segue: si ha l’inizio in senso proprio
dello spirito laico quando la morale è chiamata a giudicare in
suprema istanza la religione; perciò ho detto dianzi che il terreno
della morale mi sembra il campo privilegiato per la discussione e
per la critica del laicismo. Ritengo perciò che gli inizi dello spirito
laico debbano essere ritardati rispetto alle opinioni correnti, e che
si debba ravvisarne la prima espressione nel Dictionnaire di Bayle.
Questa è certamente una tesi disputabile, ma vorrei distinguere
nettamente lo spirito laico dalle eresie o dai tentativi di ritorno
all’antichità classica (7), anche se poi, nel corso del pensiero
successivo, le tre direzioni abbiano potuto intrecciarsi.
Ciò che caratterizza il pensiero di Bayle è il valore universale
e assoluto che riconosce alla legge morale. Per lui, noi disponiamo
di un’idea dell’Ordine, da cui dipendono nozioni che ci rendono
capaci di giudicare dell’essenza e dei caratteri della bontà in
qualsiasi soggetto si incontri, creatore o creatura. Il postulato da
cui muove la sua critica è che in un universo degno del suo
Autore, l’attributo divino essenziale, che dovrebbe principalmente
essere conservato, è la bontà, mentre tutti i sistemi teologico-
metafisici sarebbero, a suo giudizio, costretti ad attenuarlo e a
sacrificarlo. Quindi si afferma in Bayle l’idea della piena
autonomia della legge morale, indipendente rispetto a un
legislatore divino. Questo primato della moralità è però ancora
sostanzialmente congiunto con la desiderabilità dell’esistenza di
Dio, anche se sotto altro aspetto egli accentui l’obiezione relativa
alla presenza del male, onde la sua oscillazione fra una tentazione
dualistico-manichea e una fede cristiana non confessionale. Già in
Bayle si trovano tutte le esigenze che troveranno poi formulazione
nella filosofia religiosa kantiana e nelle sue prosecuzioni. L’opera
del Bayle, per quanto non possa dirsi, a rigore, illuminista, è agli
inizi dell’illuminismo; quella di Kant, invece, è al suo termine.
Accenniamo all’enorme successo che ebbe nell’ottocento la
morale kantiana. Si può dire che, sotto l’aspetto morale,
l’ottocento è stato il secolo di Rousseau (intendendo il Rousseau
della Professione di Fede del Vicario savoiardo) e di Kant. La
fiducia da cui la morale kantiana è animata, dell’unità della
coscienza morale in ragione della persuasione che la forma non
possa legittimare che un solo contenuto, deriva dalla dualità dei
motivi che vi si trovano compresenti. C’è un sottofondo platonico:
l’idea dell’uomo chiamato a testimoniare della ragione, ossia del
principio divino che è in lui contro le tentazioni della sensibilità e
della passione, cioè contro le argomentazioni di quella che Kant
chiama la "sofistica morale". In questo senso l’autonomia della
morale significa la non dipendenza da inclinazioni e da interessi
sensibili.
Ma anche se questo è probabilmente il significato più vero che
egli ha voluto darle, è altresì vero che particolarmente nella
seconda metà dell’ottocento, la coscienza laico-radicale si espresse
attraverso l’adozione della morale kantiana come tipo di morale
autonoma dalla metafisica e dalla religione. Cioè l’autonomia
ricevette un senso diverso da quello che è prevalente in Kant:
significò l’indipendenza del principio morale da qualsiasi potere
trascendente la volontà stessa, dunque anche da Dio.
Ora, se intendiamo così la morale kantiana, non ci si può
sottrarre alle conseguenze che proprio i teorici del laicismo nel
senso di morale autonoma, quando passarono alla riflessione
filosofica, dovettero trarre: il riconoscimento della pluralità di
criteri di valutazione morale che si presentano alle diverse
coscienze con la medesima autorità di valutazioni morali, cioè con
la medesima forma (8). Veniva così ritrovata, già nei decenni
precedenti la prima guerra mondiale, la critica che già Hegel
aveva mosso a Kant. Ritrovata malvolentieri da parte dei suoi
stessi ritrovatori; che partiti alla ricerca dell’autassia dei valori
morali si vedevano sorgere innanzi lo spettro dello scetticismo.
Non è questa l’occasione di fare la storia dei vari, ma sempre
sterili, tentativi che furono fatti per difendersene. Il fatto è questo:
quel processo "da Hegel a Nietzsche" che porta alla distruzione
dell’etica fu ripercorso nel novecento dalla coscienza comune.
Nietzsche aveva detto che nell’ottocento si era svolta l’ultima
resistenza del cristianesimo sul terreno della morale, ma che
questa resistenza doveva palesarsi priva di fondamento. L’idea di
verità, come quella di Bene Assoluto, erano idoli ormai giunti al
crepuscolo, dopo la morte di Dio. I decenni del nostro secolo
hanno puntualmente realizzato la sua profezia.
Il giudizio di Nietzsche corrisponde — però rovesciato nel suo
senso — a quello, pur esso notissimo, di Dostojevski: se non c’è
Dio, tutto è permesso. Ma è anche da osservare come corrisponda
ad una tesi essenziale del Rosmini. Contrappone questi la sua
filosofia morale a due sistemi erronei, il primo dei quali, secondo
le sue parole, fu di quelli che attribuirono al soggetto ciò che è
dell’oggetto. "Essendo dunque l’oggetto — e quando dico oggetto
dico la suprema legge morale — fornito di alcuni caratteri divini, i
quali sono l’immutabilità, l’eternità, l’universalità, la necessità,
tutti questi caratteri vennero attribuiti da questo genere di filosofi
al soggetto umano, e quindi divinizzarono l’uomo. Cotesti vi
parlano spesso, con un tono pieno d’entusiasmo, del divino
nell’uomo, e vi fanno l’uomo legge a se stesso; il quale sistema,
dal più celebre dei filosofi tedeschi del secolo passato, ricevette il
nome di ’autonomia’, cioè di legge a se medesima. Il secondo
sistema erroneo pecca del vizio contrario, e attribuisce all’oggetto,
cioè alla legge morale, ciò che è dell’uomo soggetto; poiché,
essendo l’uomo variabile, temporaneo, limitato, contingente, i
filosofi di cui parliamo si sforzano il più possibile che possono di
descriverci fornita di questi caratteri la legge morale..." (9).
Potremmo sviluppare il giudizio rosminiano in una descrizione
perfetta del processo per cui dall’affermazione dell’autonomia
della morale si passa alla sua dissoluzione. Qual è, infatti, la forma
della sua dissoluzione attuale? Possiamo, per brevità, trovarne la
formula in questa espressione di Mannheim, scritta, è vero, circa
quarant’anni fa, ma che ha per il sociologismo la stessa
importanza che per il marxismo la celebre frase secondo cui è
compito della filosofia non di comprendere il mondo, ma di
cambiarlo. "Noi — dice Mannheim — raggiungeremo una
penetrazione più profonda dei problemi se potremo dimostrare che
la moralità e l’etica sono condizionate da certe situazioni definite,
e che dei concetti fondamentali, come la colpa e il peccato, non
sono sempre esistiti, ma hanno fatto la loro apparizione come
corollari di situazioni sociali determinate". Cioè esattamente il
secondo tipo di etica a cui allude Rosmini. Il Mannheim non si
limita ad affermare il valore, in sé molto notevole, della sociologia
della conoscenza, ma intende l’avvento della sociologia della
conoscenza come critica definitiva della fede in valori assoluti.
Riassumendo ora questa prima parte, diremo che il laicismo
dell’ottocento voleva salvare il cristianesimo come morale; il
laicismo oggi prevalente fa in qualche modo suo proprio il
giudizio dei suoi avversari rispetto al fatto che non si può parlare
del cristianesimo come morale una volta abbandonato il suo
fondamento metafisico e religioso, ma vuole andare oltre,
affermando che il cristianesimo è oltrepassato nel suo stesso
aspetto di coscienza pratica.
Consideriamo le linee essenziali di questo processo
dall’affacciarsi alla storia del marxleninismo in poi. Vi
distinguerei quattro momenti, almeno per l’Europa: il
marxleninismo, la cultura di sinistra impegnata successiva al ’45,
quella che ho già detto l’hybris tecnologica e infine la rinascita
dell’anarchismo dopo il marxismo e la civiltà tecnologica,
vedendo in questo quarto momento un aspetto di positività, come
inizio di una possibile presa di coscienza del processo di
autodissoluzione del laicismo.
Mentre il socialismo degli anni tra il 1890 e il 1915 era
caratterizzato in generale dalla ricerca di trovare il fondamento
nell’etica kantiana, il marxleninismo rifiuta radicalmente questa
associazione. Questo rifiuto coincide con il ritorno ad un
hegelismo totalmente separato da ogni residuo elemento platonico.
Altra volta mi avvenne di definire il tratto unico che
caratterizza il marxismo nell’intera storia del pensiero attraverso
questa formula: è la filosofia moderna nell’aspetto in cui si
presenta come oltrepassante definitivamente il pensiero in termini
di trascendenza, o almeno di trascendenza religiosa, che diventa
religione (10). Consideriamo infatti: per questo carattere religioso,
il marxismo è vissuto nella forma di attitudine totale che abbraccia
in una unità organica la comprensione della realtà sociale, il valore
che la giudica, e l’azione che la trasforma. L’unico termine che
convenga a questa attitudine totale è quello di "fede", molto bene
accentuato dal Bloch, per esempio, nessun altro esprimendo con
precisione uguale il fondamento dei valori nella realtà e il carattere
differenziato e gerarchizzato di ogni realtà rispetto ai valori.
Certamente, l’oggetto di questa fede non ha più nulla di
soprannaturale e di soprastorico. È soltanto sopraindividuale, nel
senso che è una fede in un avvenire storico che noi dobbiamo fare
con la nostra azione.
Se vogliamo fare un parallelo con l’agostinismo, dovremmo
dire che i valori sono fondati in una realtà oggettiva che non è
assolutamente ma soltanto relativamente conoscibile: cioè Dio per
S. Agostino, e la Storia per Marx. E la conoscenza più obiettiva
che l’uomo possa attingere di un fatto storico suppone il
riconoscimento di questa realtà trascendente, sopraindividuale,
come valore supremo.
Ma in questa forma di religione l’avvenire è sostituito
all’eterno. Si ha quindi il completo rovesciamento di tutta la
tradizione così platonica come cristiana. Per avere il senso di
questo rovesciamento richiamiamoci alla frase di Rosmini che ho
citato all’inizio, secondo cui gli enti intelligenti partecipano
all’Ente Assoluto, e sotto questo riguardo sono degni di un rispetto
che li pone come fini in sé. Per il marxismo, invece, l’universalità
umana non è un "eterno" cui si debba commisurare il presente, ma
un "futuro" cui bisogna far servire l’umanità presente, e in
rapporto alla morale ciò significa che alla subordinazione della
politica alla morale si sostituisce la totale inclusione dell’etica
nella politica.
Passando ora a quello che caratterizza il laicismo post-
marxista dal ’45 in poi, potremmo dire che in esso abbiamo
l’abbandono del momento religioso del marxismo; mantenendo
però le negazioni che esso aveva fatto del platonismo e del
cristianesimo.
Questo abbandono avviene in due posizioni in qualche modo
complementari: l’esistenzialismo ateo della cultura impegnata di
sinistra, e il rinnovato positivismo. Carattere comune a entrambi è
la radicalità del rifiuto dei temi imparentati alla teoria del Logos e
della partecipazione, di ogni traccia, insomma, della tradizione
platonica e cristiana.
Per la cultura impegnata di sinistra mi limiterò a ricordare un
saggio di Sartre, pubblicato nei ’46, in cui veniva affermato che
doveva essere attribuita all’uomo quella libertà creatrice delle
stesse Verità eterne che Cartesio aveva attribuito a Dio. Ora io non
penso che il termine di "creazione" dei valori abbia alcun
significato quando venga riferite all’uomo. Certamente si può dire
che noi partecipiamo agli attributi divini, quindi anche, come
cause libere, alla potenza creatrice. Ma questa potenza dell’uomo
e questa sua cooperazione a Dio si dispiega, secondo la tradizione,
nel rendere reale l’ordine, che anche ammesso che venga posto
liberamente da Dio — tesi, del resto, che, se non anche
espressamente condannata, spesso ha rasentato l’eterodossia —
non è comunque, certo, creato dall’uomo.
Se si conferisce all’uomo un potere creativo assoluto, almeno
nell’ordine dei valori, esso mi sembra non potersi manifestare
altrimenti che nella forma di potere negativo e distruttivo, come
forza nientificante. E, se guardiamo bene, in che cos’altro si è
realizzata questa, cultura di sinistra se non nella distruzione di
ogni autorità dei valori? Non è un caso che, essa si sia
accompagnata alla fortuna dell’opera di Sade, promosso per
l’occasione al grado di grande moralista. Quando si nega ogni
ordine oggettivo, in che altro la volontà potrà trovare un contenuto
che nell’idea della distruzione di quest’ordine? Un tale esito si
formula dapprima nella contrapposizione della grandezza dell’io
personale ad un universo assurdo. Necessariamente si banalizzò
poi nella negazione di ogni repressione.
Curiosamente (ma non tanto!) l’esito nichilistico della teoria
della creazione umana dei valori sembra offrire la riconferma
esatta per quella teoria del libero arbitrio che è classica nella
metafisica cristiana, L’argomento sarebbe di importanza decisiva,
penso, ma qui devo limitarmi a un breve, accenno. Nella teoria,
tradizionale della libertà umana vendono accomunati i due
elementi: l’aspetto di negatività; come capacità di separarsi dai
beni finiti; l’aspetto di capacità di adesione al vero bene; la
volontà umana è libera rispetto ai beni finiti, proprio perché
mossa, necessariamente verso il Bene infinito. Ora, proviamo a
mettere da parte l’idea del Bene infinito; l’aspetto di negatività,
intrinseco alla libertà umana dovrà necessariamente assumere la
sembianza di creatività; ma questa creatività non potrà altrimenti
manifestarsi che come potere distruttivo... cioè, appunto, come
quell’aspetto di negatività che la teoria classica riconosce, ma reso
assoluto.
Ma passiamo ora soprattutto alla considerazione della società
o civiltà tecnologica vista come risposta occidentale al
comunismo; stimolante e importante il recente libro dell’amico
Cotta sulla Sfida tecnologica. Dirò che non mi pare che le mie
idee siano in contraddizione con le sue; ma che piuttosto siano
complementari, Particolarmente io concordo con lui sul punto che
si tratta di essere oltre, e non contro la scienza e lo sviluppo
tecnologico, e che per questo oltrepassamento si impone il ricorso
al pensiero rivelativo che le offre quello che veramente è; l’essere,
l’assoluto, il divino. Del resto avevo cominciato con la citazione di
quel passo di Rosmini che mi pare proprio estremamente
importante per definire nel suo ordine l’attività tecnica.
Si tratta qui di una concordia non sterile, perché una certa
letteratura "contro la società dei consumi", dei cui benefici si vuol
d’altra parte abbondantemente fruire, sembra fatta proprio per
servire da blasone a una nuova borghesia vorace di tutto, anche
delle produzioni letterarie che la negano. Importa però qui
sottolineare il punto del possibile disaccordo: sta nella valutazione
di quel tipo di civiltà che si è formata in Occidente nell’ultimo
ventennio, e che assai spesso viene designata come tecnologica: e
anche la questione del nome ha rilievo.
Cotta distingue al riguardo tre serie omogenee, di cui la prima
denomina questo mondo nuovo come società opulenta,
consumistica, o società del benessere; la seconda come società
riformistica e social-democratica; la terza come civiltà della
tecnica, o civiltà industriale, o civiltà atomica, e pensa che siano
esatti i termini della terza serie.
Tuttavia, rispetto alla società oggi presente, e che del resto non
è ancora completamente attuata, e che, per di più, attraversa oggi
una crisi, penso che debba piuttosto essere definita, secondo una
precisa frase di Felice Balbo, attraverso la sostituzione dell’idea di
"benessere", ossia del massimo soddisfacimento degli appetiti, a
quello di "vita buona": onde ai termini di vero e di falso si
sostituiscono quelli di "importante" e di "insignificante", di
"originale" e di "banale", di "eretico" e di "dogmatico", di
"sincero" e di "retorico", di "progressivo" e di "reazionario" (11).
E una tale connotazione non mi sembra denunziare una
prospettiva moralistica, ma invece proporre la definizione di una
civiltà secondo l’atteggiamento esistenziale che le è proprio, e che
implica necessariamente una corrispondente posizione filosofica.
Ossia, traducendo in termini miei quelli di Balbo: non è per sé il
progresso della tecnica ad avere generato un tale tipo di civiltà, ma
è invece l’eclissi del sacro, che si spiega per ragioni ideali,
filosofiche e morali, ad avere fatto sì che ogni attività umana sia
stata vista in termini dell’agonismo uomo-natura.
Consideriamo infatti la caduta di quell’idea di un ordine
normativo di valori che era stato affermato dal pensiero morale
tradizionale, e che in qualche modo voleva essere conservato
anche dalla morale laica dell’ottocento; consideriamo altresì la
caduta dell’aspetto religioso-rivoluzionario del marxismo. L’unico
valore resterà l’incremento della vita sensibile, insomma il
benessere, ed ogni attività umana, e la religione stessa, sarà vista
sotto il riguardo di strumento vitalizzante.
È stato grande merito di Simone Weil l’avere centrato il punto
di una crisi che oggi si è dispiegata completamente nella forma
della preminenza della vita alla verità. È tale preminenza che porta
a pensare ogni affermazione in un senso strumentale per
l’affermazione della vita stessa. La sua critica del pensiero
religioso di Bergson è in anticipo la critica del nuovo modernismo
di oggi. Per lei Bergson aveva commesso un errore rasentante la
bestemmia (anzi, per lei senz’altro aveva detto una bestemmia:
l’attenuazione è mia) nel vedere nell’energia dei mistici la forma
compiuta dello slancio vitale. Al contrario il mistico, per lei, è
colui che si è affrancato dalla servitù della verità alla vita, e per
aver varcato questo limite, riceve un’altra vita, che non è in primo
luogo vita, ma verità diventata vita.
Se ci poniamo da questo punto di vista dell’atteggiamento
esistenziale implicante la filosofia, direi che la formazione della
società del benessere non deve essere messa in rapporto, almeno
in primo luogo, col progresso dell’attività tecnologica, ma con
un’idea dell’uomo diametralmente opposta e inconciliabile a
quella che sta a fondamento non soltanto del pensiero cristiano e
di quello greco, ma di ogni possibile religione.
Ogni possibile religione presuppone infatti che l’uomo porta in
sé un principio invisibile, un’essenza di natura divina, e afferma,
di più, che questo principio invisibile è il fondamento della stessa
società fra gli uomini, della stessa società politica, anche nella sua
forma di democrazia. Leggevo di recente questa frase di Giulio
Lachelier: "La volontà generale, che sola fa le leggi, non è affatto
la somma delle volontà individuali; essa è, invece, quel che nella
volontà di ogni singolo cittadino, non è per nulla individuale, ma
rappresenta, per dire tutto in breve, la volontà ideale e impersonale
del bene e della giustizia, ed è in questo senso che si intendeva, e
forse si intende ancora, la volontà di Dio. Così intesa, la
democrazia in realtà, e nel senso etimologico della parola, è una
vera e propria teocrazia".
Del resto infinite volte nel pensiero cristiano si è detto che la
società spirituale è soltanto possibile sul fondamento dell’idea di
Dio. E oggi, nel centenario vichiano, non si dimentichi che l’opera
di Vico è proprio diretta, come manifesta la conclusione della
Scienza Nuova, a dimostrare l’impossibilità di quella "città degli
atei", la cui possibilità Bayle aveva ipotizzato. Come dimenticare
pure che lo stesso pensiero ateo dell’ottocento, messo davanti al
problema della città, aveva sempre cercato un surrogato della
religione? Così il nuovo cristianesimo sansimoniano, la religione
dell’umanità di Comte, l’avvenire e la società senza classi di
Marx. Ora, quel nuovo positivismo che, più o meno dichiarato
esplicitamente, sta al principio della società del benessere, è
caratterizzato proprio dal rifiuto di questo surrogato; vorrei dire,
con una frase un po’ approssimativa, che è il comtismo separato da
tutti gli elementi per cui esso si pone come religione dell’umanità.
E qui si porrebbe il problema: è ancora possibile parlare di
società, posto questo rifiuto? È ancora possibile parlare di autorità
dello Stato? O il regime che si imporrà sarà necessariamente
oppressivo, anche se dichiarerà la pia ampia tolleranza, nei limiti,
si intende, in cui questa tolleranza non rappresenta nessun
pericolo? Ecco una domanda, che non è possibile non porre:
pensiamo davvero che l’epoca dei totalitarismi sia finita, o invece
che vi sia la minaccia di più pericolose forme oppressive, forme
oppressive in qualche modo nuove, e che non corrispondono
affatto alle figure tradizionali dello stalinismo, dell’hitlerismo,
ecc.?
Se poniamo il problema in questi termini, la domanda prima
sarà se non si debba vedere nella stessa idea della società
tecnologica, vista in quel senso in cui si manifesta nell’aspetto
morale ed esistenziale di società del benessere (notiamo che io non
dico affatto che ci sia un rapporto di necessità tra attività
tecnologica e società del benessere, dico che c’è un rapporto di
fatto, nella società del benessere intesa come si è costituita al
presente), non già un oltrepassamento del marxismo, ma un
aspetto della sua dissoluzione.
Si è già detto come nel marxismo autentico, e nella sua
affermazione leniniana, filosofia e rivoluzione siano inscindibili,
non nel senso che dalla filosofia discenda un comando morale di
essere rivoluzionari, ma in quello che il marxismo si presenta
come filosofia che diventa mondo, e che pone in questo "diventare
mondo" e in null’altro il suo criterio di verità. Se si prende, come
si deve, questa asserzione sul serio, si vede la stretta unità tra
storia della filosofia contemporanea e storia contemporanea. Per
un verso la storia contemporanea è storia filosofica, per l’altro non
si può parlare di filosofia contemporanea senza includervi lo
studio della realtà politica contemporanea.
Ora, in che senso, così idealmente come realmente, il
marxismo cede per un verso rispetto alla società tecnologica, e per
altro verso si riafferma sotto l’aspetto, diciamo così, romantico-
anarchico?
Riferiamoci, per brevità, alla sigla con cui viene comunemente
designata la filosofia marxista: materialismo dialettico. Così il
materialismo, integrale al punto di render ragione anche della
storia, come la dialettica, sono necessari al marxismo come
dottrina rivoluzionaria. Questo perché il pensiero rivoluzionario ha
due aspetti: per un verso è dissacrazione dell’ordine esistente, e
sotto questo riguardo è materialistico; per l’altro è affermazione
della potenza del negativo, e quindi dialettico.. Il semplice
materialismo storico porterebbe a una dottrina di totale
relativismo, alla riduzione delle concezioni del mondo a
espressioni e a strumenti di affermazione di gruppi sociali, senza
fare eccezione per la stessa concezione marxista, che invece
pretende di essere la vera, e che non può agire come forza
rivoluzionaria senza essere sentita come la vera.
Ora, i due momenti, nella loro estensione più radicale, sono
portati a scindersi l’uno dall’altro. Il primo deve cangiarsi in
sociologismo. Quanto all’estensione più totale del momento
dialettico marxista separato dal materialismo, io penso che noi lo
abbiamo già avuto, che esso si è manifestato in forma filosofica
nell’attualismo, ma questa è una questione che non possiamo ora
affrontare.
Questo annullamento sociologistico della verità attraverso la
sostituzione completa del discorso scientifico al discorso
filosofico è la filosofia che sottende la società tecnologica
nell’aspetto di società del benessere. Dal punto di vista effettuale,
è la società che elimina la molla dialettica della rivoluzione, che
per il Marx più maturo è resa ineluttabile non già da
quell’alienazione di cui si parla tanto, termine che nel Capitale
scompare, ma dalla miseria crescente. Ciò per coerenza allo stesso
principio del marxismo, secondo cui la rivoluzione è necessaria
non già per motivazioni morali, ma in ragione di leggi immanenti
all’evoluzione storica.
Tuttavia, l’eliminazione della molla dialettica è scontata con la
riduzione dell’uomo a "essere a una dimensione", per riferirci al
titolo di un’opera oggi celebre. Che cosa significa perdita
dell’altra dimensione? Perdita del pensiero dell’"altra realtà",
perdita della dimensione della trascendenza, sia essa vista nel
senso del pensiero religioso o, come pensa l’autore del libro che
ho ricordato, di un trascendimento interno alla storia. Non posso
perciò non consentire col Marcuse, quando scrive ad esempio:
"Gli schiavi della civiltà industriale sviluppata sono schiavi
sublimati; sono pur sempre schiavi, poiché la schiavitù è
determinata non dall’obbedienza e dall’asprezza della fatica, bensì
dallo stato di strumento e dalla riduzione dell’uomo allo stato di
cosa. Questa è la servitù allo stato puro: esistere come strumento e
come cosa. E tale modo di esistere non viene certo abolito se la
cosa è animata e si sceglie il proprio cibo materiale e intellettuale,
se non sente di essere cosa, se è graziosa, pulita, capace di
movimento. D’altra parte, a mano a mano che la reificazione tende
ad assumere carattere totalitario, in virtù della sua forma
tecnologica, gli organizzatori e gli amministratori si trovano
sempre più a dipendere dall’apparato di chi organizza ed
amministra; e tale dipendenza reciproca non è più la relazione
dialettica tra il Padrone e il Servo, spezzata dalla lotta per essere
riconosciuti dall’altro, ma è piuttosto un circolo vizioso che
racchiude sia il Padrone che il Servo" (12).
Questa idea del "circolo vizioso" immanente alla società
tecnologica è un’idea molto importante, che del resto Marcuse ha
svolto assai bene, ed estremamente pertinente è la critica che egli
ha svolto del nuovo positivismo. Soltanto penso che egli si dibatta
poi in una contraddizione insolubile; onde la debolezza della
conclusione che contrasta in questo suo libro, e direi ancora più
visibilmente negli altri, fino all’ultimo sulla Fine dell’utopia, con
una diagnosi il cui rigore non può essere disconosciuto.
Questa contraddizione è resa ben visibile, se si ammette questo
rapporto tra filosofia contemporanea e storia contemporanea, da
quel che oggi sta accadendo; la contraddizione mossa da questo
nuovo anarchismo dovrebbe essere globale perché il mondo
comunista, oltrepassata la fase del sottosviluppo, si è avvicinato al
mondo capitalistico, e l’uno e l’altro collaborano nello stesso
sistema della repressione.
Ma di fatto queste rivolte anarchiche che dovrebbero opporsi a
entrambe le parti agiscono soltanto come strumenti
dell’affermazione di una parte del sistema. Esprimono cioè non
già una vera e propria critica o negazione del sistema, ma sono
critiche all’interno del sistema. Ciò avviene per una
contraddizione che è loro insita: un’assenza di contenuto che le
porta ad esercitarsi in senso puramente distruttivo, e d’altra parte
un’esigenza politico-realistica di potere che vieta loro di estendere
questo nichilismo fino alla distruzione di se stesso, almeno
nell’aspetto della politicità.
La contraddizione pratica non fa che riflettere la
contraddizione teorica; il Marcuse pensa che al di qua delle
negazioni pronunciate da Feuerbach e da Marx non si possa
tornare, e ciò nell’atto stesso che la singolarità della sua posizione
sta nel confermare una diagnosi del mondo presente che, per la più
gran parte degli argomenti, era stata già svolta da scrittori di
indirizzo religioso.
Ad ogni modo questo anarchismo della gioventù porta a
riflettere, perché significa una nuova smentita alla sciagurata idea
del progresso. La situazione umana resta immutabile nella sua
unità di grandezza e di miseria attraverso tutte le civiltà, e anche
nel tempo dello spirito tecnologico dispiegato; e, a mio giudizio,
non si può parlare di pensiero metafisico, e neanche di pensiero
religioso, se non si riconosce questa immutabilità della situazione
umana. Almeno, questa presenza della miseria dell’uomo nella
società tecnologica, i "contestatori globali" l’hanno sentita; la loro
ribellione è però destinata a restare sterile, o a involgersi nella
mera licenza sessuale, sino a che la loro critica non venga portata
sul processo ideale su cui la società contro cui protestano si è
costituita.
I tanti problemi a cui si è accennato sono così strettamente
legati che non era possibile isolarli: questa relazione ha dovuto
perciò diventare il semplice indice di temi che potrebbero venire
adeguatamente affrontati in uno o più libri. Tuttavia, mi pare si sia
chiarito il punto di cui dicevo all’inizio. Quel giudizio abituale,
pacifico anche per troppi cattolici, secondo cui il pensiero e la vita
religiosi dovrebbero, per sopravvivere, adeguarsi a un mondo
radicalmente mutato, è apparso assai meno sicuro di quel che
comunemente si pensi. E l’inconsueto giudizio opposto, secondo
cui la crisi sarebbe piuttosto nello spirito laico, ormai giunto come
pensiero alla contraddizione finale — e ciò anche se nessuno
possa prevedere in quale misura abbiano ancora potere di
diffusione e di conquista le forme pratiche che vi si ispirano — è
apparso essere, quanto meno, un "pensiero possibile".
Naturalmente, tale possibilità è per me persuasione. Questa è
la ragione per cui in sono avverso a ogni forma di modernismo, e
penso che soltanto un ritorno alla metafisica classica e alle sue tesi
essenziali — primato dell’essere, primato dell’immutabile,
intuizione intellettuale — possa veramente rappresentare la
salvezza di quegli stessi elementi positivi che ci sono nel mondo
di oggi, e della stessa attività tecnologica, riportata però nel suo
ordine.

NOTE

(1) Il saggio del GENTILE su Il modernismo e l’enciclica Pascendi, 1908;


(successivamente raccolto nel volume Il Modernismo e i rapporti tra religione e
filosofia) si manifesta, riletto oggi, di un’attualità sconcertante. Non è, come
qualcuno potrebbe credere, uno scritto marginale nell’opera gentiliana; perché segna
l’accordo fra il filosofo del "divino immanente" e i teologi cattolici nello stesso
giudizio critico nei riguardi dell’ateismo a cui il modernismo deve necessariamente
giungere. Questo accordo serve ad attestare il carattere razionale delle critiche svolte
dalla Pascendi, contro i discorsi già fatti allora e così di frequente ripetuti oggi sulle
"abitudini conservatrici" di cui sarebbero stati prigionieri i teologi che la prepararono.
L’opera in stile vecchio razionalista di R. BERTHELOT, Un romantisme utilitaire (3
vol., 1911-22), coinvolge il modernismo nella polemica contro il pragmatismo; e fa
veder bene come l’elemento pragmatistico, essenziale al modernismo, sia la radice
della sua frattura irrecuperabile con la tradizione.

(2) Per la definizione di "metafisica classica" cfr. il recente, estremamente


suggestivo, libro di M. F. SCIACCA, Filosofia e Antifilosofia, Marzorati, Milano,
1968; le cui lesi mi sembrano perfettamente concordare con quanto io sostengo.

(3) Principi della Scienza morale, cap. IV, art. 5 e 7.

(4) Storia comparativa e critica dei sistemi intorno al principio della morale,
parte II, cap. I.

(5) Mille esempi di questo rovesciamento di significato potrebbero essere


addotti; a lumeggiarlo in tutte le conseguenze che ne derivano può servire la lettura
del libro del pastore battista Harvy Cox, La città secolare, Firenze, Vallecchi, 1968.
(6) Principi della Scienza morale, prefazione.

(7) La linea di pensiero che va dall’averroismo al pensiero libertino definisce


questo tentativo di ritorno al pensiero classico separato dagli aspetti per cui appare
introduzione al pensiero cristiano. Ma questa linea differisce dal laicismo
propriamente detto, e ciò proprio in relazione all’assenza dell’affermazione del
primato della coscienza morale.

(8) Per il riconoscimento di questa pluralità ha grande interesse l’opera di un


moralista italiano, che è poco conosciuto, ma che meriterebbe di esserlo per l’estremo
rigore con cui cerca di definire l’idea di una morale rigorosamente autonoma nei
riguardi della religione e della metafisica, Erminio JUVALTA: cfr. di lui, Il vecchio e
il nuovo problema della morale, 1915, ora in I limiti del razionalismo etico, Einaudi,
Torino, 1945; per la questione della pluralità dei criteri di valutazione morale, pp. 297
ss.

(9) Principi della Scienza morale, cap. I, art. IV.

(10) Mi si vorrà scusare se dico di terger molto a questa formula, che non mi
consta sia stata detta da altri. Perché essa mostra la vanità di ogni tentativo di
battezzare il marxismo. Non c’è una parte del marxismo che possa venire assimilata
dal pensiero cristiano. Tutto il marxismo può essere pensato sotto due diverse forme,
quella dell’escatologismo immanente e quella del relativismo assoluto: per dir meglio
è un escatologismo immanente, che nel suo attuarsi deve rovesciarsi in quel
relativismo assoluto, che è la filosofia che sottende la cosiddetta società tecnologica.
La critica cattolica deve lumeggiare come questa eterogenesi dei fini sia iscritta
nell’essenza stessa del marxismo.

(11) BALBO F., Opere, Boringhieri, Torino, 1966, pp. 364 ss.; hanno estrema
importanza le osservazioni sulla forma di empirismo che sottende come filosofia
implicita la società del benessere.

(12) MARCUSE, L’uomo a una dimensione, Einaudi, Torino, 1967, p. 52.

[Pubblicato in Il problema morale oggi (Atti del Convegno di studio del


Comitato Cattolico Docenti Universitari tenutosi a Roma nei giorni 31 maggio-2
giugno 1968), Il Mulino, Bologna, 1969, pp. 81-105].
L'idea libertina e il potere tecnologico

Origini dell’indifferenza morale

Che cosa è cambiato nella morale corrente degli ultimi


decenni rispetto ad un passato relativamente prossimo così della
morale religiosa come di quella laica , che del resto per gran parte
delle valutazioni, non variamo molto? Possiamo parlare di una
diffusa indifferenza morale strettamente parallela all’indifferenza
religiosa, di cui ho parlato nell’articolo del 19 ottobre, e originato
dalle stesse cause? Indifferenza che tende a concludere, come
qualche autore ha osservato, nella perdita delle stesse nozioni del
bene e del male? I pareri sono a questo proposito discordi; e
lasciando ora da parte quelli dei professionali demolitori di tabù,
cortigiani e profittatori della realtà presente, riferiamoci ad una
opinione abbastanza diffusa tra quei cattolici che sono ottimisti
rispetto alla "modernizzazione" come passaggio a un mondo
maturo e maggiorenne.
Ragionano così: la Chiesa preconciliare non si era accorta
della crescita dell’uomo; di conseguenza la morale che essa
insegnava era repressiva della vitalità; in questo dobbiamo trovare
i motivi della sua alleanza con i regimi che, in nome dell’autorità,
"frenano". Non bisogna quindi meravigliarsi se nel momento del
trapasso sui abbia, corrispondentemente ai torti della Chiesa verso
l’età moderna, una crisi della sua morale, in cui gli aspetti negativi
e positivi si bilanciano. Dove più si manifestava l’aspetto
repressivo della morale cattolica, se non nelle questioni
riguardanti il sesso? E ancora negli anni del primo dopoguerra il
tabù sessuale vigeva. E’ quindi naturale che l’incrinazione delle
dighe si sia avuta soprattutto nel campo della morale sessuale. E,
di conseguenza, che all’idea della famiglia, ordinata alla
trasmissione dei valori, si sia sostituita quella della vita di coppia,
di fatto finalizzata a una completa soddisfazione erotica.
Giustizia e volontà di pace

Ma d’altra parte, la sensibilità agli aspetti più autentici della


moralità, fatta di slanci piuttosto che di divieti, sarebbe
decisamente aumentata; e si enumerano i caratteri presenti nella
gioventù di oggi in maggior grado che nelle generazioni passate,
solidarietà, generosità, giustizia, volontà di pace, sensibilità alla
fame nel mondo. Si aggiunge che certi valori minacciati, come
quelli della famiglia, saranno recuperati in una visione morale più
aperta. Ovviamente, non posso qui occuparmi del rapporto tra
morale e religione; se una morale autonoma dalla religione possa
esistere, o se un pur inconsapevole fondamento religioso stia alla
base della moralità. Mi limito a porre la questione se tra il
disordine morale di oggi e l’indifferenza religiosa di cui ho parlato
nel precedente articolo non intercorra uno stretto vincolo; o se,
anzi, l’indifferenza religiosa e l’indifferenza morale, nei caratteri
che presentano oggi, non facciano tutt’uno; e ritorno qui su quella
vittoria-sconfitta del marxismo di cui ho già parlato.
Nell’Ottocento era avvenuta la grande lotta tra Mazzini e Marx: la
critica marxiana verteva sull’idealismo etico di Mazzini, da Marx
ironicamente chiamato "Teopompo".
Oggi, dalla sensibilità laica sono pressoché scomparsi i termini
sul cui fondamento il genovese conduceva la sua polemica contro
il renano, e che in passato aveva ispirato tanta parte della gioventù
italiana: ideale, sacrificio, missione. Vittoria, però, di cui il
marxismo non ha fruito. Collocandosi nella stessa linea del suo
pensiero, dovremmo dire che la sua opera di demistificazione è
stata la condizione del passaggio da uno stadio a un altro dello
spirito borghese: da quello cristiano-borghese (per usare
un’espressione di cui ha fatto largo uso Karl Löwith, e che forse
trova la sua esemplificazione più perfetta in Benedetto Croce) che
nella sua espressione migliore tendeva alla conciliazione con la
tradizione a quella che completamente rompe e che, a mio
giudizio, anche collocandosi dal punto di vista marxiano, realizza
il momento della sua forma compiuta. Lo spirito borghese ha
insomma compiutamente assorbito il marxismo, volgendolo a suo
vantaggio ed eliminando il suo senso profetico, messianico e
rivoluzionario. Penso che sia per questa via che si giunga alla
migliore definizione della società consumista.

Il "credo" della nuova gioventù

E’ ben certo che bisogna guardarsi dai giudizi totali e che non
deve venir trascurato il fatto che la minoranza religiosa vive oggi
più intensamente che nel passato i dettami della fede;
l’indebolimento quantitativo del cattolicesimo è però innegabile.
Per quel che riguarda la maggioranza che ha subito l’influenza
genericamente progressista o che fino a qualche anno fa amava
definirsi tale - e non mi riferisco in modo particolare alla cultura
comunista la cui crisi è parallela a quella cattolica - non è vero che
l’abbandono di un comandamento che il cattolicesimo di Papa
Wojtyla continua a ritenere come essenziale alla morale abbia fatto
riscontro un affinamento di sensibilità per altri valori pratici.
Prendiamo, ad esempio, quella volontà di pace, che sembra il
carattere più incontestabile della nuova gioventù, e che sarebbe
tale da differenziarla dalle generazioni precedenti. Esiste davvero?
Quale può essere infatti la più semplice definizione della volontà
di pace? La coincidenza tra la volontà di non essere oppressi e
quella di non opprimere.
E’ evidente, posto questo, che non è davvero segno di spirito
di pacalo slogan che circolò in Germania qualche anno fa "meglio
rossi che morti"; per cui la schiavitù volontaria sarebbe dunque
preferibile alla morte. E evidente è altresì che lo spirito di non-
violenza connaturato alla volontà di pace non ammette una
distinzione tra violenza rivoluzionaria e violenza reazionaria né
l’indifferenza verso chi della violenza rivoluzionaria è colpito. Si
paragoni ora quel che si disse e si scrisse e si fece a proposito del
Vietnam, e quel che fu fatto invece per l’Afghanistan.
Il milione e mezzo di morti, i quattro milioni di profughi, i
mutilati dalle piccole bombe sovietiche, fanno solo minima
notizia. Del Vietnam si è cessato di parlare da quando si è
instaurato uno dei governi più duri e repressivi, ma nel segno della
rivoluzione. La fame nel mondo? Ma quali sono gli aiuti che
davvero arrivano a destinazione, quali sono i soccorsi che vengono
dati ai missionari da parte di un Occidente che quanto a consumi
alimentari non aveva mai raggiunto il livello presente?
Quel che non è stato osservato, e invece lo meritava, è la
regressione che è avvenuta nel laicismo di oggi dallo spirito
illuministico, allo spirito libertino, pur nella sovrabbondante
produzione che si è avuta negli ultimi tempi su questa forma di
pensiero. se si comparano le valutazioni morali oggi correnti con
quelle del libertinismo del Seicento si è colpiti da un’analogia che
rasenta l’identità. In questa regressione si ripercorrono a rovescio i
secoli; l’illuminismo e libertinismo sono orientamenti di pensieri
differenti perché, pur nella comune critica della tradizione,
l’illuminismo mirava a mutare il senso razionale del mondo,
mentre il libertinismo si trovava a suo agio nel clima della ragion
di Stato.
Si suol distinguere un libertinismo erudito da un libertinismo
di costumi, anche se se di fatto le due "liberazioni dai pregiudizi"
tendano a confondersi. tesi prima del libertinismo erudito è la
teoria "politica" della religione, pensata necessaria come freno del
popolo ignorante e puntello dell’ordine, e ridotta a questa
funzione; del libertinismo di costume l’illimitata libertà sessuale.
Ora, la teoria "politica" delle religioni, non ha oggi il suo preciso
riscontro nella tesi che abbassa le concezioni della vita a ideologie
di potere? E non c’è certo bisogno di insistere sul libertinismo di
costume; piuttosto sull’unità dei due libertinismi in riviste su cui si
forma la media cultura borghese italiana, o meglio, la sua cultura
generale in un tempo in cui domina necessariamente quello
specialismo, dal quale per definizione sono assenti i giudizi
valutativi.
Quando si conclude un ciclo

Non voglio con ciò mettere da parte una differenza sensibile:


l’antico libertinismo aristocratico si serviva della religione come
scuola di rassegnazione. I detentori del potere tecnologico ed
economico di oggi tendono a sostituire per il dominio del popolo il
sistema di valutazioni libertino alla religione. Si è visto nel passato
articolo che l’indifferenza religiosa è la pienezza dell’ateismo e
che oggi essa si sostituisce all’ateismo rivoluzionario; e già nel
pensiero libertino prevaleva questa totale indifferenza.
L’irreligione compie un ciclo e ritorna alla posizione originaria. E
se pensiamo che questo rinnovato libertinismo è nel nostro secolo
l’esito conclusivo di un processo che aveva avuto il suo inizio nel
progetto di rivoluzione totale, dobbiamo dire che oggi è il tempo
in cui la rivoluzione ritrova il suo etimo, da revolvere, giro di una
cosa su se stessa, ritorno al punto originario. E qui il discorso si
allungherebbe sul carattere ciclico, non rettilineo, come
comunemente si pensa, della modernità.

[Da "Il Tempo", 26 ottobre 1986]


Le origini dell’indifferenza religiosa

Il mutato senso dell’indifferenza religiosa è tra i fenomeni più


significativi degli ultimi decenni e condiziona quel profondo
cambiamento morale che molti credono di spiegare
esaustivamente col passaggio da una società rurale ad una società
industriale o postindustriale.
Che tale passaggio possa contribuirvi è un fatto; non sta però lì
la ragione essenziale, e l’intendere questo mutamento di senso
nelle sue motivazioni profonde, ci porta pure a verificare i limiti
delle interpretazioni sociologiche. Il tratto nuovo è questo: ha fatto
la sua comparsa un’indifferenza che è più lontana dalla fede di
quel che sia l’ateismo, e che in ciò si distingue dall’indifferenza di
altri tempi.
Perché, certo anche una volta si parlava di indifferenza; ma in
relazione ad una separazione nella vita di una sfera laica e di una
sfera religiosa. Onestà e lavoro nella prima, preoccupazione per la
salvezza nella seconda. E siccome le due sfere erano pensate non
soltanto come distinte, ma come separate, la cura delle cose di
questo mondo poteva portare aduna dimenticanza, più o meno
pronunciata, del momento religioso.
Era una indifferenza che non importava negazione; si
accompagnava spesso, anche al di fuori di ogni confessione
religiosa, alla desiderabilità di un’altra vita in cui virtù e felicità
fossero congiunte. Almeno come desiderabilità, anche quando non
ci si pronunciava sulla sua reale esistenza, e anche se, più che ad
essa, si pensava a star bene nella vita precedente.
Non si può dire che questo tipo di indifferenza sia scomparso.
Ma un altro ne è sorto che se ne diversifica anzitutto per il suo
carattere di "totalità". Ed è facile accorgersi che, a differenza del
primo, succede all’ateismo anziché precederlo. L’ateismo, infatti,
è una risposta negativa al problema di Dio: è una "lotta con Dio",
in cui l’ateo finisce spesso col soccombere.
Dimostrare scientificamente la non esistenza di Dio è
impossibile. Gli argomenti sono morali: ateismo pessimista e
ateismo rivoluzionario, tra loro alquanto diversi. Unde malum, è
l’obiezione del pessimista. Il rivoluzionario pensa invece che la
prima liberazione umana richiede la negazione del Signore
Celeste, immagine del padrone terreno.
Ma entrambe queste forme si rivelano deboli. L’ateismo
pessimistico è una posizione intellettualistica: nella realtà è
piuttosto l’esperienza del male e del dolore a riportare la speranza
religiosa. Per l’ateismo rivoluzionario basti pensare al
"disincantamento per la rivoluzione" che c’è oggi. L’indifferenza
religiosa ha come suo carattere non già la risposta negativa, ma
scomparsa del problema di Dio. La fine delle religioni
coinciderebbe con questa comparsa. Forse che si discute più su
Giove o su Minerva? Perché lo stesso, qualcuno pensa, non
potrebbe avvenire per il cristianesimo?
Del resto non altrimenti pensava il marxismo per cui l’ateismo
era "un risultato"; con l’edificazione della società socialista, il
bisogno religioso e la mitologia in cui si esprimeva dovevano
venire automaticamente meno. E’ avvenuto invece che questo tipo
di indifferenza religiosa si manifesti oggi soprattutto in Occidente.
Come spiegarlo? Bisogna pensare agli anni successivi al ’45
segnati dalla presa di posizione dell’Occidente rispetto al
comunismo, e delle sue risposte, la religiosa e la laicistica.
Consideriamo quel che si scriveva, giustamente del resto, allora.
Che il marxismo era una teologia rovesciata, una
controreligione che era pur sempre una religione. Era la
trascrizione secolarizzata del pensiero ebraico e cristiano e si
stabilivano le corrispondenze: la lotta tra la borghesia e il
proletariato nell’ultima epoca della storia traduceva esattamente
sul piano mondano la lotta finale tra il Cristo e l’Anticristo; alla
funzione redentrice di Cristo corrispondeva quella che sarebbe
stata esercitata dal proletariato, con perfetta simmetria tra
l’estrema sofferenza a cui doveva seguire la Resurrezione; alla
trasfigurazione della città terrena nella città di Dio, quella del
regno della necessità in quello della libertà, permanendo
l’orientamento della storia verso uno scopo finale. Ma proprio
questa simmetria rendeva assoluta l’antitesi.
Invece, il pensiero laicista portava l’attenzione sulla simmetria
tra teocrazia medievale e ateocrazia comunista. La risposta laica
sopprimeva perciò nel marxismo tutto l’elemento profetico e
messianico, quel che induceva a parlare di "Regno eterno" o di
"surrogato della religione"; ma nel tempo stesso licenziava, quale
risposta inadeguata al marxismo, quella cultura idealistica che
intendeva restaurare il divino in termini di immanenza, e
conservare il cristianesimo in forma moderna: quel pensiero che in
Italia aveva dominato con Croce e con Gentile. Invece per il
laicismo di nuovo tipo la condanna, insieme, degli elementi
teologici del marxismo coincideva con l’abbandono di qualsiasi
posizione religiosa. Di qui l’indifferenza nella sua nuova forma.
L’antireligione era diversa ma superiore a quella marxista, ed è
essa che ora prevale, in corrispondenza col declino del marxismo;
anche se non dà luogo a persecuzioni dirette, è per la religione un
veleno più sottile. La mancata distinzione tra le due indifferenze fa
si che persone d’indubbia fede religiosa vedano una sorta di
progresso nel passaggio dall’ateismo all’indifferenza. E’ normale,
a loro giudizio, che vi sia una crisi nel transito da un tipo a un altro
di società. L’immensa trasformazione in cui ci troviamo a vivere
esige che anche il cattolicesimo si manifesti in forme diverse. Alla
negazione atea, che si dirige contro una religione vista come
inscindibilmente connessa con il vecchio tipo di società,
seguirebbe un periodo di indifferenza, destinato a scemare quando
la religione saprà intendere le nuove domande. In realtà, la nuova
indifferenza, anziché rappresentare un regresso dell’ateismo, ne è
la pienezza . L’ateismo che si dichiara come tale, ne è la
condizione e la premessa. Si consideri la formula, di larga
circolazione, "Dio è morto"; essa presuppone un Dio che vive
soltanto nella coscienza degli uomini di una determinata
situazione storica, e che può morire perché già dall’inizio era
negato come realtà in sé, e concepito di fatto come "mortale" alla
maniera della "civiltà". L’indifferenza presuppone l’ateismo nella
forma appunto del "Dio è morto" onde si accompagna con una
curiosità per le religioni di un lontano passato, appunto "morte".
La diffusione dell’indifferenza religiosa nel senso che si è
detto, mi sembra il primo dato della situazione occidentale.
Quanto serve a chiarire il prevalente comportamento morale?
Cercherò di dare una risposta in un prossimo articolo.

[Da "Il Tempo", 19 ottobre 1986]


"La nuova cristianità perduta" di Pietro Scoppola
di Augusto Del Noce

"Religione civile" e secolarizzazione.

[Da "Il Tempo", 23 luglio 1985]

Il recente libro di Pietro Scoppola La "nuova cristianità"


perduta (Ed Studium, Roma) ha il merito di affrontare senza
reticenze quello che è il paradosso più singolare e più visibile dei
decenni del dopoguerra italiano: un partito "cristiano" sorto non
soltanto nell’esigenza di tutelare i legittimi diritti dei cattolici, ma
nella speranza (o, almeno, accompagnato nelle sue origini dalla
speranza) di fondare una "nuova cristianità", detiene da
quarant’anni la funzione di guida prevalente nella politica italiana:
pure, in questo periodo è avvenuto il massimo processo di
cristianizzazione che mai si era dato nella storia del nostro paese.
E, notiamo, di cristianizzazione non violenta, in nessun modo
imposta: si è diffuso, per così dire spontaneamente, il giudizio
secondo cui il cattolicesimo, come dogmi e come
morale,appartenga a un passato che deve essere studiato senza
remore e senza odio ma che perciò stesso non possa essere
riconosciuto, per ragione della mutata situazione storica, come
guida nelle scelte effettive; e, questa è una mia aggiunta, non
manca chi, laico, considera positivamente la DC come garante di
un passaggio indolore da una società ancora religiosa a una società
secolarizzata. Altro merito di questo libro è di svolgere un
discorso coerente e rigoroso, senza alcun infingimento, così da
servire da stimolo anche a chi, come chi scrive, abbia idee
alquanto differenti.

Due frasi

Porterò l’attenzione su due passi che mi sembra rendano


appieno il significato del libro. (Quale si è svolta in Italia) «la
secolarizzazione è certo una sconfitta per la Chiesa, o almeno una
durissima prova; ma non è, in nessun modo, una vittoria della
cultura laica: in realtà nessuna cultura ha vinto; tutte si sono
disgregate nell’impatto con la società di massa di tipo
consumistico» (p. 145), (ai cristiani spetta ora il compito di
promuovere) «una relativa deconfessionalizzazione della presenza
cristiana, la capacità di offrire tipi di comportamento
universalmente validi, una "religione civile" della responsabilità e
della solidarietà, quei valori appunto di cui la democrazia si
alimenta e senza i quali è destinata a scadere in puro compromesso
di interessi» (p. 194). Sembrerebbe dalla prima che la presente
situazione morale italiana, caratterizzata dalla secolarizzazione
che si è detta, non sia spiegabile attraverso fattori ideali. L’attacco
alle tradizioni e ai valori cattolici è giunto alle spalle, del tutto
imprevisto, legato al processo tecnico, economico e sociale.

L’avversario nuovo è stato ed è il "consumismo", mentre i


cattolici continuavano e continuano a combattere gli avversari di
ieri, il comunismo «intrinsecamente perverso» della Divini
Redemptoris e il laicismo. Continuano, nella maggioranza, e
altresì in formazioni che si presentano come nuove, a non
accorgersi che questo anniversario nuovo e affatto imprevisto,
colpiva, insieme, la Chiesa e i tradizionali avversari: fermava il
comunismo, così da costringerlo a metter da parte i suoi aspetti
messianici, e mediava il passaggio a una borghesia di tipo nuovo ,
che più nulla conserva di quei valori morali che avevano
presieduto al nascere dello spirito borghese laico e ne avevano
accompagnato lo sviluppo. Dalla seconda, la rinuncia al miraggio
di una "nuova cristianità" veruna religione civile che, certamente,
non esclude la "religione ecclesiastica" ma che può venire
condivisa da tutti i democratici.

Non sono affatto d’accordo: per me la priorità deve esser data


alla causalità ideale, e anzi se c’è un periodo storico in cui tale
priorità si manifesta, è proprio questo. Comincerò con una tesi che
penso trovi Scoppola consenziente: la cristianizzazione presente
non è che una aspetto di un fenomeno più generale: la caduta,
particolarmente sensibili negli anni dal ’60 a oggi, e
particolarmente accentuata dolo il ‘70 e dopo la completamente
fallita contestazione, della religiosità della vita politica. Per i
comunisti del passato, secondo la frase del giovane Gramsci - che
su questo punto non faceva che esprimere una tesi corrente nel
socialismo rivoluzionario - «il socialismo è la religione che deve
ammazzare il cristianesimo», costretto dalla storia a "suicidarsi"
davanti al suo avversario; ossia come gli dei pagani erano
scomparsi senza lasciar traccia davanti al Dio unico del
cristianesimo, così tale Dio sarebbe scomparso davanti all’Uomo
Nuovo comunista.

I laici degli anni Trenta parlavano con Croce della «religione


della libertà» che si era affievolita nella stessa età liberale e che
ora era da riprendere e da restaurare. Per i cattolici di quel tempo
si trattava di "restaurare" (nel significato che dà oggi a questo
termine il cardinale Ratzinger) la cristianità; è certo che i progetti
erano diversi, e padre Gemelli e Maritain non pensavano allo
stesso modo: entrambi però, e menziono quelli che forse sono i
due estremi, perseguivano questo ideale, e non erano davvero
isolati.

Religioni diverse, immanentistiche le une, trascendente la


cattolica. Tuttavia, sempre religioni. Lo stadio presente della
secolarizzazione è caratterizzato dal venir meno di questa
inscindibilità di religione e di politica; molti anni fa avevo parlato
di due periodi dell’epoca della secolarizzazione, quello sacrale che
si era manifestato nel ventennio tra le due guerre attraverso le
religioni secolari del comunismo, del fascismo e del nazismo e
delle loro antitesi sull’ideale della "nuova cristianità", e quello
profano che trovava espressione in quella che allora si era soliti
chiamare la "società opulenta". Ora, questo, più che passaggio,
rovesciamento non è avvenuto in nome di una nuova idea. I
"valori forti" della tradizione sono tramontati, o almeno hanno
subito una eclissi, ma non sono stati sostituiti. Di qui lo strano
nichilismo di oggi, che in realtà è accettazione della realtà
esistente: secolarizzazione e nichilismo sono le due facce della
stessa medaglia.

Certo, il fatto che tale rovesciamento non sia avvenuto in


nome di un nuovo "valore forte" più inclinare a spiegarlo con un
impatto della società dei consumi che mette in crisi tutte le culture.
A ben riflettere ci si accorge però che non è così. primo fattore di
questa crisi di valori è stata la crisi della cultura marxista, che si è
arrestata - e non poteva non arrestarsi - a una "rivoluzione a metà".
Possiamo certo dire che non è riuscita a sostituire i suoi valori agli
antichi; ma a produrre "il vuoto dei valori" si. Consideriamo infatti
la sua polemica contro i valori "assoluti ed eterni" visti come
strumenti di conservazione e, conseguentemente, contro il
pensiero "metafisico"; contro quanto di metafisico restava nel
laicismo (per l’Italia, nell’idealismo e particolarmente nella
filosofia di Croce); contro la morale kantiana. La pars destruens
del marxismo è riuscita, scissa dalla costruens. Ma in questa
scissione ha assunto un carattere diverso da quello che presentava
nel marxismo, e appunto ha dato origine al nichilismo. Accogliere
la pars destruens non si poteva se non "combinandola" come è
avvenuto, con elementi nietzcheani e freudiani; dando luogo a
quella che pomposamente viene della "scuola del sospetto" e che
si risolve nell’esercizio di smascherare la volontà di potere che
sottenderebbe ogni affermazione di carattere assoluto, sancendo il
relativismo, e che in realtà è un’amalgama-intruglio in cui va
perduta quella parte di verità che pure si può trovare in Marx, in
Nietzche e in Freud.

Passiamo a vedere quale contraccolpo le negazioni marxiste


abbiano avuto nel laicismo. Si direbbe che esso ha ripercorso a
rovescio la sua storia. dalla sua versione romantica
all’illuministica e poi alla libertina. Cioè a quella
"permissivistica". tutto è permesso, salvo l’osservanza di certe
regole necessarie alla coesistenza, accettate in ragione della loro
utilità. Se si guarda almeno alla cultura diffusa si è portati alla
conclusione solo apparentemente paradossale che l’egemonia
culturale tenuta una volta dal crocianesimo, poi dal gramscismo, è
oggi passata nelle mani d’un più o meno dissimulato libertinismo.
La letteratura storico-filosofica sul pensiero libertino si è
notevolmente accresciuta negli ultimi anni, e basta una lettura
cursoria, p. es. del libro dello Schneiber Il libertino. Per una storia
sociale della cultura borghese nel XVI e XVII secolo (Ed. Il
Mulino) per accorgersi di quanto le valutazioni di tipo libertino
permeino i giudizi correnti; sostanzialmente immutate perchèil
tipo di pensiero libertino è una costante che si riproduce identica
nei periodi di crisi: sua insegna è quel «tutto è permesso» di cui ho
gia detto. E basta entrare in una libreria per vedere quanta parte sia
fatta agli autori della letteratura libertina, una volta pressoché
proibita.

Il contraccolpo è stato forte - e già lo si è spesso avvertito -


anche nel mondo cattolico, sotto la forma più o meno larvata della
sostituzione della morale della "legge" con una morale della
"situazione". Anche qui il pensiero "metafisico" è stato
considerato come "retrivo" e ci si è troppo spesso orientati verso
un fideismo: c’è la scienza che basta per organizzare la vita in
questo mondo; e c’è la fede, che può "vitalizzare" in quest’azione
di miglioramento del mondo. La mediazione metafisica viene
meno. E qui mi si permetta di dire quel che evidentemente non
posso ora dimostrare: senza mediazione metafisica la fede è
destinata ad estinguersi.

Quel che comunque non si può dire certo è che le nuove e


irrequiete teologie postconciliari hanno avuto a radice della loro
novità la recezione della pars destruens del marxismo; e che
l’estensione della scristianizzazione si spiega soprattutto non per
ragioni esterne ma interne allo stesso mondo cattolico.
Conseguenze

Queste constatazioni portano a due conseguenze. la prima è


l’equivoco che si annida nel termine "consumismo". Vuol
significare relativa abbondanza di beni materiali (del resto molto
relativa per la gran parte degli italiani)? Si dovrebbe allora arrivare
alla conclusione che la religione può prosperare soltanto dove c’è
miseria, e dove la Chiesa può cercare di alleviarla con le sue opere
di carità. A una strana conclusione fuerbachiana sulla correlazione
fra miseria temporale e religione! Meglio usare il termine
"permissivismo" che designa una disposizione morale piuttosto
che un fatto economico.

la seconda, assai più importante, è la seguente: non è stato il


consumismo a corrodere le culture, così che oggi piuttosto che
proseguire nelle vecchie polemiche, esse dovrebbero pensare a
promuovere una "religione civile"; al contrario è stata la caduta
della religione civile a rendere possibile l’invasione
permissivistica.

Qual è infatti il presupposto di questa religione civile, se non


l’esistenza di un "comune mondo morale" rispetto al quale sia
universale il consenso, al di là delle diversità di confessioni
religiose? Si può dire che questa idea abbia percorso in varie
forme i secoli dell’età moderna e abbia trovato una certa realtà
nella seconda metà dell’Ottocento e nei primi decenni del nostro
secolo. Si può aggiungere forse che ha trovato la sua epigrafe nel
celebre scritto di Croce Perché non possiamo non dirci cristiani.
Ma oggi è irrimediabilmente caduta. Il fatto che più colpisce è la
presenza di una pluralità di morali del tutto inconciliabili: segno
che le morali sono inscindibili dalle concezioni metafisiche e
religiose. Di più, oltre all’irrealizzabilità, mi sembra pericolosa
anche come proposta. Si tratterebbe infatti di un fondamento della
democrazia come orizzonte entro cui si muoverebbero i vari
partiti, concordi nell’accettarla, parzialmente divisi rispetto ai
mezzi e alle tecniche attraverso cui può venir realizzata. Ma è
lontano il passo da questa concordia su certi valori comuni a
quello di una "democrazia consociativa"?

E’ da osservare come questa idea sia del tutto diversa dall’


"inculturazione" di cui parla Giovanni Paolo II; per la quale è la
religione cattolica, nel suo senso pieno, che deve permeare la
politica dei cattolici. Certo la formazione politica a cui
l’inculturazione può dar luogo deve venire, di fatto, a
compromessi e concessioni; ma nel fatto stesso dell’affermazione
di principi e di ideali che vanno oltre i programmi, si presenta
come inizio di una società cristiana: se si vuol dire così, di una
"nuova cristianità". Il fatto che progetti di "nuova cristianità" siano
andati falliti non toglie che altri non possano presentarsi; o che
l’idea della "nuova cristianità" non debba restare principio
ispirativo. La "desacralizzazione" della politica a cui abbiamo
assistito e che sarebbe la condizione dell’abbandono da questo
ideale, non è un fatto neutro e non è un progresso, suppone un
processo ideale, di cui si sono delineati i tratti essenziali, e portato
a una consapevolezza filosofica, deve riconoscersi nel nuovo
nichilismo: non tollera di venir limitato da una "religione civile"; è
l’aspetto profano dell’epoca della secolarizzazione.

Un dramma europeo
di Augusto Del Noce
Nel 1969, in piena contestazione cattolica, un lucido giudizio
di Augusto Del Noce sulle radici ideologiche del dissenso: il
desiderio di «adeguarsi» al mondo e l’avversione per la metafisica
classica.

[Dal «Corriere della Sera», 24 Gennaio 1969]

CORRIERE: La genesi della contestazione nella Chiesa è


religiosa, morale, ideologica o politica?

AUGUSTO DEL NOCE: Penso che la motivazione


fondamentale della «contestazione nella Chiesa» sia individuabile
in un giudizio storico-politico: quindi non in un rinnovato fervore
religioso, né in una spinta morale, e neppure in una tensione verso
una palingenesi sociale. Dove vediamo il «Santo» del dissenso? E
a quali Santi del passato si ispirano i cattolici contestatori? Al
posto dei santi vediamo professori di teologia che si preoccupano
(non mettiamo minimamente in dubbio la loro ottima fede) di
adeguare il messaggio cristiano al mondo moderno: poiché il
mondo non è oggi più composto di pescatori della Palestina, questi
teologi pensano di dover parlare il meno possibile di miracoli e di
vita eterna. E sorge il dubbio che in essi, segretamente almeno, la
fede negli «invisibilia Dei» sia scossa dalle tanto più verificabili
certezze nei «visibilia» della scienza moderna.
Non vi è nel cattolicesimo del dissenso, considerato nel suo
insieme, quella pur secolare religiosità dei movimenti
autenticamente rivoluzionari; il vero spirito rivoluzionario si
accompagna non già alla liberalizzazione dei costumi, ma a
un’estrema austerità.
Il sottaciuto giudizio che muove in realtà l’intera contestazione
è questo: il periodo che va dal 1919 al 1945 ha segnato la fine e il
castigo dell’«orgoglio europeo». Per intenderlo dobbiamo rifarci
soprattutto al decennio tra il ’30 e il ’40: allora l’antica
convinzione di un «primato ideale» dell’Europa era ancora, in
generale almeno, indiscussa dai laici (pensiamo a quel che fu il
breviario di tanti intellettuali laici di allora, la Storia d’Europa nel
secolo XIX di Croce) come dai cattolici, fedeli senza discussione a
una Chiesa romana che conservava l’eredità della tradizione del
pensiero classico. Ma se sul piano ideale questa veduta restava
indiscussa, su quello della realtà effettuale questa stessa Europa
sembrava diventare la casa dei demoni: i veri demoni totalitari e
nazisti. L’Europa sembrava reincarnare Babilonia.
Ora, consideriamo: all’impressione dell’Europa-Babilonia
liberata e salvata da interventi esterni, corrisponde puntualmente
uno stato d’animo millenarista: che altro significano le tanto
correnti formulette sul «totalmente nuovo», sull’«assolutamente
altro», sul «partire da zero»? L’esito del processo era
predeterminato: l’idea di un cattolicesimo del tutto liberato dal
retaggio greco, cioè dalla metafisica classica.
Si ragionò così, né data la premessa era possibile fosse
altrimenti: dall’epoca successiva a Costantino il cristianesimo
sarebbe stato sempre prigioniero della romanità nell’ordine
politico, del pensiero greco nell’ordine del pensiero. Facile passare
da questo schema all’idea che i nuovi santi sarebbero stati proprio
i classici dell’ateismo, sarebbero stati coloro che avrebbero
combattuto per cancellare dalle coscienze l’idea di quel vecchio
Dio della metafisica che contaminava il Dio della rivelazione.
Per questo cristianesimo senza metafisica classica sembrarono
all’inizio restare da una parte la fede, dall’altra la scienza. Ma la
scienza nella sua massima estensione comprende le scienze
dell’uomo, e la scienza se non è limitata dalla metafisica ne prende
il posto e le varie fedi nel loro contenuto positivo saranno spiegate
attraverso le situazioni storiche. I loro contenuti non saranno che
«miti», formulati in diversi linguaggi per risvegliare la forza che
promuove il progresso verso quel che si usa chiamare la pienezza
dell’uomo. E una volta demitizzato il linguaggio religioso
l’asserzione della «morte di Dio» rappresenta l’inevitabile punto
di arrivo del nuovo millenarismo. Il razionalista può veramente
dirsi soddisfatto perché mai aveva immaginato altrimenti
l’eutanasia della religione.

CORRIERE: Quale novità vede nelle tesi della contestazione


religiosa?

DEL NOCE: Quel che colpisce è la mancanza di originalità


nei motivi ideali di questa contestazione. Sempre il dissenso
cattolico si è espresso nella forma dell’opposizione del messaggio
cristiano al mondo antico; sempre ha inteso recuperare
l’eterodossia, nel senso che vedeva in essa la protesta contro la
spiritualità disincarnata e contro un Dio «custode dell’ordine»;
sempre ha contrapposto le virtù sociali all’intimismo; veramente
dopo le radicali affermazioni del nuovo, si resta stupiti davanti a
tanta mancanza di novità. Dunque: un rinnovamento della
religione che porta a un processo inevitabile di distruzione della
dimensione religiosa ed una affermazione della dimensione
religiosa ed una affermazione del totalmente nuovo che obbedisce
ai momenti di una già fin troppo noto struttura di pensiero. Di
fronte a ciò vale ricordare i princìpi della Chiesa cattolica, ancora
oggi riaffermati sia pure sotto l’aspetto negativo: sulla base di
questa immutabilità di princìpi la Chiesa deve affrontare i
problemi del giorno d’oggi, evitando soltanto che i princìpi
«dormano». Ma il sonno, se talvolta può essere quello dei suoi
custodi, non dipende dal carattere immutabile dei princìpi.

Augusto DEL NOCE


Questi poveri cattolici minacciati dal suicidio
tratto da: Il Sabato, 17.5.1986, n. 20.

intervista a cura di Alessandro Banfi

Il congresso della Dc alla luce del documento Ratzinger. Parla


Del Noce. «Chi separa la religione dalla politica accetta una
sconfitta culturale. A tre gradi: quella di De Mita, quella di
Scoppola, quella di sinistra»

Sul tavolo una copia dell'Istruzione vaticana su «Libertà


cristiana e liberazione», tema di discussione i cattolici italiani e le
loro scelte sociali e politiche, di fronte uno dei grandi della cultura
italiana. Augusto Del Noce ha accettato di confrontare le
provocazioni contenute nel secondo documento Ratzinger con
quanto sta avvenendo nella Democrazia Cristiana in procinto di
celebrare il suo XVII Congresso nazionale. «Anche se preferisco
non intervenire nel dibattito strettamente congressuale», dice.

Il Sabato: Professor Del Noce, dunque la Chiesa torna a


parlare di dottrina sociale, e lo fa proprio mentre è in crisi il
rapporto fra teoria e prassi. Insomma Gramsci non aveva ragione:
i cattolici non hanno finito per autoescludersi dalla società italiana,
come aveva previsto...
Augusto Del Noce: Chi mi conosce sa che non posso che
essere entusiasta di questo rilancio della dottrina sociale della
Chiesa. Ho personalmente sempre insistito su questo punto, anche
nel corso dei convegni (come quello di Santa Margherita nel '59 o
di San Pellegrino nel '64 o di Lucca nel '68) ideologici organizzati
in quegli anni dalla Dc. Fu poi dopo l'avanzata comunista del '75
che ripresi il ragionamento sull'articolo di Gramsci del '19, allora
dimenticato, che parlava di un suicidio per via politica dei
cattolici. Un'idea che ha condizionato sostanzialmente la stessa
politica togliattiana nei riguardi della religiosità in Italia. Anche
Togliatti era convinto che in Italia il cattolicesimo doveva essere
lasciato morire per suicidio e non essere ucciso. Gramsci si
sbagliava? Sì, certamente, ma sul piano strettamente storico
qualche ragione l'aveva. Perché il processo che lui immaginava è
stato molto lento, e perché soprattutto non è avvenuto a favore del
comunismo come nuova religione, come aveva pensato. Il
processo che per il giovane Gramsci doveva essere di sostituzione
del comunismo al cristianesimo in realtà porta all'agnosticismo, al
relativismo morale e religioso. Un relativismo che Gramsci
attribuiva, nel suo disegno, all'ultimo stadio della borghesia.
Nonostante tutto però Gramsci aveva ragione quando sosteneva
che isolando la politica dalla religione, per i cattolici inizia una
strada verso il suicidio. E' vero oggi sia per chi vuole la religione
separata dalla politica e fa politica in certo modo sia per chi parla
di svolta religiosa, com'è avvenuto nelle recenti polemiche
sull'Azione cattolica.

Il Sabato: Lei è dunque pessimista sulla possibilità che le


indicazioni del Magistero incidano davvero sulla politica dei
cattolici?
Del Noce: Sì, ma non tanto per volontà espressa, quanto per
accettazione di una sconfitta culturale. Mi spiego meglio. Ci sono
fondamentali due letture della storia contemporanea, pur nella
molteplicità delle interpretazioni. La prima, che possiamo
chiamare laicista usando un termine che arriva ad abbracciare
anche l'analisi marxista, vede nel fascismo il male del secolo. Ed
intende per fascismo non solo il movimento politico egemonico
dal '22 al '43, ma una specie di essenza generale dei fascismi
storici, che sarebbe una curiosa fusione fra le forze
immobilistiche-conservatrici, e le forze irrazionalistiche. Questa
interpretazione «laicista» prende poi varie forme: da quella
comunistico rivoluzionaria di Lukacs a quella liberalsocialista di
Bobbio. Non solo. E' questa interpretazione della storia che fonda
in Occidente tutta una serie di forme politiche e sociali: dal neo-
capitalismo alla modernizzazione immaginata da Scalfari, dove
capitalismo e comunismo modernizzandosi si incontrano.
Insomma secondo questa interpretazione da una parte ci sarebbe lo
sviluppo del pensiero democratico da Rousseau in poi, dall'altro
questo fascismo in cui le componenti irrazionalistiche soverchiano
la conservatrice.

II Sabato: Mentre esiste oggi anche una seconda


interpretazione.
Del Noce: E' opposta alla prima, ed è poi quella dei pontefici e
di Giovanni Paolo II. Sostanzialmente si afferma il male dell'epoca
moderna è il secolarismo. Il nostro secolo sarebbe l'epilogo di tutte
le correnti anti-religiose, contraddistinto da diverse forme anche
antagoniste fra loro, come il marxismo e il nazismo. Ma la cosa da
notare è che i più recenti studi, condotti anche dai laici, portano a
confermare la validità di questa seconda interpretazione. Ed anche
se spesso gli storici, pur essendo seri ed aggiornati, non sono
consapevoli di tutte le implicazioni filosofiche delle loro ricerche,
noi possiamo obiettivamente notare questa tendenza.

Il Sabato: Dunque i cattolici sono, in larga parte, rimasti legati


a vecchi schemi?
Del Noce: Sì, molti, accettando dogmaticamente
l'interpretazione laicista, costituiscono indubbiamente una
retroguardia.

Il Sabato: Quali conseguenze ha questa accettazione?


Del Noce: Vedo tre diversi gradi di conseguenza. Il primo
riguarda la Democrazia Cristiana. Sicuramente in maggioranza i
diccì sono buoni cattolici; nella politica però assumono una
posizione per cui la difesa della libertà e della democrazia assolve
il loro compito politico. Libertà e democrazia che diventano regole
del gioco, regole di per sé indipendenti, anche se non contrarie,
alla religione. Insomma è l'idea dell'autosufficienza del momento
politico a cui si sovrappone quello religioso. Quando si sente
parlare di «retroterra» cattolico, in fondo si intende dire questo. La
posizione dell'attuale leadership della Dc anche se magari più
arzigogolata, è riassumibile così. Del resto questo è un processo
presente nella storia della Dc: una linea che va da De Gasperi a De
Mita. Il secondo gradino, per così dire, è rappresentato dalla
posizione assunta dalla Lega democratica e da Pietro Scoppola in
particolare. Nel suo libro, infatti, Scoppola spiega chiaramente che
l'idea della nuova cristianità, che pure era presente in Maritain,
deve essere abbandonata. Il suo orizzonte, che poi in politica si
traduce nelle posizioni di Andreatta, è quello di un accordo col
neo-capitalismo. Il terzo gradino è quello dei cattolici, diciamo, di
sinistra per i quali il vero nemico non è fuori dalla Chiesa, ma al
suo interno. Ed è quel fantasma cui viene dato il nome di
integralismo. Ma quello che importa è che tutte e tre queste, linee,
quella democristiana ordinaria, quella della Lega, quella dei
cattolici di sinistra, sono radicate in un'interpretazione,
scientificamente arretrata della storia, spacciata per vera.

Il Sabato: Non mi sembra però che un dibattito serio sulla


lettura della storia agiti particolarmente il mondo cattolico.
Del Noce: Infatti, dalle polemiche noi arriviamo a delle
implicazioni mai dichiarate. E poi è evidente un'altra
contraddizione, generata da questa scelta aprioristica: questi
cattolici non riescono ad arrivare ad opere storiche, riflessioni
intellettuali di vero rilievo.

Il Sabato: Lo scenario che Lei disegna, professore, è quello di


un mondo che fa a meno del cattolicesimo, col consenso dei
cattolici...
Del Noce: Ammessa una concezione della vita totalmente
profana, ammessa una separazione, non si tratta più di lassismo
morale. Perché, ad esempio, non si deve consentire l'aborto? Se il
mondo è autosufficiente, se si insiste nel separare il piano
religioso, diventa logico. Ad un certo punto dell'altro mondo, in un
mondo autosufficiente, ci si dimentica, Non c'è neanche più
offesa, ma solo dimenticanza. E' uno spegnimento della religione,
molto più abile di una persecuzione diretta ed è in opera nello
stesso occidente come ognuno vede.

Il Sabato: Da molte parti si insiste però per un rinnovato


dialogo dei cattolici: penso proprio alle polemiche sull'aborto
dopo le aperture comuniste o a questo tentativo di riconciliazione
con la Massoneria. Sui valori morali ci si può incontrare?
Del Noce: Ci possono essere degli accordi su cose specifiche.
E' normale. Ma è qualcosa di molto diverso da una discussione sui
principi. C'è molta confusione al riguardo. Non possiamo
confondere la carità con la filantropia massonica.

Il Sabato: Pensa che la battaglia per la scuola libera possa


aiutare i cattolici italiani ad uscire dall'impasse da lei tratteggiato?
Del Noce: Sì, ritengo che possa essere una grande occasione
per connettere il valore religioso con la laicità della Democrazia
cristiana. Perché dobbiamo tenere alla laicità del partito,
fornendogli però il giusto significato, che non può essere quello
della separazione o dell'autosufficienza. Oltre a sottolinerare il
valore della famiglia come soggetto educante, società intermedia
da difendere secondo lo stesso principio di sussidiarietà ricordato
dall'Istruzione vaticana, secondo me questa battaglia coincide oggi
con la difesa della libertà e della democrazia. Coincide oggi, ed è
questa la novità. Mentre ieri esistevano argomenti come il
principio della «educazione nazionale», e quello della «unicità
della morale», la situazione è oggi diversa. Non esiste più oggi la
morale, diciamo, del Pater Noster su cui tutti convenivano, la
morale laica comune dei primi del Novecento. Semmai oggi sono i
«cattolici per il dialogo» che ripropongono questo vecchio
principio liberale. La realtà è che ci troviamo oggi di fronte ad una
società obiettivamente pluralistica, non solo nel senso di molti
partiti, ma anche di differenti concezioni della vita e di morali
conformi. Lo Stato non può più fornire un'educazione morale laica
comune (perché non esiste più) e perché più nessuno sente ormai
la necessità della «educazione nazionale» come formazione del
cittadino. Per questo io credo che anche lo spirito laico e
democratico possa accettare oggi il principio della libera scelta dei
genitori e del finanziamento delle scuole pubbliche, anche non
statali. Del resto oggi tutti ammettono che quel «senza oneri per lo
Stato» non vuol dire che lo Stato non può intervenire, ma solo che
non è obbligato a farlo quando queste condizioni non si
verifichino.

Il Sabato: So che Lei voleva rimanere al di fuori delle


polemiche congressuali, ma che idea si è fatta di questa
collaborazione fra il Movimento popolare e Andreotti?
Del Noce: Seguo poco queste vicende, ma devo dire che
Giulio Andreotti ha la stoffa di un reale uomo politico. Basta
vedere il successo che ottiene nella sua qualità di ministro degli
Esteri. Può piacere o meno, ma la politica di Andreotti è seria e
può prestarsi ad iniziative serie. Per quanto riguarda l'Mp credo
debba salvaguardare la sua autonomia rispetto al partito, non deve
diventare una corrente. C'è infatti una differenza qualitativa fra Dc
e Mp che non va perduta. Detto questo, è logico su un piano
pratico cercare un accordo con la posizione politica più seria
all'interno del partito.

Augusto DEL NOCE


In stato di porno-assedio (pornografia)
tratto da: Il Sabato, 5.11.1987, n. 49.

«L'Espresso» del 29 novembre: «Molte circostanze fanno


ritenere che l'Italia possa diventare la culla del cinema hard». La
sua avanzata è avvenuta finora senza sensibili resistenze, tra
l'indifferenza dei pubblici poteri e la benevolenza della maggior
parte della cultura; anche se la strenua attività del movimento
«Reagire» ha avuto eco nel convegno mass-media e costume
morale», promosso recentemente dalla commissione ecclesiale
della Conferenza episcopale per le comunicazioni sociali, ove, tra
l'altro, l'avvocato Paolo Bafile ha sottolineato il «paradiso fiscale»
e i contributi statali di cui si avvalgono le ditte produttrici di
materiale pornografico. Resta però il fatto che coloro che non
consentono all'esplosione pornografica sono paralizzati da una
paura che oggi è maggiore di quella stessa dell'accusa di fascismo,
«la paura del moralismo»; e le citazioni platoniche facili da
trovare, sull'anima concupiscibile, sono fuori moda. Dunque, ne
parleremo qui senza moralismo: fenomenologicamente come suol
dirsi, e questo è permesso.
Nel senso generico, pornografia vuol dire letteratura libertina,
ed è momento della disposizione spirituale libertina l'illimitata
libertà sessuale. Ma che cosa si deve intendere per disposizione
spirituale libertina? La definizione complessiva non può essere
che la seguente: coincidenza della dissacrazione radicale con la
negazione dello spirito rivoluzionario, in quanto a suo modo
religioso, e fa la sua comparsa nel Seicento, nei Paesi in cui la
riforma protestante era fallita, e in antitesi alla riforma cattolica. Il
parallello con la situazione presente, fallita la rivoluzione
comunista e in antitesi alla resistenza che le si oppone in nome del
cristianesimo, è facile da condurre. Se si considerano le
valutazioni religiose e morali del libertinismo di allora (e non è un
caso che il libertinismo del Seicento sia stato oggetto in anni
recenti di molti studi, improntati spesso a simpatia) si resta
sorpresi dalla quasi identità con quelle oggi correnti in notevoli
parti della borghesia bene. È come se l'ateismo nella sua storia
compisse un ciclo ritornando alla posizione originaria. In declino
ormai l'ateismo rivoluzionario, si è tornati all'ateismo conservatore
libertino. Se pensiamo che questo rinnovato libertinismo è nel
nostro secolo l'esito conclusivo di un processo che aveva avuto il
suo inizio nel progetto di rivoluzione totale, dobbiamo dire che
oggi è il tempo in cui la rivoluzione ritrova il suo etimo, da
«revolvere», giro di una cosa su se stessa, ritorno al punto
originario.
Tuttavia una nota nuova nel libertinismo di oggi c'è. Il
libertinismo di ieri, praticato da certe zone delle classi privilegiate,
si accompagnava con la teoria «politica» delle religioni, per la
quale effettivamente valeva, ma in senso conservatore, l'idea
dell'«oppio del popolo», di cui poi Marx si servì in senso
rivoluzionario: la religione con l'austerità e lo spirito di sacrificio
che l'accompagnava andava bene per il popolo come scuola di
rassegnazione. In ragione di ciò la letteratura libertina di allora era
segreta, confinata in circoli ristretti, e tenuta negli inferni delle
biblioteche. La grande novità è che la pornografia presente è una
componente della società di oggi. Possiamo considerarla come
segno di quel grande mutamento sociale che è avvenuto
nell'ultimo quarto di secolo, quando il mondo occidentale del
dopoguerra cominciò a organizzarsi in forma di sistema.
La borghesia che domina in essa ha abbandonato l'idea che
serviva, o pretendeva servire, un tempo, e che si compendiava nei
termini di «Dio, Patria, Famiglia» per assumere l'insegna della
liberazione dei tabù. Descrivere come questo fenomeno si sia
prodotto sarebbe lungo. Ma restiamo al fatto, che è certamente
innegabile. «Diciamo che la pornografia è il nuovo oppio del
popolo» di cui si servono i detentori del nuovo potere tecnologico
ed economico (e, del resto, Proudhon e Sorel l'avevano già ben
avvertito). Letteratura cortigiana ce n'è sempre stata ed essa serve
come spia per farci intendere quello che in una società è il reale
potere. Il legame che la pornografia ha con la società consumistica
è dunque tale che la lotta per arginarla non può portare ad effetti di
rilievo, se la si separa da una lotta vittoriosa contro la mentalità
dell'«avere», e le vie per questa lotta non sono state ancora trovate.
Quanto all'efficacia, dico, non alla denuncia.
Naturalmente, chi fa il lucroso commercio della pornografia
invocherà la libertà di espressione o la libertà che dev'essere
concessa all'arte. Oppure passerà a una filosofia della storia
anticipatrice del futuro, per cui l'anno Duemila segnerà la fine del
pudore; che è poi la filosofia di Cicciolina che appunto si definisce
la «Giovanna d'Arco della lotta contro il pudore» e, purtroppo,
questa facile filosofia della storia trova anche qualche magistrato
che vi si ispira nelle sue sentenze.
Ora è da ricordare che la libertà va riferita alle attività
superiori della ragione e della volontà, e non alle passioni e agli
istinti. Il principio ideale che fonda la libertà è che la verità non
può essere imposta. Ed è un principio che risale alla migliore
tradizione cattolica perché già san Tommaso ha insegnato che gli
infedeli che non hanno mai accettato la fede, quali i Gentili e i
Giudei, non devono in alcun modo essere costretti a credere,
perché credere è un atto della volontà mosso dalla Grazia. Quanto
alla tolleranza rispetto ad alcuni mali, il suo esercizio, ancora per
san Tommaso, ripreso da Leone XIII nell'enciclica «Libertas» e da
Pio XII nell'allocuzione ai Giuristi cattolici italiani del 6 dicembre
'53, si trova autorizzato e richiesto in relazione a un bene
maggiore che si tratta di difendere e di promuovere.
Ma qual è quel bene maggiore la cui difesa importerebbe la
tolleranza della pornografia?
Quanto alla «paura del moralismo» che si è introdotta in larga
parte del mondo cattolico bisogna pensare ad un'influenza della
vecchia tesi laica del contrasto tra religione e bellezza e di una
reazione cattolica che, in sè pienamente giustificata, ha preso e
prende però spesso una china falsa. Perché, se è ben vero che c'è
un'arte non religiosa che si esaurisce nel sommovimento delle
passioni, e che allontana dal bene e dalla verità, ce n'è un'altra che
porta l'uomo a vivere la presenza della bellezza soprasensibile
nelle stesse cose e immagini sensibili. E se certamente ci fu in
passato, in zone del mondo cattolico, un eccessivo sospetto verso
l'arte che portò a diffidare delle stesse sue forme superiori ad essa,
si è sostituita una tendenza alla ricerca di significati mistici anche
nelle sue basse espressioni e in generale a una separazione netta
tra il giudizio morale e quello che si deve portare su quel che si
presenta come arte.

Augusto DEL NOCE


La più grande vergogna del nostro secolo
tratto da: Il Sabato, 10.06.1989, n. 23.

La strage degli studenti cinesi perpetrata dal regime di Pechino


si inquadra in un momento storico di crisi profonda del
comunismo. E' caduta la fede rivoluzionaria, la fede nel
comunismo e resta l'istituzione. L'istituzione rimane anche dopo
che la rivoluzione si è esaurita. La situazione cinese è una
situazione in cui è difficile entrare, complicata da un ritrovamento
del comunismo per via nazionale. C'è poi l'elemento maoista che
ha una forte componente nazionalista anch'esso, e che tende ad
escludere la subordinazione della Cina all'Unione Sovietica. Sono
elementi che, detti per puri accenni, lasciano pensare che il
comunismo cinese non sia poi quel comunismo liberale di cui
alcuni favoleggiavano. E poi che cos'è stata questa rivoluzione
studentesca soffocata nel sangue? E' difficile usare termini come
democrazia che ha in Occidente un'accezione probabilmente
lontana dal significato cinese. Certo, uno dei fatti più interessanti è
che l'Urss di Gorbaciov ha mostrato di stare dalla parte della
repressione. La cosa è notevole non tanto dal punto di vista
morale. Il comunismo internazionale ha compiuto molte stragi nel
corso di questo secolo: dagli eccidi staliniani all'Albania, tutti i
Paesi comunisti hanno conosciuto questo aspetto del «socialismo
reale». I settemila studenti cinesi sono l'ultima manifestazione di
questa tragica realtà. Per cui oggi appare assolutamente realistico
il giudizio contenuto nel documento sulla Teologia della
liberazione secondo cui «i regimi comunisti sono la vergogna del
nostro secolo». Come ha scritto Nicola Matteucci «i massacri di
Pechino non sono un accidente della storia, ma una conseguenza
diretta del marxismo-leninismo, che solo con la violenza riesce ad
incarnarsi nella realtà: è solo un'utopia sanguinaria».
Il fatto su cui riflettere è il progetto di quella politica
internazionale comunista che oggi, almeno, coinvolge l'Unione
Sovietica e la Cina e che ha come fine quello di conservare
l'istituzione, nonostante la caduta della fede rivoluzionaria. Ed
un'istituzione ha bisogno di sucessi. Il successo che vuole ottenere
Gorbaciov è entrare nella casa comune europea per diventare
rapidamente la potenza egemone dell'Europa continentale. Ciò
sostituisce la vecchia aspirazione della rivoluzione mondiale. Gli
occidentali non sarebbero più conquistati dall'esportazione del
comunismo ma diventerebbero feudatari di un nuovo sistema.
Questo spiegherebbe anche la sostanziale repressione da parte di
Gorbaciov delle ambizioni rivoluzionarie di Fidel Castro e del
Nicaragua: gli Stati Uniti devono essere tranquilli che più nessuno
alimenterà rivoluzioni contro i lori interessi. Siamo di fronte ad
una silenziosa e impressionante «Yalta dei continenti». La
divisione avverrebbe fra il continente europeo quello nord-
americano, attraverso un patto capace di garantire, come pochi
altri, condizioni di non-guerra. Tutto questo spiega anche la
sostanziale somiglianza di comportamento a proposito della dura
strage degli studenti cinesi fra il Cremlino e la Casa Bianca. Sia
Mosca che Washington preferiscono Deng alle avventure
democratiche che il popolo desidererebbe.
La minaccia che emerge dalle drammatiche ore della
repressione dei ragazzi della Tienanmen contiene dunque qualcosa
che va oltre la violenza del comunismo. Ci sono i segni di un
Impero mondiale che somiglierebbe all'Impero romano della tarda
decadenza: il mondo diviso in Impero di Oriente e in Impero di
Occidente. Una bipolarità che può ambire al predominio mondiale.

Augusto DEL NOCE


Fu vera gloria? La resistenza quarant'anni dopo
tratto da: Litterae Communionis, anno XII, aprile 1985, p. 20s.

Lo sapevamo bene che il pensiero di Augusto Del Noce non è


accomodante. La sua è sempre una penetrazione coraggiosa nella
verità delle cose, a costo di andare contro corrente o, addirittura, di
scandalizzare; ma cede alla giustificazione teorica di luoghi
comuni (attività molto esercitata da certi intellettuali).
Esattamente per queste ragioni ci siamo rivolti a lui per essere
aiutati a comprendere dell'esperienza della resistenza di
quarant'anni fa che cosa è vivo e che cosa è morto - che cosa è
bene che viva e che cosa è bene che muoia - fuori da ogni retorica
puramente celebrativa.
Intervista

Del Noce - Prendo le mosse da una distinzione necessaria tra


l'antifascismo, nato col sorgere stesso del fascismo, e la resistenza
come fenomeno compreso tra l'8 settembre del '43 e il 25 aprile
del '45, tra l'armistizio firmato con gli alleati e la liberazione.
L'antifascismo è una realtà dotata di una sua autonomia rispetto
alla resistenza come tale. Si può essere stati antifascisti, e esserlo,
senza aver fatto la resistenza o quantomeno aver dissentito sulla
forma che assunse. Ora, il problema storico che si pone è se il
termine più adeguato per definire il periodo dall'8 settembre al 25
aprile sia "resistenza" o "guerra civile". A quarant'anni di distanza,
si possono e si devono considerare gli avvenimenti di allora come
oggetto di storia e non come passione che si continua ad
alimentare. Il termine "resistenza" indica l'idea di una specie di
"guerra santa" contro i nuovi barbari nazi-fascisti. Cioè richiama il
concetto, che molti coltivavano a quell'epoca, della seconda guerra
mondiale come rivoluzione. Ma ormai è assodato che l'aspetto
"guerra" ha storicamente prevalso su quello di "rivoluzione".
Tant'è che Yalta è esattamente il simbolo di questa prevalenza, e la
concezione ideologica della guerra si trasformò in giustificazione
dell'imperialismo sovietico, o anche dell'americano. Seguendo
l'ottica storicamente prevalsa della "guerra", si può arrivare ad
affermare che in Italia si sviluppò, dopo 1'8 settembre, una guerra
civile in occasione della guerra mondiale. Del resto, la tipicità
della resistenza italiana consiste nel fatto che essa succedette a un
rovesciamento delle alleanze militari; e si sviluppò nel momento
in cui tutto faceva prevedere una sconfitta della Germania
(nessuno, infatti, credeva allora all'ultima speranza di Hitler,
quella di mettere a punto le armi speciali, cioè la bomba atomica,
cosa che avrebbe potuto ancora rovesciare la situazione).

Il periodo della resistenza deve dunque essere giudicato un


periodo glorioso, oppure un periodo tragico, come tragica è ogni
guerra civile? Non c'è dubbio che l'idea di guerra civile riduce di
molto la valenza apologetica della resistenza. L'ho già detto, è ora
di porsi da un punto di vista storico, e dal punto di vista storico
quel che conta è la verità. Del resto, qualcosa del genere bisogna
riconoscerlo a riguardo della prima guerra mondiale: è ben
fondata, oggi, l'affermazione che essa abbia costituito l'inizio del
suicidio dell'Europa, come le parole di Benedetto XV avevano
ammonito: l'«inutile strage...». Ora, questo tipo di giudizio storico
non intende assolutamente negare l'onestà ideale, il valore
personale, lo spirito di sacrificio di moltissimi tra i "resistenti" (il
fatto che si mescolassero a loro anche degli opportunisti o dei
criminali è cosa inevitabile nelle guerre civili). E vanamente si
cercherebbe esempio di guerra civile in cui questa mescolanza non
ci sia stata. La domanda da porsi è piuttosto quella se fosse allora
conveniente promuovere una guerra civile, o se essa fosse del tutto
inevitabile. Perché, se è chiaro che una "resistenza" era allora
necessaria, non è detto che essa dovesse necessariamente
assumere il carattere aggressivo e offensivo voluto dai comunisti e
dal partito d'azione. Ritengo, e lo ritenevo già allora, che in quel
momento fosse opportuno e anche possibile scegliere forme di
resistenza difensive, in modo da non esasperare la lacerazione del
popolo italiano, salvare in qualche modo una sostanziale unità e
neutralizzare le spinte che invece volevano esasperatamente
contrapporre una parte degli italiani all'altra. Ritengo che la mia
posizione abbia fondate ragioni. Una soprattutto: che in
quell'epoca l'uomo veramente grande, colui che aveva la visione
più vasta e comprensiva, il papa Pio XII, certamente non
incoraggiò la guerra civile italiana. E direi che anche il clero si
comportò generalmente molto bene, sottolineando soprattutto la
dimensione difensiva della resistenza e proteggendo i perseguitati,
qualunque fosse la loro parte.

Per papa Pacelli la guerra mondiale rappresentava il frutto e la


catastrofe dell'immanentismo etico: credo che questa sia la
formula più precisa per definire la sua posizione. Che cosa intendo
per immanentismo etico? La tesi per cui non si è colpevoli, ma si è
fatti colpevoli dalla storia. A questo immanentismo etico
obbedivano tutte le forze entrate in guerra. Ora, l'Italia era nella
possibilità di risorgere facendo leva su una effettiva volontà di
pace. A ciò richiamavano i messaggi di Pio XII. In breve, alla
volontà di partecipazione alla guerra si sostituiva la volontà di
pace. Ma il Papa non fu ascoltato.

Ho parlato anche della lacerazione tra gli italiani. L'aspetto


tragico della guerra civile è che essa oppone i "relativamente
buoni" da una parte (dico "relativamente", perché la "parte dei
buoni" o, per essere più precisi, nessuna delle due parti della
guerra civile è mai rigorosamente unita) e gli "assolutamente
cattivi", considerati tali, dall'altra; onde l'aspetto di crudeltà, di
rifiuto della pietà che ne consegue. In realtà, dopo l'8 settembre,
erano possibili, in buona fede, due ragionamenti opposti: il primo,
il rifiuto del fascismo; il secondo, la fedeltà all'alleanza che
doveva essere mantenuta anche nella probabile sconfitta
(aggiungiamo che allora nessuno sapeva dei campi di sterminio
nazisti). Io avevo optato, già da parecchi anni, quando gli
antifascisti erano pochissimi, per il primo. Ma non mi sento di
condannare moralmente chi sceglieva, allora, per il secondo.

Quanto ai cattolici, pochissimi di loro aderirono alla


Repubblica Sociale o alle milizie fasciste, e, i più, come ho già
detto, scelsero forme di resistenza prevalentemente difensive e
non offensive. Vero è che molto spesso hanno voluto far credere di
aver partecipato alla resistenza offensiva con la stessa
determinazione e in misura pari agli azionisti e ai comunisti.
Voglio dire che a una positività ed equilibrio del comportamento
pratico dei cattolici, non fece riscontro una consapevolezza
culturale adeguata. E ciò costituì tra l'altro una breccia che venne
poi sfruttata da quanti attivarono la violenta campagna contro Pio
XII.

Litterae - Professore, lei ha ben messo in luce gli aspetti di


lacerazione e di divisione presenti nell'esperienza resistenziale.
Come giudica allora il fatto che negli anni '60 e '70 i valori della
resistenza sono stati proposti come fattore di unità della nazione?

Del Noce - Mi è abbastanza facile rispondere. È stato


rilanciato il tema dell'antifascismo e degli ideali della resistenza
allo scopo di affermare l'unità delle forze cosiddette democratiche.
È un mito assai caro ai comunisti, i quali non possono facilmente
rinunciarvi perché l'idea dell'unità antifascista copre e giustifica, in
quegli anni, la strategia di partecipazione dei comunisti al
governo, la strategia del compromesso storico, sempre proposta
sulla base dell'unità antifascista. Franco Rodano ne è la figura più
espressiva.

Ma la verità storica, anche qui, svela il carattere ideologico di


simili operazioni per cui gli interessi di una parte politica vengono
presentati come interessi dell'unità di tutto il popolo.

Basti ricordare, ad esempio, che non tutti gli antifascisti, di più


non tutti i comunisti aderirono alla resistenza. Non mancò chi vide
in essa dei pericoli, delle ambiguità. In particolare ci fu chi vi
scorse la determinante presenza di una borghesia che aveva
appoggiato il fascismo e che allora cercava di riconfermare il suo
ruolo di padrona della nazione. Penso, ad esempio, all'opposizione
nettissima di un Bordiga, personaggio stravagante e imprevedibile
finché si vuole, ma certamente figura tra le più oneste del
comunismo italiano. Il riuscito alibi antifascista della borghesia
non è stato finora sufficientemente indagato, "et pour cause".

C'è anche un aspetto di altro genere da considerare, una


componente fortemente passionale nella resistenza, un elemento di
casualità nel senso che gli italiani si trovarono sotto le bandiere di
questa o di quell'altra parte molto spesso per ragioni accidentali. Si
pensi ai soldati sbandati nel nord, i quali dovevano pur
sopravvivere, e così si aggregavano alla "banda" più vicina; la
vicinanza si sostituiva al colore.

Litterae - Che cosa fare oggi per rigenerare una vera unità di
popolo, una democrazia sostanziale?

Del Noce - Innanzitutto dire la verità, anche a riguardo della


storia recente. I cattolici hanno in questo una grave responsabilità.
Spesso si avverte in loro una strana reticenza a dire la verità, la
fobia di non essere considerati veri antifascisti (fobia in via di
scomparsa anche nei comunisti).

Del resto il mito resistenziale è stato, per una sorta di ironia


della storia, distrutto dalla contestazione del '68. La contestazione
si è sostituita al mito resistenziale, riprendendolo anche in parte
ma in senso decisamente rivoluzionario. Fino alle conseguenze
eversive del terrorismo il quale, per certi versi ricollegandosi alla
resistenza, nella sua intenzione rivoluzionaria, in realtà ha inteso
abbattere il "sistema" nato da essa. Lei ha ricordato come nel
'74-'75 sia stata sferrata in Italia una campagna antifascista,
costellata da scritte sui muri del tipo «uccidere un fascista non è
reato»; campagna che poi cessò completamente. Sta di fatto che
non c'è oggi più nessuno che possa ragionevolmente riproporre
simile tematica. Al massimo, l'unità antifascista potrebbe essere la
facciata, ma solo la facciata, di un accordo politico tra cattolici e
comunisti, o anche tra laici e comunisti. Ma non ne sono tanto
sicuro. Il periodo in cui la II guerra mondiale era vista come
guerra di liberazione, nel senso rivoluzionario, è definitivamente
chiuso. Si sperava nell'abolizione degli egoismi nazionali, degli
egoismi di classe, anche: tutto ciò non è avvenuto.

Rimane fondamentale ciò che già Tocqueville ha sottolineato


con molta chiarezza, che la democrazia si salva soltanto con una
morale rigorosa e unitaria, quale, secondo lui, solo la religione può
fondare. Occorre lavorare in questo senso per dare concretezza
alle libertà fondamentali; a cominciare dalla libertà di educazione.
Augusto DEL NOCE
Una colomba, non un santo (caso Bukarin)
tratto da: Il Sabato, 20.2.1988, n. 8, p. 25.

Caso Bukharin. Del Noce controcorrente. L'Occidente ha


beatificato la vittima di Stalin. Ma c'è una bella differenza, tra lui e
i kulaki. Non vederla è un nuovo inganno

Gorbacev ha riabilitato -sul piano giuridico, notiamo, non su


quello politico- Nicolai Bukharin. Sulla stampa italiana sono
comparsi moltissimi articoli, qualcuno ottimo (ad esempio, quello
di Vittorio Strada, sul "Corriere della sera" del 3 febbraio, il
migliore tra quelli che ho letto), altri devianti. Così fiorisce una
letteratura agiografica sui Trockij di cui certo Occidente chiede la
riabilitazione (in realtà era altrettanto duro di Stalin, anche se
eccellente scrittore) e di Bukharin, rispetto a cui se non si arriva
all'angelicazione, ci manca poco. Siccome questi articoli sono la
grande maggioranza, mi pare giusto intervenire, prendendo le
mosse piuttosto da lontano.
Benedetto Croce, tanti e tanti anni fa scrisse una frase che, a
ben pensarla, è terribile: «Non si è responsabili, ma si è fatti tali
dalla storia». Non voleva con ciò, certamente, giustificare alcuna
condanna arbitraria; meno che mai pensava a possibili processi di
Mosca. Intendeva dichiarare una tesi che è essenziale allo
storicismo o più in generale a quel che dirà «l'immanentismo
etico». Egli riteneva che l'epoca della trascendenza religiosa fosse
definitivamente trascorsa e che lo storicismo fosse, come suona il
titolo di una tra le sue opere più significative, «il carattere della
filosofia moderna»; e che lo storicismo importasse l'accettazione
di questa idea della responsabilità. Se ne misuriamo il significato
possiamo ben accorgerci che esso esprime il demoniaco dello
storicismo. Dice infatti: responsabile non è l'individuo singolo,
rispetto a un ordine sovrapersonale di norme e di valori: invece,
egli è fatto tale da altri, e questi altri sono coloro che hanno
maggior forza; nessuna forma di storicismo si può sottrarre alla
legge del più forte.
La grandezza di Croce sta nell'avere avvertito questo
demoniaco (soprattutto negli ultimi anni quando parlò della
categoria della vitalità), e fatto di tutto per neutralizzarlo, e per far
rientrare lo storicismo nella civiltà cristiana. È di qui che trova
spiegazione il suo «conservatorismo», che si manifestò come
liberalismo, pur non avendo i caratteri del liberalismo classico, in
conseguenza della percezione della presenza del carattere
rivoluzionario del fascismo, e altresì la sua dialettica dei distinti,
per cui pensava di salvare la moralità distinguendola dalla politica
e ponendola in un grado più alto. Contro quella che sembra oggi
essere opinione comune, occorre dire ben forte che fu
conservatore non già per abitudini borghesi, ma perché avvertiva
che il momento demoniaco presente nello storicismo si sarebbe
scatenato quando lo storicismo avesse assunto la forma
rivoluzionaria. Il che realmente avvenne con Lenin, e con i
contraccolpi che, se pur in forma contraria, il comunismo ebbe nel
mondo.
Consideriamo infatti il principio nuovo, già implicito in Marx,
del leninismo. Sta proprio nell'idea dell'oggettività della colpa: si è
colpevoli per il significato che le nostre azioni assumono
oggettivamente, al di là di ogni nostra intenzione, nella storia.
Giudice ne è il partito come mediatore per il passaggio a una realtà
nuova, totalmente altra, della storia: che giudicherà secondo che
essa serva o meno alla rivoluzione comunista; «morale è ciò che
serve alla rivoluzione» secondo la frase di Lenin che deve essere
intesa nel suo senso letterale. La moralità si risolve perciò
completamente nella politica rivoluzionaria. Si entra
consapevolmente nella classe dirigente del partito in quanto si
sottoscrive questo principio, e Bukharin l'aveva fatto. Non fu
quindi, come i poveri kulaki, condannato per colpe a cui era
affatto estraneo; fu giudicato secondo principi che erano i suoi e
che mai egli rinnegò. Che personalmente non fosse fra i falchi, è
probabile. Lo si può vedere anche dalla sua filosofia. Nei
marxleninisti, tutti professanti il materialismo dialettico, c'è
tuttavia chi più è incline verso il materialismo e chi verso la
dialettica. Bukharin era fra i primi, e l'inclinazione verso il
materialismo (nel caso suo, che di filosofía non era digiuno, verso
una sorta di versione materialistica dello spinozismo) si combina
di regola in questi teorici con una tendenza umanitaria; la
dialettica intesa invece come principio rivoluzionario porta
all'intransigenza giacobina. Ciò non toglie però l'essenziale, che
aveva accettato il principio leninista; avendo con ciò riconosciuto
che poteva essere giudicato colpevole per ciò che non aveva
intenzionalmente commesso.
Bisogna una buona volta farla finita con i discorsi di coloro
che già più di quarant'anni fa, all'epoca dello stalinismo, parlavano
di un'irreversibile evoluzione democratica del comunismo; che poi
discettarono di una «parentesi staliniana» spiegabile con
un'involuzione del comunismo nella mentalità zarista; o che al più
arrivano oggi a parlare di una necessaria revisione del leninismo
stesso quasi ci fosse in esso una sostanza democratica positiva, e
un eliminabile elemento di durezza giacobina.
Le cose non stanno affatto così. Stalin non fece che applicare
nella maniera più intransigente e più dura le tesi leniniste e non
può essere condannato sul loro fondamento. Era persuaso
dell'inevitabilità di una guerra che le potenze cosiddette
capitalistiche avrebbero mosso contro la Russia. Perciò in politica
interna occorreva cementare l'unità più completa, servendosi di
qualsiasi mezzo (ma era il leninismo ad autorizzarlo) per eliminare
coloro che potevano essere sospettati di essergli avversari. In
politica estera si doveva cercare di dividere i nemici, e Stalin ci
riuscì con quel patto russo-tedesco dell'estate 1939, senza il quale
forse la guerra non sarebbe scoppiata. Rovesciata, la sua era la
stessa idea di Hitler a cui tanti tratti lo uniscono. È estremamente
probabile che senza le crudeltà di Stalin, del coniunismo non
resterebbe ormai neppure il ricordo. Fosse pure, si dirà.
Aggiungendo però che i comunisti che oggi tanto volentieri
parlano della parentesi staliniana, o mentono oppure non sanno
con precisione quel che dicono.
Assieme al caso Stalin fu sollevato quello di Togliatti. E anche
a questo proposito mi pare che la questione sia mal posta. Bisogna
convenire che non c'è alcuna contraddizione tra lo stalinismo che
professò in Russia e il relativo liberalismo che manifestò in Italia.
Probabilmente nei tardi anni Trenta era venuto alla
persuasione che soltanto i metodi staliniani potevano salvare, non
soltanto in Russia, il comunismo; può darsi che nella professione
di questa convinzione abbia agito per paura o per conformismo o
per ambizione; però, almeno a mia conoscenza, non c'è nulla che
lo provi. La guerra di Spagna segnò per lui la svolta, non nel senso
della rottura con lo stalinismo, ma in quello dell'acquisita
persuasione che nei Paesi dell'Europa occidentale, in particolare in
Italia, il comunismo potesse riuscire solo esibendo una faccia
completamente diversa da quella terroristica, quella della
minimizzazione della violenza e della rinuncia alla persecuzione
religiosa diretta. Di qui la speranza costante nell'accordo con i
cattolici; di qui le sue esitazioni rispetto alla Resistenza perché ben
vedeva che di essa si sarebbe valsa la stessa borghesia per
sganciarsi dal fascismo, addossando poi ai comunisti le colpe della
maggiore violenza (ed era infatti inevitabile che le formazioni
comuniste, seguendo il modello rivoluzionario che la storia
sembrava aver consacrato si mostrassero particolarmente dure): di
qui la sua successiva politica di pacificazione e di clemenza
rispetto ai fascisti della Repubblica di Salò.
Fu il successo nell'accordo con i cattolici che lo portò a
puntare invece sull'unità antifascista. Nel cercare questi accordi, il
mancato e il parzialmente riuscito; obbediva a quello stesso
realismo che precedentemente lo aveva portato a consentire con la
politica staliniana; e Stalin mostrò di averlo capito, inantenendolo
alla guida del Pci.
Stalin e Togliatti si trovavano uniti nel realismo politico, come
assolutizzazione della politica che rendeva lecita qualsiasi via. E
Gorbacev? Ci si può domandare se Stalin, al suo posto, nelle
circostanze presenti, non compirebbe le sue stesse scelte. Non
voglio con ciò dare alcun giudizio sulla politica praticata oggi dal
Cremlino. Direi che è ambigua per il peso dei princìpi sinora non
messi in discussione. È troppo giustificabile da un punto di vista
marxleninista; ed è troppo conveniente a chi la promuove parlarne
in termini di una svolta. Oltre il fatto che la svolta per
un'organizzazione così consolidata è estremamente ardua. Dunque
prudenza e vigilanza massima, e soprattutto persuasione che nel
perdono di Bukharin non c'è nulla che attesti l'evoluzione dei
princìpi. È una riabilitazione fatta a buon mercato.

Augusto DEL NOCE


Intensità d'una gran illusione (Dossetti e dossettismo)
tratto da: Il Sabato, 27.4.1985, n. 17.

Unità strettissima di religione e politica. Ma separazione tra


momento idealistico e momento realistico. Chi sono oggi gli
epigoni

Per intendere il dossettismo occorre che ci riferiamo alla storia


dell'università Cattolica. E così facendo notiamo subito una
separazione fra dossettismo e popolarismo. L'università Cattolica
e il Ppi hanno avuto, infatti, origini diverse. E' troppo nota, infatti,
la diversità di orientamento, già nel 1919, tra Gemelli e Olgiati da
un lato, e Sturzo dall'altro, perché convenga fermarcisi.

Si è spesso detto che la Cattolica negli anni precedenti


all'alleanza del fascismo con il nazismo, e anzi fino alla guerra,
aveva avuto un atteggiamento pro-fascista: esso va interpretato,
però, nel suo significato preciso. Per capirlo dobbiamo pensare
all'impostazione prevalente che si diede alla Prima guerra
mondiale, che venne intesa, soprattutto in Italia, come guerra
contro i residui del Medioevo, l'Impero asburgico e insieme, anche
se indirettamente, contro la Chiesa cattolica. O, più in generale,
alla tradizionale impostazione «antimoderna» della filosofia della
storia ottocentesca, continuata nei primi decenni del Novecento
(L'Antimoderne di Maritain è del 1922).

Nel dopoguerra si era manifestato il fenomeno nuovo del


fascismo, che non aveva matrici cattoliche, ma che per ragioni
storiche, coincidenti con la difesa della nazione italiana, sembrava
combattere gli stessi avversari del cattolicesimo: la massoneria, il
liberalismo, il socialismo, il comunismo. Poteva perciò generarsi
nel mondo dell'università Cattolica un'aspettativa benevola
rispetto al fascismo. Esso era visto come un fenomeno di
transizione, in sé non certamente cattolico, ma che poteva però
preparare la successione a una restaurazione cattolica, per ciò che
ne annientava gli avversari.

Il nazismo e la guerra rovesciarono questa posizione. Fu così


che i giovani dell'università Cattolica passarono all'antifascismo.

Di quel gruppo di giovani in cui si operò questa sorta di


conversione all'antifascismo facevano parte i Dossetti e i Lazzati.
Questi giovani non avevano inizialmente alcuna intenzione di
dedicarsi alla politica. Ma considerarono un dovere religioso
impegnarsi, vista la minaccia rappresentata dal fascismo come
fenomeno mondiale. L'impegno di alcuni di loro nella Resistenza
li portò poi ad intendere quel fenomeno storico come un fatto
unitario da cui le varie forze sarebbero state trasformate.

Così i cattolici avrebbero abbandonato le nostalgie


«reazionarie» e incontrato la democrazia; né mancava la speranza
che i comunisti, progressivamente, avrebbero abbandonato la
sovrastruttura atea.

Restava il fatto che il favore accordato dalla Chiesa ai


movimenti fascisti non poteva essere considerato come un fatto
che non avesse lontane ragioni. Penso che uno dei punti essenziali
di quello che poi si sarebbe chiamato dossettismo stia nella visione
della storia della Chiesa in età moderna. In essa Dossetti vedeva
un limite; la Chiesa si sarebbe posta generalmente dalla parte della
reazione e le illusioni rispetto al fascismo erano le conclusioni di
un lungo processo. Il dossettismo pensa che questo errore
corrisponda, nelle sue radici ultime, ad un difetto teologico che
risale alla Controriforma e al Concilio di Trento. Da qui la
necessità di una revisione teologica e le speranze nel Concilio, ove
la linea dossettiana trovò espressione nel cardinal Lercaro, che
l'aveva condivisa.

La necessità di andare oltre la politica per una revisione


teologica che ne stabilisse le condizioni spiega l'uscita dalla
politica da parte di Dossetti e la fondazione del Centro di
documentazione di Bologna. Con questo scopo: realizzare una
vera riforma della Chiesa. Parlo di «vera riforma» nel senso del
titolo del celebre libro del padre domenicano Congar Vraie et
fausse réforme dans l'Eglis. «Vera riforma» che non vuol quindi
aver nulla a che fare con l'eresia.

Non mancano evidentemente altri motivi per spiegare il ritiro


dalla politica di Dossetti. Tra il '45 e il '48 il fronte unitario delle
forze antifasciste si era rotto e la Dc aveva assunto il ruolo di
punto di riferimento dei vari anticomunismi; e Dossetti temeva
l'idea di un blocco anticomunista che non recuperasse
quell'elemento positivo che c'era nel comunismo. Inoltre molti
hanno parlato a proposito di Dossetti di integralismo, inteso come
unità strettissima di religione e politica e hanno contrapposto
questa posizione a quella di De Gasperi che guarda soprattutto alla
distinzione dei due termini, pur mantenendo l'ispirazione cristiana.

Normalmente si intende per integralismo una linea che insiste


sull'unità di religione e politica. E' difficile negare il carattere
integralistico del dossettismo, anche se si trattò di un integralismo
di carattere particolare, diverso, od opposto, ad altri.
Politicamente, però, Dossetti si trovò isolato fra il democratismo
di De Gasperi e l'anticomunismo radicale di Gedda. Da qui venne
un altro motivo che lo spinse all'abbandono della politica.

A partire da questi fatti si determina nel dossettismo una


separazione fra momento idealistico e momento realistico. Mentre
l'uno (abbracciato totalmente da Dossetti) rifiuta la politica, l'altro
(fatto proprio da notevole parte dei dossettiani) vuole immergersi
nella politica avendo come avversario la Dc, vista come cedimento
alla borghesia. Da ciò, in vari allievi di Dossetti, la vicinanza al
Pci. Non a caso alcuni di loro si ritrovano oggi eletti nelle liste
Pci, come indipendenti di sinistra.

Non si può dire perciò che il dossettismo sia un fenomeno


completamente esaurito. Esso vive nella polemica di una parte
notevole degli indipendenti di sinistra cattolici. Soprattutto non si
può negargli il merito di aver cercato di dare un'anima idealistica
alla politica dei cattolici. L'unico tentativo, o almeno quello di
maggior rilievo, prima di Comunione e liberazione; che presenta
però caratteri assai differenti.

Questo non deve impedire di cogliere il suo limite che sta


nell'aver abbracciato un'interpretazione della storia contemporanea
che alla luce dei fatti non regge più. L'idea stessa che il
dossettismo ha del marxismo, inteso come verità impazzita, non
può essere assolutamente giustificata. Né tantomeno quella mitica
interpretazione della Resistenza intesa non come unità di fatto, tra
forze divergenti contro un comune avversario, ma di valori.

Augusto DEL NOCE


L'antifascismo di comodo
tratto da: Corriere della Sera, 31.12.1987 (poi in Litterae
Communionis, febbraio 1988, p. 51).

L'intervento di Augusto Del Noce nella polemica su fascismo


e antifascismo suscitata dall'intervista dello storico Renzo De
Felice

La tesi di De Felice secondo cui è privo di senso pensare la


situazione di oggi in termini di antagonismo tra antifascismo e
fascismo ha suscitato reazioni che mi riesce difficile spiegare.

Quel che emerge è il contrasto tra due interpretazioni del


fascismo; una sorta nel periodo della lotta e ben comprensibile in
relazione a quel clima, ma che oggi dovrebbe essere diventata
oggetto di storia, mentre invece ancora tiene il campo nella cultura
ancor più che nella politica, non tanto intermini di affermazione
diretta quanto nelle valutazioni che ne dipendono; l'altra per cui si
tratta di render conto di un passato.
Secondo la prima ci sarebbe identità di natura tra tutti i
fenomeni autoritari di destra; il carattere che li unirebbe sarebbe
un particolare tipo di violenza, quella repressiva, che sarebbe da
distinguere dalla violenza rivoluzionaria, invece giustificabile
come necessità, anche se può trascorrere in eccessi e colpire
innocenti. Tale violenza repressiva porterebbe a identificare il
fascismo con la forma che assume la reazione nel nostro secolo; i
ceti che si trovano oltrepassati dal processo di modernizzazione
sempre più accelerato della storia di questo secolo si
raccoglierebbero in «fasci» e affiderebbero la loro guida ad
avventurieri capaci di sollecitare le tendenze più basse delle
masse.

Alla violenza repressiva questi movimenti sarebbero


condannati dalla loro assenza di cultura («dove c'è fascismo non
c'è cultura, dove c'è cultura non c'è fascismo», si è detto), dalla
incapacità dunque di discussione e di dialogo. Manca loro anche
quel tanto di positività culturale che sussisteva nei reazionari
dell'epoca della restaurazione. Sarebbe dunque una violenza che
nasce dalla barbarie intellettuale; in ragione di questa barbarie
troverebbe giustificazione, almeno in linea di principio, la norma
costituzionale del partito fascista. Questi movimenti si
diversificherebbero in relazione alle tradizioni dei vari Paesi; ma il
loro logico esito finale sarebbe il nazismo e i suoi campi di
sterminio.

Ora la ricerca storica (non solo quella di De Felice, che è il


maggiore storico del fascismo, ma quella di molti autorevoli
studiosi del ventennio tra le due guerre), ricerca per nulla
influenzata da pregiudizi favorevoli del fascismo, o anzi orientata
a raggiungere una sua condanna razionale e non emotiva, ha
portato a risultati che divergono da questo modo di vedere. Così,
rispetto alla natura comune di fascismi, e limitiamoci al rapporto
tra fascismo e nazismo, considerati oggi dalla maggior parte degli
studiosi fenomeni affatto eterogenei, e questo per la diversa
posizione che essi assumono rispetto al comunismo.

Secondo la giusta frase di Ernst Jünger il nazismo è «una


rivoluzione contro la rivoluzione», espressione che si può
intendere come designante una rivoluzione totalmente subalterna,
nell'opposizione, al suo avversario comunista; una sorta di decalco
naturalistico per cui alla classe sostituisce la razza. Si sarebbe
portati a dire che il nazismo incarna quella «rivoluzione in senso
contrario» che De Maistre additava ai controrivoluzionari della
sua epoca come l'esempio che doveva essere assolutamente
evitato. Invece il fascismo voleva presentarsi come la vera
rivoluzione del nostro secolo, ulteriore alla marx-leninista, perché
adeguata a Paesi per cultura e per civiltà più maturi della Russia.

La sua storia è certo storia di un fallimento, ma ciò non toglie


che in esso non siano implicati i più alti vertici della cultura dei
due decenni del nostro secolo. «Errore della cultura», come diceva
Giacomo Noventa, non «errore contro la cultura».

Che qualche espressione di De Felice (p. es.: «grottesche


norme») sia stata forse troppo a punta, non ho difficoltà ad
ammetterlo. Ma mi chiedo quale controproposta i suoi critici
possano avanzare. Forse stabilire come assioma fondamentale,
principio della Costituzione, quella tale interpretazione del
fascismo come pura barbarie? Ho troppo rispetto per pensarlo ma
non mi riesce di vederne altra. Pericoli per la libertà, e ancor più
direi per la «vita buona» (uso questo termine nel senso in cui ne
parlava quel finissimo spirito che fu Felice Balbo, differenziandola
dal «benessere»), ce ne sono in questo scorcio di secolo ed
estremamente gravi; ma non hanno origine nel fascismo, non fosse
altro perché gli strumenti di oppressione di cui esso si serviva
erano, rispetto a quelli che la tecnica di oggi può offrire, infantili.
O che vogliano vedere in esso, e di più nel fascismo italiano, quel
«male assoluto», che purtroppo nella storia non si dà; dico
purtroppo, perché in tale caso sarebbe relativamente agevole
decapitarlo, e farla finita con lui per sempre.

Augusto DEL NOCE


Togliatti? Un perfetto gramsciano. Polemica su Gramsci
tratto da: Il Sabato, 12.3.1988, p. 27.

La polemica su Gramsci. Interviene Del Noce

Nei "Quaderni dal carcere" si legge una sola citazione di


Stalin. Ma da lì Gramsci risalì per attingere al fondamento
nazionale del comunismo. Togliatti poi lo tradì? No,
semplicemente applicò nella prassi l'indicazione del moderno
Principe. Così come l'illustre prigioniero teorizzava

È stato utile il riproporre il problema Togliatti? Dirò con la


massima schiettezza il mio parere, poco curando se non concorda
affatto con quello dei più ascoltati consiglieri culturali della Dc.
A mio giudizio non è stato soltanto errato, ma addirittura
colpevole l'averlo messo a tacere per troppo tempo, benché tutti i
fatti si conoscessero, e ancora fossero in vita coloro che potevano
testimoniare direttamente sui metodi spicci di liquidazione dei
dissidenti dallo stalinismo che Togliatti aveva usato così in Urss
come in Spagna. Su di essi si è imposto, praticamente, il silenzio;
la censura effettiva funziona. Da quando? Da chi? Perché?

Da un po' più di un quarto di secolo. Prima c'era il silenzio di


coloro che pensavano «nessun avversario a sinistra»; poi, di quella
parte degli intellettuali della sinistra azionista che era convinta che
il comunismo, come seconda fase dell'illuminismo, fosse l'erede,
anche se non ancora pienamente legittimo, del liberalismo; poi dei
socialisti nenniani. Ma il gran silenzio cominciò con la sua
diffusione negli ambienti cattolici, e la storia del modo in cui fu
impostato il centrosinistra è ancora da scrivere.

La ragione, tuttora dichiarata, di questo silenzio, sta nel dogma


secondo cui si doveva, o si deve, parlare di due comunismi: quello
palingenetico nei principi e totalitario nella realtà, a cui
appartenevano, per nemici mortali che fossero, uno Stalin, un
Trotzkij e magari anche un Bordiga; quello del «partito nuovo»
del comunismo democratico gradualista, legalitario, iniziato
proprio da Togliatti, anche se ritardato, questo era consentito
riconoscerlo, nel suo sviluppo dalle abitudini antiquate del gruppo
dirigente. Con le conseguenze: più nessuna disputa su quel terreno
che con disprezzo veniva detto «ideologico», termine che nessuno
si curava di definire. Dunque nessuna polemica culturale coi
comunisti, il che significava nessuna resistenza alla diffusione
della loro cultura (anche se essa venne a noia, ma non per merito
dei loro avversari politici); e tanto meno di una parte
dell'intellettualità cattolica che aveva già trovato il nuovo
Aristotele nel marxista Ernst Bloch, e stava cercando (i candidati
non mancavano) il nuovo san Tommaso che lo cristianizzasse.

Bisogna dirlo chiaro e forte; non ci sono due comunismi e non


ci sono due Togliatti, lo staliniano e il democratico; ci sono, per il
comunismo, situazioni diverse, che esigono comportamenti
diversi. Questo già per Stalin: mentre all'interno usava i metodi
più duri per assicurare l'unità monolitica del partito, promuoveva
all'estero una politica di alleanze all'insegna dell'unità antifascista.
Negli anni del dopoguerra, in certe condizioni, nei Paesi dell'Est,
liquidazione senza complimenti dei partiti cosiddetti borghesi, e in
primo luogo dei socialisti; in altri, e particolarmente in Italia,
ricerca dell'estensione dell'accordo fino a giungere ai cattolici: il
comunismo presentato a volte come una sorta di
metacristianesimo, e incoraggiati tentativi di mediazione magari
attraverso l'opera, oggi piuttosto dimenticata, di Teilhard de
Chardin.
Non risulta che Stalin abbia mai dissentito dall'opera di
Togliatti; nessuno ha mai potuto trovare un elemento che
autorizzasse a dirlo, anche nei periodi in cui la destalinizzazione
fu più favorita del comunismo sovietico. Così come nulla prova
che Togliatti si sia mai pentito di essere stato zelantissimo
collaboratore di Stalin; per la verità bisogna aggiungere che non
ha mai neppure finto il pentimento.
Deve dunque essere riconosciuto ai socialisti il merito di aver
giudicato degno di venir riproposto, in primissimo piano, un
problema che deve esserlo: sono convinto che scavando in esso si
potrà risalire dallo squallore a cui la discussione politica a oggi,
per poter recuperare il livello della politica ideale. E tuttavia dirò
dei due punti da cui dissento, che sono importanti perché
riguardano il rapporto, prima di tutto di principi, che intercorre tra
socialismo e comunismo.

Prendiamo le mosse un po' alla larga: è stato corrente parlare


della «parentesi staliniana» nella storia del comunismo. Anche da
parte dei comunisti, quando conveniva loro il silenzio sugli orrori;
si prepararono anche in Russia gli storici atti ad assolvere a questo
compito; si intendeva dimostrare la divergenza di Stalin dai
principi del leninismo. Nonostante che la cosa sia affatto
impossibile sul piano teorico, su quello pratico l'operazione è
abbastanza riuscita. E mi sembra che sull'opera di chi più ha inteso
smentirla, Solzenicyn, sia sceso un certo silenzio. Meglio
Zinoviev, meglio Sacharov, tutte persone degne del maggior
rispetto, ma ben lontane dalla sua chiarezza ideale.

Ora, all'idea della parentesi staliniana e della sua divergenza


con Lenin si aggiunge quella della parentesi togliattiana e della
sua divergenza con Gramsci. Che ragione resta, dopo la condanna
di Togliatti, anzi dopo una condanna pronunziata in nome di
Gramsci, se non la capitolazione del comunismo rispetto alla
socialdemocrazia? La deformazione di una «grande sinistra» in cui
il Psi e non il Pci sarebbe il partito guida? Ora le cose non stanno
così; c'è in mezzo il tema della violenza rivoluzionaria che per il
comunismo può essere sospesa, ma non eliminata e condannata; e
alcuni comunisti coerenti l'hanno rivendicata (così sul Manifesto
del 1° marzo Luigi Pintor, in un articolo assai coerente). La
condanna di Togliatti implicherebbe quindi quella di Lenin, della
Luxemburg, di Stalin, di Trotzkij, di Mao e di Gramsci, tutti
appartenenti, per profonde che siano le loro divergenze, alla
tradizione rivoluzionaria; per me, quella dello stesso Marx.
Né si può dire che il comunismo sia una «parentesi» del
socialismo, una sorta di deviazione riassorbibile quando vengono
messi da parte taluni suoi rappresentanti. Il vostro piano, possono
ben rispondere i comunisti, suppone l'eternità del mondo
capitalistico borghese. Dalla violenza non si può uscire: esiste
quella della borghesia colonialistica e razzistica (il nazismo è stata
una variante di razzismo, estesa a popolazioni non coloniali); e
distinzione che deve esser fatta è quella tra violenza rivoluzionaria
e violenza conservatrice. La prima potrà anche portare ad eccessi e
colpire innocenti, come è accaduto all'epoca di Stalin; può
rappresentare tuttavia una necessità, se si vuole veramente
fuoriuscire dall'egemonia borghese.

Né, infine, può avere senso volersi appropriare di Gramsci per


giudicare e condannare Togliatti. Dei contrasti che ebbe con altri
comunisti, soprattutto nel carcere, sappiamo, ma ciò non significa
che egli sia stato antistaliniano. Nei «Quaderni del carcere» c'è un
solo passo in cui si parla di Stalin (pp. 728-29): ma egli vi vien
detto «il più recente grande teorico della filosofia della prassi»,
colui che ha precisato la formulazione del suo fondatore, e che ha
bene inteso come la situazione internazionale «debba essere
considerata nel suo aspetto nazionale». Certamente la prospettiva
internazionale non deve mai essere dimenticata, ma il torto di
Trotzkij sta nel non avere «depurato l'internazionalismo da ogni
elemento vago». Ossia, per quel che pare, Gramsci vuole
comporre finalità internazionale e punto di partenza nazionale, a
partire però da quell'accentuazione del momento nazionale che
c'era in Stalin; o se si tiene conto della sua formazione italiana,
ispirata alla cultura idealistica, si serve della teoria allora diffusa
dell'universale concreto per legittimare e potenziare l'idea
staliniana.

E poi, ancora, come dimenticare il famoso passo che sta nel


quaderno in cui lo svolgimento del suo pensiero politico è più
impegnato, secondo cui «il moderno Principe (il Partito)
sviluppandosi, sconvolge tutto il sistema di rapporti intellettuali e
morali in quanto il suo svilupparsi significa appunto che ogni atto
viene concepito come utile o dannoso, come virtuoso o scellerato,
solo in quanto ha come punto di riferimento il moderno Principe
stesso e serve a incrementare il suo potere o a contrastarlo. Il
Principe prende il posto, nelle coscienze, della divinità o
dell'imperativo categorico, diventa la base di un laicismo moderno
e di una completa laicizzazione di tutta la vita e di tutti i rapporti
di costume».

È la piena adesione alla teoria leninista e staliniana, nel


preciso punto in cui convergono, e la completa giustificazione
della pratica che ne segue. Di più tale teoria viene presentata come
il termine dello sviluppo del pensiero politico moderno da
Machiavelli in poi; identificato altresì con quel momento
giacobino la cui assenza avrebbe reso impossibile la compiutezza
del Risorgimento. La stessa linea moderata di Togliatti deve quindi
essere giustificata, dal punto di vista gramsciano, non già come
evoluzione democratica o come riconoscimento dei diritti della
persona, ma come la più utile, in Italia, all'incremento del potere
del partito. Che possano esserci stati contrasti tra Gramsci e
Togliatti, non toglie la fondamentale verità che Togliatti ne sia
stato il vero discepolo.
Che cosa concluderne? Che questo ritorno alla discussione sui
principi, dopo tanto silenzio, dimostra almeno questo: che la
«grande sinistra» è impossibile, a meno di un'assoluta
capitolazione, del tutto improbabile, dei comunisti.

Augusto DEL NOCE


Il nazi contagio
tratto da: Il Sabato, 26.9.1987, n. 39, p. 23.

Rudolf Hess. Con la sua scomparsa finisce il nazismo nel


modo più nazista possibile. Perché il delfino di Hitler fu
condannato al duro carcere di Spandau? Lo zampino della Russia.

«E' scomparsa con Rudolf Hess l'ultima eco del Terzo Reich».
Con questo titolo il più delle volte si diede notizia del suo suicidio,
il 18 agosto. E' vero, qualcuno parlò «della vergogna che resta»
nei riguardi della sua prigionia e della mancata grazia (così
Montanelli) o «dell'ignominia di una morte somministrata giorno
dopo giorno per quarantacinque anni» (così Silvio Bertoldi sul
Corriere della sera di quel giorno); e certamente altre frasi
egualmente improntate a giustizia furono usate e mi sono sfuggite.
Ma il senso generale fu questo: si è trattato di una brutta pagina
che si deve dimenticare. E qui non concordo; il caso Hess non può
e non deve venire tanto rapidamente archiviato come si sta
facendo oggi. Perché con la sua morte finisce sì il nazismo con
l'ultimo suo capo di rilievo, ma finisce in una maniera che più
nazista non poteva essere; il periodo che aveva avuto inizio col
processo di Norimberga termina nel peggiore dei modi.

Qualcuno ha scritto che se si considera il progressivo svanire


della coscienza morale, quale si è verificato nei decenni dal '45 a
oggi, si deve dire che Hitler ha vinto la guerra. Non è un
paradosso: non si tratta di riabilitare il nazismo, ma di difendersi
dal contagio che la sua barbarie ha esercitato sui suoi più
implacabili o implacati avversari. La prigionia di Hess, assolto a
Norimberga dalle accuse di crimini di guerra o di crimini contro
l'umanità, e condannato all'ergastolo per una colpa non
contemplata da nessun codice, quella di aver contribuito a
preparare una guerra aggressiva, internato nel '47 nel carcere di
Spandau, dove ha vissuto per quarant'anni in una cella di sei metri
quadrati, col consenso di vedere una sola persona al mese dietro
una grata -la moglie o il figlio, ma mai insieme- e il diritto di
scrivere un diario le cui pagine però venivano bruciate ogni sera
dalle guardie carcerarie, e quello di leggere quattro giornali da cui
venivano censurate le notizie politiche, è stata espressione non già
di una giustizia, per dura e intransigente che possa essere, ma di
odio; ancorché rovesciata, di quello stesso odio di cui i lager
nazisti sono il simbolo. Oggi ha corso la distinzione tra violenza
rivoluzionaria, giustificata e violenza reazionaria i cui responsabili
sono giudicati degni di sterminio.

Quando lessi del suicidio di Hess, mi vennero subito in mente


frasi di una lettera che Dino Grandi, allora ministro della
Giustizia, aveva inviato a Mussolini il 21 aprile 1940 per
consigliarlo a non entrare in guerra, o almeno attendere a farlo. Vi
scriveva: «Questa guerra ha tre grandi protagonisti: la Germania,
l'Inghilterra, la Russia (...) Chi sarà l'arbitro che deciderà dell'esito
del mortale duello? La Russia (...) Gli slavi riprendono la marcia
verso l'Occidente. Il testamento di Pietro il Grande che indicava
l'Occidente ed i caldi mari del Sud come direttrice alla futura
espansione delle razze slave, è stato raccolto da Stalin, il nuovo
«Piccolo Padre» di tutte le Russie (...). La Russia deve ancora dirci
la sua parola definitiva. Quale sarà? E' impossibile dirlo oggi, ma
la Russia interverrà» (Il mio Paese, Ricordi autobiografici, pp.
571-572).

Non ci voleva un genio per avvertire questo: e mi meraviglia


che non sia stata ancora curata un'antologia delle più importanti
pagine in cui tanti autori dell'Ottocento, delle più diverse correnti
ideali, avevano concordato il pericolo mortale che l'espansionismo
russo costituiva per l'Europa, e cercato di definirne i caratteri.

Resta che stranamente il pensiero dell'espansionismo russo


appariva come rimosso dalle menti dei politici degli anni che
precedono la Seconda guerra mondiale; così da quelli dell'Asse
come dei loro avversari. Si giudicava: la Russia è un Paese più
asiatico che europeo, e l'ha dimostrato la vittoria del comunismo
sul socialdemocratico occidentalista Kerenski; e l'artefice
maggiore di questo rovesciamento nel senso orientalistico è
proprio Stalin con l'idea del socialismo in un solo Paese e coi suoi
metodi di governo. Si dimenticava che per la stessa dottrina del
comunismo staliniano era inevitabile la guerra tra i Paesi
capitalisti, e che questa guerra avrebbe rappresentato le condizioni
per la nuova avanzata, insieme comunista e russa.

Hess vide dunque per la Germania quel che Grandi aveva visto
per l'Italia. Il suo volo fu un'iniziativa personale, all'insaputa o
contro il parere di Hitler, o invece concordata con lui, alla vigilia
dell'attacco contro la Russia?

Nel libro di memorie di Albert Speer c'è un elemento che fa


protendere per la prima ipotesi. Hess gli aveva raccontato, a
Spandau, che l'idea del volo in Scozia gli sarebbe «venuta in
sogno, ispirata da forze sovrannaturali». Hess, insomma, avrebbe
avuto un'illuminazione in cui avrebbe visto il risultato della
guerra: fine dell'Impero inglese e, per la Germania, distruzione e
successiva perdita di ogni speranza di una posizione egemonica.
Avanzata della Russia sulle rovine delle due maggiori potenze
europee. E' un fatto che le proposte di pace che fece ai
rappresentanti inglesi corrispondevano a queste premesse: libertà
all'Inghilterra di esercitare il dominio sul suo impero, libertà alla
Germania di realizzare il suo primato in Europa. Parlare di
«illuminazione in sogno» rientra nella sua originaria formazione
culturale. Veniva infatti dalla Thulegesellschaft, associazione
culturale che si era formata a Monaco, e in cui coesistevano
confusamente superomismo nietzscheano, e motivi iniziatici
occultistici ed esoterici, con accentuazioni per la mistica tibetana;
uno dei tanti prodotti inferiori della «rivoluzione conservatrice»
tedesca degli anni Venti. Tale formazione giovanile poteva ben
portarlo a ritenersi investito dal destino ad assolvere una missione
che gli uomini ordinari non potevano riuscire. Se davvero avesse
concordato il piano con Hitler perché avrebbe dovuto tacerlo a un
suo compagno di prigione, dopo che la tragedia era finita, e perché
avrebbe dovuto inventare le forze sovrannaturali che l'avrebbero
ispirato in sogno?

La durezza particolare che fu usata con lui mentre gli ultimi


condannati di Norimberga avevano lasciato Spandau già nel 1966
non si comprende.

Certo ci fu un'intransigenza russa nella decisione che egli


dovesse morire in carcere. Basta a spiegarla la persuasione, non
giustificata da nulla, che si fosse recato in Inghilterra per proporre
un'alleanza nella guerra contro la Russia? Ho letto che, secondo un
autorevole storico del Terzo Reich, il Maser, nel 1952 Stalin aveva
pensato di estendere quel suo impero fatto di «sovranità limitate»
alla Germania riunificata sotto Hess. Indubbiamente la manovra
era nel suo stile. Nazionalsocialismo voleva dire sintesi di
nazionalismo e di socialismo, che nella forma hitleriana si era
dissolta, ma che poteva ricostituirsi in altra forma: il nazionalista
Hess, senza convertirsi al comunismo, avrebbe potuto dire, come
socialista, che il socialismo si stava realizzando nella Germania
dell'Est. Sarebbe stato il capo di quel partito nazionaldemocratico
che effettivamente raggruppava gli ex nazisti nella Germania
dell'Est.

Ciò rientrava in uno scopo più generale, quello di una


Germania riunificata, formalmente come stato neutrale, di fatto
sotto l'egemonia russa. Un partito analogo a quello degli ex nazisti
avrebbe potuto formarsi all'insegna del nazionalismo e del
socialismo nella Germania occidentale, e vincere in libere
elezioni. Soltanto Hess poteva esserne la guida. La leggenda del
suo pacifismo, della sua rottura con Hitler, che, se avesse potuto,
l'avrebbe fatto impiccare, non era certo difficile da costruire. E nel
'52 i nazisti erano ancora molti in Germania, mentre oggi
praticamente non esistono. Ogni partito si spegne quando viene a
mancare ogni possibilità di successo: i vecchi fedeli muoiono, gli
uomini di mezza età cercano di rifarsi una vita dopo la sconfitta,
nuove leve non affluiscono. Stupisce la meraviglia con cui certi
nostri giornali hanno dovuto registrare l'assenza di consistenti
manifestazioni neonaziste nella recente occasione. Ma, fedele alla
memoria di Hitler, Hess avrebbe rifiutato, e pagato col carcere
perpetuo.

Tuttavia la fonte è strana: come mai il primo ministro della


Germania orientale di tanti anni fa, Grotewohl, avrebbe
comunicato, sia pure sotto il vincolo del silenzio per un periodo di
vent'anni successivo alla sua morte, una notizia così riservata a
uno studente dell'Università Humboldt (Germania Est) che l'aveva
consultato per una tesi che stava redigendo sull'ascesa del
nazionalsocialismo?
Augusto DEL NOCE
La morale catto comunista (cattolici e Pci)
tratto da: Il Sabato, 22.8.1987, n. 34.

Cl malata d'affarismo dovrebbe imparare dalla tensione ideale


dei credenti confluiti nel Pci. E' la tesi di padre De Rosa. Del Noce
ribatte

Sulle perplessità che l'intervista rilasciata a «Panorama» dal


padre Giuseppe De Rosa vicedirettore e notista politico della
«Civiltà cattolica» e pubblicata nel numero del 26 luglio, suscita, è
stato già scritto nell'editoriale del numero 30 de «Il Sabato». Alle
osservazioni di tale articolo che perfettamente condivido
intenderei aggiungerne alcune altre.
Anzitutto nel riguardo del giudizio sul Documento dei 39 che
il Padre interpreta in termini di pura manovra politica: se la Dc
fosse stata sconfitta e in conseguenza se De Mita avesse dovuto
lasciare la Segreteria allora sarebbe stata l'ora di Cl che si sarebbe
presentata per quel che è, all'insegna di un partito politico
sostanzialmente confessionale e avrebbe cercato di operare una
scelta tra i capi storici della Dc.
Giulio Andreotti come padre temporale coadiuvato da Forlani
e da Piccoli. L'accusa alla precedente gestione sarebbe quella
obbligata di volere un partito laico e tecnocratico. In realtà si
tratterebbe dell'abbandono dell'impostazione stessa che aveva dato
Sturzo come quella di un partito laico ad ispirazione cristiana. Il
Padre non arriva veramente a dire: Cl nega la distinzione tra scelta
politica e scelta di fede quale è stata sancita dal Concilio Vaticano
II. Lascia però che i lettori lo pensino.
Ora tra i firmatari del documento non avrebbero ammonito la
Dc a non cedere ad una concezione laicista e tecnocratica se
l'interpretazione in questo senso dell'autonomia politica non
esistesse almeno allo stato di tentazione: o più che tentazione dato
che il dipartimento culturale della Dc si è espresso, diversi mesi
orsono, nella proposta di una piena laicità. Cerchiamo di dare una
definizione precisa delle due linee divergenti. Penso che si debba
dire così. Per quella che per brevità chiamerò linea laica, compito
storico della Dc è portare i cattolici, ancora spesso chiusi in
dichiarate o meno nostalgie tecnocratiche, ad una piena adesione
della coscienza democratica moderna caratterizzata nonché dal
suffragio universale, dalle libertà politiche delle rappresentanze
parlamentari dalla ricerca dell'elevazione democratica e culturale
del popolo indipendente dalle fedi religiose pur nel rispetto di
ognuna di esse. Così da sottrarli ad una situazione psicologica di
minorità verso il mondo moderno fino a ieri da loro non compreso
e ingiustamente criticato.
Non che per gli assertori stessi di questa concezione la vita
religiosa sia confinata nel privato senza relazioni con la vita
pubblica. Essa dovrebbe agire come forza vitalizzante rispetto ad
un compito che resta laico per sua natura.
Per l'altra linea, accentuante la nota religiosa, il compito di un
partito cristiano si configurerà come quella di chi muovendosi
nell'ambito della democrazia, pur essendo intransigente nel
difendere il metodo della libertà, abbia come suo fine ultimo la
rimozione degli ostacoli di varia natura che distraggano
dall'attenzione ai valori religiosi e che possano anzi rivelare i vari
sentimenti di indifferenza nei loro riguardi. Piena affermazione
della democrazia nel senso della pari dignità della persona umana.
Piena affermazione della libertà come condizione perché la verità
possa venire accolta come tale; ma, come è scritto nel documento,
la difesa della libertà viene a coincidere con la difesa del primato
della società sullo Stato e sui partiti. Ora, che cosa presenta al
primo sguardo la società di oggi? L'esistenza di una laicistica
crociata per l'indifferenza religiosa più pericolosa di una diretta
propaganda atea. Si riconosce in linea di principio il «diritto di
credere» ma si vuol portare alla persuasione che la religione è
superflua rispetto all'organizzazione della città umana. A ben
guardare si tratta della vecchia questione della possibilità della
«città degli atei», tesi che già era stata prospettata all'inizio
dell'illuminismo, in linea ipotetica dal Bayle e contro cui era
diretta l'intera opera del Vico, incomprensibile senza questa
chiave. E a me sembra che autonomia della politica non voglia
dire separazione di sfere. Aggiunge ancora il Padre: «Formigoni
vorrebbe rappresentare una Dc nella Dc e questo non sta bene».
Mi limito ad osservare che si tratta della ricerca di una precisa
interpretazione del senso di democrazia cristiana e che questa
ricerca è doverosa per chiunque voglia aderirvi, e quella diversità
di intendimenti che è corrente in ogni partito, è constatazione così
ovvia che proprio «non sta bene» insistervi.
Aggiunge ancora il Padre: «I comunisti cattolici erano diversi
[dai ciellini], avevano grandi speranze e grandi ideali. Credo che il
Pci li abbia messi in disparte. Mentre invece le operazioni
politiche di Cl (il Padre fa l'esempio del dialogo con Martelli a
proposito della questione scolastica) apparterrebbero alla «bassa
politica». Dunque secondo uno dei più autorevoli critici politici
della Compagnia di Gesù i catto-comunisti erano -o sono- anime
ardenti e generose che pagavano di persona pronti a subire
l'impopolarità sacrificati dagli stessi comunisti. Se furono gli
artefici della proposta del compromesso storico l'aggettivo
«storico» corregge il sostantivo e gli conferisce una carica ideale.
Invece i ciellini ambiscono all'immediato successo e sono pronti a
non ideali compromessi. «Grande politica» quella dei primi;
«bassa» quella dei secondi.
Andiamoci adagio. Ho conosciuto negli ultimi anni della
guerra e in quelli del primo dopoguerra molti catto-comunisti e
posso certamente testimoniare della loro sincerità e buona fede.
Non hanno però avuto occasione di manifestare il loro eroismo
così che li ho trovati nei decenni successivi tutti in ottime
posizioni (meritatissime date le loro qualità intellettuali). Ma non
mi consta abbiano incontrato ostacoli o tanto meno persecuzioni
per le loro concezioni politiche e religiose. Dico questo senza la
minima intenzione di svalutazione e di biasimo; ma resta pure il
fatto che sono stati tra i pochi la cui sincerità e valore furono
sempre riconosciuti. E neppure si può dire che il Pci li abbia messi
in disparte se oggi rappresentano una notevole parte degli
Indipendenti di sinistra e non è vero che gli Indipendenti di
sinistra giochino una funzione subordinata dovendo assolvere al
compito di sottrarre i comunisti dall'isolamento. Viceversa coloro
che militano in Cl o nel Movimento popolare hanno spesso dovuto
subire ostracismi da altre associazioni cattoliche o dalla stessa Dc.
Questo discorso ci porta a definire le differenze tra i catto-
comunisti e i ciellini per riguardo al loro atteggiamento rispetto al
comunismo. Le date contano: i catto-comunisti sorgono
nell'atmosfera della seconda guerra mondiale quando si giudicava,
a torto, che il fascismo fosse anzitutto anticomunismo e che
l'anticomunismo venisse col coinvolgere tutte le espressioni di
civiltà giungendo alla barbarie radicale; e che le colpe
dell'antireligione comunista dovessero essere cercate nelle costanti
alleanze del mondo cattolico, o delle varie confessioni religiose
con le forme, nonché più arcaiche, altresì più egoistiche di
conservazione. Un giudizio corrente negli anni Quaranta vedeva
nel fascismo la forma reazionaria della borghesia; ebbene i catto-
comunisti intendevano separare il cattolicesimo dalla reazione
borghese.
Cl sorge invece al momento del grande «Kulturkampf» mosso
da laicisti e da marxisti, in Occidente ancor più dai primi che dai
secondi, contro il cattolicesimo, di quella crociata per
l'indifferenza religiosa di cui ho detto dianzi.
È a partire da queste diverse occasioni che si spiega la diversa
attitudine riguardo ai comunisti. Per i catto-comunisti il
comunismo esprimeva il movimento di una storia
provvidenzialmente diretta e di cui i cattolici fino allora non
avevano inteso il senso così da procedere ad incomprensive
condanne. Si trattava quindi di un processo dei cattolici verso il
comunismo; l'avversario massimo era il fantasma dell'integralismo
cattolico di cui si era soliti vedere la più perfetta incarnazione
nella figura di Pio XII. Volendo combinare la loro fedeltà alla
religione con la fedeltà alla storia, i cattocomunisti pensavano che
la politica e l'economia marxistiche potessero venire dissociate
dalla sovrastruttura atea.
In Cl invece c'è la documentata certezza che il marxismo sia
una filosofia prima che un'economia e una politica; che nel
leninismo e in quello che fino a oggi ne è seguito nei partiti
comunisti vada cercata la ragione prima dell'espansione, senza
analogie storiche, dell'ateismo che c'è oggi nel mondo e che in
Occidente ha dato luogo ad una borghesia di nuovo tipo le cui
valutazioni possono generalmente venir riferite alle posizioni di
pensiero che accetta la «pars destruens» del marxismo rispetto ai
valori assoluti consacrati dalla tradizione e insieme ne neutralizza
lo spirito rivoluzionario attraverso il comunismo.
Tuttavia Cl sa bene che le posizioni esplicitamente atee (a
differenza di quelle che si fondano sull'indifferenza religiosa) non
possono alla lunga durare. Sul piano mondiale il comunismo era
caratterizzato come giustamente fu osservato dall'interdipendenza
di tre fattori: l'idea di un unitario «imperium mundi» successivo
alla rivoluzione mondiale, da quella di una religione secolare
come speranza di un'universale liberazione e da quella di
un'organizzazione di conquistatori del mondo, di rivoluzionari di
professione. La crisi dell'interdipendenza è stata conseguente alla
fine della religione secolare ossia di quella secolarizzazione del
messianismo che aveva portato taluni a parlare di Marx come
dell'ultimo profeta ebraico. Tutti gli aspetti di crisi del comunismo
mondiale dipendono dalla caduta senza possibilità di resurrezione
della religione secolarizzata.
Così la politica di Gorbacev sembra trovare fondamento nella
rinuncia obbligata alla rivoluzione mondiale; e perciò ha concesso,
forse al di là degli stessi propositi del suo leader, al comunismo
italiano una maggiore autonomia. Ma questa autonomia ha
coinciso non a caso con lo scoppio della maggiore crisi che il Pci
abbia finora incontrato e al dilemma a cui si trova dinnanzi. Si
dirigerà verso una possibile grande sinistra? Può farlo ma a
condizione di subordinarsi ad una borghesia che non è più quella
dell'ascesi capitalistica e neanche quella della classe-non classe
mediatrice di contrasti economici attraverso concetti etico politici
secondo un compito che le assegnava Croce. È invece la nuova
borghesia edonistica della società consumistica ed opulenta, che
tra l'altro impedisce quella formazione della classe proletaria
diretta rivoluzionaria cui pensava Marx.
Il comunismo ruppe con la socialdemocrazia accusandola di
cedere alla borghesia e di diventarne il sostegno. Oggi, nella
grande sinistra, toccherebbe al comunismo di farsi sostegno di
questo stadio ultimo e peggiore della borghesia. Come ho già
notato in due articoli pubblicati su «Il Tempo» il 19 e il 23 luglio,
viene in mente il giudizio che Bordiga poco prima di morire aveva
pronunciato sulla linea che aveva prevalso nel comunismo italiano
e che, lungi dal portare il comunismo al potere, aveva a suo
giudizio dato "vita storica al velenoso mostro del grande blocco
comprendente tutte le gradazioni dello sfruttamento capitalista e
dei suoi beneficiati, giù giù fino alle schiere dei mezzi borghesi,
intellettuali e laici". Se appena sostituiamo qualche parola, troppo
legata ad un comunismo arcaico, e introduciamo quella di
«mercificazione totale» abbiamo il ritratto perfetto di quello che
oggi sarebbe il risultato della «grande sinistra».
Certamente la linea di Bordiga si presentava come irrealistica
e utopica; ma oggi la linea gramsciana, che finora ha
sostanzialmente diretto la politica comunista, verifica a sua volta
la validità delle critiche di Bordiga. Di qui la necessità per il Pci di
riformarsi per sottrarsi ad un declino irreversibile.
Se vuole evitare la linea catastrofica della grande sinistra, non
può che rivedere il suo rapporto con il mondo cattolico. Che
quello che chiamiamo il mondo moderno borghese si sia costituito
contro il cattolicesimo o comunque in un orizzonte del tutto
estraneo ad esso, è quello che nessuno mette in discussione. E
sono noti i debiti del pensiero marxiano rispetto alla critica
contronvoluzionaria e antiborghese della restaurazione cattolica in
tutta una tradizione che giunge a Bloy e a Bernanos e che anche in
Italia trovò manifestazione in molte pagine di Giuliotti e di don De
Luca.
Il processo sarebbe sicuramente l'inverso di quello del catto-
comunismo: ai comunisti non si chiederebbe certo una
conversione religiosa -non foss'altro perché i campi della religione
e della politica sono distinti- ma soltanto il giudizio storico una
volta caduta la religione secolare sulla maggiore parentela con il
pensiero cattolico rispetto a quella con la borghesia laicista.
È inutile aggiungere che il processo si presenta come lungo e
che non si possono attendere riflessi politici immediati. Ma quello
che mi premeva chiarire è la posizione nei riguardi della borghesia
e del comunismo che hanno i catto-comunisti e che ha Cl e che
non può essere assolutamente confusa con «l'intransigenza
morale» dei primi e la «bassa politica» dei secondi come sembra
pensare padre De Rosa.

Augusto DEL NOCE


Abbasso Mazzini (l'Azionismo)
tratto da: Il Sabato, 17.9.1988, n. 38, p. 25-27.

Polemiche. Del Noce processa l'Azionismo


C'è lui alle origini del laicismo che più ha informato il nostro
tempo. Le sue vittime? Anche Marx. I suoi frutti? La
secolarizzazione radicale. I suoi nemici? Cl innanzitutto

Per intendere Comunione e Liberazione in quel che ha di


propriamente suo, rispetto ad altri movimenti cattolici, occorre
previamente por mente al fatto che essa concresce, naturalmente in
forma di antitesi radicale, con la maggiore espansione della
scristianizzazione che si sia avuta nella storia d'Italia. A questo
termine tanto usato di scristianizzazione si tratta ora di conferire il
senso più preciso possibile. Non si tratta infatti di anticlericalismo,
fenomeno d'altri tempi, non foss'altro perché il potere della Chiesa
è oggi limitato e la situazione temporale dei sacerdoti non certo
invidiabile. Neppure, a rigore, di assenza di interesse religioso
perché invece è grande l'attenzione per le discipline occulte, per la
magia, per quanto sa di gnosi, per il misticismo eterodosso, e per
le religioni orientali. Sotto un certo rapporto la situazione presente
evoca i tempi della fine del paganesimo salvo che questi
coincidevano con l'affermarsi del cristianesimo, e ora non si vede
proprio quale nuova fede possa annunciarsi come salvatrice del
mondo.
Si tratta di un fenomeno previsto? Per niente affatto. Ancora
negli anni Cinquanta si poteva pensare ai travagli che dovevano
necessariamente accompagnare il realizzarsi di una «nuova
cristianità»; e in questo ideale molti tenevano fede. Ricordiamo
come Maritain, nel suo «Umanesimo Integrale» del '36, parlasse
delle due forze ideali tra le quali si sarebbe svolto nei decenni
successivi lo scontro finale, il cristianesimo nella sua forma pura e
il marxismo. Non si può davvero dire sia stato un buon profeta.

Il marxismo è pressoché scomparso, e a dargli il colpo


decisivo è stata la civiltà occidentale, e proprio nella misura in cui
si è allontanata dall'ideale di una «nuova cristianità». Il marxismo
poteva presentarsi come una nuova religione che surrogava il
cristianesimo ormai estinto, e la letteratura su questo suo aspetto è
sterminata, l'occidentalismo prescinde da qualsiasi fede.

È perciò che neppure si può parlare di un dichiarato ateismo, e


ciò, paradossalmente, proprio per la mancanza di fede. Piuttosto di
indifferenza. Ma anche qui bisogna intendersi sul tipo di
indifferenza di cui si tratta. Possiamo dire che molta parte dei
giovani si allontana dalla religione e, per quel che qui
particolarmente ci interessa, dalla fede cattolica perché la
considerano come un «passato»; perché sarebbe incapace di darci
delle regole che possano guidarci nel presente. È un giudizio
storico insomma, riguardante il mondo contemporaneo, quello che
sta alla base dell'irreligione presente.

Certamente, il regresso del senso religioso, è fenomeno


mondiale, o almeno riguarda tutti i Paesi occidentali. Tuttavia, si
particolarizza nelle varie nazioni; e il fatto che le forme del
cedimento siano analoghe, non dispensa dal considerare la
particolarità del caso italiano; e proprio nella sua considerazione si
ha la miglior prova che l'attribuzione della crisi così della fede
religiosa come del marxismo, che si è verificata negli anni recenti
all'imprevisto sorgere della società consumistica, non può bastare.

Appare chiaro invece che il cattolico dovrà parlare di una


subordinazione della cultura cattolica alla laica, vedere quindi nel
fenomeno della scristianizzazione il risultato di un errore di
pensiero che si è verificato ma che avrebbe potuto anche non
darsi, e che può essere sanato. Ma errore di quale cultura cattolica,
e sotto quale riguardo?

Gli anni intorno al Sessanta e i successivi sono stati quelli in


cui il programma di «apertura al mondo» della cultura cattolica è
sembrato avere il maggior successo. Sono gli anni in cui tutte le
precedenti condanne contro il «mondo moderno» sono state messe
in discussione, e non c'è stato scrittore modernista che non sia
stato rivalutato, né autore blasfemo in cui non si sia cercata una
nascosta religiosità, le sue bestemmie venendo spiegate come
rivolte contro il falso Dio, e gli occhi dei cattolici si sono
illuminati davanti a parole come «mondo» e «corpo».

Possiamo oggi dire che questa apertura non ha affatto


conseguito i suoi fini; e che i giovani guardano al cattolicesimo
senza acredine, ma con distacco. Come a quel passato a cui non si
può tornare, di cui si è detto dianzi.

Dunque: la ragione prima del distacco sta in una subalternità


della cultura cattolica alla laica rispetto all'interpretazione del
tempo presente.

Ma di quale laicismo si deve parlare? Nel giro di un secolo si


sono succeduti i laicismi più diversi, e molti di essi sono
scomparsi. La distanza dal laicismo carducciano è oggi di anni-
luce; e per il laicismo di tipo mazziniano, alla lettera, poco ci
manca. Ma lo stesso laicismo crociano che mezzo secolo fa aveva
tanto seguito in larghi strati giovanili - in quei giovani che allora si
scostavano dal fascismo - non trova più udienza; e quei giovani
hanno ormai passato i settant'anni, almeno i più.

Resta che le radici prime del laicismo presente devono essere


cercate in quel movimento culturale e politico che negli anni di
guerra e del primo dopoguerra si presentò come partito politico col
nome di Partito d'Azione, ricollegandosi, con questa stessa
denominazione, alla linea che nell'età del Risorgimento era stata
sconfitta, e che poi abbandonò la politica dei partiti per la politica
della cultura.

Fu l'unica forza politica che sorse in funzione della lotta contro


il fascismo e avendolo come avversario primo ed essenziale; che
tutte le altre forme di antifascismo gli preesistessero è troppo
evidente perché si debba parlarne. Questa sua singolarità merita
un'approfondita considerazione. Può sembrare che nel trattarne ci
allontaniamo dall'argomento che ci eravamo proposti. Non è così,
come si vedrà. E' stata la cultura politica a cui il Partito d'Azione
ha dato origine a influire in maniera decisiva, attraverso la sua
identificazione di modernità con laicismo assoluto, e a stabilire le
premesse per la subordinazione della cultura cattolica alla laica.
I suoi inizi devono essere cercati nell'interventismo
democratico-rivoluzionario della Prima guerra mondiale. Di
quell'interventismo la cui guida fu, dai giovani, vista in Mussolini:
allora «uomo nuovo», non ancora duce; e l'ispirazione era
mazziniana. Qui, una prima grande sorpresa: le radici
dell'Azionismo sono quelle stesse del fascismo, e questo spiega
perché le posizioni che ha assunto ne siano l'esatto rovescio;
perché debba vedere nel fascismo non un male, ma il «male del
secolo».

Quali erano le ragioni che giustificavano per questi discepoli


di Mazzini l'entrata in una guerra che certamente, per l'Italia, non
poteva venir detta difensiva, e senza la quale avrebbe ottenuto, con
i benefici della pace, pressoché tutto quel che le venne dato dalla
vittoria? La lotta contro l'Austria-Ungheria si prospettava loro
come quella che portava alla distruzione di ciò che restava del
Sacro Romano Impero; del potere temporale che era il
corrispettivo di quel che nello spirituale era la Chiesa Cattolica
Romana, così che la fine dell'uno avrebbe portato con sé l'agonia
dell'altra; e la parola democrazia veniva usata, dai suoi assertori, in
un senso che implicava una concezione della vita opposta a quella
visione trascendente che importava le investiture sacrali; e se si
parlava di religiosità, era nel senso della religiosità mazziniana,
richiamata allora a nuova vita contro l'agnosticismo giolittiano.

Dopo la fine della guerra, però, questa unità si scisse; e per


una parte di essa, relativamente esigua, moralmente intransigente,
Mussolini diventò il «traditore» come colui che era venuto a
compromesso con il nazionalismo, con la monarchia e soprattutto
con la Chiesa. E questa parte, dopo aver dato origine, in esilio, al
movimento di «Giustizia e libertà», distinguendosi così dai liberali
come dai socialisti, ma affermando la verità di entrambe queste
verità moderne e ponendosi in una posizione concorrenziale
rispetto al comunismo, per ciò che propugnava la sintesi di
liberalismo e di socialismo, e non la negazione del primo in nome
del secondo, credette per qualche anno, dal '42 al '46, di poter
avere successo come partito politico. La stessa intransigenza nei
principi, e l'avversione ai compromessi, rende conto dell'integrità
morale dei suoi maestri, di un Salvemini, e poi, di Gobetti e dei
fratelli Rosselli; ma l'integrità morale non basta per rendere giusta
una linea religioso-politica.

Il dire che il fascismo non fosse sviluppo di posizioni politiche


precedenti, non voleva certamente significare per gli Azionisti, che
non avesse le sue origini in certa letteratura irrazionalistica e
tardoromantica dell'ultimo Ottocento e dei primi anni del
Novecento e che bisognasse andare più in là per vederci la
«rivelazione» di vizi che si erano stratificati nel la storia italiana
da secoli, dalla Controriforma in poi. All'Italia era mancata la
Riforma, poi il Risorgimento era parzialmente fallito perché la
conquista regia si era sostituita all'insurrezione popolare. La
rivoluzione antifascista avrebbe dovuto porre fine a questi ritardi
dell'Italia nei riguardi della storia.

Perciò il Partito d'Azione si presentò negli anni della


Resistenza come il perno di quella coalizione dei partiti
democratici che si era formata allora contro il comune avversario
nazifascista e che aveva preso il nome di Comitato di Liberazione
Nazionale; perno in quanto rappresentava un liberalismo che
aveva fatto propria la verità del socialismo e un socialismo che
aveva consentito alla verità del liberalismo, nonché la speranza in
una rivoluzione ulteriore e superiore, e più adeguata all'Italia, di
quella comunista, e l'esigenza dei cattolici di riconoscersi nella
democrazia; così da essere la forza capace di trasformare la lotta
per la liberazione nazionale in quella rivoluzione democratica di
cui l'Italia aveva bisogno.
Nella pratica le speranze andarono deluse, e il partito si sciolse
poco più di un anno dopo la fine della guerra. Mi si può
domandare, dunque, perché conferisca tanta importanza, per la
spiegazione della situazione morale di oggi, a un partito che più di
quarant'anni fa era stato sconfitto, ed era scomparso.

La verità è che non era affatto scomparso, e che aveva capito


di dover cercare il successo, non nella politica elettorale dei partiti,
ma nella politica della cultura. Dalla politica intesa nel senso
corrente era passato all'azione educativa. Ci si può domandare fino
a che punto ci sia riuscito. Quel che penso è che la sua influenza
sia stata decisiva nell'enorme cambiamento che si è verificato nel
costume italiano.
Ma in nome di quale cultura ha operato? Ho fatto dianzi il
nome di Mazzini come della guida ideale a cui si richiamava la
gioventù interventista democratico rivoluzionaria della Prima
guerra mondiale. In seguito, la sua fortuna è impallidita. Negli
anni del primo dopoguerra era avvenuta la frattura di tale
interventismo tra fascisti e antifascisti; anche i fascisti si erano
appellati a Mazzini, e il maggiore tra gli intellettuali che avevano
aderito al fascismo, il Gentile, aveva unito il suo nome a quello di
Gioberti per designare entrambi come «i profeti del Risorgimento
italiano» (titolo di un suo libro apparso nel 1923); e non senza una
certa ragione, dato che Mazzini si presentava pur sempre come il
profeta della «Terza Roma», e con ciò di una sorta di primato
italiano. Con stretta correlatività era sorto nell'antifascismo
l'orientamento verso Cattaneo, e la preferenza per quest'altro
pensatore risorgimentale si annuncia già in Gobetti.

Successivamente avviene la separazione dal laicismo crociano.


Gran parte degli intellettuali giovani degli anni Trenta avevano
guardato a Croce come al pontefice della «religione della libertà»,
come laici e come antifascisti. Nella sua «Storia d'Europa nel
secolo decimonono», del 1932, Croce aveva contrapposto la
moderna religione della libertà alle religioni della trascendenza, e
alla cattolica in particolare: e al carattere conservatore del
liberalismo crociano essi non avevano portato molta attenzione
perché, in anni in cui l'avanzata del fascismo sembrava
inarrestabile, l'antifascismo assumeva un carattere morale
piuttosto che politico. Ma poi Croce aveva condannato il Partito
d'Azione. Ed effettivamente i due laicismi erano del tutto diversi:
quello di Croce era un laicismo della «restaurazione del divino»
nel mondo dell'immanenza, dopo che venivano pensate come
definitivamente spente, dal punto di vista del rigore filosofico, la
fede nel Dio trascendente e nell'aldilà. Dunque, un laicismo
rispettoso del cattolicesimo, di cui voleva prendere il posto tra i
filosofi e presso gli storici; e la sua posizione anticattolica dei
primi anni Trenta si spiega con l'atteggiamento rispetto al
Concordato del '29: la conciliazione di diritto tra lo Stato italiano e
la Chiesa aveva sostituito quella conciliazione di fatto che pensava
di avere promosso con la sua filosofia.

L'abbandono di Mazzini era l'abbandono della teologia


politica, quello di Croce della ricerca della restaurazione del
divino: l'avversario diventava lo «spiritualismo», sinonimo di
un'«ideologia italiana», significante una chiusura rispetto al
processo di civiltà e di cultura quale si svolgeva nel resto del
mondo, accompagnato da una pretesa di superiorità, a cui anche il
più europeo degli intellettuali, Croce, aveva finito col fare
concessioni. Ma l'egemonia di Croce, dopo aver resistito a tanti
attacchi, sembrava aver ceduto alle critiche di Granisci, che aveva
mostrato la presenza nel suo pensiero di un'unità inscindibile di
teologia, spiritualismo, conservatorismo; e questa critica poteva
ben essere utilizzata isolandola dal marxismo, del resto sui
generis, di Granisci. L'apertura al mondo, per gli Azionisti passati
alla politica della cultura era dunque rifiuto, insieme, di
tradizionalismo italiano e di teologismo così mazziniano come
crociano e come marxiano. L'Azionismo ritrovava e riabilitava,
dopo le condanne crociana e gentiliana, la disposizione
illuministica, nei termini di lotta tra modernità e arretratezza, tra
progresso e reazione. E come era già avvenuto nella grande crisi
della cultura europea 1670-1715, in cui l'illuminismo aveva
trovato i suoi inizi, le opere venivano apprezzate soprattutto per il
potere di negatività che avevano nei riguardi di un costume
solidificato nella tradizione cattolica. Si trattava di distruggere
quell'egemonia cattolica che ancora si esercitava sul costume
popolare. Si consideri la sterminata pubblicistica laica, nei tanti
suoi livelli: la nota unitaria è questa, che i «divieti» della vecchia
morale cattolica (in realtà, i Comandamenti) appartengono a un'età
irrevocabilmente passata, così da non dover più venire
menzionata, neppure come oggetto di critica.

La politica della cultura promossa dal laicismo italiano si è


quindi risolta in un Kulturkampf contro il costume cattolico, inteso
nella sua integralità: e si è visto come tutti i suoi momenti siano
legati da un vincolo necessario.

Ma come ha potuto stabilirsi una subalternità della cultura


cattolica a questo laicismo? Come certi laici hanno potuto pensare
di conquistare certe élites cattoliche? Ma il Kulturkampf recente
mirava a realizzare una divisione fra i cattolici: tra coloro che
restano ancorati alla tradizionale condanna del mondo moderno e
coloro che, invece, pensano a una riforma capace di adeguare il
cattolicesimo a certe irrinunciabili conquiste di esso; alla
divisione, insomma, tra integralisti e progressisti, per usare la
terminologia corrente che non fu inventata dagli Azionisti, ma che
ben conviene col loro modo di pensare. Questa divisione, quando
si riesca a realizzarla, rappresenterebbe la migliore possibilità per
infliggere al cattolicesimo un colpo decisivo.

I tradizionalisti sarebbero, si ha il diritto di pensarlo, i vecchi


destinati a scomparire per la legge inesorabile della vita; i giovani
e i progressivi si troverebbero in una posizione contraddittoria per
l'incompatibilità ideale tra modernità e cattolicesimo; si
inizierebbe in loro un processo che presto o tardi dovrebbe portarli
fuori dalla fedeltà alla Chiesa. Ma come realizzare questa
divisione? Ha molto influito una passiva accettazione, in larga
parte della cultura cattolica, della tesi del fascismo «male del
secolo», nella forma almeno dei giudizi che ne conseguono.

Questa elevazione indebita del fascismo a categoria


metastorica è costruzione di un mito e i mali che ci minacciano
oggi - in particolare quelli che minacciano i valori cattolici - non
sono affatto riportabili al fascismo o a sue radici che sarebbero
ancora presenti, dopo la fine del fascismo storico; e se si parla dei
vizi e dei difetti del vecchio italiano, essi hanno continuato ad
agire più di quanto abbiano fatto sotto il fascismo, e ciò non per
opera di più o meno consapevoli fascisti; e il fascismo è
storicamente - il tempo storico non si identifica col cronologico -
estremamente lontano. E tuttavia di questo mito non ci si può
liberare che analizzandone la genesi, dato che la sua forza di
penetrazione è stata tale da costituire il cardine della politica
italiana del dopoguerra.

Quali sono state le conseguenze che ha esercitato sui cattolici


e in particolare sulla Dc? E non è riportabile alla sua accettazione
l'infausta divisione tra integralisti e progressisti? Che ci siano state
illusioni di cattolici rispetto al fascismo italiano, anche in ambienti
assai autorevoli, che lo scambiarono per una sorta di forza
provvidenziale che inconsapevolmente avrebbe agito in modo da
eliminare i nemici storici del cattolicesimo - liberalismo,
socialismo, massoneria - e da preparare così la condizione per la
restaurazione di una cristianità sacrale, è indubbio. In successivi
anni si formò l'idea che, se un tale errore aveva potuto prodursi,
esso conseguiva a radicate abitudini cattoliche di vedere il male in
tutte le espressioni della modernità, per riguardo alla politica dalla
Rivoluzione francese in poi; che questo errore aveva le sue remote
origini nella Controriforma; e che quindi urgeva una nuova
radicale riforma del cattolicesimo senza la quale non poteva farsi
udire dall'uomo d'oggi; per questa via era facile giungere
all'affermazione, da qualcuno pronunziata, che il maggior nemico
era, per i cattolici, all'interno dello stesso cattolicesimo più
ortodosso nella forma dell'integralismo; e per l'Italia è facile
vedere come si tratti della trascrizione inconsapevole all'interno
del pensiero cattolico di quella visione della storia italiana che era
propria dell'Azionismo.

Vediamo ora il modo in cui questa assunzione della «lotta


contro l'integralismo» a principio direttivo primo si rifletta nella
politica dei cattolici democratici La definizione di integralismo è
così ampia da condurre a giudicare che quei cattolici che ancora
pensino a un'«ideale città cristiana» sarebbero oggi portati a
consentire a regimi autoritari, perché non potrebbero non vedere di
miglior occhio la sanzione dei «divieti» che la promozione della
libertà; l'asserzione della democraticità sarà quindi connessa con
l'affermazione della laicità come neutralità ideale della politica;
certo, ci sarà spazio per la fede, ma questa, dono dell'insondabile
grazia divina, non avrà a che fare con la politica. Si dirà anzi che il
cristiano, perché ripone l'oggetto della fede in un Dio
trascendente, si trova nelle condizioni migliori per affermare e
praticare questa politica separata dalle ideologie.

Riferita invece alla realtà di oggi, ha il significato del


consenso dei cattolici alla società tecnocratica, appunto misurata
da un sapere tecnico indifferente ai valori, al di fuori da quello
dell'efficienza; società che non è senza ideologia, ma ha
un'ideologia sua propria in quell'agnosticismo che è la forma della
secolarizzazione presente. Alla società tecnocratica si arriva per
diverse vie: abbiamo già visto come vi giunga, contro l'intenzione
originaria, l'Azionismo; può giungervi la Democrazia cristiana,
non certo in ragione di una fedeltà alla dottrina sociale della
Chiesa ma in quanto, di fatto, si è subordinata a
quell'interpretazione della storia contemporanea che l'Azionismo
ha coerentemente svolta.

Si parla spesso di Cl come se rappresentasse un'attardata


resistenza di cattolici al processo di democratizzazione. In realtà il
suo punto di partenza è la constatazione dell'eterogenesi dei fini a
cui sono state soggette le grandi idealità rivoluzionarie
dell'Ottocento; per cui esse, nel farsi storia, hanno realizzato non
qualcosa di diverso, ma l'esatto opposto delle intenzioni dei loro
iniziatori. Profeti sono stati detti, assai spesso, così Mazzini come
Marx. Il corso del nostro secolo ha mostrato come le loro profezie
fossero false.

Dell'eterogenesi dei fini a cui il marxismo è stato soggetto si è


spesso parlato. Ma lo stesso discorso si deve tenere nei riguardi
dell'altro maggiore rivoluzionario dell'Ottocento, Mazzini; e qui si
è voluta dare la traccia del discorso che dovrebbe essere condotto.

Anche se certe tesi possono sembrare singolari come quella


per cui nel fascismo e nell'Azionismo si vedono le forme in cui
deve frangersi il mazzinianesimo dopo la Prima guerra mondiale;
opposizione mortale, certo, ma in qualche modo simmetrica à
quella tra Stalin e Trotzkij e sarebbero da mettere in luce le
analogie tra le critiche dell'Azionismo al fascismo e quello del
trotzkismo allo stalinismo.

Né i ciellini sono certamente i soli a parlare della necessità di


ritrovare questa religiosità della politica; nella cui assenza il
pluralismo democratico si risolve nella molteplicità delle volontà
egoistiche, i rapporti tra esse diventano rapporti di forza. Se la
risoluzione della politica in rapporti di forza è il carattere del
totalitarismo, la minaccia presente è quella di un totalitarismo di
tipo nuovo, che non è affatto la ripetizione dei modelli staliniano o
hitleriano o fascista.

Se certamente c'è in CL una ripresa dell'aspetto più


profondamente tradizionale della comprensione cattolica della
storia, ciò avviene però per una sensibilità più affinata ai caratteri
di novità della storia presente.
Del Noce Augusto, Del Noce e Mazzini (Il Sabato 1.10.1988,
n. 40, lettere)

Ho visto con ritardo il numero del 11 settembre. Il titolo che


avete voluto dare al mio articolo ivi apparso (Abbasso Mazzini)
rischia di alterarne il significato.
Voleva infatti avere un carattere esplicativo, non
immediatamente, e se mai, solo subordinatamente polemico.
Intendeva spiegare in che consista e come si sia prodotta una
subalternità della cultura cattolica alla laica rispetto
all'interpretazione del tempo presente. Per definire gli aspetti
dell'attuale laicismo italiano, risalivo alla cultura del Partito
d'Azione; e cercavo di mettere in luce la completa eterogenesi dei
fini a cui la sua intenzione di riforma intellettuale e morale è
andata soggetta.
Perché hanno indubbiamente ben ragione coloro che
quarant'anni fa militavano in quel partito a non riconoscersi
nell'Italia di oggi. Dove sbagliano è nel credere che la loro cultura
non abbia attinto l'opinione e il costume mentre invece li ha
permeati: alla maniera in cui una cultura di intellettuali poteva
farsi «pedagogia per il popolo». Non quindi, «processo»
dell'Azionismo, almeno nel senso polemico del termine, ma
giudizio storico su di esso: Cl, a mio modo di vedere, viene dopo
l'Azionismo e il suo scacco, prima che contro.
Rispetto a Mazzini ogni «abbasso», pronunziato oggi, è
totalmente privo di senso: s'incontra Mazzini quando si cercano le
origini prime del laicismo italiano contemporaneo, che però nel
lungo suo processo ha del tutto abbandonato le tesi che egli aveva
enunciato. Nel mio articolo avevo parlato della distanza di anni-
luce che separa il laicismo presente da quello mazziniano,
La giovinezza che vi invidio può farvi preferire la polemica:
ma è miglior consiglio cercare di non anticiparla e preferirle,
finché è possibile, la comprensione e la chiarezza delle idee.
Molto cordialmente.
Augusto DEL NOCE
I lumi sull'Italia
tratto da: Il Sabato, 17.6.1989, n. 24, p. 39-41.

Dalla Francia del Settecento alla Finlandia del dopoguerra. E'


l'itinerario dell'alternativa occhettiana

E' un discorso che dura da più anni, e che può ben venire
riassunto in forma brevissima. Sapendo che il loro posto è a
rischio, i politici diventeranno più bravi. La scomparsa delle
ideologie toglierà quell'argomento del minor male che è stato fino
ad oggi il maggiore ostacolo a questa alternanza. Il partito che per
più di quarant'anni ha tenuto la maggioranza relativa acquisirà il
maggiore dei suoi meriti politici nel dichiarare come suo scopo
democratico la possibilità di essere sostituito: all'idea ormai
perduta di cristianità sostituirà dunque quella della democrazia
compiuta; ogni ombra di medievalismo e di confessato ideale
teocratico sarà così cancellata. Questo, nella versione cattolica;
nella versione laica, indubbiamente più carente, il momento
presente potrà essere definito come quello della vittoria di
Bentham su Marx, e la letteratura del neoutilitarismo oggi
abbonda. Ma lascio la tentazione di questo più lungo discorso,
anche perché non vorrei essere accusato di un delirio di
ammirazione per Marx, se pur limitato al suo giudizio di estrema
durezza sull'utilitarista inglese. Mi limiterò quindi oggi a smontare
questo ragionamento, per mostrare che cosa in concreto significhi
questa magica parola di alternanza; e per passare di qui a vedere in
che cosa il presente compito politico dei cattolici debba differire
da quello di ieri.

Risaliamo perciò all'immediato dopo-guerra. L'alternativa si


configurava allora nei termini di democrazia e di totalitarismo.
Alla minaccia totalitario-comunista corrispondeva la coalizione
dei partiti democratici; il cui asse non poteva essere che il partito
dell'unità dei cattolici, non soltanto per la sua forza di partito di
massa, ma perché dal regime totalitario-ateo i cattolici erano
minacciati nell'anima. Di più, l'antitesi negli anni Cinquanta
prendeva l'aspetto di civiltà cristiana e di totalitarismo. Croce e De
Gasperi si incontravano. E per Croce, che nei primi anni Trenta
aveva definito quali «fedi religiose opposte» la religione della
libertà e il cattolicesimo, e consegnato il compito della storiografia
anticattolica al fido Omodeo, aveva cangiato avversario. Chi
avanzava era ora, per lui, nel 1946, l'«Anticristo che è in noi»;
minacciata, la prima volta nei secoli, era quella civiltà cristiana, a
cui partecipavano cattolici e laici. Il quadripartito dei primi anni
Cinquanta, fondato su valori morali comuni (che non avevano
niente a che fare con quei valori comuni di cui si parla oggi) aveva
teorici, insieme, Croce e De Gasperi.

Repubblica delle lettere

Tutto è lentamente mutato nel giro di un pò più di trent'anni e


se nel campo della storia vale il principio dell'analogia, oggi il
riscontro pieno è con la Francia dell'età dei lumi.

Anche allora c'era uno Stato legale ufficialmente cattolico


(oggi, un governo cattolico), e al di fuori, una società guidata nei
suoi giudizi da una Repubblica delle lettere, potenzialmente al di
sopra dello Stato; questo termine si era diffuso ai primi del
Settecento, e perché non possiamo riprenderlo oggi che l'analogia
è tanto stretta? Oscillante tra il deismo e il completo ateismo,
sempre anticattolica e sempre libertina, e i libri libertini di allora
sono diventati i modelli della letteratura di oggi. Anche allora c'era
una censura ufficiale, di cui poco o nulla si avvertiva l'esistenza (e,
francamente, non so neppure se oggi continui formalmente ad
esistere); e una censura reale, quella della Repubblica di cui si è
detto, che di fatto impediva la circolazione delle pubblicazioni che
suonassero critica per le opere offensive della religione (non si ha
su questo punto che da consultare l'opera sulla Rivoluzione
francese del Gaxotte, oggi per fortuna di larga diffusione), e
promuoveva invece di queste la più larga circolazione; e il nome
di questo strano censore è ben conosciuto, il Malesherbes. Questa
Repubblica delle lettere si fece poi Repubblica politica attraverso
la Rivoluzione; trovò un ostacolo, che oggi non troverebbe più, nel
virtuista Robespierre (l'antirobespierrismo laico è fenomeno
corrente nella tanto ampia letteratura di questi tempi sulla
Rivoluzione francese).

Ma passiamo ora alla situazione presente: la dualità tra


Repubblica delle lettere e Repubblica politica si è determinata in
relazione a una carenza culturale del partito dei cattolici. Ogni
forza politica, in barba a coloro che si trastullano con la fine delle
ideologie, e che soprattutto si trovano tra certi democristiani di
sinistra, si fonda su un'interpretazione della storia presente; e
bisogna pur dire che due interpretazioni hanno dominato per
quarant'anni: quella marxistico-rivoluzionaria e quella laica della
modernizzazione. Per la seconda, che è poi la cultura prevalente
nei salotti, come già lo era nel Settecento, i miti religiosi
appartengono al passato, e sono ormai oggetto di quella particolare
disciplina che è la storia delle religioni; e i termini dell'età post-
cristiana e quelli equivalenti dell'età post-moderna sono correnti
anche nella pubblicistica del più inferiore dei livelli. Quanto a una
notevole parte della cultura cattolica, vi si aggancia, ravvisando il
maggior nemico nell'integralismo, piuttosto che in qualsiasi forma
di empietà e di vizio.
Il nuovo CLN

Tuttavia il passaggio alla conquista della Repubblica politica


era ancora lontano, sino a poco tempo fa. Il laicismo della nuova
borghesia non poteva accordarsi col totalitarismo comunista. E
siccome un certo accordo politico con i cattolici era necessario,
l'avversario essenziale restava, per convenzione, e sempre più
raramente pronunziato, il fascismo mascherato in forme di destra.

È a questo punto che possiamo renderci conto della fisionomia


—la sola— che la possibile alternanza potrebbe avere: il
rovesciamento delle alleanze per cui le forze laiche,
abbandonando la Dc, e coalizzandosi contro di essa, così da
rinviarla all'opposizione, stabilirebbero il nuovo patto col
comunismo. Il suo precedente storico sarebbe il Comitato di
liberazione nazionale, ritornante oggi in una situazione di pace.
Cln voleva infatti dire modernizzazione; prima agiva, nel sangue,
contro il reazionario fascismo, ora, in clima di tolleranza del
passato e dell'errore, contro il cattolicesimo. Nella tomba,
quell'Augusto Monti che fu il teorico filo-comunista più rigoroso
del Partito d'azione, vedrebbe realizzata la sua idea; il suo vecchio
libro del '46 «Realtà del Partito d'azione» acquisirebbe il
significato della profezia. La nuova alleanza sarebbe resa possibile
da quella democratizzazione del comunismo di cui tanto si parla.
Ma questo è un punto, reale, su cui però occorre intendersi. Non si
tratta affatto di una sopraggiunta persuasione del valore della
democrazia liberale. Il mutato patteggiamento consegue soltanto
alla caduta, questa sì irreversibile, della fede nella rivoluzione
universale, dell'idea della nuova religione che deve ammazzare il
cristianesimo, secondo la frase del giovane Gramsci; il
comunismo democratizzato è il comunismo senza religione, senza
più neanche la religione secolare; può ben perciò allearsi con il
laicismo radicale, nella forma soprapartitica e sopranazionale di
cui parla Pannella; può soprattutto allearsi con i nuovi potentati
economici, accordo che sembra certamente favorito dalla politica
gorbaceviana. Negli ultimi discorsi, talvolta di presunti competenti
sulla sua novità, mi pare si dimentichi troppo spesso un dato
essenziale: che Gorbacev è uno statista e che compito dello statista
è quello di accrescere la potenza del proprio Paese. Se si considera
questo, ci si accorge quanto la sua politica sia obbligata.

La vera casa comune

Già prima che egli venisse al potere si era detto che la forma
di predominio che la Russia sovietica avrebbe inteso esercitare
sull'Europa doveva prendere la forma obbligata della
finlandizzazione. Segue oggi la conferma. Quale poteva essere la
linea della politica sovietica dopo che il sogno della rivoluzione
mondiale si era rivelato vano, e dopo che la ricerca di un dominio
dell'Asia ha mostrato difficoltà insormontabili (lasciando da parte
che l'obiettivo primo della politica russa è stato sempre il dominio
sull'Europa): evidentemente, se si voleva evitare la
mummificazione, la sola via restava la ricerca dell'ingresso nella
«casa comune europea» in funzione di primato. Ma questa nuova
Europa dell'alleanza del comunismo e del mercato deve
cancellare, in ragione della sua novità, le tradizioni che possono
esserle di ostacolo: la cattolica anzitutto, e poi le tradizioni
nazionali. È la novità che lo impone, attraverso una tolleranza
davvero repressiva, come si diceva ai tempi della contestazione.
Su questo punto Urss e nuovi feudi possono andare d'accordo.
Certo questa alternanza, di cui già nel discorso di Visentini si è
vista la trama, non è cosa immediata nè facile. Soprattutto non è
facile comporre socialisti e comunisti. Resta che l'alternanza non
potrebbe essere che questa, e che è possibile. Sino ad oggi i
cattolici impegnati in politica si sono occupati pressoché soltanto
della difesa della democrazia, quasi che soltanto essa fosse
minacciata; e rispetto alla politica della cultura e del costume il
loro interesse è stato, per usare una frase benevola, scarso. La
minaccia è oggi più sottile e profonda, e bisogna sapere ben usare,
per fronteggiarla, del tempo che l'alternanza ci lascia ancora a
disposizione.

Augusto DEL NOCE


Il Padrone del mondo
tratto da: 30 Giorni, gennaio 1988

"Gli pareva tutto un mondo da cui Dio stesso aveva voluto


ritirarsi, dopo averlo lasciato nella più completa soddisfazione di
sé, privo di fede e di speranza". Questa è la percezione che il prete
Percy Franklin ha del mondo contemporaneo, mentre impiega
nella riflessione sulla sua esperienza il tempo del viaggio in aereo
da Londra a Roma, ove conta di persuadere il Papa ad
ammodernarsi; ne esce invece con una fede ritrovata più viva e più
profonda.
Dico "mondo contemporaneo"; ma la frase, così come la
figura del prete, appartiene ad un romanzo fanta-politico-religioso
che apparve giusto ottant'anni fa, nel 1908, «Il Padrone del
mondo», che oggi l'editrice Jaca Book ripresenta in una accurata
traduzione. Se non mi sbaglio un'edizione italiana era già apparsa,
con scarso successo, negli anni Venti; ma in verità, nonché allora,
questo libro non poteva venire realmente inteso neppure nei più
recenti esempi, nel momento della grande offensiva del marxismo,
e poi in quella della rivoluzione sessuale. Dire che per i cattolici la
cosa che più è da temere è "la forza immensa che sa esercitare
l'umanitarismo" con la sostituzione della filantropia alla carità e
della soddisfazione alla speranza, e condurre l'intero libro sul
fondamento di quest'idea, appariva anche in anni prossimi una
sorta di paradosso di scarso volo; umanitarismo era parola che
sapeva di università popolari di tipo arcaico. Eppure oggi che il
marxismo è in un declino irreversibile, sino al punto che si rischia
di essere ingiusti rispetto alla sua reale potenza filosofica, e che la
rivoluzione sessuale e la combinazione marx-freudiana segnano il
passo, la lotta contro il cattolicesimo avviene proprio sotto il
segno dell'umanitarismo.
Che cosa si chiede ai cattolici, oggi, da qualsiasi parte, se non
la riduzione del cristianesimo ad una morale, in se separata da
ogni metafisica e da ogni teologia, capace nella sua autonomia e
nella sua autosufficienza di raggiungere l'universalità e fondare
una società giusta? Anzi questa morale sarebbe pure capace, come
vien detto nel passo pubblicato nelle pagine che seguono, di "porre
fine alla secolare divisione tra Occidente e Oriente", come infatti
si sta tentando. Questa morale universale è tollerante: ammette che
qualcuno, il cattolico appunto, possa aggiungere una speranza
oltremondana, specificamente religiosa in senso trascendente; e se
se ne sente vitalizzato nell'esplicare la sua azione pratica, umana,
bene; essere cattolici per gli umanitari è questo. Ma gli viene posta
una condizione, quella di riconoscere che la sua fede e la sua
speranza sono appunto un'"aggiunta"; etica e politica prescindono
da ogni professione religiosa; l'essere consapevoli significa
lavorare per l'unione degli uomini di buona volontà; la fede,
insomma, rischia di dividere, mentre l'amore, associato a una
scienza valida per tutti, unisce. Tale communis opinio, ricordata
come tesi massonica essenziale anche in questo libro e che fu già
luogo comune dei professori di filosofia morale del tardo
Ottocento, ritorna oggi.
Ancora una volta viene riaffermata la celebre distinzione tra
cattolici integristi e progressisti. Già su di essa si erano fondati i
cattocomunisti di dieci anni fa, per proporre una sorta di
ghettizzazione degli integristi sotto forma di "esclusione dal
secolo", con la giustificazione ipocrita che "si sono autoesclusi
rifiutando il dialogo"; oggi, attitudine identica è proposta dagli
assertori del dialogo "ecumenico" cattolico-massonico. C'è una
morale unitaria, suscettibile di venir declinata in linguaggi diversi;
anche in quello cattolico, e la formulazione cattolica è ammessa
purché... Le condizioni sono già state dette: e permane in una delle
parti dialoganti la persuasione che i primi anni del terzo millennio
debbano vedere la fine del cattolicesimo nella forma di eutanasia.
O meglio: il cattolicesimo dovrebbe essere ricompreso
nell'ecumenismo massonico, e in questo senso la massoneria può
presentarsi oggi, e lo fa, come il più moderato dei laicismi; il
cattolicesimo non è perseguitato ma, appunto, ricompreso; a certe
condizioni; nell'ecumenismo umanitario può ben sussistere la
sezione di rito cattolico.
La lettura di questo libro mi ha riportato in mente un saggio
che ha esercitato su di me una suggestione decisiva negli anni
giovanili, e che mai ho dimenticato, «Il risentimento nella genesi
delle morali» di Max Scheler pubblicato nel 1912 e ampliato e
rimaneggiato nel 1919. Scheler vi definisce con tale precisione che
non c'è più nulla da aggiungere, la radicale eterogeneità di natura
tra l'amor cristiano e l'umanitarismo. L'amor cristiano è fondato
sull'idea di Dio, non soltanto creatore, ma creatore per amore; di
qui l'armonia cristiana dei tre amori, di Dio, di sé e del prossimo,
in quanto le realtà mondane stesse sono espressioni dell'amore di
Dio; l'amore cristiano, insomma, è concentrato sul "divino"
nell'uomo. Il fatto che la morale che ne consegue sia
indissolubilmente legata alla visione religiosa del mondo e di Dio
spiega come siano falliti tutti gli sforzi per darle un senso laico,
distinto nel senso religioso, per trovarci i fondamenti di una
morale "umana" universale o di una morale "senza presupposti
religiosi". Pure storicamente l'equivoco è stato molto diffuso; la
polemica di Nietzsche contro il cristianesimo suppone che esso sia
anzitutto una morale, sostenuta dall'esterno da una giustificazione
religiosa, e non anzitutto una religione; confonde cristianesimo
con umanitarismo, forma di pensiero contro cui invece la sua
polemica è valida.
L'umanitarismo invece, proprio perché prescinde dal "divino"
nell'uomo deve dirigersi non più sulla personalità dell'uomo nella
sua singolarità, ma sulla umanità come collettività e sui tratti
generici che la definiscono; quando parla dell'amore, lo riduce a
un fattore che contribuisce all'aumento del benessere sensibile.
Partendo da questa netta distinzione Scheler giungeva ad
osservazioni pertinentissime che si attagliano perfettamente alla
società presente; così quella secondo cui il destino
dell'umanitarismo sarebbe di fissarsi sugli aspetti più bassi e più
animali della natura umana, cioè appunto, anziché sulla persona,
sui caratteri che tutti gli uomini hanno in comune; di mascherare
sotto le apparenze di "comprensione" e di "umanità" un vero e
proprio odio per tutti quei valori che oltrepassino la sfera del vitale
e siano perciò relativi. E' quel che è confermato oggi dal diffuso
scherno che viene usato contro gli aggettivi "assoluto" ed
"esterno" quando vengono riferiti ai valori e che ha le sue ragioni
ultime, nascoste, proprio nella sostituzione della morale
"umanitaria" alla religione. O si pensi a questa sua stupenda
osservazione: "...i santi della storia che, nella concezione cristiana,
rendono sensibile il Regno di Dio stesso, non sono più ormai quei
grandi «esemplari», che permettono all'«umanità» di orientarsi, e
che facendo parte del «genere» umano servono ad elevarlo; non
sono più che dei servitori del maggior godimento sensibile delle
masse". Quel che interessa in questo passo è indubbiamente il
duplice diversissimo senso che assume la parole "servizio" nelle
due concezioni, massimamente nobile nella prima, affatto plebeo
nella seconda: in quel che oggi è il senso politicamente prevalente,
il servizio viene riferito a quel che la massa (o, eufemisticamente,
la gente) chiede, e che non fa certo parte dell'elevazione; e quali
siano gli idoli e i miti che hanno sostituito i santi lo sappiamo. I
"servizi" non vengono certo ordinati a quel che nell'uomo c'è di
"divino", e in questa breve frase si può riassumere la crisi presente
nella democrazia.
Dire che l'organo dell'umanitarismo sia la massoneria non è
esprimere un giudizio di valore negativo, ma pronunziare una
constatazione di fatto; e neppure si vuol negare che nella
massoneria originaria si pensasse al rispetto di una legge morale
unica; resta che oggi, di fatto, l'idea di questa unica legge morale è
venuta meno e le si è sostituita una pluralità irriducibile di criteri
pratici o di tipi di realizzazione; e che gli stessi "valori comuni",
come il "non uccidere" o il "non rubare" sono intesi, nell'assenza
del riferimento religioso, non come imperativi morali, ma come
condizioni necessarie della funzionalità sociale.
L'umanitarismo è ricomparso in termini di pacifismo (altra
cosa della volontà morale di pace) al momento del venir meno
degli ideali, quale si è verificato negli ultimi decenni; dell'ideale
della rivoluzione comunista per un verso, della crisi della
coscienza religiosa per l'altro. All'idea di rivoluzione mondiale, o
all'opposto, di un risveglio religioso di cui certamente rimane
tuttora la speranza, si è sostituita l'accettazione della diarchia delle
superpotenze, e all'idea della morale quella delle tecniche della
razionalità sociale. Poiché l'umanitarismo, quali che fossero le sue
intenzioni iniziali, deve concludere in una tecnica del benessere
largodiffuso, non ci si deve meravigliare se oggi la massoneria si
ripresenti come custode del presente stato di fatto; uno stato di
fatto che, forse, nelle condizioni morali presenti rappresenti una,
seppur augurabilmente temporanea, necessità; ma a cui i cristiani
non possono consentire.
Il romanzo del Benson mostra una capacità di previsione che
rasenta la profezia; se ho voluto unire in commento di esso, e
particolarmente delle sue pagine qui riportate, a quelle di uno
scritto dello Scheler nel suo periodo migliore, è perché mi è parso
che, non diretto nel momento in cui fu redatto a previsioni, ne
confermi filosoficamente il senso; illustri il processo necessario
per cui l'umanitarismo sia diventato oggi il più pericoloso
avversario del cristianesimo, e perché la rivolta anticristiana del
nostro secolo trovi in esso il suo sbocco.
Augusto DEL NOCE
Filo rosso da Mosca a Berlino (Hitler - Stalin)
tratto da: Il Sabato, 11.4.1987, n. 15.

Il dibattito su Gulag e Lager. Cosa accomuna due tragedie.


Interviene Augusto Del Noce.
Hitler e Stalin hanno un tabù in comune: il male. Avrebbero
voluto dominarlo, estirparlo dalla storia. Chi identificandolo in
una razza, chi in una classe. Perciò dire che Auschwitz rappresenta
qualcosa di qualitativamente diverso dai kulaki è illegittimo.
Un grande storico del pensiero spiega perché.

Il Sabato ha dato ampio spazio alle controversie recenti


riguardanti i genocidi che furono compiuti all'insegna della libertà,
durante la rivoluzione francese (vedi Il Sabato n. 12, 1987) e tale
contesa, destinata a essere oggetto essenziale del secondo
centenario dell'89, è stata giustamente collegata con una polemica
che si è svolta lo scorso anno in Germania nei riguardi della
comparabilità o meno dei lager sovietici e dei lager nazisti (1). In
questo loro incontro tali controversie si dilatano sino a portare ad
approfondimenti di estrema importanza sia in rapporto al
problema etico-filosofico della violenza che all'interpretazione
generale della storia contemporanea.

Trattando della polemica tedesca comincerò col parlare dei


dire principali antagonisti, lo storico-filosofo Ernst Nolte a cui si
sono affiancati i più illustri studiosi del periodo nazista (lo
Hillgruber, lo Hildebrand, il Fest) e il sociologo Junger Habermas.
Questa secondo, il più noto se non il più autorevole tra i
rappresentanti presenti della scuola di Francoforte, non ha davvero
bisogno di presentazioni.
Del tutto diverso è il caso del primo della cui opera in Italia si
è sentita assai poca eco, per quanto negli anni recenti
dall'interpretazione "demonizzante" del fascismo si sia passati a
quella che abitualmente vien detta revisionistica, quanto a dire
dalla polemica alla storia. Passaggio che può essere dato, a parte
brevi contributi anteriori - e mi sia consentito ricordare qualche
mio lontano scritto - nel libro Der Faschismus inseiner Epoche che
Nolte pubblicò nel 1963 e che fu tradotto in italiano con lo strano
titolo I tre volti del fascismo, così da suggerire l'idea di un unica
essenza del fascismo suscettibile di manifestarsi in una varietà di
espressioni (il Nolte si occupava dell'Action française, del
fascismo e del nazismo).

Il fascismo cos'è.

Effettivamente l'idea di un'essenza comune ai tre movimenti in


quell'opera c'era, ma ne rappresentava la parte più debole; e
rappresentava altresì il punto d'aggancio con le consuete
interpretazioni che vedono nel fascismo l'epilogo del pensiero
reazionario e controrivoluzionario in una via che ha origine nei
primi critici della rivoluzione francese e che successivamente si
secolarizza nella forma di irrazionalismo (2). Il punto essenziale
che il Nolte aveva il gran merito di aver proposto era invece quello
secondo cui soltanto una rigorosa analisi filosofica è in grado di
render conto della storia contemporanea; si tratta di una storia che
nasce dalla filosofia (si pensi infatti alla "filosofia che si fa
mondo" di Marx) come la storia medioevale nasce dalla religione;
altrimenti diventa inevitabile il lasciarsi fuorviare, come è
avvenuto e avviene, dagli infiniti ed inesauribili aspetti secondari.
Non che la persuasione che soltanto questa rigorosa problematica
filosofica alla cui luce si leggono gli eventi, sia la sola a
permettere quella revisione che coincide col passaggio alla storia;
né si può dire che questo sia avvenuto, negli stessi autori che più si
sono impegnati nella linea revisionista. Soggiungo che la
reciproca è vera, e che se non ci si richiama a quell'interpretazione
"transpolitica", di cui l'opera del Nolte rappresenta finora il più
autorevole esempio, si ricade inevitabilmente nel "mito negativo"
del fascismo come il "male radicale". Senza avvedersi che il male
si presenta sempre in forme nuove e non esauribili e che fascismo
e nazismo sono forme ormai lontane e spente, e perciò
consegnabili alla storia, e che diverso, e non prevedibile durante
gli anni trenta, è il male che oggi ci minaccia.

Ora, Nolte in un articolo apparso il 6 giugno sulla Frankfurter


Allgemeine Zeitung si era proposto le seguenti domande: «I
nazisti, Hitler, compiono un'azione 'asiatica' forse solo perché si
considerano potenziali o reali vittime di un'azione 'asiatica'?
L'arcipelago Gulag non era più originale di Auschwitz? L'
"assassinio di classe" dei bolscevichi, non era il 'prius' logico e
fattuale dell'"assassinio di razza" dei nazionalsocialisti?».

E' affatto superfluo osservare come la domanda sulla priorità


logica che è altresì priorità di fatto del Gulag rispetto ad
Auschwitz non diminuisce affatto l'orrore per le camere a gas di
questo campo. La domanda riguarda invece il loro nesso ideale, il
fatto che non vi sia una continuità di principio tra le punte estreme
del terrore giacobino (quali si manifestarono, ad esempio, negli
innegabili genocidi della Vandea, che solo oggi in opere recenti
hanno avuto documentazione piena), i metodi già approvati e
incoraggiati da Lenin per distruggere i nemici del "popolo", il
"grande terrore staliniano" (venti milioni di vittime), le stragi
naziste, quelle di Mao (cento milioni, pare), del Vietnam, del
regime di Pol Pot in Cambogia, fino agli orrori più recenti.

A questa tesi della «metafisica sotterranea» immanente agli


stermini, si oppone quella, di circolazione assolutamente
prevalente dal '45 in poi, secondo cui i tempi nazisti rappresentano
nella storia degli orrori un unicum. Da una parte i tanti orrori che
si sono verificati nella storia, e ad essi apparterrebbero così quelli
di Stalin come quelli di Cambogia; riconducibili a condizioni
arretrate e a tradizioni barbariche dei popoli in cui erano avvenuti
(così, ad esempio, è d'uso consueto il parallelo tra Ivan il terribile
e Stalin) o a parentesi di follia in una storia che è pure storia della
liberazione (la leggenda, nella rivoluzione sovietica, della
«parentesi staliniana»). Crimine senza analoghi nella storia quello
di Hitler. Auschwitz come il Golgota; là, la morte del figlio di Dio,
qui la morte del Padre (la frase di "Dio morto ad Auschwitz"
circolò infatti ai tempi dei "teologi della morte di Dio"). La nuova
teologia avrebbe dovuto iniziare con la presa di coscienza di un
dato di fatto "la morte di Dio ad Auschwitz", e diventò corrente
per lo sterminio operato da Hitler un termine che non piace né a
me né al Galli della Loggia (3) per il carattere nettamente
divisorio che stabilisce rispetto agli altri orrori, e al conseguente
sapore sacrificale-religioso, quello di olocausto.

La ragione fondamentale su cui si fonderebbe questa


distinzione qualitativa è la netta contrapposizione tra violenza
rivoluzionaria e violenza reazionaria. Sostanzialmente inevitabile
la prima pur se, nel mazzo, colpisce anche innocenti; si tratta certo
di non compiacersene -e infatti i difensori di Stalin sono oggi
pochi- di cercare di limitarla, ma, insieme, di dimenticarla; di
assimilarla a una calamità naturale o a un momento doloroso ma
difficilmente evitabile del progresso. La condanna della violenza
reazionaria deve essere invece senza appello quale che sia.

Le cose però non sono così chiare. Dobbiamo a questo punto


affrontare il problema del rapporto ideale tra comunismo e
nazismo, di quella priorità logica del Gulag di cui parla Nolte e del
carattere, a suo modo, rivoluzionario del nazismo. E qui mi
richiamo a un mio scritto che apparve su queste colonne (Il Sabato
n. 13, 1983) in occasione del cinquantenario dell'ascesa di Hitler
ai potere. Richiamandomi alle idee del Padre Fessard,
originalissimo quanto dimenticato interprete dell'attualità storica
(De l'actualité historique, 1960, si intitola la maggiore delle sue
opere) sulla "comune origine ideale di comunismo e di
nazionalsocialismo" vedevo nel nazismo l'esatto contrario dei
comunismo, nel senso che ne riproduce, rovesciati, ma con
completa simmetria, i caratteri. Realizzando, insomma, in pieno
quella "rivoluzione in senso contrario" in cui già De Maistre
vedeva il massimo errore in cui il pensiero e l'azione
controrivoluzionari possano incorrere.

Giungevo con ciò alla definizione del nazismo come del


contraccolpo tedesco dello scacco che il marxismo aveva subito
rispetto alla sua intenzione di rivoluzione mondiale e alla
conseguente inversione, nei cui sviluppi è l'intera storia della
Russia sovietica, per cui al primato della speranza nella
rivoluzione universalmente liberatrice, si sostituisce quella del
predominio della Russia tra gli altri stati.

Bisogna parlare a proposito di comunismo e di nazismo di una


prima simmetria nell'opposizione diametrale: alla società marxista
senza classi e senza stato alla conseguente abolizione del Signore
si oppone, nel nazismo, la lotta a morte per "il dominio del popolo
dei signori". Ma questa opposizione non si spiega se non in
relazione allo scacco e all'inversione di cui si è detto, ed è da essa
che procede quella somiglianza e stima reciproca tra Stalin,
simbolo di questa inversione, e Hitler.

Subordinazione, dunque, dell'hitlerismo al momento staliniano


- in realtà già presente in Lenin - della realizzazione storica del
marxismo, onde in ragione di questa espansione dei popoli slavi,
la paura per l'estinzione del germanesimo, come dato primo su cui
il nazismo si organizza.

A chi ubbidiva Hitler.

Da ciò una conseguenza che penso importantissima: quel che


spiega il nazismo non è affatto la continuazione, portata al punto
ultimo della linea irrazionalistica del pensiero tedesco (sta qui la
debolezza o quantomeno il limite di opere che pure sono
importanti, quali Dai romantici a Hitler di Viereck o La
distruzione della ragione di Lukàcs). Per intenderlo occorre
isolarlo nella sua opposizione, che è insieme subalternità alla fase
staliniana del marxismo; in questo isolamento e in questa
dipendenza appaiono i tratti di quell'organica concezione del
mondo, a cui Hitler obbedisce piuttosto che servirsene. Dalla
prima simmetria è facile passare alle altre, e mi fermerò qui alle
due fondamentali e complementari. Alla classe viene sostituita la
razza, e si stabilisce quell'unità sino all'identificazione di nazismo
e di antisemitismo che qualifica il nazismo; antisemitismo che,
come oggi si tende a riconoscere (4), ha un suo carattere proprio,
irriducibile agli altri antisemitismi della storia. Altra simmetria.
Alla dimensione del futuro propria del marxismo si oppone il
richiamo nazista alla dimensione del passato; alla laicizzata
escatologia marxista che pone la società perfetta alla fine dei
tempi corrisponde il mito nazista che la pone in una situazione
anteriore allo sviluppo della storia. La rivoluzione nazista, sia pure
nella forma di rivoluzione contro la rivoluzione, aveva il fine di
realizzare un "uomo nuovo" che avrebbe dovuto corrispondere al
tipo arcaico mai finora realizzato nella sua purezza, dell'ariano.
L'opposizione dell'ariano e dell'ebreo prende la forma dell'antitesi
di natura e di antinatura sul fondamento che solo l'uomo, tra tutti
gli esseri viventi, cerca di trasgredire alle leggi di natura, e di fatto
nello sviluppo storico vi ha trasgredito. Anche qui, allo storicismo
marxista si oppone il più completo naturalismo; e forse questa è la
formula più adeguata, capace di far intendere nel suo significato
pieno.

Questa simmetria nell'opposizione spiega anche come per il


nazismo si debba parlare di rivoluzione ("in senso contrario" ho
già detto) piuttosto che di reazione; all'odio per il bolscevismo si
accompagnò nel nazismo quello per il vecchio mondo, provato
dall'assenza di quel richiamo a qualche precedente età storica, che
caratterizza il pensiero reazionario. Simboliche di questa attitudine
sono le parole scritte da Goebbels all'epoca dei grandi
bombardamenti: "in una con i monumenti della cultura crollano
anche gli ultimi ostacoli che si opponevano alla realizzazione del
nostro compito rivoluzionario. Adesso che tutto è distrutto siamo
costretti a ricostruire l'Europa... Le bombe, anziché sterminare
tutti gli europei, non hanno fatto che abbattere le mura del carcere
che di tenevano prigionieri... al nemico che tentava di annichilire
il futuro dell'Europa è riuscito soltanto la distruzione dei passato,
in tal modo facendola finita con tutto il vecchiume e il
sorpassato". In quello scritto di quattro anni fa mi sembrava di
aver condensato, partendo da una fenomenologia filosofica, il
risultato delle ricerche sul nazismo sino allora compiute, per quel
che riguarda la sua essenza; e mi era parso che il riscontro tra
questa fenomenologia e le opere strettamente storiche me lo
assicurassero. E' superfluo dice che lo scheletro di interpretazione
presentato allora conduce esattamente alle domande che il Nolte
ha proposto e concordare colla sua soluzione. Non si può parlare
infatti, per lui, di una singolarità e unicità dei crimini nazisti,
altrimenti che nel riguardo del "procedimento tecnico della
giustificazione".

Il nemico oggettivo.

Torniamo al problema della violenza rivoluzionaria. Chi


sostiene i lager sovietici e i nazisti non può fondarsi che sulla
distinzione tra due forme di violenza, la rivoluzionaria e la
reazionaria: almeno parzialmente giustificabile la prima, anche se
colpisce innocenti, condannabile senza appello la seconda. Come
infatti si autogiustificano i rivoluzionari? Attraverso l'argomento
dell' "umanità nuova". Il mondo diventerebbe un paradiso se
scomparissero, senza lasciar traccia, a seconda delle varie forme, o
i preti, o i borghesi, o gli ebrei. Il nemico "oggettivo" deve essere
dunque "nientificato"; cancellato dalla faccia della terra, come se
non fosse mai esistito; eliminato dallo stesso ricordo (si è spesso
insistito sulla cancellazione della "memoria storica").

La violenza rivoluzionaria è una forma di soluzione


immanentistica del problema del male. Posta in questi termini la
questione, si può certamente dire che le camere a gas riescono a
dare l'immagine sensibile più compiuta di quella nientificazione
che è intrinseca alla violenza rivoluzionaria; ma questa
compiutezza non autorizza però a parlare di una distinzione
qualitativa dalle altre forme. Ma ha poi fondamento la distinzione
tra violenza rivoluzionaria e violenza reazionaria? Se si parla di
violenza come progetto sistematico di annientamento, soltanto alla
rivoluzionaria si addice tale qualifica, perché per essa la colpa sta
nell'appartenenza a un ceto, a una classe, a una razza; nonché per
il carattere di retroattività con cui le sue condanne sono motivate.
Parlare di violenza reazionaria -si intende in quel preciso senso di
cui si è detto, di nientificazione- è alla lettera un non senso: se ne
ha una conferma nell'unico progetto controrivoluzionario che sia
riuscito per una lunga durata nell'Europa di questo secolo: il
franchismo.

Lasciando ora da parte qualsiasi giudizio nei suoi riguardi e


non negando certo il suo carattere antidemocratico, non si può
certamente dire che, per quel che riguarda le persecuzioni e il
terrore, sia stato anche lontanamente simile agli esempi che dianzi
abbiamo ricordato. L'unico cimitero in cui sono state raccolte le
salme dei caduti delle due parti è la dimostrazione più piena di
come l'idea della nientificazione gli sia estranea.

Il male del secolo.

Come spiegare dunque la reazione, così dura, di Habermas.


Egli nei discorsi "revisionisti", e in particolare in quello di Nolte,
vede soltanto una manovra politica conservatrice, mascherata
come ricerca scientifica. Scrive infatti a conclusione del suo
secondo intervento, il 20 novembre: "ma i conteggi presentati da
Nolte e da Fest alla grande opinione pubblica non servono alla
chiarificazione. Essi colpiscono la morale politica di una comunità
che, dopo una liberazione ad opera delle truppe alleate e senza un
proprio contributo, è stata edificata nello spirito dell'ideale
occidentale di libertà, responsabilità e autodeterminazione". Parole
aspre che hanno il suono di una denuncia. Significa: gli
intellettuali che si presentano come revisionisti e fanno finta di
essere soltanto preoccupati di ristabilire la verità storica, sono in
realtà dei neoconservatori preoccupati di ricollegarsi con la
tradizione tedesca attraverso la cancellazione dell' "ossessione
della colpa". La loro via è obbligata: non bastano infatti il
parallelo su cui pure si insistette tra i campi di sterminio e il
bombardamento di Dresda; la sola tesi che può acquisire una certa
apparenza di plausibilità è quella secondo cui il Gulag sarebbe
"più originario" di Auschwitz.

Ma, in realtà, il suo ragionamento può venire rovesciato: la sua


posizione corrisponde a quella che, spiegabile negli anni di guerra,
si consolidò negli anni successivi per opera delle forme culturali
neoilluministiche o neomarxistiche: di quelle cioè per cui le parti
in lotta, che erano lo spirito del progresso e lo spirito della
reazione per gli illuministi, la rivoluzione e la reazione per i
marxisti. Lo spirito reazionario avrebbe perduto come di positività
che ancora poteva mantenere nei passato contro forme inadeguate
di progressismo (non per nulla la cultura di sinistra rivaluta oggi,
per esempio,certi aspetti del pensiero di De Maistre o, dopo essersi
impadronita di Nietzsche, flirta oggi con gli Schmitt, con gli
Junger, eccetera). In questa totale perdita dei tratti positivi avrebbe
dato luogo al fascismo, diventato perciò il "male del secolo". Il
culmine del fascismo sarebbe stato il nazismo; e, per sostenere
questo "mito negativo del male assoluto", occorreva l'asserto
dell'unicità e della singolarità senza analoghi degli orrori a cui
aveva dato luogo (e che nessuno, sia ben chiaro, intende sminuire;
un orrore non cessa di essere tale per non essere singolare e
unico).
E poi venne il secolarismo.

Il concetto di conservazione è relativo; dopo quarant'anni di


predominio si è fatta oggi conservatrice la cultura di sinistra, che,
del resto, come ben si sa, poco ha a che fare con riforme sociali
davvero atte a ridurre gli squilibri e a realizzare il bene comune; e
che, piuttosto, qualifica oggi in Occidente la borghesia illuminata.
I mali presenti sono certamente estremamente diversi da quelli
degli anni Trenta (per non parlare degli anni di guerra).

Certo l'Europa ha goduto di un periodo di pace, per una durata


quale mai nei secoli aveva conosciuto, ma perché non è negli
interessi delle superpotenze che diventi zona di guerra. Si è avuto
un aumento del benessere come conseguenza del progresso
tecnico. Ma non voglio soffermarmi qui sull'altra faccia, del resto
ben nota; e la cultura progressista si mostra incapace a superarne i
mali.

Associando la comparabilità dei campi sovietici e dei nazisti


all'intrinsecità del momento della nientificazione del "nemico
oggettivo alla violenza rivoluzionaria", il Nolte e gli storici
tedeschi che gli si sono uniti hanno posto la cultura di sinistra in
una condizione di crisi, che è realissima e insuperabile, anche se
per ora vi si è rivolta soltanto l'attenzione di pochi. Ma occorre
andar oltre, cosa che questi storici non hanno direttamente fatto, e
che è compito soprattutto del filosofo: mostrare come fatto
comune di queste forme rivoluzionarie siano il materialismo,
l'ateismo, il secolarismo. All'idea progressista secondo cui il male
del secolo sarebbe stato ed è ancora il fascismo (inteso come
termine collettivo per le forme insieme antidemocratiche e
anticomuniste) bisogna sostituire quella che è il secolarismo; in
cui rientrano certo come sue forme il fascismo e il nazismo, ma
non come le sole.
NOTE

(1) Se ne è già parlato anche in Italia. Particolarmente


importanti gli articoli di Gian Enrico Rusconi Se Hitler non è più
tabù, seguito dalla traduzione degli interventi di Habermas a cui
Rusconi è sostanzialmente favorevole. In MicroMega ottobre-
dicembre '86 e di Ernesto Galli della Loggia Un lager vale l'altro
in Panorama, 8 marzo '87.

(2) Per questa interpretazione, particolarmente in ciò che


riguarda la connessione tra fascismo e irrazionalismo, è
importante la lettura dello scritto di Norberto Bobbio L'ideologia
del fascismo (1975, ora nell'antologia sulle interpretazioni del
fascismo curata da Costanzo Casucci, in Il Mulino, Bologna, 1982
sgg).

(3) Art. Cit.

(4)Si veda, ad esempio, nello stesso numero di MicroMega


dianzi cit. l'art. di Wlodek Goldkorn Non tutti i Pogrom portano ad
Auschwitz.

Augusto DEL NOCE


Le connessioni tra filosofia e politica (fascismo)
tratto da: Il Tempo, 14 gennaio 1984.

Il nome di Costanzo Casucci è scarsamente noto al largo


pubblico. Pure, è quello di chi ha esercitato una parte assai
rilevante nella formazione di quella che suol venir detta
interpretazione "revisionistica" del fascismo; dell'interpretazione,
cioè, che pur senza la minima adesione, intende però recuperarlo
alla storia, e ripensare l'intera tematica; allontanandosi perciò da
quella «versione di guerra» che lo riduceva a semplice barbarie e
pensava di poter chiudere il discorso con la nota frase «dove c'è
cultura non c'è fascismo, dove c'è fascismo non c'è cultura». L'ha
svolta in due sensi: direttore nel ventennio tra il '50 e il '70 della
sezione del Ministero dell'Interno e degli enti fascisti dell'Archivio
Centrale dello Stato, e dunque il maggiore "archivista del
fascismo", è stato di incomparabile aiuto agli studiosi che si erano
indirizzati a questo ordine di ricerche. Inoltre, di questa
storiografia revisionistica è stato uno dei promotori. Basta
considerare un solo suo articolo pressoché da tutti ignorato,
apparso sul Mulino del 1960 e riprodotto nel libro di cui ora
intendo parlare, che può essere visto come il manifesto di questa
svolta storiografica. Vi scriveva, e l'importanza giustifica la lunga
citazione: «In effetti la storiografia sul fascismo patisce un difetto
di fondo: un atteggiamento di invincibile, pregiudiziale
opposizione che la porta ad una negazione tanto più assoluta
quanto più frettolosa. Quasi una fuga da se stessi, una evasione
angosciosa dal proprio vergognoso passato. Ciò impedisce il
realizzarsi della condizione prima per fare storia, identificarsi con
l'oggetto della propria indagine, riceverne dall'interno l'intero
processo di sviluppo; nella fattispecie farsi fascisti con i fascisti.
Questo limite inficia ogni opera storica che sia stata fin qui scritta,
ogni critica che sia stata fin qui fatta, per cui in realtà si è
impoverito il giudizio e spuntata la condanna che giustamente del
fascismo si voleva promuovere». Dichiarazioni che, oggi,
troverebbero pochi obiettanti (non sarebbe però esatto dire
«nessuno»); ma allora!
Come concrezione delle tesi che si sono dette, curò, nel 1962,
sempre per il Mulino, un'antologia sul fascismo in cui erano
accolte le interpretazioni dei fascisti, quelle di antifascisti e quelle
di postfascisti in ricerca di comprensione oggettiva. Nel tardo
autunno dell'82 questa antologia è uscita in nuova edizione,
triplicata nel volume, e preceduta da una introduzione di ottanta
densissime pagine. Ma la sua circolazione è stata scarsa e occorre
rivendicarne l'importanza, l'utilità e l'attualità, dato che non è stato
affatto superata dai tanti scritti di cui il centenario della nascita di
Mussolini è stato occasione.

I fiancheggiatori radicali e socialisti

Circolazione scarsa per due ragioni. Oggi, per motivi


complessi su cui ora è impossibile fermarci, ma che coincidono
con una caduta del senso storico, l'interesse dei lettori va verso le
biografie e verso i diari, piuttosto che verso i movimenti e le loro
essenze ideali; benché quando questa considerazione manchi, le
stesse personalità restano scarsamente intelligibili. Bisogna
aggiungere che il titolo non è adeguato. Chi legge: "Il fascismo.
Antologia di scritti critici", non può non pensare appunto a
un'antologia; vale a dire a una scelta delle migliori pagine che sul
fascismo siano state scritte, giudicate tali da un curatore che, per
sforzi che faccia, non può prescindere dalla sua soggettività. Ma,
in realtà, lo scopo del Casucci è del tutto diverso; è quello di
giungere alla comprensione dell'essenza del fascismo, facendo
parlare i protagonisti non in quanto politicamente agenti, ma in
quanto interpreti del fenomeno. Così nella prima parte sono gli
stessi fascisti a presentare se stessi, nelle loro pagine più
programmatiche e meno legate a operazioni politiche immediate, e
così i fiancheggiatori, sia politici che liberali, radicali, socialisti,
comunisti.
La ragione della forma antologica sta quindi nella ricerca di un
massimo di obiettività; sulla sua convenienza o meno si può
discutere, non sulla sua intenzione. La seconda parte tratta della
ricerca nel periodo postfascista, cioè, in pratica, dal '45 al '60. La
terza, della ricerca più recente.
Ora, la prima impressione che si ricava dal leggere le
interpretazioni dei fascisti è quella della estrema eterogeneità delle
forze che si associano. Si va dalla rivendicazione della tradizione
di un'Italia barbara, non inquinata dalla Riforma e
dall'Illuminismo, fatta da Malaparte, all'adesione dei futuristi, a
quella dei sindacalisti di varia tendenza (tutti però in posizione
critica rispetto al marxismo) da Rossoni a Angiolo Oliviero
Olivetti a Sergio Pannunzio e alle sue tesi, seriamente pensate, sul
sindacato di categoria e non di classe. Si procede verso il
corporativismo, e anche qui non si tratta di posizioni univoche;
accanto a Bottai ci sono teorici di linee divergenti, Ugo Spirito e
Carlo Costamagna. E poi, in direzione mentale del tutto diversa,
c'è il rappresentante più intelligente e più rigoroso del
nazionalismo, Alfredo Rocco, teorico coerentissimo, senza
concessione alcuna, dell'opposizione nazionalista alla concezione
liberale-democratica-socialista, vista come il principio di
disgregazione. E compaiono anche, se pure con influenza molto
limitata, i reazionari puri come Vincenzo Fani Ciotti, critico di
ogni traccia di psicologia umanitaria e democratica, così da
ravvisare nella rivoluzione fascista l'esatta antitesi delle
rivoluzione francese; ci sono i tecnocrati come Gino Olivetti, i
ruralisti come Serpieri. Ci sono, nell'ultima generazione fascista, i
mistici che hanno punto cardine del fascismo la lotta di
spiritualismo contro il materialismo; e Casucci ha fatto bene a
raccogliere alcune pagine di Nicolò Giani, un giovane triestino
caduto in guerra, che hanno un tale accento di sincerità e di
disinteresse da imporre rispetto anche a chi abbia idee
completamente avverse. C'è Gentile interprete della continuità tra
Risorgimento e fascismo; ci sono tra i cattolici fiancheggiatori
alcuni scrittori della "Civiltà Cattolica" che vedono nel fascismo
l'avversario dei due mali moderni, il liberalismo e il socialismo.
In breve, ci sono gli "inventori" di liberalismo, socialismo e
comunismo, e i loro negatori radicali; gli esaltatori di un futuro
senza più traccia del passato e gli anelanti a resurrezioni di
tradizioni interrotte dai movimenti rivoluzionari. Come sono state
possibili queste aggregazioni? Si può pensare a un fascino di
Mussolini dipendente dai tanti no che aveva pronunziato; l'assenza
di una soluzione positiva chiara, il volontarismo indeterminato
avrebbero giocato una funzione essenziale in suo favore.

L'Italia come grande potenza.

Questa interpretazione di un ascendente di Mussolini che


sarebbe dipeso soprattutto dalle sue negazioni, particolarmente del
comunismo e della democrazia, così da cementare un blocco
conservatore comprendente anche quelle avanguardie letterarie e
artistiche in buoni rapporti con la borghesia in ascesa, non è però
adeguata. Il Mussolini dell'ascesa al potere (e l'immagine durò a
lungo) era visto come l'uomo che attraverso gli innumerevoli no
era giunto a conciliarsi con l'idea italiana e a impersonare quella
continuazione col Risorgimento (nonché di tutta la tradizione
italiana, la romana e la cattolica) che non poteva esprimersi se non
nella realizzazione dell'Italia come grande potenza; e come l'uomo
che, insieme, in questo negativismo aveva enucleato quanto di
positivo c'era nel nuovo; che rappresentava dunque, e in ciò stava
la sua novità, la risposta non reazionaria al socialismo e al
comunismo. Né bisogna esagerare nell'antidemocratismo fascista:
giustamente Casucci si accorda con De Felice nel riconoscimento
del carattere rivoluzionario del fascismo nel senso che non frenava
le masse, ma le attivizzava, e del carattere democratico in quanto
non le escludeva, ma le coinvolgeva.
Il discorso sulla novità del fascismo porta dunque a quello
sulle radici culturali, visto come primario rispetto a ogni altro. La
tesi di Casucci è che il fascismo esemplifica quel che si può dire il
"principio di Gramsci" (a cui del resto Gramsci era arrivato
proprio attraverso la riflessione sullo scacco comunista nel primo
dopoguerra), secondo cui è carattere delle società sviluppate che la
conquista del potere politico passi attraverso quella del potere
culturale. Ora, al momento della sua ascesa al potere, Mussolini
trovò un consenso della cultura (di quella cultura che si era
formata in Italia nei primi due decenni del ‘900) che ha scarso
riscontro nella storia.
Ho scritto altrove, or sono parecchi anni, quando la
discussione critica sul fascismo era agli inizi, che il mito di
Mussolini come personalità cosmico-storica fu creato pezzo per
pezzo dagli intellettuali della nuova cultura italiana, e che egli non
fece che crederci, e che il pensiero che gli servì da guida fu quello
di una rivoluzione che sarebbe stata più universale di quella
sovietica, perché aveva accolto i risultati della critica idealistica
italiana al marxismo. Mentre i comunisti negli anni del primo
dopoguerra perseguivano l'illusione di trasporre in Italia il
modello della rivoluzione russa, Mussolini, persuaso anch'egli
dell'esito rivoluzionario della guerra, pensò a una rivoluzione
parallela, fondata sulla tradizione e la cultura italiana. Fallì e
doveva fallire perché l'errore era nella stessa impostazione teorica.
Ma si può dire sia fallita la stessa rivoluzione russa che mondiale
nelle intenzioni, si inserì di fatto nella continuità della storia russa.
Attraverso un lavoro assolutamente autonomo, l'«archivista
del fascismo» ha confermato, e l'ha dichiaratamente asserito, tesi
che io già avevo proposto avendole raggiunte seguendo la via
della connessione di filosofia e politica nella storia
contemporanea; sia che, proprio per questo carattere filosofico,
rischiavano di apparire ipotesi. E non so a dire quanto ne sia stato
lieto; si tratta di una concordanza che è tanto più importante
perché Casucci si iscrive in una linea che è lontanissima dalla mia,
l'interventismo democratico dei Bissolati e dei Salvemini. Sembra
che per lui ci fosse in quegli anni del primo dopoguerra un'unica
possibilità di resistenza al fascismo con probabilità di vittoria,
quella dell'allineamento dei socialisti nella direzione
dell'interventismo democratico ma questa forma di interventismo
delle «libere nazioni» era stato battuto così dalla rivoluzione russa,
come dalla pace di Versaglia che avallava ogni critica marxista o
di «libertà», le quali, strumenti di propaganda durante la guerra, si
rivelavano poi schermi per patti di durezza materiale e di offesa
morale imposti dai franco-inglesi ad avversari che avevano
eroicamente combattuto accompagnati da un atteggiamento verso
l'alleata Italia tale da giustificare l'apparenza della «vittoria
mutilata». L'intervento democratico del «delenda Austria» (quanto
appare oggi lontano!) non aveva già allora alcuna carta da giocare;
né c'è da rimpiangerlo.

Augusto DEL NOCE


Pci, l'impossibile conversione
tratto da: Prospettive nel mondo, n. 1, 1985 (poi in Litterae
Communionis, anno XII, luglio/agosto 1985, p. 56s.).

Dopo la doppia sconfitta del Pci alle elezioni amministrative e


al referendum del 9 giugno, uno studio di Augusto Del Noce
sull'identità, la cultura e le prospettive politiche del partito di
Gramsci, Togliatti e Berlinguer

Il comunismo italiano dichiara oggi di essere il Partito della


terza via: quanto a dire del superamento, della politica
internazionale, della contrapposizione dei blocchi, e quindi della
pace nella distensione; e di quella tra democrazia e comunismo
nella politica interna; e di vero assertore della causa europea, dato
che la comunità europea sarebbe la zona in cui si realizzerebbe
l'unità tra la libertà democratica e la giustizia socialista. Si
presenta dunque come il partito di un ordine e di una pace, di
un'eguaglianza e di una libertà, che si potrebbero stabilire senza
bisogno di una rivoluzione violenta. Gli anni dell'immediato
dopoguerra furono quelli in cui la parola «rivoluzione» ebbe il
massimo successo o, per altro verso, suscitò le maggiori
apprensioni. Oggi, è pressoché abbandonata nell'uso; e il partito
della rivoluzione, se anche non può negarlo, deve anzitutto
«rassicurare», e almeno parzialmente ci riesce: non sarà una
rivoluzione come le altre; metterà ordine in una società anarchica.
Un vecchio proverbio dice che il cuore deve essere caldo, ma
la testa fredda; e ora importa fare un discorso freddo sulla
situazione presente; prevalentemente descrittivo, privo di giudizi
di valore, tale che non conceda nulla alla mozione degli affetti.
Domandiamoci attraverso quale processo il comunismo italiano
può essere giunto a presentarsi nella forma che si è detta; poi, se
gli si può dar credito, anche nell'ipotesi della piena sincerità da
parte dei dirigenti e dei militanti. Evitiamo la troppo consumata
asserzione secondo cui il comunismo si servirebbe sempre di
«maschere»: non foss'altro per il timore di cadere nella banalità,
anche se non sempre il banale coincide con il falso.
Partiamo invece da una frase che ebbe larga circolazione:
quella che definisce il comunismo anzitutto come «religione
secolare». L'uso ha banalizzato anch'essa. Tuttavia, se ben si
guarda, è perfettamente esatta e permette di orientarci, come
nessuna altra forse, nella politica contemporanea; facendoci
intendere così la posizione dei vecchi comunisti, come quelle dei
loro avversari. Il comunismo negli anni tra il '20 e il '40 era
davvero sentito come una «religione secolare» non soltanto dai
militanti di base, ma dai filosofi marxisti dell'Europa di allora, da
un Lukacs, da un Bloch, da un Gramsci.
Soprattutto permette di inquadrare con precisione le posizioni
divergenti degli avversari del marxismo e del comunismo, dei
religiosi e dei laici. I primi lo criticano (o almeno dovrebbero così
criticarlo, il che però è avvenuto piuttosto di rado) in quanto
secolare; in quanto, cioè, è a partire da esso che si intende il senso
primo e autentico del tanto ripetuto termine secolarizzazione,
come rifiuto radicale della dipendenza da Dio accentuando invece
all'estremo il momento religioso della liberazione; in quanto, in
ragione di ciò, l'ateismo non è una sua sovrastruttura eliminabile,
ma la sua essenza, condizionante perciò tutti i momenti del suo
sviluppo. La tesi dell'anticomunismo religioso è che vi è una
continuità necessaria tra la controreligione del Marx filosofo e la
realizzazione storica del marxismo come «socialismo reale»; e che
perciò sono vani gli sforzi di separare il comunismo dal
predominio di quel che va sotto il nome di «socialismo reale».
La critica mossa dagli intellettuali laicisti è esattamente
inversa. Il comunismo viene criticato perché insufficientemente
secolare; perché carico di aspetti profetici, messianici, millenaristi,
gnostici, eccetera. Alla parola «rivoluzione» viene sostituita, come
programma, «modernizzazione»; il comunismo diventa una forma
di modernizzazione per Paesi ancora arretrati; per i Paesi di civiltà
più alte vale una democrazia che rifiuta ogni forma di teocrazia,
sia nella sua forma originaria di fondazione trascendente, sia nella
forma immanentizzata marxistica.
Nei decenni che hanno seguito la fine della guerra, la critica di
tipo laicistico ha decisamente prevalso nel dominio della cultura,
giungendo a informare la maggior parte delle stesse critiche mosse
dai cattolici e agendo in certa misura sul comunismo stesso. Il
laicismo di oggi si presenta come custode della democrazia in quel
senso antiteocratico che si è detto. Il termine stesso di democrazia
cristiana designerebbe come compito storico del partito di questo
nome quello di portare il voto dei cattolici a una democrazia
definita dai valori illuministici (o intesi in senso illuministico) di
libertà, eguaglianza, tolleranza. Quanto al partito comunista
avrebbe il compito di portare alla democrazia laica i voti del
proletariato.
Partiti dunque, il cattolico e il comunista, provvisori, designati
a essere superati in una società veramente moderna. Tuttavia, in un
Paese di relativa arretratezza come l'Italia i laici non sarebbero
ancora in grado di costituire una forza politica, nel senso
elettorale, capace di raggiungere la maggioranza. Così da doversi
politicamente accordare con l'uno o con l'altro dei partiti di massa,
con la Dc o con il Pci. Sinora i partiti laici si sono accordati con la
Dc; i rappresentanti della cultura laicista preferirebbero cambiare
cavallo. La loro idea sarebbe questa: come agli inizi
dell'industrializzazione dell'Italia ci fu una collaborazione tra
capitalismo e socialismo riformista, il secondo accompagnando lo
sviluppo del primo, così oggi dovrebbe esserci tra neocapitalismo
e partito comunista. Secondo una nota frase, per l'antico
socialismo il fine ultimo era nulla; quel che importava era il
movimento. Sono parole che dovrebbero essere un'insegna del
presente comunismo, come quelle che esprimerebbero
nell'abbandono del momento escatologico l'acquisizione della
laicità. Maggiore prudenza manifestano i politici laici: lasciamo
che la conversione del comunismo alla socialdemocrazia maturi, e
finora i segni non sono sufficienti; la scelta per l'Occidente
consiglia oggi a non cangiare alleanze.
Lasciamo da parte i molti debiti che dovrebbero esser fatti alla
cultura cattolica, una parte della quale si è lasciata incantare dalla
parola «secolarizzazione» come processo irreversibile di un
mondo oggi arrivato all'età «adulta», e dalla necessità di adeguare
a questa secolarizzazione, teologia e morale e politica. In realtà, il
pensiero dell'irreversibilità della secolarizzazione consegue
all'accettazione di un'interpretazione del nostro tempo in termini di
modernizzazione (illuminismo) o di rivoluzione (marxismo).
Illuministi e marxisti avrebbero ragione nelle interpretazioni del
nostro tempo, e si dovrebbe trovare un posto per la fede, dopo che
si è già concesso questo. Inutile dire che non lo si trova, e che i
cristiani che si mettono su questa via sono credenti ad
esaurimento. La larga diminuzione dei fedeli negli anni
postconciliari, dopo che questa posizione si diffuse, lo dimostra.
Queste premesse erano necessarie per intendere i caratteri
nuovi del Pci di oggi, rispetto a quelli dello stesso «partito nuovo»
di Togliatti, rispetto a cui rappresenterebbero un progresso, pur
partendo dalle sue premesse. Progresso in laicità, ed è in ragione
di questa considerazione che certi laici guardano con favore
all'alternativa comunista (che veniva sino a poco tempo fa detta
«di sinistra», e che oggi si preferisce chiamare «democratica»),
non meno di certi cattolici, se non al compromesso storico, o alla
priorità delle alternative. Per avere idee chiare su questo punto,
occorre rifarci rapidamente alla storia del Pci.
Spesso si parla di uno stalinismo (e il fatto non è contestato da
nessuno) a cui Togliatti avrebbe dato consenso pieno durante la
sua permanenza in Russia, e che avrebbe poi dismesso nel suo
ritorno in Italia, già a partire dalla svolta di Salerno: punto di
partenza, questa svolta, per la persuasione successiva
dell'essenzialità della democrazia alla piena maturità del
comunismo. Contro questa tesi di un abbandonato stalinismo sta
l'interpretazione di chi, tra i giovani che aderirono al comunismo
negli anni di guerra, rimase più profondamente fedele alla
memoria di Stalin e all'idea dell'essenzialità del momento
staliniano nella costruzione del comunismo: il cattocomunista
Franco Rodano. Penso avesse perfettamente ragione, se si
distingue tra uno stalinismo «intelligente» (politicamente
intelligente, mettendo da parte ogni giudizio morale) e uno
stalinismo «ottuso». Il tratto nuovo di Stalin è quello del
«comunismo in un solo Paese», quanto a dire la necessità del
radicamento del comunismo nella realtà russa. Ora, se ben si
guarda, la «pluralità delle vie nazionali», l'idea su cui Togliatti ha
insistito più di ogni altro leader comunista, è la tesi esattamente
complementare al «comunismo in un solo Paese». Intendere la
pluralìtà delle vie nel significato, ovvio, della diversità degli
ostacoli che si devono affrontare per giungere ad uno stesso
risultato, che sarebbe la trasposizione negli altri Paesi del modello
sovietico, è il proprio dello stalinismo «ottuso». Togliatti pensava
invece a una diversità, in ragione delle diverse tradizioni storiche.
Aveva parlato di «policentrismo» per poi fermarsi sulla più
prudente tesi dell'«unità nella diversità». Il comunismo restava
uno in una pluralità di espressioni che sarebbe continuata almeno
sino all'unità mondiale realizzata.
Ma che cosa significava per Togliatti radicare il comunismo in
Italia? Continuare il Risorgimento secondo le parole che Gramsci
aveva pronunziato da vanti al tribunale speciale fascista al
momento della sua condanna: «Verrà giorno in cui porterete l'Italia
alla catastrofe, e allora toccherà a noi comunisti salvare il nostro
Paese». Il comunismo avrebbe continuato il Risorgimento dopo la
catastrofe fascista della nazione, che aveva le origini nello spirito
reazionario delle classi dirigenti italiane; lo
pseudorisorgimentalismo dei moderati aveva rappresentato la
premessa del ventennio fascista, contraddittoria appropriazione
della causa nazionale da quel che invece doveva venir detto
l'Antirisorgimento; ricorso all'avventurismo, come scommessa
contro la razionalità della storia. Espressione di razionalità era
perciò il fatto che la più radicale antitesi al fascismo, il
comunismo, fosse diventato il cemento unitario della Resistenza;
perciò ancora, le forze che nel dopoguerra avevano preteso o
pretendono di isolare il comunismo sarebbero esposte a un
necessario fallimento rispetto alla causa nazionale (onde il
ripetutissimo slogan «senza il Pci non si governa»). A questa
prima ragione se ne aggiungeva un'altra, filosofica. Il
Risorgimento, dal momento della proclamazione del Regno
d'Italia, si era accompagnato con la cultura dell'hegelismo
meridionale, che ne aveva rappresentato (soprattutto con De
Sanctis e con Antonio Labriola) la consapevolezza ideale; ora, il
punto d'arrivo di questa cultura sarebbe stato in Gramsci, e nel suo
incontro col più autentico marxismo, separato così dalle
incrostazioni positivistiche come da quel revisionismo che aveva
trovato la sua conclusione e la sua politica in Benedetto Croce.
In questa prospettiva, dunque, così la politica come la cultura
dell'Italia diventata nazione avrebbero portato al comunismo, che
nella forma gramsciana si accompagnava con una versione
dell'idea del primato italiano. Non in senso imperialistico,
naturalmente, ma in quello che, ripensato a partire da una più
profonda cultura, il comunismo, che aveva dovuto fermarsi ai
confini della Russia, trovava le basi teoriche per riprendere la
marcia verso la rivoluzione mondiale.
Spesso si dice: Togliatti, nell'Italia della guerra e
dell'immediato dopoguerra, non poteva fare altrimenti che
ripiegare dal comunismo rivoluzionario a un comunismo
parlamentare, nella ricerca di una maggioranza relativa; e non
bisogna scambiare una tattica obbligata, anche se coerentemente
perseguita, con una finalità ultima. È vero, ma non è tutta la verità.
Nel marxismo coesistono due vie intellettuali e politiche: per un
verso esso si presenta come rivoluzionario, teso alla realizzazione
di una realtà «totalmente altra» rispetto a quelle esistenti; per
l'altro, come erede di quanto di positivo sia stato pensato e fatto
nella storia del mondo. È sotto l'aspetto dell'«eredità» che Granisci
e Togliatti lo vedono. Ci si può giungere a partire da Croce,
svolgendo coerentemente il suo pensiero, così da eliminarne le
difficoltà che impediscono di pervenire allo storicismo integrale;
si sa come questo sia il tema dominante dei Quaderni dal Carcere
a partire dal cattolicesimo, in ragione del «suicidio» (di cui
Gramsci parla in un celebre articolo del 1919, scritto in occasione
della fondazione del Partito popolare) a cui si troverebbe costretto
nell'affrontare i problemi del mondo moderno, mentre soltanto nel
comunismo, tra le posizioni moderne, salverebbe quello che è il
suo momento positivo (1). E anche, attraverso un lungo viaggio (si
pensi alle lodi di Togliatti per il libro di questo titolo di
Zangrandi), partire dal fascismo. Il richiamo a Gramsci e alla sua
sostituzione del «suicidio» all'«omicidio» nei riguardi del
cattolicesimo, ci chiarisce la posizione di Togliatti. Bisogna
guardarsi da due posizioni unilaterali ed entrambe errate: che si sia
trattato, nella sempre perseguita ricerca di accordo, da parte di
Togliatti, di puro machiavellismo o all'opposto di una evoluzione
per cui il comunismo deponeva gli aspetti ateistici
(incontestabilmente non solo presenti, ma pensati come essenziali
in Marx, in Lenin, nell'unanimità dei suoi teorici) per far posto a
«tutti gli uomini di buona volontà», lasciando impregiudicata la
questione metafisico-religiosa. Su un piano metapolitico,
condizionante però la stessa politica, l'avversario primo, assoluto,
del marxismo (non semplicemente un avversario tra gli altri) resta
in Italia il cattolicesimo. Però così Granisci come Togliatti
pensano che una persecuzione religiosa diretta avrebbe un effetto
opposto alle intenzioni, servendo a far tacere quei dissensi ideali
che necessariamente albergano nelle religioni positive, in ragione
del fatto che esse sono sorpassate dalla storia; per cui alcuni dei
loro fedeli vogliono difendere un passato ormai condannato e altri
cercano una impossibile conciliazione col nuovo; o meglio il
conflitto è interno, quale che sia la soluzione che egli voglia
dargli, alla coscienza del singolo fedele che è sempre, in qualche
misura, lacerata. La persecuzione diretta ristabilirebbe l'unità e
servirebbe da balsamo risanatore. È invece sui dissensi interni che
bisogna puntare, rompere l'unità dei cattolici, fare in modo che il
cattolico «progressivo» si senta più lontano dal cattolico
cosiddetto «integrista» che da qualsiasi movimento ateistico; al cui
riguardo dirà che un certo ateismo è vero, nella misura in cui
combatte una falsa immagine di Dio. La ricerca della divisione nel
mondo cattolico è stata un fatto costante del Pci, dal '45 a oggi;
perché anche la proposta del «compromesso storico» mirava a
questa divisione, dato che non si poteva pensare che non soltanto
tutti i cattolici, ma tutti gli appartenenti alla stessa Dc, vi
avrebbero aderito.
Nel comunismo di tipo togliattiano il problema delle alleanze
diventa essenziale, perché soltanto attraverso l'egemonia del
«blocco storico» potrà pensare di raggiungere l'egemonia del
Paese. Ma quali alleanze? L'avversario «fascista» è troppo
lontano, e la storia vieta di presentare i fascisti come una semplice
accozzaglia di banditi, o i mali che ci travagliano oggi come
sopravvivenza ed eredità di abitudini che si erano formate nel
periodo fascista. E d'altra parte l'illusione di Gramsci di essere
giunto al punto più alto del pensiero mondiale, incontrando Marx
nel proseguire Croce, è condivisa ormai da pochissimi nel
comunismo stesso. Il declino della cultura idealistica italiana non
ha potuto non coinvolgere lo stesso gramscismo.
Consideriamo ora quella che era la novità del partito
gramsciano-togliattiano e la novità presente della «terza via».
L'originalità del partito gramsciano-togliattiano non può essere
negata. Sarebbe un errore vederci un'agenzia italiana del partito
comunista sovietico. L'autonomia e il legame di ferro col
comunismo sovietico coesistevano nel partito italiano perché si
trattava dell'autonomia di un partito rivoluzionario adeguati ai
«punti più alti».
Invece, la «novità» presente del Pci non è condizionata dal
sorgere di un'idea nuova e neppure dallo sviluppo di una tesi
appartenente al patrimonio marxista-leninista-gramsciano; segue
invece al declino dell'impostazione gramsciana-togliattiana.
Diremo che il Pci si trova oggi scoperto culturalmente? Certo,
purché si aggiunga che a questa scoperta ideale non corrisponde
affatto una crisi dal punto di vista politico o elettorale, o una
diminuzione della sua pericolosità dal punto di vista religioso o da
quello nazionale.
Il pratico abbandono, costretto dalla crisi ideale, del mito
rivoluzionario sembra portarlo a una conversione al riformismo
che è frattura reale, per dissimulata che sia, rispetto alla posizione
di Togliatti, perché, come bene ha detto Cossutta nel dibattito sulla
relazione di Natta all'ultimo Comitato Centrale del Pci, «il metodo
riformatore di Togliatti implica il cambiamento, graduale, del
capitalismo verso una nuova società: le riforme per predisporre "il
terreno più favorevole" al cambiamento. Mentre il riformismo ha
per fine il mantenimento di questo sistema, sia pure con la ricerca
di elementi di socialità» (L'Unità, 1 febbraio). O come ha detto in
linguaggio non comunista, e con perfetto rigore, Vittorio Strada:
«Se per il "riformismo rivoluzionario" le riforme sono gradi di
avvicinamento e strumenti di possibilità della Grande
trasformazione, per il "riformismo riformistico" le riforme sono la
prassi costante di una trasformazione che non si pone un traguardo
finale (rivoluzionario)» (Corriere della Sera, 22 febbraio).
Idealmente, dunque, non si può parlare del passaggio dal
«riformismo rivoluzionario» al «riformismo riformistico» in
termini di sviluppo ideale e pratico. Tuttavia, è pur vero che di
questa verità vi è tra gli stessi intellettuali scarsa consapevolezza,
e che la polemica rispetto al comunismo si è fatta fiacca nella
precisa misura in cui si pensa che questa «evoluzione» sia
necessaria, per accelerati o lenti che siano i tempi.
Cerchiamo di vederne le ragioni. Dipendono da un falso
concretismo che consegue, a ben guardare quella valutazione laica
per cui gli aspetti totalitari del comunismo dovrebbero essere
spiegati con un suo insufficiente secolarismo. In questa
prospettiva, infatti la parte filosofica, contro-religiosa o
«gnosticomoderna» del marxismo dovrebbe essere considerata
come «sovrastruttura ideologica». Di qui la tesi che il «bando alle
ideologie» dovrebbe essere la consegna dell'osservatore politico;
ove il termine ideologia subisce un'estensione affatto arbitraria,
sino a ricomprendere le concezioni della vita e le morali a esse
conformi. Tale modo di vedere è stato purtroppo accettato anche
da molti cattolici e da molti democristiani; e questo, ben
considerare, è il senso troppo spesso dato alla conclamata «laicità»
del partito democristiano.
Se sommiamo questo errore teorico, equivalente a un disarmo
ideale, a una serie di altre ragioni, possiamo misurare le condizioni
favorevoli che esistono per un possibile successo comunista.
Contiamo tali ragioni: stanchezza delle masse unita all'esigenza di
un certo ordine che un partito organizzato e disciplinato può
garantire o contribuire a garantire meglio di altri; favore della
cultura laica, in proporzione diretta alla sua avversione al
cattolicesimo; favore del modernismo cattolico, legato
all'avversione all'integralismo.
Importa ora rivolgere l'attenzione sui pericoli, e anzitutto su
quelli di ordine religioso. Il male peggiore per i cattolici è la
divisione; il non sapersi esprimere in una dottrina sicura e in una
morale sicura significa per il cattolicesimo dare l'impressione di
essere sorpassato dalla storia. Ed è proprio in relazione a questa
impressione, non ad un anticlericalismo di cui le tracce oggi sono
rare, che trova spiegazione l'impressionante diminuzione delle
pratiche religiose, la perdita della fede, la decadenza del costume.
Passiamo agli argomenti che hanno particolare connessione
con l'autonomia nazionale, e con le questioni, che le sono legate,
dell'ordine interno e della pace. C'è indubbiamente un
allentamento nel legame del Pci con la Russia; ma d'altra parte la
politica del Pci è stata approvata da Zagladin, e questo non può
essere avvenuto senza una serie di ragioni che, nel caso, sono del
tutto semplici. È di palmare evidenza, infatti, che il comunismo
deve obbedire a una legge che è quella di avanzare; che negli
ultimi decenni obbedendo a questa legge, è giunto a dominare più
di un terzo del mondo senza che gli occidentali, addormentati
dalla formuletta del comunismo «forza di modernizzazione per i
Paesi arretrati» se ne siano molto preoccupati; che voglia
estendere senza guerra il suo potere in Europa. Date queste
condizioni, il pericolo primo da cui il Pci doveva difendersi, nella
sua ricerca di far coincidere la sua politica interna con le esigenze
della politica sovietica verso l'Europa, era quello dell'isolamento;
l'allentamento nei riguardi della Russia, complementare alla
ricerca di alleanze all'interno è avvenuto nel pieno rispetto di quel
«riformismo rivoluzionario» che già Stalin aveva approvato, nel
preferire Togliatti a Secchia. Non ci può essere contrasto tra il Pci
e l'Urss finché il primo si manterrà nei limiti del riformismo
rivoluzionario.
Quel che però non si può pensare è che il passaggio al
«riformismo riformista», ossia la «metamorfosi»
socialdemocratica potrebbe venir accolta senza reazione da parte
sovietica. I termini dell'eventuale condanna sono già formulati
negli organi ufficiali del comunismo sovietico: la «terza via» è
frase priva di senso; e non si può giungere al socialismo attraverso
una via riformistica. La condanna passerebbe dalla potenza
all'atto, nel momento in cui venisse a mancare la coincidenza tra la
politica comunista italiana e la sovietica, che si risolve sempre,
almeno dopo l'eclissi del gramscismo, per una predestinazione
razionalmente e facilmente comprensibile, in una subordinazione
dell'Italia al potere sovietico. Si tratterebbe di una condanna
puramente ideologica? Sarebbe del tutto privo di senso il pensarlo.
Non si dimentichi il terrorismo che, giustamente, è stato definito
un «surrogato della guerra». Voglio ammettere, per un'ipotesi poco
credibile, che il terrorismo sia stato fino ad oggi un fatto interno,
senza collusione coi servizi segreti dell'Est. Ma quale sarebbe la
sua forza se questi servizi decidessero di servirsene, portando
questa risoluzione alle conseguenze estreme? Se invece di attentati
a treni che si ripetono ogni quattro o cinque anni, ce ne fossero
dieci, di uguale gravità, al mese...
Riassumiamo: torto della Dc è di avere attenuato fino a
tacciare di integralisti coloro che l'affermano, la visione della
storia contemporanea come lotta di fedi religiose opposte. L'avrà
fatto per allontanare il fantasma delle guerre di religione. Ma,
oggi, per paradossale che sembri, la garanzia della pace sta proprio
nel riconoscimento che la lotta è tra le fedi religiose opposte.
Utopia del laicismo è la trasformazione del comunismo
italiano in una socialdemocrazia adeguata alla collaborazione col
nuovo capitalismo.

(1) Sono celebri le pagine di Gramsci sull'unità fra gli


intellettuali e i «semplici» che la Chiesa Cattolica aveva realizzato
nel Medioevo e che solo il comunismo - vero suo erede sotto
questo aspetto - rinnoverebbe oggi.

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