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Mauro Scardovelli Conoscenza e libertà

Collana Aleph - 7

Copyright ©
Associazione culturale edizioni Liberodiscrivere®

ISBN 9788899137618

Edizione eBook novembre 2015

Questo libro è in vendita su: www.Liberodiscrivere.it

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altri strumenti, senza l’esplicita autorizzazione dell’Editore, costituisce reato e come tale sarà
perseguito.
Mauro Scardovelli
Conoscenza
e libertà
L’associazione Aleph, scuola di PNL (programmazione neurolinguistica) e di
counselling, promuove la ricerca nel settore della formazione e della crescita
personale.
La sua specificità consiste nel creare collegamenti fra discipline, saperi e
pratiche tradizionalmente separati: psicologia, psicoterapia, filosofia, arte,
musica e meditazione, ma anche economia, storia e scienze politiche, nella
convinzione che un lavoro personale davvero efficace non può prescindere
da una comprensione, nei suoi elementi essenziali, della realtà storico-
politica in cui viviamo.
I quaderni Aleph sono appunti di viaggio di un percorso interdisciplinare,
che tocca temi diversi, dai tipi di pensiero ai modelli di apprendimento, dalle
tecniche terapeutiche alla visione transpersonale, dai problemi della
globalizzazione all’etica umanistica e all’ecologia profonda, accomunati da
un solo intento: la crescita della consapevolezza individuale e collettiva.
Ogni quaderno è come il frammento di un mosaico: il suo significato lo si
comprende nel suo rapporto con gli altri.
Quaderni pubblicati: Propaganda; Io-governo; Barriere; Narcisisti con le
ali; Simboli Aleph; Karma ideologico ed economia; Conoscenza e libertà.
In corso di pubblicazione: La naturale capacità di amare; Inquinanti e
qualità dell’essere.
1. CONOSCENZA E LIBERTÀ
Ignoranza e sofferenza
Negli stessi anni in cui Pitagora pensava di chiudere la saggezza dietro le
porte difficilmente accessibili della competenza specifica, un poeta a lui
contemporaneo, Teognide, andava mostrando ad un più vasto pubblico come
quella saggezza, per quanto quasi inaccessibile, fosse tuttavia indispensabile
agli uomini, se non volevano essere preda dell’impotenza, figlia
dell’ignoranza:

“Spesso chi crede di provocare un male causa un bene, e chi vuole recare un
bene provoca un male:
all’uomo non riesce, allora, di compiere ciò che vuole, ma lo trattengono le
barriere della sgradevole impotenza;
perché noi uomini, quando non sappiamo nulla, ci poniamo in mente delle
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futilità” .

Secondo la filosofia buddista, causa della sofferenza è l’ignoranza,


l’ignoranza della vera natura della realtà e della mente.
La conoscenza vi renderà liberi, diceva Socrate. Liberi da che cosa? Da
superstizioni, illusioni, legami. Liberi quindi da ciò che ci rende schiavi e
sofferenti.
Ma quale conoscenza può sottrarci alla tirannia delle superstizioni interne ed
esterne? Freud non aveva dubbi al riguardo: la conoscenza di sé. Rendere
conscio l’inconscio, comprendere i nostri moventi nascosti. In caso contrario,
noi non siamo padroni di noi stessi, ma sudditi di forze oscure che abitano al
nostro interno e governano la nostra vita.
Su questa visione, Buddha, Socrate e Freud concordano. Diversi sono solo i
rimedi che propongono: la meditazione (Buddha), la dialettica (Socrate), la
psicoanalisi (Freud).
Nessuno di loro ha creduto, neppure per un minuto, che la conoscenza che
rende l’uomo libero possa ottenersi con l’apprendimento meccanico di dati,
concetti, teorie. Cioè con quel tipo di conoscenza che ancora oggi viene
praticata nella maggioranza delle scuole e dei corsi universitari, e che ha fatto
dire ad uno spirito libero come Ivan Illich: “Descolarizziamo la società!”.
Non c’è una grande differenza tra le scuole e le fabbriche. Le fabbriche
producono in buona parte oggetti non necessari. Le scuole preparano le
persone ad asservirsi alle fabbriche. Il proliferare di pensieri superflui si
traduce con il tempo in un proliferare di rifiuti materiali che non sappiamo
2
più dove mettere .

Curiosità ed esplorazione
L’uomo è l’animale più curioso che esista, più dei gatti e delle scimmie. E
quindi corre sempre il rischio di sconfinare in territori pericolosi. A
differenza dei rettili, si annoia a ripetere troppo le stesse cose (fanno
eccezione pochi individui, dei quali alcuni particolarmente dotati in questa
specialità. Da quando hanno istituito il guinness dei primati, non c’è
stranezza in cui non ci sia qualcuno che eccelle, dall’ingoiare lamette da
barba a strappare elenchi del telefono). La sua curiosità è connaturata alla
dimensione del suo cervello.
Ogni organo, a partire dal livello cellulare, contiene in sé la motivazione ad
essere utilizzato e a sviluppare pienamente le sue funzioni. Il cervello non fa
eccezione. E il cervello umano è sovradimensionato rispetto alle esigenze del
corpo fisico. Mangiare, bere, dormire, fare sesso, non sono azioni sufficienti
per impegnarlo. Lo impegna a fondo solo l’esplorazione di ciò che ancora
non conosce.
D’altra parte, l’uomo, rispetto ad altri animali, non può certo vantare armi
naturali paragonabili, come denti, artigli, potenza muscolare, veleni ecc.
Nella lotta per sopravvivere, ha sviluppato soprattutto l’intelligenza, con la
quale ha rapidamente rimontato il deficit iniziale. E, secondo alcuni, in questa
corsa si è fatto prendere la mano e ha finito per esagerare (è oggetto ancora
oggi di dotte discussioni se le bombe atomiche siano davvero necessarie a
garantire la nostra sopravvivenza. Nel dubbio, continuiamo a produrne in
abbondanza, insieme ad altri marchingegni non meno pericolosi).

Io so di non sapere
Trattando un tema come quello della conoscenza, non può mancare una storia
di antica saggezza cinese. Un giorno il figlio di un vecchio contadino tornò a
casa tutto contento: aveva trovato un meraviglioso cavallo. Gli abitanti del
villaggio, un po’ invidiosi, si complimentarono per la sua fortuna. Ma il
vecchio scosse il capo, dicendo: “Non so se è una fortuna”. Poco tempo dopo,
il figlio cadde dal cavallo e si ruppe una gamba. I vicini di casa dissero: “Che
brutta disgrazia!” Anche questa volta il vecchio disse: “Non lo so”. Una
settimana più tardi, i messi dell’imperatore setacciarono la campagna, alla
ricerca di nuove leve militari. I giovani che partirono per la guerra, morirono
tutti. La caduta da cavallo aveva salvato la vita al figlio del contadino.
“Tutti siamo ignoranti”, diceva Socrate, “io, però, so di non sapere”. Per
questo egli si riteneva più sapiente degli altri.
Per ammettere la propria ignoranza e i propri torti, ci vuole umiltà.
L’orgoglioso pretende di aver ragione anche quando non sa nulla di un
argomento. La prova che ha ragione è una sola: perché lo dice lui.
Molte persone sono orgogliose. Pochissime lo ammettono, perché nonostante
l’evidente progresso etico dell’umanità, l’orgoglio, a differenza
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dell’egoismo , non è ancora considerato una pubblica virtù.
Un padre e una giovane figlia, ormai adulta, litigavano frequentemente. Un
giorno il padre condusse la figlia davanti ad una finestra e le chiese: “Fuori
sta piovendo o c’è il sole?”. “Non sta piovendo, è tutto asciutto”, rispose la
giovane. “Ebbene”, disse il padre, “se io dico che piove, vuol dire che
piove!”. “Ma allora a te interessa solo avere ragione?” “Sì”, disse il padre in
un momento di verità.
Quella giovane donna ebbe un attimo d’illumina-zione, la luce della
consapevolezza rischiarò la storia della sua vita. Ma presto la luce svanì, e le
furono necessari altri trenta anni e due matrimoni - con persone simili a suo
padre - per tornare a vedere la realtà così come è.

Immaginazione e depressione
La realtà è che, come esseri umani, sappiamo veramente poco di ciò che ci sta
più a cuore: come spendere bene la nostra vita e non dipendere dalle
circostanze più o meno fortunate.
Come gli altri animali, a volte anche di più, siamo fragili. In compenso
abbiamo dalla nostra una grande risorsa: con il pensiero sappiamo spostarci
nel tempo e nello spazio, rivisitare il passato o immaginare il futuro.
Sappiamo parlare e raccontare agli altri i nostri pensieri, i nostri sogni e le
nostre paure. Ma, siccome siamo suggestionabili, questa risorsa può
facilmente trasformarsi in un incubo: la depressione è il prezzo che l’uomo
paga alla sua immaginazione.

Il bisogno di avere ragione


Alcuni moderni cognitivisti ritengono che il bisogno fondamentale dell’uomo
sia quello di capire e prevedere la realtà circostante. In altre parole, il bisogno
di formulare ipotesi corrette. Non ricordo quali argomenti portino a sostegno
di questa tesi. Certamente non la storia della filosofia. E neppure la storia
delle idee e delle convinzioni che hanno dominato il mondo nei diversi secoli,
dal fondamento divino del potere dell’imperatore e dei sovrani, alle teorie che
hanno giustificato guerre e genocidi.
In termini semplici, avere ragione ci dà sicurezza. Ma siccome la realtà non
sempre si piega a questa nostra esigenza, cerchiamo di convincere almeno i
nostri simili. Che, se fossero davvero gentili, ci darebbero ragione per farci
felici, anche quando abbiamo palesemente torto. Purtroppo, essendo questa
un’esigenza piuttosto diffusa, è molto raro trovare persone così generose da
anteporre la felicità altrui alla propria.
In cambio se ne trovano molte disposte a dedicare tempo ed energie a
convincere gli altri che sono in errore. Soprattutto in passato, quando
l’umanità era più sanguigna e passionale di oggi, c’erano persone così
eroiche da viaggiare in ogni parte del globo a diffondere le loro nobili idee,
specialmente sulla politica e sulla religione. Oggi stiamo attraversando un
periodo di decadenza. Tanto è vero che per uno scopo così elevato nessuno si
muove più di casa. A meno che le idee non siano collegate ad interessi,
solitamente di tipo economico.

Credenze
Charles Peirce, fondatore del pragmatismo americano e della moderna
semiologia, ritiene che gli uomini formino e mantengano le loro credenze
attraverso quattro metodi principali:

- metodo della tenacia


- dell’autorità esterna
- della filosofia
- della scienza

La tenacia è quell'atteggiamento così diffuso tra gli uomini per cui una
persona che segue questo metodo nutre nei confronti delle proprie credenze,
delle proprie opinioni la tenace volontà di perseguirle contro tutto e contro
tutti; l'uomo cioè si attacca tenacemente alle sue idee e non vuole metterle a
confronto con le idee degli altri, anzi, nutre odio e disprezzo per tutti coloro
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che hanno credenze difformi dalla sua .
Più sopra abbiamo preso in considerazione le ragioni psicologiche della
diffusione di questo atteggiamento di chiusura: paura e insicurezza da cui
nascono i bisogni di affermarsi, imporsi, ottenere riconoscimento alle proprie
idee.
Il secondo metodo col quale gli uomini abitualmente fissano le credenze,
decidendo quindi anche i loro abiti di azione, è quello che Peirce chiama il
metodo dell'autorità. Questo metodo è a sua volta un metodo tenace ma che
non si appella tanto alle credenze del singolo, quanto alle credenze che
vengono fissate dall'autorità o dalla tradizione, dallo stato, dalla religione, dal
gruppo sociale, dalla classe di appartenenza sociale o dalla consorteria
professionale.
Questi due modi molto diffusi, dice Peirce, sono assolutamente precari; essi
alla lunga non riescono a stabilire credenze durevoli perché per quanto gli
uomini si oppongano con tenacia al confronto e alla discussione, essi non
possono fare a meno di scontrarsi con le opinioni difformi dalle loro e quindi
non possono non venirne alla lunga influenzati.
Esiste un terzo metodo per fissare le credenze che Peirce definisce più nobile:
è il metodo della filosofia. Questo metodo non si appella alla tenacia, ma si
apre al dubbio, al confronto, al dialogo; esso ha come suo compito, come
meta quello di pervenire ad una credenza razionale. Gli uomini che seguono
questo metodo vogliono essere in accordo con la ragione e non con le loro
personali opinioni o con le loro passioni, o con gli interessi di un’istituzione.
Questo metodo è più nobile, dice Peirce, e tuttavia esso nel tempo non ha
dato risultati così apprezzabili come si poteva sperare per il semplice motivo
che i filosofi non riescono ad accordarsi su ciò che intendono per ragione.
Ognuno intende la ragione a modo suo, fa della ragione una questione di
gusto, e quindi questo metodo razionale che vorrebbe essere universale
finisce per dare luogo a una serie di contese che molto spesso sono sterili.
Resta il quarto metodo, che Peirce seguì tutta la vita: il "metodo scientifico".
La scienza è quel procedimento attraverso il quale gli uomini non soltanto
elaborano le loro credenze in dialogo con altri uomini, ma le affidano al
riscontro della prova pratica, alla verifica empirica.
Peirce auspica che, con il tempo, le varie credenze degli uomini superino le
idiosincrasie, le differenze individuali, le opinioni personali per assumere
come banco di prova la verità pubblica, cioè i fatti pubblici che le
confermerebbero.
In tal modo il sapere finirebbe per convergere in una sorta di "ecumenismo
della verità". Cesserebbe quindi di essere la principale fonte di
incomprensioni e conflitti. E potrebbe svolgere quella funzione che gli
attribuivano Socrate e Buddha, e che nella storia umana ha raramente svolto:
la funzione di ridurre ignoranza e sofferenza.

Intermezzo
Mi rendo conto che un futuro di questo tipo potrebbe rivelarsi poco
desiderabile per non poche persone, quelle che nel mondo di oggi traggono
potere, privilegi e profitti dall’ignoranza collettiva. Non solo quelle che per
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mestiere deformano i fatti e occultano la verità attraverso la propaganda , ma
anche quelle che campano sulle disgrazie e sui conflitti altrui, per le quali
ogni riduzione di incidenti, malattie e guerre costituirebbe una perdita di
reddito garantito. Per un approfondimento del tema, rinvio alla lettura del
libro “Shock Economy”, di Naomi Klein.
Per bontà d’animo, vorrei tranquillizzare le persone che speculano sulle
umane disgrazie: esse per il momento non hanno molto di cui preoccuparsi.
Nei prossimi anni potranno facilmente continuare a svolgere il loro lavoro e
forse anche insegnarlo ai figli, affinché non rimangano disoccupati.
Il futuro di cui parla Peirce appare oggi così lontano che non lo si riesce
neppure ad intravedere. Anche perché molti segnali sembrano farci credere
che ce ne stiamo addirittura allontanando: fanatismo religioso, intolleranza,
razzismo e guerre etniche, tribalismo, millenarismo, superstizione, pratica
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della tortura, ecc. .
D’altra parte, se guardiamo in profondità, anche di fronte a questi fatti, è
certamente improduttivo cedere alla tentazione del pessimismo e del
nichilismo: i grandi cambiamenti non avvengono per gradi, ma per salti, dopo
che si è raggiunta la massa critica necessaria a generarli.
Ognuno di noi può scegliere, giorno per giorno, di contribuire in modo
positivo o di reagire in modo negativo. Inerzia, frustrazione, senso
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d’impotenza sono modi certamente negativi . Così come il fanatismo e la
fede cieca nel progresso, in quanto crede di poter risolvere i problemi con lo
stesso tipo di pensiero che li ha generati.
Ogni illusione, si sa, apre la strada alla delusione, tanto più dura e amara
quanto più, trasformando in dogmi le proprie idee, la si è voluta tenere
lontana.

Ama il prossimo tuo


Di fronte alla domanda trabocchetto rivolta a Gesù da uno scriba: “Quale è il
comandamento più importante?”, egli rispose: “Ama il prossimo tuo come te
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stesso” .
Che cosa c’entra questo con il tema della conoscenza? Un attimo di pazienza
e lo vedrete.
Il comandamento ama il tuo prossimo è paradossale, perché l’amore è un
sentimento, e noi non comandiamo ai nostri sentimenti. Quando detestiamo
una persona, possiamo solo far finta di amarla. E allora? Gesù ha mentito ai
suoi discepoli? No. Per obbedire a questo comandamento, una strada esiste:
trasformare il proprio carattere, lasciando andare gli aspetti egocentrici e
narcisistici della personalità ed aprendosi via via ad una visione
transpersonale, nella quale ci sentiamo interconnessi ad un livello molto
profondo. Un livello nel quale non percepiamo più un confine rigido, una
differenza netta tra noi e gli altri. Una strada difficile, di cui molti hanno
parlato e dissertato, ma che nei fatti è stata percorsa fino ad oggi da ben
poche persone. Strada difficile, ma necessaria, se vogliamo che l’umanità
rinunci all’ingordigia, all’ignoranza, ai conflitti e alle armi letali di cui oggi
dispone, e abbia davanti un futuro possibile.
Attraverso il suo esempio e l’insegnamento di amare il nostro prossimo come
noi stessi, Gesù in realtà ci invita ad impegnarci a fondo per uscire
dall’ignoranza ed acquisire una corretta visione. Visione che non possiamo
avere finché siamo preda dei demoni che abitano il nostro inconscio. Le
parole di Gesù sono molto diverse da quelle usate dal Buddha o da Socrate,
perché diversa era la cultura delle persone a cui egli si rivolgeva. Ma se
guardiamo in profondità, il suo messaggio era rivolto nella stessa direzione,
perché i demoni da cui dobbiamo guardarci sono sempre gli stessi: avidità,
invidia, odio, risentimento, paura.
I demoni non si sconfiggono con le armi né si allontanano ignorandoli. In tal
modo essi non fanno che rinforzarsi. L’inconscio si rivela solo a chi ha la
fede e la pazienza di osservare senza giudicare, senza combattere, senza
pretendere che la realtà sia diversa da quella che è.

Fede
In questo cammino, la fede è una risorsa preziosa, irrinunciabile. S. Agostino
diceva: “Credi ut intelligam” (credi per comprendere). Chi non ha fede, non
ha la perseveranza necessaria a praticare la disciplina dell’autosservazione.
Secondo il buddismo, la fede ci fornisce la forza di essere diligenti,
impegnati, focalizzati su ciò che è davvero importante, senza lasciarci
distrarre. Se abbiamo fede, siamo concentrati. E solo se siamo concentrati, se
dimoriamo nel qui ed ora, possiamo superare il muro dell’ignoranza e vedere
la realtà così come è.
D’accordo, la fede dà forza e visione, ma da dove origina? E’ un frutto del
caso? O è un dono, un evento fortunato? No. Secondo l’insegnamento del
Buddha, la fede è fatta di una materia chiamata intuizione profonda o
esperienza diretta.
Illuminazione, libertà e trasformazione non arrivano attraverso l’elaborazione
intellettuale. Una filosofia che si limiti ad allenare la ragione è insufficiente.
S. Anselmo di Aosta ha ritenuto di dimostrare l’esistenza di Dio in modo
irrefutabile. Ecco a grandi linee il suo ragionamento: Dio è l’essere
perfettissimo, il più perfetto di tutti. Quindi è dotato di tutte le qualità. Tra le
sue qualità c’è per forza anche l’esistenza, altrimenti non potrebbe essere
l’essere più perfetto. Dio, quindi, per sua natura, esiste.
Provate a fare ragionamenti di questo tipo ad un bracciante lucano, se ancora
ne esiste uno, o ad un pastore yemenita, e vedrete che cosa vi rispondono.
D’altra parte S. Anselmo di Aosta, che era uomo intelligente, non avrebbe
parlato in questo modo se il terreno non fosse stato preparato da secoli di
dissertazioni filosofiche, a partire da Platone ed Aristotele, sulla realtà degli
universali (v. oltre nota n. 11).
Se la ragione viene staccata dalle sensazioni, dalle emozioni, dai sentimenti,
diventa autoreferenziale. Se non si traduce in una pratica che coinvolge il
corpo, il respiro, l’attenzione, il modo di osservare ed ascoltare, porta
inesorabilmente ad un vicolo cieco: si isterilisce o produce mostri.
Occorre distinguere tra fede cieca e fede autentica. La prima è pregiudiziale,
non radicata nell’esperienza. Quindi è soggetta a cadute e disillusioni. Oppure
può essere mantenuta solo a prezzo di negazione, chiusura e progressivo
irrigidimento della coscienza. La fede cieca ha paura della prova dei fatti:
quindi è sempre pronta ad urlare e combattere per difendere se stessa da ogni
forma di verifica o smentita, che la porterebbero ad abbandonare le limitate
certezze a cui si è faticosamente aggrappata.
La fede autentica, al contrario, non smette di cercare e cambiare. E’ fede viva
perché non ha bisogno di attaccarsi a nulla. Non ha bisogno di autorità, santi,
maestri, guru, anche se di essi può temporaneamente giovarsi come forme di
esempio o aiuto. Essa è alimentata da uno stato di presenza mentale e
concentrazione, uno stato di coscienza - radicato nei sensi, nel respiro e nel
corpo, non solo nella mente -, in cui il tempo si dilata e la visione si
approfondisce in modo del tutto naturale. E insieme alla visione si
approfondisce il senso di presenza, di coinvolgimento, convibrazione che
apre all’empatia, alla compassione e all’amore.
Possiamo chiamarla meditazione, contemplazione, flusso, creatività, mente
profonda, gioia dell’essere o preghiera. Le parole non hanno grande
importanza.
Se invece siamo distratti, indaffarati, frettolosi, se siamo tesi e preoccupati,
percepiamo solo la superficie delle cose. Lo stesso accade se siamo
concentrati solo nella testa, distaccata dal corpo e dalle emozioni: in tal caso
le idee in cui ci identifichiamo vengono prima delle persone e dei fatti reali.
Le idee, perduta la loro base nell’esperienza sensoriale, per sua natura fluida
e impermanente, si cristallizzano, si induriscono e si trasformano in
ideologie, politiche, filosofiche o religiose, non ha importanza. Le ideologie
sono schemi fissi, precostituiti, nei quali vogliamo inquadrare la realtà del
presente, distorcendola alla radice ed esercitando violenza sulla natura e sulle
persone.
In entrambi i casi perdiamo contatto con il nostro vero sé e con gli altri.
Gradualmente usciamo dal fiume della vita e ci ritroviamo ingabbiati nella
pozza della deformazione della realtà, dell’ignoranza e della mancanza di
empatia: in una parola della nevrosi.
Il termine nevrosi richiama la sofferenza, l’essere preda di emozioni e
pensieri che non si vorrebbe avere, l’essere in balia di forze che non si
controllano. Nevrosi è sinonimo di scissione, separazione, conflitto. Con chi?
Con il proprio inconscio. Essenza della nevrosi è l’ignoranza di sé, e di
conseguenza, ignoranza del mondo che ci circonda.
Nonostante le straordinarie imprese della scienza e della tecnica nel mondo
materiale, o forse proprio a causa di esse, la condizione nevrotica è comune
all’uomo moderno civilizzato: ciò che varia tra le persone è il grado di
intensità. L’ignoranza non è quindi un fenomeno individuale, ma collettivo.
E’ il frutto dello stato di coscienza ordinario in cui normalmente abitiamo, e
che ci conduce inesorabilmente a percepire la superficie delle persone e degli
altri esseri, e a lasciarci sfuggire ciò che è più importante: il loro cuore, i loro
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sentimenti, le loro ragioni profonde .
Lo stato ordinario di coscienza è uno stato egoico, in cui il senso di
separatività, estraneità, esclusione è la tonalità di fondo della musica in cui
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siamo immersi, inconsapevoli come i pesci rispetto all’acqua in cui nuotano .

Presenza mentale, visione profonda


Thich Nath Hanh, nel bellissimo libro “La luce del Darma”, così si esprime:

“Secondo gli insegnamenti del Buddha, la vita può essere vissuta solo nel
momento presente. Se sei distratto, se la tua mente non è lì con il corpo, perdi
il tuo appuntamento con la vita. La presenza mentale è il frutto della pratica
quando hai dentro di te l’energia della diligenza. Infatti, se non sei diligente,
la tua presenza mentale non può crescere.
Se c’è presenza mentale, allora c’è anche un altro tipo di energia, che è
l’energia della concentrazione. Quando bevi il tè in presenza mentale, il tuo
corpo e la tua mente sono focalizzati su qualcosa soltanto, l’atto di bere il tè.
Quando vivi in concentrazione entri in contatto profondo con il mondo che ti
circonda, e inizi a comprenderne la profondità. Questa si chiama visione
profonda. Supponiamo che tu sia lì, con il corpo e la mente in perfetta
armonia, ad ammirare una foglia oppure un fiore. Diventi tutt’uno con quella
foglia o con quel fiore; e riuscendo ad entrare in contatto profondo con ciò
che osservi, ad ascoltarlo profondamente e a osservarne la natura, lo inizi a
comprendere, ad avere una visione esatta di ciò che è. L’oggetto della tua
concentrazione può essere un fiore, una persona, una nuvola, un bambino, il
caffé che stai bevendo, il pane che stai mangiando, qualsiasi cosa.
La visione profonda è frutto di un’esperienza diretta. Questo fiore non è più
un concetto. La persona che osservo profondamente diventa una realtà,
l’oggetto della mia presenza mentale, della mia concentrazione, e non è più
né un concetto né un’idea”.

Presenza mentale, concentrazione, visione profonda, nella filosofia buddista


sono aspetti tra loro collegati. Insieme alla fede, formano una catena positiva
che si autoalimenta. E’ la visione profonda che alimenta la fede, che in tal
modo non è fede cieca, destinata ad essere travolta dalla delusione, ma fede
viva, radicata nella consapevolezza. Fede che a sua volta motiva la pratica
diligente di presenza mentale e concentrazione.

Stati di coscienza
L’ignoranza essenziale, l’ignoranza che produce sofferenza, l’ignoranza di
cui parlavano Buddha, Socrate, Freud, e, come abbiamo visto, anche Gesù,
non è mancanza di erudizione o di specifiche conoscenze. E la conoscenza
che può scioglierla non è quella disciplinare e burocratica che apprendiamo
nelle nostre scuole.
Tutto il ragionamento fin qui seguito ci conduce ad esplorare un concetto
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fondamentale: lo stato di coscienza. Concetto in gran parte distorto o
ignorato nella storia della filosofia e della scienza occidentale, che in tal
modo sembrano pervenute ad un vicolo cieco. La fede nel progresso è stata
sostituita dal disincanto, dalla desacralizzazione del mondo e dal
materialismo. Ai quali si contrappongono da una parte, in modi più o meno
disordinati, le varie forme di irrazionalismo, e dall’altra, l’ancorarsi a visioni
spirituali o religiose che, nel loro dogmatismo, sono difficilmente compatibili
tra loro e con la coscienza dell’uomo contemporaneo, costretto pertanto ad
ignorarle o a praticare la schizofrenia.
Per parlare di stati di coscienza, prendiamo le mosse da un’immagine che ci è
ormai famigliare: l’ovoide di Assagioli, con i suoi tre livelli dell’inconscio:
inferiore, medio e superiore.
Noi non risediamo stabilmente in nessuno di questi livelli, ma, a seconda dei
momenti, ci spostiamo lungo l’asse verticale: dalle subpersonalità all’io,
quando ci disidentifichiamo dalle nostre pulsioni più primitive; e dall’io al sé,
quando ci disidentifichiamo dagli attaccamenti e dalle avversioni che
solitamente caratterizzano la nostra esperienza quotidiana (siamo contenti
quando raggiungiamo un risultato, o se qualcuno ci apprezza; diventiamo
arrabbiati o tristi se qualcuno non soddisfa una nostra aspettativa o ci critica).
Al movimento verso l’alto, segue ciclicamente un movimento verso il basso,
a seconda delle circostanze.
Bene, i tre livelli dell’ovoide di Assagioli corrispondono a tre stati di
coscienza, caratterizzati da intenzioni, atteggiamenti di fondo, filtri percettivi
diversi. Cambiare stato di coscienza è un po’ come sostituire le lenti
attraverso cui percepiamo la realtà. Cambia il modo di osservare, ascoltare,
sentire. Cambiano quindi le rappresentazioni che ci facciamo.
Il mondo che abitiamo è molto diverso a seconda del livello in cui ci
sintonizziamo.
Nel livello più basso, esso appare come un campo di battaglia, dove domina
la legge della giungla.
Nel livello intermedio, si accede ad un mondo ove domina il commercio e lo
scambio, dove ognuno guarda al proprio interesse particolare, e cerca di
massimizzarlo, senza necessariamente nuocere agli altri, ma senza neppure
curarsene più di tanto.
Solo nel terzo livello la visione si trasforma in modo radicale: si scopre che il
netto confine che ci separava dal mondo è illusorio; si comincia a percepire
che non esistono soggetti e oggetti fissi ed isolati gli uni dagli altri; che il
nostro stesso io, in cui ci identificavamo, è in verità assai fluido, permeabile e
mobile; e che non solo siamo in relazione, ma siamo interconnessi con le
altre persone, gli animali e le altre forme di vita a un livello molto profondo.
Quando raggiungiamo questo stato è del tutto innaturale farsi prendere dalla
fretta o dalla paura, diventare violenti e ferire qualcuno, innaturale come darsi
una martellata su un braccio o su una gamba. Usuali sentimenti come la
rabbia, la paura, la tristezza, cessano di esistere, sostituiti da gratitudine,
compassione, amore. Non perché siamo diventati più buoni e generosi – non
si diventa più buoni in pochi minuti o in poche ore - ma perché diverso ci
appare il mondo in cui viviamo. Se ci accorgiamo che il serpente di cui
avevamo paura era solo una corda, la nostra paura cessa. Non perché
abbiamo acquisito più coraggio, ma perché avere paura non ha più senso
alcuno.
E’ questa l’immagine della realtà che ha sempre portato gli spiriti mistici alla
ricerca della verità profonda, al di là delle apparenze. Immagine in contrasto
con la visione meccanicistica ancora dominante, ma recentemente suffragata
dalle scoperte della fisica quantistica, secondo la quale tutto è flusso di
energia, in continuo mutamento. Il tempo, lo spazio e gli oggetti, così come
eravamo abituati a pensarli, semplicemente non esistono, se non nella nostra
mente di osservatori, ancorati ad un determinato stato di coscienza.
Il luogo della coscienza in cui si colloca l’osservatore diventa quindi decisivo
ai fini delle osservazioni che si possono compiere e delle rappresentazioni del
mondo che si possono ottenere. Secondo questo paradigma, la realtà non è
più qualcosa di esterno ed oggettivo, scomponibile e analizzabile
indipendente da noi, come si credeva un tempo. La separazione tra soggetto e
oggetto, che ha sovradeterminato tutta la storia del pensiero occidentale, non
è più considerata una verità assoluta, ma solo relativa.
Relativa a che cosa? Allo stato di coscienza dell’osser-vatore. Se egli si
colloca nei primi due livelli, certamente il mondo funziona come insieme di
oggetti separati, in lotta tra loro o, come minimo, in competizione per
soddisfare i loro diversi interessi. L’io personale diventa una realtà concreta,
verificabile giorno per giorno nella nostra esperienza di relazione con gli altri
e con l’ambiente.
Come diceva Sartre, gli altri sono il nostro inferno. Ma anche la solitudine è
un inferno. Noi siamo fragili, dobbiamo difenderci. Malattie, indigenza,
solitudine, sono in agguato, insieme alla vecchiaia e alla morte, alla quale non
possiamo sfuggire.
Anche gli animali non possono sfuggire a vecchiaia, malattia e morte. Ma,
vivendo totalmente immersi nel presente, non se ne preoccupano, e finché
possono, dormono sonni tranquilli. Noi umani non siamo così fortunati:
potendo immaginare il nostro futuro, ne siamo spesso preoccupati.
Sperimentiamo quindi facilmente angoscia e paura, anche se nessuna tigre dai
denti a sciabola o nessun orso dal muso corto si sta preparando ad attaccarci.
Guardate i gigli nei campi, gli uccelli nel cielo, diceva Gesù, loro non si
preoccupano del futuro, di che avete paura voi che siete fatti a immagine del
Signore? La predicazione di Gesù è sempre rivolta alla stessa meta: stimolare
l’uomo ad elevare il suo stato di coscienza, abbandonando il pantano delle
subpersonalità e dell’ego, e accedendo al livello del sé.
Come abbiamo detto più sopra, ciò presuppone una trasformazione del
carattere. Carattere significa impressione, impronta: l’impronta che riceviamo
quando, nascendo, precipitiamo in un contesto umano sintonizzato non sulle
qualità dell’essere – amore, cura, compassione –, ma spesso carico di
inquinanti della mente: egoismo, preoccupazione, ingordigia.
Nel pensiero di Gesù, quest’impronta non è irreversibile. Nostro compito è
lasciarla andare, sostituendola gradualmente con una nuova impronta.
Un’impronta assai più profonda e radicata nella realtà vera, che possiamo
naturalmente ricevere sintonizzandoci sui messaggi della nostra anima, la
nostra parte più evoluta, la scintilla divina che abita al nostro interno come
riflesso dell’intelligenza profonda dell’universo. Intelligenza che nelle
diverse tradizioni viene chiamata Dio. In questo senso, in senso laico, non
dogmatico, in modo accertabile con l’esperienza, noi siamo davvero figli di
Dio.
Ecco perché preghiera, meditazione, concentrazione e visione profonda, riti
sacri, ascolto profondo e parola amorevole, pratica della gratitudine, della
compassione e del dialogo, portano tutti nella stessa direzione, in quanto
strumenti per elevare il nostro stato di coscienza e trasformare il nostro
carattere, legato agli aspetti scissi e regressivi della nostra psiche.
La storia delle religioni e della filosofia è la storia di come l’imperitura
tensione dell’uomo nella sua ricerca di verità ha prodotto infinite varianti di
teologie e cosmologie. E nello stesso tempo è la storia dell’umana follia, dal
momento che nella ricerca dell’unità, della pace e dell’amore, l’uomo non ha
fatto che produrre nuove scissioni e divisioni, e nuove forme di odio,
violenza, persecuzione.
Questo è accaduto ogni volta che ha perso l’umiltà, si è staccato dalla terra e
dalle sue radici, ha voluto farsi grande, per acquistare potere, per dominare il
mondo e imporre agli altri la propria visione. E si è trasformato nel più
terribile dei demoni.
E’ paradossale, ma non sorprendente date le premesse, il fatto che il ritorno
alla terra, alla sensorialità, alle multiformi passioni, sia invocato da
Nietzsche, filosofo non certamente noto per la sua umiltà di carattere.

Conoscenza e stati di coscienza


Ripartiamo dalla domanda iniziale: quale conoscenza rende l’uomo libero? In
conclusione delle riflessioni svolte, la risposta corretta sembra essere una
sola: quella ottenuta a partire da uno stato non egoico, in cui il mondo non
appare più come un campo di battaglia o un centro commerciale, ma un luogo
dove gli esseri umani sono, spesso inconsciamente, impegnati in un percorso
evolutivo che attraversa differenti livelli di consapevolezza e che accomuna
tutti i membri della specie. Percorso che, pur con esito collettivo incerto, ha
una direzione ragionevolmente riconoscibile e auspicabile da qualunque
persona di buon senso: pace, armonia, comprensione profonda, rispetto
reciproco e rispetto della terra che ci ospita.
Via via che ci si avvicina a questo stato di coscienza, i valori da promuovere
sono del tutto evidenti: l’altruismo dovrebbe prevalere sull’egoismo, la
cooperazione sulla concorrenza sfrenata, il piacere del tempo libero
sull’ossessione del lavoro, l’importanza della vita sociale sul consumo
illimitato, il dialogo e la ragionevolezza sul fondamentalismo e sul fanatismo
ecc.
Il problema è che i valori attualmente dominanti sono sistemici, cioè sono
suscitati e stimolati dal sistema che, in cambio, contribuiscono a rafforzare
(S. Latouche, Giustizia senza limiti, Bollati Boringhieri).
Ciò di cui oggi abbiamo maggiormente bisogno è una conoscenza in grado di
spezzare quest’anello ricorsivo perverso, fonte di infinita sofferenza.
Accumulare sapere disciplinare, scienza, tecnologia, filosofia, a partire da
uno stato egoico, quindi intriso alla radice dai valori dominanti
(competizione, arrivismo, darwinismo sociale), non fa che promuovere le
condizioni e i presupposti per la devastazione dell’ambiente, la corsa
all’accaparramento delle risorse, la guerra economica e l’ingiustizia sociale.
Conoscere se stessi (Socrate), osservare i propri pensieri (Buddha), esplorare
l’inconscio (Freud), trasformare il proprio carattere (Gesù), è il compito
evolutivo più importante per un essere umano, per diventare leader di sé, non
più preda di forze sconosciute. Ma l’inconscio personale, ove queste forze
abitano, non nasce dal caso o dal nulla. Esso si forma in una famiglia, che a
sua volta abita un campo di coscienza collettivo, un campo formato da un
pensiero-linguaggio che selettivamente indirizza l’attenzione e la percezione
su determinati oggetti e figure, escludendo dalla consapevolezza tutti gli altri.
In parole semplici, siamo istruiti a vedere il mondo secondo l’immaginario
economicista veicolato dalla pubblicità, immaginario tutt’altro che
sconfessato, ma, al contrario, sostenuto, dai presupposti impliciti alla nostra
formazione di cittadini, nelle scuole e nelle università. Che in tal modo
tradiscono la loro missione profonda: quella di educare e formare cittadini
liberi perché consapevoli. Queste istituzioni, assoggettate alla politica, che a
sua volta è assoggettata all’economia, non sono in grado di promuovere
quella rivoluzione, quel salto della coscienza che oggi è più indispensabile.
Ma perpetuano un tipo di sapere disciplinare, analitico, burocratico, fondato
sulla separazione tra soggetto e oggetto, tra ragione ed emozione, tra ragione
e cuore, tra individuale e collettivo, che caratterizza la nostra cultura egoica.
Un tipo di sapere che rende noi tutti, con poche eccezioni, individualisti,
conformisti, ripetitivi o ribelli, incapaci di visione profonda e slancio
creativo.

Terapia, formazione, conoscenza


Non poche persone vanno in terapia convinte di dover raccontare per filo e
per segno gli eventi importanti della loro vita. Spesso non si accontentano
delle linee generali, ma scendono in dettagli e particolari sempre più piccoli.
Vogliono che il terapeuta sappia il più possibile su di loro. Solo così,
pensano, potrà essere di aiuto.
Ma quale tipo di conoscenza intendono comunicare al terapeuta? Quella
ottenuta attraverso il loro punto di vista, il loro stato di coscienza, quel modo
di osservare il mondo che ha creato loro tanti problemi.
Osservare e riosservare i fatti in quel modo non sarebbe di alcuna utilità.
Quale è allora il compito del terapeuta? Quello di ascoltare e osservare da un
altro punto di vista, con un altro stato di coscienza, un altro tipo di pensiero.
Se, per ipotesi, il terapeuta si sintonizzasse sullo stesso tipo di pensiero,
diventerebbe una sorta di amico che dopo un po’ vedrebbe il mondo allo
stesso modo del cliente. E con questo perderebbe ogni possibilità di essere
d’aiuto.
Ora, quale tipo di pensiero, quale stato di coscienza consente di agire in modo
terapeutico? Uno stato di coscienza che, dal punto di vista evolutivo, si trova
su un gradino più alto rispetto a quello del cliente. Se il cliente si trova a
livello di subpersonalità, già uno stato di coscienza a livello dell’io adulto
può essere di aiuto.
E in che modo avviene l’aiuto? Attraverso il ripetuto esempio di un tipo di
pensiero più funzionale, più adattivo, meno generatore di sofferenza (tutte le
tecniche di PNL, ad esempio, sono costruite in modo da portare il cliente ad
adottare la clausola ecologica, ad utilizzare le sue risorse, ad essere attivo
anziché passivo ecc.). Riesaminare o rivivere la propria storia alla luce di un
nuovo tipo di pensiero fornisce alla storia un significato del tutto diverso, e
pian piano conduce la persona a prendersi la responsabilità della sua vita, a
smettere di lamentarsi e cominciare ad agire in modo costruttivo.
Come i problemi personali, anche i problemi collettivi non possono essere
risolti con lo stesso tipo di pensiero che li ha generati. Riesaminare e
rianalizzare i problemi dell’inquinamento, del riscaldamento globale, della
crescita della popolazione, della deforestazione, della desertificazione, della
prolificazione di armamenti, della fame nel mondo, del fanatismo religioso,
della droga, del terrorismo, della crescente conflittualità, non è di alcuna
utilità se non si cambiano i presupposti, il tipo di pensiero-linguaggio, lo stato
di coscienza. Infatti essi continueranno ad essere visti come separati gli uni
dagli altri, separati da noi come osservatori, e analizzati attraverso discipline
diverse, da differenti specialisti che usano linguaggi differenti, quasi
completamente incapaci di comunicare tra di loro e quindi di fornire una
visione d’insieme. In mancanza della quale le soluzioni proposte saranno
regolarmente incompatibili o in conflitto tra di loro, come normalmente
accade.
Pertanto, non solo a livello personale, ma anche e soprattutto a livello
collettivo, politico ed economico, è del tutto inutile ascoltare i valori
dichiarati. Nelle loro dichiarazioni pubbliche diverse multinazionali si fanno
paladine dell’ambiente e del benessere delle persone. Nei fatti sono sempre
guidate, per ragioni strutturali, da un unico valore: il profitto.
Non c’è da stupirsi. In uno stato di coscienza egoico, i valori che ispirano le
nostre azioni sono basati sulla separatività, e quindi sulla competizione
esasperata e sulla lotta, senza esclusione di mezzi. Le singole persone
contano relativamente poco nel momento in cui diventano ingranaggi di
macchine create apposta per drenare risorse e fare profitti a spese
dell’ambiente e delle comunità, protette dalle leggi dello stato e dalle leggi
internazionali. I cingoli di un bulldozer che attraversa un giardino producono
gli stessi danni, anche se cambia il guidatore.
Dal bulldozer occorre scendere e cominciare a guardare i fiori da vicino, gli
insetti, i ragni, i fili d’erba. A riposare sui prati, ed osservare le nuvole e le
stelle. In presenza mentale e concentrazione. Ed invitare gli altri a fare lo
stesso. Non strappandosi le vesti, urlando o minacciando. Ma attraverso la
forza dell’esempio e la fede nel potere di attrazione dell’integrità.
2. AVERE O ESSERE: LE RESISTENZE ALLA
CONOSCENZA
(Libera rielaborazione da E. Fromm, Avere o essere, Mondadori,
Milano, 1977)

Avere conoscenza
Secondo Erich Fromm, gli studenti che fanno propria la modalità esistenziale
dell’avere, quando vanno a lezione, si concentrano sulle parole
dell’insegnante e ne afferrano la struttura logica e il significato. Inoltre fanno
del loro meglio per trascrivere ognuna delle parole stesse nel loro quaderno di
appunti,

"in modo da poter poi mandare a memoria le annotazioni e quindi superare la


prova di un esame. Ma il contenuto non diviene parte del loro personale
sistema di pensiero, arricchendolo e dilatandolo; al contrario, essi
trasformano le parole che odono in agglomerati d’idee cristallizzate, concetti
o complesse teorie che comunque immagazzinano passivamente”.

Si tratta di una modalità non di cambiamento o trasformazione, ma di


12
adattamento . Questo è il tipico processo che viene comunemente praticato a
scuola, nonostante le dichiarazioni di principio contenute nelle diverse
riforme: ieri cambiavano i contenuti; oggi cambiano i metodi; domani
dovranno cambiare gli stili di relazione, con le persone e con gli oggetti di
conoscenza.

“Gli studenti e quanto viene loro insegnato rimangono estranei, a parte il fatto
che ognuno degli studenti è diventato il proprietario di un insieme di
affermazioni fatte da qualcun altro (il quale a sua volta o le ha coniate di suo
o le ha riprese da un'altra fonte). Gli studenti che hanno fatto propria la
modalità dell'avere si prefiggono un'unica meta: mantenere ciò che hanno
appreso, registrandolo esattamente nella propria memoria oppure
conservandone accuratamente le annotazioni. Non devono né produrre né
creare qualcosa di nuovo”.
“In effetti, gli individui del tipo avere mostrano la tendenza a sentirsi turbati
da nuovi pensieri o idee su questo o quell’argomento, e ciò perché il nuovo
mette in questione l'insieme cristallizzato d’informazioni che già possiedono.
In effetti, per una persona agli occhi della quale l'avere costituisce la forma
principale di relazione con il mondo, idee che non possano venire facilmente
incamerate (o registrate per iscritto) sono preoccupanti, al pari di qualsiasi
altra cosa che cresca e si trasformi e che pertanto sia incontrollabile”.

I tipi avere mostrano una resistenza alla conoscenza del nuovo, una resistenza
a qualunque idea che implichi un cambiamento (talvolta attraverso
manifestazioni di rabbia e irritazione, talvolta attraverso argomentazioni di
tipo polare oppure semplice difficoltà a capire, distrazione, stanchezza, ecc.).
Per loro la parola “nuovo” comporta il rimettere in discussione, operazione
opposta a quella di cristallizzazione e alla possibilità di esercitare un rigido
controllo sul sistema. Fare esperienza significa accogliere il nuovo, essere nel
flusso, abbandonarsi al fiume della vita. Stare nell’esperienza significa
affidarsi, accettare le cose così come sono, momento per momento. Ciò
presuppone apertura e amore: l’opposto della paura, della sfiducia e del
controllo.

Stato problema e stato risorsa


In termini di PNL, si tratta di due differenti stati:

- stato dell’avere, caratterizzato da ingordigia, chiusura, diffidenza,


paura (fisiologia e metaprogrammi: via da, passivo, non posso)
- stato dell’essere, caratterizzato da apertura, fiducia, flusso, flessibilità
(fisiologia e metaprogrammi: verso, attivo, posso)

Per cambiare ed apprendere occorre essere in uno stato di risorsa, d’interesse


e curiosità. L’apprendi-mento, quando è reale, conduce naturalmente ad uno
stato di soddisfazione e felicità, e si automotiva. Non ha bisogno di pungoli,
premi o punizioni. Purtroppo nella scuola tradizionale è ancora normale la
tendenza ad imparare stando ancorati ad uno stato-problema, quindi ad uno
stato d’indifferenza e scarso interesse o di ansia e chiusura mentale.
Noia e paura conducono a fuggire la novità e ad evitare l’esperienza.
Uccidono vitalità e creatività e ci rendono dipendenti e conformisti.
Una società civile, che pensa al proprio futuro, non può permettersi un simile
scempio di umane risorse. Oggi è ormai ben noto che il modo in cui ci
accostiamo all’apprendimento, specie in giovane età, influisce in modo
determinante sul nostro carattere e sulla nostra futura propensione ad essere
cittadini e lavoratori partecipi e attivi o succubi e improduttivi.
Esplorare e fare esperienza è tipico della modalità dell’essere, non dell’avere.
L’avere banalizza, imbalsama, mortifica la vita. Le conoscenze che si
acquisiscono in questo modo ingabbiano il nostro pensiero e il nostro
cervello; sviluppano insoddisfazione esistenziale e una ricerca compensativa
di un numero sempre maggiore di cose da avere e possedere.

Essere conoscenza
Secondo Fromm, il processo di apprendimento è di tutt'altro tipo per quegli
studenti che fanno propria la modalità di rapporto col mondo incentrata
sull'essere.

“Tanto per cominciare costoro non andranno alle lezioni, neppure alla prima
di un corso, a guisa di tabulae rasae. Hanno riflettuto già in precedenza sulle
problematiche che le lezioni affronteranno e custodiscono nella mente un
certo numero di domande e problemi personali. Si sono occupati della
materia e questa li interessa. Anziché essere passivi recipienti di parole e
idee, ascoltano con attenzione e, cosa della massima importanza, ricevono e
rispondono in maniera attiva e produttiva. Ciò che ascoltano stimola gli
autonomi processi di elaborazione mentale, provocando in loro il sorgere di
nuove domande, di nuove idee, di nuove prospettive.
Il loro ascoltare è un processo vitale. Prestano orecchio con interesse, odono
davvero quel che l'insegnante dice. Si rivitalizzano spontaneamente in
risposta a ciò che ascoltano. Non acquisiscono semplicemente conoscenze,
cioè un bagaglio da portare a casa e da mandare a mente. Ognuno di loro è
stato coinvolto ed è mutato: ognuno dopo la lezione è diverso da come era
prima. Questo è cambiamento, non adattamento”.

“Naturalmente, questa modalità di apprendimento può imporsi solo qualora


l'insegnante offra argomenti stimolanti: vuote chiacchiere non possono
trovare, come risposta, la modalità dell'essere, ragion per cui gli studenti che
la facciano propria preferiscono non ascoltare affatto, per concentrarsi sui
loro personali processi mentali!
Gli studenti nella modalità dell’essere fanno bene a rifiutare queste
informazioni”.

La modalità d’apprendimento dell’essere, affinché possa essere acquisita e


praticata, richiede insegnanti che utilizzano questa stessa modalità.
Anche un numero eccessivo di materie di studio e di prove d’esame
impediscono agli studenti di concentrarsi su ciò che è vitale ed essenziale. Gli
studenti si abituano ad un “mordi e fuggi” che rende impossibile ogni
coinvolgimento ed elaborazione personale. Non sono produttivi o creativi,
sono indaffarati e quindi sostanzialmente passivi.
Quantità, velocità, superficialità s'insediano al posto di qualità e profondità.
Ciò conduce verso l’apparire piuttosto che verso l’essere.
13
L’inganno della scuola è proclamare che si tratta di formazione .

Autorità razionale e irrazionale


Un altro esempio della differenza tra le modalità dell'avere e dell'essere, nel
pensiero di Fromm, è fornito dall'esercizio dell'autorità. L'elemento cruciale è
costituito dal divario tra avere autorità ed essere un'autorità.

“L'autorità razionale si fonda sulla competenza e aiuta a crescere coloro che


ad essa si appoggiano.
L'autorità irrazionale si basa sul potere e serve a sfruttare la persona che ad
essa è asservita”.

L'autorità secondo la modalità dell'essere non è fondata solo sulla


competenza dell'individuo per quanto riguarda l'assolvimento di certe
funzioni sociali, ma anche e nella stessa misura sulla vera essenza di una
personalità pervenuta ad un alto grado di crescita e integrazione.

“Persone del genere irradiano autorità e non sono costrette ad impartire


ordini, a minacciare, a corrompere; si tratta d’individui altamente sviluppati i
quali dimostrano, con ciò, che sono quello che gli uomini possono essere”.
L’autorità razionale si fonda non solo sulla competenza, ma sul modo di
14
essere e sulla congruenza . Congruenza significa essere la propria parola,
onorare la propria parola come se stessi, rispettare promesse e impegni. Le
persone che la praticano diventano autentica testimonianza ed esempio per gli
altri.
In termini di PNL umanistica sono dei veri leader di pace.

“Il fatto che la gente scambi uniformi e titoli per le effettive qualità della
competenza non è qualcosa che accade per caso. Coloro che possiedono
questi simboli d’autorità e coloro che ne beneficiano devono attutire ed
offuscare la capacità critica dei loro subordinati e far sì che credano alla
finzione.
Chiunque si soffermi su ciò che s’è detto si renderà conto delle
macchinazioni della propaganda e dei metodi cui essa fa ricorso per togliere
di mezzo il giudizio critico, di come la mente, mediante ricorso a clichè,
venga addormentata e sottomessa, di come la gente sia resa ottusa perché
diventi dipendente e perda la capacità di prestar fede ai propri occhi, alle
proprie orecchie e alla propria capacità di giudizio. Si è così resi ciechi alla
realtà della finzione in cui si crede”.

L’autorità irrazionale utilizza metodi ipnotici per rendere allievi e dipendenti


sordi, ciechi e incapaci di giudizio critico (siano essi bambini nei confronti
dei genitori, alunni nei confronti degli insegnanti, pazienti nei confronti dei
medici e dei terapeuti, fedeli nei confronti dei sacerdoti, cittadini nei
confronti delle istituzioni, ecc.). Solo in questo modo può mantenere il
potere.

Di qui il collegamento fra:


- autorità irrazionale e potere-dominio
- menzogna, segreto e creazione di paure

Segreto e menzogna sono indispensabili per coprire la realtà dello


15
sfruttamento e del gioco di potere . Sono indispensabili per mantenere in vita
16
il doppio legame: cresci e diventa indipendente, dipendendo da me .
Ciò che l’autorità irrazionale più teme sono il pensiero critico e
l’indipendenza di giudizio, che possono emergere solo in una persona libera,
autorealizzata e radicata nel proprio sé. Questo tipo di persona non solo non
si sottomette, ma neppure si ribella in modo superficiale, infantile e quindi
facilmente controllabile e sfruttabile ai fini della controreazione.
La ribellione è facilmente gestibile perché è semplice smascherarne il
movente: sostituirsi all’autorità irrazionale, esercitando a sua volta un potere
dominio. Il terrorismo, forma estrema di ribellione, non ha mai servito la
17
causa per cui lottava, ma l’ha danneggiata; lo stesso vale per l’estremismo .
La persona autorealizzata, che lavora per scalzare alla radice il potere-
dominio in ogni sua forma, non è suscettibile di ricatto, non è controllabile: è
rivoluzionaria per definizione.
Per questo, nonostante le dichiarazioni di principio, le agenzie educative
raramente promuovono la libertà di giudizio.
Oggi esiste un problema molto serio: l’autorità irrazionale è così diffusa,
nella dirigenza a tutti i livelli, da apparire normale. Al punto che è molto
difficile credere che possano ancora esistere autentiche autorità razionali, non
spinte da moventi egoici. La sfiducia domina sovrana e il transfert negativo è
molto frequente.
Lo si vede bene in terapia e nella formazione, dove molte persone lottano a
lungo prima di affidarsi. In realtà queste persone non sono prive di fiducia e
di fede, ma si tratta di fede negativa: esse ormai credono veramente solo
all’autorità irrazionale interiorizzata, che è distruttiva e le porta alla rovina.
E’ molto difficile aiutarle a liberarsi da questa fede.
In tal modo, senza rendersene conto, esse alimentano la forza dell’autorità
irrazionale in generale, quindi la prevaricazione e lo sfruttamento dell’uomo
sull’uomo.
Le persone più patologiche hanno un’immensa difficoltà a fidarsi. In questo
senso sono paranoidi: basta uno spunto qualsiasi per perdere la fiducia
faticosamente conquistata in un’autorità razionale e precipitare nuovamente,
con più forza di prima, nella fede negativa, alimentata dal nichilismo come
potente atteggiamento culturale.

Discrepanza tra comportamento manifesto e carattere, tra maschera e


inconscio
Per Erich Fromm, il principale contributo della psicoanalisi è la
comprensione di un doppio livello all’interno della persona: quello conscio
(in gran parte maschera o falsa coscienza) e quello inconscio (materiale
represso).

“Se io appaio gentile, mentre la gentilezza non è che una maschera che copre
la mia tendenza allo sfruttamento, oppure se appaio coraggioso, mentre sono
soltanto vanitoso o forse anche tendenzialmente suicida o ancora se in
apparenza amo il mio paese, mentre in realtà perseguo i miei interessi
egoistici, l’apparenza stessa, vale a dire il mio comportamento manifesto, è in
piena contraddizione con la realtà delle forze da cui sono spinto.
Il mio comportamento diverge dal mio carattere (ombra). La mia struttura di
carattere, il vero movente del mio comportamento, costituisce il mio essere
reale.
Il mio comportamento può parzialmente riflettere il mio essere, ma di solito è
una maschera che ho e che porto per raggiungere i miei scopi (il
comportamentismo si occupa di questa maschera, quasi si trattasse di un dato
scientifico attendibile).
Le nostre motivazioni, idee e credenze consce sono un miscuglio di false
informazioni, preconcetti, impulsi irrazionali, razionalizzazioni, pregiudizi,
sul quale galleggiano brandelli di verità dando la sicurezza, per quanto
illusoria, che l’intera mistura sia reale e vera. L’attività pensante tenta di
organizzare questa cloaca d’illusioni secondo le leggi della logica e della
plausibilità e si suppone che tale livello di consapevolezza rifletta la realtà; è
questa la mappa di cui ci serviamo per dirigere la nostra vita”.

Noi affidiamo la nostra vita ad una mappa distorta e inattendibile. E


naturalmente non ce ne rendiamo conto. Siamo disposti a discutere e
combattere per sostenere anche le nostre più assurde convinzioni. Come è
possibile tutto questo? La risposta di Fromm è sconvolgente:

“E’ possibile perché la conoscenza della realtà, la conoscenza di ciò che è


vero, viene repressa.
Ciò significa che quasi tutta la conoscenza vera, non manipolata della realtà,
non è direttamente accessibile, ma fa parte dell’inconscio e dell’ombra (si
rivela attraverso i sogni, i lapsus, ecc)”.
Quale è l’origine dell’inconscio? Secondo Fromm, l’inconscio, ovvero la
conoscenza che viene repressa, è sostanzialmente determinato dalla società.

“La società produce passioni irrazionali e fornisce ai suoi membri vari tipi di
finzioni, obbligando così la verità a divenire prigioniera della presunta
razionalità (è razionale ciò che è sociale, ciò che è condiviso; è irrazionale ciò
che non è condiviso, perché indica non adattamento e patologia).
Noi conosciamo la verità, ma reprimiamo questa conoscenza: in altre parole,
esiste una conoscenza inconscia.
Noi percepiamo la realtà, siamo attrezzati a farlo. La nostra ragione è
organizzata per riconoscere la realtà, come stanno le cose, così come i nostri
sensi sono organizzati per vedere, udire, sentire. Ovviamente non mi riferisco
a quella parte di realtà che necessita, per essere percepita, di strumenti e
metodi scientifici. Bensì alla realtà del comportamento umano18. Sappiamo (a
livello inconscio) quando abbiamo a che fare con un individuo pericoloso e
quando invece abbiamo a che fare con uno di cui possiamo fidarci appieno;
sappiamo quando ci viene raccontata una bugia, quando siamo sfruttati o
presi in giro. Conosciamo quasi tutto ciò che è importante sapere circa il
comportamento umano.
La prova l’abbiamo nei sogni, quando approdiamo ad una profonda
penetrazione dell’essenza di altri e di noi stessi, che invece ci fa
completamente difetto nelle ore di veglia. Se ne trova l’evidenza in quelle
reazioni, così frequenti, per cui all’improvviso ci capita di vedere qualcuno in
una luce completamente diversa, e poi abbiamo la sensazione di averlo
sempre saputo (anche nel sapere succede questo).
In effetti, buona parte della nostra energia è spesa nel nascondere a noi stessi
ciò che sappiamo.
Una leggenda talmudica dice che, quando nasce un bambino, arriva un angelo
che gli tocca la fronte e il piccolo così dimentica la conoscenza della verità
che aveva al momento della nascita; se non la dimenticasse, la sua esistenza
successiva sarebbe insopportabile.
L’essere si riferisce al reale, in contrasto con le immagini falsificate, illusorie.
In questo senso, ogni tentativo di dilatare il settore dell’essere implica una
maggiore penetrazione della realtà del proprio io, degli altri, e del mondo
circostante. La via verso l’essere consiste nel penetrare sotto la superficie e
nell’affermare la realtà”.

Essere significa verità, autenticità. Per arrivare all’essere occorre guardare


dietro a ciò che appare (maschera).
Dal nostro punto di vista, la psicoterapia non è rimozione dei sintomi, ma
superamento delle loro cause profonde: separatività, egoismo, paura,
19
illusioni, reattività. Sua essenza è la ricerca della propria vera identità : un
cammino che porta a scoprire, strato dopo strato, le nostre autentiche
emozioni e i nostri pensieri più veri. Un cammino che consente via via di
riunire ciò che era separato, di sciogliere i conflitti e di radicarsi
nell’integrità: essere la propria parola, onorare la propria parola come se
stessi.
Inteso in questo modo, il lavoro terapeutico, come ricerca della verità, è un
percorso di conoscenza. E può considerarsi una premessa necessaria ad ogni
autentico percorso spirituale.
3. VISIONE DELLA NATURA UMANA E
CONOSCENZA

Visione pessimistica e resistenze


Le religioni autoritarie, una parte dei filosofi moralisti e la psicoanalisi
freudiana, tendono ad enfatizzare gli aspetti negativi del carattere,
dell’inconscio e dell’ombra.
Si usa dire che tre sono i maestri del sospetto: Nietzsche, Freud e Marx. In
realtà la tradizione del pensiero pessimista è assai ampia e articolata. Si pensi,
ad esempio, ai filosofi agostiniani o ai giansenisti del sei - settecento.
Secondo la tradizione agostiniana, la vera natura dell’io è irrimediabilmente
negativa. Le virtù autentiche appartengono solo alla città di Dio. Nella città
terrena non esistono virtù, ma solo vizi mascherati. Per S. Agostino, l’amor
Dei esclude l’amor sui.
Per il duca di La Rochefoucauld “la nostra vita non rappresenta altro che la
grande e lunga agitazione dell’egoismo: appena la fortuna ci dà i mezzi,
l’egoismo ci rende tiranni degli altri”. In altri termini, La Rochefoucauld
rapporta ogni nostra azione ad una sola causa: l’egoismo, l’orgoglio,
l’interesse personale (“La generosità è un ingegnoso impiego del disinteresse
per perseguire un interesse ancora più grande.” “L’amicizia più disinteressata
non è che un commercio in cui il nostro amor proprio si propone sempre di
guadagnarci qualcosa.”).
Tale visione pessimistica sulla natura umana porta Pascal a nutrire un vero e
20
proprio “odio per l’io” .
Su questa linea di pensiero, scavare nell’inconscio significa quindi incontrare
passioni inconfessate, di cui vergognarsi, significa trovare il peccato, la
cattiveria, l’egoismo. Più si scava, più vizi si scoprono.

Visione umanistica e sentiero di conoscenza


Diversamente dalle tradizioni di pensiero di cui sopra, la visione umanistica
non ritiene che l’uomo sia fatto di “legno storto”. Non considera il male parte
della natura umana, ma effetto della repressione e della violenza. Cambia
quindi il modo di considerare il sentiero per giungere alla consapevolezza.
21
Così, ad esempio, anche secondo la corenergetica scavare nell’inconscio
vuol dire confrontare l’illusione e la menzogna della maschera, per accedere
alla verità del sé inferiore. Ma questo è solo un passaggio necessario, non
l’accesso all’ultima verità. La verità ultima è il vero sé, la scintilla divina, il
core. Il sé inferiore (egoismo, rabbia, ostilità, ecc.) non è originario, non è il
rappresentante più autentico della vera natura umana, ma nasce e si alimenta
in reazione a traumi, oppressioni e ferite.
22
Secondo Aurobindo , le psicologie che non riconoscono il livello spirituale
non possono neppure indagare realmente la parte oscura dell’inconscio: non
si può scendere nelle tenebre se prima non si è vista la luce.
In tal modo non liberano l’uomo dalla soggezione al potere. Gli danno solo
l’illusione e poi lo tradiscono. E proiettano lo stesso atteggiamento sui
percorsi spirituali, nei cui confronti manifestano implacabile diffidenza,
sostenendo che essi alimentano l’illusione. Tali terapie spengono lo spirito
rivoluzionario.
Da dove origina quindi la resistenza nei confronti della verità? Dalla paura
del giudizio, dalla vergogna, dalla paura del rifiuto da parte del gruppo
d’appartenenza: poiché la mia ombra pullula di demoni, se io mi rivelassi per
quello che sono, sarei ripudiato. Questa è la motivazione più comune,
facilmente accessibile alla coscienza che ha interiorizzato la visione della
psicoanalisi e/o delle religioni autoritarie. La prima descrive istinti e passioni
inconfessabili, mentre le seconde parlano di peccato, male e colpa.
C’è un’altra motivazione meno consapevole: se io vedessi davvero le cose
come sono, non potrei più stare nella maschera e nella compiacenza. Vedrei
le motivazioni nascoste degli altri e non sarei più disposto a sottostare
all’inganno.
23
Anche questo finirebbe per isolarmi. L’isolamento e l’ostracismo sono ciò
che più ci terrorizza.

Gioia e piacere
Qual è la differenza tra gioia e piacere?

- il piacere è di breve durata ed è connesso alla gratificazione immediata


dei sensi. L’eccessiva ricerca di piacere sensoriale è funzionale alla
compensazione di attività e modi di vivere alienanti
- la gioia è uno stato di fondo, dura nel tempo e si accompagna
24
naturalmente alla realizzazione delle proprie risorse e del vero sé

Una via di accesso privilegiata alla qualità della gioia è la pratica della
conoscenza, intesa come allargamento del sé. La conoscenza permette di
liberarci dall’oscurità, di vedere, di riconoscere noi stessi e il mondo che ci
circonda, di arricchire la nostra mappa del mondo, di diventare attivi e
25
liberi .
La vera conoscenza, pertanto, connette, unisce, produce integrazione a tutti i
livelli (mondo interno e mondo esterno, diverse visioni e discipline tra loro).
L’integrazione e l’unione liberano gioia. Per realizzare questo tipo di
26
conoscenza è importante sviluppare una mente di gruppo . La mente di
gruppo funziona tanto più efficacemente quanto più i partecipanti sono liberi
dalla modalità dell’avere e dell’accumulare informazioni.
Vivere secondo la modalità dell’essere produce naturalmente gioia. La
società moderna, centrata sull’economia e sul denaro, scoraggia la ricerca
della gioia, e stimola quella del piacere fondata sulla modalità dell’avere.
Secondo l’etica mercantile dominante, le persone svolgono in gran parte
lavori alienanti. In cambio vengono ricompensate con denaro da spendere,
non solo per vivere, ma anche per procurarsi beni in gran parte superflui e
piaceri del tutto effimeri. Questi piaceri non colmano il senso di vuoto creato
dall’alienazione. Sono forme di compensazione, droghe che creano
dipendenza.
Il piacere, a differenza della gioia, è collegato alla soddisfazione di un
desiderio. La felicità, in quest’ottica, significa soddisfare il maggior numero
possibile di desideri.
Perché il piacere non si accompagna al senso di pienezza? Perché
l’eccitamento e l’euforia durano un breve momento e sono seguiti da un
senso di vuoto? La risposta è semplice: il piacere effimero non fa crescere
l’individuo. Egli non ha agito in armonia con la sua vera natura, il suo vero
sé, ma ispirato dalle sue brame e passioni, tipiche delle parti meno evolute
27
della personalità .
La gioia, a differenza del piacere, si accompagna naturalmente all’attività
creativa, tipica della modalità dell’essere. La gioia, in termini buddisti, è un
piacere dell’essere.

Comprensione e gioia
Il fatto stesso di comprendere genera gioia: non sono più in balia
dell’ignoranza e della confusione, vedo le cose per quello che sono e la mia
vita acquista maggiore significato. Fine della passività e della paura. La
comprensione è liberante (in termini di PNL, significa passare da uno stato-
problema ad uno stato-risorsa).
Se scopro che il serpente di cui avevo paura era solo una corda, non c’è altra
azione da compiere: sono libero dalla paura. Da qui la gioia e la gratitudine,
perché il mondo non è più un luogo ostile, ma un luogo amico che può
aiutarmi a realizzare ciò che più profondamente desidero.
Comprendere significa arricchire la propria mappa e quindi facilitare la
soluzione dei problemi. La comprensione profonda è liberante perché ha
sempre a che fare con l’espansione della coscienza e con la riduzione della
sofferenza. E’ liberante in quanto promuove l’autorealizzazione e la
soddisfazione dei valori dell’essere.

Studio interdisciplinare
Anche lo studio delle diverse discipline può essere liberante nella misura in
cui aumenta la mia comprensione del mondo esterno o interno, dà maggiore
significato alla mia vita, facilita la mia autorealizzazione. Allora si
accompagna naturalmente alla gioia.
Comprendere significa cogliere nuove connessioni. Essenzialmente significa
arricchire ed integrare ciò che era separato e scisso nella mia mente. La
scissione produce sofferenza; l’integrazione e l’unione producono in sé gioia.
Sono quindi automotivanti.
Un tale tipo di studio richiede, per sua natura, la capacità di integrare i
contributi delle diverse discipline intorno alla comprensione dei nuclei
tematici prescelti. Così, lo studio della psicoterapia non può prescindere da
continui rimandi alla storia, all’arte, alla musica, alla filosofia, alle scienze
politiche, alla storia delle religioni, all’economia; sono rinvii necessari,
indispensabili per la comprensione della mente individuale. Da questo
28
confronto emergono nuclei concettuali in grado di fungere da strumenti
logico-analitici con valenza molto generale, capaci di produrre nuovi insight
e visioni assai più penetranti ed esplicative di quelle ad origine strettamente
disciplinare.
Per esempio, le teorie filosofiche, politiche e psicologiche occidentali, in gran
parte prescindono dal concetto di stati di coscienza: le analisi condotte senza
l’ausilio di questo fondamentale strumento sono necessariamente parziali e
29
perciò fondamentalmente fuorvianti .

Mente di gruppo
Per realizzare questa modalità d’approccio alla conoscenza, è importante
sviluppare una mente di gruppo. Essa si forma quando diverse persone
condividono il medesimo progetto formativo ed entrano in consonanza tra
loro; quando imparano a comunicare in modo chiaro, sintetico, efficace e
rispettoso delle differenze; quando si dividono i compiti, riferiscono al
gruppo le esplorazioni svolte singolarmente, provano gioia ed entusiasmo
durante il percorso (la via è la meta).
I partecipanti al gruppo sono consapevoli che ognuno contribuisce al
progetto: ogni successo personale è un successo di tutti. Imparano a
percepirsi parte di qualcosa di più grande. L’apprendimento svolto in un tale
contesto rispetta l’ecologia e favorisce lo sviluppo dell’amore-saggezza.
La mente di gruppo funziona tanto più efficacemente quanto più i
partecipanti sono liberi dalla modalità dell’avere e hanno sviluppato un
approccio creativo alla conoscenza.
Comprendere è diverso dall’accumulare informazioni. Accumulare
informazioni scisse è parte della modalità dell’avere. Spesso lo studio di tipo
disciplinare e specialistico favorisce proprio questo tipo di mentalità. La
spinta a questo tipo di studio non può venire dall’interno, in quanto non è
espressione dell’essere. La scuola che si fonda sulla modalità dell’avere deve
necessariamente far ricorso a motivazioni di tipo estrinseco (premi, punizioni,
sistemi manipolativi e coercitivi, ecc.). Una tale scuola non può per
definizione liberarsi dall’etica autoritaria.
Esplorare e accrescere la propria conoscenza è un istinto vitale, altrettanto
forte di quello sessuale. Come tale genera piacere e gioia.
Il potere-dominio può esercitarsi solo su persone deboli e alienate. Il modo
più efficace per indebolire le persone è metterle contro i propri istinti,
creando divieti, obblighi, inibizioni.
In tal modo:

- la sessualità è ostacolata da impotenza e perversioni


- la conoscenza è ostacolata dalle resistenze
- l’uomo devitalizzato, inibito e ignorante è pronto così a sottomettersi,
a fare lavori alienanti, a studiare materie noiose, ad andare in guerra e
farsi ammazzare.
4. CONOSCENZA, COLPA E SOFFERENZA
NELLA FILOSOFIA GRECA, BUDDISTA E
CRISTIANA
(Appunti e riflessioni sul testo di U. Galimberti, Psiche e tecnè,
Feltrinelli)

Origine della sofferenza, ruolo della colpa

Greci antichi
Secondo i Greci, la vita è un ciclo che si ripete uguale a se stesso, come le
stagioni. Non ha un fine esterno, non prevede una salvezza, come per i
Cristiani. Nascere, invecchiare, ammalarsi, morire, sono parte di questo ciclo.
Nella vita è sempre presente una quota di sofferenza. L’uomo saggio conosce
le leggi della natura e ad esse si adegua, senza ribellarsi. Accettando la
sofferenza come parte necessaria di questo ciclo, egli vive in pace e vive
bene.
Chi invece diventa egocentrico, rifiuta di stare al suo posto e si ribella alle
leggi della natura, va incontro a sicura rovina. La sua vita si trasforma in
tragedia. Origine della tragedia per i Greci è l’hubrys, la tracotanza, il non
rispettare le leggi della vita, il voler ergersi al di sopra di tutto.

In sintesi, per i Greci:

- saggezza significa rispettare i limiti imposti dalla natura


- il dolore è parte della vita
- accettandolo, si rimane nel fiume della vita
- rifiutandolo, si esce dai propri limiti, ci si macchia di hubrys, cioè di
tracotanza, di ribellione all’ordine degli dei, pertanto si dà origine alla
tragedia (nevrosi, follia, ecc.)

Cristiani
Secondo i Cristiani, origine del dolore è la colpa. Prima della colpa, prima del
peccato originale, non c’era dolore. Adamo ed Eva vivevano nel paradiso
terrestre. Disobbedendo alla volontà di Dio, l’uomo perde l’innocenza,
diventa colpevole e subisce la punizione: dal paradiso terrestre viene cacciato
sulla terra a sperimentare la sofferenza, la malattia e la morte.
L’Atto di dolore recita testualmente:

“Mio Dio mi pento e mi dolgo per i miei peccati, perché peccando ho


meritato il Vostro castigo, e soprattutto perché ho offeso Voi, infinitamente
buono e degno di essere amato sopra ogni cosa”.

Dio è visto come un padre buono, che viene offeso dai cattivi comportamenti
dei figli. Chi compie un peccato, essendo dotato di libero arbitrio, lo fa per
indolenza, pigrizia o cattiveria. Merita quindi la punizione. C’è quindi un
giudizio morale sul peccatore. Ma se si pente, se chiede aiuto a Dio, se
sinceramente vuole rimediare, gli viene offerta la possibilità di farlo.
Da una parte il Cristianesimo lascia sempre aperta la porta alla speranza e alla
redenzione; dall’altra mette con facilità le persone in una situazione
insostenibile: per quanto si sforzino, ricadranno sempre nel peccato.
Ecco perché senso d’indegnità e senso di colpa sono usuali compagni di
viaggio del credente. Pascal, e con lui gli agostiniani, sono giunti spesso a
dire che l’amore per sé è qualcosa di molto disdicevole, perché l’Io è degno
del massimo disprezzo.

La filosofia greca, come quella buddista, è molto differente da quella


cristiana.
Per i Greci il dolore non origina dalla colpa, ma è parte della vita, come il
freddo o la pioggia sono parte del clima. L’osservazione della natura indica
che tutti gli esseri viventi incontrano la sofferenza. Chi si oppone al dolore,
cercando di superare i limiti naturali, compie un atto di follia, come chi
volesse buttarsi da una rupe e pretendere di volare. In questo c’è presunzione
e colpa, nella responsabilità delle proprie scelte. Colpevole è colui che non
accetta i limiti e il dolore necessario. Questa colpa porta l’uomo alla rovina. Il
dolore e la crudeltà sono innocenti finché si rimane nei limiti assegnati (come
fanno gli animali).

Scopo della scienza


Visione greca
Secondo i Greci, la natura è immutabile ed eterna. Non può essere
trasformata. La verità sono i principi universali inscritti nel cosmo: le idee
platoniche. Scopo della scienza era conoscere questi principi e leggi, in modo
da potersi uniformare ad essi e vivere in pace.
La scienza è quindi contemplazione della natura (come per l’Islam), non
mezzo per trasformarla e manipolarla.

Visione giudaico-cristiana
Nella visione giudaico cristiana, la verità è la volontà divina. Dio ha creato il
cosmo con un atto di volontà, nominando le cose, separandole dal caos: il
Verbo ha creato il mondo.
E’ la volontà divina che va conosciuta. Secondo il Cristianesimo, al processo
“colpa – punizione – dolore” possono seguire la redenzione e la salvezza,
purché l’uomo si inchini alla volontà di Dio. Per i Cristiani, ciò che importa è
conoscere la volontà di Dio.

Era moderna
Con la modernità si aprono nuovi scenari e nuove possibilità per ridurre la
sofferenza.
Per Bacone la scienza, intesa come dominio della natura, può restituire
all’uomo il benessere perduto. Dedicandosi alla scienza, l’uomo obbedisce
alla volontà divina che, a differenza degli altri animali, lo ha reso creatore, a
sua immagine e somiglianza. La scienza, quindi non è più contemplazione,
come per i Greci, ma conoscenza funzionale al dominio e alla trasformazione
tecnica.
Per poter dominare la natura, bisogna considerarla non da un punto di vista
vitalistico-organicistico, ma come grande meccanismo, soggetto alle leggi
della matematica.

Sofferenza, colpa, ignoranza


La visione Aleph, che si ispira a quella buddista, afferma che:
- il dolore necessario non origina dalla colpa dell’uomo, ma è parte
naturale della vita (come per i Greci)
- finché si rimane nel fiume della vita, cioè in connessione con il tutto, e
finché si mantiene il cuore aperto, il dolore ha un inizio e una fine
- il dolore accettato ci rende più empatici e umani
- il dolore necessario non toglie all’uomo il senso della vita e la sua
gioia di fondo

Diverso dal dolore necessario è il dolore nevrotico:

esso è tanto più grande quanto più ci identifichiamo nell’Ego


esso non ha fine, in quanto è continuamente alimentato dalla mente
condizionata (attaccamento a desideri e avversioni)
il dolore nevrotico è dovuto all’orgoglio e alla ribellione all’ordine divino
delle cose, cioè al rifiuto di accettare la realtà così com’è (la hubrys per i
Greci)
in altri termini, esso deriva dal rifiuto di assumersi la responsabilità dei propri
pensieri, atteggiamenti mentali, comportamenti, e dall’attribuire all’esterno
la causa dei propri mali (racket verso gli altri e/o verso se stessi)
origine del dolore nevrotico non è la cattiveria, e quindi la colpa morale, ma
l’ignoranza sulla natura della mente
pensare in termini di colpa aumenta il dolore nevrotico e ci rende deboli e
dipendenti, pronti a sottometterci a dogmi e ad autorità irrazionali, covando
rabbia e rancore
più pensiamo in termini di colpa, più siamo soggetti al criticismo, al
dogmatismo e alla propaganda distruttiva e più alimentiamo la violenza nel
30
mondo
la pratica della non-violenza inizia sostituendo al concetto moralistico di
colpa il concetto equanime e neutrale di ignoranza, intesa come distorsione
percettiva della realtà. Concetto che non è estraneo al Cristianesimo
(“Signore, perdona loro, perché non sanno quello che fanno”), ma non è
neanche centrale, se il Figlio di Dio ha dovuto ricordarlo a Suo Padre

Dati questi presupposti, ne consegue che:


- nella misura in cui ci disidentifichiamo dall’Ego (attraverso il lavoro
personale, la meditazione, la preghiera, ecc.) e ci sentiamo parte di
qualcosa di più grande, il dolore non necessario lascia sempre più
posto alla serenità e alla gioia di fondo
- più questo processo va avanti, più rimaniamo colpiti dal dolore altrui e
meno dal nostro, che sappiamo come trasformare
- in tal modo sviluppiamo compassione e desiderio di liberare anche gli
altri dal dolore (atteggiamento del bodhisatva)

Terapia e senso di colpa


La terapia è un processo che, attraverso l’esperienza e l’ampliamento della
consapevolezza, favorisce la libertà e il potere personale.
Che cosa m’impedisce di essere libero e di essere davvero me stesso?
L’ignoranza. Più sono ignorante e impoverito nelle mie percezioni, più
limitate e costrette sono le mie scelte. L’ignoranza mi tiene imprigionato
nella pozza della coazione e della nevrosi.
Senso di colpa, moralismo, criticismo, dogmatismo sono tutti occhiali che
deformano la realtà. Sono veri e propri radicali nevrotici.
Per aumentare le scelte possibili occorre riconoscere e abbandonare le proprie
lenti deformanti.
Per aprire una nuova finestra, però, la comprensione da sola non è sufficiente.
Occorre che si traduca in nuove azioni ed esperienze per rompere l’inerzia
delle vecchie abitudini.

La scienza da sola non può salvare l’uomo


Con la modernità, il Cristianesimo ha perso gran parte del suo impatto, ma il
principio colpa-redenzione-salvezza è rimasto nelle radici profonde della
nostra cultura. Ora l’uomo si è fatto creatore e artefice del proprio destino,
quindi delega alla scienza il compito di salvarlo dalle malattie e dalla povertà.
Dopo la seconda guerra mondiale, però, la visione del progresso infinito è
andata in crisi. Si è compreso che la tecnica e la scienza sono organismi
autonomi, non ancorati ai fini etici della salvezza dell’uomo. Essi ci possono
salvare, ma anche distruggere.
E’ importante che scienza, filosofia e religione, nella loro essenza, inizino a
dialogare per consolidare una nuova epistemologia rispettosa della vita in
tutti i suoi aspetti. Soprattutto è importante che una nuova epistemologia
ecologica sia diffusa a livello di base, a partire dalla scuola, per superare le
scissioni e sciogliere le superstizioni dell’Io, individuale e collettivo, ancora
attaccato al livello di personalità centrata sull’Ego.
5. LE EMOZIONI COME PASSI DI DANZA
(Sintesi e riflessioni sul testo di M. Sclavi, Arte di ascoltare e mondi
possibili, Mondadori)

Passi di danza
Molti dei nostri problemi non sono personali, ma hanno origine
nell’epistemologia distorta che caratterizza la nostra civiltà occidentale. A
scuola, sin da bambini, impariamo un tipo di pensiero-linguaggio che
privilegia l’attenzione agli oggetti isolati rispetto alle relazioni.
Questo tipo di pensiero logico-analitico ci rende scarsamente competenti a
comprendere e a reagire adeguatamente alla complessità delle relazioni di cui
siamo parte.
Le emozioni non sono fenomeni individuali, ma eminentemente relazionali:
sono come passi di danza. Non ha alcun senso analizzarle isolatamente. Non
ci dicono molto sulle loro cause né indicano quale sarà il nostro
comportamento futuro: esse sono un comportamento attuale, un modo di
definire e modulare una relazione. La rabbia è una proposta di danza, a cui
l’altra persona può rispondere collaborando (subendo o arrabbiandosi a sua
volta) o non collaborando (ritirandosi senza sentirsi offesa, ascoltando con
attenzione e compassione, metacomunicando).
L’educazione che riceviamo oggi, coerente ai presupposti impliciti nella
nostra cultura, ci predispone all’identificazione nel nostro punto di vista, al
conflitto e alla nevrosi.
Abbiamo quindi bisogno di un nuovo tipo di educazione, in grado di fornirci
le competenze relazionali ed emotive necessarie a vivere in un ambiente
complesso.

Verso una nuova epistemologia


Come sostiene M. Sclavi,

“Oggi abbiamo un bisogno vitale di un’educazione che renda accessibile a


tutti le competenze di base della complessità, divenute fonte di radicale
inadeguatezza e inutile infelicità se mancano”.
“Molti nostri errori non sono personali, ma nascono da un’epistemologia
distorta che è quella che avete imparato a scuola e che impregna di sé il senso
comune della cultura occidentale”.

Per esempio, l’idea di causalità unidirezionale attraversa gran parte dei nostri
contesti di apprendimento. In base a tale epistemologia, si tende a cercare le
cause dei problemi nel passato e si va alla ricerca delle colpe.
L’epistemologia della complessità sposta completamente l’indagine dai fatti
del passato ai comportamenti attuali che mantengono il problema. In base a
questa nuova prospettiva, ad esempio, i genitori di bambini difficili, non
vengono più visti come colpevoli, ma come vittime. Vittime di modelli che li
inducono, nelle interazioni con i figli, ad assumere atteggiamenti e ad
applicare soluzioni disfunzionali.
Una coppia di genitori è esposta a messaggi provenienti da diversi livelli e di
diversa importanza:

- modello culturale-scientifico
- modello sociale
- modello educativo-pedagogico
- modello famigliare di appartenenza

Spesso questi modelli non sono coerenti fra loro nell’informare i genitori su
come intervenire sui propri figli, ma si accordano perfettamente quando si
tratta di cercare il colpevole che, guarda caso, viene individuato proprio nei
genitori stessi.

“Un ambiente complesso in cui mancano queste competenze di base diventa


manicomiale, produce nevrosi, psicosi e scismogenesi (escalation dei
conflitti). E’ questo il male, la hubrys della cultura occidentale”.

Cultura e punti di vista


“Qualsiasi cultura tende inevitabilmente ad educare all’etnocentrismo: cioè
presenta i propri punti di vista come gli unici o i migliori. La cultura
occidentale ha assunto questo atteggiamento ‘cieco ai contesti’ come motore
del progresso. Questo è l’atteggiamento opposto a quello che dobbiamo
adottare quando il nostro obiettivo è esplorare proprio quei contesti”.

Il mito del progresso e della crescita continua, che a noi pare così naturale, in
realtà è tipico della nostra civiltà, non di altre. Da cinquant’anni abbiamo
imparato a chiamare paesi sottosviluppati quelli che non condividevano la
nostra concezione del mondo. Oggi siamo riusciti ad esportare in ogni luogo
della terra questa filosofia, con i risultati devastanti che sono sotto gli occhi di
tutti.
Per poter vedere il nostro punto di vista, occorre assumerne un altro. Un
problema non può essere risolto con lo stesso tipo di pensiero che lo ha
generato.

“Quando, nel tentativo di soluzione, continuiamo a fallire, dovrebbe nascerci


il dubbio: forse devo cambiare le premesse”.

Filtri e premesse epistemologiche


E’ auspicabile che un dubbio di questo tipo inizi a lavorare nella mente delle
èlite economiche e finanziarie, dei membri del Fondo monetario
internazionale, Banca mondiale, WTO, grandi multinazionali, economisti
insider, uomini politici, opinion leader, che, nonostante il fallimento sempre
più evidente, continuano a sostenere il mito della crescita come rimedio ai
mali del mondo (povertà, sovrappopolazione, desertificazione, inquinamento,
ecc.).

“Qualsiasi processo conoscitivo comporta una strutturazione di un campo: un


decidere cosa viene messo a fuoco e portato in primo piano e cosa lasciato
sullo sfondo.
Questa strutturazione comporta la definizione di un ventaglio di possibilità
entro il quale ci è consentito muoverci”.
“Per uscire da questa restrizione e aprirci a nuove possibilità occorre mettere
in discussione la gestalt o cornice di premesse implicite. Dalla psicologia
della gestalt sappiamo però che le gestalt stesse ‘si difendono’. In altri
termini, ogni volta che tendiamo ad uscire dai loro confini avvertiamo delle
precise resistenze e quel movimento trasgressivo ci appare insensato.
Avventurarsi ai confini del campo gestaltico corrisponde a mettere a fuoco
elementi che erano consegnati allo sfondo”.
“La gestalt si difende è ovviamente una espressione metaforica: essa indica la
stretta connessione tra dinamiche della conoscenza, dell’appartenenza e
dell’identità”.

Le possibilità che abbiamo di conoscere la realtà dipendono dai nostri filtri,


31
punti di vista, premesse epistemologiche . Sono queste strutture interne che
sovradeterminano la nostra mappa del mondo (con le sue rappresentazioni,
figure o gestalt).
Appartenendo ad una determinata cultura, abbiamo interiorizzato del tutto
inconsciamente un set di premesse implicite, condiviso con gli appartenenti
alla medesima cultura (famigliare, gruppale, collettiva, linguistica, ecc.).
Cambiare queste premesse ed osservare il mondo ampliando le nostre
possibilità percettive, presuppone la capacità di disidentificarsi
temporaneamente da questo insieme di filtri. Ma la disidentificazione
incontra sempre, in misura maggiore o minore, delle resistenze. Essa infatti
mette temporaneamente in crisi la base sicura data dal senso di appartenenza
ad un determinato gruppo o collettività.

La mappa non è il territorio

Conflitto

“Quando due interlocutori sono bloccati sulle loro posizioni dovrebbe nascere
il dubbio.
Essi dovrebbero mettere in discussione non ciò che li divide (contenuti), ma
ciò che li accomuna (gestalt, cornice, tipo di danza)”.

“Per ascoltare e osservare in modo fenomenologico, la prima regola è


eliminare il verbo ‘essere’ dal nostro vocabolario. Al limite non dovete
pensare: “questa è una sedia, questo è un tavolo”, ma “vedo questo come una
sedia, vedo questo come un tavolo”. Occorre cioè un linguaggio che lascia
aperta la possibilità di vedere le cose anche secondo gestalt o cornici diverse.
Il predicato ‘è’ esclude, irrigidisce. Invece ‘adesso lo vedo così, ma…’ ci
induce ad essere leggeri, flessibili, disponibili all’esplorazione di altri mondi
possibili”.

Disidentificazione e flessibilità

“Non esistono osservatori isolati. Ognuno di noi è parte di una cultura in


senso antropologico. Crescendo in una certa comunità, imparando una
determinata lingua, facciamo nostre complesse gerarchie di premesse
implicite, che in quell’ambiente sono date per scontate e che costituiscono un
terreno sicuro per capirci reciprocamente”.

“Imparare lingue diverse, discipline diverse, praticare filosofie diverse, vuol


dire acquisire diverse gestalt. Questo ci insegna a non dare per scontate nuove
premesse implicite ed imparare a saltare dall’una all’altra.
‘Parla più chiaro per favore’ a livello di pronuncia, per un italiano significa
sottolineare le vocali, per un inglese sottolineare le consonanti”.

Il pugno e la danza
“Se uno mi dà intenzionalmente un pugno sta evocando e proponendo uno
scenario del tipo: ‘sii antagonista’. E allora devo sapere che quando reagisco
anch’io con un pugno, ad un livello – quello dell’azione – mi sto opponendo;
ad un altro livello – quello del contesto relazionale – sto collaborando.
Mi sono lasciato coinvolgere in quella danza che l’altro con il pugno
proponeva. D’altra parte, se non reagisco e faccio la vittima, non mi sottraggo
a quella danza, sto solo collaborando (forse) a chiuderla più in fretta.
Era una danza vincitori-vinti e lui ha vinto. L’unico modo vero per non
collaborare è proporre una danza diversa e indurre l’altro a cambiare danza.
Non è mai facile, ma è relativamente più facile se sono consapevole che
l’altro non può sostenere la danza nella quale è impegnato senza la mia
collaborazione”.

Codice analitico e codice analogico


“Il codice analitico è quello tipico del linguaggio verbale. Opera in modo
discreto ed è adatto per disporre le idee in modo lineare, secondo rapporti di
causa-effetto, esprimere contenuti assertivi e denotativi valutabili in termini
di vero o falso, a focalizzare il discorso su variabili isolate o isolabili, ad
attribuire predicati a cose e persone”.
In sintesi: la comunicazione verbale corrisponde ad un’abitudine di pensiero
che si concentra sui termini della relazione, cristallizzandoli in oggetti definiti
ed etichettati (io, tu, albero, Giovanni, Francesca, buono, cattivo…), mentre
lascia sullo sfondo contesto, presupposti e musicalità della relazione stessa,
ovvero gli aspetti di flusso, trasformazione, impermanenza. In tal modo molte
relazioni, focalizzandosi su contenuti, cause passate, colpe, intenzioni,
tendono nel tempo ad impoverirsi in un ristretto numero di possibilità
interattive. Non casualmente, barriere, inquinanti della mente e qualità
dell’essere, presenti nell’hic et nunc, e indicatori del flusso in atto, sono assai
32
di rado presi in considerazione come strumenti di cambiamento .

“Il codice analogico è tipico del linguaggio non verbale ed è specializzato nel
proporre configurazioni e contesti, nel ricostruire e riconoscere una totalità a
partire da alcuni dettagli, nel cogliere similitudini e differenze tra forme
complesse”.

In sintesi: la comunicazione non verbale corrisponde ad un’abitudine di


pensiero che mette in primo piano contesti e qualità delle relazioni e
considera secondari i termini delle stesse.
Ancora oggi, nelle nostre scuole, questo tipo di comunicazione è relegato
sullo sfondo, dando assoluta preminenza alla comunicazione analitica-
verbale. Intelligenza verbale e matematica sono oggetto di primaria
attenzione; intelligenza spaziale, musicale e motoria ricevono un’attenzione
assai modesta; intelligenza personale, interpersonale, ovvero intelligenza
emotiva e sociale, sono praticamente trascurate ed ignorate. Non c’è da
stupirsi se, venuto meno il principio di autorità e la morale coercitiva che esso
comportava, si è aperto un vuoto in campo etico e valoriale che lascia i
giovani in balia dei mali oscuri di oggi: individualismo e nichilismo.

Le emozioni sono passi di danza


“Le emozioni appartengono al codice analogico. Esse c’informano sulla
dinamica della relazione. Le emozioni non c’informano su cosa guardiamo,
ma su come siamo dinamicamente impegnati a costruire i contesti di cui
siamo parte.
Le emozioni sono passi di danza.
Ad esempio l’invidia va vista come proposta ad una danza in cui l’altro si dà
delle arie. La rabbia è una proposta di danza in cui l’altro a sua volta si
arrabbia o s’impaurisce.
Noi non siamo i nostri moti emozionali automatici. Infatti noi siamo in grado
di provare delle emozioni sulle nostre emozioni di primo grado ed instaurare
un dialogo con esse”.

Noi siamo il tipo di dialogo che instauriamo con i nostri moti emozionali e lo
stile con cui li gestiamo.
Le nostre emozioni interne di primo grado sono espressione di determinate
gestalt o parti interne. Attraverso il nostro io-governo siamo in grado di
provare emozioni di secondo grado e di instaurare un dialogo con quelle di
primo grado a partire da una nuova gestalt. In altri termini, il compito di un io
sano è di instaurare un dialogo metaculturale con le parti interne e le loro
33
emozioni di primo grado .
Il tipo di danza o cornice che l’io instaura al proprio interno (danze distruttive
o danze creative e integrative) è l’indice più sicuro per distinguere fra salute e
malattia.
La via della non violenza è la capacità di saper proporre, con le proprie parti e
con le persone esterne, danze di pace e collaborazione, senza mai collaborare
34
con le danze della violenza .
Questo è il fondamento dell’etica umanistica, che presuppone la rinuncia
all’esercizio del potere-dominio.
Non possiamo essere sereni sul futuro finché nelle nostre scuole non si darà
primaria importanza alla pratica di questa disciplina.
Senza tale pratica, vengono a mancare le basi per la formazione etica di
cittadini consapevoli, leader di se stessi, capaci di operare scelte personali
non succubi alla propaganda mediatica, scientificamente costruita per
35
renderci tutti ipnotizzati e consumatori conformisti .
6. TIPI DI PENSIERO

Domande perverse e virtuose


La conoscenza, personale o scientifica, nasce dalle domande che ci facciamo
(K. Popper). Domande diverse orientano in modo differente la percezione, il
pensiero, la memoria, l’azione, la costruzione di teorie su noi stessi e sul
mondo.
Per conoscere come funzioniamo, indaghiamo quali sono le nostre domande
ricorrenti.
Possiamo essere certi che, se siamo insoddisfatti o non otteniamo ciò che
vogliamo, ci stiamo ponendo domande sbagliate. Quindi ci facciamo una
rappresentazione errata della realtà. La nostra è una conoscenza fasulla,
illusoria o, se preferiamo, superstiziosa.
Le subpersonalità si mantengono e si alimentano attraverso domande
perverse che, per definizione, bloccano la nostra esplorazione e la nostra
conoscenza. C’intrappolano in situazioni ripetitive, sempre uguali a se stesse.
Ecco alcuni tipici esempi:

- merito di essere felice?


- sono amabile?
- sono capace?
- sono capace di amare?
- amo davvero mia moglie o mio marito?

Queste frasi sono dei dialoghi interni molto comuni nella forma di domande
perverse. Perverse perché inibiscono la nostra naturale ricerca della felicità.
Dal fiume della vita ci conducono inesorabilmente nella pozza stagnante della
nevrosi.
Le domande sono i motori che muovono il nostro inconscio. L’inconscio è
come un computer: fa quello che gli si chiede, in modo letterale.
Le domande sull’essere non hanno senso alcuno. L’essere è la totalità, quindi
è l’insieme di tutte le possibili risposte. Porsi domande sull’essere significa
avviare una ricerca senza fine e senza costrutto.
In termini kantiani, l’essere è il noumeno che sta dietro tutti i fenomeni
ovvero tutte le manifestazioni possibili. Ma di per sé è inconoscibile.
“Ciò che può essere detto, si può dir chiaro. Su ciò di cui non si può parlare,
bisogna tacere”, diceva Wittgenstein nel suo famoso Tractatus.
Perché allora cercare risposte sul proprio vero essere? Che senso ha chiedersi:
“Sono capace?”. E’ come porsi la domanda: quale acqua forma il fiume? Nel
momento che cerco la risposta, l’acqua è già cambiata, perché scorre in
continuazione, non è mai la stessa.
Domande sensate sono quelle che ci portano ad indagare sui nostri
comportamenti concreti. I comportamenti sono piccole frazioni di realtà
sensorialmente conoscibili e sotto il nostro controllo.
Se nella vita non otteniamo ciò che desideriamo, non siamo noi a dover
cambiare, ma i nostri comportamenti. Non il computer, ma i programmi!
Il termine PNL è la sigla di Programmazione Neuro Linguistica, che, in
questo caso, meglio suonerebbe come Riprogrammazione Neuro Linguistica.
Il lavoro di riprogrammazione è tanto più elegante quante meno mosse
prevede. Il lavoro più elegante è quello sui metaprogrammi (strutture prive di
contenuto, che costituiscono le colonne portanti dei programmi specifici).
Il pensiero dicotomico/complementare (“o - o” / “e – e”) è uno dei
metaprogrammi più importanti sui quali agire per evolvere, trasformare il
proprio carattere e sciogliere la sofferenza non necessaria.
“Sono amabile o non sono amabile?”, “Sono o non sono capace”, sono
domande prive di senso, perché riguardano l’essere, e dividono la realtà in
bianco e nero. Ospitare domande di questo tipo al proprio interno apre la
porta a virus del pensiero molto pericolosi. Riconoscerle e lasciarle andare è
un passo fondamentale nel cammino verso la libertà.

Natura umana e pensiero dicotomico

Tesi uno
L’uomo è fatto di legno storto. L’io è degno del massimo disprezzo. L’uomo
è fondamentalmente pigro ed egoista, e diventa socievole solo quando non
può farne a meno. E’ aggressivo per natura. Cerca sempre la via di minore
resistenza e il piacere immediato. Il sesso è un istinto che, se è assecondato,
porta l’uomo alla depravazione. Insomma, l’uomo, lasciato a se stesso, si
abbrutisce. Ha bisogno di guida e controllo.

Tesi due
L’uomo è socievole e buono per natura. Non è aggressivo. E’ guidato
dall’amore. La violenza nasce solo dall’oppressione. Basta farlo vivere in un
contesto pacifico e libero dove può esplorare le sue qualità e talenti ed egli
darà il meglio di sé. Sono i contesti autoritari ed oppressivi che fanno
dell’uomo un malvagio.

Il pensiero dicotomico ci chiede di schierarci e di cominciare a percepire il


mondo con uno dei due filtri: uomo cattivo per natura (Hobbes), uomo
socievole e buono per natura (Aristotele, Rousseau). Schierarci con delle
precise conseguenze: adottare l’etica autoritaria o l’etica permissiva.
Superare il pensiero dicotomico significa accedere al pensiero complementare
“e/e”.
Significa riconoscere la natura complessa, ambigua, poliedrica,
contraddittoria, paradossale della vita e quindi della natura umana stessa.
Significa lasciare aperta la porta al dialogo tra posizioni differenti. Dialogo
che può avvenire solo se si esce dalla semplificazione e si è disposti ad
articolare ed approfondire ogni punto di vista.
Questo è il senso profondo dell’etica umanistica.
Non la meditazione (oriente); non la preghiera o il dialogo (occidente); non il
contatto con la terra (culture andine). Bensì la meditazione, la preghiera, il
dialogo, il lavoro psicologico, il lavoro politico, il contatto con la terra: tutto
insieme! Insieme allo studio, alla musica, alla danza, alla pittura. Insieme alle
relazioni conviviali, al gioco, allo sport, insieme a ciò che piace ad ognuno.
Occupiamo meno tempo per la produzione di beni materiali: avremo più
tempo da dedicare alla qualità della vita!
Questo è un vero progetto di futuro sostenibile, che presuppone però un grave
sacrificio: la rinuncia a cose inutili e dannose o lussuose e superflue.

Origine dell’oppressione
Libertà o eguaglianza? Capitalismo o socialismo? Individualismo o
collettivismo? Amore per sé o altruismo? Realizzazione nel lavoro o
dedizione alla famiglia? Divertimento o lavoro? Rilassamento o attività?
Centratura interna od esterna? Riferimento interno od esterno? Salvaguardia
dell’ambiente o sviluppo dell’economia? Islam o cristianesimo?
Cristianesimo o buddismo? Religione o ateismo? Fede o ragione? Scienza o
religione? Ragione o emozione? Seguire la mente o seguire il cuore? L’uomo
ha una natura buona o malvagia?
Il pensiero dicotomico “o/o” è all’origine di ogni tipo di conflitto.
Mantenendo la struttura dicotomica, il conflitto non ha soluzione, se non
attraverso l’eliminazione o il sacrificio di uno dei due poli. Il sacrificio non
può che essere temporaneo. Quando uno dei due poli è stato compresso per
troppo tempo, si carica d’energia, come una molla, finché esplode, recupera il
terreno perduto e diventa a sua volta oppressore. Così, se la libertà ha
sacrificato per troppo tempo la giustizia, l’esigenza di giustizia prima o poi
esplode e mette al bando la libertà.
Così è accaduto durante la rivoluzione francese con Robespierre, Marat,
Danton; e poi, durante quella russa, con Lenin, Trotzski e Stalin. In modo
analogo, se una persona si è sacrificata troppo alle esigenze degli altri,
rinunciando alle proprie, prima o poi la spinta verso la propria realizzazione
provocherà una rivoluzione interna, che sfocerà in una rivoluzione esterna
attiva (cambiamenti di vita) o passiva (depressione).
Non è difficile comprendere come il pensiero dicotomico sia la struttura
portante di ogni forma di violenza ed oppressione. Esso ha le sue radici nel
pensiero infantile. E’ una fase primitiva nello sviluppo del pensiero-
linguaggio e come tale produce mappe del mondo estremamente impoverite,
non idonee a risolvere difficoltà e problemi complessi. Ciononostante la
ritroviamo spesso a guidare la percezione e le decisioni degli adulti, compresi
politici, leader e dirigenti.
Il pensiero dicotomico è alla base dell’identificazione: sono il mio corpo o
sono la mia anima? Sono i miei pensieri o sono le mie emozioni? Sono forte
o sono debole? Sono affidabile o non sono affidabile? Sono buddista o sono
cristiano? Sono religioso o non credo in Dio?
Ogni volta che c’identifichiamo in una parte, l’altra scende nell’ombra, ma
dato che in natura nulla si crea e nulla si distrugge, anche queste parti che
vivono nell’ombra non possono essere eliminate.
Il pensiero dicotomico è all’origine del giudizio morale: giusto o sbagliato,
buono o cattivo, positivo o negativo.
Il giudizio morale porta le persone a schierarsi, a identificarsi in una delle due
parti (di solito, quella percepita come buona), ma schierarsi significa
considerare l’altro avversario o nemico. Il passo verso la competizione
36
violenta, la lotta o la guerra, è molto breve .
Gandhi, negli ultimi mesi della sua vita, esasperato dalle lotte tra Indù e
Mussulmani, dichiarò di essere indù, e nello stesso tempo buddista e
cristiano. Una triplice bestemmia, che se fosse stata accolta, avrebbe
risparmiato la vita e la sofferenza ad innumerevoli persone.

Superstizioni

Le superstizioni dei moderni


Secondo il buddismo, Socrate e altre tradizioni filosofiche, l’ignoranza è la
radice della sofferenza nevrotica o non necessaria. L’ignoranza non è
considerata semplicemente una mancanza di specifiche conoscenze,
rimediabile con l’informazione e lo studio. La sua essenza consiste nel
credere di conoscere la verità, nel darsi ragione e nell’identificarsi nel proprio
punto di vista, pensandolo valido in assoluto.
L’ignoranza produce fanatismo e superstizione.
Il fanatismo impedisce il dialogo, la conversazione amichevole, lo scambio di
37
punti di vista, l’arricchimento reciproco . Esso inesorabilmente conduce al
disprezzo e all’odio dell’avversario.
L’ignoranza è superstizione non riconosciuta. Noi moderni occidentali non
siamo affatto esenti da numerose forme di superstizione, aggravate dalla
convinzione di essere la punta più evoluta della storia umana. Così da
ritenerci in dovere di esportare ovunque i nostri modelli, per il bene di tutti
(capitalismo, tecnologia, grandi opere, cementificazione, deforestazione,
distruzione dell’ambiente ecc.).

La tirannia del pensiero magico


Alla radice dell’ignoranza e del fanatismo troviamo il pensiero magico, un
tipo di pensiero proiettivo ed infantile, opposto a quello basato sulla ragione e
sulla verifica empirica dei risultati.
Fanatici non sono solo i Talebani, i fondamentalisti islamici o i nuovi crociati
cristiani. Lo siamo tutti noi quando, anziché ascoltare e dialogare con l’altro,
discutiamo e cerchiamo di imporre la nostra ragione. Anche questi sono semi
di violenza che gettiamo nel mondo.
Il pensiero magico è un tipo di pensiero, opposto a quello scientifico, non
sensorialmente basato, non interessato alla verifica dei fatti, ma proiettivo,
autoreferenziale, per sua natura non falsificabile e quindi assoluto e
dogmatico. E’ il terreno ideale per coltivare superstizioni, cioè credenze prive
di ogni fondamento reale.
Essere convinti che malattie e incidenti possano essere causati da malocchio
o fatture è un esempio di pensiero magico facilmente riconoscibile nella
nostra cultura, non in altre. Credere che un cattivo pensiero possa cagionare
un evento tragico ad un’altra persona e quindi sentirsi in colpa per averlo
formulato, è un altro esempio tipico di pensiero infantile (i bambini piccoli
non fanno grande differenza fra pensiero e realtà). Pensare di essere nel
mirino della CIA, mentre si è solo dei poveri disgraziati, incapaci di nuocere
ad una mosca, è un altro esempio di pensiero magico, questa volta di tipo
paranoide.
Tutti siamo in grado di comprendere l’inefficacia e la dannosità di questo
modo di utilizzare la nostra intelligenza. E’ talmente lampante che noi
moderni crediamo di esserne immuni, almeno finché ci riteniamo sani di
mente.
Non è così. Ancora oggi siamo intrisi di pensiero magico e non ce ne
accorgiamo. Le evidenze esterne però non mancano: il razzismo è una
conseguenza, culturalmente riconosciuta e condannata, di questo pensiero;
l’incomprensione tra coniugi o tra genitori e figli è un’altra conseguenza, di
solito non riconosciuta e soltanto subita per inconsapevolezza.
Ecco un esempio molto comune di superstizione condivisa: il 90% delle
persone, compresi molti capi, leader e dirigenti, credono che l’umore e le
emozioni siano cagionati da fatti esterni. Molti sono convinti che i loro
travagli e i loro sequestri emozionali dipendano da ciò che accade nella loro
vita, in particolare da come gli altri si comportano nei loro confronti.
Tu mi fai arrabbiare, tu mi fai paura, tu m’intristisci, oppure mi sento in colpa
perché ti ho fatto arrabbiare, ti ho fatto paura, ti ho reso triste, sono frasi
alquanto comuni. Esse sono frutto di un pensiero magico.
In realtà nessuno può comportarsi in modo tale da essere la causa diretta delle
specifiche emozioni che prova un'altra persona.
Perché? Perché le emozioni non dipendono dagli eventi esterni, ma dal
significato che una persona attribuisce loro. Gli Stoici lo affermavano già due
millenni fa e il Buddha prima di loro. Con Freud e con la psicologia del
novecento questa verità ha assunto dignità scientifica, ma non è ancora
entrata pienamente a far parte del senso comune. Vi ha fatto solo una piccola
breccia, generando talvolta un’altra superstizione, di segno opposto alla
prima (una puntuale applicazione del pensiero dicotomico): le emozioni sono
un fatto totalmente interno.
Quindi, se tu sei triste, non può che dipendere da te. Se tuo figlio si droga, se
tuo marito si ubriaca, se la tua casa è bruciata, se hai perso il lavoro, ebbene,
quello che provi è al 100% responsabilità tua. Così un marito può dire ad una
moglie: “Io vado con altre donne ma questo è un affare mio. Se tu stai male è
un problema tuo”. Oppure un figlio può dire al padre: “Io mi alzo all’ora che
mi pare, anche a mezzogiorno! Se ti preoccupi, è un problema tuo”.
La prima superstizione favorisce relazioni invischiate, basate sul ricatto
reciproco; la seconda promuove separazione e individualismo, accompagnati
dalla tipica spietatezza di chi pensa: “ognuno per sé”. Entrambe le
superstizioni, lungi dall’essere innocue, sono causa di grande sofferenza.
Il pensiero dicotomico è una tipica espressione di pensiero magico. E’ alla
base di tutte le ideologie forti e, più in generale, della formazione di
convinzioni irrazionali. Il pensiero dicotomico o manicheo è in gran parte
responsabile della prigione cognitivo-emotiva in cui, in misura maggiore o
minore, siamo tutti invischiati.
La sfida è liberare il pensiero dai suoi stessi presupposti dicotomici (bianco o
nero, giusto o sbagliato, o… o…) che, da strumento d’intelligenza e
creatività, lo rendono strumento d’oppressione.

Metapensiero e dialogo
Come possiamo liberarci dal pensiero dicotomico? La via maestra è creare
una metaposizione, dalla quale possiamo osservare il formarsi del nostro
stesso pensiero. La meditazione vipassana, per esempio, è una validissima
pratica diretta a questo scopo. E’ difficile però ottenere buoni risultati senza
una guida.
In PNL ci sono molti strumenti, semplici e d’immediata efficacia, per
favorire il passaggio dall’identificazione nel pensiero o pensiero in associato,
al metapensiero, un pensiero in grado di riflettere sui suoi stessi
presupposti38.
In PNL umanistica, oltre alla meditazione, si utilizza la pratica della
conversazione dialogica, di tipo socratico. Perché? Perché il dialogo, a
differenza della discussione, è un ottimo allenamento alla flessibilità e alla
disidentificazione. Infatti, per praticare il dialogo, è indispensabile passare da
una posizione percettiva all’altra: dalla prima, cioè il proprio punto di vista,
alla seconda, quando ascoltiamo le ragioni dell’altro e poi alla terza, quando
cerchiamo una sintesi tra le differenti posizioni.
Il dialogo, per funzionare, ci obbliga ad abbandonare le barriere della
comunicazione e i relativi inquinanti (orgoglio, sgarbo, fretta, impazienza,
ecc.), che sono tutti meccanismi di protezione dell’egocentrismo, ovvero
della nostra chiusura cognitiva basata sulla separatività e sostenuta dal
pensiero magico.
Ecco perché il dialogo, quando è ben condotto, è già in sé una cura:
gratificante, poco costosa e alla portata di tutti. E’ una cura e, nello stesso
tempo, una pratica politica d’eccezionale efficacia, presupposto per
un’autentica partecipazione democratica dei cittadini. Una pratica in grado di
lavorare alla radice dei nostri problemi, individuali e collettivi.
Essa agisce direttamente sulle cause, non sui sintomi, perché lavora sul modo
in cui si forma il nostro pensiero e la nostra percezione del mondo,
liberandoli dalle gabbie ideologiche favorevoli al mantenimento
dell’oppressione e dello sfruttamento.
La diffusione a tutti i livelli di questa pratica politico-educativa, ecologica e
salutare, sta diventando necessaria per garantirci la sopravvivenza su questo
pianeta.
Non ci sono veri ostacoli. Possiamo cominciare da subito ad esercitarci con i
nostri famigliari ed amici. E poi allargare la cerchia, nelle scuole, nei luoghi
di lavoro, nelle associazioni, nei consigli di quartiere, fino ai luoghi della
39
politica. Non commettiamo l’errore di sottovalutare il nostro potere .
Stenterete a crederlo, stenterete, ma non dobbiamo aspettarci troppo aiuto in
questa direzione da parte di istituzioni e politici interessati a mantenere il loro
potere dominio: il dialogo “dialogale”, come direbbe Raimond Panikkar, è lo
40
strumento più efficace di antipotere .
Studio

Perché studiare discipline diverse?


Perché non limitarsi a studiare ed approfondire la propria disciplina? Perché
in Aleph consideriamo essenziale stimolare tutte le persone che vogliono
migliorare la propria vita ed aiutare gli altri (non solo i trainer e i counselor)
ad occuparsi di politica, di economia, di storia, di filosofia, di storia delle
religioni, di arte, di musica, di teatro, di film, di sport, di medicina, di
letteratura? Occuparsene non per dovere, come si faceva a scuola, ma per
piacere, per il piacere di conoscere il mondo in cui viviamo?
In che modo ampliare la nostra conoscenza può aumentare la nostra felicità,
farci vivere meglio, in modo più consapevole e più soddisfacente?
Non è sufficiente per questo concentrarsi sulla psicologia, sulla PNL,
sull’analisi transazionale, sulle costellazioni famigliari, andando a rimuovere
gli ostacoli emotivi alla nostra realizzazione? Non è sufficiente fare terapia,
formazione, cambiare alimentazione, praticare meditazione, rilassamento e
attività fisica?
Perché dover acquisire tante informazioni che non hanno nessuna
conseguenza pratica sul modo in cui respiriamo, mangiamo, ci relazioniamo
con noi stessi e con gli altri? Insomma, a che ci serve? Al liceo non abbiamo
già studiato storia e filosofia? Ci hanno aiutato a vivere meglio?
No, non ci hanno aiutato. Anzi, spesso ci hanno appesantito. Abbiamo
assunto un nuovo fardello, da cui il naturale oblio ci ha presto liberato.
Perché diventare più colti? Per essere in grado di rispondere ad eventuali
domande? Per superare degli esami? Per ottenere titoli?

Lo studio nella logica dell’avere


Che cosa significa studiare? Che cosa significa conoscere?
Nel mondo dominato dalla filosofia dell’avere, studiare significa accumulare
informazioni, così come si può accumulare denaro. Per crearsi un capitale
culturale, spendibile al momento opportuno per procurarsi dei vantaggi.
Questo tipo di studio ci può facilitare nel nostro cammino personale? Può
aiutarci a sviluppare le qualità dell’essere e ad eliminare gli inquinanti? In
breve, ci rende persone migliori, più aperte, compassionevoli, empatiche,
comprensive, oneste?
È sufficiente frequentare certi istituti universitari o altri luoghi dove si pratica
in modo sistematico lo studio e la ricerca per renderci conto che non c’è
alcuna connessione tra conoscenza acquisita e crescita personale. Possiamo
diventare maestri riconosciuti in discipline come la filosofia, la storia, la
musica, il diritto, la psicologia o la medicina, e rimanere persone
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egocentriche, avide e permalose .
Sul muro di una scuola qualcuno ha scritto: chi studia fa male anche a te,
fallo smettere. Lo studio visto come il fumo: studiare intossica. E’ solo una
stupidaggine pensata da qualche ragazzo pigro e svogliato? Non credo. Certo,
passare tutte le notti in discoteca e drogarsi è peggio. Ciondolare senza far
nulla, pure. Ma passare ore e ore sui libri (attività peraltro quasi del tutto
desueta) non necessariamente produce risultati utili. Potrebbe farci ammalare.
Lo stesso vale per l’attività fisica. Dipende da come la si pratica.

La via è la meta
Se lo studio non è accompagnato da piacere, intossica e distrugge la mente.
La divide in frammenti, la consegna alle pratiche autoritarie e repressive, che
poi ci accompagnano per tutta la vita.
Studiare per dovere è come mangiare per obbligo quando non si ha fame. Si
perde il gusto, il contatto con il cibo, sia esso materiale o spirituale. Si finisce
per odiare ciò che si mangia.
La via è la meta. Esplorare il mondo è parte della nostra natura. Ampliare le
nostre conoscenze è espressione del movimento esplorativo. Come tale si
accompagna a piacere e gioia. Il piacere di ampliare la visione, di
comprendere meglio ciò che succede dentro e intorno a noi.

Perché continuare a studiare?


Allora, perché continuare a leggere, ad informarsi, a conoscere nuove
discipline, nuovi punti di vista?
In PNL e in analisi transazionale, abbiamo constatato che la qualità della
nostra vita dipende dalle convinzioni e dalle decisioni, spesso assunte
nell’infanzia, da cui ci lasciamo guidare anche da adulti. Convinzioni
disfunzionali o distruttive creano un copione di vita che ci espone ad una
continua sofferenza nevrotica.
Liberiamoci da tali convinzioni e vivremo sereni! E’ così?
Le persone che hanno fatto tanta terapia vivono davvero nell’amore e nella
gioia? Se così fosse, gli psicologi e gli psicoterapeuti dovrebbero essere
avvolti da un alone di luce. Sarebbe sufficiente star loro vicino per sentirsi
meglio, per essere irradiati da serenità e saggezza.
Effettivamente alcuni di loro, molto pochi, sembrano funzionare così.
Assagioli, negli ultimi tempi della sua vita, era un uomo radiante, un maestro.
Ma la psicologia era stata solo una parte del suo lavoro.
Il lavoro psicologico è utile e necessario, ma non sufficiente. Serve ad
eliminare i fardelli più grossi, quelli emotivi inabilitanti, ma non ci rende
ancora liberi dai condizionamenti culturali.

Studiare è come viaggiare


Ecco una buona ragione per studiare ed ampliare la propria conoscenza:
imparare ad assumere diversi punti di vista, sapersi spostare da una posizione
percettiva ad un’altra; non credere più che la mappa sia il territorio; non
crederlo più nei fatti e nei comportamenti; non ricadere nella tirannia del
pensiero dicotomico o manicheo; assumere una posizione meta, senza
identificarsi, senza esserne dominati, smettendo così di combattere per
difendere la propria posizione, l’unica ritenuta valida.
Studiare diventa allora come viaggiare. Viaggiare è il modo più antico per
scoprire i presupposti riduttivi nei quali ci troviamo immersi e intrappolati.
Esporsi ad altre culture crea in noi delle dissonanze, perché esse sono
accordate su una tonalità diversa dalla nostra. Percepire le dissonanze diventa
il modo per scoprire la nostra tonalità, non darla più per scontata e non
considerarla l’unica possibile.
Oggi, però, anche viaggiare non ha più l’impatto di una volta. Il mondo intero
si sta omologando rapidamente alla nostra cultura consumistica, dominata
dall’economia capitalistica di mercato, ove tutto, ma proprio tutto, si
trasforma in merce di scambio, compresa la filosofia, l’arte e la musica.
Occorre sapere come viaggiare, che cosa cercare, come guardare. E’ inutile
lasciarsi trasportare come una valigia.
Lo stesso vale per lo studio. Occorre saper cercare. Occorre avere una meta,
uno schema di riferimento, un sistema di valori, che sia parte di una missione
condivisa da un sangha o una comunità di amici. Quindi avere delle domande
guidate da uno scopo superiore. Senza domande, senza scopo, non c’è vero
apprendimento.
E’ questo scopo che la scuola non insegna!
La scuola fa parte del sistema e lo rispecchia nei suoi presupposti alienanti.
Ne costituisce il primo anello, dopo la famiglia. La scuola moderna serve
sempre meno ad educare, a formare una persona completa, un cittadino
responsabile e interessato alla comunità in cui vive, bensì programma gli
allievi, quando ci riesce, a costruirsi una professione ed un lavoro per entrare
nel ciclo produttivo (le famose tre “i”: inglese, informatica, impresa).
Ecco quindi che diventa molto difficile, per un giovane, comprendere perché
mai occuparsi di storia, di filosofia, di arte. Per fare il venditore,
l’assicuratore o il commerciante, serve conoscere Socrate o Raffaello?

Il cammino verso la pace


Il pensiero dicotomico corrisponde ad una fase di sviluppo cognitivo che il
bambino attraversa. Così come impara a strisciare, poi a gattonare e, infine,
con fatica, inizia a camminare. Non può fare diversamente. Sono tappe
necessarie, che non possono essere saltate.
Il pensiero dicotomico corrisponde alla fase dello strisciare o dell’andare
gattoni. Cosa diremmo se vedessimo dirigenti, impiegati, insegnanti, padri o
madri di famiglia, segretari di partito, spostarsi per strada strisciando o
gattonando? Affideremmo loro l’educazione dei bambini, l’organizzazione
del lavoro, la direzione politica del paese?
La democrazia, intesa come lotta tra schieramenti e tra gruppi d’interesse, è
una forma raffinata, forse la più evoluta e meno violenta che conosciamo, di
capitolazione di fronte alla frequente irruzione del pensiero dicotomico.
Finché le coscienze non si libereranno dalla facile regressione nel pensiero
dicotomico, la pace è solo una parola vuota. La violenza è strutturale, perché
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è insita nel tipo di pensiero che crea la nostra realtà .
Nevrosi individuale e collettiva si rispecchiano reciprocamente. Nevrosi
significa conflitto, identificazione, separatività, non appartenenza, non
empatia, non compassione. Porta con sé malattia, cattiveria e stupidità.
La nevrosi, non le persone!
Ideologia specialistica e costruzione della realtà
Perché è interessante cercare i collegamenti tra nevrosi individuale e
collettiva? Non sono due fenomeni molto diversi ed incommensurabili?
La nevrosi individuale crea problemi d’adattamento e problemi affettivi e si
cura dallo psicoterapeuta. La nevrosi collettiva, ammesso che sia sensato
chiamarla così, è il disagio della civiltà di fronte ai problemi della crescita:
problemi economici, finanziari, strutturali (povertà, disoccupazione,
malasanità, degrado ambientale, ecc.).
Ciascuno faccia il suo mestiere: quindi gli psicologi si occupino dei singoli
individui; politici, economisti e scienziati sociali si occupino della collettività
e dei suoi problemi. Una società ordinata non è più efficiente di una società
caotica dove i ruoli sono confusi, dove i musicisti parlano di etica, i filosofi
di musica, i preti di scienza, i comici di politica?
L’ideologia specialistica si fonda sulla separatività. Distinguere, separare in
parti sempre più piccole e circoscritte, per poter meglio capire e manipolare
la realtà. Se mi occupo di economia, studio le teorie economiche, non certo la
filosofia o l’ecologia. Se mi occupo di psicologia, perché interessarmi di
storia?
Ma è vera comprensione quella che procede per divisioni sempre più piccole,
senza riconnetterle ad una visione d’insieme?
Quali soluzioni possiamo trovare attraverso questa forma di pensiero, che ha
difficoltà a dialogare e a ibridarsi in modo fecondo con altre forme? E’ questo
un pensiero moderno, in linea con le attuali scoperte scientifiche?
E’ compatibile con il pensiero sistemico, la teoria della relatività di Einstein,
il principio di indeterminazione di Heisenberg, il principio di
complementarità di Bohr, il teorema dell’incompletezza di Godel? O con le
scoperte dell’antropologia culturale, le scoperte sul funzionamento della
mente come sistema linguistico potenzialmente sempre aperto ed inclusivo di
altre menti e linguaggi?
Affrontando un problema come se fosse isolato, decontestualizzandolo,
siamo come un calciatore che corre sempre dietro l’ultimo pallone. Manca di
visione e strategia.
Ci occupiamo di contenuti, di fenomeni emergenti, di sintomi, non di cause
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profonde, di strutture portanti . Tentiamo di riparare una crepa con
l’intonaco, invece di controllare le fondamenta della casa. Le fondamenta
della realtà da noi costruita, le cause profonde dei nostri problemi, individuali
e collettivi, vanno cercate nei presupposti: i modi di pensare che non
mettiamo mai in discussione.
Il pensiero dicotomico-dogmatico si nasconde spesso nei nostri presupposti,
ed è alla radice di moltissimi problemi. Sul suo terreno i semi
dell’assolutismo, del fanatismo, delle guerre ideologiche, delle guerre di
religione possono prosperare e diffondersi. Sul suo terreno nascono conflitti
insanabili e sofferenza senza fine: individuale e collettiva.
7. ESSERE O AVERE

L’essere
L’essere ha a che fare con la totalità. L’essere include tutto, senza escludere
nulla. Tutto è uno.
Nel suo significato radicale, l’essere non ha predicati. Non è né grande né
piccolo, né bello né brutto, né giusto né sbagliato. E’ così com’è: il tutto
indifferenziato e nello stesso tempo interconnesso e organizzato.
Dal punto di vista della coscienza ordinaria, l’essere, come la vita, è
paradossale. E’ tutto e il contrario di tutto.
Con il sorgere della consapevolezza, nasce l’individuo, il soggetto, che
riflette su se stesso e sulla propria situazione: l’animale agisce e il suo
pensiero si esaurisce nell’azione immediata; l’uomo può pensare senza agire
e può comunicare con le parole i suoi pensieri. L’uomo, a differenza
dell’animale, è consapevole di sé: ha una visione del passato e del futuro. Ha
un io storico.

La nascita dell’io
Con la consapevolezza nasce l’io, il soggetto che sa di pensare ed agire.
Cos’è l’io? Un centro di consapevolezza e volontà. Consapevolezza di che
cosa? In primo luogo di ciò che è più vicino: il corpo, le sensazioni, le
emozioni, i pensieri. Cos’è la volontà? La direzione, il programma, la meta
imposta all’azione.
La consapevolezza funziona come una fonte di luce: illumina di più gli
oggetti vicini e di meno quelli lontani.
Ma il senso di connessione e appartenenza al tutto rimane intatto.

La formazione dell’Ego
L’io, però, può concentrarsi su se stesso, sul proprio corpo, sulle proprie
sensazioni e desideri in modo così esclusivo che tutto il resto rimane fuori
dalla portata del suo raggio. Si crea allora un confine netto e artificiale tra l’io
e ciò che viene percepito come non-io.
Il risultato è la perdita di connessione e di senso d’appartenenza. L’io diventa
l’unico soggetto. La realtà appare popolata di oggetti in cui l’io non si
identifica più, in quanto sono stati ridotti a cose prive di anima e come tali
suscettibili di manipolazione e sfruttamento senza riserve o scrupoli.
Nella misura in cui perde connessione, si separa e si isola, l’Io si trasforma in
Ego.
Naturalmente, salvo i casi di narcisismo gravemente patologico, la capacità
d’identificazione ed empatia si estende sempre ad una cerchia più o meno
grande di altri esseri rispetto all’io in senso stretto. La consapevolezza, cioè, è
in grado di spostarsi e considerare altre posizioni percettive diverse dalla
prima, in associato con il proprio corpo-mente.

L’Io, l’Ego e l’ombra


Dentro ogni persona convivono quindi due strutture diverse: l’Io che include
o tende ad includere e l’Ego che esclude o tende ad escludere.
Tutto quello che rimane fuori dalla sfera di consapevolezza e possibilità di
identificazione (io sono la mia famiglia, io sono i miei amici, io sono i miei
valori, io sono il mio lavoro), viene fatalmente escluso. Da soggetto diventa
oggetto, merce (i neri, gli ebrei, i lavoratori dipendenti, gli imprenditori, i
politici, i nemici ecc.).
La stessa esclusione può essere operata non solo rispetto alla realtà esterna,
ma anche a quella interna. Così posso considerare oggetto il mio corpo o
alcune sue parti o funzioni. Posso considerare oggetto alcune emozioni o
reazioni che non riconosco come mie. O anche pensieri, convinzioni,
desideri. Questo processo di esclusione dall’io può portare non solo al
tentativo d’inibizione o repressione, ma anche di rimozione. La rimozione
riesce quando non riconosco più questi aspetti di me e li proietto
completamente fuori.
Ad esempio, mi dissocio dalla mia aggressività, la considero così estranea a
me, che la percepisco solo fuori di me, nel comportamento degli altri.
La mia aggressività entra così a far parte dell’ombra.

Essere, flusso, consapevolezza


Cosa distingue allora l’essere dall’avere? L’essere non si può possedere.
L’essere si percepisce, si vive. L’essere è il flusso della realtà. E’ il fiume
della vita che viene da lontano.
Sono nell’essere quando ho consapevolezza, in primo luogo, del mio corpo,
delle mie emozioni e dei miei pensieri; ma anche quando simultaneamente
percepisco, ad un livello meno intenso, la connessione con il corpo, le
emozioni e i pensieri degli altri, quando empatizzo con i loro stati d’animo, i
loro desideri, bisogni, paure. In altre parole, quando sento di vibrare con ciò
che accade intorno a me e partecipo alla vita attraverso cerchi concentrici,
che si ampliano sempre più. Fino a comprendere tutto ciò che esiste.
Naturalmente la mia presenza è più intensa rispetto a ciò che mi è più vicino,
ma questo non esclude la possibilità di spostare la consapevolezza in zone più
lontane, nel tempo e nello spazio.

Rispetto
Un io che si muove così è radicato nell’essere e non potrà mai essere
violento. Il suo rapporto con se stesso e con gli altri esseri è caratterizzato dal
rispetto.
Cos’è il rispetto? Rispetto ha la stessa radice di spettatore, spettacolo44.
Etimologicamente significa guardare, osservare una seconda volta. Non
accontentarsi della prima occhiata, ma tornare a guardare, perché la
percezione facilmente distorce e perché le cose cambiano.
In altri termini, si ha rispetto quando si guarda in profondità. In profondità
significa osservare davvero la realtà così com’è, nella sua interconnessione e
nella sua impermanenza, in atteggiamento di umiltà, con cuore puro, senza
desideri, avversioni, proiezioni, pregiudizi.
Il rispetto presuppone quindi un atteggiamento contemplativo o meditativo.

Avere, separare, escludere


Cos’è l’avere? L’avere è in primo luogo un atteggiamento mentale,
diametralmente opposto all’essere. Ha a che fare con il desiderio di possesso.
Possesso di qualcosa che percepiamo al di fuori del nostro io e che vogliamo
inglobare per sentirci più forti, più grandi, più sicuri.
Il possesso esclude gli altri. La proprietà privata ne è l’esempio
paradigmatico: una cosa è mia quando posso privare altri del suo godimento.
Perché siamo interessati all’avere? Perché vogliamo escludere altri esseri
umani dal godimento di qualcosa (una terra, un bosco, una spiaggia), che
potrebbero essere di tutti? La ragione è che ci sentiamo limitati, separati e
spesso impauriti e vogliamo espandere il nostro territorio.
Più siamo nell’Ego, più ci è difficile capire che i limiti non derivano dal
mondo esterno, ma dal nostro atteggiamento mentale, che ci porta ad
attaccarci ai beni materiali e a creare confini. Sono i confini che ci fanno
sentire isolati, deboli, minacciati.
Nella logica dell’avere possiamo depredare qualcuno e sentirci più ricchi di
prima. Nella logica dell’avere siamo nettamente divisi e in competizione: gli
altri diventano oggetti. Li possiamo escludere, sfruttare e manipolarle.
Si pensi alla legge inglese che comportò la chiusura delle terre comuni ai
contadini (enclosures). I contadini non poterono più pascolare i loro armenti,
fare legna, ecc. Molti di loro s’impoverirono al punto da non riuscire più a
sfamare la famiglia e furono costretti a vendere la propria forza lavoro come
schiavi nelle fabbriche della prima rivoluzione industriale. Nacque la classe
dei proletari, di coloro cioè che possedevano soltanto la prole e, a differenza
di prima, erano alienati nel loro lavoro e dalla natura.
I nobili e le persone agiate che votarono la legge, lo fecero per trarne un
evidente vantaggio, inaugurando un periodo buio nei rapporti sociali. La
precedente alleanza, sia pure asimmetrica, si ruppe e da quel momento
l’umanità imboccò decisamente la strada che produsse il cambiamento etico
più importante dell’occidente: poiché la pratica dell’egoismo produceva
ricchezza, questo, da vizio capitale, cominciò ad essere considerato una
45
virtù . L’egoismo e l’invidia, come veleni, iniziarono a minare i rapporti
umani.

Violenza
Nella logica dell’avere, esiste il causa-effetto unidirezionale (almeno nei
tempi brevi): A usa violenza nei confronti di B e ne trae vantaggio. La
violenza va da A a B. A vince, B perde.
Nella logica dell’essere, il causa-effetto unidirezionale non esiste. Non esiste
qualcosa come la violenza nei confronti di qualcuno e a vantaggio di qualcun
altro. Esiste la violenza. Ed esistono le cause della violenza, che vengono da
lontano.
La violenza è una caratteristica dell’energia creativa temporaneamente
degradata in distruttiva. L’energia, come la luce, si espande in tutte le
direzioni e coinvolge con maggiore forza ciò che è più vicino nel tempo e
nello spazio.
Colui che pratica la violenza, è il primo ad esserne contagiato a livello
emotivo e spirituale; poi viene la vittima e, in seguito, tutti gli altri, in base
alla lontananza.
A differenza di quanto la logica dell’avere ci fa credere, non c’è una distanza
abissale tra aggressore e vittima. Al contrario c’è molta vicinanza e non
perché la vittima provoca l’aggressore, ma perché la violenza è come un
fulmine che colpisce insieme vittima ed aggressore.
Se la vittima conserva il rancore non spezzerà il circolo vizioso e continuerà a
praticare la logica dell’avere, la stessa che ha guidato la mano del suo
persecutore. Ma se uscirà da quella logica e accederà allo stato di coscienza
radicato nell’essere, ciò che è accaduto acquisterà un significato totalmente
nuovo. Si libererà dal dolore nevrotico, cagionato dal sentirsi un individuo
separato e ingiustamente ferito, perché sentirà che esiste un legame molto più
profondo e una storia antica che accomuna tutti gli esseri, comprese vittime e
aggressori.
Anziché odiarlo, avrà compassione per l’aggressore e per tutti coloro che
l’hanno preceduto nella loro insana inconsapevolezza: “Perdona loro perché
46
non sanno quello che fanno” .
L’uomo che pratica la violenza, non solo non rispetta la vittima, ma non
rispetta in primo luogo se stesso, la propria natura profonda. Si lascia agire da
una pulsione o da un desiderio parziale e non osserva se stesso con
atteggiamento contemplativo per scoprire la totalità del suo essere.
Possiamo dire che tradisce e violenta la sua anima, intendendo per anima la
totalità o l’anelito verso la totalità.
Un antico proverbio di saggezza dice che le azioni e i pensieri, buoni o
cattivi, ritornano al mittente. La realtà ci fa da specchio.
Chi pratica le qualità dell’essere, ovvero le qualità dell’amore, vive
nell’amore e nell’abbondanza. Chi pratica gli inquinanti, vive nella paura e
nella carenza.

Amore e qualità dell’energia


Dove posso trovare l’amore? Risposta: scava e cercalo dentro di te.
Se guardiamo in profondità, vediamo che ogni nostro pensiero ed azione sono
preceduti da un movimento di energia. Possiamo scoprirlo osservando i
micromovimenti, le piccole vibrazioni e sensazioni del nostro corpo. Il
processo viene facilitato se disegnamo rapidamente queste forme su un
foglio, così come vengono. Notiamo il tratto, la forma, l’andamento delle
linee. Ci diranno molto sull’origine dei nostri impulsi.
Noteremo facilmente come queste tracce, nella loro essenza profonda, sono
diverse tra loro, perché diversa è la qualità e la forma dell’energia dalla quale
scaturiscono.
Siamo equipaggiati per distinguere istintivamente, con chiarezza, le forme di
energia in cui predominano la durezza, la spigolosità, la disarmonia, la
violenza da quelle in cui predominano la dolcezza, la tenerezza, l’amore.
Sono qualità che indicano una diversa relazione con il mondo e con gli altri e
sono veicolate dalla comunicazione non verbale: postura, motricità, tono di
voce, tempo ritmo ecc.
Le ritroviamo in tutte le forme espressive e nell’arte: musica, pittura, danza,
poesia. La qualità dell’energia indica la qualità della relazione, con se stessi,
in primo luogo, con il proprio corpo, con gli altri, con le attività in cui siamo
impegnati.
A livello implicito si crea una forma-pensiero, che è nello stesso tempo una
qualità di relazione, di energia, di emozione: questa è la fonte. Poi, a livello
esplicito, tale qualità si manifesta in una determinata modalità: sonora, visiva,
47
motoria, plastica, sensoriale o tutte queste insieme .
I fiori di Bach sono forme vegetali che manifestano diverse qualità d’energia.
Più in generale tutti gli alberi e le piante sono espressione di differenti
qualità. La natura non funziona in modo sequenziale ed analitico, ma per
analogia, per similitudine, attraverso strutture che connettono (G. Bateson).
Quindi anche le montagne, i fiumi, i laghi, le nuvole, le stelle, possono
48
comunicarci queste qualità . Lo stesso vale per le opere dell’uomo:
l’architettura, le chiese, i palazzi, le sculture, i quadri, le musiche.
I bambini sono particolarmente sensibili al tono di voce e alla gestualità, sono
esperti nel riconoscere le qualità emotive ed espressive, perché dalle relazioni
dipende la loro sopravvivenza. Come gli animali.
Anni fa avevamo un pastore tedesco femmina. Assolutamente pacifica e
amante della tranquillità. Quando andavamo a trovare un nostro parente
anziano, il cane dopo poco si accucciava vicino alla porta e mugolava, finché
non lo portavamo via. Teneva questo comportamento solo in quella casa.
Perché? Perché quella persona, pur non facendo nulla di speciale, era spesso
irritata e questo traspariva dal suo tono di voce.
La gattina che oggi abita con noi è piuttosto socievole, ma spesso preferisce
dormire o fare le cose per conto suo. Quando però in casa nostra avviene una
conversazione dalla quale traspare un particolare senso di unione e
fratellanza, allora la si sente miagolare e presto arriva a sedersi in braccio
ronfando.
Da adulti, impariamo a schermarci, fino a non riconoscere quasi più queste
energie sottili. In tal modo ci viene a mancare il radicamento nel corpo e nelle
emozioni, che solo ci permette di essere in contatto con la realtà così com’è e
di essere totali, cioè di gioire quando c’è da gioire e soffrire quando c’è da
soffrire, con generosità espressiva, senza maschera, senza inibizioni
convenzionali.
Da adulti perdiamo la freschezza e con essa la capacità di darci interamente e
di amare. Per questo Gesù ha detto: “Guai ai tiepidi!”, e “Non entrerete nel
regno dei cieli se non diventate come bambini”.
In realtà tale capacità non va perduta, ma si assopisce ed attende solo di
essere risvegliata.
La nostra sensibilità si ottunde soprattutto attraverso l’esposizione a contesti
inquinati dall’etica autoritaria. E’ nella natura del potere-dominio poter
esercitarsi solo se la freschezza e la sensibilità originaria vengono offuscate e
se le persone sono confuse e alienate dal proprio vero sé. Se perdono cioè la
capacità di distinguere con chiarezza ciò che è più essenziale: le qualità delle
relazioni, che si manifestano nelle qualità dell’energia, nelle forme del
movimento, nel timbro del suono, nel tempo ritmo.
La cultura nella quale veniamo educati è fondata sulla parola, intesa come
espressione dell’emisfero sinistro, digitale, sequenziale, logico-analitico, ma
non sono queste competenze che ci permettono di vedere e smascherare la
vera natura del potere-dominio e l’oppressione dell’uomo sull’uomo. La
parola, nel suo aspetto digitale, è un mezzo che può essere asservito, e spesso
lo è, alla pratica della menzogna e del racket.
8. LE PAROLE E LE COSE

Il libro di Foucault “Le parole e le cose” inizia con una classificazione di


animali in voga durante la reggenza di un certo imperatore cinese. La
classificazione era di questo tenore:

gli animali si distinguono in: cani dell’imperatore; animali che strisciano;


animali con le ali; topi piccoli e topi grandi; animali immaginari; animali che
fanno l’amore ecc.

La descrizione prosegue per più di una pagina e sembra redatta da un pazzo.


In nessun punto corrisponde alla classificazione alla quale siamo abituati:
vertebrati, invertebrati, rettili, uccelli, mammiferi.
In realtà una classificazione può essere guidata dai criteri più diversi. Anziché
un criterio oggettivo, cioè condivisibile da una comunità di scienziati, si può
scegliere un criterio soggettivo, poetico o estetico (ad esempio le sensazioni
che mi danno gli oggetti).
Questo esempio è una efficace introduzione al linguaggio, inteso come
strumento di costruzione della realtà in cui viviamo.
In PNL, con il metamodello linguistico, abbiamo imparato a diventare
consapevoli dei presupposti che si celano nelle pieghe delle parole che
usiamo per comunicare, ma il tema dei presupposti è talmente ampio, che
merita continui approfondimenti.
Prendendo spunto dalla classificazione degli animali dell’imperatore cinese,
ai nostri occhi del tutto fantasiosa ed arbitraria, ne propongo una, per
mostrare come anche noi, che ci consideriamo razionali, cediamo a tentazioni
altrettanto fantasiose, in genere senza averne il minimo sospetto e con
conseguenze spesso assai più perniciose: San Francesco, Santa Chiara, papa
Giovanni XXIII, il cardinale Richelieu, papa Alessandro VI, sono cristiani.
Bach, Mozart, Beethowen, John Cage, gli Heavy Metal sono musicisti.
Raffaello, Michelangelo, Leonardo, Monet, Rauschenberg sono pittori.
Giulio Cesare, Napoleone, Martin Luther King, Gandhi sono grandi uomini.
Qualche obiezione? Provate a farla e molti non capiranno di che cosa state
parlando. Oppure sarete accusati d’ignoranza.
Com’è possibile mettere nello stesso contenitore personaggi così diversi?
Attribuendo importanza ad elementi del tutto accessori e secondari e
negandola ad elementi assolutamente essenziali. Essenziali per chi e per che
cosa? Essenziali per chi è interessato a ridurre la propaganda del potere-
dominio e lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e quindi, in ultima analisi, a
ridurre la sofferenza nevrotica o non necessaria.
Quali sono questi elementi? Sono le qualità, le forme energetiche, indici della
qualità delle relazioni psicoaffettive. I papi rinascimentali erano uomini
politici, spesso viziosi e assetati di potere. Non possono essere messi nello
stesso contenitore di San Francesco o di papa Giovanni. Non si tratta di
un’operazione neutra e priva di conseguenze; al contrario, essa veicola un
presupposto tanto più pericoloso in quanto nascosto nei risvolti di abitudini
comuni, apparentemente innocenti, in realtà portatrici di virus del pensiero da
cui è poi difficile liberarsi.
Com’è importante utilizzare gli antivirus per proteggere il funzionamento dei
computer, ancora più importante è disporre di antivirus del linguaggio, per
liberare la mente dai veleni da cui essa viene intossicata.
9. DIALOGO E DISCUSSIONE
(Rielaborazione e commenti ispirati dal libro di Peter Senge, Quinta
disciplina, Sperling & Kupfer)

Conversazione ed apprendimento collettivo


Dice Heisenberg: “La scienza è radicata nelle conversazioni. La cooperazione
di persone diverse può culminare in risultati scientifici di eccezionale
importanza”.
Heisenberg ricorda una vita di conversazioni con Pauli, Einstein, Bohr e le
altre grandi figure che hanno sradicato e riformulato la fisica tradizionale
nella prima metà di questo secolo: così sono nate molte teorie da cui questi
uomini sono diventati famosi.
Tali conversazioni, ricche di passione ed emozione, illustrano l’eccezionale
potere dell’apprendimento collaborativo: dialogando insieme possiamo
raggiungere una comprensione assai più profonda che lavorando
individualmente.
49
L’intelligenza del gruppo può essere molto più grande di quella del singolo .

Dialogo ed intelligenza più ampia


Su questa linea, David Bohm, uno dei più grandi e originali fisici del
novecento, ha elaborato una teoria e un metodo del dialogo che può attivarsi
quando “un gruppo si apre al flusso di un’intelligenza più ampia”.
Molte società “primitive”, tra le quali gli indiani d’america, praticavano
quest’idea.
Tuttavia nel mondo moderno essa è del tutto perduta. Può accadere
occasionalmente, ma manca uno sforzo sistematico e una pratica disciplinata.

Il pensiero come fenomeno collettivo


Secondo Bohm, scopo della scienza non è accumulare conoscenza, ma creare
mappe mentali che guidano la nostra percezione e azione.
Il contributo di Bohm consiste nel vedere soprattutto il pensiero come un
fenomeno collettivo. I problemi del mondo derivano dal fatto che il pensiero
è incoerente, e quindi poco produttivo.
Se il pensiero è un fenomeno collettivo, è a quel livello che può essere
cambiato. Il punto di partenza quindi è la conversazione di gruppo, e non,
come si ritiene comunemente, lo sforzo individuale.
La competizione che spinge gli individui a primeggiare, fornisce un cattivo
servizio in questa direzione. Ciò di cui abbiamo bisogno è un nuovo modo di
pensare sistemico, che trova la sua naturale origine nel gruppo.
Il pensiero si forma nel modo in cui noi interagiamo e discorriamo l’uno con
l’altro. In altri termini, la forma della conversazione ha effetti sul tipo
d’intelligenza che emerge, e sul tipo di comprensione che diventa possibile.

Discussione e dialogo
La radice di discussione è percuotere, scuotere. Assomiglia al gioco del ping
pong. L’oggetto può essere analizzato da diversi punti di vista e questo può
essere utile. Ma lo scopo del gioco normalmente è vincere.
Vincere significa che le opinioni del singolo vengono accolte dal gruppo.
Una forte accentuazione sul vincere però non è compatibile con la dedizione
alla verità.
Si pone quindi l’alternativa tra:

- cercare di ottenere approvazione e consenso


- cercare una comprensione profonda, perseguire il bene comune

Per ottenere la seconda priorità, è necessario un altro tipo di conversazione: il


dialogo. A differenza della discussione, dialogo deriva da dia logos. “Dia”
significa attraverso, “logos” significa parola. Quindi: parola-significato che
passa o si muove tra.
Mediante il dialogo, il gruppo può accedere ad una comprensione e ad un
significato comune che non è raggiungibile singolarmente. L’intero organizza
le parti, non è la somma delle parti a formare il tutto.
Scopo del dialogo è andare oltre la comprensione di ogni singolo individuo.
In un dialogo non cerchiamo di prevalere. Vinciamo tutti se lo eseguiamo nel
modo giusto.
In sostanza, è la struttura del dialogo che organizza la conversazione e lo
scambio in modo che possa emergere un significato comune, condiviso.
Mentre la discussione è un gioco a somma zero, il dialogo è un gioco a
somma diversa da zero.
Pertanto, il dialogo dovrebbe essere la struttura base della democrazia, al
posto della discussione. Anche la discussione potrebbe avere un ruolo, ma di
carattere marginale. L’asse portante dovrebbe essere il dialogo.
Nel dialogo si sviluppa un nuovo tipo di mentalità. I singoli tengono in
sospeso i loro presupposti (la mappa non è il territorio), ma nel contempo li
comunicano liberamente l’uno all’altro. Il risultato è un’esplorazione libera,
che porta in superficie tutta la profondità dell’esperienza dei singoli e tuttavia
può andare oltre i loro punti di vista individuali.
Per sua natura, il dialogo facilita la disidentificazione. Se emerge un conflitto,
le persone possono rendersi conto che è l’identificazione nei loro punti di
vista a mantenere il conflitto.

Il pensiero ha origine collettiva


Secondo Bohm, la maggior parte del pensiero ha origine collettiva. Ogni
persona vi apporta qualcosa di suo, ma in linea di massima origina
collettivamente. Quindi le persone sono portatrici di pensieri non da loro
elaborati. Il linguaggio, ad esempio, è del tutto collettivo.
Il pensiero è in gran parte linguaggio. Il linguaggio, infatti, opera determinate
distinzioni, evidenzia determinate figure dallo sfondo, orientando la nostra
percezione, favorendo determinate mappe della realtà. La maggior parte dei
nostri presupposti riduttivi è acquisizione di presupposti culturalmente
condivisi. Pochi imparano a pensare con la loro testa. E chi lo fa corre il forte
rischio di non essere capito.

“Il pensiero collettivo è come un fiume. I pensieri sono foglie che galleggiano
sul fiume. Noi raccogliamo le foglie, che percepiamo come pensieri. In tal
modo percepiamo erroneamente i pensieri come nostri, perché non riusciamo
a vedere il flusso del pensiero collettivo da cui essi promanano.
Grazie al dialogo, si comincia a percepire il flusso del pensiero collettivo che
è in continuo cambiamento. Di solito i nostri processi di pensiero sono come
una grossa rete, capace di raccogliere solo elementi più grossolani della
corrente. Attraverso il dialogo, sviluppiamo una sensibilità che ci permette di
cogliere anche gli aspetti più sottili, i significati più profondi”.

Bohm ritiene che questa sensibilità sia alla radice della vera intelligenza
(mente di gruppo). L’apprendimento collettivo non soltanto è possibile, ma è
vitale per sviluppare il potenziale umano.
Attraverso il dialogo, le persone possono aiutarsi vicendevolmente a divenire
consapevoli dell’incoerenza dei pensieri di ciascuno e in tal modo il pensiero
collettivo può acquisire coerenza.

“L’incoerenza risulta come confusione e contraddizione. Il pensiero


incoerente produce conseguenze che noi non desideriamo”.

Coerenza significa ordine, connessione, bellezza, armonia. L’incoerenza


produce disordine, bruttezza, violenza.

Condizioni necessarie al dialogo


Per Bohm esistono tre condizioni necessarie perché il dialogo possa
50
avvenire :

- ognuno deve tenere in sospeso il proprio punto di vista (rispettando il


presupposto “la mappa non è il territorio”). Ogni forma di forte
identificazione o di dogmatismo impedisce il dialogo alla radice
- le persone che dialogano devono considerarsi colleghi (non ci deve
51
essere rapporto di gerarchia, né inimicizia)
- la presenza di un facilitatore che garantisca il contesto di dialogo

“Queste condizioni contribuiscono a consentire il libero flusso del significato


attraverso il gruppo, diminuendo le zone di resistenza. Come in un circuito
elettrico, ove la resistenza fa sì che si generi calore o spreco di energia, così il
normale funzionamento di un gruppo dissipa energia (attrito emotivo,
conflitto). Nel dialogo, invece, c’è energia fredda, come in un
superconduttore. Possono essere discussi problemi caldi, che produrrebbero
faziosità, senza generare conflitto e resistenza. Essi diventano così finestre su
percezioni più profonde”.
Se un singolo punta i piedi, e dice che le cose stanno in un certo modo, il
dialogo si ferma. Il dialogo è un processo delicato, in quanto la tendenza della
mente è di attaccarsi alle proprie opinioni e poi a difenderle52. Tenere in
sospeso i presupposti è difficile, per la natura stessa del pensiero, che
continua ad illuderci che “le cose stanno così”.
La disciplina di gruppo è necessaria per tenere in sospeso i presupposti e per
neutralizzare l’istinto alla realtà intrinseca.
L’ignoranza comune su questo punto è tremendamente diffusa. E tale
ignoranza è realmente pericolosa. Nella scuola e nell’università si fa molto
poco per apprendere questa capacità. Gli intellettuali spesso condividono
questo tipo d’ignoranza. Nella politica, anche in democrazia, la pratica del
dialogo è estremamente rara.

Incoerenza del pensiero


Per Bohm vi sono tre principali forme di incoerenza:

- il pensiero nega di essere partecipativo


- il pensiero si stacca dalla realtà e va avanti come un programma a sé
- il pensiero stabilisce i criteri per risolvere i problemi che lui stesso ha
creato

Scopo del dialogo è rivelare l’incoerenza del nostro pensiero. Nel dialogo,
correttamente condotto, le persone diventano osservatori del loro modo di
pensare.
In termini buddisti, il dialogo è una forma di meditazione. Ognuno impara a
contemplare il proprio e l’altrui pensiero, senza attaccamenti ed avversioni.
Se sorge un conflitto, è probabile che le persone si rendano conto che la
tensione nasce letteralmente dai loro pensieri. “Sono i nostri pensieri e il
modo in cui aderiamo ad essi ad essere in conflitto, non noi”.
In termini di PNL, il dialogo presuppone la disponibilità a ruotare le posizioni
percettive.
In termini di psicosintesi, presuppone la disponibilità alla disidentificazione.

Dialogo e organizzazioni
Nelle organizzazioni i principi del dialogo sono difficilmente applicati perché
quasi sempre vige il principio di gerarchia, che blocca in partenza la libera
espressione del proprio pensiero.
Un leader che voglia applicare questi principi ha un compito molto
importante: creare un contesto di tipo innovativo, ove si avveri lo spirito di
parità.

©Aleph 2008
Aleph

1. Mauro Scardovelli Propaganda


2. Mauro Scardovelli Io-Governo
3. Mauro Scardovelli Barriere
4. Mauro Scardovelli Narcisisti con le ali
5. Mauro Scardovelli Simboli Aleph
6. Mauro Scardovelli Karma ideologico ed economia
7. Mauro Scardovelli Conoscenza e libertà
8. Mauro Scardovelli La naturale capacità di amare
9. Mauro Scardovelli Qualità e inquinanti

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Note

[←1]
Cfr. A. Plebe, Storia del pensiero, Ubaldini ed.
[←2]
In ambito informatico, è nota a tutti la legge: “Garbage in, garbage out”. Da tale legge si ricava
un’altra scomoda verità: quando esce spazzatura, significa che abbiamo messo dentro spazzatura.
Serge Latouche, l’economista diventato il simbolo del movimento sulla decrescita, sostiene che
c’è davvero un solo modo per liberarsi dei rifiuti che ci assalgono ormai da ogni lato: produrne
di meno. L’economia dell’usa e getta è frutto emblematico di un pensiero sconnesso dalla realtà.
[←3]
Cfr. Karma ideologico ed economia, in questa collana.
[←4]
Cfr. su Google la bellissima intervista di Carlo Sini su Charles Peirce.
[←5]
Cfr, Propaganda, In questa collana.
[←6]
U.Eco, A Passi di gambero, Bompiani.
[←7]
Purtroppo oggi molti ragazzi sembrano aver imboccato la pericolosa strada del nichilismo. Cfr.
Galimberti, L’ospite inquietante, Feltrinelli, 2007. Di fronte a questi fatti, per essere equanimi,
non va dimenticato che il nichilismo è spesso solo frutto di una tensione ideale, tipica dei
giovani, troppo profondamente tradita dalla palese incapacità della maggior parte degli adulti, in
posizione di autorità, di fornire esempi costruttivi e di esercitare leadership e visione.
[←8]
Cfr. J.G. Davies, La chiesa delle origini, Il Saggiatore, p. 37.
[←9]
N. F. Montecucco, Psicosomatica olistica, ed. Mediterranee, 2005.
[←10]
Cfr. E. Tolle, Il potere di adesso, Armenia, 1997; N. F. Montecucco, cit.
[←11]
La visione di Platone, che insieme a quella di Aristotele, ha ispirato e forgiato la storia
successiva del nostro modo di pensare, sembra dare importanza centrale agli stati di coscienza.
Platone parla esplicitamente di tre livelli o stati fondamentali: coscienza appetitiva, emotiva e
intellettiva, attribuendo alla terza la funzione di guida sulle altre due. Sostiene che per liberarsi
dall’ignoranza occorre praticare un cammino di ascesi (allenamento), in modo da imparare a
distinguere le ombre dalla realtà vera. Ma qual è la realtà vera? Qui Platone mostra il lato debole
della sua costruzione: sono le idee, le forme eterne che non abitano questo mondo, ma al di là di
esso, nell’iperuranio. Una costruzione tutta mentale, priva di contatto sensoriale con la realtà del
qui ed ora, che attribuisce alla sola ragione una capacità che essa non ha mai dimostrato di avere:
quella di produrre immagini accurate del mondo. La disputa sugli universali, le idee platoniche
nelle loro diverse varianti, è durata per secoli. La posta in gioco non era piccola: ci si interrogava
se la ragione possa comprendere il mondo a priori, cioè indipendentemente dall’esperienza
diretta, in quanto può, per sua natura, accedere al livello in cui le idee universali risiedono. La
semplice persistenza di un tale dibattito indica il solco che divide la filosofia occidentale da
quella asiatica, da sempre ancorata alla primaria osservazione del dato sensoriale e alle pratiche
corporee rigorose e sistematiche necessarie a raffinare la nostra percezione (Taimni, La scienza
dello yoga, Ubaldini ed). In tale filosofia gli stati di coscienza più elevati non si limitano ad
essere nomi dati alle intuizioni della ragione, ma sono obiettivi chiari e sperimentabili perseguiti
da pratiche e discipline, radicate nella fisiologia, nel respiro, nella postura, perfezionate in
migliaia di anni di esperienza (D. J. Walters, Crisi del pensiero contemporaneo, ed.
Mediterranee; K. Wilber, Grazia e grinta, Cittadella ed.).
[←12]
Cfr. T. Gordon, Insegnanti efficaci, Giunti Lisciani.
[←13]
Cfr. M. Scardovelli, Democrazia, potere, narcisismo, Liberodiscrivere, 2002.
[←14]
Cfr. J.F. Revel, M. Ricard, Il monaco e il filosofo, Neri Pozza ed.
[←15]
Cfr. M. Scardovelli, Democrazia, cit.; Id., Simboli Aleph, in questa collana.
[←16]
Nella visione sistemica si attua un doppio legame quando, all’interno di una relazione intensa,
viene dato un messaggio che contiene due asserzioni che si escludono a vicenda. Per richiudere
perfettamente su se stesso il malefico cerchio generato dal doppio legame, bisogna altresì
impedire al ricettore del messaggio di metacomunicare sul messaggio stesso.
[←17]
Cfr. Krishnamurti, La sola rivoluzione, Astrolabio; L. Marinoff, Aristotele, Buddha, Confucio,
Piemme ed.
[←18]
Un bambino di tre anni, secondo E. Berne, è più vicino alla realtà di un adulto adattato.
[←19]
Cfr. Peck, Voglia di bene, Frassinelli ed.
[←20]
Cfr. S. Latouche, L’invenzione dell’economia, Arianna ed.
[←21]
Cfr. J. Pierrakos, Corenergetica, Crisalide ed..
[←22]
Cfr. Satprem, Sri Aurobido: L’avventura della coscienza, ed. Mediterranee.
[←23]
In PNL umanistica questo tema viene affrontato sin dal livello base, in cui s’inizia a lavorare su
barriere della comunicazione, inquinanti personali, racket e leadership interna.
[←24]
S. Salzberg, L’arte rivoluzionaria della gioia, Ubaldini.
[←25]
P. Schellenbaum, Il no in amore, ed. RED.
[←26]
M. Scardovelli, Feedback e cambiamento, Borla; Id, Musica e trasformazione, Borla.
[←27]
Cfr. E. Fromm, Avere o essere, Mondadori.
[←28]
Esempi di nuclei concettuali sono i livelli di coscienza, la disidentificazione, la risonanza, il
potere-dominio, la propaganda. Sul concetto di nuclei della conoscenza o nodi formativi cfr.
Porena in www.didatticaperprogetti.it
[←29]
C.T. Tart, Stati di coscienza, Astrolabio; K. Wilber, Lo spettro della coscienza, Crisalide.
[←30]
Il trattato di Westfalia, nella prima metà del seicento, ha finalmente dichiarato illegittime le
guerre di religione, le guerre cioè fatte contro eretici ed infedeli, colpevoli moralmente di non
riconoscere la verità.
[←31]
Cfr. Bateson, Verso un’ecologia della mente; Id., Mente e natura; M. Scardovelli, La formazione
del musicoterapeuta: premesse epistemologiche e cambiamento, coop 77 ed. (www.aleph.ws).
[←32]
Cfr Barriere, in questa collana.
[←33]
Cfr. Io-governo, in questa collana.
[←34]
Cfr. Nagler, Per un futuro non violento, Ponte alle Grazie.
[←35]
Cfr. Propaganda, in questa collana.
[←36]
Cfr. Krishnamurti, Sul conflitto, Astrolabio.
[←37]
Cfr. Oz, Contro il fanatismo, Feltrinelli.
[←38]
Si pensi, ad esempio, all’uso delle sottomodalità, alle posizioni percettive, al metamodello.
[←39]
Cfr. J. Holloway, Cambiare il mondo senza prendere il potere, Intra Moenia ed.
[←40]
R. Panikkar distingue tra dialogo dialettico e dialogo dialogale. Con il primo si riferisce ad una
discussione tesa all’affermazione della verità, nel presupposto che essa sia conoscibile e sia
posseduta da una delle parti. Con il secondo intende una pratica di apertura sincera e amorevole
ad altri modi di vedere il mondo, diversi dai propri.
[←41]
Cfr. Revez, Ricard, cit.
[←42]
Cfr. Nagler, Per un futuro non violento, Ponte alle Grazie ed.
[←43]
Cfr. Nagler, Per un futuro non violento, cit.
[←44]
E. Rosemberg, Lavorare senza offendersi, Guerini e associati ed.
[←45]
Cfr. Karma ideologico ed economia, in questa collana.
[←46]
Cfr Desmond Tutu, Non c’è futuro senza perdono, Feltrinelli.
[←47]
Cfr. Satprem, Sri Aurobindo: l’avventura della coscienza, Ed. Mediterranee.
[←48]
Cfr. la tecnica di PNL umanistica: “Generatore di nuove qualità”.
[←49]
Cfr. M. Scardovelli, Feedback e cambiamento, Borla.
[←50]
Condizioni analoghe sono richieste affinché possa funzionare un “circuito autogenerativo”, cioè
una conversazione tra persone con competenze diverse, accomunate dal desiderio di
approfondire la conoscenza e la discussione su un determinato tema. Cfr. Porena, IMC, ipotesi
per la composizione delle diversità, ed. EUE.
[←51]
Per il Dalay Lama (The good Heart, Rider Books), presupposto del dialogo è l’amicizia, o
almeno la disponibilità a diventare amici. Per Habermas, ogni forma di disonestà, mistificazione
o violenza rende il dialogo impossibile.
[←52]
Secondo il buddismo, c’è un istinto più forte di quello sessuale: quello della realtà intrinseca, il
credere di vedere davvero la realtà.

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