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Collana Aleph - 7
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Associazione culturale edizioni Liberodiscrivere®
ISBN 9788899137618
La riproduzione, anche solo parziale, di questo testo e immagini, a mezzo di copie fotostatiche o con
altri strumenti, senza l’esplicita autorizzazione dell’Editore, costituisce reato e come tale sarà
perseguito.
Mauro Scardovelli
Conoscenza
e libertà
L’associazione Aleph, scuola di PNL (programmazione neurolinguistica) e di
counselling, promuove la ricerca nel settore della formazione e della crescita
personale.
La sua specificità consiste nel creare collegamenti fra discipline, saperi e
pratiche tradizionalmente separati: psicologia, psicoterapia, filosofia, arte,
musica e meditazione, ma anche economia, storia e scienze politiche, nella
convinzione che un lavoro personale davvero efficace non può prescindere
da una comprensione, nei suoi elementi essenziali, della realtà storico-
politica in cui viviamo.
I quaderni Aleph sono appunti di viaggio di un percorso interdisciplinare,
che tocca temi diversi, dai tipi di pensiero ai modelli di apprendimento, dalle
tecniche terapeutiche alla visione transpersonale, dai problemi della
globalizzazione all’etica umanistica e all’ecologia profonda, accomunati da
un solo intento: la crescita della consapevolezza individuale e collettiva.
Ogni quaderno è come il frammento di un mosaico: il suo significato lo si
comprende nel suo rapporto con gli altri.
Quaderni pubblicati: Propaganda; Io-governo; Barriere; Narcisisti con le
ali; Simboli Aleph; Karma ideologico ed economia; Conoscenza e libertà.
In corso di pubblicazione: La naturale capacità di amare; Inquinanti e
qualità dell’essere.
1. CONOSCENZA E LIBERTÀ
Ignoranza e sofferenza
Negli stessi anni in cui Pitagora pensava di chiudere la saggezza dietro le
porte difficilmente accessibili della competenza specifica, un poeta a lui
contemporaneo, Teognide, andava mostrando ad un più vasto pubblico come
quella saggezza, per quanto quasi inaccessibile, fosse tuttavia indispensabile
agli uomini, se non volevano essere preda dell’impotenza, figlia
dell’ignoranza:
“Spesso chi crede di provocare un male causa un bene, e chi vuole recare un
bene provoca un male:
all’uomo non riesce, allora, di compiere ciò che vuole, ma lo trattengono le
barriere della sgradevole impotenza;
perché noi uomini, quando non sappiamo nulla, ci poniamo in mente delle
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futilità” .
Curiosità ed esplorazione
L’uomo è l’animale più curioso che esista, più dei gatti e delle scimmie. E
quindi corre sempre il rischio di sconfinare in territori pericolosi. A
differenza dei rettili, si annoia a ripetere troppo le stesse cose (fanno
eccezione pochi individui, dei quali alcuni particolarmente dotati in questa
specialità. Da quando hanno istituito il guinness dei primati, non c’è
stranezza in cui non ci sia qualcuno che eccelle, dall’ingoiare lamette da
barba a strappare elenchi del telefono). La sua curiosità è connaturata alla
dimensione del suo cervello.
Ogni organo, a partire dal livello cellulare, contiene in sé la motivazione ad
essere utilizzato e a sviluppare pienamente le sue funzioni. Il cervello non fa
eccezione. E il cervello umano è sovradimensionato rispetto alle esigenze del
corpo fisico. Mangiare, bere, dormire, fare sesso, non sono azioni sufficienti
per impegnarlo. Lo impegna a fondo solo l’esplorazione di ciò che ancora
non conosce.
D’altra parte, l’uomo, rispetto ad altri animali, non può certo vantare armi
naturali paragonabili, come denti, artigli, potenza muscolare, veleni ecc.
Nella lotta per sopravvivere, ha sviluppato soprattutto l’intelligenza, con la
quale ha rapidamente rimontato il deficit iniziale. E, secondo alcuni, in questa
corsa si è fatto prendere la mano e ha finito per esagerare (è oggetto ancora
oggi di dotte discussioni se le bombe atomiche siano davvero necessarie a
garantire la nostra sopravvivenza. Nel dubbio, continuiamo a produrne in
abbondanza, insieme ad altri marchingegni non meno pericolosi).
Io so di non sapere
Trattando un tema come quello della conoscenza, non può mancare una storia
di antica saggezza cinese. Un giorno il figlio di un vecchio contadino tornò a
casa tutto contento: aveva trovato un meraviglioso cavallo. Gli abitanti del
villaggio, un po’ invidiosi, si complimentarono per la sua fortuna. Ma il
vecchio scosse il capo, dicendo: “Non so se è una fortuna”. Poco tempo dopo,
il figlio cadde dal cavallo e si ruppe una gamba. I vicini di casa dissero: “Che
brutta disgrazia!” Anche questa volta il vecchio disse: “Non lo so”. Una
settimana più tardi, i messi dell’imperatore setacciarono la campagna, alla
ricerca di nuove leve militari. I giovani che partirono per la guerra, morirono
tutti. La caduta da cavallo aveva salvato la vita al figlio del contadino.
“Tutti siamo ignoranti”, diceva Socrate, “io, però, so di non sapere”. Per
questo egli si riteneva più sapiente degli altri.
Per ammettere la propria ignoranza e i propri torti, ci vuole umiltà.
L’orgoglioso pretende di aver ragione anche quando non sa nulla di un
argomento. La prova che ha ragione è una sola: perché lo dice lui.
Molte persone sono orgogliose. Pochissime lo ammettono, perché nonostante
l’evidente progresso etico dell’umanità, l’orgoglio, a differenza
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dell’egoismo , non è ancora considerato una pubblica virtù.
Un padre e una giovane figlia, ormai adulta, litigavano frequentemente. Un
giorno il padre condusse la figlia davanti ad una finestra e le chiese: “Fuori
sta piovendo o c’è il sole?”. “Non sta piovendo, è tutto asciutto”, rispose la
giovane. “Ebbene”, disse il padre, “se io dico che piove, vuol dire che
piove!”. “Ma allora a te interessa solo avere ragione?” “Sì”, disse il padre in
un momento di verità.
Quella giovane donna ebbe un attimo d’illumina-zione, la luce della
consapevolezza rischiarò la storia della sua vita. Ma presto la luce svanì, e le
furono necessari altri trenta anni e due matrimoni - con persone simili a suo
padre - per tornare a vedere la realtà così come è.
Immaginazione e depressione
La realtà è che, come esseri umani, sappiamo veramente poco di ciò che ci sta
più a cuore: come spendere bene la nostra vita e non dipendere dalle
circostanze più o meno fortunate.
Come gli altri animali, a volte anche di più, siamo fragili. In compenso
abbiamo dalla nostra una grande risorsa: con il pensiero sappiamo spostarci
nel tempo e nello spazio, rivisitare il passato o immaginare il futuro.
Sappiamo parlare e raccontare agli altri i nostri pensieri, i nostri sogni e le
nostre paure. Ma, siccome siamo suggestionabili, questa risorsa può
facilmente trasformarsi in un incubo: la depressione è il prezzo che l’uomo
paga alla sua immaginazione.
Credenze
Charles Peirce, fondatore del pragmatismo americano e della moderna
semiologia, ritiene che gli uomini formino e mantengano le loro credenze
attraverso quattro metodi principali:
La tenacia è quell'atteggiamento così diffuso tra gli uomini per cui una
persona che segue questo metodo nutre nei confronti delle proprie credenze,
delle proprie opinioni la tenace volontà di perseguirle contro tutto e contro
tutti; l'uomo cioè si attacca tenacemente alle sue idee e non vuole metterle a
confronto con le idee degli altri, anzi, nutre odio e disprezzo per tutti coloro
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che hanno credenze difformi dalla sua .
Più sopra abbiamo preso in considerazione le ragioni psicologiche della
diffusione di questo atteggiamento di chiusura: paura e insicurezza da cui
nascono i bisogni di affermarsi, imporsi, ottenere riconoscimento alle proprie
idee.
Il secondo metodo col quale gli uomini abitualmente fissano le credenze,
decidendo quindi anche i loro abiti di azione, è quello che Peirce chiama il
metodo dell'autorità. Questo metodo è a sua volta un metodo tenace ma che
non si appella tanto alle credenze del singolo, quanto alle credenze che
vengono fissate dall'autorità o dalla tradizione, dallo stato, dalla religione, dal
gruppo sociale, dalla classe di appartenenza sociale o dalla consorteria
professionale.
Questi due modi molto diffusi, dice Peirce, sono assolutamente precari; essi
alla lunga non riescono a stabilire credenze durevoli perché per quanto gli
uomini si oppongano con tenacia al confronto e alla discussione, essi non
possono fare a meno di scontrarsi con le opinioni difformi dalle loro e quindi
non possono non venirne alla lunga influenzati.
Esiste un terzo metodo per fissare le credenze che Peirce definisce più nobile:
è il metodo della filosofia. Questo metodo non si appella alla tenacia, ma si
apre al dubbio, al confronto, al dialogo; esso ha come suo compito, come
meta quello di pervenire ad una credenza razionale. Gli uomini che seguono
questo metodo vogliono essere in accordo con la ragione e non con le loro
personali opinioni o con le loro passioni, o con gli interessi di un’istituzione.
Questo metodo è più nobile, dice Peirce, e tuttavia esso nel tempo non ha
dato risultati così apprezzabili come si poteva sperare per il semplice motivo
che i filosofi non riescono ad accordarsi su ciò che intendono per ragione.
Ognuno intende la ragione a modo suo, fa della ragione una questione di
gusto, e quindi questo metodo razionale che vorrebbe essere universale
finisce per dare luogo a una serie di contese che molto spesso sono sterili.
Resta il quarto metodo, che Peirce seguì tutta la vita: il "metodo scientifico".
La scienza è quel procedimento attraverso il quale gli uomini non soltanto
elaborano le loro credenze in dialogo con altri uomini, ma le affidano al
riscontro della prova pratica, alla verifica empirica.
Peirce auspica che, con il tempo, le varie credenze degli uomini superino le
idiosincrasie, le differenze individuali, le opinioni personali per assumere
come banco di prova la verità pubblica, cioè i fatti pubblici che le
confermerebbero.
In tal modo il sapere finirebbe per convergere in una sorta di "ecumenismo
della verità". Cesserebbe quindi di essere la principale fonte di
incomprensioni e conflitti. E potrebbe svolgere quella funzione che gli
attribuivano Socrate e Buddha, e che nella storia umana ha raramente svolto:
la funzione di ridurre ignoranza e sofferenza.
Intermezzo
Mi rendo conto che un futuro di questo tipo potrebbe rivelarsi poco
desiderabile per non poche persone, quelle che nel mondo di oggi traggono
potere, privilegi e profitti dall’ignoranza collettiva. Non solo quelle che per
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mestiere deformano i fatti e occultano la verità attraverso la propaganda , ma
anche quelle che campano sulle disgrazie e sui conflitti altrui, per le quali
ogni riduzione di incidenti, malattie e guerre costituirebbe una perdita di
reddito garantito. Per un approfondimento del tema, rinvio alla lettura del
libro “Shock Economy”, di Naomi Klein.
Per bontà d’animo, vorrei tranquillizzare le persone che speculano sulle
umane disgrazie: esse per il momento non hanno molto di cui preoccuparsi.
Nei prossimi anni potranno facilmente continuare a svolgere il loro lavoro e
forse anche insegnarlo ai figli, affinché non rimangano disoccupati.
Il futuro di cui parla Peirce appare oggi così lontano che non lo si riesce
neppure ad intravedere. Anche perché molti segnali sembrano farci credere
che ce ne stiamo addirittura allontanando: fanatismo religioso, intolleranza,
razzismo e guerre etniche, tribalismo, millenarismo, superstizione, pratica
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della tortura, ecc. .
D’altra parte, se guardiamo in profondità, anche di fronte a questi fatti, è
certamente improduttivo cedere alla tentazione del pessimismo e del
nichilismo: i grandi cambiamenti non avvengono per gradi, ma per salti, dopo
che si è raggiunta la massa critica necessaria a generarli.
Ognuno di noi può scegliere, giorno per giorno, di contribuire in modo
positivo o di reagire in modo negativo. Inerzia, frustrazione, senso
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d’impotenza sono modi certamente negativi . Così come il fanatismo e la
fede cieca nel progresso, in quanto crede di poter risolvere i problemi con lo
stesso tipo di pensiero che li ha generati.
Ogni illusione, si sa, apre la strada alla delusione, tanto più dura e amara
quanto più, trasformando in dogmi le proprie idee, la si è voluta tenere
lontana.
Fede
In questo cammino, la fede è una risorsa preziosa, irrinunciabile. S. Agostino
diceva: “Credi ut intelligam” (credi per comprendere). Chi non ha fede, non
ha la perseveranza necessaria a praticare la disciplina dell’autosservazione.
Secondo il buddismo, la fede ci fornisce la forza di essere diligenti,
impegnati, focalizzati su ciò che è davvero importante, senza lasciarci
distrarre. Se abbiamo fede, siamo concentrati. E solo se siamo concentrati, se
dimoriamo nel qui ed ora, possiamo superare il muro dell’ignoranza e vedere
la realtà così come è.
D’accordo, la fede dà forza e visione, ma da dove origina? E’ un frutto del
caso? O è un dono, un evento fortunato? No. Secondo l’insegnamento del
Buddha, la fede è fatta di una materia chiamata intuizione profonda o
esperienza diretta.
Illuminazione, libertà e trasformazione non arrivano attraverso l’elaborazione
intellettuale. Una filosofia che si limiti ad allenare la ragione è insufficiente.
S. Anselmo di Aosta ha ritenuto di dimostrare l’esistenza di Dio in modo
irrefutabile. Ecco a grandi linee il suo ragionamento: Dio è l’essere
perfettissimo, il più perfetto di tutti. Quindi è dotato di tutte le qualità. Tra le
sue qualità c’è per forza anche l’esistenza, altrimenti non potrebbe essere
l’essere più perfetto. Dio, quindi, per sua natura, esiste.
Provate a fare ragionamenti di questo tipo ad un bracciante lucano, se ancora
ne esiste uno, o ad un pastore yemenita, e vedrete che cosa vi rispondono.
D’altra parte S. Anselmo di Aosta, che era uomo intelligente, non avrebbe
parlato in questo modo se il terreno non fosse stato preparato da secoli di
dissertazioni filosofiche, a partire da Platone ed Aristotele, sulla realtà degli
universali (v. oltre nota n. 11).
Se la ragione viene staccata dalle sensazioni, dalle emozioni, dai sentimenti,
diventa autoreferenziale. Se non si traduce in una pratica che coinvolge il
corpo, il respiro, l’attenzione, il modo di osservare ed ascoltare, porta
inesorabilmente ad un vicolo cieco: si isterilisce o produce mostri.
Occorre distinguere tra fede cieca e fede autentica. La prima è pregiudiziale,
non radicata nell’esperienza. Quindi è soggetta a cadute e disillusioni. Oppure
può essere mantenuta solo a prezzo di negazione, chiusura e progressivo
irrigidimento della coscienza. La fede cieca ha paura della prova dei fatti:
quindi è sempre pronta ad urlare e combattere per difendere se stessa da ogni
forma di verifica o smentita, che la porterebbero ad abbandonare le limitate
certezze a cui si è faticosamente aggrappata.
La fede autentica, al contrario, non smette di cercare e cambiare. E’ fede viva
perché non ha bisogno di attaccarsi a nulla. Non ha bisogno di autorità, santi,
maestri, guru, anche se di essi può temporaneamente giovarsi come forme di
esempio o aiuto. Essa è alimentata da uno stato di presenza mentale e
concentrazione, uno stato di coscienza - radicato nei sensi, nel respiro e nel
corpo, non solo nella mente -, in cui il tempo si dilata e la visione si
approfondisce in modo del tutto naturale. E insieme alla visione si
approfondisce il senso di presenza, di coinvolgimento, convibrazione che
apre all’empatia, alla compassione e all’amore.
Possiamo chiamarla meditazione, contemplazione, flusso, creatività, mente
profonda, gioia dell’essere o preghiera. Le parole non hanno grande
importanza.
Se invece siamo distratti, indaffarati, frettolosi, se siamo tesi e preoccupati,
percepiamo solo la superficie delle cose. Lo stesso accade se siamo
concentrati solo nella testa, distaccata dal corpo e dalle emozioni: in tal caso
le idee in cui ci identifichiamo vengono prima delle persone e dei fatti reali.
Le idee, perduta la loro base nell’esperienza sensoriale, per sua natura fluida
e impermanente, si cristallizzano, si induriscono e si trasformano in
ideologie, politiche, filosofiche o religiose, non ha importanza. Le ideologie
sono schemi fissi, precostituiti, nei quali vogliamo inquadrare la realtà del
presente, distorcendola alla radice ed esercitando violenza sulla natura e sulle
persone.
In entrambi i casi perdiamo contatto con il nostro vero sé e con gli altri.
Gradualmente usciamo dal fiume della vita e ci ritroviamo ingabbiati nella
pozza della deformazione della realtà, dell’ignoranza e della mancanza di
empatia: in una parola della nevrosi.
Il termine nevrosi richiama la sofferenza, l’essere preda di emozioni e
pensieri che non si vorrebbe avere, l’essere in balia di forze che non si
controllano. Nevrosi è sinonimo di scissione, separazione, conflitto. Con chi?
Con il proprio inconscio. Essenza della nevrosi è l’ignoranza di sé, e di
conseguenza, ignoranza del mondo che ci circonda.
Nonostante le straordinarie imprese della scienza e della tecnica nel mondo
materiale, o forse proprio a causa di esse, la condizione nevrotica è comune
all’uomo moderno civilizzato: ciò che varia tra le persone è il grado di
intensità. L’ignoranza non è quindi un fenomeno individuale, ma collettivo.
E’ il frutto dello stato di coscienza ordinario in cui normalmente abitiamo, e
che ci conduce inesorabilmente a percepire la superficie delle persone e degli
altri esseri, e a lasciarci sfuggire ciò che è più importante: il loro cuore, i loro
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sentimenti, le loro ragioni profonde .
Lo stato ordinario di coscienza è uno stato egoico, in cui il senso di
separatività, estraneità, esclusione è la tonalità di fondo della musica in cui
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siamo immersi, inconsapevoli come i pesci rispetto all’acqua in cui nuotano .
“Secondo gli insegnamenti del Buddha, la vita può essere vissuta solo nel
momento presente. Se sei distratto, se la tua mente non è lì con il corpo, perdi
il tuo appuntamento con la vita. La presenza mentale è il frutto della pratica
quando hai dentro di te l’energia della diligenza. Infatti, se non sei diligente,
la tua presenza mentale non può crescere.
Se c’è presenza mentale, allora c’è anche un altro tipo di energia, che è
l’energia della concentrazione. Quando bevi il tè in presenza mentale, il tuo
corpo e la tua mente sono focalizzati su qualcosa soltanto, l’atto di bere il tè.
Quando vivi in concentrazione entri in contatto profondo con il mondo che ti
circonda, e inizi a comprenderne la profondità. Questa si chiama visione
profonda. Supponiamo che tu sia lì, con il corpo e la mente in perfetta
armonia, ad ammirare una foglia oppure un fiore. Diventi tutt’uno con quella
foglia o con quel fiore; e riuscendo ad entrare in contatto profondo con ciò
che osservi, ad ascoltarlo profondamente e a osservarne la natura, lo inizi a
comprendere, ad avere una visione esatta di ciò che è. L’oggetto della tua
concentrazione può essere un fiore, una persona, una nuvola, un bambino, il
caffé che stai bevendo, il pane che stai mangiando, qualsiasi cosa.
La visione profonda è frutto di un’esperienza diretta. Questo fiore non è più
un concetto. La persona che osservo profondamente diventa una realtà,
l’oggetto della mia presenza mentale, della mia concentrazione, e non è più
né un concetto né un’idea”.
Stati di coscienza
L’ignoranza essenziale, l’ignoranza che produce sofferenza, l’ignoranza di
cui parlavano Buddha, Socrate, Freud, e, come abbiamo visto, anche Gesù,
non è mancanza di erudizione o di specifiche conoscenze. E la conoscenza
che può scioglierla non è quella disciplinare e burocratica che apprendiamo
nelle nostre scuole.
Tutto il ragionamento fin qui seguito ci conduce ad esplorare un concetto
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fondamentale: lo stato di coscienza. Concetto in gran parte distorto o
ignorato nella storia della filosofia e della scienza occidentale, che in tal
modo sembrano pervenute ad un vicolo cieco. La fede nel progresso è stata
sostituita dal disincanto, dalla desacralizzazione del mondo e dal
materialismo. Ai quali si contrappongono da una parte, in modi più o meno
disordinati, le varie forme di irrazionalismo, e dall’altra, l’ancorarsi a visioni
spirituali o religiose che, nel loro dogmatismo, sono difficilmente compatibili
tra loro e con la coscienza dell’uomo contemporaneo, costretto pertanto ad
ignorarle o a praticare la schizofrenia.
Per parlare di stati di coscienza, prendiamo le mosse da un’immagine che ci è
ormai famigliare: l’ovoide di Assagioli, con i suoi tre livelli dell’inconscio:
inferiore, medio e superiore.
Noi non risediamo stabilmente in nessuno di questi livelli, ma, a seconda dei
momenti, ci spostiamo lungo l’asse verticale: dalle subpersonalità all’io,
quando ci disidentifichiamo dalle nostre pulsioni più primitive; e dall’io al sé,
quando ci disidentifichiamo dagli attaccamenti e dalle avversioni che
solitamente caratterizzano la nostra esperienza quotidiana (siamo contenti
quando raggiungiamo un risultato, o se qualcuno ci apprezza; diventiamo
arrabbiati o tristi se qualcuno non soddisfa una nostra aspettativa o ci critica).
Al movimento verso l’alto, segue ciclicamente un movimento verso il basso,
a seconda delle circostanze.
Bene, i tre livelli dell’ovoide di Assagioli corrispondono a tre stati di
coscienza, caratterizzati da intenzioni, atteggiamenti di fondo, filtri percettivi
diversi. Cambiare stato di coscienza è un po’ come sostituire le lenti
attraverso cui percepiamo la realtà. Cambia il modo di osservare, ascoltare,
sentire. Cambiano quindi le rappresentazioni che ci facciamo.
Il mondo che abitiamo è molto diverso a seconda del livello in cui ci
sintonizziamo.
Nel livello più basso, esso appare come un campo di battaglia, dove domina
la legge della giungla.
Nel livello intermedio, si accede ad un mondo ove domina il commercio e lo
scambio, dove ognuno guarda al proprio interesse particolare, e cerca di
massimizzarlo, senza necessariamente nuocere agli altri, ma senza neppure
curarsene più di tanto.
Solo nel terzo livello la visione si trasforma in modo radicale: si scopre che il
netto confine che ci separava dal mondo è illusorio; si comincia a percepire
che non esistono soggetti e oggetti fissi ed isolati gli uni dagli altri; che il
nostro stesso io, in cui ci identificavamo, è in verità assai fluido, permeabile e
mobile; e che non solo siamo in relazione, ma siamo interconnessi con le
altre persone, gli animali e le altre forme di vita a un livello molto profondo.
Quando raggiungiamo questo stato è del tutto innaturale farsi prendere dalla
fretta o dalla paura, diventare violenti e ferire qualcuno, innaturale come darsi
una martellata su un braccio o su una gamba. Usuali sentimenti come la
rabbia, la paura, la tristezza, cessano di esistere, sostituiti da gratitudine,
compassione, amore. Non perché siamo diventati più buoni e generosi – non
si diventa più buoni in pochi minuti o in poche ore - ma perché diverso ci
appare il mondo in cui viviamo. Se ci accorgiamo che il serpente di cui
avevamo paura era solo una corda, la nostra paura cessa. Non perché
abbiamo acquisito più coraggio, ma perché avere paura non ha più senso
alcuno.
E’ questa l’immagine della realtà che ha sempre portato gli spiriti mistici alla
ricerca della verità profonda, al di là delle apparenze. Immagine in contrasto
con la visione meccanicistica ancora dominante, ma recentemente suffragata
dalle scoperte della fisica quantistica, secondo la quale tutto è flusso di
energia, in continuo mutamento. Il tempo, lo spazio e gli oggetti, così come
eravamo abituati a pensarli, semplicemente non esistono, se non nella nostra
mente di osservatori, ancorati ad un determinato stato di coscienza.
Il luogo della coscienza in cui si colloca l’osservatore diventa quindi decisivo
ai fini delle osservazioni che si possono compiere e delle rappresentazioni del
mondo che si possono ottenere. Secondo questo paradigma, la realtà non è
più qualcosa di esterno ed oggettivo, scomponibile e analizzabile
indipendente da noi, come si credeva un tempo. La separazione tra soggetto e
oggetto, che ha sovradeterminato tutta la storia del pensiero occidentale, non
è più considerata una verità assoluta, ma solo relativa.
Relativa a che cosa? Allo stato di coscienza dell’osser-vatore. Se egli si
colloca nei primi due livelli, certamente il mondo funziona come insieme di
oggetti separati, in lotta tra loro o, come minimo, in competizione per
soddisfare i loro diversi interessi. L’io personale diventa una realtà concreta,
verificabile giorno per giorno nella nostra esperienza di relazione con gli altri
e con l’ambiente.
Come diceva Sartre, gli altri sono il nostro inferno. Ma anche la solitudine è
un inferno. Noi siamo fragili, dobbiamo difenderci. Malattie, indigenza,
solitudine, sono in agguato, insieme alla vecchiaia e alla morte, alla quale non
possiamo sfuggire.
Anche gli animali non possono sfuggire a vecchiaia, malattia e morte. Ma,
vivendo totalmente immersi nel presente, non se ne preoccupano, e finché
possono, dormono sonni tranquilli. Noi umani non siamo così fortunati:
potendo immaginare il nostro futuro, ne siamo spesso preoccupati.
Sperimentiamo quindi facilmente angoscia e paura, anche se nessuna tigre dai
denti a sciabola o nessun orso dal muso corto si sta preparando ad attaccarci.
Guardate i gigli nei campi, gli uccelli nel cielo, diceva Gesù, loro non si
preoccupano del futuro, di che avete paura voi che siete fatti a immagine del
Signore? La predicazione di Gesù è sempre rivolta alla stessa meta: stimolare
l’uomo ad elevare il suo stato di coscienza, abbandonando il pantano delle
subpersonalità e dell’ego, e accedendo al livello del sé.
Come abbiamo detto più sopra, ciò presuppone una trasformazione del
carattere. Carattere significa impressione, impronta: l’impronta che riceviamo
quando, nascendo, precipitiamo in un contesto umano sintonizzato non sulle
qualità dell’essere – amore, cura, compassione –, ma spesso carico di
inquinanti della mente: egoismo, preoccupazione, ingordigia.
Nel pensiero di Gesù, quest’impronta non è irreversibile. Nostro compito è
lasciarla andare, sostituendola gradualmente con una nuova impronta.
Un’impronta assai più profonda e radicata nella realtà vera, che possiamo
naturalmente ricevere sintonizzandoci sui messaggi della nostra anima, la
nostra parte più evoluta, la scintilla divina che abita al nostro interno come
riflesso dell’intelligenza profonda dell’universo. Intelligenza che nelle
diverse tradizioni viene chiamata Dio. In questo senso, in senso laico, non
dogmatico, in modo accertabile con l’esperienza, noi siamo davvero figli di
Dio.
Ecco perché preghiera, meditazione, concentrazione e visione profonda, riti
sacri, ascolto profondo e parola amorevole, pratica della gratitudine, della
compassione e del dialogo, portano tutti nella stessa direzione, in quanto
strumenti per elevare il nostro stato di coscienza e trasformare il nostro
carattere, legato agli aspetti scissi e regressivi della nostra psiche.
La storia delle religioni e della filosofia è la storia di come l’imperitura
tensione dell’uomo nella sua ricerca di verità ha prodotto infinite varianti di
teologie e cosmologie. E nello stesso tempo è la storia dell’umana follia, dal
momento che nella ricerca dell’unità, della pace e dell’amore, l’uomo non ha
fatto che produrre nuove scissioni e divisioni, e nuove forme di odio,
violenza, persecuzione.
Questo è accaduto ogni volta che ha perso l’umiltà, si è staccato dalla terra e
dalle sue radici, ha voluto farsi grande, per acquistare potere, per dominare il
mondo e imporre agli altri la propria visione. E si è trasformato nel più
terribile dei demoni.
E’ paradossale, ma non sorprendente date le premesse, il fatto che il ritorno
alla terra, alla sensorialità, alle multiformi passioni, sia invocato da
Nietzsche, filosofo non certamente noto per la sua umiltà di carattere.
Avere conoscenza
Secondo Erich Fromm, gli studenti che fanno propria la modalità esistenziale
dell’avere, quando vanno a lezione, si concentrano sulle parole
dell’insegnante e ne afferrano la struttura logica e il significato. Inoltre fanno
del loro meglio per trascrivere ognuna delle parole stesse nel loro quaderno di
appunti,
“Gli studenti e quanto viene loro insegnato rimangono estranei, a parte il fatto
che ognuno degli studenti è diventato il proprietario di un insieme di
affermazioni fatte da qualcun altro (il quale a sua volta o le ha coniate di suo
o le ha riprese da un'altra fonte). Gli studenti che hanno fatto propria la
modalità dell'avere si prefiggono un'unica meta: mantenere ciò che hanno
appreso, registrandolo esattamente nella propria memoria oppure
conservandone accuratamente le annotazioni. Non devono né produrre né
creare qualcosa di nuovo”.
“In effetti, gli individui del tipo avere mostrano la tendenza a sentirsi turbati
da nuovi pensieri o idee su questo o quell’argomento, e ciò perché il nuovo
mette in questione l'insieme cristallizzato d’informazioni che già possiedono.
In effetti, per una persona agli occhi della quale l'avere costituisce la forma
principale di relazione con il mondo, idee che non possano venire facilmente
incamerate (o registrate per iscritto) sono preoccupanti, al pari di qualsiasi
altra cosa che cresca e si trasformi e che pertanto sia incontrollabile”.
I tipi avere mostrano una resistenza alla conoscenza del nuovo, una resistenza
a qualunque idea che implichi un cambiamento (talvolta attraverso
manifestazioni di rabbia e irritazione, talvolta attraverso argomentazioni di
tipo polare oppure semplice difficoltà a capire, distrazione, stanchezza, ecc.).
Per loro la parola “nuovo” comporta il rimettere in discussione, operazione
opposta a quella di cristallizzazione e alla possibilità di esercitare un rigido
controllo sul sistema. Fare esperienza significa accogliere il nuovo, essere nel
flusso, abbandonarsi al fiume della vita. Stare nell’esperienza significa
affidarsi, accettare le cose così come sono, momento per momento. Ciò
presuppone apertura e amore: l’opposto della paura, della sfiducia e del
controllo.
Essere conoscenza
Secondo Fromm, il processo di apprendimento è di tutt'altro tipo per quegli
studenti che fanno propria la modalità di rapporto col mondo incentrata
sull'essere.
“Tanto per cominciare costoro non andranno alle lezioni, neppure alla prima
di un corso, a guisa di tabulae rasae. Hanno riflettuto già in precedenza sulle
problematiche che le lezioni affronteranno e custodiscono nella mente un
certo numero di domande e problemi personali. Si sono occupati della
materia e questa li interessa. Anziché essere passivi recipienti di parole e
idee, ascoltano con attenzione e, cosa della massima importanza, ricevono e
rispondono in maniera attiva e produttiva. Ciò che ascoltano stimola gli
autonomi processi di elaborazione mentale, provocando in loro il sorgere di
nuove domande, di nuove idee, di nuove prospettive.
Il loro ascoltare è un processo vitale. Prestano orecchio con interesse, odono
davvero quel che l'insegnante dice. Si rivitalizzano spontaneamente in
risposta a ciò che ascoltano. Non acquisiscono semplicemente conoscenze,
cioè un bagaglio da portare a casa e da mandare a mente. Ognuno di loro è
stato coinvolto ed è mutato: ognuno dopo la lezione è diverso da come era
prima. Questo è cambiamento, non adattamento”.
“Il fatto che la gente scambi uniformi e titoli per le effettive qualità della
competenza non è qualcosa che accade per caso. Coloro che possiedono
questi simboli d’autorità e coloro che ne beneficiano devono attutire ed
offuscare la capacità critica dei loro subordinati e far sì che credano alla
finzione.
Chiunque si soffermi su ciò che s’è detto si renderà conto delle
macchinazioni della propaganda e dei metodi cui essa fa ricorso per togliere
di mezzo il giudizio critico, di come la mente, mediante ricorso a clichè,
venga addormentata e sottomessa, di come la gente sia resa ottusa perché
diventi dipendente e perda la capacità di prestar fede ai propri occhi, alle
proprie orecchie e alla propria capacità di giudizio. Si è così resi ciechi alla
realtà della finzione in cui si crede”.
“Se io appaio gentile, mentre la gentilezza non è che una maschera che copre
la mia tendenza allo sfruttamento, oppure se appaio coraggioso, mentre sono
soltanto vanitoso o forse anche tendenzialmente suicida o ancora se in
apparenza amo il mio paese, mentre in realtà perseguo i miei interessi
egoistici, l’apparenza stessa, vale a dire il mio comportamento manifesto, è in
piena contraddizione con la realtà delle forze da cui sono spinto.
Il mio comportamento diverge dal mio carattere (ombra). La mia struttura di
carattere, il vero movente del mio comportamento, costituisce il mio essere
reale.
Il mio comportamento può parzialmente riflettere il mio essere, ma di solito è
una maschera che ho e che porto per raggiungere i miei scopi (il
comportamentismo si occupa di questa maschera, quasi si trattasse di un dato
scientifico attendibile).
Le nostre motivazioni, idee e credenze consce sono un miscuglio di false
informazioni, preconcetti, impulsi irrazionali, razionalizzazioni, pregiudizi,
sul quale galleggiano brandelli di verità dando la sicurezza, per quanto
illusoria, che l’intera mistura sia reale e vera. L’attività pensante tenta di
organizzare questa cloaca d’illusioni secondo le leggi della logica e della
plausibilità e si suppone che tale livello di consapevolezza rifletta la realtà; è
questa la mappa di cui ci serviamo per dirigere la nostra vita”.
“La società produce passioni irrazionali e fornisce ai suoi membri vari tipi di
finzioni, obbligando così la verità a divenire prigioniera della presunta
razionalità (è razionale ciò che è sociale, ciò che è condiviso; è irrazionale ciò
che non è condiviso, perché indica non adattamento e patologia).
Noi conosciamo la verità, ma reprimiamo questa conoscenza: in altre parole,
esiste una conoscenza inconscia.
Noi percepiamo la realtà, siamo attrezzati a farlo. La nostra ragione è
organizzata per riconoscere la realtà, come stanno le cose, così come i nostri
sensi sono organizzati per vedere, udire, sentire. Ovviamente non mi riferisco
a quella parte di realtà che necessita, per essere percepita, di strumenti e
metodi scientifici. Bensì alla realtà del comportamento umano18. Sappiamo (a
livello inconscio) quando abbiamo a che fare con un individuo pericoloso e
quando invece abbiamo a che fare con uno di cui possiamo fidarci appieno;
sappiamo quando ci viene raccontata una bugia, quando siamo sfruttati o
presi in giro. Conosciamo quasi tutto ciò che è importante sapere circa il
comportamento umano.
La prova l’abbiamo nei sogni, quando approdiamo ad una profonda
penetrazione dell’essenza di altri e di noi stessi, che invece ci fa
completamente difetto nelle ore di veglia. Se ne trova l’evidenza in quelle
reazioni, così frequenti, per cui all’improvviso ci capita di vedere qualcuno in
una luce completamente diversa, e poi abbiamo la sensazione di averlo
sempre saputo (anche nel sapere succede questo).
In effetti, buona parte della nostra energia è spesa nel nascondere a noi stessi
ciò che sappiamo.
Una leggenda talmudica dice che, quando nasce un bambino, arriva un angelo
che gli tocca la fronte e il piccolo così dimentica la conoscenza della verità
che aveva al momento della nascita; se non la dimenticasse, la sua esistenza
successiva sarebbe insopportabile.
L’essere si riferisce al reale, in contrasto con le immagini falsificate, illusorie.
In questo senso, ogni tentativo di dilatare il settore dell’essere implica una
maggiore penetrazione della realtà del proprio io, degli altri, e del mondo
circostante. La via verso l’essere consiste nel penetrare sotto la superficie e
nell’affermare la realtà”.
Gioia e piacere
Qual è la differenza tra gioia e piacere?
Una via di accesso privilegiata alla qualità della gioia è la pratica della
conoscenza, intesa come allargamento del sé. La conoscenza permette di
liberarci dall’oscurità, di vedere, di riconoscere noi stessi e il mondo che ci
circonda, di arricchire la nostra mappa del mondo, di diventare attivi e
25
liberi .
La vera conoscenza, pertanto, connette, unisce, produce integrazione a tutti i
livelli (mondo interno e mondo esterno, diverse visioni e discipline tra loro).
L’integrazione e l’unione liberano gioia. Per realizzare questo tipo di
26
conoscenza è importante sviluppare una mente di gruppo . La mente di
gruppo funziona tanto più efficacemente quanto più i partecipanti sono liberi
dalla modalità dell’avere e dell’accumulare informazioni.
Vivere secondo la modalità dell’essere produce naturalmente gioia. La
società moderna, centrata sull’economia e sul denaro, scoraggia la ricerca
della gioia, e stimola quella del piacere fondata sulla modalità dell’avere.
Secondo l’etica mercantile dominante, le persone svolgono in gran parte
lavori alienanti. In cambio vengono ricompensate con denaro da spendere,
non solo per vivere, ma anche per procurarsi beni in gran parte superflui e
piaceri del tutto effimeri. Questi piaceri non colmano il senso di vuoto creato
dall’alienazione. Sono forme di compensazione, droghe che creano
dipendenza.
Il piacere, a differenza della gioia, è collegato alla soddisfazione di un
desiderio. La felicità, in quest’ottica, significa soddisfare il maggior numero
possibile di desideri.
Perché il piacere non si accompagna al senso di pienezza? Perché
l’eccitamento e l’euforia durano un breve momento e sono seguiti da un
senso di vuoto? La risposta è semplice: il piacere effimero non fa crescere
l’individuo. Egli non ha agito in armonia con la sua vera natura, il suo vero
sé, ma ispirato dalle sue brame e passioni, tipiche delle parti meno evolute
27
della personalità .
La gioia, a differenza del piacere, si accompagna naturalmente all’attività
creativa, tipica della modalità dell’essere. La gioia, in termini buddisti, è un
piacere dell’essere.
Comprensione e gioia
Il fatto stesso di comprendere genera gioia: non sono più in balia
dell’ignoranza e della confusione, vedo le cose per quello che sono e la mia
vita acquista maggiore significato. Fine della passività e della paura. La
comprensione è liberante (in termini di PNL, significa passare da uno stato-
problema ad uno stato-risorsa).
Se scopro che il serpente di cui avevo paura era solo una corda, non c’è altra
azione da compiere: sono libero dalla paura. Da qui la gioia e la gratitudine,
perché il mondo non è più un luogo ostile, ma un luogo amico che può
aiutarmi a realizzare ciò che più profondamente desidero.
Comprendere significa arricchire la propria mappa e quindi facilitare la
soluzione dei problemi. La comprensione profonda è liberante perché ha
sempre a che fare con l’espansione della coscienza e con la riduzione della
sofferenza. E’ liberante in quanto promuove l’autorealizzazione e la
soddisfazione dei valori dell’essere.
Studio interdisciplinare
Anche lo studio delle diverse discipline può essere liberante nella misura in
cui aumenta la mia comprensione del mondo esterno o interno, dà maggiore
significato alla mia vita, facilita la mia autorealizzazione. Allora si
accompagna naturalmente alla gioia.
Comprendere significa cogliere nuove connessioni. Essenzialmente significa
arricchire ed integrare ciò che era separato e scisso nella mia mente. La
scissione produce sofferenza; l’integrazione e l’unione producono in sé gioia.
Sono quindi automotivanti.
Un tale tipo di studio richiede, per sua natura, la capacità di integrare i
contributi delle diverse discipline intorno alla comprensione dei nuclei
tematici prescelti. Così, lo studio della psicoterapia non può prescindere da
continui rimandi alla storia, all’arte, alla musica, alla filosofia, alle scienze
politiche, alla storia delle religioni, all’economia; sono rinvii necessari,
indispensabili per la comprensione della mente individuale. Da questo
28
confronto emergono nuclei concettuali in grado di fungere da strumenti
logico-analitici con valenza molto generale, capaci di produrre nuovi insight
e visioni assai più penetranti ed esplicative di quelle ad origine strettamente
disciplinare.
Per esempio, le teorie filosofiche, politiche e psicologiche occidentali, in gran
parte prescindono dal concetto di stati di coscienza: le analisi condotte senza
l’ausilio di questo fondamentale strumento sono necessariamente parziali e
29
perciò fondamentalmente fuorvianti .
Mente di gruppo
Per realizzare questa modalità d’approccio alla conoscenza, è importante
sviluppare una mente di gruppo. Essa si forma quando diverse persone
condividono il medesimo progetto formativo ed entrano in consonanza tra
loro; quando imparano a comunicare in modo chiaro, sintetico, efficace e
rispettoso delle differenze; quando si dividono i compiti, riferiscono al
gruppo le esplorazioni svolte singolarmente, provano gioia ed entusiasmo
durante il percorso (la via è la meta).
I partecipanti al gruppo sono consapevoli che ognuno contribuisce al
progetto: ogni successo personale è un successo di tutti. Imparano a
percepirsi parte di qualcosa di più grande. L’apprendimento svolto in un tale
contesto rispetta l’ecologia e favorisce lo sviluppo dell’amore-saggezza.
La mente di gruppo funziona tanto più efficacemente quanto più i
partecipanti sono liberi dalla modalità dell’avere e hanno sviluppato un
approccio creativo alla conoscenza.
Comprendere è diverso dall’accumulare informazioni. Accumulare
informazioni scisse è parte della modalità dell’avere. Spesso lo studio di tipo
disciplinare e specialistico favorisce proprio questo tipo di mentalità. La
spinta a questo tipo di studio non può venire dall’interno, in quanto non è
espressione dell’essere. La scuola che si fonda sulla modalità dell’avere deve
necessariamente far ricorso a motivazioni di tipo estrinseco (premi, punizioni,
sistemi manipolativi e coercitivi, ecc.). Una tale scuola non può per
definizione liberarsi dall’etica autoritaria.
Esplorare e accrescere la propria conoscenza è un istinto vitale, altrettanto
forte di quello sessuale. Come tale genera piacere e gioia.
Il potere-dominio può esercitarsi solo su persone deboli e alienate. Il modo
più efficace per indebolire le persone è metterle contro i propri istinti,
creando divieti, obblighi, inibizioni.
In tal modo:
Greci antichi
Secondo i Greci, la vita è un ciclo che si ripete uguale a se stesso, come le
stagioni. Non ha un fine esterno, non prevede una salvezza, come per i
Cristiani. Nascere, invecchiare, ammalarsi, morire, sono parte di questo ciclo.
Nella vita è sempre presente una quota di sofferenza. L’uomo saggio conosce
le leggi della natura e ad esse si adegua, senza ribellarsi. Accettando la
sofferenza come parte necessaria di questo ciclo, egli vive in pace e vive
bene.
Chi invece diventa egocentrico, rifiuta di stare al suo posto e si ribella alle
leggi della natura, va incontro a sicura rovina. La sua vita si trasforma in
tragedia. Origine della tragedia per i Greci è l’hubrys, la tracotanza, il non
rispettare le leggi della vita, il voler ergersi al di sopra di tutto.
Cristiani
Secondo i Cristiani, origine del dolore è la colpa. Prima della colpa, prima del
peccato originale, non c’era dolore. Adamo ed Eva vivevano nel paradiso
terrestre. Disobbedendo alla volontà di Dio, l’uomo perde l’innocenza,
diventa colpevole e subisce la punizione: dal paradiso terrestre viene cacciato
sulla terra a sperimentare la sofferenza, la malattia e la morte.
L’Atto di dolore recita testualmente:
Dio è visto come un padre buono, che viene offeso dai cattivi comportamenti
dei figli. Chi compie un peccato, essendo dotato di libero arbitrio, lo fa per
indolenza, pigrizia o cattiveria. Merita quindi la punizione. C’è quindi un
giudizio morale sul peccatore. Ma se si pente, se chiede aiuto a Dio, se
sinceramente vuole rimediare, gli viene offerta la possibilità di farlo.
Da una parte il Cristianesimo lascia sempre aperta la porta alla speranza e alla
redenzione; dall’altra mette con facilità le persone in una situazione
insostenibile: per quanto si sforzino, ricadranno sempre nel peccato.
Ecco perché senso d’indegnità e senso di colpa sono usuali compagni di
viaggio del credente. Pascal, e con lui gli agostiniani, sono giunti spesso a
dire che l’amore per sé è qualcosa di molto disdicevole, perché l’Io è degno
del massimo disprezzo.
Visione giudaico-cristiana
Nella visione giudaico cristiana, la verità è la volontà divina. Dio ha creato il
cosmo con un atto di volontà, nominando le cose, separandole dal caos: il
Verbo ha creato il mondo.
E’ la volontà divina che va conosciuta. Secondo il Cristianesimo, al processo
“colpa – punizione – dolore” possono seguire la redenzione e la salvezza,
purché l’uomo si inchini alla volontà di Dio. Per i Cristiani, ciò che importa è
conoscere la volontà di Dio.
Era moderna
Con la modernità si aprono nuovi scenari e nuove possibilità per ridurre la
sofferenza.
Per Bacone la scienza, intesa come dominio della natura, può restituire
all’uomo il benessere perduto. Dedicandosi alla scienza, l’uomo obbedisce
alla volontà divina che, a differenza degli altri animali, lo ha reso creatore, a
sua immagine e somiglianza. La scienza, quindi non è più contemplazione,
come per i Greci, ma conoscenza funzionale al dominio e alla trasformazione
tecnica.
Per poter dominare la natura, bisogna considerarla non da un punto di vista
vitalistico-organicistico, ma come grande meccanismo, soggetto alle leggi
della matematica.
Passi di danza
Molti dei nostri problemi non sono personali, ma hanno origine
nell’epistemologia distorta che caratterizza la nostra civiltà occidentale. A
scuola, sin da bambini, impariamo un tipo di pensiero-linguaggio che
privilegia l’attenzione agli oggetti isolati rispetto alle relazioni.
Questo tipo di pensiero logico-analitico ci rende scarsamente competenti a
comprendere e a reagire adeguatamente alla complessità delle relazioni di cui
siamo parte.
Le emozioni non sono fenomeni individuali, ma eminentemente relazionali:
sono come passi di danza. Non ha alcun senso analizzarle isolatamente. Non
ci dicono molto sulle loro cause né indicano quale sarà il nostro
comportamento futuro: esse sono un comportamento attuale, un modo di
definire e modulare una relazione. La rabbia è una proposta di danza, a cui
l’altra persona può rispondere collaborando (subendo o arrabbiandosi a sua
volta) o non collaborando (ritirandosi senza sentirsi offesa, ascoltando con
attenzione e compassione, metacomunicando).
L’educazione che riceviamo oggi, coerente ai presupposti impliciti nella
nostra cultura, ci predispone all’identificazione nel nostro punto di vista, al
conflitto e alla nevrosi.
Abbiamo quindi bisogno di un nuovo tipo di educazione, in grado di fornirci
le competenze relazionali ed emotive necessarie a vivere in un ambiente
complesso.
Per esempio, l’idea di causalità unidirezionale attraversa gran parte dei nostri
contesti di apprendimento. In base a tale epistemologia, si tende a cercare le
cause dei problemi nel passato e si va alla ricerca delle colpe.
L’epistemologia della complessità sposta completamente l’indagine dai fatti
del passato ai comportamenti attuali che mantengono il problema. In base a
questa nuova prospettiva, ad esempio, i genitori di bambini difficili, non
vengono più visti come colpevoli, ma come vittime. Vittime di modelli che li
inducono, nelle interazioni con i figli, ad assumere atteggiamenti e ad
applicare soluzioni disfunzionali.
Una coppia di genitori è esposta a messaggi provenienti da diversi livelli e di
diversa importanza:
- modello culturale-scientifico
- modello sociale
- modello educativo-pedagogico
- modello famigliare di appartenenza
Spesso questi modelli non sono coerenti fra loro nell’informare i genitori su
come intervenire sui propri figli, ma si accordano perfettamente quando si
tratta di cercare il colpevole che, guarda caso, viene individuato proprio nei
genitori stessi.
Il mito del progresso e della crescita continua, che a noi pare così naturale, in
realtà è tipico della nostra civiltà, non di altre. Da cinquant’anni abbiamo
imparato a chiamare paesi sottosviluppati quelli che non condividevano la
nostra concezione del mondo. Oggi siamo riusciti ad esportare in ogni luogo
della terra questa filosofia, con i risultati devastanti che sono sotto gli occhi di
tutti.
Per poter vedere il nostro punto di vista, occorre assumerne un altro. Un
problema non può essere risolto con lo stesso tipo di pensiero che lo ha
generato.
Conflitto
“Quando due interlocutori sono bloccati sulle loro posizioni dovrebbe nascere
il dubbio.
Essi dovrebbero mettere in discussione non ciò che li divide (contenuti), ma
ciò che li accomuna (gestalt, cornice, tipo di danza)”.
Disidentificazione e flessibilità
Il pugno e la danza
“Se uno mi dà intenzionalmente un pugno sta evocando e proponendo uno
scenario del tipo: ‘sii antagonista’. E allora devo sapere che quando reagisco
anch’io con un pugno, ad un livello – quello dell’azione – mi sto opponendo;
ad un altro livello – quello del contesto relazionale – sto collaborando.
Mi sono lasciato coinvolgere in quella danza che l’altro con il pugno
proponeva. D’altra parte, se non reagisco e faccio la vittima, non mi sottraggo
a quella danza, sto solo collaborando (forse) a chiuderla più in fretta.
Era una danza vincitori-vinti e lui ha vinto. L’unico modo vero per non
collaborare è proporre una danza diversa e indurre l’altro a cambiare danza.
Non è mai facile, ma è relativamente più facile se sono consapevole che
l’altro non può sostenere la danza nella quale è impegnato senza la mia
collaborazione”.
“Il codice analogico è tipico del linguaggio non verbale ed è specializzato nel
proporre configurazioni e contesti, nel ricostruire e riconoscere una totalità a
partire da alcuni dettagli, nel cogliere similitudini e differenze tra forme
complesse”.
Noi siamo il tipo di dialogo che instauriamo con i nostri moti emozionali e lo
stile con cui li gestiamo.
Le nostre emozioni interne di primo grado sono espressione di determinate
gestalt o parti interne. Attraverso il nostro io-governo siamo in grado di
provare emozioni di secondo grado e di instaurare un dialogo con quelle di
primo grado a partire da una nuova gestalt. In altri termini, il compito di un io
sano è di instaurare un dialogo metaculturale con le parti interne e le loro
33
emozioni di primo grado .
Il tipo di danza o cornice che l’io instaura al proprio interno (danze distruttive
o danze creative e integrative) è l’indice più sicuro per distinguere fra salute e
malattia.
La via della non violenza è la capacità di saper proporre, con le proprie parti e
con le persone esterne, danze di pace e collaborazione, senza mai collaborare
34
con le danze della violenza .
Questo è il fondamento dell’etica umanistica, che presuppone la rinuncia
all’esercizio del potere-dominio.
Non possiamo essere sereni sul futuro finché nelle nostre scuole non si darà
primaria importanza alla pratica di questa disciplina.
Senza tale pratica, vengono a mancare le basi per la formazione etica di
cittadini consapevoli, leader di se stessi, capaci di operare scelte personali
non succubi alla propaganda mediatica, scientificamente costruita per
35
renderci tutti ipnotizzati e consumatori conformisti .
6. TIPI DI PENSIERO
Queste frasi sono dei dialoghi interni molto comuni nella forma di domande
perverse. Perverse perché inibiscono la nostra naturale ricerca della felicità.
Dal fiume della vita ci conducono inesorabilmente nella pozza stagnante della
nevrosi.
Le domande sono i motori che muovono il nostro inconscio. L’inconscio è
come un computer: fa quello che gli si chiede, in modo letterale.
Le domande sull’essere non hanno senso alcuno. L’essere è la totalità, quindi
è l’insieme di tutte le possibili risposte. Porsi domande sull’essere significa
avviare una ricerca senza fine e senza costrutto.
In termini kantiani, l’essere è il noumeno che sta dietro tutti i fenomeni
ovvero tutte le manifestazioni possibili. Ma di per sé è inconoscibile.
“Ciò che può essere detto, si può dir chiaro. Su ciò di cui non si può parlare,
bisogna tacere”, diceva Wittgenstein nel suo famoso Tractatus.
Perché allora cercare risposte sul proprio vero essere? Che senso ha chiedersi:
“Sono capace?”. E’ come porsi la domanda: quale acqua forma il fiume? Nel
momento che cerco la risposta, l’acqua è già cambiata, perché scorre in
continuazione, non è mai la stessa.
Domande sensate sono quelle che ci portano ad indagare sui nostri
comportamenti concreti. I comportamenti sono piccole frazioni di realtà
sensorialmente conoscibili e sotto il nostro controllo.
Se nella vita non otteniamo ciò che desideriamo, non siamo noi a dover
cambiare, ma i nostri comportamenti. Non il computer, ma i programmi!
Il termine PNL è la sigla di Programmazione Neuro Linguistica, che, in
questo caso, meglio suonerebbe come Riprogrammazione Neuro Linguistica.
Il lavoro di riprogrammazione è tanto più elegante quante meno mosse
prevede. Il lavoro più elegante è quello sui metaprogrammi (strutture prive di
contenuto, che costituiscono le colonne portanti dei programmi specifici).
Il pensiero dicotomico/complementare (“o - o” / “e – e”) è uno dei
metaprogrammi più importanti sui quali agire per evolvere, trasformare il
proprio carattere e sciogliere la sofferenza non necessaria.
“Sono amabile o non sono amabile?”, “Sono o non sono capace”, sono
domande prive di senso, perché riguardano l’essere, e dividono la realtà in
bianco e nero. Ospitare domande di questo tipo al proprio interno apre la
porta a virus del pensiero molto pericolosi. Riconoscerle e lasciarle andare è
un passo fondamentale nel cammino verso la libertà.
Tesi uno
L’uomo è fatto di legno storto. L’io è degno del massimo disprezzo. L’uomo
è fondamentalmente pigro ed egoista, e diventa socievole solo quando non
può farne a meno. E’ aggressivo per natura. Cerca sempre la via di minore
resistenza e il piacere immediato. Il sesso è un istinto che, se è assecondato,
porta l’uomo alla depravazione. Insomma, l’uomo, lasciato a se stesso, si
abbrutisce. Ha bisogno di guida e controllo.
Tesi due
L’uomo è socievole e buono per natura. Non è aggressivo. E’ guidato
dall’amore. La violenza nasce solo dall’oppressione. Basta farlo vivere in un
contesto pacifico e libero dove può esplorare le sue qualità e talenti ed egli
darà il meglio di sé. Sono i contesti autoritari ed oppressivi che fanno
dell’uomo un malvagio.
Origine dell’oppressione
Libertà o eguaglianza? Capitalismo o socialismo? Individualismo o
collettivismo? Amore per sé o altruismo? Realizzazione nel lavoro o
dedizione alla famiglia? Divertimento o lavoro? Rilassamento o attività?
Centratura interna od esterna? Riferimento interno od esterno? Salvaguardia
dell’ambiente o sviluppo dell’economia? Islam o cristianesimo?
Cristianesimo o buddismo? Religione o ateismo? Fede o ragione? Scienza o
religione? Ragione o emozione? Seguire la mente o seguire il cuore? L’uomo
ha una natura buona o malvagia?
Il pensiero dicotomico “o/o” è all’origine di ogni tipo di conflitto.
Mantenendo la struttura dicotomica, il conflitto non ha soluzione, se non
attraverso l’eliminazione o il sacrificio di uno dei due poli. Il sacrificio non
può che essere temporaneo. Quando uno dei due poli è stato compresso per
troppo tempo, si carica d’energia, come una molla, finché esplode, recupera il
terreno perduto e diventa a sua volta oppressore. Così, se la libertà ha
sacrificato per troppo tempo la giustizia, l’esigenza di giustizia prima o poi
esplode e mette al bando la libertà.
Così è accaduto durante la rivoluzione francese con Robespierre, Marat,
Danton; e poi, durante quella russa, con Lenin, Trotzski e Stalin. In modo
analogo, se una persona si è sacrificata troppo alle esigenze degli altri,
rinunciando alle proprie, prima o poi la spinta verso la propria realizzazione
provocherà una rivoluzione interna, che sfocerà in una rivoluzione esterna
attiva (cambiamenti di vita) o passiva (depressione).
Non è difficile comprendere come il pensiero dicotomico sia la struttura
portante di ogni forma di violenza ed oppressione. Esso ha le sue radici nel
pensiero infantile. E’ una fase primitiva nello sviluppo del pensiero-
linguaggio e come tale produce mappe del mondo estremamente impoverite,
non idonee a risolvere difficoltà e problemi complessi. Ciononostante la
ritroviamo spesso a guidare la percezione e le decisioni degli adulti, compresi
politici, leader e dirigenti.
Il pensiero dicotomico è alla base dell’identificazione: sono il mio corpo o
sono la mia anima? Sono i miei pensieri o sono le mie emozioni? Sono forte
o sono debole? Sono affidabile o non sono affidabile? Sono buddista o sono
cristiano? Sono religioso o non credo in Dio?
Ogni volta che c’identifichiamo in una parte, l’altra scende nell’ombra, ma
dato che in natura nulla si crea e nulla si distrugge, anche queste parti che
vivono nell’ombra non possono essere eliminate.
Il pensiero dicotomico è all’origine del giudizio morale: giusto o sbagliato,
buono o cattivo, positivo o negativo.
Il giudizio morale porta le persone a schierarsi, a identificarsi in una delle due
parti (di solito, quella percepita come buona), ma schierarsi significa
considerare l’altro avversario o nemico. Il passo verso la competizione
36
violenta, la lotta o la guerra, è molto breve .
Gandhi, negli ultimi mesi della sua vita, esasperato dalle lotte tra Indù e
Mussulmani, dichiarò di essere indù, e nello stesso tempo buddista e
cristiano. Una triplice bestemmia, che se fosse stata accolta, avrebbe
risparmiato la vita e la sofferenza ad innumerevoli persone.
Superstizioni
Metapensiero e dialogo
Come possiamo liberarci dal pensiero dicotomico? La via maestra è creare
una metaposizione, dalla quale possiamo osservare il formarsi del nostro
stesso pensiero. La meditazione vipassana, per esempio, è una validissima
pratica diretta a questo scopo. E’ difficile però ottenere buoni risultati senza
una guida.
In PNL ci sono molti strumenti, semplici e d’immediata efficacia, per
favorire il passaggio dall’identificazione nel pensiero o pensiero in associato,
al metapensiero, un pensiero in grado di riflettere sui suoi stessi
presupposti38.
In PNL umanistica, oltre alla meditazione, si utilizza la pratica della
conversazione dialogica, di tipo socratico. Perché? Perché il dialogo, a
differenza della discussione, è un ottimo allenamento alla flessibilità e alla
disidentificazione. Infatti, per praticare il dialogo, è indispensabile passare da
una posizione percettiva all’altra: dalla prima, cioè il proprio punto di vista,
alla seconda, quando ascoltiamo le ragioni dell’altro e poi alla terza, quando
cerchiamo una sintesi tra le differenti posizioni.
Il dialogo, per funzionare, ci obbliga ad abbandonare le barriere della
comunicazione e i relativi inquinanti (orgoglio, sgarbo, fretta, impazienza,
ecc.), che sono tutti meccanismi di protezione dell’egocentrismo, ovvero
della nostra chiusura cognitiva basata sulla separatività e sostenuta dal
pensiero magico.
Ecco perché il dialogo, quando è ben condotto, è già in sé una cura:
gratificante, poco costosa e alla portata di tutti. E’ una cura e, nello stesso
tempo, una pratica politica d’eccezionale efficacia, presupposto per
un’autentica partecipazione democratica dei cittadini. Una pratica in grado di
lavorare alla radice dei nostri problemi, individuali e collettivi.
Essa agisce direttamente sulle cause, non sui sintomi, perché lavora sul modo
in cui si forma il nostro pensiero e la nostra percezione del mondo,
liberandoli dalle gabbie ideologiche favorevoli al mantenimento
dell’oppressione e dello sfruttamento.
La diffusione a tutti i livelli di questa pratica politico-educativa, ecologica e
salutare, sta diventando necessaria per garantirci la sopravvivenza su questo
pianeta.
Non ci sono veri ostacoli. Possiamo cominciare da subito ad esercitarci con i
nostri famigliari ed amici. E poi allargare la cerchia, nelle scuole, nei luoghi
di lavoro, nelle associazioni, nei consigli di quartiere, fino ai luoghi della
39
politica. Non commettiamo l’errore di sottovalutare il nostro potere .
Stenterete a crederlo, stenterete, ma non dobbiamo aspettarci troppo aiuto in
questa direzione da parte di istituzioni e politici interessati a mantenere il loro
potere dominio: il dialogo “dialogale”, come direbbe Raimond Panikkar, è lo
40
strumento più efficace di antipotere .
Studio
La via è la meta
Se lo studio non è accompagnato da piacere, intossica e distrugge la mente.
La divide in frammenti, la consegna alle pratiche autoritarie e repressive, che
poi ci accompagnano per tutta la vita.
Studiare per dovere è come mangiare per obbligo quando non si ha fame. Si
perde il gusto, il contatto con il cibo, sia esso materiale o spirituale. Si finisce
per odiare ciò che si mangia.
La via è la meta. Esplorare il mondo è parte della nostra natura. Ampliare le
nostre conoscenze è espressione del movimento esplorativo. Come tale si
accompagna a piacere e gioia. Il piacere di ampliare la visione, di
comprendere meglio ciò che succede dentro e intorno a noi.
L’essere
L’essere ha a che fare con la totalità. L’essere include tutto, senza escludere
nulla. Tutto è uno.
Nel suo significato radicale, l’essere non ha predicati. Non è né grande né
piccolo, né bello né brutto, né giusto né sbagliato. E’ così com’è: il tutto
indifferenziato e nello stesso tempo interconnesso e organizzato.
Dal punto di vista della coscienza ordinaria, l’essere, come la vita, è
paradossale. E’ tutto e il contrario di tutto.
Con il sorgere della consapevolezza, nasce l’individuo, il soggetto, che
riflette su se stesso e sulla propria situazione: l’animale agisce e il suo
pensiero si esaurisce nell’azione immediata; l’uomo può pensare senza agire
e può comunicare con le parole i suoi pensieri. L’uomo, a differenza
dell’animale, è consapevole di sé: ha una visione del passato e del futuro. Ha
un io storico.
La nascita dell’io
Con la consapevolezza nasce l’io, il soggetto che sa di pensare ed agire.
Cos’è l’io? Un centro di consapevolezza e volontà. Consapevolezza di che
cosa? In primo luogo di ciò che è più vicino: il corpo, le sensazioni, le
emozioni, i pensieri. Cos’è la volontà? La direzione, il programma, la meta
imposta all’azione.
La consapevolezza funziona come una fonte di luce: illumina di più gli
oggetti vicini e di meno quelli lontani.
Ma il senso di connessione e appartenenza al tutto rimane intatto.
La formazione dell’Ego
L’io, però, può concentrarsi su se stesso, sul proprio corpo, sulle proprie
sensazioni e desideri in modo così esclusivo che tutto il resto rimane fuori
dalla portata del suo raggio. Si crea allora un confine netto e artificiale tra l’io
e ciò che viene percepito come non-io.
Il risultato è la perdita di connessione e di senso d’appartenenza. L’io diventa
l’unico soggetto. La realtà appare popolata di oggetti in cui l’io non si
identifica più, in quanto sono stati ridotti a cose prive di anima e come tali
suscettibili di manipolazione e sfruttamento senza riserve o scrupoli.
Nella misura in cui perde connessione, si separa e si isola, l’Io si trasforma in
Ego.
Naturalmente, salvo i casi di narcisismo gravemente patologico, la capacità
d’identificazione ed empatia si estende sempre ad una cerchia più o meno
grande di altri esseri rispetto all’io in senso stretto. La consapevolezza, cioè, è
in grado di spostarsi e considerare altre posizioni percettive diverse dalla
prima, in associato con il proprio corpo-mente.
Rispetto
Un io che si muove così è radicato nell’essere e non potrà mai essere
violento. Il suo rapporto con se stesso e con gli altri esseri è caratterizzato dal
rispetto.
Cos’è il rispetto? Rispetto ha la stessa radice di spettatore, spettacolo44.
Etimologicamente significa guardare, osservare una seconda volta. Non
accontentarsi della prima occhiata, ma tornare a guardare, perché la
percezione facilmente distorce e perché le cose cambiano.
In altri termini, si ha rispetto quando si guarda in profondità. In profondità
significa osservare davvero la realtà così com’è, nella sua interconnessione e
nella sua impermanenza, in atteggiamento di umiltà, con cuore puro, senza
desideri, avversioni, proiezioni, pregiudizi.
Il rispetto presuppone quindi un atteggiamento contemplativo o meditativo.
Violenza
Nella logica dell’avere, esiste il causa-effetto unidirezionale (almeno nei
tempi brevi): A usa violenza nei confronti di B e ne trae vantaggio. La
violenza va da A a B. A vince, B perde.
Nella logica dell’essere, il causa-effetto unidirezionale non esiste. Non esiste
qualcosa come la violenza nei confronti di qualcuno e a vantaggio di qualcun
altro. Esiste la violenza. Ed esistono le cause della violenza, che vengono da
lontano.
La violenza è una caratteristica dell’energia creativa temporaneamente
degradata in distruttiva. L’energia, come la luce, si espande in tutte le
direzioni e coinvolge con maggiore forza ciò che è più vicino nel tempo e
nello spazio.
Colui che pratica la violenza, è il primo ad esserne contagiato a livello
emotivo e spirituale; poi viene la vittima e, in seguito, tutti gli altri, in base
alla lontananza.
A differenza di quanto la logica dell’avere ci fa credere, non c’è una distanza
abissale tra aggressore e vittima. Al contrario c’è molta vicinanza e non
perché la vittima provoca l’aggressore, ma perché la violenza è come un
fulmine che colpisce insieme vittima ed aggressore.
Se la vittima conserva il rancore non spezzerà il circolo vizioso e continuerà a
praticare la logica dell’avere, la stessa che ha guidato la mano del suo
persecutore. Ma se uscirà da quella logica e accederà allo stato di coscienza
radicato nell’essere, ciò che è accaduto acquisterà un significato totalmente
nuovo. Si libererà dal dolore nevrotico, cagionato dal sentirsi un individuo
separato e ingiustamente ferito, perché sentirà che esiste un legame molto più
profondo e una storia antica che accomuna tutti gli esseri, comprese vittime e
aggressori.
Anziché odiarlo, avrà compassione per l’aggressore e per tutti coloro che
l’hanno preceduto nella loro insana inconsapevolezza: “Perdona loro perché
46
non sanno quello che fanno” .
L’uomo che pratica la violenza, non solo non rispetta la vittima, ma non
rispetta in primo luogo se stesso, la propria natura profonda. Si lascia agire da
una pulsione o da un desiderio parziale e non osserva se stesso con
atteggiamento contemplativo per scoprire la totalità del suo essere.
Possiamo dire che tradisce e violenta la sua anima, intendendo per anima la
totalità o l’anelito verso la totalità.
Un antico proverbio di saggezza dice che le azioni e i pensieri, buoni o
cattivi, ritornano al mittente. La realtà ci fa da specchio.
Chi pratica le qualità dell’essere, ovvero le qualità dell’amore, vive
nell’amore e nell’abbondanza. Chi pratica gli inquinanti, vive nella paura e
nella carenza.
Discussione e dialogo
La radice di discussione è percuotere, scuotere. Assomiglia al gioco del ping
pong. L’oggetto può essere analizzato da diversi punti di vista e questo può
essere utile. Ma lo scopo del gioco normalmente è vincere.
Vincere significa che le opinioni del singolo vengono accolte dal gruppo.
Una forte accentuazione sul vincere però non è compatibile con la dedizione
alla verità.
Si pone quindi l’alternativa tra:
“Il pensiero collettivo è come un fiume. I pensieri sono foglie che galleggiano
sul fiume. Noi raccogliamo le foglie, che percepiamo come pensieri. In tal
modo percepiamo erroneamente i pensieri come nostri, perché non riusciamo
a vedere il flusso del pensiero collettivo da cui essi promanano.
Grazie al dialogo, si comincia a percepire il flusso del pensiero collettivo che
è in continuo cambiamento. Di solito i nostri processi di pensiero sono come
una grossa rete, capace di raccogliere solo elementi più grossolani della
corrente. Attraverso il dialogo, sviluppiamo una sensibilità che ci permette di
cogliere anche gli aspetti più sottili, i significati più profondi”.
Bohm ritiene che questa sensibilità sia alla radice della vera intelligenza
(mente di gruppo). L’apprendimento collettivo non soltanto è possibile, ma è
vitale per sviluppare il potenziale umano.
Attraverso il dialogo, le persone possono aiutarsi vicendevolmente a divenire
consapevoli dell’incoerenza dei pensieri di ciascuno e in tal modo il pensiero
collettivo può acquisire coerenza.
Scopo del dialogo è rivelare l’incoerenza del nostro pensiero. Nel dialogo,
correttamente condotto, le persone diventano osservatori del loro modo di
pensare.
In termini buddisti, il dialogo è una forma di meditazione. Ognuno impara a
contemplare il proprio e l’altrui pensiero, senza attaccamenti ed avversioni.
Se sorge un conflitto, è probabile che le persone si rendano conto che la
tensione nasce letteralmente dai loro pensieri. “Sono i nostri pensieri e il
modo in cui aderiamo ad essi ad essere in conflitto, non noi”.
In termini di PNL, il dialogo presuppone la disponibilità a ruotare le posizioni
percettive.
In termini di psicosintesi, presuppone la disponibilità alla disidentificazione.
Dialogo e organizzazioni
Nelle organizzazioni i principi del dialogo sono difficilmente applicati perché
quasi sempre vige il principio di gerarchia, che blocca in partenza la libera
espressione del proprio pensiero.
Un leader che voglia applicare questi principi ha un compito molto
importante: creare un contesto di tipo innovativo, ove si avveri lo spirito di
parità.
©Aleph 2008
Aleph
Assocazione culturale
edizioni Liberodiscrivere®
[←1]
Cfr. A. Plebe, Storia del pensiero, Ubaldini ed.
[←2]
In ambito informatico, è nota a tutti la legge: “Garbage in, garbage out”. Da tale legge si ricava
un’altra scomoda verità: quando esce spazzatura, significa che abbiamo messo dentro spazzatura.
Serge Latouche, l’economista diventato il simbolo del movimento sulla decrescita, sostiene che
c’è davvero un solo modo per liberarsi dei rifiuti che ci assalgono ormai da ogni lato: produrne
di meno. L’economia dell’usa e getta è frutto emblematico di un pensiero sconnesso dalla realtà.
[←3]
Cfr. Karma ideologico ed economia, in questa collana.
[←4]
Cfr. su Google la bellissima intervista di Carlo Sini su Charles Peirce.
[←5]
Cfr, Propaganda, In questa collana.
[←6]
U.Eco, A Passi di gambero, Bompiani.
[←7]
Purtroppo oggi molti ragazzi sembrano aver imboccato la pericolosa strada del nichilismo. Cfr.
Galimberti, L’ospite inquietante, Feltrinelli, 2007. Di fronte a questi fatti, per essere equanimi,
non va dimenticato che il nichilismo è spesso solo frutto di una tensione ideale, tipica dei
giovani, troppo profondamente tradita dalla palese incapacità della maggior parte degli adulti, in
posizione di autorità, di fornire esempi costruttivi e di esercitare leadership e visione.
[←8]
Cfr. J.G. Davies, La chiesa delle origini, Il Saggiatore, p. 37.
[←9]
N. F. Montecucco, Psicosomatica olistica, ed. Mediterranee, 2005.
[←10]
Cfr. E. Tolle, Il potere di adesso, Armenia, 1997; N. F. Montecucco, cit.
[←11]
La visione di Platone, che insieme a quella di Aristotele, ha ispirato e forgiato la storia
successiva del nostro modo di pensare, sembra dare importanza centrale agli stati di coscienza.
Platone parla esplicitamente di tre livelli o stati fondamentali: coscienza appetitiva, emotiva e
intellettiva, attribuendo alla terza la funzione di guida sulle altre due. Sostiene che per liberarsi
dall’ignoranza occorre praticare un cammino di ascesi (allenamento), in modo da imparare a
distinguere le ombre dalla realtà vera. Ma qual è la realtà vera? Qui Platone mostra il lato debole
della sua costruzione: sono le idee, le forme eterne che non abitano questo mondo, ma al di là di
esso, nell’iperuranio. Una costruzione tutta mentale, priva di contatto sensoriale con la realtà del
qui ed ora, che attribuisce alla sola ragione una capacità che essa non ha mai dimostrato di avere:
quella di produrre immagini accurate del mondo. La disputa sugli universali, le idee platoniche
nelle loro diverse varianti, è durata per secoli. La posta in gioco non era piccola: ci si interrogava
se la ragione possa comprendere il mondo a priori, cioè indipendentemente dall’esperienza
diretta, in quanto può, per sua natura, accedere al livello in cui le idee universali risiedono. La
semplice persistenza di un tale dibattito indica il solco che divide la filosofia occidentale da
quella asiatica, da sempre ancorata alla primaria osservazione del dato sensoriale e alle pratiche
corporee rigorose e sistematiche necessarie a raffinare la nostra percezione (Taimni, La scienza
dello yoga, Ubaldini ed). In tale filosofia gli stati di coscienza più elevati non si limitano ad
essere nomi dati alle intuizioni della ragione, ma sono obiettivi chiari e sperimentabili perseguiti
da pratiche e discipline, radicate nella fisiologia, nel respiro, nella postura, perfezionate in
migliaia di anni di esperienza (D. J. Walters, Crisi del pensiero contemporaneo, ed.
Mediterranee; K. Wilber, Grazia e grinta, Cittadella ed.).
[←12]
Cfr. T. Gordon, Insegnanti efficaci, Giunti Lisciani.
[←13]
Cfr. M. Scardovelli, Democrazia, potere, narcisismo, Liberodiscrivere, 2002.
[←14]
Cfr. J.F. Revel, M. Ricard, Il monaco e il filosofo, Neri Pozza ed.
[←15]
Cfr. M. Scardovelli, Democrazia, cit.; Id., Simboli Aleph, in questa collana.
[←16]
Nella visione sistemica si attua un doppio legame quando, all’interno di una relazione intensa,
viene dato un messaggio che contiene due asserzioni che si escludono a vicenda. Per richiudere
perfettamente su se stesso il malefico cerchio generato dal doppio legame, bisogna altresì
impedire al ricettore del messaggio di metacomunicare sul messaggio stesso.
[←17]
Cfr. Krishnamurti, La sola rivoluzione, Astrolabio; L. Marinoff, Aristotele, Buddha, Confucio,
Piemme ed.
[←18]
Un bambino di tre anni, secondo E. Berne, è più vicino alla realtà di un adulto adattato.
[←19]
Cfr. Peck, Voglia di bene, Frassinelli ed.
[←20]
Cfr. S. Latouche, L’invenzione dell’economia, Arianna ed.
[←21]
Cfr. J. Pierrakos, Corenergetica, Crisalide ed..
[←22]
Cfr. Satprem, Sri Aurobido: L’avventura della coscienza, ed. Mediterranee.
[←23]
In PNL umanistica questo tema viene affrontato sin dal livello base, in cui s’inizia a lavorare su
barriere della comunicazione, inquinanti personali, racket e leadership interna.
[←24]
S. Salzberg, L’arte rivoluzionaria della gioia, Ubaldini.
[←25]
P. Schellenbaum, Il no in amore, ed. RED.
[←26]
M. Scardovelli, Feedback e cambiamento, Borla; Id, Musica e trasformazione, Borla.
[←27]
Cfr. E. Fromm, Avere o essere, Mondadori.
[←28]
Esempi di nuclei concettuali sono i livelli di coscienza, la disidentificazione, la risonanza, il
potere-dominio, la propaganda. Sul concetto di nuclei della conoscenza o nodi formativi cfr.
Porena in www.didatticaperprogetti.it
[←29]
C.T. Tart, Stati di coscienza, Astrolabio; K. Wilber, Lo spettro della coscienza, Crisalide.
[←30]
Il trattato di Westfalia, nella prima metà del seicento, ha finalmente dichiarato illegittime le
guerre di religione, le guerre cioè fatte contro eretici ed infedeli, colpevoli moralmente di non
riconoscere la verità.
[←31]
Cfr. Bateson, Verso un’ecologia della mente; Id., Mente e natura; M. Scardovelli, La formazione
del musicoterapeuta: premesse epistemologiche e cambiamento, coop 77 ed. (www.aleph.ws).
[←32]
Cfr Barriere, in questa collana.
[←33]
Cfr. Io-governo, in questa collana.
[←34]
Cfr. Nagler, Per un futuro non violento, Ponte alle Grazie.
[←35]
Cfr. Propaganda, in questa collana.
[←36]
Cfr. Krishnamurti, Sul conflitto, Astrolabio.
[←37]
Cfr. Oz, Contro il fanatismo, Feltrinelli.
[←38]
Si pensi, ad esempio, all’uso delle sottomodalità, alle posizioni percettive, al metamodello.
[←39]
Cfr. J. Holloway, Cambiare il mondo senza prendere il potere, Intra Moenia ed.
[←40]
R. Panikkar distingue tra dialogo dialettico e dialogo dialogale. Con il primo si riferisce ad una
discussione tesa all’affermazione della verità, nel presupposto che essa sia conoscibile e sia
posseduta da una delle parti. Con il secondo intende una pratica di apertura sincera e amorevole
ad altri modi di vedere il mondo, diversi dai propri.
[←41]
Cfr. Revez, Ricard, cit.
[←42]
Cfr. Nagler, Per un futuro non violento, Ponte alle Grazie ed.
[←43]
Cfr. Nagler, Per un futuro non violento, cit.
[←44]
E. Rosemberg, Lavorare senza offendersi, Guerini e associati ed.
[←45]
Cfr. Karma ideologico ed economia, in questa collana.
[←46]
Cfr Desmond Tutu, Non c’è futuro senza perdono, Feltrinelli.
[←47]
Cfr. Satprem, Sri Aurobindo: l’avventura della coscienza, Ed. Mediterranee.
[←48]
Cfr. la tecnica di PNL umanistica: “Generatore di nuove qualità”.
[←49]
Cfr. M. Scardovelli, Feedback e cambiamento, Borla.
[←50]
Condizioni analoghe sono richieste affinché possa funzionare un “circuito autogenerativo”, cioè
una conversazione tra persone con competenze diverse, accomunate dal desiderio di
approfondire la conoscenza e la discussione su un determinato tema. Cfr. Porena, IMC, ipotesi
per la composizione delle diversità, ed. EUE.
[←51]
Per il Dalay Lama (The good Heart, Rider Books), presupposto del dialogo è l’amicizia, o
almeno la disponibilità a diventare amici. Per Habermas, ogni forma di disonestà, mistificazione
o violenza rende il dialogo impossibile.
[←52]
Secondo il buddismo, c’è un istinto più forte di quello sessuale: quello della realtà intrinseca, il
credere di vedere davvero la realtà.