Sei sulla pagina 1di 9

L’elemento ebraico nelle letterature di lingua inglese

Capitolo 1

L’elemento ebraico nelle letterature di lingua inglese si manifesta in due modi:


-attraverso tematiche ebraiche che troviamo in autori non ebrei;
-nell’ebraismo che pervade i testi di autori non ebrei.

Gli Jewish Studies si sono sviluppati in europa e al di là dell’oceano con delle modalità differenti. In
Nord America negli ultimi anni c'è stato un gran proliferare di antologie che includono scrittori
ebrei americani e numerosi studi critici dove però rimane ancora aperta la questione di quale siano
effettivamente i tratti distintivi che fanno delle opere prodotte da questi autori un corpus letterario
omogeneo, tanto da farne una storia di letteratura a sé stante all'interno di altre letterature.
La questione di che cosa si intende quella definizione “letteratura ebraica di lingua inglese” risulta
spinosa e ad oggi rimane difficile fornire tale definizione.

In America un tentativo di canonizzazione c’è stato con la jewish American Literature: A Norton
Anthology. Per quanto riguarda l'Inghilterra nonostante la pubblicazione di alcune antologie,
l'interesse critico si è soffermato prevalentemente sulla presenza dell'elemento ebraico in autori non
ebrei e sembrano particolarmente emblematici due testi:
-The Jew in English Literature: as Author and as subject di Edward N. Calish;
-Jewish Presences in English Literature a cura di Derek Cohen e Deborah Heller.

Il primo titolo suggerisce che l'indagine in questo settore si svolge su un doppio binario, ovvero,
viene focalizzata l'attenzione da un lato sugli scrittori ebrei e dall'altro sulla figura dell'ebreo in
opere celebri che ne hanno formato una sorta di stereotipo; nel secondo testo invece, il punto
centrale è la presenza ebraica nella letteratura inglese a prescindere dall'identità di chi scrive.

L’ebreo come subject è ricorrente sin dal periodo pre elisabettiano e continuerà essere presente
anche il periodo elisabettiano, nonostante l'espulsione dall'Inghilterra nel 1290, che si protrarrà fino
al 1655.
L’ebreo come author è quasi assente. Anche prima dell'esilio gli autori ebrei scrivevano perlopiù in
ebraico e le tematiche erano connesse alla sfera religiosa. Quando lo stato di segregazione sarà
superato essi entreranno a far parte della letteratura inglese.

Tra il 300 e il 600, 3 sono le opere che meritano attenzione:


-the Canterbury Tales di Geoffrey Chaucer (fine XIV sec.);
-the Jew of Malta di Christopher Marlowe (1589);
-the Merchant of Venice di William Shakespeare (1596).

Sylvia Tomasch—> Chaucer presenta gli ebrei come profeti proto cristiani, che vagano in esilio,
blasfemi e praticanti di torture. Il racconto della priora ci consegna in modo molto preciso l'idea che
gli inglesi dell'epoca avevano degli ebrei.
Racconto della Priora (Chaucer)—> vicino ad una comunità ebraica c'era una scuola dove si
recavano i bambini cristiani; uno di questi bambini, figlio di una vedova, lì apprese l’Alma
Redemptoris, un inno in lode di Maria, che cantava ogni volta che tornava a casa attraversando il
ghetto. Gli ebrei però lo uccisero e lo gettarono in un pozzo; la madre riesce a trovare il figlio che,
con la gola tagliata, canta comunque l'inno e i colpevoli vengono puniti.
Riccardo Calimani—> nel ‘300, satire, leggende ballate, vetrate e facciate di chiese contengono
descrizioni che mettono in rilievo la malvagità ebraica; l'ebreo perde i connotati umani per
assumere sembianze diaboliche.
Il racconto della priora altro non è che lo specchio della figura dell'ebreo fortemente negativa e
ormai radicata presente nell'immaginario collettivo inglese dell'epoca: crudele, assassino, bugiardo
e irrimediabilmente nemico dei cristiani. Immagine che è anche frutto di una serie di accuse che gli
venivano mosse, come quella dell'omicidio rituale di bambini cristiani per impastare le matzot di
Pesach con il loro sangue, e si pensi alle morti di William Norwick nel 1144 e Hugh of Lincoln del
1255, entrambe attribuite agli ebrei.

Nell’Ebreo di Malta, la figura di Barabba, che muore bruciato in un calderone di certo non è più
positiva. Barabba è profondamente avido, furbo, opportunista, manipolatore, uno spietato assassino
che una volta privato dei suoi beni non esita a strumentalizzare perfino la figlia. Ci troviamo di
fronte a un villain per eccellenza eppure Rocco Coronato—> la lettura critica ora prevalente scorge
in Barabba una riscrittura ironica del pregiudizio antigiudaico applicata a ogni forma di avidità e
inganno, purché non si cada nella trappola di prendere alla lettera il testo quando Barabba si mostra
più buono del previsto, ad esempio nel primo atto. Né conviene cadere nel letteralismo a proposito
del caso verso, quando Barabba esagera i tratti dell'ebreo traditore e assassino.

Nel Mercante di Venezia, tornano la questione dell'avversione degli ebrei per i cristiani, l'usura,
nonché il conflitto padre-figlia e la vendetta. Tuttavia in quest'opera c'è un fattore innovativo: l'agire
malvagio di Shylock viene in qualche modo spiegato e razionalizzato; esso pare essere il frutto di
una serie di vessazioni che sembrano averlo inasprito, di un dolore profuso nel tempo che rende
coriacee o chi tenta di conviverci senza poter mai vedere la propria uguaglianza riconosciuta.
Shakespeare altro non fa che ribaltare la situazione rendendo i cristiani veri maestri del male che
Shylock esercita.

Nel 1794 The Jew di Cumberland, Sheva, il personaggio principale, è di nuovo archetipo di
usuraio: un usuraio-filantropo.
Calish—> Cumberland fu il primo drammaturgo ad opporsi al pregiudizio popolare e a produrre
un’opera in cui l'ebreo non era solo il cattivo ma anche un personaggio eroico.

Inoltre in questo periodo è importante il fatto che si comincia a riscontrare un'attività letteraria
anche da parte di scrittori ebrei, sebbene non di particolare importanza. Tra gli autori ricordiamo
Moses Mendez con Robin Hood e The Double Disappointment, che non riscossero successo.
Nell'ottocento le cose cominciano a cambiare per due motivi:
-Si hanno, accanto a opere dove la figura dell'ebreo continua essere negativa, altri in cui i
personaggi ebrei sono presentati sotto una luce diversa (The Jew and the Doctor: a Farce in Two
Acts di Thomas Dibdin);
-Sulla scena letteraria entra, verso la fine del secolo, la figura più rappresentativa della letteratura
ebraica inglese: Israel Zangwill.
Ricordiamo anche Amy Levy nota per le sue short stories e per il romanzo Miss Meredith, ma
soprattutto per la raccolta di poesie Xanthippe and Other Verse.
Abbiamo anche Benjamin Disraeli con Alroy dove il protagonista, David Alroy tenta di posizionare
gli ebrei in una posizione più giusta.
Judith Montefiore i cui scritti forniscono la prima testimonianza in inglese di una donna ebrea che
viaggia in quella che è l’odierna Israele.
Tornando ai maggiori romanzieri del secolo non ebrei che tematizzano l’elemento ebraico
abbiamo:
-Walter Scott con Ivanhoe 1820;
Dove torna il connubio
-George Eliot con Daniel Deronda 1876;
ebreo-soldi
-Trollope con The way we live now 1875.

-Charles Dickens con Oliver Twist 1837-39 e il diabolico sfruttatore di bambini Fagin.

Nel capitolo V di Ivanhoe, romanzo ambientato nell'Inghilterra del XII secolo, abbiamo una
citazione tratta dal Mercante di Venezia «hath not a jew eyes» e proprio sulla scia di Shakespeare,
anche Scott ci presenta un ebreo, Isaac, che fa l'usuraio e che rimane al margine del tessuto sociale
di cui fa parte.
La figlia Rebecca, invece, che esercita l'arte medica che le viene tramandata, è un personaggio
estremamente positivo. Si distingue anche per la sua nobiltà d'animo, la sua dedizione, il senso
dell'onore e del sacrificio e, nonostante il suo amore per Ivanhoe non lo sposerà e lascerà
l'Inghilterra insieme al padre, come a sottolineare che un unione del genere non è possibile.

In Daniel Deronda, il protagonista scopre di essere ebreo e sposa Mirah, la ragazza di cui è
innamorato, che a causa del profondo legame con le sue origini ebraiche probabilmente non avrebbe
altrimenti accettato facilmente questa unione a prescindere dei propri sentimenti. In questo romanzo
i ritratti di Mirah, Mardocheo suo fratello e Daniel Deronda sono estremamente positivi e
l’atteggiamento della scrittrice è completamente simpatetico.
L'unico personaggio ebreo davvero discutibile è la madre di Daniel che invece ha rinnegato il
proprio ebraismo, ha abbandonato il figlio e ha fatto in modo che crescesse all'oscuro delle proprie
origini proprio per recidere ogni legame con questa religione.
La tematica più innovativa trattata nel romanzo è quella del sionismo. Non è un caso che in questo
periodo diventi un tema centrale, considerato il fatto che in Inghilterra si sentono gli echi del
Risorgimento italiano e la riflessione sul concetto di nazione si fa intensa e profonda.

In Israel Zangwill il problema del sionismo costituisce uno dei temi centrali e l’autore finì col
fondare il sionismo territorialista. Ma Zangwill è altresì importante perché si fa portavoce,
attraverso la letteratura, del mondo ebraico in tutte le sue sfaccettature: dalle condizioni di vita degli
ebrei a Londra, della loro realtà sociale, politica, religiosa e culturale.
Tutto un mondo fino ad allora in vita quasi interamente nell'immaginario collettivo attraverso
luoghi comuni e stereotipi negativi, viene rivelato della sua complessità, attraverso le sue luci e le
sue ombre. I titoli stessi delle opere sono eloquenti: Children of the Ghetto, Dreamers of the Ghetto,
Ghetto Tragedies, The Next Religion, The Melting Pot.

L'ultimo grande personaggio ebreo che incontriamo agli albori del modernismo, Leopold Bloom,
l'eroe tragico dell’Ulisse di James Joyce. L'affinità tra inglesi ed ebrei sembra essere un nodo
centrale, perché entrambi a causa della propria fede hanno patito un comune cammino di sofferenza,
povertà e isolamento. Abbiamo qui la figura di un ebreo che assurge a una dimensione più
universale, una sorta di Everyman.
Per quanto riguarda il versante americano, anche qui è interessante l’immagine dell’ebreo in opere
di autori non ebrei. Pensiamo al personaggio di Meyer Wolfsheim in Il Grande Gatsby di Francis
Scott Fitzgerald, a Zerkow in McTeague di Frank Norris o Robert Cohn in Fiesta di Hemingway.

La questione su cui la critica si è soffermata maggiormente concerne l'individuazione di una serie di


scrittori ebrei che hanno creato una vera e propria letteratura ebraico-americana all'interno del
mainstream statunitense.
Negli anni 50 del Novecento si ha una sorta di American Jewish Renaissance ma è anche vero che
l'attenzione dei critici agli scrittori ebrei americani è piuttosto scarsa.
Per quanto concerne la prosa del periodo del “Great Tide” la figura più rappresentativa è Abraham
Cahan, Dove l'esperienza dell'immaginazione e la tensione che ne deriva tra la volontà di
conservare la propria identità e l'istinto di assimilazione costituisce il perno centrale della sua prosa
e si pensi a Yekl: a Tale of the New York Ghetto, a The Imported Bridegroom and Other Stories e
infine a The Rise of David Levinsky.

In Yekl ci viene fornita anche una preziosa descrizione del ghetto e delle condizioni di vita degli
ebrei dove viene sottolineato il riversare di ogni speranza da parte degli immigrati provenienti da
varie parti d'Europa in questa “Promise Land of today”.
Ed è proprio questa idea di America, quale terra delle opportunità, che ritroviamo anche in autori
della “Literature of Arrival” (1654-1880).

La più nota poetessa, rappresentativa dell’ultimo periodo che precede la cosiddetta “terza diaspora”
è Emma Lazarus, nata e cresciuta a New York definita “una pioniera della letteratura ebraica
Americana”. L'importanza e la centralità della riflessione sulla propria identità in the Songs of
Semite emerge sin dalla scelta del titolo, ma la sua fama nel tempo è legata soprattutto al sonetto
“The New Colossus”, del 1883, perché proprio da qui sono tratti i versi celebri iscritti sulla Statua
della Libertà:

Give me your tired, your poor,


Your huddled masses yearning to breathe free,
The wretched refuse of your teeming shore.
Send these, the homeless, tempest-tost to me,
I lift my lamp beside the golden door!

Che la letteratura ebraica americana negli anni attorno al 1880 riscuotesse un certo successo è
testimoniato da un aneddoto che ci riporta Josh Lambert: uno scrittore Ebro di nome Henry Harland
decide di usare lo pseudonimo Sidney Luska, che poteva far pensare alle origini ebraiche, per
riuscire ad ottenere una maggiore attenzione sul mercato editoriale. Vero è che a partire dalla
seconda metà del novecento sino ad oggi i fermenti artistici degli scrittori ebrei americani sono
ricchissimi: Tillie Olsen, Grace Paley, Norman Mailer e altri.
Quanto alcuni di questi autori possono essere inclusi in quella che è definita “letteratura ebraica
americana” è una questione aperta e lo dimostra il fatto che se da un lato tutti coloro citati sono
inclusi nella autorevole Jewish American Literature: a Norton Anthology, dall'altro ci sono
posizioni in merito discordanti come ad esempio quella di Giordano de Biasio che scrive: «dopo i
magnifici tre, Bellow, Malamud e Roth, esistono ancora scrittori ebrei americani? La risposta è
naturalmente negativa. L'autore ebreo moderno o post-moderno è semplicemente un autore
americano.
Il problema nasce dalla questione posta all’inizio. Se non si riescono a stabilire dei precisi criteri di
valutazione di ciò che può definirsi “letteratura ebraico-americana/inglese/canadese” sarà plausibile
e al contempo discutibile ogni posizione critica in merito.

Per fare un esempio di quanto siano labili i confini, si pensi che nella JPS Guide. American Jewish
Fiction viene incluso Franz Kafka per il suo romanzo America; del resto la scelta del curatore è
ampiamente chiarita in una ricca introduzione dove è spiegato che l'aspetto centrale all'interno dei
testi scelti è il connubio ebraismo-America, con particolare attenzione a delle tematiche ricorrenti
con la conseguente inclusione di autori non americani oppure non ebrei.
L'opera di questi scrittori permette all'ebraismo di uscire dal proprio shtetl culturale in cui spesso è
stato relegato e di farsi conoscere.

Da Abraham Cahan a isaac B. Singer e Cynthia Ozick


Capitolo 6

Stefano Levi della Torre—> gli ebrei hanno amato i luoghi del loro insediamento precario; lo
dicono molti cognomi che ricordano luoghi o città; o certi costumi, o le loro lingue come lo yiddish
(sincretismo di idiomi europei centro orientali).
I luoghi, la loro accurata descrizione, la loro funzione sembrano costituire uno dei leitmotiv della
letteratura ebraica. Dunque un topos di rilevante importanza se pensiamo alla condizione errante di
questo popolo.
Inoltre testo, luogo e memoria divengono elementi strettamente legati l’uno all’altro, elementi tutti
narrati e narranti.
Rita Calabrese in Mosaici. Nuove configurazioni dell’identità ebraica in Germania—> il recupero
della tradizione avviene attraverso la lettura diretta dei testi che ritornano poi nella scrittura
letteraria, si recupera il passato attraverso il contatto diretto con i luoghi d'origine della propria
famiglia.

Stefano Levi della Torre in Essere fuori luogo—> libra Ismo nella sua realtà e nei suoi testi, non
incarna l'elaborazione di un pensiero di un sentimento dello stabilirsi, bensì è vocale esperienza
dell'oscillazione tra territorialità e a-territorialità, tra radicamento e sradicamento.

Philip Roth—> The Prague Orgy dove parla del ghetto di Praga.
Altri esempi si potrebbero fare per l’Italia dove autori come Bassani, Ginzburg, Moravia hanno
immortalato in splendide descrizioni Ferrara, Roma, Torino e Venezia. Questi luoghi non fungono
da mero setting, ma in essi il landscape si tramuta, o meglio va a coincidere, con l’inscape.
Paesaggio, spesso urbano, e mondo interiore divengono l’uno lo specchio dell’altro.

La città, per lo scrittore ebreo, è una cosa viva, una creatura in movimento, a volte ingannevole, a
volte protettiva e a volte döppelganger di sé stessa.
I micro e macro conflitti della condizione umana sembrano riflettersi nella città che fisicamente
partecipa, con il suo intero “corpo”, alle vicende terrene. Insieme all’uomo in cenere si sgretola,
dell’uomo si fa rifugio o dedalo in cui perdersi, si distrugge o mantiene in vita brandelli di se stessa
e si fa luogo in cui confondersi tra una folla che sempre esalta la solitudine.
Quanto più l’essere umano viene privato della propria identità, tanto più la città sembra
giganteggiare nel testo, con le sue case, siano esse eleganti dimore borghesi o angusti tuguri
fatiscenti, o con il cimitero, perché persino questo si tramuta in spazio narrante.
La città va a configurarsi come vero e proprio universo fisico dove la quintessenza del male domina
il palcoscenico, e ancor di più lo diverrà dopo la seconda guerra mondiale.
Si potrebbe dire che quel “male” che ha il vertice nella catastrofe della Shoah, comincia a gettare
sua ombra sin dalla fine dell’Ottocento con l’immigrazione degli ebrei verso l’America. A seguito
dei pogrom e della crescente ondata di antisemitismo che percorre la “zona di residenza” russa,
masse sempre più numerose di ebrei sono costretti a cercare rifugio lontano dalle terre natia, verso il
Nuovo Mondo.

Partendo da questi assunti può risultare utile confrontarsi con


-Yekl: a Tale of the New York Ghetto di Abraham Cahan;
-The Cabalisto of East Broadway e Brother Beetle di Isaac Bashevis Singer; Visione ebraica
-The Shawl e The Butterfly and the Traffic Light di Cynthia Ozick. della città

Gabriella Morisco in il recupero del testo—> con loro (gli scrittori ebrei americani) la letteratura
urbana vive il suo momento epico.
Centrale, in queste opere, è il rapporto tra due mondi urbani diversi:
-da un lato si ha il prodotto del bagaglio accumulato in secoli e secoli di diaspora e che trova infine
una sua memoria nella cultura yiddish;
-dall'altro quello assai più provvisorio dell'emigrazione in America.

Si ha dunque una concezione di una città intesa come luogo di accoglienza e di rigenerazione e, al
contempo, come un nuovo inferno, un'entità pronta a disgregare e a inglobare le diverse culture che
con essa vengono in contatto. Centrale è anche il rapporto che l'artista ebreo si vede costretto a
instaurare con il luogo della metropoli dove neanche più il “ghetto" conserva una propria
dimensione protettiva e, nell'aprirsi alla realtà circostante, crea nuovi spazi narrativi, nuovi
palcoscenici su cui rappresentare la nuova percezione che sia dell'Europa e dell’America.

Già nel 1880 vivevano a New York 80 mila ebrei; nel 1910 diventano 1 milione e 250 mila, tutti
raggruppati nella parte meridionale della città che si è trasformata in un mosaico etnico nei pressi di
Canal Street. I cinesi da una parte, gli italiani e gli ebrei dall’altra.
Il ghetto ebraico di New York trova la sua prima organica rappresentazione nell'ambito della
letteratura americana nel romanzo di Cahan. In Yekl. A Tale of the New York Ghetto, l’eroe, Yekl è
un giovane immigrato dalla zona di residenza della Russia Occidentale, che dopo una prima
esperienza a Boston arriva a New York.
Il trasferimento dalla storica città del Massachusetts al Lower East Side implica il passaggio dalla
tradizione consolidata di una piccola comunità ebraica, alla grande metropoli. E in quest’ultima, i
personaggi sembrano vivere solo il ghetto, la cui descrizione costituisce una preziosa testimonianza
non soltanto letteraria anche storica.

L’opposizione tra i due mondi si riflette anche nella contrapposizione dei personaggi—> Signor
Bernstein e Jake con i suoi racconti di sport, sembra voler sovrapporre le regole di un match a
quelle della tradizione dei padri. Le tue tematiche vanno a intrecciarsi ironicamente quando
Bernstein si intromette tra il giovane interlocutore e Jake che tenta in ogni modo di difendere le
usanze del nuovo mondo.

La stessa dinamica di contrapposizione di cui ci è stato fornito un anticipo, trova la propria


realizzazione drammatica in due momenti particolari. E il primo durante la crisi che il protagonista
vive nell'apprendere della morte del padre e nel desiderio irrealizzabile di ritornare bambino nella
casa dei genitori, di interrompere la relazione con Mamie e non andare più a ballare.
Il secondo nello scenario apocalittico di Ellis Island, con l’arrivo dalla Russia della moglie e del
figlio di Yekl/Jake. Tra le reti metalliche e le alte cancellate, i getti potenti delle pompe che lavando
i corpi denudati degli immigrati ne strappavano via l'identità per sostituirla con una nuova e
distorta, l'incontro-scontro tra i due coniugi e il figlio ritrovato si celebra in un “fiedleriano”waiting
for the end. Qui un nuovo e vecchio ebraismo si confrontano divisi da una rete la cui dimensione
è quella dell’oceano. Da un lato c'è Jake ben vestito e perfettamente assimilato, dall'altra parte la
moglie con gli abiti da contadina, l'ampio scialle, la parrucca ben calcata sulla testa, che tiene tra le
braccia una creatura che è l'essenza stessa del displacement.

Tra di loro una conversazione frammentaria, fitta di luoghi comuni, permeata da un senso di
alienazione e diversità che non avrà modo di essere colmato. Il ricongiungimento della famiglia
segna il suo disgregarsi, così come l'arrivo in America ha segnato l'infrangersi di una certa
ortodossia. L’infrangersi del sogno di poter essere diversi, spinge Jake e Mamie a lasciar cadere
ogni illusione e a sentirsi, varcata la soglia ultima dell’assimilazione, perduti in America.

Mario Maffi—> non c’è sentimentalismo, non c’è retorica in Yekl. E soprattutto non vi sono
vincitori, tutti perdono e si perdono, in terra d'America, i vinti come vincitori.

Se Cahan aveva voluto riaffermare la visione dell’America come una terra ricca di possibilità dove
alla fine il sogno si infrange, Ozick prende atto che la Shoah ha provocato un crollo definitivo di
tale visione. In The Shawl non vi è neanche la possibilità di un’utopia iniziale.
Il racconto a inizio con un breve prologo in cui narra, con un linguaggio tra i poeti con il visionario
della dolorosa marcia di Rosa, la protagonista, di suo nipote Stella e della piccola Magda, in un
lager. Le immagini si concentrano intorno a questo pezzo di stoffa magico, da cui la bambina tra il
nutrimento e conforto, che simboleggia la tradizione che viene metaforizza data nell'odore di
mandorle e cannella. È un antidoto provvisorio contro l'ineluttabile dipanarsi della tragedia verso un
esito annunciato, verso una morte atroce contro il reticolato elettrificato, quando abbandona lo
spazio chiuso della baracca per avventurarsi all’aperto.

Rosa, sopravvissuta insieme alla nipote Stella allo sterminio, è ormai da tempo rifugiata in America.
E quest'ultima non ha più i connotati di una terra promessa, bensì appare ai suoi occhi, come un
luogo dominato da un disordine materiale e morale. Per sfuggire a tale condizione rosa è costretta a
ripercorrere a ritroso i movimenti dell'esperienza precedente: dalla luce al buio, dallo spazio aperto
a quello chiuso, dalla libertà alla segregazione. Ella fugge dalla metropoli per trasferirsi in Florida.
La Florida è popolata da ebrei venuti dal Bronx, da Brooklyn, dalla West End Avenure, gusci vuoti
come lei con cui non ha più nulla a che spartire.

Nella sua stanza isolata, rinchiusa fisicamente e mentalmente riesce a evadere e a vivere soltanto
attraverso la scrittura. Scrive lunghe e corrosive lettere a Stella in inglese, in cui lamenta la
propria condizione di esiliata in un luogo che le appare terribile. Scrive anche alla figlia Magda in
un polacco forbito dove la descrive come una leonessa fulva, regina incontrastata del deserto
metafisico che Rosa prima o poi immagina di attraversare per riappropriarsi del proprio passato,
della propria entità.
Parola scritta—> diviene totalizzante, al punto di rescindere il contratto telefonico.
Le uniche uscite di Rosa sono in direzione della hall del condominio in cui vive, per ritirare la
posta o per procurarsi fogli e buste su cui scrivere.
Quando decide di affrontare il mondo esterno, si veste, esce e compie un percorso per raggiungere
la lavanderia automatica che è un onirica riproposizione del viaggio verso il lager con cui il testo si
apre.
L'atto di lavare le lenzuola e vestiti è tutt'altro che è una cerimonia di purificazione. Avvolta dalla
paranoia altrui propria, Rosa si muove come un automa negli spazi sociali attraverso cui viene
condotta, ne è intimidita e sopraffatta.
Rientrando nel suo alloggio, trova la lettera di un certo Dott. James W. Dell’Albero che lavora
presso il Dipartimento di socio patologia clinica dell'Università del Kansas e Iowa, che vuole
intervistarla in quanto superstite della Shoah. Essere studiata in quanto sopravvissuta ai campi di
sterminio suscita in lei uno spirito di rivolta. Rosa esce di nuovo all'esterno, ripercorre lo stesso
percorso urbano e si imbatte in due uomini che fisicamente si stanno amando; fugge sconvolta e,
come la figlia, urta e viene respinta dallo steccato. Tornata in albergo si scaglia verbalmente contro
il direttore dell'albergo (anch’egli ebreo) colpevole di non far nulla per impedire il peccato.
La catarsi di Rosa è compiuta—> la parola recuperata la porta a riallacciare i contatti sociali,
chiede che il proprio apparecchio telefonico venga riattivato, chiama Stella e le manifesta la volontà
di tornare a New York.
Rosa sembra avviarsi verso un’apparente normalità oppure verso un’ennesima diaspora fisica e
intellettuale (finale aperto).

Per Ozick la città è spesso la vera protagonista, come si vede nel racconto The Butterfly and The
Traffic Light. Basti pensare all’incipit: per ben due pagine e mezzo, gli unici personaggi a tutto
tondo che vi compaiono rispondono nomi di città, le più diverse e disparate, in un catalogo che si
muove tra mito e realtà e che termina con la città di Boston la cosiddetta “Gerusalemme
americana”.
L'idea del legame tra Gerusalemme storia riporta all'importante rapporto che esiste tra la storia
intesa come racconto e l’ebraismo. Ma Ozick sembra andare oltre al concetto di città come entità
narrante, presentandola anche quale vero e proprio oggetto di consumo.
Se la città contemporanea è ricca di luoghi di consumo, ora diventa essa stessa “da consumare”,
come afferma Haddock—> viene consumata in quanto il suo patrimonio di edifici, monumenti e
istituzioni viene percepito nella cultura contemporanea come interessante e significativo, tanto che
sempre un maggior numero di persone desidera vederlo e farne esperienza.

Questi scenari cittadini si configurano quindi, come tabelaux vivants che si ribellano alla stasi e, nel
movimento, si fanno rappresentazione antropomorfica della condizione umana.
Questo aspetto lo troviamo anche in I. B. Singer in The Cabalist of East Broadway, dove fin
dall’inizio la città è il main character.
Essa si svela nella descrizione di una East Broadway in cambiamento, È un quartiere che ormai non
è più in prevalenza ebraico, dove al vecchio ordine sì è andato sostituendo una nuova Babilonia di
stranieri.
Il narratore si pone sulle tracce di Joel Yabloner, un vecchio scrittore yiddish cultore della Cabbalà.
Dopo aver descritto le difficoltà che questi deve affrontare a New York (vive in un appartamento
senza bagno, telefono, riscaldamento) la scena si sposta a Tel Aviv, dove i due si rincontrano in ben
altre condizioni. Lo scrittore ha finalmente visto riconosciuto il proprio talento; eppure durante
l'incontro con il narratore tutte le domande del dell'artista vertono sull'America, per essere più
precisi, sulla East Broadway. L'America è così ostinatamente presente in lui da fargli prendere la
decisione, dopo alcuni anni, di farvi ritorno.
E del resto è più volte sottolineato che l'uomo “non vive secondo ragione”, ma sembra muoversi
nella zona liminale tra follia e raziocinio.
Al di là dell'oceano le strade del narratore e quelle dello scrittore tornano a incrociarsi, arrivando a
queste significative conclusioni «a power stronger than man and his calculations has driven him out
of Paradise, back to Hell, I decided. He did not even go to the Friday-night services. He was hostile
not only to people but the Sabbath itself».

Anche in Brother Beetle si nega la possibilità di un luogo idealizzabile. La Tel Aviv in cui è
ambientato è raffigurata come un groviglio di case, un inferno in terra, persino una riproposizione di
Varsavia per le sensazioni che suscita, ma non uno specchio di Gerusalemme o degli altri luoghi
biblici evocati dalla sua immaginazione durante la lettura della Torah, tranne l’Egitto colpito dalle
piaghe.
È un luogo dove l'oblio è impossibile, è piuttosto il lacerante mondo della memoria; la realtà che si
configura dinanzi al narratore e quella di un mondo primordiale, arcaico e privo di ogni
connotazione metropolitana. Ormai anche l'America si va a prospettando, per l’ebreo che vi emigra,
non è così diversa da quello che lascia. Una nuova waste land in cui si è troppo stanchi per poter
continuare a errare. Ogni luogo, con dinamiche diverse, finisce con l'essere una nuova città del
massacro.

Ecco allora che la sconfitta e il perdersi di Cahan, l’inferno di Ozick, il dissolversi del microcosmo
singeriano, divengono, in ultima analisi, rappresentazione del trionfo della realtà sul sogno.
Dunque forse l'unica città possibile a cui ancorarsi (per vivere, per rielaborare per ripartire) è la città
dolente che arde ma non brucia, è l'eterna città di carta.

Potrebbero piacerti anche