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Cap.

2
La considerazione degli ebrei orientali ad occidente era negativa. Venivano chiamati Luftmenschen,
ovvero uomini che vivevano di aria, noti per la loro povertà, per l’uso della lingua yiddish,
considerati antiquati, rozzi e lontani dal mondo occidentalizzato indirizzato verso il progresso.
Rappresentata come restia a ogni innovazione e rinchiusa nel suo mondo puramente ebraico, la
popolazione ebraica orientale aveva ricevuto una formazione talmudica ritenuta inferiore rispetto
a quella ripartita in Occidente. Una revisione netta di queste posizioni viene promossa dal sionismo
di Nathan Birnbaum, che rivendica l’importanza della letteratura jiddish, e che ebbe un influsso
importante su Kafka. Gli Ostjuden, infatti, erano espressione di una vera e propria cultura ebraica,
non sottomessa ai canoni estetici e culturali del mondo occidentale. Il sionismo doveva, dunque,
riconoscere la centralità della cultura ebraica orientale e la sua superiorità a quella occidentale, per
portare a termine un progetto di riunificazione della Nazione popolare ebraica nella sua totalità. La
nuova nazione popolare ebraica avrebbe trovato sua massima espressione nel gergo jiddish, a
lungo disprezzato, per riscoprire la propria autonomia e ottenere l’emancipazione nazionale in
nome di una nuova omogeneità culturale ebraica.
Martin Buber, al contrario, si schierava a favore della lingua ebraica per raggiungere tale scopo.
La cultura popolare jiddish sarebbe stata, quindi, la base su cui erigere l’unità nazionale
dell’ebraismo. I sionisti occidentali avrebbero dovuto prendere atto della superiorità della cultura
degli Ostjuden e rigiudeizzarsi a contatto con una massa di milioni di ebrei che, caso unico nella
lunghissima storia della diaspora, avevano saputo creare con una forza, una vitalità e un
entusiasmo sconosciuti ai nevrotici ebrei di Occidente una comunità che non si reggeva piú su di
una confessione religiosa, ma su valori nazionalpopolari > nuova immagine dell’Ostjudentum che
impressionò molto Kafka. Quello che impressionò di più Kafka era questa immagine di ebraismo
reale, semplice, e quotidiano. Questa interpretazione dell’ebraismo aveva inoltre trovato una
conferma autorevole nel corso di una polemica suscitata da un articolo di Franz Oppenheimer:
-Articolo di Franz Oppenheimer (1910) in Die Welt: definizione della distinzione tra ebrei
occidentali e orientali simile a quella di Birnbaum
1) ebrei occidentali: Stammesjuden – ebrei di origine, ma senza cultura, atrofizzati, individualisti,
assimilati. Perciò la loro identità di ebrei era semplicemente rivolta al passato
2) ebrei orientali: Kulturjuden – ebrei detentori di una cultura ebraica specifica e ancora vitale, che
non hanno perso il contatto con la propria dimensione popolare, ma che possiedono la
Nationalbewusstsein: coscienza nazionale basata sull’unità della lingua jiddish e sui valori popolari
ebraici

ebreo occidentale: principale protagonista della crisi della coscienza culturale e nazionale europea,
che viene travolta dalle forme tecniche e organizzative occidentali fino alla cancellazione dei valori
delle culture nazionali. Deve intraprendere un cammino a ritroso per ricostruire le tappe della
propria coscienza storica frammentata dalla diaspora.
Allo stesso modo, Kafka deve fare lo stesso, trasformando la sua esperienza come ebreo
occidentale di lingua tedesca in espressività letteraria assoluta applicabile all’uomo moderno senza
storia e senza tradizioni. Sfrutta il potenziale metaforico dell’ebraismo, della sua ambivalenza e
contraddizione, per veicolare l’istanza di una universale condizione umana.

Kafka è affascinato dal mondo ebraico-orientale e in particolare da quello di una compagnia


teatrale jiddish di Lemberg. Assiste ai loro spettacoli, che commenta nei suoi diari. È affascinato dal
loro uso della gestualità, dalla compresenza di dramma e ironica, dalla loro spontaneità nel
mostrarsi “ebrei in una forma particolarmente pura” al pubblico, intrattenendo un dialogo fatto di
musica, gesti e teatralità concepita come cordialità, condivisione. Esprimono la gioia di vivere
dell’ebreo orientale che si relaziona con altri ebrei come se si recitasse in famiglia. Naturalezza
dell’ebraismo senza colpe, senza problemi di identità.

Ammira questi ebrei in carne ed ossa, che non hanno bisogno di una controparte cristiana per
riconoscersi o misurarsi. Entusiasmo, abilità comunicativa. Kafka non idealizza il mondo jiddish, ma
è attratto dalla loro vita quotidiana dettata dalla condivisione di tutto, anche in ambienti sporchi,
angusti e soffocanti, colmi di persone e rifiuti. Secondo Baioni da ciò deriva l’interesse di Kafka
nelle sue narrazioni per gli spazi angusti, stretti, bui e dall’aria irrespirabile, come il riferimento alle
pulci in Vor dem Gesetz, che verrebbe dagli ambienti di formazione talmudica, dove vigeva la
sporcizia pur di vivere insieme ogni momento. Morbosa sensibilità per i sordidi spazi abitati
dall’uomo.

*il padre di Kafka paragona Lowy alle pulci, cimici o altri insetti con disprezzo, condannando anche
l’amicizia con Max Brod, che criticava la borghesia assimilata di cui Hermann Kafka faceva parte

Questa scoperta dell'ebraismo come «sistema sanguigno», «organismo» o «contesto animale»


ispira del resto anche il documento più cospicuo dell'incontro di Kafka con gli ebrei orientali. Si
tratta della Rede über die jiddische Sprache (Discorso sulla lingua jiddisch), che lo scrittore tenne il
18 febbraio del 1912 nella sede del Municipio ebraico come introduzione alla recita di addio di
Jizchak Löwy

Discorso sulla lingua jiddisch (Rede über die jüdische Sprache) – 1912 come introduzione alla recita
di addio di Lowy, Kafka invita gli ebrei assimilati della borghesia ebraica praghese a non aver paura
del gergo jiddisch né di ripudiarlo. Kafka definisce lo jiddisch come “legge ad arbitrio”, di cui il
secondo elemento è il più importante. Esso è sia dialetto che lingua di un popolo, che non va
recepito con la razionalità del mondo occidentale ma con il sentimento. Invito a spogliarsi
dell’individualismo dell’assimilazione, a comprendere il gergo per rifugiarsi in una comunità
accogliente e piena di vita. L'ordine e la sicurezza della vita borghese consentono a tutti di capirsi,
quando è necessario, ma anche di ignorarsi, quando comoda, e di realizzare in questo modo quel
paradosso della socialità borghese che consiste nel capirsi proprio quando ci si ignora l'un l'altro. È
evidente che lo scrittore allude qui all'atomismo delle società occidentali ordinate secondo regole
sicure e prevedibili, garanti della privatezza del singolo individuo il quale, educato com'è alla pulizia
formale dei rapporti sociali, non può poi non restare atterrito di fronte a quel caos fantasioso e
imprevedibile che è lo jiddisch. Allo stesso tempo, nei suoi diari difende la sua identità di scrittore
autonomo.

Löwy – disposto a seguire le sue passioni contro la volontà paterna

Impossibilità di conciliare la coscienza ebraica con quella letteraria, mentre Max Brod fa coincidere
le due cose in modo spontaneo e naturale.

Tema che emerge nei suoi diari e nelle sue lettere del 1911-12: inadeguatezza del corpo, che lo
porta a privarsi del matrimonio, della famiglia, della vita della comunità, potendo contare soltanto
sulle proprie forze e non su quelle altrui.

Capitolo 3 – Felice Bauer


Incontro con Felice Bauer – agosto 1912
Nel suo rapporto con lei matura la consapevolezza di essere il più occidentale degli ebrei
occidentali.
Confessare la colpa della letteratura, che lo allontana dalla comunità umana.
Al momento dell’incontro era già lettore della Selbstwehr, conosceva la cultura ebraica e il
sionismo, la questione della colonizzazione della Palestina, ecc. Stava scrivendo der Verschollene (il
disperso).

Felice è a favore del sionismo e del servizio della letteratura all’attivismo sionista.
Cerimonia del fidanzamento vissuta come una costrizione da parte di Kafka
La vita da autore è sia piacere che condanna. Il matrimonio è una possibilità che gli provoca
angoscia e che paragona alla sensazione di sprofondare. Kafka rivela che F è oggetto del suo amore
perché riflesso delle sue colpe, del suo castigo. Le confessa il peccato del piacere della letteratura
che lo assorbe.
La sua storia con Felice è esempio del fallimento di un ebreo occidentale nel suo tentativo di
accedere alla vita della comunità ebraica.

Trattazione da parte dei sionisti del tema della colpa dell’ebreo occidentale, che non garantisce la
continuità della Judenheit con nuove nascite, non unendosi in matrimonio presto e controllando il
numero di figli. Vi è un panora ma di crisi della natalità e dell’integrità della famiglia ebraica in
Occidente, che portava alla dissoluzione della cultura ebraica nelle province e ad una maggiore
assimilazione. (Felix Teilhaber).

Così si scontrano la sua identità di ebreo e di scrittore nell’impossibilità di poter realizzare la sintesi
di letteratura, militanza ebraica e matrimonio che era riuscita a Brod.

Il Kafka nelle lettere a F. Bauer è un Kafka confessionale, autoreferenziale, che riflette sulle sue
colpe e sulla sua condanna a scrivere letteratura, consapevole della propria fragilità fisica e della
propria mancata partecipazione alla vita con gli altri.
Secondo Baioni la colpa di Kafka di essere scrittore spiegherebbe la genesi del Processo come
rappresentazione del mondo che non coincide con la comunità ebraica, ma con quel concetto di
umanità anti-individualistica della generazione sionista contro la cultura dell’estetismo borghese.
Non si capirà la genesi di un romanzo come Il Processo senza ricordare che le lettere a Felice sono
un’unica, monotona, testarda confessione da parte di Kafka della sua colpa di essere scrittore.
Riuscirà a farle capire che non è possibile separare in lui l’uomo che le chiede di sposarlo dall’uomo
che può vivere solo della scrittura?
Kafka tenta di farle capire quanto lui sia diverso dal suo attivo e fertilissimo amico; le si mostra
allora con tutti i mali dell'ebreo della crisi, le parla delle sue emicranie, della sua insonnia, dei suoi
incubi e delle sue depressioni. E se Felice, da buona simpatizzante sionista, sembra credere ad un
modo militante dell'essere scrittori al servizio di una causa ideale, lui immediatamente l'avverte.

-Evento del 22 settembre Kafka scrive di getto il Verdetto che lo fa ripensare la sua promessa a
Felice circa un viaggio a due in Palestina: la sconvolgente esperienza di questa notte, di cui
testimonia la celebre annotazione dei diari del 23 settembre, rappresenta infatti la rivelazione della
vera natura del Kafka scrittore, al modo stesso in cui la lettera del racconto, che giustifica il
verdetto pronunciato dal padre nei confronti del figlio, è la rivelazione del vero significato della
lettera che lo scrittore ha mandato a Felice appena due giorni prima della stesura della prima prosa
compiuta della sua vita: l'uomo che vuole sposare Felice non è lo scrittore che si illude di potere
essere anche sionista e sente per questo il dovere di compiere, con il matrimonio, un atto di
adesione alla causa della comunità, ma è lo scapolo isolato e colpevole che si rende
improvvisamente conto di essere condannato a vivere, nella letteratura e per la letteratura,
l'abiezione della westjüdische Zeit.

È probabile che nessun altro scrittore abbia conosciuto una voglia altrettanto intensa di letteratura,
che in Kafka diventa spesso una vera e propria libidine, con tutta l'oscenità e la vergogna di un vizio
solitario. Certo è che la violenza, addirittura infantile, con cui lo scrittore grida la propria passione
letteraria può essere almeno in parte compresa se si pensa allo scandalo che essa evidentemente
significava: Kafka si presenta con tutte le abiezioni dell'ebreo occidentale, malato, nevrotico,
disperato e soprattutto incapace di amare, cosa che, in una lettera a Brod dell'aprile del 1921,
definirà, con dizione palesemente sionista, «una malattia dell'istinto, un fiore dell'epoca». In quale
misura questa nozione di epoca ebraico-occidentale abbia costituito lo sfondo ideologico e morale
della sua vicenda con Felice Bauer lo dimostra la storia del fidanzamento che fu annunciato sui
quotidiani di Berlino e di Praga il 21 e il 24 aprile del 1914.
In questa occasione cosí formale non ha potuto fare a meno di manifestare, pubblicamente,
quanto ha ripetuto infinite volte a Felice nel segreto delle sue lettere; e dunque ha confessato la
sua colpa o per lo meno è stato arrestato, visto che, nella sua annotazione, scrive di essersi sentito
«legato come un criminale» di fronte alle due famiglie riunite per la cerimonia. Da questo
momento in poi ha inizio in effetti un singolare rito pubblico di espiazione al quale partecipano,
oltre ai due fidanzati, a Max Brod, alla madre di Kafka e alla sorella di Felice, soprattutto due
estranei, scelti dallo scrittore, che reciteranno in questa vicenda una parte importantissima:
1) Ernst Weiss è un ebreo boemo che ha scelto di vivere a Berlino ed è malato quanto basta
per lasciare la medicina a favore della letteratura, della quale ha una concezione molto
libera e spregiudicata, se, come scrive Kafka, «è un nemico di Felice» e cerca con ogni
mezzo, e lo farà anche in seguito, di persuadere lo scrittore che la sua fidanzata è
«detestabile». È evidente che Weiß rappresenta «nell'altro processo» un testimone a difesa
perché è un ebreo occidentale, non è per nulla sionista, difende le ragioni della letteratura
contro quelle di un matrimonio convenzionale e borghese e soprattutto sembra avere
realizzato un sogno che Kafka accarezza da tempo in alternativa al matrimonio: lasciare
Praga, vivere a Berlino come scrittore, prendere, in altre parole, se non la via della completa
assimilazione, certo quella della libera esistenza dell'intellettuale sradicato, da sempre
oggetto degli attacchi della stampa sionista. Weiss è quindi il tipico intellettuale ebreo delle
metropoli, nevrotico, malato, scapolo, eroe esemplare della westjüdische Zeit.
2) Grete Bloch amica di F che sembra rappresentare le ragioni del sionismo. È un fatto che
Kafka nelle sue lettere a Grete riprende e ripete tutti i motivi delle sue lette- re alla
fidanzata, quasi avesse trovato nell'amica una Felice piú sospettosa e più attenta alle sue
rivelazioni. E in effetti, quando le scrive della sua angoscia, della sua nevrastenia e della sua
incapacità di amare e di vivere insieme con gli al- tri e soprattutto dei dubbi che nutre circa
il matrimonio e della colpa che sente verso Felice, trova in Grete Bloch o- recchie pronte ad
intendere e a giudicare. A Grete Bloch può allora confessare, sicuro di essere inteso, le cose
più terribili.

Poco più di un mese dopo il fidanzamento ufficiale, viene citato a giudizio. E Grete Bloch che lo ha
denunciato rivelando a Felice i passi più compromettenti delle sue lettere. Giunto a Berlino per
proseguire il suo viaggio verso il Baltico, dove vuole trascorrere le vacanze insieme con Grete e
Felice, Kafka viene costretto dalla fidanzata ad una spiegazione, che ha luogo il 12 luglio in albergo,
alla presenza di Erna Bauer, la sorella di Felice, di Grete Bloch e di Ernst Weiß. Si tratta senza
dubbio di un processo in piena regola - «Il tribunale in albergo», scriverà Kafka nei diari - durante il
quale, come ha osservato Elias Canetti", furono discussi pubblicamente e alla presenza di estranei i
particolari piú intimi e piú umilianti della loro relazione . Come di- chiarerà a Felice nell'autunno in
una lunghissima lettera scritta mentre sta lavorando al Processo, Kafka ha rinuncia- to a difendersi
perché si è convinto della inutilità di qual- siasi giustificazione. La principale ragione del suo
rassegna to silenzio è stata tuttavia la paura e la ripugnanza che Felice ha pubblicamente mostrato
verso il suo desiderio di vivere solo per la letteratura.

Capitolo 4 – La macchina delle metafore


Poche settimane dopo la rottura con F. Bauer > Periodo molto prolifico che inizia con la scrittura
del Processo e coincide anche con lo scoppio della guerra: una possibile lettura del Processo è
infatti la necessità di giustificare il proprio senso di colpa dinanzi ad una istanza sovranazionale;
esasperazione dell’isolamento e della sensazione di smarrimento.
Questo periodo coincide anche con un progressivo distacco dal sionismo, cammino opposto a
quello di Max Brod Max Brod gli rimprovera la sua insensibilità nella causa ebraica e questo crea
una condizione di scrittore isolato nei confronti di un dovere imposto dal mondo esterno in
maniera unanime.

Kafka inizia a scrivere il processo (agosto 1914 – gennaio 1915) e la colonia penale (in tre giorni,
15-18 ottobre 1914) in questo contesto, consapevole che il suo castigo è la letteratura, in cui si
rifugia, mentre si dichiara in una lettera a Max Brod ‘fallito sia come uomo che como ebreo’.
Scrivere è sia punizione che consolazione, in un momento di crisi mondiale che ha portato al
peggioramento drammatico della questione ebraica. La guerra appare alla stampa sionista come
una guerra santa di liberazione degli ebrei dall’antisemitismo, ma allo stesso tempo porta alla
mobilitazione in territorio austriaco a favore della monarchia asburgica assimilante per fare fronte
comune contro la Russia dei pogrom.
Kafka infatti si sente colpevole di non essere al fronte come molti intellettuali praghesi, anche
sionisti. Ciò che gli impedisce di seguirli - cosí osserva nei diari il 13 settembre - sono considerazioni
molto simili a quelle che lo hanno letteralmente divorato nel corso della sua relazione con Felice.
Se si ricorda che il dovere di difendere la propria indipendenza di scrittore è stata, almeno
soggettivamente, la principale ragione del suo disgraziatissimo rapporto con la fidanzata, non sarà
illecito concludere che Kafka non sa decidersi a presentarsi come volontario soprattutto perché,
come lui stesso dichiara, non vuole in nessun modo farsi strappare il sostegno della scrittura
ritrovato dopo due anni di quasi completa sterilità.
Che senso ha allora questo dissennato bisogno di scrivere che lo rende colpevole sia come suddito
austriaco, sia come ebreo, sia infine come uomo? Che cosa significa la letteratura per la quale deve
pagare un prezzo cosí alto? È questo l'interrogativo che assilla lo scrittore nei primi mesi del
conflitto mondiale e questo è anche, a ben guardare, il tema del Processo e della Colonia penale.
Secondo Baioni la colpa di Josef K. È la letteratura, rappresenterebbe il tentativo di Kafka di
rappresentare e giustificare la sua condizione di scrittore.

La colonia penale: scrittura tar 15 e 18 ottobre del 1915, nel bel mezzo della scrittura del Processo.
In questo periodo Kafka pensava al suicidio, ed è anche la circostanza in cui Kafka riceve una lettera
da Grete Bloch per tentare una riconciliazione con Felice.
Parla di un capitano che amministra la macchina costruita dal vecchio comandante, morendo nella
valle deserta trafitto da essa senza aver ottenuto alcuna redenzione > metafora del suicidio
compiuto per letteratura, in un periodo in cui Kafka stava pensando al suicidio. Necessità di Kafka
di legittimare il proprio isolamento, la propria vocazione letteraria che lo rende colpevole.
-Metafora dell’esistenza letteraria vissuta come castigo ed espiazione delle colpe il congegno
descritto nel racconto è una macchina per scrivere che uccide per mezzo della scrittura sul corpo
umano per lunghe ore: così come il capitano lavora sulla macchina, l’autore ha a che fare con
l’opera che ne causa la morte. L’opera è quindi una metafora dell’esistenza letteraria di Kafka, in
quanto la macchina della colonia penale = funzione mortale della letteratura. Rituale della morte,
della scrittura a cui assistono le persone (dimensione catartica? Legittimazione della funzione
sociale dello scrittore?).
Influenza di scrittura: Le jardin des supplices (1898), di Octave Mirbeau, che è un romanzo dalle
immagini sadomasochistiche.
Mirbeau aveva descritto un mirabolante giardino d'Oriente all'interno di un penitenziario, nel
quale una moltitudine di prigionieri viene torturata a morte da un sapientissimo carnefice che
esercita la sua arte con fantasia inesauribile per la felicità delle belle visitatrici che assistono
estasiate alle esecuzioni. La tesi, piú volte dichiarata, del romanzo era che l'Europa umanitaria e
civilizzata organizzava nelle sue prigioni, in modo del tutto indolore, delle pratiche, ma banalissime
esecuzioni senza genio e bellezza. L'Oriente invece sapeva ancora uccidere lentamente e in
maniera personale secondo bellissimi riti che facevano di ogni supplizio una vera opera d'arte.
L'elemento veramente determinante che Kafka ha preso dallo scrittore francese e la
contrapposizione tra una cultura estetica del passato ed una cultura utilitaristica del presente che
nel suo racconto si traduce nella contrapposizione tra la legge del vecchio comandante, inventore
della macchina, e quella del nuovo comandante del bagno penale che ha proibito l'esecuzione per
mezzo della tortura. Costruita sull'opposizione tra passato e presente, tra la vecchia e la nuova
legge, La colonia penale rappresenta infatti una sorta di quadro storico nel quale Kafka descrive il
proprio ideale della letteratura come processo di conoscenza nei modi di un rito che appartiene a
un passato forse irrecuperabile. Cosí, quando racconta con tanta minuzia e con un piacere cosí
illuminato il funzionamento della macchina, sicuramente esprime, come scriveva al suo editore, gli
orrori di quella terribile epoca che è per lui la westjüdische Zeit; ma nella figura del capitano e nel
suo amore per la macchina ci dà poi la rappresentazione, ironica e desolata ad un tempo, della sua
inattualità di scrittore ancora legato alla fede in una letteratura come martirio della conoscenza.

-La macchina, dopo essere stata messa al bando (la funzione sociale della letteratura è venuta
meno), viene sperimentata dal capitano su se stesso con il disegno del comandamento morale ‘sii
giusto’ concezione punitiva della letteratura come una macchina della tortura (sadomasochismo
della tradizione cultura borghese di Karl Stauffer-Bern, Flaubert) le altre due influenze nel
processo di scrittura della C.P.
1) Biografia Karl Stauffer-Bern (artista morto pazzo) Kafka, leggendola nel 1911, riconosceva se
stesso in questo particolare tipo di artista, visto che molte annotazioni dei suoi diari - e spesso
delle più disperate - hanno qui dei precedenti e dei modelli puntuali. Cosí, si ritroveranno nelle
lettere di Stauffer-Bern, uno dopo l'altro, alcuni ricorrenti motivi dei diari e delle lettere di Kafka, Il
tema, per esempio, del dovere assoluto della produttività che deve fare i conti con la debolezza del
corpo e con la fragilità dei nervi, incapaci di servire da strumento all'empito creatore; quello della
creazione umiliata in quell'inferno di terribili banalità che è la vita quotidiana con le sue quotidiane
catastrofi; quello ancora della vita nell'arte come sconsolata solitudine che ha il suo unico premio
nel piacere indicibile del produrre. E abbastanza probabile che la figura del pittore Titorelli - un
personaggio del Processo che sino ad ora non ha avuto una convincente interpretazione da parte
della critica - sia stata ispirata dalle lettere di Stauffer-Bern che tra i motivi prediletti dei pittori di
genere ricorda proprio quei paesaggi piatti, al tramonto, dipinti da Titorelli". Se a ciò si aggiunge
che Stauffer-Bern lamentava di essersi dovuto specializzare nel ritratto" e che Titorelli è anche il piú
noto ritrattista dei giudici del tribunale, non è forse illecito concludere che Kafka vede nel suo
pittore l'immagine dell'artista che si è venduto all'apparato e ne è diventato il rappresentante.
2) Flaubert Kafka ha certamente tratto dal narratore francese l'idea della letteratura come ascesi
della produzione o come lotta quotidiana contro le difficoltà della scrittura o come eremitaggio
penitenziale nel quale lo scrittore cerca la felicità nell'infelicità e si isola completamente dal mondo
per nutrire la letteratura con tutto quanto sottrae alla propria vita. Flaubert è il suo padre
“spirituale”, come spesso dirà a Felice.

La dimensione della colpa e della tortura sembra secondo Baioni raggiungere anche il lettore, che
viene posto dinanzi a una sfida di comprensione del testo, d’interpretazione che va oltre la
semplice lettura. Il capovolgimento dell’unicità delle rappresentazioni della realtà aspira a suscitare
nel lettore un senso di colpa, vietandogli una libera fruizione del testo. Il lettore, alla pari di J.K., si
chiede quale sia la sua colpa, chiedendosi perché non capisce un testo formalmente lineare ma di
difficile interpretazione. Sembra mettere in evidenza più le sue interpretazioni che il testo stesso,
diventando una ‘macchina di metafore’ molto produttiva e infinita. Ogni interpretazione dà vita a
un’altra.
La tautologia della retorica kafkiana risiede nel suo essere intraducibile in un sistema di valori
determinato diverso da quello della sua presenza formale. Kafka oppone la bellezza estetica della
similitudine, fruibile solamente nel momento in cui si oppone nei confronti dell’utile e del vero: la
similitudine è incomprensibile ed inutilizzabile.

La funzione della parabola nel Processo


-Stretta relazione con il mondo chassidico, col medioevo ebraico, come se Kafka scrivesse un pezzo
di Hagaddàh al fine di legittimare all’imputato, con l’interpretazione della similitudine, la sua
condanna a morte Con la parabola Vor dem Gesetz (Davanti alla Legge) del nono capitolo del
Processo aveva infatti utilizzato il genere della Haggadah per dare una similitudine della storia di
Josef K. Le ragioni che possono averlo indotto a fare di questa leggenda la chiave di volta dell'intero
romanzo sono, certo, molteplici.
-Collocata da Kafka nella scena della cattedrale, che riprende e ripete, per una metafora alla
seconda potenza, la scena iniziale dell'arresto, la similitudine del campagnolo rappresenta innanzi
tutto uno scarto stilistico evidentissimo che isola nel quadro realistico del romanzo, ambientato
nell'attualità di una città mitteleuropea, un momento favoloso, lirico, leggendario e che per di piú
evoca il passato di un esotico mondo orientale nel quale non è difficile riconoscere quel medioevo
ebraico che era il mondo chassidico. A ciò si aggiunge che la leggenda, della quale il cappellano
ricorda che fa parte degli scritti introduttivi della Legge, rappresenta non solo la storia e la
tradizione del tribunale, ma anche, a ben guardare, la sua letteratura.
-L’avvocato Huld sarebbe secondo Baioni uno zaddik, cioè il taumaturgo chassidico, che nella
tradizione ebraico-orientale funge da intermediario tra fedeli in attesa di grazia e il tribunale del
mondo divino. Ciò vuol dire che Kafka ricorre al genere della Haggadah proprio nel momento in cui
Josef K., respinta la mediazione dello zaddik, si è rifiutato di entrare nel mondo della Legge e di
seguire in questo modo l'esempio del commerciante Block, l'imputato esemplare, che è uscito dal
mondo borghese per dedicarsi giorno e notte, nella sua celletta in casa dell'avvocato, allo studio
dei codici del tribunale.
J.K. rappresenterebbe l’ebreo assimilato, incapace di comprendere la parabola della Hagaddàh, al
contrario di Block, che sotto la guida dello zaddik è tornato a far parte della comunità chassidica e
a
comprenderne gli insegnamenti.
- funzione estetica di restituire ordine al caos del tribunale nella forma della parabola  Nel
romanzo il tribunale è una accolita di giudici corrotti e puttanieri, un confuso insieme di leggi
oscene, di riti disumani e di umilianti gerarchie di cui i sor- didi rifiuti che riempiono le sue dimore
sono il segno visibile; nella leggenda si trasforma nella maestosa teoria dei guardiani che, di porta
in porta, segnano la via verso la Legge e costruiscono, in una progressione geometrica di
grandezze, l'armonia di un edificio monumentale al centro del quale è custodito il fuoco della
verità. Solo nella forma della parabola, dunque, il tribunale ha un ordine e una prospettiva e solo
nella forma della parabola la sua organizzazione rappresenta un punto di transito, disegna uno
spazio, traccia con certezza il cammino dell'uomo che abbia chiesto di entrare nella casa della
verità.
- similitudine di come, volendo osservare il tribunale dall’esterno, ci si inganna sul suo conto  è
una prospettiva <rappresentata», una bella forma bidimensionale che, come accade con la figura
del guardiano oggetto dell'attenzione del campagnolo, può essere solo analizzata e contemplata,
ma in nessun caso può rappresentare un punto di transito in direzione della verità. Lo conferma
l'intenzione narrativa immediata che giustifica la comunicazione della leggenda all'imputato
proprio nel momento in cui questi spera che il cappellano gli dica almeno «come si possa vivere al
di fuori del Processo>>.
- immagine di chi vive ‘al di fuori’ del processo, in solitudine ma in completa libertà > riferimento
autobiografico Se si ricorda il contesto umano, morale e ideologico in cui è sorto Il processo, è
inevitabile pensare che Kafka abbia voluto rappresentare nel romanzo la propria storia interiore
negli anni che vanno dal suo incontro con gli ebrei orientali alla catastrofe del fidanzamento e
all'accettazione, infine, della solitudine della scrittura come unica arma della sua ribellione al
giudizio del mondo. Certo è che l'intrecciarsi del motivo di Fräulein Bürstner, che allude
scopertamente a Felice Bauer, al motivo della banca, che riflette manifestamente la burocrazia
borghese di cui lo scrittore era funzionario, e infine a quello dell'avvocato, che ha molto chiari
attributi chassidici, dimostra che l'intenzione di Kafka era di costruire nel romanzo una similitudine
della propria esistenza.

-Il momento in cui J.K. si distanzia da Huld rappresenterebbe il distanziamento di Kafka dalla
comunità, il suo ritiro nella solitudine di scrittore, illudendosi di poter vivere ‘al di fuori del
processo’ e quindi nella letteratura.
-Condanna a morte di J.K.  condanna a morte dello scrittore: l'esecuzione di Josef K. può essere
letta anche come la condanna a morte dello scrittore. L'uomo che viene condotto dai due carnefici
nella cava di pietra abbandonata al margine della città non è più l'insignificante scapolo della scena
dell'arresto, ma un uomo che nel corso del processo è cresciuto enormemente di statura, è
diventato un imputato di eccezione, l'avversario piú temibile del tribunale, l'unico che abbia avuto
il coraggio di tenergli testa e l'unico al quale il tribunale abbia comunicato direttamente il
messaggio della leggenda

-Forma ordinata e armonica della parabola vs caos del processo > forma ordinata della letteratura
vs caos della vita: Potenziale legame dell’inspiegabilità ma necessità del processo istituito dal
tribunale su JK con la Toràh, la cui vera essenza è avvolta dal mistero, sconosciuta, oscura, ma allo
stesso tempo legittima e necessaria.
-Oltre alla Toràh si può leggere il legame con Nietzsche: la sua influenza è negativa in quanto era
convinto che similitudini e metafore privavano l’arte e la letteratura dal rapporto con il significato.
tutto era figura, superficie, parete continua e invalicabile della rappresentazione e tutto era anche
strumento, apparato, sistema chiuso e impenetrabile delle forme della comunicazione, la
menzogna, come aveva concluso il protagonista del Processo, diventava «l'ordine del mondo» e la
letteratura semplicemente un congegno di tortura e di morte.
- Se Il processo è davvero un romanzo disperato, lo è solo perché Kafka crede fermamente
nell'esistenza della verità, ma si ritiene anche colpevole e colpevole in maniera irrimediabile - di
avere trasformato la verità in una immagine, per giustificare poi, con la bellezza dell'immagine, il
suo rifiuto di vivere secondo giustizia.
Che questa sia una interpretazione legittima del Processo o almeno di quello che Il processo
significava per il suo autore nel momento in cui lo ha scritto, lo dimostra la lettera a Max Brod, del
novembre 1917, nella quale Kafka cita le ultime parole del suo romanzo: «Era come se la vergogna
dovesse sopravvivergli» come la naturale, giusta, inevitabile conclusione di una esistenza nella
quale egli, a causa della letteratura, era clamorosamente fallito nella professione, nella famiglia,
nella società, nell'amore e, infine, nel suo impegno di sionista e di ebreo.

-JK e campagnolo adottano lo stesso punto di vista: entrambi sono esteti, narcisi della letteratura,
consumano il tempo a contemplare (campagnolo che contempla l’edificio, il portone della legge)
Ora la lettera a Brod - concepita proprio quando Kafka, interpreta la tubercolosi che l'ha colpito
nell'agosto come una occasione insperata di trovare finalmente una giustificazione morale alla sua
vita di scrittore - rappresenta una condanna molto esplicita della sterile e narcisistica esistenza
letteraria rappresentata nella storia di Josef K. Nell'esecuzione del procuratore- questo fa capire la
sua lettera - Kafka ha soprattutto inteso punire se stesso per avere trasformato la vita in una
immagine della letteratura. Con i suoi interessi ebraici, con i suoi tentativi di matrimonio l'uomo
dell'esistenza letteraria ha finto di volere entrare nella Legge, ma si è poi arrestato, come il
campagnolo della parabola, davanti alla sua porta consumando il tempo della vita nel piacere di
contemplarne l'edificio e la forma esteriore. La colpa di Josef K. consiste allora nell'avere occupato
rispetto al tribunale lo stesso punto di osservazione dell'uomo della parabola; il quale, si ricordi,
non si è genericamente fermato davanti alla Legge, ma davanti all'unica porta della Legge che era
la sua porta, cosí come è stato respinto dall'unico guardiano che era il suo guardiano. Ciò vuol dire
forse che il campagnolo è l'esteta, il Narciso della letteratura: egli ha dissipato la propria vita
contemplando se stesso, scrutando e analizzando se stesso e soprattutto dimenticando - come
prova un frammento del 1917 di avere provocato volutamente la proibizione del guardiano per
giustificare il suo rifiuto di entrare nella casa della verità

Esecuzione di JK  esecuzione dell’uomo della letteratura, che non si rassegna e non cede alla
possibilità di procurarsi la morte da solo. Kafka, come si è visto, rappresenta nell'ultima scena del
Processo l'esecuzione dell'uomo della letteratura. Ma indica anche, proprio in quel senso di
vergogna che va oltre la punizione dell'animale letterario, l'orgoglio dello scrittore che non si
rassegna a cedere la propria letteratura al potere dell'apparato. Il rifiuto di Josef K. di prendere il
coltello dei suoi carnefici per darsi la morte con le sue mani fa capire che Il processo è ben lontano
dall'essere l'allucinata fantasia di un morboso senso di colpa. L'incredibile vitalità del romanzo è
piuttosto nella ribellione di uno scrittore grandissimo nei confronti di un mondo in cui la letteratura
si è trasformata in una macchina e in uno strumento di morte.

La metafora di Kafka non è positiva, non conduce a nessuna verità assoluta, può essere solo
un’allusione ad una verità inaccessibile. Vige l’imperativo di distruggere la letteratura, ricorrendo
all’interpretazione talmudica, alla creazione di una forma nuova per negare l’autonomia dell’arte
professata dalla cultura dell’assimilazione. Dialettica della costruzione del testo e della sua
distruzione per mezzo dell’interpretazione.
Capitolo 5 – sionismo e letteratura. Il viaggio del medico condotto

-A partire dall’inverno 1911-12, Kafka prese distanze dal movimento sionista ragione di attrito
tra Kafka e Brod (e Selbstwehr) era soprattutto che Brod era fautore del cultursionismo Buberiano,
adottava cioè la concezione di ‘arte ebraica’ di Buber, secondo cui essa coincideva con la
rappresentazione dello spirito ebraico. Esso trova la sua forma espressiva d’affermazione nell’arte,
che deve assumere caratteri rappresentativi della comunità ebraica Se gli ebrei erano un popolo
allora doveva esistere anche uno spirito del popolo ebraico e a questo spirito dovevano
necessariamente corrispondere un’arte e una cultura ebraiche che fossero l’espressione
caratteristica del popolo. Questa era la linea culturale della Selbstwehr e dell’attività pubblicistica
di Brod.

-Si crea dibattito ideologico sul ruolo dell’artista ebreo di lingua tedesca alcuni critici assumono
come invece di trasformarsi in una caricatura del tedesco annullando la propria identità in una
cultura come quella tedesca, che non avrebbe mai potuto essere la sua cultura, l’ebreo moderno
aveva il dovere di ritrovare se stesso e di esprimere, sia pure in lingua tedesca, il genio del suo
popolo.
Alcuni sionisti, tra cui Sombart e Goldstein, giustificavano l’antisemitismo tedesco a monte
dell’eccessiva assimilazione degli ebrei alla cultura tedesca, causando l’indebolimento della
comunità ebraica, incapace quindi di guarire dalla diaspora.
-Tesi di Sombart la situazione di promiscuità in cui vivevano ebrei e tedeschi rappresentava il più
grave pericolo per la purezza delle due razze e delle due culture; era perciò indispensabile liberare
lo spirito tedesco dal mortale abbraccio dello spirito ebraico per la salvezza non solo della cultura
tedesca, ma anche di quella ebraica; solo rifiutando l'assimilazione quest'ultima sarebbe potuta
guarire dal morbo della diaspora, giustificazione di tanto antisemitismo, ed esprimere finalmente,
nel modo più puro, la spiritualità di una delle razze più preziose per la cultura europea.
L'incredibile proposta di Sombart di istituire per gli ebrei una sorta di apartheid culturale sollevò,
un enorme scalpore presso gli ebrei tedeschi e provocò le vivaci reazioni della stampa liberale"; ma
fu accolta con entusiasmo dalla «Selbstwehr» che la considerava una conferma autorevolissima
della propria linea culturale
-Goldstein Le idee di Goldstein meritano una certa attenzione, non solo perché diedero origine
ad una polemica che impegnò negli anni seguenti sia il movimento sionista sia il fronte della destra
antisemita, ma anche perché costituiscono l'immediato sfondo ideologico di alcune importanti
dichiarazioni che Kafka ha fatto, nei suoi diari e nelle sue lettere, circa la sua posizione di scrittore
di lingua tedesca. Attaccando gli antisemiti, ma soprattutto gli intellettuali assimilati che negavano
ogni diversità dell'ebreo «facendosi fotografare sotto l'albero di Natale», Goldstein dichiarava
l'antisemitismo dei tedeschi pienamente giustificato dalla mancanza di carattere di questi
intellettuali di origine ebraica che nelle riviste, nei giornali, nei teatri, nelle case editrici e nelle piú
importanti istituzioni scientifiche avevano ormai occupato tutte le posizioni chiave della vita
culturale e controllavano quindi largamente la formazione della pubblica opinione. «Noi ebrei -
scriveva Goldstein con una proposizione che, come vedremo, sarà ripresa pari pari da Kafka-
amministriamo il patrimonio spirituale di un popolo che ci nega le capacità e il diritto di farlo»". I
veri nemici della rinascenza della cultura ebraica non erano, quindi, gli antisemiti tedeschi, ma
quegli ebrei che, continuando indefessi a produrre cultura tedesca, soocavano sul nascere lo
sviluppo di una cultura nazionale ebraica e impedivano in questo modo ai veri ebrei di misurarsi da
pari a pari con la cultura nazionale dei tedeschi.
Nei suoi diari Kafka annota che, pur essendo di madrelingua tedesca, ha un rapporto con esso non
spontaneo al contrario di quello col ceco, perché non è cresciuto circondato da tedeschi a Praga. Il
tedesco lo isolava come scrittore a Praga, dove invece la letteratura jiddisch fungeva da collante
per una comunità che rivendicava il suo diritto di emancipazione in quanto ebrei contro l’egemonia
culturale delle letterature maggiori. Lo jiddisch appartiene alle letterature minori, rappresenta e
difende le esigenze di una comunità, ne amplifica la voce, scrive per lei ed è costretto a difendersi
dal mondo esterno. Una letteratura minore non può tollerare Kafka, perché i suoi temi e le sue
caratteristiche di omogeneità e rappresentatività collettiva sarebbero delle imposizioni inaccettabili
per l’autore praghese. Kafka è troppo isolato, solitario ed eccezionale per la letteratura jiddisch.
Il tedesco è una lingua non strumento della collettività, imparziale, universale, è la lingua dei grandi
scrittori come Goethe, che non scrive con le stesse intenzioni della letteratura minore.
 Lo dimostra quanto scrive nei diari il 6 ottobre 1911 a proposito della letteratura jiddisch che
considera, come andava sostenendo da tempo anche Nathan Birnbaum, appunto una letteratura
nazionale. Nemmeno la letteratura ceca - osserva a questo proposito - ha avuto una funzione cosí
continua e cosí coerente di difesa dell'identità di un popolo come la letteratura jiddisch. Solo che il
suo interesse per la letteratura jiddisch, che assimila alla letteratura ceca come espressione della
cultura di un piccolo popolo in lotta contro l'egemonia culturale delle letterature maggiori, è de-
terminato dalla consapevolezza di essere, proprio in quanto scrittore isolato e di eccezione, parte
della grande letteratura tedesca. Ciò che più stupisce nella lunga annotazione dei diari del 25
dicembre, con la quale, due mesi più tardi, riprende in maniera sistematica il problema delle
letterature minori, è infatti l'affermazione che la letteratura di un popolo, costretto a difendersi da
influssi culturali esterni, non tollera la presenza di un grande scrittore.
Per questo una letteratura minore predilige i piccoli temi, è ancorata al quotidiano e alla realtà
politica, è, nella sua qualità, media, omogenea, uniforme e piú di ogni altra cosa teme il talento e la
grande opera che fanno il vuoto intorno a sé, creano lacerazioni e lacune, mettono in una parola in
pericolo quella funzione di sintesi delle forze positive della nazione che costituisce appunto la
caratteristica principale della letteratura di un piccolo popolo. E abbastanza evidente che Kafka,
mentre definisce le qualità e le caratteristiche delle letterature minori, ha in mente soprattutto un
concetto che riprenderà poi nel suo discorso sulla lingua jiddisch: una letteratura minore
appartiene alla nazione, tutti i suoi scrittori fanno parte, con pari diritti, della sua storia, scritta,
senza la mediazione degli storici, direttamente dal popolo che nella letteratura riconosce se stesso
ed è pronto a difenderla indipendentemente dalle sue qualità (T 208). Una letteratura minore,
dunque, è proprietà del popolo, allo stesso modo in cui lo jiddisch è patrimonio popolare della
nazione ebraica, proprio perché il popolo - come aveva detto nel suo discorso per Jizchak Löwy -
«non lo lascia in mano ai grammatici». Nel concetto di letteratura minore Kafka individua cosí
quell'unità sostanziale di popolo e letteratura che era il fondamento del romanticismo sionista. Lo
scrittore «nazionale», l'autore di una letteratura minore, non vive per se medesimo ma per il
popolo, non scrive in una sua lingua personale ma nella lingua del popolo. Egli non può essere,
quindi, uno scrittore isolato, solitario, eccezionale o deviante, in una parola non può essere un
Kafka.
Il tedesco è insomma per lui una lingua dell’assimilazione nella misura in cui non è la lingua della
comunità o della nazione, ma lo strumento astratto e imparziale di una espressione letteraria
assoluta.

Una soluzione al problema degli ebrei tedeschi viene proposta da Lemm in ‘Wir die Deutschjuden’
e ripresa dalla Selbstwehr: scissione culturale e nazionale > emigrazione di massa in Palestina > la
letteratura ebraica tedesca non è letteratura tedesca  La tesi dell'articolo, sulla quale sarà
necessario ritornare a proposito dell'atteggiamento di Kafka nei confronti della letteratura della
westjüdische Zeit, era che il tedesco parlato e scritto dagli ebrei aveva, nonostante l'assimilazione,
un resto ineliminabile di ebraismo. Come già aveva sostenuto Kafka nel suo Discorso sulla lingua
jiddisch, Lemm scriveva che gli ebrei avevano semplicemente tradotto il gergo in tedesco dando
vita all'ibrido di una lingua nuova che era una simbiosi o una contaminazione di tedesco e di
jiddisch, senza essere piú né tedesco né jiddisch. Per questa ragione gli ebrei tedeschi non avevano
il diritto di dire «noi tedeschi>>, ma sempre e soltanto, come voleva il titolo dell'articolo, <<noi
ebrei tedeschi»

Max Brod critica nell’articolo “I superbi” nella Selbstwehr l’ebreo isolato non sionista, che non
abbraccia la causa della nazione ebraica e non è partecipe delle sue istanze, accusandoli di
egoismo e superbia. Nei primi decenni del 900 ‘Literat’ era per i sionisti la denominazione di quegli
autori ebrei assimilati alla cultura tedesca che non partecipavano alla causa ebraica ed erano
eccessivamente isolati, considerati egoisti, superbi, esteti, senza legami col popolo. Allo stesso
modo, il termine veniva usato dai nazionalisti antisemiti per condannare l’individualismo
compiaciuto.

Max Brod trova allora una rappresentazione delle sue intenzioni nella rivista Der Jude – rivista
mensile attiva dal 1916 al 1928 fondata da Martin Buber per creare un organo letterario esclusivo e
separato di cultura ebraica.
Brod Però si spinge addirittura oltre Buber e il suo programma prevedeva, come scrive in una
lettera, a Buber nel 1917, una “progressiva giudaizzazione degli intellettuali ebrei”. Secondo Brod
poi, era indispensabile fare degli scrittori tedeschi di origine ebraica dei veri e propri strumenti
della lotta sionista esercitando apertamente nei loro confronti la provocazione e la violenza
ideologica. Come scriveva ancora a Buber, era necessario andare oltre le inutili professioni di
fedeltà all'ebraismo per passare alla prassi dell'azione politica che chiamava <<la terza fase del
sionismo»: tutti gli intellettuali ebrei avrebbero dovuto impegnarsi attivamente in un'opera di
riforma di tutti gli aspetti della vita degli ebrei tedeschi, dalle scuole al movimento giovanile,
dall'igiene alla scelta della professione, dalla letteratura all'educazione sessuale.

-Atteggiamento ambivalente di K nei confronti del sionismo dell’amico, che guardava con
ammirazione e terrore, respingendone le posizioni e facendone uno strumento di autocondanna.

-Necessità di sintesi secondo Brod tra ebrei occidentali e orientali, religione come principio unitivo,
patrimonio culturale della comunità ebraica; Ideale nazionalreligioso dell’ebraismo resoconto
che la «Selbstwehr» diede della discussione seguita alla conferenza che Brod tenne il 24 marzo sul
tema “Religione e nazione". Secondo Brod, che riprendeva i concetti del suo intervento
precedente, era necessario realizzare una sintesi tra l'idea nazionale ebraica, condannata dal
radicalismo chassidico, e la tradizione religiosa degli Ostjuden, respinta dai sionisti, considerando la
religione il patrimonio culturale più prezioso del popolo ebraico, In questa idea laica e
nazionalistica della religione si attuava, a detta di Brod, quella unione di studio della Scrittura e di
spirito comunitario che, oltre ad essere lo specifico ebraico per antonomasia, rappresentava anche
il principio fondamentale di una possibile rigenerazione della cultura moderna.
-E se Max Brod cerca di conciliare i due ebraismi con le astrazioni del suo sionismo mistico e filoso-
fico, la presenza dell'ebreo occidentale che si è assimilato ai chassidim gli ricorda che in un
frammento del Processo aveva sognato di spogliarsi degli abiti dell'assimilazione, per indossare
«un vestito nuovo, lungo e di colore scuro» che è certo quel caffettano che ora lo turba cosí
profondamente. Cosí, come nel Processo la metamorfosi dell'ebreo occidentale in chassid restava il
sogno di un uomo condannato ad essere ucciso senza avere conosciuto la Legge, anche nella realtà
il fascino che su di lui esercitano ora la spontaneità e la naturalezza di «questa vita ebraica», è
legato ad immagini di colpa e di punizione.

-Il 14 settembre del 1914 Visita al Rabbi di Grodek di Kafka accompagnato da Max Brod nel 1915
Vede nel rabbi una figura paterna, come annota nei diari, ma suscita anche scetticismo, curiosità,
entusiasmo Kafka sogna il ritorno all'ebraismo come un ritorno all'infanzia e vede nel Rabbi il
padre sognato nell'infanzia: Kafka è ancora diviso tra due mondi da una parte c’è un mondo
misterioso, confuso, caotico, nel quale sogna di ritrovare l’amore e il perdono del padre. Dall’altra il
mondo altrettanto misterioso, ma chiaro, preciso e ordinato della sua letteratura, che lo isola non
solo dal padre e dagli ebrei, ma anche da tutto il consorzio degli esseri umani.

-Tra le opere che precedono la malattia del 1917 una delle più significative è sicuramente Ein
Landarzt – 1917 > ispirato a letture chassidiche, tratta il tema del destino dello scrittore nella
westjudische Zeit, centralità dell’ebraismo nel mondo in cui si consuma il dramma  È un racconto
che è molto simile al Verdetto nel genere della sua ispirazione e che, al pari del Verdetto, ha avuto
per Kafka l'importanza di una vera e propria rivelazione, tanto da dare il titolo all'omonimo volume
di prose pubblicato nel 1919. La ragione della sua importanza è che riprende il tema del destino
dello scrittore nella westjüdische Zeit già trattato nella Colonia penale. Solo che lo riprende, ora, in
modo molto diverso. La sua fonte principale non è più un romanzo della cultura dell'assimilazione,
come era Le jardin des supplices di Octave Mirbeau, ma una raccolta di leggende chassidiche che
Kafka aveva letto nel 1916. Ciò vuol dire che il problema della letteratura è ora determinato in
maniera pressoché esclusiva dall'ebraismo.
Un medico condotto è uno di quei racconti nei quali Kafka cifra nella forma di una parabola o di una
similitudine una condizione storica dell'uomo o della cultura del suo tempo che è del tutto
incapace di esprimere altrimenti in termini concettuali. Lo stato storico della sua società o della sua
generazione diventa per lui istintivamente una sorta di pantomima o di mimesi per similitudini; e la
forza fisica della metafora lo trascina in una invenzione fantastica che, se ha sempre presenti certi
dati poetologici o speculativi, gode poi, sopra ogni cosa, il corpo vivo dell'immagine fondendo
insieme il momento onirico e quello concettuale. Ne viene un testo che è inquietante proprio
perché è un ibrido, un qualcosa che sembra porsi come un'opera di pura fantasia, ma costringe al
tempo stesso il lettore a chiedersi che cosa significhi. Questa specie di testo, letterario se mai ve ne
furono, ha tuttavia origine, nella maggioranza dei casi, da un momento diciamo pure esistenziale,
che acquista via via per Kafka la capacità di proiettarsi oltre la propria immediatezza per esprimere
poi uno stato dell'uomo o della cultura del suo tempo.
-è costante il motivo del viaggio che si affida a energie sconosciute o del viaggio che non ha meta o
che conduce alla solitudine e alla desolazione. Il viaggio in questo romanzo infatti rappresenta
l’ingannevole richiamo che illude di essere, come scrittore, il redentore del mondo, che infatti
lascia la propria casa affidandosi a forze incontrollabili e sconosciute.

CAPITOLO 6

Beim Bau der chinesischen Mauer (La costruzione della Muraglia Cinese) gruppo di prose
composte nel 1917, comprendono: Ein altes Blatt (Una vecchia pagina), Der Schlag ans Hoftor (Il
colpo al portone), e appunto La costruzione della Muraglia Cinese. In queste Kafka considera il
proprio ruolo di scrittore e di ebreo della crisi nei confronti del popolo e della tradizione.
Si è già visto ampiamente che il termine chiave del cultursionismo praghese era la tradizione da
restaurare o da riscoprire: solo ritrovando quella unità organica di Legge, autorità, popolo,
religione, lingua e cultura, che pareva essersi realizzata nello Ostjudentum, l'ebraismo occidentale
poteva sperare di guarire dai terribili mali dell'assimilazione. Le prose kafkiane di cui sopra
rientrano in questo fenomeno di cultura. Solo che Kafka intuisce che la tragicità della westjüdische
Zeit non era dovuta alla mancanza di una tradizione, ma all'impossibilità di una qualsiasi tradizione.
Nel mondo degli apparati burocratici e delle strutture anonime di potere il concetto di tradizione,
cosí come l'intendevano i cultursionisti, era un termine vuoto e desolatamente arcaico.
Kafka, che nella sua visita al Rabbi di Grodek aveva riconosciuto nello zaddik il volto del padre,
scopre allora nella struttura teocratica delle comunità jiddisch la medesima astratta violenza della
cultura dell'assimilazione che gli ave- va resa irriconoscibile la figura del padre. Se cosí nel suo
incontro con gli attori di Lemberg aveva conosciuto l'ebraismo come amore, ora riconosce, dopo
l'esperienza del Processo, l'ebraismo come potere.
l'ebreo occidentale, che nel Processo cercava la consolante verità della tradizione, là dove nessuna
tradizione era più possibile, rappresentava l'uomo moderno tout court, cosí come la westjüdische
Zeit, lungi dall'essere solo una particolare condizione storica dell'ebraismo mitteleuropeo,
significava anche tutta la modernità. E al centro delle nuove prose c'era ancora, come nel Processo,
nella Colonia penale e nel Medico condotto, la figura isolata dello scrittore da sempre in attesa del
favoloso messaggio dell'imperatore.

-Desiderio di unità del popolo dei costruttori della muraglia cinese > riferimento allo Ostjudentum.
Ambientazione medievale orientale parallela a quella del medioevo della popolazione ebraica che
parlava jiddisch. Ostjudentum = unità della famiglia ebraica priva di autorità (imperatore assente o
irraggiungibile). E tuttavia questa prosa non significa per nulla una prova dell'adesione di Kafka al
cultursionismo e nemmeno il documento di una sua romantica idealizzazione dell'ebraismo
orientale. Essa dimostra semmai, nel modo più persuasivo, quanto fosse improbabile per Kafka
l'insistente e ripetuto richiamo alla tradizione che il gruppo della «Selbstwehr» e soprattutto Max
Brod' andavano facendo in un momento in cui la guerra sul fronte russo aveva fatto della questione
ebraico-orientale il tema principale degli organi di stampa del movimento sionista.

Di particolare importanza fu a questo proposito l'accesissima polemica che era divampata tra gli
ebrei praghesi e i profughi galiziani a seguito di un manifesto anonimo, comparso a Praga, con il
quale si invitavano gli ebrei orientali a tagliarsi i riccioli rituali e a togliersi il caffettano. La polemica,
vide la «Selbstwehr» difendere le posizioni del sionismo ufficiale nel sostenere la necessità di
educare gli ebrei orientali alla civiltà e alla cultura europee. Si avviò in questo modo un dibattito
sulla tradizione jiddisch.
Da una parte si vedeva nel caffettano e nei pejes l'espressione di un fanatismo religioso antiliberale
e teocratico'; dall'altra si rispondeva che proprio questi segni mostravano l'orgoglio con cui gli ebrei
russi e polacchi vivevano il loro ebraismo. Ma il vero problema di questa polemica era piuttosto il
potere degli zaddikim che fondavano sull'osservanza di tradizioni del tutto arbitrarie la loro
assoluta autorità sulle masse dei loro seguaci.
La casta degli zaddikim teneva il popolo nell'ignoranza della Legge, gli imponeva il rispetto di
norme e di regolamenti del tutto sconosciuti alla vera tradizione religiosa. Si ricordi che la leggenda
del Processo fu pubblicata nel bel mezzo di questa polemica in un numero della «Selbstwehr»
quasi interamente dedicato agli ebrei orientali. Anche se non è possibile stabilire con sicurezza se
Kafka, di solito cosí attento al modo in cui le sue rare pubblicazioni venivano presentate ai lettori,
abbia concordato con la redazione del settimanale questa significativa collocazione, è tuttavia
certo che la parabola manifestava apertamente in questo contesto tutta la sua qualità ebraica: era
evidente che il guardiano della Legge, con tanto di pelliccia e barba tartarica, era una figura di
zaddik, quale veniva rappresentata in quei mesi e in quegli anni dalla stampa sionista praghese.
In ogni caso Kafka, nell'acconsentire alla pubblicazione della sua prosa in quel particolare
momento e in quella sede particolare, rivelava tutto il suo interesse per la discussione in corso sul
movimento chassidico. Di grandissima importanza, come dimostra appunto La costruzione della
muraglia cinese, fu per lui sicuramente la critica, spesso molto aspra, rivolta all'ebraismo orientale,
di cui si lamentava la spaventosa arretratezza e l'incredibile supinità nei confronti del potere
assoluto degli zaddikim.

-Anche Kafka constata l’assurdità di un potere assoluto a cui manca ogni legittimizzazione. Prima
infatti vedeva nella Ostjudentum l’unità della grande famiglia ebraica. Ora si accorge che questa
tradizione è priva di significato e che al suo posto c'è il potere illegittimo della casta degli zaddikim.
Con ciò Kafka ha già la prima cellula metaforica della Costruzione della muraglia cinese che scriverà
appena due mesi dopo: il centro vuoto dell'autorità - l'imperatore assente o inavvicinabile - e la
reale gerarchia del potere che amministra una Legge sconosciuta e si pone come il solo
intermediario tra il principio ultimo della verità e la massa del popolo. La sua tesi ruota infatti
intorno a questa burocrazia religiosa o da questo sistema di caste di iniziati che amministrano per
conto del popolo una Legge che al popolo è del tutto sconosciuta. L'unica esperienza religiosa
concessa al singolo erano la burocrazia della Legge e la progressione teoricamente senza fine delle
sue istanze. Nella fantasia di Kafka, affascinato da quella favola ebraica che era il mondo delle
masse jiddisch, l'impero dei chassidim, sudditi delle molte dinastie di zaddikim, spesso in guerra
aperta tra di loro e tuttavia tra di loro unite dal dogma che il popolo non dovesse conoscere la
Legge e non potesse avere un legame non mediato con la divinità, si trasforma facilmente
nell'impero cinese del suo frammento.

In realtà, il vero e proprio tema della sua ispirazione, che si avvale di significati ebraici mascherati
con attributi cinesi, è la corruzione della storia intesa come unità del tempo nella tradizione la
genialità di Kafka è di avere intuito una analogia tra due mondi diversi e lontanissimi che
consentiva di fonderli in una similitudine. Da una parte c'era il movimento chassidico nelle forme
della piú palese corruzione della dottrina del potere dello zaddik che, come si è visto, era una
tirannica figura paterna; dall'altra c'era la società borghese mitteleuropea nelle forme
paternalistiche della burocrazia absburgica. L'elemento comune ai due termini, che rendeva
possibile la similitudine, era che l'uno e l'altro mondo rappresentavano, a ben guardare, la
negazione di quel principio positivo della tradizione al quale si richiamavano i sionisti. Lo
Zaddiktum si era costituito in un sistema di potere assoluto che amministrava la verità in modo cosí
totale da porsi, in quanto casta e gerarchia di mediatori, addirittura come il fine stesso del mondo.
La parola della verità - come insegnava quella nuova parabola che è Il messaggio dell'imperatore -
non poteva attraversare liberamente lo spazio occupato dall'organizzazione dei capi, tanto che,
come vedremo, i sudditi dell'impero cinese hanno perduto la sicura nozione del tempo storico,
confondono il passato e il presente, sognano del futuro come di una leggenda. Allo stesso modo la
burocrazia borghese moderna rappresentava una costruzione ormai fine a se stessa, livellava
nell'astrazione dei suoi meccanismi il tempo organico della storia e la sua autorità e il suo potere
erano dovuti ad una efficienza pagata con il decadimento dei valori storici e popolari. I sionisti, in
altre parole, predicavano la ricostituzione di una tradizione popolare ebraica richiamandosi ad un
patrimonio ideologico del passato storico e Kafka diceva loro, che la tradizione di cui essi parlavano
era, proprio in quanto tradizione, il relitto di un medioevo ormai lontanissimo.
È soprattutto questa la funzione straniante dell'ambientazione cinese di una storia che, a rigore,
non riguarda né il passato della comunità ebraica, né il futuro di una sua possibile ricostituzione. Il
presente viene raffigurato nell'iconografia di un passato esotico, lontanissimo nello spazio e nel
tempo, proprio perché il passato, in quanto significa la pienezza organica della storia, è ormai una
leggenda.
Per rendersi conto dell'intenzione espressiva dello scrittore, basta leggere Il messaggio
dell'imperatore nel contesto del frammento nel quale assolve la sua naturale funzione di
similitudine. Ora il tema vero e proprio di questa celebre prosa non è soltanto la solitudine del
suddito, che sogna di un messaggio personale che non potrà mai raggiungerlo; e nemmeno l'inerte
onnipotenza della casta dei capi che impediscono al messaggero imperiale di raggiungere il
destinatario dell'ambasciata. Queste sono, a ben guardare, connotazioni tematiche di un motivo
ben più complesso che si potrebbe chiamare il tema della perversione del tempo naturale della
tradizione. Il tema centrale della Costruzione della muraglia cinese è infatti l'incapacità o
l'impossibilità del popolo dei costruttori di vivere il presente, proprio perché ignorano la storia del
loro passato e i piani del loro futuro sono il segreto dei capi che li governano. Sottratta
all'esperienza del singolo, la struttura della storia diventa una astrazione. In luogo di essere una
esperienza reale, si trasforma nell'immagine della storia e dunque diventa favola, leggenda,
letteratura o, nel migliore dei casi, una romantica filologia dei relitti di un passato sconosciuto.
Il cronista che racconta della costruzione della muraglia scrive infatti del proprio tempo da una
distanza favolosa, come se il presente in cui vive fosse non solo storia già trascorsa, ma storia
sconosciuta, materia frammentaria e lacunosa. Il materiale con cui gli operai di questo impero
fondano le città è un materiale storico negativo. Questo materiale, segnato da parole indecifrabili,
che nessun interprete saprà mai decifrare, è appunto la metafora usata da Kafka per significare il
suo rapporto con la storia e con la tradizione: I costruttori dei suoi racconti, incapaci di interpretare
i segni incisi sui materiali indispensabili alla loro opera, sono allora come quel popolo di cui Kafka
scrive in un frammento che fa parte dell'insieme dei racconti cinesi. Questo popolo ha deciso di
costruire una città in una posizione del tutto assurda e irrazionale, solo perché quel particolare
posto è prescritto da antiche tradizioni che, per quanto del tutto incomprensibili, devono essere
rispettate. È scritto infatti: «Chi non segue la tradizione viene annientato»
La tradizione appare dunque come l’assurdo di una razionalità che nega sé medesima, e nel
suddito della leggenda non è difficile riconoscere l’uomo della esistenza estetica Con ciò non si
intende significare lo scrittore o l'artista nel senso stretto del termine, ma piuttosto l'uomo
moderno come consumatore di forme vicarie della verità che Kafka rappresenta nella gerarchia dei
capi del suo racconto. L'ordine del mondo, come aveva concluso Josef K. alla fine dell'esegesi della
parabola del campagnolo, è inganno e menzogna; e il sogno di Kafka, il sogno del K. del Processo e
il sogno del K. del Castello, sarà allora il progetto - inaudito per le forze di uno scrittore isolato - di
scardinare i congegni dell'apparato per ricondurre la bellezza delle sue forme alla verità custodita
nel cuore di ogni singolo uomo.

-Beschreibung eines Kampfes racconto giovanile di Kafka composto tra il 1904 e il 1906 che
dimostra l’indipendenza di Kafka dal pensiero di Nietzsche. In questo lo scrittore partecipa a quella
cultura della crisi della comunicazione che caratterizza il fin de siecle austriaco e viennese. Kafka fa
del motivo della Sprachkepsis una ricerca del vero nome delle cose. «La prima forma di idolatria
era certamente paura delle cose - scriverà in un aforisma del gennaio 1918-ma, di conseguenza,
anche paura della necessità delle cose e, di conseguenza, la responsabilità per le cose». Con questo
aforisma Kafka riprende il motivo del suo racconto giovanile, paura del ma lo riprende con una
nuova consapevolezza della tradizione ebraica. Nel suo racconto giovanile quindi, Kafka sente
questo compito dell’uomo appunto come una responsabilità verso le cose, e la ricerca del loro vero
nome.
Baioni traccia un parallelismo tra la responsabilità dell’autore della ricerca del ‘vero nome delle
cose’ nella costruzione della muraglia cinese, in cui i sudditi cercano di liberare il sovrano dai
cortigiani che lo tengono prigioniero a palazzo, con gli zadikkím (titolo onorifico per rabbini,
maestri spirituali di fede ebraica) che hanno sequestrato la Toràh sottraendola alla conoscenza
degli altri fedeli. In entrambi i casi la verità prigioniera di vincoli della tradizione, la leggenda è la
parabola della perversione del tempo storico, in cui passato e presente si fondono. Tempo della
vita vs tempo della storia.
Il problema di Kafka è quindi far sì che la tradizione ritorni ad essere visibile e comunicabile.

Nelle prose che costituiscono l'insieme dei racconti cinesi Kafka costringe il lettore ad assumere
l'atteggiamento di chi si trovi improvvisamente di fronte a un reperto archeologico,
completamente anomalo e difficilmente classificabile, comunicandogli la sensazione di una realtà
che soffoca sotto il peso dei suoi rifiuti il senso della parola piena e significante. Il lettore avverte in
questo modo l'angoscia di vivere in un mondo sfasciato, in cui si accumulano masse di rovine
incomprensibili: come i vecchi oggetti che riempiono le cancellerie del tribunale del Processo o
come la feccia che soffoca la città imperiale nel Messaggio dell'imperatore. Ecco allora che Kafka
sogna di abbattere il potere dell'apparato o almeno di ritrovare il significato della tradizione
sconosciuta attraverso lo studio di questi relitti. Il cultursionismo idealizzava la comunità chassidica
e la presentava come la dimostrazione che anche l'ebraismo della dia- spora aveva saputo produrre
quell'unità organica che faceva anche degli ebrei una nazione. Se l'ebreo occidentale era un
individuo isolato senza radici e senza passato questo era l'argomento ripetuto fino alla noia -
l'ebreo orientale era popolo e comunità, perché era sostenuto dalla forza di una tradizione
ininterrotta. Si è già osservato che Kafka dissentiva da queste posizioni. La tradizione non poteva
essere rappresentata dalla struttura paternalistica dello Zaddiktum, che escludeva il singolo dalla
conoscenza della Legge, era potere, apparato, burocrazia religiosa. Tradizione significava piuttosto,
come scriverà Benjamin, ritrovare al di là dell'astrazione della Legge la concretezza della dottrina"
per dirla ancora con Benjamin, capovolgere la vita in scrittura", recuperare in altre parole l'unità
del significante e del significato, liberare la verità dalla prigione rappresentata dall'apparato
attraverso il processo perenne e mai perfettibile dello studio e dell'esegesi.
Se cosí il chassidismo diceva che lo zaddik, e lo zaddik soltanto, era la Giustizia e la Legge, Kafka
rappresenta nelle sue prose cinesi la casta dei capi come un carcere di cui la verità è prigioniera. In
un frammento del 1920, Zur Frage der Gesetze (La questione delle Leggi), egli racconta che il
popolo, ignorando del tutto le Leggi, può solo tentare di interpretare quanto si tramanda sulle
gesta dei capi, per capire almeno se la legge, sulla quale si fonda il loro potere, esiste realmente.
Per questo conserva gelosamente i documenti e gli scritti degli antenati e li studia, li analizza e li
interpreta nella speranza di ricostruire la propria storia, di abbattere in questo modo l'autorità
della casta dei capi e di rientrare infine nel possesso della conoscenza della Legge.
Lo studio è dunque diretto contro il potere dei capi, aspira ad eliminarne l'organizzazione, tende a
ricostruire l'unione originaria di popolo e Legge, sogna in una parola di ricomporre l'unità del
tempo della tradizione. I due termini che ne costituiscono il valore, il popolo e l'imperatore, sono
divisi tra di loro da una distanza infinita. La cittadina del frammento Die Abweisung (Il rifiuto) è
lontanissima dai confini dell'impero, per raggiungere i quali bisogna attraversare sterminati
altipiani e passare per una serie di immense città che sono tutte un labirinto inestricabile di case e
di strade senza fine. Ma è ancora più lontana dalla capitale, della quale gli abitanti della piccola
città non sanno assolutamente nulla, a differenza dei funzionari del governo centrale, presenti
nella cittadina, la cui gerarchia è fissata secondo il loro luogo di origine: i funzionari inferiori sono
nati nella stessa città, quelli medi provengono dalle province limitrofe, mentre quelli del grado più
alto sono cittadini della capitale. Attraverso questa descrizione della gerarchia Kafka
manifestamente intende disegnare uno spazio negativo della conoscenza, nel quale ogni
informazione e ogni messaggio, a seconda della sua distanza dal centro, acquista o perde
gradatamente di significato. Questa cosmografia kafkiana, di evidente derivazione cabbalistica e
chassidica, non rap- presenta tuttavia, nemmeno negativamente, la gerarchia ascendente delle
potenze o la progressione discendente delle emanazioni di cui parla la Cabbala. La metafora dello
spazio è infatti, a ben guardare, la metafora del tempo e, piú che significare la perversione della
verità nel suo crescente allontanarsi dal centro, allude alla corruzione del tempo della tradizione.
-Uno dei punti più discussi di un testo come “il messaggio dell’imperatore” è stato il significato
dell’imperatore morente. La leggende è infatti la parabola della perversione del tempo storico o, se
si vuole, del tempo della tradizione che nella civiltà delle verità amministrate si è dissociato in
modo irreparabile dal tempo della vita.
Il popolo che si tramanda questa leggenda del messaggio imperiale è un popolo di operai guidato
da una casta di capimastri, di tecnici e di esperti in costruzioni, ordinati secondo una gerarchia che
arriva fino agli sconosciuti capi supremi che sono anche i supremi ingegneri, intenti a disegnare
nelle loro inaccessibili sedi i piani segreti della grande muraglia. Ma questo laboriosissimo popolo
di costruttori è anche un popolo senza speranza. Non solo non riesce ad immaginarsi il disegno
totale dell'opera che, per ordine dei capi, fabbrica secondo un sistema di costruzioni parziali. E
anche incapace di concepire in modo chiaro l'idea dell'impero, unica istituzione in grado di dare un
significato al progetto, di per sé assurdo e inconcepibile, di un muro che ab- bracci l'intero universo
conosciuto.
Perché allora è stata decisa la costruzione della muraglia? Come e perché si è costituita la casta dei
capi che giustifica la propria autorità assoluta con la necessità di difendere l'impero da ferocissimi
nomadi del Nord di cui parlano solo i libri degli antenati? L'istanza che potrebbe rispondere a
queste angosciose domande, cosí pericolose per il successo dell'opera ordinata dai capi, è
l'imperatore. Ma non l'imperatore come idea o come istituzione, di cui nessuno dubita, poiché
questa idea è l'ordine e la legge del mondo; bensí l'imperatore vivo e reale che è, come tutti i suoi
sudditi, un uomo mortale. È qui che si chiarisce il significato della figura dell'imperatore morente e
la ragione per la quale l'ambasciata viene concepita dal sovrano in punto di morte.
Il problema della prosa infatti non è tanto il messaggio in sé. È piuttosto l'età o il tempo del
messaggio. Poiché se il popolo non riesce a sapere nulla dell'imperatore vivo e reale, è solo perché
qualsiasi notizia, che dall'imperatore potesse raggiungerlo, sarebbe il messaggio di un sovrano
morto da secoli. La metafora della distanza nello spazio è infatti, come si è detto, la metafora della
distanza nel tempo. Secondo la leggenda, il messaggero non arriverà mai fino al suddito in attesa ai
margini dell'impero. Ma ciò non significa che questi non riceverà mai l'ambasciata. Significa
soltanto che non avrà mai il messaggio del sovrano che, sia pure in punto di morte, è tuttavia
ancora il sovrano vivo e reale, presente nel presente del tempo in cui ha sussurrato nell'orecchio
del messaggero il testo della sua ambasciata.
Il motivo, di cui la leggenda è la similitudine, è così la separazione del tempo della vita dal tempo
della storia.
Poiché non conosce e non può determinare la propria storia, il popolo vive al di fuori del presente
o vive il presente come una notizia storica. E tuttavia, se esso confonde continuamente passato e
presente, trasforma il tempo vissuto in tempo rappresentato, vive quindi la vita come narrazione,
favola o leggenda, non è soltanto perché la gerarchia senza fine degli intermediari gli impedisca in
assoluto di ricevere il messaggio. Se l'ambasciata non arriverà mai, è anche perché il popolo è
incapace di credere alla sua attualità. Che questo sia il tema centrale del frammento, lo prova il
fatto che Kafka non manca di dare al lettore due significativi esempi di come il popolo sia pronto,
come egli scrive, «a cancellare il presente». Accade infatti che un funzionario arrivi in un villaggio
per dare ordini e disposizioni in nome dell'imperatore regnante. Ma il popolo, convinto che
l'imperatore, di cui il funzionario parla come del suo attuale sovrano, sia morto da secoli, finge di
credere che quell'imperatore sia veramente sul trono e obbedisce solo in apparenza ai suoi ordini.
In realtà, continua a rispettare vecchie leggi che ritiene nuovissime, poiché il massimo
comandamento che esso conosca è di «obbedire al sovrano attuale». Allo stesso modo il popolo si
comporta con gli eventi della storia presente. Se arriva al villaggio la notizia di una sommossa o di
una guerra il popolo si affida ai suoi sacerdoti e prende a studiare quella attualissima pagina come
se fosse il documento di un passato lontanissimo e per di piú redatto in un dialetto antiquato e per
questo ridicolo o addirittura del tutto incomprensibile.
L'incapacità del popolo di credere al presente o la sua volontà di «cancellare il presente»
trasformando costantemente il presente del tempo della vita nel passato del tempo della storia
significa probabilmente che la vita può essere vis- suta dall'uomo moderno solo dalla distanza,
davvero invalicabile, dello spettatore, dello studioso, dell'interprete. Il popolo vive la vita come una
favola perché passato e presente si sovrappongono, perché la realtà della vita viene sostituita dalla
sua rappresentazione e il presente del tempo della vita si trasforma nel tempo della storia,
rappresenta la risposta di Kafka a quanti sostenevano la necessità di una letteratura impegnata
ebraica, che racchiudesse l’essenza dell’essere ebreo. Kafka ribadisce che può esprimersi sulla
questione ebraica solo in forme letterarie come la leggenda o la favola, che sono estranee alla
dimensione spazio-temporale tradizionale in senso storico.

Suddito della leggenda che aspetta > campagnolo in vor dem Gesetz > estetismo, narcisismo
dell’attesa, condanna ad un’esperienza vicaria della rappresentazione della realtà  Piú che
mostrare la condizione dell'ebreo Kafka, esprimeva lo statuto della sua poesia: lo scrittore era
condannato a vivere la letteratura come la produzione di messaggi incomprensibili e al tempo
stesso come una esegesi ininterrotta dei loro incomprensibili segni. Il testo letterario era
paradossalmente una comunicazione non comunicabile. Per la sua intraducibilità non poteva es-
sere tramandato, non poteva significare il mondo organico della tradizione. Esso rappresentava
tutt'al piú una costruzione bellissima, splendida e a volte sontuosa che tuttavia era, a ben
guardare, una prigione, visto che poteva essere solo la similitudine di una similitudine. Come Kafka
scriverà in Delle similitudini, la poesia era semplicemente una metafora riflessa, una tautologia,
comunicava soltanto che «l'imprensibile è incomprensibile». Comunicava solo la distanza tra la
bellezza visibile del significante e la verità inattingibile del significato.

E molto probabile che Kafka abbia concepito un racconto fantastico e leggendario come La
costruzione della muraglia cinese come una rappresentazione della westjüdische Zeit. L'ebreo
occidentale, l'esteta, il Literat non aveva piú la forza o la volontà di credere nella verità della
Halakah. Per questo era condannato a servirsi delle similitudini bellissime, ma ormai
assolutamente intransitive della Haggadah. La poesia pura, la poesia senza significato e senza
verità, la similitudine che non era piú una funzione della Legge, significava l'esilio e la solitudine. Il
poeta riceveva dei messaggi palesemente privi di senso che si comunicavano solo nella bellezza
mostruosa e terrificante delle loro forme. Se la tentazione irresistibile di godere la bellezza di
queste immagini era la colpa o il vizio del poeta, il suo dovere morale poteva essere solo la
distruzione delle forme del bello attraverso l'opera ininterrotta dell'interpretazione.

Cap. 7 Tartuffe

Kafka si riconosce nel carattere del Tartuffe per l’egoismo dello scrittore che sacrifica tutto per la
letteratura.
-Settembre 1917 va a curarsi nella fattoria della sorella Ottla per via di una tubercolosi. la
tubercolosi, come egli ha subito scritto nei diari e agli amici, è veramente il simbolo di una malattia
dell'epoca che lui è chiamato a rappresentare nella letteratura. Nei mesi che seguono la diagnosi
della malattia, avvenuta il 4 settembre, Kafka cerca di definire la sua identità di scrittore in
rapporto al suo tempo e alla sua generazione. Egli, certamente, ha sempre avuto la consapevolezza
di essere figlio del proprio tempo.
-Brod, come si è visto, aveva condannato la figura amorale del Literat indicandola come il piú grave
esempio della perversione prodotta dalla diaspora nel genio etico dell'ebraismo.
L'unica eccezione in questa generale degenerazione della spiritualità ebraica era rappresentata
proprio da Kafka. Kafka si era avvicinato, secondo Brod, alla «piú sublime concezione religiosa
dell'ebraismo» interpretando la propria solitudine come la colpa piú grave nei confronti della
comunità.
E a petto di questo giudizio che Kafka si riconosce nel carattere del Tartufte. Mentre il suo amico lo
presenta, nella piú autorevole rivista dell'ebraismo tedesco, come l'antiesteta per eccellenza e
definisce la sua opera la piú alta espressione morale e religiosa del dramma della cultura
dell'assmilazione, lui scopre in se medesimo il mostruoso egoismo dello scrittore che sacrifica tutto
e tutti alle necessità della letteratura. Kafka, come provano numerose lettere, considerava le
opinioni dell'amico sulla letteratura a dir poco ingenue e puerili.
-È certo che Kafka è in ogni caso veramente atterrito dalla freddezza di cuore e dall’abiezione
morale che sembrano essere legati all’esercizio della letteratura.
-Come scriverà a Felice, lui dice di avere dentro di sé due diversi animi in lotta tra loro: il primo dei
due contendenti che si combattono dentro di lui è il Kafka buono, l'uomo della vita etica, che aspira
a realizzarsi nel matrimonio come uomo morale, partecipe della comunità degli uomini. Il secondo,
invece, è il Kafka cattivo o il Kafka della vita estetica che nei cinque anni del fidanzamento con
Felice si è nutrito del sangue che il suo avversario ha versato per meritarsi l'amore della sua donna.
La vittoria dell’uomo estetico sull’uomo morale è stata quindi, secondo il significato simbolico della
malattia, definitiva e totale. E tuttavia Kafka non si rassegna all’apparente chiarezza di questo
verdetto.
Il problema del Kafka maturo è infatti quello di sempre: che cosa significa il dramma della sua vita
divisa tra l’ufficio e la letteratura? Perché non è mai riuscito ad emanciparsi dalla famiglia?
Se Kafka non desidera altro che scrivere, ma può scrivere solo nel centro piú segreto della casa,
non è sicuramente, come piú volte si rimprovera, per una debolezza della volontà. È piuttosto per
l'orrore che deve avere provato nell'intuire quale terribile metamorfosi dell'umano significasse per
lui la vita nella letteratura: scrivere nella sede degli affetti umani piú immediati, vivere la vita
disumana del parassita tra le mura della casa custodita dalla figura materna della donna voleva dire
tenere viva la speranza di potere sempre ritornare nel mondo degli esseri umani o di potere
almeno nutrire con la loro presenza quel poco di umano che aveva ancora in se medesimo?
La vicinanza degli altri tuttavia, piú che nutrire l'uomo, alimentava ancora una volta l'esteta, il
quale, come era accaduto per l'insetto della Metamorfosi, si cibava dei loro rifiuti. La letteratura è
«diabolica» per lui, perché rappresenta la tentazione del piacere piú astratto e piú disumano. Chi
ricordi la macchina della Colonia penale sa anche che cosa significhi per Kafka il piacere della
scrittura. Quei passi raccapriccianti, che avevano impressionato persino un editore di avanguardia
come Kurt Wolff, non sono certo dovuti, almeno soggettivamente, al senso della missione di uno
scrittore che si senta chiamato a rappresentare la crudeltà del proprio tempo. Se proprio si vuole
trovare un nome alla colpa di Kafka, sarà bene dimenticare, una volta tanto, il complesso paterno o
la questione ebraica, i dolori della sua vita da scapolo o le miserie della sua esistenza di burocrate.
Kafka si sente colpevole soprattutto o soltanto perché si sente scrittore e, se di una cosa si
vergogna di fronte a quanti formano il suo tribunale, questo è il piacere senza limiti che prova
nel descrivere nella letteratura quanto di piú abominevole riesce a concepire la sua fantasia.
-E se non ci può essere davvero alcun dubbio che Kafka abbia sacrificato la sua vita allo scopo piú
alto della scrittura, molto meno certo è che l'imperativo dello scrivere e la consapevolezza
dell'ineluttabilità della vocazione siano riusciti a vincere in lui la cattiva coscienza che gli
comunicava il piacere della sofferenza.
Lo scrittore è allora ai suoi occhi come il digiunatore del racconto omonimo (Ein Hungerkünstler),
che non digiuna affatto per eroismo o per amore o per ascesi o per mostrare al mondo i limiti
dell'umano'. Se non mangia è perché non c'è sulla terra cibo di cui abbia appetito e ama quindi
solo il piacere del digiuno e ha fame solo di digiuno. « La fame che ho per il mio lavoro è tanto
grande che mi snerva», si legge in una lettera a Felice del novembre I914. Il digiunatore, «l'artista
della fame», come suona la traduzione letterale del titolo tedesco, è dunque un Tartuffe che fa
mostra di sé come uomo morale, quando è mosso soltanto dal narcisismo sfrenato dello scrittore.
-Regressione allo stato animale Kafka sente la letteratura come una vera e propria regressione
nell’animalità più irriflessa. Sembra che abbia trasferito nella letteratura tutto quanto possiede di
erotismo e di istintualità. Gode allora la letteratura con l'immediatezza torpida, ma sicurissima di
un animale e sente la bellezza di una pagina riuscita con lo stesso piacere fisico con cui la talpa del
suo racconto Der Bau (La tana) saggia con la testa la superficie liscia dei cunicoli della tana. E in una
lettera, nella quale si rifiutava di considerare la letteratura una professione, aveva scritto: «Io scrivo
per me, soltanto per me, cosí come fumo o come dormo, E una funzione quasi animale, tanto è
intima e personale».

-Unico tra i grandi scrittori del Novecento che non abbia scritto un solo saggio di critica o di teoria
letteraria, Kafka ha reagito agli eventi culturali della sua epoca con i sentimenti animali del terrore,
della paura, dell'aggressività. In un momento in cui i suoi amici sionisti condannano l'esteti-smo
immorale e parassitario degli intellettuali dell'assimila-zione, Kafka è letteralmente terrorizzato di
non sentire, come sarebbe suo dovere, il ben che minimo interesse reale per i problemi
dell'ebraismo.
- Anche la storia del suo fidanzamento viene del resto ti-narrata nelle due ultime, importantissime
lettere a Felice nel segno del mostruoso egoismo dello scrittore. È nel momento in cui, lasciando
Felice, abbandona la speranza di essere un uomo morale che Kafka, per la prima volta nella sua
vita, confessa apertamente la sua colpa di esteta in un passo che considera cosí importante e
definitivo da trascriverlo prima nei diari e da comunicarlo poi a Max Brod:

Io sono un bugiardo, non posso mantenere l'equilibrio in altro modo, la mia barca fa acqua. Se mi esamino circa il mío scopo finale,
il risultato è che io, a ben guardare, non voglio affatto essere un uomo morale, adeguarmi ad un sommo tribunale. Voglio al
contrario dominare con un sol colpo d'occhio l'intera comunità degli uomini e degli animali, conoscere i loro desideri, le loro
predilezioni, i loro ideali morali, ricondurli a semplici comandamenti e svilupparmi il piú in fretta possibile in questa direzione al fine
di essere gradito a tutti e - ecco che viene il salto - gradito in modo tale che, senza perdere l'universale amore, unico peccatore che
non viene arrostito, mi sia alla fine permesso di esibire apertamente davanti agli occhi di tutti le bassezze della mia natura. Per
riassumere, mi importa dunque soltanto del tribunale degli uomini e, come se ciò non bastasse, lo voglio per giunta ingannare,
anche se senza inganno.

Questo passo, che ha dizione singolare e inusitata rispetto al comune linguaggio della critica e della
teoria letteraria, è certamente uno dei documenti piú importanti della sua riflessione estetica.
L'uomo della letteratura - questo potrebbe esserne il significato - fa semplicemente credere di
essere un uomo morale e finge di volersi adeguare alla legge di un tribunale universale, visto che
usa un linguaggio dichiaratamente etico e dice di vivere la propria vita come l'espiazione di una
colpa o come la ricerca della verità. Ma questo suo abito morale è solo la maschera del Tartuffe, è il
suo modo per ingraziarsi gli altri e per offrirsi agli altri nel ruolo della vittima chiamata a sacrificarsi
per tutti in nome della verità. In realtà, se esibisce agli occhi di tutti l'osceno spettacolo della
propria colpa, non è per amore degli uomini e nemmeno per venerazione della legge universale
che dovrebbe unirlo alla loro comunità. La sua dichiarata ricerca della verità nasconde infatti un
appetito cosi grande e una voracità cosí mostruosa da fare inorridire chiunque. Se vuole essere
amato da tutti, e al tempo stesso essere privilegiato rispetto a tutti in quanto ha in sé di piú
abominevole, è perché vuole avere il supremo piacere di godersi in solitudine, ma al cospetto di
tutti e con il consenso di tutti, tutta la verità e tutta la vita del mondo.
Forschungen eines Hundes (Indagini di un cane), il racconto del 1922 scritto insieme con le ultime
parti del Castello, rappresenta nel linguaggio trasposto dell'apologo questo famelico narcisismo
dell'uomo letterario.
Con un umorismo pari soltanto alla sua concitata disperazione, il Kafka che sta scrivendo nel
Castello la parabola della propria vita di scrittore, riduce la complessa problematica estetica della
civiltà letteraria mitteleuropea al primitivismo di questa voracissima metafora dell'osso universale.
Come Kafka scrive nella sua lettera a Felice, lo scrittore, che si nutre di tutti i desideri, le
predilezioni, gli ideali, in una parola della sostanza dell'umanità, vorrebbe essere l'unico legislatore
del mondo, ridurre per il proprio segreto piacere la complessità dell'esistenza a quei pochi
«semplici comandamenti» che rappresentano le strutture formali della sua rappresentazione.

-Uno dei testi a cui lo scrittore costantemente pensava in questi mesi dell'autunno 19I7 è, come
risulta dalle sue lettere, il già citato I nostri intellettuali e la comunità. La tesi di fondo di questo
saggio, nota a Kafka sin dal I9I4°, era, come si è visto, la necessità di subordinare la letteratura al
compito della costruzione della nuova comunità. Lo scrittore doveva ripudiare il principio
edonistico dell'art pour l'art, uscire dal narcisismo della soggettività decadente, abbandonare, per
l'impegno religioso e sociale, i compiacimenti formali dell'estetismo.
Questa affermazione brodiana del primato dell'eticità sulla esteticità acquista nell'autunno del
1917, allorché Kafka ha accolto la malattia come la definitiva sanzione della sua solitudine di
scrittore, il significato esplicito di una condanna.
Per la prima volta Max Brod, come risulta da una lettera a Felice, accusa apertamente l'amico di
compiacersi della propria infelicità, di essere quindi un esteta e un decadente, di tradire in sostanza
la causa della cultura ebraica.
Il giudizio di Brod - comprensibile nelle sue implicazioni, per Kafka gravissime, solo ricordando le
posizioni del suo fanatismo sionista - non mancò certo di turbare lo scrittore, che reagí con una
lettera di una violenza per lui inaudita.
-Kafka, come ricorda in una lettera a Brod, riflette spesso ad a lungo sul significato del suo destino
di scrittore senza mandato.

-Le annotazioni del terzo e del quarto dei quaderni di appunti, scritti a Zurau dall'ottobre 1917 al
febbraio 1918, riflettono, insieme con le lettere e i diari di questi mesi, l'ammirevole tentativo di
Kafka di definire un compito o una missione spirituale che diano un significato a quella vera e
propria catastrofe dell'uomo che è stato l'insorgere della malattia. Eliminato l'uomo, uscito
distrutto dalla sua lotta per meritarsi l'amore della donna, resta ora soltanto lo scrittore che
rappresenta ormai la sua unica, possibile identità.
E proprio a questo punto che Kafka si impegna, come non gli era mai accaduto in passato, con i
concetti di epoca e di generazione. Ma la via sia del romanticismo (come quello di Thomas Mann)
che della militanza sionista di Brod non sono per lui percorribili.
-Kafka si presenta a Brod come l’uomo della westjudische Zeit. Il senso della sua missione non può
in nessun modo fondarsi sull'imperativo brodiano della rigenerazione dell'ebreo occidentale. La
negatività del Westjude, da sempre il bersaglio della stampa cultursionista, diventa ora per Kafka
l'unico possibile fondamento della sua identità di scrittore. Nella lettera di metà novembre 1917
Kafka risponde al reiterato rimprovero dell'amico, che presumibilmente lo ha di nuovo accusato di
essere un ebreo della malattia e della decadenza, con una affermazione che rappresenta la
smentita piú clamorosa del suo preteso sionismo:

Carissimo Max, ciò che io faccio è qualcosa di ovvio e di semplicissimo: io sono fallito nella vita della città, nella famiglia, nella
professione, nella società, nell'amore (mettilo, se vuoi, al primo posto), nella comunità nazionale esistente e in quella da realizzare,
in tutto questo io sono fallito e fallito in modo tale - qui ho tenuto gli occhi bene aperti - come non è accaduto a nessun altro intorno
a me.

Il significato contestuale di questa nota dichiarazione è pienamente comprensibile se si ricorda


quanto si è detto a proposito della westjüdische Zeit. Il Kafka che si dichiara fallito come uomo,
come ebreo e come sionista si riconosce anche, contro tutta la cultura politica dei suoi amici
praghesi, nel tipo dell'ebreo occidentale e ciò vuol dire nel tipo dell'esteta e del Literat che non
può conoscere altro dolore di quello che accompagna «una vita non vissuta»

-Le sue prime cose - le diciotto brevissime prose, pubblicate nell'esile volumetto
Betrachtung (Contemplazione), del 1913 - erano perlopiú dei bellissimi pezzi calligrafici di estrema
preziosità formale, lavorati con la cura maniacale di un giovane scrittore che non cercava tanto una
comunicazione con il lettore, ma una perfezione fine a se stessa. Questa letteratura, tutta nel gusto
del fin de siècle viennese nonostante la novità dei suoi sussulti espressionistici, era in effetti ancora
un fenomeno di narcisismo letterario. Essa rappresentava il puro piacere della scrittura,
l'atteggiamento di chi contemplava la vita in modo letterario e non si rendeva conto che lo scrivere
significava anche fare realmente un oggetto reale che avesse un uso e una destinazione reali.

-INTERPRETAZIONE DEL PROCESSO il romanzo sembra davvero configurarsi come la storia di un


processo allo scrittore. L’esistenza davanti alla “Legge” viene infatti interpretata da Kafka come la
sterilità dell'esistenza estetica che concede, sí, l'esaltata felicità solitaria della produzione del testo
o la vanità senza pari di avere prodotto un testo perfetto, ma significa poi la miseria di «una vita
non vissuta» o la «vergo-gna» dell'uomo che, nonostante la sua pretesa ricerca della verità, ha in
realtà vissuto solo per il narcisismo della sua voracissima natura di scrittore: «Tu sei insaziabile»,
. dira in-
fatti il guardiano della Legge all'uomo della parabola. Questo non è certo l'ultimo giudizio che si
possa presumere di pronunciare su di un testo cosí complesso come la storia di Josef K. Ma è per lo
meno l'unica opinione documentata che il Kafka dell'autunno del 19I7 ha espresso su ciò che il suo
romanzo significa come processo a un determinato modo di essere scrittore. Brod - come scrive
ancora Kafka nella stessa lettera all'amico - ha saputo affermarsi sia nella vita borghese, sia nella
vita letteraria, sia infine nella vita della comunità ebraica e « ha avuto la forza di tenere insieme gli
elementi piú contraddittori» come la letteratura e la milizia sionista. Tutto questo non è stato
concesso a lui che, come si è citato, ritiene di essere fallito non solo in tutti i campi dell'esistenza
reale, ma persino nella letteratura, visto che lo scrivere non ha significato null'altro che la
«vergogna» della «vita non vissuta» dell'animale letterario.
Se questa è la motivazione della scena finale del Processo - l'imputato muore appunto come un
animale sgozzato da due carnefici che nel loro aspetto di attori imbellettati esprimono la
ripugnante falsità della finzione artistica - la malattia sembra offrirgli ora una via di uscita, del tutto
nuova e affatto insperata, che dovrebbe condurlo ad una esperienza completamente diversa della
letteratura.
È a questo punto che lo scrittore si pone, per la prima volta in modo consapevole, il problema
dell’epoca e della generazione. Per giustificare il proprio fallimento non è affatto necessario che lui
cambi la propria vita. Basta che trovi uno scopo alla sua letteratura legittimando dinanzi alle istanze
dell'epoca e della generazione la sua vocazione di scrittore. Per riuscire in questa impresa deve
innanzi tutto ricomporre i frammenti del proprio io, concentrarsi con la massima determinazione
nella definizione del compito che l'attende.

-Autunno 1917 Fino a quel momento la letteratura era stata per lui una sorta di vizio solitario o
la presunzione di un compito che era naufragato nel viaggio del Medico condotto. Ora essa deve
confrontarsi con la westiüdische
Zeit, assumerne la rappresentanza legittima. E questa la giustificazione interiore di un romanzo
come Il castello, un’opera meditata e costruita con un rigore del simbolo e dell'allegoria
sconosciuto alle altre opere dello scrittore. La figura del suo protagonista, molto diversa da quella
del K. del Processo, la complessità della sua tematica, summa dell'intero mondo kafkiano,
maturano negli anni che vanno dal settembre 1917 al febbraio 1922. E un periodo in cui Kafka
scriverà poco o nulla, prostrato dalla malattia e sconvolto dall'amore di Milena Jesenská. Ma è
anche un periodo in cui è straordinariamente attento alla cultura del suo tempo, legge con una
regolarità inusitata la stampa sionista, ricorda piú volte la psicanalisi di Freud, studia i diari di
Tolstoj, medita e commenta le principali opere di Kierkegaard la prospettiva di fondo, che tiene
insieme i nomi e i temi citati, è il tentativo di Kafka di recuperare per la propria letteratura la
dimensione dell'eticità e della legittimazione storica e generazionale.

[Narcisismo dello scrittore, carattere istintivo della scrittura per sé e solo per sé, alla pari di bisogni primari come dormire. Talpa
che si rifugia nella tana, scrittore senza storia né nazione, regressione ad uno stato animale ].

CAPITOLO 8
Nei quaderni di Zuerau risulta evidente l’influenza della lettura di Theodor Tagger e la sua “La
Nuova generazione” La cultura dell'uomo moderno - cosí sosteneva Tagger - era soffocata da un
cumulo di modelli, formule e metafore di massa che violentavano quell'irripetibile unicità
dell'evento che era lo spirito.
Il noto aforisma deo 19 ottobre 1917, nel quale si legge che <<il mondo interiore può essere solo
vissuto, ma non descritto>> ricorda indubbiamente il motivo taggeriano della vita spirituale come
evento senza parole.
Questa influenza è ancora di più da ricercare nella pubblica abiura di Tagger dell’ebraismo:
idealistico rifiuto della cultura della westiüdische Zeit che la pubblicistica sionista chiamava da anni
l'età dell'introspezione piú morbosa e dell'intellettualismo piú compiaciuto. Nel definire la figura
del Literat, protagonista della cultura malata della vecchia generazione, Tagger utilizzava infatti
tutti gli attributi, del resto scontatissimi, del tipico intellettuale dell'ebraismo assimilato, del quale
scriveva che sapeva, sí, produrre buona letteratura, ma viveva poi, vittima dell'introspezione, in un
inferno di costruzioni psicologiche.
Chi ricordi, nei diari e nelle lettere di Kafka, l'ossessionante motivo dell'analisi interiore può
comprendere facilmente le ragioni per le quali egli fu tanto impressionato dal saggio di Tagger. Se
lo scrittore espressionista voltava le spalle alla westjüdische Zeit proclamando «un nuovo inizio» o
«una nuova nascita», Kafka si riconosceva nella figura dell'ebreo della crisi nella nuova
consapevolezza che il suo conflitto interiore era anche il conflitto dell'epoca.
Kafka parlava di una <<libertà dello sguardo>>, significava l'assoluta coerenza di una esperienza
umana che, una volta spazzati via gli equivoci del matrimonio e dell'impegno sionista, metteva
l'uomo isolato della ricerca letteraria al centro della westiûdische Zeit. Chi rappresentava
veramente «i dolori della generazione» non erano gli intellettuali militanti o comunque impegnati,
ma chi, per avere compreso i segni del tempo, poteva scegliere come storicamente significante una
solitudine che sembrava essere la radicale negazione di ogni categoria storica.
Non a caso, proprio nel periodo in cui sono piú evidenti le tracce della lettura di Tagger, troviamo
nei suoi quaderni, alla data del 19 ottobre, il primo aforisma che collega chiaramente la crisi
dell'uomo alla crisi dell'epoca:
<<Noi tutti combattiamo la stessa lotta. (Se io, assalito dall'ultima domanda, cerco armi dietro di me, non posso fare
una scelta tra queste armi e, anche se potessi scegliere, dovrei afferrare quelle degli «altri», poiché abbiamo tutti lo
stesso arsenale). Non posso condurre una lotta che sia solo mia. Se mai credo di essere indipendente e non vedo
nessuno intorno a me, ben presto si scopre che ho dovuto occupare questo avamposto in obbedienza ad una generale
costellazione che non ho capito subito o che mi era del tutto incomprensibile. Questo naturalmente non esclude che ci
siano avanguardie, retroguardie, franchi tiratori e tutte le consuetudini e le particolarità dell'arte della guerra, ma non
c'è nessuno che combatta in modo autonomo. [Umiliazione] della vani-tà? Certo, ma anche incoraggiamento,
necessario e secondo verità>>

È certamente questa la vera risposta di Kafka al saggio di Tagger; ed è una risposta negativa, nel
senso che lo scrit-tore, invece di accettare la «dilettantesca» soluzione taggeriana del rifiuto
dell'attualità, si impegna, come non aveva mai fatto sino ad allora, con i problemi del suo tempo.
Per la prima volta Kafka cerca un contatto con la storia. Gli aforismi dell'autunno del 1917, anche
se di argomento biblico, teologico e speculativo, rappresentano il suo tentativo di ancorarsi ai
problemi dell'epoca e della generazione, di parteciparne alla discussione, di assimilarne le
categorie. E ciò sembra tanto piú vero, in quanto un'opera ben piú attuale di quella di Tagger lo
aveva sconvolto interessato ancor di più: Die Rolle der Erotik in der maennlichen Gesellschaft (il
ruolo dell’erotismo della società virile), un saggio di Hans Blueher.
I motivi dell’interessamento a questo saggio erano dovuti ad alcune coincidenze tra le idee di Hans
Blueher e quelle di Otto Gross. In particolare, affascinante per Kafka era quella critica a quel
sistema della coppia della famiglia borghese che aveva generato nella sua fantasia il grande insetto
della Metamorfosi.
Kafka aveva conosciuto Otto Gross in occasione di un viaggio in treno da Budapest a Praga nel
luglio 1917.
Otto Groß era stato un caso abbastanza clamoroso nella storia del primo espressionismo tedesco.
Libero docente di psichiatria all'Università di Berlino, figlio di un noto criminologo, già professore di
diritto penale di Kafka all'Università di Praga, Otto Groß, su denuncia del padre, era stato arrestato
nel 1913, estradato in Austria e rinchiuso in manicomio con l'accusa di essere un drogato, un
lenone e un omosessuale. L'esemplarità della vicenda - una sintesi di autoritarismo paterno,
arbitrio burocratico e violenza poliziesca - aveva immediatamente provocato una sollevazione della
stampa espressionista che vedeva in Otto Groß un esempio clamoroso della repressione dei figli da
parte dei
Padri. È lecito pensare che Kafka, vittima, al pari di Groß, della violenza paterna, abbia ascoltato
con molto interesse le idee che lo psichiatra.
Nell'età del matriarcato - questa in breve la teoria di Otto Groß, cosí come l'ha esposta Anton Kuh -
l'amore non era subordinato al principio della proprietà privata. La donna dispensava liberamente
l'amore come bene comune di una comunità di fratelli liberi e uguali. Questa condizione
paradisiaca dell'umanità era andata perduta nel momento in cui il maschio aveva trasformato la
donna, da bene comune, in proprietà personale dando origine sia al principio tirannico del dio
padre, sia alle strutture autoritarie della famiglia e dello stato.
Secondo Anton Kuh, infatti, erano stati proprio gli ebrei a macchiarsi della terribile colpa di
intendere la sessualità come potere: il mito del peccato originale altro non era che l'atto di
appropriazione violenta compiuto dal maschio verso la femmina; e la maledizione che si era poi
abbattuta sulla umanità era la conseguenza della sessualità ebraica legata ai concetti di possesso,
subordinazione della donna, trasmissione dei valori di padre in figlio". Le teorie di Groß sfociavano
in questo modo in una critica violentissima dell'istituzione della famiglia ebraica.
Chi ricordi le lettere scritte da Kafka alla sorella Elli nel 1921, nelle quali lo scrittore, come si è già
citato, definiva la famiglia «un unico organismo, un unico sistema sanguigno», non può non vedere
nel saggio di Kuh, uscito nello stesso anno, una fonte in grado di chiarire parzialmente in quale
contesto ideologico Kafka si muovesse negli anni che precedono la stesura del Castello. La famiglia,
a cui si riferiva nelle sue lettere alla sorella, non era soltanto la famiglia borghese. Era soprattutto la
famiglia ebraica, cosi come l'aveva descritta Anton Kuh ispirandosi alle teorie di Otto Groß. Come
ricordava a Elli, vi era una differenza fondamentale tra i concetti di Mensch (essere umano) e di Son
(figlio); affinché il «figlio» potesse diventare un «essere umano» era indispensabile che fosse
educato in una comune famiglia ebraica seguendo la tentazione irresistibile del cibo rituale.
A questo giudizio sul movimento sionista, in buona parte condiviso da Kafka, Anton Kuh collegava
poi un profilo dell'intellettuale dell'assimilazione, nel quale Kafka non poteva fare a meno di
riconoscersi. Prodotto dalla legge perversa della famiglia, minato dalla consapevolezza di avere
violentato l'amore per sete di possesso, l'ebreo occidentale era - secondo Kuh - un uomo incapace
di amare e di essere amato, perché era un furibondo odiatore di se medesimo, esiliato in una sorta
di perenne stato di minore età che lo portava a coltivare una solitudine del piacere estetico e
intellettuale molto simile ad una pubertà che duri una intera esistenza. La tragedia di questo
Narciso ebraico, infantile, immaturo, del tutto isolato dalla realtà, era l'astratta disperazione di chi
si guarda vivere ed è, sí, nel mondo, ma anche fuori del mondo. L'ebreo occidentale era prigioniero
delle parole e ne era anzi posseduto a tal punto da trasformare in parola la sua intera esistenza.
Questa immagine del Westjude non era una novità, in quanto la stampa sionista lo descriveva
pressocchè nello stesso modo: uomo malato di nervi, depresso, tormentato da una sessualità
aggressiva, del tutto incapace di sentimento e profondità filosofica. Dinanzi a questa
caratterizzazione dell’ebreo occidentale è meno difficile capire perché Kafka, in una lettera
dell’aprile 1921, parlando per la prima volta della sua sessualità, si definisca “lo storto ebreo
occidentale”.
La descrizione che Anton Kuh faceva del Westiude rifletteva non solo le sue angosce di scapolo
immaturo, incapace di tagliare il cordone ombelicale che lo teneva legato, nella sua condizione di
«non nato», al corpo della famiglia: «La mia vita è stata un arrestarsi di fronte alla nascita»,
scriverà nei diari del 1922. Essa lo qualificava anche come il rappresentante legittimo della
westüdische Zeit. Quando scriveva a Milena di essere «il piú occidentale degli ebrei occidentali»
dichiarandosi l'uomo del presente alla ricerca del proprio passato e del proprio futuro, ricordava
sicuramente lo scapolo dei suoi diari del I910.
Kafka era consapevole di essere sempre stato lo scrittore dell’età ebraico-occidentale, chiamato a
rappresentare (senza mandato) la crisi della cultura europea. Questa consapevolezza di essere uno
scrittore non legittimato o provvisto soltanto di una legittimazione negativa è probabilmente la
principale chiave di interpretazione della figura del Kafka scrittore. Nel 1913 un articolo della
«Selbstwehr» aveva paragonato gli intellettuali dell'ebraismo assimilato ad un «corpo di volontari»
che combattevano, «senza salario e senza mandato», una
guerra suicida. In un aforisma del 1920 Kafka affermerà di vivere nella contraddizione di colui che
può accettare solo «un mandato che nessuno gli ha dato». In questo aforisma Kafka si descrive
come uno che spia dal di fuori lo spettacolo, fino a che non viene sorpreso dal poliziotto che lo
terrorizza battendogli improvvisamente la mano sulla spalla. Non c'è dubbio che questa
similitudine rifletta l'angoscia della cultura del l'assimilazione.

INFLUENZA DI TOLSTOJ E KIERKEGAARD


Nella nuova consapevolezza del suo ruolo di rappresentante della westiüdische Zeit Kafka accetta il
compito di distruggersi come scrittore imboccando senza riserve e con la determinazione suicida
degli ultimi anni della sua vita la strada della letteratura. Le parole con le quali commenta il suo
definitivo congedo da Felice - è il 25 dicembre 1917 - dimostrano che la sua letteratura non vuole
piú essere la rivelazione di una colpa o la difesa in un processo o l'abbandono ai fantasmi della vita
interiore, ma un attacco freddo e risoluto a tutte le istanze che tengono la verità prigioniera. «Ciò
che devo fare, posso farlo solo in solitudine: fare chiarezza sulle ultime cose. L'ebreo occidentale
non ha a questo riguardo le idee chiare e per questo non ha il diritto di sposarsi. Qui non ci
possono essere matrimoni».
Kafka si avvia cosí, a Zurau, per quella strada che lo condurrà cinque anni dopo alla concezione del
Castello. Hans Blüher, Otto Groß, Anton Kuh gli hanno confermato con le loro formulazioni teoriche
quella sua intuizione della sessualità come potere amministrato dalla burocrazia dei padri, che gli
aveva dettato le storie di Karl Rossmann e di
Josef K. C'era dunque un nesso necessario tra una teoria della sessualità e del potere, l’ordine
patriarcale della famiglia ebraica, l’autoritarismo della burocrazia borghese e la ribellione giovanile
della sua generazione.
L'epoca che ha scelto di rappresentare è troppo ricca di «costruzioni mondane e di spettri
notturni», perché sia possibile illudersi di realizzare la verità di una giusta vita nella comunità del
matrimonio. D'altra parte la letteratura non può piú permettersi di essere la narcisistica solitudine
di colui che scrive nella segregazione della sua cella. La letteratura significa ora una lotta, certo
senza speranza, ma non per questo meno necessaria, contro gli amministratori della vita, i padroni
delle donne, i signori della sessualità.
In questa nuova concezione della letteratura acquista una importanza determinante la lettura di
Tolstoj e di Kierkegaard.

Kierkegaard era convinto di poter servire, in maniera tipicamente cristiana, Dio solo nella
rassegnazione, nella rinuncia, nella negazione della sfera estetica del piacere e della sensualità.
Brod però ha un’altra interpretazione: Il vero paradosso, cosí come l'intendeva la tradizione
ebraica, non era nella negazione dell'istinto o nella condanna della terrestrità, sulla quale il
filosofo, secondo Brod, aveva costruito la categoria del singolo. Era invece nell'assurdo di una
grazia ottenuta in forza di una fede che si realizzava nel presente di un «miracolo dell'immanenza»,
centro della spiritualità ebraica, che vedeva proprio nell'istintualità la realizzazione del divino.
Abbandonando la moglie Brod aveva offeso, è vero, la legge morale, ma aveva anche obbedito al
richiamo del divino realizzando il paradosso della spiritualità ebraica nell'amore per un'altra
donna.
L'eticità e l'esteticità coincidevano cosí per Brod nell'assurdo ebraico, secondo il quale si poteva
servire Dio anche con l'istinto cattivo. In questo modo Brod riteneva di avere superato la posizione
cristiana di Kierkegaard, il quale, come Brod scriveva, non era riuscito nemmeno a concepire il
parallelismo e quindi la paradossale coincidenza dell'istintualità e del divino. Kafka al contrario
sembrava essere davvero uno dei «nuovi cristiani» che Brod aveva condannato nel suo saggio I
nostri letterati e la comunità, se, proprio come aveva fatto Kierkegaard, intendeva giustificare la
colpa di avere abbandonato la fidanzata con l'ascesi della sua ricerca letteraria.
La considerazione di questi risvolti personali e ideologici è molto importante per una corretta
interpretazione dell'influsso di Kierkegaard sullo scrittore, molto spesso condizionato nelle sue
letture dalle discussioni con l'amico. La sua interpretazione di Kierkegaard - lo dimostrano le sue
lettere a Brod - sembra essere in effetti il prodotto di un colloquio continuo con l'amico scrittore:
Kafka seppe resistere benissimo ai tentativi di Brod di imporgli una lettura sionista del pensiero di
Kierkegaard.
Kafka infatti, più che dalla speculazione teologica, è attratto dalla riflessione di Kierkegaard
sull’esistenza estetica. Max Brod utilizzava Kierkegaard per una sua teoria ebraica che indicava
all’ebreo occidentale, malato di letteratura e contaminato dalla cultura europea, la sicura via della
salvezza di una ritrovata religiosità talmudica. Kafka aveva in mente la cultura della westjuedische
Zeit.
Il pensiero di Kierkegaard non gli serviva, come accadeva a Brod, per teorizzare un ritorno alle
certezze della tradizione teologica ebraica, ma per giustificare la sua figura di scrittore isolato, che
nutriva l'ambizione di rappresentare, attraverso la letteratura, la negatività di un'epoca che era allo
stesso titolo ebraica e cristiana.
Cosí, quando scrive nei quaderni di Zürau di non avere parte né della tradizione cristiana di
Kierkegaard, né di quella ebraica dei sionisti, intende sicuramente dire di essere del tutto estraneo
sia alla dialettica teologica del filosofo, sia al romanticismo ebraico del cultursionismo. La
conclusione di questa celebre annotazione del 25 febbraio 1918: «Io sono fine od inizio» significa
dunque molto probabilmente solo il Kafka scrittore, con tutta la vertiginosa ambivalenza che Kafka
attribuisce alla figura dello scrittore.
Per questo lo studio di Kierkegaard si accompagna per lui a quello di Tolstoj. Poeta qual era e
soprattutto poeta che, a differenza di Brod, aveva compiuto una scelta molto decisa a favore di una
esistenza letteraria senza legittimazione e senza mandato, Kafka considera i motivi del peccato,
della salvezza e della vera via - presenti nei quaderni di Zürau, ma anche in Tolstoj e Kierkegaard -
dalla prospettiva di un pessimismo estetico che mette radicalmente in questione il principio della
autonomia dell'arte al centro della vita e dell’opera del suo Falubert. Le considerazioni morali e
teologiche dei quaderni di Zurau rappresentano cosí una specie di definitivo congedo dal maestro
di tutta la sua vita.

La tematica dei diari tolstoiani del 1895-99 rivela in effetti parecchie affinità con i motivi
fondamentali dei quaderni di Zurau. Il momento essenziale dell'incontro tra Kafka e Tolstoj è la
convinzione che l'arte potesse essere concepita solo nel suo rapporto con la verità. Per Tolstoj
l'arte moderna della decadenza era un'arte del consumo e del piacere che isolava il singolo
individuo nella puntualità di una sensazione. In luogo di comunicare la verità dell'anima liberando
quel principio spirituale che costituiva l'incomparabile unità di tutti gli uomini, l'arte del lusso e
della bellezza segregava la verità di questo principio divino nella prigione della soggettività.
L'egoismo, la vanità, il piacere esasperato della bella forma facevano cosí dell'artista moderno una
creatura alienata e deforme, priva di ogni energia fisica e morale e di ogni reale comprensione
della vita.
Se i diari di Tolstoj, cogliendo l'alienazione della vita per l'arte, sicuramente apparvero a Kafka una
conferma della sua condizione di scrittore condannato alla solitudine della letteratura.
Per quanto riguarda ancora Kierkegaard, il problema che riscontra nella lettura della sua opera nei
mesi a Zurau è il tema centrale dell’opera di Kierk. Aut-Aut come dimostra la sua rilettura di
questa opera nel dicembre del 1922 – l’anno in cui ha scritto nel Castello la storia della propria
ricerca letteraria – Kafka vede in Kierk. Soprattutto il giudice dell’uomo della vita estetica. Molto
evidente è infatti per Kafka il ritratto che Kierkegaard aveva dato dell’esteta, l’uomo dalle
possibilità infinte, che perseguendo il piacere della rappresentazione, finisce preda dall’angoscia
e della disperazione. Questo ritratto di Kierkegaard sembrava essere un’anticipazione profetica di
quel sistematico processo di autodistruzione che Kafka annota nei suoi diari.
Ma se la noia, l'angoscia, l'impotenza, la disperazione erano i motivi costanti di Aut-Aut, nei quali
Kafka poteva facilmente riconoscere la sua quotidiana esistenza di scrittore, il tema che forse lo ha
maggiormente colpito in quel periodo cosí particolare della sua vita che furono i mesi di Zürau è
stato con ogni probabilità la figura dell'esteta come menteur.
Kafka si era riconosciuto nella maschera del Tartuffe, pronto a far mostra delle piú nobili intenzioni
morali pur di soddisfare il suo smodato desiderio di piacere a tutti e di esibire dinanzi a tutti, senza
perderne l'amore e l'ammirazione, ogni bassezza e ogni infamia della sua natura. Kierkegaard
sembrava rispondergli nel modo piú diretto e insieme piú complice, quando scriveva che il piú
grande desiderio dell'uomo estetico era di essere il piú meschino e il piú miserabile degli uomini e
tuttavia di essere ammirato e venerato dal proprio tempo come l'uomo piú saggio di tutti.
Nel leggere le pagine che Kierkegaard aveva dedicato all'uomo della vita estetica Kafka vide
emergere piuttosto, la figura parassitaria del Narciso, che si nutriva degli altri e degli altri aveva
bisogno come di uno specchio nel quale sublimare la voracità mostruosa della sua natura. La
vanità, l'egoismo, il desiderio di piacere e piacersi, la tentazione di possedere e di gustare il mondo
nel la figura di una bellissima immagine - tutto ciò era, come gli spiegava Kierkegaard e come egli
stesso aveva fino a quel momento sperimentato, il peccato capitale che l'uomo della letteratura
doveva scontare con la solitudine piú terribile e con la dissoluzione piú angosciosa dell'io.
Privo di identità, l'uomo della vita estetica era infatti per Kierkegaard la creatura della maschera.
Egli sapeva assumere un volto sempre diverso a seconda del ruolo sempre diverso che gli
imponeva il suo bisogno di piacere agli altri, ma doveva poi rinchiudersi nella cella inespugnabile
della sua solitudine.
Prigioniero nella cella della sua solitudine, l'uomo dell'esistenza estetica sapeva crearsi, secondo
Kierkegaard, ogni sorta di godimento sviluppando tutte le possibili arti dell'oblio per procurarsi il
piacere della contemplazione della realtà ridotta ad una bella immagine; per l'uomo estetico era
essenziale vivere il mondo poeticamente e ciò era possibile solo dimenticando l'angoscia e il dolore
che fondavano l'esistenza: «Ricordarsi in modo poetico - cosí aveva scritto Kierkegaard - è, a ben
guardare, dimenticare».
Kierk. Aveva scritto a questo riguardo: <<Memoria e oblio sono dunque la stessa cosa e questa
identità, realizzata artisticamente, è il punto di Archimede, dal quale si può scardinare il mondo>>.

L'esistenza estetica, dunque, è ben lontana dall'essere una vita della spontaneità immediata
dell'eros. Essa è fatta piuttosto di fantasia e di riflessione insieme, le quali si incrementano a
vicenda esaltandosi nel giro vizioso di una follia autodistruttiva. Chi gode di se medesimo soltanto
nel piacere - aveva detto Kierkegaard - deve infatti costruire in ogni momento anche la condizione
esteriore del godi-mento, al punto che egli non gode mai in modo immediato, ma sempre in modo
riflesso.
Ciò significa che l'uomo della vita estetica può consumare, nel godimento, solo di se medesimo e in
modo tale che, in questo riflettersi del piacere su se stesso, egli svuota il proprio sé di ogni realtà:
proprio come «l'artista del digiuno» del racconto kafkiano, il cui piacere consiste nel nutrirsi di
stesso, o come l'animale della Tana, che, per una illimitata libidine della riflessione, distrugge se
stesso scavando in se stesso la tana che è poi la metafora di quel narcisistico piacere riflesso di cui
aveva parlato Kierkegaard.

L'esteta di Kierkegaard precipita nel pozzo senza fondo di una noia che non conosce piú nemmeno
la diversione del dolore. «Per me - cosí dice l'esteta invidiando Prometeo - persino il dolore ha
perduto il suo ristoro». A questo passo fa sicuramente eco Kafka, quando scrive Prometheus
(Prometeo), con le sue quattro versioni del mito, l'ultima delle quali ha come esito la noia, la
stanchezza, l'oblio: «Secondo la quarta, tutti si stancarono di lui che non aveva piú ragione di
esistere. Gli dei si stancarono, le aquile si stancarono, la ferita stancamente si chiuse». Questo
Prometeo che si fonde con la roccia, alla quale è incatenato, pur di sfuggire ai colpi di becco
dell'aquila di Giove, sembra essere dunque una versione kafkiana dell'esteta di Kierkegaard. In
effetti Kafka, piú che giocare, con quattro diverse, contraddittorie varianti del mito, descrive a ben
guardare una metamorfosi che è poi una metamorfosi negativa del senso. Attraverso un processo
di decomposizione del significato le quattro leggende della sua prosa vogliono dimostrare, per
negazione, la verità dell'asserzione finale di cui esse sono la similitudine solo in forza del loro
crescendo.
Ma la progressione delle quattro versioni concepita da Kafka - sono quattro versioni che solo in
apparenza sono quattro diverse varianti del mito - dimostra poi che lo scrittore, piú che al mito
greco, pensava al mito borghese del Prometeo demiurgo, cosi come Kierkegaard l'aveva
rappresentato in Aut-Aut: l'esito finale della cultura estetica dell'Occidente europeo - cosí sembra
dire Kafka facendo eco al filosofo - è l'indicibile stanchezza di una noia che trascina nell'oblio
l'intero ordine dell'universo.
Il Prometeo sembra essere dunque l'espressione piú sconsolata del nichilismo estetico dello
scrittore. E tuttavia questa prosa non è per nulla la negazione di ogni speranza della poesia.
Prometeo, è vero, si è annullato nella roccia, eppure Prometeo non è veramente dimenticato fino a
che ci sarà qualcuno che racconta la sua leggenda, «L'inesplicabile roccia» infatti non è altri che
Prometeo o la verità rappresentata nel mito di Prometeo e l'unica prova della loro esistenza è che
ci sia ancora una leggenda che racconti di loro. L'esistenza della poesia dimostra insomma
l'esistenza della verità. La poesia, per il solo fatto di esistere, dimostra che la verità, anche se è
irraggiungibile, è sicuramente presente in qualche luogo del mondo.
Può essere allora che il Prometeo kafkiano sia la similitudine o il mito negativo di quel rapporto tra
bellezza e verità.
Ma forse è possibile concepire un altro mito dell'esistenza letteraria con un altro eroe che,
diversamente da Prometeo, sa che le Sirene non cantano piú. Il Prometeo padre delle arti e delle
scienze dell'uomo, il demiurgo della tradizione romantica, dominatore delle forze della natura,
trova il suo successore in Ulisse, l'uomo dalla astuzia ineguagliabile, che ha, sí, smarrito la strada ed
è preda dei mostri ripugnanti partoriti dalla sua solitudine, ma conosce ancora il piacere della
poesia, ha ancora la voglia di sfidare il silenzio delle Sirene.
Il Silenzio delle Sirene (Das Schweigen der Sirenen) è un pezzo scritto da Kafka e contenuto nel
terzo quaderno di Zurau alla data del 23 ottobre 1917, e rappresenta forse il testo più sottile che
Kafka abbia scritto sul fenomeno estetico.
Secondo una interpretazione di Walter Benjamin, il silenzio delle Sirene è la conseguenza della
sordità dell'uomo moderno, gli stratagemmi impiegati da Ulisse per resistere alla loro tentazione
sono gli strumenti della ragione tecnologica che ha fatto ammutolire le forze mitiche della natura:
consapevole che la poesia è muta, Kafka usa i mezzi della tecnica solo per non sentire il silenzio
metafisico o per dimenticare che la poesia, priva com'è di verità, è ormai solo il commento e
l'interpretazione di una verità o di una dottrina ormai sconosciute e inesistenti.
Il significato di questa prosa può essere, certo, anche quello proposto da Benjamin. Ma è probabile
che Kafka avesse in mente qualcosa di leggermente diverso. In obbedienza al piano concepito nei
mesi di Zurau lo scrittore, deciso di raccogliere la sfida delle istanze che amministrano l'amore e la
vitalità, deve innanzi tutto nascondere la sua affinità con le forze che attraverso il loro canto
conducono l'uomo nel regno della morte. Per questo Kafka interviene sul mito omerico
immaginando da una parte che l'arma piú terribile delle Sirene non sia il loro canto, ma il loro
silenzio, e dall'altra che non siano i compagni di Ulisse a chiudersi le orecchie con la cera, bensi
Ulisse medesimo. Di questa reinvenzione del mito omerico è senza dubbio stupefacente
l'intuizione che le Sirene non cantino. Ma ancora piú stupefacente è forse l'eccesso di precauzioni
prese dall'Ulisse kafkiano, il quale non solo si fa incatenare all'albero della nave, ma si riempie
anche le orecchie di cera. Ora questo doppio sistema di sicurezze non è tanto dettato dalla ben
nota ansia dello scrittore. È piuttosto l'espressione della vertiginosa astuzia del suo Ulisse che con
questo semplicissimo stratagemma riesce a far credere di essere seducibile come ogni altro essere
umano. In realtà Ulisse, come ci racconta l'appendice della leggenda, ha capito benissimo che le
Sirene non cantavano, ma, grazie alla cera che astutamente si è messo nelle orecchie, ha potuto
recitare la parte dell'eroe ingenuo e innocente che vince le potenze della morte in virtú della sua
puerile fiducia.

Nell’Ulisse della leggenda kafkiana riemergono dunque il Tartuffe e il Menteur. Egli semplicemente
finge di essere un uomo come gli altri, si comporta come se fosse capace di cedere, al pari di tutti i
mortali, alla tentazione della bellezza e del canto. Ma la sua vera natura - <<Io non sono un essere
umano>>, aveva scritto Kafka a Felice – è la sua incapacità di amare, la sterilità del suo canto, la sua
familiarità con la morte.

CAPITOLO 9
L’angoscia della westjudische Zeit si fa ancora più presente quando incontra Milena Jesenska nel
1920. Dopo che ritorna a Praga poi dopo il 1918, si occupa molto di ebraismo e sionismo. Prende
atto delle idee dei suoi due amici Brod e Felix Weltsch che sono esponenti di primo piano del
sionismo praghese:
1) Felix Weltsch  Democrazia organica: si pronunciava per una nozione organica di popolo,
definito un “organismo nutrito e formato dalle volontà individuali”.
2) Brod saggio dal titolo Sionismo: tesi di una cultura nazionale già ribadita in precedenza.

Kafka però polemizza anche con loro rifiuta la loro scelta ideologica, deciso a non sacrificare la
sua letteratura all’ideale di una comunità che assume ai suoi occhi connotazioni autoritarie. Le sue
lettere a Brod sono infatti uno dei molti esempi della sua resistenza al sionismo.
Il sionismo in questo modo diventa una nuova forma del suo tribunale, a cui contrappone, invece
del solito senso di colpa, la definizione del progetto (“grandissimo compito”) che aveva iniziato a
definire nell’inverno di Zurau. A questo progetto controbuiscono due esperienze sentimentali da
cui Kafka esce completamente distrutto:
1) Julie Nel gennaio del 1919 ritorna a Schelesen per un nuovo periodo di cura. Tra i malati
conosce Julie Wohryzek, una modista ventottenne, figlia di un semplice calzolaio, custode
della sinagoga di un sobborgo di Praga; è una ragazza molto malata - morirà negli anni
trenta in un sanatorio vicino a Praga - che ha perduto in guerra il fidanzato, fervente
sionista. Di fronte a questa ragazza del proletariato ebraico, Kafka si comporta da buon
sionista, facendole leggere le opere di Brod. Ma come gli è già accaduto per Felice, il suo
sionismo è solo un inganno per ingraziarsi la donna. È lui ad insistere per il matrimonio,
quando sa di non essere fatto per la vita coniugale. Sappiamo come Kafka ha motivato il
fallimento del suo secondo tentativo di matrimonio nella Lettera al padre, concepita e
scritta appena qualche giorno prima della lettera alla sorella di Julie: è stato l'onnipotente
genitore che nella sua imperscrutabile saggezza lo ha ritenuto indegno di fondare una
famiglia. In realtà è stato di nuovo il Tartuffe, il menteur che è dentro di lui, a spingerlo a
giocare con la vita della seconda fidanzata come aveva già fatto con la vita della prima.
Quando, nella sua lettera alla sorella di Julie, invoca a sua giustificazione la debolezza e la
nevrosi dell'ebreo occidentale - la letteratura ne è, a ben guardare, solo un attributo- usa
infatti la medesima formula, con la quale, nel 1914, ha cercato di spiegare a Grete Bloch
perché avesse tanti dubbi riguardo a Felice. La letteratura è dunque, ancora una volta, ciò
che lo rende colpevole e al tempo stesso lo assolve. Lo dimostra con gli aforismi “Egli”, in
cui giudica sé stesso sotto la prospettiva della letteratura (riflette sulla sua condizione di
prigioniero volontario della letteratura). Sono aforismi che riprendono i motivi di Zurau, ma
rivelano una maggiore concentrazione sulla problematica dell’esistenza estetica, non hanno
tracce di meditazioni teologiche o morali.
2) Milena Con Felice e con Julie, che sono sioniste o vicine al sionismo, ha dovuto per così
dire fare la parte dell'ebreo occidentale che vuole guarire; e quando ha dovuto giustificare
il suo bisogno di solitudine, è sempre ricorso all'argomento della letteratura. Con Milena
invece, che è una intellettuale cristiana, può essere senza ritegni e senza pudori l'ebreo
occidentale; e quando deve spiegarle le ragioni della sua angoscia, invoca l'argomento
dell'ebraismo, si esalta nell'odio per l'ebreo della crisi che ha in se medesimo. Se cosi con
Felice ha parlato sempre di letteratura, con Milena parla quasi sempre di ebraismo. Come
le scrive ripetutamente, Milena è la prima donna che ha capito la sua angoscia. Di fronte a
lei può parlare liberamente come non ha mai fatto con nessun altro, perché nessuno è mai
stato dalla sua parte come Milena. Kafka si offre a lei nella figura dell’ebreo errante,
dell’ebreo occidentale, ma solo per mascherare la figura dello scrittore: per la prima volta
nella sua vita lo scrittore e l’ebreo sono la stessa persona e condividono la stessa colpa.

-Parallelismo tra una lettera a Milena e Heimkehr


Alla fine di agosto Kafka scrive Heimkehr (Il ritorno a casa). E la storia del figliol prodigo che non
osa bussare alla porta della casa paterna, la osserva da lontano, sa che, se l'invitassero ad entrare,
rifiuterebbe «come uno che vuole custodire il suo segreto». Il mese seguente descrive a Milena un
centinaio di ebrei orientali che dormono nel salone delle feste del Municipio ebraico di Praga in
attesa del visto per l'America:
<<Se mi avessero dato di scegliere di essere quello che voglio avrei voluto essere un piccolo ebreo
orientale, in un angolo della sala, senza ombra di preoccupazioni, il padre al centro discute con gli altri uomini, la
madre, avvilup pata nel suo vestito pesante, rovista tra gli stracci del suo baga-glio, la sorella chiacchiera con le
ragazze e si gratta la testa dai capelli bellissimi - e fra qualche settimana saranno tutti in America>>
Tra il Kafka di Ritorno a casa e questo della lettera a Milena c'è il problema del sionismo dello
scrittore e quello della sua letteratura. Da una parte ci sono gli ebrei orientali, dei quali scrive, con
l'ammirazione del sionista, che «sono un popolo»; dall'altra c'è l'ebreo occidentale, che non può
entrare nella casa paterna, perché non vuole mostrare il segreto della sua metamorfosi.
Kafka sa benissimo di combattere la stessa lotta che anima la generazione sionista. Ma sa anche di
doversi battere con gli altri e al tempo stesso lontano dagli altri. Se questi sono spinti da un
positivo ideale politico e culturale che Ii fa combattere insieme, Kafka non ha, per questa sua lotta
solitaria, altra giustificazione che la sua angoscia: deve trovare una legittimazione storica del suo
narcisismo di scrittore, risolvere quel paradosso incomprensibile che fa di lui uno scrittore isolato e
al tempo stesso militante. È di questi mesi la lettera a Milena sulla psicanalisi che si ritrascrive nei
quaderni. L'errore della psicanalisi - cosi dice Kafka - è nella sua illusione di essere una terapia.
L'angoscia infatti non è una malattia, ma un fenomeno o una manifestazione della fede, il tentativo
dell'uomo in pericolo «di ancorarsi in un qualche terreno materno».
Sembrerebbe che Kafka, rifiutando il razionalismo della psicanalisi, intenda l’angoscia come una
categoria religiosa, legata alla condizione terrena dell’uomo, immerso in un mondo di sporcizia e di
inganno. Ma in un’altra lettera fa intendere che questa sua angoscia è ancora una volta l’orrore che
prova per la sua natura di scrittore. Questa angoscia, che viene rappresentata da lui stesso come il
trauma della masturbazione infantile (“Selbstfleckung”), può essere dunque solo mediamente
intesa nella sua accezione teologica o religiosa. L’essere umano più impuro di questo mondo è lo
scrittore, un essere infantile che alimenta la sporcizia intorno a sé, e attraverso la quale al tempo
stesso alimenta il suo desiderio di purezza. L'esistenza letteraria dunque significa vivere nella
sporcizia e costruirvi la tana nell'ansia di «ancorarsi in un qualche terreno materno». Ma significa
anche purificare se stessi, distruggere in se stessi ogni protezione materna esaltandosi in una follia,
della quale solo lo scrittore è capace, perché solo lo scrittore ha il dovere di ripulire il mondo
facendo chiarezza sulle ultime cose. E evidente che Kafka ormai pone risolutamente lo scrittore al
centro del mondo. I sionisti attribuiscono al corpo mistico della comunità il compito di redimere gli
ebrei e l'intera umanità da tutte le impurità dell'era moderna. Kafka concepisce un suo progetto
solitario che sembra mettere nelle mani di un solo uomo il destino di tutti gli altri. La salvezza sta
quindi nello scrittore isolato, che ha il coraggio di prendere su di sé tutta la negatività del proprio
tempo, e non nella comunità, in un’ideologia o nell’azione politica.
E senza questa angoscia non ci sarebbe nemmeno la poesia.
Kafka poi interpreta la letteratura come un dovere che gli appare assurdo e degno di
commiserazione solo perché gli manca una visibile legittimazione. E tuttavia non ha dubbi che il
suo dovere debba essere compiuto. «Solo il desiderio di verità è vero», si legge nella lettera a
Milena, già citata, in cui Kafka si presenta nella figura ripugnante dell'animale letterario. L'uomo
della letteratura, certo, trascorre la sua esistenza ai margini della Legge e consuma la propria vita a
porre domande al suo insuperabile guardiano. Ma la sua presenza dinanzi alla porta della verità è
poi l'unica riprova visibile che la verità esiste realmente. Appunto questa avrebbe dovuto essere,
nelle intenzioni di KafKa, la conclusione del Castello.
Questa testimonianza negativa per la verità da parte della letteratura appare tuttavia, sempre piú
chiaramente, un processo sistematico di autodistruzione. E tuttavia questa esistenza ha bisogno di
una giustificazione, sia pure negativa, che Kafka cerca di assicurarsi reclamando ora, senza più
riserve, la rappresentanza della westjudische Zeit.

Nel dicembre 1920 Kafka va in un luogo di cura sul confine polacco, Tatranské Matliary, dove
incontra diverse figure dell’umanità dell’ebraismo mitteleuropeo. Prima di tutto, gli ospiti e i
dottori sono quasi tutti ebrei. Nella pensione c’è anche Robert Klopstock, uno studente di medicina
di Budapest, che diventerà il più caro amico di Kafka nei suoi ultimi anni. Questo è antisionista, ha
spiccati interessi letterari ed è mosso da entusiasmi cristiani. Tra gli ospiti infatti è quello più
lontano dall’ebraismo ma anche il più vicino allo scrittore, con il quale parla soprattutto di
Kierkegaard.
Fuori da questo microcosmo invece ci sono gli ebrei che hanno vinto le angosce della westj. Zeit:
felici, attivi, sani, che costruiscono la comunità del futuro. Le lettere di kafka dalla casa di cura sono
infatti un continuo confronto con questi amici lontano, come per esempio Max Brod, Felix Weltsch
e Oskar Baum, tutte figure che hanno dato buona prova di sé e hanno avuto successo in tutto.
I motivi della maledizione paterna, dell'infantilismo, della deformità, della malattia e dell'esilio
dalla storia sono naturalmente legati alla condizione della westiüdische Zeit e alla segreta
condizione del Narciso ebraico. Albert Ehrenstein, lo scrittore viennese che è venuto a trovarlo a
MatTary, gli ha detto che in Milena la vita gli tende ancora una mano offrendogli una scelta tra la
vita e la morte; e anche Brod fa di tutto per indurlo a non rifiutare l'offerta di Milena. Kafka
risponde ancora una volta con la sua angoscia che attribuisce alla cultura della décadence ebraico-
occidentale.
La superbia del Narciso, che accetta di vedere nella donna solo il riflesso della propria bellissima
immagine, e l'umiltà dell'ebreo occidentale, che può vedervi solo la propria figura deforme, sono
"due estremi di un unico nesso simbolico”, in virtú del quale Kafka identifica in se stesso lo scrittore
e l'ebreo alla luce della cultura dell'assimilazione.
Il complesso paterno, sin troppe volte considerato solo nei termini della psicanalisi, ha dunque per
Kafka anche una dimensione storica, è legato alle condizioni di decadenza dell'ebraismo
occidentale, della quale solo lo scrittore e la sua generazione sono i veri protagonisti.
Il testo fondamentale della westiüdische Zeit è forse la lettera del giugno 1921 che Kafka scrive a
Max Brod da Matliary in un momento in cui è sicuro di non potere piú guarire. Si tratta di un
documento eccezionale, non solo perché è una delle pochissime interpretazioni non cifrate che
Kafka abbia dato della propria epoca e della propria generazione, ma anche perché chiarisce, con
un rigore critico molto raro nello scrittore, la consapevole intenzione della sua opera. Il tema di
questa lettera è la letteratura degli ebrei di lingua tedesca. Si distanzia dal sionismo politico e
letterario di Brod per affermare l’indipendenza di grande scrittore quale è convinto di essere.
Max Brod, già lo si è detto piú volte, vedeva la soluzione del problema ebraico nell'impegno
culturale immediato. La dichiarazione di Balfour del 1917, che riconosceva agli ebrei il diritto di
insediarsi in Palestina, confermava l'urgenza del lavoro educativo indispensabile a formare i nuovi
ebrei della patria futura e giustificava l'ottimismo della stampa sionista, molto evidente per
esempio in una rivista cosí importante come «Der Jude», che dopo il 1918 diede largo spazio ai
problemi sociali e pedagogici delle nuove comunità in Palestina. Le posizioni del sionismo
mitteleuropeo erano bene riassunte in un saggio di Hans Kohn dal titolo Il problema della cultura
dell'ebreo occidentale moderno. Per l'ebraismo europeo -cosí scriveva Hans Kohn su «Der Jude» -
era passata la fase dell’autodenigrazione ebraica. Il cultursionismo aveva prodotto a questo
riguardo una chiarezza esemplare mostrando a tutti la frattura tra il vecchio e il nuovo ebraismo.
Da una parte c'era la vecchia generazione degli assimilati incapaci di uscire dalla crisi; dall'altra la
nuova generazione dei giovani che avevano saputo salvarsi dai mali della decadenza dell'Occidente
nel sionismo creativo di Martin Buber. Per gli scrittori e per gli intellettuali ebrei l'imperativo del
momento era di produrre per la comunità rinunciando a scrivere per gioco o per il puro piacere
della letteratura
Il tema della frattura tra le due generazioni dell'ebraismo moderno e quello della letteratura degli
ebrei occidentali erano naturalmente al centro anche della lettera di Kafka. Per Kafka il
protagonista della cultura dell’assimilazione non era però l’intellettuale sionista, e credeva che il
suo dovere di scrittore non fosse semplicemente la celebrazione della nuova comunità.
Il suo compito era di passare attraverso la crisi, di affrontare senza riserve la negatività della
westüdische Zeit e, cosa ben piú ambiziosa, di condurre da solo, in quanto scrittore e con i soli
strumenti della letteratura, la lotta contro l'ebraismo della crisi borghese.
Per questo la sua lettera parla siprattutto della letteratura della sua generazione e nomina Karl
Kraus Kraus,agli occhi dei sionisti la quintessenza della Westjudentum, aveva scritto un pamphlet
antisionista, Eine Krone fuer Zion (Una corona per Sion), del 1898. Il sionismo per lui era solo una
nuova espressione di antisemitismo ebraico, un’ideologia razzista come il razzismo del
nazionalismo tedesco, e il nuovo stato in Palenstina non sarebbe stato altro che una nuova forma
di ghetto. Inoltre, nel suo saggio Heine und die Folgen (1910 – Heine e le conseguenze), utilizzava
Heine come metafora di una letteratura asservita all’industria culturale, e attribuiva agli ebrei la
decadenza della lingua tedesca. Scrisse anche dei versi satirici nei quali parodiava il tedesco degli
scrittori ebrei, una lingua a suo dire piena di parole gergali e di espressioni di origine jiddisch.
Questo tipo di parlata dal sostrato jiddisch era allora chiamata mauscheln o juedeln. Era il tedesco
degli ebrei orientali da poco immigrati in Austria o Germania, ma ben presto diventò il simbolo
della cultura acquisita e parassitaria dell’assimilazione.
Kraus rimproverava agli scrittori praghesi - particolarmente orgogliosi del loro tedesco senza
inflessioni dialettali - l'ambiguità e la contaminazione linguistica dello jüdeln; e che i sionisti e gli
avversari di Kraus vedevano nello scrittore viennese o l'ebreo che si era fatto campione della
purezza della lingua tedesca oppure - come scriverà tra gli altri Anton Kuh - «il tipico
rappresentante dell'antisemitismo ebraico», o infine un caso esemplare del complesso di
persecuzione dell'ebreo assimilato che sentiva il morboso bisogno di dimostrarsi piú tedesco degli
stessi tedeschi.
Inoltre Kraus scrive una satira letteraria sulla generazione espressionista, “Letteratura ovvero Si
starà a vedere”. Kraus qui attaccava l’intero espressionismo, soprattutto Franz Werfel, e con l’uso
che questi aveva fatto del complesso paterno e della psicanalisi in Spiegelmensch (“L’uomo
specchio”).
Secondo Kraus il complesso paterno al centro dell'opera di Werfel e del movimento espressionista
era il sintomo di quella cultura ibrida dell'assimilazione, che, come si è appena ricordato, aveva
ripetutamente preso in giro nelle sue glosse contro Brod e gli scrittori praghesi. Kraus faceva della
ribellione espressionista contro la generazione dei padri un caso abbastanza comico di
antisemitismo ebraico o di assimilazione incompiuta. Ridicolizzando il ruolo del figlio ribelle Kraus
si presentava nella sua veste di critico e di giudice del mauscheln; e poiché i sionisti gli
rinfacciavano di avere ripudiato l'ebraismo, faceva capire che l'ostilità dei praghesi nei suoi
confronti era l'espressione infantile dell'odio dei giovani sionisti per l'assimilazione dei padri.
La posizione di Kafka all’interno di questa polemica si rifà a questo giudizio di Kraus sulla
generazione espressionista. Come scrive infatti in una lettera a Brod – uno degli avversari di Kraus -,
Kraus “regnava davvero come un sovrano nel piccolo mondo della letteratura ebraico-tedesca”.
Tutti vedevano in lui soltanto il satirico e il giornalista perdendo di vista il principio che egli
rappresentava.
Lontano sia da coloro che riconoscevano in Kraus il critico del linguaggio di massa o da quelli che lo
veneravano come il campione della purezza della lingua tedesca - due posizioni abbastanza tipiche
della borghesia ebraica che formava buona parte del pubblico del critico viennese - Kafka, dunque,
sembra considerare Kraus da una prospettiva determinata in larga misura dalle posizioni della
stampa sionista. Nell'opera di Kraus - cosí scrive a Brod - non è difficile separare la verità da ciò che
è soltanto Witz ebraico o deplorevole meschinità. Questa forma del Witz, del motto o della battuta
di spirito, di cui Kraus è, secondo Kafka, il maestro insuperato, è appunto il mauscheln, l'unica
lingua che sappia parlare chi vive «in questo mondo ebraico-tedesco». Naturalmente Kafka intende
il mauscheln in senso lato, ovverosia come il linguaggio della cultura del la westjüdische Zeit.
Il Mauscheln, così dice Kafka, è <<l’appropriazione di un patrimonio che appartiene ad altri>>, che
gli ebrei non si sono guadagnati ma che hanno rubato e che resta patrimonio di tutti. Ma dà anche
un’altra interpretazione, più sottile, che è con ogni probabilità il vero giudizio dello scrittore su
Kraus e sulla letteratura degli ebrei tedeschi: il mauscheln è una <<combinazione organica di
tedesco cartaceo e di linguaggio testuale>>, il che vuol dire un tedesco letterario vivificato dalla
gestualità dell’ebreo, definito anni prima da Buber. Ma è anche «il risultato di una finissima
sensibilità linguistica che ha capito che nel tedesco vivono veramente solo i dialetti e, oltre a loro,
solo il tedesco personalissimo, mentre il resto, il ceto medio linguístico, non è che cenere che può
essere riportata ad una vita apparente solo se vivacissime mani di ebrei vi frugano dentro».
Kafka in questa interpretazione dà un giudizio che riguarda in primo luogo sulla sua letteratura
Escluso dai dialetti, l'ebreo aveva, secondo Kafka, due scelte soltanto: o si inventava un suo
«tedesco personalissimo», che ovviamente poteva essere solo il tedesco del grande scrittore,
oppure si buttava sul tedesco dell'industria culturale, che era appunto «il ceto medio linguistico»,
la lingua morta e bruciata delle metropoli, alla quale solo la vivacità intellettuale degli ebrei poteva
restituire una parvenza di vita.
È proprio questa la verità che Kraus, secondo Kafka, aveva reso visibile nella sua opera la cultura
del mauscheln - del mauscheln come contaminazione di tedesco scritto e di gestualità ebraica e del
mauscheln come tentazione irresistibile degli ebrei di rovistare tra i rifiuti linguistici della cultura di
mercato - era «in relazione con l'ebraismo in sé ovvero, piú precisamente, con il rapporto dei
giovani ebrei con il loro ebraismo, con la terribile situazione interiore di questa generazione» (B
337). Nella sua «triologia magica» Werfel aveva visto nella psicanalisi uno strumento di
interpretazione della crisi della generazione. Per Werfel la coscienza infelice dei giovani, la loro
incapacità di vivere, l'odio che portavano verso se stessi e il senso di colpa che li divorava erano la
conseguenza del complesso paterno che andava risolto in atto estatico di liberazione interiore. Per
Kraus invece - cosi Kafka interpreta la parodia che il critico viennese aveva fatto del freudismo di
Werfel - il complesso paterno era innanzi tutto una crisi interiore dell'ebraismo assimilato. Per
questo Kafka scrive:

<< Piú della psicanalisi mi piace in questo caso il riconoscimento che questo complesso paterno, di cui molti
spiritualmente si nutrono, non riguarda il padre innocente, ma l’ebraismo del padre. La maggior parte di coloro che
incominciarono a scrivere in tedesco volevano scappare via dall'ebraismo, perlopiú con il non chiaro consenso dei
padri, solo che con le zampette posteriori erano ancora attaccati all'ebraismo paterno, mentre non trovavano un nuovo
terreno. La disperazione che provavano in questa situazione era la loro ispirazione>>

La westiüdische Zeit non era per lui una crisi nel tempo della storia che fosse possibile superare
con una nuova terapia dell'angoscia, quale era la psicanalisi, o con una nuova concezione
dell'ebraismo, quale era il cultursionismo: la westiüdische Zeit era l'epoca della letteratura totale
e ciò voleva dire l'epoca dell'impossibilità della letteratura.
E questo il tema dell'ultima parte della lettera a Brod, nella quale Kafka riassume la condizione
interiore degli scrittori ebrei della sua generazione con queste parole:

<< Essi vivevano fra tre impossibilità: l'impossibilità di non scrivere, l'impossibilità di scrivere in tedesco, limpossibilità
di scrivere diversamente, quasi si potrebbe aggiungere una quarta impossibilità, l'impossibilità di scrivere >>

1) La prima via è appunto quella di Max Brod che, grazie al suo sionismo, ha compensato in
modo cosí brillante il suo disagio di ebreo, costretto a servirsi di una lingua non sua, con
una fede illimitata nella sostanza dello spirito ebraico. Per Brod la cultura tedesca e la
lingua tedesca sono semplicemente il materiale acquisito o assimilato di una diversa, innata
creatività, e che la coesistenza della materia tedesca e della forma ebraica non sia per nulla
infelice lo dimostra la sua incredibile fertilità.
2) La seconda via è quella della cultura dell'assimilazione, di cui Karl Kraus, come vogliono i
sionisti, è senza dubbio il massimo rappresentante. La disperazione che sembra nutrire
l'ispirazione di quegli scrittori che hanno scelto questa strada non è tuttavia, come
parrebbe l'angoscia di doversi esprimere in tedesco. In realtà questi scrittori, che hanno
incominciato a scrivere in tedesco per fuggire via dall'ebraismo, hanno, secondo Kafka una
ben diversa angoscia. Se odiano il padre non è per via del complesso paterno, cosí come
l'aveva descritto la psicanalisi. La loro ribellione non riguarda affatto la persona, bensi,
come aveva ben capito Kraus, l'ebraismo del padre. È una ammissione, questa di Kafka, di
grande importanza. Essa significa per lui che i giovani odiano, nella figura del padre ebreo,
semplicemente ciò che impedisce loro di essere liberamente e felicemente scrittori
tedeschi senza complessi di colpa. Per questo Kafka li considera le vittime della cultura
sradicata delle metropoli, le infelici creature di quel «ceto medio linguistico» preso di mira
da Kraus. La loro letteratura insomma non è letteratura tedesca semplicemente perché è
cattiva o mediocre letteratura, è venduta alla attualità, significa, come aveva scritto Karl
Kraus di Werfel e come di Werfel scriverà lo stesso Kafka, la «degradazione dei dolori di una
generazione»

In un dramma di Werfel dal titolo “Schweiger”, Werfel aveva concepito la figura carismatica di un
capo politico della socialdemocrazia austriaca che si rivela essere un pazzo infanticida che la
psichiatria antifreudiana di un medico militarista e antisemita ha curato reprimendo in lui ogni
memoria del suo delitto. Naturalmente la tragica fine di Schweiger era, nelle intenzioni di Werfel,
una protesta contro quanti, nazionalisti e antisemiti, consideravano la psicanalisi una «scienza
reclamistica dell'ebraismo», nel linguaggio di allora una scienza del. la sinistra democratica e
socialista; per questo Werfel aveva affiancato al protagonista, nel personaggio di Ottokar Grund, la
figura di Otto Groß, simbolo - come si è visto nel precedente capitolo - della psichiatria freudiana e
antiautoritaria dell'espressionismo.
La reazione di Kafka a questo dramma fu violentissima per lui Werfel aveva trasformato
l’angoscia in un aneddoto politico e sociologico. In che modo i dolori di una generazione
dovrebbero essere rappresentati Kafka lo dimostra immediatamente nei suoi quaderni: scrive “ein
Kommentar”, nella quale c'è uno che si accorge di essere in ritardo e cerca trafelato la strada per la
stazione, ma viene invitato dal vigile, al quale ha chiesto come arrivarci, di lasciar perdere, di
abbandonare ogni speranza. La situazione quotidiana e persino banale di questo schizzo è
evidentemente concepita come una risposta al pretenzioso dramma di Werfel. Essa fa capire molto
bene quali ambizioni espressive Kafka affidasse alla letteratura, quando scriveva a Max Brod sulla
cultura della westiüdische Zeit: la storia, l'attualità, la polemica e l'ideologia dovevano essere
rigorosamente espunte in un tipo di figurazione spoglia, disadorna, essenziale, nella quale
l'angoscia dell'ebraismo moderno doveva essere rappresentata con la semplicità di una
similitudine quotidiana.
Questa scelta espressiva, alla quale Kafka è rimasto sempre fedele in tutta la sua opera, significa il
rifiuto del principio del mauscheln. Brod scriveva in tedesco i suoi articoli di militanza sionista e del
tedesco si serviva per esprimere il suo ritorno all'ebraismo, senza risolvere la contraddizione che
lui stesso dichiarava irrisolubile in linea di principio. Kraus era l'ebreo assimilato che sembrava
perseguitare nel suo purismo linguistico coloro che non erano riusciti a compiere sino in fondo il
processo dell'assimilazione. Werfel infine si smarriva nelle formule della moda culturale
dimenticando la drammatica realtà del problema ebraico. Ma tutti e tre insieme, sia pure per
ragioni opposte e diverse, rappresentavano la letteratura del mauscheln, erano compromessi con il
linguaggio impuro dell'attualità.

3) Tra la via del sionismo e quella dell'assimilazione restava quindi solo la via del grande
scrittore. Egli possedeva un suo «tedesco personalissimo», non era, in quanto scrittore, né
tedesco né ebreo, ma aveva, proprio perché era ebreo, un solo imperativo: uscire dal caos
della cultura della westjüdische Zeit, che era poi la cultura moderna tout court, scrivendo
l'opera letteraria assoluta. Questo progetto, che Kafka ha lucidamente concepito negli anni
che precedono la composizione del Castello, è quella quarta, ultima impossibilità, di cui
parla nella sua lettera del giugno 1921. Essa significa scrivere contro l'impossibilità di
scrivere accettando una particolarissima disperazione che, come ricorda Kafka, è «nemica
della vita e dello scrivere». Che cosa voglia dire in concreto questa impossibilità, può essere
compreso solo rendendosi conto del prezzo che Kafka ha pagato per la sua letteratura:
quando decide di riprendere a scrivere dopo cinque anni di pressoché completa impotenza
produttiva - la decisione è di scrivere Il castello - è perfettamente consapevole che la
letteratura significa ora il suicidio.

-Il 1° settembre Kafka lascia Matliary in condizioni di salute pessime e torna a Praga, dove rivede
Milena e le consegna i suoi diari. È un atto in qualche modo simbolico dal momento che i diari
sono un bilancio dell’esistenza trascorsa: Kafka scrive la sua autobiografia descrivendo la via per la
quale è arrivato alla catastrofe della sua attuale esistenza.
Guardando la storia della sua vita deve per prima cosa constatare di «essersi lasciato deperire
fisicamente» perché «non voleva essere distratto dalla gioia di vivere che può provare un uomo
utile e sano». Lo schema che compare in questa considerazione è quello di Thomas Mann e del
decadentismo europeo, per il quale l'arte si lega alla malattia, la bellezza alla morte. In questo
modello c'è però una novità sostanziale, L'esistenza estetica non è destino, elezione, aristocrazia,
nobiltà della nascita. E al contrario una colpa, una scelta morale, «una azione intenzionale», «la
distruzione sistematica».
-Kafka, che aveva sognato l’onnipotenza della poesia, non crede per nulla al caso o al destino o alla
storia. E in queste annotazioni ricorda anche gli ultimi capitoli del Processo: il rifiuto del
campagnolo di entrare nella casa della verità e l’esecuzione di K. alla quale però ha tolto ora ogni
possibile rivolta. Sa di essere alla fine della sua vita che ora guarda più che mai da spettatore. È una
monade della disperazione e anche l’esito estremo di quel <<sistematico processo di
autodistruzione>> di cui aveva scritto qualche giorno prima e che sembra arrivare al suo
compimento con la crisi del gennaio 1922, quando ha il crollo nervoso più grave della sua vita, la
cui causa, secondo la sua interpretazione, è la letteratura è nella tradizione e nella cultura
estetica dell’epoca. Ma questo non spiega il senso di colpa che lo consuma: è il caso di pensare
ancora una volta al complesso paterno; Kafka scrive di essere stato costretto a uscire dal mondo,
perché il padre <<non lo ha lasciato vivere nel mondo, nel suo mondo>>.
-Molto più importante in questo periodo poi, è la decisione che Kafka prende per il futuro
immediato della sua vita. I diari del 22 gennaio parlano di una «decisione notturna», della quale
una serie di indizi fa credere che sia la decisione dello scrittore di riprendere a scrivere, nonostante
che egli si renda conto che scrivere, nelle sue condizioni di salute, significa quasi certamente la
fine.
Per valutare il peso di questa decisione bisogna ricordare la funzione della letteratura nei confronti
della 'angoscia' che nel corso della sua relazione con Milena Jesenská ha via via perduto per lo
scrittore ogni carattere privato e personale sino a diventare ai suoi occhi la legittimazione della
rappresentanza della westjüdische Zeit. La letteratura, ora, è la sfida che uno scrittore solitario e
senza mandato lancia contro l'impossibilità della letteratura o contro la cultura di un'epoca nella
quale la letteratura sembra essere compromessa in modo irreparabile contro il linguaggio impuro
dell'attualità. Che cosa significhi per Kafka il concetto di attualità nel momento in cui va maturando
la concezione del Castello lo fa capire la sua corrispondenza con Milena nella quale ricorre molto
spesso il motivo della falsa parola o della falsa comunicazione. Ogni lettera che riceve - cosí scrive a
Milena - è per lui una minaccia, perché rivela cose terribili che vanno ogni volta interpretate e rese
inoffensive. La lettera è l'imprevedibile che mette in pericolo l'equilibrio difficilissimo della sua
solitudine. Allo stesso modo ogni lettera che scrive lo getta nella piú grande inquietudine, perché si
sente costretto «a comunicare qualcosa di non comunicabile, a spiegare qualcosa di inspiegabile, a
raccontare qualcosa che ha nelle ossa e che può essere vissuto soltanto in quelle ossa>>.
L'incomunicabile è naturalmente l'angoscia, di cui tante volte le ha parlato, che si rivela essere ora
il terrore per ogni menzogna.
Nei frammenti del 1920, paralleli alle lettere a Milena, scrive per esempio: «Confessare la propria
colpa e mentire sono la stessa cosa. Per poter confessare si mente. Non si può esprimere ciò che si
è, appunto perché lo si è; si può comunicare solo ciò che non si è, e dunque la menzogna. Solo nel
coro è possibile che ci sia una certa verità».
Ricorda inoltre che la sua paura di scrivere non è soltanto <<la paura convulsa di pronunciare una
parola>>, ma anche <<il desiderio di qualcosa che sia più di tutto quanto suscita angoscia>>

<<La colpa è solo mia, essa consiste in troppa poca verità da parte mia, ancora troppa menzogna, menzogna per
paura di me stesso e per paura degli altri>>

Questo orrore della menzogna, l'altra faccia del desiderio di verità ovvero di ciò «che sia piú di
tutto quanto suscita angoscia», è naturalmente, nel linguaggio della narrativa kafkiana, la paura del
nemico o il desiderio della sicurezza assoluta che inseguono l'animale della Tana attraverso i
cunicoli della sua costruzione. La tana infatti è la metafora del testo poetico che Kafka si costruisce
per difendersi dagli incubi di un mondo che produce solo menzogna. La paura della comunicazione
epistolare tuttavia non è semplicemente l'angoscia di una eterna condizione dell'uomo immerso in
un mondo di inganno, come potrebbero far pensare molti aforismi dei quaderni di Zürau. Kafka,
ora, vuol dire ben altro: l'orrore della menzogna sta per lui al desiderio di verità, come la falsa
comunicazione sta alla poesia. Lo scrittore insomma definisce ora la letteratura come la sfida a un
sistema che ha sostituito il colloquio della presenza con quello dell'assenza, la comunicazione reale
e immediata da uomo a uomo con quella astratta e mediata dei moderni mezzi di comunicazione.
In una delle sue ultime lettere a Milena del marzo 1922 - Kafka ha appena incominciato la stesura
del Castello - appare con molta evidenza quale funzione abbia la letteratura nei confronti della
comunicazione mediata dagli apparati.
La facilità con cui è possibile scrivere lettere - osserva lo scrittore - ha prodotto nel mondo
moderno «un terribile disordine nelle coscienze». Scrivere lettere significa «comunicare con degli
spettri», «denudarsi di fronte a degli spettri», perché con ogni lettera si evoca il proprio spettro e si
provoca quello del destinatario. L'umanità - continua - si è difesa da questi spettri della
comunicazione inventando il treno, l'auto e l'aereo. Ma gli spettri hanno subito reagito inventando
a loro volta il telegrafo, il telefono e la telegrafia senza fili: <<gli spettri non moriranno di fame, ma
noi andremo in rovina>>, così conclude.

-Tra il 1922 e 1923 c'è la poetica della maturità dello scrittore, ma anche il progetto che ha
concepito negli anni che vanno dai quaderni di Zürau al nuovo romanzo che Kafka incomincia a
scrivere a Spindlermühle nell'ultima settimana del febbraio 1922. La letteratura è ora innanzitutto
una sfida che lo scrittore lancia ai fantasmi della westjüdische Zeit.
-La letteratura di pone dunque come testimonianza; non può illudersi di raggiungere la verità, ma
può indicarne la certa esistenza nella sua nostalgia di ciò che è «piú di tutto quanto suscita
angoscia». La letteratura inoltre è la speranza che lo scrittore ha di redimere il mondo della vita dal
sopruso di un sistema che impedisce all'uomo di parlare con l'uomo. Il compito dello scrittore
quindi è di abbattere il sistema delle mediazioni, di scardinare l'apparato del sopruso burocratico.
La letteratura allora si pone come l'ordine della vera comunicazione, nutre l'utopia di restituire alla
società dell'uomo la purezza della parola assoluta.
A questo proposito sarà bene ricordare che Kafka nella burocrazia, non feticizza, come potrebbe
sembrare, l'ordine, la precisione, il meccanismo, bensi il disordine, la sporcizia, la vitalità. La realtà
gli sembra una vera e propria Rumpelkammer, una sorta di soffitta o di ripostiglio, che non conosce
ordine o legge e che pur tuttavia sembra essere l'unico ordine e l'unica legge in cui sia dato vivere
all'uomo. Se l'uomo è infelice non è perché esista un diavolo, che rappresenterebbe pur sempre un
principio unitario e permetterebbe all'uomo «di vivere in pace, come con Dio, in modo coerente,
senza contraddizioni e senza pensieri». Ciò che rende infelice la condizione terrena dell'uomo è
solo la «quantità di diavoli» che lo circondano, è in altre parole il caos delle cose cui non riesce piú
ad assegnare un ordine e una funzione.
Ogni forma di apparato o di organizzazione presente nell'opera di Kafka è si può dire una sola
variazione di questa metafora della confusione delle cose o di questo paradosso del caos delle cose
che funziona come una macchina. Joseph K. fa la scoperta piú terrificante circa la natura del
tribunale, quando si trova faccia a faccia con i suoi primi giudici nella sala delle udienze. Convinto
di parlare ad una assemblea di due partiti diversi e contrari, K. scopre improvvisamente che la
varietà dei distintivi, della foggia e degli abiti e delle barbe, della disposizione dei posti, delle
reazioni e degli interventi con cui i giudici hanno seguito il suo discorso, è solo una messa in scena.
Il tribunale in realtà non è una organizzazione articolata in una gerarchia univoca di ordini e di
valori, ma è mero Gedrange, è ressa, folla, massa eterogenea, tenuta insieme da una sordida
promiscuità di autorità e di sudditanze che contaminano la purezza ideale della
Legge. Se la westjüdische Zeit è per Kafka l'epoca della contaminazione delle culture, della storia
mutilata, della tradizione ridotta a un mucchio di oggetti fuori uso, non c'è dubbio che il tribunale
del Processo ne rappresenti la metafora piú immediata. Di fronte al caos della vita resa impura
dalla sordida astrattezza degli apparati la letteratura significa l'ordine e la purezza di una solitudine
che aspira a realizzare in se stessa la lettera chiara ed immutabile della Legge. Nei diari del 1922
Kafka scrive che ogni rapporto con gli altri è fondato sulla violenza, perché il più forte distrugge
sempre il più debole; solo nella solitudine l’uomo si confronta direttamente con l’intera umanità.
Vivere nella solitudine infatti vuol dire vivere nella condizione della perpetua scrittura. Vivere e
scrivere sono la stessa cosa. L'uomo che ha deciso di battersi, nello spazio della letteratura, contro
gli spettri e i fantasmi del mondo della menzogna è infatti costretto a concepire la propria esistenza
come il lavoro di costruzione di un testo assoluto, che non è già distinto, come oggetto, dalla vita
dell'uomo, ma riduce la vita dell'uomo ad un materiale metaforico grezzo e pieno di scorie che va
purificato attraverso un'opera sistematica di distruzione della menzogna. Questa ricerca dell'unità
del bello e del vero si trasforma allora in un processo di introspezione di cui Kafka ci ha dato nella
Tana, uno degli ultimi racconti della sua vita e probabilmente il suo testamento spirituale, una
rappresentazione nei modi della similitudine.

<<Odio per l'introspezione attiva. Interpretazioni psicologiche come: ieri ero cosí e lo ero per questa ragione, oggi sono
cosi e lo sono per questa ragione. Tutto ciò non è vero e non per questa o per quella ragione e perciò né in questo o in
quel modo. Sopportarsi con calma, senza essere precipitosi, vivere come si è costretti a vivere, non girare come un cane
intorno a se stessi>>

Questo esercizio dell'introspezione che sogna la sicurezza assoluta e l'assoluta verità di un pensiero
che nessuna analisi riuscirà a frantumare, si trasforma - come insegna La tana - in un perpetuo
moto di disperazione alimentata dalla cieca impazienza dell'animale che in ogni punto della sua
costruzione sospetta l'errore che potrebbe consegnarlo al suo nemico mortale. «Psicologia è
impazienza.>>
L'impazienza infatti è per Kafka l'angoscia di una psicologia che distrugge se stessa perché, nella
paura della morte, nasconde un nemmeno troppo inconscio desiderio di morte.
La psicologia è il desiderio della punizione, è la sentenza che l'uomo pronuncia contro se stesso, è il
peccato capitale del suicida che Kafka, in un suo aforisma del 25 gennaio 1918, paragona al
prigioniero che, vedendo edificare una forca nel cortile della prigione, evade di notte dalla sua cella
e va ad impiccarsi nella convinzione che quel capestro sia stato eretto per lui.
Ma se il prigioniero si uccide prima che sia stato pronunciato il verdetto, e si uccide per impazienza,
vittima della psicologia, ciò accade perché il prigioniero conosce solo l'orizzonte della sua cella. La
letteratura, che è al tempo stesso la fortezza e la prigione dell'uomo, deve allora intendersi come
un processo di costruzioni e di distruzioni continue, poiché se è indubbio che la fortezza debba
essere costruita, è anche inevitabile che la cella debba essere distrutta. L'utopia è l'atto inesauribile
della costruzione della tana durante il quale l'animale, che si stordisce nel ritmo esaltato del suo
operare, può dimenticare l'esistenza del suo nemico. La realtà è la traumatica scoperta che l'opera
appena finita rappresenta. per l'animale, proprio per la sua perfezione, l'illusione pericolosissima di
possedere la tana inattaccabile e di essere quindi al sicuro dai suoi persecutori. Di qui la necessità
per Lo scrittore di non illudersi, nemmeno per un momento, di avere costituito nell'opera l'armonia
e il silenzio di un mondo in cui, come vuole il passo già citato dei diari, gli sia possibile vivere «in
modo coerente, senza contraddizioni e senza pensieri». Questa illusione infatti è «la parola della
serpe», poiché tutto è psicologia, l'intera esistenza dell'uomo è fatta di psicologia e tutto ciò che
può essere motivato con la ragione è una ingannevole costruzione della psicologia.
-La psicologia di cui Kafka parla nelle sue annotazioni è infatti quell'insieme di giustificazioni
razionali con le quali egli cerca di ricomporre nel tutto di una costruzione pulita e sicura il caos dei
frammenti e dei rifiuti di cui è fatta la sua coscienza. «Tutto mi appare come costruzione», scrive
già nei diari del novembre 1913 in una annotazione nella quale lamenta che la parola o la vista di
una qualsiasi persona accanto a lui lo rende insicuro, vuoto, irreale. Costruzioni sono cosí tutte le
forme della vita associata che impongono una comunicazione fondata sulle menzogne della
psicologia, per esempio le lettere con cui perseguita la fidanzata per confessarle la sua colpa di
essere scrittore o le annotazioni dei suoi diari con le quali cerca di rendersi conto dei meccanismi
della sua angoscia. Non c’è nessuna immagine e nessuna interpretazione della vita interiore che
non sia viziata da questa impurità.
Ma se la verità è indistruttibile - e Kafka non ha il minimo dubbio che lo sia - allora l'unica via per
riconoscerla sarà quella della distruzione: tutto ciò che non saprà resistere agli attacchi dell'analisi
interiore si dimostrerà essere la forma e la figura dell'inganno. La vita interiore dello scrittore si
trasforma quindi in un processo di distruzione che ritorna continuamente sui propri passi per
mettere alla prova ogni affermazione. Allo stesso modo l'animale della Tana scava nella sua
costruzione delle gallerie senza fine che poi richiude per riaprirne di nuove in un delirio costruttivo
della ragione che può trovare la certezza solo nella sistematica distruzione di ogni certezza. Il 23
ottobre 1917 Kafka aveva annotato nei quaderni di Zürau:
<<Conosci te stesso non significa: osserva te stesso. Osserva te stesso è la parola della serpe. Significa invece: diventa
padrone delle tue azioni. Ma questo tu lo sei già, tu sei già padrone delle tue azioni. Queste parole significano allora:
misconosci te stesso! distruggi te stesso! e dunque qualcosa di male - e solo se ci si china molto in basso, si sente anche
il bene che dice: « perché tu possa diventare colui che sei”>>

Se il comandamento è distruggersi al fine di diventare colui che si è, la letteratura è l'unico spazio


in cui questo è possibile. Ma come si realizza questa speranza? Si ricordi il frammento in cui Kafka
parla di sé come di una natura di soldato. La lotta - cosí scriveva in questa annotazione - non gli
piace perché è una lotta, ma perché è «l'unica cosa da fare». La letteratura è per lui un processo e
ciò vuol dire uno stato di esaltazione vitale, in cui l’uomo oppone l’armonia della coordinazione
motoria dell’atto della scrittura alla dissonanza di una realtà depressa, ibrida, frammentaria. La
realtà è il caos delle cose che funziona come una macchina. Il testo è l’ordine che della macchina
ha la precisione, la pulizia e la funzionalità. Ma prima del vero poeta, prima della vera letteratura,
c’è solo un uomo che ha paura del caos o che tenta di dominarlo. E vero che l'arte è per Kafka,
come voleva anche Nietzsche, «l'unica cosa da fare». Ma l'uomo che scrive contro il caos o per la
paura del caos non scrive per la vita, ma contro la vita. L'unica sua speranza è che quel processo di
distruzione che è la letteratura lo avvicini sempre di piú alla verità.
-La speranza non è l’illusione di poter raggiungere la verità, ma la convinzione che la verità esiste
realmente, anche se è prigioniera dei demoni della menzogna.
Egli fa innanzi tutto il punto della situazione considerando quanto ha capito, concluso e deciso nei
cinque anni che sono trascorsi dall'inverno di Zürau: la follia suicida dell'analisi interiore, la caccia
che gli stanno dando gli spiriti sono «i dolori della generazione», i sintomi della westjüdische Zeit,
l'età, come da anni scriveva la letteratura sionista, dell'introspezione, del soggettivismo, della
solitudine.
Il progetto concepito nei mesi di Zürau: «fare chiarezza sulle ultime cose» è infatti esposto con una
lucidità sorprendente nell'annotazione del 16 gennaio. Kafka constata innanzi tutto che la frenetica
caccia dell'introspezione che ha distrutto la sua vita è ora giunta al suo limite estremo.

<<Questa caccia prende una direzione che porta al di fuori dell'umanità. La solitudine che da sempre in gran parte mi
fu imposta e in minima parte tu cercata da me - ma che cosa era mai questo se non una imposizione - diventa ora
univoca e punta all’estremo>>
È bene considerare con molta attenzione questo «ora» usato dallo scrittore nel momento in cui ha
il piú grave crolIo nervoso di tutta la sua vita. Ora non ha piú, come ai tempi del Processo,
l'alternativa tra il matrimonio e la letteratura. Ora l'alternativa è semplicemente tra la letteratura e
la pazzia. Come scriverà a Robert Klopstock in alcune lettere del marzo e dell'aprile del 1922", ha
ripreso a scrivere per salvarsi dalla nevrastenia di un uomo che non solo è ebreo, ma è anche
tedesco e per giunta è molto malato, sicché lo scrivere per lui è ora, «nella maniera piú crudele per
chiunque gli stia intorno, la cosa piú importante sulla terra»
-Certo è che Kafka, nel momento in cui fa il bilancio finale della propria vita, guarda con orrore a
questa ridicola, pietosa, patetica immagine dell'uomo dell'esistenza estetica. Come scrive nei diari
del 23 gennaio, la sua vita è stata fino a quel momento «un marciare da fermi». Egli ne paragona lo
sviluppo a quello di un dente cariato, la definisce una serie di tentativi falliti, tra i quali ricorda
l'antisionismo, il sionismo, i due fidanzamenti, lo studio dell'ebraico, il giardinaggio, la falegnameria
e la stessa letteratura. Di fronte ad un bilancio cosí disastroso Kafka si rende conto che «non fare
piú nessun tentativo significa la fine».
-Kafka si è sempre rimproverato una particolare debolezza che gli avrebbe impedito di prendere
con determinazione una strada. «Questa deboLezza - cosí ne parla il 3 febbraio nei diari - mi tiene
lontano sia dalla follia che dall'ascesa. La coltivo perché mi tiene lontano dalla follia; per paura
della follia sacrifico l'ascesa e su questo piano, che non conosce affari, perderò sicuramente
l'affare». Ora, tuttavia, sembra che abbia preso la decisione di non sacrificare piú quell'ascesa che è
la Letteratura.
-La decisione di scrivere è dunque, chiaramente, la risoluzione di affrontare il viaggio del Medico
condotto, metafora, come si è visto, dell'esperienza estatica e distruttiva della scrittura. Con la
differenza tuttavia che Kafka ora è sicuro che questo viaggio significa la fine.

-Nel momento in cui Kafka ricomincia a scrivere, nelle condizioni in cui si trova, la letteratura è
davvero “l’assalto al confine”, la decisione estrema, la risoluzione per la vita e per la morte, che
deve riscattare la sua incerta esistenza di uomo della letteratura. Certo è che Il castello è l'opera
piú rischiosa e piú meditata di tutta la sua vita. Per valutare l'immane sforzo espressivo e
concettuale della sua costruzione basta pensare ai due racconti che Kafka scrive nel maggio
durante la stesura del romanzo. Primo dolore e Il digiunatore sono, almeno dalla prospettiva del
Kafka di questi mesi, due geniali caricature del Kafka funambolo, asceta, Narciso o Tartuffe, quali lo
scrittore si era ritenuto fino a questo momento in cui sa di essere di fronte alla prova decisiva. Di
ben altro livello è la parabola del Castello, nel quale la vita dello scrittore e la umanità della
westjüdische Zeit diventano i veicoli di un complesso sistema di simboli e di metafore che
rappresentano la sintesi dell'intera narrativa kafkiana e fanno del Castello il capolavoro dello
scrittore.
Kafka intendeva restare l'ebreo che era - assimilato ma con un enorme desiderio di ebraismo -
anche se aveva l'ambizione di scrivere per l'epoca e per la generazione solo in quanto era, come
scrittore, l'uomo della parola.
<<Tutta questa letteratura è un assalto al confine e, se non fosse intervenuto il sionismo, sarebbe potuta diventare
facilmente una nuova dottrina esoterica, una nuova Cabbala. I presupposti ci sono, Quanto a questo, certo, si richiede
un genio inconcepibile che pianti nuovamente le radici nei secoli antichi o li ricrei nuovamente, senza, per questo,
consumare tutte le sue forze, anzi, incominciando soltanto ora a consumarle>>
Questo passo è di enorme importanza - è la definizione piú oggettiva e meno personale che Kafka
abbia dato della propria letteratura - ma anche di grande difficoltà.
Lo scrittore passa in questo passo di un genio in grado di ricreare le condizioni di una nuova
Cabbala in un’epoca dell’ebraismo dominata dal pensiero sionista.
Ciò significa che il passo va interpretato nell'orizzonte della westjüdische Zeit, cosí come Il castello
deve essere inteso, almeno secondo la consapevole intenzione del suo autore, come un tentativo
di purificazione della storia o come una sfida ai fantasmi di un'epoca dell'inganno e della
menzogna. Il genio che Kafka, nel passo citato, invoca per se medesimo è insomma
l'inimmaginabile energia di uno scrittore che, sia pure con tutta l'ironia di un uomo che sa di far
parte della cultura dell'assimilazione, concepisce l'inaudito progetto di eliminare l'errore e il
sopruso dal mondo e, quel che piú importa, di redimere la verità prigioniera dell'inganno.
Si è già visto come Kafka vede l’unica sua possibile felicità di scrittore nella sua capacità di
<<innalzare il mondo nel puro, nel vero e nell’immutabile>>. Come si è visto piú volte, la
westjüdische Zeit è per Kafka l'età degli «spettri notturni», dell'introspezione, della psicologia, della
contaminazione dei linguaggi e delle culture, in una parola è il mondo della menzogna. È certo che
lo scrittore, quando ha concepito nel Castello il suo capolavoro, ha inteso la propria vita e la
propria opera come un paradigma della west-jüdische Zeit, di fronte alla quale lui, che non aveva
voluto o potuto prendere la via dell'azione politica e culturale, doveva necessariamente imboccare
la strada di una letteratura che aveva ai suoi occhi molte affinità con lo spirito e le intenzioni della
Cabbala. Al chiarimento di questa concezione cabbalistica della letteratura, a ben guardare
presente in Kafka sin dalle sue prime opere, non fu probabilmente estraneo il saggio di Anton Kuh
Ebrei e tedeschi. Nel disegnare l'evoluzione della cultura dell'ebraismo assimilato, Kuh aveva
parlato di un'ultima tappa nella storia dell'ebraismo tedesco segnata dalle esperienze di una guerra
che gli ebrei avevano combattuto con l'entusiasmo di buoni patrioti tedeschi, ma che era stata per i
tedeschi «la prima campagna della svastica», il primo atto della desemitizzazione della cultura
germanica. Il violentissimo trauma provocato nella coscienza dell'ebraismo tedesco dal virulento
antisemitismo del primo dopoguerra aveva scosso, secondo Kuh, in modo drammatico la già
problematica identità degli ebrei che presero a dilaniarsi interrogando e processando se stessi.
A spiegare lé sorprendenti affinità tra le posizioni di Anton Kuh e quelle dell'ultimo Kafka bastano la
comune convinzione non sionista e la comune cultura della assimilazione. Le concordanze tra il
pensiero dello scrittore e quello del giornalista restano tuttavia stupefacenti. Esse dimostrano una
volta di piú quanto Kafka fosse legato alla cultura della westiüdische Zeit nella invenzione delle sue
opere.
La descrizione della funzione dell'intellettuale ebreo come sentinella della verità, fatta da Anton
Kuh, corrispondeva per esempio, persino nella metaforica, a molte delle annotazioni dello scrittore
citate in questo capitolo. Allo stesso modo il ruolo che il pubblicista viennese assegnava agli
intellettuali ebrei nella crisi della cultura moderna era straordinariamente affine al «grande
compito» che Kafka aveva concepito nell'inverno di Zürau. Nell'epilogo del suo Ebrei e tedeschi
Anton Kuh scriveva infatti che la grandezza degli scrittori ebreo-tedeschi piú significativi era nella
loro tragica consapevolezza di «essere prigionieri delle parole». Spinti dalla loro insaziabile
curiosità ad «allentare la stretta della parola nella quale l'uomo è esiliato» gli ebrei, nella loro
superbia o nella loro certezza di avere un mandato divino, avevano «frantumato il guscio per
trovare il gheriglio», ma avevano anche infranto, insieme con la parola, la scorza del «tu»
Solitudine: la cella della solitudine che Kafka descrive ripetutamente nelle sue lettere come la
prigione della psicologia e del linguaggio mediato dagli apparati. Allo stesso modo il compito dello
scrittore concepito da Kafka nei mesi di Zürau emerge nella conclusione del saggio di Anton Kuh,
nella quale si evoca nella figura del grande scrittore una sorta di nuovo messia. Questo grande
scrittore, di cui Anton Kuh sembra farsi profeta, conosce ancora il segreto della parola perduta; per
lui «significato ed immagi-ne» sono ancora una cosa sola". La cultura moderna - cosí Kuh
concludeva il suo saggio - era dunque ad una svolta che significava “fine od inizio” «Io sono fine
od inizio», aveva scritto Kafka nei quaderni del 1918 quando, confrontandosi con la propria epoca,
aveva osservato di essere escluso, in quanto scrittore, sia dalla dialettica kierkegaardiana, sia dalla
ideologia sionista. È questa sua posizione al di fuori di qualsiasi mediazione storica o dialettica ciò
che avvicina la sua opera alla Cabbala o a quella nuova dottrina esoterica di cui parla.
Kafka concepisce Il castello come un «assalto all'ultimo confine terreno» e il suo agrimensore, non
diversamente dallo scrittore evocato da Anton Kuh, tenta di scardinare l'apparato consapevole che
il potere dei Signori del Castello sarebbe crollato solo se egli fosse riuscito a presentarsi dinanzi al
Conte esiliato nel suo palazzo.
Anche nella “Costruzione della muraglia cinese” Kafka riprende nuovamente il tema del popolo
incapace di credere nella presenza della Legge e alla figura del suddito ai margini dell'impero che si
accontenta di sognare della ambasciata dell'imperatore sostituisce la figura aggressiva
dell'agrimensore che arriva direttamente ai piedi della cittadella imperiale deciso a far suo il senso
del messaggio che attraverso le istanze dell'organizzazione gli arriva in forme cosí ambigue,
corrotte e incomprensibili. A riprova che lo scrittore nutriva veramente l'ambizione di redimere la
parola prigioniera della menzogna del mondo c'è del resto la circostanza, non sempre riconosciuta,
che Kafka non ha mai dubitato della parola in sé. Egli è, sí, maturato in una cultura della crisi della
parola, ma non ha mai messo in dubbio la sostanzialità della parola.
In una lettera del 19 febbraio 1913 scriveva per esempio a Felice:
<<Parlare... di insufficienza del linguaggio e paragonare la limitatezza delle parole alla infinità del sentimento è del
tutto fuori luogo. Il sentimento infinito resta nelle parole altrettanto infinito quanto lo era nel cuore. Ciò che dentro è
chiaro, lo sarà sicuramente anche nelle parole. Perciò non si deve mai temere per il linguaggio, ma, guardando le
parole, temere per se medesimi.>>

Questo passo, rappresenta una delle piú importanti dichiarazioni che Kafka ci abbia lasciato sulla
letteratura. Come scrive ancora nella stessa lettera, imprecisa, ambigua, inadeguata, ingannevole
non è già la parola in sé, ma la parola dello scrittore mediocre che riesce solo a comunicare la
menzogna e l'inganno della propria confusa soggettività.
E chiaro già da questo passo che quando Kafka parla di costruzioni non intende mai il testo poetico
come artefatto o costrutto, ma le metafore inverificabili dell'introspezione psicologica. Costruzioni
sono, come si è visto, le lettere e le annotazioni dei diari e non certo perché siano scritte male, ma
perché, legate come sono alla soggettività dell'autore, sono quello che Kafka chiama «la
contabilità» del suo mondo interiore. Costruzione, dunque, è tutto ciò che non è letteratura
assoluta e per questo è incoerente, confuso, artificioso, inorganico. Si ricordi quanto si è detto in
questo capitolo dell'organizzazione del tribunale e la definizione che Kafka dà di se stesso: «una
costruzione incoerente». L'orrore è per lui il caos delle cose che funziona come una macchina; ma
questa macchina è poi la sua caotica interiorità che lo condanna alla introspezione perpetua.
Ben diversa è a confronto dell’angoscia che gli procurano le costruzioni della psicologia la felicità
che gli dà la produzione del testo poetico. Incapace di fare dello scrivere una professione, Kafka
sogna di possedere l’esaltazione di un atto ininterrotto della composizione che vive come una sorta
di parto o eiaculazione. Ma il momento estatico della scrittura non significa ricevere passivamente
delle immagini, bensí, come scrive ancora commentando Il verdetto, «portare il proprio peso sulle
spalle», raggiungere in una parola il punto di Archimede dal quale è possibile sostenere il
movimento del mondo. Kafka ha espresso questa ideale condizione della scrittura in una
annotazione del 27 gennaio 1922 concepita proprio nel momento in cui, dopo cinque anni,
riprende la sua attività di scrittore. In questa annotazione egli usa l'ossimoro di Tat-Beobachtung
(azione-osservazione) per esprimere lo stato o la condizione di grazia in cui il momento onirico
della sua ispirazione riesce a farsi momento esaltato ed esaltante della composizione.
Questa esperienza del momento produttivo viene vissuta da Kafka in termini di dannazione o
redenzione, persecuzione e lotta per la sopravvivenza. Lungi dall’essere una affermazione
volontaristica della forma nei confronti del caos, è ancora il momento suicida dello scrittore
scrivere significa lanciare la sfida suicida agli «spettri notturni» nell'assurda speranza di «uscire da
questo mondo della menzogna per arrivare dall'altra parte, nel mondo della verità». Queste ultime
parole delle Indagini di un cane significano naturalmente che Kafka non considera il suo testo come
una metafora o come un riflesso della verità.

-Per il suo rigore formale e per la sua esattezza espressiva la narrativa di Kafka è probabilmente
l’unica opera veramente classica della letteratura moderna. Se essa può essere ricondotta ad una
categoria, questa è senza dubbio quella dell’allegoria benjaminiana.
Per Benjamin le allegorie sono, nel regno del pensiero, quello che i frammenti sono nel regno delle
cose. Per Kafka il testo letterario, sempre monco e frammentario, indica nella classicità della sua
fattura quell'utopica unità di bellezza e verità che nell'epoca degli spettri della comunicazione è
ormai una speranza del tutto impossibile. Uno scrittore che nutriva l'ambizioso progetto di
ricondurre la letteratura alla verità era naturalmente consapevole di dovere trasformare la propria
vita in un esperimento assoluto: la vita e la letteratura dovevano essere una cosa sola, la storia
dell'uomo doveva avere la verità scarna ed essenziale di una parabola, ma la parabola doveva
avere anche l'inconfutabile autenticità del vissuto.

-Frammento che kafka scrive probabilmente nel 1922:


<<Povera casa abbandonata! Sei mai stata abitata? Nessun documento lo dice. Nessuno ha studiato la tua storia.
Quanto freddo c'è dentro di te. Come soffia il vento per il tuo grigio corridoio, non trova nessun ostacolo. Se mai sei
stata abitata, allora ne sono state cancellate le tracce in modo cosí perfetto che ha dell'inconcepibile>>

La casa, che, secondo una metaforica costante, è la vita dello scrittore, non presenta piú nessun
indizio della trascorsa presenza del suo abitatore: ogni traccia della sua esistenza è stata
accuratamente cancellata e rimossa. Ma la casa resta pur sempre una casa che è stata abitata da
un uomo che vi ha vissuto una storia. In questo senso tutta l'opera di Kafka è autobiografia. Tutto
quanto egli viveva nella sua vita quotidiana doveva farsi letteratura e per questo egli ha anche
vissuto ogni atto della vita quotidiana come una possibilità di letteratura. Solo che l'imperativo
della poetica della parabola voleva anche la costruzione della casa vuota, voleva l'opera pulita,
l'opera che avesse eliminato ogni traccia del suo costruttore, voleva in altre parole un testo
autobiografico in cui la vita dell'uomo, non piú riconoscibile come storia o come psicologia, fosse
diventata puro materiale metaforico, immediatamente utilizzabile per la composizione del testo,
Per questo la letteratura ha significato per Kafka la sistematica distruzione dell'esistenza
dell'uomo.
Il bisogno di tradurre l'opera di Kafka nei termini di una qualsiasi razionalità - e che sia un bisogno
reale lo dimostra una ormai sterminata letteratura critica - sembra essere cosí una sorta di
legittima difesa nei confronti di un testo che nella pulizia e nella esattezza della sua fattura fa
sentire, persino fisicamente, la violenza e il terrore della legge che ha costretto lo scrittore a
produrlo con questa perfezione formale. È probabilmente questa la ragione per la quale Kafka
ordinò a Max Brod di distruggere tutti i suoi manoscritti. Se li giudicava falliti, non era certo perché
avesse dei dubbi sulla loro validità estetica. La ragione delle sue ultime volontà era al contrario
proprio la convinzione di essere un grande scrittore. Kafka evidentemente non poteva accettare la
bellezza della sua prosa che era ai suoi occhi la bellezza della macchina della Colonia penale o la
bellezza degli imputati del Processo.
Si potrebbe dire allora che la concezione che Kafka ha del processo produttivo come atto vitale e
del testo come costruzione assoluta è quanto c'è in lui dell'estetica della westjüdische Zeit che lo
ha condannato all'implacabile perfezionismo dello scrittore colpevole. Molto piú importante del
testo è infatti per lui la constatazione che la letteratura non lo ha riscattato o redento.
-Dai diari del 19 marzo:
<<Vita nella foresta. Invidia per la natura: è felice, inesauribile e tuttavia (diversamente da me) lavora visibilmente per
necessità e ciononostante soddisfa sempre tutte le richieste dell'avversario. Ed è cosí leggera, cosí musicale>>
Lettera a Brod del luglio 1922:
<<Forse è possibile, non so, che un uomo, capace di dominare il caos, incominci a scrivere: i suoi saranno libri sacri;
oppure che incominci ad amare: sarà amore e non paura del caos... Solo nel mondo ordinato incomincia il poeta>>
Questi due passi, nei quali compare una sorta di creatività paradisiaca o una specie di utopia
dell'innocenza della scrittura, rappresentano il sogno dello scrittore condannato a battersi, vittima
e complice dei suoi persecutori, contro i demoni della westjüdische Zeit. Nella lettera a Brod
appena citata Kafka parla infatti anche dell'antisemitismo di una storia della letteratura tedesca
che ha appena sfogliato in libreria e subito dopo condanna, ancora una volta, la sua ambizione
letteraria che ha prodotto un ebreo trentanovenne, scapolo, senza eredi, malato, incapace di
amare, escluso dalla fede religiosa, occupato soltanto con una letteratura che sembra avere il solo
scopo di salvare o di dannare la sua anima.
I termini della condanna che pronuncia contro se stesso sono, come si vede, i noti capi di accusa
del movimento sionista contro l'intellettuale dell'assimilazione.
Questo schema dichiarato dall’esilio ebraico significa naturalmente l’accettazione della
westjüdische Zeit come negatività, ma anche la condanna della letteratura come piacere o come
realizzazione del sé.

<<Tutto quello che fa gli sembra, è vero, straordinariamente nuovo, ma anche, in proporzione a questa impossibile
abbondanza del nuovo, straordinariamente dilettantesco, a mala pena sopportabile, incapace di farsi storia, è qualcosa
che rompe la catena delle generazioni, che spezza fin giú nel profondo la musica del mondo che fino ad ora si poteva
almeno intuire. Talvolta, nel suo orgoglio, ha piú paura per il mondo che non per se stesso >>
Questo aforisma del 1920 rappresenta probabilmente l'unica autentica dichiarazione di poetica
dello scrittore. Essa dà un giudizio sullo scrittore della westiüdische Zeit dalla prospettiva, se si
vuole, teologica della tradizione religiosa ebraica. In realtà non si potrebbe immaginare condanna
piú grande della letteratura. Gli anni che seguono il fallimento del progetto del Castello,
abbandonato come i due romanzi precedenti allo stato di frammento, rappresentano in effetti il
ritorno di Kafka agli ebrei, la rinuncia alla letteratura, anche perché lo scrittore, come il
protagonista del suo romanzo, non ha piú le forze fisiche sufficienti per continuare a combattere,
scrivendo, i fantasmi della sua epoca.
Alla fine di agosto del 1922 Kafka è costretto ad interrompere la composizione del suo romanzo per
un nuovo crollo nervoso, e a dicembre consegna a Max Brod il testamento con il quale gli ordina di
bruciare tutti i suoi manoscritti e di risparmiare soltanto i pochi racconti che ha pubblicato. Questo
testamento è si può dire il suo definitivo congedo dalla letteratura o almeno la sua definitiva
rinuncia alla letteratura come militanza solitaria contro gli spettri del mondo moderno. Il ritorno
alla comunità gli è offerto dal suo incontro con Dora Diamant, una giovane ebrea orientale di circa
vent'anni che lo scrittore quarantenne conosce nell'estate del 1923 a Müritz sul Mar Baltico, dove
trascorre un periodo di riposo in un albergo.
Il suo amore per la Diamant rappresenta il ritorno della scrittore a quella vita ebraica che aveva
conosciuto per la prima volta nel 1911 tra gli attori di Lemberg. Con Dora, che proviene da una
famiglia chassidica e conosce molto bene l’ebraico, Kafka legge il Vecchio Testamento e il
commento di Rashi.
L'ultimo anno della sua vita, nel quale scrive La tana e Giuseppina, la cantante, non fa piú parte, a
ben guardare, della storia di Kafka scrittore della westjüdische Zeit. Riguarda soltanto l'uomo il cui
nome ebraico è Amshel

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