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ISBN 78-88-908247-4-6

febbraio 2016
il lavoro culturale

Who owns Kafka? by Judith Butler, «London Review of


Books», Vol. 33, n. 5, 17 March 2011 © Judith Butler

Il lavoro culturale ringrazia «London Review of Books» e


Judith Butler per aver acconsentito alla traduzione
Questa pubblicazione è senza fini di lucro e fa parte della
campagna di sostegno a il lavoro culturale

Traduzione e curatela di Antonio Iannello, Nicola Perugini,


Federico Zappino
Progetto di copertina di Francesco Tommasi
Redazione di Maria Teresa Grillo e Giulia Romanin Jacur
Impaginazione di Giulia Romanin Jacur

www.lavoroculturale.org
Judith Butler
Di chi è Kafka?

a cura di
Antonio Iannello, Nicola Perugini e Federico Zappino
Nota introduttiva

Nel giugno del 2015 tre giudici della Corte distrettuale


israeliana di Tel Aviv hanno deciso che, dopo oltre novant’anni
di peripezie, spostamenti e vendite dei manoscritti di Kafka,
i suoi lavori – contro la volontà stessa dell’autore, che li aveva
affidati a Max Brod chiedendogli di distruggerli – sono di
proprietà della Biblioteca nazionale di Israele.

Dopo la morte di Kafka l’amico Brod raccolse e mise al


sicuro i suoi manoscritti, prima di fuggire in Israele per
salvarsi dallo sterminio nazista e morirci nel 1968. In seguito,
i manoscritti passarono alla segretaria, Esther Hoffe, a cui
Brod aveva chiesto di donarli ad un archivio pubblico.
Parte di questi lavori finirono all’Archivio della letteratura
tedesca. Poi l’Archivio chiese alle figlie di Esther Hoffe di
poter acquistare il resto dei manoscritti che Max Brod aveva
lasciato alla loro madre.

La decisione della Corte distrettuale di Tel Aviv giunge a


conclusione di una serie di processi iniziati nel 2007 che
hanno visto l’Archivio della letteratura tedesca, la Biblioteca

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nazionale di Israele e le figlie di Hoffe darsi battaglia per
l’eredità di Kafka. Un’eredità singolare, quasi aporetica,
impossibile, di chi lascia scritti chiedendo che scompaiano
dopo la sua morte. Nella sentenza del giugno 2015 i tre
giudici hanno scritto:

Per quel che concerne Kafka, è giusta la messa all’asta dei suoi
scritti personali, che l’autore aveva ordinato di distruggere,
da parte della segretaria del suo amico e delle sue figlie? La
risposta ci sembra scontata.

Sullo sfondo di un contenzioso tra soggetti privati e


un’istituzione culturale tedesca, in sostanza, i giudici israeliani
trasformano la “cattiva gestione” e l’arricchimento della
famiglia Hoffe in una giustificazione per la nazionalizzazione
di Kafka.

Ma di chi è Kafka? A chi appartiene? Cosa significa


trasformare in patrimonio nazionale israeliano gli scritti
di un autore che proprio con i suoi lavori sembra aver
costantemente cercato di produrre una poetica diasporica e
del non arrivo? Come può coesistere la nazionalizzazione dei
testi di Kafka, da parte di Israele, con la sua ambivalenza nei
confronti del progetto politico sionista? Quali sono gli scopi
e gli effetti politici della trasformazione dei suoi lavori in una
proprietà statale?

A questo quanto mai attuale intreccio di domande Judith


Butler prova a rispondere nel 2011, mentre il processo è
in corso, con uno scritto apparso sulla «London Review of
Books» che il lavoro culturale oggi pubblica in continuità

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con l’ampio spazio che negli scorsi anni ha dato alla filosofa
americana – con articoli, interviste e recensioni dei suoi testi,
ma anche con i saggi A chi spetta una buona vita? (pubblicato
nel 2013 da Nottetempo in collaborazione con il lavoro
culturale) e Sulla crudeltà (il lavoro culturale 2014).

Combinando ricostruzione storica, filosofia, teoria politica


e critica letteraria, Di chi è Kafka? offre in fondo a Judith
Butler l’occasione di svolgere, nuovamente, alcuni dei temi
a lei più cari: il rapporto tra linguaggio e soggettivazione;
la costituzione di soggettività politiche attraverso il
disfacimento di presupposti e punti di approdo identitari;
la tensione tra condizione diasporica, messianismo e Stato-
nazione; lo spinoso rapporto tra ebraismo, sionismo e
spossessamento del popolo palestinese. Temi, a ben guardare,
tutti tipicamente kafkiani. Di qui la bellezza del testo, e del
gesto, che vi proponiamo. Un testo del (e per) il non arrivo.

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Di chi è Kafka?

A Tel Aviv è in corso un processo per determinare chi


amministrerà alcune scatole contenenti gli scritti originali di
Kafka, incluse le bozze delle opere postume, conservate tra
Zurigo e Tel Aviv. Com’è risaputo, Kafka lasciò a Max Brod
i suoi scritti, sia quelli pubblicati che gli inediti, dandogli
esplicite istruzioni di distruggerli dopo la propria morte.
Sembra che lo stesso Kafka avesse già bruciato parte dei
suoi lavori prima di morire. Brod rifiutò di rispettare questa
richiesta, anche se poi non pubblicò tutto ciò che gli fu
lasciato. Pubblicò Il processo, Il castello e America tra il 1925 e
il 1927. Nel 1935 fece uscire un’antologia, per poi riporre
la maggior parte dei restanti lavori all’interno di bauli.
Dunque Brod rispettò, in parte, il desiderio di Kafka di non
pubblicare quelle opere, ma non la sua volontà di distruggerle.
Questo compromesso ha avuto delle conseguenze, che si
manifestano oggi in modo evidente.

Nel 1939 Brod fuggì dall’Europa alla volta della Palestina, e


anche se molti dei manoscritti che custodì poi finirono alla
Bodleian Library di Oxford, ne tenne con sé un numero
cospicuo sino alla morte, avvenuta nel 1968. Brod lasciò

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in eredità gli scritti a Esther Hoffe, la sua segretaria, con
cui sembra abbia avuto una relazione amorosa. Hoffe li
conservò fino a che non morì, nel 2007, all’età di centouno
anni. Esther fece inizialmente con gli scritti la stessa cosa
di Max: li custodì in vari bauli, dentro a una cassaforte.
Nel 1988, tuttavia, vendette il manoscritto de Il processo per
due milioni di dollari. Era ormai chiaro che fosse possibile
ricavare profitti da Kafka. Nessuno, però, avrebbe potuto
prevedere che dopo la morte di Esther si sarebbe tenuto un
processo in cui le figlie, Eva e Ruth, avrebbero sostenuto
che non ci sarebbe stato alcun bisogno di fare un inventario
dei materiali conservati dalla madre e che il valore dei
manoscritti si sarebbe dovuto stabilire in base al loro peso
– letteralmente: in base a quanto pesavano. Come ha poi
spiegato uno degli avvocati incaricati di rappresentare la
proprietà di Esther Hoffe: «Se raggiungeremo un accordo, il
materiale sarà messo in vendita come un’entità singola, in un
solo pacchetto. Sarà venduto a peso… Si dirà: “C’è un chilo
di carta qui, il migliore offerente potrà avvicinarsi e vederne
il contenuto”. Anche la Biblioteca nazionale [d’Israele, nda]
può mettersi in fila e fare un’offerta».

Come è possibile che Kafka sia stato trasformato in una


merce e in un nuovo “peso d’oro”? È una questione
importante su cui ritornerò. Sappiamo bene che il valore del
lavoro letterario e accademico è sempre più condizionato
da parametri quantitativi, ma non sono sicura che ci sia
qualcuno che, ad oggi, abbia proposto di pesare il nostro
lavoro su una bilancia. A ogni modo, per iniziare, proviamo a
capire quali sono le parti coinvolte nel processo e quali sono

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le loro posizioni. In primo luogo vi è la Biblioteca nazionale
di Israele, la quale sostiene che la volontà di Esther Hoffe
andrebbe ignorata, poiché Kafka non appartiene a queste
donne ma è un bene pubblico e del popolo ebraico – pare che le
due cose talvolta coincidano. David Blumberg, direttore del
consiglio amministrativo della Biblioteca nazionale, descrive
il caso in questi termini: «La Biblioteca non intende privarsi
dei beni culturali del popolo ebraico… Dal momento che
non si tratta di un’istituzione commerciale e che gli oggetti
che conserva sono accessibili a tutti, e gratuitamente, la
Biblioteca continuerà nei suoi sforzi di ottenere i manoscritti
rinvenuti». È interessante questa posizione secondo cui gli
scritti di Kafka possano costituire un bene del popolo ebraico
e allo stesso tempo non avere nulla a che fare con attività
commerciali. Oren Weinberg, l’amministratore delegato
della Biblioteca nazionale, ha recentemente affermato che:
«La Biblioteca è preoccupata per la nuova posizione espressa
dalle esecutrici testamentarie, le quali vogliono mescolare
considerazioni di ordine economico con la decisione su chi
riceverà la proprietà. Avere rivelato l’esistenza di un tesoro
tenuto nascosto in una cassaforte per decenni gioverà
all’interesse pubblico, ma la posizione delle esecutrici
testamentarie rischia di vanificare questa rivelazione e di
nuocere a Israele e al mondo intero».

Sembra dunque di capire che gli scritti di Kafka costituiscano


un bene del popolo ebraico, ma non un bene esclusivamente
di tipo economico. Inoltre, dal momento che Kafka è uno
scrittore ebreo, ciò significa che egli fa parte del popolo
ebraico, e che i suoi scritti fanno automaticamente parte

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del suo patrimonio culturale. Questa affermazione, già
controversa di per sé – dal momento che elide altre forme
di appartenenza, o di non-appartenenza –, lo diventa ancora
di più se consideriamo che il caso giudiziario si fonda sulla
premessa implicita che il popolo ebraico sia rappresentato
dallo Stato di Israele. Potrebbe sembrare un’affermazione
meramente descrittiva. In realtà, questa affermazione
prevede conseguenze straordinarie e contraddittorie.
Innanzitutto, non tiene conto della distinzione tra ebrei
che sono sionisti ed ebrei che non lo sono – per esempio
quegli ebrei della diaspora per cui la madrepatria non è
inevitabilmente un luogo dove tornare o una meta finale.
In secondo luogo, si tratta di un’affermazione che ha
conseguenze anche all’interno dei confini dello stesso Stato
di Israele. Infatti, il problema di Israele su come raggiungere
e mantenere una maggioranza demografica nei confronti
della sua popolazione non ebraica – che costituisce oltre
il 20 per cento della popolazione che vive all’interno dei
suoi attuali confini – è dato dal fatto che esso non è uno
stato esclusivamente ebraico e che, se volesse davvero
rappresentare la propria popolazione in maniera giusta e
uguale, dovrebbe rappresentare sia i cittadini ebrei che i non
ebrei. Quindi, affermare che Israele rappresenta il popolo
ebraico significa negare l’esistenza non solo di un cospicuo
numero di ebrei che vivono fuori da Israele e che Israele non
rappresenta né legalmente né politicamente, ma significa
anche negare l’esistenza dei palestinesi e degli altri cittadini
non ebrei che vivono all’interno dello Stato. La posizione
della Biblioteca nazionale si fonda su una concezione della
nazione di Israele secondo cui la popolazione ebrea che si

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trova al di fuori del territorio nazionale vive in una condizione
di galut – in uno stato di esilio e di perdizione da rovesciare
attraverso il ritorno in Israele. L’idea implicita è che tutti gli
ebrei e tutti i beni culturali ebraici – indipendentemente da
ciò che questa espressione voglia dire – che si trovano fuori
da Israele in fondo appartengono a Israele, poiché lo Stato
rappresenta tutti gli ebrei e tutte le loro forme di produzione
culturale. Va fatto notare che su questo problema della galut
il dibattito è aperto. C’è ad esempio uno straordinario libro
su esilio e sovranità di Amnon Raz-Krakotzkin, nel quale si
sostiene che l’esilio sia intrinseco all’ebraismo e all’ebraicità,
e che il sionismo sbagli a sostenere che andrebbe superato
attraverso l’invocazione della Legge del Ritorno [in Israele,
ndt]1 o attraverso la nozione popolare di diritto di nascita.
Infatti, l’esilio potrebbe costituire un punto di partenza per
il ripensamento della coabitazione e per riportare i valori
diasporici all’interno della regione. Questo era senza ombra
di dubbio anche il punto di vista di Edward Saïd, quando in
Freud e il non-europeo identificava nell’esperienza comune di
esilio di ebrei e palestinesi la base per una nuova comunità
politica in Palestina.

La galut dunque non è una condizione di perdizione che ha


bisogno di redenzione, anche se è proprio la condizione che
Israele e il sionismo cercano di superare estendendo il diritto
al ritorno a tutti i nati da madre ebrea – e ora rivendicando
come capitale culturale ebraico di proprietà dello Stato
1 La Legge del Ritorno, istituita negli anni Cinquanta, consente alle persone ebree di
tutto il mondo di “ritornare” in Israele, ma proibisce alle persone palestinesi cacciate durante
i vari momenti di pulizia etnica della Palestina dal 1948 in poi e ai loro discendenti di fare
ritorno nelle terre da cui sono state espulse e nel territorio della Palestina storica (il territorio
della Palestina prima della creazione di Israele).

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di Israele i lavori di chi è ebreo per caso. Se l’argomento
della Biblioteca nazionale avesse successo, la capacità
di rappresentanza dello Stato di Israele si espanderebbe
notevolmente. Come ha scritto Antony Lerman sul «The
Guardian», se

la Biblioteca nazionale rivendicasse per conto dello Stato


ebraico l’eredità di Kafka, essa, o istituzioni israeliane simili,
potrebbero rivendicare la proprietà di ogni sinagoga, opera
d’arte, manoscritto o oggetto rituale di valore che datano
prima dell’Olocausto e si trovano in Europa. Ma né Israele
in quanto Stato né nessun’altra istituzione pubblica o statale
ha questo diritto. (E anche se è vero che Kafka è una figura
chiave del passato culturale ebraico, nonché uno degli autori
più importanti al mondo, i cui temi trovano eco in molti Paesi
e culture, il modo di fare da padrone da parte di Israele è senza
dubbio fuori luogo).

Nonostante Lerman lamenti l’«intrinseca sottomissione


delle comunità ebraiche europee a Israele», il problema ha
implicazioni globali più ampie. Se la diaspora fosse concepita
come una condizione irredenta di perdizione, allora tutta la
produzione culturale di chi difficilmente potrebbe essere
considerato ebreo secondo le leggi rabbiniche del ritorno,
potrà essere soggetta a un’appropriazione postuma, nel
caso in cui il lavoro in questione sia considerabile un bene.
E questo mi conduce al terzo punto, cioè che dove vi sono
beni vi sono anche responsabilità giuridiche. Dunque per
una persona o un bene essere ebrei non è abbastanza; essi
devono essere ebrei in una maniera tale da poter essere
capitalizzati dallo Stato ebraico nella sua lotta contro varie

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forme di delegittimazione culturale in cui è impegnato.
Viene da pensare che un bene sia qualcosa che rafforza
la reputazione di Israele – una reputazione attualmente
in crisi: la scommessa è che la reputazione mondiale di
Kafka diventerà la reputazione mondiale di Israele. Ma una
responsabilità legale ebraica di questo genere si fonda su
una falla. Si pensi ai recenti sforzi fatti per perseguire le
organizzazioni per i diritti umani israeliane come B’Tselem,
accusate di aver documentato pubblicamente le morti civili
durante la guerra di Gaza. Forse Kafka potrebbe essere
strumentalizzato per superare la perdita di credibilità a
cui Israele ha dovuto far fronte a causa della sua continua
occupazione illegale di terre palestinesi. Ciò che preoccupa
non è soltanto che Israele si approprierà dei lavori di Kafka,
ma anche che verranno custoditi all’interno del territorio
statale; in questo modo chiunque cercherà di avervi accesso
e studiarli dovrà attraversare il confine di Israele ed entrare
in rapporto con le sue istituzioni culturali. Anche questo
è problematico, non solo perché i cittadini di molti Paesi
e i non-cittadini palestinesi dei territori occupati non
potranno varcare quel confine, ma anche perché molti
artisti e intellettuali sono impegnati nel boicottaggio
accademico e culturale e si rifiutano di essere ospitati in
Israele, a meno che le istituzioni che li accolgono non
abbiano una posizione forte e sistematica di opposizione
all’occupazione. Il processo Kafka ha luogo in questo
quadro politico e potrebbe influenzarlo. Infatti, nel caso
di vittoria processuale della Biblioteca nazionale, chiunque
volesse avere accesso ai lavori inediti e ignoti di Kafka
dovrebbe riconoscere implicitamente – in opposizione al

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boicottaggio – il diritto dello Stato di Israele ad appropriarsi
di beni culturali il cui alto valore verrà percepito come parte
del valore di Israele stesso. Potrà il povero Kafka tollerare
questo fardello? Finirà davvero per aiutare lo Stato di
Israele a zittire le critiche dovute alla sua occupazione della
Palestina?

È strano che Israele si affidi ai fragili resti di Franz Kafka


per rivendicare culturalmente il lavoro di quel genere di
persone che potremmo chiamare «dubbiamente ebrei». Ed
è importante sottolineare che le avversarie dello Stato siano
le figlie di un’amante di Max Brod, sionista convinto i cui
interessi politici sembravano oscurati dalla sua sete di denaro.
Pare che la ricerca di un ritorno redditizio non conosca
confini nazionali e non si preoccupi di rispettare particolari
rivendicazioni di appartenenza nazionale – come lo stesso
capitalismo. Infatti, l’Archivio della letteratura tedesca
sarebbe probabilmente in una condizione migliore per pagare
le somme immaginate dalle figlie di Esther Hoffe. Con una
mossa disperata, l’avvocato della Biblioteca nazionale ha
cercato di smontare la rivendicazione di proprietà avanzata
dalle sorelle, esibendo una lettera in cui Brod accusa la sua
amante di mancato rispetto nei suoi confronti e sostiene che
avrebbe preferito lasciare gli scritti di Kafka a una persona
più accorta. Ma dato che la lettera non nomina questa
persona è difficile sostenere che essa annulli la stipulazione
esplicita della sua volontà. Sarà curioso vedere se questa
testimonianza di un conflitto tra amanti varrà legalmente in
tribunale.

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Il più potente avversario della Biblioteca nazionale è l’Archivio
della letteratura tedesca di Marbach che, curiosamente, ha
assunto avvocati israeliani per il processo. In questo modo,
hanno pensato all’Archivio, il tutto non sembrerà una
questione ebreo-tedesca e non richiamerà alla memoria l’altro
processo – il processo Eichmann del 1961 – in cui il giudice
all’improvviso passò dall’ebraico al tedesco per rivolgersi
direttamente a Eichmann. Quel momento del processo creò
una controversia su quale lingua fosse la più appropriata per
un tribunale israeliano e sull’opportunità o meno di fare una
cortesia a Eichmann rivolgendosi a lui nella propria lingua.
Diversi studiosi e quotidiani israeliani hanno recentemente
sostenuto che Marbach è il luogo opportuno in cui conservare
gli scritti di Kafka appena ritrovati, visto che ospita già la
più grande collezione di manoscritti di Kafka nel mondo,
incluso quello de Il processo, che l’Archivio ha acquistato nel
1988 per tre milioni di marchi tedeschi. Gli stessi studiosi si
oppongono all’ulteriore frammentazione dell’opera di Kafka
e fanno leva sulle capacità di Marbach di conservare i materiali.
Pare che vi sia consenso tra loro sul fatto che la Germania sia
un posto più sicuro di Israele, e ovviamente avanzano anche
l’argomento secondo cui Kafka apparterrebbe alla letteratura
tedesca e, più specificamente, alla lingua tedesca. Anche se
questi studiosi non cercano di dire che Kafka appartiene alla
Germania come uno dei suoi cittadini virtuali o del passato,
qui la germanicità trascende la storia della cittadinanza e si
basa sulla competenza e sui risultati linguistici del lavoro di
Kafka. Il punto di vista dell’Archivio della letteratura tedesca
cancella il ruolo del multilinguismo nella formazione e negli

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scritti di Kafka. (Infatti, come spiegare le parabole di Babele
senza il multilinguismo, e i frequenti tentennamenti espressivi
nei suoi lavori senza la combinazione di ceco, yiddish e
tedesco?).

Focalizzandosi su quanto perfetto fosse il suo tedesco,


l’Archivio si accoda a una lunga e curiosa tradizione di studi
che celebra il tedesco puro di Kafka. Ad esempio, George
Steiner ha lodato «la trasparenza del tedesco di Kafka e la
sua calma immacolata», sottolineando che il suo «vocabolario
e la sua sintassi sono tra quelli che più si astengono dagli
sprechi». John Updike ha fatto riferimento alla «entusiasmante
purezza» della prosa kafkiana. Hannah Arendt ha scritto che
il suo lavoro «si esprime nella prosa più pura del secolo».
Dunque, anche se Kafka era ceco, sembra che questo fatto
diventi irrilevante a cospetto del suo tedesco scritto, che a
quanto pare è tra i più puri – o forse purificati? Data la storia
del valore della purezza all’interno del nazionalismo tedesco,
incluso il nazional-socialismo, è curioso che Kafka venga
rappresentato attraverso questa norma rigorosa ed esclusiva.
Come purificare il multilinguismo di Kafka e le sue origini per
farlo sembrare un puro tedesco? Il fatto che sembra essersi
purificato quasi come un Ausländer è davvero l’elemento più
importante e degno di ammirazione in Kafka?

È interessante che queste tesi sul tedesco di Kafka siano


nuovamente in circolazione, proprio quando Angela
Merkel ha annunciato il fallimento del multiculturalismo in
Germania, portando come prova l’argomento secondo cui i
nuovi immigrati e i loro «figli e nipoti» non parlano tedesco

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correttamente. Merkel ha chiesto con forza a queste comunità
di liberarsi di qualsiasi accento e di «integrarsi» alle norme della
comunità linguistica tedesca (la lamentela di Angela Merkel
è stata prontamente contrastata da Jürgen Habermas). Senza
dubbio Kafka potrebbe essere l’immigrato modello, anche
se visse solo brevemente a Berlino e non si identificò con
gli ebrei tedeschi. Se i nuovi lavori di Kafka saranno inclusi
nell’archivio di Marbach, la Germania ne uscirà rafforzata
nel suo sforzo di spostare il proprio nazionalismo sul piano
della lingua; l’inclusione di Kafka avrebbe luogo per la stessa
identica ragione per cui gli immigrati che parlano peggio
il tedesco vengono stigmatizzati. È possibile che il fragile
Kafka diventi una norma per l’integrazione europea?

Nello scambio epistolare tra Kafka e la sua amata, Felice


Bauer, originaria di Berlino, la donna corregge costantemente
il tedesco di Kafka, il che lascia pensare che lo scrittore non
si sentisse completamente a casa in questa seconda lingua.
E un’altra donna che egli amava, Milena Jesenská, la quale
tradusse i suoi lavori in ceco, gli insegnò costantemente
frasi in ceco a lui sconosciute e parole che non sapeva come
pronunciare, il che lascia pensare che anche questa fosse una
seconda lingua. Nel 1911 Kafka si avvicina al teatro yiddish
e cerca di capirlo, ma lo yiddish non è una lingua con cui ha
a che fare spesso in famiglia o nella vita quotidiana; per lui
rimane un elemento importato dall’est, interessante e strano
allo stesso tempo. Dunque esiste davvero una lingua madre
per Kafka? E non possiamo forse affermare che anche il
tedesco formale in cui Kafka scrive – ciò che Arendt ha
chiamato il tedesco «più puro» – porta i segni di qualcuno che

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è entrato nella lingua dall’esterno? Questo era l’argomento di
Deleuze e Guattari nel saggio Kafka. Per una letteratura minore.

In effetti, tale controversia pare riferirsi a una questione


precedente che lo stesso Kafka evoca in una lettera a Felice
nell’ottobre del 1916, riferendosi al saggio di Max Brod
sugli scrittori ebrei, I nostri autori e la comunità, pubblicato da
«Der Jude».

E, tra l’altro, prova a dirmi cosa sono veramente; nell’ultimo


numero di «Neue Rundschau», La metamorfosi è citata e respinta
sulla base di motivazioni ponderate, e l’autore della recensione
afferma: «C’è un’eco profondamente tedesca nella narrativa di
Kafka». D’altra parte nell’articolo di Max si legge: «Le storie
di Kafka sono fra i più tipici documenti della cultura ebraica
del nostro tempo».

«Un caso difficile» scrive Kafka. «Sono un fantino da circo


che corre su due cavalli? Ahimè! Non vi è alcuna corsa, solo
me stesso prostrato al suolo».

Rivolgiamo ora la nostra analisi ad alcuni altri scritti di Kafka –


le lettere, certe annotazioni sui diari, due parabole e una storia
– al fine di far luce sulla questione della sua appartenenza,
della sua visione del sionismo e del suo più generale modo di
intendere il raggiungimento (o il mancato raggiungimento) di
una meta. Probabilmente, ai fini della valutazione sui diritti di
proprietà avanzati nel processo, non importa se Kafka fosse
o meno sionista, o se pianificasse seriamente di stabilirsi in
Palestina. Il fatto è che Brod era un sionista e portò con sé
il lavoro di Kafka, anche se lo scrittore non ci andò mai né

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progettò di andarci. Egli concepiva infatti la Palestina come
una meta, ma immaginando il progetto di partire come «un
sogno». Non si trattava semplicemente di una mancanza
di volontà, quanto di una sorta di ambivalenza esitante
rispetto all’intero progetto. Ciò che spero di far emergere è
che una certa poetica del non arrivo pervade queste opere e
influenza, per non dire che affligge, le sue lettere d’amore, le
sue parabole sul viaggio, e le sue riflessioni esplicite tanto sul
sionismo quanto sulla lingua tedesca. Posso comprendere
che si voglia guardare a cosa scrisse Kafka rispetto ai processi
per gettare luce sul processo odierno attraverso le opere,
ma è necessario sottolineare alcune differenze. L’udienza
che si sta svolgendo attualmente riguarda la proprietà e le
sue basi poggiano su diritti di appartenenza nazionale e
linguistica, ma la gran parte dei processi e delle procedure
di cui Kafka scrive, riguarda accuse infondate e colpe senza
nome. Ora è lo stesso Kafka a essere diventato proprietà, se
non bene (letteralmente un’unità tangibile, proprietà mobile
o immobile, non vincolata a un territorio), e il dibattito sulla
sua destinazione finale sta avvenendo, ironicamente, di fronte
a un tribunale civile. La stessa contesa sull’appartenenza di
Kafka è in sé materia di scandalo, dato che le sue opere
recano traccia esperienziale di una non appartenenza o,
specularmente, di una ultra appartenenza. Si rammenti che
egli ruppe ogni obbligo che avesse mai contratto, non ebbe
mai un appartamento di proprietà, e chiese al proprio agente
letterario di distruggere le sue carte, decisione che pose fine
alla loro relazione contrattuale. Le disposizioni successive
sopravvissero dunque alle intenzioni originarie e al loro arco
temporale. Sebbene nel lavoro di Kafka rientrasse la gestione

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dei diritti di assicurazione amministrativa e dei contratti di
esclusiva, la sua vita personale ne era curiosamente priva se si
eccettua un contratto occasionale per la pubblicazione. Sono
pronta ad ammettere, senza dubbio, che la tutela legale delle
sue carte richieda una decisione sulla modalità di gestione
di questo patrimonio letterario, e che questo problema di
diritto di proprietà debba essere risolto in modo che le carte
possano essere inventariate e rese accessibili. Per provare
però a uscire da questo groviglio potrebbe essere d’aiuto
tornare a rivolgere lo sguardo agli scritti di Kafka, all’interno
dei quali sarà agevole scoprire che la sua stessa opera è il mezzo
migliore per aiutarci a travalicare i limiti dell’appartenenza
culturale e le insidie di certe traiettorie nazionalistiche che
hanno obiettivi territoriali ben precisi.
Non c’è dubbio che le origini ebraiche di Kafka furono
importanti, ma ciò non implica in alcun modo un supporto
al sionismo. Egli fu immerso nell’ebraismo, ma fu anche
impegnato a sopravvivere alle pressioni, alle rivendicazioni e
alle aspettative sociali che ne derivavano. Nel 1911 frequentò il
teatro yiddish quasi ogni settimana descrivendo nel dettaglio
quanto vedeva. Negli anni successivi lesse – avidamente,
stando alle sue parole – La storia della letteratura ebraico-tedesca di
Meyer Pines, che era piena di storie di tradizione chassidica,
proseguendo con Organismus des Judentums di Fromer, che
analizzava in dettaglio le tradizioni rabbiniche del Talmud.
Kafka frequentò gli eventi musicali che ebbero luogo al Bar
Kokhba Society, lesse parti della Cabala analizzandole nei
suoi diari, studiò Moses Mendelssohn e Sholem Aleichem,
lesse molte riviste di cultura ebraica, ascoltò lezioni di
sionismo, assistette a opere teatrali in yiddish, infine ascoltò

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le storie della tradizione ebraica in traduzione. Vi sono tracce
che inducono a ritenere che il 25 febbraio 1912 abbia tenuto
una lezione sulla lingua yiddish, sebbene non sia riuscita a
trovarne la copia. È probabile che sia stipata in uno scatolone
fra quelli conservati a Tel Aviv in attesa del giudizio legale.

A fianco a questa profonda immersione nel mondo ebraico


– potremmo forse descriverla come una modalità di
autocoinvolgimento – dalla voce di Kafka emergeva anche
un’eco di scettiscismo su quella forma di appartenenza
sociale. Hannah Arendt, il cui senso di appartenenza fu
oggetto di controversie simili (assumendo la forma di una
disputa polemica con Gershom Scholem), rese famosa una
delle battute di Kafka sul popolo ebraico: «Il mio popolo,
purché ne abbia uno». Come Louis Begley ha recentemente
chiarito in un saggio biografico piuttosto schietto, Kafka
restava non solo dubbioso sulla propria ebraicità, ma ne era
talvolta chiaramente lacerato. «Cosa ho in comune con gli
ebrei?» annotò su un diario nel 1914. «Io non ho quasi nulla
in comune con me stesso e dovrei starmene in un angolo, nel
silenzio, lieto di essere vivo, di poter respirare». Talvolta le
sue stesse osservazioni nei confronti degli ebrei erano severe,
se non violente, quando ad esempio li chiamava «lucertole».
In una lettera a Milena, che non era ebrea, sconfinò in una
fantasia genocida e suicida in cui alla fine nessuno riusciva a
sopravvivere:

Avrei buoni motivi per disapprovare la tua opinione fin troppo


positiva nei confronti degli ebrei che conosci (compreso me) –
non sono tutti come quelli che conosci, ve ne sono altri! Talvolta
vorrei stipare tutti gli ebrei (incluso me stesso) nel baule della

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biancheria, calcarli dentro e poi aspettare; aprire uno spiraglio
per vedere se sono già morti soffocati e altrimenti richiudere il
coperchio e andare fino in fondo, fino alla fine.

L’essere ebreo è ancora una volta legato alla possibilità di


respirare. Che cosa ho in comune con gli ebrei? È già una
fortuna la sola possibilità di respirare. Sono dunque gli ebrei
a minacciare la sua vita, la sua possibilità di respirare, o è lui
che immagina di impedire agli ebrei di respirare, di vivere?

La fantasia del soffocamento di Kafka evoca l’immaginaria


oscillazione dimensionale che troviamo anche, ad esempio, in
La condanna. In quella fantasia, Kafka è magicamente grande,
più grande di tutti gli ebrei che egli immagina di stipare nel
baule. Nonostante ciò si trova anche lui nel baule, il che
fa di lui, allo stesso tempo, un essere insopportabilmente
piccolo. In La condanna, il padre è alternativamente enorme
e minuscolo: a un certo punto il figlio, Georg, fa notare che
quando suo padre è in piedi, è così alto che la sua mano
può quasi toccare il soffitto, ma un momento prima egli ha
l’aspetto e le dimensioni di un bambino, tanto che Georg lo
porta a letto in braccio. Il figlio si eleva sul padre solo per
essere condannato a morte in forza delle sue ultime parole.
Dove si colloca Kafka nella fantasia del soffocamento e dove
si trova Georg? Sono entrambi soggetti a un’oscillazione
permanente delle proporzioni fisiche durante la quale
nessuno riesce a mantenere una dimensione normale,
gestibile. Nella fantasia del soffocamento Kafka si trova, allo
stesso tempo, nel ruolo di agente e di vittima dell’azione. Tale
ininterrotta dualità non viene riconosciuta da coloro i quali
si sono serviti della lettera per definirlo un ebreo che odia

22
se stesso. Una tale interpretazione non trova però effettive
conferme, proprio a causa dell’oscillazione di significati
che emerge dal testo; così come non ne trova quella che
vorrebbe consolidata e indubbia la pretesa che le occasionali
testimonianze di ammirazione di Kafka nei confronti del
sionismo facciano di lui un sionista. (Quando invece in certi
casi il rapporto col sionismo appare più come una sorta di
infatuazione). La fantasia del soffocamento, scritta nel 1920,
può essere compresa in modo più compiuto se la si pone in
relazione con una lettera a Felice scritta quattro anni prima,
dopo la lettura dell’opera teatrale di Arnold Zweig Omicidio
rituale in Ungheria (1916). L’opera mette in scena un dramma
che si svolge nel 1897, basato sull’«accusa del sangue» nei
confronti degli ebrei. Alcuni ebrei di un villaggio ungherese
vengono accusati di utilizzare un coltello da macellaio per
uccidere i cristiani e di usare il loro sangue per cuocere pane
azzimo. Nell’opera, gli imputati sono condotti in tribunale,
dove però le accuse vengono rigettate. Per le strade esplode
una rivolta antisemita e gli ebrei sono colpiti nei loro interessi
economici e nelle istituzioni religiose. Dopo aver letto
l’opera di Zweig, Kafka scrisse a Felice: «A un certo punto
dovetti smettere di leggere e, seduto sulla poltrona, piansi.
Erano anni che non piangevo». Il coltello da macellaio o
altri coltelli simili riappaiono successivamente nei suoi diari
e nelle sue lettere, nonché diverse volte all’interno delle
opere da lui pubblicate: ne Il processo, ad esempio, e ancora,
più vividamente, in Un medico di campagna. Omicidio rituale in
Ungheria trasmette in qualche modo l’idea dei limiti della
legge, compresi quei percorsi attraverso cui la legge stessa
cede il passo a un’illegalità che non può controllare.

23
Il fatto che Kafka piangesse di fronte a una storia di false
accuse – anzi, che pochi cenni a riguardo lo portassero al
pianto come nel caso citato – potrebbe sorprenderci. Lo
stile de Il processo, dopotutto, è riconoscibile laddove la falsa
o per lo meno oscura accusa nei confronti di K. è raccontata
nei termini più neutrali, senza effetti enfatici. Sembra che il
dolore evocato nelle lettere sia precisamente ciò che viene
messo fuori gioco nelle opere; e, allo stesso tempo, le opere
comprendono una serie di eventi interconnessi senza alcuna
prova fondata o induzione logica. Esse aprono, in effetti,
quello spazio di scissione (ma allo stesso tempo compresenza)
fra la limpidezza – potremmo dire una certa lucidità e financo
una purezza della prosa – e le tenebre, l’orrore che viene però
normalizzato, ricompreso proprio in forza di quella lucidità.
Nessuno può criticare l’uso della grammatica e della sintassi
negli scritti di Kafka, così come nessuno ha mai rilevato
eccessi emotivi nel suo stile; ma proprio a causa di questa
modalità narrativa apparentemente rigorosa e obiettiva,
una sorta di orrore si fa strada nella quotidianità, forse solo
come ineffabile pena. La sintassi e i temi affrontati sono di
fatto in conflitto, il che ci porta a considerare con cautela
un’ammirazione per Kafka dovuta esclusivamente alla sua
lucidità. Dopotutto la lucidità funziona come stile nella
misura in cui tradisce la propria pretesa di autosufficienza.
Qualcosa di oscuro, se non indicibile, affiora da questa
sintassi perfetta. Ancor di più, tenendo presenti le accuse
ricorrenti e calunniose che si celano sullo sfondo dei suoi
tanti processi, possiamo leggere la voce narrante come la
neutralizzazione di un oltraggio, un accumulo progressivo

24
di dolore in forma linguistica che paradossalmente lo porta
allo scoperto. Gli ebrei sono, dunque, la sua famiglia, il
suo piccolo mondo; è come se lui fosse circondato da
quel piccolo appartamento, in una comunità senza pace, in
questo senso per lui soffocante. Comunque, era consapevole
degli avvenimenti e dei pericoli dell’antisemitismo del suo
tempo, come quando ne fece esperienza diretta durante una
sommossa che ebbe luogo nel 1918, allorché ebbe a trovarsi
in mezzo a una folla «galleggiante nell’odio antiebraico». È
possibile che egli guardasse al sionismo, allora, come a una
via d’uscita da questa profonda ambivalenza? Un modo di
sfuggire ai vincoli familiari e di comunità, di quella comunità,
combinato con il bisogno di trovare un luogo pensato come
libero dall’antisemitismo?

Prendiamo in esame la prima lettera che Kafka scrisse a


Felice nel settembre del 1912. Nella riga di apertura le chiede
di immaginarsi insieme in Palestina.

Nell’eventualità che tu non abbia più la minima idea di chi


io sia, mi presento ancora una volta: il mio nome è Franz
Kafka, sono la persona che ti accolse per la prima volta in quel
pomeriggio da Brod a Praga, sono quello che ebbe a porgerti
attraverso il tavolo, una a una, alcune fotografie di un viaggio
a Thalia, quello che, infine, ti scrive ora accarezzando i tasti, ti
tenne la mano, quello a cui confermasti la promessa di partire
insieme per la Palestina.

Come emerge dalla corrispondenza negli anni successivi,


Kafka le riferì più volte che non sarebbe stato in grado di
accompagnarla, né per questo viaggio né per altri, certamente

25
non in Palestina: almeno non in quella vita, per la persona
che era; la mano che le scriveva non avrebbe comunque più
stretto quella di lei. Inoltre egli nutriva i suoi dubbi rispetto al
sionismo e rispetto a ogni percorso che prevedesse un arrivo
a destinazione. In seguito Kafka si riferì al sionismo come
a un sogno ed ebbe a riprenderla per averci creduto tanto
seriamente. «Ti sei fatta sedurre» le scrisse. In realtà fu lui a
indicare la Palestina come una struttura di seduzione: vieni
con me, prendi la mia mano ti condurrò al di là. A conferma
di ciò, mentre negli anni successivi la relazione entra in crisi
e si sgretola, Kafka chiarisce di non avere alcuna intenzione
di partire e sostiene che chi decide di farlo sta rincorrendo
un’illusione. La Palestina è un altrove figurale dove vanno
gli amanti, un futuro aperto, il nome di una destinazione
sconosciuta.

In Kafka Goes to the Movies, Hanns Zischler sostiene l’ipotesi


che siano state le immagini filmiche a fornire a Kafka i
primi elementi per l’accesso allo spazio della Palestina e
che questa fosse appunto un’immagine filmica per lui, un
campo proiettato dalla fantasia. Zischler scrive che Kafka
vide la terra amata nei film, come film. Per di più la Palestina
era immaginata come terra spopolata, questione che è stata
verificata dalla ricerca di Ilan Pappé sulle prime fotografie
dei sionisti, nelle quali le abitazioni palestinesi sono
sbrigativamente reinserite nel paesaggio. Quella di Zischler
è una tesi stimolante, ma forse lontana dalla verità, visto che
il primo di quei film non è stato visto se non nel 1921, in
base alle registrazioni disponibili. Kafka, inoltre, frequentava
incontri e leggeva giornali, avido di notizie come era rispetto

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al nostro tema, acquisendo conoscenze e afferrando il senso
della Palestina sia dai racconti, in forma scritta o orale, sia
attraverso il dibattito pubblico. Nel corso di questi dibattiti
e resoconti Kafka si rese conto dei conflitti che stavano
iniziando all’interno di quei territori. Infatti nel breve
racconto Sciacalli e arabi, pubblicato su «Der Jude» nel 1917,
viene messa in luce l’impasse che sta al cuore del sionismo.
Nel racconto il narratore, che ha vagato ignaro nel deserto,
arriva al cospetto degli sciacalli (die Schakale), un malcelato
riferimento agli ebrei. Dopo essere stato accolto come una
figura messianica, da loro attesa per generazioni, questi gli
spiegano che il suo compito è di uccidere gli arabi usando
un paio di forbici (forse un riferimento sarcastico ai sarti
ebrei dell’est Europa e al loro scarso equipaggiamento da
guerra). Gli sciacalli non vogliono compiere questa missione
direttamente, poiché non vogliono sporcarsi, mentre il Messia
è in quanto tale libero dai vincoli della legge ebraica (kosher).
Il narratore dunque parla con il capo degli arabi: quest’ultimo
spiega come sia cosa nota che «finché gli arabi esisteranno,
quel paio di forbici vagherà attraverso il deserto e vagherà
con noi fino alla fine dei nostri giorni. A ogni europeo
viene offerto di compiere la grande opera; ogni europeo è
propriamente l’Uomo che il Fato ha scelto per loro».

La storia fu scritta e pubblicata nel 1917, l’anno in cui


terminò la relazione fra Kafka e Felice. Quello stesso anno
lo scrittore chiarì in una lettera a lei rivolta: «Non sono un
sionista». Poco tempo prima Kafka ebbe a scrivere a Grete
Bloch come per temperamento egli fosse «escluso da ogni
comunità stanziale, territoriale e dunque di non essere un

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sionista (io ammiro il sionismo e ne sono nauseato) e di
non praticare l’ebraismo». Dopo aver preso parte con Max
Brod nel marzo del 1915 a un incontro di sionisti, durante il
quale ebrei dell’Europa orientale e occidentale si ritrovarono
per confrontarsi sulle proprie differenze, egli descrisse i vari
personaggi – uno, ad esempio, con la sua «logora piccola
giacca» – e notò il «sorriso diabolicamente sgradevole» di
un tipo descritto come «un litigio errante» con una «voce da
canarino». Questa sequenza visiva infine include anche se
stesso: «io, come fossi di legno, un appendiabiti piazzato in
mezzo alla stanza. Ma ancora spero».

Dove trova origine precisamente questa speranza? Qui


come altrove, il problema della destinazione poggia sulla
questione dell’emigrazione in Palestina, ma anche, in senso
più generale, sulla questione relativa all’arrivo effettivo dei
messaggi e della piena comprensione dei comandi. La poetica
del non arrivo illumina la difficile situazione linguistica
della scrittura praticata in un contesto multilinguistico, che
sfrutta le regole sintattiche del tedesco formale per produrre
un effetto opaco, misterioso, ma fa emergere anche gli
effetti della scrittura in una Babele contemporanea dove
l’incepparsi della lingua arriva a rendere l’effetto quotidiano
del discorso, di quello amoroso come di quello politico.
Il problema che riemerge in parabole come Un messaggio
dell’imperatore è se un messaggio possa essere spedito da qui
a lì, o se qualcuno possa effettivamente viaggiare da qui
a lì, o ancor di più al di là; se infine un arrivo previsto sia
effettivamente possibile.

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Vorrei ora soffermarmi brevemente su due parabole che
toccano questo problema del non arrivo, così come quella
strana forma di speranza che può emergere da una socialità
interrotta e l’impasse contro-messianica che caratterizza la
stessa forma della parabola. Ad aprire La partenza è il problema
di un ordine incompreso: «Ordinai di andare a prendere il
mio cavallo dalla stalla. Il servo non mi capì». Forse l’ordine
è impartito in un linguaggio che il servo non comprende,
o forse qualche presunta gerarchia non sta funzionando
come dovrebbe. La confusione cognitiva cresce quando l’io
narrante dice: «In lontananza sentii soffiare una tromba,
chiesi al servo che cosa volesse dire». Stavolta sembra che
il servo comprenda la domanda, mentre il narratore pare
essere estraneo a un comune mondo di suoni: «Egli non
lo sapeva e non aveva sentito niente». Apparentemente il
servo dà segni di vita solo per far capire quanto le proprie
competenze linguistiche dipendano dal signore: «Presso il
portone mi trattenne e domandò: “Signore, dove vai?”»,
seguito da un’immediata risposta: “Non lo so”, dissi, “solo
via di qui [weg-von-hier], solo via di qui”». E, per la terza
volta: «Sempre via di qui, solo così posso raggiungere la mia
meta». Il servo, che apparentemente non ha compreso il
primo ordine, o non ha compreso di esserne il destinatario,
sembra invece ora preoccupato di capire quali siano gli
intenti del signore (das Ziel). Ma la risposta del signore è
disorientante: «Sì,» replica, «io l’ho detto» e indica il nome
di un luogo, l’ifenato luogo via-di-qui (che tra l’altro diventa
il concetto attraverso cui Deleuze ricollega Kafka alla
deterritorializzazione). Eppure, che cosa significa dire che

29
via-di-qui è la mia meta? Ogni luogo che non è qui può essere
lontano da qui, ma ogni luogo che è già un qui non sarà mai
via di qui, al limite sarà un altro qui. Esiste forse un altro
modo di intendere il qui, un modo per cui questo qui ci viene
appresso, ovunque andiamo? Cosa potrebbe significare
liberarsi dalle condizioni spazio-temporali del qui? Ciò non
implicherebbe semplicemente essere ovunque; lo stesso
ovunque, piuttosto, dovrebbe trascendere i limiti spazio-
temporali di ogni luogo effettivamente esistente. E dunque,
ovunque il signore intenda andare, non sarà in nessun luogo
come lo conosciamo. È una parabola di tipo teologico,
la parabola che prevede questo indicibile oltre? È una
parabola sulla Palestina, quel luogo che nell’immaginazione
degli europei, secondo Kafka, non è un luogo abitato, e,
soprattutto, non è un luogo abitabile da nessuno?

In effetti, sembra che il signore abbia intenzione di recarsi in


un luogo in cui la sopravvivenza del corpo non è un problema
di cui preoccuparsi. Il servo dice: «Non hai viveri [Eßvorrat]
con te». «“Io non ne ho bisogno” dissi, “il viaggio è così lungo,
che dovrò morire di fame, se non ricevo qualchecosa sulla
via. Nessuna provvista mi può salvare [Kein Eßvorrat kann mich
retten]”». E poi questa strana battuta conclusiva: «Per fortuna
è veramente un viaggio immenso». In tedesco, il concetto è
reso con «fortunatamente» (zum Glück eine wahrhaft ungeheure
Reise). La parola ungeheure significa «incredibile», «mostruoso»,
ma anche «impenetrabile». Verrebbe da chiedersi che tipo
di viaggio sia questo mostruoso e impenetrabile viaggio
per cui nessun alimento sarà necessario. Nessuna vivanda
può consentirgli di sopravvivere lungo l’incredibile tragitto.

30
Fortunatamente, sembra che il viaggio non solo richieda la
sua inedia, ma non riuscirà nemmeno a salvarlo, a condurlo
in un luogo che possa dirsi tale. Il signore sta andando
verso un luogo che non è un luogo e in cui il cibo non sarà
necessario. Se quel luogo al di là di ogni luogo è in sé una
forma di salvezza, cosa che non viene precisata, allora sarà
una salvezza di altro tipo rispetto a quella che potrebbe
derivare dal sostentamento alimentare di un essere vivente.
Potremmo definire tutto questo una pulsione di morte nei
confronti della Palestina, ma potremmo anche leggerlo
come un’apertura nei confronti di un viaggio infinito, o di
un viaggio verso l’infinito, un gesto che conduce verso un
altro mondo. Uso la parola gesto perché è quella che usano
anche Benjamin e Adorno per riferirsi a quei momenti di
semiparalisi, quegli atti che non sono esattamente delle
azioni, che si congelano per frustrazione e incompiutezza.
E che somigliano a ciò che vediamo all’opera in questa
parabola: un gesto che apre un orizzonte come meta, ma
non c’è effettiva partenza e sicuramente non ci sarà un vero
e proprio arrivo.

La poetica del non arrivo è inoltre reperibile in un’altra


parabola di Kafka, La venuta del Messia, dalla quale
apprendiamo, tramite una voce apparentemente autorevole,
che il Messia «arriverà […] quando non ci sarà più nessuno in
grado di distruggere questa possibilità e nessuno che possa
soffrire di tale distruzione». La parabola si riferisce a uno
«sbrigliato individualismo della fede» che deve innanzitutto
divenire possibile; sbrigliato, in tedesco zügellos, è simile a
lasciato a se stesso – un individualismo lasciato a se stesso per

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il mondo, fuori controllo. A quanto pare, nessuno farà il
proprio arrivo, e sembra anche che il Messia non assumerà
una forma antropomorfica: il Messia arriverà solo quando
non ci sarà nessuno a distruggerne la possibilità o a soffrire per
la distruzione. Ciò significa dunque che il Messia non arriverà
se ci sarà ancora qualcuno, ma solo se non ci sarà nessuno;
e significa anche, però, che il Messia non sarà qualcuno, non
sarà un individuo. Forse questa immagine è da imputare a un
certo individualismo che, letteralmente, distrugge ciascuno
e tutti gli individui. In ogni caso, seguendo il vangelo di
Matteo, la parabola dice che «le tombe si apriranno» da sole
e, dunque, ancora una volta, si può comprendere come ciò
non avverrà in seguito a un’azione umana. Nel precisare che
«anche questa è dottrina cristiana», il narratore sta aprendo,
retroattivamente, a un passato ebraico della parabola, ma
d’altronde c’è già all’opera una Babele di religioni: l’ebraismo,
il cristianesimo, l’individualismo, e poi, in seguito a una
spiegazione quasi incomprensibile, sembra che facciano
la loro comparsa pezzi di Hegel – i pezzi, non a caso, più
illeggibili. D’altra parte, sembra quasi che una descrizione
coerente di tutto ciò non possa essere possibile, e in qualche
modo ci troviamo trasportati ai limiti del pensabile. «Il Messia
verrà soltanto quando non ci sarà più bisogno di lui. Egli verrà
il giorno dopo la sua venuta; non nell’ultimo dei giorni, ma
in quello ancora successivo». Sembra dunque che il Messia
verrà quando non ci sarà più nessuno in grado di soffrire per
la distruzione del mondo come lo conosciamo, ma anche
quando non ci sarà più nessuno in grado di distruggere la
possibilità della sua venuta. Quel Messia non verrà come
individuo, e sicuramente nemmeno entro una qualunque

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sequenza temporale con cui siamo soliti organizzare il
mondo dei viventi. Se verrà non nell’ultimo dei giorni, ma
addirittura in quello successivo, allora arriverà in un giorno –
inteso in senso iperfigurato – che eccede ogni calendario dei
giorni, nonché la stessa nozione di cronologia. La parabola
ci parla di un tempo in cui nessuno sopravviverà. L’arrivo
è un concetto che appartiene al calendario; la venuta (das
Kommen), sembrerebbe di no. La venuta non accade in un
momento del tempo, ma solo dopo che la sequenza di tutti i
momenti possibili si è conclusa.

La partenza e l’arrivo erano temi ricorrenti per gli ebrei


europei che prendevano in considerazione l’ipotesi
di lasciare l’Europa alla volta della Palestina o di altre
destinazioni. Nell’analisi de La partenza ci eravamo lasciati
con la domanda: come si può andare via da qui senza con
ciò muoversi da un qui all’altro? Tali partenza e arrivo non
assumono forse una distinta traiettoria temporale in un
continuum spaziale? L’amalgama weg-von-hier [Via-di-qui ndt]
sembra essere il nome di un luogo, ma il suo scopo è quello
di mettere in crisi la nostra stessa nozione di luogo. Infatti,
nonostante weg-von-hier sia il nome di un luogo – ossia,
nonostante sembri il nome di un luogo in una riconoscibile
forma grammaticale –, si viene a scoprire non solo che, in
questo caso, esso diverge da una chiara referenzialità, ma
che può al contempo, com’è evidente, operare in contrasto
con ogni idea intelligibile di realtà. Sembra non esserci alcun
modo chiaro di muoversi da un punto all’altro, all’interno
dello schema offerto da questa parabola, e questo tende a
confondere le nostre idee di progressione temporale e di

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continuità spaziale. Ciò rende anche difficile seguire le righe,
nella pagina, seguire le righe per iniziare e finire di leggere la
parabola. Se la parabola di Kafka, in qualche modo, traccia
la traiettoria della partenza da una comune nozione di luogo
a una nozione di perpetuo non arrivo, ciò significa dunque
che essa non mira alla realizzazione di un obiettivo comune,
né alla progressiva realizzazione di un obiettivo sociale in un
luogo specifico.

Ma c’è qualcos’altro in gioco, la mostruosa e infinita distanza


tra la partenza e l’arrivo e peraltro al di fuori di ogni criterio
temporale entro cui tali concetti avrebbero senso. Ne La
venuta del Messia, la concezione kafkiana del non arrivo
prende le mosse dalle fonti ebraiche ma poi se ne discosta.
A diventare sempre più chiaro è come ogni temporalità
messianica non sia realizzabile nello spazio e nel tempo. Si
tratta di un momento contro-kantiano, forse, o di un modo
di interrogare l’ebraismo ai limiti della nozione kantiana di
«apparenza» o, ancora, contro una nozione progressiva della
storia, il cui obiettivo è quello di realizzarsi in un territorio
popolato.

Kafka riflette inoltre su altre forme di non arrivo in una


pagina del suo diario scritta nel 1922, meno di due anni
prima di morire di tubercolosi:

Non ho mostrato la minima volontà di fermezza nella condotta


della mia vita. Era come se mi fosse stata data l’opportunità
di partire da un punto, come tutti gli altri, per tracciare il
raggio di un cerchio, per poi, come tutti gli altri, descrivere
il mio cerchio perfetto intorno a questo punto. Invece, ogni

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qual volta abbia iniziato a tracciare il mio raggio, sono stato
costantemente costretto a troncare. (Esempi: pianoforte,
violino, lingue, letteratura tedesca, antisionismo, sionismo,
ebraico, giardinaggio, falegnameria, scrittura, tentativi di
matrimonio, un appartamento tutto mio).

Sembra quasi un tono lamentoso, ma aggiunge: «Se a volte


ho prolungato il mio raggio un po’ più del solito, come nel
caso dei miei studi in giurisprudenza, ad esempio, o di altri
impegni, tutto è stato fatto peggio e non meglio, solo per
via di quel tempo supplementare». Ciò significa allora che
qualcosa di meglio è stato fatto fuori dal raggio del cerchio,
come resistenza a quella particolare forma di chiusura?
Kafka rende chiare, o quasi, le implicazioni politiche della
sua strana teologia quando, nel gennaio del 1922, scrive
dell’«esercizio selvaggio» che è la sua scrittura. Forse la sua
scrittura non è una forma di ricerca, egli ipotizza; forse è «un
assalto all’ultima frontiera terrena», come «ogni forma di
scrittura». E aggiunge: «Se il sionismo non fosse intervenuto,
si sarebbe potuta facilmente sviluppare in una nuova segreta
dottrina, in una kabbalah. Ci sono motivi di crederlo».

Ho tentato di suggerire che nelle parabole di Kafka e in


altri suoi scritti si possono trovare brevi meditazioni sulla
questione dell’andare da qualche parte, o dell’andare
oltre, sull’impossibilità dell’arrivo e sull’irrealizzabilità di
un obiettivo. Voglio inoltre suggerire che molte di quelle
parabole che sembrano allegorizzare un modo di testare il
desiderio di migrare verso la Palestina, in realtà aprono a
un’infinita distanza tra un luogo e un altro – costituendo
così un gesto teologico non sionista.

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Potremmo, in fondo, considerare questa poetica del non
arrivo come parte dell’eredità di Kafka. Sarà forse più chiaro,
ora, che molti dei suoi scritti riguardano messaggi inviati
là dove l’arrivo è incerto o impossibile, riguardano ordini
impartiti e non compresi e dunque obbediti in quanto violati
o del tutto disattesi. Un messaggio dell’imperatore, ad esempio,
ripercorre i viaggi di un messaggero attraverso vari piani
architettonici, fino a che egli si ritrova preso in un denso
e infinito reticolo di persone: un’infinita barriera s’innalza
così tra il messaggio e la sua destinazione. E che dire della
richiesta fatta da Kafka a Brod, prima di morire? «Carissimo
Max, ecco la mia ultima richiesta: tutto ciò che lascio […]
deve essere bruciato e non deve essere letto da nessuno». La
volontà di Kafka assume la forma di un messaggio inviato,
per essere certo che verrà rispettata, ma non coinciderà con
la volontà di Brod; la volontà di Brod, infatti, in senso sia
figurato sia letterale, in parte obbedisce e in parte si oppone a
quella di Kafka (alcune opere, effettivamente, non verranno
lette da nessuno, ma nessuna di queste sarà bruciata, o
almeno di sicuro non da Brod).

È interessante sottolineare che Kafka non procede da sé


alla distruzione delle proprie opere. Al contrario, lascia
Brod con il cruccio. La sua lettera è un modo per scaricare
tutto il lavoro su Brod, e per chiedergli di essere l’unico
responsabile della sua distruzione. Ci troviamo di fronte
a un insormontabile paradosso, dal momento che anche
questa lettera entra a far parte delle sue scritture, e quindi
entra a far parte del corpus, come tante altre lettere di Kafka

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che sono state conservate con cura nel corso degli anni.
Eppure la lettera chiede che venga distrutta ogni scrittura, il
che logicamente comporta anche la distruzione della lettera
stessa, e quindi la vanificazione dell’ordine che impartisce.
Ma quest’ordine è una direttiva inequivocabile, o è piuttosto
un gesto, così come descritto da Benjamin e da Adorno?
Kafka si aspetta che il suo messaggio arrivi a destinazione, o
forse scrive la sua richiesta già sapendo che i messaggi e gli
ordini saranno essi stessi soggetti a quel non arrivo di cui ha
scritto? Ricordiamoci che è stato Kafka a scrivere:

Come diavolo si è potuto pensare che le persone avrebbero


potuto comunicare tra di loro attraverso le lettere! Se una
persona è lontana la si può solo pensare, se invece è vicina
la si può stringere – tutto il resto è al di là delle possibilità
umane. Scrivere lettere, comunque, significa mettere a nudo
se stessi prima che lo facciano i fantasmi, i quali, avidamente,
non aspettano altro. Baci scritti non raggiungono la loro
destinazione, piuttosto vengono bevuti dai fantasmi lungo
il tragitto. È per via di questo nutrimento che i fantasmi si
moltiplicano. L’umanità sente tutto ciò e cerca di contrastarlo,
e al fine di eliminare, per quanto possibile, la spettralità tra
le persone, di creare una comunicazione naturale, la pace
degli animi, ha inventato la ferrovia, la macchina a motore,
l’aeroplano. Ma tutto ciò è un bene fino a un certo punto perché
queste sono evidentemente soluzioni inventate nel momento
del crash. Il fronte nemico è sempre più tranquillo e forte;
dopo il servizio postale ha inventato il telegrafo, il telefono, la
radio. I fantasmi non moriranno d’inedia, saremo noi a morire.

Se le opere fossero andate distrutte forse i fantasmi non


si sarebbero nutriti – anche se Kafka non avrebbe potuto

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prevedere quanto enormemente parassitarie sarebbero
state le forze del nazionalismo e del profitto, benché fosse
tutt’altro che ignaro di quali spettrali forze stessero in attesa.
Così, nell’atto di morire, Kafka scrive di volere che la sua
opera sia distrutta dopo la propria morte. Tutto ciò è per
dire che la sua scrittura è legata a doppi nodi alla sua vita
e che, con la sua morte, anche la sua scrittura deve perire?
Come io muoio, così anche ciò che ho scritto deve cessare di
esistere. Una fantasia, forse, che tutto ciò non gli sopravviva,
poiché potrebbe essere troppo doloroso. Mi fa venire
in mente la parabola Il cruccio del padre di famiglia, che già
richiamò l’attenzione di Adorno per la sua promessa salvifica.
C’è Odradek, una creatura, un rocchetto di filo, una stella, la
cui risata somiglia «al frusciar di foglie cadute», ora in bilico,
ora sotto, ora vicino alla scalinata di casa. Forse è un figlio,
o ciò che resta di un figlio; in ogni caso è in parte oggetto e
in parte eco di una presenza umana. Solo verso la fine della
parabola la voce rigorosamente neutrale che descrive questo
Odradek sembra relazionarsi a lui in modo generazionale.
Odradek non vive propriamente nel tempo, viene descritto
come qualcosa che cade ripetutamente dalle scale, in un moto
perpetuo. Il narratore, che sembra occupare una posizione
paterna, a un certo punto dice: «Quasi mi addolora pensare
che possa sopravvivermi». Siamo autorizzati a leggere in
Odradek non solo un’allegoria di Kafka nella casa del padre,
ma della sua stessa scrittura, il fruscio delle pagine, i modi in
cui Kafka stesso divenne in parte umano e in parte oggetto,
senza progenie, o meglio con una progenie di scritti di cui
trovava troppo doloroso immaginare che gli sarebbero
sopravvissuti? Per Adorno, il grande valore di Odradek

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risiede nella sua totale inutilità in un mondo dominato dal
capitalismo che tenta di strumentalizzare ogni oggetto per i
propri scopi. Non sono stati solo i fantasmi della tecnologia,
tuttavia, a cercare di nutrirsi con entusiasmo delle opere di
Kafka; lo hanno fatto quelle forme di lucro che sfruttano
anche le espressioni artistiche più difficili da strumentalizzare,
o quelle forme di nazionalismo che tentano di appropriarsi
anche delle opere che con maggior rigore, al nazionalismo,
si oppongono. È davvero un’ironia della sorte, non c’è che
dire, che gli scritti di Kafka siano oggi proprietà di qualcuno,
impacchettati in un armadio [packed into a closet] o in un caveau,
magicamente trasformati in valore di scambio, in attesa di
un aldilà in cui diverranno icone dell’identità nazionale o,
più semplicemente, mero denaro.

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Judith Butler (1956) insegna Letterature comparate e
Teoria critica all’Università della California, a Berkeley. È tra
le più importanti e discusse filosofe viventi. Tra le sue opere
pubblicate in italiano: A chi spetta una buona vita? (2013), La
vita psichica del potere (2013), Strade che divergono. Ebraicità e
critica del sionismo (2013), Fare e disfare il genere (2014) e Sulla
crudeltà (2014).

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