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febbraio 2016
il lavoro culturale
www.lavoroculturale.org
Judith Butler
Di chi è Kafka?
a cura di
Antonio Iannello, Nicola Perugini e Federico Zappino
Nota introduttiva
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nazionale di Israele e le figlie di Hoffe darsi battaglia per
l’eredità di Kafka. Un’eredità singolare, quasi aporetica,
impossibile, di chi lascia scritti chiedendo che scompaiano
dopo la sua morte. Nella sentenza del giugno 2015 i tre
giudici hanno scritto:
Per quel che concerne Kafka, è giusta la messa all’asta dei suoi
scritti personali, che l’autore aveva ordinato di distruggere,
da parte della segretaria del suo amico e delle sue figlie? La
risposta ci sembra scontata.
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con l’ampio spazio che negli scorsi anni ha dato alla filosofa
americana – con articoli, interviste e recensioni dei suoi testi,
ma anche con i saggi A chi spetta una buona vita? (pubblicato
nel 2013 da Nottetempo in collaborazione con il lavoro
culturale) e Sulla crudeltà (il lavoro culturale 2014).
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Di chi è Kafka?
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in eredità gli scritti a Esther Hoffe, la sua segretaria, con
cui sembra abbia avuto una relazione amorosa. Hoffe li
conservò fino a che non morì, nel 2007, all’età di centouno
anni. Esther fece inizialmente con gli scritti la stessa cosa
di Max: li custodì in vari bauli, dentro a una cassaforte.
Nel 1988, tuttavia, vendette il manoscritto de Il processo per
due milioni di dollari. Era ormai chiaro che fosse possibile
ricavare profitti da Kafka. Nessuno, però, avrebbe potuto
prevedere che dopo la morte di Esther si sarebbe tenuto un
processo in cui le figlie, Eva e Ruth, avrebbero sostenuto
che non ci sarebbe stato alcun bisogno di fare un inventario
dei materiali conservati dalla madre e che il valore dei
manoscritti si sarebbe dovuto stabilire in base al loro peso
– letteralmente: in base a quanto pesavano. Come ha poi
spiegato uno degli avvocati incaricati di rappresentare la
proprietà di Esther Hoffe: «Se raggiungeremo un accordo, il
materiale sarà messo in vendita come un’entità singola, in un
solo pacchetto. Sarà venduto a peso… Si dirà: “C’è un chilo
di carta qui, il migliore offerente potrà avvicinarsi e vederne
il contenuto”. Anche la Biblioteca nazionale [d’Israele, nda]
può mettersi in fila e fare un’offerta».
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le loro posizioni. In primo luogo vi è la Biblioteca nazionale
di Israele, la quale sostiene che la volontà di Esther Hoffe
andrebbe ignorata, poiché Kafka non appartiene a queste
donne ma è un bene pubblico e del popolo ebraico – pare che le
due cose talvolta coincidano. David Blumberg, direttore del
consiglio amministrativo della Biblioteca nazionale, descrive
il caso in questi termini: «La Biblioteca non intende privarsi
dei beni culturali del popolo ebraico… Dal momento che
non si tratta di un’istituzione commerciale e che gli oggetti
che conserva sono accessibili a tutti, e gratuitamente, la
Biblioteca continuerà nei suoi sforzi di ottenere i manoscritti
rinvenuti». È interessante questa posizione secondo cui gli
scritti di Kafka possano costituire un bene del popolo ebraico
e allo stesso tempo non avere nulla a che fare con attività
commerciali. Oren Weinberg, l’amministratore delegato
della Biblioteca nazionale, ha recentemente affermato che:
«La Biblioteca è preoccupata per la nuova posizione espressa
dalle esecutrici testamentarie, le quali vogliono mescolare
considerazioni di ordine economico con la decisione su chi
riceverà la proprietà. Avere rivelato l’esistenza di un tesoro
tenuto nascosto in una cassaforte per decenni gioverà
all’interesse pubblico, ma la posizione delle esecutrici
testamentarie rischia di vanificare questa rivelazione e di
nuocere a Israele e al mondo intero».
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del suo patrimonio culturale. Questa affermazione, già
controversa di per sé – dal momento che elide altre forme
di appartenenza, o di non-appartenenza –, lo diventa ancora
di più se consideriamo che il caso giudiziario si fonda sulla
premessa implicita che il popolo ebraico sia rappresentato
dallo Stato di Israele. Potrebbe sembrare un’affermazione
meramente descrittiva. In realtà, questa affermazione
prevede conseguenze straordinarie e contraddittorie.
Innanzitutto, non tiene conto della distinzione tra ebrei
che sono sionisti ed ebrei che non lo sono – per esempio
quegli ebrei della diaspora per cui la madrepatria non è
inevitabilmente un luogo dove tornare o una meta finale.
In secondo luogo, si tratta di un’affermazione che ha
conseguenze anche all’interno dei confini dello stesso Stato
di Israele. Infatti, il problema di Israele su come raggiungere
e mantenere una maggioranza demografica nei confronti
della sua popolazione non ebraica – che costituisce oltre
il 20 per cento della popolazione che vive all’interno dei
suoi attuali confini – è dato dal fatto che esso non è uno
stato esclusivamente ebraico e che, se volesse davvero
rappresentare la propria popolazione in maniera giusta e
uguale, dovrebbe rappresentare sia i cittadini ebrei che i non
ebrei. Quindi, affermare che Israele rappresenta il popolo
ebraico significa negare l’esistenza non solo di un cospicuo
numero di ebrei che vivono fuori da Israele e che Israele non
rappresenta né legalmente né politicamente, ma significa
anche negare l’esistenza dei palestinesi e degli altri cittadini
non ebrei che vivono all’interno dello Stato. La posizione
della Biblioteca nazionale si fonda su una concezione della
nazione di Israele secondo cui la popolazione ebrea che si
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trova al di fuori del territorio nazionale vive in una condizione
di galut – in uno stato di esilio e di perdizione da rovesciare
attraverso il ritorno in Israele. L’idea implicita è che tutti gli
ebrei e tutti i beni culturali ebraici – indipendentemente da
ciò che questa espressione voglia dire – che si trovano fuori
da Israele in fondo appartengono a Israele, poiché lo Stato
rappresenta tutti gli ebrei e tutte le loro forme di produzione
culturale. Va fatto notare che su questo problema della galut
il dibattito è aperto. C’è ad esempio uno straordinario libro
su esilio e sovranità di Amnon Raz-Krakotzkin, nel quale si
sostiene che l’esilio sia intrinseco all’ebraismo e all’ebraicità,
e che il sionismo sbagli a sostenere che andrebbe superato
attraverso l’invocazione della Legge del Ritorno [in Israele,
ndt]1 o attraverso la nozione popolare di diritto di nascita.
Infatti, l’esilio potrebbe costituire un punto di partenza per
il ripensamento della coabitazione e per riportare i valori
diasporici all’interno della regione. Questo era senza ombra
di dubbio anche il punto di vista di Edward Saïd, quando in
Freud e il non-europeo identificava nell’esperienza comune di
esilio di ebrei e palestinesi la base per una nuova comunità
politica in Palestina.
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di Israele i lavori di chi è ebreo per caso. Se l’argomento
della Biblioteca nazionale avesse successo, la capacità
di rappresentanza dello Stato di Israele si espanderebbe
notevolmente. Come ha scritto Antony Lerman sul «The
Guardian», se
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forme di delegittimazione culturale in cui è impegnato.
Viene da pensare che un bene sia qualcosa che rafforza
la reputazione di Israele – una reputazione attualmente
in crisi: la scommessa è che la reputazione mondiale di
Kafka diventerà la reputazione mondiale di Israele. Ma una
responsabilità legale ebraica di questo genere si fonda su
una falla. Si pensi ai recenti sforzi fatti per perseguire le
organizzazioni per i diritti umani israeliane come B’Tselem,
accusate di aver documentato pubblicamente le morti civili
durante la guerra di Gaza. Forse Kafka potrebbe essere
strumentalizzato per superare la perdita di credibilità a
cui Israele ha dovuto far fronte a causa della sua continua
occupazione illegale di terre palestinesi. Ciò che preoccupa
non è soltanto che Israele si approprierà dei lavori di Kafka,
ma anche che verranno custoditi all’interno del territorio
statale; in questo modo chiunque cercherà di avervi accesso
e studiarli dovrà attraversare il confine di Israele ed entrare
in rapporto con le sue istituzioni culturali. Anche questo
è problematico, non solo perché i cittadini di molti Paesi
e i non-cittadini palestinesi dei territori occupati non
potranno varcare quel confine, ma anche perché molti
artisti e intellettuali sono impegnati nel boicottaggio
accademico e culturale e si rifiutano di essere ospitati in
Israele, a meno che le istituzioni che li accolgono non
abbiano una posizione forte e sistematica di opposizione
all’occupazione. Il processo Kafka ha luogo in questo
quadro politico e potrebbe influenzarlo. Infatti, nel caso
di vittoria processuale della Biblioteca nazionale, chiunque
volesse avere accesso ai lavori inediti e ignoti di Kafka
dovrebbe riconoscere implicitamente – in opposizione al
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boicottaggio – il diritto dello Stato di Israele ad appropriarsi
di beni culturali il cui alto valore verrà percepito come parte
del valore di Israele stesso. Potrà il povero Kafka tollerare
questo fardello? Finirà davvero per aiutare lo Stato di
Israele a zittire le critiche dovute alla sua occupazione della
Palestina?
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Il più potente avversario della Biblioteca nazionale è l’Archivio
della letteratura tedesca di Marbach che, curiosamente, ha
assunto avvocati israeliani per il processo. In questo modo,
hanno pensato all’Archivio, il tutto non sembrerà una
questione ebreo-tedesca e non richiamerà alla memoria l’altro
processo – il processo Eichmann del 1961 – in cui il giudice
all’improvviso passò dall’ebraico al tedesco per rivolgersi
direttamente a Eichmann. Quel momento del processo creò
una controversia su quale lingua fosse la più appropriata per
un tribunale israeliano e sull’opportunità o meno di fare una
cortesia a Eichmann rivolgendosi a lui nella propria lingua.
Diversi studiosi e quotidiani israeliani hanno recentemente
sostenuto che Marbach è il luogo opportuno in cui conservare
gli scritti di Kafka appena ritrovati, visto che ospita già la
più grande collezione di manoscritti di Kafka nel mondo,
incluso quello de Il processo, che l’Archivio ha acquistato nel
1988 per tre milioni di marchi tedeschi. Gli stessi studiosi si
oppongono all’ulteriore frammentazione dell’opera di Kafka
e fanno leva sulle capacità di Marbach di conservare i materiali.
Pare che vi sia consenso tra loro sul fatto che la Germania sia
un posto più sicuro di Israele, e ovviamente avanzano anche
l’argomento secondo cui Kafka apparterrebbe alla letteratura
tedesca e, più specificamente, alla lingua tedesca. Anche se
questi studiosi non cercano di dire che Kafka appartiene alla
Germania come uno dei suoi cittadini virtuali o del passato,
qui la germanicità trascende la storia della cittadinanza e si
basa sulla competenza e sui risultati linguistici del lavoro di
Kafka. Il punto di vista dell’Archivio della letteratura tedesca
cancella il ruolo del multilinguismo nella formazione e negli
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scritti di Kafka. (Infatti, come spiegare le parabole di Babele
senza il multilinguismo, e i frequenti tentennamenti espressivi
nei suoi lavori senza la combinazione di ceco, yiddish e
tedesco?).
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correttamente. Merkel ha chiesto con forza a queste comunità
di liberarsi di qualsiasi accento e di «integrarsi» alle norme della
comunità linguistica tedesca (la lamentela di Angela Merkel
è stata prontamente contrastata da Jürgen Habermas). Senza
dubbio Kafka potrebbe essere l’immigrato modello, anche
se visse solo brevemente a Berlino e non si identificò con
gli ebrei tedeschi. Se i nuovi lavori di Kafka saranno inclusi
nell’archivio di Marbach, la Germania ne uscirà rafforzata
nel suo sforzo di spostare il proprio nazionalismo sul piano
della lingua; l’inclusione di Kafka avrebbe luogo per la stessa
identica ragione per cui gli immigrati che parlano peggio
il tedesco vengono stigmatizzati. È possibile che il fragile
Kafka diventi una norma per l’integrazione europea?
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è entrato nella lingua dall’esterno? Questo era l’argomento di
Deleuze e Guattari nel saggio Kafka. Per una letteratura minore.
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progettò di andarci. Egli concepiva infatti la Palestina come
una meta, ma immaginando il progetto di partire come «un
sogno». Non si trattava semplicemente di una mancanza
di volontà, quanto di una sorta di ambivalenza esitante
rispetto all’intero progetto. Ciò che spero di far emergere è
che una certa poetica del non arrivo pervade queste opere e
influenza, per non dire che affligge, le sue lettere d’amore, le
sue parabole sul viaggio, e le sue riflessioni esplicite tanto sul
sionismo quanto sulla lingua tedesca. Posso comprendere
che si voglia guardare a cosa scrisse Kafka rispetto ai processi
per gettare luce sul processo odierno attraverso le opere,
ma è necessario sottolineare alcune differenze. L’udienza
che si sta svolgendo attualmente riguarda la proprietà e le
sue basi poggiano su diritti di appartenenza nazionale e
linguistica, ma la gran parte dei processi e delle procedure
di cui Kafka scrive, riguarda accuse infondate e colpe senza
nome. Ora è lo stesso Kafka a essere diventato proprietà, se
non bene (letteralmente un’unità tangibile, proprietà mobile
o immobile, non vincolata a un territorio), e il dibattito sulla
sua destinazione finale sta avvenendo, ironicamente, di fronte
a un tribunale civile. La stessa contesa sull’appartenenza di
Kafka è in sé materia di scandalo, dato che le sue opere
recano traccia esperienziale di una non appartenenza o,
specularmente, di una ultra appartenenza. Si rammenti che
egli ruppe ogni obbligo che avesse mai contratto, non ebbe
mai un appartamento di proprietà, e chiese al proprio agente
letterario di distruggere le sue carte, decisione che pose fine
alla loro relazione contrattuale. Le disposizioni successive
sopravvissero dunque alle intenzioni originarie e al loro arco
temporale. Sebbene nel lavoro di Kafka rientrasse la gestione
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dei diritti di assicurazione amministrativa e dei contratti di
esclusiva, la sua vita personale ne era curiosamente priva se si
eccettua un contratto occasionale per la pubblicazione. Sono
pronta ad ammettere, senza dubbio, che la tutela legale delle
sue carte richieda una decisione sulla modalità di gestione
di questo patrimonio letterario, e che questo problema di
diritto di proprietà debba essere risolto in modo che le carte
possano essere inventariate e rese accessibili. Per provare
però a uscire da questo groviglio potrebbe essere d’aiuto
tornare a rivolgere lo sguardo agli scritti di Kafka, all’interno
dei quali sarà agevole scoprire che la sua stessa opera è il mezzo
migliore per aiutarci a travalicare i limiti dell’appartenenza
culturale e le insidie di certe traiettorie nazionalistiche che
hanno obiettivi territoriali ben precisi.
Non c’è dubbio che le origini ebraiche di Kafka furono
importanti, ma ciò non implica in alcun modo un supporto
al sionismo. Egli fu immerso nell’ebraismo, ma fu anche
impegnato a sopravvivere alle pressioni, alle rivendicazioni e
alle aspettative sociali che ne derivavano. Nel 1911 frequentò il
teatro yiddish quasi ogni settimana descrivendo nel dettaglio
quanto vedeva. Negli anni successivi lesse – avidamente,
stando alle sue parole – La storia della letteratura ebraico-tedesca di
Meyer Pines, che era piena di storie di tradizione chassidica,
proseguendo con Organismus des Judentums di Fromer, che
analizzava in dettaglio le tradizioni rabbiniche del Talmud.
Kafka frequentò gli eventi musicali che ebbero luogo al Bar
Kokhba Society, lesse parti della Cabala analizzandole nei
suoi diari, studiò Moses Mendelssohn e Sholem Aleichem,
lesse molte riviste di cultura ebraica, ascoltò lezioni di
sionismo, assistette a opere teatrali in yiddish, infine ascoltò
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le storie della tradizione ebraica in traduzione. Vi sono tracce
che inducono a ritenere che il 25 febbraio 1912 abbia tenuto
una lezione sulla lingua yiddish, sebbene non sia riuscita a
trovarne la copia. È probabile che sia stipata in uno scatolone
fra quelli conservati a Tel Aviv in attesa del giudizio legale.
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biancheria, calcarli dentro e poi aspettare; aprire uno spiraglio
per vedere se sono già morti soffocati e altrimenti richiudere il
coperchio e andare fino in fondo, fino alla fine.
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se stesso. Una tale interpretazione non trova però effettive
conferme, proprio a causa dell’oscillazione di significati
che emerge dal testo; così come non ne trova quella che
vorrebbe consolidata e indubbia la pretesa che le occasionali
testimonianze di ammirazione di Kafka nei confronti del
sionismo facciano di lui un sionista. (Quando invece in certi
casi il rapporto col sionismo appare più come una sorta di
infatuazione). La fantasia del soffocamento, scritta nel 1920,
può essere compresa in modo più compiuto se la si pone in
relazione con una lettera a Felice scritta quattro anni prima,
dopo la lettura dell’opera teatrale di Arnold Zweig Omicidio
rituale in Ungheria (1916). L’opera mette in scena un dramma
che si svolge nel 1897, basato sull’«accusa del sangue» nei
confronti degli ebrei. Alcuni ebrei di un villaggio ungherese
vengono accusati di utilizzare un coltello da macellaio per
uccidere i cristiani e di usare il loro sangue per cuocere pane
azzimo. Nell’opera, gli imputati sono condotti in tribunale,
dove però le accuse vengono rigettate. Per le strade esplode
una rivolta antisemita e gli ebrei sono colpiti nei loro interessi
economici e nelle istituzioni religiose. Dopo aver letto
l’opera di Zweig, Kafka scrisse a Felice: «A un certo punto
dovetti smettere di leggere e, seduto sulla poltrona, piansi.
Erano anni che non piangevo». Il coltello da macellaio o
altri coltelli simili riappaiono successivamente nei suoi diari
e nelle sue lettere, nonché diverse volte all’interno delle
opere da lui pubblicate: ne Il processo, ad esempio, e ancora,
più vividamente, in Un medico di campagna. Omicidio rituale in
Ungheria trasmette in qualche modo l’idea dei limiti della
legge, compresi quei percorsi attraverso cui la legge stessa
cede il passo a un’illegalità che non può controllare.
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Il fatto che Kafka piangesse di fronte a una storia di false
accuse – anzi, che pochi cenni a riguardo lo portassero al
pianto come nel caso citato – potrebbe sorprenderci. Lo
stile de Il processo, dopotutto, è riconoscibile laddove la falsa
o per lo meno oscura accusa nei confronti di K. è raccontata
nei termini più neutrali, senza effetti enfatici. Sembra che il
dolore evocato nelle lettere sia precisamente ciò che viene
messo fuori gioco nelle opere; e, allo stesso tempo, le opere
comprendono una serie di eventi interconnessi senza alcuna
prova fondata o induzione logica. Esse aprono, in effetti,
quello spazio di scissione (ma allo stesso tempo compresenza)
fra la limpidezza – potremmo dire una certa lucidità e financo
una purezza della prosa – e le tenebre, l’orrore che viene però
normalizzato, ricompreso proprio in forza di quella lucidità.
Nessuno può criticare l’uso della grammatica e della sintassi
negli scritti di Kafka, così come nessuno ha mai rilevato
eccessi emotivi nel suo stile; ma proprio a causa di questa
modalità narrativa apparentemente rigorosa e obiettiva,
una sorta di orrore si fa strada nella quotidianità, forse solo
come ineffabile pena. La sintassi e i temi affrontati sono di
fatto in conflitto, il che ci porta a considerare con cautela
un’ammirazione per Kafka dovuta esclusivamente alla sua
lucidità. Dopotutto la lucidità funziona come stile nella
misura in cui tradisce la propria pretesa di autosufficienza.
Qualcosa di oscuro, se non indicibile, affiora da questa
sintassi perfetta. Ancor di più, tenendo presenti le accuse
ricorrenti e calunniose che si celano sullo sfondo dei suoi
tanti processi, possiamo leggere la voce narrante come la
neutralizzazione di un oltraggio, un accumulo progressivo
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di dolore in forma linguistica che paradossalmente lo porta
allo scoperto. Gli ebrei sono, dunque, la sua famiglia, il
suo piccolo mondo; è come se lui fosse circondato da
quel piccolo appartamento, in una comunità senza pace, in
questo senso per lui soffocante. Comunque, era consapevole
degli avvenimenti e dei pericoli dell’antisemitismo del suo
tempo, come quando ne fece esperienza diretta durante una
sommossa che ebbe luogo nel 1918, allorché ebbe a trovarsi
in mezzo a una folla «galleggiante nell’odio antiebraico». È
possibile che egli guardasse al sionismo, allora, come a una
via d’uscita da questa profonda ambivalenza? Un modo di
sfuggire ai vincoli familiari e di comunità, di quella comunità,
combinato con il bisogno di trovare un luogo pensato come
libero dall’antisemitismo?
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non in Palestina: almeno non in quella vita, per la persona
che era; la mano che le scriveva non avrebbe comunque più
stretto quella di lei. Inoltre egli nutriva i suoi dubbi rispetto al
sionismo e rispetto a ogni percorso che prevedesse un arrivo
a destinazione. In seguito Kafka si riferì al sionismo come
a un sogno ed ebbe a riprenderla per averci creduto tanto
seriamente. «Ti sei fatta sedurre» le scrisse. In realtà fu lui a
indicare la Palestina come una struttura di seduzione: vieni
con me, prendi la mia mano ti condurrò al di là. A conferma
di ciò, mentre negli anni successivi la relazione entra in crisi
e si sgretola, Kafka chiarisce di non avere alcuna intenzione
di partire e sostiene che chi decide di farlo sta rincorrendo
un’illusione. La Palestina è un altrove figurale dove vanno
gli amanti, un futuro aperto, il nome di una destinazione
sconosciuta.
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al nostro tema, acquisendo conoscenze e afferrando il senso
della Palestina sia dai racconti, in forma scritta o orale, sia
attraverso il dibattito pubblico. Nel corso di questi dibattiti
e resoconti Kafka si rese conto dei conflitti che stavano
iniziando all’interno di quei territori. Infatti nel breve
racconto Sciacalli e arabi, pubblicato su «Der Jude» nel 1917,
viene messa in luce l’impasse che sta al cuore del sionismo.
Nel racconto il narratore, che ha vagato ignaro nel deserto,
arriva al cospetto degli sciacalli (die Schakale), un malcelato
riferimento agli ebrei. Dopo essere stato accolto come una
figura messianica, da loro attesa per generazioni, questi gli
spiegano che il suo compito è di uccidere gli arabi usando
un paio di forbici (forse un riferimento sarcastico ai sarti
ebrei dell’est Europa e al loro scarso equipaggiamento da
guerra). Gli sciacalli non vogliono compiere questa missione
direttamente, poiché non vogliono sporcarsi, mentre il Messia
è in quanto tale libero dai vincoli della legge ebraica (kosher).
Il narratore dunque parla con il capo degli arabi: quest’ultimo
spiega come sia cosa nota che «finché gli arabi esisteranno,
quel paio di forbici vagherà attraverso il deserto e vagherà
con noi fino alla fine dei nostri giorni. A ogni europeo
viene offerto di compiere la grande opera; ogni europeo è
propriamente l’Uomo che il Fato ha scelto per loro».
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sionista (io ammiro il sionismo e ne sono nauseato) e di
non praticare l’ebraismo». Dopo aver preso parte con Max
Brod nel marzo del 1915 a un incontro di sionisti, durante il
quale ebrei dell’Europa orientale e occidentale si ritrovarono
per confrontarsi sulle proprie differenze, egli descrisse i vari
personaggi – uno, ad esempio, con la sua «logora piccola
giacca» – e notò il «sorriso diabolicamente sgradevole» di
un tipo descritto come «un litigio errante» con una «voce da
canarino». Questa sequenza visiva infine include anche se
stesso: «io, come fossi di legno, un appendiabiti piazzato in
mezzo alla stanza. Ma ancora spero».
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Vorrei ora soffermarmi brevemente su due parabole che
toccano questo problema del non arrivo, così come quella
strana forma di speranza che può emergere da una socialità
interrotta e l’impasse contro-messianica che caratterizza la
stessa forma della parabola. Ad aprire La partenza è il problema
di un ordine incompreso: «Ordinai di andare a prendere il
mio cavallo dalla stalla. Il servo non mi capì». Forse l’ordine
è impartito in un linguaggio che il servo non comprende,
o forse qualche presunta gerarchia non sta funzionando
come dovrebbe. La confusione cognitiva cresce quando l’io
narrante dice: «In lontananza sentii soffiare una tromba,
chiesi al servo che cosa volesse dire». Stavolta sembra che
il servo comprenda la domanda, mentre il narratore pare
essere estraneo a un comune mondo di suoni: «Egli non
lo sapeva e non aveva sentito niente». Apparentemente il
servo dà segni di vita solo per far capire quanto le proprie
competenze linguistiche dipendano dal signore: «Presso il
portone mi trattenne e domandò: “Signore, dove vai?”»,
seguito da un’immediata risposta: “Non lo so”, dissi, “solo
via di qui [weg-von-hier], solo via di qui”». E, per la terza
volta: «Sempre via di qui, solo così posso raggiungere la mia
meta». Il servo, che apparentemente non ha compreso il
primo ordine, o non ha compreso di esserne il destinatario,
sembra invece ora preoccupato di capire quali siano gli
intenti del signore (das Ziel). Ma la risposta del signore è
disorientante: «Sì,» replica, «io l’ho detto» e indica il nome
di un luogo, l’ifenato luogo via-di-qui (che tra l’altro diventa
il concetto attraverso cui Deleuze ricollega Kafka alla
deterritorializzazione). Eppure, che cosa significa dire che
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via-di-qui è la mia meta? Ogni luogo che non è qui può essere
lontano da qui, ma ogni luogo che è già un qui non sarà mai
via di qui, al limite sarà un altro qui. Esiste forse un altro
modo di intendere il qui, un modo per cui questo qui ci viene
appresso, ovunque andiamo? Cosa potrebbe significare
liberarsi dalle condizioni spazio-temporali del qui? Ciò non
implicherebbe semplicemente essere ovunque; lo stesso
ovunque, piuttosto, dovrebbe trascendere i limiti spazio-
temporali di ogni luogo effettivamente esistente. E dunque,
ovunque il signore intenda andare, non sarà in nessun luogo
come lo conosciamo. È una parabola di tipo teologico,
la parabola che prevede questo indicibile oltre? È una
parabola sulla Palestina, quel luogo che nell’immaginazione
degli europei, secondo Kafka, non è un luogo abitato, e,
soprattutto, non è un luogo abitabile da nessuno?
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Fortunatamente, sembra che il viaggio non solo richieda la
sua inedia, ma non riuscirà nemmeno a salvarlo, a condurlo
in un luogo che possa dirsi tale. Il signore sta andando
verso un luogo che non è un luogo e in cui il cibo non sarà
necessario. Se quel luogo al di là di ogni luogo è in sé una
forma di salvezza, cosa che non viene precisata, allora sarà
una salvezza di altro tipo rispetto a quella che potrebbe
derivare dal sostentamento alimentare di un essere vivente.
Potremmo definire tutto questo una pulsione di morte nei
confronti della Palestina, ma potremmo anche leggerlo
come un’apertura nei confronti di un viaggio infinito, o di
un viaggio verso l’infinito, un gesto che conduce verso un
altro mondo. Uso la parola gesto perché è quella che usano
anche Benjamin e Adorno per riferirsi a quei momenti di
semiparalisi, quegli atti che non sono esattamente delle
azioni, che si congelano per frustrazione e incompiutezza.
E che somigliano a ciò che vediamo all’opera in questa
parabola: un gesto che apre un orizzonte come meta, ma
non c’è effettiva partenza e sicuramente non ci sarà un vero
e proprio arrivo.
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il mondo, fuori controllo. A quanto pare, nessuno farà il
proprio arrivo, e sembra anche che il Messia non assumerà
una forma antropomorfica: il Messia arriverà solo quando
non ci sarà nessuno a distruggerne la possibilità o a soffrire per
la distruzione. Ciò significa dunque che il Messia non arriverà
se ci sarà ancora qualcuno, ma solo se non ci sarà nessuno;
e significa anche, però, che il Messia non sarà qualcuno, non
sarà un individuo. Forse questa immagine è da imputare a un
certo individualismo che, letteralmente, distrugge ciascuno
e tutti gli individui. In ogni caso, seguendo il vangelo di
Matteo, la parabola dice che «le tombe si apriranno» da sole
e, dunque, ancora una volta, si può comprendere come ciò
non avverrà in seguito a un’azione umana. Nel precisare che
«anche questa è dottrina cristiana», il narratore sta aprendo,
retroattivamente, a un passato ebraico della parabola, ma
d’altronde c’è già all’opera una Babele di religioni: l’ebraismo,
il cristianesimo, l’individualismo, e poi, in seguito a una
spiegazione quasi incomprensibile, sembra che facciano
la loro comparsa pezzi di Hegel – i pezzi, non a caso, più
illeggibili. D’altra parte, sembra quasi che una descrizione
coerente di tutto ciò non possa essere possibile, e in qualche
modo ci troviamo trasportati ai limiti del pensabile. «Il Messia
verrà soltanto quando non ci sarà più bisogno di lui. Egli verrà
il giorno dopo la sua venuta; non nell’ultimo dei giorni, ma
in quello ancora successivo». Sembra dunque che il Messia
verrà quando non ci sarà più nessuno in grado di soffrire per
la distruzione del mondo come lo conosciamo, ma anche
quando non ci sarà più nessuno in grado di distruggere la
possibilità della sua venuta. Quel Messia non verrà come
individuo, e sicuramente nemmeno entro una qualunque
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sequenza temporale con cui siamo soliti organizzare il
mondo dei viventi. Se verrà non nell’ultimo dei giorni, ma
addirittura in quello successivo, allora arriverà in un giorno –
inteso in senso iperfigurato – che eccede ogni calendario dei
giorni, nonché la stessa nozione di cronologia. La parabola
ci parla di un tempo in cui nessuno sopravviverà. L’arrivo
è un concetto che appartiene al calendario; la venuta (das
Kommen), sembrerebbe di no. La venuta non accade in un
momento del tempo, ma solo dopo che la sequenza di tutti i
momenti possibili si è conclusa.
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continuità spaziale. Ciò rende anche difficile seguire le righe,
nella pagina, seguire le righe per iniziare e finire di leggere la
parabola. Se la parabola di Kafka, in qualche modo, traccia
la traiettoria della partenza da una comune nozione di luogo
a una nozione di perpetuo non arrivo, ciò significa dunque
che essa non mira alla realizzazione di un obiettivo comune,
né alla progressiva realizzazione di un obiettivo sociale in un
luogo specifico.
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qual volta abbia iniziato a tracciare il mio raggio, sono stato
costantemente costretto a troncare. (Esempi: pianoforte,
violino, lingue, letteratura tedesca, antisionismo, sionismo,
ebraico, giardinaggio, falegnameria, scrittura, tentativi di
matrimonio, un appartamento tutto mio).
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Potremmo, in fondo, considerare questa poetica del non
arrivo come parte dell’eredità di Kafka. Sarà forse più chiaro,
ora, che molti dei suoi scritti riguardano messaggi inviati
là dove l’arrivo è incerto o impossibile, riguardano ordini
impartiti e non compresi e dunque obbediti in quanto violati
o del tutto disattesi. Un messaggio dell’imperatore, ad esempio,
ripercorre i viaggi di un messaggero attraverso vari piani
architettonici, fino a che egli si ritrova preso in un denso
e infinito reticolo di persone: un’infinita barriera s’innalza
così tra il messaggio e la sua destinazione. E che dire della
richiesta fatta da Kafka a Brod, prima di morire? «Carissimo
Max, ecco la mia ultima richiesta: tutto ciò che lascio […]
deve essere bruciato e non deve essere letto da nessuno». La
volontà di Kafka assume la forma di un messaggio inviato,
per essere certo che verrà rispettata, ma non coinciderà con
la volontà di Brod; la volontà di Brod, infatti, in senso sia
figurato sia letterale, in parte obbedisce e in parte si oppone a
quella di Kafka (alcune opere, effettivamente, non verranno
lette da nessuno, ma nessuna di queste sarà bruciata, o
almeno di sicuro non da Brod).
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che sono state conservate con cura nel corso degli anni.
Eppure la lettera chiede che venga distrutta ogni scrittura, il
che logicamente comporta anche la distruzione della lettera
stessa, e quindi la vanificazione dell’ordine che impartisce.
Ma quest’ordine è una direttiva inequivocabile, o è piuttosto
un gesto, così come descritto da Benjamin e da Adorno?
Kafka si aspetta che il suo messaggio arrivi a destinazione, o
forse scrive la sua richiesta già sapendo che i messaggi e gli
ordini saranno essi stessi soggetti a quel non arrivo di cui ha
scritto? Ricordiamoci che è stato Kafka a scrivere:
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prevedere quanto enormemente parassitarie sarebbero
state le forze del nazionalismo e del profitto, benché fosse
tutt’altro che ignaro di quali spettrali forze stessero in attesa.
Così, nell’atto di morire, Kafka scrive di volere che la sua
opera sia distrutta dopo la propria morte. Tutto ciò è per
dire che la sua scrittura è legata a doppi nodi alla sua vita
e che, con la sua morte, anche la sua scrittura deve perire?
Come io muoio, così anche ciò che ho scritto deve cessare di
esistere. Una fantasia, forse, che tutto ciò non gli sopravviva,
poiché potrebbe essere troppo doloroso. Mi fa venire
in mente la parabola Il cruccio del padre di famiglia, che già
richiamò l’attenzione di Adorno per la sua promessa salvifica.
C’è Odradek, una creatura, un rocchetto di filo, una stella, la
cui risata somiglia «al frusciar di foglie cadute», ora in bilico,
ora sotto, ora vicino alla scalinata di casa. Forse è un figlio,
o ciò che resta di un figlio; in ogni caso è in parte oggetto e
in parte eco di una presenza umana. Solo verso la fine della
parabola la voce rigorosamente neutrale che descrive questo
Odradek sembra relazionarsi a lui in modo generazionale.
Odradek non vive propriamente nel tempo, viene descritto
come qualcosa che cade ripetutamente dalle scale, in un moto
perpetuo. Il narratore, che sembra occupare una posizione
paterna, a un certo punto dice: «Quasi mi addolora pensare
che possa sopravvivermi». Siamo autorizzati a leggere in
Odradek non solo un’allegoria di Kafka nella casa del padre,
ma della sua stessa scrittura, il fruscio delle pagine, i modi in
cui Kafka stesso divenne in parte umano e in parte oggetto,
senza progenie, o meglio con una progenie di scritti di cui
trovava troppo doloroso immaginare che gli sarebbero
sopravvissuti? Per Adorno, il grande valore di Odradek
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risiede nella sua totale inutilità in un mondo dominato dal
capitalismo che tenta di strumentalizzare ogni oggetto per i
propri scopi. Non sono stati solo i fantasmi della tecnologia,
tuttavia, a cercare di nutrirsi con entusiasmo delle opere di
Kafka; lo hanno fatto quelle forme di lucro che sfruttano
anche le espressioni artistiche più difficili da strumentalizzare,
o quelle forme di nazionalismo che tentano di appropriarsi
anche delle opere che con maggior rigore, al nazionalismo,
si oppongono. È davvero un’ironia della sorte, non c’è che
dire, che gli scritti di Kafka siano oggi proprietà di qualcuno,
impacchettati in un armadio [packed into a closet] o in un caveau,
magicamente trasformati in valore di scambio, in attesa di
un aldilà in cui diverranno icone dell’identità nazionale o,
più semplicemente, mero denaro.
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Judith Butler (1956) insegna Letterature comparate e
Teoria critica all’Università della California, a Berkeley. È tra
le più importanti e discusse filosofe viventi. Tra le sue opere
pubblicate in italiano: A chi spetta una buona vita? (2013), La
vita psichica del potere (2013), Strade che divergono. Ebraicità e
critica del sionismo (2013), Fare e disfare il genere (2014) e Sulla
crudeltà (2014).
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