DI BENEDETTO CROCE Era il 1922 quando Benedetto Croce nell’incipit della sua “Filosofia di Giambattista Vico” scriveva a proposito del sommo filosofo: “Per quali ragioni a me sia sembrata necessaria una nuova esposizione della filosofia del Vico, potrà desumersi dai cenni sulla fortuna di questo scrittore, in quanto desideroso di attestare, per quanto possibile, la reverenza che si deve a tal gran nome” 1 Lo stesso Croce ricordava come le sue molte “fatiche vichiane” avessero due obiettivi: il primo, principale e sostanziale, di ravvivare il pensiero di Vico mentre il secondo era di natura filologica, ossia il desiderio di preparare una nuova e compiuta edizione critica degli scritti del filosofo, una ricca bibliografia ragionata ed una nuova biografia accompagnata da una compiuta illustrazione. Non è un caso che la Collectio Viciana realizzata dal Croce costituisca la più completa ed affascinante raccolta libraria riguardante il filosofo della “Scienza nuova”: essa comprende alcuni esemplari dell’opera di Vico molto rari e pregiati in quanto impreziositi da dediche e correzioni autografe dell’autore, un volume intitolato “Opere Vichiane” e la monumentale “Bibliografia Vichiana” del 1904 allestita attraverso l’accurata ricerca di tutta la principale letteratura critica intorno al filosofo, tra cui spiccano saggi mai dati alle stampe. Era l’estate del 1910 quando il Croce era immerso nella stesura della sua “Filosofia di Giambattista Vico”: un’opera con il duplice vantaggio di presentare un Vico divenuto si, chiaro e facilmente comprensibile, ma che al tempo stesso riusciva a trasmettere al lettore la sua voce possente e fascinosa. Grande dunque il servigio che quest’opera, tradotta in inglese ed in francese, rese al sommo filosofo: così grande che dal 1911 in poi la Scienza Nuova, da circa mezzo secolo esclusa dal mercato librario, vi rifaceva trionfalmente ingresso, continuamente attestato da un succedersi di riedizioni, ristampe, commenti e traduzioni. Benedetto Croce ebbe fortuna alterna: agli inizi del ‘900 fu particolarmente noto negli ambienti filosofici sia in Italia che all’estero ma già a partire dagli anni ‘50 il suo pensiero inizierà a sembrare attardato e legato al suo tempo, non all’altezza di quello di Gentile e non abbastanza radicale come quello di Gramsci. Nonostante questo egli si profila a tutti gli effetti come il degno discendente di Vico – lui stesso amava definirsi “patito di Vico” – al punto da acquistare la sua casa per abitarvi una volta tornato a Napoli nel 1866. Addirittura Emilio Ciocchetti2 ricorda proprio come “nella filosofia il Vico ed il Croce non sono due ma uno”, nonostante tra i due sia possibile riscontrare alcune differenze stilistiche: oscurità, artificiosità, confusionismo geniale ed un tono perennemente elevato al sublime regnano nella produzione del Vico mentre profondo ordine, mirabile chiarezza ed uno stile il più possibile discorsivo in quelle di Benedetto Croce, maestro nel saper alleggerire complesse trattazioni con un aneddoto. Siamo quindi di fronte a due pensatori tanto distanti nel tempo ed appartenenti a due secoli culturalmente e mentalmente diversi ma che presentano inaspettatamente innumerevoli somiglianze: entrambi autodidatti ma con una infanzia difficile, entrambi con un vivo interesse per la cultura ma costretti l’uno dal padre l’altro dallo zio Silvio Spaventa ad iscriversi alla facoltà di giurisprudenza, entrambi con un grande amore per la città di Napoli, entrambi in grado di esercitare la loro maggiore virtù filosofica, l’autocritica. Diversi erano però gli atteggiamenti dei due filosofi: il Vico perennemente agitato, tormentato, a volte crudele con se stesso mentre la calma e la serenità erano i sentimenti a cui si ispirava quella del Croce, come del resto si coglie perfettamente con la 1 B. Croce, La Filosofia di Giambattista Vico, Bari Laterza 1922 p.1 2 E. Ciocchetti, Rivista di Filosofia Neo-Scolastica, 20 Giugno 1911, Vol. 3. lettura del “Contributo alla Critica di Me Stesso”, stilato in pochi giorni nell’aprile del 1915. Riguardo la tormentata infanzia del suddetto filosofo alla quale ho precedentemente accennato, proprio in tal opera autobiografica si comprende come una brusca interruzione ed un profondo sconvolgimento della sua vita fu causato dal terremoto di Casamicciola del 1883 durante il quale Croce perse a soli 17 anni entrambi i genitori e la sua unica sorella. Lui stesso, rimasto sotto le macerie per diverse ore, riportò varie fratture e fu costretto ad un lungo periodo di convalescenza. Una volta guarito ma oramai orfano, si recò a Roma nella casa di suo zio Silvio Spaventa, divenuto suo nuovo tutore: un uomo autorevolissimo in politica ma molto diverso da suo padre, nonostante il legame di parentela. Furono quindi anni di cambiamenti radicali perché la vita in quella nuova e grande città, stravolse totalmente la piccola realtà (egli era infatti originario di Pescasseroli) nella quale il giovane era abituato a vivere e a studiare. Quei tempi senza amici, durante i quali il giovane Croce frequentò solamente la facoltà di giurisprudenza alla Sapienza – senza peraltro nutrire una autentica passione – furono a detta sua “i più dolorosi e cupi”, e lo portarono più volte ad interrogarsi ed a riflettere sul significato della sua esistenza fino ad indurlo a meditare al suicidio. Difficile infanzia anche per il nostro Vico come ricorda egli stesso nell’autobiografia intitolata Vita Scritta da Se Medesimo pubblicata nel 1728: dall’opera si apprende come la sua vita cambiò per sempre quando a causa della sua vivacità “essendo col capo in giù piombato da alto fuori d'una scala nel piano” 3, si procurò una spiacevole frattura al cranio, che lo costrinse ad una lunga convalescenza. A seguito di ciò iniziò a sviluppare una personalità malinconica – come del resto si coglie in alcuni tratti della sua autocritica – soprattutto perché fu costretto ad un lungo periodo di convalescenza, interrompendo gli studi per tre anni. Nonostante i medici prospettassero che quella frattura gli avrebbe procurato seri problemi a livello cognitivo, Vico non abbandonò mai l’idea di costruirsi un sapere, del resto la sua “Scienza Nuova” ne è la perfetta rappresentazione. Tuttavia per assecondare il desiderio paterno, il giovane fu in seguito “applicato agli studi legali”: frequentò per circa due mesi le lezioni private del professor Francesco Verde e successivamente si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza presso l'università di Napoli, senza tuttavia seguirne i corsi, e comunicando al padre solo in un secondo momento la sua perdita di interesse per lo studio del diritto che considerava un puro e mero esercizio di memoria, come del resto anche lo stesso Croce. Quest’ultimo infatti, per accontentare lo zio che voleva far di lui un diplomatico, si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza le cui lezioni, ricche di definizioni da imparare a memoria, mal si confacevano alla personalità del Croce, che non a caso ebbe diversi scontri verbali con i docenti. Un raggio di sole in quel cupo triennio romano furono soltanto le lezioni di filosofia morale tenute dal professor Labriola, grazie alle quali il giovane Croce si appassionò a studi eruditi e filosofici, trascurando tuttavia il pensiero hegeliano di cui criticava la forma incomprensibile. Non è un caso che nella sua opera “Estetica come Scienza dell’Espressione e Linguistica Generale” abbia dedicato un intero capitolo a Vico, definendolo il «primo scopritore della scienza estetica», mentre Hegel, al quale erano lasciate poche pagine, era trattato insieme ad altri pensatori. Il lascito vichiano, rimasto quasi completamente sconosciuto al suo secolo e rivalutato solamente nei primi anni dell’Ottocento, viene perfettamente colto ed elaborato nella produzione crociana ponendone in rilievo l’originalità. Analizzando anzitutto le riflessioni sull’impegno civile e sulla dimensione della storia, ci si accorge come esse siano caratteristiche non solo della filosofia latina rispetto alla contemplativa filosofia greca, di Dante, Botero e la sua “ragion di stato” e di Machiavelli, ma anche di autori in cui la politica non era un elemento prioritario: Vico prima e Croce poi ne sono l’emblematica espressione. Secondo il fondatore della Scienza Nuova, l’uomo poteva conoscere scientificamente solo la storia perché gli esseri umani, a differenza di Dio che aveva piena conoscenza del mondo naturale in quanto suo creatore, erano gli artefici e quindi i protagonisti indiscussi della storia. Il principio vichiano del “verum et factum conventuntur”, il quale attesta come la verità e la fattualità si compenetrino a vicenda – tra l’altro già espresso all’inizio del ‘500 da Thomas Hobbes con il suo “scire per causas” – è molto complesso ed evolve con gradualità nella produzione 3 E. Ciocchetti, Rivista di Filosofia Neo-Scolastica, 20 Giugno 1911, Vol. 3. vichiana: l’uomo è dotato di un livello di produttività definito con il termine greco poiesis, il “fare”, inteso come forma originaria di canalizzazione del flusso vitale originario ed attraverso il suo bagaglio di conoscenze produce qualcosa in senso forte da intendere proprio come le leggi e la storia stessa. Al mondo della storia possiamo quindi applicare il principio del “verum ipsum factum”, formulato già nel De Antiquissima Italorum Sapientia del 1710 come criterio di verità alternativo al cogito cartesiano: per Vico la verità indubitabile è la consapevolezza del concreto operare degli uomini nella storia. Alla luce di questo, è significativo a mio avviso poter definire Vico il primo grande “filosofo della storia”, poiché sostiene come l’ordine dell’universo ed i comportamenti dell’individuo siano condizionati dal flusso della storia stessa. Ad ogni modo, l’uomo può comunque ricreare quello che è la storia, riattivandola attraverso la “narrazione”, la quale è una ulteriore forma della poiesis manifestata non dai filosofi, ma dai poeti. Proprio in difesa della storia, il Vico conduce un’aspra polemica contro gli stoici e gli epicurei in quanto i primi tendono ad un ripudio dei sensi e delle passioni mentre i secondi fanno del senso una regola: entrambe sono pertanto definite filosofie monastiche e della solitudine. Esse si contrappongono alle teorizzazioni del Vico, il quale ricordava già nel primo assioma – quello dell’antropocentrismo – come non si potesse costruire una filosofia basata su un uomo che fa di sé regola dell’universo: la possibilità dell’autoinganno è insita nell’animo dell’uomo, il quale quando immagina può essere illuminato o meno dalla ragione e quindi per via della sua mente tende a distorcere la realtà, diventando ossessivo. La storia vichiana dovrà quindi indagare le cause e rinvenire le leggi provvidenziali a cui obbediscono gli eventi storici. Con le successive letture idealistiche ma soprattutto con la lettura proposta dal Croce nella sua opera intitolata “Filosofia e Storiografia” emerge una differente concezione di storia universale: una storia finalistica, naturalistica e deterministica poiché dominata dalla casualità degli eventi, nonostante si riprenda dalle riflessioni vichiane il fatto che “lo spirito umano non può conoscere se non ciò che egli stesso ha fatto” – ovvero il principio della conoscibilità della storia umana – perché fatta dagli stessi uomini. In questo il Croce è fortemente influenzato dalle teorizzazioni positivistiche ottocentesche, si ricordi in particolare la visione di Ratzel, il quale fu il primo a comprendere l’importanza della rivoluzione darwiniana, e la sua opera “Antropogeographie”. Secondo la teorizzazione espressa in quest’ultima, l’uomo non può che confrontarsi con la superiorità della natura, un sistema ambientale governato da rigide leggi e nel quale l’importanza del clima (che si associa ad un particolare sviluppo naturale) consente di leggere la diversa organizzazione territoriale: il clima determina così le caratteristiche della terra e più in generale quelle dell’essere vivente. Inoltre, se Vico combatte gli stoici e gli epicurei, anche il Croce è protagonista di una battaglia contro quelli che definiva “filosofi puri”: secondo quest’ultimo infatti la filosofia non deve essere considerata singolarmente bensì in stretta connessione con l’arte, con la storia, con la politica in quanto la storia implica sempre una dimensione filosofica e la storia è anche pensiero. Si veda in proposito l’opera crociana “La Storia come Pensiero e Azione”, un affresco storico ma anche una storia dello spirito – laddove con spirito si intende una storia del mondo – mossa da una dimensione profonda che ha anche uno spessore spirituale in quanto ricca di sentimenti e passioni. Il secondo motivo della presenza nella riflessione crociana di Vico, è rappresentato dal fatto che egli fu il primo filosofo ad aver pensato l’autonomia dell’arte (la poiesis, appunto) intesa quale punto di partenza della storia e della conoscenza storica. Croce adopera nelle sue riflessioni il termine generico di “arte” quale sinonimo di “facoltà estetica” in quanto secondo lui tutte le arti hanno la medesima natura poiché prodotti dell’intuizione e viene articolando la propria tesi fondamentale richiamandosi proprio alla figura di Giambattista Vico, che per primo avrebbe avuto il merito di proporre nel II libro della “Scienza Nuova” – completamente dedicato alla Sapientia Poetica – una “Logica poetica” in grado di concepire la poesia, avente come principio la fantasia, una forma di conoscenza autonoma ed individuale rispetto alla filosofia. Vico, secondo do un modello secolarizzante, divide la storia in tre differenti: degli dei, degli eroi e degli uomini. I protagonisti della prima – che si profila come un’età contrassegnata dal prevalere dei sensi e dalla mancanza di riflessione – sono i cosiddetti “bestioni insensati” i quali affidandosi esclusivamente agli stimoli dell’istinto felino, ai sensi ed alla fantasia atterrita dallo spavento iniziale, interpretano il mondo come un gigantesco organismo di forze incommensurabili. Alla luce di questo, possiamo affermare come l’analisi e la valorizzazione di questa dimensione fantastico-istintiva strettamente connessa alla ripresa del principio del verum-factum costituiscono i due aspetti fondamentali della interpretazione crociana di Vico. Croce come Vico ribadisce l’importanza dell’autonomia dell’arte, definendola una categoria spirituale autonoma appartenente alla sfera della conoscenza: l’intuizione artistica è la prima forma di conoscenza dello spirito, slegata dalla logica e dalla pratica. Il mondo dell’arte è pertanto costituito da intuizioni, le quali non sarebbero altro che delle presenze nei nostri sensi di un contenuto precedente a qualsiasi organizzazione concettuale e da immagini pure, svincolate da riferimenti intellettuali e morali in quanto l’arte, a differenza della filosofia, non distingue il reale dall’irreale, è fantasia. Pertanto “a tal contenuto tal forma”: nella sintesi artistica intuizione e espressione si identificano. Croce giungeva quindi a interrogarsi sul problema della personalità dell’opera d’arte, la quale è espressione dello stato d’animo del suo autore e di conseguenza è qualcosa di conoscibile ma allo stesso tempo singolare. Da questa deduzione fortemente influenzata dalle teorizzazioni vichiane discende la celeberrima definizione del carattere «lirico» dell’arte (l’«intuizione lirica») laddove con liricità si intende la qualità propria, e dunque l’unicità di ogni manifestazione artistica, che è sempre – anche nelle forme ritenute più impersonali, quali l’epica, tragedia, romanzo – espressione di un mondo personale di sentimenti, voce di un’anima. Solo successivamente nel saggio “Il carattere di totalità dell’espressione artistica” del 1918 Croce arricchì la propria estetica con un concetto nuovo, quello del carattere cosmico o universale dell’arte, laddove il concetto di intuizione lirica non viene sostituito, bensì integrato da quello di intuizione cosmica. Il critico infatti nel periodo 1917-1920 si occupò dei più grandi poeti della letteratura occidentale, quali Ariosto, Goethe, Shakespeare, Corneille e Dante. Il saggio su Dante, sulla cui figura si interroga anche lo stesso Vico, è molto significativo a questo proposito: il Croce esprimendo un giudizio sulla Divina Commedia destinato a suscitare notevoli discussioni, individua da una parte la struttura, ossia il romanzo teologico e dunque una concezione intellettualistica che non ha nulla di poetico, ricco di costruzioni immaginative di scarsissima importanza e dall’altra l’autentica poesia dantesca, che va analizzata in singoli episodi e passi che costituiscono delle “liriche in sé”. Per darne una immagine visiva, secondo Croce il poema si potrebbe raffigurare come una fabbrica robusta e massiccia sulla quale si estende una rigogliosa vegetazione con rami e fiori che la rivestono in modo che solamente qua e là si possano notare le mura o gli spigoli. Anche Vico ha svolto nel corso degli anni delle riflessioni molto originali su Dante Alighieri, poeta che definisce “Omero Toscano” in quanto almeno in un primo momento gli pareva rappresentare un modello di creazione poetica e di linguaggio perfettamente corrispondente a quello omerico, per giungere poi invece a separare con forza due figure e due ruoli storici distinti: Omero, figura mitica e non individuale e Dante, individualità potente, artefice primo della lingua ed iniziatore di una teoria linguistica nel suo “De Vulgari Eloquentia”. Infatti secondo Vico è impossibile che uno sia allo stesso tempo “poeta e metafisico sublime", dato che la poesia guarda al concreto ed al particolare, mentre la metafisica all'astratto. Per Vico, Omero – interamente protagonista del III libro della Scienza Nuova – è poeta, non filosofo e quindi il simbolo della sapienza poetica in quanto i poemi omerici furono l'espressione immediata di un mondo abitato da uomini dai rozzi costumi e che per la debolezza delle loro menti erano quasi fanciulli: non a caso, scrive il filosofo, “ l’Odissea è ricca di favole per intrattenere i fanciulli". Proseguendo nell’analisi della visione della storia vichiana precedentemente accennata, si può notare come nell’età degli eroi dominata indiscutibilmente dalla fantasia, nacquero il linguaggio, inteso come espressione spontanea e naturale dell’uomo e della sua esigenza di comunicare, la poesia, ossia manifestazione dello spavento iniziale e di un uomo che avverte con animo perturbato, il mito e le favole. Vico, dopo aver accuratamente analizzato discusso tutta una serie di prove filologiche e filosofiche rispettivamente nei capitoli V e VI del medesimo libro, sostiene che Omero non debba essere considerato come singolo ma come espressione e personificazione della creatività popolare dei greci dell'età arcaica. Egli è emblematica rappresentazione della poesia dell’età eroica della Grecia, cioè di quel tempo in cui l’umanità, osservando il mondo con stupore e meraviglia, non riesce ancora a rappresentarlo con i concetti – perché non possiede ancora sviluppata la ragione – ma solamente attraverso un linguaggio misto, in parte visivo ed in parte verbale e sotto la spinta della fantasia, se lo raffigura con immagini suggestive, cariche di sentimento e di passione. Il fatto che la tradizione attesti che Omero abbia composto da giovane l'Iliade e da vecchio l'Odissea sono testimonianza rispettivamente dei costumi della Grecia giovane e della Grecia matura: basti pensare alle differenze che si notano mettendo a confronto la lite tra Achille e Agamennone, laddove gli eroi non rivelano alcun equilibrio interiore ma piuttosto fervore di passioni e di violenze, crudezza di animo, ostinatezza di carattere con la prudenza e l'astuzia di Ulisse, personificazione di una Grecia che “aveva alquanto raffreddato gli animi con la riflessione”. Omero fu così il primo storico della gentilità, in quanto i suoi due poemi debbono essere considerati tesori dei costumi della Grecia antica e paragonabili per importanza alle leggi delle XII Tavole per la storia di Roma. Ineguagliabile ed irraggiungibile, egli fu l'ordinatore della civiltà greca, padre di tutti i poeti e fonte delle filosofie greche, meritando anche il primato dell'inimitabilità assegnatogli da Aristotele, Orazio e i maestri dell'arte poetica proprio per le proprietà dell'età eroica che sono espresse nei suoi poemi. Ebbene, possiamo facilmente intuire che proprio la lettura della Scienza Nuova è alla base del concetto di intuizione cosmica crociano, laddove “il singolo palpita della vita del tutto, e il tutto è nella vita del singolo”: ne deriva pertanto come in ogni poesia siano per racchiusi tutti gli umani destini, tutte le speranze, i desideri, le illusioni, le gioie, le grandezze e le miserie umane. Tuttavia, se Vico individua l’universalità solo in Omero, Croce riesce a cogliere il concetto di cosmicità in più autori in un certo periodo della sua attività critica: se l’intuizione lirica era qualcosa di riscontrabile in qualsiasi autore si era fatto portatore di una propria visione del mondo, la cosmicità era qualcosa di molto singolare, riscontrabile unicamente all’interno dei grandi capolavori della letteratura universale. Pertanto il principio della cosmicità qualora rigorosamente applicato, produrrebbe una selezione estremamente severa dei valori poetici e dei poeti, nel vero senso della parola. In un primo momento Croce, proprio basandosi sulla «cosmicità» produce una netta separazione tra poesia e non-poesia: in questo quadro quindi solo i più grandi capolavori hanno diritto di rientrare nella categoria della poesia intesa nella sua pienezza più totale, la quale è in grado di suscitare nell’uomo ricordi, esperienze, pensieri, e sentimenti mentre tutte le altre manifestazioni letterarie vengono a ricadere nella grande categoria della non-poesia. Infatti il criterio di giudizio imprescindibile per Croce è la distinzione tra intuizione vera e intuizione falsa, l’immagine elaborata a fini organici (i soli validi sotto il profilo estetico) e l’altra combinata per fini meccanici. Invece Vico nel 37° assioma definisce la poesia come quella facoltà che “deve dare senso e passione alle cose insensate", ossia è quello che fanno i fanciulli quando giocando, si rivolgono agli oggetti inanimati come fossero vivi. Lo stesso fecero gli uomini del mondo fanciullo, "sublimi poeti per natura". Pertanto, mito e poesia nascono entrambi dalla fantasia e costituiscono le prime forme spontanee di comunicazione e conoscenza della realtà che si esprimono prevalentemente attraverso la gestualità e la corporeità e solo in misura minore con un linguaggio povero di parole. Invece per Croce la bipartizione tra poesia e non poesia è molto più complessa: dapprima il concetto di non-poesia viene ad avere una valenza fortemente negativa, in quanto accomuna sotto la definizione della non arte una serie di opere letterarie anche meritevoli, ma che comunque non raggiungono il livello della cosmicità. In seguito però Croce avvertì la necessità di rivedere questo schema troppo netto e meccanico e rendere quindi la valutazione artistica più flessibile e sfumata, più adeguata alla complessità e alla varietà delle espressioni artistiche. Un primo passo verso il superamento di tale rigidità lo troviamo nel volume “Poesia Popolare e Poesia d’Arte”, una raccolta di saggi del 1933 in cui il Croce mette in crisi l’idea romantica – che deriverebbe proprio da Vico – secondo la quale la poesia popolare era un’espressione collettiva di sentimenti e idee corali, passionale, spontanea e irriflessa. Secondo Croce infatti la poesia popolare, anche se anonima e attestata in diverse forme e luoghi con il medesimo tema, avrebbe sempre alla base l’espressione e l’ideazione di un singolo che si era fatto carico di esprimere la propria singolarità, poi condivisa dalla collettività. Pertanto l’unica distinzione logica istituitile tra poesia popolare e poesia d’arte sarebbe da ricercare nella minor complessità della poesia popolare, la quale non sarebbe altro che una poesia semplice espressa da un singolo che non ha dietro di sé un sentimento di particolare pregnanza, quindi viene espresso in forme piuttosto semplici. Nel volume però Croce, insieme alla sostanziale stroncatura della poesia popolare, presenta una serie di saggi dedicati alla poesia sia latina che italiana del Rinascimento, della quale esalta la capacità formale, il grande esercizio stilistico e tecnico portato avanti anche grazie all’imitazione attenta dei modelli antichi. La maggior parte degli autori minori del Rinascimento non raggiungono un elevato livello di poesia e Croce ne sottolinea la capacità formale grazie all’imitazione dei poeti del passato. La sintesi di tali teorizzazioni, nonché l’espressione più matura dell’estetica e della metodologia critica crociana è rappresentata dal volume “La Poesia” del 1936. Quell’anno è particolarmente difficile per il filosofo, in quanto è perseguitato dai fascisti che lo hanno sottoposto a libertà vigilata ed i suoi amici sono stati costretti ad allontanarsi da lui non avendo la possibilità di frequentarlo liberamente: Croce è preoccupato della situazione politica e personale e un modo per reagire ai suoi turbamenti è chiudersi in sé stesso riflettendo sulla poesia. Nel suddetto volume, Croce non si sofferma su nessuna poesia in particolare a livello nazionale, ma investe nella sua riflessione tutta la poesia mondiale che aveva avuto modo di leggere. Egli inserisce una terza categoria, quella della letteratura, che integra al suo interno alcune caratteristiche della poesia nella più ampia accezione: la letteratura viene definita come una delle parti della “civiltà e dell’educazione simile alla cortesia e al galateo”. La letteratura è intrinseca all’uomo e alla sua società e non ambisce ad arrivare a un livello di cosmicità, ma allo stesso tempo ha una funzione ben determinata nella società e va ben studiata e apprezzata. La poesia è un qualcosa di materno, spontaneo, opera di verità e colloquio con Dio, mentre la letteratura è un’opera di civiltà, costruita ed artificiosa ma non per questo dispregevole o negabile a livello di studi. Pertanto, attraverso l’analisi fin qui condotta e soprattutto prendendo in considerazione quest’ultimo aspetto relativo alla poesia, ci si accorge perfettamente come entrambi i pensatori non smettano mai, nel corso della loro produzione, di interrogarsi sulla varietà e molteplicità della storia e della produzione artistica. Non escludendo a priori alcuna interpretazione né riflessione, essi dimostrano come una mente aperta e curiosa non debba in alcun modo temere il dubbio ma anzi accoglierlo come stimolo per ulteriori e più profonde riflessioni. E’ singolare notare come, pur partendo da presupposti diversi e soprattutto pur appartenendo a due secoli diversi, Croce e Vico abbiano in comune una straordinaria affinità intellettiva, accompagnata da una capacità di andare al di là di schemi prestabiliti ed universalistici: entrambi sono sempre pronti a cogliere ogni opportunità, imparando, creando e partecipando attivamente alla storia più che adeguandosi ad essa.