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GIORDANO BRUNO

(breve biografia elaborata


essenzialmente sui seguenti testi: "Giordano Bruno" di Michele Ciliberto, Laterza, Bari 1992; "Giordano Bruno" di
Giovanni Aquilecchia, Ist. Encicl. Ital., Roma 1971; " Il processo di Giordano Bruno" di Luigi Firpo, Salerno Edit.., Roma
1993)

Giordano Bruno nacque a Nola, presso Napoli, nel 1548, da una famiglia di modeste condizioni. Il padre Giovanni era un militare di
professione e la madre Fraulissa Savolino apparteneva ad una famiglia di piccoli proprietari terrieri. Gli fu imposto il nome di battesimo
di Filippo. Compì i primi studi nella città natale, da lui molto amata e spesso ricordata anche nei lavori più tardi, ma nel 1562 si trasferì
a Napoli dove frequentò gli studi superiori e seguì lezioni private e pubbliche di dialettica, logica e mnemotecnica presso l’Università.
Nel giugno 1565 decise di intraprendere la carriera ecclesiastica ed entrò, col nome di Giordano, nell’ordine domenicano dei predicatori
nel convento di S. Domenico Maggiore. Si fa rilevare come l’età di 17 anni sia da considerare piuttosto elevata, nel contesto, per
decisioni del genere.
Nel convento cominciò subito a manifestarsi il contrasto tra la sua personalità inquieta, dotata di viva intelligenza e voglia di conoscere
e la necessità di sottostare alle rigorose regole di un ordine religioso: dopo circa un anno era già accusato di disprezzare il culto di Maria
e dei Santi e corse il rischio di essere sottoposto a provvedimento disciplinare. Percorse peraltro rapidamente i vari gradi della carriera:
suddiacono nel 1570, diacono nel 1571, sacerdote nel 1572 (celebrò la sua prima messa nella chiesa del convento di S. Bartolomeo in
Campagna ), dottore in teologia nel 1575. Ma contemporaneamente allo studio serio e profondo dell’opera di S. Tommaso non rinunciò
a leggere scritti di Erasmo da Rotterdam, rigorosamente proibiti e la cui scoperta causò l’apertura di un processo locale a suo carico, nel
corso del quale emersero anche accuse di dubbi circa il dogma trinitario. Era il 1576 e l’Inquisizione aveva ormai da tempo dato
clamorosi esempi di rigore e di efficienza per cui il B., temendo per la gravità delle accuse, fuggì da Napoli abbandonando l’abito
ecclesiastico. 

Ebbe così inizio la serie incredibile delle sue peregrinazioni, durante le quali si mantenne impartendo lezioni in varie discipline
(geometria, astronomia, mnemotecnica, filosofia, etc.).Nell’arco di due anni (1577-1578) soggiornò a Noli, a Savona, a Torino, a
Venezia e a Padova dove, su suggerimento di alcuni fratelli domenicani e pur in mancanza di una formale reintegrazione nell’ordine,
rivestì l’abito. Dopo brevi soste a Bergamo e a Brescia, alla fine del 1578 si diresse verso Lione ma, giunto presso il convento
domenicano di Chambery, fu sconsigliato di fermarsi in quella città di confine con i paesi riformati e soggetta a particolari controlli, per
cui decise di recarsi nella non lontana Ginevra, la capitale del calvinismo. 

Qui venne accolto da Gian Galeazzo Caracciolo marchese di Vico, esule dall’Italia e fondatore della locale comunità evangelica
italiana. Deposto di nuovo l’abito e dopo una esperienza di "correttore di prime stampe" presso una tipografia, il B. aderì formalmente
al calvinismo e fu immatricolato come docente nella locale università (maggio 1579). Già nell’agosto però, avendo pubblicato un libretto
in cui stigmatizzava il titolare della cattedra di filosofia evidenziando ben venti errori nei quali costui sarebbe incorso in una sola lezione,
fu accusato di diffamazione e quindi arrestato, processato e convinto a pentirsi sotto pena di scomunica. Il B. ammise la sua
colpevolezza ma dovette lasciare Ginevra, non senza conservare in sé un forte risentimento.
Quasi per reazione si recò allora a Tolosa, in quegli anni baluardo dell’ortodossia cattolica nella Francia meridionale, dove cercò, senza
ottenerla, l’assoluzione presso un confessore gesuita, ma poté comunque ottenere un posto di lettore di filosofia nella locale università
e per due anni circa commentò il "De anima" di Aristotele.
Nel 1581 lasciò anche Tolosa, dove si profilava una recrudescenza delle lotte religiose tra cattolici e ugonotti e si recò a Parigi dove
tenne, in qualità di "lettore straordinario" (quelli "ordinari" erano tenuti a frequentare la messa, cosa a lui interdetta come apostata e
scomunicato) un corso in trenta lezioni sugli attributi divini in Tommaso d'Aquino.

La notizia del successo del corso pervenne al re Enrico III al quale B. dedicò subito dopo (1582) il suo "De umbris idearum" con
l’annessa "Ars memoriae" ottenendo la nomina a "lettore straordinario e provvisionato". L’appartenenza al gruppo dei "lecteurs royaux"
gli consentiva una certa autonomia anche nei confronti della Sorbona, della quale non mancò di criticare il conformismo aristotelico. E’
questo un periodo di grande fecondità nella produzione filosofica e letteraria del B., che pubblica in breve successione il "Cantus
circaeus", il "De compendiosa architectura et complemento artis Lullii" e "Il Candelaio".

Con il favore del re divenne "gentilomo" (ma ben presto apprezzato amico) dell’ambasciatore di Francia in InghilterraMichel de
Castelnau, che raggiunse a Londra nell'aprile del 1583, e grazie al quale frequentò la corte della "diva" Elisabetta. Continuò qui a
pubblicare opere importanti: "Ars reminiscendi", "Explicatio triginta sigillorum" e "Sigillus sigillorum" in unico volume e subito dopo la
"Cena delle ceneri", il "De la causa, principio et uno", il "De infinito, universo et mondi" e lo "Spaccio della bestia trionfante". Nell’anno
seguente, sempre a Londra, diede alle stampe "La cabala del cavallo pegaseo" e il "Degli eroici furori".

Quest'ultima opera, al pari dello Spaccio, è dedicata a sir Philip Sidney, nipote di Robert Dudley conte di Leicester. Alcuni di questi
testi risentono di polemiche con l’Università di Oxford e con una parte dell’aristocrazia inglese. Venuto a contatto con la famosa
università oxoniana, sospinto dall’irruenza del suo carattere, durante un dibattito mise in difficoltà, senza troppi riguardi, uno stimato
docente: John Underhill, e restò così inviso a una parte dei suoi colleghi che non mancarono di manifestare in seguito la loro animosità.
Ottenuto infatti, dopo alcuni mesi, l’incarico di tenere una serie di conferenze in latino sulla cosmologia, nelle quali difese tra l'altro le
teorie di Niccolò Copernico sul movimento della terra, fu accusato di aver plagiato alcune opere di Marsilio Ficino e costretto a
interrompere le lezioni. Ma al di là dei risentimenti personali, confliggevano con la temperie culturale e religiosa inglese del tempo
alcune idee di fondo del B., quali appunto la sua cosmologia ed il suo antiaristotelismo. L’episodio del giorno delle ceneri del 1584 (14
febbraio) è significativo: il B. era stato invitato dal nobile inglese Sir Fulke Greville ad esporre le sue idee sull’universo.
Due dottori di Oxford presenti, anziché opporre argomento ad argomento, provocarono un acceso diverbio ed usarono espressioni che il
B. ritenne offensive tanto da indurlo a licenziarsi dall’ospite. Da questo fatto nacque "La cena delle ceneri" che contiene acute e non
sempre diplomatiche osservazioni sulla realtà inglese contemporanea, attenuate poi, anche per la reazione di alcuni che si sentivano
ingiustamente coinvolti in tali giudizi, nel successivo "De la causa, principio et uno". Nei due dialoghi italiani, Bruno contrasta la
cosmologia geocentrica di stampo aristotelico-tolemaico, ma supera anche le concezioni di Copernico, integrandole con la speculazione
del "divino Cusano". Sulla scia della filosofia cusaniana, infatti, il Nolano immagina un cosmo animato, infinito, immutabile, all'interno
del quale si agitano infiniti mondi simili al nostro.

Tornato in Francia a seguito del rientro del Castelnau, il B. si occupò di una recente scoperta di Fabrizio Mordente, il compasso
differenziale, per presentare la quale scrisse - su invito dell’inventore - una prefazione in latino nella cui stesura prevalevano talmente
le applicazioni che il B. faceva dello strumento per avvalorare le sue tesi filosofiche sul limite fisico della divisibilità, da oscurare o
ridurre a un fatto "meccanico" l’invenzione. Offeso, il Mordente si affrettò a comprare tute le copie disponibili e le distrusse. Bruno
rinfocolò la polemica pubblicando un dialogo dal titolo e dal tono sarcastico "Idiota triumphans seu de Mordentio inter geometras deo"
che indirettamente rese più difficile la sua permanenza a Parigi, essendo il Mordente un cattolico ligio alla fazione del duca di Guisa, che
di li a poco avrebbe raggiunto il massimo della sua parabola ascendente, mentre il B. ribadiva la sua fedeltà ad Enrico III. Reazioni
negative suscitarono di li a poco a Cambrai le tesi fortemente antiaristoteliche contenute nell’opuscolo
"Centum et viginti articuli de natura ed mundo adversos peripateticos" discusse a nome del maestro
dal suo discepolo J. Hennequin. L’intervento critico di un giovane avvocato che B. sapeva appartenere
alla sua stessa parte politica, convinsero il filosofo nolano che la permanenza a Parigi non era
ulteriormente possibile. Di nuovo ramingo per l’Europa, il B. approda nel giugno 1586 a Wittemberg,
in Germania, dove insegna per due anni nella locale università come "doctor italus", al termine dei
quali si congeda (anche per il prevalere in città della parte calvinista) con una "Oratio valedictoria"
con la quale ringrazia l’università per averlo accolto senza pregiudizi religiosi.

L’orazione contiene anche un caloroso elogio di Lutero per il suo coraggio nell’opporsi allo strapotere
della Chiesa di Roma che ha grande valore come difesa della libertà
religiosa ma non rinnega i convincimenti critici del B. circa la dottrina
luterana rilevabili in altre opere (specialmente "Cabala" e "Spaccio"). Gli
"eroici furori" sembravano al B. incompatibili con la paolina teologia
della croce. Dopo un breve soggiorno nella Praga di Rodolfo II, cui
dedicò gli "Articuli adversos mathematicos", alla fine del 1588 si reca a
Helmstedt dove, per poter insegnare nella locale "Accademia Iulia"
aderisce al luteranesimo.

Ma i problemi di fondo rimangono: dopo nemmeno un anno è scomunicato dal locale pastore Gilbert Voet
per motivi non ben chiariti e che il B. sostiene fossero di natura privata. E’ in questa città comunque che
vennero pubblicate gran parte delle opere c.d. "magiche": "De magia , De magia mathematica", "Theses
de magia", ecc. Il 2 giugno 1590 il B. giunge a Francoforte dove chiede ma non ottiene il permesso di
soggiorno e rimane precariamente ospitato in un convento di carmelitani.

Pubblicati tre poemi latini (De triplice minimo, De monade, De innumerabilis) e dopo alcuni mesi di permanenza a Zurigo dove tiene
lezioni di filosofia, torna a Francoforte dove nella primavera del 1591 viene raggiunto da due lettere del nobile veneziano Giovanni
Mocenigoche lo invitano a Venezia per insegnargli l’arte della memoria. I motivi per i quali B. si decise ad accettare l’invito, con tutti i
rischi connessi ad un rientro in Italia, sono tuttora dibattuti tra gli studiosi. Probabilmente a ragione, Michele Ciliberto è convinto che
convergessero in questa scelta una pluralità di cause. Scomunicato dalle chiese riformate non meno che
dalla cattolica, in rotta con gli ambienti puritani e con la fazione allora dominante in Francia, era isolato e
indesiderato a livello europeo. Aveva fiducia nella tradizionale autonomia della Repubblica veneta (dove di
fatto sopravvivevano circoli aristocratici orientati in senso "liberale") rispetto al Papa, ed aspirava alla
cattedra di matematica dell’università di Padova, allora vacante, che sarà poi di Galileo Galilei. A queste
considerazioni, peraltro, il Ciliberto ne aggiunge un’altra, direttamente connessa con gli ultimi
raggiungimenti della filosofia del nolano: una sorta di forte autocoscienza, di vocazione in senso
riformatore, quasi si sentisse un "Mercurio mandato dagli dei" per diradare
le tenebre del presente. Una cosa, rileva ancora Ciliberto, B. non aveva
previsto: "che razza di uomo fosse il Mocenigo" (Giordano Bruno, cit. pagg.
259 sgg.).
Comunque sia, a fine marzo 1592 l’inquieto pellegrino giunge in casa
Mocenigo a Venezia. Dopo alcuni mesi il patrizio veneziano, forse
insoddisfatto nella sua aspettativa di mirabolanti tecniche magico-
mnemoniche, forse anche indispettito per il carattere indipendente del B. che
mal si adattava alla condizione di "famiglio", specialmente di una persona così
insipiente (egli si apprestava tra l’altro ad andare a Francoforte per far
stampare libri e continuava a sperare in una cattedra a Padova),
contravvenendo alle più elementari regole dell’ospitalità, rinchiuse B. nelle sue
stanze e lo denunciò alla locale Inquisizione asserendo di averlo sentito
profferire bestemmie e frasi eretiche. Dopo un paio di mesi peraltro il
processo, subito iniziato, si presentava in modo abbastanza favorevole al B., che si era difeso sostenendo di
aver formulato ipotesi filosofiche e non teologiche e che per quanto riguardava le cose di fede si rimetteva
pienamente alla dottrina della Chiesa chiedendo perdono per qualche frase sconsiderata che potesse aver
pronunciato.
Ebbe inoltre attestazioni favorevoli o per lo meno non ostili da parte di diversi testimoni del patriziato veneto. Quando tutto faceva
sperare in una prossima assoluzione, giunse improvvisamente da Roma la richiesta del trasferimento del processo al tribunale centrale
del S. Uffizio. La prima risposta del senato, geloso custode dell’autonomia della Serenissima, fu negativa, ma dietro le insistenze
vaticane, nella considerazione che l’inquisito non era cittadino veneziano e che il suo processo era iniziato prima del suo arrivo nella
città lagunare (ci si riferiva ai fatti del 1575) giunse alla fine il nulla-osta e nel febbraio 1593 il gran peregrinare del B. terminò in una
cella del nuovo palazzo del S. Uffizio, fatto costruire da Pio V nei pressi di Porta Cavalleggeri.
Del processo, che si protrasse per ben sei anni e durante il quale per una volta almeno si ricorse con ogni probabilità alla tortura, ci
rimane una "sommario", ritrovato stranamente nell’archivio personale di Pio IX e pubblicato da A. Mercati nel 1942. Si tratta quasi
certamente di una sintesi compilata ad uso dei giudici, per consentire loro una visione d’insieme che non era facile avere nella gran
congerie dei documenti originali.
Un fondamentale studio di questo estratto è contenuto nel libro di L. Firpo "Il processo di Giordano Bruno", Napoli, 1949, al quale si
rinvia per i particolari drammatici e significativi dell’intricato procedimento che, oltre a fornire numerosi dati sulla vita del B., mostra il
progressivo sgretolamento della sua tesi difensiva della separatezza tra il piano filosofico (sul quale, soltanto, lui asseriva di aver
speculato) e quello teologico, che non gli interessava.
Decisivo al riguardo fu l'ingresso nel tribunale nel 1597 del teologo gesuita Roberto Bellarmino, chiamato ad esaminare gli atti
processuali e soprattutto le opere a stampa per enuclearne il contenuto eterodosso.
Quando il nolano, che pure durante il processo aveva cercato di dissimulare, attenuare e talvolta anche accettato di ripudiare talune sue
posizioni in più aperto conflitto con la dottrina cattolica si trovò di fronte alla necessità - per salvarsi - di rifiutare in blocco le sue idee,
giudicate radicalmente incompatibili con l’ortodossia cristiana, si irrigidì in un fermo e sprezzante rifiuto e fu la fine.

Il 20 gennaio 1600 Clemente VIII, considerando ormai provate le accuse e rifiutando la richiesta di ulteriore tortura avanzata dai
cardinali, ordinò che l’imputato, "eretico impenitente", pertinace , ostinato", fosse consegnato al braccio secolare. Ciò significava,
nonostante la presenza nella sentenza della solita ipocrita formula che invocava la clemenza del Governatore, la morte per rogo. L’8
febbraio la sentenza fu letta nella casa del Cardinal Madruzzo e fu allora che il B., come riferisce un attendibile testimone oculare (lo
Schopp) rivolto ai giudici pronunciò la famosa frase "Forse avete più paura voi che emanate questa sentenza che io che la ricevo"
(trad. dal latino). Il successivo giovedi 17 febbraio 1600 - anno santo - venne condotto a Campo de’ Fiori con la lingua in giova" cioè
con una mordacchia che gli impediva di parlare e qui, spogliato nudo e legato a un palo venne bruciato vivo ostentatamente
distogliendo lo sguardo da un crocefisso, del quale stava condividendo la sorte ma che gli volevano far apparire come carnefice. Aveva
messo in pratica e purtroppo sperimentato sulla sua pelle una considerazione di molti anni prima e cioè che "dove importa l’onore,
l’utilità pubblica, la dignità e perfezione del proprio essere, la cura delle divine leggi e naturali, ivi non ti smuovi per terrori che
minacciano morte" (Dialoghi Ital. a cura di G. Gentile Firenze 1985 pp. 698-99). Nel sommario del processo ci sono tramandati i capi
d’accusa (24) ma non quelli ritenuti provati nella sentenza, che peraltro ci sono così riferiti dallo Schopp, a memoria:

1. Negare la transustanziazione;
2. Mettere in dubbio la verginità di Maria;
3. Aver soggiornato in paese d’eretici, vivendo alla loro guisa;
4. Aver scritto contro il papa lo "Spaccio della bestia trionfante";
5. Sostenere l’esistenza di mondi innumerevoli ed eterni;
6. Asserire la metempsicosi e la possibilità che un anima sola informi due corpi;
7. Ritenere la magia buona e lecita;
8. Identificare lo Spirito Santo con l’anima del mondo;
9. Affermare che Mosé simulò i suoi miracoli e inventò la legge;
10. Dichiarare che la sacra scrittura non è che un sogno;
11 .Ritenere che perfino i demoni si salveranno;
12. Opinare l’esistenza dei preadamiti;
13. Asserire che Cristo non è Dio, ma ingannatore e mago e che a buon diritto fu impiccato;
14. Asserire che anche i profeti e gli apostoli furono maghi e che quasi tutti vennero a mala fine.

Di tali errori il quarto risulta manifestamente infondato essendo lo "Spaccio" piuttosto antiluterano che antipapista; le volgari invettive
contro Cristo, i profeti e gli apostoli dei nn. 13 e 14 sono evidentemente echi di sfoghi contingenti di una persona esasperata. Dove il
contrasto con l’Istituzione appare insanabile è piuttosto con il nucleo centrale della dottrina del B., adombrato nei punti 5, 6 e 8. Non è
qui il caso di approfondire il sistema filosofico del nolano, ma il solo pensare che la terra, da centro di un limitato universo, oggetto
specifico e privilegiato dell’azione creatrice di Dio, diventi un minuscolo puntolino in un universo infinito e tra mondi infiniti; che tale
universo è pervaso e vivificato da uno spirito divino immanente; che nel continuo trasformarsi della vita anche le anime, immortali,
informano corpi diversi, ecc. rendeva le Scritture, Cristo, la Vergine, i profeti e i dogmi come imperfettissime ombre di una realtà che la
filosofia mostrava ben più grande, e tutt’al più utili a tenere quieti i popoli. Probabilmente le idee di Bruno non sarebbero mai riuscite a
far presa sulle masse, a sollecitare scismi lontanamente paragonabili a quello luterano; ma insomma di trattava, in un certo senso, di
un tentativo di sostituire una nuova "summa" sull’universo a quella tradizionale di S. Tommaso. E questo fu considerato un pericoloso
esempio, un attentato alla supremazia della teologia sulla filosofia, della religione sulla ragione. 

Opere di Giordano Bruno

1568/71 (?)

 Arca di Noè (andata persa)

1576 (?)

 "Gli pensier gai" (non pubblicata)

 "Tronco d'acqua viva" (non pubblicata)

1576/81
 Lezioni sulla sfera (non pubblicata)

 Lezioni sul "De Anima" di Aristotele (non pubblicata) 

1577

 De segni de'tempi (andata persa)

1579/81

 Censure contro il De la Faye (andata persa)

 Clavis Magna (andata persa)

1581/82

 De’ predicamenti di Dio (andata persa)

1582

 Candelaio

 De umbris idearum

 Cantus circaeus

 De compendiosa architectura

 Purgatorio de l’Inferno (andata persa) 

1583

 Ars reminiscendi

 Explicatio triginta sigillorum

 Sigillus sigillorum

1584/85

 La cena de le ceneri

 De la causa

 Principio et uno

 De l'infinito

 Universo et mondi

 Spaccio de la bestia trionfante

 Cabala del cavallo pegaseo

 De gl'heroici furori

1585

 Arbor philosophorum (andata persa)

 Figuratio Aristotelici Physici auditus

 Dialogi duo de Fabricii Mordentis prope divina adinventione

 120 Articuli adversus Peripateticus

1586

 De Lampade combinatoria

 De progressu et lampade venatoria logicorum

 Artificium perorandi

 Animadversiones circa lampadem lullianam

 Lampas triginta statuarum

 Oratio valedictoria

1587

 Lezioni sull’"Organo" di Aristotele (andata persa)

1588
 De specierum scrutinium

1589

 De Magia

 Theses de magia

 De magia mathematica

 De rerum principiis

 Medicina lulliana

 Summa terminorum metaphysicorum

 De Imaginium

 Signorum et idearum compositione

 Oratio consolatoria

1589/91

 Delle sette arti liberali (andata persa)

 Delle sette arti inventive (andata persa) 

1591

 De triplici minimo et mensura

 De monade

 Numero et figura

 De innumerabilibus

 Immenso et infigurabili

 De vinculis in genere

 De rerum imaginibus (andata persa)

 Templum Mnemosynes (andata persa)

 De multiplici mundi vita (andata persa)

 De naturae gestibus (andata persa)

 De principiis veri (andata persa)

 De astrologia (andata persa) 

Sintesi del pensiero bruniano

Il pensiero di Giordano Bruno non può essere scisso dalla sua vicenda personale, dalla sua tragica fine. Un corrispondente di Keplero
(che apprezzava l'opera di Bruno) gli confessava, nel 1608, di non essersi saputo dare ragione della fine del filosofo: dal momento che
non credeva più in un Dio di giustizia, distributore supremo di pene e di premi nell'aldilà, perchè sopportare tanti patimenti soltanto per
difendere la verità? Era una domanda grave, che ci fa pensare al diverso comportamento di Galileo e ci ripropone il problema del
significato di tutta la cultura del Rinascimento, di cui Bruno costituisce insieme, il culmine e l'epilogo. Proprio rifiutandosi di rinnegare le
proprie idee, lui che non credeva più nelle tavole dei valori, si faceva martire e confessore di altri valori e di un altro modo di concepire
la vita. Egli, come altri uomini del Rinascimento, aveva affermato che la dignità dell'uomo, la sua nobiltà, il suo significato, dipendono
dal suo agire; cheil premio dell'azione è nel senso dell'azione, nella sua fecondità, in quello che l'azione dà per se stessa.
Ma questa concezione della vita, che rompeva con una vecchia morale, non significava rifiuto di vincoli morali, bensì una morale nuova
e più rigorosa intesa come responsabilità personale e profonda. Proprio quello che l'amico di Keplero non capiva nel gesto di Bruno
costituiva la maggiore conquista di una civiltà di cui la fermezza del filosofo diventava il simbolo.

Ma Bruno significa anche un'altra conquista: l'uomo restituito a se stesso, reso padrone della propria sorte. Divenuto centro
consapevole del proprio mondo, riconosce la grandezza e il significato della natura, dell'universo fisico che lo circonda, ne comprende
l'immensità,le forze inesauribili, le forme infinite, l'estensione senza barriere. Rompe l'immagine casalinga di un mondo simile a una
grande casa, fasciata e chiusa da sfere cristalline e immutabili. Liberato da una falsa concezione del divino, proprio nel punto in cui
conquista l'autonomia morale, l'uomo ha il coraggio di liberarsi da una visione primitiva del mondo. Sa che egli non è il centro fisico
dell'universo, anche se si accorge della potenza della propria ragione e delle proprie capacità. Per paradossale che possa sembrare, nel
punto in cui il pensiero umano afferma la sua centralità nel mondo morale, distrugge la veduta puerile dell' antropomorfismo fisico
attraverso la distruzione del geocentrismo. E ne nasce quella concezione del mondo fisico e del mondo morale che è stato caratteristica
del mondo moderno, e che ha significato una doppia liberazione: dalle superstizioni prima e dai servaggi poi, sul terreno etico-politico;
dalla soggezione alla natura, che non può essere dominata se non è affrontata "scientificamente". Orbene colui che trasformò l'ipotesi
eliocentrica copernicana in una solenne concezione liberatrice, avanzando l'idea di mondi infiniti, di spazi senza confini; chi affrontò
impavido l'idea dell'infinito universo e degli infiniti mondi, fu ancora Giordano Bruno.

Come la lotta contro la bestia trionfante del mito e della superstizione libera l'umanità sul piano morale e la restituisce integra a se
stessa, così l'interpretazione dell'ipotesi astronomica di Copernico come concezione liberatrice della natura universale, libera la mente
da quella antica barriera che le impediva di affrontare la natura com'è, senza timori, per esplorarla e trasformarla. Entro questa visione
del mondo, matura una precisa concezione morale che fa corpo con essa, e che si articola in due momenti:
1) La liberazione dal vizio e dalla superstizione (fra loro indissolubili);
2) La conquista della virtù e della verità, indissolubili anch'esse.

La sua è un'etica di operosità, un elogio congiunto del lavoro manuale e di quello intellettuale. L'uomo - scrisse ancora -non
contempli senza azione e non operi senza contemplazione. Soprattutto negli Eroici Furori si accentua la visione dell'infinito e la
celebrazione dello sforzo che l'uomo fa per oltrepassare "eroicamente" tutti i limiti e tutti i confini. Che era un modo di sottolineare in
forme poetiche l'inarrestabile slancio umano, oltre tutte le posizioni raggiunte, per la supremazia della verità.
Egli sta contro tutto il Medio Evo e lo scrolla dai cardini. Insegna che non vi è che un solo cielo, uno spazio infinito entro cui tutte le
cose si muovono. In questo spazio sconfinato sfavillano innumerevoli stelle, folgoranti soli, anzi, sistemi di soli, poichè ogni sole, dice
Bruno, è circondato di pianeti che egli, a somiglianza del nostro, chiama terre. Non vi sono che soli e terre e la ragione per cui vediamo
soltanto i soli è la lontananza, che ci impedisce di vedere le terre opache. Tutti i movimenti nello spazio sono relativi; nessuna stella si
trova al centro dell'universo, ma ognuna è centro del suo cielo nel suo sistema. In questo senso vi sono cieli innumerevoli. Non si dà un
"sopra" e un "sotto" se non in senso relativo. Dicasi lo stesso della leggerezza e della gravità. Nessun corpo è in se' pesante, mo solo in
rapporto al suo centro di attrazione. Bruno ha un presentimento della gravitazione universale nella seguente affermazione: i corpi si
muovono liberamente nello spazio e si mantengono nella loro reciproca posizione grazie alla forza di attrazione. I soli si
muovono attorno al loro asse, e oltre questo si ha un movimento nello spazio. Dal Cusano, Bruno conosce le macchie solari.
Prima del Tycho Brahe, ricava dal movimento delle comete la prova che non esistono sfere fisse, alle quali stiano appiccicati i piani e
meno ancora che si tratti di sfere di cristallo. Il mondo di Bruno è il mondo reale, come lo conosce la scienza contemporanea. Non sarà
mai dimenticato che egli fu il primo che comprese la vera costituzione del cosmo. La sua concezione dell'infinito rovescia la concezione
geocentrica della chiesa e sviluppa la concezione eliocentrica di Copernico. La personalità morale di Bruno s'intravede in questa
risolutezza nel giungere alle conclusioni estreme. Dove il cauto astronomo trovava un limite o una barriera, egli non si arresta. Bruno
non ha le positive cautele degli scienziati di mestiere, pieno com'è del convincimento del potere sterminato della ragione. Se Copernico
si accontenta di rivoluzionare il sistema del nostro sole, egli non capisce perchè non si debba andare più in là.

Giordano Bruno nella teologia proclamò il panteismo. Nella cosmologia intuì l'infinità dello spazio. Nell'astronomia sostituì il sistema
eliocentrico a quello geocentrico. Nella biologia affermò l'esistenza della vita in tutta la natura. Nella psicologia dimostrò il
pampsichismo, cioè l'animismo universale. Nell'etica gettò le basi di una morale positiva, areligiosa e indipendente sostenendo che tutto
l'universo è pervaso da una teleologia immanente, per cui si perfeziona e si migliora ogni cosa, essendo la natura causa, legge e finalità
a se stessa. Distruttore dei pregiudizi dei suoi tempi, egli - soprattuto - ricostruì la scienza e la filosofia della natura; distrusse le
antitesi della metafisica, nella filosofia e nella scienza. Combattè l'antitesi tra la forma e la materia, sostenuta dai filosofi dualisti.
Combattè l'antitesi tra il cielo e la terra, sostenendo l'unità di questi, la teoria geocentrica e l'ipotesi della pluralità dei mondi. combattè
l'antitesi tra lo spirito e la materia, tra l'anima e il corpo, tra il senso e l'intelletto, sostenuta dagli psicologi dualisti, conciliando questi
termini, creduti contraddittori, e sostenendo l'unità dello spirito e della materia, l'inseparabilità dell'anima e del corpo e l'identità del
senso e dell'intelletto. Contro le antitesi tra la causalità cosmica e la volontà divina, tra la necessità naturale e la libertà morale, tra la
finalità trascendente e la finalità immanente, tra il bene ed il male, si sforzo di conciliare tutte queste antinomie, riportando i contrari
all'unità assoluta, dove tutte le differenze restano eliminate. Contro il dualismo tra Dio e la Natura, sostenne che Dio non è una causa
esteriore al mondo, ma un artista interiore, un principio efficiente, informativo dal di dentro. L'erroneo concetto del cristianesimo aveva
scisso Dio dalla Natura, segregato la Natura dall'uomo. La Natura era decaduta, maledetta, asilo di demoni, di spiriti malvagi. L'unità
nell'infinito o nell'immenso è il concetto fondamentale del brunismo. L'infinito non solo risplende nella massima esplicazione
dell'universo, ma anche nell'opposto limite, cioè nella complicazione del minimo elemento, nella monade. In tutto c'è vita. L'universo è
contenuto in potenza nella monade, così come nell'individuo è contenuta la specie, la nazione, l'umanità.

Bruno è stato spesso visto dai clericali quasi come un anticristo. Ora, occorre dire chiaro che Bruno criticò la Chiesa e il clero del suo
tempo, scardinò molti dei dogmi del cristianesimo, ma non fu maestro di irreligiosità. Per lui ogni parte, anche minuscola dell'universo,
è la divinità stessa. L'universo si confonde con la sostanza, cioè con Dio. La conoscenza del divino è razionale, cioè si giunge ad essa
con la nostra ragione, ed è questa la forma più perfetta per conoscere la divinità. I preti non c'entrano niente. Ma negli Eroici
Furori egli spiega che la divinità si conosce in due modi: per via di ragione e per contatto mistico. Bruno naturalmente dà dignità solo
alla prima maniera. Coloro che conoscono Dio per ratto mistico - dice - sono simili all'"asino che porta i sacramenti". Conoscono il vero,
ma non c'è merito. Vi sono per lui due modi di conoscere: quello che dà la filosofia e quello che dà la religione. Bruno sceglie il primo,
ma non rigetta il secondo. Nel De Umbris Idearum dice che "la religione è l'ombra della verità: ma non è il contrario della verità". E'
una conoscenza incerta, pallida, dubbia, una conoscenza contraddittoria escura, che non dà pieno affidamento, ma comunque è un
grado della verità. L'ombra è un invito a passare nella luce. La religione deve intendersi come un invito ad assurgere alla filosofia.
L'essenziale per Bruno, non è la religione, ma la morale. Una morale senza dogmi (come è stata giustamente definita), che elimina la
necessità di una educazione ecclesiastica. Che mira alla liberazione attraverso lo sforzo e la volontà individuale. La filosofia bruniana è
una filosofia dell'eroismo, diretta a liberare gli uomini dalla paura. Quando la paura - afferma - sia caduta dal nostro animo, noi siamo
veramente uomini, parte consapevole, cioè, dell'infinito.

I maestri e le fonti

Si è discusso spesso su chi fossero i cosiddetti "invisibili" di Bruno. Coloro che prima di lui si erano scontrati con le dottrine e le
chiusure mentali dei tempi. Quelli che con diversa passione avevano assaporato il piacere della conoscenza e avevano scelto di
intraprendere il lungo cammino che porta alla ricerca della verità. La lettura di alcuni di questi autori, proibiti nel convento di
San Domenico, dove Bruno studia, gli procurano le prime accuse di natura eretica. Quella di altri, che sarebbe riduttivo riportare
in queste pagine (Platone, Aristotele, Socrate...), gli lasciano intravedere in positivo e negativo quello che di lì a poco diverrà il
proprio pensiero filosofico. Sono le ombre di questi sapienti che lo sosterranno negli ultimi anni di vita, passati nel carcere in
solitudine. Quelli che Bruno non tradirà mai con l'abiura, nel cui nome sopporterà torture e digiuni, ma soprattutto per le cui
idee affronterà il tragico epilogo.

 Ermete Trismegisto - Corpus Hermeticum


 Tommaso D'Aquino (1126 - 1198)
 Ibn Rushd - Averroè' (1126 - 1198)
 Ramon Lull (1232 - 1316)
 Niccolò Cusano (1400 - 1464)
 Marsilio Ficino (1433 - 1499)
 Pico della Mirandola (1463 - 1494)
 Erasmo da Rotterdam (1469 - 1536)
 Paracelso (1493 - 1541)
 Tommaso Campanella (1568 - 1639) 

Ermete Trismegisto - Corpus Hermeticum

I testi del Corpus Hermeticum e dell'ermetismo hanno una storia complessa. Le teorie ermetiche risalgono
all'epoca dei Tolomei (II secolo a.C.), fiorite probabilmente in ambiente Alessandrino. La loro sistemazione
scritta tuttavia va dal I secolo al III secolo d.C. L'ermetismo venne discusso da filosofi pagani e cristiani,
influenzando sia le filosofie tardo-antiche e sia il nascente cristianesimo.
Il cristianesimo cercò di combattere le dottrine ermetiche dichiarandole eretiche. Infine nel VI secolo sembra
che la letteratura ermetica si sia perduta nel nulla. Poi nel XI secolo Michele Psello, erudito bizantino, fa
risorgere la tradizione ermetica e il Corpus Hermeticum. Con Psello, si può ritenere conclusa la formazione del
corpus che giungerà in Occidente nel 1460.
I dialoghi ermetici vengono presentati come delle rivelazioni di Ermete Trismegisto ( Ermete tre volte grande) agli uomini,
riguardo la natura divina, l'antropogonia, la cosmogonia, l'escatologia, la filosofia religiosa ed altro.
I personaggio dei testi ermetici, oltre a Ermete stesso, sono Iside, Aslepio, Ammone, Horus, il figlio di Iside e Agathos Daimon
(che corrisponde a Kneph). Inoltre soltanto nei dialoghi ermetici appaiono personaggi come Poimandres, Tat e il sacerdote Bitys.
Questi dialoghi sono naturalmente ambientati in Egitto. La figura di Ermete Trismegisto è estremamente interessante: Ermete fu
identificato dai greci con il dio egiziano Thot (dio egizio Lunare della scrittura). Questa identificazione risale almeno ad Erodoto
ed è presente in Platone nel "Fedro" (con il mito di Theut) e nel "Cratilo". Sappiamo quindi che Ermete e Thot erano associati
all'invenzione della scrittura, alla medicina, al regno dei morti, alla capacità inventiva, alla frode e all'inganno.
Inoltre sia Thot che Ermete avevano un ruolo demiurgico. I greci vedevano l'Egitto come la terra della conoscenza perduta di un
tempo estremamente remoto, quindi il fatto di possedere in lingua greca scritti composti dallo stesso dio Thot (Ermete), dava
prestigio ai testi e conferiva loro importanza.
Chiaramente testi scritti dallo stesso dio della conoscenza erano qualcosa di incredibilmente importante e sacro. Una tradizione
mitologica dice che l'Ermete dei testi del corpus era nipote del vero Ermete Trismegisto e aveva tradotto dagli originali egiziani
gli scritti di suo nonno. Quindi se pensiamo che tutto ciò sia storico il "vero Ermete" sarebbe vissuto poco prima dell'arrivo dei
Greci di Alessandro Magno in Egitto. Ma credo proprio che dietro alla figura di Ermete e delle arcane conoscenze dell'Egitto
ellenistico, ci sia qualcosa di più importante. Probabilmente esisteva una sorta di setta che custodiva i segreti di Thot, ma allora
qual'era la fonte principale delle conoscenze ermetiche? Lo stesso dio? E quando erano nate queste conoscenze?
Ipotizzando che il dio Thot fosse un uomo di eccezionali capacità che alla sua morte fosse stato divinizzato, lo potremmo
collocare ai tempi del regno di Osiride. Osiride era a capo di un gruppo di superstiti di Atlantide e delle sue colonie diretti in
Egitto circa nel 10000 a.C. Thot-Ermete, secondo Diodoro Siculo, era un grandissimo scienziato che aiutò Osiride nell'opera
civilizzatrice in Egitto. Ecco cosa dice Diodoro nella sua Biblioteca Storica ( libro I, 15-16): "Tra tutti - aggiungono - Osiride
teneva nel più alto grado di considerazione Ermes, perché fornito di naturale sagacia nell'introdurre innovazioni capaci di
migliorare la vita associata.
Secondo la tradizione, infatti sono opera di Ermes l'articolazione del linguaggio comune, la denominazione di molti oggetti fino
ad allora privi di nome, la scoperta dell'alfabeto e l'organizzazione dei rituali pertinenti agli onori e ai sacrifici divini. Egli fu il
primo ad osservare l'ordinata disposizione degli astri e l'armonia dei suoni musicali secondo la loro natura; fu l'inventore della
palestra e rivolse le sue cure allo sviluppo ritmico del corpo umano. Inventò anche la lira con tre corde fatte di nervi, imitando le
stagioni dell'anno: adottò infatti tre toni, acuto, grave, medio, in sintonia rispettivamente con estate, inverno, primavera.
Anche i Greci furono da lui educati nell'arte dell'esposizione e dell'interpretazione, vale a dire l'arte dell'ermeneutica, e per
questa ragione gli hanno dato appunto il nome di Ermes. In generale Osiride ebbe in lui il suo scriba e sacerdote: a lui
comunicava ogni questione e ricorreva al suo consiglio nella stragrande maggioranza dei casi. Invece di Atena, come credono i
Greci, sarebbe stato Ermes a scoprire la pianta dell'ulivo." Come si può capire Ermes era il "factotum" di Osiride.
Ermes svolse ogni genere di mansione e tentò di portare un po' di ordine nel disordine generale causato dalla fine della civiltà.
Probabilmente Thot aveva lasciato dei testi dove cercava di preservare il suo sapere, che sono stati tramandati di generazione in
generazione, forse, fino all'epoca ellenistica, certamente estremamente diversi dagli originali. 

Tommaso D'Aquino (1232 - 1316)

Tommaso nacque nella famiglia dei conti di Aquino da Landolfo e Teodora verso il 1225. Da giovanissimo fu
affidato ai monaci benedettini di Montecassino, dove ricevette la prima educazione. Verso i 18 anni Tommaso
decise di entrare nell'ordine dei Domenicani e, nonostante le forti resistenze da parte della famiglia, resistette e
scelse la sua vocazione. Tutta la vita di Tommaso fu spesa nello studio e nella contemplazione ed egli morì a
neppure cinquant'anni, nel 1274, dopo aver lasciato moltissimi scritti. Fra essi ricordiamo : De ente et essentia,
Summa contra Gentiles e Summa theologiae. Fu forse il pensatore più importante del Medioevo e la sua
influenza, nell’ambito della Chiesa cattolica, è tuttora fondamentale. Era un uomo grande e grosso, bruno, un
po’ calvo ed aveva l’aria pacifica e mite dello studioso. Per il suo carattere silenzioso lo chiamarono "il bue muto". Tutta la sua
vita fu spesa nell’attività intellettuale e la sua stessa vita mistica la sua ricerca instancabile di Dio. Fu canonizzato nel 1323.
Tommaso elabora "cinque vie" per giungere a dimostrare che Dio esiste. La prima via è quella del moto, ed è desunta da
Aristotele. Essa parte dal principio che tutto ciò che si muove è mosso da altro. Ora, se tutto ciò che è mosso a sua volta si
muove, bisogna che anch’esso sia mosso da un’altra cosa e questa da un’altra ancora. Ma non è possibile andare all’infinito
altrimenti non vi sarebbe un primo motore e neppure gli altri muoverebbero. E’ dunque necessario arrivare ad un primo motore
non mosso da altro, e "tutti riconoscono che esso è Dio".
La seconda via è quella causale. Nel mondo vi è un ordine tra le cause efficienti (causa efficiente è ciò che da origine a
qualcosa) ma è impossibile che una cosa sia causa efficiente di se stessa, perché altrimenti sarebbe prima di se stessa, dunque
bisogna ammettere una prima causa efficiente "che tutti chiamano Dio". La terza via è basata sul rapporto tra il possibile e il
necessario. Vi sono cose che possono essere e non essere: infatti alcune nascono e finiscono, il che vuol dire appunto che sono
possibili, possono essere e non essere.
Ora, è impossibile che tutte le cose di tal natura siano sempre state, perché ciò che può non essere un tempo non esisteva. Se
dunque tutte le cose possono non essere, in un dato momento non ci fu nulla nella realtà. Dunque non è vero che tutti gli esseri
sono possibili ma bisogna ammettere che nella realtà vi sia anche un essere necessario, "e questo tutti dicono Dio". La quarta
via è quella dei gradi di perfezione. Si trova nelle cose il più e il meno di ogni perfezione, cioè di bene, vero, bello ecc. Vi sarà
dunque anche il grado massimo di tali perfezioni e "questo chiamiamo Dio".
La quinta via è quella desunta dal governo delle cose. I corpi fisici (pianeti, stelle ecc.) operano per un fine, come appare dal
fatto che operano quasi sempre allo stesso modo per conseguire la perfezione; donde appare che non a caso, ma per una
predisposizione, raggiungono il loro fine. Ora, ciò che è privo di intelligenza non tende al fine se non perché è diretto da un
essere conoscitivo e intelligente, come la freccia viene scoccata dall’arciere. Vi è dunque un essere sommamente intelligente da
cui tutte le cose naturali sono ordinate ad un fine, "e questo essere chiamiamo Dio". 

Ibn Rushd - Averroè (1126 - 1198)

Ibn Rushd (Abû al-Walîd Muhammad ibn Ahmad ibn Muhammad ibn Ahmad ibn Ahmad inb Rushd) nacque nel 1126 a Cordova e
morì a Marrakech il 10 dicembre 1198. Nel XII secolo l'Andalusia faceva parte dell'impero degli Almohadi, impero che si
estendeva a tutta l'Africa del Nord e durante il quale l'Occidente arabo conobbe gloria e ricchezza. Ibn Rushd era astronomo,
medico, giurista e filosofo. Figlio di giuristi, appartenente quindi ad una classe sociale elevata, vissuto nella stabilità dell'impero
almohade ebbe modo di costruirsi una cultura vastissima. Durante un viaggio a Marrakech notò una stella che non si poteva
vedere sotto i cieli spagnoli: Canepe.
L'osservazione di questo fenomeno gli permise di intuire la rotondità della Terra. Durante un altro viaggio a Marrakech, Ibn
Rushd conobbe Ibn Tufail, medico del Califfo Yûssûf ibn Ya'qûb e questi lo incaricò di tradurre e commentare le opere di
Aristotele in quanto lui era troppo vecchio per tale mansione e le traduzioni fino allora esistenti erano troppo oscure. Ibn Rushd
accettò e s'impegnò in un lavoro che durò più di 15 anni, ma l'opera del grande filosofo greco fu quasi interamente tradotta. Alla
morte del Califfo, Ibn Rushd mantenne un posto di primissimo piano come medico di corte e confidente del successore di
quest'ultimo Ya'qûb detto al-Mansûr "Il Vittorioso" per la strepitosa vittoria di Alarcos del 1195 contro Alfonso VIII di Castiglia e
i principi cristiani di Spagna sempre più minacciosi.
Poi improvvisamente caddè in disgrazia, il sovrano lo esiliò e i discepoli lo rinnegano. I sovrani Almohadi
cercavano sempre la compagnia dei "falâsifa" (i filosofi), li stimavano e non avevano mai manifestato ostilità
fanatiche nei loro confronti. Se Ibn Rushd cadde ingiustamente in disgrazia, fu probabilmente a causa di
circostanze forzate. Le sue dottrine filosofiche dovevano indisporre non poco i teologi limitati e i giuristi pedanti
incapaci di interpretazione personale dei testi. Furono quindi ragioni di stato che obbligarono al-Mansûr ad
allontanare Ibn Rushd anche perché la minima debolezza del sovrano sarebbe stata immediatamente sfruttata
dai principi cristiani di Castiglia e León. Ritornata la calma al-Mansûr riabilitò Ibn Rushd che ritorno a
Marrakech dove mori il 10 dicembre all'età di 72 anni. Le spoglie furono trasferite nella sua città nataleCordova.Ibn Rushd non
si occupò solo di medicina o dei commenti all'opera di Aristotele scrisse anche molti libri di filosofia.
In particolare ricordiamo un trattato sulla non contraddizione tra filosofia e religione che lo pone al vertice della riflessione
filosofica del suo tempo e non solo. Ibn Rushd sosteneva che i testi sacri sono legittimamenteinterpretati in modo diverso dal
filosofo dal teologo o dal profano. La "verità" può quindi essere interpretata in modo diverso secondo la formazione intellettuale
dell'individuo.
Questo approccio critico poteva suscitare le reazioni di molti, era in un certo senso "rivoluzionario" e lo sarebbe ancora oggi. Se
i Musulmani che vennero dopo di lui non approfittarono dei suoi insegnamenti e ebbero verso le sue opere un approccio
superficiale (molte erano diffuse in latino ed ebraico), non fu così per i Cristiani e gli Ebrei dai quali fu considerato una
personalità ineguagliabile.
Le sue dottrine verranno insegnate in Europa fino al XVIII secolo, in particolare il trattato del De anima nella traduzione in latino
di Micael Scott del 1230 e ciò nonostante le condanne dell'Inquisizione e del Concilio di Trento che consideravano eretiche e
blasfeme le teorie di Averroè, anche se l'averroismo professato in Europa è solo un pallido riflesso della sua cosmologia. Molti
filosofi e teologi europei devono molto a Ibn Rushd, tra questi citiamo i più conosciuti: San Tommaso d'Aquino, Bacone,
Spinoza, Leibnitz.
Combatté apertamente contro le degenerazioni del pensiero aristotelico attuate dagli integralisti teologi musulmani e da
Avicenna. Punto sostanziale é l'intervento di Dio nel mondo. Dio è atto puro. Se ne prova l'esistenza con i passaggi avicenniani a
contingentia mundie dei gradi di perfezione: tali modalità di prove vennero poi accolte come terza e quarta prova da
S.Tommaso. Non esiste una creazione ex nihil una volta per sempre, ma un continuo trarre le cose dalla potenza all'atto, dando
per scontato che materia prima e mondo esistono ab aeterno, causati necessariamente da Dio fin dall'eternità. Filosofia e
religione rivelata sono un'inscindibile verità, ma mentre la rivelazione - che è diretta a tutti gli uomini - mira al potenziamento
della virtù attraverso il linguaggio semplice che colpisce il sentimento e l'immaginazione, spetta ai filosofi (non ai teologi)
l'interpretazione e la dimostrazione scientifica dei dogmi forniti dalla rivelazione. 
Ramon Lull (1232 - 1316)

Il suo nome italianizzato è Raimondo Lullo. E' l'autore di quel complicato ed ambizioso progetto di lingua
conosciuto come Ars Magna. Lullo è un uomo del Duecento (morirà nel 1316 ), originario di Maiorca, città
multietnica, in cui sono ugualmente forti le influenze del cristianesimo, dell'islamismo e dell'ebraismo. In un
tale ambiente multilingue, Lullo - divenuto frate francescano - persegue lo scopo di creare una lingua filosofica
che possa mostrare agli infedeli le inconfutabili verità del Vangelo. Secondo la leggenda, Lullo muore lapidato
dagli stessi saraceni a cui si era presentato per convertirli. A parte l'esito infelice della vita di Lullo, fortuna
maggiore ha avuto la sua Ars Magna, soprattutto durante il Rinascimento, su uomini come Cusano.
Il fascino dell'Ars Magna deriva dalla imponente organizzazione del sapere in categorie e nell'adozione della logica, entrambe di
origine aristotelica. Lullo stabilisce un alfabeto di nove lettere (b,c,d,e,f,g,h,i,k), alle quali fa corrispondere nove dignità divine, o
Principi Assoluti, nove Principi Relativi, nove Soggetti, nove Questioni, nove Virtù e nove Vizi. L'Ars Magna contempla poi delle
figure che servono a realizzare la combinatoria delle lettere, e quindi delle dignità, dando origine a tutte le combinazioni
possibili. Tali combinazioni corrispondono ad altrettante proposizioni necessariamente vere.
Tuttavia, il gran numero di combinazioni possibili porta all'eventualità di formulare proposizioni contrarie ai dogmi cristiani; ad
esempio, applicando il sillogismo a determinate dignità, si può avere: "L'avarizia è differente dalla bontà, Dio è avaro, perciò Dio
è differente dalla bontà". Lullo, dunque, procede accuratamente a scartare tutte le proposizioni "scomode", venendo meno al
proposito di creare una lingua basata sulla logica e quindi necessaria.
Presupponendo un ordine predefinito del cosmo, l'Ars Magna nega la possibilità di pervenire ad ulteriori verità. Ricercare le
possibili connessioni tra le diverse dignità non è uno strumento euristico, perché la realtà è già definita dalle categorie dell'arbor
scientiarum: una categorizzazione "ad albero", appunto, che parte dalle nove dignità e si espande fino a definire tutti gli
elementi della realtà, descrivendo la Grande Catena dell'Essere.
Questo è, in definitiva, il limite maggiore dell'opera di Lullo: aver considerato assoluta una data organizzazione del mondo,
convinto che musulmani ed ebrei non avrebbero potuto far altro che convertirsi, di fronte a tali inconfutabili verità Durante il
Medioevo, gli studi che si propongono di ritrovare (o di ricreare) la lingua prebabelica sono caratterizzati da un profondo
misticismo. Una forte impronta a questi primi studi è data dalle ricerche di eruditi interpreti della Torah, il testo sacro ebraico;
questa lunga tradizione prende il nome di cabalismo ("cabbala" in ebraico vuol dire "tradizione").
Tali studi influenzeranno profondamente i futuri orientamenti del neoplatonismo rinascimentale. Nel Mediovevo, dunque, tali
ricerche hanno il loro riferimento diretto nel Vecchio Testamento, sia (come è ovvio) per la comunità dei cabbalisti, sia per la
tradizione cristiana, che assume come testo di riferimento la Vulgata, prima traduzione in latino della Bibbia ad opera di San
Gerolamo (III secolo d.C.). Un personaggio di rilievo è, in questo periodo, lo spagnolo Llull: inventore del primo sistematico
progetto di lingua perfetta, basata su di una "organizzazione del contenuto" ritenuta universale.

Niccolò Cusano (1400 - 1464)

Niccolò Cusano nacque a Kues, in Germania, attorno al 1400. Studiò diritto e matematica a Padova e teologia a
Colonia. A venticinque anni diventò prete, poi divenne vescovo di Bressanone e quindi cardinale. Il Concilio di
Basilea lo incaricò di rappresentare la Chiesa Cattolica in una missione riconciliatrice in Grecia, allo scopo di
sanare la spaccatura con la Chiesa Ortodossa. Pur fallendo, Cusano tornò in occidente con i testi originali dei
classici greci e una folta rappresentanza di sapienti, i quali insegnarono il greco (lingua da secoli dimenticata),
ai dotti italiani, contribuendo così allo sviluppo dell'umanesimo rinascimentale.
Le sue opere sono: La dotta ignoranza (1440), sua opera principale, Le congetture (1445), L'Idiota (1450), Il
gioco della palla (1463). Ne "La dotta ignoranza" Cusano afferma, rispolverando una massima socratica, che "quanto meglio uno
saprà che non si può sapere, tanto più sarà dotto." Posto che Dio è la perfezione assoluta e infinita, niente di quello che l'uomo
può sapere e imparare raggiungerà mai questa perfezione. La conoscenza dell'uomo non sarà mai perfetta, ma costantemente
perfettibile, la scienza degli uomini cerca la verità, ma la verità, come una preda sfuggente, non si farà mai raggiungere.
La conoscenza attraverso la ragione è un tentativo reiterato di cercare di misurare l'incommensurabile, è un tentativo di
instaurare una proporzione fra il noto e l'ignoto. Questo tentativo è sempre graduale, del resto non si può conoscere
direttamente l'ignoto intero senza una serie di tentativi successivi di avvicinamento.
Cusano porta l'esempio della misurazione di una circonferenza: l'uomo semplifica il problema ipotizzando la circonferenza come
un poligono che abbia infiniti lati, ma l'infinito non è proprietà della geometria, scienza finita, e la circonferenza risulterà allora
da una semplificazione mistificante.
Cusano usa in questo modo termini matematici e geometrici, i quali hanno la proprietà delle cose finite (e quindi umane), per
mettere in luce l'impossibilità umana di conoscere e provare l'infinito attraverso la ragione, infinito che Cusano identifica in Dio.
Se l'infinito non è raggiungibile attraverso la ragione, lo è attraverso l'intelletto, il quale, seppur non arriva a una conoscenza
certa del concetto, può arrivare a una sua intuizione. L'infinito è l'unità di tutte le conoscenze, anche quelle opposte, in quanto
la perfezione assoluta implica la sintesi suprema tra tesi e antitesi. Questa coincidenza degli opposti fa si che in Dio siano
presenti tutti i principi contrapposti che sono all'apparenza inconciliabili. Dio è sia affermazione che negazione.
In Dio convivono i contrari poiche Egli è l'assoluto. In Cusano vi è una continua tensione tra perfezione e impossibilità di
raggiungerla, una sorta di sintesi impossibile tra assoluto e umano. L'umano è l'imperfetto perfettibile, il divino la perfezione
assoluta in cui tutto trova una sintesi, ma proprio perché divina, impossibilitata a venire a contatto con l'umano. Di fronte
all'impossibilità di definire in modo certo la natura infinita di Dio, l'uomo diventa uno spettatore della Creazione, ma non uno
spettatore passivo. L'uomo è il fine ultimo della Creazione, creato per riconoscere il valore divino della Creazione stessa. Dio si
può conoscere allora per teologia negativa (ciò che Dio non è) o per teologia positiva (Dio è l'infinito), la terza via è la parola di
Cristo.
Cristo è anche Dio, quindi la sua infinità divina è per l'uomo un motivo di imitazione terrena, imitazione che sfocia
necessariamente in una teologia del dialogo che può favorire, sul piano civile e storico dell'uomo, una riconciliazione dei dissidi
(una empirica coincidenza degli opposti). 
 

Marsilio Ficino (1433 - 1499)

Il nome di Ficino è associato all'incarico affidatogli da Cosimo de' Medici di tradurre le opere di Platone,
recentemente acquistate in Grecia. Per poterle tradurle il mecenate gli mise a disposizione una villa presso
Firenze che succesivamente divenne un luogo di ferventi incontri culturali, la famosa Accademia Platonica.
Ficino tradusse non solo le opere di Platone, ma anche quelle di Porfirio, Proclo, Plotino, Dionigi Pseudo-
Aeropagita, Orfeo, Esiodo e molti altri, contribuendo così a diffondere l'umanesimo analogamente alla missione
di Cusano. Homo copula mundi. Nel nuovo clima del Rinascimento, Ficino è fautore di una teoria che riporta
l'uomo al centro del mondo dopo i secoli del pessimismo antropologico cristiano.
Per Ficino l'uomo è copula mundi. Cosa significa? Significa che l'uomo è il termine medio tra il divino e il terreno. Il mondo
esistente è diviso per gerarchie in cinque parti: al vertice c'è Dio, poi vengono gli angeli, quindi l'anima dell'uomo, la qualità, e
per ultimo il corpo.
Quindi l'anima dell'uomo è il centro del mondo, il termine medio (copula), l'entità per mezzo della quale divino e terreno si
incontrano. L'uomo ha la libertà di decidere se aspirare all'alto o perdersi nel basso. In sostanza, una posizione di privilegio data
dalla coscienza e dall'intuito umano, il quale permette di percepire sia le cose divine che vivere le cose terrene.
Le origini della Rivelazione divina. Secondo Ficino, Il percorso della Rivelazione divina non è cominciato con il Cristianesimo, la
sua verità cominciò a manifestarsi anche prima, nell'indagine e nelle opere degli studiosi pagani illustri, primo fra tutti Platone.
Le origini della Rivelazione cominciano con il persiano Zarathustra e con Ermete Trismegisto, mitico sapiente egiziano, continua
con Pitagora, arriva a Platone e prosegue nei neoplatonici, Plotino e lo Pesudo-Aeropagita.

Pico della Mirandola (1463 - 1494)

Le opere più importanti di Pico della Mirandola sono le Conclusioni filosofiche, cabalistiche e teologiche del
1486, con la quale cerca di promuovere un riavvicinamento tra la Chiesa cattolica, la religione ebraica e quella
islamica (le tre grandi religioni monoteiste rivelate) e La dignità dell'uomo (1487). La sua leggendaria capacità
mnemonica gli permise di studiare le lingue ebraiche, l'arabo e il caldaico (lingue dell'antica Mesopotamia),
oltre che il latino e il greco.
Il suo desiderio di rinconciliare le tre grandi religioni non andò a buon fine perchè alcune delle sue Conclusioni
filosofiche vennero sospettate di eresia dalla Chiesa. Pico fu anche imprigionato per eresia e ottenne il perdono
del papa solo grazie all'intervento di Lorenzo il Magnifico.
L'uomo camaleonte. Ne "La dignità dell'uomo" Pico espone il concetto dell'uomo camaleonte. Secondo Pico, Dio creò ogni essere
vivente dotandolo di particolari qualità. Così ogni animale ha un particolare istinto che lo rende abile per una certa cosa. Quando
Dio creò l'uomo non volle attribuirli solo una qualità ma preferì dotarlo di una parte di tutte le qualità. Quindi l'uomo si trova
nella posizione potenziale di scegliere, come per Ficino, tra le "cose inferiori" e le "cose superiori".
L'uomo è un camaleonte che può servirsi a piacimento e secondo l'esigenza di una qualsiasi delle qualità che possiede, e questo
gli da un vantaggio considerevole rispetto alle altre speci viventi. L'uomo è dotato quindi di una adattabilità invidiabile nonché
del libero arbitrio. Questa libertà di realizzazione umana pone l'uomo al di sopra degli angeli stessi, i quali sono fissi nelle
gerarchie celesti, senza alcuna possibilità di miglioramento.

Erasmo da Rotterdam (1469 - 1536)

Il vero nome era Jeert Jeerts, nacque a Rotterdam nel 1469 circa e morì a Basilea. Rimasto orfano fin dalla
tenera età, spogliato del suo piccolo avere dai tutori visse disagiatamente. Educato da Steyn, prese nel 1492
convento degli Agostiniani gli ordini ma ottenne più tardi la dispensa dai voti dal Papa Giulio II. Fatti i corsi nel
collegio fu poi a Parigi dove seguì Montaigne, in seguito in Inghilterra e a Torino, dove ottenne la laurea e
venne a contatto con la teologia. E da qui poi a Venezia con l'umanesimo italiano. Tornato di nuovo in
Inghilterra scrisse "L'Elogio della Pazzia" (1509), insegnò teologia all'Università di Cambridge e nel 1516
pubblicò a Basilea l'edizione del testo Nuovo Testamento in greco originale. Infine rientrò in patria, luogo che si
confaceva più al suo spirito in quanto vi convivevano Cattolicesimo e la Riforma.
Qui iniziò con Lutero la sua polemica con alcuni scritti come il "De Libero Arbitrio" (1524). La sua figura di intellettuale, sia in
campo filosofico che teologico, non si risolve in maniera completa, ma spesso si lascia guidare dalla necessità della polemica. Il
suo grande sentimento classico si traduce nell'avversione, come tutti gli Umanisti e i Rinnovatori Religiosi, per la Scolastica. Non
apprezza le discussioni astratte o i problemi metafisici o dialettici degli Scolastici perchè non interessano direttamente il
sentimento umano e gli interessi sociali, ma sono freddi esercizi mentali. Come umanista e letterato dà grande importanza a ciò
che scuote l'animo e commuove, tende ad essere più un ragionatore che un razionalista. Per questo apprezza più di tutti
Socrate che meglio di Platone fu sempre a contatto con la vita dell'uomo. Lo sforzo di Erasmo è quello di mettere sulla stessa
linea la fede con l'erudizione e il bello stile, come se fossero valori equivalenti. Vuole affermare la sostanziale identificazione dei
valori più autentici del Cristianesimo con la sapienza antica. Cerca quindi di togliere al Cristianesimo le asprezze e le
affermazioni assolute.
Cerca un equilibrio fra la pura moralità evangelica e la sobrietà e misura pagana; ne è testimonianza il suo latino duttile e
colorito, pieno di psicologia, finezza e forza esortativa. La stessa funzione esercita nella lotta all'immoralità, agli abusi
ecclesiastici, all'ignoranza e all'intolleranza delle astruserie dogmatiche e ironicamente si abbatte sulla grettezza e sugli eccessi
dei razionalisti. Insiste molto sulla figura di Socrate soprattutto nel suo paragone con Cristo. Riconosce la somiglianza fra queste
due personalità nella loro opposizione tra valori autentici e valori inconsistenti, nell'equilibrio e dominio di se stessi, in
contrapposizione con i beni mondani ed esteriori. Mostrando la somiglianza fra Socrate e Cristo, Erasmo vuole concretizzare con
i comportamenti dei due più illustri rappresentanti, la coincidenzatra etica cristiana e etica pagana. Erasmo satireggiò la
degenerazione di un epoca corrotta, i vizi dei laici come quelli degli ecclesiastici e da principio vide in Lutero il riformatore dei
costumi e il polemista contro i privati teologi.
La satira erasmiana, apparentemente spregiudicata, è densa di motivi etici. Per lui la Pazzia infatti è l'illusione, la menzogna di
cui la vita dell'uomo si ammanta per nascondere la sua cruda realtà, ma il principale obiettivo della polemica è costituito dal
clero e dallo stato della Chiesa.
Devozioni degne di riso sono per Erasmo l'accendere candele dinanzi ad immagini in pieno giorno o intraprendere peregrinazioni
in luoghi dove nessun motivo plausibile spinge ad andare. Erasmo crede nella fedeltà allo spirito del vangelo, rifiuta ogni
fanatismo e dogmatismo della dottrina cristiana dimostrando di aver fatto sua la più alta lezione dell'Umanesimo proprio in
questo senso critico e sereno, nella sua prudenza e ricerca di misura. Erasmo intende il rinnovamento religioso come la
coscienza umana che ritorna alle origini del Cristianesimo e studia con la filologia i testi sacri per ritrovarne l'autentico
significato.
Come umanista il suo compito si ferma qui, fa parte del mondo dei dotti e come tale è contrario a coinvolgere con la religione,
forze politiche o sociali estranee al mondo della cultura. Per questo, quando Lutero nel 1519 gli chiede di appoggiare la Riforma,
pur approvandone i principi che in massima parte lui stesso ha indicato, si rifiuta di seguirlo nell'opera rivoluzionaria. 

Paracelso (1493 - 1541)

Philippus Theophrastus Bombast von Hohenheim (detto Paracelsus) nacque il 14 novembre del 1493 a Einsiedeln, un
villaggio vicino alla città di Zurigo, in Svizzera. Suo padre, Guglielmo Bombast di Hohenheim, era un medico
discendente dell'antica e celebre famiglia Bombast detta di Hohenheim dalla sua antica residenza. Nella prima
giovinezza, Paracelso ricevette un’istruzione scientifica da suo padre, che gli insegnò i rudimenti dell'Alchimia, della
chirurgia e della medicina. In seguito continuò gli studi sotto la guida dei monaci del convento di Sant'Andrea (nella
valle di Savon) e sotto l'egida dei dotti vescovi Eberhardt Baumgartner, Mathias Scheydt di Rottgach e Mathias Schacht
di Freisingen.
Successivamente fu istruito dal celebre Johann Trithemius di Spanheim, uno dei maggiori adepti della Magia, dell'Alchimia e
dell'Astrologia del suo tempo, venerato nel seicento, insieme ad Agrippa von Nettesheim, come uno dei maggiori luminari dell’Arte
Spagirica (Alchimia Esterna). Sotto la guida di questo maestro Paracelso coltivò e mise in pratica il suo talento e il suo amore per
l’occulto. Il giovane Theophrastus assunse probabilmente in quel periodo il suo soprannome latinizzato "Paracelsus" intendendo
accentuare la sua convinzione di essere superiore all’arte medica del passato.
Visitò la Germania, l'Italia (dove forse si laureò in medicina presso l’Università di Ferrara), la Francia, la Spagna, l'Olanda, la
Danimarca, la Svezia, l’Inghilterra, la Polonia, la Russia e molte altre regioni dell’est europeo. Forse si recò anche in India, e dopo
essere stato fatto prigioniero dai Tartari e portato al cospetto del Khan, ne accompagnò il figlio a Costantinopoli nel 1521. Secondo la
relazione di Van Helmont, là ricevette la Pietra Filosofale. La leggenda narra che l'adepto da cui Paracelso ricevette questa pietra fu un
certo Solomone Trismosinus (o Pleiffer) compatriota di Paracelso.
Si dice che questo Trismosinus fosse anche in possesso della Panacea Universale; e si afferma che sia stato visto, ancora vivo, da un
viaggiatore francese, alla fine del diciassettesimo secolo. Nel 1525 Paracelso giunse a Basilea, e nel 1527, per raccomandazione di
Ecolampadio, fu nominato dal Consiglio Cittadino professore di fisica, medicina e chirurgia ricevendo un onorario notevole. Le sue
lezioni non erano come quelle dei suoi colleghi: semplici ripetizioni delle teorie di Galeno, Ippocrate e Avicenna. Paracelso insegnava le
sue proprie dottrine indipendentemente dalle opinioni altrui, ottenendo il plauso dei suoi studenti e facendo inorridire i suoi ortodossi
colleghi. Il 24 giugno del 1527 bruciò pubblicamente in piazza gli scritti di Galeno e di Avicenna, ripetendo le parole sacramentali: "Così
ogni mala cosa si disperda nel fumo!"
La crescente ostilità dei medici accademici e una lite giudiziaria costrinsero Paracelso, nel febbraio del 1528, ad abbandonare Basilea.
Paracelso riprese la sua vita randagia vagabondando per il paese, come aveva fatto in gioventù, vivendo in villaggi, taverne e osterie.
Numerosi discepoli lo seguirono, attratti dal desiderio di sapere o dalla brama di acquistare la sua arte e valersene a proprio profitto. Il
più noto dei suoi seguaci fu Johannes Oporinus, che per tre anni lo servì come segretario e che poi divenne professore di greco,
scrittore conosciuto, libraio e stampatore a Basilea. Paracelso era decisamente reticente nel confidare i suoi segreti, anche con i propri
discepoli. Oporinus, dopo aver abbandonato il proprio maestro, parlò duramente di lui, schierandosi con i suoi nemici. Ma dopo la morte
di Paracelso, egli si rammaricò della propria indiscrezione ed espresse grande venerazione per lui.
Paracelso fu a Colmar nel 1528, e a Esslingen e a Norimberga tra 1529 e il 1530. I "medici regolari" di Norimberga lo denunciarono
come ciarlatano e impostore. Per confutare le loro accuse egli chiese al Consiglio Cittadino di affidargli la cura di alcuni pazienti che
erano stati dichiarati incurabili. I successi ottenuti da Paracelso non mutarono la sua fortuna, ma accrebbero le ostilità degli accademici
condannandolo a nuovi e continui vagabondaggi. Morì il 24 settembre 1541, all'età di quarantotto anni e tre giorni in una stanzetta
della locanda del "Cavallo Bianco" lungo il fiume. Il suo corpo fu sepolto nel cimitero della chiesa di San Sebastiano, conformemente alla
sua volontà. Il Principe Arcivescovo ordinò due solenni funerali. Sulla tomba fu eretta una piramide, al centro della quale fu posto il suo
ritratto. Grava ancora un mistero sulla sua morte: molti biografi sostengano che egli morì di morte violenta, dovutaa veleno o a ferite.
Nulla avvalora però questa tesi. Il cranio di Paracelso fu ripetutamente esaminato: esso presentava in realtà una frattura lungo l'osso
temporale, ma non ci sono prove che facciano supporre che tale ferita glisia stata inferta in vita.
Paracelso non ebbe pace nemmeno nella tomba: fu dissepolto innumerevoli volte (sette spostamenti delle spoglie sono documentati) e
le sue ossa furono scompigliate e trafugate. 
Tommaso Campanella (1568 - 1639)

Nato a Stilo, in Calabria, nel 1568, Tommaso Campanella entrò nell'ordine dei domenicani quando era ancora molto
giovane, ma, a causa delle sue idee in fatto di religione, si ritrovò ben presto nel mirino degli inquisitori, dai quali fu
accusato di eresia e rinchiuso in carcere a Roma, nello stesso periodo di Giordano Bruno.
Nel 1599 tornò in Calabria, dove tentò di organizzare un'insurrezione contro il dominio spagnolo e di gettare le basi per
una profonda riforma religiosa. Anche in questa occasione fu arrestato e condannato, ma riuscì a salvarsi dalle torture
fingendosi pazzo. Il suo presunto stato mentale non poté, però evitargli il carcere: rimase rinchiuso per 27 anni,
durante i quali trovò la forza per continuare a scrivere, specialmente di filosofia. Fu proprio durante la prigionia che
compose un'opera dedicata a Galileo, del quale apprezzava incondizionatamente (e pericolosamente) il lavoro ed il
pensiero.
Nel 1626 riacquistò una parziale libertà: uscì dal carcere ma rimase a Roma, sotto il controllo del Sant'Uffizio. Grazie alla benevolenza
di papa Urbano VIII, anche questo vincolo venne in seguito eliminato ma, nel 1633, Campanella venne nuovamente accusato di eresia e
di propaganda antispagnola, così, prima che la situazione precipitasse, decise di rifugiarsi a Parigi, sotto la protezione di Richelieu, e di
dedicarsi alla pubblicazione dei suoi scritti. Morì nella capitale francese nel 1639. Insieme con Giordano Bruno e Bernardino Telesio,
Tommaso Campanella fu uno dei principali anticipatori di alcuni importanti argomenti della filosofia moderna e il suo pensiero
testimoniò di questo passaggio tra Medioevo e modernità oscillando tra la trascendenza tradizionale del cattolicesimo e l'immanentismo
del naturalismo rinascimentale. 

GIORDANO BRUNO

....non devo nè voglio pentirmi, non ho di che pentirmi né ho materia di cui pentirmi, e non
so di che cosa mi debba pentire.
GALILEO GALILEI

...sono stato giudicato veementemente sospetto d'eresia, cioè d'aver tenuto e creduto che il
Sole sia centro del mondo e imobile e che la Terra non sia centro e si muova. Pertanto.....con
cuor sincero e fede non finta abiuro, maledico e detesto li suddetti errori e eresie....
"Non avrai, Galileo mio, gelosia della lode che devesi a coloro che tanto tempo prima di te
 predissero ciò che ora hai contemplato co' tuoi propri occhi ? La gloria tua é che emendi
la 
dottrina che un nostro conoscente, Edmondo Bruce, tolse a prestito da Bruno".  

Giovanni Keplero           

Processo e condanna

Naturalmente Bruno sa che la sua vita è in gioco e si difende abilmente dalle accuse dell'Inquisizione
veneziana: nega quanto può, tace, e mente anche, su alcuni punti delicati della sua dottrina, confidando
che gli inquisitori non possano essere a conoscenza di tutto quanto egli abbia fatto e scritto, e giustifica le
differenze fra le concezioni da lui espresse e i dogmi cattolici con il fatto che un filosofo, ragionando
secondo «il lume naturale», può giungere a conclusioni discordanti con le materie di fede, senza dover per
questo essere considerato un eretico. A ogni buon conto, dopo aver chiesto perdono per gli «errori»
commessi, si dichiara disposto a ritrattare quanto si trovi in contrasto con la dottrina della Chiesa.

L'Inquisizione romana chiede però la sua estradizione, che viene concessa, dopo qualche esitazione, dal
Senato veneziano. Il 27 febbraio 1593 Bruno è rinchiuso nelle carceri romane del Palazzo del Sant'Uffizio.
Nuovi testi, per quanto poco affidabili, essendo tutti imputati di vari reati dalla stessa Inquisizione,
confermano le accuse e ne aggiungono di nuove.

Giordano Bruno fu probabilmente torturato alla fine di marzo 1597, secondo la decisione della
Congregazione presa il 24 marzo.[16] Giordano Bruno non rinnegò i fondamenti della sua filosofia: ribadì
l'infinità dell'universo, la molteplicità dei mondi, la non generazione delle sostanze - «queste non possono
essere altro che quel che sono state, né saranno altro che quel che sono, né alla loro grandezza o sostanza
s'aggionge mai, o mancarà ponto alcuno, e solamente accade separatione, e congiuntione, o compositione,
o divisione, o translatione da questo luogo a quell'altro»[17] - e il moto della Terra. A questo proposito
spiega che «il modo e la causa del moto della terra e della immobilità del firmamento sono da me prodotte
con le sue raggioni et autorità e non pregiudicano all'autorità della divina scrittura». All'obiezione
dell'inquisitore, che gli contesta che nella Bibbia è scritto che la «Terra stat in aeternum» e il sole nasce e
tramonta, risponde che vediamo il sole «nascere e tramontare perché la terra se gira circa il proprio
centro»; alla contestazione che la sua posizione contrasta con «l'autorità dei Santi Padri», risponde che
quelli «sono meno de' filosofi prattichi e meno attenti alle cose della natura».[18]
Sostiene che la terra è dotata di un'anima, che le stelle hanno natura angelica, che l'anima non è forma del
corpo; come unica concessione, è disposto ad ammettere l'immortalità dell'anima umana.

Roma, La piazza di Campo de' Fiori

Il 12 gennaio 1599 è invitato ad abiurare otto proposizioni eretiche, nelle quali si comprendevano la sua
negazione della creazione divina, dell'immortalità dell'anima, la sua concezione dell'infinità dell'universo e
del movimento della Terra, dotata anche di anima, e di concepire gli astri come angeli. La sua disponibilità
ad abiura, a condizione che le proposizioni siano riconosciute eretiche non da sempre, ma solo ex nunc, è
respinta dalla Congregazione dei cardinali inquisitori, tra i quali il Bellarmino. Una successiva applicazione
della tortura, proposta dai consultori della Congregazione il 9 settembre 1599, fu invece respinta da papa
Clemente VIII[19]. Nell'interrogatorio del 10 settembre Bruno si dice ancora pronto all'abiura, ma il 16
cambia idea e infine, dopo che il Tribunale ha ricevuto una denuncia anonima che accusa Bruno di aver
avuto fama di ateo in Inghilterra e di aver scritto il suo Spaccio della bestia trionfante direttamente contro il
papa, il 21 dicembre rifiuta recisamente ogni abiura, non avendo, dichiara, nulla di cui doversi pentire.

L'8 febbraio 1600 è costretto ad ascoltare inginocchiato la sentenza di condanna a morte per rogo; si alza e
ai giudici indirizza la storica frase: «Maiori forsan cum timore sententiam in me fertis quam ego accipiam»
(«Forse tremate più voi nel pronunciare questa sentenza che io nell'ascoltarla»).

Dopo aver rifiutato i conforti religiosi e il crocefisso, il 17 febbraio, con la lingua in giova - serrata da una
morsa perché non possa parlare - viene condotto in piazza Campo de' Fiori, denudato, legato a un palo e
arso vivo. Le sue ceneri saranno gettate nel Tevere.

Giordano Bruno non si reputava eretico; egli sapeva di aver cercato con onestà intellettuale la verità religiosa, credeva in una
Divinità panteistica che permea tutto e tutti, lui compreso, e non riusciva a comprendere per quale motivo la Chiesa Cattolica
non si comportasse con la medesima onestà e impedisse la libera ricerca di Dio.
Il processo di revisione critica, attualmente in atto, all’interno della Chiesa Cattolica nei confronti dei famigerati
comportamenti inquisitoriali, che produssero la condanna di Galileo Galilei, può, forse, evidenziare una certa buona volontà
delle gerarchie ecclesiastiche nel riconoscere i propri errori passati e, al contempo, il chiaro imbarazzo di chi si vede costretto
a difendere posizioni ormai anacronistiche e irrevocabilmente condannate dalla storia, ma sicuramente non può nascondere il
profondo e indissolubile legame che unisce tali eccessi al dogmatismo intransigente di una fede religiosa, quale è quella
cattolica, convinta di detenere il monopolio della verità assoluta e rivelata. Infatti, mentre riguardo al processo Galileo il Papa
vacilla e sente sulle proprie spalle il peso di tutta la vergogna che deve ricoprire l’ignoranza di una dottrina ormai sconfitta
dalla ricerca scientifica, rispetto al processo Giordano Bruno tace e tenta di far dimenticare il rogo sul quale fu bruciato il 17
febbraio 1600 in Campo dei Fiori a Roma, per ordine del successore di Pietro, del rappresentante di Cristo in terra, di quel
Clemente (di nome e non di fatto) VIII, il filosofo di Nola. La doppia verità, quella religiosa e quella scientifica, servì a salvare
Galileo dal rogo all’epoca del processo e serve oggi alla Chiesa, al di là delle sofisticate ricerche e congetture di Pietro
Redondi (P. Redondi, Galileo eretico, Einaudi, 1983) intorno alla vera accusa occultamente mossa dal Collegio romano dei
Gesuiti a Galileo, a ritrattare la propria posizione senza minimamente intaccare il proprio dogmatico e fanatico credo. Ben
diversa, invece, è la situazione nei confronti di Giordano Bruno, il quale volle entrare nel merito della verità filosofica e
religiosa per discutere il magistero stesso della Chiesa. Galileo si occupava di scienza, Bruno parlava di temi religiosi,
intendendo per religione la ricerca intorno ai grandi interrogativi esistenziali dell’uomo: chi siamo, da dove veniamo e dove
andiamo.
Il libro di Luigi Firpo
Luigi Firpo affronta con grande rigore storico e fuori dalle contingenti polemiche politiche il processo a Giordano Bruno. Tra il
1948 e il 1949 egli pubblicò in due puntate sulla Rivista Storica Italiana un saggio intitolato Il processo di Giordano Bruno.
Tale saggio venne poi raccolto in un libro edito nel 1949 dalle Edizioni scientifiche italiane di Napoli e ora, dopo la scomparsa
dell’Autore avvenuta il 2 marzo 1989, è disponibile una nuova edizione del 1993, curata da Diego Quaglioni, ad opera della
Salerno Editrice di Roma. Il libro attualmente in distribuzione si apre con un’articolata introduzione di Quaglioni, che inquadra
con precisione sia la ricerca dell’Autore, sia le principali problematiche storiche e storiografiche relative al processo in
esame, e si chiude con una fedele e voluminosa raccolta di tutta la documentazione processuale ad oggi disponibile.
Racchiusa tra questi due estremi è collocato il testo di Firpo, che rende conto delle vicissitudini di Bruno tra l’agosto 1591,
anno del suo rientro in Italia, e il 1600, data fatale della sua esecuzione capitale. L’autore sottopone ad esame la denunzia,
anzi le denunzie presentate da Zuane Mocenigo all’inquisitore di Venezia Giovan Gabriele da Saluzzo contro Giordano Bruno
(maggio 1592); si sofferma con attenzione sulle prime testimonianze e sulla fase veneziana del processo, che termina con la
concessione da parte del Senato di Venezia, su richiesta del Sommo Pontefice, dell’estradizione del Nolano e con la
conseguente traduzione del medesimo a Roma (febbraio 1593); affronta il tema della seconda denunzia per eresia mossa al
Bruno da un ex compagno di cella del periodo di detenzione veneziana, il cappuccino Celestino da Verona (autunno 1593),
che verrà poi bruciato vivo in Campo dei Fiori cinque mesi prima del Nolano; quindi analizza le varie fasi del processo
inquisitoriale romano, compresa la ricerca dei testi scritti dal filosofo, quali elementi di prova a carico, e la censura dei
medesimi, sino a concludere la sua fatica con la sentenza di condanna del Bruno, che con tenace decisione si era rifiutato di
riconoscersi eretico sia di fronte alle otto proposizioni sottopostegli dal cardinale Roberto Bellarmino, sia di fronte all’estremo
tentativo di ricevere la sua abiura compiuto dal generale Beccaria e dal procuratore Isaresi, confratelli domenicani del filosofo
di Nola.
I capi d’accusa
Tra i personaggi del processo spicca per bassezza morale e ottusità intellettuale, come sostiene Firpo stesso, la figura del
patrizio veneziano Mocenigo, il quale, dopo aver invitato presso di sé il Bruno per essere erudito nell’arte della memoria, ma
in realtà maggiormente interessato a tanto mirabolanti quanto inesistenti segreti di natura magica, deluso e stizzito lo
denunzia all’Inquisizione. Giordano Bruno viene accusato di avere opinioni avverse alla S. Fede e di aver tenuto discorsi
contrari ad essa e ai suoi ministri; di avere opinioni erronee sulla Trinità, la divinità di Cristo e l’incarnazione, sulla
transustanziazione e la S. Messa; di sostenere l’esistenza di molteplici mondi e la loro eternità; di credere alla metempsicosi e
alla trasmigrazione dell’anima umana nei bruti; di occuparsi di arte divinatoria e magica; di non credere, infine, alla verginità
della Madonna. Appare subito evidente che i capi d’accusa rivolti al Nolano nella prima denunzia da lui subita (ma la
situazione non cambia per le successive denunzie e accuse, che sostanzialmente ripercorreranno i medesimi argomenti)
riguardano tutti indistintamente un tipo di reato che oggi verrebbe definito d’opinione. Ossia l’Inquisizione della Chiesa
Cattolica muove contro il filosofo non per atti da lui compiuti, ma per le idee espresse e cercherà per tutta la durata del
processo di indurlo al pentimento e alla ritrattazione. Successivamente un altro personaggio ignobile compare sulla scena
processuale: è il cappuccino Celestino da Verona, il quale, convinto erroneamente di essere stato danneggiato nella sua
situazione giudiziaria da alcune e non meglio precisate dichiarazioni del Bruno, presenta contro quest’ultimo un’ulteriore
denunzia di eresia e di blasfemia.
Processo alle opinioni
Di fronte a questi squallidi personaggi e intenti sorge subito spontanea una riflessione: un processo fondato sulla delazione e
sul pentimento di soggetti coinvolti a qualche titolo nella vicenda giudiziaria stessa, come è appunto il processo inquisitoriale
in esame, non solo mette necessariamente in pericolo i diritti dell’imputato, ma non fornisce neppure sufficienti garanzie
intorno alla ricerca di una verità fattuale e non preconcetta. Tale riflessione potrebbe tranquillamente essere ripetuta per molti
processi a noi contemporanei, condotti da una magistratura inquirente, che ha ereditato il ruolo e lo spirito della magistratura
inquisitoriale. Il processo contro Giordano Bruno, dunque, non fu solo un processo alle opinioni del filosofo, ma si fondò
anche su un sistema probatorio profondamente inquinato dalla violenza di lunghe detenzioni preventive, dall’intimidazione di
continui tentativi di costringere il detenuto al pentimento e alla confessione e dal sospetto legato alla delazione anche
anonima. Nonostante tutto ciò il modello inquisitoriale non riuscì a produrre una qualche sentenza, se non dopo ben quasi
dieci anni di detenzione dell’indiziato. E di indiziato in senso tecnico si trattava, infatti, anche per le leggi dell’epoca, dal
momento che tutto il processo fu costruito e tenuto in piedi sulla base di semplici indizi e solo il rifiuto opposto dall’imputato
a ritrattare l’elenco di otto capi d’accusa, estratti dagli atti del processo dal gesuita Bellarmino, produsse la sua condanna. In
breve, l’Inquisizione era prevalentemente interessata al ravvedimento spirituale del Bruno e quindi cercava una sua piena
confessione con relativo pentimento. Di fronte al diniego del filosofo essa trasportò sul piano giudiziario la sua condanna di
ordine morale e religioso, ma fece ciò non senza ipocrisia. Ipocrisia che si legge con raccapriccio nella copia parziale della
sentenza destinata al Governatore di Roma (8 febbraio 1600). In essa il Tribunale ecclesiastico affida Giordano Bruno al
braccio secolare affinché venga punito, con la raccomandazione, però, di mitigare il rigore della legge e di evitare al
condannato la pena di morte o la mutilazione. Era a tutti noto, allora come ora, che la consegna al braccio secolare con una
sentenza di condanna per eresia come quella comminata al Bruno comportava automaticamente il rogo. A poco vale la
riflessione di Firpo secondo la quale la Chiesa Cattolica avrebbe applicato senza preconcetta acredine nei confronti
dell’imputato la normativa penale e processuale vigente. È proprio tale normativa, in quanto vigente ed espressione di
violenza contro l’individuo, di assolutismo politico e di intolleranza nei confronti delle idee, che suona come irrevocabile
condanna della Chiesa romana.
L’estradizione a Roma
Il processo e la relativa documentazione ci forniscono un interessante quadro sociologico della realtà carceraria dell’epoca,
ma, soprattutto, delle dinamiche intercorrenti tra i vari personaggi: denunziante e accusato, tribunale e imputato, testimoni,
ecc. In particolare, emerge una dinamica tipica dei processi penali: quella relativa alla competenza di giudizio. L’Inquisizione
veneziana sosteneva la propria, ma quella romana pretendeva l’estradizione dell’imputato in quanto pubblico e convinto
eresiarca, suddito napoletano, religioso regolare e, soprattutto, già inquisito in Napoli e Roma. Il Nunzio Apostolico Ludovico
Taverna motivò con tali argomentazioni il desiderio di Papa Clemente VIII di processare il Bruno a Roma. Tuttavia, come
scrive Firpo: «Quello che… faceva difetto nel discorso del nunzio era la sincerità, poiché il Bruno non era stato per nulla
convinto di eresia dall’unico teste e poteva semmai dirsi parzialmente confesso; inoltre i giovanili processi di Napoli e di
Roma riguardavano l’Ordine domenicano e non già l’Inquisizione…» (L. Firpo, Il processo di Giordano Bruno, Salerno Editrice,
Roma, 1993, p. 38) In ogni caso, non fu facile sottrarre a Venezia la giurisdizione: era un problema di prestigio e di sovranità
politica della Serenissima. Infatti, mentre in un primo tempo il diniego fu deciso e apparentemente irremovibile,
successivamente e solo dopo aver riconosciuto l’eccezionalità del caso, che in nulla intaccava l’autonomia di Venezia, si
convenne di concedere quanto richiesto da «Sua Santità come segno della continuata prontezza della Repubblica in farle
cosa grata». (L. Firpo, Il processo di Giordano Bruno, p. 212) Le ragioni di Stato erano salve sia sotto il profilo della sovranità
della giurisdizione veneta che sotto quello dei buoni rapporti con la Santa Sede, ma i diritti dell’imputato erano stati
decisamente dimenticati e, comunque, subordinati a ben più rilevanti interessi di natura politica.
Voleva discutere con il Pontefice
È possibile interrogarsi intorno alle motivazioni che resero il Santo Padre (detto con ironia) tanto ansioso di condurre la causa
di Giordano Bruno sotto il proprio potere. Del resto, lo stesso filosofo nolano si illudeva di poter ragionare, su un piano di
parità, con il Pontefice intorno ai principali temi di filosofia, di teologia e di religione. Forse, proprio questa illusione di poter
avere un dialogo sincero con il massimo vertice della Chiesa Cattolica, dialogo dal quale avrebbe potuto scaturire una
profonda riforma dal di dentro del Cristianesimo, una sua radicale sdogmatizzazione e razionalizzazione, condusse Bruno in
Italia dopo il suo lungo peregrinare nei vari Stati europei. «Nella propria filosofia il Nolano era venuto riconoscendo sempre
più distintamente un valore etico-sociale, una significazione di annunzio evangelico e di universale rigenerazione;
l’insegnamento diveniva predicazione e apostolato, e la sua opera di rinnovatore della scienza – tollerata, se non applaudita,
in Germania – si espandeva in un’azione di riforma religiosa, che le Chiese protestanti mostravano di reprimere con
intransigenza non meno rigorosa di quella che lo stesso impulso avrebbe trovato in un paese cattolico. La religione che il
Bruno propugna è una religione intellettualistica, naturalistica, semplificata, spoglia di dogmatismi, al fine di sgombrare il
terreno da ogni appiglio alle disquisizioni e alle eresie; un deismo fondato sulla carità concorde degli uomini, che più nulla ha
di comune con la dottrina rivelata del Cristianesimo. » (L. Firpo, Il processo di Giordano Bruno, p. 10) Come poteva sperare
Bruno nella benevolenza e nell’onestà intellettuale di un Pontefice e di una Chiesa ormai completamente immersa negli
interessi politici terreni, piuttosto che nella ricerca religiosa del trascendente? La domanda non ha facile risposta, entrano
sicuramente in gioco le illusioni e la presunzione personale del filosofo, ma soprattutto appare prepotentemente quella
profonda e indomabile fede del Bruno nell’universalità del Divino. Quella stessa fede che gli fece gridare contro i suoi giudici
la famosa frase, ormai dimostrata non leggendaria, ma storica: «Forse con maggior timore pronunciate contro di me la
sentenza, di quanto ne provi io nel riceverla.»
Libera ricerca - non eresia
Giordano Bruno non si reputava eretico; egli sapeva di aver cercato con onestà intellettuale la verità religiosa, credeva in una
Divinità panteistica che permea tutto e tutti, lui compreso, e non riusciva a comprendere per quale motivo la Chiesa Cattolica
non si comportasse con la medesima onestà e impedisse la libera ricerca di Dio. «Si genera in lui la persuasione di essere
vittima di una congiura di teologi che vogliono far passare per errore quello che tale non è, o almeno mai fu definito, ed egli
sente che l’opinione sua vale la loro e non vuole accettare la sentenza; nega perciò di aver mai sostenuto eresie, non
riferendosi insensatamente alla massa delle accuse del processo, ma al ristretto elenco di tesi filosofiche condannate, e
rifiuta di rinnegarle non per ostinazione assoluta, ma per non soggiacere a quello che gli pare un sopruso; si appella con gli
ultimi memoriali al Papa, sperando che Clemente VIII potesse intervenire, giudice imparziale, in una disputa nella quale
Giordano vede se stesso e i membri del tribunale in qualità di contendenti, eguali affatto per autorità e dignità.» (L. Firpo, Il
processo di Giordano Bruno, pp. 110-111) Il Nolano si propone come paladino della libera ricerca individuale in materia
filosofico- religiosa e spera nel Papa come vero e imparziale garante di Dio in terra, come sacerdote di una religione senza
interessi terreni. Mai errore fu più fatale ad un uomo! Egli non si avvide di non avere di fronte una religione con interessi
puramente trascendenti, ma un vero e proprio Stato votato all’egemonia politica nel mondo. Il tribunale, nel quale discuteva la
propria posizione filosofica, il proprio credo religioso e nel quale riceveva contestazioni, proposizioni da abiurare e a sua
volta presentava memoriali, rifiutava pentimenti e ritrattazioni, non era né l’università di Oxford né quella di Wittenberg, ma
semplicemente l’Inquisizione, ossia uno strumento mondano di controllo, condizionamento e repressione dei sudditi e del
loro pensiero. Bruno viene macinato lentamente nell’arco di quasi dieci anni da questa macchina mostruosa presieduta dal
Papa dei cattolici. Non solo Clemente VIII non è garante di libertà, ma, al contrario, è il capo politico di uno Stato e di un
partito votati al mantenimento della realtà sociale esistente all’epoca nella penisola italiana e nel mondo cattolico, è il custode
di un’ortodossia religiosa che non intende lasciare nessuno spazio alla libera ricerca individuale, è il rappresentante di una
casta sacerdotale che si è organizzata e istituzionalizzata per meglio tutelare i propri privilegi e il proprio potere su altri uomini
e sulle loro idee.
Condanna della Chiesa-Stato, non della religione
In questo quadro risulta chiaro l’errore di Bruno; non era un errore di natura teologica, ma di natura socio-politica. Egli
credeva di aver di fronte una religione e invece aveva di fronte uno Stato. Perché dichiararsi eretico se non si riconosce alla
religione istituzionalizzata il diritto di definire un vero ortodosso? Perché sottomettersi a chi non possiede nessun diritto
superiore a quello proprio di qualsiasi uomo di definizione della verità? Perché pentirsi se l’errore è opinabile? In breve, il
Nolano contestava alla Chiesa il potere di definire l’errore filosofico-religioso e quindi la legittimità di formulare una qualsiasi
condanna. E Bruno avrebbe avuto ragione se effettivamente si fosse trovato di fronte ad una vera religione alla ricerca di Dio
e tollerante delle ricerche esistenziali di tutti i figli di questo Dio, ma per sua sfortuna egli invece cadde nella trappola tesa da
uno Stato teocratico, organizzato e agguerrito per conseguire l’egemonia sul mondo, che, come ogni vero Stato, utilizza il
proprio ordinamento giuridico e i propri tribunali per legittimare gli atti di forza che compie. La legittimità della condanna del
Bruno, dunque, proviene non dalla presunta verità, detenuta da una qualche religione e, in particolare, da quella cattolica, ma
dall’ordinamento giuridico intollerante di una Chiesa-Stato, quella romana, che intese imporre il proprio credo ideologico
anche con la forza. Firpo riconosce, come si è già detto, a questa Chiesa-Stato l’applicazione nel processo a Bruno
dell’ordinamento giuridico vigente all’epoca nei processi inquisitoriali e, in tale modo sembra voler legittimare formalmente
l’operato di tale tribunale. Ma ciò che è in discussione nel nostro caso non è la legittimità giuridica di un provvedimento
statale, bensì la legittimità religiosa di un comportamento contro la libertà dell’uomo e delle sue idee. Forse, e ne dubito, la
Chiesa potrà essere assolta, in quanto Stato, dall’avere ucciso Giordano Bruno, ma sicuramente dovrà essere condannata
come religione per questo delitto.
La Chiesa atea…
Il timore che Bruno legge nei volti dei suoi giudici mentre pronunziano la sua sentenza di morte probabilmente non è politico -
la Chiesa era allora trionfante e potente -, ma soprattutto religioso. Non poteva sfuggire a quei giudici che il loro potere di
condanna era meramente terreno e che il prevalere della cristallizzazione istituzionale e del fine politico nella Chiesa Cattolica
non avrebbe potuto produrre altro che la fine del sentimento religioso, la fine, appunto, del Cattolicesimo come religione.
Forse, una religione rivelata può anche presumere di detenere la verità, ma certamente tale possesso non può giustificare la
soppressione fisica di colui che a sua volta cerca la propria strada verso la divinità. Non si tratta, in questo caso, di semplice
carenza di tolleranza laica, ma di vera e propria contraddizione sul piano religioso. La scintilla divina che Giordano Bruno
presuppone esistente in ciascuno di noi viene, da quei giudici, negata e Dio ridotto all’idolo, al totem legittimante i
comportamenti della Chiesa-Stato. Bruno non teme la morte sul rogo perché crede «che se ne sarebbe la sua anima ascesa
con quel fumo a ricongiungersi all’anima universale». (L. Firpo, Il processo di Giordano Bruno, p. 104) Quei giudici, quella
Chiesa, invece, temono la morte poiché non credono né in un Dio universale, né nell’anima individuale, espressione di questo
Dio; temono la morte perché sono profondamente atei e sanno che la loro sentenza manifesta, svela al mondo questo loro
ateismo, questa loro profonda, radicata e intollerante sfiducia nella divinità e nell’uomo libero.
Morris Ghezzi

Ricordando il 17 febbraio 1600

Processo, condanna e morte di Giordano Bruno: sintesi dei documenti

1. La denuncia a Venezia

Giordano Bruno viene denunciato all’Inquisitore di Venezia il 23 maggio 1592 da Giovanni Mocenigo che l’ospitava in casa sua. Di cosa

lo accusa Mocenigo? Di aver detto, tra le altre cose:

-          che è bestemia grande quella dei cattolici il dire che il pane si transustanzii in Carne;

-          di essere nemico della Messa;

-          che niuna religione gi piace;

-          che non vi è distinzione in Dio di persone, e che questo sarebbe imperfezion in Dio;

-          che il mondo è eterno, e che sono infiniti mondi, e che Dio ne fa infiniti continuamente;

-          che Cristo faceva miracoli apparenti e ch’era un mago;

-          che Cristo mostrò di morir mal volentieri;

-          che le anime create per opera della natura passano d’un animale in un altro;

-          che la Vergine non può aver parturito;

-          che la nostra fede cattolica è piena tutta di bestemie contra la maestà di Dio;

-          che bisognerebbe levar la disputa e le entrate alli frati perché imbratano il mondo;

-          che il non fare ad altri quello che non vorressimo che fosse fatto a noi basta per ben vivere;

-          che se n’aride di tutti gli altri peccati;

-          che San Tomaso e tutti li dottori non hanno saputo niente a par di lui;

-          di aver avuto altre volte in Roma querelle a l’inquisizione di cento e trenta articuli, e che se ne fugì mentre era presentato,

perché fu imputato d’aver gettato in Tevere chi l’ccusò.

Mocenigo aggiungeva nella sua denuncia che cose simili avrebbero potuto confermare il libraio Ciotto e il libraio Bertano, il qual Bertano

mi ha parlato particolarmente di lui, e mi disse ch’era nemico di Cristo e della nostra fede, e che gli aveva sentito a dire di gran eresie.

In altre due denunce, del 25 e 29 maggio dello stesso anno, Mocenigo si preoccupò di far capire che si era reso conto della “malvagità”

di Bruno solo dopo averlo ospitato in casa e che, quando se ne era reso conto, era subito corso a denunciarlo.

I due librai, citati da Mocenigo, non ne confermarono le accuse. Ciotto (Giovan Battista Ciotti) dichiarò che, recatosi a Francoforte (alla

fiera di Pasqua), aveva ricevuto da Mocenigo l’incarico di indagare se Bruno, che aveva insegnato e scritto lì, era persona affidabile circa

la sua promessa di insegnargli l’arte della memoria e che a Francoforte aveva sentito dire che sì, Bruno faceva ben professione de

memoria e d’aver altri secreti simili, ma che non s’era mai visto ch’egli avesse fatto opera con alcuno e che, inoltre, a Francoforte è

tenuto per omo che non abbi alcuna religione. Quanto a Bertano (il libraio Giacomo Brictano) dichiarò Con meco il detto Giordano non

ha detto, né mi son accorto de cosa alcuna che non sia da cristiano.

Interrogato più volte, Bruno fornì particolari sulla sua vita e su alcune sue opere, badando a sostenere che ove sue affermazioni

potessero apparire eretiche e in contrasto con la retta religione, queste dovevano essere intese come formulate sul piano filosofico
(dove, peraltro, egli riprendeva tesi di altri filosofi) e non sul piano della fede (nei riguardi del quale egli era “allineato” con gli

insegnamenti della Chiesa). Anzi aggiunse: Può esser che io in tanto corso di tempo abbi ancor errato e deviato dalla Santa Chiesa in

altre maniere di quelle che ho esposto (…) Ho confessato e confesso ora li errori mie prontamente, e son qui nelle mani delle

SS.VV.ill.me per ricever remedio alla mia salute (…) Domando umilmente perdono a S.r Dio ed alle SS.VV.ill.me de tutti li errori da me

commessi; e son qui pronto per ossequiare quanto dalla loro prudenzia sarà deliberato e si giudicarà espediente all’anima mia.

1. Processo e condanna a Roma

A Venezia non si trovano elementi certi per accusare di eresia Bruno, ma il suo caso viene intanto seguito dall’Inquisizione Romana che

cerca di spostarne il processo da Venezia a Roma e ci riesce solo dopo un lungo braccio di ferro con le autorità veneziane, che si

oppongono alla richiesta se non altro per rivendicare la propria autonomia. Il 27 febbraio 1593 Bruno viene rinchiuso a Roma nel

Palazzo del Sant’Uffizio. Ha inizio un processo che si trascina per otto anni, non riuscendo gli accusatori a provare con facilità le loro

accuse, anche perché non sono in possesso di tutti gli scritti di Giordano Bruno pubblicati in diversi Paesi europei.

Delle singole tappe del processo non si hanno documenti diretti, ma possono essere ricostruite dalla sentenza finale, datata 8 febbraio

1600.

La sentenza ricorda a fra’ Giordano

che era stato denunziato nel S.to Offizio di Venezia già otto anni sono: Che tu avevi detto ch’era biastiema grande il dire che il pane si

transustanzii in carne etc.;

che otto proposizioni gli erano state presentate il 18 gennaio 1599 nella Congregazione dei Sig.ri Prelati nel Sant’Offizio e che gli erano

stati assegnati sei giorni perché decidesse se abiurarle o meno;

che il 25 gennaio 1599 egli aveva risposto di essere pronto ad abiurare quelle proposizioni se la Sede Apostolica e la Santità di Nostro

Signore  (= il Papa)  avevano dette proposizioni come definitivamente eretiche, o che Sua Santità le conoscesse per tali o per il Spirito

Santo le diffinisca per tali;

che nella stessa occasione aveva consegnato una scrittura indirizzata a Sua Santità ed a noi, quale (come dicesti) concerneva la tua

deffensione;

che il 4 febbraio 1599 fu deciso che gli si proponessero di nuovo quelle proposizioni (cosa che fu fatta il 15 febbraio) e che,

riconoscendole per eretiche e volendole abiurare, tu dovessi essere ricevuto a penitenza, altrimenti, che te si prefiggesse il termine di

40 giorni a pentirti;

che egli aveva dichiarato di riconoscere dette otto proposizioni per eretiche ed essere pronto per detestarle ed abiurarle in loco e tempo

che piacerà al S.to Offizio, e non solo le dette otto proposizioni, ma anco che eri apparecchiato a fare ogni obedenzia circa l’altre che ti

erano apposte;

che poi, però, aveva consegnato altre scritture (…) dirette alla Santità di N.o Sig.re ed a Noi, dalle quali apparisce manifestamente che

perseveravi pertinacemente negli sudetti errori, sicché il 10 settembre 1599 gli si fissò un termine di 40 giorni per pentirsi, doppo il

quale si saria proceduto contra di te, come ordinano e commandano li sacri Canoni;

che – continuando Bruno nella sua ostinazione – gli furono mandati i padri Ippolito Maria Beccaria e Paolo Isaresio della Mirandola, l’uno

Generale, l’altro procuratoredell’ordine di detta tua religione(= dell’ordine dei domenicani di cui aveva fatto parte Bruno), acciò ti

ammonissero e persuadessero a riconoscere questi tuoi gravissimi errori e eresie;

che però Bruno aveva sempre perseverato pertinacemente ed ostinatamente nelle sue oppinioni erronee ed eretiche.

Per il che essendo stato visto e considerato il processo contra di te formato e le confessioni delle tuoi errori ed eresie con pertinacia ed

ostinazione, benché tu neghi essere tali, tutte le altre cose da vedersi et considerarsi: proposta prima la tua causa nella Congregazione
nostra generale, fatta avanti la Santità di N. Signore sotto il dì 20 di Gennaro prossimo passato, e quella votata e resoluta, siamo

venuti all’infrascritta sentenzia.

Nella sentenza, dunque, dopo l’invocazione del nome di Nostro Signore Gesù Cristo e della sua gloriosissima Madre sempre Vergine

Maria, i Cardinali Inquisitori concludono: dicemo, pronunziamo, sentenziamo e dichiaramo te fra Giordano Bruno predetto essere

eretico impenitente pertinace ed ostinato, e perciò essere incorso in tutte le censure ecclesiastiche e pene dalli sacri canoni, leggi e

costituzioni così generali come particolari a tali eretici confessi, impenitenti, pertinaci ed ostinati imposte.

Conseguentemente, Bruno deve esser degradato (..) da tutti gli ordini ecclesiastici maggiori e minori nelli quali sei costituito;   deve

essere scacciato dal foro nostro ecclesiastico e dalla nostra santa ed immaculata Chiesa, della cui misericordia ti sei reso indegno;  deve

essere consegnato alla Corte secolare, sì come ti rilasciamo alla Corte di voi Mons. Governatore di Roma qui presente, per punirti delle

debite pene.

E qui il linguaggio “burocratico” della sentenza finisce con l’apparire ipocrita, perché Bruno viene consegnato al braccio secolare per la

sua condanna a morte e questo gesto viene accompagnato dalla formula pregandolo (= il Governatore di Roma) però efficacemente

che voglia mitigare il rigore delle leggi circa la pena della tua persona, che sia senza pericolo di morte o mutilazione di membro.

All’esclusione di Bruno dall’ordine domenicano e dalla Chiesa e alla sua condanna a morte (mascherata sotto un formula ipocrita) si

aggiunge la condanna dei suoi scritti:Di più condanniamo, riprohamo e proibemo tutti gli sopradetti ed altri tuoi libri e scritti, come

eretici ed erronei e continenti molte eresie ed errori, ordinando che tutti quelli che sin ora si son avuti, e per l’avvenire verranno in

mano del S.to Officio, siano pubblicamente guasti ed abbrugiati nella piazza di S. Pietro, avanti le scale, e come tali che siano posti

nell’Indice de libri proibiti, sì come ordiniamo che si facci.

La sentenza è firmata dai Cardinales generales Inquistores, tra i quali spicca il nome di Roberto Bellarmino, lo stesso che qualche anno

dopo processerà Galilei e che nel 1930 avrebbe avuto da papa Pio XI la triplice glorificazione di beato, di santo e di dottore della Chiesa.

1. Il rifiuto di Bruno di pentirsi

Un verbale della Congregazione dell’Uffizio della Santa Romana e Universale Inquisizione attesta che alla data del 21 dicembre 1599,

Giordano Bruno, visitato in carcere, dichiarava quod non debet nec vult rescipiscere, et non habet quid recsipiscat nec habet materiam

rescipiscendi, et  nescit super quod debet rescipisci (che non deve né vuole pentirsi e non ha di che pentirsi né ha materia di

pentimento, e non sa di che cosa debba pentirsi).

1. Avviso di Roma del 12 febbraio 1600

L’avviso (cioè la comunicazione pubblica al popolo di Roma)del 12 febbraio 1600 lamenta la mancata esecuzione, attesa per quel

giorno, di un domenichino da Nola, eretico ostinatissimo (…) Questo frate dicono sia stato due anni a Genevra; poi passò a legere nello

Studio di Tolosa, e di poi in Lione, e di là in Inghilterra, dove dicono non piacessono punto le sue opinioni; e però se ne passò in

Norimbergh, e di là venendosene in Italia, fu acchiappato; e dicono in Germania abbia più volte disputato col Card. Bellarmino. Ed

insomma il meschino, s’Iddio noll’aiuta, vuol  morire obstinato ed essere abbruciato vivo.

1. Giornale dell’Arciconfraternita di S. Giovanni Decollato in Roma         

Alle date del 16 e 17 febbraio 1600 risulta registrato l’impegno della Compagnia a seguire l’esecuzione di Giordano, del q. (= quondam,

cioè fu) Giovanni Bruni frate apostata da Nola di Regno  (cioè del Regno di Napoli), eretico impenitente (…) E tanto perseverò nella sua

ostinazione che da ministri di giustizia fu condotto in Campo di fiori, e quivi spogliato nudo e legato a un palo fu bruciato vivo.

1. Avvisi di Roma del 19 febbraio 1600

 Giovedì fu abbrugiato vivo in Campo di Fiore quel frate di S. Domenico, di Nola, eretico pertinace, con la lingua in giova,

per le bruttissime parole che diceva, senza voler ascoltare né confortatori né altri.  La “lingua in giova” era una pena inflitta ai

bestemmiatori e consisteva in un chiodo ricurvo ficcato nella lingua.

 Giovedì mattina in Campo di Fiore fu abbruggiato vivo quello scelerato frate domenichino di Nola (…) eretico

ostinatissimo, ed avendo di suo capriccio formati diversi dogmi contro nostra fede, ed in particolare contro la SS. Vergine ed i
Santi, volse ostinatamente morire in quelli lo scelerato; e diceva che moriva martire e volentieri, e che se ne sarebbe la sua

anima ascesa con quel fumo in paradiso. Ma ora egli se ne avede se diceva la verità.

1. Lettera di Kaspar Schopp

In data 17 febbraio 1600 Kaspar Schopp, scrivendo all’amico Conrad Rittershausen, dà notizia dell’esecuzione di Giordano Bruno, dopo

averne sinteticamente raccontato la vita e le eresie e la condanna definitiva da parte del Sant’Uffizio dell’Inquisizione:

(…) fuit Brunus ille in locum Inquisitionis introductus; ibique genibus flexis sententiam contra se pronunciari audiit (…) Haec cum ita

essent peracta, nihil ille respondit aliud, nisi minabundus: Maiori forsan cum timore sententiam in me fertis quam ego accipiam (…)

Hodie igitur ad rogume sive piram deductus, cum Salvatoris crucifixi imago ei morituro ostenderetur, torvo eam vultu aspernatus

reiecit; sicque ustulatus misere periit, renunciaturus, credo, in reliquis illis, quos finxit, mundis, quonam pacto homines blasphemi et

impii a Romanis tractari soleant. Hic itaque, mi Rittershusi, modus est, quo contra homines, imo monstra huiusmodi a nobis procedi

solet.

TRADUZIONE (…) fu introdotto quel Bruno nel palazzo dell’Inquisizione, e lì ascoltò in ginocchi la sentenza contro di lui (…) Compiuto

ciò, non rispose nient’altro se non, con tono minaccioso, “Forse voi pronunciate la sentenza contro di me con più paura di quanta io ne

abbia nel riceverla (…) Oggi dunque condotto al rogo o pira, poiché a lui che stava per morire veniva mostrata un’immagine del

Salvatore crocifisso, fissandola con volto torvo la respinse; e così morì bruciato miseramente, per andare a riferire, credo, in quegli altri

mondi che s’era immaginato come i Romani siano soliti trattare gli uomini blasfemi ed empi. Qui e così, mio Rittershausen, è il modo

con cui si suole procedere da parte nostra (= da noi cattolici) contro uomini, anzi contro mostri di questa specie

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