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Archeologia Misteriosa

I Popoli del Mito:


I Titani Un tunnel sotto il Pacifico
La Civiltà Ipogea
Il mistero di Tule e gli Iperborei
Il popolo di Horakthi
Gli adoratori del cielo
L'Ordine del serpente

I Titani, un tunnel sotto il Pacifico

"Se gli Spagnoli, entrando a Cuzco, non avessero agito con tanta crudeltà, trucidando Atahualpa,
chissà quante navi sarebbero state necessarie per trasportare in Spagna tutti quei tesori che ora
giacciono nelle viscere della Terra e che forse vi rimarranno per sempre, poiché coloro che li
nascosero sono morti senza rivelare il segreto".
Così scrisse il sacerdote-soldato Cieza de Leon pochi anni dopo l'assassinio dell'ultimo imperatore
inca ed i massacri compiuti da Pizarro e dalle sue orde. E con piena ragione, poiché gli avventurieri
iberici, accecati dalla loro brama di ricchezze, agirono proprio nel modo meno adatto a soddisfarla.
Pizarro fece prigioniero Atahualpa e dichiarò che gli avrebbe reso la libertà solo se gli fossero stati
consegnati tutti i tesori degli Inca. Prima di prendere una decisione, la sposa del sovrano consultò
l'oracolo solare e, saputo che il coniuge sarebbe comunque morto, si suicidò, dopo aver ordinato che
le ricchezze fossero nascoste.
Dove? "In gallerie più sicure che fortezze - ci dice l'archeologo inglese Harold Wilkins, - scavate
nel cuore delle montagne e sigillate da misteriosi geroglifici che offrono l' "Apriti sesamo!" e di cui
solo un inca per ogni generazione conosce il significato; in sotterranei costruiti migliaia d'anni or
sono da una civilissima razza scomparsa".
L'ipotesi è attendibile: sotterranei del genere sono numerosissimi, ma non solo nel territorio inca. Il
più noto è tuttavia costituito da una rete di gallerie che congiungerebbero Lima a Cuzco, l'antica
capitale del Perù, petr poi continuare, volgendo a sud-est, fino al confine boliviano. Secondo antichi
documenti, il tunnel ospiterebbe una ricchissima tomba reale.
A parte il fascino veniale che esercitano, quelle gallerie rappresentano un affascinante mistero
archeologico. Gli studiosi che se ne sono occupati si dimostrano concordi nell'affermare che i
sotterranei non possono esser stati scavati dagli Inca: questi ultimi li avrebbero sfruttati
conoscendone l'esistenza, ma non l'origine.
Curioso è il fatto che quasi tutto il nostro pianeta è solcato da tunnel del genere, sui quali dovremo
ancora soffermarci. Ne troviamo, oltre che nell'America meridionale, in California, in Virginia,
nelle Hawaii(dove pare colleghino le diverse isole dell'arcipelago), in Oceania, in Asia, ed anche in
Svezia, in Cecoslovacchia, nelle Baleari, a Malta. Una galleria enorme, esplorata per una
cinquantina di chilometri, unisce la penisola iberica al Marocco, ed è opinione diffusa che attraverso
tale passaggio siano giunte dall'Africa le scimmiette che (uniche nel nostro continente) sono
stanziate nelle vicinanze della famosa rocca.
Le ipotesi vanno da cause naturali, a mio parere inproponibili tanto quanto quelle che
affermerebbero che prima dell'homo sapiens regnavano i Giganti.
Insomma, il pianeta Terra sembra stuzzicare ogni istante la nostra fantasia e offre all'uomo molti
argomenti con cui saziare e far crescere l'inesauribile fame di conoscenza
La Civiltà Ipogea

In tutto il pianeta si ritrovano leggende che riguardano misteriosi mondi sotterranei e vaste reti di
gallerie che collegano paesi anche distanti tra di loro. Ma forse in ogni leggenda c'è un fondo di
realtà. E' con questa idea che ho iniziato una serie di ricerche effettuate nel territorio italiano e in
massima parte in quello dell’antica Etruria, che mi hanno portato ad avanzare la seria ipotesi che
parecchi siti ipogei, ora attribuiti alle civiltà del Centro Italia, fossero solamente riutilizzati dagli
stessi ma, in effetti, fossero stati realizzati da una civiltà tecnologica molto antica che aveva abitato
quella come molte altre zone della penisola e del pianeta.
Dapprima l’ipotesi e in seguito una sempre maggiore certezza, hanno fatto propendere verso la seria
possibilità che parecchi siti ipogei, ora attribuiti alle civiltà del Centro Italia (Etruschi, Falisci e
Romani), fossero solamente riutilizzati dagli stessi a fini cultuali, sepolcrali o come cave ma, in
effetti, fossero stati realizzati da una civiltà tecnologica molto antica che aveva abitato quella come
molte altre zone della penisola e del pianeta.
L’idea che ha stimolato tale tipo di ricerca è giunta quale verifica e approfondimento di quanto a suo
tempo ipotizzato e propugnato dall’ing. Marcello Creti fondatore dell'omonima Fondazione presso
Sutri (VT). Col presente lavoro si è cercato di proseguire ed approfondire la sua idea iniziale
cercando di completarla con altri dati dandogli in tal modo una valenza oggettiva e scientifica.
Analizzando attentamente e senza preconcetti i siti che verranno esaminati nel corso del presente
lavoro, si noterà come un determinato tipo di tipologia di scavo e di uso siano difficilmente
attribuibili ai popoli storici che hanno abitato quelle aree.
Un’ipotesi, anche se può sembrare azzardata, deve essere portata avanti se si adatta ad una
spiegazione oggettiva degli insiemi esaminati e finché non si scontri con l’oggettività dei fatti,
anche se non si colloca in quanto ufficialmente acquisito.
La teoria di una civiltà tecnologica che ha preceduta la nostra e che ha dato le basi alla nostra civiltà
ha le sue radici nel mito di Atlantide, ma anche su miti e molteplici fonti che narrano di diverse
antiche civiltà che hanno popolato il nostro pianeta, in massima parte misconosciute dalla scienza
ufficiale.
Questa Civiltà Ipogea avrebbe preceduto la nostra di diversi millenni e, in base le ricerche effettuate
danno adito a pensare che un tale tipo di civilizzazione sia realmente esistita sulla Terra, dando vita
al mito degli dei dell’antichità.
Diverse e peculiari sono le caratteristiche che possono distinguere questo tipo di Civiltà dalle
popolazioni storiche e fanno soprattutto riferimento alla tipologia costruttiva dei siti ipogei.
Tali siti si sviluppano anche per parecchi chilometri nel sottosuolo di molte parti del pianeta,
andando a formare vaste e spesso intricate reti di gallerie e cunicoli, intervallati da ampie stanze a
saloni sotterranei. Molti riconosceranno in questa descrizione quella rete di gallerie che oggi è nota
con il nome di catacombe ma la cui origine, effettivamente, risale a molti millenni prima e che sono
state solo "riusate" dai popoli storici e quindi a loro erroneamente attribuite. Fra queste anche la rete
di gallerie, attualmente famosa per la cronaca, in cui si sarebbero rifugiati i Talebani di Bin Laden,
anche queste erroneamente attribuite ad epoca moderna ma effettivamente molto più antiche e solo
riutilizzate e riadattate ai loro scopi.

LE PROVE ARCHEOLOGICHE
La prova si può trovare nel tipo di lavorazione di tali siti che non è compatitile con la tecnologia
nota in uso alle popolazioni storiche cui sono attribuiti. In tali ipogei si possono trovare delle
caratteristiche lavorazioni che sono loro peculiari.
 Le nicchie, presenti numerose in questi siti hanno forme e dimensioni diverse, anche se la
gran parte si presentano di forma semicircolare. Questo è un tipo di scavo che, secondo
l'archeologia ufficiale, è caratteristico dei siti catacombali ed è un arco semicircolare, vario
per dimensioni, chiamato "arcosolio".
L'origine di tale tipo di nicchia viene
normalmente datata al II o III secolo
d.C. e la sua utilizzazione quale
particolare sepoltura dei siti cristiani.

Questa attribuzione, come


erroneamente spesso avviene, è
stata data in base ai reperti in esse
trovati che quindi fanno coincidere
la data di utilizzo con quella di
realizzazione, non considerando il
fatto che l'utilizzazione può essere anche successiva alla realizzazione. Non si spiega
altrimenti la presenza di fatture del tutto simili in aree attribuite alla civiltà etrusca in epoche
risalenti anche a mille anni prima. Ma si trovano anche in altre parti del mondo, in siti
sotterranei con caratteristiche identiche, e sempre erroneamente attribuite alle popolazioni
stanziali della zona.

 I passanti sono l'altra peculiarità. Essi, costituiti da "colonnine" ricavate nella parete, sono
spesso collegati a
delle nicchie .
Un'ovvia deduzione
porta ad ipotizzare
che tali manufatti
siano tra loro
collegati. Entro il
passante doveva
passare
naturalmente
qualcosa di
flessibile collegato
alla nicchia che, a
questo punto,
doveva servire
come alloggiamento
di un qualche cosa
di servizio. A volte
se ne possono trovare sulle pareti, accanto a tracce di scavo regolari e di andamento
circolare. Questo "qualcosa di flessibile" nell'antichità conosciuta poteva essere solo una
corda o qualcosa di simile; ma perché far passare una corda dentro un passante del genere?
Alcuni archeologi hanno ipotizzato che servissero per legare gli animali ma, analizzando la
questione tale teoria non ha alcun senso, principalmente per due motivi. Non avrebbe infatti
senso fare un passante (difficoltoso da realizzare) di tufo per legare un animale che l'avrebbe
facilmente spezzato vista la sua fragilità, mentre un paletto a terra avrebbe più facilmente,
ovviamente e stabilmente assolto alla funzione. Altro controsenso è che troviamo questi
passanti anche a diversi metri di altezza e non ha altrettanto senso legare gli animali a
quell'altezza.

 Caratteristica la
presenza di pozzi di
accesso a gallerie e
camere sotterranee, tutti
eguali per fattura e
dimensione e presenti in
diverse zone attribuite a

popoli ed epoche diverse. Il tipo di lavorazione, identico per tutti e del tutto differente da
quello che può essere eseguito con strumenti manuali, fanno seriamente propendere per un
tipo di lavorazione eseguita con mezzi meccanici tecnologici, del tipo di quelli che oggi
vengono usati per scavare trafori e gallerie. Troviamo così, ad esempio, le stesse tipologie di
scavo a Cerveteri, Ponza e Malta. Tutti comunque simili tra loro e con una tipologia di scavo
stranamente somigliante a quello eseguito tramite fresa meccanica .

Le ricerche effettuate hanno fatto propendere che tale civiltà fosse di un tipo del tutto diverso da
quanto da noi oggi conosciuto, sia dal punto di vista fisico che tecnologico. Diverse ricerche fatte
nel territorio danno adito a pensare che un tale tipo di civilizzazione sia realmente esistita sulla
terra.

LE PROVE TECNOLOGICHE

In tutto il territorio troviamo la presenza di gallerie e cunicoli le


cui pareti sono caratterizzate da un tipo di lavorazione regolare e
costante , ben diversa
da quella che si può
normalmente eseguire
con piccone o
scalpello, che danno
una tipo di scavo del
tutto diverso. Infatti
ogni tipo di strumento
lascia la sua impronta caratteristica nel materiale lavorato, quasi una sorta di sua "impronta
digitale". La regolarità costante della sezione sempre omogenea e la lavorazione somigliano invece
stranamente alle tracce che vengono odiernamente lasciate dalle fresatrici meccaniche per lo scavo
delle gallerie, ma qui ci troviamo in siti che vengono ufficialmente datati ad epoca etrusca o
tuttalpiù romana e queste popolazioni usavano solo piccone e scalpello, chi quando e come avrebbe
quindi eseguito un tale tipo di scavo?
Una delle basi di riferimento dell’Archeologia moderna è che una popolazione ed un’epoca storica
possono essere classificati e datati a seguito della tecnologia e del tipo di manufatti ritrovati.
Seguendo questo criterio è singolare voler attribuire il medesimo tipo di lavorazione a civiltà ed
epoche diverse.
La peculiarità di tali gallerie e cunicoli è che presentano una sezione, per la
maggior parte
ogivale o
semicircolare , con
un tipo di
lavorazione delle
pareti a
"graffiatura". Tale
lavorazione si
presenta sempre
omogenea e costante
per tutto il percorso
dei cunicoli.
L’archeologia ufficiale attribuisce tale tipo
di lavorazione a destinazioni diverse che
possono essere: cava di tufo, fini sepolcrali o grotte scavate per ricovero bestiame o attrezzi. Tali
scavi sarebbero, secondo la versione ufficiale, stati eseguiti con piccone e rifiniti egualmente con
piccone o scalpello e mazzuola.
La risposta dell’Archeologia ufficiale a tale tipo di traccia è infatti che esse sia dovuta alla rifinitura
delle pareti e della volta. Naturalmente non si capisce che senso avrebbe rifinire, ad esempio, le
pareti di una cava di tufo, che sarebbero state dopo poco riusate per asportare il materiale.
Nel continuare a considerare l’ipotesi della cava, non avrebbe neanche senso mantenere una
costante e ben precisa sezione ogivale in quanto, a parte l’inutilità di una tale precisione, la sezione
quadrata è quella che consente comunque un maggior asporto di materiale, e quindi la sezione
ottimale di scavo (la stessa sezione di scavo che troviamo nelle moderne miniere). Altro dato da
considerare è che per le gallerie minori (60 cm. di larghezza)
sarebbe impossibile lavorare ortogonalmente all’asse a causa
della mancanza di spazio per eseguire il lavoro (fig 6).

Le tracce di scavo dovute al piccone le troviamo a Roma (es.


catacombe "ad Decimum -) e in diversi siti catacombali
come, ad esempio, a Naro in Sicilia
, ove è chiara l'imprecisione dello scavo a
seguito dell'attrezzo usato. Il tipo di lavorazione regolare che stiamo considerando, e che si può
oggettivamente riscontrare, uguale per tutti i siti considerati, viene attribuito a destinazione, epoche
e civiltà diverse. Il che risulta anomalo. Una delle basi di riferimento dell’Archeologia moderna è
che una popolazione ed un’epoca storica possono essere classificati e datati a seguito della
tecnologia e del tipo di manufatti ritrovati. Seguendo questo criterio è singolare voler attribuire lo
stesso tipo di lavorazione a civiltà ed epoche diverse.
La lavorazione considerata è invece stranamente molto simile a quella eseguita, in tempi moderni,
per lo scavo di gallerie, tramite fresatrici meccaniche .

Tale tipo di lavorazione lascia un'impronta caratteristica che è costituita da una "graffiatura"
regolare della superficie e dal mantenimento costante e regolare della sezione e tipologia di scavo,
come troviamo anche in queste antiche gallerie, in passato adoperate in parte anche come
catacombe

. Un
tipo di segno ben diverso anche dalle tracce
lasciate non solo dal piccone ma anche
dallo scalpello .
LE TRACCE
In molte località del Lazio e anche in diverse parti nel resto del mondo sono presenti siti ipogei
costituiti da gallerie e camere spesso collegati/e alla
superficie mediante degli stretti pozzi . Il tipo di
lavorazione, identico per tutti e del tutto differente da
quello che può essere eseguito con strumenti manuali,
fanno seriamente propendere per un tipo di lavorazione
eseguita con mezzi meccanici tecnologici, del tipo di
quelli che oggi vengono usati per scavare trafori e
gallerie. Le tracce sono chiaramente quelle lasciate
dall'uso di una fresatrice meccanica, cosa che lascia ben
pochi dubbi nel caso di tracce di scavo "circolari",
traccia che non può essere ottenuta con l’uso di strumenti
manuali. Infatti ogni tipo di strumento lascia la sua
impronta caratteristica nel materiale lavorato, qusi una
sorta di sua "impronta digitale". La regolarità dello scavo,
la costante precisione della sezione ed il senso delle
"graffiature" (ortogonali all’asse) sono chiare tracce di un
intervento di tipo tecnologico, troviamo infatti tracce
identiche nella lavorazione moderna eseguita con
fresatrice meccanica. Alcune tesi "ufficiali" affermano che
tali tracce sono dovute alla "rifinitura" dello scavo. A
queste tesi si possono opporre delle evidenti
controdeduzioni. Nell’eseguire lo scavo di una galleria con
il piccone si segue ovviamente il senso longitudinale,
attaccando la parete perpendicolarmente, a causa di ciò i
segni lasciati da piccone sarebbero longitudinali all’asse
della galleria, mentre qui troviamo delle tracce ortogonali.
La risposta dell’Archeologia ufficiale è che tali tracce (ortogonali) siano dovute alla rifinitura delle
pareti e della volta. Naturalmente non si capisce che senso avrebbe rifinire le pareti di una cava di
tufo, che sarebbero state dopo poco riusate per asportare il materiale. Ben diverso invece è il tipo di
traccia che si trova nei cunicoli scavati nel tufo in epoca romana oppure, nel caso di rifinitura della
parete da parte di malimpeggio si possono notare chiaramente le tracce lasciate dall'uso di finitura
del piccone, costituite da piccole tracce non parallele tra loro.
Nel continuare a considerare l’ipotesi della cava, non avrebbe neanche senso mantenere una
costante e ben precisa sezione ogivale in quanto, a parte l’inutilità di una tale precisione, la sezione
quadrata è quella che consente comunque un maggior asporto di materiale, e quindi la sezione
ottimale di scavo (la stessa sezione di scavo che troviamo nelle moderne miniere). Tale sezione e
tipologia di scavo è verificabile nella "Cloaca maxima" a Roma, dove si vedono chiaramente le
tipiche tracce del piccone sulla volta. Altro dato da considerare è che per le gallerie minori (60 cm.
di larghezza) sarebbe impossibile lavorare ortogonalmente all’asse a causa della mancanza di spazio
per eseguire il lavoro, come già notato in precedenza. Inoltre i romani non erano grandi costruttori
di gallerie 2, come attribuire quindi loro i centinaia di chilometri di scavi nel territorio?
L'archeologia ufficiale comunemente attribuisce la costruzione delle gallerie e dei cunicoli agli
etruschi, che avrebbero realizzato tali scavi allo scopo di rifugiarvisi durante le guerre. A parte le
considerazioni fatte precedentemente per il tipo di lavorazione, non avrebbe alcun senso costruire
per difesa piccole gallerie facilmente accessibili ove ci si sarebbero ben presto trovati intrappolati in
caso di assedio e, altrettanto, non avrebbe senso scavare un rifugio con quella precisione e regolarità
di scavo e sezione.
In conclusione tutte le prove e considerazioni portano ad escludere un tipo di lavorazione manuale
fata da popolazioni storiche, mentre si affaccia prepotentemente un'ipotesi di tipo tecnologico
avanzato, da parte di una civiltà scomparsa durante l'ultima era glaciale.
Nel precedente articolo è stata tracciata l'ipotesi che diversi siti, ora attribuiti a civiltà storiche, siano
invece stati realizzati in precedenza da una civiltà evoluta e solo da essi riutilizzati.
Cercheremo quindi, per quanto possibile, di accertare o perlomeno ipotizzare quale tipo civiltà
abbia prodotto questi siti e quanto tempo fa...

LA LAVORAZIONE
Andando ad esaminare più particolareggiatamente la lavorazione ci troviamo, ad esempio a
necropoli della Banditaccia a Cerveteri, alla presenza di un pozzo (come altri centinaia nel territorio
e migliaia nel mondo), provvisto di pedarole, quindi originariamente ispezionabile o comunque
percorribile, ma per arrivare dove? Sicuramente non è di servizio alle tombe, in quanto non vi
accede e prosegue molto più in profondità, dando sicuramente l'accesso ad ambienti ipogei tuttora
inesplorati.. D'altronde è stato appurato che non era neanche un pozzo per l'acqua. Tali pozzi (stessa
tipologia) sono presenti in quasi tutto il pianeta ed alcuni (es. Cappadocia) sono profondi anche
parecchie decine di metri. Ora, lo scavo di tali pozzi con strumenti manuali di epoca storica non
risulterebbe possibile per vari motivi.
Innanzitutto bisogna considerare la tipologia dello scavo che si presenta come una graffiatura
regolare che scende elicoidalmente in senso orario. Basterebbe questa considerazione per escludere
un intervento manuale con l'uso del piccone. Il senso destrorso della graffiatura potrebbe essere
stato eseguito solo da un operaio mancino e non penso sia accettabile e ragionevole pensare che tale
pozzo, per tutta la sua profondità e gli altri pozzi simili siano stati eseguiti esclusivamente da una
popolazione di mancini! Risulta invece "stranamente" del tutto simile alla tipologia di scavo che
riscontriamo con l'uso di trivellatrici meccaniche.
La stessa ampiezza del pozzo (circa 60 cm.) avrebbe consentito solo ad uno scavatore di eseguire
l'opera, ma per scavare un pozzo sono assolutamente necessarie due cose: aria e luce.
Quando si arriva ad una certa profondità (già dopo 4 o 5 mt.) manca la luce necessaria per lo scavo,
luce che si poteva ottenere solo con l'ausilio di torce le quali però, a causa del ridotto spazio
disponibile, avrebbero solo contribuito a bruciare il poco ossigeno disponibile portando lo scavatore
ad una rapida morte per asfissia. Non si sono inoltre trovate tracce di supporti per torce né tracce di
bruciature sulle pareti, per cui il loro uso (oltre che non accettabile) non è dimostrabile.
Una traccia molto particolare, che sembra confermare l'uso di una qualche apparecchiature
meccanica, la troviamo sulla parete di una
tomba, della stessa necropoli, poco
considerata . Il chiaro andamento circolare di
tale traccia e la regolarità dei solchi, escludono
nel modo più assoluto l'utilizzo del piccone o
dello scalpello, è invece una chiara traccia
lasciata da una macchina provvista di punta
rotante, esattamente lo stesso tipo di segno che
rilasciano le moderne fresatrici.
Ma il sito risale, ufficialmente, tra l'VIII ed il
VI sec. a.C.!
LA DATAZIONE
Ci troviamo spesso di fronte a gallerie e
cunicoli che, stranamente non portano da nessuna parte o che si perdono nel vuoto. Ma a che serve
una galleria? Normalmente si costruisce una galleria per collegamento o per servizio, ma queste
considerate non erano sicuramente di adduzione e non sono neanche di collegamento, almeno
attualmente. Gallerie simili avrebbero senso solo se fossero stati presenti altri ambienti, ora
scomparsi a causa dell'erosione e del rifacimento del sito da parte degli Etruschi.
Facendo riferimento a quest'ultima ipotesi è significativo il cunicolo, che possiamo notare all'inizio
sulla destra del percorso della Via degli
Inferi alla banditaccia , il quale risulta
chiaramente scoperto dalla parete tagliata al
fine di ricavare le tombe rupestri, quindi è
senz'altro antecedente. Altre gallerie
altrettanto anomale sono presenti nel
territorio. Una esemplicativa può essere
quella che si affaccia nel vuoto lungo la
parete di fronte ad Orte facente parte di una
piccola chiesa rupestre.
Tale
galleria
non
avrebbe
alcun senso ad esistere volendola allacciare ad epoca e vicende
storicamente note. Non è adduttrice idrica né ha senso come
collegamento di eventuali ambienti interni (non risulta sia stata
esplorata) con qualche altra zona, visto che si affaccia sul
vuoto. L'unica possibilità a dare senso all'esistenza di tale
cunicolo, è quella che facesse parte di un antico collegamento
ad ambienti che però adesso non esistono più ma che
probabilmente erano presenti nell'area ora occupata dal vallone.
Comincia così ad affacciarsi un'ipotesi di valutazione per la sua
antichità.
Se tale cunicolo era anticamente sotterraneo (come tanti altri
identici per tipologia e che attualmente lo sono), lo era quando
la vallata ancora non esisteva e quindi era occupata dal terreno
che oggi risulta dilavato dai millenni di erosione e cedimenti
che hanno portato alla morfologia attuale del territorio. Tale
genesi geologica del territorio ha cominciato ad attuarsi
quando, circa 50.000 anni fa, hanno smesso di eruttare i vulcani
le cui eruzioni hanno caratterizzato la base sulla quale si è poi
andata a costruire la morfologia che caratterizza l'attuale territorio del centro Italia, è da allora che è
cominciata l'orogenesi del territorio. Siccome attualmente il cunicolo considerato si trova ad una
cinquantina di metri dal fondo del vallone bisogna chiedersi: quanto ci hanno messo la naturale
erosione e dilavamento a scavare il territorio tanto da scoprire in tal modo il cunicolo?
Una valutazione sommaria potrebbe farlo risalire fra i 25.000 ed i 35.000 anni fa.
Una conferma a quanto sopra affermato può venire dall'analisi di un sito molto particolare nei pressi
di Bomarzo.
Qui troviamo una serie di grotte artificiali, ora
aperte verso il vuoto della vallata sottostante.
Tali "grotte" sono molto simili a quelle
normalmente attribuite agli Etruschi per fini
sepolcrali ma hanno delle caratteristiche del
tutto peculiari.
Possiamo notare innanzitutto la caratteristica
che abbiamo già osservato a Civita Castellana:
tali cavità artificiali sono aperte verso il vallone
sottostante e, ipotesi ovvia, è che si siano
scoperti a seguito di erosioni e smottamenti del
terreno. Al che la domanda è la stessa: quanto tempo fa? Tornano anche qui ad emergere
prepotentemente ipotesi pre-storiche.
Notiamo inoltre che la stessa lavorazione del sito è del tutto anomala, presentando anche una
sezione semicircolare , mentre gli
Etruschi costruivano e scavavano in
opera quadrata, per cui l'eventuale
attribuzione di opere simili al popolo
etrusco sarebbe completamente da
rivedere.
LA DESTINAZIONE
Una particolare tipologia è data dal
fatto che sono presenti all'interno dei
"letti" circolari e un letto circolare non
può avere alcuna funzione sepolcrale.
Serviva comunque sicuramente per
alloggiare "qualcosa" di funzionale al
luogo. Notiamo inoltre che la stessa
lavorazione del sito è del tutto
anomala, presentando anche una sezione semicircolare, mentre gli Etruschi costruivano e scavavano
in opera quadrata, per cui l'eventuale attribuzione di opere simili al popolo etrusco sarebbe
completamente da rivedere.
Peculiarità di questo sito è la presenza di numerose "nicchie"
dette colombari. Tali strutture sono molto comuni in parecchi
ipogei in molte zone del mondo, dandogli ogni volta
destinazione, attribuzione e datazione diverse. La loro
utilizzazione, oltre a quella medievale di ricovero per colombi, è
"ufficialmente" quella di contenitori di urne cinerarie, quindi
allacciate a siti sepolcrali. In questo sito non sono mai state
trovate tracce di sepolture per cui è da rivedere la loro
destinazione, lasciando quindi aperta l'ipotesi che anche le altre
migliaia di colombari presenti in tutto il territorio ed il pianeta,
siano solo stati riutilizzati e quindi erroneamente attribuiti.
Senz'altro particolare la presenza di una nicchia a quarto di sfera
la cui funzione a fini sepolcrali
è del tutto da rivedere. In
particolare per la foto
presentata si può evidenziare
come i "colombari" abbiano
forme diverse. Evidentemente
e logicamente la forma di un
contenitore è data in funzione
di ciò che deve contenere e,
nei casi considerati, i "contenitori" finora considerati non
possono ospitare né sarcofagi né alcun altro oggetto cultuale
conosciuto.
Un'importante considerazione può evidenziare l'errore di attribuzione.
ll sito è del tutto simile, praticamente la copia, di un altro sito archeologico presso Vitozza, nel
grossetano. Quest'ultimo, dapprima attribuito ad epoca etrusca, è stato ridatato, a seguito di
ritrovamenti fittili eneolitici, a diverse migliaia di anni prima evidenziando quindi l'erroneità della
metodologia di attribuzione, di cui abbiamo parlato all'inizio. Non è infatti possibile che due siti del
tutto simili tra loro vengano attribuiti a popoli ed epoche diverse, sarebbe solo la prova
inconfutabile, ma mai ammessa, che sono molto più antichi ma solo riutilizzati da civiltà storiche ed
erroneamente loro attribuiti.
Volendo avanzare un'ipotesi conclusiva, trattandosi di siti scavati con ogni probabilità, con mezzi
tecnologici avanzati, tale tipologia serviva ad ospitare qualcosa collegato ad un sito tecnologico
quindi, per quanto eretico possa apparire: macchine!
Questa ipotesi giustificherebbe anche la presenza dei "passanti" che, a questo punto, si potrebbe
ipotizzare che quel "qualcosa di flessibile" collegato alle nicchie avrebbero potuto essere "cavi di
alimentazione" !!!
L'ATTRIBUZIONE
L'archeologia ufficiale non ammettendo la possibilità che altre civiltà attualmente sconosciute
abbiano preceduto i popoli storici, data questi siti in epoche conosciute relativamente recenti
comunque sempre dopo la fine dell'ultima glaciazione.
La metodologia di attribuzione (e quindi indirettamente anche di datazione) si basa sul reperimento
di manufatti (databili storicamente) e, conseguentemente, colloca tali siti archeologici nello stesso
periodo e alla stessa popolazione. Bisogna però considerare il fatto che è' sempre stato uso comune,
da parte dei popoli che hanno riabitato siti precedenti, di recuperare quanto anteriormente lasciato
da chi li ha preceduti, riadattandolo alle loro necessità, ed è proprio per questo che tale metodologia
può presentare delle incongruenze e delle inesattezze.
Bisogna però considerare il fatto che è' sempre stato uso comune, da parte dei popoli che hanno
riabitato siti precedenti, di recuperare quanto anteriormente lasciato da chi li ha preceduti,
riadattandolo alle loro necessità, ed è proprio per questo che tale metodologia può presentare delle
incongruenze e delle inesattezze.
Il fatto che si trovino dei manufatti all'interno di un qualsiasi sito, conoscendo la loro epoca di
appartenenza, non vuole necessariamente dire che chi ha lasciato quei reperti abbia costruito il sito
stesso, può benissimo averlo riusato e riadattato alle proprie esigenze, proprio come facciamo noi
attualmente con edifici antichi. Se tra qualche migliaio di anni gli archeologi del futuro trovassero
in un palazzo del '200 tracce di una abitazione del XX secolo, seguendo il medesimo criterio,
dovrebbe attribuire la costruzione dell'edificio al "Mario Rossi" del XX secolo.
Metodologia più corretta sarebbe invece di paragonare la tipologia costruttiva ed architettonica con
quella delle popolazioni stanziali dell'epoca. Se troviamo un "opus reticulatum" in qualsiasi zona
dell'area mediterranea, possiamo dire con quasi assoluta certezza che è un'opera romana, infatti ogni
epoca e ogni popolo sono caratterizzati da una propria e peculiare produzione artistica ed
architettonica.
Nel'analisi di questi siti ci troviamo invece di fronte all'evidenza di una riutilizzazione da parte delle
popolazioni storiche, questo perché, mentre troviamo la stessa tipologia di scavo con le stesse
strutture di supporto in tutto il mondo, i medesimi siti vengono attribuiti ad epoche, culture e
popolazioni diverse, metodo di attribuzione che va contro quanto sopra sostenuto.
La prova evidente si ha nel confronto tra due siti identici, uno nei pressi di Bomarzo (VT) e l'altro a
Vitozza (GR) dove, mentre il primo è attribuito agli Etruschi il secondo (ripeto identico) è datato al
neolitico.
Questa breve disanima, può far avanzare la concreta ipotesi che tutte le prove e considerazioni
portano ad escludere un tipo di lavorazione manuale fata da popolazioni storiche, mentre si affaccia
prepotentemente un'ipotesi di tipo tecnologico avanzato, da parte di una civiltà scomparsa durante
l'ultima era glaciale. Anche se non son stati trovati resti umani o umanoidi che possano aiutarci con
una certa certezza a capire il tipo di popolazione che ha costruito tali gallerie, possiamo trarne un
idea esaminando le parti "percorribili" di tali siti dato che ogni razza edifica adattando le costruzioni
alle sue le sue caratteristiche fisiche. Le parti percorribili che invito ad esaminare sono in particolari
passaggi costituiti da stretti cunicoli di accesso e percorrimento fruibili con non poche difficoltà da
noi moderni ed anche da popolazioni storiche note in quanto le loro esigue dimensioni, 1,20 mt. di
altezza per 50-60 cm. di larghezza, non consentono un passaggio agevole e, a volte, lo impediscono
totalmente. In pratica per fruire agevolmente di detti passaggi bisognerebbe avere, necessariamente
e logicamente, una corporatura inferiore a quella della sezione dei passaggi stessi, tipo di
corporatura che non appartiene ad alcuna specie nota che abbia vissuto sulla Terra e di cui si siano
trovati i resti ma, stranamente simile, alla tipologia descrittiva di diversi casi di contatti ed
abduction da parte di specie aliene. Si può quindi avanzare l'ipotesi che potrebbero essere queste le
prove che una specie aliena abbia colonizzato il nostro pianeta in un lontano passato?
L'ESTINZIONE
Cosa potrebbe aver portato all'estinzione di questa, per ora, ipotetica civiltà e perché non vi sono
tracce concrete della sua presenza?
Non abbiamo effettivamente notizie di una catastrofe tanto antica (a parte quella che avrebbe
distrutto l'Atlantide tra l'8.000 ed il 10.000 a.C.- rif. Tolmann & Tollmann "Ipotesi dell'impatto
cometario") e che avrebbe potuto portare all'estinzione di una razza tanto avanzata.
Una interessante scoperta, le cui implicazioni potrebbero fare nuova luce su quanto ipotizzato, è
quella riferita nel n. 35 di Nexus (nov. dic. 2001) dal titolo: "Allarme per il pericolo di una
superonda galattica".
Secondo i risultati di questa ricerca è stata scoperta un onda galattica di superenergia che sta
viaggiando verso il sistema solare. Sembra che questa "onda di energia" abbia già presentato i suoi
effetti intorno al 13-14.000 a.C. quando, secondo le tesi ufficiali, l'umanità era ancora in piena età
della pietra. Gli effetti di tale onda energetica si ripercuoterebbero sui campi magnetici e d
energetici della Terra, alterandoli in modo tale che genererebbero sconvolgimenti climatici di
grande portata a livello mondiale, il che avrebbe già portato (per l'epoca passata) ad una grande
estinzione di massa.
Abbiamo parlato di "alterazione di campi energetici e magnetici" e questo comporta anche una forte
interferenza con apparati energetici che, sovraccaricati, esploderebbero andando in tilt. Questo
causerebbe la fine pressoché immediata di ogni tecnologia avanzata che basi il suo sostentamento su
fonti di energia, questo fatto, già di per sé gravissimo, associato ad una catastrofe globale
causerebbe una rapida fine di ogni civiltà tecnologica.
Andando a trarne le conclusioni, se questa antica civiltà, come dimostrato dalla tipologia delle
opere, era di un tipo tecnologico avanzato, avrebbe potuto l'impatto con questa "superonda
galattica" essere la causa della sua fine.

Il mistero di Tule e degli Iperborei

" Tibi serviat ultima Thyle" ( Virgilio,


Georgiche, libro I, 30) Con questo
verso il poeta latino Virgilio
immortalava nella storia non solo le
grandezze del principato di Augusto
ma anche la storia di Tule, la mitica
isola descritta dal navigatore greco
Pitea di Marsiglia.
Pitea di Marsiglia visse durante IV
secolo a.C. ai tempi di Alessandro
Magno o comunque poco dopo.
Questo personaggio fece un viaggio
nel nord Europa e si spinse fino ai
limiti del mondo allora conosciuto,
fino all'isola di Tule. Il navigatore
descrisse il suo viaggio in un libro "
Intorno all'Oceano", che
sfortunatamente è andato perduto.
Buona parte degli eruditi e scienziati dell'antichità non credettero al racconto di Pitea e solo
geografi e matematici come Eratostene ed Ipparco considerarono come veritiero il suo viaggio.
Infatti il navigatore marsigliese aveva per primo osservato il periodo di sei mesi di luce e sei mesi di
buio che è caratteristico delle zone polari e aveva fatto molte rilevazioni di tipo astronomico nelle
zone dell'Europa settentrionale. Queste osservazioni erano state convalidate anche dai calcoli degli
scienziati greci alessandrini, che avevano già raggiunto le conclusioni di Pitea attraverso un calcolo
teorico della posizione degli astri. Tuttavia, molti furono gli oppositori di Pitea e fu forse per questo
che l'opera del navigatore ci è giunta in modo frammentario. Il viaggio di Pitea può essere riassunto
in questo modo: partito da Marsiglia, costeggiò la Francia e la Spagna e oltrepassò lo Stretto di
Gibilterra, evitando la sorveglianza cartaginese. Poi si inoltrò nell'Atlantico e, arrivato in Gran
Bretagna, la circumnavigò, e vi raccolse notizie sulla misteriosa isola di Tule. Sebbene Pitea di
Marsiglia abbia visitato le miniere della Cornovaglia, lo scopo del suo viaggio deve essere stato
principalmente scientifico e solo in minima parte di tipo commerciale. Il grande mistero creatosi
con il viaggio di Pitea è l'identificazione dell'Isola di Tule. Collocata da qualche parte nel nord
Europa, è stata oggetto di molte discussioni. Fino a qualche tempo fa, si riteneva di identificare
l'isola in questione con l'Islanda o con la Groenlandia, ma più recentemente si è pensato di
accostarla all'arcipelago delle isole Orcadi o delle Shetland. Personalmente, ritengo che sia più
giusto identificare l'isola con l'Islanda poichè quando si parla di Tule si fa riferimento a un'isola sola
e non ad un arcipelago. Come già detto in precedenza, l'opera di Pitea è andata perduta e quindi per
cercare riferimenti all'isola di Tule bisogna consultare gli antichi testi che ne hanno parlato. Ecco
cosa dice Plinio il Vecchio nella sua "Storia Naturale" riguardo a Tule.

Libro II, 186-187

" Così succede che, per l'accrescimento variabile delle giornate, a Meroe il
giorno più lungo comprende 12 ore equinoziali e 8/9 d'ora, ma ad Alessandria 14 ore, in Italia 15,
17 in Britannia, dove le chiare notti estive
garantiscono senza incertezze quello che la scienza, del resto, impone di
credere, e cioè che nei giorni del solstizio estivo, quando il sole si accosta di più al polo e la luce fa
un giro più stretto, le terre soggiacenti hanno giorni ininterrotti di sei mesi, e altrettanto lunghe
notti, quando il sole si è ritirato in direzione opposta, verso il solstizio di inverno. Pitea di Marsiglia
scrive che questo accade nell'isola di Tule, che dista dalla Britannia sei giorni di navigazione verso
nord; ma certuni lo attestano per Mona, distante circa 200 miglia dalla città britannica di
Camaloduno."

Libro IV, 104

" A una giornata di navigazione da Tule c'è il mare solidificato, che taluni
chiamano Cronio."

Da questi due brani si può facilmente capire che Tule si trovava molto vicino al Polo Nord. E'
importante il fatto che il mare solidificato (ghiacciato) venga chiamato Cronio, perchè ne " Il volto
della luna "di Plutarco, si fa menzione ad un isola di " Crono" situata nell'Oceano Atlantico:

"Stavo finendo di parlare quando Silla mi interruppe:<< Fermati, Lampria, e


sbarra la porta della tua eloquenza. Senza avvedertene rischi di far arenare
il mito e di sconvolgere il mio dramma, che ha un altro scenario e diverso
sfondo. Io ne sono solo l'attore, ma ricorderò anzitutto che il suo autore
cominciò per noi, se possibile, con una citazione da Omero: "lungi nel mare giace un'isola, Ogigia,"
a cinque giorni di navigazione dalla Britannia in direzione occidente. Più in là si trovano altre isole,
equidistanti tra loro e da questa, di fatto in linea col tramonto estivo. In una di queste, secondo il
racconto degli indigeni, si trova Crono imprigionato da Zeus e accanto a lui risiede l'antico Briareo,
guardiano delle isole e del mare chiamato Cronio. Il grande continente che circonda l'oceano dista
da Ogigia qualcosa come 5000 stadi, un po' meno delle altre isole; vi si giunge navigando a remi
con una traversata resa lenta dal fango scaricato dai fiumi. Questi sgorgano dalla massa continentale
e con le loro alluvioni riempiono a tal punto il mare di terriccio da aver fatto credere che fosse
ghiacciato. [...] Quando ogni trent'anni entra nella costellazione del Toro l'astro di Crono, che noi
chiamiamo Fenonte e loro - a quanto mi disse - Nitturo, essi preparano con largo anticipo un
sacrificio e una missione sul mare.[...] Quanti scampano al mare approdano anzitutto alle isole
esterne, abitate da Greci, e lì hanno modo di osservare il sole su un arco di trenta giorni scomparire
alla vista per meno di un'ora - notte, anche se con tenebra breve, mentre un crepuscolo balugina a
occidente."

Plinio e Plutarco potrebbero parlare della stessa isola. Ma adesso vediamo cosa dice il geografo
Strabone su Thule:

Libro IV, 5,5

( Strabone prima critica Pitea ritenendolo un imbroglione, ma poi dice:)

" A ogni modo, pare che ( Pitea ) abbia dimostrato di sapersi servire correttamente dei principi che
riguardano i fenomeni celesti e la teoria matematica, sostenendo che gli abitanti dei luoghi più
vicini alla zona glaciale soffrono di una totale carenza, o comunque limitatezza di frutti coltivati e di
animali, e che si nutrono di miglio e di erbe o frutti selvatici e radici: quelli che hanno grano e miele
se ne servono anche per farne bevanda; e il grano, poichè il sole non splende mai senza velature, lo
battono in grandi stanze, dopo avervi introdotto i covoni: farlo all'aria aperta è impossibile, per la
mancanza di sole e per le piogge."

Tule non doveva essere sia per la propria posizione geografica che climatica
molto fertile. A mio avviso Thule è da identificarsi con l'Islanda, che secondo quanto dicono gli
"Atlantologi", dovrebbe essere un residuo di Atlantide. E' interessante il mito descritto da Plutarco
che parla di un'isola in cui è prigioniero Crono. Siccome Cronide è definito il mare ghiacciato, il
mito dell'isola di Crono potrebbe essere la rappresentazione allegorica della
condizione attuale di una parte del continente atlantico. Si potrebbe infatti interpretare così: l'isola
di Atlantide ( Crono), dopo un lungo periodo di prosperità ( età di Saturno), venne intrappolata dai
ghiacci, a seguito di
una grande catastrofe ( la stessa catastrofe che fece scomparire la maggior
parte delle isole di Atlantide che si trovavano molto più a sud dell'Islanda). Il mistero di Tule
comunque non finisce qui. Nel nord Europa, secondo gli antichi, viveva una popolazione
leggendaria, che veniva chiamata "Iperborei". Forse gli Iperborei erano gli abitanti dell'isola di
Thule e quindi appartenenti alla stirpe degli abitanti di Atlantide? Tule potrebbe essere l'isola degli
Iperborei descritta da Diododro Siculo? Gli Iperborei potrebbero aver influenzato i pre-celti nella
costruzione dei siti astronomici? Diodoro Siculo nella sua " Biblioteca Storica" ci parla del popolo
degli Iperborei e delle loro usanze, ecco cosa dice:

" Biblioteca storica, Diodoro Siculo, libro II, 47

47. Dal momento che abbiamo riservato una descrizione alle parti dell'Asia
rivolte a nord, crediamo che non sia fuori luogo trattare le storie che si
raccontano a proposito degli Iperborei. In effetti, tra coloro che hanno registrato gli antichi miti,
Ecateo e alcuni altri affermano che nelle regioni poste al di là del paese dei Celti c'è un'isola non più
piccola della Sicilia; essa si troverebbe sotto le Orse e sarebbe abitata dagli Iperborei, così detti
perché‚ si trovano al di là del vento di Borea. Quest'isola sarebbe fertile e produrrebbe ogni tipo di
frutto; inoltre avrebbe un clima eccezionalmente temperato, cosicché‚ produrrebbe due raccolti
all'anno. Raccontano che in essa sia nata Leto: e per questo Apollo vi sarebbe onorato più degli altri
dei; i suoi abitanti sarebbero anzi un po' come dei sacerdoti di Apollo, poiché‚ a questo dio si
inneggia da parte loro ogni giorno con canti continui e gli si tributano onori eccezionali. Sull'isola ci
sarebbe poi uno splendido recinto di Apollo, e un grande tempio adorno di molte offerte, di forma
sferica. Inoltre, ci sarebbe anche una città sacra a questo dio, e dei suoi abitanti la maggior parte
sarebbe costituita da suonatori di cetra, che accompagnandosi con la cetra canterebbero nel tempio
inni al dio, celebrandone le gesta. Gli Iperborei avrebbero una loro lingua peculiare, e sarebbero in
grande familiarità con i Greci, soprattutto con gli Ateniesi e i Delii: avrebbero ereditato questa
tradizione di benevolenza dai tempi antichi. Raccontano poi anche che alcuni Greci siano giunti
presso gli Iperborei, e vi abbiano lasciato splendide offerte con iscrizioni in caratteri greci. Allo
stesso modo anche Abari sarebbe anticamente venuto dagli Iperborei in Grecia, rinnovando la
benevolenza e le relazioni con i Delii. Dicono poi che da quest'isola la luna appaia a pochissima
distanza dalla terra, e con alcuni rilievi quali quelli della terra chiaramente visibili su di essa. Si dice
inoltre che il dio venga nell'isola ogni diciannove anni, periodo in cui giungono a compimento le
rivoluzioni degli astri - e per questo motivo il periodo di diciannove anni viene chiamato dagli
Elleni "anno di Metone". In questa sua apparizione, il dio suonerebbe la cetra e danzerebbe di
continuo ogni notte dall'equinozio di primavera fino al sorgere delle Pleiadi, compiacendosi dei
propri successi. Regnerebbero sulla città e governerebbero il recinto sacro i cosiddetti Boreadi,
discendenti di Borea, e si trasmetterebbero di volta in volta le cariche per discendenza. "
Riguardo ai contatti avuti tra greci ed iperborei, Erodoto ci riferisce alcune notizie nel libro IV (33-
35) che confermano il legame religioso tra il culto di Apollo degli abitanti di Delo e degli Iperborei.
Ovviamente ciò che accomuna questi due popoli è l'interesse comune per l'astronomia, che è
caratteristico delle popolazioni di cultura atlantidea:
" Ma più di tutti ne parlano (degli Iperborei) i Delii, affermando che offerte avvolte in paglia di
grano provenienti dagli Iperborei giungono in Scizia e che dagli Sciti in poi i popoli vicini,
ricevendone uno dopo l'altro, le portano verso occidente assai lontano, fino all'Adriatico, e di là,
mandate innanzi verso sud, primi fra i Greci le ricevono i Dodonei, e da questi scendono al golfo
Maliaco e passano in Eubea, e una città le manda all'altra sino a Caristo, e dopo Caristo viene
lasciata da parte Andro, perché sono i Caristi quelli che la portano a Teno, e i Teni a Delo. Dicono
dunque che in tal guisa queste sacre offerte giungono a Delo, e che la prima volta gli Iperborei
mandarono a portare le offerte due fanciulle, che i Delii dicono si chiamassero Iperoche e Laodice e
che insieme a queste per ragioni di sicurezza gli Iperborei mandarono anche come scorta cinque
cittadini, quelli che ora sono chiamati Perferei e godono in Delo grandi onori. Ma, poiché gli inviati
non tornavano gli Iperborei ritenendo cosa assai grave se fosse sempre dovuto accadere che
inviando dei delegati non li riavessero più indietro, allora, portando ai confini le offerte sacre
avvolte in paglia di grano, le affidarono ai vicini raccomandando loro di mandarli innanzi dal
proprio a un altro popolo. Raccontano che queste offerte giungano a Delo mandate innanzi in tal
modo, e io stesso so che si pratica un rito simile a questo che ora esporrò: le donne tracie e peonie,
quando sacrificano ad Artemide regina, offrono un sacrificio usando paglia di grano. Dunque so che
fanno così, mentre in onore delle fanciulle venute dagli Iperborei e morte a Delo, le giovani e i
giovani delii si recidono le chiome. Le une, tagliandosi prima delle nozze un ricciolo e avvoltolo
intorno a un fuso, lo depongono sulla tomba - la tomba è sulla sinistra per chi entri nell'Artemisio, e
le sorge accanto un olivo-, mentre tutti i ragazzi delii, avvolta una ciocca di capelli attorno a uno
stelo verde, la depongono anch'essi sul tumulo. Esse quindi ricevono tali onori dagli abitanti di
Delo. I Delii stessi poi raccontano che anche Arge e Opi, vergini iperboree, sarebbero giunte a Delo
ancora, prima che Iperoche e Laodice, facendo lo stesso viaggio. Ma aggiungono che queste ultime
sarebbero venute per portare ad Ilizia il tributo che gli Iperborei si erano imposti in compenso del
rapido parto, e che Arge e Opi invece vennero insieme alle divinità stesse; e che a queste vengono
resi onori diversi; per loro le donne raccolgono offerte, invocandone i nomi nell'inno composto da
Olen, poeta di Licia, ed avendoli appresi da esse gli isolani e gli Ioni invocano nei loro inni Opi e
Arge chiamandole a nome e raccogliendo offerte - questo Olen venuto dalla Licia compose gli altri
antichi inni che si cantano a Delo - e usano la cenere delle cosce bruciate sull'altare gettandola sulla
tomba di Opi e Arge. La loro tomba è dietro l'Artemisio, rivolta verso oriente, vicinissima alla sala
da banchetto dei Cei."
Probabilmente questo antico contatto tra delii e iperborei avvenne per il fatto di possedere un culto
in comune. Tale culto potrebbe risalire al periodo atlantideo, quando la Grecia, come si può dedurre
dal "Crizia" di Platone, era un'importante potenza politico - militare.
E' da sottolineare il fatto che gli iperborei di Erodoto, con molta probabilità, sono i discendenti degli
iperborei vissuti al tempo della civiltà atlantidea. Gli iperborei di Erodoto sono stanziati in una zona
imprecisata dell'Europa orientale. Inoltre in Plinio, gli Iperborei sono popolazioni non ben
identificate del nord-est europeo. Secondo l'erudito romano, gli Iperborei sono stanziati oltre i monti
Ripei (Urali) e precisamente molto vicino al polo nord. Lo stesso dice:
" Alle spalle di quei monti (Ripei) e oltre il vento del nord si trova un popolo fortunato - se
dobbiamo crederci! -, cui è stato dato il nome di Iperborei; vivono sino a un'età carica di anni, e
sono rinomati per mitiche meraviglie. Si crede che lì si trovi uno dei poli su cui il cosmo è
imperniato, e lì termini il giro delle stelle; la luce vi durerebbe sei mesi, quando il sole è di faccia;
non però, come dicono gli incompetenti, dall'equinozio primaverile all'autunno. In realtà, questa
gente vede sorgere il sole una volta all'anno, al solstizio estivo, e una volta tramontare, a quello di
inverno. La zona è solatia e di clima felicemente temperato, esente da ogni aria nociva. Le loro
case, boschi e foreste; i culti divini si svolgono singolarmente, o per raggruppamenti; le lotte
intestine sono ignorate, e così pure qualsiasi malattia. La morte viene solo per sazietà di vivere [...]"
Come si può leggere, è un'altra terra felice e prospera. Penso che la descrizione possa in linea
generale (c'è molta fantasia, come nota Plinio)
rappresentare il nord Europa prima dell'ultima glaciazione. Il fatto che, secondo gli antichi storici,
esistesse uno stanziamento umano vicino al polo nord, non può farci pensare altro che né gli
Iperborei "pliniani" né quelli descritti da Diodoro siano gli Iperborei contemporanei ai due scrittori,
ma sono in realtà gli Iperborei "antidiluviani", che probabilmente abitavano anche l'isola di Tule.
Tutto ciò può anche farci pensare che nelle attuali zone circumpolari non dovessero esistere
condizioni climatiche sfavorevoli alla vita nell'epoca descritta dai due autori classici (che io colloco
alla fine dell'ultima glaciazione). Nella letteratura antica vengono fatti molti riferimenti ad isole
situate nell'Atlantico e per quanto riguarda il nostro discorso può venirci in aiuto Eliano che nelle
sue " Storie Varie", cita un brano tratto da Teopompo, il quale parla di un'isola abitata nell'Oceano
Atlantico.

" L'Europa, l'Asia, l'Africa sono isole, circondate dall'Oceano: vi è solo


una terra che si possa chiamare continente, ed è la Meropide, che si trova
al di fuori di questo mondo. La sua grandezza è enorme. Tutti gli animali vi
sono di grande mole, ed anche gli uomini sono alti il doppio ed anche la
durata della loro vita è doppia della nostra. Vi sono grandi e numerose città, con costumi particolari,
e con leggi profondamente diverse dalle nostre.[...]
Gli abitanti di Eusebes (una città della Meropide) vivono in pace e godono
di grandi ricchezze e raccolgono i frutti della terra senza far uso di
aratro e buoi: seminare e lavorare non costano loro fatica. Vivono sempre in
buona salute, e passano il loro tempo in allegria e nei piaceri. La loro
giustizia è superiore ad ogni discussione: anche gli dei amano perciò render loro visita. Gli abitanti
di Machimos (altra città della Meropide) sono molto bellicosi, si trovano sempre in guerra e
tendono a sottomettere le popolazioni confinanti, cosicchè la loro città ha ora il dominio su molti
popoli diversi. Essi sono meno di due milioni[...] Una volta decisero di passare in queste nostre
isole: attraversato l'oceano, con migliaia e migliaia di uomini giunsero presso gli Iperborei. Ma,
avendo saputo che questi erano considerati il popolo più felice tra noi, considerate le loro misere
condizioni di vita, ritennero inutile procedere oltre [...]."

La descrizione dell'Isola di Meropide ci ricorda vagamente la storia di Atlantide di Platone e a mio


avviso questo potrebbe essere uno dei pochi riferimenti ad un'Atlantide precedente alla distruzione
finale e che è nel suo periodo di espansione. Probabilmente questi miti e storie che ho collegato
insieme si possono riunire in questo modo. Atlantide nel suo periodo di espansione, conquista la
terra degli Iperborei (probabilmente l'antica popolazione degli Atlantidei è stata a sua volta
conquistata culturalmente da quella più evoluta degli Iperborei) e rende questi ultimi suoi sudditi.
Tule, che forse all'epoca era molto più estesa e collegata con all'isola di Atlantide divenne parte
dell'Impero Atlantideo e rimase in questa condizione fino alla catastrofe del 9.500 a.C.circa. Il clima
cambiò e le zone del nord Europa divennero fredde ed inospitali, provocando l'estinzione dei
mammut. Con questi miti la storia di Atlantide diventa più chiara e comprensibile e l'isola di
Poseidone è sempre più vicina.

Il popolo di Horakhti

Una catastrofe cosmica avvenuta 20.000 anni fa sembra unire la Terra al pianeta rosso. La piana di
Giza è il custode millenario che detiene i segreti della razza umana, la cui genesi dimora nelle
profondità stellari.
Marte, pianeta silenzioso ai confini dello spazio, reca con sé il mistero delle sue origini. Nel sistema
solare è l'unico globo simile alla Terra, schiacciato ai poli, con calotte ghiacciate, e rigonfio
all'equatore. L'astronomo italiano Giovanni Schiaparelli, osservando con il telescopio la superficie
del pianeta, nel 1877, individuò una serie di linee ondulate, da lui definiti canali, che una volta
erano sicuramente corsi d'acqua, fiumi, mari e oceani.
Inoltre montagne, valli, deserti e vulcani, fotografati nel corso di numerose missioni spaziali, uniti
ad un clima mite e a un'atmosfera gradevole, rendevano Marte un paradiso lussureggiante. Un
ecosistema con i requisiti ideali per lo sviluppo biologico.
La scienza moderna ammette che forme di vita primordiali, ma non intelligenti abbiano potuto
abitare il pianeta. Un enigma sempre più intricato sembra, però, contraddire un simile scenario. Nel
1976 la missione Viking trasmise al centro di controllo NASA, immagini di enormi crateri e
scarpate nella regione marziana di Mens Cydonia, segni inequivocabili di impatti causati da diversi
corpi estranei. A un esame più attento si notano diversi edifici piramidali affiancati da una struttura
rocciosa, in apparenza un fortilizio, e da una tumulo rotondo con una rampa che conduce alla sua
sommità. Poco distante la "Città", termine coniato dai tecnici, si erge un volto di pietra dalle
fattezze umane davvero simile alla Sfinge terrestre, con un caratteristico copricapo nemes, tipico dei
faraoni egizi.
L'imponenza delle strutture marziane, disabitate e silenziose, e sorprendentemente ancora intatte,
solleva interrogativi che difficilmente trovano risposta. Alcune delle costruzioni di Cydonia,
trovandosi nei pressi e perfino dentro i crateri, suggeriscono che i misteriosi abitanti costruirono
l'intero complesso dopo il cataclisma terminale e non prima. Se così fosse, questi esseri da dove
provenivano? Marte sembra partecipare ad una misteriosa comunione con la Terra e con il nostro
pianeta condivide una storia antichissima, iniziata meno di 20.000 anni fa.
Il diluvio dell'Èra Glaciale
I frammenti esplosivi di una gigantesca cometa, in viaggio nello spazio da milioni di anni,
colpiscono con violenza il suolo marziano, provocando un diluvio immane che trasforma il
rigoglioso pianeta in una landa desolata ed informe. Lo sciame meteorico, catturato dall'orbita
terrestre, precipita sul nostro pianeta dando luogo alla violenta chiusura dell'ultima Èra Glaciale, nel
15.000 a.C. circa. I ghiacciai si ritirano e con l'entrata del Sole nell'omonima costellazione, ha inizio
l'Èra del Leone (10.970–8.810 a.C.).
Un gruppo di superstiti intraprende la costruzione della maestosa Sfinge che scruta l'orizzonte come
un guardiano silenzioso. Uno dei suoi nomi era Hu, "il protettore". Prove geologiche inconfutabili
da parte di due studiosi americani, il ricercatore indipendente John Anthony West e il paleontologo
Robert Scoch, dimostrano che la Sfinge è stata erosa per migliaia di anni dalle piogge, a partire
dall'undicesimo millennio a.C.
Un quadro complesso, acquisito grazie alle ricerche congiunte di numerosi studiosi. Sulla base di
quanto esposto, cercheremo di mostrare che dietro una semplice cronologia di eventi in apparenza
slegati, si cela un'interessante e sbalorditiva chiave di lettura astronomica.
Il diagramma del manto celeste
Gli Egiziani concepivano il cielo intimamente legato alla Terra e tutto ciò che esisteva in alto si
rifletteva inevitabilmente sul nostro pianeta.
La vita dell'intero universo deriva dal dio Sole, Ra, che viaggia sulla “Barca dei Milioni di Anni” tra
le distese siderali in un ciclo senza fine, nel suo lento attraversamento della Via Lattea. Nel corso
del viaggio raggiunge il nucleo della nostra galassia, a circa 30° dal polo nord galattico, quasi
all'esatto opposto della nebulosa di Orione da cui originano, secondo i moderni astronomi,
numerose comete. Orione, nell'Egitto arcaico era assimilato ad Osiride, dio della morte e della
rinascita. Le piramidi di Giza, ritenute anticamente una porta per le stelle come controparte della
cintura di Orione, si trovano a anch'esse a 30° di latitudine nord sulla Terra.
Marte, l'Uomo–Leone
Alcune tradizioni medievali riferiscono che un grande re dell'Egitto, Surid, vissuto trecento anni
prima dell'Inondazione, ebbe un sogno di un disastro che sarebbe accaduto sotto la costellazione del
Leone. Le stelle precipitavano dal cielo e la Terra si spostava sul suo asse con immenso fragore.
Volendo preservare il sapere ancestrale, il re dette ordine di edificare le piramidi; la loro simbologia
suona come richiamo e monito per le generazioni future.
Anche la Sfinge, racchiude in sé tale significato. Sotto le sue zampe, così rivelano gli antichi testi,
esiste una Camera Segreta, la Sala delle Registrazioni, con gli artefatti tecnologici di una perduta
civiltà antidiluviana. La creatura di pietra, metà uomo e metà leone, venerata dagli egizi col nome di
Horakhti, "Horus dell'Orizzonte", era connessa al dio Horus, simbolo del Sole e del pianeta Marte
che a volte passa tra i piedi del Leone.
L'eminente egittologo britannico Sir E. A. Wallis Budge affermava che "Horus" – in origine "Heru"
– ha in sé il significato di "volto". Quindi la Sfinge è il "Volto dell'Orizzonte", con riferimento al
volto del disco solare. Immediata la connessione con il viso enigmatico di Cydonia. Gli Egiziani si
riferivano a Marte come Hor Dshr, Horus il Rosso. In alcune iscrizioni di tombe nell'Alto Egitto
Marte viene definito anche come "Il suo nome è Horakhti" e "la stella dell'est". Se la Sfinge è
orientata a est e il suo nome è Horakhti, la Sfinge è Marte. Per lungo tempo è stata dipinta di rosso,
colore della superficie marziana e possedeva in origine un volto felino. Statuine in foggia di leone
dipinte in rosso sono state trovate sepolte sotto la Sfinge in passato a completare la simbologia
planetaria .
All'altro capo del globo, la mitologia indù ricorda Marte come Nr–Simha, l'Uomo–Leone, quarta
incarnazione dell'avatara–dio Vishnu. La Sfinge era un portale d'accesso al pianeta rosso? Il
ricercatore statunitense Richard Hoagland, nota che la città del Cairo, al confine sud della necropoli
di Giza, deve il suo nome agli Arabi invasori, in possesso, forse, di tradizioni esoteriche molto
antiche, che nel IX sec. d.C. decisero di chiamarla El Kahira, Marte.
Tali indizi sono un chiaro segno che la casta sacerdotale egizia, in possesso di conoscenze
astronomiche superiori a quelle odierne, osservava e registrava con attenzione i segni del cielo,
codificando nella pietra tali avvenimenti. La costruzione della Sfinge, quindi, è un riferimento
preciso agli eventi occorsi a Marte e alla Terra nell'Èra del Leone, una sorta di calendario che
ricordasse la prima, lontana catastrofe.
Il furore di Seth
Ma non fu l’unica. Trascorrono diversi millenni e quando sembrava ormai scongiurato il pericolo di
un attacco celeste, dal 2.500 al 2.000 a.C. si abbatte sul pianeta una scarica virulenta di meteore,
verso la fine dell'Era del Toro (4.490–2.330 a.C.). I sapienti del Nilo diedero vita ad un corpus
mitologico di primo piano tramandando così agli eredi vitali informazioni che presero nuovamente
corpo sul terreno.
Il luminoso Horus era contrapposto al perfido Seth dai capelli rossi, la costellazione del Toro, dio
delle tempeste e dell'oscurità, del fuoco e dello zolfo, – caratteristiche proprie di una cometa. Una
lotta cosmica, da cui dipendevano le sorti dell'equilibrio terrestre sino alla fine dei tempi, quando
Horus avrebbe definitivamente vinto, instaurando una nuova Età dell'Oro sulla Terra.
L'unione Horus–Seth–Sfinge diventa così indivisibile. Horus è il Sole che incontrerà Seth, la
terribile cometa, la quale colpisce una prima volta Marte e poi la Terra, ciclicamente visitata dai
frammenti cosmici, entrambi i pianeti rappresentati dalla Sfinge.
Non è un caso che la località di Dashour, sulla riva occidentale del Nilo, conserva le due grandi
piramidi di Snefru della IV dinastia, la piramide "Rossa" e la piramide "Curva", costruite intorno al
2.500 a.C.
La maestosa costellazione del Toro dominava allora il cielo con la levata eliaca del gruppo stellare
delle Iadi; tra di loro spiccano Aldebaran, di colore rosso, ed epsilon Tauri, gli occhi dell'animale. Il
maestro Gurdjeff vide nel corso dei suoi viaggi in Medioriente una mappa dell’Egitto prima delle
sabbie che mostrava la configurazione stellare sul territorio egizio di Orione e del Toro. Ancora una
volta ammutoliamo di fronte alle conoscenze dei nostri antenati, frutto dell’unione silenziosa con il
Cosmo.
L'architettura segreta dell'Universo
Sviscerato il complesso mitologema alla base delle costruzioni sacre, rimangono da chiarire le
similitudini tra le strutture marziane e i monumenti egiziani. Quale avanzata civiltà costruì le
piramidi sul pianeta rosso immediatamente dopo il cataclisma? Era la stessa che scese poi sulla
Terra per replicare le strabilianti conoscenze?
Hoagland, che ha compiuto una serie di studi geometrico–matematici approfonditi sulla piana di
Cydonia, ha scoperto che la piramide principale del sito è allineata perfettamente lungo l'asse nord–
sud del pianeta, mentre l'intero complesso sembra orientato, in maniera quasi cerimoniale, verso la
Sfinge. Evidenziando, inoltre, il contrasto fotografico nell'immagine del volto, mediante un
particolare assemblaggio, ha ottenuto la rappresentazione di una testa leonina e di un volto
dell'Homo Erectus, un ominide risalente a 500.000 anni fa.
Il ricercatore è giunto alla conclusione che il pianeta Marte era abitato in quel periodo da una civiltà
evoluta in possesso di una geometria sacra per edificare templi imponenti, analoghi a quelli
terrestri, che racchiudevano il segreto dell'universo. Forse un popolo stellare che praticava il culto
del Leone. Lo scrittore britannico Brinsley Le Poer Trench, studioso del fenomeno UFO, collocava
sul pianeta rosso l'Eden biblico, affermando che i cherubini posti a guardia del cancello d'entrata, in
realtà erano le due lune artificiali di Marte, Phobos e Deimos.
Un mito egizio descrive il luogo in cui vivevano gli dei, "una bella regione fertile, dove il grano
bianco e l'orzo rosso crescevano lussureggianti a grande altezza, e dove i canali erano numerosi e
colmi d'acqua…". Un giorno, forse, saremo capaci di sollevare il velo di mistero che circonda
Marte, scoprendo magari che noi stessi eravamo parte di quella splendida lontana civiltà, "se solo
avessimo l'umiltà spirituale di accettare che anche un pianeta morto può parlarci".

Gli adoratori del Cielo:

Mai come ora l’archeologia ortodossa si trasforma, grazie alle geniali intuizioni di autori colti e
determinati, che hanno studiato il terreno in maniera totalmente rivoluzionaria: alzando gli occhi al
cielo.
L’articolo si basa sullo splendido e dettagliato lavoro di Graham Hancock de Lo Specchio del Cielo,
oltre a considerazioni personali dell’autore elaborate con la comparazione di altri testi.
Una griglia magnetica di antichissime sculture, specchio del Cielo sulla Terra, avvolge il nostro
globo, tessuta da una razza sapiente che aveva compreso i segreti dell'Universo e dell'animo umano,
chiave dell'immortalità.
Questa la scoperta di Graham Hancock, il giornalista e ricercatore inglese, nel corso dei suoi viaggi
affascinanti nel mondo, alla ricerca di una traccia comune che potesse ricollegare le misteriose
civiltà scomparse di cui conserviamo gli imponenti monumenti. Un messaggio di indicibile
bellezza, scritto nella pietra, si dipana dal Golfo del Messico al Sud America, dall'Egitto all'Indocina
per giungere infine alle lontane isole del Pacifico. Una costante cosmologica che scandiva la vita
del pianeta in tutte le sue forme ci accompagnerà in un viaggio affascinante, parte dell’Armonia
Ancestrale tramandata nel corso dei millenni, a lungo nascosta e pronta a schiudere i suoi segreti.
I "Seguaci di Horus"
La città sacra di Heliopolis era chiamata dagli antichi Egizi “Innu Mehret”, “la colonna
settentrionale”, simbolo di uno dei pilastri della Terra. Rappresenta il luogo originario in cui si
manifestò il dio Atum, dopo la Creazione, dando vita alla Collina Primordiale.
Nacque così il Primo Tempo, un’éra mitica di fratellanza e di pace assicurata dagli Shemsu–Hor, i
“Seguaci di Horus”, una mistica congrega di una civiltà avanzatissima, scampata alla distruzione
della patria d’origine. Veneravano la stella Sole, Sirio e Orione, perpetuando in tal modo l’esistenza
della triade divina Iside, Osiride e il figlio Horus. Definendosi anche “Seguaci della via di Ra” – la
barca solare, altro aspetto di Horus – svelano un segnale importante sulla piena conoscenza del
segreto della precessione, quando il Sole vivifica ognuna delle dodici costellazioni ogni 2.160 anni.
Non a caso, poi, Innu divenne per i Greci Heliopolis, “la Città del Sole”.
I sacerdoti che presenziavano i culti sacri nel tempio principale scrutavano incessantemente il cielo,
guidati dal Capo degli Astronomi che indossava una veste trapuntata di stelle.
Il ricercatore londinese John Ivimy, nel suo libro The Sphinx and the megaliths, dichiara
apertamente: “Il tempio di Eliopoli, anche se veniva presentato ai non iniziati come un luogo di
venerazione religiosa, era in realtà un osservatorio astronomico progettato e attrezzato dagli
studiosi a scopi scientifici”. Notevole è l’informazione che proviene dal papiro di Leyden:
“Quando giunge un nuovo messaggio dal cielo si ode a Innu”.
Un santuario destinato, secondo il nostro parere, a un’intensa fusione con le specie viventi del
cosmo, di cui gli Egizi erano ben coscienti.
La via del Duat
L’opera degli iniziati prosegue a Edfu, nell’alto Egitto, dove si trovano le vestigia dello splendido
Tempio di Horus. La sua età è antichissima, difatti sorge su preesistenze dell’Antico Regno, ma i
geroglifici impressi sulle sue mura, meglio noti come i Testi della Costruzione di Edfu, ci
raccontano che l’edificio fu eretto in base a un progetto “caduto dal cielo”, in un’epoca imprecisata
del passato. Il cielo, ancora una volta, è indissolubilmente legato al tempio, che si orienta verso una
regione stellare che abbraccia Orione e l’Orsa Maggiore, il Duat–N–Ba, luogo ove le anime terrestri
si purificavano nel ritorno all’Energia Primordiale.
Il Cancello del Sole
La conferma più evidente delle conoscenze astronomiche appartenute ai saggi eliopolitani si ravvisa
nel complesso monumentale di Karnak, a pochi Km da Luxor. La sala centrale del tempio di Amon–
Ra culmina in un viale lunghissimo che si estende da 26 gradi a sud dell’est a 26 gradi a nord
dell’est. Gli studi accurati dell’astronomo britannico Norman Lockyer nel secolo scorso, frutto di
numerose ed attente osservazioni, hanno stabilito che sin dall’11.700 a.C., ai solstizi d’inverno e
d’estate, la luce solare inondava il tempio, provocando l’effetto di un lampo.
Lo Zodiaco primordiale
Se da Karnak ci spostiamo in direzione nord, appare in tutta la sua magnificenza il tempio della dea
Hahor a Denderah. Il nomne è sicurmanete evocativo per i cultori della paleosatronautica che
ricorderanno le misteriose raffigurazioni, nel buio dei suoi sotterranei,, di oggeti affusolati simili
alle odierne lampadine elettriche, citate per la prima volta dallo studioso americano Charles Berlitz,
ne Il triangolo delle Bermuda (Sperling & Kupfer, 1974).
Senza addentrarci in speculazioni tecniche, possiamo affermare che all’interno delle sale nascoste di
questa maestosa struttura avvenivano studi e cerimonie segrete sulle invisibili energie celesti e
terrestri. La costruzione era consacrata ad Hathor, dea del cielo, rappresentata alternativamente sotto
forma di vacca, simbolo della volta celeste. Le 24 colonne, elegantemente istoriate, conducono al
cosiddetto Zodiaco Quadrato in cui domina la costellazione del Leone, e alla cupola sovrastante che
ospita una configurazione circolare, sempre formata dai dodici segni astrologici, che ruotano in
coppia. Il professor Alexander Gursthein sostiene che il bassorilievo risale al 6.000 a.C. Come per
Edfu, i piani di costruzione di Denderah appartenevano alla Prima Età, ed erano vergati “in antiche
linee scritte su pelle di animali del tempo dei Seguaci di Horus”.
La vita cammino di perfezione
Scopo dell’accurata ricerca astronomica egizia è la perfetta conoscenza del cosmo per la
comprensione del Sé. Un modus vivendi che ritroviamo in tutti i monumenti e raggiunge il suo
acme nel tempio di Deir el Medina, sulla riva occidentale del Nilo, costruito nel III secolo a.C. in
onore di Maat, dea della Verità e Della Giustizia, simboleggiante l’anima del dio Thoth.
Edificato per volere di Tolomeo IV Philopator (221–205 a.C.), contiene l’enigmatica e affascinante
rappresentazione della Psicostasia o Pesatura del Cuore. Il faraone, vestito con una candida tunica di
lino, avanza verso il dio della rinascita Osiride, fiancheggiato da Maat alle sue spalle, che riappare
davanti mentre stringe l’ankh, o croce ansata della vita eterna. Oltre, si giunge alla bilancia del
giudizio, sorvegliata da Anubi, conduttore di anime dal volto di sciacallo, e da Horus con la testa di
falco, i quali pesano il cuore del defunto comparandolo alla piuma della verità. Thoth, con la
maschera di ibis, scrive il verdetto. Se il cuore pesa più della piuma il giudizio è negativo e l’anima
viene divorata da un terribile essere di nome Ammit, altrimenti godrà della vita eterna assieme ad
Osiride. Un simbolismo eloquente che mostra il cammino dell’uomo, che spoglio e umile deve
affrontare i propri mostri, con l’aiuto della coscienza, e volare senza paura verso l’immortalità.
L’Orologio dell'Universo
Il quadro cosmologico del popolo egizio riposa nelle piramidi di Giza, l’opera più imponente e
spettacolare, in termini architettonici e metafisici, che incarnano il frutto di una scienza dimenticata.
Il sito è contiguo a Heliopolis, tanto da costituire un sofisticato complesso astronomico.
Le misure geometriche della Grande Piramide racchiudono approfondite nozioni di geodesia che,
rapportate alle coordinate celesti, rendono questo monumento un orologio cosmico che scandisce i
battiti dell’Universo.
La sua altezza moltiplicata per 43.200 equivale al raggio polare della Terra e il risultato della base
per la stessa cifra si avvicina di molto alla circonferenza del pianeta all’equatore. Il numero si
collega alla “precessione” dell’asse terrestre, quando un grado ogni 72 anni le stelle ruotano
all’orizzonte. Seicento volte 72, non a caso, corrisponde a 43.200 che se accresciuto ancora rivela il
respiro cosmico di Brahma, cardine del sapere indù, che si espande per 4.320.000.000 di anni (un
concetto cosmologico incentrato sull’espansione e contrazione del creato).
La Porta dell'Aldilà
Il numero 72 e le sue molteplici combinazioni di calcolo sono il fulcro della matematica del cielo.
Nella Camera del Re all’interno della Piramide di Cheope riposa un sarcofago di granito.
L’ambiente è un rettangolo lungo 20 cubiti reali egiziani e largo 10. Se tracciamo una serie di
diagonali dalle pareti e lungo il pavimento scopriremo un triangolo rettangolo di armoniche
proporzioni. Il rapporto dei suoi lati di 15, 20 e 25 cubiti assomma a 3:4:5, espressione del teorema
di Pitagora, in cui la somma dei quadrati dei cateti equivale al quadrato dell’ipotenusa. Il
matematico islandese Einar Palsson ha avuto una geniale intuizione elevando 3, 4 e 5 al cubo. Una
volta addizionati, il risultato sarà 216, ossia 72 x 3. Un prodotto del caso? L’attenzione si sposta sul
misterioso sarcofago. Numerosi indizi, raccolti in anni di attente ricerche archeologiche, mostrano
come nessun faraone sia mai stato sepolto al suo interno. Hancock stabilisce con sicurezza che il
sarcofago “facesse parte dell’apparato fisico di un sofisticato rituale di rinascita – un gioco di
realtà virtuale del viaggio dell’anima dopo la morte”. Gli iniziati, una volta adagiatisi,
sperimentavano il contatto con altre dimensioni utilizzando la pratica del viaggio astrale e della
meditazione trascendente, imparando a liberarsi dell’illusorietà della materia.
È oramai necessario svestirsi dei dogmi polverosi che dipingono la storia degli antichi quali esseri
primitivi ingenui e sprovveduti. I messaggi, pieni di comprensione, che tali esseri ci inviano dal
passato mostrano, ancora una volta, il loro amore verso l’umanità. Un messaggio che proviene
anche da oltreoceano.
Apparsa dal nulla
La maestosa Cittadella di Teotihuacan, 50 km a nord di Città del Messico, nasconde tra le sue pietre
segreti astronomici di capitale importanza. Nata in un’epoca imprecisata ed ereditata dagli Aztechi
nel XIV secolo d.C., si compone di una serie di piramidi cultuali unite fra loro da un codice
architettonico proprio del numero 72, come a Giza. L’intero complesso sembra apparso dal nulla,
senza un piano preordinato. Secondo Michael Coe, della Yale University: “Forse il fatto più strano
rispetto alla pianta di questa grande città è che non c’è assolutamente nessun precedente nel
Nuovo Mondo”.
La facciata ovest della Piramide del Sole domina il maestoso Viale dei Morti che attraversa l’intero
complesso. È orientata verso il passaggio dell’astro a 19,5 gradi dall’equatore, il 19 Maggio e il 25
Luglio, elemento che mostra la precisa conoscenza della fisica iperdimensionale. Il professore di
astronomia statunitense Anthony F. Aveni ha rilevato che il sito, nel 150 d.C., presentava un
allineamento specifico con le Pleiadi, che sorgevano eliacalmente all’alba.
Una visione del cielo, nel suo insieme, fondata sulla certezza degli iniziati di raggiungere le stelle.
Teothiuacan, in lingua azteca, significa “il luogo dove gli uomini divennero dèi”. L’analogia con gli
insegnamenti egizi è notevole. I sacerdoti che custodivano le sacre tradizioni erano i “Seguaci di
Quetzalcòatl”, il magnanimo dio sceso dalle stelle per diffondere tra le popolazioni primitive i
segreti del Sole, la Luna e le costellazioni. Furono loro ad erigere le piramidi, ora sepolte sotto le
pietre di Teothiuacàn, nate dalle colline primordiali, in un era remota sconosciuta agli uomini.
Il Serpente di Luce
La maestria e la perfezione architettonica degli Anziani raggiunge il culmine nella piramide maya di
Kukulkan, a Chichèn Itzà. Quattro scalinate di novantuno gradini, con il tempio superiore, formano
i giorni dell’anno, mentre agli equinozi di primavera e autunno la luce solare dà vita a un serpente
che striscia per tre ore e ventidue minuti lungo la scalinata nord.
Sotto di essa, negli anni ‘30 gli archeologi penetrarono in una struttura più antica la cui sommità
ospita la scultura di un giaguaro rosso con 72 pezzi di giada. Il felino rappresenta, probabilmente, il
pianeta Marte, col suo caratteristico colore. Anche in Egitto, la Sfinge, dipinta di rosso, guardava
nel 10.450 a.C. la costellazione del Leone sorgere all’orizzonte.
Il riflesso della perfezione
Lo scienziato americano, Stansbury Hagar, direttore del Department of Ethnology al Brooklyn
Institute of Art and Sciences, dopo un accurato lavoro sul significato simbolico di Teothiuacan,
estese le sue ricerche ai siti maya di Uxmal, Yaxchilan, Palenque, Copan e Quirigua.
Nella città di Uxmal, l’insieme degli edifici riproduce diverse costellazioni zodiacali del cielo. Il
Tempio sud–occidentale è l’Ariete, la Casa dei Piccioni il Toro, la Casa del Governatore sono i
Gemelli, quella della Tartaruga il Cancro. Il Leone rivive nella Sala da ballo al centro, il Qudrato
delle Suore è la Vergine, la Casa dei Sacerdoti la Bilancia, la fantastica Piramide del Mago incarna
lo Scorpione, infine i templi sud–orientali sono il Capricorno, l’Acquario e i Pesci.
Le sue rivelazioni hanno preso corpo in un libro notevole, The Zodiacal Temple of Uxmal, nel quale
dichiara: “Tutto in questo mondo è l’ombra o il riflesso della realtà perfetta che esiste nei regni
celesti”.
Il luogo della Creazione
La connessione col firmamento si rivela in tutto il suo splendore a Utatlan, la capitale dei Maya
quichè, gli autori del Popol Vuh, loro testo sacro. I suoi templi erano allineati al tramonto delle tre
stelle della cintura di Orione, luogo del cielo che per i Maya rappresentava il punto della creazione,
analogamente alle credenze egizie che vedevano nelle piramidi di Giza la controparte terrestre delle
stessa costellazione.
La Tavoletta della Croce Foliata, a Palenque, mostra l’asse cosmico che ritroviamo nell’enigmatico
pilastro di granito Djed istoriato sopra una colonna del tempio di Seti I ad Abido. Semplici
coincidenze, sostengono molti, che mostrano ancora una volta, però, la stretta unione di civiltà
distanti tra loro migliaia di chilometri che condividevano un patrimonio astronomico–cosmologico
millenario.
“Il dio Horus vive”
Immerso nelle profondita delle giungle cambogiane, distanti migliaia di chilometri, giace uno dei
complessi cultuali più affascinanti al mondo: Angkor. Il nome, che risveglia un’epoca lontana
dominata dalla fiera cultura khmer, è indissolubilmente legato all’Egitto, poiché Ankh–Hor significa
“Il dio Horus vive”.

Il Cobra del Cielo

Nella sua estensione copre 300 Km2 lungo il fiume Mekong. La sua realizzazione adombra uno
scopo preciso: ricreare la profonda storia cosmologica e spirituale della nostra Terra. È Angkor.

Le similitudini archeoastronomiche con il Messico e l’Egitto erompono evidenti se osserviamo che


gli edifici di Angkor furono anch’essi eretti sopra colline primordiali di un periodo lontanissimo.

La costruzione del complesso di Angkor, ad opera dei quattro Devarajas (re–dio) khmer,
Jayavarman II, Yasovarman I, Suryavarman II e Jayavarman VII, abbraccia un arco di tempo di
poco più di quattro secoli, dall’802 al 1220 d.C. Iniziato da un altissimo bramino, Jayavarman II si
reca con lui nel territorio della futura Angkor e fonda i tre templi di Roulos, controparte di tre astri
della Corona Borealis. Poi, si dedica per lunghissimo tempo a una serie di rilevazioni geodetiche
per la stesura di Angkor, opera continuata dai suoi successori.

La linea sinuosa che i numerosi templi tracciano sul terreno chiamano dal cielo la costellazione del
Dragone che, quale cobra all’attacco, veglia dall’alto su Angkhor.

Nel Rigveda, testo sacro indù, appaiono maestosi i Naga, re–cobra del cielo, giunti sul nostro
pianeta da ignote dimore stellari. I semidei Kaundinya e Kambu, iniziatori del regno cambogiano,
sposarono due principesse naga. Kambu diede vita al popolo dei Kambujas, che danno il nome
all’odierna Cambogia.

Un patrimonio comune

Angkor giace a 72° est da Giza. In Egitto, come sappiamo, Orione sorgeva all’orizzonte dodicimila
anni fa e i pozzi stellari settentrionali della Grande Piramide guardavano, nel 2.500 a.C., Kochab
dell’Orsa Minore e Thuban nel Dragone.

I templi di Ta Sohm e Benthei Samre rappresentano queste due stelle, mentre Neak Pean, contiguo a
Ta Sohm, Zeta dell’Orsa Minore. Completa la porzione di cielo settentrionale Western Mebon,
costruzione che incarna la stella Deneb nel Cigno.

Nonostante Angkor risalga al IX sec.d.C. riflette il cielo di migliaia di anni prima, mostrando così la
perfetta conoscenza astronomica degli iniziati indù in connessione con la scienza sacra egizia.

Il Mandala Cosmico
Angkor Wat – il “Tempio” – è la prima di una serie di splendide città di pietra che appare ai nostri
occhi.

Sopra un’isola magnificente che si specchia sul lago sacro, quattro bastioni di mura uno dentro
l’altro racchiudono un’enorme piramide. L’intera costruzione è un mandala, figurazione geometrica
particolare – come i Crop Circles (1) – che risveglia nell’uomo determinati centri di coscienza.

I suoi lati corti presentano un orientamento impressionante al vero nord–sud, mentre quelli lunghi
curiosamente si volgono verso un’asse preciso di “0,75° a sud dell’est e a nord dell’ovest”. Presenta
poi un allineamento est–ovest con gli equinozi e il cancello d’ingresso occidentale guarda i solstizi
estivo e invernale sorgere dai templi di Phnom Bok e Prast Kuk Bangro.

Angkor, pure, era parte di un progetto vergato dagli dèi del paradiso Tushita.

Dal fossato si dipana una lunga strada che giunge sino alla piramide con cinque torri sovrapposte,
centro energetico dell’intera struttura, la quale incarna il Monte Meru della mitologia indù.

Le parole del tempio

Particolare importanza, per le sue connotazioni esoteriche, riveste la galleria maestra di Angkor Wat
che si snoda per l’intero perimetro della costruzione. Ornano le sue pareti immensi bassorilievi che
ritraggono la Frullatura dell’Oceano di Latte, che avviene al termine di ogni ciclo cosmico per
donatre agli dèi l’amrita, il nettare dell’immortalità.

Il re–naga a cinque teste Vasuki, attorcigliato attorno alla montagna sacra Mandera, viene trascinato
da schiere contrapposte di Deva e Asuras, gli angeli lucenti ed oscuri del pantheon indù. Al di sotto,
nell’oceano celeste, la tartruga Kurma sostiene su di sé l’Universo. La perfezione architettonica dei
rilievi è meravigliosa ma ancor più il messaggio che comunicano a colui che sa guardare oltre
l’apparenza. I sacerdoti codificavano nella pietra molteplici informazioni a beneficio dei posteri, lo
stesso Hancock afferma chiaramente che “il tempio è un buon maestro e trova molti modi per
trasmettere le conoscenze esoteriche che i costruttori ritenevano potessero portare alla
trasformazione spirituale”.

Il Guardiano del Kalpa

L’equilibrio dell’ordine cosmico è magistralmente espresso nelle strada rialzata che con le sue
misure standard (lo hat khmer, cioè 0,43545 m) traccia il quadro del ciclo di creazione, composto da
quattro epoche: Krita Yuga, l’ ”Età dell’Oro”, – 1.728.000 anni – , Treta Yuga – 1.296.000 anni,
Davpara Yuga – 864.000 anni e l’ultimo, l’epoca odierna, il Kali Yuga, di 432.000 anni, cominciata
nel 3.100 a.C. circa, data analoga al computo maya, che vedeva l’attuale mondo realizzarsi
nell’anno zero, il 3.114 a.C.

Sempre il numero 72 funge da divisore nel calcolo di durata di tali epoche, cifra chiave anche per
gli Indù, che contemplano un Manvantara o periodo di Manu, composto da 71 sistemi di quattro
Yuga. 71, forse, è una cifra più accurata nella precessione degli equinozi, dato che l’avvicendarsi
delle costellazioni zodiacali nel cielo si completa un grado ogni 71,6 anni.

La sacra ziggurat

A nord di Angkor Wat appare la piramide montagna di Phnom Bakeng, che si sviluppa per 67 metri
in altezza, custodita all’ingresso dai leoni gemelli, i quali richiamano i divini Akeru egizi. La salita
est conduce sino a una ziggurat a quattro comparti con un santuario, mentre 108 torri circondano la
struttura.

Il sublime distacco

Un’altra spettacolare realizzazione è l’insieme dei templi di Angkor Thom, La Grande – costruiti
dal sovrano Jayavarman VII (1.181–1.219 d.C.) che sopra un’iscrizione del palazzo reale dichiara:
“La terra di Kambu è simile al cielo”. Le quattro entrate, fiancheggiate da 54 statue di, i Deva e gli
Asuras che frullano l’Oceano di Latte, sono vegliate da quattro volti rilassati che trasfondono al
visitatore una calma infinita e inducono alla contemplazione meditativa.

La suprema compenetrazione

Il primo dei tre templi che s’incontra all’interno all’interno di Angkor Thom è il Phimeneakas, il
Palazzo del Cielo, una piramide a gradini con orientamento nord–sud che presenta innegabili
affinità architettoniche con quelle maya.

Nella camera meridionale avveniva la fusione stellare del monarca con la costellazione del
Dragone, cerimonia importante che legittimava la discesa della regalità dal cielo, similmente ai
faraoni egizi che nei riti stellari si identificavano con determinati astri, le terre cosmiche delle
anime.

La Torre di Shiva

Il secondo tempio è il Baphuon, definito dall’emissario dell’imperatore cinese Chou Ta Kuan, nel
XIII secolo, La Torre di Bronzo, anch’essa una piramide monumentale che presentava in cima la
dimora sacra dello Shivalinga, il “veicolo di Shiva”, mentre i suoi sotterranei scendevano in
profondità, andando a costituire le radici della Terra.

Il Cuore del Drago

Ultimo, ma centrale per la sua disposizione, è il Bayon, dal sanscrito Pa Yantra o “Padre dello
Yantra”, lo strumento mandalico che conduce alla perfetta conoscenza di sé. L’edificio presenta 54
torri di pietra con quattro volti litici analoghi a quelli che dominano le entrate di Angkor Thom. La
struttura, nel suo insieme, assurge a cuore del Drago stellare, il Polo Nord esatto dell’Eclittica
Celeste.

La freccia per Mu

Il nostro viaggio prosegue nell’Oceano Pacifico seguendo uno spostamento di 54° est da Angkor.
Nan Madol, la Barriera del Cielo, è una serie di 100 isole di basalto e corallo edificate dall’uomo, al
largo dell’isola più grande di Pohnpei. La tradizione riporta che i mitici progenitori Olosopa e
Olosipa, giunti da una lontana terra dell’ovest, fondano a Pohnpei quattro capitali in luoghi
differenti: Sokehs, Net, U, Madolenihmw.

Dalle alture dell’isola scorgono, poi, una metropoli sommersa nell’acqua, Khanimweiso, e decidono
di replicarne la costruzione sulla terraferma. Con l’aiuto di un drago alzano in volo enormi lastre di
pietra creando diversi templi, tra cui lo splendido Nan Douwas, dalla forma di freccia che punta
l’ovest. Si compone di numerose mura di basalto megalitiche l’una nell’altra, sovrastate dal
santuario centrale che sprofonda nella terra per un metro e mezzo.
Secondo l’archeologo ponhpeiano Rufino Mauricio, lo scopo dei templi di Nan Madol è permettere
all’anima del defunto di raggiungere l’oltretomba situato nelle profondità marine dove giace
Khanimweiso. Il Muro Occidentale di Nan Douwas presenta la forma curiosa di un vascello che
solca le acque per accompagnare le anime a destinazione.

L'Orizzonte celeste

L’esistenza di Khanimweiso è stata appurata dallo stesso Hancock che ha osservato colonne di
pietra sul fondale a 30 metri di profondità da Nan Douwas.

Speculare a Khanimweiso è un’altra città più lontana, Khanimweiso Namkhet. Con estrema
disinvoltura scopriamo che il suffisso egizio akhet è “orizzonte”, mentre Khanimweiso significa
“città”. Il toponimo completo racchiude il concetto di Città dell’Orizzonte, un luogo sperduto riposo
dell’anima.

Il Triangolo stellare

Le profondità dell’Oceano Pacifico nascondono un mistero archeologico affascinante, al largo


dell’isola giapponese di Yonaguni, esattamente a 19, 5 gradi est da Angkor: un’immensa struttura
piramidale a 27 metri sul fondo costituita di blocchi squadrati con altissima precisione.

La scoperta, “di immensa e fastidiosa importanza storica”, si deve al marinaio nipponico Kihachiro
Aratache che rimase folgorato dalle insolite vestigia nel corso di una serie di esplorazioni
dell’immensa costa nel 1987. Il geologo cinese dell’Università di Riyukyu Masaaki Kimura, dopo
anni si studi accurati ed esami ravvicinati alla struttura, asserisce senza ombra di dubbio che il
monumento non è naturale.

Lo studio attento dell’equipe di Hancock, iniziato nel marzo ’97, ha rivelato che la costruzione si
compone di diverse figurazioni geometriche incastonate l’una nell’altra, con quattro terrzze che
digradano verso un fosso allineato agli equinozi primaverile e da autunnale lungo un asse est–ovest,
mentre l’intera struttura guarda al nord–sud. In cima, dei pozzi scavati nella roccia, colpiti dal Sole
a mezzogiorno esatto nel 7.000 a.C., circondano un altare simile all’Intihuatana in Perù.
Completano l’opera una scalinata spiraliforme e varie nicchie rettangolari lungo le mura.

Kimura ritiene che Yonaguni era parte della frastagliata catena di Okinawa, sommersa dall’acqua
circa 10.000 anni fa, alla fine dell’Èra Glaciale, quando Yonaguni si trovava vicino al Tropico del
Cancro. I blocchi monolitici formavano un triangolo astronomico insieme a un tempio sul monte di
Yonaguni e a un sito non ancora esplorato sulla costa orientale.

(1) Simbologie esoteriche che appaiono nei campi di cereali, soprattutto inglesi, opera di
intelligenze cosmiche che governano il nostro Universo e presiedono alla rigenerazione globale del
pianeta Terra.

“Occhi che guardano al Cielo”


Simbolo universale del mistero cosmico, troneggia nell’Oceano Pacifico la splendida Isola di
Pasqua. Un tempio delle stelle da cui seguire il corso dei mutamenti celesti, designata dai primordi
col nome di Mata–Ki–Te–Rani, “Occhi che guardano al Cielo”.
Adagiata a circa 144 gradi est da Angkor, durante l’Èra Glaciale, nel 10.000 a.C., insieme ad altre
isole componeva un territorio vasto quanto la catena andina in Sudamerica, formato da cime
altissime e rocce frastagliate.

La venuta dei saggi

I miti tramandati di generazione in generazione vogliono che un gruppo di sette saggi di una terra
lontana, Hiva, in seguito ad una visione si recasse sull’Isola di Pasqua per costruire i “monti di
pietra”. Dopo l’affondamento del loro mondo, sicuramente la remota Mu, trecento persone
raggiunsero l’isola guidati dal re–dio Hotu Matua che ricreò dal nulla la civiltà secondo i principi e
le direttive celesti del regno perduto. Tali narrazioni, analoghe a quelle di altre popolazioni del
globo, permettono di tracciare un quadro unitario della storia del nostro pianeta.

I volti dei progenitori

Una possente piramide a gradini svetta inh tutta la sua magnificenza dal picco più alto della baia di
Anakena, a nord dell’isola. Sulla cima giace una piattaforma con sette enigmatiche figure di tufo
vulcanico rosso che fissano mute l’orizzonte, i famosi Moai che racchiudono nel loro sguardo
segreti dimeticati. Sormontati da un grande copricapo, le statue rappresentano i “monti di pietra”
voluti dagli iniziati di Mu, innalzati con la forza del pensiero, e nel contempo gli originari
colonizzatori dell’isola, individui immensi, i Giganti biblbici che Il Libro di ciò che è nel Duat, in
Egitto, descrive alti 6 metri.

Tali sculture, pesanti svariate tonnellate, ammontano nell’intera isola a più di 600, facendo inferire
che cosituissero una linea guida per i nativi, in grado di permeare il sostrato religioso e comsologico
della loro società. Disseminate sul cratere del vulcano Rano Raraku centinaia di teste di Moai
incompleti paiono sfidare la mnostra intelligenza, come un enigma ancora insoluto a distanza di
millenni. Ignoti, infatti, i motivi che spinsero gli artigiani ad abbandonare improvvisamente l’opera
colti da un presentimento soprannaturale. Giustamente Hancock asserisce che l’intero progetto fosse
intenzionale, data la composita perfezione che il luogo ispira. I loro occhi, ciechi, forse
rappresentano la conoscenza che a noi spetta svelare, parte di un grande segreto legato ai cicli
solari, che investì in egual maniera la civilizzazione olmeca in Mesoamerica (cfr. L’oro degli
Olmechi, ACAM Sezione Civiltà Antiche).

L’architettura ancestrale

Nella stessa baia di Anakena, la piattaforma è stata eretta a più riprese nel corso delle epoche
seguendo di volta in volta sempre differenti orientamenti.

Il famoso archeologo norvegese Thor Heyerdahl ha riportato alla luce nel 1987 un muro di blocchi
giganteschi di ashlar lavorati. Il terreno circostante conserva poi un grande recinto di pietra a forma
di nave, che richiama le imbarcazioni solari rinvenuti nella piana di Giza e ad Abydos, e avvalora le
leggende oceaniche su re Hotu Matua, che “Scese dal Cielo sulla Terra…Venne sulla nave…venne
sulla Terra dal Cielo”.

I megaliti di Ahau Tahira, a sud–ovest , formati anch’essi da rocce incastrate alla perfezione sono
praticamente identici ai monumenti incaici di Cuzco e Sacsayhuaman, nel lontano Perù (cfr. La
fortezza dei Giganti, ACAM Sezione Civiltà Antiche).

Una muta eredità


Quello che lascia tuttora perplessi gli archeologi è l’impossibilità di decifrare la scrittura
Rongorongo dell’ Isola di Pasqua, costituita da segni ideografici di tipo bustrofedico, dove ogni riga
segue un andamento contrario alla precedente.

I caratteri, simili ai pittogrammi ritrovati nella Valle dell’Indo, costituivano il sapere dei sacerdoti di
Hiva impresso su 67 tavolette di legno, di cui ne restano soltanto 24. Una di esse, parzialmente letta
da un vecchio del luogo, narrava di immense strade pavimentate disposte a raggiera, come la tela di
un ragno, secondo un piano prestabilito.

Ancora oggi vengono salmodiati i suoi contenuti, reatggio di una conosecena impartita in una
scuola circolare di Anakena, uno dei molti centri di sapere della Terra che irradiavano energia sul
globo intero.

La rete solare

Gran parte dei monumenti che costellano l’isola, come Ahu Tepeu, Ahu Hekii, Ahu Tongariki e
Vinapu, seguono il sorgere del Solstizio d’Inverno, mentre le sette statue rivolte verso il mare della
maestosa struttura di Ahu Akivi, nella zona centrale del territorio, risorgono simbolicamente a metà
inverno e all’inizio della primavera.

Un concetto identico presso gli Egizi dove le immagini dgli dèi prendevano vita se “i raggi di Ra
entrano nel loro corpo”.

Il vocabolo raa, presso i nativi dell’isola, possiede lo stesso significato e il sito di Ahu Ra’ai, che
forma un triangolo preciso con due vulcani, segna anch’esso l’arrivo del Sole nel Solstizio di
Dicembre.

Infine, ad Orongo, sulla punta meridionale, vicinio al cratere di Rano Kau, compaiono quattro buchi
che costituiscono segnali permanenti per l’astro infuocato, mentre un insieme di 54 abitazioni
ovaliformi copre il territorio circostante. Una roccia porta incisa la figura dell’uomo–uccello, a
ricordo di un’antica gara iniziatica per la ricerca del primo uovo della sterna grigia sull’isola di
Moto Nui. A due km est da Anakena, nel sito di Ahu Te Pito Kura, una pietra tonda scolpita
circondata da quattro sfere più piccole simboleggia l’ombelico dell’isola, puntoi centrale dotato di
propria energia.

L’opera, secondo noi, rispecchia fedelmente un’incisione della tribù africana dei Dogon che
rappresenta Giove attorniato dalle sue quattro lune. Nella lingua dell’Isola di Pasqua, Te Pito Kura è
“l’ombelico di luce”, simbolo del Sole e, particolare curioso ma significativo, il pianeta Giove,
secondo molti astronomi, è un sole mancato della nostra Galassia.

Una rete solare immortale punta inequivocabilmente al Cosmo. Forse l’Isola di Pasqua è realmente
“l’Ombelico del Mondo”, una sorta di punto cardinale geodetico comer vuole Hancock, e ancora
una volta le tradizioni perdute ma sempre vive nel cuore dei nativi sembrano confermare il
maestoso piano degli Antichi.

La Croce delle Galassia

Voliamo sopra l'Oceano Pacifico nel nostro affascinante itinerario per giungere in Sudamerica. A
180° est ed ovest da Angkor e 198 da Giza, il paesaggio muta improvvisamente, parendosi ai nostri
occhi Paracas, sulla costa peruviana. Si erege nel suo splendore il «Candelabro delle Ande»»,
un’incisione immensa che raffigura un tridente con motivi fiammeggianti sulle punte, segnale
misterioso vergato da un popolo remoto per scopi essenzialmente astronomici. Infatti, il petroglifo è
disposto lungo il vero nord–sud, direttamente verso il meridiano celeste.

Lo scenario mozzafiato che la volta celeste offriva all’Equinozio di Primavera 2.000 anni fa era la
Via Lattea attraversata dalla Croce del Sud, a 52° di altitudine, uguale inclinazione della Grande
Piramide di Giza. La costellazione era osservata anche dagli Egizi e dai Greci in epoche passate.

La Strada degli Antenati

Vicino alla Croce si trovano due nebulose chiave delle credenze cosmogoniche andine, la Vulpecula
e il Lama, che incarnano un’epoca lontanissima del mondo rinnovata da un diluvio voluto da una
particolare congiunzione astrale.

La Via Lattea, fiume cosmico, purifica la Terra al di sotto e come un ponte di luce verso regni
sconosciuti, apre le sue porte alle anime nella regione celeste situata vicino ai Gemelli, mentre per
gli Egizi era nel Duat, tra il Leone ed Orione, esattamente nello stesso luogo (cfr. Gli adoratori del
Cielo, ACAM Sezione Civiltà Antiche).

La custode delle linee

La piana di Nazca, nell’entroterra peruviano, é costellato da una serie incredibile di immensi disegni
di varia specie, in gran parte ritratti di animali e figure geometriche, compiute forse dalla «cultura
Nazca», vissuta nel II secolo a.C. Il sito, da anni, è oggetto di studio da parte dei ricercatori, tra cui
spicca la defunta Maria Reiche, trasferitasi durante la guerra in Perù ove entrò in contatto con
l’astronomo americano Paul Kosok, già attivo a Nazca. Da allora decise di rimanere in quei luoghi
affascinata dai petroglifi.

Nessuno è riuscito sinora a penetrare il mistero delle linee, le quali, secondo l’affermazione della
Reiche: «Ci insegnano che l’intera idea che abbiamo sui popoli dell’antichità è sbagliata, che qui in
Perù c’era una civiltà progredita, che aveva una comprensione avanzata della matematica e
dell’astronomia, che era una civiltà di artisti che espressero qualcosa di unico sullo spirito umano
perché fosse compreso dalle generazioni future».

I Geometri del Cosmo

Molte raffigurazioni sul terreno sono legate alla rappresentazione del cielo di 2.000 anni fa, in base
ai profondi studi della Reiche. L’enorme Scimmia con la coda arrotolata, ad esempio, puntava verso
il tramonto della stella Benetnasch all’estremità dell’Orsa Maggiore, mentre il Ragno è l’immagine
di Orione, vista di fianco a quelle latitudini, e una linea perpendicolare che interseca il disegno
indicava la discesa della costellazione nell’emisfero celeste.

Dal canto suo, l’astronoma Phyllis Pitluga dell’Adler Planetarium di Chicago, durante il XV
Congresso annuale della Società per l’esplorazione scientifica nel 1996, confermò le intuizioni della
Reiche, mostrando che i segni della piana di Nazca incarnano le costellazioni che circondano la Via
Lattea comprese le oscure nebulose.

Hancock, che ha conosciuto personalmente le due studiose, nel libro riporta i risultati della sua
ricerca in situ. Con l’ausilio del programma Skyglobe 3.5, con il quale si mostra la carta celeste di
ogni epoca, ha compreso che 2.000 anni fa il Ragno è stato effigiato con una linea sinuosa sotto la
zampa posteriore, il fiume Eridanus nel firmamento.
Le altre costellazioni, con i loro corrispettivi sul terreno, sono il Canis Major, la Lucertola, Cetus (la
Balena), come pure il Triangolo Meridionale, Octans e le Bussole. Maestose appaiono infine,
completando la volta stellata di migliaia di anni prima, Monoceros (il Condor dalle ali spiegate), i
Gemelli, rettangolo celeste, riprodotto in forma analoga a terra, il Cancro (il Colibrì) e infine la
Lince (l’Alcatraz).

La città–piramide

Senza ombra di dubbio, un popolo altamente civilizzato compose una simile pittura stellare. A sud–
ovest di Nazca, infatti, compare la metropoli di Cahuaci, abitata da sconosciuti individui
anteriormente al 2.000 a.C. e sorprendentemente edificata su colline sacre, come abbiamo visto per
il Messico e l’Egitto. Troneggia a Cahuachi una piramide a gradini a 5 scomparti, con entrata al
nord, alta 18 metri ed allineata al vero nord–sud. La fiancheggiano due piramidi erose. Poco oltre,
appare un colle, il Grande Tempio, che domina un immenso spiazzo cinto da mura.

L’archeologo John Reinhard asserisce: «Le piramidi di Cahuachi fungevano da paesaggio


simbolico, dove le forme architettoniche e i ritratti delle divinità riflettevano una geografia sacra».

La fortezza dei Giganti

Tiahuanaco, quasi 4.000 m sulle Ande boliviane. Alcune leggende degli indios Aymara la vogliono
scaturita in una sola notte ad opera di una razza di giganti, nata molto tempo prima degli Incas,
scomparsa dopo un diluvio ... ... ...

La fortezza dei Giganti

Tiahuanaco, quasi 4.000 m sulle Ande boliviane. Alcune leggende degli indios Aymara la vogliono
scaturita in una sola notte ad opera di una razza di giganti, nata molto tempo prima degli Incas,
scomparsa dopo un diluvio.

La civiltà più rappresentativa del Sudamerica edificò il poderoso complesso megalitico in un


habitat desolato: Tiahuanaco. Ignota la progenie che diede forma alle pietre, come pure ridicole le
datazioni proposte dagli archeologi convenzionali (1.500 a. C. – 900 d. C. circa), contraddette dalla
presenza di fregi sui monumenti di un proboscidato estintosi dodicimila anni fa e dall’accurata
ricerca di Oswaldo Rivera che ha identificato nel sito un grandioso orologio precessionale
funzionante almeno sin dal 9.000 a.C.

L’osservatorio cosmogonico

Sul complesso domina la piramide a tre gradini Akapana, alta 18 m e orientata ai quattro punti
cardinali. Appoggia su di una base sempre piramidale con l’estremità inferiore che punta ad est e la
sommità ad ovest. In cima i resti di un antico pozzo cruciforme collegato a un sistema di chiuse
interne ove scorreva l’acqua. Di fronte, una scalinata porta al Kalasasaya, un grande recinto di
arenaria rossa che contorna una costruzione sorvegliata dalle statue monolitiche di andesite grigia di
El Fraile e Ponce (dal nome dello scopritore, l’archeologo boliviano Ponce Sangìnes), raffiguranti
forse il medesimo personaggio oggetto di culto.

Domina il Kalasasaya la splendida Puerta del Sol, ricavata da un masso di andesite di 45 tonnellate,
un’opera che rispecchia fedelmente le credenze cosmogoniche della misteriosa civiltà andina. Sul
fregio centrale, che guarda a oriente, spicca l’avatar creatore Viracocha, con una criniera formata da
19 raggi «lunari» rappresentante secondo l’archeologo William Sullivan il ciclo metonico della
Luna (il tempo che intercorre tra una fase del satellite e il ritorno in una determinata data solare), e i
suoi «solstizi», gli estremi meridionali e settentrionali dei suo punti di fermo maggiori. Viracocha è
circondato da 48 fregi di individui alati, 24 per lato, simbolo della resurrezione umana nei mondi
celesti. Sotto i suoi piedi, invece, il bassorilievo di una piramide a tre gradini, la struttura
dell’Akapana, con una presunta camera sotterranea, scoperta dell’archeologo Oswaldo Rivera ma
già rivelazione del biologo Pierre Honorè (Ho trovato il dio bianco, Garzanti, 1963). Un altro
portale di pietra, nelle vicinanze, ha il suo gemello a Persepoli, in Iran.

Di fronte al Kalasasaya c’è il Tempio Semisotterraneo con il barbuto Viracocha sopra una stele di
arenaria, contornata ai fianchi dal simbolo del serpente. I muri della struttura presentano volti umani
dalle inusuali fattezze, alcuni simiglianti all’Uomo–pesce di Lepensky Vir, sul Danubio.

Oltre il complesso monumentale, giace un’altra piramide, il Puma Punku o «Porta del Leone», che
richiama forse una porta stellare legata all’omonima costellazione, simbolo incarnato in Egitto dalla
Sfinge.

Le pietre sparpagliate nel sito sono dell’ordine di 200 tonnellate e la più pesante arriva sino a 447. I
giganteschi blocchi litici sono uniti da giunti metallici con funzione antisismica in foggia di Tau,
presenti nelle strutture del globo intero, colati fusi nell’incavo e formati da leghe disparate, tra cui è
presente il nickel, inesistente in Bolivia.

La remota Èra del Leone

Tiahuanaco attualmente dista solo 16 km dall’immenso lago Titicaca, vasto oceano navigabile che
lambiva la metropoli boliviana durante l’Èra Terziaria, come vogliono gli ormeggi delle
imbarcazioni ancora presenti in loco. Un profondo sconvolgimento mutò la geografia del luogo
circa 15.000 anni fa, donandogli l’attuale conformazione.

Il Titicaca, con una profondità di 300 m, richiama in lingua aymara “Titi”, Puma o Leone (animale
sacro a Viracocha) e “Kaka”, il colore oro: quindi Leone dorato, filologicamente relato ad un pesce
dalle grandi squame. Simone Waisbard, nel suo libro Tiahuanaco – Diecimila anni di enigmi incaici,
SugarCo, 1979), lo definisce come “il lago del puma e del pesce sacro” che curiosamente è proprio
l’immagine che il Titicaca presenta alle foto satellitari. Ancora la prova di un sapere impossibile ed
antichissimo oggi svelato grazie alla tecnologia.

All’interno del lago l’Isola del Sole (con la corripettiva Isola della Luna) abitata dai “risplendenti”,
conserva lo “Scoglio del Leone”, un santuario terrazzato, orientato agli equinozi, posto a
strapiombo sulla scogliera. Gli Incas, eredi dei lontani progenitori, eressero l’opera a ricordo di una
lontana èra mitica quando Viracocha fece sorgere con il Logos l’attuale mondo. Accanto alla riva
meridionale del lago c’è l’isola di Suriqui, un luogo enigmatico dove i suoi abitanti ancora
intrecciano a mano, con giunchi di totora, navi con la prua rialzata identiche alle barche solari egizie
e atte alla navigazione in mare aperto.

Il Regno del Sole

Cuzco, in Perù, capitale del fiorente impero Inca nel XIII sec.d.C., è un reticolo di strade
convergenti verso la piazza centrale. Due linee contrassegnavano i quattro quartieri con le principali
strutture cerimoniali come l’Hatunrumyoc, Palazzo dell’Inca Roca, e il Coricancha o Recinto d’oro,
entrambi formati da poderosi blocchi poligonali, tra cui la famosa “pietra dei dodici angoli”, nei cui
interstizi non penetra uno spillo.

Il Coricancha, nel centro cittadino, è un grande Tempio del Sole sorto sopra un antico luogo di
culto, inglobato nella cinquecentesca chiesa di Santo Domingo. Una violenta scossa di terremoto
rase al suolo la chiesa cinquant’anni fa, ma le fondamenta della struttura originaria rimasero
perfettamente intatte.

Fulcro del Coricancha è il Cuzco Cara Urumi, “l’Ombelico della Terra non ancora scoperto”, un
ottagono di pietra posto al centro del cortile interno, che in passato conteneva la barra d’oro donata
da Viracocha agli uomini perchè la conficcassero come pietra angolare geodetica. Una sua statuina
in oro massiccio, quasi a grandezza naturale, lo ritraeva mentre compiva misurazioni astronomiche
con l’indice ed il pollice sollevati.

Dorate anche le mura del tempio, mentre campeggiava sopra un grande altare l’effigie del Sole,
fiancheggiata dalle mummie dei monarchi inca. Dalla cima sacra del Pachatusan, la “Trave
Incrociata dell’Universo”, compariva il Solstizio estivo, e la valle di Cuzco era disseminata di
gnomoni litici con la medesima funzione. Il nome Coricancha si lega al verbo quechua conchay,
“cerchio”, ossia l’eclittica del cielo, concetto espresso anche nel muro esterno di forma circolare.

Il Santuario del firmamento

L’intero Coricancha era stato concepito come un immenso osservatorio stellare con edifici sacri a
forma di piramide tronca. Una struttura d’argento vedeva l’adorazione della Luna, nella seconda
con il soffitto interamente stellato si osservavano gli astri, Venere e le Pleiadi, una terza era dedicata
allo studio del tuono e del fulmine, presunti fenomeni meteorici. La penultima conservava la
rappresentaziona a colori reali dell’arcobaleno che scaturito dal Sole, e infine la quinta stanza
apparteneva al gruppo sacerdotale. I riti astrali della rinascita assumevano fondamentale importanza
presso gli Incas con cerimonie sacre al Solstizio di Giugno presso il serpeggiante fiume Vilcamayu,
la Via Lattea.

Il dito dei cieli

Il corso d’acqua scintilla al di sotto del Machu Picchu, il Vecchio Picco, la poderosa metropoli
incaica scoperta dall’archeologo americano Hiram Bingham nel 1911, sospesa a 2.450 m sul
versante orientale della Cordigliera del Vilcabamba. La sua collina piramidale posta al centro
dell’insediamento è in parte artificiale, modellata come una mano con l’indice che sembra toccare il
cielo. Alcune leggende amazzoniche, raccolte dal giornalista tedesco Karl Brugger negli anni ’70
(riportate per esteso ne La Cronaca di Akakor – Edizioni Mediterranee, 1996), raccontano di
divinità stellari scese in Brasile e spintesi in Perù per creare il Machu Picchu (v. su ACAM, Sezione
Civiltà Antiche, Il regno di Akakor). In cima troviamo un recinto con il celebere Intihuatana, il
“Luogo dove si lega il Sole”, un altare litico con uno gnomone tetraedrico che seguiva il percorso
solare.

Alla base della scala d’accesso all’Intihuatana compare il Tempio Principale e il Tempio delle Tre
Finestre, due edifici di culto antichissimi, che gli Incas ereditarono insieme a una grotta sacra
intagliata nella pietra. La funzione astronomica dell’intera metropoli è sottolineata altresì da quattro
costellazioni chiave della mitologia incaica effigiate sull’Intihuatana: le Pleiadi, la Croce del Sud, il
Triangolo Estivo (formato dagli astri Deneb nel Cigno, Altair dell’Aquila e Vega nella Lyra,
similmente alla civiltà di Lepensky Vir) e le due nebulose del Lama. Una conoscenza permeante la
geografia sacra degli Incas, che orientavano i loro territori cultuali verso lontani siti stellari del
pianeta secondo una griglia di rette parallele con valore geodetico, le “Ceques”, originate dal
Coricancha.

Il volto del puma

A nord di Cuzco si estendono le vestigia di Sacsayhuaman, una serie di gigantesche mura


megalitiche alte in totale 15 metri, formate da blocchi poligonali di pietra che sfiorano le
quattrocento tonnellate.

Lo stesso Garcilaso de la Vega, autorevole voce della storia andina, già nel 1500 definisce
Sacsayhuaman “frutto di un incantesimo” sorto da immensi blocchi di pietra, che sembrano più
pezzi di montagne che non pietre da costruzione”. Più di tremila Incas, volendone riprodurre la
tecnica costruttiva, perirono sotto un masso pesantissimo issato da ventimila uomini e sfuggito al
controllo.

Sui contrafforti andini si stagliava un tempo la figura di un puma, una striscia di terra accanto ai
fiumi Tullumayo e Huatanay (ora sotterranei), mentre Sacsayhuaman rappresenta la testa. Le sue
enormi mura a zigzag sono i denti, la mandibola è costituita da un contiguo promontorio di pietra e
un grande pianoro erboso è la bocca che guarda l’Ovest. Sacsayhuaman significa “Falco
soddisfatto”: Horus, il Divino Falco egizio. Antiche leggende narrano che sotto struttura si
diramano lunghe gallerie disseminate di artefatti sconosciuti.

Una carta stellare di pietra

Non lontano da Sacsayhuaman fa mostra di sé l’enigmatico sito di Qenko, una collina su cui sorge
un’opera dalle precise connotazioni geometrico–stellari. Una cupola di calcare sembra riprodurre la
volta stellata, ai lati numerosi cunicoli, tunnel, e sculture di animali come condor, lama e di nuovo il
puma (forse talune costellazioni), mentre sulla sua cima domina un ovale con un rilievo doppio.
Tale simbolo è pressochè comune in ogni cultura della Terra e indica la creazione del nostro
Universo, nato dall’Uovo Cosmico scaturito dalle Acque Primordiali.

Ai piedi della costruzione, un muro ugualmente ellittico forma la base di uno strano menhir che ha
il suo corripettivo nella piana di Stonehenge, in Gran Bretagna. Svariate terrazze e gradini donano a
Qenko l’aspetto del tempio sommerso sotto l’Isola di Yonaguniin Giappone, ((v. su ACAM, Sezione
Civiltà Antiche, Il dio Horus vive).

Il baluardo degli dèi

L’ultima roccaforte inca è il colle di Ollantaytambo, un anfiteatro gigante che sovrasta una piana
collinare a 80 metri di altezza. I massi di granito hanno un peso notevole che sembra aumentare,
questa è la cosa più sbalorditiva, man mano che ci si inerpica sulla struttura. Le cave di estrazione
giacciono lontane, quasi a 1 km di altezza sopra l’altro versante del Vilcamayu. Ritroviamo i
medesimi schemi costruttivi del Puma Punku, con blocchi litici incastrati da giunti metallici. Una
massiccia apertura lungo una paret ricorda, invece, la Porta dei Leoni a Micene. Sulla sommità
svetta un muro formato da pietre gigantesche di profido rosa che reca l’incisione di tre pirmnaidi a
gradini poste in ordine decrescente, a nostro avviso i tre colosssi di Giza. Il muro, coin altri massi
sparsi sul terreno, forma i resti di quello che un tempo era un santuario astronomico.

Una “perla di grande valore”


Si conclude il nostro viaggio a ritroso nelle ère, a contatto con i nostri progenitori, dediti allo scopo
immortale di possedere il Cielo purificando la Terra. In Egitto, la cintura di Orione si specchia nelle
piramidi custodite dalla Sfinge, i templi sacri del Messico puntano alle Pleiadi e ai vicini astri, la
costellazione del Draco brilla su Angkor Vat, il monte del Cosmo. Nel Pacifico i santuari
sottomarini testimoniano un culto del Sole prima del Diluvio confluito nello straordinario
osservatorio dell’Isola di Pasqua, sulla costa peruviana pulsa il candelabro di Paracas disegnato
secondo la Croce del Sud e la piana di Nazca con i suoi affascinanti petroglifi stellari effigiati, forse,
dalla stirpe ciclopica che si erse in Bolivia.

Solo una civiltà profondamente elevata poteva dar vita a un simile arabesco legato al dominio dei
Cieli sulla Terra. I suoi iniziati, sotto la guida di sapienti Maestri, percorrevano a ritroso la volta
celeste verso remote configurazioni stellari, alla scoperta di sé, plasamando nella pietra la
conoscenza sacra millenaria. Fulcro della profonda ricerca era l’anima, una “perla di grande
valore”, la sola in grado di spalancare nuovamente le porte dimenticate del Cielo. Rispettando
questo dono, saremo in grado di portare luce nella vita, l’unica “nostra occasione per prepararci a
questo viaggio, un’occasione che in nessun caso dovrebbe essere sprecata”.

L’Ordine Del Serpente

Prima che la vita nascesse sulla Terra, in cielo regnavano i serpenti, custodi delle sacre tradizioni,
che donarono all’umanità il fuoco della conoscenza.
Il rettile detiene la chiave che svela la storia dimenticata
delle nostre origini.
Il simbolo più antico del mondo è il serpente, animale
affascinante e misterioso che popola i nostri sogni. La sua
storia ha origini molto remote come il culto, tramandato nei
millenni da un gruppo ristretto di iniziati. Ogni popolo
venerava il rettile con riti complessi, legati a un sapere
ancestrale confluito poi nell’arte sacra e nei miti, sorta di
multiformi capsule temporali. Un raffronto a livello
cronologico e antropologico tra lontane civiltà penetra in
parte il messaggio che lasciarono, evidenziando numerose
somiglianze e ricostruendo la genealogia di un simbolo
immortale.
La Vibrazione dalle Sette Teste
Gli Scritti sacri e ispirati della civiltà Mu, fiorita oltre
50.000 anni prima nell’Oceano Pacifico, erano tavolette di
argilla effigiate dalla stirpe dei Nacaal, i Santi Fratelli.
James Churchward, ufficiale britannico di stanza in India
nel 1868, entrò in contatto con un Rishi del monastero di
Brahmaputra, in Tibet, che gli mostrò le numerose iscrizioni
e il giovane dedicò la sua vita a decifrarne i caratteri,
visitando il mondo alla ricerca di conferme archeologiche
che avvalorassero l’esistenza di Mu.
La Genesi dei Nacaal tramanda che la Potenza Autoesistente, il Serpente dalle Sette Teste, modulò
sette ordini per creare i mondi. I gas plasmarono la Terra nello spazio, l’atmosfera e le acque, infine
la luce solare dardeggiò nelle liquide profondità e il fango partorì le uova cosmiche. Il glifo
corrispondente mostra, infatti, il disco del Sole percorso da un piccolo serpente piumato sinuoso,
che secondo Cotterell ne Le Profezie di Tutankhamon esprime l’attività delle macchie undecennali
nella regione dell’equatore solare. Interessante la sua affermazione in proposito: "…la leggenda del
serpente piumato raccontava la storia di come il Sole influenza la vita sulla Terra. Il serpente
piumato era il Sole". Questa rappresentazione, una costante nel nostro studio, assurgerà a fulcro
della vita presso i Maya.
Il regno dei Naga
Nei miti cosmogonici indiani ricompare inalterato il medesimo credo. Vishnu riposa sul serpente
dalle sette teste Sesha ("Durata") o Ananda ("Infinito") mentre sogna la creazione dell’Universo, e
in un gesto di consapevolezza sparge il suo seme nelle acque cosmiche, che si muta in un uovo
d’oro "uguale per splendore al Sole", germe di ogni creatura vivente. Il sanscrito bija, seme, ha dato
origine al termine egizio bja, di identico significato, che richiama il ferro meteorico incarnato dalla
Fenice che torna ciclicamente sulla Terra per inumare il padre dentro un uovo. Anche Sesha incarna
lo scorrere delle epoche e un suo sbadiglio provoca un fuoco rigeneratore che si abbatte sulla Terra,
i meteoriti, serpenti delle profondità siderali. Allo stesso modo di Takasaka, uno dei naga, che
incendia col solo respiro. I naga erano divinità serpentiformi, re–cobra detentori della supremazia
celeste, dimoranti a Nagaloka. Come i Maya e gli Egizi, il pantheon indù prevede nove deità,
definite i "Nove Cobra di Brahma". L’origine dei naga si perde nel tempo, dato che i più antichi
poemi epici indiani quali il Ramayana li collocano in un’epoca risalente a 870.000 anni fa e il libro
tibetano Le stanze di Dzyan parla di loro come "I serpenti, che ridiscesero, che fecero pace con la
quinta razza, che l’ammaestrarono e l’istruirono". Un rilievo in pietra di Orissa, del X sec. d.C.,
ritrae le divinità Naga e Nagini con lunghe code intrecciate sotto la vita, come più tardi avverrà per
Iside e Osiride tra i Frigi, scolpiti in forma di cobra.
È ad Angkor Wat che la simbologia del rettile è magistralmente rappresentata da innumerevoli
sculture di cobra che sormontano il disco solare ed esprimono, secondo Hancock, la costellazione
del Dragone, adagiata come un cobra in atto di sfida. La corta piramide Phimeanakas puntava verso
il Draco e al suo interno avveniva "l’unione" del sovrano con una donna–serpente, rito iniziatico di
carattere astronomico. Particolare rilievo assume, infine, la Frullatura dell’Oceano di Latte, istoriata
sui muri dei templi, ove il naga Vasuki, tirato alle estremità, incarna il tragitto solare nella
precessione degli equinozi entro le vastità della Via Lattea e la nascita di un nuovo mondo.
La serpe della vita
Il rettile richiama altresì le forze latenti nell’uomo. Un sigillo in terracotta di 3.000 anni fa ritrae un
personaggio assiso in posizione yogica, con due cobra ai lati e due fedeli in adorazione. La dottrina
dello yoga, diffusa nel globo intero, descrive numerosi centri vitali del corpo, i chakra, piccole ruote
che corrispondono a precisi organi interni connessi a importantissime funzioni. Adeguatamente
attivati, producono una frequenza elettromagnetica che interagisce con i condotti vitali e l’energia
kundalini alla base della colonna vertebrale. Questa preme all’interno e sale sotto forma di serpente
elettrico sino alla ghiandola pineale, donando una sensazione di completezza nell’uomo. Il caduceo
di Thot/Hermes, derivazione del bastone brahmanico, è avvolto dai serpenti, il flusso energetico
spiraliforme, mentre la sommità sferica rappresenta il cervello con i ventricoli, due ali, segno di
purezza spirituale. Il Buddha, nona incarnazione di Vishnu, divenne l’illuminato quando il re–cobra
a sette teste Mucalinda gli porse riparo durante una tempesta, metafora di elevatezza nel caos della
vita. Ancor oggi, i monaci tibetani utilizzano trombe ricurve decorate da serpenti attorcigliati per i
loro riti. Il vecchio serpente La Persia nel 588 a.C. vide fiorire la predicazione del profeta
Zarathustra, che espose la sua dottrina enucleandola dal più antico culto dei Magi.
A capo del pantheon divino stava Ahura Mazda, la luce, con il figlio Mithra e una schiera di entità
splendenti, i daeva. Alcuni di essi disobbedirono all’ordine cosmico influenzati da Angra Maynu, il
principio oscuro, definito come "il vecchio serpente con due piedi". Anche le tribù degli yezidi in
Kurdistan credono in Lasifarus, angelo splendente che formò il mondo dall’uovo cosmico e il
sepolcro dello sceicco Adi, a Lalish, presenta sulle pareti glifi stellari attorno a un serpente nero,
oggetto di culto profondo. Alcuni yezidi, poi, sono in grado di addomesticare i serpenti e immuni
dal loro veleno, al pari degli incantatori indiani. Un legame tra le due culture parve trovarlo E. S.
Drower, che nel 1940 esplorò una grotta yezida ornata da statue con copricapi conici nella posizione
meditativa del Buddha.
Il popolo yaresan, affine per molti versi agli yezidi, è devoto al sultano Azhi Dahâka, re–serpente
della schiera di daeva vicini ad Angra Maynu. Gli iraniani definivano i sovrani Medi mâr, serpente,
e Astiage di Media (584–550 a.C.) aveva anche l’appellativo di Rshti-vegâ Azhi Dahâka. In
persiano moderno azdahâ è ancora il rettile, segno di una sopravvivenza duratura degli antichi miti.
Gli Armeni, dal canto loro, ricordano la "dinastia dei draghi (vishap) di Media" – come in Cina –,
adorati presso antichi megaliti. La discendenza si propagò sino al valoroso re Tigrane il Grande,
vissuto nel secondo secolo a.C., fondatore della metropoli Tigranavand in Kurdistan, centro di
adorazione di un serpente antropomorfo. Il culto quasi ossessivo personifica, in realtà, l’attenzione
per la parte ombra insita nell’uomo che lo voterà gradualmente alla luce, concetto personificato
dalla triade indissolubile Angra Maynu, Ahura Mazda e Mithra.
Le spire del Kosmokrator
Il dio Mithra compare nei Veda con il significato di "amico per mezzo del patto", e invariato rimarrà
in persiano antico. Le caratteristiche precipue dei misteri del dio emergono chiaramente dallo studio
approfondito dei mitrei romani, in particolare quello delle Sette Sfere ad Ostia antica. Il rituale
prevedeva sette gradi, strettamente legati ai pianeti ed espressi da simboli, che culminano in quello
finale di Pater, rappresentato da Mithra stesso.
Il primo grado era sotto la tutela di Mercurio, effigiato con il caduceo in mano. Il secondo grado,
invece, simboleggiato dal serpente – legato a Venere – che ringiovanisce con la muta stagionale
delle pelle. Il rettile domina la componente architettonica mithraica, ne costituisce anzi il fulcro. La
scena più diffusa è il dio che taglia la gola al toro bianco stellare, scaturigine della vita, mentre al di
sotto appaiono vari animali, tra cui il serpente che si nutre del seme del toro. Il serpente assume
l’identità della maestosa costellazione dell’Hydra sulla volta celeste attraversata da Mithra in veste
di governatore delle stelle. Il rettile da solo compare lateralmente in un altare nella chiesa di San
Clemente a Roma, come la stele di arenaria rossa nel Kalasasáya dedicata a Viracocha. Spunta, poi,
da un albero, come nel racconto della Genesi; se Mithra nasce dalla roccia, che in persiano significa
anche cielo, l’animale la circonda maestoso.
La raffigurazione più potente del dio è incarnata dal Kosmokrator (potere creatore e reggitore del
Cosmo), statua alata a grandezza naturale dal volto di leone, avviluppata dalle spire di un serpente
che si erge sopra l’uovo primigenio. Il quarto grado dei misteri era riservato al Leone,
personificazione di Angra Maynu, mentre il rettile descrive il percorso spiraliforme del Sole intorno
alla Terra nel corso dell’anno. Infatti, se assegniamo il corrispondente valore numerico alle lettere
del nome greco di Mithra, Mei’qraV, sommandole avremo 365.
L’accecante guerra di Ra
Riferimenti specifici al superbo animale, in Egitto, troviamo nei primevi
miti della creazione, densi di profonde simbologie. Nei Testi delle
Piramidi il dio Ra dà vita a "Gli Inerti" nell’Oceano Primordiale ",
serpenti cosmici relati forse alle orbite di pianeti ancor privi di
movimento, formati da gas inerti. In altri racconti lo stesso dio, nel
pieno del suo fulgore, plasma un "primo universo" popolato da
individui che si alleano contro di lui quando in seguito diventa vecchio.
Indignato, decide di sterminarli con l’aiuto del suo Occhio, poi, stanco e
deluso il sommo dio sale in alto nel cielo e nasce l’attuale mondo. Per garantire la vita sulla Terra,
Ra e la sua progenie solcano la volta splendente della Galassia sulla "Barca dei Milioni di Anni",
costantemente in lotta con l’antico serpente Apep. Rivalità espressa nei combattimenti tra Horus e
Seth, quest’ultimo associato variamente alla dissoluzione in forma di serpente. I testi del tempio di
Horus a Edfu ricordano, infatti, un grande serpente fiammeggiante che visitò la Terra in epoca
remota.
La scena della battaglia solare è illustrata in molte pitture parietali all’interno di tombe e templi
egizi, mentre la formula 332 dei Testi delle Piramidi, un corpus di sapere esoterico, recita: "Sono
colui che è fuggito dal serpente attorcigliato, sono asceso in un’esplosione di fuoco dopo essermi
girato all’intorno. I due cieli vengono a me".
L’intero mito di Ra andrebbe forse ascritto al confuso ricordo di una catastrofe cosmica di una stella
centrale della Galassia, che ha interessato diversi pianeti. Murry Hope nota con acume che il
processo di contrazione (la dipartita di Ra) da una stella gialla a una nana bianca prevede una
spettacolare espansione in una rossa supergigante e l’eiezione dell’involucro in una nebulosa
planetaria. L’effetto è simile a un enorme serpente che racchiude l’astro, l’Apep, destino che
toccherà in sorte ai corpi celesti dopo svariati milioni di anni.
Rivivere tra le stelle
La stele del re serpente, della tomba di re Djet ad Abydos (3.100 a.C.), ricorda la suprema
identificazione dell’uomo con il rettile. Gli Egizi descrivevano l’Universo come un serpente
"Ouroboros" che si morde la coda, con scaglie simboleggianti gli innumerevoli astri. Il rettile era
anche segno di rinascita, prezioso alleato che conduce alla comprensione di sé, come mostrano
affreschi del Libro di ciò che è nel Duat, effigiati nelle tombe della Valle dei Re. Il Duat era un
regione celeste che abbracciava Orione, il Leone e l’Orsa Maggiore, dimora imperitura cui
aspiravano i monarchi egizi al termine della loro vita.
Le complesse cerimonie descritte sulle pareti riecheggiano l’antica lotta del Sole per risorgere di
nuovo all’orizzonte nelle acque della vita e l’ascesa dell’anima verso i lontani pianeti. Il simbolico
viaggio, di dodici ore, comincia nell’equinozio primaverile quando il cielo muta configurazione,
con l’iniziato che prende posto nel medesimo vascello solare accompagnato dalle divinità.
Interessante la I Ora che descrive l’invocazione a Ra: "…i serpenti cantano e ti esaltano. I divini
serpenti illuminano le tenebre per te. Le tue due ‘figlie-serpenti’ ti trainano nella tua forma…Le dee
serpenti dell’Uranos ti acclamano, le dee serpenti ti rendono lodi…". Incontro al gruppo si para il
Sigillatore della Terra, in veste di guida, che impugna una sorta di caduceo. Interessante, poi, il
parallelo tra le serpi lucenti e i dispositivi dal complesso significato della cripta di Dendera. Il
viaggio prosegue in regni sconosciuti, pieni di oscuri anfratti, dominati da serpi alate davanti alla
croce della vita ankh e a stelle particolari, a rimarcare il loro carattere di rinascita siderale, oppure
con il globo solare sul capo. Il candidato, salito alle sfere stellari, alla fine esclama: "Io prendo
possesso del cielo, dei suoi pilastri e delle sue stelle… Io sono un serpente pieno di spire…".
Lo sguardo del Cobra
Per gli Egizi, significative erano le costellazioni circumpolari. Sappiamo, infatti, che le piramidi a
Giza rispecchiano gli astri della cintura di Orione, con il Nilo che striscia verso Nord a imitazione
della Via Lattea, mentre il condotto settentrionale della Camera della Regina, nella piramide di
Cheope, guarda la stella Thuban nel Draco. I riti astrali della rinascita in epoche remote
prevedevano l’utilizzo di un oggetto di bronzo simile alla lingua biforcuta di un rettile per la
cerimonia dell’apertura della bocca; copia è stata rinvenuta proprio nel canale nord della Grande
Piramide dai fratelli Dixon, nel 1872.
A conferma di un culto per il serpente celeste spicca la magnifica piramide a gradini di Zoser, a
Saqqara, che guarda una serie di strutture sacre contornate da file di cobra in pietra, animale che
rispecchia la forma della dea-cobra Edjo. Osiride stesso, divenuto serpente nel Duat, aveva una
dimora di "cobra vivi" nell’acqua. Ogni tempio egizio portava scolpito sul frontone il simbolo del
disco solare alato vigilato da cobra ritti. In antico egizio, il segno per il cobra, ara, incorporava
anche il significato di "dea" e il rettile, segno distintivo di molte divinità, andò ad ornare il
magnifico copricapo del giovane Tutankhamen, accanto all’avvoltoio, con il nome di uraeus
(femmina del cobra).
Posto sul copricapo di Osiride, dono di Ra, emanava strane radiazioni in base al Libro dei Morti e in
veste di arma lanciava raggi infuocati ("il respiro del serpente divino"), al pari dell’Arca
dell’Alleanza. Notevole, infine, il diadema di Tutankhamen con il cobra che si erge come linea
divisoria fra gli emisferi cerebrali, mentre il secondo santuario del giovane faraone raffigura diversi
uomini di fronte a un cobra gigante colpiti dai raggi promananti da luminosi astri...
Il popolo sumero conserva memorie ancestrali degli Anunnaki, che forgiarono l’uomo grazie al
potere del serpente, lasciando nel nostro corpo una linea genetica che regna incontrastata da allora.
Il mito della creazione di Adamo ed Eva descritto nella Genesi prende le mosse dalle tavolette
cuneiformi, eredi a loro volta di un sapere più antico.

Nel pantheon sumero ricettacolo di suprema conoscenza era EN.KI/E.A ("colui la cui casa è
l’acqua"), che amava l’uomo e lo aiutò ad evolvere da semplice creatura ad essere senziente,
contrastato dal fratello EN.LIL. L’effige del dio era una freccia stilizzata enucleante il termine
BUZUR, "detentore dei segreti" e "detentore dei metalli", con allusione alla segreta arte alchemica.
Nella Bibbia il medesimo vocabolo è nahash, "serpente", correlato alla progenitrice Eva, tradotta
come "vita", "serpente femmina", "Signora del serpente" e "madre di tutti i viventi". La lingua araba
chiama il rettile al-ayyah, "il vivificante", omofono ad Allah, suggerendo in tal modo che gli antichi
contemplassero un’Energia Madre quale scaturigine della vita. Un testo ebraico sostiene che Eva
generò Caino insieme ad Enki, mentre Abele nacque dall’unione con Adamo. Il segno posto su
Caino, di dinastia regale, era la rosacroce simboleggiante la Coppa delle Acque, l’utero femminile.

Verso l’Albero della Vita

Enki si rivolge ad Eva nel giardino dell’Eden spingendola a gustare i frutti dall’Albero della
Conoscenza del Bene e del Male, istoriato allegoricamente nei sigilli cilindrici come deità con rami
simili a sinuosi spermatozooi e alla vagina: con l’energia sessuale controllata l’uomo ascende al
cielo. Il messaggio si completa in altri bassorilievi di epoca assira raffiguranti uomini di rango
elevato che montano la guardia ad un apparato simile alla spina dorsale e reggono in mano una
pigna, la pineale.

Nel racconto di Adapa, l’Adamo biblico, è scritto: "La conoscenza Enki gli diede, ma non
l’immortalità". Difatti Enlil, scoperto lo stratagemma del fratello, scaccia la coppia divina
dall’Eden, negandogli l’accesso all’Albero della Vita. Secoli più tardi l’eroe Gilgamesh partirà
verso mondi lontani per carpire agli dèi l’ultimo segreto. Quale? Gli adepti di Enki ritrassero il dio
con due enormi serpenti in foggia di veste attraversata da bande orizzontali, la doppia elica del
DNA e i suoi quattro composti organici. Sotto di lui l’ankh egizia, la vita eterna. Tradizioni
sudamericane parlano di Tomapa, che prediceva il futuro con una croce ansata. Il suo nome
significherebbe "colui che ha in sé l’Albero della Vita da cui si tagliano verghe magiche".
Clonazione deriva dal greco kloon, ramoscello. Troppe le coincidenze.

Il maestro della stella bianca

In nessuna parte del globo ha raggiunto tanta potenza come in Mesoamerica il culto del Serpente
Piumato. Furono gli Olmechi a introdurlo con gli attributi suoi propri, il pettorale a sette punte a
forma di conchiglia e il glifo di Venere, che si combinano per dar luogo ad un preciso simbolismo
astronomico. L’animale rappresenta, nel contempo, il veicolo spaziale lucescente che emette
fiamme e brilla velocissimo nella notte, secondo la descrizione che farà Sanconiatone di Berito
nella sua Storia Fenicia.

Il dio Kukulkàn, Serpente Piumato dai colori dell’arcobaleno (Quetzalcòatl per gli Aztechi), era
considerato dai Maya il creatore dell’uomo, colui che infuse l’impulso evolutivo ai nativi del
Messico. Dalla pelle chiara con la barba, sua madre lo concepì dopo aver ingerito uno smeraldo,
nascita tipica dei grandi avatàr. Promulgò leggi giuste e insegnò la scienza astronomica attraverso il
sacro calendario dal ciclo di 52 anni legato a Venere e alle Pleiadi.

In vita si oppose al feroce Tezcatlipoca, il quale lo costrinse a partire definitivamente, con la


promessa però di ritornare instaurando una nuova èra. Raggiunta la riva celeste dell’acqua divina e
abbigliatosi sontuosamente, si immolò nel fuoco e disparve su una zattera di serpenti, per
ricomparire otto giorni dopo sotto forma della stella Venere. Anche in Nepal si venera una divinità
distesa sopra dei rettili dal soprannome di Narayan, "colui la cui casa è l’acqua". La piramide–
tempio di Quetzalcòatl a Teotihuacan presenta maschere serpentiformi del dio accanto a conchiglie
di area caraibica.

Fuoco dalle Pleiadi

Andrew Collins ha visitato a Cuba, secondo lui l’antica Atlantide, la prima di sette caverne a Punta
de l’Este, segnata con graffiti di una cometa serpentiforme che genera anelli concentrici. Il sito ha
due fori per registrare sin da epoche arcaiche il transito di Venere, pianeta connesso alla
costellazione delle Pleiadi, simboleggiata presso i Maya dal sonaglio del serpente. Tra gli abitanti
locali è viva la memoria di un asteroide caduto migliaia di anni prima nel Mar dei Caraibi, descritto
come un gigantesco rettile infuocato, e antiche tradizioni ebraiche sul Diluvio Universale narrano
che "le acque superiori precipitarono nello spazio creatosi quando Dio rimosse due stelle dalla
costellazione delle Pleiadi". Gli Olmechi sostengono che l’umanità sia emersa dall’interno di grotte,
a imitazione delle quali costruirono i loro osservatori stellari sotterranei. Sembra quasi che gli ignoti
artisti vogliano attirare la nostra attenzione sui misteriosi pittogrammi, unico indizio che punta ai
cieli. Che altro sappiamo di loro? Esiste un’eredità perduta di cui non abbiamo sentore? La risposta
ai molti interrogativi giace nelle giungle tropicali.

La stirpe di Ahau Can

Nel Popol Vuh dei Maya si parla di numerose tribù madri fuggite nell’oscurità dalle sette caverne di
Aztlàn, nel lontano est. Tutto fa pensare ai sopravvissuti di una catastrofe planetaria che ha coperto
di tenebra il pianeta, effetto creatosi in seguito ad un impatto cometario. I sedici Libri di Chilam
Balaam ricordano, invece, l’arrivo nello Yucatan in tempi remoti di uomini biondi barbuti dalla
carnagione bianca e gli occhi azzurri, giunti a bordo di zattere che scintillavano come le squame di
un rettile. Erano guidati da Itzamna, che guariva con l’imposizione delle mani e donava la vita ai
defunti. I sacerdoti si facevano chiamare chanes, "serpenti", o ah-tzai, "popolo del serpente a
sonagli". Gli stranieri tributavano un’importanza enorme al rettile, il Crotalus durissus durissus,
conosciuto come Ahau Can, il "Gran Signore Serpente" e venerato parimenti nell’intera America.

Fu il motivo geometrico della sua pelle, rombi attraversati da una croce, a ispirare l’architettura
sacra (come nei fregi di Uxmal) e l’orientamento ai quattro punti cardinali delle strutture maya. Il
simbolo vivente è il tempio di Kukulkàn a Chichén Itzà, ove la luce solare ai due equinozi crea sulla
scalinata nord un suggestivo serpente formato da sette triangoli splendenti, il dorso del crotalo.
L’animale compie la muta della pelle una volta l’anno quando il Sole nello Yucatan è allo zenit a
metà luglio, acquisendo nel contempo un nuovo sonaglio. Cambia poi i denti ogni venti giorni,
associabili a un particolare computo temporale maya. Come controparte delle brillanti Pleiadi,
ricordava il nuovo ciclo ad opera della costellazione sorta prima di Venere nel 3.114 a.C., data di
inizio del calendario mesoamericano. Cerimonia solennizzata dall’accensione di un fuoco sacro
sopra la statua di Chac Mool a Chichén Itzà, fiancheggiata da statue di rettili giganti con la coda a
sonagli disposti ad L. Anche il sito di Tiahuanaco, in Bolivia, era progettato come un grandioso
orologio stellare e il fregio sulla Porta del Sole identifica una camera segreta sotto la piramide
Akapana dominata dal serpente, simbolo della conoscenza suprema.

Un rito sconcertante introdotto dai chanes è la deformazione del capo dei bambini nobili, per
conferir loro inusitate doti intellettive e l’aspetto degli dèi serpente. Significativi i crani allungati
rinvenuti pressochè in tutto il globo, dall’America all’Egitto. Anche Pacal, il sovrano maya di
Palenque, presentava le medesime caratteristiche e la maschera di giada che copriva il suo volto
nella cripta sotterranea è incisa con squame serpentine, mentre sui pilastri del Tempio delle
Iscrizioni compaiono donne con un bambino in braccio la cui spina dorsale si prolunga in un rettile.
Inoltre, combinando le figure della lastra di Palenque, Cotterell ha individuato la sequenza
mitologica del serpente piumato nelle sue manifestazioni.

La schiera dei Vigilanti

L’eco degli dèi serpente giunge sino i compilatori dell’Antico Testamento. Il Libro di Enoch e il
Libro dei Giganti (apocrifi derivanti dal Libro di Noè) descrivono l’arrivo sul pianeta di duecento
Vigilanti capeggiati da Semyaza che si uniscono alle donne terrestri generando esseri semidivini.
Rivelano agli uomini i misteri celesti quali la metallurgia e la scrittura, nonché l’immunità ai veleni
dei rettili. L’aspetto dei Vigilanti viene chiarito da un’altra opera apocrifa, Il Testo di Amran, ove il
padre di Mosè s’imbatte in creature dal volto di vipera, riprodotte anche nelle statuine della cultura
Ubaid in Mesopotamia. La Genesi definisce gli strani esseri "figli Dio" e non correttamente "figli
delle dee", e la loro prole nephilim, giganti, in realtà i discendenti del serpente. Un'altra variante del
mito di Kukulkàn è Votan, dei Guardiani della razza di Can. Se questi ultimi fossero i Vigilanti, non
è casuale l’accostamento tra chan, Can e Caino.

Il Figlio dell’Universo

Il sapere giunto dal cielo si trasmise alle scuole iniziatiche del Medio Oriente, cui era affiliato
Mosè. Celebre l’episodio del patriarca che forgia un serpente di rame nel deserto contro
un’epidemia di serpenti ai danni degli Israeliti. Chiunque avesse posato lo sguardo sull’amuleto
sarebbe guarito all’istante. Da qualificate ricerche mediche è emerso che il radionucleide rame – 62
è un "emettitore di positroni" benefico per il sangue e gli altri composti del metallo potenziano le
cellule viventi. L’immagine del rettile che salva dalle infermità verrà ripresa secoli più tardi dal
Vangelo di Giovanni che fa dire a Gesù: "E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così
dev’essere innalzato il Figlio dell’uomo, affinché chi crede in lui avrà la vita eterna". Al tempo di
Erode circolava la leggenda che una vergine giudea, identificata in Maria, fosse stata visitata da un
serpente. Come Quetzalcòatl, Gesù si definiva la stella del mattino, compiva miracoli e possedeva
l’arte di incantare i rettili appresa nei suoi viaggi in India. Accostarlo alla famiglia dei chanes
sarebbe azzardato, ma è quanto ha fatto Le Plongeon, il quale sostiene che siano di origine maya le
parole del Maestro sulla croce: "Hele hele Lama, zabac tani", cioè "Ora, ora sto svenendo, le
tenebre coprono il mio volto".

La gnosi cristiana è fermamente convinta che ognuno di noi nasca come un serpente destinato a
strisciare sulla Terra per raggiungere alfine le stelle. La setta degli Ofiti (dal greco ojiV, serpente)
affermava che l’uomo, nato da un uovo e da un serpente, replica l’Universo mentre il nostro
intestino richiama la forma dell’animale. Da qui il significato simbolico del labirinto e
l’osservazione delle viscere a scopo divinatorio. I Sethiani chiamavano "serpente" il potere creatore,
che plasma sibilando tramite la vibrazione sonora, il Logos.

La tredicesima costellazione

I culti orfici, sviluppatisi in Grecia nel V–IV sec. a.C., propugnano la stessa dottrina asserendo che
in principio esisteva soltanto la Notte scura da cui prese forma un grande vento nelle sembianze del
serpente Ofione, che unitosi all’oscurità generò l’Uovo primordiale. Secondo eminenti studiosi dei
princìpi pitagorici, il rettile è "il fluido vitale della procreazione, il midollo spinale che si credeva
assumesse forma di serpente". Ancora al filosofo greco si deve la credenza che la colonna vertebrale
dell’uomo si tramutasse alla morte in un serpente.
Gli Ofiogeni, antica popolazione dell’Ellesponto, facevano risalire la loro discendenza ad un rettile
unitosi con la regina Alia. Lo stesso accadde per gli Ateniesi, che inizialmente si definivano
Cecropidi, attribuendo la nascita della polis al fondatore serpente Cecrope e al figlio Erittonio. La
civiltà minoica, di stampo matriarcale, adorava una dea che stringe due serpenti, assimilata più tardi
dalla bellicosa Atena, che subentrò a Cecrope nella protezione della capitale ateniese.

La divinità intimamente legata al serpente è il dio della medicina Asclepio, che riportò in vita il
figlio di Minosse strofinandovi sopra un’erba medicamentosa rivelatagli da un rettile. Nel santuario
di Kos, in Asia minore, veniva costantemente nutrito e adorato in suo onore l’animale sacro. I
Romani credevano nel genius loci in forma di serpente che accompagnava l’individuo in vita e
tracciavano dei serpenti in un luogo per renderlo puro. Alla sua morte, Asclepio viene assunto in
cielo trasformandosi in Ofiuco, che appare nel firmamento come un uomo con il caduceo che
stringe un serpente, l’omonimo gruppo stellare. Il mito personifica la tredicesima costellazione
originaria dello Zodiaco, destinata a ricomporre il destino astrologico dell’essere umano nella
faticosa esplorazione della Galassia ove regna la quiete assoluta.

Riti delle origini

Il culto del serpente è al giorno d’oggi più vivo che mai. In Tanzania, il zoologo Fred Carnochan è
stato iniziato alla misteriosa casta dei guaritori immuni al morso del rettile grazie alla profonda
conoscenza dei sieri vegetali ancor oggi sconosciuti ai medici ortodossi, mentre in Mali la
popolazione dogon compie cerimonie rituali millenarie in onore degli esseri serpente provenienti da
Sirio. Nel Volta, invece, le donne gravide visitano la casa decorata da rettili.

Gli indiani Moki del New Mexico eseguon la danza della pioggia indossando sonagli rumorosi e
tenendo serpenti vivi tra i denti, custoditi per diversi giorni in camere sotterranee e immersi, come
gli iniziati, nell’acqua consacrata. Nel sito maya di Copán, la scultura di un dio è scolpita nella
stessa posa. Anche in Italia, a Coccullo (Abruzzo), si svolge la processione della statua di San
Domenico avviluppata da serpenti vivi, cerimonia tributata all’antica dea Angizia. E l’elenco
potrebbe continuare.

Siate furbi come serpenti

Il viaggio termina qui. L’intento primario era mostrare il fascino segreto che il serpente ha esercitato
sui nostri predecessori, consci del ruolo che ogni creatura ricopre all’interno del Macrocosmo grazie
alla vita che si manifesta nella sua totalità. La nostra ricerca, lungi dall’essere completa per
l’incredibile vastità del materiale, è suscettibile di cambiamenti ed apre il campo a numerosi e
interessanti sviluppi. Centro d’interesse rimane sempre l’uomo, erede della sapienza universale che,
ignaro, possiede le chiavi del cambiamento nella struttura biologica del suo stesso corpo. Il nostro
cervello consta di tre strati sovrapposti il primo dei quali collegato al midollo, era prerogativa dei
rettili primordiali apparsi sul pianeta Terra milioni di anni fa. Potenziando il suo pensiero, l’uomo
pone in essere il grande cambiamento che gli antichi misteri insegnavano tramite i Maestri. Gesù
lascia un messaggio importante nel Quinto Vangelo di Tommaso: "I farisei e gli scribi hanno preso
le chiavi della conoscenza e le hanno nascoste. Essi non sono entrati e non hanno lasciato entrare
quelli che lo volevano. Voi però siate furbi come serpenti e semplici come colombe".

ANTICHE CONOSCENZE:
I misteri dell’antica India
L'èra dei Vimana

I misteri della Cartografia Antica


Antichi Marinai
La Bussola sulle navi di Fenici e Shardana?

Un antico sapere: L'Astronomia


L’astronomia secondo i popoli antichi.

Nell'antichità si conosceva l’Energia?

Il Mosaico del Nilo

La lingua Universale prima della Torre di Babele


Lingue Antiche

I misteri dell’antica India

Opere immaginarie o antiche tecnologie umane o aliene?

Guerre nucleari, armi micidiali e sconosciute, velivoli incredibili che


solcano il cielo, teoria della relatività, fusione dell’atomo,
combinazione di leghe metalliche, insospettabili conoscenze
metallurgiche: tutti argomenti che sembrano tratte da opere di
fantascienza o da reportage di inviati sui fronti di guerra dal 1945 in
poi.
Terreno fertile per geni della letteratura fantasy come Lovercraft o
Burroughs, o, per avvicinarci ai nostri tempi, Isaac Asimov.
Invece niente di tutto questo: i testi che contengono tali numerosi e
particolareggiati riferimenti a mezzi, armi e tecniche che suonano
particolarmente familiari ai nostri tempi, cioè al tempo che vede l’uomo affacciarsi al nuovo
millennio, sono antecedenti alla nostra civiltà di migliaia di anni, frutto, non delle menti ardite dei
grandi nomi della letteratura fantasy sopra citati, ma di ignoti scribi dell’antica India, che, in un
determinato periodo storico, forse il 1500 a.C., decisero di vergare su carta millenarie tradizioni,
tramandate di generazione in generazione in forma orale, magari accanto al fuoco di un bivacco di
pastori o nei cortili delle case, dove un vecchio cantastorie ammaliava con i suoi racconti bambini
sognanti, così come è successo per i testi biblici.
Testi come il Mahabharata, il Samarangana Sutradara, il Ramayana, la Mahavira Chiarita, e altri
ancora, suonano alle nostre orecchie stranamente contemporanei, benché non si possa nascondere lo
stupore più genuino quando si considera che sono divisi da noi da una coltre di circa 3500 anni o
forse più.
E ancora più strani, questi poemi epici ( poiché così furono considerati e ancora lo sono) dovettero
sembrare ai loro primi traduttori in lingua inglese che, nel tardo 1800, incominciarono , con la loro
traslazione, ad affrontare un mistero senza eguali, tanto da costringere il loro principale traduttore,
P. Chandra Roy, che nel 1884 terminò la traduzione del Mahabharata, a sostenere, nella prefazione,
che "in questo libro vi sono molte cose che appariranno ridicole al lettore tipicamente inglese"!
In effetti la descrizione di aeronavi spaziali (vimanas), armi paralizzanti (mohanastra),, di cannoni
cilindrici ( agneyastras), di carri celesti a due piani, con tutto un contorno di razzi, proiettili e vari
tipi di esplosivo, dovettero sembrare voli pindarici di fantasia, se raffrontati all’epoca, la seconda
metà dell’800, in cui vennero rese note le prime traduzioni; un epoca in cui era ancora a divenire
l’invenzione dell’aeroplano, dei gas nervini (avrebbero fatto il loro esordio nella 1° guerra
mondiale), dei razzi con equipaggio umano e delle bombe atomiche!
Proprio queste incongruenze conoscitive rende queste traduzioni tutt’altro che confutabili, in
quanto, proprio per la mancanza delle conoscenze scientifiche e quindi di un’adeguata terminologia,
dovrebbero essere esenti da errori dovuti ad una contaminazione dell’interpretazione linguistica.
Quasi che fossero stati scritti oggi, invece di migliaia di anni fa, questi testi parlano di argomenti
come la relatività del tempo, dei raggi cosmici, la natura dell’atomo, la legge della gravità ed altro
ancora.
La scuola filosofica scientifica Vaisesika sviluppò e conservò la teoria che gli atomi erano in
continuo movimento.
Il Mahabharata, gigantesco poema composto da 200000 versi, non solo parla di usi, costumi,
religione, del cosmo, storie e e leggende degli dei, ma si addentra persino nella descrizione di
particolari macchine volanti, i vimanas, (presenti anche in altri testi), sulle loro capacità tecniche di
volo, sui materiali di costruzione, e persino sul tipo di propellente usato, il mercurio rosso ( di cui
oggi si fa un gran parlare, anche se la sue esistenza non è stata accertata), nonché sui principi per
costruirle.
In altri passi sembra descrivere una guerra atomica, osservata direttamente.
Questi versi, che riporto di seguito, sembrano risvegliare in noi, lettori del 2000, paure ancestrali
agghiaccianti, nate nel nostro animo dal 1945 in poi, e che raggiunsero il loro apice durante il
periodo della Guerra Fredda fra USA ed URSS;
"Un solo proiettile, carico di tutta la potenza dell’universo. Una colonna incandescente di fuoco e
fumo, lucente come diecimila soli, si levò in tutto il suo splendore..era un’arma sconosciuta, un
fulmine di ferro, un gigantesco messaggero di morte, che ridusse in cenere l’intera razza dei
Vrishnis e degli Andrakas… I cadaveri erano così bruciati da essere irriconoscibili. I loro capelli e
le loro unghie caddero, il vasellame si ruppe senza causa apparente, e gli uccelli divennero bianchi.
Nel giro di poche ore, tutti i cibi erano diventati infetti..per sfuggire a questo fuoco, i soldati si
gettarono nei fiumi, per lavarsi e lavare i loro equipaggiamenti…. Quella potente arma portò via
masse di guerrieri, cavalli, elefanti e carri, come fossero foglie secche degli alberi.. trascinate dal
vento..sembrano bellissimi uccelli in volo..che volano via dagli alberi..grandi nuvole che si aprono
l’una sopra l’altra come una serie di giganteschi parasoli (N.d.A.:la famosa nube a forma di fungo,
tipica di un’esplosione atomica?)…..l’arma misurava tre cubiti e sei piedi..era rovinosa per tutte le
creature viventi….le due armi si scontrarono in cielo. Allora la terra, con tutte le sue montagne, i
mari e gli alberi prese a tremare, e tutte le creature viventi furono riscaldate dall’energia delle armi e
gravemente danneggiate, i cieli avvamparono e i dieci punti dell’orizzonte si riempirono di fumo.."
Vi è anche la descrizione dello scontro fra due di questi missili in cielo:
"…Le due armi si incontrarono in cielo, in mezzo all’aria. Allora la terra, con tutte le sue montagne,
i mari e gli alberi prese a tremare, e tutte le creature viventi furono riscaldate dall’energia delle
armi, e gravemente danneggiate: I cieli avvamparono e i dieci punti dell’orizzonte si riempirono di
fumo…"
Non siete soddisfatti? E allora beccatevi le misure di questa bomba o arma che dir si voglia:
" Uno strale funesto come la verga della morte. Misurava tre cubiti e sei piedi. Dotato della forza
dell’Indra dai mille occhie era rovinoso per tutte le genti e le creature viventi.."
In un altro testo indiano, il Ramayana, sembra esistano curiose descrizioni di viaggi aerei, descritti
con tanta dovizia di particolari ( frangenti sulla spiaggia, curvatura della terra, i pendìì di monti e
colline, l’aspetto di fiumi, città e foreste) da far pensare che veramente questo sia il resoconto di un
viaggiatore aereo dei tempi remoti.
Ecco un brano tratto dall’epopea di Rama, mitico semi-dio indiano, narrata nel Ramayana:di ritorno
da Lanka, dove si è recato per salvare la moglie, Sita, rapita dalle forze malvagie, il nostro eroe
viene munito di uno di questi famosi velivoli, conosciuti come vimanas:
Rama :"sembra che il movimento di questo veicolo sia cambiato.."
Vishishara :" ora questo veicolo si sta allontanando dal centro del mondo.."
Sita : " Come mai questo circolo di stelle appare..persino di giorno..?"
Rama :" Regina! E’ davvero un circolo di stelle, ma a causa dell’enorme distanza noi non possiamo
scorgerlo durante il giorno, perché i nostri occhi sono offuscati dalla luce del sole. Ma ora, con
l’ascesa di tale veicolo, questo non ha più ragione di essere..e così noi possiamo vedere le stelle.."
Il riferimento al circolo di stelle visibile anche di giorno solo con l’ascenzione in cielo, con il
superamento del confine atmosferico, non può farci dubitare piu di tanto!
Molti studiosi sostengono che la grande guerra narrata nel Mahabharata non sia altro che il
resoconto, mitizzato, dell’invasione ariana nel vasto territorio dell’India, effettuata da popoli
provenienti dal Nord, e enfatizzano questa tesi adducendo come motivo che non vi sono tracce di
una guerra nucleare.
Invece non è proprio così. Certe parti dell’Asia, ma in generale di tutto il mondo, presentano quelle
che potremmo definire cicatrici atomiche, ricevute millenni primi dell’avvento della nostra era
nucleare. La Siberia, l’Iraq, l’India stessa, ma anche zone come il Colorado, negli USA, sono dei
veri e propri rebus dal punto di vista della ricerca scientifica.
Nel 1947, in Iraq, durante scavi che riportarono alla luce antichi tracce di insediamenti che
andavano dai resti della civiltà babilonese ed assira, a quelli molto più remoti di un’antica civiltà
primitiva, risalente ad un periodo compreso tra il 6000-7000 a.C., per finire a tracce di culture del
Magdeliano, cioè circa 16000 anni fa, ebbene, venne riportato alla luce un piano di cristallo fuso,
simile a quello che venne a crearsi nel deserto del New Mexico, dopo l’esplosione che diede inizio
alla nostra era atomica!
Sempre in India, l’ antica, e misteriosa, città di Mohenjo-Daro, vero modello urbanistico per
l’epoca, presenta alcune anomalie molto strane: la sua stessa distruzione fù improvvisa e, dal
ritrovamento di alcuni oggetti vetrificati, pare che sia stata sottoposta ad un’ondata di calore pari a
1500° centigradi ed ad un subitaneo raffreddamento: proprio gli effetti che avrebbe una bomba
atomica fatta scoppiare al suolo. Naturalmente è superfluo affermare che nessun incendio potrebbe
mai creare tale ondata di calore.
I pochi scheletri ritrovati fanno pensare che la città fosse stata abbandonata poco prima della
distruzione; inoltre, tali scheletri, ben lungi dall’essere contrassegnati da ferita di arma bianca, sono
altresì estremamente radioattivi!
Le antiche tradizioni di questi posti narrano che divinità adirate con gli abitanti di queste città,
discesero dal cielo con i loro mezzi volanti e con armi terribili portarono morte e distruzione, in una
similitudine narrativa che ci riporta al mito biblico di Sodoma e Gomorra.
Naturalmente, bisogna pur ammettere che una civiltà e un popolo, come quello di Mohenjo-Daro,
seppur mirabilmente organizzati ed in grado di costruire una perfetta metropoli, con un
impiantistica urbana notevole per l’epoca, ma comunque risalente a circa il 2500 a.C., difficilmente
potrebbe essere stata una civiltà con conoscenze tali da manipolare l’energia atomica; infatti non si
capirebbe come abbia potuto scomparire senza lasciare minima traccia della suo livello
tecnologico.Alla nostra civiltà, seppur giungesse ad una catastrofe simile, probabilmente non
basterebbero sicuramente 4000 anni per smaltire almeno i nostri rifiuti, sotto forma di opere
cementizie e metallurgiche. E allora? E’ ipotizzabile l’intervento di esseri venuti dallo spazio, con
una tecnologia avanzatissima, e che avrebbero solcato i cieli, non solo dell’India, nei tempi remoti e
avrebbero ingaggiato tra loro o contro i primitivi umani epiche battaglie, che in seguito sarebbero
confluite in quel grande calderone che sono l’insieme dei miti umani, mai troppo valorizzati e
sempre più che sufficientemente sottostimati?
Ancora una volta ci troviamo davanti ad un enigma che affiora dal nostro nebuloso passato.
Ancora una volta ci troviamo di fronte a prove concrete di un passato, abiurate dal dogma
scientifico, che forse non è stato proprio come lo abbiamo "immaginato"
Ancora una volta forse ci troviamo di fronte all’intervento non tanto divino, ma di esseri provenienti
da altri mondi, che hanno in passato visitato il nostro mondo, hanno giocato con noi come il gatto
con il topo, ci hanno manipolato geneticamente, stupito con le loro
tecnologie, persino puniti, proprio come farebbero delle divinità
mitologiche.
Mappe cartografiche, fantastiche costruzioni, scheletri ed oggetti
inclassificabili nei normali canoni storici, miti e leggende su
creazioni e distruzioni, ed ora manuali di tecnologia dall’antica India:
cosa manca più al completamento del puzzle della nostra storia?
Forse solo la presentazione ufficiale degli alieni.
Forse solo la rivisitazione corretta e senza paura della nostra storia da
parte di studiosi che cercano disperatamente di tappare falle in una barca, la loro dottrina, che va
sempre più a fondo.
Oppure la nostra sola presa di coscienza che tutto è ciclico, che tutto si rinnova e si distrugge, e che
da meri presuntuosi porci al centro di un universo che non conosciamo appieno, pensando di poter
sapere quello che è successo sul nostro pianeta nei milioni di anni da quando si è formato.

L’Èra dei Vimana

Un tempo gli dèi si mostravano agli uomini nei vimana, splendidi velivoli frutto di una tecnologia
impressionante. Negli antichi trattati indiani il segreto della loro costruzione e gli eventi catastrofici
che mutarono la Terra.

È ormai assodato che le più antiche civiltà terrestri maturarono alte conquiste nel campo letterario,
artistico, politico e metafisico, espressione di un elevato grado di crescita intellettuale fiorita nel
corso degli anni. Diversi regni potenti si succedettero nel dominio di vasti territori del mondo
conosciuto, con l’annessione di altri popoli sotto la loro egida, segno di una compagine statale
determinata ed efficiente.

Altra cosa è affermare che i nostri predecessori erano in possesso di una tecnologia elevata che
ricorda da vicino i traguardi scientifici del terzo millennio. Una simile tesi stravolgerebbe
completamente l’odierna società, vanificando di colpo un lento cammino di conquiste costellato di
sacrifici che hanno donato alla nostra specie lo status di Homo Sapiens Sapiens.

Il primo passo da compiere è accogliere con mente aperta gli antichi testi sacri in chiave scientifica,
svelando in tal senso l’oscura terminologia di individui che assistettero a fenomeni fuori della loro
comprensione. Se nei medesimi libri troviamo, però, dettagliate descrizioni tecniche in un
linguaggio moderno di strane macchine mosse da un’energia sconosciuta, le cose assumono un’altra
prospettiva. Lo scrittore, anche se all’oscuro di principi aeronautici, padroneggiava specifiche
conoscenze che gli permisero di svelare un’antica scienza. Ammetterlo conduce al passo successivo,
la ricerca comparata di prove che svelino il segreto dei vimana.

L’arte di dominare il cielo

La parola vimana in sanscrito è formata dal prefisso vi, “uccello” o “volare”, e dal suffisso man che
indica “luogo abitato costruito artificialmente”. Il vocabolo assume così il significato di “uccello
artificiale abitato”. Nel 1875, venne scoperto un antico manoscritto del IV sec. a.C. composto dal
saggio Bharadwaja (presumibilmente basato su fonti di epoca vedica), il Vymaanika-Shastra o
Scienza dell’Aeronautica, che riporta in dettaglio la costruzione e le caratteristiche di volo di un
vimana, il quale si differenzia in quattro modelli principali dalle diverse funzioni: Shakuna,
Sundara, Rukma e Tripura. I disegni che emergono in base alle descrizioni mostrano autentiche navi
spaziali.

Il testo contiene in apertura questa affermazione: “Gli esperti in scienza aeronautica dicono:’Ciò che
può volare da un posto all’altro è un Vimana’. Gli esperti dicono che ciò che può volare nell’aria, da
un’isola ad un’altra isola, da un mondo ad un altro mondo, è un Vimana”. La possibilità di
raggiungere altri pianeti nel cosmo era normale a quei tempi, risultato di una scienza elevata che
esplorava i confini del sistema solare e asseriva l’abitabilità di Mercurio, Venere, Marte, Giove,
Saturno, il Sole e la Luna. Una carta stellare del 4.000 a.C., appartenuta allo studioso David
Davenport, mostra i contatti tra la Terra e altri sistemi stellari lontanissimi, patria di civiltà evolute.
Gli stessi yogi, potenziando la mente, varcano sconosciuti regni sovradimensionali.

Il Vymaanika–Shastra, dopo aver fornito istruzioni sull’equipaggiamento e la dieta dei piloti simile
a quella degli astronauti, prosegue elencando 32 segreti che gli stessi devono adottare in volo, il più
importante dei quali il trasferimento di poteri spirituali latenti nell’uomo alla macchina stessa.
Seguono: invisibilità, alterazione della forma, velocità ipersonica, radar, telecamere spia e apparati
di rilevamento sonoro, raggi infrarossi, creazione di ologrammi per confondere i nemici,
concentrazione della luce solare su vaste zone, oscurità temporanea, armi ultrasoniche e
batteriologiche. Poche le differenze con gli odierni velivoli spia.

Gli scienzati dell’Universo

Ma il Vymaanika–Shastra non è l’unica opera in circolazione sui vimana; nella letteratura indiana,
la quasi totalità dei testi sacri ne fa menzione, dai quattro Veda, ai Brahmana, allo Srimad–
Bhagavatam sino a comparire in numerosi trattati di varia natura, classificati come cronache
documentate. Tra questi, il Samarangana Sutradhara stabilisce che le aeronavi disponevano di una
propulsione a mercurio e potevano muoversi anche grazie al suono. Il Drona Parva, una parte del
più ampio Mahabharata, ce ne illustra le modalità: “La Mente divenne il suolo che sosteneva quel
vimana, la Parola divenne il binario sul quale voleva procedere…E la sillaba OM piazzata davanti a
quel carro lo rendeva straordinariamente bello. Quando si mosse, il suo rombo riempì tutti i punti
della bussola”.

La necessità di tenere nascoste ai profani le vie del cielo per il bene dell’umanità fu il proposito di
re Ashoka, imperatore buddhista della dinastia Maurya vissuto in India dal 304 al 232 a.C. Egli creò
la “Società Segreta dei Nove Sconosciuti” con il compito di catalogare la scienza del tempo in nove
libri, tra cui I segreti della gravitazione, custodito in luoghi remoti dell’Asia. Diversi anni fa i Cinesi
rinvennero antichi documenti sanscriti che trattavano dell’energia antigravità presente nell’uomo
capace di far levitare ogni cosa. I veicoli interstellari chiamati “Astras”, avevano la facoltà di
rendersi invisibili grazie all’energia antima e di operare deviazioni nello spazio–tempo tramite la
facoltà di “diventare pesanti come una montagna di piombo”. Notiamo che “astra” in lingua latina è
il plurale di stella, mentre antima ha dato origine ad antimateria, etimologicamente un’energia
composta interamente di antiparticelle. Una simile conoscenza era interamente opera umana o
scaturiva dalle profondità celesti, perfettamente note agli scienziati indù?

Vimana, dono degli dèi

La forma aerodinamica degli apparecchi spinse ad innalzare meravigliose strutture sacre di forma
piramidale, vimana per i seguaci del tantrismo, ancor oggi visibili in tutta l’India, che indicano il
tempio del dio in movimento. Varie razze di divinità, costantemente in contatto con i monarchi
indiani, assistevano ai sacrifici rituali spandendo fiori dai loro vimana, e riprendevano al termine la
via del cielo.

Arjuna, leggendario eroe vedico amico di Krishna, parla nei suoi viaggi interplanetari di lontane
regioni ove non brillano Sole e Luna, ma stelle fulgenti piccolissime se osservate dal pianeta
azzurro. Il re Citaketu viaggiava nello spazio su un veicolo luminoso donatogli dal dio Vishnu e si
imbatte in Siva, che scompare velocemente alla vista nella sua astronave.

Il Mahabharata descrive un utilizzo tattico dei vimana in guerre campali, con il lancio di proiettili
sfolgoranti che vaporizzano le creature seminando il panico e narra le vicende del monarca Salva
che, desideroso di annientare la città di Krishna, ottiene dall’architetto di un altro sistema planetario
un portentoso vimana. Il re bombarda inizialmente dall’alto la cittadella con sassi e tronchi d’albero,
e utilizza in seguito un’arma capace di manipolare le condizioni atmosferiche, ma alla fine Krishna
otterrà la sua vittoria fronteggiando in cielo Salva grazie a un missile ad ultrasuoni che uccide
all’istante. L’episodio svela che l’uomo, debitamente istruito, era pur sempre impotente di fronte a
una simile tecnologia, appannaggio degli dèi, che portò millenni prima al trionfo del glorioso
Impero Rama, in una terribile guerra stellare ricordata nel Ramayana di Valmiki.

La vittoria di Rama

Il celebre poema epico indiano narra la storia di Rama, settima incarnazione del dio Visnhu, che
prende in sposa la principessa Sita e stabilisce un vasto impero tra Iran e Afghanistan, noto nei testi
classici come “Le sette città dei Rishi”. Il malvagio Ravana, re di Lanka, rapisce la donna che Rama
parte a liberare con l’aiuto di Hanuman, uccide Ravana e infine rade al suolo la sua città.
Storicamente esistette una dinastia Ravana che regnò a Lanka per quattrocento anni, delineandosi in
tal modo uno scenario che ispirò il successivo racconto dell’Iliade di Omero, ove due imperi
combattono a causa di una donna. Quello che interessa è il frequente ricorso nel poema a macchine
volanti equipaggiate con armi incredibili, che sino all’ultimo decidono le sorti della battaglia.

Nel quindicesimo capitolo compare il Pushpaka Vimana, enorme aeronave dorata appartenuta a
Brahma, che Ravana sottrae al fratello e guida con l’aiuto di uno strano essere umanoide. In cielo
guerreggia con una schiera di astronavi nemiche lanciando missili, giunge a Lanka e Rama vincitore
si impossessa del velivolo che lo condurrà infine nella residenza paterna. Durante la traversata,
Rama illustra a Sita i luoghi dello scontro, indicando Lanka dimora dei titani, nome di una razza che
tornerà utile nel corso della nostra ricerca. Lanka, in dravidico antico “isola“, viene descritta come
un baluardo circondato d’acqua oltre un’oceano vastissimo, particolare che ha suggerito agli
studiosi David Davenport ed Ettore Vincenti l’identificazione con l’opulenta Mohenjo Daro, in
Pakistan. Lanka era bagnata dal fiume Indo più volte definito oceano e confinava a sud–est con
l’impero di Rama. Se i nessi geografici corrispondono, ancor più sconvolgenti le scoperte
archeologiche.

Il luogo della morte

La nascita di Mohenjo Daro sembra avvenire dal nulla. Fiorente metropoli che contava 30.000
abitanti, era progettata secondo un moderno schema architettonico a griglia e vantava un eccellente
sistema di fognature, nonché un enorme piscina. Il suo nome, “luogo della morte”, deriva dal
ritrovamento di 44 scheletri in vari quartieri della città, quando venne intrapresa un’esplorazione
sistematica delle sue rovine da Sir Mortimer Wheeler nel 1945. La sua scoperta si deve però
all’archeologo R. D. Banerjee che ottant’anni fa portò alla luce gli edifici sottostanti su cui sorgeva
una stupa buddhista del 300 a.C.

Gli scheletri, sparsi in un’area precisa della metropoli, giacevano scomposti con le membra
contorte, segno che la morte li ha colti all’improvviso. L’attacco da parte di tribù ariane, mito
letterario creato dal nulla, non sussiste, poiché non vi sono armi accanto ai corpi e soprattutto le
ossa presentano strane carbonizzazioni e calcinazioni, dovuto agli effetti di un’esplosione nucleare.
Soltanto una bomba a fusione è in grado di provocare simili devastazioni, con un epicentro da cui
irradia l’onda d’urto che viene a creare sull’area colpita tre zone distinte, come a Mohenjo Daro. Il
Survey of India (Istituto di Cronologia) ha sinora individuato le date di alcune battaglie cruciali in
base ai riferimenti astrologici dei Veda, effettuando una comparazione sui reperti archeologici della
Valle dell’Indo. Nel caso di Mohenjo Daro, gli esperti hanno riscontrato un salto di oltre
quattrocento anni rispetto alla cronologia accertata, suggerendo una contaminazione nucleare dei
resti organici. Davenport e Vincenti hanno rinvenuto lontano dagli scavi archeologici una piana con
oggetti d’uso comune vetrificati, che ad un’attenta analisi risultavano irradiati dall’Uranio del
Plutonio e del Potassio 40 a livelli fuori della norma.

Prove sufficienti ad avvalorare un’antica guerra tra esseri stellari, che impressionarono la memoria
dei nativi. Un manufatto di pietra scolpita mostra un casco con visiera sottile totalmente differente
dagli elmi allora in uso e più vicino a quello di un pilota, mentre il Palazzo del Governatore cinge
un ampio cortile che un tempo aveva ospitato, forse, il Pushpaka Vimana. Senza contare che un
quarto soltanto della città è stato sinora riportato alla luce; ma i riscontri non finiscono qui.

Secondo le antiche leggende, i signori del cielo irati con Lanka polverizzarono sette città con una
luce che brillava come mille Soli ed emanava il rombo di diecimila tuoni. Nel Ramayana, il saggio
Rishi avverte gli abitanti del suo eremo di scappare lontano dal Gran Deserto del Thar, poiché di lì a
sette giorni una pioggia di ceneri avrebbe messo fine al regno di Danda, cognato di Ravana. Gli
scheletri ritrovati a Mohenjo Daro sono in numero esiguo rispetto alla totalità degli abitanti, fuggiti
di colpo per evitare la purificazione celeste. Scienza e mitologia si fondono e ancora un volta gli
antichi testi confermano le odierne scoperte.

Un segreto da dimenticare

Ma una guerra atomica a bordo dei vimana è un episodio circoscritto alla sola India? Alcune
caverne in Turkestan e nel deserto del Gobi contenevano dispositivi semisferici di vetro e porcellana
con un’estremità conica ripiena di mercurio, che gli scienziati sovietici hanno definito “antichi
strumenti per la guida di veicoli cosmici”. Resti di remote metropoli vetrificate giacciono, poi, tra le
sabbie del Gobi che un tempo era patria di civiltà evolute scese a formare l’uomo. Furono loro a
governare Atlantide, che aveva in dotazione un Vimana–Vailixi adoperato per una battaglia sulla
Luna. Le Stanze di Dzyan, testo occulto del Tibet, narra che il Grande Re dal Volto Abbagliante
ipnotizzò i Signori Oscuri conscio della distruzione di Atlantide e si impadronì con il suo popolo dei
vimana nemici, per raggiungere terre lontane.

Nelle città sotterranee di Akakor, in Brasile, esistono strane mappe su cui appaiono il sistema solare
con diverse lune, due isole nell’Atlantico e nel Pacifico inabissatesi a causa di uno scontro nel cielo
tra due razze stellari che perturbò le orbite di Marte e Venere (cfr. Il regno di Akakor, ACAM
Sezione Civiltà Enigmatiche).

Gli Indiani Hopi del Nordamerica ricordano nei loro miti il Terzo Mondo popolato da uomini che
con i patuwwota (scudi di cuoio) si mossero guerra annientando la civiltà. Nell’ovest degli USA
esistono numerose rovine consumate dalle radiazioni nucleari a perenne memoria. Gli edifici delle
Sette Cidades, vicino al Rio Longe, presentano tracce di cristallizzazione che assomigliano a quelle
di Sacsayhuaman, in Perù, distribuite in un’area di 15.000 m2.

Sul Monte Rano–Kao, nell’Isola di Pasqua, si trova una grande spaccatura segno di un intenso
calore che ha fuso l’ossidiana sul terreno e ha lasciato un cratere circolare poco distante. Incisioni di
legno mostrano individui stravolti colpiti da forti radiazioni.

Anche il Medioriente conserva testimonianze di sviluppi tecnologici avanzati. Le Halkatha, vecchie


leggi babilonesi, recitano: “Guidare una macchina volante è un grande privilegio. La conoscenza
del volo è estremamente antica, un dono degli dèi del passato per sopravvivere”. Un testo caldeo, il
Sifr’ala, descrive minuziosamente le parti costruttive di un aereo quali bobine di rame, sfere
vibratorie e aste di grafite soffermandosi sull’aerodinamicità del veicolo. Il resoconto più famoso
del Medioriente di un antico volo nel cosmo vede protagonista il re antidiluviano di nome Etana che
a bordo di un’aquila scompare nel cielo e osserva dall’alto la Terra diventare sempre più piccola.

Preziosi per una comparazione con l’epica indiana sono le cronache sumere di una guerra furiosa
scoppiata tra fazioni opposte di dèi per il possesso delle Terra, che provoca un vento radioattivo
dalla Penisola del Sinai, cosparsa ancor oggi di pietre annerite. Molti ricorderanno il reperto di
Toprakkale, conservato al Museo Topkapi di Istanbul, che raffigura una sorta di shuttle guidato da
un individuo in tuta spaziale, chiara conferma di remota tecnologia operante in area mesopotamica.

Dalla vicina penisola arabica, la mitologia indiana giunse sino in Grecia, dimora di un pantheon
assortito al cui apice regnava Zeus. Il nome deriva dal sanscrito Dyaush–Ptr, che ha originato il
corrispondente latino Giove Padre, in seguito relegato a semplice aiutante del tonante Indra. Zeus
era descritto come potente divinità che scagliava fulmini, eco lontana di armi tremende adoperate
nella guerra decennale che lo oppose alla razza semidivina dei Titani: “Allora Zeus…dal Cielo
scagliò i suoi dardi infuocati. I fulmini che lanciò erano potenti di rumore e di luce…I Titani nati
dalla Terra furono avvolti da un bruciante vapore. Innumerevoli fiamme salirono sino al chiaro
etere. Lo splendore delle pietre dei fulmini e dei lampi accecava gli occhi anche dei più forti”.
Queste le ultime testimonianze del conflitto piovuto dal cielo, opera di esseri dalle fattezze umane,
venerati dai nostri progenitori come dèi. Il tempo cancellò il ricordo delle loro imprese e il silenziò
calò sulla tecnologia aeronautica, nata per valicare i confini del cosmo. I carri celesti disparvero
dalla Terra, lasciando a pochi eletti il dominio dei cieli. Un manoscritto nepalese di età indefinita
racconta che un antico re indiano, incapace di pilotare un vimana, convoca un esponente degli
Yavanas, una stirpe bionda dalla pelle chiara discendente di Noè che abitava il Mediterraneo
orientale dopo il Diluvio. Il monarca si librò in aria ma non venne mai a conoscenza del segreto del
volo appartenuto agli dèi e un tempo custodito nella sua terra.

Cartografia Antica

Figura 1: un portolano del XVI secolo. In basso si può notare un particolare della costa antartica
(scoperta solo nel 1818) e dello stretto di Magellano
1492: siamo su una caravella veleggiante nell’Atlantico; nella cabina del comandante un uomo, dai
tratti austeri e decisi, studia per l’ennesima volta le carte in suo possesso.Quest’uomo è Cristoforo
Colombo e tra pochi giorni passerà alla storia come lo scopritore del continente americano. Sa che i
suoi uomini incominciano ad essere esasperati per questa continua navigazione in un oceano che
sembra senza fine, ma dalle carte in suo possesso, in parte ereditate dal suocero, sembra che la fine
di quel viaggio sia al termine.
Egli è fin troppo sicuro che quelle carte, così anacronistiche per l’epoca, indicanti luoghi e terre mai
visti prima di allora (o almeno così si supponeva), non siano menzognere e per infondersi coraggio
rilegge la lettera del suo amico Toscanelli, cartografo del tempo, (il quale aveva sottoposto, prima di
Colombo, lo stesso progetto al Re di Portogallo) il quale lo consigliava, nel suo viaggio, di far sosta
nelle grandi isole che egli chiamava Antilia, dimostrando così di crederci fermamente.
1513: un famoso ammiraglio turco, Pirì Reis, è chino sul suo tavolo, nella sua casa di
Costantinopoli, intento a ricopiare, su una pelle di gazzella, alcune antiche mappe di cui per molti
versi alcuni tratti sono a lui sconosciuti, benché come ammiraglio della flotta turca, avesse avuto
ben occasione di navigare nei mari sin allora conosciuti. La curiosità, e forse la capacità di
concepire prima di altri che quelle coste e terre disegnate non siano semplici frutti di fantasia, ma
piuttosto il retaggio di antiche conoscenze, fanno in modo che egli persegua un fine che alla vista di
molti, allora, sembrava da visionario, ma che ai nostri occhi, oggi, diventa uno dei più grandi
quesiti, ancorché spesso ignorato dalla scienza dogmatica.
1737: quasi due secoli dopo Pirì Reìs, troviamo, questa volta in Francia, un eminente geografo
francese, Philiph Buache, intento a ricopiare alcune antiche mappe, che tracciano il profilo di un
continente fino allora ( e sino al 1818) ancora sconosciuto: l’Antartide. Quello che non può sapere
Buache è che il continente di cui sta tracciando il profilo esiste ma che tali tratti territoriali sono
stati i suoi confini all’incirca 13000 anni prima, allorché tale terra era libera dai ghiacci che ora la
ricoprono.
1959: un anziano professore di Storia delle Scienze, Charles Hapgood, sta studiando, davanti al
fuoco del camino del suo studio, nella sua casa nel New Hampshire, alcune antiche mappe; tra le
sue mani si trovano infatti le carte di Pirì Reìs, Buache, Mercatore, Oronzo Fineo, ed altre ancora.
Ai suoi occhi balza subito la medesima discrepanza presente in tutte questi documenti: esse sono
foriere di conoscenze geografiche e cartografiche apertamente in contrasto ai periodi a cui fanno
riferimento: le nozioni che rappresentano precorrono di molto il normale progresso geografico e
cartografico, così come noi lo conosciamo!
Ho voluto lavorare un po’ di fantasia per rappresentare quelli che potrebbero essere alcuni passi
importanti nella conoscenza di alcuni dei più straordinari reperti "fuori posto" che spesso sbucano
all’improvviso, quasi a voler sconvolgere l’ordine naturale delle cose e della storia così come noi la
conosciamo.
Ma tengo a precisare che i personaggi da me menzionati e le date sono veritiere ( ho lavorato di
fantasia sulle ambientazioni) così come sono assolutamente veritiere,ancorché ignorate dalla
scienza, le mappe e i documenti da me citati, e che saranno l’argomento di questo trattato, ovvero le
mappe " impossibili".
Perché impossibili? La motivazione di questa terminologia credo di averla già chiarita nelle righe
precedenti, quindi credo che sia molto più semplice affrontare questo argomento scendendo nei
particolari di alcune di queste carte.
Sembra ormai accertato che le Americhe siano state raggiunte, prima di Colombo, dai Vichinghi, le
cui tracce risulterebbero in un insediamento sull’isola di Terranova, e lo stesso Heydal, un
avventuroso esploratore dei giorni nostri, ha dimostrato che le antiche navi potevano
benissimo intraprendere un viaggio oceanico. Sembra anche che, molto probabilmente, Fenici e
Cartaginesi ( e persino i Greci) conoscessero tali rotte e intraprendessero rapporti commerciali con i
popoli di tali terre (potrebbero essere così spiegate le tracce di cocaina, prodotto originario del
America meridionale,. su alcune mummie egizie (altro cover-up)) e che per difendere tali
conoscenze procedessero all’affondamento di tutte le navi straniere che osavano attraversare l’allora
confine del mondo conosciuto, le famose Colonne di Ercole (lo stretto di Gibilterra), o addirittura,
allor quanto si accorgevano di essere seguiti, arrivassero all’autoaffondamento. In più,numerose
leggende di mari impraticabili e mostri orrendi scoraggiavano vieppiù gli altri ardimentosi.
L’ammiraglio cartaginese Imilcone parla di un :" mare impraticabile, pieno di alghe et immoto…
dove vento non soffia e le navi diventano putride ( forse un allusione al Mar dei Sargassi, noto per
le alghe che coprono la sua superficie e da cui prende il nome, e per le sue bonacce interminabili?)
…mentre mostri marini nuotano intorno alle nostre navi…".
Questo potrebbe spiegare come mai il continente americano ed alcuni gruppi di isole (le Antilie,
identificabili con Cuba,Haiti,Bermuda etc) fossero di dominio pubblico su alcuni portolani
antecedenti la scoperta di Colombo.
Ci sono tuttavia altri elementi che sembrerebbero provare la possibilità che queste rotte fossero
conosciute e battute da una razza di navigatori assai più antica e noi completamente sconosciuta
Uno dei punti in discussione è la capacità, da parte dei compilatori di tali mappe, di rappresentare
un continente , l’Antartide, sconosciuto sino al 1818, ed in condizioni di disgelo, effettuatisi per
l’ultima volta non meno del 4000 a.C., agli albori della storia a noi conosciuta.
La capacità rappresentativa di tali terre e il loro posizionamento preciso, dovuta ad un’effettiva
conoscenza dei concetti di latitudine e longitudine, qual cosa che implica una conoscenza scientifica
e strumentaria cui noi siamo arrivati negli ultimi tre secoli, implica un’altra domanda: se l’Antartide
è stata rilevata e cartografata tra il 13000 e il 4000 a.C., quale popolo è stato capace di codesta
impresa, allorché i popoli più evoluti da noi conosciuti ( Egizi, Sumeri, Babilonesi, Greci e Romani)
erano allora in uno stadio che definire primitivo è molto riduttivo?
Ma andiamo ora all’esame di queste carte.
La carta di Pirì Reis.
Il 2 novembre 1929, durante il lavoro di catalogazione degli oggetti appartenenti al Museo Topkapi
di Istanbul, venne ritrovata una carta geografica, in due pezzi, che lasciò esterrefatti gli studiosi.
Quella carta è oggi nota come "carta di Pirì Reis", dal nome del suo autore, Pirì Reis Ibn Haja
Mehemet.
Pirì era un uomo di incredibile cultura (conosceva il greco, l’italiano, lo spagnolo ed il portoghese)
ed uno stimato cartografo. Disegnò la mappa in questione nel 1513, collezionando numerose carte
antiche, tra cui una venuta in possesso tramite un marinaio di Colombo, catturato da Kemal Rais,
zio di Pirì. Ma che cosa ha di tanto speciale questa mappa?
La carta di Pirì ha suscitato l’attenzione di molti ricercatori, poiché è forse la più strana ed
incredibile delle cosiddette "mappe misteriose", cioè carte geografiche che raffigurano territori
inesplorati ai tempi in cui vennero disegnate. La carta di Pirì raffigura gran parte della penisola
iberica, una piccola porzione della Francia, una vasta parte dell’Africa nordoccidentale, le coste
dell’america centromeridionale ed un tratto del litorale antartico. Ebbene, nel 1513, molte di queste
regioni erano completamente sconosciute, come mostra un esame della cartografia coeva.
Dell’Antartide, la carta di Pirì rappresenta la Penisola di Palmer, la Terra della Regina Maud e
parecchi picchi subglaciali, al largo delle coste, riconosciuti come tali solo nel 1949 da una
spedizione organizzata da Norvegia, Svezia e Gran Bretagna. Lo stesso continente antartico fù
scoperto solo durante il XIX secolo (1820). La carta raffigura inoltre, con relativa precisione, altre
regioni dell’Antartide che non potevano essere in alcun modo note nel ‘500, poiché ricoperte da
ghiacci, e che fu possibile cartografare solo nel 1958 nel programma di ricerche organizzato
dall’Anno Geofisico Internazionale:. Tra le diverse miniature che corredano la mappa,è possibile
distinguere, accanto alla Cordigliera delle Ande, un lama ed un puma. Questi animali e la stessa
Cordigliera dovevano essere, all’epoca di Pirì, completamente sconosciuti, poiché l’esplorazione
del sistema andino iniziò soltanto dopo il 1531, quando Pizzarro mosse alla conquista dell’impero
Inca.
Tutto questo sarebbe spiegabile solo ammettendo che l’America e le coste dell’Antartide fossero già
state esplorate in tempi remoti e che antichi cartografi ne avessero realizzato mappe dettagliate. Ma
ciò non fa che infittire il mistero: l’ultima volta che l’Antartide sarebbe stata possibile rilevarla e
cartografarla priva di ghiacci, risalirebbe a circa 15000 anni fa: Quale civiltà poteva esistere a
quell’epoca, in cui storicamente si colloca l’uomo di cro-Magnon?
In un suo memoriale, intitolato Bahriye, Pirì afferma che Colombo conosceva l’esistenza
dell’America ancora prima di esserci stato, poiché in possesso di antiche mappe che la mostravano,
e che avesse usato queste stesse mappe per convincere la regina di Spagna a finanziare la sua
impresa. Pirì aggiunge che Colombo vi giunse portando perline di vetro poiché sapeva che gli
indiani erano attratti da questo genere di ninnoli.
Sempre secondo Pirì, non solo Colombo aveva raggiunto l’America, ma anche i Vichinghi, S.
Brindano, Nicolas Giuvan, Antonio il Genovese, ed altri ancora.
La carta fù oggetto di studio, nel XX secolo, da parte dello studioso Charles Hapgood, la quale per
confermare le proprie impressioni, la sottopose allo studio dell?USAF, l’ente aeronautico militare
degli USA. La loro risposta fù strabiliante in quanto essi stessi asserivano, in una nota inviata ad
Hapgood, che era inspiegabile l’esistenza di tale mappa, in quanto riportante elementi non
conosciuti all’epoca di Pirì Reis o di qualunque altra civiltà, a noi conosciuta, di epoca antecedente.
Ciò costrinse Hapgood a rigettare l’idea che la mappa derivasse da sunti Vichinghi, in quanto,
seppur essi fossero mai giunti, prima di Colombo, nelle Americhe, non avrebbero potuto rilevare il
continente Antartico, in un’ eventuale altra spedizione, così come era stato disegnato, cioè senza
ghiacci.
Non è nemmeno possibile che sia stato il marinaio di Colombo, catturato dallo zio di Pirì Reis, ad
informare lo stesso Pirì in maniera tanto dettagliata, poiché, al ritorno della sua quarta spedizione
(1504) Colombo aveva esplorato soltanto le coste dell’Honduras, Costarica, Nicaragua e Panama.
Hapgood conclude che doveva esserci stata un’antica civiltà di re dei mari, con conoscenze
marittime, geografiche et astronomiche, estremamente sviluppate e poi andate perdute.
La carta di Oronzo Fineo
Charles Hapgood nella sua ricerca di portolani antichi,oltre alla carta di Pirì Reìs, si imbattè in
unaraffigurazione del 1531, opera di Oronzio Fineo chiamata, appunto, "Mappamondo di Oronzio
Fineo". Tale mappa è il risultato di copiature di numerose carte "sorgenti" e rappresenta la parte
costiera del continente antartico priva di ghiacci.
In essa il continente antartico è fedelmente riprodotto e posizionato , geograficamente,
perfettamente. Su di esso vengono annotate catene montuose e fiumi, quali effettivamente abbiamo
scoperto siano esistiti, ora coperti dalla coltre di ghiacci. La parte interna invece e priva di
raffigurazioni fluviali e montuose, il che ci indica che tale parte, a differenza di quella costiera, era
già ricoperta di ghiacci.
Il mappamondo di Fineo sembra essere un'altra prova convincente riguardo alla possibilità di una
remota colonizzazione del continente australe e lo ritrae in un'epoca corrispondente alla fine
dell'ultimo periodo glaciale.
La carta mostra anche numerosi estuari, insenature e fiumi, a sostegno delle moderne teorie che
ipotizzano antichi fiumi in Antartide in punti in cui sono oggi presenti ghiacciai come il Beardmore
e lo Scott. I vari carotaggi effettuati negli ultimi tempi sono a sostegno della tesi che l'Antartide era
un tempo abitabile: i campioni sono ricchi di sedimenti che rivelano condizioni differenti di clima,
ma soprattutto si nota una
rilevante presenza di grana
fine, come quella che
viene trasportata dai fiumi.
Inoltre, i carotaggi
rivelano che solo intorno
al 4000 a.C. l'Antartide
venne completamente
ricoperto dai ghiacci.

Figura 2: la carta di Oronzio Fineo

Figura 3: particolare della mappa di Pirì Reìs. In essa si possono notare dei particolari del
continente sud americano e del rilevo Andino ancora sconosciuti all'epoca della sua compilazione
(le successive spedizioni di Pizarro metteranno in luce tali particolari)

La mappe di Mercatore e Buache


Chi erano Gerardo Mercatore e Philiphe Buache?
Mercatore, conosciuto ancora oggi per la proiezione cartografica che porta il suo nome,
fu un insigne studioso della sua epoca, tanto che la sua voglia di sapere lo portò, nel 1560, ad
avventurarsi in Egitto per visitare la Grande piramide e ad accumulare testi antichi per la sua
biblioteca personale.Nel suo "Atlante" rappresentò il continente australe, (questo nell’anno 1569, e
ricordiamo che il continente antartico fu scoperto solo nel 1818): alcune parti identificabili di tale
continente sonoCapo Dart, il Mare di Amundsen, l'isola Thurston, le isole Fletcher, l'isola di
Alexander I, la penisola Antartica di Palmer, il Mare di Weddel, la Catena Regula, la Catena
Mühlig-Hoffman, la costa Principe Harald, e la Costa principe Olaf.

Figura 4: il mappamondo di Mercatore: in basso si può notare


la famosa terra Australis, a lungo creduta una leggenda finché non fu scoperto il continente
antartico nel 1818.
Buache era un geografo francese del XVIII secolo.La sua carta ha una peculiarità unica:
rappresenta, perfettamente, il continente antartico completamente privo di ghiaccio. Ricordiamo che
la topografia subglaciale di tale terra fù possibile solo nel 1958. Il canale navigabile che sembra
dividere in due il continente esisterebbe realmente se non fosse ricoperto dai ghiacci eterni, quindi
dovremmo dedurre che le carte originali, cui dovette fare riferimento Buache per la compilazione
della sua mappa, erano antecedenti di millenni rispetto alle fonti a cui avevano attinto Mercatore,
Fineo, Pirì Reìs.
Figura 5: la mappa di Buache, in cui si può notare il canale che divide in due
il continente antartico, se questi fosse libero dai ghiacci.
Conclusioni.
Cosa aggiungere di più a quanto già detto?
Le vicissitudini che hanno passato i documenti antichi nel corso dei secoli (basti ricordare che uno
sceicco usò i testi della biblioteca di Alessandria, forse la più importante e fornita, nell’antichità, per
fornire di combustibile i bagni pubblici della città, sostenendo che se quei testi contenevano
insegnamenti contrari a quelli del Corano, erano da condannare per empietà, mentre se tali testi si
confacevano al Corano, inutili in quanto bastava lo stesso Corano.
Oppure ricordiamo le distruzioni di testi maya, perpretati, in nome della fede cattolica, dal vescovo
Landa in Messico.), bastano a spiegare la mancanza di documenti risalenti ad un’antica civiltà,
precursore di tutte le altre. Inverosimilmente vi sono testi che citano tali documenti.
Ecco, queste strane mappe, ricavate da documenti originali molto più antichi, potrebbero essere
l’unica prova, tangibile, di un passato, di una storia, di una gloria, che fù, e a cui la scienza
dogmatica, intransigente, nega l’opportunità di rivelarsi appieno, celandosi dietro un imperioso no-
comment o addirittura ignorando impassibilmente questi frammenti di storia antica che ogni tanto si
riaffacciano, quasi a voler sfidare la stessa scienza, beffardamente, ponendoci nuovi quesiti e
attendendo nuove risposte.
Antonio Mattera, nato a Roma il 09/10/1968, residente in Ischia (Na), diplomato Capitano di
Lungo Corso,e congedato dalla Marina Militare con i gradi sergente, categoria Radiotelegrafista
Radiotelescriventista

Antichi Marinai

“Non serve tanto il desiderio di credere quanto quello di scoprire, che è esattamente il suo
opposto”.Lord Bertrand Russell

Cristoforo Colombo. Magellano. Vasco de Gama. E così


via, sino a James Cook e Francis Drake: tutti uomini che
hanno scavato, con le loro imprese, un solco profondo fra la
vecchia e la nuova storia, allargando i confini del mondo
allora conosciuto e ponendo le basi per un futuro
sfruttamento di quella parte del nostro pianeta ancora
ignorata, sino allora.
Nomi famosi, sulla bocca di tutti, conosciuti e quasi
idolatrati, in riconoscenza di un animo avventuriero che li
ha portati a scoprire, a grande sprezzo del pericolo e della
propria incolumità, quello che l’uomo di allora nemmeno
cercava di immaginare, stretto nei confini mentali di un
mondo che finiva sui due estremi opposti, configurati nelle
colonne di Ercole (stretto di Gibilterra) e la Cina del
meraviglioso (e meravigliato) veneziano, Marco Polo.
Alzi la mano chi fra noi, nelle ore dedicate allo studio della
storia, così come viene appresa in ambito scolastico, non
abbia mai immaginato di essere al posto di simili eroi, o
mischiati alle loro ciurme, sulle loro meravigliose navi, piccole oasi di umanità nel mezzo
dell’infuriare inclemente degli oceani e degli elementi, piccoli puntini di legno, carne e passione in
un immenso mondo blu, affiancati da maestosi animali acquatici mai visti prima, o da sciami di
piccoli pesci dai riflessi argentati che paiono essere un solo uno.
E magari abbiamo anche sentito, persi nella nostra fantasia, l’odore del mare e il sapore della
salsedine e persino il vento infierire sulle nostre mani poste alla ruota del timone della nave o
intagliare, nello scorrere del tempo, profondi solchi sulle ruvide facce da marinaio.
Miglia e miglia di solitudine liquida, di orizzonti dove l’azzurro del mare va a confondersi con
quello del cielo, con gli occhi ridotti a fessure nel tentativo di mettere meglio a fuoco, e per primi,
una possibile striscia di terra.
Bellissimi pensieri su altrettanti bellissimi esempi di come l’uomo, temerario avventuriero, possa
con il suo coraggio, veramente “fare” la sua storia e decidere il proprio destino.
Quello che contraddistingue i personaggi sopra citati è la loro “unicità” o, per meglio dire, il loro
essere “la prima volta”, in pratica coloro che hanno profanato l’ignoto di allora.
Per questo oggi, quando si legge di un record battuto di una traversata atlantica in vela, la notizia
non ci scompone più di tanto: dalla storia e dall’ardire di quei primi intrepidi marinai, siamo,
oramai, abituati a considerare le piste oceaniche nient’altro come semplici autostrade marine.
Insomma, si è perso il fascino della novità.
Ma cosa spinse quei temerari ad arrischiare le loro vite e quelle dei loro equipaggi?
Solo la sete di oro e ricchezza? Solo l’impareggiabile voglia di conoscenza?
Impossibile dare una prima risposta, ma altrettanto impensabile che solo questi argomenti possano
bastare: niente avrebbe potuto avvalorare un'impresa simile solamente dettata dalla sola speranza di
ritornare ricchi e famosi.
In tempi in cui mancavano strumenti veramente importanti per la navigazione, come cronometri in
grado di far calcolare l’esatta longitudine, indispensabile per affrontare un viaggio, ma soprattutto
per assicurarsi un ritorno, bisognava sopperire a tali mancanze con una sola possibilità: sapere dove
si stava andando.
Pensate che Colombo possa aver intrapreso un viaggio simile senza aver la certezza di aver
incamerato scorte e rifornimenti bastanti sia all’andata che ad un eventuale ritorno, in caso di
fallimento, ben sapendo, da buon marinaio, che i venti che lo avrebbero sospinto ed aiutato nel
viaggio di andata, sarebbero, al ritorno, stati suoi acerrimi nemici?
Ancora oggi la traversata del Pacifico o dell’Atlantico in vela può essere sì compiuta ma in termini
di tempo esageratamente lunghi.
Per chi avesse affrontato una simile impresa, anche ai tempi di Colombo, l’aspettativa naturale
sarebbe stata inquadrata in un viaggio che fra andata e ritorno avrebbe impegnato la nave e i
marinai per qualche anno, senza la sicurezza di essere comunque capaci di tornare alla patria natia.
Perché un regnante di una grande nazione come la Spagna avrebbe dovuto impegnare mezzi, soldi e
uomini in un'impresa che non possedesse uno straccio di prova per la sua riuscita?
Dopotutto, per quanto i regnanti di Spagna potessero essere considerati dei mecenati, sicuramente
era l’aspetto commerciale quello da cui erano più attratti.
Eppure lo stesso Colombo era sicuro di trovare qualcosa: le carte di cui disponeva lo affermavano
senza ombra di dubbio e persino una lettera del famoso cartografo Toscanelli lo invitava a rifornirsi
nelle “Antilie”, dando così per certa la loro esistenza.
E che Colombo abbia avuto queste carte è dato per certo dalle testimonianze epocali di alcuni suoi
marinai. D’altronde quali “documenti inoppugnabili” avrebbe potuto mostrare alla regina di Spagna
per convincerla a finanziare i suoi viaggi?
E’ altrettanto innegabile che tali carte esistano come quella di Piri Reis, Oronzo Fineo, Buache e
così via, ma essendo questo un argomento trattato dall’autore in un altro articolo presente sul sito
(“Cartografia antica”) non mi voglio dilungare oltre sull’argomento.
Vorrei invece stuzzicare la vostra fantasia su un altro elemento: i più attenti lettori avranno
sicuramente posto un quesito: ma se Colombo e gli altri sono stati i primi ad esplorare il Nuovo
Mondo, com'è possibile che esistano tali carte?
Questa è una domanda interessante poiché profondamente ancorata ai nostri canoni didattici di
studio. Infatti, ponendo le basi sulle conoscenze da noi acquisite attraverso tanti anni
d'indottrinamento culturale, è abbastanza logico pensare che il quesito possa risolversi considerando
il tutto un puro lavoro di fantasia; insomma che queste carte siano rappresentazioni simili a quelle
raffiguranti la famosa Terra di Mezzo, illustrata nei libri della fortunata saga di Tolkien.
Invece no: la loro accuratezza e il loro riprodurre particolari altrimenti non conoscibili se non
attraverso l’osservazione diretta fa sì che tali mappe siano di là di qualsiasi sospetto.
Persino Magellano pare che avesse carte nautiche che mostravano il passaggio che gli permise di
raggiungere il Pacifico (e che prese proprio il nome di Stretto di Magellano), carte che custodiva
gelosamente. Egli non partì alla maniera di una novella armata Brancaleone alla ricerca di quel
passaggio fra l’America del sud e il continente australe (allora ancora sconosciuto), ma era ben
conscio che tale passaggio “esisteva”, tanto che addirittura la ricerca divenne quasi maniacale
inoltrandosi in ogni insenatura.
Ma non erano solo Magellano e Colombo a possedere queste
carte, che probabilmente si erano diffuse in Europa dopo la
distruzione della biblioteca di Alessandria, vero e proprio centro
cumulativo di conoscenze letterarie dell’epoca antica.
Mappamondi, planetari e carte incominciarono, all’epoca delle
prime grandi esplorazioni, a circolare con sempre maggior
insistenza e con sempre più inspiegabili dettagli, soprattutto
indicanti l’esistenza di una massa terrestre, la Terra Australis,
che altro non sarebbe che l’Antartide, scoperta però solo nel
1818!
Sapete come spiegano gli storici moderni la presenza di questa terra su mappamondi e carte?
Ebbene si limitano a considerarlo come un semplice elemento atto a “contropesare” il resto delle
terre conosciute!
Ma, allora, se Colombo e gli altri non sono stati i primi, chi può averli anticipati? E abbiamo le
prove di viaggi transoceanici nell’antichità?
Rispondo alla prima domanda rispondendo alla seconda, tralasciando il fatto di enunciarmi sulla
possibile esistenza di antiche civiltà scomparse (Atlantide, Mu e altre), anche se i caratteri di alcune
mappe indicano che forse la storia dell’uomo andrebbe retrodatata di qualche millennio.
La diffusione dell’uomo e di alcune razze animali in continenti come l’Australia, nettamente
separati dagli altri per via di evidenti confini marini, può essere spiegata solo facendo
considerazioni su una qualsiasi forma di “navigazione primitiva”.
Insomma l’Australia sarebbe stata raggiunta via mare per mezzo d'imbarcazioni che, ancor che
primitive, consentivano il trasporto di famiglie intere e animali domestici.
Probabilmente aiutati anche da un livello marino (causa anche una diversa dislocazione dei poli)
che era nettamente meno elevato e consentiva l’affiorare di piccoli isolotti che facevano da “ponte”
con tanto di fauna ittica e terrestre.
In pratica questi primi navigatori avrebbero avuto a disposizione anche cibo e altre utilità.
Insomma, l’arte della marineria si sarebbe sviluppata e man mano affinata sin dal paleolitico,
soprattutto in quegli stanziamenti costieri che vedevano il mare e quelle piccole lingue di terra di
fronte a loro come unica vera risorsa alimentare.
Da qui la necessità di munirsi di mezzi natanti sempre più perfetti e la nascita di una lenta, ma
costante, evoluzione dell’imbarcazione.

E’ oramai opinione fuori discussione che in antichità i vichinghi, popolo di abilissimi navigatori,
sono potuti arrivare sino alle coste del continente americano, ma pare che essi non siano stati non
solo gli unici, ma neanche i primi!
Il compianto (è scomparso da poco) Thor Heyerdall è stato un precursore in questo, affrontando più
volte temerari viaggi in mare con fragili (all’apparenza) imbarcazioni che ricalcavano fedelmente
quelle polinesiane, o quelle degli abitanti degli altopiani andini, persino barche egizie, dimostrando
che era sì possibile, per i popoli antichi, affrontare viaggi siffatti lunghi e pericolosi.
Nella maggior parte dei casi bastava affidarsi alle correnti e cercare il periodo migliore per partire.
Certamente possono essere fatte delle obiezioni su alcuni risultati di Heyerdall e sembra quasi
assurdo riuscire a capire la motivazione che dovrebbe spingere degli esseri umani a simili imprese.
Resoconti di viaggi avventurosi e oggetti comuni a civiltà estranee a luoghi dove sono stati ritrovati,
fantomatiche costruzioni e mitologie comuni, fanno pensare che le rotte oceaniche, da sempre aspro
baluardo dell’operato umano nell’antichità, fossero, invece, ben battute e conosciute, con proficui
scambi commerciali e culturali.
Persino Dante, nel 1° canto del Purgatorio della Divina Commedia, fa una chiara allusione a
possibili esploratori antichi:
“Io mi volsi a man destra e posi mente
all’altro polo, e vidi quattro stelle,
non viste mai fuor che alla prima gente”
Oltre ad essere interessante il chiaro riferimento alla costellazione della Croce del Sud, scoperta nel
1455 dal veneziano Alvise Cadamosto (mentre Dante scrisse la sua opera tra il 1307 e il 1318) e
registrata tra le costellazioni solo nel 1679, ci sarebbe da chiedersi chi sono quelle “prime genti” cui
il sommo poeta si riferisce!
Naturalmente Dante avrebbe potuto trarre le sue conclusioni visionando il globo dell’arabo Calissar
Ben Abucassan che riproduceva, nel 1200, la volta celeste e anche la Croce del Sud: ma la domanda
è sempre la stessa: da chi trasse le sue originali cognizioni il nostro arabo?
Se i nostri dogmatici dottori in storia leggessero di più nelle righe di quelli che loro, per semplice
convenienza, dichiarano essere semplici resoconti fantasiosi, forse potremmo avere una risposta.
I fenici, e dopo di loro i cartaginesi, furono sicuramente fra quei popoli a navigare oltre le
famigerate Colonne di Ercole, termine ultimo del mondo allora conosciuto, e questo è documentato
dal ritrovamento di monete e iscrizioni fenicie ritrovabili sia nel Nord che nel Sud dell'America.
Essendo un popolo soprattutto di mercanti è abbastanza logico che facessero di tutto per mantenere
il riserbo su quelle rotte misteriose e sui loro nuovi traffici. Un riserbo mantenuto con tanta forza da
arrivare ad affondare le navi che seguivano le loro, o, in estrema soluzione, ad autoaffondarsi.
Addirittura scoraggiavano le altrui velleità con racconti spaventosi in cui “ il mare in quei luoghi è
impraticabile, poiché vi sono grandi quantità di bassifondi fangosi…causati dalla terra sommersa..
e terribili mostri…”.
L’ammiraglio cartaginese Imilcone così descrive la sua spedizione nell’Atlantico: ” ….Non vi è
brezza che spiri guidando la nave, tanto fermo è il pigro vento dell’ozioso mare…alghe dovunque
sparse tra le onde impediscono la rotta come fossero rami. Il mare ha poco fondo…mostri marini
spaventosi si aggirano nuotando fra le navi che lentamente avanzano…”.
Per chi ha dubbi è giusto chiarire che una zona simile realmente esiste ed è il Mar dei Sargassi,
tristemente noto per le alghe (il sargasso per l’appunto) che lo ricoprono e per le improvvise e
durevoli bonacce, che costringevano le navi a vela a fermarsi quasi. Infatti, quella zona è anche
conosciuta con il nome di Latitudine del Cavallo, chiamata così dagli Spagnoli che erano costretti,
al terminare delle scorte di cibo, ad uccidere i propri cavalli per sopravvivere.
Un altro documento che narra di terre ignote e selvaggi uomini che le abitavano ci viene da
Pausania, nella sua opera Periegesi della Grecia, nella quale il poeta cita Eufemo il Cariano
(fenicio).
Tornando alle Antilie citate secoli più tardi dal Toscanelli, bisogna ricordare che anche Aristotele
cita l’isola di Antilia come approdo cartaginese (nome molto simile alle odierne Antille) e narra che
il segreto era talmente ben conservato da condannare a morte chiunque ne parlasse.
La leggenda dell’Isola di San Brandano costrinse, nel Medioevo, gli irlandesi a compiere una
dozzina di spedizioni.
E’ molto accreditata la possibilità che un principe gallese, fuggito dalla propria terra, sia giunto in
America: infatti, tra il gallese (uno dei ceppi linguistici più antichi) e la lingua degli indiani Madan
si notano somiglianze incredibili.
Ma se il viaggio era possibile da est ad ovest è altrettanto vero che abbiamo testimonianze di viaggi
all'”incontrario”: grosso sconcerto comportò “gli uomini dalla pelle rossa” comparsi sulle coste
germaniche, su una grande canoa, nel 1° secolo dopo Cristo; alcuni di loro furono condotti come
schiavi dal console romano di quella regione!
Facendo un passo indietro potremmo notare che persino gli egiziani, che per antonomasia non sono
un popolo di navigatori, pare che abbiano svolto un ruolo importante in questa pre-colonizzazione.
Le stesse barche scoperte ai fianchi della Grande Piramide e la flotta scoperta nel deserto nei pressi
di Abido sono costruzioni nautiche adattissime più alla navigazione oceanica che a quella fluviale.
Lasciando da parte che le stesse date di costruzione paiono non collimare con la storiografia egizia,
ipotizzando quindi l’appartenenza di queste barche ad un'altra civiltà, c'interessa ora sconfessare un
luogo comune: quello cioè che gli egizi non abbiano mai solcato gli oceani.
Da alcuni resoconti storici pare che una spedizione marinara, all’epoca del faraone Nekhao, abbia
circumnavigato l’Africa dato che tale rapporto afferma che, ad un certo punto della navigazione i
marinai “ si sono trovati il sole sull’altro lato”. D’altronde la presenza di cocaina, un derivato dalla
pianta di coca, di matrice strettamente sud americana, in alcune mummie pare confermare rapporti
cospicui, anche se indiretti, con l’altra sponda dell’Atlantico.
Se vogliamo volare ancora di più con la fantasia potremmo considerare quelli che da molti studiosi
sono considerati geroglifici (oltre 250): unica particolarità è che sono stati scoperti nel National
Park Forest of the Hunter Valley, 100 km a nord di Sidney, Australia!Che gli egizi avessero
raggiunto l’Australia?
Nel ‘600 quando i primi gesuiti raggiunsero il continente americano si ritrovarono innanzi a statuine
e dolmen simili alle culture europee, distruggendole per non infondere il seme della superstizione
nelle popolazioni locali. I gesuiti rimasero soprattutto stupefatti di una statua di rame che sfoggiava
una barba tipicamente europea.
Nella vallata di Hudson sono state scoperte più di una cinquantina di camere sotterranee che
vengono comunemente attribuite a probabili esploratori celti che raggiunsero il nord-est del
continente americano parecchie migliaia di anni fa. Infatti, sono molto simili alle costruzioni druide
d’Irlanda. Ma non solo: anche dolmen e cerchi di pietra paiono essere comuni in America.
Le leggende indiane parlano di uomini dagli occhi blu, con corna in testa (elmi cornuti?) e con i
volti di fuoco (barba e capelli rossi?).
Tutto ciò va sicuramente d’accordo con la tesi di due antropologi americani, Stanford e Bradley, che
affermano che già 18000 anni fa (cioè seimila anni prima che gli asiatici giungessero attraverso lo
stretto di Bering) alcune popolazioni preistoriche europee, favorite dalle correnti marine e dai venti
favorevoli, abbiano raggiunto le coste nordorientali degli USA. Questo grazie alle somiglianze fra
le punte di pietra della cultura sulutreana, in Europa, e la cultura Clovis, in America.
Quelli che sembrano pittogrammi cinesi affrescano alcuni muri in pietra sulle isolette che
abbondano nel fiume Susquehanna, in Pennsylvania.
Se vi scappa un sorriso, trattenetelo, perché pare proprio, da recenti studi, che i cinesi anticiparono,
e di molto, Colombo e i suoi discendenti.
Gavin Menzies, ex ufficiale inglese, ha studiato per 14 anni carte nautiche e documenti di viaggio di
una flotta cinese guidata dall’ammiraglio eunuco Zheng He, che tra il 1421 e il 1423 giunse in
America e in Australia. Zheng He guidava navi multilaberate grandi cinque volte in più le navi di
Colombo.
Menzies aveva raggiunto tale convinzione scoprendo un planisfero che includeva l’Africa del Sud e
Capo Buona Speranza datato 1459 (e Capo Buona Speranza fu doppiato da Vasco de Gama solo nel
1497).Su questo planisfero era presente una nota circa un viaggio intorno Capo Buona Speranza e le
isole di Capo Verde nel 1420, oltre ad immagini di tazze cinesi.
Secondo Menzies i cinesi riuscivano ad orientarsi brillantemente
grazie all’uso della stella Canopo e riuscirono a navigare per secoli
nel Pacifico, fornendo mappe dettagliate dei luoghi.
Mappe che poi finirono fra le mani del Re del Portogallo e di alcuni
ardimentosi navigatori, che affrontarono i futuri viaggi “sapendo dove andare”.
Inoltre quelle che sembrano navi cinesi sono state ritrovate affondate al largo dei Caraibi.
Il tutto, inoltre, potrebbe spiegare la somiglianza fra alcune statue olmeche e i tratti caratteristici
cinesi, oltre alla similarità delle loro rispettive forme arcaiche di scrittura e la stessa venerazione per
la Giada.
Contrariamente a quello che si è sempre creduto, forse il famigerato Cipango, descritto da Marco
Polo (ma solo per sentito dire, mai per diretta osservazione), non è il Giappone, di cui fra l’altro non
corrisponde nella descrizione (terra lontanissima e sterminata, ricca di oro, con popolazioni gentili e
idolatre: tutte cose appartenenti all’america precolombiana e non al Giappone). Ricordate quando
Colombo descriveva gli amerindi come gente”bella e gentile”? O lo stupore di Cortès quando si
trovò dinanzi a Tecnotitlan, la capitale Azteca, dai tetti d’oro e immensamente più grande di Venezia
(all’epoca una vera e propria metropoli europea)? ma il continente americano, raggiunto secoli
prima.
E forse proprio l’aver capito di trovarsi dinanzi ad una terra nuova e a nuove risorse spinse
Colombo ad ideare una simile impresa e gli diede gli argomenti adatti per convincere i reali di
Spagna! Da qui la sicurezza di Colombo di trovare oro e l’oculata scelta di portare perline e specchi
da donare agli indigeni.
In un'epoca in cui le principali rotte commerciali erano comprese fra le vie marittime da e fra
l’Europa e l’Africa e le arterie commerciali terrestri che aprivano nuovi orizzonti con la Terra Santa
e gli imperi asiatici, perché i templari dovettero affannarsi a costruire un porto a La Rochelle, sulla
sponda dell’Atlantico del Nord, vicino allo stretto della Manica, ed ad unire questa città con il resto
d’Europa attraverso una rete di vie che avrebbe fatto invidia ad un moderno tronco ferroviario?
Forse anche i templari conoscevano le rotte antiche e i nuovi mondi e sapevano di trarne vantaggi
economici, e, similmente ai fenici, gelosi delle loro conoscenze, volevano porsi fuori dello sguardo
vigilante dei paesi che davano sullo Stretto di Gibilterra (Francia, Spagna e Portogallo), punto
focale di passaggio all’epoca, in modo tale da rendere segrete le loro spedizioni.
E forse fu proprio in America che alcuni Templari sopravvissuti alla strage ordinata dal re di Francia
Filippo il Bello, riuscirono a sfuggire portando con sé il loro tesoro.
Forse Colombo sapeva di questo e nella speranza di farsi scorgere dai discendenti di questi
fuggiaschi, in modo che essi potessero segnalare la loro posizione, ricamò sulle sue vele non il
simbolo della corona spagnola ma la classica croce templare!
Perché imprese così grandi come la scoperta dell’America (da parte di Colombo) e quella del
continente australe (da parte di Cook) furono appannaggio e perseguite da uomini che sino allora
non avevano brillato particolarmente in tali campi? Possibile che tutti gli antichi navigatori abbiano
potuto approfittare di documenti antecedenti?
Da quello sopra detto pare proprio di sì e d’altronde negarlo sembrerebbe solo un arrampicarsi sugli
specchi, vista la gran quantità di prove a carico di tale teoria.
Rimarrebbero solo alcune domande cui rispondere: i grandi viaggi via mare, nei tempi antichi,
nacquero per caso o per necessità? E le carte che testimoniano territori com'erano osservabili solo
12000 anni fa a quale cultura vanno assegnate, visto che, a memoria di uomo, quest’epoca è di
molto antecedente la nascita delle prime civiltà a noi note? Gli stessi antichi marinai, fenici,
cartaginesi, egizi o altro avevano appreso da altre culture, precedenti la loro, tali cognizioni?
Tutto ciò parrebbe indicare che il gesto più coraggioso di Colombo non fu quello di affrontare i
mostri marini o l’eventuale precipizio che, secondo i dettami del tempo, pareva l’attendesse al
bordo del mondo, ma quello di usare le carte geografiche e altre documentazioni che aveva in mano.
Un coraggio che evidentemente manca ai nostri storiografi e illuminati dotti.
Antichi Marinai
LA BUSSOLA SULLE NAVI DI FENICI E SHARDANA
Un articolo apparso su HERA, mensile italiano di archeologia e misteri, riferiva
tempo fa della scoperta dell’ing. Mario Pincherle riguardante una strana figura a
bordo di una nave da guerra cartaginese. Secondo il noto archeologo si tratterebbe di
una bussola. L’ingegner Pincherle è riuscito addirittura a riprodurne un esemplare
perfettamente funzionante (vedi immagine).

Sempre secondo l’articolo pubblicato da Hera, i Cartaginesi avrebbero ereditato tale strumento dai
Fenici.
Leonardo Melis, nel suo “SHARDANA I POPOLI DEL MARE” sostiene l’ipotesi secondo cui i
Popoli del Mare, e in particolare i Shardana, si servissero di tale strumento già dal II Millennio a.C.
nei loro viaggi oceanici, oltre le Colonne d’Eracle, alla ricerca dello stagno utile alla fusione del
bronzo, di cui erano i monopolisti. Ne sono prova le numerose navicelle ritrovate in Sardegna,
Toscana, Lazio ecc. a bordo delle quali, tale strumento risulta essere installato.
Si tratta di un semplice magnete, montato su un’asse che passava all’interno di una sfera o,
preferibilmente (vedi il caso della navicella), di un cerchio o anello rotante. Il magnete, per una
legge ben nota, puntava sempre verso i due poli terrestri, indicando la direzione da tenere
all’equipaggio indaffarato. Per evitare gli sfasamenti dovuti al rollio e la vento, al cerchio o alla
sfera erano appesi dei nastri stabilizzatori di cuoio pesante. Sembra di sentire Alcinoo tessere le lodi
delle sue navi a Ulisse: “Le navi dei Feaci non han bisogno di timone o di timoniere, ma vanno col
pensiero dell’uomo…”
Notare l’incredibile somiglianza delle due figure montate sul cassero delle due navi: la prima
(quella incisa sulla stele) è cartaginese, la seconda è una navicella SHARDANA in bronzo,
ritrovata in Sardegna.

Un antico sapere: l'astronomia

Un'analisi approfondita delle civiltà antiche spesso può mettere in imbarazzo gli studiosi
"ortodossi", i quali vengono, sempre più frequentemente, a trovarsi dinanzi ad elementi e prove che
sembrano testimoniare particolari rapporti di "parentela culturale" anche fra popoli divisi non solo
da confini di terra, ma persino da confini acquatici, sotto forma di oceani, tanto che spesso nessuna
civiltà antica può essere indicata esattamente come "fonte di origine" per tali straordinarie
verosimiglianze. Si potrebbe spiegare il tutto ponendo come punto di principio l'esistenza di una
civiltà che sia stata una base comune per tutte le altre, ipotesi certamente odiata e ripudiata dagli
studiosi ortodossi, che reputano tale ipotesi solo frutta di alchimie immaginative.
Eppure ecco che al di là e al di qua dell'Atlantico, nelle Americhe, come in Europa, in Asia come in
Africa, circa 12000 anni fa, succede qualcosa di meraviglioso, se vogliamo dar retta alla cosiddetta
ipotesi della "coincidenza culturale", tanto cara agli scienziati ortodossi, ma che, a ben analizzarla,
sta in piedi come la possibilità di vincere al totocalcio senza sapere l'esatto ordine delle partite.
Secondo questa teoria, dopo centinaia di millenni di lenta, lentissima e quasi irritante evoluzione,
improvvisamente, alla fine di quel periodo conosciuto con il nome di pleistocene (per l'appunto
circa 12000 anni fa), qualcosa sembra impossessarsi di tutte le menti degli uomini di quel periodo,
come se ad un certo tratto della storia paleolitica qualcuno avesse acceso una lampada la cui luce si
fosse diffusa per tutto il mondo. Popoli diversissimi fra di loro, distanti mari e montagne danno vita
alla grande avventura culturale che li porterà ad inventare e migliorare la pastorizia e
l'agricoltura,e , ad esse connessi ,nuovi attrezzi di lavoro; nello stesso contempo, nei due versanti
dell'Atlantico come in altre parti del mondo, l'ingegno umano si fonde in un tutt'uno nell'ideazione
di strutture architettoniche, politiche e sociali consimili.
Come se non bastasse popoli lontanissimi fra di loro percepiscono ed elaborano miti ed eroi del
tutto simili.
Possibile che si tratti solo di una coincidenza culturale? O, forse, sotto c'è qualcosa d'altro? Magari
un grande disastro, elemento presente in TUTTE le mitologie mondiali, potrebbe aver annientato
una civiltà di livello superiore a quelle presenti nel paleolitico e averne disseminato i resti, in virtù
di piccoli gruppi di sopravvissuti, nel mondo, similmente a quello che accade al polline ed ai fiori?
Sembra un'utopia? Potrebbe esserlo, ma sicuramente non meno della cosiddetta teoria della
"coincidenza culturale". Ne sembra essere più fondata quella della "diffusione culturale", tanto cara
ad altri studiosi.
Si potrebbe obiettare che conoscenze tecniche, agricole , architetturali e mitologiche simili fra i vari
popoli del mondo potrebbero essere il prodotto di scambi di idee avvenuti in occasione di viaggi
esplorativi e commerciali, ma ciò non spiegherebbe la similitudine temporale degli avvenimenti ,
sopratutto prendendo in considerazione le Americhe. Comunque sarebbe irrisolto il problema di
decidere quale cultura avrebbe dato vita all'altra: un quesito del tipo prima l'uovo o la gallina?
Eppure proprio le analogie fra alcuni popoli amerindi come i Maya, Aztechi ed Incas con popoli di
origine medio-orientale come Sumeri, Assiri e Babilonesi, o dell'area nilotica, come gli Egizi, fanno
venire più di un dubbio su tali ipotesi.
Tutti questi popoli hanno in comune alcuni elementi:
A) sono costruttori di piramidi o pseudotali: le prime costruzioni a gradoni egizie, le ziggurat
numeriche e i templi a gradoni dei Maya hanno in comune la forma piramidale, seppur, negli ultimi
due casi, tronca;
B) tutti questi popoli sono amanti delle costruzioni megalitiche, ottenute cioè con l'utilizzo di pietre,
di calcare, granito o altro, in blocchi dalle dimensioni gigantesche, comportando così un onere di
lavoro in più inspiegabile, sfidando persino i normali canoni raziocinali se confrontate tali opere
con i mezzi a disposizione di tali popoli. I blocchi di Baalbek, le mura di Sacsahuaman in Perù,
Tiahuanaco in Bolivia e La Sfinge e la Grande Piramide di Cheope testimoniano la riuscita di sfide
che persino oggi, con tutta la tecnologia a ns disposizione, sembrano impossibili da eguagliare;
C) Identiche conoscenze astronomiche, talmente evolute da permettere loro di conoscere il cielo
sopra le loro teste in maniera tanto precisa come l'uomo non vi è più giunto sino all'inizio di questo
secolo, con la scoperta, per mezzo di potenti telescopi degli ultimi pianeti. Conoscenze che
portavano tali popoli a concepire calendari di eguale durata e persino più precisi di quello
adottato da noi oggigiorno.
Ed è proprio su queste conoscenze astronomiche che mi vorrei soffermare, poiché credo siano una
prova inoppugnabile di una matrice comune a tutte queste civiltà, ma, allo stesso tempo, estranea ad
esse.
La conoscenza astronomica in possesso delle grandi civiltà del passato è quasi sempre relegata,
dagli studiosi, a bisogni inerenti il campo religioso e alla necessità di dare una datazione al tempo
per ovviare ad alcune necessità strettamente di natura agricola, atte a determinare il tempo della
semina, della mietitura, o dell'arrivo della stagione secca o di quella delle piogge, o ancora, come
nel caso dell'antico Egitto, all'approssimarsi delle piene del fiume Nilo.
A mio modesto avviso, questo collegamento astronomia- agricoltura è molto flebile e abbastanza
incongruente.
Abbiamo accennato, prima, che l'agricoltura pare affermarsi contemporaneamente in tutto il mondo
circa 12000 anni fa, comportando così la nascita dei primi centri stabili di comunità di uomini,
quindi la nascita dei primi insediamenti che poi diverranno le future città che daranno vita alla
nascita di vere e proprie civiltà.
Prima di allora l'uomo paleolitico aveva vissuto in uno stadio semi selvaggio, vivendo di caccia e
nomadizia, in piccoli gruppi sparuti, la cui esiguità non avrebbe permesso la nascita delle varie
specializzazioni di mestiere.
Lo studio dell'astronomia e del percorso nel cielo, durante l'anno, delle varie costellazioni, comporta
una conoscenza appropriata di nozioni matematiche e persino di trigonometria sferica, nonché
capacità di osservazione scientifica e una strumentazione ad essa inerente.
E' abbastanza impensabile che l'uomo paleolitico, costretto ad una vita segnata dal fabbisogno di
procurarsi cibo e riparo, e costretto a difendere il poco che aveva, oltre che se stesso, da altri suoi
simili e dalle belve feroci, abbia avuto il tempo per concepire simili pensieri e idee, ne tanto meno
possiamo pensare che uno o più individui, nel mondo, abbiano potuto avere la possibilità e la
costanza di seguire, giorno per giorno, mese per mese, anno per anno, tutti i vari movimenti degli
astri, grandi e piccoli nel cielo.
Ancora oggi i nostri contadini ( e credo che fosse così anche in passato) traggono i loro modelli
informativi su tutto ciò che attiene l'agricoltura dall'ambiente circostante. I tempi della semina e
della mietitura, dell'approssimarsi dell'inverno e dell'estate, sono "sentiti" in anticipo e determinati
dall'attenta osservazione dell'ambiente circostante, come la fioritura di piante e alberi, il colore
assunto dalla terra stessa, il comportamento migratorio di alcune specie di uccelli ed altro ancora.
Ancora oggi le piene del Nilo, in Egitto, vengono contrassegnate, tempo prima, dal comportamento
nomadizio di alcune specie animali altresì abitanti le rive del fiume abitualmente.
Certamente il contadino osserva pure fenomeni celesti come le varie fasi lunari e solari, ma queste
sono osservazioni giornaliere o quindicinali, che non comportano problemi di osservazione data la
visibilità di tali astri (sole e luna), né un'attenzione duratura in un intero anno.
E, allora, vi chiederete, a cosa serve l'astronomia?
L'astronomia, cioè la conoscenza della posizione e del moto degli astri nel cielo, in un tempo di
osservazione anche lungo un anno, è una prerogativa di un'arte sì antica, ma sino ad oggi non
considerata molto più antica delle grandi civiltà a noi note: la navigazione, in principal modo quella
d'altura.
In mare aperto, senza vedere costa alcuna, l'unico mezzo, per il marinaio, per orientarsi e per
sperare in un ritorno a casa era (ed è ancora) affidarsi all'osservazione degli astri del cielo. Siccome,
per il moto del nostro pianeta, le stelle non sono mai nello stesso punto, è necessario, per ogni
marinaio, oltre ad una perfetta conoscenza collocativa nella volta celeste dell'astro stesso, conoscere
il moto apparente e il posizionamento dell'astro nell'arco di un anno. Chiunque mastichi un po' di
marineria sa benissimo che uno strumento indispensabile per la navigazione sono le cosiddette
Effemeridi nautiche, un registro in cui vengono segnate, giorno per giorno, per tutto l'anno, la
declinazione delle varie stelle, in modo da fornire un perfetto strumento di osservazione per i
rilevamenti nautici. Tale registro viene redatto anno per anno.
Una civiltà dal carattere marinaresco non può prescindere da tali conoscenze e, inversamente, tali
conoscenze sono la linfa di una civiltà di tale stampo.
Purtroppo per noi, ciò che sappiamo è che né i Sumeri, né gli Egizi, né i Maya, o gli Aztechi o gli
Incas erano certamente popoli di grandi navigatori. Probabilmente gli Egizi, sotto il Faraone Necao,
arrivarono a compiere il periplo dell'Africa, ma la loro " ignoranza" nautica e astronomica (sempre
riferito alla navigazione) è testimoniata dal fatto che tali improvvidi marinai non vennero creduti
poiché affermarono che ad un certo punto il sole si trovava sul lato opposto!
Allora come spiegare tali conoscenze astronomiche?
Possiamo immaginare solo, finché non sorgeranno altre prove, un'antica civiltà, altamente
progredita rispetto al resto del mondo paleolitico di allora, in possesso di conoscenze marinaresche
e quindi di astronomia, notevolmente evoluta sul piano agricolo, pastorizio, metallurgico, nonché
sul piano strettamente sociale e politico: la mitica Atlantide, o Mu o Lemuria che dir si voglia!
Una terribile catastrofe colpisce il mondo intero (il mitico diluvio) e in principal modo questa
grande civiltà, che scompare inopinatamente. Piccoli gruppi sparuti , capeggiati da uomini dalla
grande sapienza (i vari Viracocha, Quetzalcoatl, Kukulkan, Oannes, Osiride, Hotu Matua ed tutti gli
altri semi-dei apportatori di conoscenze) approdano in varie parti del mondo, venendo a stretto
contatto con le sparute rappresentanze di indigeni locali. Insieme affrontano le problematiche del
dopo diluvio, e i nuovi arrivati, i superstiti atlantidei, insegnano i primi rudimenti dell'agricoltura e
della pastorizia, elementi portanti per la futura sopravvivenza di tali gruppi, i quali, più in là negli
anni, o forse nei secoli, daranno vita alle prime grandi civiltà.
Purtroppo, a causa del numero non elevato di persone sopravvissute di Atlantide, e condizionato dal
minor contributo intellettuale e conoscitivo delle popolazioni locali, non tutte le conoscenze
possono essere conservate. Non conoscendo dove siano, nei nuovi luoghi, giacimenti minerari, la
metallurgia viene presto dimenticata. Costretti a combattere contro un ambiente nuovo e ostile e dar
la precedenza a problemi, come quelli della sopravvivenza e dell'alimentazione, cose prima
elementari, come la scrittura, vengono abbandonate. I primi centri abitativi , per via di un generale
innalzamento delle acque in tutto il mondo, vengono creati nell'entroterra, e allorché le acque si
ritirano, questi insediamenti diventano di carattere principalmente terrestre, non rendendo più
necessari di tanto l'arte della navigazione e le conoscenze ad essa applicate. L'astronomia diviene
uso e conoscenza di pochi iniziati (la futura classe sacerdotale) i quali ben presto ne dimenticano
l'utilizzo principale, relegandola ad un ruolo strettamente divinatorio o oracolare. Forse il cielo
viene osservato al fine di scoprire, in anticipo, i segni, in futuro, di un nuovo disastro.
Tali conoscenze marinaresche spiegherebbero forse anche la presenza delle famose barche egizie,
ritrovate sepolte sotto la sabbia, a Giza, o le perfette conoscenze di idrodinamica applicate alle
imbarcazioni degli abitanti del lago Titicaca, in Bolivia.
Questo è un quadro abbastanza attendibile di cosa potrebbe essere successo, e, credo, dia una
spiegazione molto più plausibile delle conoscenze astronomiche dei vari popoli antichi.
Tra l'altro, se ciò fosse vero, spiegherebbe, in maniera indiretta anche la presenza delle varie
misteriose mappe cartografiche dell'antichità, di cui io stesso ho trattato su un altro articolo presente
in questo sito ( vedi "I Misteri della Cartografia Antica" nella sezione "Archeologia Misteriosa").
Chiudo con una semplice osservazione, dedicata agli amanti dell'ipotesi extraterrestre della genesi
umana: l'astronomia non è solo un basamento della navigazione marina ma anche, e soprattutto di
quella spaziale. Vi dice niente questo?

L'atronomia secondo:

I- MAYA, INCA ED AZTECHI


Dalle iscrizioni rinvenute su monumenti dell'America centrale dagli archeologi, possiamo dedurre
come alcune popolazioni del Messico, ad esempio i Maya, raggiunsero a quel tempo un grado di
civilta` e cultura paragonabile a quello dei babilonesi, degli assiri e degli egiziani. Per queste
popolazioni centroamericane l'astronomia era, in particolar modo, una scienza particolarmente
coltivata. Dopo le ultime scoperte archeologiche in questo settore all'Universita` del Maryland e`
stato persino creato un centro di archeoastronomia ove astronomi e archeologi lavorano in stretta
collaborazione.
Pur non essendo a conoscenza della forma della terra, i Maya, conoscevano le cause delle eclissi,
sapevano usare lo gnomone e sapevano calcolare i momenti dei solstizi e degli equinozi. A tale
proposito si e` visto come molte delle loro costruzioni siano orientate secondo questi punti di
fondamentale importanza l'astronomia di posizione. Alla base di tali conoscenze sta sicuramente il
loro progresso in campo matematico:conoscevano infatti lo zero ed adottavano la numerazione
posizionale.
I cicli, il ripetersi dei fenomeni astronomici avevano assunto presso i Maya un significato talmente
importante che il loro calendario, ad uso civile e religioso, era esclusivamente basato sui fenomeni
celesti. Esso utilizzava alternativamente l'anno solare e l'anno di Venere, determinato dalla
rivoluzione sinodica del pianeta. Questo pianeta era tra l'altro divinizzato visto che rappresentava
uno dei loro dei piu` importanti: il serpente piumato Quetzalcoatl. Anche il Sole e la Luna erano,
naturalmente, divinizzati a tal punto che, presso questi popoli, la superstizione religiosa si
mescolava pittoresticamente con le osservazioni astronomiche. Conoscevano molto bene e
seguivano i moti dei cinque pianeti visibili ad occhio nudo e sapevano gia` che la Via Lattea era
nient'altro che un grande ammasso di stelle. In particolare considerazione erano tenuti da Maya,
Inca ed Aztechi, i punti ove quest'ultima incontrava il percorso del Sole, la nostra eclittica. Era
infatti rispetto a questi punti che davano i tempi dei fenomeni astronomici, in particolar modo per
quel che riguardava i pianeti.
Da alcuni ritrovamenti archeologici nella zona di Palenque, in Messico, pare che i Maya avessero,
gia` cinque secoli prima di Cristo, adottato un anno formato 365,242 giorni (il suo valore reale e` di
365,2422 giorni!). Questi erano compresi in 18 mesi di 20 giorni ciascuno piu` un breve mese
addizionale di 5 giorni. Ogni mese aveva un suo nome ed in esso i giorni erano contati da 0 a 19.
Questo computo del tempo cosi` evoluto e` tale che in nessun altra parte della Terra si puo` trovare
eguale fino all'inizio dell'era moderna. Tali progressi in campo astronomico, considerati eccessivi,
hanno sviluppato la fantasia dell'uomo fino a fargli pensare che, al loro inizio, le civilta`
dell'America centrale siano state visitate da qualche forma di vita extraterrestre intelligente ed
evoluta.Fra i vari complessi archeologici rinvenuti da queste parti, ve ne sono alcuni veramente
singolari che non potevano servire, vista la loro costruzione e collocazione, che per le osservazioni
astronomiche. Cito, ad esempio, i templi-osservatori della citta` Maya di Uaxactun, dai quali si
potevano mirare, con opportuni punti di riferimento, i luoghi del sorgere e del tramontare del Sole
nei giorni di equinozio e di solstizio. La torre di Palenque, un vero e proprio osservatorio, dalle cui
finestrelle opportunamente piazzate si potevano scorgere, negli istanti del loro sorgere e tramontare,
il Sole, la Luna ed il pianeta Venere. Ed ancora il "Castillio" a Chice`n Itza`, il "Caracol" dalla
classica forma a cupola di osservatorio astronomico e tanti altri ancora.

II- CINESI
L'antica astronomia cinese e` famosa in tutto il mondo per l'accuratissima registrazione e la
costanza nel tempo delle osservazioni celesti; osservazioni talmente precise da costituire
probabilmente la migliore cronaca astronomica dal 2000 a.C. fino ai nostri giorni.
Di solito e` abitudine attribuire ai cinesi grandi ed importanti conoscenze astronomiche prima
ancora del secondo millennio prima di Cristo, anche se non esiste a tale proposito alcun documento
o reperto archeologico di varia natura che provi il loro effettivo progresso prima di tale data.
I loro studi sui moti della Luna e del Sole, compiuti da un osservatorio astronomico fatto costruire
nel 2608 a.C. dall'imperatore Hoang-Ti, avevano come scopo principale quello di elaborare e
correggere l'allora carente calendario.
Fra le discipline scientifiche in Cina l'astronomia ha da sempre avuto un ruolo di primissimo piano.
Cio` era dovuto al fatto che i cinesi consideravano l'imperatore qualcosa di divino che era tale per
volere del cielo e di conseguenza, tutti i fenomeni che si verificavano sulla volta celeste, per forza
di cose, avevano un evidente riscontro sulla Terra, sulle attivita` umane e soprattutto sul
comportamento e le decisioni dell'imperatore.
Per questo gli astronomi della corte reale erano responsabili direttamente con la loro stessa vita
dell'esattezza delle previsioni delle eclissi o di altri eventuali importanti fenomeni celesti tanto
legati alla vita dell'imperatore e della nazione.
Per dare maggiore importanza alla connessione esistente tra imperatore e avvenimenti celesti, ogni
nuovo regnante, non appena saliva al trono, era solito cambiare immediatamente, innanzitutto la
sede dell'osservatorio astronomico imperiale portandolo adiacente al palazzo della propria citta` (a
secondo della dinastia regnante) ed in seguito anche le regole che costituivano le basi per la
compilazione del calendario lasciandovi cosi` impressa l'impronta del proprio passaggio.
Come nella maggior parte delle popolazioni antiche il calendario cinese era per lo piu` un
calendario lunisolare riveduto e corretto di dinastia in dinastia data anche la non coincidenza delle
lunazioni con il movimento apparente annuale del Sole sulla volta celeste.
A parte le osservazioni dei moti della Luna e del Sole, gli astri piu` brillanti del cielo e quindi anche
i piu` facili da seguire, gli astronomi cinesi rivolgevano particolare attenzione ad avvenimenti come
l'apparizione di una cometa, l'esplosione di una nova (vedi, ad esempio, quella del 1054 cosi` ben
descritta nelle cronache cinesi e che ha dato origine alla famosa nebulosa del Granchio nella
costellazione del Toro), le congiunzioni planetarie ed ovviamente le eclissi di Sole e di Luna.
La ripartizione del cielo, come e` possibile immaginare, era fatta in modo completamente diverso da
quello occidentale, con piccole costellazioni (circa 250) la piu` famosa delle quali e` giunta fino ai
nostri cieli col nome di costellazione del Dragone, divenuta in Cina talmente importante (anche per
la sua vicinanza al polo nord celeste e per il fatto che anticamente conteneva la stella polare) da
diventare simbolo nazionale.
Gli scarsi contatti fra il lontano Oriente e l'Europa, soprattutto per le enormi difficolta` di viaggio
per raggiungere terre cosi` lontane, portarono la due culture ad incontrarsi molto tardi e ad
aumentare il mito di un popolo misterioso e saggio, capace di grandi invenzioni e che era gia` a
conoscenza, 6000 e piu` anni prima della nascita di Cristo, dei piu` grandi segreti scientifici. Grande
importanza ebbero, a tale proposito, le missioni religiose che i Gesuiti andavano fondando in tutto il
mondo. Proprio in una di queste Padre Matteo Ricci, dal 1600 in poi, lavoro` a stretto contatto con
gli astronomi cinesi divulgando fra di essi le ultime e piu` importanti scoperte astronomiche
occidentali (si era nel periodo della rivoluzione copernicana e dei primi utilizzi del cannocchiale di
Galileo Galilei).
Con Padre Ricci e con i Gesuiti l'astronomia occidentale divenne famosa e conosciuta in tutta la
Cina a tal punto che, dopo una gara su chi, fra astronomi cinesi, arabi ed europei, fosse, con
maggiore precisione, in grado di prevedere l'eclissi di Sole del 1629 (gara vinta da astronomi
europei), l'imperatore decise, da quel momento, di affidare ai Gesuiti la compilazione, ma
soprattutto la riforma, del calendario.
A testimoniare questa grande fama raggiunta dai Gesuiti rimane ancora oggi a Pechino, vicino alla
celebre piazza Tienanmen, un osservatorio astronomico intitolato a Matteo Ricci.

Nell’antichità si conosceva l’energia?

Il termine elettricità deriva dal greco “electron” sostantivo che sta ad indicare l’ambra, infatti già
nell’antichità era nota la caratteristica della gemma di attirare, dopo essere stata sfregata con un
panno di lana, piccoli corpuscoli.
Ma nell’antichità era conosciuta l’energia
elettrica?
Ritrovamenti come la pila di Bagdad* o
oggetti ritrovati nell’America del sud, di
epoca pre-colombiana che sembrano realizzati
grazie all’ elettrolisi ed infine tratti delle
antiche mura di Gerusalemme che sembrano
saldati tra loro, sembrano confermare questa
ipotesi.
Ma il fatto che probabilmente in ambiti
ristretti e con conoscenze vaghe e lacunose il
“segreto” dell’elettricità fosse stato trasmesso
dall’antichità fino a tempi più recenti, come
presso gli alchimisti del XVIII secolo o le
confraternite giapponesi di fine ottocento
comunque non cambierebbe di certo la nostra visione della storia, visto che tale conoscenza rimase
sostanzialmente inutilizzata, come fu per la conoscenza dell’energia del vapore in epoca ellenistica.
Ma questo fatto ci apre la strada verso altre considerazioni riguardo la sapienza antica.
La conoscenza intuitiva delle cose o la “coscienza magica”* come la chiama padre Hugo Enomiya-
Lassalle che noi abbiamo perso non solo ha portato alla scoperta dell’energia convenzionale ma
probabilmente anche ad una forma di energia a noi ancora sconosciuta.
Questo perché tale forma di energia è strettamente legata alla consapevolezza sia per la percezione
che per l’utilizzo.
Intendo dire che per percepirla bisogna entrare in uno stato di attenzione detto comunemente di
coscienza intensiva che si concretizza con la meditazione dal passaggio dalle onde cerebrali alfa a
quelle beta e lo stesso vale per “muoverla”.
L’energia di cui parlo è il fuoco segreto degli alchimisti, l’agente universale dei maghi
rinascimentali, le serpi di terra dei sacerdoti Caldei i draghi sotterranei del feng-shui, il mana degli
sciamani.
Tale energia si manifesta nell’uomo influendo sui processi che ne regolano la vita (secondo la
tradizione è proprio questa energia, detta “spirito” che tiene in vita l’organismo umano), denominata
prana presso gli indiani, qi presso i cinesi, pneuma presso i greci.
Ora veniamo alle modalità di incanalazione di tale energia, tutti avranno presente la potenza
dell’Arca dell’Alleanza e dei miracoli di Mosè e ugualmente le sventate invasioni di Delfi
perpetrate dai Celti* ed infine il potere dei magi che pretendevano di dominare tali “serpi” e di
poterle scagliare contro gli uomini incenerendoli*.
La stretta connessione tra le energie presenti nel cosmo e nell’uomo è particolarmente forte in questi
ambiti e diventa una specie di “connessione” dell’uomo dell’universo come sottolinea la tradizione
yogi e più vicino a noi un personaggio del calibro di Rudolf Steiner, padre dell’antroposofia.
L’importanza della “connessione” con l’universo ci rimanda sia alla tradizione iniziatica degli
sciamani sia a quella dei misteri dell’antichità, come quelli egizi, greci e di tutte le popolazioni della
mezzaluna fertile e che passerà attraverso la magia e le scuole esoteriche che spesso né traviseranno
il significato.
Vista in questa prospettiva tutta la tradizione cambia aspetto ed assume una chiarezza rivelatrice.
Dopo una preparazione interiore a livello energetico, si incanalavano e utilizzavano anche le
correnti energetiche della madre terra e le si sintonizzavano grazie ai complessi megalitici di cui
questa è la funzione, come spiega il fatto che le pietre usate per erigere tali monumenti non siano
state scelte a caso, ma siano composte in gran parte di pirite e di quarzo due materiali che fungono
da “magazzino” per l’energia e ne cambiano la frequenza*.
Vorrei infine porre l’accento sulla forte componente che assume il corpo in questa tradizione, come
complemento della mente e suo aiutante, e questa è la componente “umana” dell’equilibrio
energetico, quella sovrannaturale è posta nella natura come pura incarnazione dello spirito e da esso
inseparabile.
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Il mosaico del Nilo: mitologia o raffigurazione di antiche conoscenze?

Nell’articolo "Sulle tracce di Atlantide" , avevo accennato alla possibilità che il mosaico del Nilo
conservato presso il museo archeologico di Palestrina (Roma), potesse raffigurare una visione
distorta della fine di Atlantide, poiché nel mosaico sono raffigurati alcuni animali che all’apparenza
possono sembrare irreali e mitologici.
Ma prima di iniziare ad esporre le mie teorie, vorrei farvi conoscere le opinioni della scienza
ufficiale.
Il mosaico nilotico
Cultura egittizzante a Praeneste
"Il mosaico, uno dei più grandi e importanti mosaici ellenistici conosciuti, costituisce una grande
carta geografica dell’Egitto in veduta prospettica, in cui è raffigurato il Nilo durante l’inondazione,
nel suo percorso dall’Alto Egitto, ai confini con l’Etiopia, sino alla costa mediterranea. La sua
datazione è stata a lungo discussa, ma ormai sembra accertato che l’opera debba risalire alla fine del
II sec. a.C.. Una conferma a questa cronologia proviene dalla sua collocazione originaria. Esso
infatti costituiva il pavimento dell’abside di fondo di una grande aula situata nel foro di Praeneste,
in un complesso di edifici costruiti proprio in quel periodo, nell’ambito di una globale
risistemazione urbanistica della città. L’aula absidata può essere identificata con un ambiente
dedicato al culto di una divinità egizia, Iside o Serapide, e quindi il soggetto del mosaico non aveva
solo una funzione ornamentale, ma probabilmente sottolineava il rapporto con l’Egitto. I contatti tra
Praeneste e questo paese, connessi soprattutto alle intense attività commerciali della città in oriente,
dovettero talmente intensi e consistenti da investire anche l’ambito del culto, tanto che fin dal II sec.
si verifica l’identificazione tra le divinità di Fortuna Primigenia e di Iside.
Questa grande composizione, è opera di quegli artisti alessandrini ricordati dalle fonti, che
sappiamo lavoravano in Italia già dal II sec. a.C., quali per esempio, quel Demetrio detto il
"topografo", cioè il pittore di paesaggi, che già nel 165 a.C. si era stabilito a Roma.
Il mosaico ha subito nel corso del tempo, varie vicissitudini e notevoli restauri: scoperto all’inizio
del 1600, fu poi sezionato, staccato e trasportato a Roma. Da qui venne di nuovo trasferito a
Palestrina, ma durante questa operazione, fu gravemente danneggiato e così, oltre al rifacimento
totale di alcune sezioni, si effettuò una ricomposizione inesatta che modificò la collocazione
originaria di alcune parti. Nuovamente staccato durante l’ultima guerra per salvarlo dai
bombardamenti, venne in seguito restaurato e collocato nella sua sistemazione attuale.
Fortunatamente prima dei restauri seicenteschi furono eseguiti dei disegni del mosaico (conservati
in Gran Bretagna), che consentirono di conoscere l’aspetto della composizione originaria." Tratto
da: Guida al museo archeologico nazionale di Palestrina di Sandra Gatti.
Come letto in precedenza, e come dice il nome stesso, il tema principale del mosaico è il Nilo e la
sua inondazione.
Il Nilo:
Il Nilo, è un fiume dell'Africa nordorientale, il più lungo del mondo. Scorre in direzione nord dal
lago Vittoria fino al Mediterraneo dopo un percorso di 5584 km attraverso l'Uganda, il Sudan e
l'Egitto. Se si comprende il fiume Kagera, che è il suo principale ramo sorgentifero, la lunghezza
complessiva del fiume (Nilo-Kagera) raggiunge i 6671 km. Il bacino idrografico del Nilo è tra i più
vasti del mondo, con una superficie di circa 2.867.000 km2. Il Kagera, che ha origine dalla
confluenza dei fiumi Nyabarongo e Ruvubu, dopo aver segnato per una certa parte del suo corso il
confine tra la Tanzania a est, il Burundi e il Ruanda a ovest, e l'Uganda a nord, devia poi verso est,
gettandosi infine nel lago Vittoria, situato a un'altitudine di 1134 m. Il Nilo esce dal lago col nome
di Nilo Vittoria presso Jinja, in Uganda, in corrispondenza delle cascate Ripon, descritte dagli
esploratori che visitarono la regione nel secolo scorso ma oggi non più visibili. Percorre quindi
483 km in direzione nord-ovest scorrendo tra elevate pareti rocciose, superando rapide e cataratte e
formando il lago Kyoga, fino a gettarsi nel lago Alberto. A questo punto fuoriesce dal lago col nome
di Nilo Alberto. Da qui scorre verso nord attraverso l'Uganda settentrionale e il Sudan, dove assume
il nome di Bahr-al Jabal, fino al punto in cui riceve le acque del suo affluente Bahr-al Ghazal: qui
cambia nuovamente il nome, diventando il Nilo Bianco. A Khartoum quest'ultimo si congiunge con
il Nilo Azzurro: i nomi dei due fiumi derivano dal colore delle loro acque. Il Nilo Azzurro, lungo
1529 km, ha origine nel lago Tana, in Etiopia. Da Khartoum il Nilo scorre in direzione nord-est e,
dopo circa 300 km, riceve le acque del fiume Atabarah, il suo ultimo affluente. Da qui il corso del
grande fiume procede verso nord, attraversando il deserto di Nubia, dove forma due ampie anse, e
superando una serie di cateratte che lo portano da una quota di 350 m ai 95 m sul livello del mare.
Poi a 260 km dal mediterraneo inizia il delta che porta alla fine il Nilo.
Questa è una foto del mosaico:
Fig.1 Il
mosaico del Nilo.
Come accennato in precedenza, il mosaico mostra apparentemente il Nilo e la sua inondazione; mi
soffermo sul termine apparentemente, poiché se guardati con attenzione, molti degli animali
raffigurati, sono animali estinti migliaia, se non milioni di anni fa, mentre altri non sono neanche
rintracciabili all’interno del bacino del Mediterraneo, dato il fatto che sono presenti solo nel resto
del mondo.
Analisi:
Iniziamo col notare subito che sulla sinistra, si trova una barca molto simile a quella rinvenuta nel
1954 nei pressi della grande piamide.
Scendendo verso il basso, si vedono chiaramente due rettili e un animale che protrebbe assomigliare
a un ippopotamo, ma che in realtà è due toxodonte, un mammifero anfibio, che prosperò nel sud
america tra il Pliocene (1 milione e mezzo di anni fa) e il Pleistocene (concluso verso la fine
dell'ultima era glaciale, ovvero circa 12000 anni fa). Curiosamente questa specie di ippopotamo
preistorico si può osservare anche tra i fregi che ornano la porta del Sole di Tiahuanaco (fig.4). I due
rettili invece sembrano due coccodrilli, ma la forma del muso rivolta leggermente verso l'alto, ci
porta a pensare che forse sono due caimani, un'animale simile ai coccodrilli ma che vive in sud-
america, lungo il Rio delle Amazzoni e lungo l'Orinoco. Questo rettile può raggiungere i 4.5 m di
lunghezza (a differenza del coccodrillo, che arriva ai 7 m), il che spiega la forma un pò tozza e non
del tutto slanciata tipica del loro cugino che vive lungo il Nilo.
Spostandoci verso destra, si notano le barche caratteristiche del Nilo, che sono uguali a quelle che si
possono vedere sul lago Titicaca in Bolivia (fig.3).
fig.3 Costruzione di una tradizionale barca di
giunchi sulle sponde del lago Titicaca.
Ma in basso a destra, se osservata con attenzione, si scorge un’imbarcazione che non ha niente a che
vedere con le barche nilotiche, poiché sembra una di quelle barche usate nel secolo scorso per le
gite sui fiumi e sui laghi.
Salendo con lo sguardo, sempre sulla parte destra del mosaico, si scorge un’animale che si trova
nell’acqua, con accanto tre uomini che provano ad ucciderlo; è una cosa del tutto normale, ma
l’animale in questione sembrerebbe essere la raffiguarzione distorta un’Iguanodon, un dinosauro
vissuto tra i 120 e i 110 milioni di anni fa (cretaceo inferiore), in Europa, Africa e America; questo
dinosauro pesava 4.5 t e raggiungeva un'altezza di 5 m e una lunghezza di 9 m.
A sinistra del presunto dinosauro, c’è una piccola scimmia, che dalla faccia sembrerebbe essere un
bradipo, dal colore un langur (scimmia asiatica) e dalla forma un sifaca (piccola scimmia del
Madagascar).
Ancora più a sinistra, si trovano due animali simili a due cinghiale, ma che in realtà risultano essere
due Pecari; anche detti cinghiali americani (proprio perchè vivono solo nel continente americano).
Sono raffigurati molto fedelmente, poichè i cuccioli di questi animali hanno una pelliccia molto più
chiara di quella degli adulti (che è nera) , con evidenti macchie più chiare intorno al collo e sotto il
mento. A sinistra del Pecari invece, c’è un animale che non son riuscito ad identificare con
precisione, ma probabilmente si tratta di rinoceronte preistorico.
Tornando un po’ indietro, e precisamente sopra il pecari più grande, si vede un rettile poggiato sopra
una roccia; la fisionomia e il colore dell’animale ci fanno subito pensare che possa trattarsi di un
varano, un rettile dalla forma affusolata, e dall’incredibile voracità.
Sopra il varano si scorge un leone che guarda un animale bianco dalla forma affusolata, simile a
quella delle odierne gazzelle. La forma del muso però, ci fa pensare che la gazzella in realtà sia un
cavallo bianco. Anche lo zoccolo è molto simile a quello degli odierni cavalli.
Tornando sulla destra sopra il dinosauro, si nota un’animale disteso, e poco sopra di esso un essere
dai lunghi arti superiori; forse una grossa scimmia o un bradipo.
Nelle immediate vicinanze della grossa scimmia ci sono due lunghi vermi con miriadi di piccole
zampe, che tanto assomigliano ai centopiedi, ma date le dimensioni, è più probabile che siano
dei miriapodi vissuti 380 milioni di anni fa (periodo devoniano); questo essere infatti era lungo fino
a 2 m e si cibava di piante che crescevano nelle paludi.
Sulla sinistra del miriapode ci sono due animali, sicuramente due ghepardi. Ma in prossimità di
questi due animali c'è un'altra sorpresa: si vede un'animale di colore marrone chiaro, con delle
evidenti fasce nere sul dorso e una terza zampe anteriore. Altro non è che il lupo della Tasmania,
noto anche con il nome di Tilacino (fig.6); questo è il più grande dei carnivori marsupiali, infatti è
lungo 1.20 m e ha una coda lunga 60 cm. La terza zampa quindi, è in realtà la lunga coda. Fu
sterminato dai colonizzatori che arrivarono in Tasmania, e attualmente si pensa che sia estinto.
A sinistra rispetto il Tilacino c'è un grosso mammifero simile ad un camelide; in effetti il nome
scientifico di questo animale è Alticamelus, una specie di incrocio tra un cammello e una giraffa. Si
estinse durante l'ultima era glaciale. (fig.9)
Sulla sinistra del camelide c'è un lupo e sotto di esso una giraffa. A sinistra della giraffa c'è una
scimmia sopra un masso. La piccola scimmia, potrebbe essere la stessa raffigurata sulla piana di
Nazca, sapendo che nel Nuovo mondo non ci sono scimmie che scendono dagli alberi, a parte i cebi
cappuccini del Pantanal? Il Pantanal è una regione paludosa al confine tra Brasile, Paraguay e
Bolivia; fu scoperta dai porteghesi nel XVII sec. risalendo il corso del fiume Paraguay. Il cebo
cappuccino invece è una piccola scimmia che abita le regioni tropicali dell'America, tra cui il
Pantanal. Sono lunghi da 30 a 55 cm, con una coda prensile e pelosa della stessa lunghezza, ed
hanno un caretteristico cappuccio di peli sulla testa, che gli conferisce l'aspetto del monaco. Quindi
la scimmia raffigurata sul mosaico potrebbe essere un cebo cappuccino? La risposta è
probabilmente affermativa (fig.8).
Sopra un piccolo scoglio, a sinistra del cebo cappuccino, c'è un curioso animale dalla bocca
allungata. In questo caso, posso dire con certezza che si tratta di un Platybelodon, (fig.5) un
progenitore degli odierni elefanti, alto poco meno di 2 m, che aveva un mandibola armata di due
grossi incisivi. Viveva in prossimità di laghi e fiumi della Mongolia 10 milioni di anni fa.
In alto a destra sopra il camelide, c'è un grosso felino bianco con il volto di donna, mentre l'essere
umano seduto accanto ad esso ha il volto di un animale. Probabilmente questo è un errore dei
restauratori seicenteschi. Sullo sfondo si vedono i "monti della Luna", il luogo dove secondo gli
antichi nasceva il Nilo. Tra gli uccelli raffigurati, si vedono molti ibis e un'oca indiana. Due uomini,
cacciano con archi e frecce la stessa specie di animale guardata in precedenza dal leone.
Spostandoci a sinistra rispetto i "monti della Luna", c'è una piccola altura, sotto la quale si trovano
un lungo serpente e due felini. Anche se non è molto sicuro, il primo animale è un'anaconda, un
serpente che vive nel sud-america e che può raggiungere i 12 m di lunghezza. I due felini sono in
realtà due felidi conosciuti anche con il nome di "felidi dai denti a sciabola". La raffigurazione sul
mosaico non è molto precisa, infatti quei felidi dai denti a sciabola potrebbero essere stati dei
Machairodus, dei Thylacosmilus (marsupiale dai denti a sciabola) o degli Smilodon. Comunque è
molto probabile che siano raffigurati degli Smilodon, poichè gli altri animali menzionati vissero
milioni di anni prima della comparsa del genere Homo.Questi Smilodonti vissero durante il periodo
terziario, dall'oligocene al pleistocene in Europa e in nord-america. I loro denti a sciabola
arrivavano alla lunghezza di ben 15 cm. Si estinsero durante l'ultima glaciazione. (fig.7)
In bassa rispetto alle tigri dai denti a sciabola, in acqua, ci sono due piccoli animali simili alle
odierne lontre e visoni con in bocca un pesce. Le lontre e i visoni sono animali che vivono in nord-
america, Europa e Asia, ma non in Africa.
Infine, tornando al punto di partenza della nostra analisi, e precisamente alla grande barca, ci
accorgiamo che alla sua sinistra, c'è un grosso animale simile ad un elefante. L'assenza di zanne
però, ci porta a credere che si tratti di un'esemplare femmina della sottospecie dell'elefante indiano.
Nel il testo ci sono molti riferimenti alle ere geologiche e per chiarire le idee qui c'è una piccola
tabella riassuntiva:
Epoca Durata
Da oggi a 10000 anni
Olocene
fa
Da 10000 anni fa a 1.8
Pleistocene
M.a
Pliocene Da 1.8 a 5.3 M.a.
Miocene Da 5.3 a 24 M.a.
Oligocene Da 24 a 34 M.a.
Eocene Da 34 a 55 M.a.
Analisi dell'archeologia ufficiale:
Fortunatamente sono riuscito a trovare un libro in cui c'è un'analisi dettagliata della fauna
raffigurata sul mosaico, in base ai nomi scritti in greco sotto ogni animale.
Gli uccelli che si vedono in alto vengono definiti come aironi. Probabile, ma c'è sempre un volatile
simile ad un rapace non menzionato sul libro. L'animale che io ho identificato come un
Platybelodon, qui viene descritto come un: <quadrupede fantastico, tra l'ippopotamo e l'elefante,
con la testa allungata, munita di doppia fila di denti.> Sembra incredibile, ma hanno descritto
proprio un Platybelodon. Gli Smilodonti, sono menzionati come iene, (come se le iene avessero i
denti a sciabola!). Più avanti, il lupo è confuso con un orso, e l'Alticamelus con <un bue dalle
gibbosità sul collo>. L'animale da me definito come un leone dal volto di donna, è descritto come
una centauressa dalla chioma lunghissima, e i ghepardi come <due tigri dal mantello a macchie
nere> (non ci voleva certo un etologo per identificarli come ghepardi). Inoltre i miriapodi sono
paragonati a due lunghissimi serpenti (serpenti muniti di zampe!). Uno dei pochi punti d'incontro tra
la mia analisi e quella del libro è rappresentata dall'identificazione dei due animali acquatici come
<foche o lontre, che hanno in bocca ognuna un pesce.>. Il rinoceronte preistorico è giustamente
definito come tale, ma il piccolo di Pecari è nominato come un porco-scimmia. L'animale bianco di
fronte al leone viene descritto come un lince, mentre il varano come <una grossa lucertola che è in
procinto di afferrare qualcosa di invisibile> (mentre oggi sappiamo benissimo che alcuni animali
usano la bocca per la termo-regolazione del proprio corpo). Ll'Iguanodon è detto <coccodrillo-
pantera>. Infine l'elefante indiano è menzionato come un ippopotamo e i caimani come coccodrilli.
Conclusioni:
E' così finita l'analisi delle specie animali raffigurate sul mosaico. Ci sono indubbiamente alcuni
punti che identificano il fiume come il Nilo, ma gli animali raffigurati tenderebbero a smentirlo.
L'unica spiegazione plausibile è che l'autore abbia attinto da testi molto antichi, magari custoditi
nella biblioteca di Alessandria, vista l'età del mosaico. Inoltre sarebbe opportuno analizzare la
raffigurazione del Nilo e quella dei vari edifici, visto che hanno poco a che fare con gli edifici egizi.
Comunque tornando alle specie animali, possiamo dire che alcune di esse si sono estinte verso la
fine dell'ultima era glaciale, probabilmente insieme a quei milioni di animale morti
improvvisamente intorno al 10000 a.C le cui carcasse sono state ritrovate dilaniate in Siberia e in
Nord-America, uccise probabilmente da dei movimenti tellurici inimmaginabili. Altre specie sono
estinte addirittura da milioni di anni, mentre altre non sono rintracciabili nè in Africa, nè all'interno
del bacino del Mediterraneo. Questo si spiega solamente ammettendo che ci fu una civiltà
progredita migliaia di anni prima rispetto a quanto ci dicono gli storici ortodossi. Escludendo
l'ipotesi della civiltà sviluppatasi migliaia di anni prima rispetto alla storia ufficiale, dobbiamo
ammettere allora che gli Egizi furono in grado di compiere dei viaggi transoceanici; ma anche
questa ipotesi risulterebbe fantascientifica per l'attuale scuola di pensiero. Sfortunatamente per gli
accademici, ci sono numerose e solidissime prove a dimostrazione che le due ipotesi sopra citate
sono più che mai veritiere. Comunque questa analisi è solo la dimostrazione di un'altro anacronismo
storico; un tassello in più per la risoluzione degli antichi misteri.

Fi Fi Fi
g.4: Un Toxodonte g.5: Un Platybelodon g.6: Un Tilacino
Fig.7: Uno Smilodon Fig.8: Un cebo cappuccino Fig.9: Un Alticamelus

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Scoperta la lingua universale prima della torre di Babele

Partendo dagli studi del professor De


Santillana , ho scoperto un codice
astronomico precessionale tramite il quale si
esprimevano tutte le culture antiche .
Per onor di merito è giusto dividere questa
scoperta in due parti ben distinte ,la prima
che chiameremo codice De Santillana_Von
Dechend ("Il Mulino di Amleto"), intuita
dagli studiosi nel 1969 e la seconda, che ho
definito codice Terzo (dal nome del
sottoscritto Giorgio Terzoli).
Il codice de Santillana- von Dechend
Giorgio de Santillana nacque a Roma nel 1901.
Nel 1938 dovette abbandonare l’Italia in seguito a leggi razziali, in quanto ebreo e da allora visse
negli Stati Uniti ,dove insegnò per lungo tempo al Massachusset Institute of tecnology.
La sua splendida opera "Il mulino di Amleto", pubblicata negli Stati uniti nel 1969, fu il frutto di un
lungo lavoro in collaborazione con la professoressa Herta von Dechend, la quale insegnò per molti
anni all’università di Francoforte .
De Santillana e la Von dechend, mettendo in correlazione un numero infinito di miti che arrivavano
dal nostro profondo passato, scoprirono una serie di elementi a dir poco incredibili: tutta la
mitologia antica aveva gli stessi argomenti ,gli stessi personaggi (anche se con nomi diversi ma
riconoscibili), gli stessi arredi scenici e gli stessi numeri, che apparivano quasi per magia in ogni
tema mitologico. Motivi ricorrenti si riscontravano in Cina, in Arabia o in Egitto, a dispetto dei
luoghi o dei tempi.
I miti o le tradizioni che arrivavano da tutte le ere e dai posti geografici più impensati ,quali miti
amerindi ,cinesi ,greci ,egiziani ,indiani ,polinesiani ,sumeri ,ittiti ,scandinavi ,germanici ecc
contenevano gli stessi personaggi ,gli stessi arredi scenici ,le stesse trame e gli stessi numeri .
Dopo accurati studi i due professori ,seppure con un certo imbarazzo scientifico ,riconobbero nei
numeri in questione i dati per calcolare la precessione degli equinozi .L’imbarazzo scientifico
crebbe a dismisura quando i due studiosi furono costretti ,dall’evidenza dei fatti ,a dichiarare che
nella lingua comune del mito erano congelati elementi di alta astronomia .
I miti non solo descrivono esperienze comuni, ma lo fanno utilizzando lo stesso linguaggio
simbolico comune ,gli stessi personaggi riconoscibili e gli stessi motivi letterali .
Secondo i due studiosi sembrerebbe che un’antica mano informatrice abbia inserito nel D.N.A. della
nostra civiltà questi concetti .
I valori per calcolare con precisione la precessione degli equinozi ,sotto forma di numeri specifici si
possono trovare nelle più antiche tradizioni umane .
La prova schiacciante della loro magnifica intuizione si trova nei numeri per calcolare la
precessione degli equinozi ,i quali appaiono in ogni antica tradizione o in qualsiasi mito.
Considerando che l’origine della mitologia si perde nella notte dei tempi ,lo stesso de Santillana
afferma che nel 4000 a.c. all’inizio della nostra storia ,erano già barcollanti per l’età ,la scoperta
prendeva carattere di eccezionalità. Se prendiamo in esame che la scienza ufficiale farebbe risalire
la scoperta della precessione degli equinozi al primo secolo a.c., da parte di un astronomo greco
Ipparco ,la scoperta dei due studiosi potrebbe da sola costringerci a riprendere in serio esame buona
parte della storia conosciuta .

Gli equinozi sono i due momenti dell’anno in cui il giorno e la notte hanno eguale durata su tutto il
pianeta . L’equinozio di primavera cade il 20 marzo ,mentre quello d’autunno il 22 settembre.
Per effetto della precessione degli equinozi ,il punto vernale o punto gamma o equinozio viene
raggiunto ogni anno con qualche frazione di anticipo ,con il risultato che il sole molto lentamente si
sposta attraverso tutte e dodici le costellazioni dello zodiaco. Egli impiega circa 2160 anni per
attraversare ogni singola costellazione e compie un intero giro in circa 25.920 anni .
Tavola della precessione
I NUMERI PRECESSIONALI INDIVIDUATI DAI DUE STUDIOSI
72= UN GRADO PRECESSIONALE
144 = DUE GRADI PRECESSIONALI
2.160 = TRENTA GRADI PRECESSIONALI (UN’INTERA COSTELLAZIONE ZODIACALE)
4320= SESSANTA GRADI PRECESSIONALI (DUE COSTELLAZIONE PRECESSIONALI )
25920 = TRECENTOSESSANTA GRADI PRECESSIONALI EQUIVALENTI A UN’INTERO
CICLO.

I MITI ASTRONOMICI
In relazione a questa scoperta si può azzardare che l’intera mitologia non era basata su racconti veri
o presunti di personaggi straordinari e valorosi, ma ci parla in termini astronomici sulle traiettorie
dei pianeti e del grande ciclo della precessione degli equinozi ,il quale cambia inesorabilmente il
cielo e in particolar modo la posizione del Sole ,il giorno dell’equinozio ,all’interno di una delle
dodici costellazioni zodiacali .

IL CODICE TERZO
Elaborando il codice scoperto dai due professori sono riuscito a trovare altri elementi comuni
presenti in tutta la mitologia ,tramite i quali possiamo decifrare con senso logico e compiuto il
significato della maggior parte dei testi mitologici .

IL 12 associato a qualcosa di circolare .


Tutti i 12 mitologici, affiancati ad un concetto circolare, corrispondono alle dodici costellazioni
zodiacali che la precessione incontra nel suo lento incedere .
I 12 cavalieri della tavola rotonda ,i 12 apostoli ,i 12 saggi ,le 12 montagne ,i 12 piatti ,le 12 tribù
ecc.

L’orologio cosmico
La precessione degli equinozi determina un grande orologio cosmico comprendente ore od ere
precessionali di ben 2160 anni infatti, l’equinozio di primavera staziona circa 2160 anni in una
costellazione zodiacale. Sapendo che ora siamo alla fine dell’era astronomica dei pesci possiamo
stabilire con una certa sicurezza le epoche o le ore precessionali .
Tavola della precessione degli equinozi e relative date corrispondenti.

Gli animali mitologici .


Gli animali presenti nella mitologia simboleggiano le costellazioni zodiacali e nella maggior parte
dei casi sono il riferimento diretto alla costellazione che, nell’epoca specifica, portava l’equinozio
di primavera .

Gli dei correlati al sole .


Gli dei correlati al sole fanno sempre riferimento all’era precessionale in questione .
Nella tomba astronomica di Senemmut abbiamo la possibilità di osservare Horus ( il dio solare
egiziano ) con una lunga asta in mano che indica con precisione dove si trovava il sole
precessionale all’epoca in questione ,all’incirca alla metà della costellazione del Toro . ( data che
corrisponde al nostro 2450 a.c. esattamente la data attribuita dalla scienza ufficiale alla tomba .)
Tavola della tomba di Senenmmut.

TAVOLA DEL DIO SUMERO E TAVOLA DELL’OROLOGIO COSMICO


Il dio solare Sumero-Ittita ,Tesup o Teschub ,lo si rappresentava sotto forma di Toro. Abbiamo in
questo chiarificante esempio la dimostrazione che gli Ittiti identificavano la loro divinità solare con
la costellazione che ospitava il sole al momento dell’equinozio di primavera ( la costellazione del
Toro) .
I sumeri comparvero in mesopotamia nel Quarto millennio A.C. ( all’inizio dell’era precessionale
del Toro ) ed infatti la divinità solare sumera viene dipinta sopra a un Toro simbolico che
rappresenta l’omonima costellazione. Utilizzando l’orologio precessionale la figura sumera ci
indica anche che il sole si trovava all'inizio dell’era astronomica del Toro (4320 a.c. ) infatti ,la
divinità è sulla parte iniziale della costellazione del Toro ,le corna, indicandone l’inizio .

GLI EROI E LE PROVE PER DIVENTARE TALI .


Analizzando la mitologia ho riscontrato che le fatiche e le terribili prove che la figura dell’eroe deve
affrontare sono simboliche ed astronomiche . Ercole ,Giasone ,Ulisse e Teseo sono la stessa figura
dell’uomo che per diventare eroe deve compiere un percorso pieno di pericoli e di prove alquanto
bizzarre.
Se analizziamo che Ercole deve uccidere il Leone celeste ,Ulisse deve seguire le stelle di Orione e
Giasone e Teseo affrontare un terribile Toro, oserei dire che siamo costretti ad ammettere che le
prove degli Eroi sono costellate da prove precessionali .

La lingua universale prima della nostra Storia .


Si è sempre ricercata la lingua universale che si parlava tra i popoli prima del diluvio universale e
per molto tempo si è creduto che questa fosse una scrittura comune a tutte le popolazioni, un idioma
comune ,una sorta del nostro inglese commerciale. Oggi abbiamo la possibilità di dimostrare che
prima della scrittura era presente un gergo astronomico precessionale, comune a tutte le culture
storiche e preistoriche. Possiamo affermare che prima della nostra storia esistevano conoscenze
astronomiche e scientifiche e che tale sapienza veniva utilizzata in convenzioni mitologiche per
esprimerle.
Non potrebbe essere la scoperta di questo codice, la più grande scoperta archeologica ?

ARAMAICO

“Pater noster” in siriaco


L’aramaico, appartenente alla famiglia delle lingue semitiche come l’arabo e l’ebraico, è una delle
lingue più importanti dell’antichità. Aveva la sua sede originale nell’attuale Siria, ma ha conosciuto
un’amplissima diffusione quale lingua dei traffici e dell’amministrazione in tutto il vicino e medio
oriente, essendo attestato perfino nell’attuale Pakistan, dove sono state rinvenute traduzioni
aramaiche delle iscrizioni di Aśoka, mentre per la sua importanza religiosa è attestato perfino nel
Turkestan nella forma del siriaco (v. infra), importato dal cristianesimo nestoriano. Nella Persia
achemenide ricopriva il ruolo di lingua ufficiale dell’impero, mentre nella Palestina romana era la
lingua d’uso comune, essendo l’ebraico già da tempo una lingua puramente liturgica: il più famoso
fra i suoi parlanti, Gesù Cristo, sul punto di morte si espresse in aramaico dicendo: “Ελ(ο)ί Ελ(ο)ί
λάμμα σαβακτανί” (“Dio mio Dio mio perché mi hai abbandonato”), come è riportato testualmente
nei vangeli greci (Matteo 27:47, Marco 15:34).
In aramaico sono state composte anche alcune parti della Bibbia ebraica (due parole in Genesi
31:47; Geremia 10:11; Esdra 4:8-6:18 e 7:12-26; Daniele 2:4b-7:28). A causa della sua vasta
diffusione geografica e della sua persistenza nel tempo, numerose sono le varianti diatopiche e
diacroniche attestate di questa lingua, per cui è più corretto parlare di “aramaici” al plurale. Una
forma particolare dell’aramaico, il siriaco, parlato ad Edessa, è diventata lingua di cultura del
cristianesimo orientale, ed ancora oggi serve da lingua liturgica e di cultura in alcune chiese
cristiane d’oriente, comprese le chiese indiane del del Malabar e del Malankar, e sotto la
denominazione impropria di “assiro” è ancora oggi parlata in alcune zone dell’Iraq e dell’Iran.

ARABO

La lingua araba appartiene al sottogruppo semitico delle lingue camito-semitiche, insieme


all’ebraico, all’aramaico e all’etiopico (ghe‘ez).
È la più conservativa fra le lingue semitiche, in quanto mantiene tratti che la avvicinano
notevolmente all’accadico, come la declinazione triptòta (a tre casi); mantiene inoltre intatto il
consonantismo originale, a differenza delle altre lingue semitiche: per esempio, tre in arabo è ‫ﺙﻼﺛ‬
thalāth, mentre in ebraico è ‫ שלוש‬shalosh e in aramaico ‫ תלת‬talat; oro è ‫ ﺫﻫﺐ‬dhahab in arabo, ‫זהב‬
zahav in ebraico e ‫ דהב‬dahav in aramaico, etc.

L’arabo islamico

Foto: una pagina con la “Fātiha”,


la sura aprente del Corano

La predicazione di Maometto (‫ ﺪﻤﺤﻣ‬Muhammad) aveva lo


scopo di ristabilire il culto monoteista puro, quale era stato
predicato da Abramo, il primo musulmano dell’umanità
(ricordiamo che musulmano, in arabo ‫ ﻢﻠﺴﻣ‬muslim, vuol dire
semplicemente “sottomesso”, cioè a Dio), deformato nel corso
dei secoli da interpretazioni errate: secondo l'islam Dio non solo
non può essere raffigurato, per il semplice fatto di non essersi
mai reso visibile a nessun uomo, ma nemmeno può avere popoli
prediletti, né figli, né associati, e quindi non può essere trino, se
non si vuole contraddire il concetto di monoteismo; e il reato di
associazione, in arabo ‫ ﻙﺮﺷ‬shirk, è la più grave colpa che si possa commettere contro Dio. Nel
Corano è Dio in persona che tramite l’arcangelo Gabriele parla a Maometto, sigillo della profezia
(ultimo di una lunga serie di profeti che va da Abramo a Gesù Cristo, venerato perciò anche dai
musulmani), e lo fa esprimendosi in arabo, per cui le sue parole testuali non possono non godere del
massimo rispetto da parte dei credenti: il Corano in lingua araba sarà pertanto un testo talmente
autorevole da essere studiato e recitato obbligatoriamente nella versione originale.
Mentre l’arabo parlato ha seguito nel corso dei secoli la sua naturale evoluzione, l’arabo letterario è
rimasto sostanzialmente immutato. Oggi la situazione linguistica nei paesi arabi è caratterizzata
dalla diglossia, ovvero dall’esistenza di due varietà linguistiche, una dialettale e locale (parlata) e
una standard e internazionale (scritta): quest’ultima varietà non è lingua madre di nessun arabo e
viene impiegata esclusivamente come mezzo di comunicazione scritta, oppure nella trasmissione
orale di discorsi ufficiali e formali, situazione che ricorda quella del latino e del sanscrito, anche se
con un ambito molto meno limitato di queste due lingue. La lingua araba moderna scritta è in buona
sostanza la stessa lingua del Corano, con qualche omissione nella lettura di alcune desinenze, ed è
uniforme dal Marocco all’Iraq.

L’arabo lingua internazionale

L’Islam, oltre che una grande religione, è la più potente ideologia politica che sia mai stata
concepita (superiore anche al marxismo, almeno a giudicare dalla sua storia e dalla sua attuale
vitalità): accese a tal punto gli animi dei beduini del deserto da spingerli a conquistare in poco
tempo a occidente tutte le grandi civiltà coeve situate sulla costa africana e asiatica del
mediterraneo, dove la lingua araba sradicherà quasi del tutto le lingue preesistenti (con eccezione
delle parlate berbere), e a oriente il potentissimo impero persiano retto dai Sassanidi, per arrivare in
seguito fino all’India e all’Indonesia, oggigiorno il più popoloso stato musulmano del mondo. Dove
non si imporrà la lingua araba, si imporrà l’alfabeto arabo e la religione islamica. Le lingue turche,
il malese-indonesiano e il somalo solo in tempi recenti hanno abbandonato l’alfabeto arabo per
adottare quelli latino o cirillico (nell’ex-Unione Sovietica), un po’ perché più adeguati a trascriverne
il complesso vocalismo, un po’ per ragioni politiche (kemalismo, stalinismo e colonialismo).
Oggi la lingua araba è ufficiale nei seguenti stati: Marocco, Algeria, Tunisia, Ciad, Mauritania,
Libia, Egitto, Sudan, Somalia, Comore, Gibuti, Siria, Giordania, Israele, Libano, Iraq, Arabia
Saudita, Yemen, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Qatar, Oman e Bahrein. Essa poi viene studiata in
tutti i paesi musulmani, in quanto il Corano viene recitato e memorizzato da tutti i fedeli nella
versione originale.

EBRAICO (‫)עברית‬

L’inizio del libro della Genesi

L’ebraico è, a tutt’oggi, l’esempio più rilevante di una lingua


antica recuperata all’uso corrente su vasta scala. Non è mai
stata una lingua morta, nel significato che possiamo
attribuire a lingue di cui nel corso della storia si è persa la
conoscenza (salvo poi recuperarla parzialmente in alcuni
casi), fra cui ad esempio l’egizio, l’etrusco e il fenicio: come il latino, il sanscrito e l’arabo, è stata
la lingua di una grande religione e per tale motivo è stata sempre praticata, per scopi
prevalentemente liturgici ma anche letterari. In questa lingua sono stati
composti i testi sacri della Bibbia ebraica, che nella sua totalità
costituisce l’Antico Testamento della religione cristiana, con l’aggiunta
di alcuni libri scritti in greco per la versione cattolica.
Foto: Eliezer Ben Yehuda
(1858-1922)

La rinascita della lingua ebraica è dovuta in primo luogo all’opera instancabile di un uomo, Eliezer
Ben Yehuda, che, trasferitosi in Palestina alla fine del XIX secolo, ha creato la prima famiglia
ebreofona (il primo uomo di madrelingua ebraica dopo tantissimi secoli è stato proprio il figlioletto
Ben Zion, ovvero “figlio di Sion”), e successivamente ha dato vita alla prima comunità di ebreofoni,
ha fondato riviste, e compilato un dizionario di neologismi; il movimento sionista poi ha fatto propri
i risultati del lavoro di Ben Yehuda, incoraggiando la diffusione della nuova lingua fra i coloni, fino
a giungere alla fondazione dello Stato di Israele nel 1948, che ha adottato l’ebraico come lingua
ufficiale.
L’ebraico è una lingua semitica come l’arabo, l’aramaico e l’etiopico (ghe‘ez), ma ha una pronuncia
decisamente europea, risentendo del retroterra yiddish da cui proviene la classe dirigente attuale
(tipica è la r uvulare tedesca): solo gli ebrei provenienti dai paesi arabofoni pronunciano l’ebraico in
maniera più aderente alla sua natura semitica, distinguendo lettere come alef e ayn, khaf e khet, e
mantenendo le lettere enfatiche. Al di fuori dello Stato d’Israele, esso viene studiato e praticato
nelle comunità ebraiche sparse in tutto il mondo, la più importante delle quali è quella di New York,
la prima città ebraica del mondo per numero di abitanti.

LATINO (lingua latina)


Il latino è una lingua appartenente al sottogruppo italico delle gruppo indo-europeo, che comprende
le lingue italiche quali l’osco, l’umbro e il venetico, il greco, le lingue indoarie, iraniche,
germaniche, baltiche, slave, celtiche, l’albanese, l’ittita e il tocario (gli ultimi due oggi estinti).
Latino arcaico
La fase arcaica è rappresentata dal latino preletterario, fra i cui esempi più importanti sono:
a. la fibbia di Palestrina (fibula Praenestina), databile intorno al VI/VII sec. a C., rinvenuta a
Palestrina nel 1871 ed esposta al Museo Preistoico Pigorini di Roma;
b. il vaso di Dueno, rinvenuto a Roma nel 1880;
c. la Pietra nera (Lapis niger), scoperta nel 1899 nel foro romano, dov’è tuttora situata, e
databile attorno al 500 a.C.;
d. il carme dei fratelli Arvali (carmen fratrum Arvalium).
Latino classico
Alta e media repubblica
Con la caduta dell’ultimo mitico re, Tarquinio il Superbo, viene fondata la repubblica (509 a.C). Per
la prima attestazione letteraria occorrerà attendere l’anno 240 a.C. (513 dalla fondazione di Roma),
quando Livio Andronico (Livius Andronicus), uno schiavo liberato, proveniente dalla città greca di
Taranto, fece rappresentare per la prima volta un testo scenico in lingua latina. La lingua latina si è
radicata ovunque sia stata portata dai conquistatori romani, soppiantando le parlate locali nella quasi
totalità dei casi (unica eccezione il basco, lingua pre-indoeuropea che sopravvive ancora oggi in
Francia e in Spagna). Fra gli scrittori che hanno illuminato quest’epoca si ricordano, oltre al già
citato Livio Andronico, Ennio (Ennius, nato a Rudiae, presso Lecce), Plauto (Titus Maccius
Plautus), Nevio (Gnaeus Nevius), il cartaginese Terenzio (Publius Terentius Afer), il brindisino
Pacuvio (Marcus Pacuvius), il campano Lucilio (Gaius Lucilius), Catone (Marcus Porcius Cato),
Varrone (Marcus Terentius Varro), Columella (Lucius Iunius Moderatus Columella).
La tarda repubblica e l’età di Augusto
In questo periodo la lingua latina, oltre a continuare la sua inarrestabile diffusione e il suo
consolidamento, si rivela un grande strumento per la produzione di alcuni fra i maggiori capolavori
letterari dell'umanità.
L’età di Cesare
Marco Tullio Cicerone (106-43 a.C.)
Il grande poeta Lucrezio (Titus Lucretius Carus), autore del vangelo epicureo
dal titolo “La natura” (De rerum natura), è affiancato da altri grandi lirici quali
Catullo (Gaius Valerius Catullus), e da prosatori del calibro di Cicerone (Marcus
Tullius Cicero), definito a ragione il massimo scrittore in lingua latina, Cesare
(Caius Iulius Caesar) e Sallustio (Gaius Sallustius Crispus).
L’età di Augusto
Il massimo poeta di questo periodo è il mantovano Virgilio (Publius Vergilius Maro), cantore
dell’epopea della stirpe giulio-claudia, cui apparteneva l’allora imperatore. Altri sommi poeti che
illuminarono quegli anni furono Orazio (Quintus Horatius Flaccus), Tibullo (Albus Tibullus),
Properzio (Propertius) e Ovidio (Publius Ovidius Naso). Scrisse in questo periodo il grande storico
padovano Tito Livio (Titus Livius).
L’età imperiale
Finiti i fasti dell’età di Augusto, subentra un periodo di decadenza. Ricordiamo l’opera di Claudio
Claudiano (Claudius Claudianus).
Latino cristiano

Sant’Agostino (354-430)
La lingua si infarcisce di neologismi tecnici legati alla religione
cristiana, perlopiù di origine greca, come baptizare, eucharistia,
liturgia, etc., e antiche parole latine assumono un nuovo significato
impregnato della nuova etica, come virtus, che non significa più
“valore misto a coraggio”, ma “virtù”, cioè “valore morale”,
accezione rimasta nelle lingue europee moderne. Ricordiamo fra i più
importanti scrittori dell’epoca, l’africano Agostino (Aurelius
Augustinus), vescovo di Ippona (nell’odierna Algeria), con le sue
“Confessioni” (Confessiones), Girolamo (Hieronymus), traduttore
della Bibbia dal greco in latino, Ambrogio (Ambrosius), il grande
vescovo di Milano, Arnobio (Arnobius), Lattanzio Firmiano
(Lactantius Firmianus), detto per l’eleganza del suo stile il “Cicerone cristiano”, e il filosofo
Severino Boezio (Severinus Boëthius), autore della “Consolazione della filosofia“ (De consolatione
philosophiae).
La creolizzazione del latino
Avete mai osservato quanti errori di pronuncia, di grammatica, di ortografia etc. commette uno
straniero che parla la vostra lingua? E stranieri rispetto ai Latini erano i numerosi popoli sottomessi
al dominio di Roma, dagli Umbri ai Galli agli Etruschi agli Iberi etc. Tutti questi popoli parlavano,
o meglio si sforzavano di parlare un latino piuttosto approssimativo, con i loro inevitabili
barbarismi (basti qui ricordare che la parola “barbaro”, di orgine greca, significava letteralmente
“balbuziente”). Ad esempio, gli iberi non sapevano pronunciare la lettera f, come oggi i baschi; per
tale motivo quando si sforzavano di parlare in latino, dicevano *harina, *hilius, *hemina etc. al
posto di farina, filius e foemina, e così oggi si dice in spagnolo (harina, hijo, hembra).
Attraversando i Pirenei, notiamo che lo stato di estrema semplificazione in cui si è ridotto il latino
in Francia (augustum > [ut], aquam > [o], solidum > [su], mensem > [mwa], filius > [fis], maturum
> [myR], etc.) rivela il profondo influsso di una o più lingue di sostrato che mal sopportavano il
sistema fonetico latino, e che, a causa della forte intensità con cui era pronunciato l’accento, ha
portato alla caduta di gran parte delle vocali atone. In gran parte dell’impero tendevano poi ad
affermarsi voci diverse da quelle classiche, tipo casa o mansio per domus, caballus per equus e
focus per ignis, che ritroviamo in quasi tutte le lingue romanze: italiano casa, cavallo e fuoco,
francese maison, cheval e feu, spagnolo casa, caballo e fuego, romeno casă, cal (ma apă < equa) e
foc; in sardo invece abbiamo ancora oggi domu, poi caddu (ma ebba < equa), e fogu. La
declinazione è sopravvissuta in poche regioni d’Europa. Il romeno conserva tracce della
declinazione, ma anche il francese nel medioevo possedeva due casi (sujet e régime). In romeno i
nomi femminili (contrariamente al francese medievale, che declinava solo i maschili!) conservano
un caso obliquo anche nelle forme indeterminate. Per esempio, soră = soror, surori = sorori, sora =
soror illa, surorii = sorori illae. Un impero così vasto era dunque popolato da genti così diverse
che, una volta accolto il latino come lingua principale in sostituzione della propria, hanno
cominciato a storpiarlo alla loro maniera, dando così origine nel giro di poco tempo alla nascita di
idiomi che possono definirsi creoli del latino. Sbagliano quanti affermano che le lingue romanze
attuali rappresentano un’evoluzione del latino; in realtà rappresentano una “rivoluzione” del latino:
il latino in bocca a popoli stranieri ha comportato una cesura netta con la tradizione linguistica
latina. Di evoluzione si può parlare nel caso della lingua greca, non della lingua latina.
Latino medievale

Frammento di Livio
(Codex Puteanus, 500 ca.)
La nascita di creoli a base latina in Italia, Francia, Spagna e
Portogallo (ci si accorgerà più tardi della sopravvivenza di
parlate a base latina anche nel territorio dell’antica Dacia,
l’odierna Romania), non ha impedito che il latino mantenesse
una sua vitalità per tutto il medioevo quale lingua scritta in tutta
l’Europa (la prima attestazione scritta di un volgare romanzo
risale all’842, data di stesura dei Giuramenti di Strasburgo, che
sancivano la spartizione dell’impero fra i nipoti di Carlo
Magno, Carlo il Calvo e Ludovico il Germanico).
Dopo un periodo di instabilità della lingua (VII - VIII secolo
d.C.), Carlo Magno promosse un rinnovamento dell’istruzione e un ritorno allo studio della
grammatica latina, convocando a corte l’inglese Alcuino. Fu ideato il carattere di scrittura
carolingio, derivante dalla scrittura onciale. Si parlerà per questo di Rinascenza carolingia.
Vediamo quali furono le caratteristiche del latino in questo periodo. Le vocali persero
definitivamente la distinzione in base alla quantità; fu ampliato l’uso delle preposizioni; l’ordine
delle parole nella frase divenne meno libero; la sintassi si semplificò ulteriormente, con apporti
dalle lingue romanze (ad esempio la proposizione relativa introdotta da quod) e il lessico fu
continuamente ampliato. Nella grafia i dittonghi si semplificano (ae e oe passano a e), si usano le y
a sproposito (sylva, phylosophia) e ch al posto di h (michi = mihi, nichil = nihil, da cui
“annichilire”). La grafia classica sarà restaurata soltanto con l’Umanesimo. Fra i più significativi
scrittori di questo periodo, Alcuino, Pietro Abelardo, Hrosvita, Dante Alighieri, Francesco Petrarca,
Giovanni Boccaccio.
Latino rinascimentale

Erasmo da Rotterdam (1466-1536)


Dopo un periodo di decadenza caratterizzato dall’oscurantismo
religioso e dalla soluzione di continuità con la tradizione classica,
fatta poi propria dal nascente Islam che è così servito all’Europa da
tramite per il suo recupero, ecco emergere una nuova sensibilità
tendente a valorizzare maggiormente i valori dell’uomo rispetto al
predominio dell’elemento divino: sarà proprio questa mutata
impostazione che darà luogo ad una clamorosa riscoperta dei classici
latini e greci e passerà sotto il nome di Umanesimo (in latino
“humanae litterae”). Petrarca diede l’impulso alla diffusione di questo
recupero della classicità anche in seguito all’incontro col calabrese
Leonzio Pilato, di madrelingua greca (non dimentichiamo che il greco
era ed è tuttora lingua parlata in Calabria), che insegnò al poeta i rudimenti di quella lingua
permettendo così ai dotti d’Europa per la prima volta dopo secoli l’accesso diretto ai testi degli
autori greci. Nel secolo successivo l’opera di maestri quali Lorenzo Valla, Poggio Bracciolini, Enea
Silvio Piccolomini (Papa Pio II), Leonardo Bruni, Guarino Veronese, Vittorino da Feltre, Erasmo da
Rotterdam, Giovanni Pontano non fa che consolidare questa tendenza, che si inserisce a pieno titolo
nel quadro più ampio della civiltà del Rinascimento europeo.
Latino lingua internazionale

Benedetto Spinoza (1632–1677)


Le lingue romanze sono dei veri e propri reperti archeologici viventi che stanno lì a testimoniare
dell’ampia diffusione e del profondo radicamento raggiunto dal latino in epoca repubblicana. Il
latino è sopravvissuto egregiamente alla fine della barbarie e alla fine del medioevo, ricevendo
nuova linfa nell’età del Rinascimento, per giungere in ottima salute fino al XVII secolo, quando
fungeva ancora da lingua di cultura, degli scambi e delle relazioni internazionali. Tale ruolo è
andato via via tanto più scemando, quanto più progrediva l’affermazione dei grandi stati nazionali
europei che portarono ad un’accresciuta valorizzazione della cultura e della lingua nazionale.
Oggigiorno, tramontata definitivamente tale epoca con la fine della 2^ guerra mondiale, l’istituzione
dell’ONU e delle Comunità europee, nonché con l’ingresso nell’epoca di internet e della
globalizzazione, ecco venire meno i presupposti che portarono all’accantonamento del latino.
Latino dunque nuova lingua comune europea per il XXI secolo? Questa domanda farà arricciare il
naso a molti, soprattutto a coloro che a scuola hanno imparato ad odiarlo grazie a metodi
d’insegnamento decisamente sorpassati e perciò assai poco entusiasmanti. Le obiezioni opposte dai
nemici del latino sono essenzialmente due: a) il latino è una lingua troppo difficile; b) il latino è una
lingua morta. Vediamo di confutarle punto per punto.
a) A chi obietta che il latino abbia una struttura morfologico-sintattica complicata, rispondo che
ritengo profondamente sbagliato impostare il problema in termini esclusivamente di praticità,
quando sappiamo benissimo che in tutte le questioni della lingua che si rispettino la scelta
dell’impiego di un idioma piuttosto che di un altro si effettua essenzialmente in base a criteri
culturali (pensiamo soltanto alla rinascita dell’ebraico: perché mai gli ebrei sarebbero stati tanto
balordi da prodigare sforzi immani in vista di riportare in vita una lingua “morta” duemila anni
prima?). Dire che la scelta debba vertere sulla lingua di minore complessità morfologico-sintattica è
semplicemente un’assurdità. Facili o difficili che siano, stiamo pur sempre parlando di linguaggi
umani, non di linguaggi extraterrestri: faremmo quindi una grave offesa all’intelligenza umana
affermando che le uniche lingue degne di essere imparate siano quelle dalla struttura più semplice.
Personalmente ritengo che un linguaggio maggiormente complesso sia sinonimo di superiorità
culturale e che addirittura favorisca lo sviluppo dell’intelligenza di chi ne fa uso. Con questo non
voglio dire che la lingua d’Europa debba essere necessariamente quella di maggior complessità, sto
solo manifestando parere contrario ad una scelta che favorisca esclusivamente le lingue dalla
struttura semplice. Ribadisco ancora una volta che a mio avviso la scelta va compiuta in base a
criteri culturali: l’Europa possiede già una lingua di cultura, e questa è il latino; non la parla quasi
nessuno, eppure già la possiede, in virtù della sua tradizione scritta ininterrotta, dall’antichità ad
oggi (non si è mai smesso di scrivere in latino: altro che lingua morta! morto sarà semmai
l’etrusco...); questo è già un buon punto di partenza (del resto, al momento dell’unità d’Italia, il
78% della popolazione della nostra penisola non conosceva litaliano...). Il latino una lingua
impossibile da parlare? Chi ha partecipato ad uno dei numerosi campi estivi dedicati alla pratica
full-immersion di questa lingua vi potrà testimoniare il contrario. Vari sono al giorno d’oggi in
Europa i tentativi di recupero del latino a fini pratici, anche a livello ufficiale: 1) La Presidenza
Finlandese dell’Unione Europea ha divulgato la propria agenda anche in latino; 2) alcune emittenti
radiofoniche, come l’emittente finlandese di Stato (YLE) e la tedesca Radio Brema, trasmettono
una volta alla settimana un notiziario in lingua latina: avete capito i nordeuropei? Mentre in Italia,
culla della latinità, si dorme... Non mi sembra che in questo caso si possa parlare di patriottismo
esagerato o di volontà di richiamarsi alle proprie radici culturali, come qualcuno potrebbe pensare,
memore dei tristi fasti del fascismo, che si richiamava ampollosamente alla romanità. Sfido
chiunque a trovare una lingua più paneuropea del latino!
b) A chi storce il naso di fronte all’eventualità del recupero di una lingua dell’antichità, non solo
nell’errata convinzione che la morte di una lingua sia equiparabile alla morte di un organismo
vivente, ma anche in considerazione dell’impossibilità di ricostruirne l’esatta pronuncia, obietto che
seguendo tale ragionamento avremmo dovuto lasciare nella tomba anche l’ebraico, lingua tornata
alla sua naturale funzione veicolare nella Palestina di fine XIX secolo, privando l’umanità di fior di
scrittori quali Amos Oz, Avraham Yehoshua, David Grossmann, Josef Agnon (premio Nobel) e
quant’altri... Tale lingua è risorta, incurante del fatto che l’alef e l’‘ayin non sono riusciti a
conservare una pronuncia distinta come ai bei vecchi tempi (tranne che per gli ebrei provenienti dai
paesi arabi), così come il tav e il tet, il sin e il sade, etc... Non dimentichiamo poi l’esempio
dell’India, dove il sanscrito è una delle 18 lingue riconosciute dalla Costituzione della federazione,
anche se de facto è l’inglese a fungere da lingua franca del subcontinente. Ricordo a tal proposito
(fonte: Central Institute of Indian Languages) che nel censimento del 1991 49.736 indiani hanno
dichiarato propria lingua madre il sanscrito. La popolazione nel frattempo è cresciuta
vertiginosamente, di conseguenza lo saranno in proporzione anche i sanscritofoni...
Sono d’accordo che nell’immediato la lingua più realisticamente utilizzabile quale veicolo di
comunicazione internazionale (ma si badi bene, non solo degli Europei, ma di tutti gli esseri umani)
sia l’inglese; altra invece è la questione se UNA lingua debba essere scelta quale lingua
UFFICIALE (al momento le lingue ufficiali sono 11, e inevitabilmente aumenteranno con l'ingresso
dei paesi dell’Est che già bussano alla porta...) dell’Unione Europea, e quale questa debba essere.
Qui esuliamo dall'argomento del mero utilizzo di un idioma a fini pratici (ripeto: d’accordissimo
sull’inglese, e aggiungerei lo spagnolo), ed entriamo in una dimensione più vasta, che ha a che fare
con le radici comuni della cultura europea. In questo senso allora il latino è anche la lingua in cui
scrivevano e si esprimevano i vari Erasmo da Rotterdam, Lorenzo Valla, Guarino Veronese,
Coluccio Salutati, Poggio Bracciolini, Leonardo Bruni, Marc-Antoine Muret, Guillaume Budé,
Renato Cartesio, Benedetto Spinoza, etc... Visto che ho accennato ai paesi dell’Est, ricordo che fino
alla metà del XIX secolo la lingua ufficiale del Parlamento ungherese era il latino. È un dato di fatto
che l’unica lingua di cultura comune a tutta l’Europa sia il latino. Non si può dire che lo sia
l’inglese, dato che, ad esempio, nessuno scrittore si è mai espresso in questa lingua al di fuori dei
paesi anglosassoni e relative ex colonie (India in primis – ancora l’India! –, che produce una
letteratura in questa lingua di primissima qualità)... Né che lo sia il greco, che dalla fine dell’età
imperiale non è mai stata lingua impiegata attivamente al di fuori della Grecia e dell’oriente
ellenistico. Per voler essere realistici, i nazionalismi in Europa sono ancora troppo forti (in fondo la
II Guerra mondiale è terminata poco più di mezzo secolo fa...) perché si possa pensare alla scelta
della lingua (ripeto, parliamo di UNA lingua UFFICIALE, non di un linguaggio di comunicazione
universalmente riconosciuto) di UN SOLO paese, con esclusione di quelle dei restanti paesi; la
lingua latina, proprio perché essa oggi non è propria di nessuno Stato, ha caratteri di internazionalità
e di europeità estranei a qualsiasi altra lingua legata ai rispettivi popoli che la usano
quotidianamente.

SANSCRITO

Ramayana, Balakhanda, Canto 5, Sloka 5-7


Gli Arii sono un antichissimo popolo indoeuropeo che a un certo punto della sua storia si scisse in
due rami, uno dei quali penetrò in Iran (Ērān < Airyānām = degli Arii), mentre l’altro occupò la
penisola indiana, istituendovi il sistema delle caste. La lingua di questi ultimi fu denominata
sanscrita molti secoli dopo: il termine samskrta corrisponde esattamente al latino confectus,
“elaborato” (sam = cum e krta, p.p. di kartum = factus), e indica la lingua indiana di cultura, distinta
dalle parlate naturali denominate pracriti (prākrta significa appunto “naturale”). Essa è la lingua
indoeuropea più conservativa, anche se non la più anticamente attestata, in quanto inizialmente
tramandata esclusivamente a memoria, ed è stata immortalata grazie ai Veda, i testi sacri della
religione indù, composti fra il 1500 e il 1200 a.C. La lingua di questo periodo assume la
denominazione di sanscrito vedico, mentre dopo la sua codificazione operata dal grammatico
Pānini, vissuto fra il VI e il IV sec. a.C., assume la denominazione di sanscrito classico. Essa da
allora è stata scritta e parlata dai letterati indù fino ai giorni nostri: è addirittura una delle 18 lingue
riconosciute dalla costituzione indiana (nel corso del censimento del 1991, 49.736 indiani hanno
dichiarato propria lingua madre il sanscrito). Si tratta quindi della lingua dalla storia più lunga, più
lunga addirittura del cinese, che comunque nel corso della sua storia ha subito notevoli mutazioni
fonetiche che non ci sono note a causa della natura ideografica del suo sistema di scrittura. Essa è
rimasta completamente sconosciuta agli europei, che pure parlano lingue ad essa strettamente
imparentate, fino alla sua scoperta da parte dell’orientalista inglese Sir William Jones (1748-1794),
che confortato dalle sue nuove conoscenze acquisite sul campo ha coniato il termine “indo-
europeo”. Esempi della somiglianza fra sanscrito e lingue europee sono: sans. mātā, lat. mater, gr.
ματήρ, ingl. mother; sans. pitā, lat. pater, gr. πατήρ, ingl. father; sans. duhitā, gr. θυγατήρ, ingl.
daughter; sans. dantah, lat. dens (√dent-), gr. οδούς (√οδοντ-), ingl. tooth; lat. pes, gr. πους, sans.
pādah, ingl. foot; etc. Il sanscrito si scrive abitualmente con i caratteri devanāgari, derivati
dall’antica scrittura brahmi, usata per la compilazione degli editti di Aśoka,l’imperatore maurya
artefice della propagazione del Buddhismo nell’India e nell’Asia centrale.

Il sanscrito lingua internazionale


Il sanscrito è stato per secoli una grande lingua di cultura non solo dell’India, ma di tutta l’Asia
centrale di religione e cultura buddhista, attualmente islamizzata (numerose opere del buddhismo
sono composte in sanscrito, fra cui ricordiamo il Saddharmapundarīkasūtra, o Sutra del loto, e il
Prajñaparamitahrdayasūtra, o Sutra del cuore). Esso vanta una produzione letteraria fra le più
rilevanti del mondo, sia per qualità che per quantità, non solo in India, ma anche nei paesi e nelle
comunità indù e buddhiste; purtuttavia la sua sacralità è percepita solo dagli induisti, non essendo il
buddhismo una religione rivelata. I territori di diffusione dell’induismo e della sua lingua sacra
sono: India, Nepal, Bhutan, Fiji, Guyana, Indonesia (isola di Bali), Mauritius, Singapore, Sri Lanka,
Suriname e Trinidad e Tobago.

Il sanscrito oggi
Oggi il sanscrito può definirsi una lingua veicolare di cultura, impiegata prevalentemente dai
pandit, dotti di religione indù; da qualche anno a questa parte l’organizzazione Samskrita Bharati
sta tentando un esperimento che ricorda in scala più ridotta quello realizzato dai Sionisti in Israele:
la diffusione del sanscrito nella vita di tutti i giorni degli abitanti del villaggio di Mattur, nel
Karnataka, Stato indiano del sud (quindi appartenente all’area lingustica dravidica, non indo-aria).
Visto il successo dell’iniziativa, pare che l’esperimento sarà ripetuto in altri villaggi.

Esempi di Uso di Lingue antiche

Pater - Testo Ebraico

Pater - Testo Aramaico


Pater - Testo Aramaico Traslitterazione / Traduzione torna su

Legenda dei simboli usati per la trascrizione

` - non si pronuncia (glottal stop), come lo spirito dolce del greco


´ - indica un suono profondamente gutturale e sonoro
w - w come nell'inglese well
ŝ - suono sh come l'inglese shop o l'italiano sciare
s - s come nell'italiano sole
ç - s "enfatica" tz o più o meno come la zz dell'italiano pazzo
h - h come nell'inglese hand
h - suono molto aspirato come ch nel tedesco nasch
j - i come nell'inglese yes
΄ - sta ad indicare un relitto vocalico simile al simbolo fonetico a utilizzato per l'inglese
b`- indica la b spirante, come nel sardo soßl sole
k`- indica la k spirante come nel toscano la Xasa

Gli altri segni valgono come in italiano

Pater - Testo Greco (Mt 6, 5-15) Traslitterazione / Traduzione torna su


KURIAKE PROSEUKE
Pàter hemòn ho en tòis uranòis:
Haghiasthéto tò onomà su;
elthàto he basilèia su;
ghenethéto tò thelemà su,
hos en uranò kài epì ghés.
Tòn àrton hemòn tòn epiùsion dòs hemìn
sémeron;
kài àfes hemìn tà ofeilémata hemòn,
hos kài hemèis afékamen tòis ofeilètais hemòn;
kài mé eisenènkes hemàs eis peirasmòn,
allà rüsai hemàs apò tu ponerù. Amén.

PREGHIERA DEL SIGNORE


Padre nostro che sei nei cieli:
sia santificato il tuo nome;
venga il tuo regno
sia fatta la tua volontà,
come in cielo così in terra.
Il pane nostro quello supersostanziale dacci oggi;
e rimetti a noi i nostri debiti
come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori
e non ci indurre in tentazione,
ma liberaci dal male. Amen

Pater - Testo Latino (Vulgata) Traduzione torna su


Padre nostro, che sei nei cieli
9-b Pater noster, qui es in caelis,
sia santificato il tuo nome.
9-c sanctificetur nomen tuum.
Venga il tuo regno.
10-a Adveniat regnum tuum.
Sia fatta la tua volontà
10-b Fiat voluntas tua,
come in cielo così in terra.
10-c sicut in caelo, et in terra.
Dacci oggi il nostro pane soprasostanziale.
11 Panem nostrum supersubstantialem da nobis
hodie.
E rimetti a noi i nostri debiti,
12-a Et dimitte nobis debita nostra,
come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori.
12-b sicut et nos dimittimus debitoribus nostris.
E non ci indurre in tentazione;
13-a Et ne nos inducas in tentationem;
ma liberaci dal male
13-b Sed libera nos a malo.

aramaico pater noster.mp3

OGGETTI LEGGENDARI:
L’Arca dell’Alleanza

Il Santo Graal
Sulle tracce del Sacro Graal
Il Graal: esiste ancora?
I Cavalieri del Graal
Elementi celtici del graal?
Cenni alla simbologia femminile del Graal
La simbologia del cuore e la leggenda del Graal
Il graal e il Codice Da Vinci

La Spada e la Coppa

La Lancia di Longino

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L'arca dell'Alleanza

La terribile arma di Mosè. Un propiziatorio per parlare con Dio. L'arca nascosta in Etiopia. Tre
italiani la trovano ad Axum. Ricomparirà nel giorno del giudizio.
La scena si svolge su un monte sacro dell'antico Egitto, nella penisola del Sinai, lungo un sentiero il
cui passaggio è proibito alla gente comune. Inginocchiato davanti ad un roveto ardente, il profeta
Mosè sta ascoltando gli ordini del Dio di Israele. "Farai un'arca di legno d'acacia e la rivestirai di
oro puro. E dentro vi porrai la Testimonianza che io ti darò", comanda il Signore Jahweh.
E Mosè obbedisce. Aiutato dal fido Bezaleel, e seguendo alla lettera le indicazioni del suo Dio, il
patriarca ebraico costruisce una cassa di 125 centimetri di lunghezza per 75 di altezza e larghezza e
la riveste di oro purissimo, sia internamente che esternamente. Quindi la copre con un coperchio
dorato, chiamato propiziatorio. Sopra di esso colloca poi due piccole statuine, raffiguranti dei
cherubini. E ai lati della cassa incastra quattro anelli in modo che questa possa essere trasportata più
agevolmente, senza toccarla, inserendovi due pali.
All'interno dell'arca della testimonianza, l'oggetto più sacro della tradizione religiosa ebraica, il
profeta depone un po' della manna raccolta durante la traversata del deserto, la magica verga con cui
erano state scatenate le piaghe contro l'Egitto e separate le acque del Mar Rosso, ma soprattutto le
Tavole dei Dieci Comandamenti, il segno tangibile dell’alleanza con Dio.
UNA TERRIBILE ARMA DA GUERRA
Proseguendo nella lettura del libro biblico dell’Esodo, scopriamo poi che, da quel momento, Mosè
impone al suo popolo, per la custodia del sacro oggetto, tutta una serie di disposizioni tanto precise
ed insidacabili quanto incomprensibili. Dell’arca si occuperanno i figli di Aronne ed i leviti non vi
si potranno avvicinare se non dopo che questa sia stata coperta dai sacerdoti; durante l’esodo la
cassa sarà collocata all'interno della Tenda del Signore (una specie di tempio smontabile) nelle soste
e portata alla testa del popolo durante le marce; nessuno dovrà mai toccarla. E soprattutto, in
particolari momenti spetterà solo a Mosè servirsene per lasciarvi comparire Dio in trono nello
spazio fra i due cherubini.
Le disposizioni di Mosè vennero seguite alla lettera sino alla scomparsa dell’arca, avvenuta
probabilmente nel 587 a.C. In quell’anno, infatti, le armate babilonesi sconfissero gli ebrei e li
depredarono di ogni bene. Prima di quella data, una volta raggiunta la Terra Promessa, i leviti
collocarono l’arca nel sancta sanctorum, una segretissima cella sotterranea di venti cubiti per venti
nel Tempio di Gerusalemme.
A nessuno era concesso di accedervi e l’arca stessa veniva mostrata in pubblico solo in casi
eccezionali.
Ed il motivo di tanta segretezza era legato alla pericolosa ed incontrollabile potenza attribuito a
questo oggetto.
Si diceva che l’arca, in particolari momenti, si aureolasse di luce e fosse in grado di scatenare la
potenza divina, annientando migliaia di persone. In che modo questo avvenisse non è chiaro. Ma è
certo, se prestiamo fede alle antiche cronache bibliche, che con l’arca alla loro testa gli ebrei
riuscirono ad annientare le decine di tribù ostili incontrate durante l’esodo nel deserto del Sinai. Il
resoconto biblico al riguardo ci presenta un vero e proprio bollettino di guerra: le folgori dell’arca
avrebbero distrutto le armate degli etei e dei gergesei, dei gebusei e degli evei e di un’altra decina di
popolazioni che vivevano nella fascia di Canaan nel XIIIº a.C.
Che cosa fossero queste folgori divine non è chiaro. In alcuni passi la Bibbia sottintende la presenza
di un non meglio identificato angelo sterminatore, mentre in vari versetti dell’Esodo e nel Secondo
libro di Samuele si dice chiaramente che chiunque toccava l’arca moriva percosso da Dio. Come
accadde ai figli di Aronne, sebbene fossero proprio loro gli esperti custodi della reliquia, e ad un
certo Oza che, volendo impedire che l’arca si rovesciasse durante un trasporto, la afferrò con le
mani e morì all’istante, tra la costernazione generale.
Ma la più grande vittoria dell’arca resta la distruzione della città di Gerico. Riguardo questo
episodio il Libro di Giosuè è molto chiaro. Per ordine di Dio per sei giorni le armate di Israele,
guidate da sette sacerdoti che recavano sette trombe di corno d'ariete e l’arca dell’alleanza, girarono
attorno ai bastioni ciclopici. "E al settimo giorno, sonate le trombe, le mura crollarono", afferma la
Bibbia.
UNA PILA DI LEYDA?
Ammettendo la veridicità di questi episodi, che tipo di spiegazione possiamo dare, al di là della
facile supposizione dell’intervento di Dio?
Secondo lo scrittore francese Robert Charroux "l’arca non era nulla di più che un’impressionante
arma capace di sviluppare energia elettrica. Non dobbiamo dimenticare che Mosè, quando ancora
veniva istruito come futuro faraone, aveva ricevuto dai sacerdoti egizi profonde nozioni alchemico-
esoteriche di chimica, fisica e meteorologia tali da dare ragione di alcuni dei prodigi attribuitigli.
L’arca dell’alleanza poteva essere una specie di forziere elettrico capace di produrre forti scariche
dell'ordine dei 5-700 volt..."
"L’arca era fatta di legno d'acacia - scrive il ricercatore - e rivestita di oro all'interno e all'esterno.
Con questo stesso principio si costruiscono i condensatori elettrici, separati da un isolante che in
quel caso era il legno. L’arca veniva posta in una zona secca, dove il campo magnetico naturale
raggiunge normalmente i 600 volt per metro verticale, e si caricava. La sua stessa ghirlanda forse
serviva a caricare il condensatore. Per spostarla i leviti passavano due stanghe dorate negli anelli,
tanto che dalla ghirlanda al suolo la conduzione avveniva per presa di terra naturale, scaricandosi
senza pericolo. Isolata, l'arca talvolta si aureolava di raggi di fuoco, di lampeggi, e, se toccata, dava
scosse terribili. In pratica si comportava esattamente come una pila di Leyda...".
CERCANDO LA RADIO DI DIO
Secondo Charroux, dunque, l’arca altro non era che un’arma elettrica costruita sulla scorta di
antiche conoscenze perdute e custodite solo dagli Iniziati egizi. Sempre grazie a queste conoscenze,
che per il divulgatore svizzero Erich Von Daeniken erano invece di origine extraterrestre, Mosè
avrebbe costruito un propiziatorio che funzionava come una radio a transistor. Solo in questo modo
si spiegherebbe, per lo scrittore, il fatto che Mosè potesse parlare come ad un amico con il Signore
Iddio.
Queste incredibili prestazioni potrebbero allora spiegare il manifesto interesse delle altre
popolazioni verso l’arca santa.
Il tempio di Gerusalemme, ove veniva custodita la sacra reliquia, venne saccheggiato ripetutamente:
nel 925 a.C. dagli egiziani del faraone Soshenq Iº, nel 797 da Gioas re d'Israele, nel 621 dalle
armate caldee e babilonesi.
Quando l’oggetto scomparve non è sicuro. Certamente quando nel 516 a.C. il prefetto Zorobabel
ricostruì il Tempio di Gerusalemme, l’arca non c’era più.
O almeno, non in maniera evidente, secondo il rabbino israeliano Shlomo Goren, convinto che
l'arca si trovi attualmente ancora nel sancta sanctorum, sfuggito alle razzie degli invasori.
"Basterebbe scavare in corrispondenza della sua antica collocazione. - dichiara Goren -Purtroppo
però adesso in quella zona sorge la spianata delle moschee islamiche di Gerusalemme e le autorità
religiose preferiscono evitare qualsiasi scavo archeologico per evitare attriti con i musulmani..."
TRA I FALASCIA’ DI RE SALOMONE
Secondo un’altra versione, raccontata nella cronaca etiope trecentesca Kebra Nagast o Gloria dei
re, l’arca dell’alleanza si troverebbe ad Axum, in Etiopia. A portarcela sarebbe stato un certo
Menelik, che la tradizione vuole nato dal matrimonio di re Salomone con Makeda, la regina di
Saba. Il figlio della giovane ed avvenente etiope, d’accordo con un pugno di ebrei ribelli, avrebbe
rubato l’arca trasportandola segretamente ad Axum. E grazie ai poteri della stessa, i falascià di
Menelik, cioè gli ebrei etiopi, avrebbero sollevato senza sforzo le centinaia di tonnellate dei
giganteschi obelischi eretti ad Axum.
Questa vicenda ha affascinato le decine di ricercatori che si sono messi sulle tracce dell’arca,
dall’archeologo ebreo Vendil Indiana Jones, ispiratore dell’omonimo personaggio televisivo,
allo studioso inglese Graham Hancock, un esperto di storia templare convinto che il sacro cofano
sia custodito in una cappella nel lago Tana in Etiopia.
Sfortunatamente, ognuna delle circa ventimila chiese copte dell’Etiopia custodisce una copia
dell’arca. Trovare quella autentica è dunque come cercare un ago in un pagliaio.
TRE ITALIANI
Ma forse tre italiani sono riusciti in questa impresa disperata.
Si tratta dei professori Vincenzo Francaviglia, direttore del CNR per le tecnologie applicate ai Beni
culturali, Giuseppe Infranca dell’Università di Reggio Calabria e dell'architetto Paolo Alberto Rossi
del Politecnico di Milano.
"Nel 1990 ci trovavamo ad Axum per un invito ufficiale del governo etiopico - ha raccontato il
professor Francaviglia alla stampa - e, dopo una serie di cerimonie, venne organizzato un incontro
con l'abuna, la massima autorità religiosa. Questi ci ricevette con i paramenti solenni e ci condusse
a visitare la vecchia chiesa cristiana S.Maria di Sion ad Axum, una chiesa costruita nel Seicento
dall'imperatore Fasiladas...Dietro l'altare maggiore, protetta da un baldacchino di velluto rosso con
ricami, c’era l'arca. L'abuna non voleva affatto mostrarcela. Ma un giovane chierico aprì la tenda e
noi potemmo vedere una cassa di legno scuro, lunga un metro e alta sessanta centimetri, con il tetto
a doppio spiovente. Non c’erano più le lamine d'oro e la superficie stessa appariva deteriorata.
Appena l'abuna si accorse che stavano osservando l’arca, rimproverò aspramente il chierico,
ordinandogli di abbassare immediatamente la tenda..."
Secondo la religione copta, difatti, non è concesso a nessuno di vedere l’arca. Si dice che persino al
negus Hailè Selassiè, che ne aveva espresso il desiderio, venne opposto un secco rifiuto. E si dice
che l’accesso alla stanza dell’arca sia consentito ad un solo abuna per generazione...
MESSAGGERA DELLA FINE DEI TEMPI
Curiosamente tutti queste narrazioni sembrano dimenticare quanto scrive la Bibbia nel Secondo
libro dei Maccabei, allorché viene raccontato dettagliatamente di come il profeta Geremia, salito sul
monte Nebo, abbia deciso di nascondere l'arca "in un antro" poi murato, probabilmente per sottrarre
il prezioso reperto alla furia delle armate del sovrano babilonese Nabucodonosor, che cingevano
d'assedio Gerusalemme nel 587 a.C. Lo stesso Geremia, forse pentitosi della sua decisione, non
sarebbe stato poi più in grado di ritrovare il punto esatto ove l’arca era stata occultata.
La storia della sacra reliquia, quindi, nasce e muore all’interno della Bibbia stessa, senza alcun
appello per le tesi appassionate dei cacciatori dell’arca perduta. Ma non è il caso di perdere le
speranze. Sempre nel testo biblico, nell’Apocalisse, è scritto che l’arca riapparirà nei giorni del
giudizio universale. In quel tempo "si riaprirà il tempio Dio in cielo e l’arca dell’alleanza apparirà
fra le nubi". Ma forse, per l’epoca, la caccia all’arca perderà d’importanza...
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Il Santo Graal

SANTO GRAAL REALTA' O MISTERO?


Che credere a riguardo di questo famoso oggetto? Spesso raffigurato come una magnifica coppa
d’oro incastonata di pietre preziose, sarebbe forse più verosimile immaginarselo come una
semplicissima coppa di legno, proprio come l’abbiamo "vista" nell’ultimo mitico film della serie di
"Indiana Jones"...
I templari, nelle loro lunghe ed estenuanti crociate, avranno immaginato la coppa di Gesù Christo
come qualcosa di irraggiungibile, perciò fin dall’inizio si sono create molte fantasticherie intorno ad
essa.
Che cosa sappiamo di reale? Nel Nuovo Testamento ci raggiungono le parole di Gesù in modo
abbastanza contorto. E’ vero che Gesù fece bere i suoi amati amici e fratelli, gli Apostoli, dalla sua
coppa – ma egli non disse che con questo gesto essi avrebbero bevuto "il suo sangue" per essere
così salvati in eterno (fonte di questa notizia, l’opera "Verso la Luce – un messaggio all’umanità dal
mondo ultraterreno") – piuttosto egli voleva salutare in quel modo i suoi più fedeli amici. Anche la
storia di Giuseppe d’Arimatea che sotto la croce avrebbe raccolto il sangue di Gesù nella stessa
coppa, è mito – pura invenzione come i tanti altri "ricami" che sono stati aggiunti ai testi sacri del
Cristianesimo. In effetti fu Paolo di Tarso, con la sua invenzione della dottrina dell’espiazione (che
gli apostoli di Gesù non compresero né accettarono) ad inventare il valore di salvezza del "sangue"
e della "carne" di Gesù. Ma questo accadde più tardi, quando il corpo di Gesù – e probabilmente
anche la sua coppa – era scomparso già da molto tempo.
Ma perché allora è diventato così importante e misterioso, questo Graal? Può anche darsi che la
coppa di Gesù esiste ancora, da qualche parte sconosciuta. In realtà nel tempo esso è diventato un
simbolo, magico nel suo significato di "salvezza" soprannaturale: basta bere dal Graal, e sei salvato
per sempre! I tuoi peccati non esistono più, non ne dovrai fare i conti. Oppure, come vediamo più
tardi, diventi addirittura immortale – magari altre magie sono collegate a questa coppa. E’ un
simbolo – e di simboli ne abbiamo bisogno, questo ce lo confermano sia gli psicologi che gli
antropologi. I simboli sono importanti per la semplice ragione che viviamo nel mondo terreno,
almeno attualmente... Così, gli elementi terreni, per primi, diventano simboli: la stessa terra,
l’acqua, il fuoco, l’aria. Fateci caso – quanto spesso non sognate di volare (aria), nuotare o annegare
(acqua) – oppure di vedere un calmo mare di un azzurro intenso – o una casa incendiata (fuoco) ,
con i diversi svolgimenti che questo comporta, o infine anche di scavare nella terra, alla ricerca di
chissà che cosa di perduto... Ma qui ci avviciniamo alla interpretazione dei sogni, altro argomento
interessante e misterioso, che richiederebbe una propria sezione a parte!
Ritornando al Graal – in fondo non è che un oggetto, anche se simbolico. Tali oggetti vengono
anche chiamati "feticci", soprattutto quando abbiamo a che fare con le culture primitive. Se ci
guardiamo attorno, vediamo tanti di questi feticci in giro: il famoso corno di plastica rossa appesa in
macchina qui in Italia; la "mano di Fatima" ugualmente appesa a mo’ di decorazione nelle auto
egiziane, ecc.
I più famosi oggetti simbolo del Cattolicesimo, carichi di significati religiosi, sono indubbiamente il
Sacro Sindone, i molti reliqui dei Santi (tra cui anche alcuni pezzi di legno della croce di Gesù che
si trovano custoditi in Vaticano e che il Papa spesso si fa portare per meditarci sopra) – e i famosi
mezzoguanti di Padre Pio, nonché pezzi delle bende che egli usava per fasciarsi le sue ferite
sanguinanti. Le stigmate? Altro mistero ancora...
Sommando il tutto, possiamo evincere che di oggetti e di simboli abbiamo sicuramente bisogno, se
non altro per sognare e per concentrarci sui valori più importanti, indicati dall’oggetto, ma non
contenuti in esso. Sarebbe interessante vedere come era realmente, il Santo Graal – ma anche se
venisse trovato, quale garanzia avremmo che fosse effettivamente quella coppa?
Sulle tracce del sacro Graal

Prima di iniziare a parlare del Graal, bisogna dire che se si ammette l’esistenza dello stesso, si
ammette anche l’esistenza di Gesù, di Dio, dell’arca dell’Alleanza e di tutto ciò che si collega alla
religione Cristiana.
Il termine Graal deriva dal latino gradalis, che significa una tazza, un vaso,un calice, un catino.
Questi oggetti rivestono nelle mitologia un ruolo molto importante, sono infatti i simboli del
grembo fecondo della madre terra, la cornucopia dei Greci e dei Romani, o la copaa della vita dei
Celti. Potrebbe essere quindi che il sacro Graal fosse una revisione cristiana della cornucopia dei
Greci e dei Romani? Questo nessuno può dirlo, ma si sa che il Graal è collegato sia a tradizioni
ebraiche, sia a quelle islamiche.
Attorno al 1200 uno scrittore tedesco ci informa che il Graal non è un calice, bensì una pietra
chiamata "Lapis exillis", tradotta come "lapis ex coelis" ovvero: pietra caduta dal cielo. Questo si
può ricollegare alla pietra nera di La mecca, o al lapis niger adorato dai Romani; ovvero un
meteorite.
Ma la storia che rende famoso il Graal è questa, scritta da Robert de Boron intorno al 1202:
Dopo che Giuseppe D’Arimatea ebbe raccolto il sangue di Cristo nel calice arrivò in Inghilterra
(dove piantò un bastone da cui nacque un albero; ora quell’albero esiste ancora ed appartiene ad un
genere che cresce solo in medio-oriente), dove consegnò il calice al "Re pescatore".
Dopo qualche secolo nessuno seppe più dove trovare il "re pescatore" e quindi il Graal era disperso.
Sull’Inghilterra si abbattè una maledizione chiamata "Wasteland" (terra desolata).
Per annullare il "Wasteland", spiegò Merlino ad Artù, era necessario ritrovare il Graal. In quel
periodo, un cavaliere di nome Parsifal occupò lo "scranno periglioso" , una sedia della tavola
rotonda, rimasta vuota, su cui poteva sedersi solo il cavaliere più virtuoso del mondo, predestinato a
ritrovare il Graal. Dopo varie peripezie "perigliose" (il cimitero periglioso, il ponte periglioso, la
foresta perigliosa, ecc.), Parsifal rintracciò il castello di "Corbenic" , dov’era custodito il Graal, e
giunse al cospetto della sacra coppa.
Non ponendo le domande: di origine evangelica, il Graal scomparedi nuovo.
Dopo alcuni anni di meditazione, ritrovò il Graal e ponendo le domande, ricevette come risposta:.
Qui finisce la storia del Graal, la maledizione e la vita di Merlino e di Artù.
Ma tornando al discorso di prima, in cui affermavo che la leggenda ha chiare origini orientali, c’è
da dire che il fattore che porta alla ribalta il Graal nel medioevo, sono le crociate.
Infatti i crociati vennero in contatto con le popolazioni del medio-oriente che narravano la storia di
un oggetto dotato di poteri straordinari. Grazie a loro, la leggenda arrivò in Europa. Tuttora, c’è chi
sostiene che furono proprio i crociati a riportare il Graal nel vecchio continente. Se le cose stanno
veramente così, ecco i luoghi più probabili per l’ubicazione del calice:
-Il castello di Gisors:
I Templari avevano stretto dei rapporti con la setta degli Ashashin, che adoravano un idolo di nome
Bafomet. Se Bafomet fosse il Graal, gli Ashashin lo diedero ai Templari, che lo nascosero insieme al
loro tesoro nel castello di Gisors in Francia.
-Il castel del Monte:
I cavalieri Teutonici, fondati nel 1190, ebbero dei legami con i mistici Sufi, una setta islamica che
adorava il dio delle tre religioni. Questi, che custodivano il Graal, lo diedero a Federico II, che era a
sua volta un "sufo", ed egli lo nascose nel Castel del Monte, edificato per lo scopo.
-Il castello di Takht-I-Sulaiman:
Artù è stato anche ritenuto un membro dello Zoroastrismo, ovvero la dottrina fondata da Zoroastro.
Questi adoravano il fuoco sacro, fonte della conoscenza (il Graal?) e il castello in cui si trovava il
fuoco era sorprendentemente uguale a quello in cui si trovava il Graal. Una coicidenza?
-Il castello di Montsegur:
Dopo che il culto di Zoroastro si disperse, alcuni insegnamenti furono ereditati dai Catari
che si erano stabiliti in Francia nel XII sec. Se infatti i Catari portarono il Graal con loro, ora
si troverebbe in una sala segreta del castello di Montsegur insieme al resto del loro tesoro.
-Torino:
Si ritiene che il Graal sia stato portato a Torino dai fedeli o dai Savoia insieme alla Sacra
Sindone. E la simbologia delle statue del tempio della Gran Madre di Dio indica l’ubicazione
del calice.
-Bari:
Dopo un viaggio in terra santa, alcuni fedeli portarono a Bari le spoglie di San Nicola, ed
edificarono una basilica. Ma alcuni ritengono che le spoglie del santo erano solo una
copertura; perché, secondo loro, i fedeli erano dei cavalieri inviati da Papa Gregorio VII, con
lo scopo di recuperare il Graal e sottrarlo dalle mani dei Saraceni, che potevano servirsene contro
l’impero di Bisanzio e contro il Cristianesimo.

Alla ricerca della Famosa Coppa di Gesù

Considerato il fatto che la Sindone di Torino sia sopravvissuta per duemila anni, e che tra gli
scienziati sia quasi unanime l'opinione che si tratti del vero lenzuolo che avvolse Gesù, non
stupirebbe la possibile esistenza di una coppa che è ricercata da secoli e che viene denominata
"Graal".
Ci sono dei documenti che provano la sua esistenza?
Della coppa si parla nei tre Vangeli Sinottici; in Matteo 26, 27-28 si legge: [Gesù] prese la coppa
del vino, fece la preghiera di ringraziamento, la diede ai discepoli e disse: "Bevetene tutti, perchè
questo è il mio sangue, offerto per tutti gli uomini, per il perdono dei peccati."
In seguito, forse Nicodemo o Guseppe d'Arimatea, scrissero un Vangelo che la Chiesa non
riconosce, attribuendogli l'aggettivo di Apocrifo. In questo quinto Vangelo, le cui trascrizioni più
antiche che possediamo risalgono al VI secolo, viene descritta in dettaglio la calata di Gesù dalla
croce, e viene descritto Giuseppe d'Arimatea che raccoglie in una coppa il Sangue del Cristo.
Chi potrebbe aver conservato il Graal?
Le tappe storiche che la reliquia avrebbe seguito sono descritte in un testo medievale dello scrittore
Robert de Boron, intitolato Joseph d'Arimathie. Queste, in breve, le vicende seguite dal Graal:
Quando Gesù risorse, i Giudei accusarono Giuseppe d'Arimatea (proprietario della tomba ove
Cristo fu deposto) di aver rubato il cadavere. Egli fu dunque imprigionato in una torre e privato del
cibo. All'interno della prigione, apparve Gesù in un limbo di luce, affidando a Giuseppe la sua
coppa. Lo istruì ai misteri dell'Eucarestia e, dopo avergli confidato alcuni segreti, svanì. Giuseppe
poté sopravvivere grazie ad una colomba che, ogni giorno, entrava nella cella e depositava un'ostia
all'interno della coppa. Nel 70 d.C. fu rilasciato, grazie all'intervento dell'imperatore romano
Vespasiano, e insieme a sua sorella e al suo cognato Bron, andò in esilio oltre il mare, con un
piccolo gruppo di seguaci. Qui venne costruita una tavola, che venne chiamata Prima Tavola del
Graal: doveva ricordare il cenacolo, e infatti c'erano tredici posti di cui uno era occupato da un
pesce, che rappresentava Gesù, e un altro, che rappresentava il seggio di Giuda, era nominato
"Seggio periglioso". Giuseppe partì per le terre inglesi, dove a Glastonbury fondò la prima chiesa
Cristiana, che dedicò alla Madre di Cristo. Qui il Graal venne custodito e utilizzato come calice
durante la celebrazione della Messa, alla quale partecipava l'intera compagnia.
Alla morte di Giuseppe, la custodia passò a Bron, il quale divenne celebre con il nome di "Ricco
pescatore", per aver saziato l'intera compagnia con un pesce che, posto nel Graal, si era
miracolosamente moltiplicato. La compagnia si insediò ad Avalon, un luogo che ancora oggi non è
stato identificato: si pensa, comunque, che si trovi nel nord Europa. Qui, alla morte di Bron,
divenne terzo custode del Graal un uomo di nome Alain. Venne costruito un castello a Muntsalvach,
la Montagna della Salvezza (la cui ubicazione è sconoscuta), proprio per custodire il Graal, e
nacque uno specifico ordine cavalleresco, chiamato Ordine dei Cavalieri del Graal, sorto con lo
scopo di proteggere il calice. Essi sedevano alla Seconda Tavola del Graal, ove la reliquia
dispensava a tutti ostie consacrate. Il custode del Graal assunse il titolo di Re e Sacerdote. Dopo
alcune generazioni, divenne re un uomo chiamato Anfortas, il quale ricevette una misteriosa ferita
che lo rese sterile; sulle cause della ferita ci sono diverse versioni: secondo alcuni avrebbe perso la
fede, secondo altri avrebbe rotto il voto di castità per amore di una donna, secondo altri sarebbe
stato colpito accidentalmente da una lancia, da parte di uno straniero che si stava difendendo. Il re
divenne celebre con il nome di Re Ferito, e la terra su cui regnava venne colpita da un periodo di
sterilità: si parla, a proposito di questo periodo, di Terra Desolata (Waste Land).
La lancia con cui il re venne colpito fu identificata con la Lancia di Longino, il soldato Romano che
secondo la tradizione biblica avrebbe trafitto il costato di Cristo sulla croce. Essa venne custodita
all'interno del Castello del Graal insieme ad una spada, al piatto che sorresse la testa di Giovanni
Battista, e al Graal. Questi quattro oggetti influenzarono molto profondamente la cultura successiva,
tanto che nei semi delle carte da gioco italiane compaiono ancora le coppe (il Graal), le spade (la
spada), i denari (il piatto) e i bastoni (la lancia di Longino). Al fine di ritrovare il Graal, il mago
Merlino fondò la Terza Tavola del Graal, chiamata Tavola Rotonda. Dopo aver educato il giovane
Artù, quest'ultimo divenne re di Camelot, e si circondò di una compagnia di cavalieri, che presero il
nome di "Cavalieri della Tavola Rotonda". Il giorno di Pentecoste il Graal apparve nel centro della
Tavola, avvolto in un nimbo di luce, scomparendo dopo breve. I cavalieri, allora, si impegnarono in
una ricerca iniziatica del Calice: i più celebri furono Lancillotto, Galvano, Bors, Perceval e
Galahad.
Lancillotto fu in grado di avvicinarsi al Graal, ma venne colpito da cecità a causa del suo adulterio
con la moglie di Artù, Ginevra. Galvano raggiunse il Castello del Graal ma non riuscì a raggiungere
il Graal a causa della sua natura troppo legata alle cose del mondo: egli era privo di quella
semplicità richiesta al ricercatore. Soltanto in tre raggiunsero il Graal e furono in grado di
partecipare ai suoi misteri: Galahad, cavaliere vergine, Perceval, l'Innocente, e Bors, l'uomo
comune, che fu l'unico a ritornare alla corte di Artù per portare la notizia del ritrovamento. Nessuno
di essi, però, poté impadronirsene. Perceval, dopo aver vagabondato per cinque anni, ritrovò la
strada per il castello del Re Ferito (anche chiamato Re Pescatore), e dopo avergli posto una
misteriosa domanda - "Chi serve il Graal?" - risanò la ferita del sovrano. L'acqua tornò a scorrere
nella Terra Desolata, facendola fiorire.
Galahad, Perceval e Bors ripresero la ricerca, raggiungendo la città orientale di Sarras, la città del
Paradiso, dove il Graal era stato trasferito. Qui parteciparono ad una Messa durante la quale Cristo
apparve in una visione dapprima come celebrante, poi come un bambino, e infine come un uomo
crocifisso.
Galahad, in seguito alla visione, morì ed venne portato direttamente in cielo. Perceval ritornò al
castello del Re Pescatore, e alla morte di costui, lo sostituì sul trono. Bors, invece, ritornò a
Camelot.
Il Graal riposò, così, per i secoli successivi a Sarras, una città che ancora oggi non è stata
identificata.
Esistono dati storici provati?
Proviamo - adesso - ad immaginare ciò che avvenne del Graal il giorno della Passione di Gesù.
Secondo Robert de Boron, sarebbe rimasto in custodia nelle mani di Giuseppe d'Arimatea. E'
possibile, però, che esso sia stato deposto nel Santo Sepolcro insieme al cadavere di Cristo: era uso
comune - infatti - deporre accanto al morto gli oggetti che gli erano appartenuti o in qualche modo
erano connessi a lui. Esiste qualche dato storico che prova questa seconda affascinante ma
altrettanto probabile ipotesi? La risposta è sorprendentemente "sì!".
Come si presentasse, al suo tempo, il luogo dove venne pietosamente sepolto il Morto del Golgotha
fu per secoli uno dei più confusi problemi d’archeologia. La tradizione, invece, è stata dall’inizio
univoca e fermissima. Le testimonianze evangeliche dicono che il piccolo colle dell’esecuzione era
fuori delle mura, ma "vicino alla città"; pietroso com’era lo si chiamava in ebraico "Gulgoleth",
"Golgotha" in aramaico, e nell’antico latino di Tito Livio "Calva", cranio calvo, Calvario. E ancor
oggi, gli arabi chiamano "Ras", testa, una prominenza sassosa. Ma sul pendio occidentale cresceva
un giardino, un arido giardino di ulivi e palme, dove il ricco sanhedrita Giuseppe, originario di
Ramataim, che noi abbiamo grecizzato in "Arimatea", aveva fatto scavare un sepolcro, forse per sé
e, secondo l’uso ebraico, in futuro ampliabile per la discendenza familiare. Infatti, a quei giorni, non
vi era stato sepolto nessuno. Non era stato il solo a scegliere quel luogo per un uso funerario, perché
alla base della roccia asciutta e scoscesa sono state rinvenute altre antiche tombe ebraiche.
Nell’antico Israele le sepolture ebraiche erano scavate in terreni elevati e asciutti e al riparo da
possibili alluvioni. Somigliano a camere, a volta un vano d’ingresso e un secondo, più interno. Vi si
trovano sarcofagi di pietra o loculi scavati nella roccia (kokhim), a volte una fossa al centro della
stanza, o banchi lungo le pareti. Il Sepolcro del Sanhedrita Giuseppe da Ramataim, come è descritto
nei Vangeli, corrisponde all’architettura funeraria ebraica di tipo signorile, di duemila anni or sono -
così come ci è stata rivelata dai più recenti scavi. Un’anticamera, ricavata nella pietra, per le
operazioni rituali, e poi la camera funeraria. Dall’esterno, l’accesso era molto basso e poteva venir
chiuso facendovi rotolare contro una grossa pietra circolare.
Nel 70 Gerusalemme subì le più tragiche e distruttive vicende della sua lunghissima storia: la
rivolta ebraica, che passò ai posteri come "Guerra Giudaica" - l’assedio di Tito, che con la sua
vittoria avrebbe poi guadagnato l’impero - la dispersione in schiavitù della popolazione superstite,
che avrebbe dato origine a una Diaspora millenaria - il saccheggio dei tesori del Tempio, portati in
trionfo a Roma - la grandiosa mole del Tempio demolita fino al piano delle fondazioni. Le nascenti
tradizioni cristiane furono travolte. Il colle del Golgotha e il pendio contiguo - dove Giuseppe da
Ramataim aveva sepolto Gesù e forse posto il Graal - furono rinchiusi in una possente muraglia di
contenimento. Poi vi furono rovesciate enormi quantità di terra, prendendola da fuori città, per
elevare un terrapieno, in cui Golgotha e Sepolcro sprofondarono.
Nella nuova città di Aelia Capitolina - così era stata rinominata Gerusalemme - nacque poco a poco
una segreta comunità cristiano-giudaica, che guidata dal vescovo Marco, mantenne intatta la
memoria storica del Sepolcro interrato. Nel 312, Costantino conquistò il potere con il determinante
appoggio della semiclandestina cristianità. Nel 324 prese il controllo anche delle provincie orientali;
e dovunque - e più che in ogni altro luogo a Gerusalemme - affiorarono con impeto dal silenzio le
memorie cristiane.
Costantino scendeva verso Gerusalemme, quando il vescovo della città, che si chiamava Macario,
andò ad incontrarlo a Nicea. Doveva essere un oratore persuasivo, e soprattutto sicuro di quanto
diceva perché nelle sue parole rivisse la tormentata memoria storica di tre secolo di cristianesimo
sommerso: un periodo clandestino che in quei giorni finiva. Il vescovo Macario conosceva bene -
tramandati dalla precusa memoria verbale delle famiglie giudeo-cristiane e dei loro sacerdoti - dove
fossero tutti i luoghi storici dell’esistenza di Cristo, i testimoni di quei trentatré anni, la nascita in
Bethlehem, le case familiari di Nazareth, il colle dove erano state pronunciate le parabole, la sala di
quell’ultima cena, il luogo del processo e quelli della morte terribile e della sepoltura, così
spietatamente cancellati da Adriano. Costantino ascoltò affascinato dall’intensa suggestione che il
racconto operò su di lui e sua madre Elena, e decise la prima operazione archeologica della storia:
scavare e riscoprire il Golgotha e il Sepolcro.
Si incominciò subito, in mezzo a una folla di curiosi, i cristiani trepidanti e pronti a vedere in ogni
pietra smossa un segno di quanto cercavano. Insieme a numerose altre presunte reliquie, si
proclamò che era stata trovata una coppa che Elena ritenne essere quella stessa usata da Maria di
Magdala: di essa si era servita per raccogliere gocce del sangue di Cristo dopo la crocifissione. E’
difficile fare ipotesi sulle sorti della coppa. Pur essendo giunti a noi numerosi resoconti coevi delle
ricerche promosse dall’imperatrice Elena del sito del Santo Sepolcro, in essi manca ogni accenno
alla sorte della coppa, sebbene nel V secolo lo storico Olimpiodoro scrivesse che venne portata in
Britannia quando nel 410 Roma fu saccheggiata dai visigoti. Non mancano neppure contradditori
racconti relativi al suo aspetto: in alcuni di essi si tratta di un piccolo recipiente in pietra, in altri di
una grande coppa d’argento, e il più popolare narra che era stata incastonata da un artiere romano in
uno splendido recipiente d’oro impreziosito da pietre.
Si tratta del Graal? Il calice è giunto a Roma ed è finito in Britannia? Interrogativi che rimarranno
tali sinché nuovi dati storici non verranno alla luce.
Quali sono le ipotesi più probabili?
Le due storie del Graal presentate rappresentano due ceppi differenti: mentre l'ultima appartiene ad
un filone fondato su documenti, scavi archeologici e studi storici, la prima è tratta dal corpo della
letteratura Graaliana, ed è indubbio che essa debba essere depurata dai molti elementi che si sono
aggiunti nel corso dei secoli, e che con ogni probabilità hanno rivestito eventi reali di simbolismi e
allegorismi. Nel concetto di Terra Desolata, ad esempio, si può leggere il periodo di carestia che
colpì l'Europa nel passato. E i vari movimenti del Graal, sintetizzati nella tabella qui sotto, possono
documentare reali traslazioni della reliquia, avvenute durante i secoli:
Gerusalemme Palestina
Glastonbury Inghilterra
Muntsalvach Montsegùr, Francia?
Sarras Siria, patria dei Saraceni?
Dove si trova Sarras? La città è situata "ai confini dell'Egitto", e dal suo nome deriverebbe
l'aggettivo "saraceno". Potrebbe trattarsi della Siria, della Giordania o dell'Iraq. Secondo lo scrittore
trecentesco Albrecht von Scharffenberg, che scrisse "Il secondo Titurel", il Graal sarebbe custodito
in un castello detto "Turning Castle" (Castello rotante). Le caratteristiche del castello sono
assolutamente simili a quelle del palazzo persiano chiamato Takt-I-Taqdis, costruito nel VII secolo
d.C.: era possibile farlo ruotare su grandi rulli di legno. Secondo un'altra leggenda nel castello si
sarebbe trovata anche la Santa Croce di Gesù, sottratta da Gerusalemme dal re Chosroes II, che
eresse il castello di Takt, il quale saccheggiò la Città Santa nel 614, portando la croce in Persia. Si
diceva che insieme alla croce si trovasse il Graal. Quindici
anni dopo, nel 629, l'imperatore bizantino Eraclio marciò
sulla città di Takt, portando con sé la Croce a Costantinopoli.
Con essa, egli potrebbe aver portato con sé anche il Graal.
Costantinopoli divenne in seguito celebre per essere la città
più ricca di reliquie dell'intera cristianità. La Sindone di
Torino, ad esempio, fu custodita ad Edessa dal 33 d.C.
(proprietà di re Abgar) al 15 Agosto 944, giorno in cui
l'imperatore bizantino mandò un esercito ad appropriarsi della
reliquia. Il sudario venne probabilmente preso dai Templari
nel 1204, e da qui avrebbe raggiunto Lirey, in Francia.Come
la Sindone, così il Graal potrebbe esser stato trovato a
Costantinopoli durante le Crociate: ciò spiegherebbe il
motivo per cui i romanzi del Graal comparvero
improvvisamente sulla scena. Se il Graal raggiunse l'Europa, non è chiaro dove possa esser
custodito. Potrebbe esser stato portato in Italia dai Savoia, che entrarono in possesso anche della
Sindone. Per questo motivo si pensa possa trovarsi a Torino.
Secondo altri, il Graal sarebbe caduto in mano alla setta dei Catari, e portato nel castello di
Montsegur ove, in questo stesso secolo, fu ricercato da un ufficiale nazista, Otto Rahn. Ma le teorie
sono molte, e sono state raccolte tutte nella sezione dedicata ai "Luoghi" del Graal, che amplia
alcuni dei dati qui presentati e raccoglie una gran quantità di ipotesi, tra le quali forse qualcuna
nasconde un barlume di verità.
La storia del Graal secondo Indiana Jones
Il Graal è un calice scolpito nel legno di ulivo, utilizzato da Gesù durante l'Ultima Cena. Dopo la
sua morte, avvenuta nel 33 d.C., Giuseppe d'Arimatea lo riempie con il suo sangue. Dopo una lunga
prigionia, Giuseppe porta il Graal a Glastonbury, e dopo la sua morte, suo cognato Bron lo porta
con sè nella fortezza di Monsalvat, sui Pirenei. Dopo alcuni secoli, Perceval raggiunge il Graal al
Monsalvato, e lo porta nella sua patria, in Galles, nel paese di Mochdref, dove un certo
Taliesin ne canta le lodi:
Argentato come la spuma del mare,

Luminoso come lo specchio di Bronwyn,


Fragrante come la carne di Bldenwedd,
Potente come la spada di Bran;
Intagliato con incanesimi di benedizione
Nella lingua segreta dell'Est,
Questo vaso, il coracle stesso di Dio
Caccia il vecchio di fronte al nuovo.
Prima del 717 il Graal viene trasferito ad Avalon, dove un eremita scrive in un diario (ritrovato dal
professor Charles B.Hawken di Oxford) di aver visto
...la modesta coppa di legno contenente il sangue di Dio,
che risiedeva ad Avalon nei gloriosi giorni di Re Arturo,
fregiata con simboli sacri
risplendente della luce stessa della grazia.
Intorno al 950, i vichinghi saccheggiano la città di Iona, portando il Graal verso est. Si ha notizia
del saccheggio grazie ad un frammento ritrovato nell'Abbazia di Cantanez, che recita:
...il calice del Nostro Signore scolpito nell'albero della pace su di un vassoio d'argento, su uno
sciamito di smeraldo,rinato alla nostra casa dal Galhaut il Puro nei giorni di Artuto, allorché la
giusta Logres cadde,la più sacra fra le sacre reliquie col sangue ci portarono viaalla loro terra di
tenebre dove il Diavolo è signore.

I CAVALIERI DEL GRAAL


Il significato della queste per l'uomo d'oggi

Da secoli è in corso una ricerca senza fine di una reliquia introvabile. Nel Medioevo i cercatori si
chiamavano Perceval, Galahad, Bors e Lancillotto. Ancora oggi esistono uomini che dedicano la
vita alla "ricerca". Molti conoscono l'impossibilità di raggiungere il fine dei loro sforzi, ma è la
queste stessa a donare ad essi un cuore nuovo e una consapevolezza della realtà più alta e nobile.
Perché si cerca il Graal?

Ognuno ha il suo Graal, diverso per forma, natura e significato. Questa pagina suggerisce un
significato che si può dare alla ricerca: si tratta di una visione cristiana del Graal, ed in questa
chiave vengono rilette le vite di cinque cavalieri. In ognuno si ritroveranno le qualità principali che
possono risiedere nel cuore degli uomini di oggi. E ognuno di noi potrà, ogni giorno, ritrovare il
Graal: non quello di legno o coccio, ma qualcosa di enormemente più grande.

Il Graal: una coppa


Nella leggenda del re Pescatore, il re Ferito attende da tempo che uno dei suoi cavalieri ritrovi il
Graal, unico rimedio per il suo male. Nessuno, però, è in grado di raggiungerlo. Vedendo un
semplice giullare, gli chiede un bicchiere d'acqua. Questi si mette subito al servizio dell'assetato, e -
raccolta una coppa - la porge al re, il quale si accorge d'avere tra le mani il Graal. Stupito, domanda
come egli abbia potuto trovare qualcosa che i suoi più valorosi cavalieri mai hanno trovato. Egli
risponde, con un candore assoluto: "Sapevo soltanto che avevi sete..."
Colui che non cercava il Graal è colui che l'ha ritrovato: quale messaggio sorprendente! Dunque la
ricerca è inutile? Certo, se essa si limita ad uno studio di documenti e testimonianze circa un
oggetto materiale, scomparso due millenni fa. Perché il Graal, con ogni probabilità sparito
definitivamente, può acquistare un significato nuovo per l'uomo d'oggi. E forse la morte di Madre
Teresa di Calcutta ha richiamato l'attenzione di tutto il mondo su questo. La piccola suora albanese
pregava davanti ad una croce che riportava la frase detta da Gesù durante la Passione: "Ho sete".
Ella, durante tutta la sua vita, ha fatto suo questo grido che duemila anni fa proveniva da una croce,
e che oggi si innalza da ogni parte della terra da poveri, emarginati, affamati. Ella ha speso l'intera
vita per dissetare la tremenda sete di pane materiale e spirituale, difusa su tutto il pianeta. Ed ella, a
mio parere, ha ritrovato il Graal, senza averlo mai cercato. Perché il vero significato del Graal è
questa attenzione verso chi soffre, verso chi è più sfortunato, e non ha ancora udito il messaggio che
Gesù ha portato sulla terra: Dio ti ama immensamente! Gli assetati ci circondano, e noi non
possiamo vivere nell'indifferenza: noi dobbiamo portare ad ognuno un conforto materiale e
spirituale, con la nosra vita, con il nostro amore, con rinunce e gesti che facciano sentire chi ci
circonda figli di uno stesso Padre. E' l'unico Graal che possiamo ancora ritrovare. E' l'unica coppa
che possiamo ancora offrire a chi vive accanto a noi.
Ognuno dei cavalieri delle leggende Graaliane, incorpora in sé alcune di queste qualità cristiane,
che possono esser vissute dai cercatori d'oggi.
Eccole, in sintesi:
Galahad
"...si inginocchiò davanti alla Tavola del Graal, recitò le sue preghiere e poi improvvisamente la
sua anima si separò dal corpo, e una grande moltitudine di angeli la portò in alto nei cieli, sotto gli
occhi dei suoi compagni..."

Galahad rappresenta il lato mistico del cristianesimo, i cui atteggiamenti sono spesso in contrasto
con la mentalità comune. Si tratta di un comportamento tipico del cristiano, le cui scelte sono in
controcorrente con quelle del mondo, e la cui visione della realtà possiede anche una dimensione
mistica: la fede nella Provvidenza Divina e nell'amore di Dio sono soltanto due esempi. La
determinazione di Galahad è assoluta, ed egli è disposto a tutto per raggiungere il Graal: il suo fine
primario è quello di guarire le ferite del Re Pescatore, e ciò fa sì che, alla fine, egli possa ritrovare la
reliquia. Così per noi la prima attenzione dovrebbe esser rivolta verso Dio e l'amore per gli altri,
così da fare della nostra vita un dono continuo: significa lasciare tutto per seguirlo, con
determinazione ed entusiasmo. Galahad ha ritrovato il Graal ed è spirato "in odore di santità". E' la
stessa santità cui aspiriamo, sicuri che la via da lui indicata sia l'unica per raggiungere anche noi il
Graal. Egli stesso sembra volerci additare questo tragitto: l'ultimo suo pensiero è rivolto al padre
Lancillotto; parlando ai compagni, si raccomanda così con loro: "ricordatemi a mio padre
Lancillotto e appena lo vedrete, invitatelo a ricordarsi di questo mondo incerto". Quale significato
acquista questa raccomandazione? Per Galahad il mondo non è qualcosa da sfuggire in assoluto. Pur
non cedendo alle sue lusinghe, egli ama il mondo nel quale è nato, e lo reputa un luogo
meraviglioso per cui vale la pena morire. Dunque cade, ai nostri occhi, la figura di un Galahad
soltanto mistico ed ascetico. Egli sa fondere un pensiero spirituale ad un altissimo amore per la
terra, così da diventare la perfetta immagine di un cristiano, in grado di vivere nel mondo senza
essere del mondo.

Perceval

"...Una fanciulla molto bella, slanciata e adorna veniva coi valletti e aveva tra le mani un graal.
Perceval la vide passare, ma a nessuno osò domandare a chi si presentasse il graal nell'altra
sala..."

Perceval fu allevato nel profondo della foresta senza sapere nulla di cavalieri e di cavalleria. Ma fu
proprio questa una delle caratteristiche che permisero al giovane eroe di giungere così vicino al
centro del mistero, tanto da diventare un Custode del Graal. E questo per la semplicità con cui
viveva, tanto che prese il nome proprio dall'aggettivo con cui veniva appellato: il puro folle, parsi
fal, Parsifal o Perceval. Questa profonda innocenza lo rende inattaccabile alle tentazioni subite sia
da Galahad, sia da Bors. Per lui le donne sono come fiori, creature luminose destinate dalla natura a
prendersi cura di lui. I suoi combattimenti con altri cavalieri si svolgono come in una dimensione di
sogno, come se queste imprese avessero poca importanza per lui. Egli ha la mente rivolta soltanto
alla Ricerca, e supera le prove che deve affrontare semplicemente, come se non esistessero. Si tratta
di quell'atteggiamento che permette di superare le difficoltà della vita senza perdersi d'animo, con lo
sguardo sempre puntato verso la meta da raggiungere: quella della santità. E' quel vivere distaccato
dai problemi, senza permettere che essi possano sopraffarci né mutare il nostro essere. E'
quell'accettare la croce di ogni giorno senza lamento, ma con una lode continua a Dio.

Bors
"...Bors è colui che è venuto a portare testimonianza alla verità del mistero stesso..."

Bors è il meno celebre dei cavalieri del Graal. Cugino di Lancillotto, vive un po' nell'ombra del suo
parente più famoso. E' l'unico ad essere sposato: in questo modo, penetra la natura e il mistero
dell'amore umano in un modo che è negato agli altri suoi compagni. Si tratta della figura dell'uomo
comune, che tuttavia non teme di lanciarsi in una ricerca sovrannaturale. Gesù ha detto: "Ti
ringrazio Padre, perché hai nascosto queste cose ai sapienti, e le hai rivelate agli umili". Il suo
messaggio è rivolto ai semplici, non soltanto agli eroi. Per questo, ancora oggi, esistono molte
persone comuni che hanno deciso di spendere la propria vita per un ideale che non è visibile, ma
sovrannaturale. Si tratta di una scommessa sulla quale hanno fondato la propria vita, proprio come
Bors, che pur vivendo nel mondo, è in grado di raggiungere la meta che si è prefissata: il Graal. Un
particolare è importante da sottolineare nella sua ricerca: egli è l'unico a tornare a Camelot quando
la ricerca è terminata, per riferire ad Artù e al resto del mondo tutto ciò che è avvenuto. Si tratta,
dunque, di colui che ha portato testimonianza alla verità del mistero del Graal, e che ha ritenuto
importante rivelare a tutti la sua scoperta. E' lo stesso entusiasmo con cui il cristiano vuole spendere
la sua vita per testimoniare ciò che ha trovato: la gioia per la scoperta di un Dio che ama tutti
immensamente, e che propone una vita che dà la felicità.

Lancillotto
"...Allora Lancillotto guardò nel centro e vide una tavola d'argento e il Sacro Vaso coperto di
sciamito rosso e circondato da molti angeli. entrò nella cappella e si avvicinò alla tavola d'argento.
E allora sopravvenne un gran soffio di vento misto a fuoco che lo investì con tanta forza che egli
cadde a terra senza poter alzarsi e perdette l'uso delle membra, dell'udito e della vista..."

E' il cavaliere che ha fallito la sua ricerca: coinvolto dal fallace splendore del mondo, ha messo al
primo posto nella sua vita una donna, Ginevra, piuttosto che Dio. Nonostante egli sia sincero e
veramente disponibile a lasciare da parte ogni desiderio terreno per dare la scalata alle vette
spirituali della Montagna del Graal, questo non è ancora sufficiente perché la ricerca abbia buon
fine. Egli giunge al Graal, ha la possibilità di vederlo per un attimo, ma non riesce ad avvicinarsi a
lui. Si tratta della stessa sensazione che prova colui che ha l'animo offuscato dall'amore per una
donna: si rende conto della presenza di Dio, ma non riesce a proseguire il cammino verso di lui
perché frenato dai legami che ha instaurato. Soltanto vivendo un amore aperto a Dio, l'uomo può
evitare di lasciarsi legare a terra: i due, allora, sono in grado di levarsi insieme verso l'infinito, e di
sostenersi nel cammino a lui. L'amore di Lancillotto, invece, non ha questi intenti: la sua relazione
con Ginevra, moglie di Artù, lo porta a commettere un peccato di adulterio che lo separerà da Dio:
quella di peccare è una sua scelta consapevole, che sconterà quando davanti al Graal cadrà a terra,
investito da un vento di fuoco. Sarà lui a riconoscere il suo errore: "tutte le mie grandi imprese di
guerra le ho compiute per amore della regina e per suo amore io ho combattuto, senza badare se
fosse giusto o sbagliato, e mai ho combattuto per amore di Dio ma solo per guadagnarmi affetto e
per essere amato".
Dio accoglie il suo pentimento, benedendo la sua discendenza e concedendo il privilegio di
ritrovare il Graal al figlio di Lancillotto, Galahad, nato dalla principessa del Graal Elayne.
Dindraine

Dindraine è una giovane fanciulla, sorella di Perceval. La sua storia, semplice e breve, è nondimeno
importante per il significato profondo che se ne può trarre. Ella si trova a bordo della nave di
Salomone che sta portando il Graal verso la città santa. Lungo il cammino essi si fermano in un
castello ove si trovava una dama gravemente malata di lebbra. Soltanto quando una vergine avesse
donato il suo sangue, ella sarebbe guarita. Nonostante i cavalieri del Graal siano disposti a difendere
fino alla morte Dindraine, ella di sua spontanea volontà offre in sacrificio il proprio sangue,
morendo perché la dama possa guarire. E' evidente l'allegoria del sacrificio cristiano, di
quell'atteggiamento di disponibilità a donare la propria vita per la salvezza del prossimo. Questo
punto può costituire una notevole materia di meditazione per coloro che affrontano il cammino
verso il Graal: ed è particolarmente importante, perché dimostra che i buoni cavalieri non sono
necessariamente maschi.
Il fine della Ricerca
La liberazione della Terra Desolata e il risanamento del Re Ferito sono in realtà simboli delle ferite
della creazione stessa, resa deserta dalla nostra incapacità di comprendere i piani divini. Il vuoto, la
mancanza di valori che ormai permea l'intera società, sono tutte caratteristiche dell'attuale Waste
Land, contro la quale soltanto i Cavalieri del Graal possono combattere, portando il messaggio di
Cristo nel cuore di ogni uomo, non tanto con le parole, quanto con la vita, mutando pensieri e
rendendosi conto che soltanto Dio è l'ideale per cui si può spendere la vita perché non può crollare.
Chiunque stia tentando di rendere la propria vita una testimonianza continua dell'Amore di Dio, sta
già cercando il Graal, e potrà trovarlo se sarà in grado di intraprendere il cammino con semplicità,
innocenza e determinazione. Ci si sentirà sempre più permeati dall'amore di Dio e con il suo aiuto,
sarà possibile risanare le ferite della Terra Desolata, ricreando qui sulla terra il Paradiso, perduto a
causa del peccato.
Non mancheranno le difficoltà, le tentazioni e le cadute: ma se nulla frenerà il cammino del
Ricercatore, il Graal ci apparirà in tutto il suo splendore il giorno in cui udiremo le parole: "Vieni
nel Regno del Padre mio, perché avevo sete e mi hai dato da bere..."

ELEMENTI CELTICI DEL GRAAL, DI EXCALIBUR E DI MERLINO


di STELIO CALABRESI
Nella leggenda di Re Artù si ritrovano tre segni particolarmente complessi, comunque rivelatori
della chiave simbolica che ne costituisce la chiave di lettura: si tratta dell’Excalibur, del Graal e di
Merlino, in genere assunti come oggetti concreti, mete di concrete ricerche, non solo romanzesche.
Entrambi sono stati confusi con simboli della cristianità.
Ma si tratta di conclusioni improprie, profondamente inesatte, sia per quanto riguarda l’essenza
materiale, sia per quanto concerne il collegamento con la religione, sia – infine – in rapporto alle
origini.
L’Excalibur, innanzi tutto.
Il Medioevo pullula letteralmente di spade dai poteri straordinari (si pensi alla Joyeuse di Carlo
Magno, alla Durlindana di Orlando, alla Fusberta di Astolfo, a quella di Siegfried (la spada
spezzata per intervento i Odhinn: ricongiunta dal nano Minne, consente l’uccisione del drago Fafner
come ci narra il ciclo wagneriano del Reingold): si può affermare che non esista cavaliere che non
abbia una spada dai poteri straordinari: e il ciclo di Artù, nella sua caratterizzazione cavalleresca
medievale non fa eccezione a questa regola.
Tutte sono creazione di magia o connesse a poteri magici; tutte costituiscono il mezzo per compiere
imprese eccezionali (basti pensare alla strage di saraceni che il Paladino Orlando compie, a
Roncisvalle, prima di soccombere (Chanson de Relonad). Ma la sola Excalibur è connessa alla terra
ed all’acqua.
Si ritiene che fosse stata ricavata dalla punta della lancia con la quale il centurione Longino trafisse
il costato del Cristo. In quanto tale, viene associata, in Germania, alla Heilinge Lance conservata nel
Kunstistorische Museum di Vienna.
Questa, in effetti, corrisponde alla versione cristiana del simbolo della spada che associa la stessa
alla croce (tale associazione deriva dalla stilizzazione del disegno di lama, impugnature e
guardamano). Ma esso è valido unicamente per l’unione del simbolo della spada all’icona del
Graal.
Tra i due simboli, quello dell’Excalibur è cronologicamente il più recente. L’arma dai poteri
straordinari come abbiamo detto, compare nei miti di molti popoli sotto svariati nomi (Durlindana,
Spada che canta, Joyeuse etc.). Di fatto però essa conquistò la celebrità soprattutto per le leggende
celtiche e per il mito della "spada nella Roccia”.
Thomas Mallory vuole che essa sia stata forgiata da Merlino e da questi sarebbe stata portata, dopo
la morte di Artù, ad Avalon. Per l’anonimo autore di La mort d’Arthur, sarebbe invece stata gettata
da Parsifal nel lago e restituita alla Signora del Lago.
Oggi è difficile percepire il complesso significato del simbolo perché nell’Excalibur hanno finito
per confluire, confondendosi, aspetti pure simbolici di svariata provenienza e di diversa
significazione.
Possiamo percepirne il senso solo se riusciamo a risalire alle origini del mito. Nella versione più
versione (quella celtica) era simbolicamente l’equivalente della lancia. Come abbiamo visto, per i
Celti, infatti la lancia era quella lancia del Dio Lugh, che gli donata uomini.
Tale identificazione tuttavia subì una nuova trasformazione quando – sotto l’influsso della mitologia
germanica – finirà si confuse con la lancia di Odhinn, sulla quale sono incise le rune del fato.
Per entrarne in possesso Odhin restò impiccato per sette giorni e sette notti con la perdita di un
occhio.
Il Graal. Diversa è le genesi del Graal che proviene direttamente dalla mitologia dell’Irlanda celtica
ed è molto più antico dell’Excalibur.
Tradizioni esoteriche più tarde vogliono che l’Excalibur sia
stata custodita da una setta esoterica detta dei "Fratelli
Iniziati" (forse i Rosa Croce N.d.A.). La setta avrebbe lasciato
tre indizi in forma di croce a Glastonbury, nel duomo di
Modena ed in quello di Otranto; su tutte le croci compare la
scritta "Hic iAcet Arturius rex in insulA Avalonia"; la
combinazione di tali croce darebbe luogo ad un acrostico in
cui le A sembrano individuare il circolo di megaliti di
Stonehenge.
Sta’ di fatto che la tradizione della “spada nella roccia” appartiene ai costumi dei cavalieri unni e
sarmati; Unni e Sarmati avevano avuto contatti con il mondo occidentale avendo fornito truppe
ausiliare ai romani. La leggenda era passata così in occidente e, forse, direttamente in Bretagna.
Entrambi i popoli solevano infiggere la spada nel terreno per metterla in comunicazione diretta con
le correnti di forza della Grande Madre.
La spada si caricava di magia, modificava, per così dire, la propria struttura, diveniva “magica” e
rendeva invincibile chi l’impugnasse ed era, per un guerriero, il segno del comando.
Infatti la caratteristica dell’Excalibur era quella di essere “la spada dei Re”, che rendeva invincibile
anche se non invulnerabile (era la sua guaina che tutelava il re dalla perdita di sangue per ferite).
D’altra parte l’estrazione della spada dalla roccia era esso stesso un atto magico e la capacità di
compierlo individuava, in maniera incontestabile, la persona del “Re” come capo carismatico.
Ma fermiamoci di doni dei Tuata de Dannan che, oltre alla Lancia di Lug, comprendevano la
Pietra di Fal, il Calderone magico e la Coppa di Dagda; Si trattava, n ogni caso, di prefigurazioni
del Graal. Difatti se la lancia di Lug si sonnette in maniera più o meno diretto alla Excalibur, Pietra,
Calderone e Coppa so ritrovano tutti nel Graal.
In origine il Graal non fa parte della saga arturiana. Vi approda nel XII sec. con il Perceval di
Chrétien de Troyes; esso ma non ha, però, una connotazione religiosa specifica. Nella successiva
opera di Wolfram von Eschenbach, invece, il simbolo ha già assunto una connotazione cristiana.
Né Chrétien de Troyes, né Wolfram von Eschenbach ci dicono – e noi non sappiamo – cosa
fosse il Graal. Da Chrétien e da Wolfram possiamo comprendere solo che si tratta di un simbolo di
redenzione, di un modo per il quale l’uomo può venir fuori dalla “vasted land”.
Qualunque cosa sia il Graal (pietra, coppa o bacile), è in possesso del “Re Magagnato”, alla cui
presenza viene utilizzato per una strana processione nel corso della quale il “puro folle” – Parsifal –
non osa porre le domande che gli premono ed il Graal scompare mentre la terra torna ad essere
“vasted”.
I vaghi cenni che ne danno i bardi fanno pensare ad una pietra o ad un bacile, ma anche ad una
coppa. In tutti i casi restiamo nell’ambito del mito celtico dei doni dei Tuata de Dannan, anche se
l’ipotesi della coppa ci fa pensare principalmente al calderone dell’Annwn, il magico contenitore
che si riempie in continuazione e che sembra una variante della cornucopia, simbolo di prosperità e
benessere.
Ma questa immagine non sembra soddisfare l’evidente collegamento con il “Re Magagnato”.
“Magagnato” significa colpito da ferita non sanabile, inguaribile come versione personale della
vasted land. In queste senso il Graal, più che alla redenzione sembra collegato all’immagine del
peccato (ed, allora, perché il Graal non funziona sul Re magagnato?).
In effetti ciò che ci crea perplessità è la caratterizzazione cristiana che il simbolo assume quanto
passa nell’opera dei bardi del Ciclo Bretone ai quali si deve l’elaborazione della “Queste du san
Graal”.
Può questa nuova immagine, per quanto deformata, essere comunque corretta, cioè restare aderente
al carattere originario puramente celtico della rappresentazione del rito?
In questa chiave di lettura la processione descritta da Chrétien de Troyes è un rito iniziatico nel
quale ci si aspetta che Parsifal faccia qualcosa che, in effetti, non fa. Parsifal-Perceval non pone le
domande (che cosa è il Graal? di chi è al servizio il Graal? chi è il Re magagnato?): rimanendo
muto rompe l’incantesimo e la magia si dissolve.
Da ciò possiamo comprendere come nella realtà il Graal non abbia una consistenza materiale. Il suo
significato va ricercato unicamente nel suo valore simbolico. La conferma viene dai versi del
Preiddu Annwn attribuiti al poeta Taliesin.

In Caer Pedryvan, dopo averlo percorso per quattro volte


raggiungemmo il calderone dell’Annwn
che portava intorno all’orlo una fila di perle.
Dal fiato di nove muse esso era riscaldato
ed esso non può cuocere il cibo di un codardo.

Sicché il Graal – o il calderone dell’Annwn o la Coppa di Dagda – altro non è se non l’essenza
dell’uomo fatto di santità e di depravazione (Prima materia filosofale). E, non a caso, la mitologia
celtica lo definisce dono dei Tuata de Dannan.
Posta la questione in questi termini, cominciamo a capire il significato più profondo del simbolo
considerando il Graal come pietra (betile) ed associandone l’immagine a quella della spada – lancia.
L’essenza di questa pietra è la stessa di quella sulla quale è infissa l’Excalibur, è il ventre della terra
che forgia e riforgia la spada, la ricarica di energia vitale, la rende “magica”.
Allora il mutismo di Parsifal – Perceval equivale al rifiuto della rinascita iniziatica, il rifiuto della
vita ad un livello di coscienza superiore, il rifiuto di accostarsi alla magia della spada. Per questo il
Re resta “magagnato”, la processione scompare, la terra si copre degli sterpi e dei pruni della
devastazione, il Graal si perde.
Solo l’atto di Re Artù, che accetta su di sé la responsabilità di estrarre la spada donando alla terra il
re, la spada e la primavera con le energie vitali della Grande Madre, redimerà la terra dal peccato di
origine.
Il resto della saga arturiana è frutto della elaborazione più tarda, che vi sovrappone un significato
religioso – cristiano. Re Artù non è – come Parsifal o Galaad, a seconda delle versioni - il “puro
folle”: egli è macchiato dal “peccato originale” della nascita per opera di violenza (l’unione di
Uther Pendragon ed Igrain) e sarà ancor più macchiato dalla unione, involontaria quanto si vuole,
con la sorellastra Morgausen. Alla sua redenzione non basterà il battesimo dell’acqua, ma sarà
necessario il battesimo del fuoco: la morte per mano di Mordred, il frutto del peccato, in un
annientamento reciproco che ha il sapore di un vero e proprio Götterdammerung wagneriano.
IL segno dell’avvenuta redenzione sarà la scomparsa del Graal e della spada che torna ad Avalon (la
terra dei Tuata, degli dei) o alla Signora del Lago (il ventre della terra o all’acqua primordiale per
purificarsi).
Solo in questo modo la scritta “hic iacet Arcturus rex quondam in insula Avalonia” assumerà il
significato di una promessa di rinascita.
Che questa lettura sia corretta mi sembra confermato dal contesto nel quale si muove la vicenda
arturiana che comprende due parti importantissime per una corretta comprensione: l’incombente
presenza della magia druidica e la tavola rotonda.
Merlino. Sul primo di questi due aspetti molto ci rivela l’onnipresenza di Merlino (il latino
Mrtfimus): Myr – Ddyn il druido è un simbolo della natura, della sua forza resa visibilmente
tangibile dalla spada e dalla roccia. Come si afferma nel bellissimo film Excalibur egli è l’alito del
drago e il drago rappresenta la linfa che scorre nelle vene della Grande Madre, la earth force degli
SCEMB; perciò Merlino è la terra.
A lui una certa parte del mito attribuisce la creazione dell’Excalibur: egli allora appare più grande di
Minne perché quello si era limitato a rimettere insieme i frammenti della spada di Siegmund,
predisponendo quella di un altro predestinato: Siegfried. Sotto questo aspetto Myr Ddyn partecipa
della natura dei Tuata de Dannan: siamo di fronte ad un segno emblematico di quelle forze che
compenetrano il mondo della natura nella quale si agitano tutte le possibili forze. Per tale motivo
nell’occidente di cultura mediterranea si preferisce parlare di “Mago Merlino”, consigliere, amico e
padre spirituale di Artù.
Sebbene tutto ciò mi sembri corretto e coerente con la tradizione celtica, io preferisco pensare che
Merlino – Myr Ddyn sia l’emblema del vecchio mondo, quello che si identifica in Avalon e che è
destinato a subire le sorti di ciò che ho definito il Götterdammerung, il crepuscolo degli dei,
scomparendo nelle brume del nord per fare luogo alla nuova divinità cristiana trionfante
rappresentata da St. Patrick e da Giuseppe di Arimatea.
Nella leggenda, quale ci è stata riportata dal ciclo bretone queste due anime coesistono, lottano per
il loro spazio vitale: ma la loro lotta non avviene sui campi della cavalleria, bensì nel cuore di Artù;
finiranno col dilaniarlo come avviene in tutti i drammi interiori; essi saranno la ragione della
grandezza di Artù, ma anche la causa della sua rovina.
Ce lo dimostra il fatto che, fino a quando Merlino è presente nel mondo del reale, Avalon è presente
e concreta e Myr Ddyn è il legame che mantiene avvinto l’antico ed il recente; quando si allontana
Avalon svanisce e la rovina di Artù segna la fine della cavalleria e, con essa, del vecchio mondo.
Excalibur ed il Graal, Uther Pendragon e Art Wavr tornano definitivamente nel mondo dei Tuata de
Dannan.
Avalon è il mondo di origine e di destinazione di Myr Ddyn, la terra che non c’è – sì proprio la
Neverneverland di Peter Pan – l’Agarthi del Re del Mondo. È l’isola destinata a scomparire quando
il segno della spada è sostituito dal segno della Croce: il luogo dove viene trasportato il copro di
Artù morente perché con lui finisce l’epoca del mito per dare inizio alla storia. E con il mito
scompare anche il suo grande campione, Merlino.
Altrettanto complesso è l’altro massimo simbolo della saga arturiana, la “Tavola Rotonda”. La
forma ci dice chiaramente che si tratta di un simbolo solare e, come tale, è l’icona che rappresenta la
continuità del legame tra Artù, l’Orsa Maggiore (Art Wavr) e il dragone (Uther Pendragon). È, al
tempo stesso, il segno del legame di Artù stesso e dei dodici cavalieri che siedono intorno alla
Tavola Rotonda. Anch’esso è simbolo celtico che ci riporta con la fantasia ai fuochi di Beltane ed ai
riti druidici di Avalon, ma anche ai circoli megalitici, a Stonehenge, allo zodiaco di Salisbury tutti
luoghi dove si celebravano i riti della grande Madre.
Ma nella rappresentazione idilliaca dei cavalieri seduti a concilio intorno alla Tavola Rotonda, è
presente, fin dall’inizio il presagio della fine. Vi è infatti, un segno cabalistico che segna l’irruzione
della cultura giudaico-cristiana: il nefasto numero tredici che collega il gruppo di Artù al destino
che ha accomunato tutte le compagnie così costituite ad una sorte nefasta: da Cristo e dai dodici
apostoli dell’ultima cena, fino ad Orlando ed ai suoi Paladini, fino ad Artù ed ai cavalieri della
Tavola Rotonda.
In ognuna di queste compagnie è presente un agnello sacrificale (Cristo, Orlando, Artù) e un
traditore (Giuda, Gano di Maganza, Mordred): il prezzo del tradimento non è – come si potrebbe
pensare – quello dei fatidici trenta denari, ma la tragica morte dell’Agnello.

Cenni alla simbologia femminile del Graal

Il Graal è un simbolo multiforme che racchiude in sé svariati significati. È un tramite per la divinità
e rappresenta la molteplicità della potenza di Dio e, in questa veste, fra i suoi vari attributi, c’è
quello di rappresentare il principio creatore e, in genere, tutto quello che è legato alla vita:
guarigione, nascita e rigenerazione. I suoi cantori, durante tutta la storia, gli hanno fatto assumere
varie forme (calice, pietra, vassoio), ma le sue proprietà di rigenerazione sono rimaste costanti. La
forma principale con cui è conosciuto il Graal è quello di un calice o, più in generale, di un
contenitore. Ci soffermeremo, in particolare, su questa forma ed amplieremo il nostro campo di
indagine.

Se esaminiamo il geroglifico egizio rappresentante la donna, vedremo la “presenza” di un pozzo


d’acqua. La donna, quindi, che è sorgente di vita, è legata all’acqua, che, oltre ad essere la sorgente
di vita per eccellenza, è anche associabile al liquido amniotico: il pozzo d’acqua come grembo
materno, insomma. Nell’antico Egitto l’acqua assumeva un significato particolare: le capacità
agricole dei territori dell’antico Regno dipendevano dalla regolarità delle piene del Nilo. Questo
non avveniva soltanto in Egitto, ma anche presso moltissime altre civiltà: il Nilo per gli egiziani, il
Tevere per i Romani, il fiume Giallo per i Cinesi, il Tigri e l’Eufrate per i Babilonesi, gli Assiri ed i
Caldei, l’Indo per le civiltà indiane. Nell’antica Mesopotamia una divinità dell’oltretomba chiamata
Enki, riempiva di acqua le vasche dei primi templi. Poi semidei in forma di pesce la donavano agli
uomini. I fedeli persiani la raccoglievano in anfore e versavano libagioni in coppe approntate
dinanzi agli altari. In queste antiche cerimonie religiose, la vasca e il bacile, l’anfora e la coppa
rappresentavano la creazione della vita.

Il Graal e la sua leggenda ha memoria di questi antichi miti. Forse un legame diretto non esiste, ma
questi simboli sono universali e portano con sé memoria degli antichi significati. La potenza del
simbolo è quella di rappresentare significati universali a tutti gli uomini e di passare indenne
attraverso le generazioni umane assumendo nuovi significati pur conservando gli antichi. Questa
simbologia connessa all’origine della vita è indubbiamente legata alla donna e alla sua qualità di
generatrice di vita. Il Graal contiene questa simbologia femminile, perché è un dispensatore di vita,
come abbiamo visto. In alcune altre leggende, il Graal è anche legato alla Lancia sanguinante con
cui fu trafitto Cristo Crocifisso. Il sangue di Gesù, simbolo di vita (ed anche di divinità, in questo
caso) cola nel Calice, mentre la lancia è simbolo maschile per eccellenza, in quanto richiama il
fallo. Il Calice, la donna; la lancia, l’uomo: tutti questi elementi richiamano alla vita e rappresentano
l’atto creatore di Dio. Quale migliore rappresentazione della potenza creatrice divina, del mistero
della generazione di una vita dall’unione di un uomo e di una donna? E, di fatto, in passato quale
altro simbolo si poteva utilizzare? Più tardi lo sviluppo della ceramica portò l’immagine di un Dio
vasaio. Già nell’antico Egitto, per esempio, fu adottato il simbolo del vaso per significare il verbo
creare.

Anche il Dio cristiano che crea l’uomo dal fango riprende quella di un dio vasaio. Più tardi nel
Medioevo Dio prenderà il compasso, per creare. Il riferimento è all’architettura che allora
sviluppava imponenti opere. Il Graal, essendo un contenitore, possiede anche quest’immagine del
vaso come simbolo della creazione divina. Il Graal rappresenta il tutto, perciò racchiude in sé il
principio femminile e maschile, a volte reso più esplicito dalla presenza della Sacra lancia, simbolo
maschile e della guerra. Il Graal, quindi, assume valore di dispensatore di vita e distruttore di
nemici.

Nella tradizione cristiana un collegamento fra la donna e un contenitore esiste nella Litania
Lauretana, in cui la Vergine Maria viene descritta come “Vas sprirituale, Vas onorabile, Vas insigne
devotionis”, ovvero “Vaso spirituale, Vaso dell’onore, Vaso pregiato di devozione”. La Vergine è
descritta come un contenitore, il “contenitore” per eccellenza perché ha custodito il Figlio di Dio.
Un esempio di connessione fra il simbolo del vaso e la donna si ritrova poi nelle decorazioni della
chiesa di S. Vitale, a Ravenna, dove la regina Teodora viene accomunata ad un vaso. In entrambe
queste rappresentazioni, la metafora è sempre quella della donna come contenitore della vita.

Nel racconto del Re Magagnato è presente l’idea del “re taumaturgo”. Il suo benessere corrisponde
al benessere delle sue terre e del suo popolo; al contrario, la malattia del re (causata da una ferita
alle gambe, con ovvio riferimento alle capacità riproduttive impedite) isterilisce le terre. In questo si
ritrova la presenza di una simbologia femminile legata ai culti di fertilità e al culto della Grande
Madre. Solo la domanda di Perceval può risanare il Re e far rifiorire la terra. Questa parte della
leggenda graaliana ricorda il mito di Kore e Demetra: Ade, re degli Inferi, con il permesso di Zeus
rapisce Kore per sposarla. Dopo il rapimento di Kore, la madre Demetra va alla sua ricerca.
Fintanto che Demetra non ritroverà la figlia, la terra non germoglierà più. Una volta ritrovata, la
terra tornerà a rifiorire e la Dea, felice, farà dono agli uomini del grano. Il dolore di Demetra per la
perdita della figlia rende desolata la terra, così come il dolore per l’impossibilità di muoversi a
causa della ferita alla coscia rende desolata la terra del reame del Re Pescatore. Kore è donna: torna,
riferita al Graal, una simbologia femminile. Le similitudini tra le due leggende ci sono, ma sono
molte anche le differenze. Da una parte c’è una donna che cerca; dall’altra, c’è un uomo. L’oggetto
di una ricerca è una donna, una figlia; dall’altra, è un oggetto e c’è una domanda che permette di
guarire il re e la terra. Nel mito del ratto di Kore la presenza femminile è preponderante e il fatto si
spiega facilmente perché il mito di Kore è più antico e risale alle prime civiltà stanziali, e quindi
agricole. In epoca antica si pensava che fosse la donna la dispensatrice di vita e non veniva
riconosciuto all’uomo il suo ruolo nell’atto della procreazione. Questo imponeva un ampio
riconoscimento del ruolo della donna nella società. Dopo la scoperta del ruolo dell’uomo, si ha
avuto un capovolgimento di tale prospettiva: è l’uomo che porta il principio vitale col proprio seme,
la donna è più passiva. Nel poema del Perceval non a caso l’eroe è un uomo: è lui che feconda e fa
rinascere la terra. Anche in ciò il riferimento all’attività agricola è evidente: l’uomo col suo lavoro
rende feconda la terra, che da sola non produrrebbe niente; allo stesso modo è necessario
l’intervento maschile affinché la donna possa procreare. Il Graal rappresenta il principio femminile
che, unito al principio maschile rappresentato da Perceval, genera la vita.

Trattando di generazione, il ricordo di antichi culti legati alla Grande Madre è evidente. La
simbologia femminile del Graal è piuttosto forte a scapito di quella maschile, nonostante il tempo
trascorso e l’avvento del cristianesimo e del Dio Padre. Nel corso del tempo sono stati fatti vari
tentativi di riportare le leggende graaliane all’ortodossia cristiana: un esempio è dato dal poema
Perlesvaus, di autore anonimo ma che si suppone legato ai cistercensi. Il Graal continua a
conservare legami con un passato non cristiano.

La simbologia del cuore e la leggenda del Graal

Il geroglifico egizio che indica il cuore è costituito da un piccolo vaso e per gli antichi egizi il cuore
era la sede dell’anima1; alla morte il cuore veniva pesato dal dio Anubi2 e da questa pesa veniva
decisa la sorte dell’anima del defunto. Il testo da cui inizia la leggenda del Graal, è il Perceval di
Chrétien de Troyes. In tale racconto, il Graal non ha ancora una forma definita. Viene descritto
come preziosissimo, fatto in oro e tempestato di pietre preziose. Non si accenna alla sua forma, si
intuisce che è un contenitore perché “il giovane non domanda a chi lo si serva” e poco dopo “Ma
non sa a chi lo si serva”. Il Graal viene portato in processione e viene preceduto da altri oggetti
simbolici, tra cui la lancia sanguinante. Già in questo primo racconto si fa accenno al sangue. In un
passo successivo Perceval incontra lo zio Eremita che gli spiega il significato del Graal. Il Graal
serve l’ostia, unico nutrimento da dodici anni, al padre del Re Pescatore. Da questo riferimento
eucaristico è quasi immediato pensare al Graal come ad un calice. Dopo pochi anni dalla diffusione
dell’opera di Chrétien, Robert de Boron con il suo Giuseppe d’Arimatea spiega l’origine del Graal
identificandolo con il calice dell’Ultima Cena che poi serve a Giuseppe d’Arimatea per raccogliere
il sangue sgorgato dalle ferite di Cristo in croce. Questa versione del calice contenente sangue fa
tornare in mente il geroglifico egizio del cuore, ed è facile identificare il Graal al cuore. Il calice di
Cristo contiene il sangue di Cristo in due modi diversi: nel corso dell’Ultima Cena, quando il vino è
il Suo sangue e successivamente quando è raccolto dal Suo corpo sulla croce. Ricordiamo anche il
simbolo del Cristo come un pellicano che si strappa il cuore per nutrire o ridare vita ai figli3. Il
collegamento col simbolo cristiano del Sacro Cuore di Gesù è evidente.

Citiamo un passo di un articolo in cui si discute sul significato simbolico del cuore:“Il simbolo del
cuore indica il centro dell’essere, il luogo in cui si svelano i significati profondi, al di là delle
connessioni stabilite dalla razionalità4". Riportiamo un passo di un librino dedicato al Sacro Cuore
di Gesù, che mette in evidenza come anche nella tradizione cattolica il cuore è associato al centro
dell’essere: «È il nostro centro nascosto, irraggiungibile dalla nostra ragione e dagli altri; solo lo
Spirito di Dio può scrutarlo o conoscerlo. È il luogo della decisione, che sta nel più profondo delle
nostre facoltà psichiche. È il luogo della verità, là dove scegliamo la vita o la morte. È il luogo
dell’incontro, poiché, ad immagine di Dio, viviamo in relazione: è il luogo dell’Alleanza”. E
ribadisce al n. 368: “La tradizione spirituale della Chiesa insiste anche sul cuore, nel senso biblico
di ‘profondità dell’essere’, dove la persona si decide o no per Dio».

Dio parla al cuore dell’uomo, il centro dell’essere, non al suo orecchio, non alla sua mente. Si legga
il seguente passo della Bibbia: “Anzi, questa (sua) parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel
tuo cuore”(Dt 30,14). Si noti lo stesso significato nella seguente citazione:“Il termine arabo per
indicare il cuore è, Qalb, che indica l’atto di ricevere ‘da bocca ad orecchio’ (da cui Qabbalah), e
significa un’intuizione intellettuale, che è prima di tutto un ascoltare5.” Un’altra assonanza tra
cuore e coppa si ritrova nella tradizione islamica quando paragona il cuore dell’arif (il saggio,
l’iniziato) ad una coppa contenente potenza e sapienza.

Il simbolo del cuore ha quindi un profondo significato spirituale. Rappresenta il centro dell’essere,
la sua anima ed il luogo dell’«incontro» e dell’«Alleanza». In questa accezione la cerca del Graal è
una ricerca eminentemente spirituale e i luoghi che attraversa il cavaliere non sono luoghi fisici, ma
luoghi dell’anima. Alcuni episodi delle avventure dei cavalieri partiti alla ricerca del Graal, sono
palesemente delle prove dello spirito perché si trovano ad affrontare demoni o sortilegi approntati
dal Demonio. Il pericolo di perdersi prima del raggiungimento della meta, è il pericolo di perdere la
via che porta a Dio. Non a caso gli eroi si muovono senza un’apparente via da seguire come se
fossero in un labirinto, quei labirinti che ricoprono il pavimento di alcune cattedrali medievali che
stanno lì a simboleggiare il percorso dell’anima deve affrontare per raggiungere la grazia di Dio.

Inoltre il simbolo del cuore è equivalente a quello del sole. Il primo centro dell’essere, il secondo
centro del cielo. Tutte e due simboli positivi della vita. Il sole ha un ulteriore aspetto: è il simbolo
della regalità. Il re come centro del regno da cui tutto dipende tutto. I suoi raggi arrivano ovunque a
portare la sua presenza. È naturale pensare a Luigi XIV, detto Re Sole, ed al suo motto: “Io sono lo
stato”. Nel Perlesvaus, romanzo anonimo ma di area cistercense, Parsifal recupera il Graal
diventando Re del Graal e divenendone custode. I due significati si sommano: il cuore puro
permette la conquista del centro.

NOTE

1: “…Thoth aveva la testa di un ibis perché l’uccello, quando piegava l’ala, assumeva la forma di
un cuore, la sede della vita e della vera intelligenza.” Peter Tompkins – “La magia degli obelischi” –
Marco Tropea Editore 2001;
2: La stessa funzione nella tradizione ebraica è attribuita all’angelo Mikael, divenuto il nostro S.
Michele arcangelo. Un suo attributo è proprio la bilancia; anche nell’iconografia cristiana del
Giudizio Universale è raffigurato con spada e bilancia, attributi della giustizia;
3: J. L. Borges e M. Guerriero – “Manuale di zoologia fantastica” – Einaudi 1998;
4: G.C. – “Il simbolo del cuore”, da Massoneria Oggi – n. 2 – luglio 1994 – Soc. Erasmo Roma;
reperibile nel sito di Esoteria al seguente indirizzo: http://www.esoteria.org
5: Ibidem.

Il graal e il Codice Da Vinci

Il termine Graal deriva dal latino Gradalis, con cui si designa una tazza, un vaso, un calice, un
catino. Questi oggetti nella mitologia sono i simboli del grembo fecondo della Grande Madre, la
Terra, e portano vita e abbondanza. La coppa della vita dei Celti è il "Calderone di Dagda", portato
nel mondo materiale dai Tuatha De Danaan rappresentanti ultraterreni del "piccolo popolo"(il
magico popolo degli abitatori dei boschi, fate, streghe, gnomi e folletti). Molti eroi celtici hanno
avuto a che fare con magici calderoni. La tradizione cristiana annovera almeno due sacri
contenitori: il Calice dell'Eucarestia e - sorprendentemente - la Vergine Maria. Nella " Litania di
Loreto", antica preghiera dedicata a Maria, essa è descritta comeVas spirituale, vas honorabile, vas
insigne devotionis, ovvero "vaso spirituale, vaso dell'onore, vaso unico di devozione": nel grembo
(vaso) della Madonna, infatti, la divinità era divenuta manifesta.

Forse, quando, alla fine del XII° secolo, Chretien de Troyes decise di introdurre nella materia
arturiana il motivo del "Vaso Sacro ", lo fece perché era al corrente dei miti celtici del Calderone e
l'argomento gli sembrò particolarmente in tema. Forse esisteva già una tradizione orale sul Graal e
Chretien si limitò a metterla per iscritto. Forse (è l'ipotesi più probabile) elaborò in termini cristiani
le antiche leggende sui contenitori sacri. Il Graal arturiano fu descritto per la prima volta da
Chretien intorno al 1190 in "Perceval le Gallois ou le Compte du Graal".
La parola "Graal" è utilizzata con il significato generico di coppa e fa parte di un gruppo di oggetti
egualmente dotati di poteri mistici, ma non ha comunque alcuna associazione con il sangue di Gesù.
Solo nel successivo "Joseph d'Arimathie - Le Roman de l'Estoire dou Graal", un testo arturiano del
cosiddetto "Ciclo della Vulgata" (dove però Re Artù non compare) scritto da Robert de Boron
intorno al 1202, il Graal viene descritto come il calice dell'Ultima Cena, in cui Giuseppe d'Arimatea
aveva raccolto il sangue di Gesù crocifisso.
Ma perché il calice fu portato proprio in Inghilterra? I sostenitori della sua esistenza materiale
avanzano delle ipotesi piuttosto ardite. Durante gli anni sconosciuti della sua vita, prima della
predicazione, Gesù avrebbe soggiornato per un certo periodo in Cornovaglia e avrebbe ricevuto in
dono una coppa rituale da un Druido. Dopo la crocefissione, Giuseppe d'Arimatea, discepolo e forse
zio di Gesù, avrebbe voluto riportarla al donatore ulteriormente santificata dal sangue di Cristo; il
Druido in questione era Merlino, trait d'union tra la religione celtica e quella cristiana (lo stesso che
ritroviamo cinquecento anni dopo quale consigliere di Artù?). Comunque sia, le peripezie subite dal
Graal dopo il suo arrivo in Inghilterra variano in modo considerevole a seconda delle varie fonti.
Ad ogni modo, secoli dopo, il Graal è, di fatto, perduto. Sulla Britannia si abbatte una maledizione
chiamata dai Celti Wasteland ("La terra desolata"), uno stato di carestia e devastazione sia fisica che
spirituale. Per annullare il Wasteland - spiega Merlino ad Artù - è necessario ritrovare il Graal,
simbolo della purezza perduta. Uno dei cavalieri della Tavola Rotonda, Parsifal, ispirato da sogni e
presagi, superando una serie di prove, rintraccia Corbenic, il Castello del Graal e giunge al cospetto
della Sacra Coppa. Non osa però porre le domande "Che cos è il Graal? Di chi esso è servitore?",
contravvenendo così al suggerimento evangelico "Bussate e vi sarà aperto". Il Graal scompare di
nuovo. Dopo che il cavaliere ha trascorso alcuni anni in meditazione, la ricerca riprende.
Finalmente Parsifal (o Galaad) pone il quesito e il Wasteland finisce. Re Artù muore a Camlann e
Merlino sparisce nella sua tomba di cristallo (o d'aria ). Il Graal viene riportato in medio oriente da
Parsifal e Galaad. Per secoli non se ne sente più parlare, finché, verso la fine del XII° secolo, esso
torna improvvisamente alla ribalta. Come mai? Cos'aveva ridestato l'interesse nei confronti di un
mito apparentemente dimenticato? La maggior parte degli studiosi concordano nel ritenere le
Crociate l'avvenimento scatenante. A partire dal 1095 molti cavalieri cristiani si erano recati in Terra
Santa ed erano entrati per forza di cose in contatto con le tradizioni mistiche ed esoteriche del
luogo: sicuramente qualcuna di esse parlava del Graal, un sacro oggetto dagli straordinari poteri.
Grazie ai Crociati, la leggenda raggiunse l'Europa e vi si diffuse. C'è anche chi ritiene che il Graal
sia stato rintracciato dai Crociati e riportato nel vecchio continente. In tal caso vi si troverebbe
ancora. I luoghi più probabili ove si potrebbe trovare sono tanti. Solo in Italia si troverebbe a
Torino, a Castel del Monte, nella nicchia del "Sacro Volto" a Lucca, nella cattedrale di Modena, sul
cui portale sono riprodotti i cavalieri di Re Artù, nella cattedrale di Otranto, ove si trova un mosaico
raffigurante Artù a cavallo di un gatto selvatico.

Ma non in tutte le tradizioni il Graal è un calice, infatti esso è stato associato anche a un libro scritto
da Gesù Cristo alla cui lettura può accedere solo chi è in grazia di Dio .

Intorno al 1210, nel poema "Parzival", il tedesco Wolfram Von Eschenbach conferì al Graal ulteriori
connotazioni, non più una coppa, bensì " una pietra del genere più puro (...) chiamata lapis exillis.
Se un uomo continuasse a guardare( la pietra) per duecento anni, (il suo aspetto) non cambierebbe".
Il termine lapis exillis è stato interpretato come "Lapis ex coelis", ovvero pietra caduta dal cielo: e,
difatti, Wolfram scrive che la pietra era uno smeraldo caduto dalla fronte di Lucifero e portato a
terra dagli angeli rimasti neutrali durante la ribellione.

Dunque non si conosce esattamente la sua natura: forse è una pietra, forse è un libro, forse un
contenitore; è certo che permette di abbeverarsi (l'ultima cena), ma vi si può anche versare qualcosa
(il sangue di Cristo crocefisso). Può guarire le ferite, dona una vita lunghissima, garantisce
l'abbondanza, trasmette e garantisce la conoscenza, ma è anche dotato di poteri terribili e devastanti.
La tradizione sull'esistenza di un oggetto con questi poteri è antichissima e diffusa in una vasta zona
dell'Asia, del Nord Africa e dell'Europa; il Graal è forse stato identificato con nomi diversi (la
"Lampada di Aladino", il "Vello d'Oro", l'"Arca dell'Alleanza").

Lo scrittore inglese Graham Hancock in "Il mistero del sacro Graal. Alla ricerca dell'Arca
dell'Alleanza" (1995) ipotizza che il Graal simboleggi l'Arca dell'Alleanza, costruita dall'antico
popolo israelitico per contenere le tavole dei Dieci Comandamenti, venerata nei secoli come
simbolo della presenza di Dio sulle terra, dotata di poteri straordinari, inspiegabilmente scomparsa
dal Tempio di Salomone nel sesto secolo prima di Cristo, senza lasciare traccia, ma che forse si
trova attualmente in Etiopia ad Axum.

Ad ogni modo il Graal, con qualunque cosa si identifichi materialmente, è un oggetto materiale e
spirituale insieme.

Per gli antropologi è un corpus di dottrine elaborato attraverso i secoli. Per la tradizione cristiana
rappresenta l'evangelizzazione del mondo barbaro, operata dai missionari (Giuseppe d'Arimatea),
stroncata dalle persecuzioni e ripresa da un gruppo di uomini di buona volontà guidati da un
sacerdote (Merlino), o ancora, la cacciata dall'Eden (il Wasteland ) e la successiva redenzione grazie
all'intervento di Gesù. Per gli esoteristi Renè Guenon e Julius Evola, il Graal è il cuore di Cristo,
potente simbolo della religione primordiale praticata ad Agharti, di cui Gesù sarebbe stato un
esponente. Per gli alchimisti rappresenta la conoscenza, e la sua ricerca equivale a quella della
Pietra Filosofale o dell'Elisir di lunga vita. Per Carl Gustav Jung è un archetipo dell'inconscio. Ci
credeva e lo fece cercare anche Hitler per il quale era uno strumento magico con cui ottenere il
potere assoluto. Per gli autori di romanzi di fantascienza e i fautori dell'ipotesi extraterrestre è
un'apparecchiatura proveniente dallo spazio, o qualcosa che ha a che vedere con i terribili poteri
della fusione nucleare.

E per i giornalisti Michael Baigent, Richard Leigh e Henry Lincoln è ancora un altra cosa. Infatti
una delle possibili etimologie di Graal comprende l'attributo "San": "San Graal" sarebbe l'errata
trascrizione di "Sang Real", ovvero "Sangue Reale" e designerebbe una dinastia (per l'occultista
inglese, Dion Fortune, quella dei sacerdoti di Atlantide). La stirpe di cui i ricercatori Baigent, Leigh
e Lincoln avrebbero scoperto l'esistenza, dopo un appassionata ricerca, sarebbe quella di Gesù.
Salvatosi dalla crocefissione, avrebbe generato dei figli, da cui sarebbe nata la dinastia francese dei
Merovingi. L'ipotesi, descritta in "The Holy Blood and the Holy Grail" (Il mistero del Graal, 1982)
non si ferma qui. Certe misteriose carte rinvenute nel 1892 dal parroco Berenger Saunière dietro
l'altare della chiesa di Rennes-Le-Chateau sarebbero state il punto di partenza per il ritrovamento di
altri documenti i quali proverebbero che, lungi dall'essersi estinti nel 751, i Merovingi (e quindi gli
eredi diretti di Cristo) sono ancora tra noi, accuratamente protetti da un'antica società iniziatica
denominata Il "Priorato di Sion". Come i "Superiori Sconosciuti" di Agharti, i membri del Priorato -
di cui sono stati Gran Maestri, tra gli altri, Nicolas Flamel, Leonardo da Vinci, Ferrante Gonzaga,
Robert Fludd, Victor Hugo, Claude Debussy, Jean Cocteau - costituiscono una "Sinarchia" o
governo occulto che, ormai da quasi un millennio, influisce sulle scelte (politiche o d'altro genere)
dei governi ufficiali. Purtroppo - fanno rilevare Baigent, Leigh e Lincoln nel seguito di "The Holy
Blood and the Holy Grail", intitolato "The Messianic Legacy" (L'eredità messianica, 1986) - negli
ultimi tempi il "Priorato" si è parzialmente corrotto, e alcune sue frange mantengono stretti contatti
con la Mafia, la P2 e altre associazioni deviate.

Ed è ispirandosi a quest'ultima teoria che lo scrittore americano Dan Brown ha pubblicato quello
che ormai è un best-seller di fama internazionale "Il Codice da Vinci".

“Il Codice da Vinci “di Dan Brown e la ricerca del Graal. La discendenza reale di Gesù. Successo
mondiale sullo sfondo di una verità nascosta da 2000 anni o bufala ben congegnata?
Si tratta di un "thriller" avvincente e ben architettato, ma non deve il proprio successo alle vicende
pur intriganti che narra quanto alle teorie che gli fanno da sottofondo che riconducono ad una
millenaria cospirazione intesa a nascondere uno sconvolgente segreto sulle origini del cristianesimo
che, se rivelato, farebbe crollare i presupposti sui cui si basa la Chiesa cambiando la storia del
mondo.
Da quando è uscito, in Italia intorno alla fine dello scorso anno, si è sempre mantenuto nelle prime
posizioni delle classifiche dei più venduti e sembra aver venduto finora nel mondo 14 milioni di
copie. E’ certo che sta suscitando una catena di polemiche come se non si trattasse di un romanzo,
ma di una sorta di rivelazione che crea scompiglio e imbarazzo tra le parti in causa, nella realtà così
come nella finzione.

Il curatore del Museo del Louvre, Jacques Saunière (ai più questo cognome può dire poco, ma come
vedremo non è un nome scelto a caso) viene trovato assassinato in una sala a pochi passi dalla
Monna Lisa di Leonardo da Vinci, disteso come l'uomo di Vitruvio dello stesso da Vinci. Prima di
morire è riuscito a scrivere uno strano messaggio che trascinerà sulla scena del delitto, prima Robert
Langdon esperto di simbologia e successivamente Sophie Neveu crittologa della polizia scientifica
di Parigi che si rivelerà essere poi la nipote del curatore assassinato.
Una serie di colpi di scena in rapida successione porteranno alla luce misteri sempre più fitti ed
inquietanti.

Un meccanismo criptato, fatto di messaggi, indovinelli, anagrammi da decifrare che si amalgamano


con l’analisi della simbologia di capolavori dell’arte, porterà i vari personaggi ad accedere a segreti
sempre più occulti e a risalire per una strada tutta irta di pericoli mortali nella quale sono coinvolte
organizzazioni attualmente esistenti e personaggi di influenza mondiale di tutti i tempi.

Tra i capolavori dell'arte citati nel romanzo, “Il cenacolo” di Leonardo da Vinci, che è oggetto di
un'analisi volta a prospettare l'ipotesi che uno dei personaggi rappresentati non sia, come
generalmente creduto, l'apostolo Giovanni, ma la Maddalena, ed effettivamente a ben guardare non
si può negare che ci sia nel suo aspetto un che di femmineo. Leonardo Da Vinci sarebbe stato infatti
a conoscenza che alle origini del cristianesimo il ruolo della donna era ben diverso da quello
impostole dalla Chiesa, istituzione da sempre profondamente misogina, e che la Maddalena sarebbe
stata seguace e sposa del Cristo.

Non mancano poi nel romanzo continui rimandi a personaggi storici, scienziati e artisti, quali lo
stesso Da Vinci e Newton, letterati quali Walther Scott, principi e re della dinastia dei Merovingi,
fino ad arrivare ai tempi moderni con Kubrick e persino Disney, fino a Mitterand, accreditato quale
massone ed esoterista.

Sullo sfondo delle vicende narrate, da un lato la Chiesa cattolica e l'Opus Dei, dall'altro il Priorato
di Sion, leggendaria setta di cui si è detto di tutto e di più e che avrebbe avuto tra i vari Gran
Maestri personaggi quali Botticelli, Newton e lo stesso Leonardo da Vinci, e il cui braccio militare
nei passati e lontani secoli sarebbe stato l'Ordine dei Cavalieri del Tempio (i Templari).

Una ricerca estenuante contro il tempo porterà i vari personaggi nei luoghi già abbondantemente
citati nella letteratura del genere, in primo luogo la cappella di Rosslyn (si veda anche la Chiave di
Hiram di Knight e Lomas).

Al centro un segreto occultato da duemila anni che alcuni vorrebbero svelare e altri tenere celato per
sempre, e per il quale gli uni e gli altri sono disposti ad uccidere.

Nel complesso “Il Codice da Vinci” si legge piacevolmente, è avvincente e ben architettato, ma non
deve il proprio successo alle vicende pur intriganti del thriller quanto alle teorie che gli fanno da
sottofondo. Infatti il romanzo rappresenta una forma di sintesi finale di alcune idee sicuramente
suggestive e affascinanti, anche se non nuove né necessariamente più vere di quelle ufficialmente
accreditate, al cui centro è l’essenza del Graal.
Questo infatti non sarebbe la leggendaria coppia usata durane l’ultima cena e nella quale poi
Giuseppe di Arimatea avrebbe raccolto il sangue di Cristo, ma significherebbe Sangue Reale (Sang
Real da cui deriverebbe Sacro Graal) nel senso di una linea di successione originatasi direttamente
da Gesù. Secondo quest'ipotesi, Gesù (che sia morto o meno sulla croce) avrebbe avuto dei figli da
Maria Maddalena la quale sarebbe poi fuggita con loro in Francia. I loro discendenti avrebbero dato
origine alla dinastia Merovingia che dominò la Francia dal 476 al 750 A.D. Goffredo di Buglione,
discendente della linea merovingia nel 1099, dopo la presa di Gerusalemme, fondò l'Ordine dei
Cavalieri di Nostra Signora di Sion. Qualche anno dopo fu costituito l’Ordine dei Templari, un
ordine di monaci guerrieri, ufficialmente con lo scopo di difendere i pellegrini che si avventuravano
in terrasanta, in realtà con quello di scavare sotto le rovine dell’ultimo tempio di Gerusalemme,
quello distrutto dai Romani nel 70 D.C., alla ricerca del Graal, ovvero dei documenti probatori
dell’effettiva essenza del Graal. Trovarono qualcosa? Probabilmente si e in conseguenza di ciò si
sarebbero notevolmente arricchiti fino ad assumere un grande potere economico e non solo, tanto
che prestavano denaro a tutti i sovrani d’Europa, finché il re di Francia Filippo il Bello in accordo
con il Papa ne ordinò l’arresto in massa nella notte del 13 ottobre 1307. Sembra tuttavia che alcuni
di loro siano riusciti a fuggire portando con sé il proprio segreto e i documenti che lo contenevano e
che oggi l’uno e gli altri siano custoditi dalla fantomatica organizzazione denominata “Priorato di
Sion”.

Su dove siano finiti i documenti ci sono le più diverse teorie di cui una riconduce a Rennes Les
Chateau , piccolo paese dei Pirenei, salito alla ribalta della cronaca nel 1968 quando Gerard De
Sède, esoterista e scrittore specializzato in saggi sui tesori nascosti, pubblicò un intrigante volume
dal titolo “Le Tresor Maudit” (Il tesoro maledetto) nel quale si raccontava di presunte pergamene
trovate dal parroco di Rennes, Bérenger Saunière (ecco il perché del cognome del conservatore del
Louvre nel romanzo di Dan Brown) negli anni ’90 del XIX° secolo durante opere di restauro della
chiesa parrocchiale, pergamene che avrebbero contenuto la storia del Sang Real, un mistero
accuratamente nascosto dalla Chiesa, in primis dall'Imperatore Costantino che cancellò i riferimenti
da cui si potevano trarre le debite considerazioni, in primo luogo l'elemento femminile sempre
duramente respinto dalla Chiesa (si pensi alla caccia alle streghe). Saunière avrebbe messo a
profitto la scoperta di un segreto di tale portata trasformandolo in un sacco di denaro (ma ad onor
del vero bisogna anche dire che Saunière fu accusato di simonia e forse in questa pratica, più
realisticamente, starebbe la fonte della sua ricchezza).

La storia del parroco di Rennes e dell’essenza del Graal, il cui significato la Chiesa avrebbe
occultato da 2000 anni, ma le cui prove sarebbero custodite dal fantomatico “Priorato di Sion” era
stata riesumata nel best-seller sopra citato, “Holy Blood, Holy Grail” ( in Italia uscito con il titolo
“Il Santo Graal - Una catena di misteri lunga 2000 anni”) di Michael Baigent, Richard Leigh ed
Henry Lincoln, uscito negli anni ’80 del secolo scorso, dove peraltro si sostiene che Saunière
avrebbe mostrato le pergamene da lui rinvenute ad alcuni esperti di Parigi e là avrebbe anche
acquistato una riproduzione di un dipinto di Nicolas Poussin realizzato nel 1640 dal titolo “I pastori
d’Arcadia” in cui i personaggi raffigurati indicano un sarcofago con la scritta “Et in Arcadia ego”. Il
sarcofago sarebbe stato riconosciuto da Saunière come identico ad uno posto a poca distanza da
Rennes-le-Chateau. La frase sarebbe un anagramma di “I tego arcana Dei” (vattene, nascondo il
segreto di Dio). Il sarcofago conterebbe le spoglie mortali di Cristo.

Ultimamente se ne sta parlando molto su riviste del settore, ma non solo. Anche l’ultimo numero di
“Focus”, rivista di divulgazione scientifica, dedica alcuni articoli al ritorno di un mito millenario, il
Graal, e prende in esame la teoria avanzata da “Holy Blood, Holy Grail” e da “il Codice da Vinci”
pur concludendo che trattasi di una bufala ben congegnata.
Ad ogni modo è un dato di fatto che il romanzo è stato notevolmente attaccato da personaggi vicini
alla Chiesa, come Massimo Introvigne studioso di storia delle religioni e direttore del CESNUR
(centro di studi sulle nuove religioni), il quale ha dedicato al romanzo ben due articoli, dal titolo Il
Codice da Vinci: ma la storia è un'altra cosa e Beyond "The Da Vinci Code": What is the Priory of
Sion? , e dall’Opus Dei che lo hanno definito storicamente inaccettabile.

Ma, ci si potrebbe domandare, cosa significa "storicamente inaccettabile" in relazione ad un thriller


e perché tanto accanimento se si tratta di paccottiglia?

Rapsodia per l'Unicorno di Oscar Cappelli

Sempre sull’onda di questo rinnovato interesse per i temi che fanno da sfondo al "Codice da Vinci"
è uscito per l’editrice Christoffel & Le Cordier (che vende solo su internet) un romanzo dal titolo
“Rapsodia per l’unicorno” di Oscar Cappelli, al cui centro è un intrigo politico finanziario che vede
coinvolti poteri politici ed economici, mafia e Chiesa, ma sullo sfondo ancora una volta una
cospirazione che nasconde alla cristianità la stessa verità sconvolgente. Pur con diverse variazioni
sul tema, che questa volta contempla anche viaggi nel tempo e memoria genetica, la teoria sostenuta
è dunque la stessa. Tra le prove ancora una volta il famoso e discusso quadro di Poussin, anzi i due
quadri con lo stesso titolo e lo stesso soggetto, ma dipinti a distanza di venti anni l'uno dall'altro, il
primo, secondo l' autore, di impianto più classico, il secondo espressione invece di una raggiunta
piena consapevolezza del significato reale del sepolcro raffigurato

La Spada e la Coppa

In questo breve studio sugli archetipi della spada e della coppa voglio sfatare un pregiudizio che
permea tutto il nostro sapere e la nostra impostazione del pensiero, ovvero il fatto che l’uomo in
tutta la sua storia abbia percepito se stesso e l’ambiente sempre nello stesso modo.
Il razionalista potrebbe obbiettare che gli organi di senso sono stati sempre gli stessi, quindi anche
la percezione ed il modo di porsi di fronte al mondo sono stati sempre, a grandi linee, gli stessi.
Purtroppo egli non avrebbe considerato il fatto che la percezione è mediata dalla coscienza e che
quindi da essa dipende.
Studi antropologici confermano che la coscienza è probabilmente cambiata con il modo di pensare
molte volte e che essa dipende sostanzialmente dell’educazione che ad essa si impartisce (da dati
esterni acquisiti), sostenuta da molti tra gli storici e gli scienziati, tra i quali Aldous Huxley *, padre
Hugo Enomiya-Lassalle *, Albert Hofmann *.
Questo è un argomento che meriterebbe studi scientifici ed antropologici molto più accurati e che
conduce al mistero stesso della nostra essenza (la coscienza).
Tornando alla spada e alla coppa le ho scelte per il fatto di essere due simboli che rappresentano due
diverse impostazioni del pensiero e della coscienza che hanno avuto una grande diffusione, quindi
avevano indubbiamente un grande potenziale di significato simbolico a livello dell’inconscio
collettivo.
La coppa è il simbolo della vulva, retaggio del culto della Grande Madre-Universo adorata dal
paleolitico e rappresenta uno stato di coscienza in cui l’uomo torna alla simbiosi con il cosmo, una
religiosità che è rimasta nel Taoismo.
La spada di contro è il simbolo della forza, della virilità, simbolo uranico che con la sua lama divide
il “bene” dal “male”, simbolo di una coscienza volta verso il dominio sull’ambiente e verso
l’affermazione dispotica dell’io, il tipo di religiosità delle religioni monoteiste.
La coppa è rappresentata in molti miti antichi, come calderone di Dagda presso i Celti, Cornucopia
presso i Greci, Graal presso i primi cristiani, in seguito sarà anche matraccio degli alchimisti e
calderone delle streghe.
Anche il mandala dei buddisti che racchiude il tutto e che diventerà il rosone delle cattedrali gotiche
può essere condotto alla stessa area semantica, come anche presso i taoisti il fiore di loto portato
dalla dea Kuan-Yin che contiene il nettare dell’immortalità o presso gli indiani il Samudra,
recipiente che conserva il sangue di Agni.
La spada assumerà una grande importanza a partire dal medioevo, quando le spade avranno un
nome e saranno simbolo di giustizia e potere (potere della coscienza sull’ambiente)*.
La spada è impugnata da Vishnu che con essa , durante l’apocalisse indù fonderà una nuova era del
dharma, la troviamo anche in mano al Tyr germanico, a Bodhisattva, al Khatib islamico e anche agli
angeli, ai cherubini e a Cristo stesso, riproponendo la sua valenza di segno di luce, di conoscenza
come potere.
Gli stessi simboli li troviamo anche nelle carte con i bastoni e i denari ed insieme alla lancia di Lug
e alla pietra del destino fanno parte degli oggetti consegnati agli uomini dai Tathua de Danaan.
Ma cosa rappresentavano propriamente?
Il fatto di essere due simboli sessuali fa’ si che si trovino a rappresentare due modi di porsi di fronte
all’ambiente ed a se stessi opposti e complementari, l’uno mascolino dominato dall’emisfero destro
del cervello, quindi razionale e retto dall’istinto di conservazione, l’altro femminino e dominato
dall’emisfero sinistro quindi intuitivo e retto dall’istinto dell’annullamento (inteso come unione con
l’universo).
L’alchimista e la strega, custodi della sapienza tellurica, cercavano di compiere nei calderoni e nei
matracci le stesse mutazioni che avvengono nell’universo, di simulare la natura per tornare ad
identificarvisi, tornare alla Grande Madre.
Al contrario, il cavaliere o il mago cercavano nella spada la verità e la giustizia, il potere che porta
all’automiglioramento e al sacrificio per la perfezione e l’identificazione tra l’Assoluto e l’identità
personale.
A questo punto possiamo chiederci a quali livelli di coscienza corrispondono questi due archetipi.
La risposta possiamo cercarla innanzitutto nelle conoscenze che abbiamo; il tipo di coscienza “della
coppa” è quella delle società matriarcali che veneravano la Dea e che rimase radicata per molto
tempo nella cultura ma rimasta nella coscienza solo in pochi mistici; di contro quella della spada è
la coscienza razionale che divide il vero dal falso, che aspira a dominare la materia non più madre
ma antagonista della coscienza, da esiliare con un fendente della ragione e sottomettere al proprio
volere o a quello di una divinità fatta a nostra immagine e somiglianza, una proiezione del desiderio
di onnipotenza dell’io.
Questi due simboli continuano ad affascinare le masse, perché fanno parte del nostro inconscio
collettivo, sono due porte verso due livelli di coscienza e due modi di pensare diversi che sono
ancora cercati come forma di illuminazione e salvezza da parte di tutta l’umanità; l’uno (la coppa)
ci lega alla terra e ci rende partecipi all’universo indicandoci nel rispetto e nella comunione con
l’ambiente e la Madre Terra la vera salvezza, l’altro ci insegna a dominare gli istinti autodistruttivi e
all’automiglioramento.
Di fronte a questi due potenti simboli che rappresentano due polarità della nostra coscienza e del
nostro essere opposti, come lo yin e lo yang, il nostro compito è ritrovare un equilibrio, vera fonte
di benessere e felicità, in una società chiaramente sbilanciata sugli aspetti maschili ed appartenenti
alla spada.
*1 Le porte della percezione Aldous Huxley Arnoldo Mondadori Editore 1958
*2 I libri de l’ignoto Mondo esoterico e occultismo hobby e work1993 Juan Garcia Atienza

NOTA:
Hugo Enomiya-Lassalle, traccia una mappa delle fasi che la coscienza umana ha probabilmente
attraversato (e attraversa tuttora, poiché la coscienza non ha seguito un percorso evolutivo, bensì
contiene tuttora elementi dei diversi livelli di percezione).
Coscienza Arcaica
Lo stato ci coscienza in cui l’uomo si sente ancora indivisibile dall’universo e non ha coscienza
della dualità che ora domina ogni nostro comportamento; quella che secondo Chuang Tze è la
coscienza dell’uomo vero.
Coscienza Magica
In questo stato di coscienza l’uomo si rende conto che vivendo nella natura deve lottare per la
sopravvivenza, ma la coscienza magica consiste nell’essere immersi nella natura e utilizzarne le
energie identificandosi con meccanismi cosmici.
Coscienza mitica
In questo stadio l’uomo comincia a sentire un distacco dall’universo, nasce l’io e si afferma
all’interno della coscienza, mentre il ricordo della partecipazione con le energie e i meccanismi del
cosmo, la simbiosi perduta, vengono trasformati nei miti, racconti con una semantica tale da
consentire il ritorno o perlomeno il ricordo di quello stato.
Coscienza mentale
La coscienza è sotto la preponderanza assoluta dell’io che cerca di soggiogare l’ambiente ed il sé,
estraniandosi completamente dal contesto.
La coscienza è dominata dall’intelletto e dalla ragione, strumento di dominio, e la realtà è ridotta a
semplice materia inerte pronta ad esaudire i desideri della coscienza dell’uomo.
*3 I misteri di Eleusi Albert Hofmann Piccola biblioteca millelire 1995
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LA LANCIA DI LONGINO

L’arma dell’immenso potere e le manie di Hitler, il tiranno “dell’Occulto”


Quella sera del Marzo 1938, nella Weltliche Schatzkammer (la
Stanza del Tesoro) del palazzo dell'Hofburg, a Vienna, non c'erano
guardie a sorvegliare i cimeli del Sacro Romano Impero apparte-
nuti agli Asburgo. Adolf HITLER era libero di muoversi nella
grande sala che aveva turbato i suoi sonni per più di un quarto di
secolo. La Heilige Lance ("Lancia sacra") che, secondo la
leggenda, era stata usata dal pretoriano Longino per trafiggere il
costato di Cristo crocifisso era, ormai, nelle sue mani. Quasi
esitando, le mani del dittatore alzarono il coperchio di cristallo che chiudeva la bacheca, spostarono
la rossa protezione di velluto, accarezzarono la punta dell'arma, ancora straordinariamente acumi-
nata, poi, dopo un attimo di esitazione, la afferrarono e la levarono verso il cielo.
Così, più o meno, andarono le cose quella notte del 1938. Con un atto chiamato Anschluss, Hitler
aveva forzatamente annesso l'Austria alla Germania nazista; ora sarebbe stato facile portare in
Germania la Heilige Lance, che, d'altra parte, vi era stata custodita fino a poco più di un secolo
prima. Ma perchè, di tutti i TESORI dell'Hofburg, HITLER teneva particolarmente a quell'antica
arma? Il fuhrer nazista era un fanatico cultore di cose magiche, ed era intimamente convinto che
esistessero oggetti dotati di immensi poteri, il cui possesso o la cui conoscenza avrebbe permesso
alla Germania di divenire la dominatrice del mondo. Tra questi oggetti c'era anche la Lancia di
Longino, l'arma che, nelle narrazioni dedicate a Re Artù e al Grall, aveva inferto al “Re Pescatore”
il “Colpo doloroso”, gettando l’Inghilterra nella desolazione. La Heilige Lance fu trasferita a
Norimberga e collocata nella chiesa di Santa Caterina, dove il grande musicista Richard Wagner (a
sua volta adepto di società iniziatiche) aveva ambientato uno dei brani più suggestivi dei Maestri
Cantori.
Ma la lancia non portò fortuna al fanatico dittatore. Dopo la sconfitta di Stalingrado, Hitler ordinò
che essa fosse trasferita in un nascondiglio segreto a prova di bomba; fu scelta una galleria sotto
l'antica fortezza di Norimberga, attrezzata come una camera blindata. Il 13 ottobre 1944 l'aviazione
alleata sferrò un attacco definitivo sulla Germania; la Oberan Schmied Gasse ("Vicolo superiore dei
fabbri"), in cui era celata l'entrata al tunnel con la camera blindata, venne completamente distrutta.
Qualcuno notò delle strane aperture che conducevano al sottosuolo, e presto si diffuse la voce che
nel terreno sottostante si trovava un misterioso bunker corazzato. Il 20 aprile 1945 gli alleati
occuparono Norimberga; il suo borgomastro, Willy Lebel, che conosceva il nascondiglio della
lancia, si suicidò, e qualcuno perquisì il suo appartamento per assicurarsi che non vi fossero
elementi atti a condurre gli americani al bunker nascosto. Ma gli uomini dell'American Intelligence
non rinunciarono alla ricerca: infatti, qualche mese prima, Churchill aveva parlato dell'"Importante
necessità strategica" di recuperare l'arma. Alle 14 e10 del 30 Aprile 1943, lo stesso giorno in cui
Hitler si suicidava a Berlino, la Heilige Lance venne recuperata dagli americani. Il Generale Patton
ammise successivamente che, per qualche istante, fu tentato di tenerla: anche lui, infatti, era un
conoscitore di cose occulte, ed era al corrente dei suoi presunti poteri. Poi prevalse il buon senso: la
Heilige Lance fu restituita all'Austria, ed è ancora possibile ammirarla, dalle 9 alle 18 di ogni giorno
esclusa la domenica, al suo posto nella Weltliche Schatzkammer dell'Hofburg di Vienna.

La spada nei ghiacci.


Nel saggio Adolf HITLER and the Secrets of the Holy Lance, pubblicato a tiratura limitatissima da
una piccola casa editrice di Stelle, Illinois (una città, incredibile ma vero, edificata da una settà
convinta che i suoi appartenenti saranno gli unici a salvarsi dall’APOCALISSE), il Colonnello
Howard A. Buechner e il Capitano Wilhelm Bernhardt asseriscono che Himmler fece realizzare
segretamente da un artigiano giapponese un perfetto duplicato della “Lancia sacra”. Nel 1945 la
falsa Heilige Lance fu spedita a Norimberga, ove subì le vicissitudini di cui avete appena letto,
mentre quella vera fu trasportata da un sottomarino, l’U Boat 530, in un nascondiglio segretissimo
tra le montagne del ghiacciaio Muhlig Hiffman, nell’Antartide. La lancia sarebbe stata recuperata da
una misteriosa (e organizzatissima) setta denominata “Ordine dei Cavalieri della Lancia Sacra”, e
ora riposerebbe in un nuovo nascondiglio, sorvegliata dai cavalieri, il cui obbiettivo è - per nostra
tranquillità - quello di mantenere “la giustizia e la pace nel mondo”.

Gli OOPARTSI I reperti impossibili:

OOPARTS - Out Of Place Artifacts


Lo strano manufatto di London: un martello del cretaceo?
Un'impronta di 500 Milioni di anni fa?
Un Dito Umano Fossile?
Il Teschio di Calaveras?
Le pietre di ICA

OOPARTS - Out Of Place Artifacts


Il termine fu coniato dal biologo americano Ivan Sanderson e sta a significare reperti al di fuori di
ogni logica e convenzionale collocazione, tali da mettere in crisi la visione delle cose che gli
scienziati ritengono di avere ormai acquisito, e dai quali essi sono tendenzialmente portati a
difendersi in quanto esponenti di un "Establishment" che non ammette traumi o scossoni. Un buon
sitema è far finta di nulla, ma oggi è sempre più difficile. (R. Pinotti)
IL VOLO DI ICARO. Il mito greco di Icaro testimonia che il desiderio di volare è vecchio quanto il
mondo. Il primo desiderio che si riscontra in un geroglifico dell'Antico Egitto è:"Io voglio volare".
Non è un caso che nel 1898, in una tomba presso Sakkara, sia stato rinvenuto un modello che venne
catalogato con la denominazione di "uccello" al Museo Egizio del Cairo, ove rimase per mezzo
secolo. Nel 1969 il dott. Khalil Messiha rilevò che il reperto in questione presentava caratteristiche
del tutto particolari: le ali erano dritte ed il piano di coda rialzato. Il corpo ed il muso sono plasmati
in senso aerodinamico. Il reperto n. 6347 è fatto di legno, pesa 39,12 grammi ed è in perfetto stato
di conservazione. L'apertura alare è di 18 cm e la lunghezza del corpo è di 14, mentre il muso non
supera i 3,2.
Questo reperto rappresenterebbe l'evidenza fisica che gli antichi Egizi conoscevano almeno il volo a
vela ed avevano realizzato sicuramente marchingegni simili ai nostri alianti.
L'Egitto presenta non pochi reperti archeologici anomali. Nel British Museum possiamo trovare, ad
esempio, una lente di cristallo proveniente da una tomba egiziana di Helwan. Tale reperto risulta
molato in maniera pressoché perfetta. La perfezione della tecnica adoperata, sarebbe giustificata
solo ammettendo una levigatura meccanica della lente; il che, evidentemente, appare inconcepibile
alla luce delle nostre conoscenze di quella cultura e di quell'epoca.
La Biblioteca di Alessandria racchiudeva l'intero sapere del Mondo Antico. Di qui la logica
considerazione che molte conoscenze siano andate perdute tra le fiamme che distrussero la
Biblioteca stessa e che soltanto adesso si cominci a intravederle nella pratica.
Iscrizioni di epoca tolemaica parlano di aste di legno rivestite di rame che poste dinnanzi ai templi
avevano lo scopo di "tagliare i fulmini del cielo". Come non pensare a dei parafulmini ante
litteram?
Nel 1936, durante la realizzazione di una ferrovia, vicino a Baghdad, venne scoperta una tomba
coperta da una lastra di pietra. Fra i numerosi oggetti che ne furono estratti uno venne sottoposto
all'attenzione di Wilhelm Konig...

Lo strano manufatto di London: un martello del cretaceo?

Il manufatto di London fu trovato vicino


London, Texas, in Kimball County.
Il sito fa parte di una grande zona geografica
chimata Edwards Plateau.
Esso consiste principalmente in roccia del
periodo cretaceo. Nel giugno del 1934, Max
Hahn scoprì una roccia, posizionata libera su
una sporgenza di roccia accanto un salto
d’acqua fuori London, nel Texas.
Accorgendosi che da questa stagionata roccia
sporgeva del legno, egli e la sua famiglia la
spaccarono aprendola con un martello e uno scalpello, esponendo così la testa di un martello alla
luce del giorno per la prima volta sin da quando la roccia si formò intorno ad essa!
Per verificare che il martello fosse fatto di metallo, essi tagliarono in uno dei lati smussati con una
lima. Nell’ incisione che ne risultò, fu esposto un luminoso, brillante ferro.
Il brillante metallo nell’incisione è ancora là, con nessuna corrosione.
La testa di martello in metallo è approssimativamente lunga sei pollici (15,24 cm) con un diametro
di un pollice. Questo sembra piuttosto piccolo per un volgare strumento da martellamento,
suggerendo che questo attrezzo fosse utilizzato per lavori leggeri o metallo morbido.
La densità del ferro in un piano centrale sezionato obliquamente è mostrata nella foto sotto.
Essa mostra che il metallo interno è molto puro,
senza bolle. Le industrie moderne non riescono
coerentemente a produrre fusione di ferro di questa
qualità.
Il centro del manico è di forma ovale e all’incirca
1"x1/2".
La foto sopra mostra che la densità è circa del 10%
più grande vicino la superficie. In questa
rappresentazione, i colori sono usati per indicare la
densità di una particolare parte. Le aree bianche sono
più dense, e le aree scure sono meno dense.
Come precedentemente affermato, un taglio con una
lima fu fatto in uno degli orli del martello nel 1934, e
ha lasciato questo lato libero alla corrosione nei
sessanta e più anni passati dalla scoperta di questo
manufatto. L’area è mostrata nella foto sotto.
Il
manico di legno sembra essere stato rotto, e
consumato e liscio dove sporgeva dalla massa
rocciosa. La foto sotto mostra il manico dalla
sommità con la testa del martello rimossa. L’area
scura nel legno è dove è stato parzialmente coperto
dal carbone.
La fine del
manico visibile attraverso la sommità del centro della testa del
martello appare segata, come mostrato nella foto sotto.
Rimangono alcuni
quesiti , ai quali si
può rispondere con
esami più
approfonditi
1) il cloro trovato
nella lega di ferro è contenuto completamente nel
martello o solo in superficie?
2) L’alta concentrazione di ossido di ferro nella roccia è
simile a quella del martello?
3) Ci sono residui di carbonio nella cavità?
4) Ci sono rapporti che affermano che la lima possa
contenere FeO. Questo ossido di ferro non si forma subito sotto le presenti condizioni ambientali.
Noi anche conosciamo evidenti punti di decomposizione per un campo geomagnetico, con una vita
media di 1400 anni.
Se il martello è veramente antico, può il forte campo magnetico aver avuto l’effetto di aiutare la
formazione di FeO?
5)Se il manufatto è veramente una struttura del periodo Cretaceo, dove dovremmo riportare la teoria
dell’evoluzione umana, considerando che ,secondo la teoria tradizionale, l’uomo non sarebbe
apparso per altri 100 milioni di anni almeno?
5) Se il manufatto è relativamente recente, questo significa che la formazione cretacea del Hensell
Sand dalla quale proveniva e nella quale era racchiuso è relativamente giovane..
Alcuni potrebbero arguire che la roccia originale e il fossile siano erosi e rilavorati, ma i fossili
rilavorati mostrano segni evidenti di logoramento. Il fossile nella massa rocciosa mostra,
inverosimilmente, dettagli fini, indicando che esso non è stato rilavorato, ma facente parte di una
formazione originale. Quindi sorgono di nuovo domande sulla teoria evoluzionistica e sulla
comparsa dell’uomo sulla terra.
L’impronta di Burdick
La Burdick Track è un’impronta umana in un calcare del Cretaceo trovata in una falda del Cross
Branch, un affluente del Paluxy River, a Glen Rose, Texas.
Essa è stata fonte di numerose controversie dovuta alla perfezione della sua forma, ma allo stesso
tempo alle sue anomalie, tanto che da alcuni è stata considerata come un lavoro d’intaglio e quindi
un falso.
Nel 1990, il direttore Carl Brough e il geologo Don Patton eseguirono ricerche estese per verificare
la sua autenticità. Sin da quando la traccia fu rimossa, molti anni fa, dal fiume, il sito originale non
venne ritrovato. Questo fu possibile in seguito a scandagliamenti effettuati da "veterani", esperti
conoscitori, del Glen Rose, i quali fornirono indizi sull’originale locazione dell’orma in questione.
Dopo molti giorni di ricerca, una falda esposta nel Cross Branch, apparve essere simile al calcare
della Burdick Track ( tinta avorio- grana fine- inclusioni di calcite cristallina).
Un tagliatore di gemme esperto tagliò un sottile strato sia dalla Burdick track che dalla falda del
Cross Branch. Esse risultarono combacianti.
Cordell VanHuse, un intagliatore esperto di Dallas, fece delle sezioni incrociate della traccia.
Tagliando attraverso la sezione del tallone scoprì le strutture
senza roccia che seguivano il contorno del tallone; la sezione
a croce dell’area delle dita mostrava chiaramente linee di
pressione che seguono il contorno delle dita. Queste traccia
non può essere stata scolpita e ancora contenere questi
lineamenti!.
La Burdick track è ampia 6 ½ pollici e lunga 14 pollici!
Questa larghezza di un’impronta non è inconsistente come
dimensione se riferita ad individui abituati a camminare a
piedi nudi. La lunghezza dell’impronta poteva indicare che
essa apparteneva a persone dal fisico imponente, alte circa 7
piedi!
Il team del Creation Evidence Museum, ha scoperto, in
seguito, circa altre 80 impronte simili, alcune affiancate ad
impronte di dinosauro, sempre nel Paluxy River!
L’impronta di Burdick, trovata molti anni fa, ne fu un fulgido
ed originario esempio.

Un'impronta di 500 milioni di anni?

La più antica impronta fossile fu trovata nel giugno 1968 da William J. Meister, un collezionista di
fossili. Quest’impronta è stata stimata antica di circa 300-600 milioni di anni.
Un sandalo che schiaccia un trilobite: è questa la prova che ci sono state precedenti civiltà sulla
terra, o visitatori da altri mondi?
Meister fece questa non comune scoperta durante una spedizione di ricerca di rocce e fossili ad
Antilope Spring, 43 miglia ad ovest di Delta, Utah.
Egli era accompagnato dalla moglie e da due figlie.La comitiva aveva già scoperto molti piccoli
fossili di trilobiti quando Meister spaccò una lastra di roccia spessa più di due pollici con il suo
martello e scoprì l’eccezionale impronta.
"la roccia si aprì come un libro " Meister ebbe modo poi di dire " su di un lato dell’impronta di un
uomo".
I trilobiti erano piccoli animali invertebrati marini, antenati dei granchi e dei gamberetti, che
fiorirono per circa 320 milioni di anni prima di incominciare ad estinguersi 280 milioni di anni fa.
Si pensa che l’essere umano sia comparso tra 1 e 2 milioni di anni fa e che abbia incominciato ad
indossare scarpe e sandali da solo qualche migliaio di anni.
Il sandalo che schiacciò il trilobite era lungo 10,5 pollici: il calcagno è leggermente impresso più
della suola, come un’impronta di scarpe umane deve essere. Meister prestò la roccia a Melvin Cook,
un professore di metallurgia dell’Università dello Utah, il quale lo avvisò che si sarebbe fatto carico
di mostrare il manufatto ai suoi colleghi geologi.
L’impossibilità di trovare geologi disposti ad esaminare l’ingombrante impronta, costrinse Meister a
pubblicare la notizia su un giornale locale,il "The desert news". In non molto tempo la notizia
divenne di diffusione nazionale.
Il 20 luglio 1968, il sito di Antilope Spring, fu esaminato da prof Clifford Burdick, un geologo di
Tucson, Arizona. Egli ben presto trovò il segno di un piede di bambino impresso in un letto di
roccia.
Burdick disse:" Il segno era di circa 6 pollici in lunghezza, con le dita estese, come se il ragazzo non
avesse mai calzato scarpe, le quali, al contrario, comprimono generalmente le dita. Queste invece
non appaiono essere molto inarcate, e il dito grande non è prominente"
Il dottor Burdick stabilì:" Su una sezione trasversale la struttura della roccia sporge su strati fini e
piani. Dove le dita pressarono nel materiale morbido, gli strati sono schiacciati verso il basso
dall’orizzontale, indicando un peso che ha pressato nel fango.."
Nell’agosto del 1968 Mr. Dean Bitter, un insegnante di salt Lake city, dichiarò di aver scoperto altre
due impronte di scarpe o sandali ad Antilope Spring. Secondo il prof Cook, nessun trilobite era
presente in quest’impronta, ma un piccolo trilobite fu scoperto vicino alla stessa roccia, indicando
che la piccola creatura marina e il viandante che girovagava con sandali ai piedi erano
contemporanei.
Un dito umano fossilizzato
Il Creation evidence Museum acquisì, a metà degli anni ’80, un dito umano fossilizzato. Esso fu
trovato da un proprietario terriero durante i lavori per la costruzione di una strada di ghiaia estratta
dalla formazione calcarea del Walnut cretaceus Formation del Commanche Peak.
Recenti progressi nelle tecniche di scansione hanno fornito alcune sbalorditive immagini
dell’interno di questo fossile. Queste immagini ed altri studi mostrano che esso è veramente un dito
umano di qualcuno rapidamente sepolto durante un catastrofico evento, molto tempo fa.
La fotografia sopra è un immagine
sorprendente che istantaneamente fa
nascere una battaglia nella nostra mente.
Una parte dice "questo è un dito!", mentre
un’altra parte dice "esso è un falso!".
La ragione di tale contraddittorio non è
difficile da capire. Esso sicuramente pare
un dito, ma noi siamo precondizionati dai
popolari "media" e "educati" a credere che
tessuti molli non possono fossilizzarsi e che
l’uomo non sarebbe ancora comparso sulla
terra quando la roccia cretacea, in cui venne
rinvenuto il presunto dito, si formò.
Incominciamo a rispondere al primo dilemma. Il tessuto molle del dito è fossilizzato e preservato
con eccezionali dettagli quando l’organismo
stesso è rapidamente sepolto subito dopo o
prima della morte. Evidenzia di ciò può essere
osservato nei ben preservati fossili di vermi
che sono stati trovati in vari paesi, e di cui la
fotografia seguente è una dimostrazione.
Sotto condizioni di rapido seppellimento, le
cellule individuali in un organismo possono
mineralizzarsi e indurirsi individualmente, preservando microscopici dettagli della pianta o animale
originale.
Come possiamo vedere all’interno di un fossile?
Ci sono due metodi.
Il primo, chiamato sezionamento, consiste nell’usare un sega sottile di diamante per tagliare
attraverso il fossile nella sezione che vogliamo studiare, poi pulire le superfici del coltello così che
le differenze nei tessuti e nei colori mostrano sopra ( 1° foto).
Quando fatto bene, questo metodo mostra dettagli interni anche molto sottili. Sfortunatamente,
questo sistema "rompe" il fossile e provoca problemi per altri tipi di test.
Il secondo sistema, molto meno distruttivo, è di usare alcune forme di radiazioni, come i raggi-X,
per penetrare la roccia e registrare su nastro le variazioni delle densità interne. Semplici tecniche di
raggi-X non possono mostrare distintamente differenze fra ossa e pietra, che tendono ad avere
densità simili. La scannerizzazione C.T. è un miglioramento permette di superare queste limitazioni
da focalizzazione su un sottile porzione del campione.
Questo è il metodo adottato per ottenere le fotografie interne del fossile presenti in questo articolo.
La mano è un magnifico insieme di leve (ossa), funi (tendini) e perni e pulegge (giunture). Essa
permette ad un lanciatore di fare un lancio di palla curvo in un preciso posto o ad un violinista di
suonare un concerto di Paganini. Alcuni di questi "macchinari" sono presenti nelle scannerizzazioni
fatte del dito fossilizzato e mostrate qui.
La veduta di lato mostra aree nere che sono interpretate come le parti interne delle ossa e del
midollo osseo. Queste aree hanno meno densità rispetto alla pietra circostante, e sono molto più
facilmente attraversabili dai raggi-X, causando un oscuramento dell’immagine. Nell’immagine sono
visibili anche aree un po’ meno oscure causate dal sezionamento.

La veduta da sopra mostra chiaramente l’area dell’unghia e della cuticola, includente il sottile arco
deve l’unghia è sotto la pelle della cuticola.

E la seconda parte della nostra battaglia mentale allora? Questo fossile è assolutamente umano nella
sua apparenza, sia dentro che fuori. Ma è stato trovato in una roccia cretacea, datata circa un
centinaio di milioni di anni fa. Questo lascia pensare a tre possibili soluzioni :1) alcuni dinosauri
avevano dita quasi umane ; 2) un mollusco preistorico con caratteristiche interne ed esterne
identiche ad un dito umano; 3) oppure gli essere umani, come pare in altre prove, erano già presenti
durante l’epoca del Cretaceo.

Il teschio di Calaveras
Nel febbraio del 1866 il signor Mattison, principale titolare della miniera di Bald Hill, vicino ad
Angels Creek, nella contea Di Calaveras rimosse un teschio dallo strato di sabbia ghiaiosa a 39
metri dalla superficie, vicino allo strato sottostante di roccia e sotto parecchi strati distiniti di
materiale vulcanico. Le eruzioni vulcaniche cominciarono in questa regione durante l’Oligocene (38
milioni di anni fa), continuarono durante il Miocene ( 25 milioni di anni fa) e terminarono nel
Pliocene (5 milioni di anni fa).Dal momento che il teschio si trovava verso il fondo degli strati di
sabbia e lava, è molto probabile che lo strato geologico dove si trovava il teschio fosse anteriore al
Pliocene.
Il teschio fu esaminato da J.D. Whitney, il geologo di Stato della California.
Il 16 luglio 1866 Whitney presentò all’Accademia delle Scienze californiana un rapporto sul teschio
di Calaveras, affermando che era stato trovato in uno strato del Pliocene, e la cosa suscitò grande
interesse in tutta l’America.
William Holmes raccolse alcune testimonianze che affermavano che il teschio non fosse un fossile
del Terziario, ma un’abile truffa.
Ma c’è un problema alla stessa ipotesi della truffa, cioè esistono molte versioni. Alcuni sostennero
che si trattava di uno scherzo di amici di mattison, altri che erano gli stessi minatori ad aver
posizionato un teschio, prelevato da un cimitero indiano, al fine di metter paura a un loro
compagno, altri affermavano che sì Mattison aveva scoperto un teschio, ma che quello presentato a
Whitney non fosse l’originale.
Holmes esaminò, conservato al Museo Peabody di Cambridge, nel Massachussets, concludendo che
" il teschio non era mai stato spezzato dal trasporto in un torrente del Terziario, non era mai venuto
dalle antiche sabbie della miniera di Mattison e che non rappresenta in nessun modo una razza di
uomini presenti nel Terziario".
D’altra parte persone come il dottor D. Hall, Ayres, il famoso geologo dell’Istituto di Ricerche
Geologiche statunitense Clarence King, il paleontologo O.C. Marsh, pionere della ricerca dei fossili
di dinosauri, affermarono in più occasioni e in diverse sedi l’autenticità del fossile, andando fra
l’altro a verificare le condizioni del luogo di ritrovamento.
Bisogna ricordare che nei depositi vicino Calaveras in più riprese venne ro ritrovati moltissimi
utensili in pietra e resti umani. Alla luce di questi fatti, come disse Sir Arthur Keith nel 1928 "la
storia del teschio di Calaveras..non può essere trascurata. E’ lo spauracchio degli studiosi dell’uomo
primitivo.. e mette a dura prova la fede di tutti gli esperti.."

Le pietre incise dagli dei


L’astronauta di Palenque. Il tesoro del dottor Cabrera: rocce aliene del Mesozoico. Visitatori dalle
Plejadi. I falsi reperti di Basilio Uchuya. Il disco genetico. Quando gli "dei" scesero in Canada: la
lastra extraterrestre di Leonardo Romano.
Palenque, Messico, ai giorni nostri. Decine di curiosi visitano il Tempio delle Iscrizioni maya,
datato 692 d.C. e scoperto nel 1949 dall’archeologo Albert Ruz Lhuillier. All’interno di questa
gigantesca piramide i turisti osservano, in un gigantesco sarcofago di pietra, sigillato da una
pesantissima lastra rettangolare finemente istoriata, le spoglie mortali del sovrano Pacal. Ai più
smaliziati non sfugge una stranezza: il disegno riprodotto sulla pietra tombale, vecchio più di un
millennio, sembra rappresentare con incredibile precisione uno dei nostri moderni razzi in volo. La
sagoma dell’ordigno è perfettamente aerodinamica, con tanto di piedini di atterraggio e getto
propulsivo alla base. Al suo interno si vede il re Pacal, posizionato come un moderno astronauta,
mentre aziona con le mani e con i piedi delle leve, e guarda dentro uno speciale oculare. Dunque,
più di mille anni fa un sovrano maya aveva viaggiato a bordo di un’astronave spaziale? Oppure la
pietra di Palenque ricorda, in maniera un po’ confusa e mitizzata, il passaggio di visitatori alieni
sulla Terra? O ancora, come sostengono gli scettici, la raffigurazione ha semplicemente un
significato simbolico del tutto terreno? A questi interrogativi non è mai
stata data una risposta definitiva anche perché, inspiegabilmente,
l’archeologia ufficiale sembra continuare ad ignorare di proposito l’enigma
delle pietre che raffigurano gli dei.

I PETROGLIFI DI ICA
Nella minuscola città di Ica, in Perù, vive un insolito personaggio, il
medico Javier Cabrera Darquea; quest’ultimo custodisce religiosamente,
nel suo museo personale, oltre 20.000 pietre di andesite di diverse forme e
proporzioni, alcune piccole e piatte e color grigio-ocra e altre pesanti sino a 200 chili. Tutte hanno
una curiosissima caratteristica, sono interamente coperte da elaboratissimi disegni preistorici che
raffigurano tecnologie perdute o sconosciute! "Ho incontrato Cabrera nel 1991 - ha dichiarato il
giornalista americano Brad Steiger - e ho esaminato le pietre trovate a Ica. Sopra di esse gli uomini
preistorici avevano disegnato degli indigeni che volavano su uno pterodattilo ed osservavano con un
cannocchiale uno stegosauro, il che mi stupiva non poco, visto che ufficialmente i dinosauri si sono
estinti molto prima della comparsa dell’uomo sulla Terra. E c’erano anche figure di animali bizzarri,
sconosciuti, e rappresentazioni dettagliate di chirurgia moderna, come un’operazione a cuore aperto
la cui conoscenza non era possibile nell’antichità; in una pietra era poi descritta nientemeno che la
deriva dei continenti... Nessun uomo preistorico poteva essere al corrente di simili informazioni sia
del passato che del futuro. Nelle pietre più grandi c’era tutta la mitologia e l’astronomia, basata su
un calendario di tredici mesi, di un popolo vissuto 230 milioni di anni fa, nell’era Mesozoica.
Questa antica popolazione discendeva da una razza extraterrestre che aveva visitato la Terra 400
milioni di anni fa. Tutto questo si ricava dallo studio delle pietre...". Per avere conferma di queste
incredibili asserzioni, Cabrera ha sottoposto alcuni reperti al geologo americano Ryan Drum, che ha
dichiarato: "Ho studiato le rocce a 30 e 60 ingrandimenti con uno microscopio elettronico e non ho
trovato, nelle incisioni, tracce di manipolazioni. Se le pietre sono genuine , allora hanno un
incredibile valore; se sono uno scherzo, per il loro numero, la mole e l’accuratezza dei dettagli
dovremmo studiare antropologicamente il loro autore...". E Joseph Blumrich, un ex-esperto della
NASA convinto che in passato la Terra sia stata visitata da alieni, ha commentato: "Sono rimasto
profondamente impressionato da ciò che ho visto. E sono molto felice di avere trovato un’evidenza
così diretta di ciò in cui credo. Non ho alcun di dubbio sull’autenticità di queste pietre". "In molte di
queste pietre - ribadisce Steiger - si vedono i progenitori dell’homo sapiens, esseri prima anfibi, poi
rettili ed infine mammiferi, comunque anteriore alle scimmie. Cabrera è convinto che questi esseri
siano stati manipolati geneticamente da una razza proveniente dalle Plejadi, che aveva una base
esplorativa su Venere. Questi alieni seguivano un ben preciso piano scientifico. Sfortunatamente le
loro creature vennero annientate dallo stesso cataclisma che ha sepolto sotto tonnellate di roccia le
pietre di Ica". "Ho raccolto 20.000 pietre- ha dichiarato Cabrera - ma ne esistono molte di più,
almeno 50.000. É necessario che si crei una commissione di studio e che il governo peruviano
istituisca un sistema di vigilanza permanente per proteggere questa ricchezza nazionale".
E SE FOSSE UNA TRUFFA COLOSSALE?
La scienza ufficiale non condivide l’entusiasmo del dottor Cabrera, ma anzi si dice sicura che le
migliaia di pietre non siano nulla di più che dei falsi che gli indigeni del posto rifilano ai turisti
creduloni. Federico Kauffmann Doig, uno dei più prestigiosi archeologi peruviani, ha commentato:
"A livello scientifico il problema delle pietre di Ica non andrebbe neppure discusso. Mi limiterò a
dire che già nel 1967 venne rintracciato uno degli autori di queste pietre: si chiama Basilio Uchuya
e ha confessato di essere l’autore delle incisioni sulle pietre laviche. Non credo che l’argomento
meriti più indagini di quante non ne siano state già fatte". E Viviano Domenici, responsabile delle
pagine scientifiche del Corriere della Sera, ha ribadito: "Gli esseri raffigurati sulle pietre fanno cose
strabilianti: trapiantano cuori, fegati e cervelli con coltellacci da cucina poco consoni al loro
altissimo livello tecnologico, ma del tutto uguali a quelli che i contadini peruviani, i falsari, usano
ogni giorno. La stessa incongruenza la si riscontra nelle cavezze che imbrigliano gli animali
fantastici, che sono identiche a quelle dei moderni asinelli. Anche nella strumentazione astronomica
gli extraterrestri di Ica rivelano poca fantasia e rimirano il cielo stellato con cannocchiali che
sembrano usciti da un film di pirati. Quanto ai dinosauri e alla deriva dei continenti, queste
immagini sono copiate di sana pianta dai libri di scuola...". Di diverso parere era lo studioso
francese Robert Charroux che, nel 1977, commentava: " Ho esaminato le pietre false incise da
Uchuya e la differenza è palese, il tratto è pesante e grossolano. Non è possibile confondere questi
disegni così maldestri con le magistrali incisioni autentiche. Vorrei sapere poi come ha fatto Basilio
a realizzare, dal 1960 al 1967, ben 11.000 pietre. Esiste poi una collezione analoga, in Colombia.
L’archeologo dilettante Jaime Gutierrez Lega ha raccolto un centinaio di piccole pietre, la più
interessante delle quali, ribattezzata il disco genetico, è larga 22 centimetri e riporta, finemente
incisa, quella che Gutierrez ritiene la struttura microscopica dei geni e dei cromosomi...".
LINEE DI NAZCA, PIETRE DI ICA
Il giacimento delle pietre di Ica si trova a Sallas ed è stato messo a nudo da un terremoto. "Molte
altre pietre - conferma lo studioso Yves Naud - arrivano da una zona ad una trentina di chilometri a
sudovest di Ica, accanto il fiume omonimo, verso Ocucaje. Le pietre vengono perlopiù trafugate da
tombe dagli indios, che le vendono a Cabrera o ai turisti. A Ocucaje non c’è famiglia contadina che
non ne conservi almeno una. E sebbene gli scettici continuino a parlare di un falso, è certo che i
graffiti sono noti almeno dal XVIIº secolo, come testimoniano i documenti dell’epoca. Se le pietre
non hanno attirato l’attenzione degli archeologi, è perché la zona è estremamente ricca di reperti
molto più preziosi ed interessanti, dai vasi Paracas alle selci lavorate. Un’eredità preistorica troppo
abbondante ha reso i peruviani indifferenti alle pietre di Ica". Cabrera è convinto che i disegni di Ica
siano collegati alle linee di Nazca. Sia sulle rocce di Ocucaje che nella pampa andina
comparirebbero difatti i medesimi disegni. A detta di Cabrera, i tracciati andini sarebbero stati
ricoperti, in passato, da un materiale sconosciuto, superconduttore e resistente alle alte temperature,
che permetteva alle navi spaziali dei Plejadiani di atterrare in caduta libera senza alcun danno.
Conferma a queste opinabili teorie venne nel maggio del 1975, quando il geologo Klaus Dikudt
dell’Università di Lima disse di avere rintracciato, lungo le linee, " frammenti di un materiale scuro,
traslucido, infrangibile, leggero ma estremamente duro, tanto da rigare il quarzo. Il materiale
analizzato aveva reagito in modo anomalo a tutti gli esami, ed era rimasto intatto perfino sottoposto
ad una temperatura di 4000 gradi. Non si trattava di frammenti di meteoriti. La composizione e la
provenienza di questo materiale resta ignota...
LA PLACCA METALLICA DI EDMONTON
Il mistero delle pietre incise dagli "dei", o quanto meno dai loro discendenti, resta irrisolto. Sia la
simbologia presente sulle pietre di Ica, vere o false che siano, sia i complessi glifi maya che
circondano la lastra tombale di Palenque, solo parzialmente decifrati, sembrano ricordarci un
passato remoto in cui la Terra, forse, era meta di visite da altrove. Indubbiamente è molto facile e
comodo negare questa interpretazione, come frutto di un’accesa fantasia, ma negare non significa
spiegare. Per questo motivo, dunque, gli enigmi di Ica e Palenque non sono mai stato risolti. Storie
di pretese comunicazioni scritte o disegnate lasciate da qualcuno che, nella notte dei tempi, ha
cercato di fornire una testimonianza scientifica agli uomini del futuro ricorrono ripetutamente nelle
cronache documentate di questa umanità e non appartengono soltanto ad un remoto passato attorno
al quale è possibile speculare senza alcun freno. Il 4 novembre 1967 Leonardo Romano, un nostro
connazionale che si trovava a Edmonton, in Canada, vide dalla finestra di casa sua un globo
luminoso atterrare sul campo antistante. Accanto ad una porzione di terreno erboso vistosamente
bruciata, Romano trovò una minuscola lastra metallica lunga 17 centimetri e spessa solo un
millimetro, coperta finemente da una serie di lettere non appartenenti ad alcun alfabeto terrestre
conosciuto. Questo reperto, che qualche migliaio di anni fa sarebbe stato considerato un dono degli
dei e per questo sarebbe stato ricopiato all’infinito, come le pietre di Ica, è stato ignorato, ancora
una volta, dalla scienza ufficiale. E pertanto ancora una volta il mistero, forzatamente, permane.

ENIGMI INSOLUTI:

Deformazioni Craniche
Anomalie craniche: analisi ed ipotesi

Genoma Alieno? Prospettive Storiche

Culti Carago e Clipeologia


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Deformazioni craniche: antichi culti per antiche razze?

Chi segue con simpatia e interesse le pagine di questo sito ha potuto osservare come la tematica di
una possibile genesi dell’uomo alternativa alla predominante teoria dell’evoluzione darwiniana, si
sviluppi attraverso l’esame di tutte quelle prove che sembrano non tanto indicare una nuova matrice
per il genere umano, aliena o meno, ma soprattutto tali da destare più di un interrogativo. Credo che
sia importante non tanto affermare le proprie verità, che in fin dei conti sono sempre soggettive, ma
soprattutto informare la massa di alcuni aspetti che potremmo definire “controcorrente” rispetto al
solito indottrinamento scientifico e storico cui siamo assuefatti sin dalla nostra infanzia scolastica.
In altri articoli ( alcuni dello stesso autore di questo) presenti in questo sito abbiamo cercato di far
comprendere come miti quali come quelli della creazione o come quello del diluvio ( per
antonomasia i il “mito” in assoluto) siano per altro non soggetti a particolari restrizioni geografiche
o particolar retaggio di una sola cultura, ma bensì facciano parte delle “memorie” dei popoli di tutto
il mondo, senza distinzione di razze o confini geografici (mari, monti) che ne impediscano la
diffusione. Conoscenze come quelle astronomiche o agricole paiono essersi diffuse equamente in
tutto il nostro pianeta, componendo le basi per la nascita e lo sviluppo di antiche grandi civiltà
(Sumeri, Egizi, Maya, Incas, Aztechi etc), e in alcuni casi, come per le cognizioni in campo
agricolo, paiono essersi diffuse contemporaneamente, in modo tale da far sembrare l’intera faccenda
non un semplice caso di casualità.
Dai sumeri agli egizi,dai maya agli aztechi per finire ai popoli della Polinesia e ai popoli
nordamericani, le leggende di antichi semi-dei civilizzatori sembrano essersi diffuse equamente per
tutto il globo, conservando, a dispetto di evidenti differenze antropologiche, gli stessi connotati per
tutte queste culture: pelle bianca, capelli biondi, barba fluente, provenienza dal mare, ritorno al
mare, superstiti di un’antica grande civiltà.
Costruzioni megalitiche e forme abbastanza simili fra loro ( aventi quella piramidale come
soggetto) sembrano appannaggio di tutte le grandi culture, e ancora oggi sono oggetto di meraviglie
per tutti noi, ancor incapaci di spiegarci come e perché blocchi pesanti tonnellate siano stati
spostati, collocati e manovrati con tanta perizia, senza la dovuta conoscenza tecnologica di cui ci
avvaliamo noi, in questo secolo.
Se tutto questo non basta ancora a scalzare l’insieme di questi fatti dalla semplice allusione, tanto
cara agli scienziati dogmatici, di una pura e semplice “coincidenza culturale” allora vorrei
affrontare un nuovo argomento che ancora una volta ci pone dinanzi ad alcuni interrogativi: alcuni
popoli, dislocati in varie parti del mondo, hanno avuto, in passato, una stessa matrice cognitiva, una
stessa sorgente di conoscenza? Un’antica razza, da noi antropologicamente diversa, ha regnato e
diffuso il suo sapere per tutta la Terra, in un’epoca oramai dimenticata? E se questa razza è esistita
davvero, era di natura terrestre?
In cosa consiste questo ulteriore rebus storico è presto detto: dall’Egitto alla piana di Merida in
Perù, dai templi maltesi di Hal Saflieni passando per le rappresentazioni statuarie dell’Isola di
Pasqua, in tutto il mondo antico pare vivo il ricordo di un’antica razza dalla patologia cranica
abbastanza anomale.
In varie zone del mondo sono stati trovati teschi anomali caratterizzati da forti allungamenti della
calotta cranica, dovuti,a detta degli studiosi, a sistematici bendaggi e stoccaggi, sin dalla tenera età
dell’infanzia, a cui venivano sottoposti gli antichi possessori di questi crani, il tutto a scopo rituale,
di iniziazione, matrimoni, riti solari o punizioni per crimini.
Naturalmente in tutti i casi in cui tali crani siano stati deformati artificialmente il tutto viene
facilmente spiegato con le cause sopra citate, ma è sempre da precisare che comunque erano
pratiche che comportavano dolori terribili a chi le subiva, provocando a volte, sicuramente ,anche
danni di natura cerebrale e motoria.
Allora viene spontanea una domanda :perché si adottavano tali usanze? E perché tale usanza pare
diffusa in tutto il mondo? E’ anche questa una coincidenza culturale?
Mode e tendenze oggigiorno si susseguono a ritmo vertiginoso, grazie ai mezzi di interscambiabilità
comunicativa di cui possiamo disporre, quindi mode come il piercing, il tatuaggio, i pantaloni a
zampa di elefante, i capelli e le basette lunghe e quant’altro ancora, rapidamente hanno
caratterizzato determinate epoche e altrettanto rapidamente sono stati sostituiti da nuovi elementi.
Se però questo discorso di accettazione di massa di una nuova tendenza può valere per la società di
oggi, favorita dai grandi mezzi di comunicazione, il discorso diventa più arduo quanto, guardando
indietro al passato e retrodatando l’orologio del tempo di millenni di anni, osserviamo che anche
l’epoche antiche pare non siano state immuni da alcune “tendenze”.
Una di queste è, per l’appunto, la deformazione cranica, i cui probabili scopi abbiamo citato prima.
Crani deformati artificialmente, in modo tale da presentare evidenti deformazioni di allungamento
della calotta cranica, sono stati rinvenuti ad Ica e Merida, in Perù, ma è altresì evidente che anche
presso gli egizi, al tempo del faraone “eretico” Akhenaton, fosse di uso comune, mentre i crani
allungati ritrovati nel sito megalitico di Hal Saflieni, in Malta, meritano un discorso a parte. In
questo elenco potremmo citare persino i famosi “moai” dell’Isola di Pasqua, che pur essendo solo
rappresentazioni statuarie, mostrano chiaramente teste dalla strana conformazione cranica.

Figura 1:un chiaro esempio di allungamento cranico in un teschio trovato a Paracas.


Crani anomali vennero ritrovati in Perù dall’archeologo Henry Shapiro, mentre crani che
dimostrano una insospettabile capacità cranica sono stati ritrovati sia in kenya che a Merida.

Figura 2: uno dei crani trovati da Shapiro e conservati al museo Archeologico di Lima, in Perù.

Figura 3: uno dei crani ritrovati a Merida in Perù: nel disegno alla sua sx la comparazione con un
cranio moderno.
Ora dobbiamo fare alcune considerazioni partendo dal presupposto che tali crani siano deformati
artificialmente, in modo tale da rendere ancora più chiaro il paragone fatto dall’autore con le
“tendenze moderne”.
L’usanza di allungare il cranio, anche se per scopi che possono variare dal religioso al punitivo,
essenzialmente rappresenta, così come il piercing e altre tendenze odierne, una “moda”, un modo di
essere o rappresentare. E’ ben risaputo, d’altronde, che per nascere una moda c’è bisogno altresì di
un “modello”, cioè di un qualsiasi spunto iniziale che dia vita a tale tendenza. Ora,quale è stato il
modello che ha spinto gli antichi popoli della terra ad adottare una pratica tanto dolorosa, e ben
osservando, anche alquanto antiestetica, come la deformazione cranica? E come ha fatto questo
modello a diffondersi nei quattro angoli del globo, senza poter, a quanto pare, tali popoli aver alcun
scambio interculturale fra loro?
E’ possibile che i popoli antichi cercassero, con tale usanza di rappresentare un’antica razza
dominante su questo pianeta?
E se questa razza è effettivamente esistita era di matrice terrestre?
Calma, cerchiamo di rispondere con ordine.
Benché la scienza ortodossa tenda a spiegare la presenza di questi teschi allungati come il frutto di
antiche pratiche tribali atte a deformare la calotta cranica, non sempre tale spiegazione sembra
essere convincente, almeno non quanto ci si trova dinanzi a crani che di umano hanno ben poco o
che comunque non recano su di essi le tracce che eventuali deformazioni artificiali lascerebbero.
Durante il suo viaggio intorno al mondo, Robert Connolly ebbe la possibilità di soggiornare nelle
località di Ica (Perù) e Merida (Messico), dove per caso gli si presentarono dinanzi numerosi crani
deformi e di enormi dimensioni. Quando alcune fotografie dei crani furono rese pubbliche, la
maggior parte degli studiosi ritenne che essi fossero stati ottenuti mediante una fasciatura della
testa, particolarmente in voga nel continente africano e sudamericano. Questa teoria però non è
convincente, in quanto la capacità di un cranio rimane invariata prima e dopo la deformazione,
mentre i crani in questione presentano una capacità maggiore rispetto a quella di un cranio normale.
I crani sembrerebbero piuttosto appartenere a specie completamente sconosciute, lievemente simili
al genere "homo". I dati su questi reperti non sono completi e non si conosce con esattezza la loro
età.Naturalmente potremmo considerare l’ipotesi che si tratti solo di una mostruosa deformazione,
ma l’insistenza con cui vengono ritrovati questi crani e la peculiarità di alcune rappresentazioni
pittografiche in cui sono rappresentati, pare che dimostrino l’ effettiva esistenza di una particolare
razza.
Infatti, passando dalle americhe all’Antico Egitto e visionando i numerosi affreschi che
rappresentano il faraone eretico Akhenaton e la sua famiglia, vediamo che tale deformazione è
ampiamente messa in risalto, e sicuramente non riguardante solo un possibile copricapo.
Figura 4: ecco una rappresentazione del faraone Akhenaton con la moglie Nefertari e le sue figlie:
da osservare i crani dell bambine e dei genitori.
Il mistero si fa più fitto allorquando possiamo notare che lo stesso Akhenaton pare possegga altri
requisiti fisici alquanto “strani”.
Il modo in cui è rappresentato mostra, sicuramente , tratti femminili, quali ampio bacino, cosce
tornite e caviglie sottili, seni floridi. Naturalmente tali “deformazioni” potrebbero essere spiegate
con una rara malattia deturpante nota come “sindrome di Frohilich”. Questa malattia è causata da un
danno alla ghiandola pituitaria e porta alla sterilità.Ma qui sorge un dubbio: avendo questa malattia
un decorso dall’infanzia non si spiega come mai lo stesso Akhenaton abbia avuto ben sei figlie,
denotando quindi un più che accettabile andamento sessuale; d’altronde,le stesse raffigurazioni
delle figlie di Akhenaton, con l’invariabile calotta cranica allungata, paiono essere la prova
inconfutabile che fossero sue figlie naturali.
Siccome la deformazione cranica artificiale porta invariabilmente a grossi disturbi dell’apparato
motorio e psichico è molto improbabile che lo stesso Akhenaton ne fosse stato oggetto dall’infanzia,
poiché di certo ne avrebbe precluso una efficienza tale da permettergli di essere un pur valente
faraone. D’altronde se lo stesso Akhenaton fosse stato colpito da giovane dalla malattia sopra citata,
sarebbe stato sì possibile una deformazione cranica (maturata in giovane età prima che l’ossatura si
indurisse) grazie ad un accumulo nel cervello di fluidi, accumulo che però, come nel caso di una
deformazione voluta ad arte, avrebbero creato grossi sconquassi nell’equilibrio mentale e motorio
della persona.
La stessa regina Nefertiti, moglie di Akhenaton, viene rappresentata col collo lunghissimo, le labbra
carnose e il cranio enorme e la mascella sporgente. Potremmo anche considerare queste
rappresentazioni come semplici iconografie religiose , atte a mostrare attributi divini (ma niente
affatto veritieri) dei sposi reali. Potremmo anche spiegare l’esistenza di queste particolari
raffigurazioni considerando una realtà androgina dello stesso faraone, e il suo voler attribuirla ad
una bivalenza sessuale del suo dio, Aton, il quale era per l’appunto uomo e donna, madre e padre al
contempo. Questo potrebbe anche spiegare perché dopo millenni di politeismo, Akhenaton compia
questa rivoluzione religiosa ponendo come unico Dio, Aton, il Disco del Sole. Anche il figlio di
Akhenaton , il celeberrimo Tuthankhamon, (anche se su questa paternità vi è più di un dubbio)
mostra questa particolarità cranica. Questo è stupefacente se pensiamo che l’immagine del più
celebre faraone che noi conosciamo è quella che ci viene data dalla famosa maschera in oro che
venne ritrovata nel sepolcro. Ma la mummia vera del faraone-bambino mostrava un volto molto
diverso e dal cranio dolicocefalo, quindi l’opinione più diffusa, dato anche alcune incongruenze
notate sulla maschera, è che la stessa maschera fosse stata adattata, in fretta, al sarcofago reale, ma,
di fatto non appartenente allo stesso Tuthankhamon!
Anche il noto Emery, egittologo, trovò a Saqquara alcuni crani dalle evidenti
deformazioni;oltretutto gli scheletri a cui appartenevano tali crani, dopo un attento esame,
mostrarono la presenza di capelli chiari ed un’altezza superiore alla norma. Lo stesso studioso
associò tali individui al culto popolare degli Shemsu-Hor, i mitici primi regnanti semi-dei
dell’Egitto, nelle epoche pre-dinastiche. Una razza che, forse, in seguito, incominciò ad accoppiarsi
con le donne del ceppo umano a noi simile, finendo, nel giro di alcune generazioni, a perdere quel
patrimonio genetico peculiare della loro stirpe (cranio allungato, altezza superiore alla norma,
capelli chiari etc) ed assimilando sempre più il DNA umano. Forse erano loro i mitici giganti
Nephilim che si unirono alle donne dell’uomo, come cita la Bibbia. Forse dalla loro unione con
alcune donne del Cro-Magnon o di un’altra primitiva razza umana, è nato l’insieme di caratteri
genetici che hanno dato vita alla nostra specie?
Domande difficili da rispondere ma altamente intriganti.

Figura 5: una rappresentazione di Akhenaton da cui si possono facilemten denotare gli attributi
femminili del suo corpo.
Oppure Akhenathon, Tuthankhamon e tutte le altre persone a cui appartenevano questi crani e le
altre caratteristiche fisiche così particolari potrebbero essere alcuni dei pochi discendenti di
un’antica razza di eletti, persone che avevano effettivamente marcate differenze fisiche, rispetto
agli altri uomini del tempo e che provenivano da un misterioso luogo di culto antico: Hal Saflieni,in
Malta.
E’ proprio in Malta, nell’ipogeo megalitico di Hal Saflieni (datato molto più antico delle Piramidi
egizie di Giza, circa tra il 4100 e il 2100 a.C.) che vennero rinvenuti, anni fa, alcuni teschi dalle
strane anomalie craniche.
Alcuni di questi crani, facilmente distinguibili da quelli allungati artificialmente, avevano una
caratteristica peculiare: la mancanza di quella che viene chiamata “sutura mediana”, fattore che
provocò “naturalmente “ l’allungamento del cranio nella zona occipitale. Di fatto , l’usanza
attraverso bendaggi stretti di schiacciare le ossa superiori del cranio, fa sì che esse restano
permanentemente separate creando un “avvallamento dolce” sulla sommità del cranio. Tra l’altro, la
mancanza di questa sutura mediana impedisce al cervello di espandersi uniformemente , ma , anzi,
di lo costringe ad espandersi nella zona occipitale, alterando di conseguenza la conformazione
cranica. Questa marcata dolicocefalia naturale in questi elementi faceva il paio con teschi, di età
più recenti che altresì portavano chiari segni di intervento artificiale sui crani, protrattisi forse
dall’infanzia. Chi era questa misteriosa razza dal cranio deforme? Non è possibile dirlo, quello che
è sicuro che col trascorrere delle epoche, i successivi abitanti di Malta sentirono il bisogno di
rappresentare tali elementi e, a costo di stoiche martirizzazioni del loro corpo, iniziarono a
deformare i crani dei loro figli, così come successe in Egitto e in altre parti del mondo, a
imprimitura memoria.
A circa 170 km da Chihuahua, nel Messico settentrionale, verso la fine degli anni’30, una ragazzina
americana, in gita con i genitori, trovò uno scheletro completo avvinghiato ad un altro scheletro,
all’apparenza terribilmente deforme. Mentre il primo scheletro era chiaramente umano,il teschio di
questo secondo individuo presentava particolari morfologici che non possono essere del tutto
definiti difetti genetici, ma nemmeno deformazioni congenite o indotte. La capacità celebrale è di
circa 200 cm cubi maggiore rispetto alla norma. Il teschio è inoltre leggero e ciò fa pensare ad una
diversa costituzione delle ossa che lo compongono. Una TAC, effettuata recentemente mostra che
nessuna delle suture del cranio si è saldata nella crescita, come avviene nelle deformità congenite, e
il teschio possiede cavità orbitali più piccole a dispetto di cavità uditive maggiori rispetto ad un
essere umano.La dentizione, studiata attraverso quello che rimane della mandibola, ha fatto
propendere per la tesi che l’individuo in questione addirittura potesse usufruire di 3 dentizioni
nell’arco della sua vita (l’essere umano passa solo 2 fasi di dentizione che vanno dalla primaria alla
secondaria che comincia normalmente verso i 6 anni) dato che il molare presentava tre radici.
La tradizione popolare del Messico parla di dei scesi dal cielo molti secoli prima portando agli
abitanti locali le loro conoscenze in tema di matematica, di astronomia e del modo migliore di
vivere in sintonia con la natura. Questi dei si unirono alle donne umane e prima di lasciare la terra
promisero di ritornare, un giorno. Forse i due scheletri trovati appartenevano uno ad una mamma
umana, ingravidata dal dio celeste, e l’altro al suo piccolo, in un patetico abbraccio in una sorta di
omicidio-suicidio, al fine di proteggersi da qualcosa o qualcuno? Difficile da dirlo; come per i
fantomatici crani allungati sopra discussi, di certo c’è che qualcosa, qualcuno, ha spinto, ad un certo
punto del suo cammino storico, l’uomo a rappresentare su se stesso, a costo di dure costrizioni
fisiche, una razza di cui noi non siamo a conoscenza. Parlare di coincidenza culturale mi pare
francamente un arrampicarsi sullo specchio, il problema è solo nel ritrovare e classificare il
“modello”, evitando facili insabbiamenti, che precludono, di fatto, la conoscenza aperta di questa
tematica.
Probabilmente questi individui dalle caratteristiche craniche anomale appartenevano ad una razza
altamente sviluppata, non necessariamente di natura aliena, che, entrata in contatto con i nostri
primitivi progenitori, aveva assunto un ruolo predominante nelle civiltà all’epoca ancora
preistoriche, diventando, grazie alle loro immense conoscenze, la guida dei vari popoli con cui
entravano in contatto, assumendone il controllo religioso e politico e diventando ben presto dei
“semi-dei”. Questo antico ceppo si diffuse dal Medio Oriente all’Egitto, sino all’Asia e alle
Americhe e si mescolò, tramite accoppiamenti sessuali, alla nostra primogenia, perdendo così in un
certo lasso di tempo queste proprie caratteristiche. Forse Akhenathon fù uno degli ultimi suoi diretti
discendenti e cercò di rifondare un antico culto proprio di questa razza, dando vita alla rivoluzione
religiosa più nota nella storia antica prima di Cristo. Ecco che un’altra volta il cerchio della storia
unendosi a quello del mito si richiude su se stesso: i teschi allungati, i semi-dei egizi (Shemsu-Hor)
o quello mesoamericani ( i Figli delle Stelle), i Nommo sumeri e i Nephilim ebraici, tutto in un
unico crogiuolo.
Ancora una volta il mito potrebbe essere solo una lontana, fantastica, inaccettabile (per la scienza)
verità.
Lascio decidere a chi avrà avuto la pazienza di seguirmi sino a quest’ultimo rigo.

Anomalie Craniche: analisi ed ipotesi

Esistono nei cataloghi di anatomia umana e di antropologia


nonche’ nell’ambito dell’archeologia di frontiera
descrizioni di ossa,
specialmente craniali,
che differiscono notevolmente dalla norma .
Per alcune di esse si e’ fatto richiamo
alla vastissima patologia dello scheletro umano,
per altre alla pratica della deformazione rituale,
come per i piedi delle geishe, in Giappone, …

.… o per la fasciatura rituale del cranio dei neonati per favorirne lo sviluppo secondo canoni estetici
e religiosi rispetto ad un modello che non e’ stato ancora definito precisamente ma sicuramente
associato ad un grande cranio allungato o dolicocefalico.
Quest’ultimo tipo di pratica sembrerebbe diffusa in molti luoghi della Terra anche molto lontani fra
loro ed in merito ritengo che ci sia un certo rischio nella deformazione sostanziale di un cranio
infantile mediante la “fasciatura” cosiddetta rituale.
(Figura 6:un chiaro esempio di allungamento cranico in un teschio trovato a Paracas)

La mia obbiezione sorge constatando che e’ necessario sia esercitare una discreta pressione esterna
sul segmento osseo per ottenere la deformazione sia mantenerla per un lungo periodo di tempo,
probabilmente degli anni.

Tutti conosciamo la delicatezza della cute di un bimbo o ancor piu’ di un neonato; questo tipo di
pressioni applicate al cuoio capelluto per deformare il tavolato osseo sottostante provocherebbe,
come conseguenza, uno stato ischemico cronico locale della cute con l’insorgenza di una piaga in
tutto simile a quelle da decubito.

Questo tipo di lesioni sarebbero state molto rischiose per la vita del neonato poiché avrebbero
causato un’infezione locale e delle delicatissime strutture vicine, come l’encefalo o le meningi,
difficilmente risolvibile per la presumibile indisponibilita’ di antibiotici per curare l’infezione
stessa.
Per rendere verosimile una tale teoria si dovrebbe ipotizzare che questo tipo di pratica prevedesse il
sacrificio della salute di un certo numero di bambini per ottenerne alcuni con la testa molto
allungata.
Per tale ragione ritengo che tale pratica non fosse molto diffusa e sono ragionevolmente propenso
anche a ipotizzare l’esistenza, in passato, di un raro tipo di uomo che avesse un cranio piu’
allungato e capiente dei suoi coinquilini terrestri di tipo sapiens.

In quest’ottica recentemente il dott. Forgione, direttore del mensile Hera, ha pubblicato un


bellissimo articolo sulla scoperta di alcuni crani anomali nelle cantine del museo Antropologico di
Malta.
Di essi e in particolare di quello mostrato nelle foto, viene subito notata la forma molto allungata e
le dimensioni maggiori del cranio umano normale.

Altra anomalia e’ data dalla apparente assenza della scissura cranica sagittale. Il fenomeno potrebbe
essere associato a vari tipi di patologia delle ossa del cranio, in particolare alla scafocefalia. Nella
tabella schematica riportata nella pagina seguente si possono vedere un cranio normale, del quale
vengono indicate le ossa e le suture e crani che evidenziano alcune patologie.

Rimane il dubbio sulla apparente armonicita’ anatomica dei reperti e ritengo che una piu’ attenta
analisi di questi crani potrebbe essere utile per indicare l’origine di tali anomalie.

Piu’ vicini alla possibilita’ di un “altro” tipo di uomo sono i reperti di Merida e Ica con il
ritrovamento di alcuni crani decisamente anomali e studiati magistralmente dai professori Robert
Connolly e Lumir Janku.

Tali reperti sono stati e sono oggetto di una furiosa bagarre scientifica e mostrano crani anomali per
la loro forma e per la capacita’ volumetrica della scatola cranica.

Alcuni ricercatori ipotizzano che la morfologia di questi crani sia da mettere in relazione alla
famosa fasciatura rituale.

Personalmente tendo a ripudiare tale ipotesi; la fasciatura rituale , se riesce, determina una
deformazione del cranio in alcuni suoi diametri, mantenendo pero’ inalterato il rapporto fra essi in
relazione al volume della scatola cranica. Insomma la fasciatura rituale deforma il cranio ma non ne
aumenta la capacita’ volumetrica.
Questi crani potevano ospitare cervelli fino a 2000 ml e oltre, sono
appartenuti a esemplari maturi, sani, di persone divenute adulte e
decedute per ragioni apparentemente naturali.
Mediante i potentissimi mezzi offerti dai programmi di ritocco fotografico e morphing, disponibili
attualmente, ho effettuato una ricostruzione delle fattezze del viso e della testa di uno di questi
esemplari di uomo che verosimilmente tanto hanno influenzato il concetto estetico dell’antichita’
per cio’ che riguarda l’aspetto del viso umano.

L’esperimento e’ stato eseguito modificando la forma della testa di una sapiens secondo le
proporzioni craniche di uno dei reperti in oggetto, raffigurato in basso a sinistra.Il risultato ottenuto
e’ molto interessante.

Si segnala la presenza di grandi occhi, risultato della maggiore ampiezza del forame orbitario di
quei crani, una fronte sfuggente che si prolunga in un naso piu’ lungo, il mento piu’ prominente per
la presenza di una mascella piu’ sviluppata e cosi’ via. Tutto e’ stato rapportato in modo preciso alla
morfologia dei crani in oggetto.

L’insieme e’ straordinariamente armonico e una simile creatura, a meno che non presentasse una
cute verde e squamosa, sarebbe stata sicuramente reputata bella o perlomeno interessante anche al
giorno d’oggi.
Il pensiero va alle teste di principesse del periodo “ amarniano “ della storia dell’antico Egitto.
Ma ancor piu’ interessante e’ il raffronto iconografico con le fattezze del faraone Akhenaton della
XVIII dinastia.
(Figura 7: uno dei crani trovati da Shapiro e conservati al museo Archeologico di Lima, in Perù)

In esse sembra sicuramente lecito riconoscere le fattezze del modello elettronico creato sulle
dimensioni dei crani peruviani esposto nella figura di questo articolo.
Stessa fronte sfuggente , stesso cranio allungato e piu’ voluminoso che di norma.
Akhenaton e’ stato il nonno di Tutankhamon e anche in esso e’ possibile riconoscere questi tratti
somatici, anche se molto mitigati, in alcune raffigurazioni in pietra. Cosa nascondevano sotto le
sontuose tiare questi formidabili uomini?

Uomini che hanno sovvertito l’ordine religioso del tempo, cambiando la sede della capitale,
riconoscendo e imponendo il monoteismo.
Nascondevano forse un cranio anomalo? E perche’ l’iconografia classica dell’antico Egitto mostra
re e sacerdoti con questi copricapo che probabilmente mimavano un cranio anomalo come segno di
regalita’ o superiorita’ di casta o sacerdozio.
E perche’ le donne si truccavano gli occhi allungandone e ingrandendone la forma ?
Una limitata e obbligatoriamente superficiale analisi comparativa, da me effettuata, con la
morfologia del cranio umano comune e la morfologia del cranio di Tutankhamon ha messo in
evidenza alcune verosimili anomalie.

1) non e’ possibile evidenziare con certezza la presenza della Sella Turcica che, nell’uomo normale,
e’ una entita’ anatomica della superficie interna del cranio, una sorta di nicchia indovata nelle ossa
del massiccio facciale e che serve a contenere la ghiandola ipofisaria e probabilmente a proteggerla
da traumatismi.

Nella patologia umana un tale fenomeno prevede una origine malformativa o la presenza di un
tumore ipofisario che ingrandendosi progressivamente in questo spazio ne erode le pareti
slargandole fino alla loro scomparsa. Questo e’ un segno radiologico sicuro di neoplasia ipofisaria.
Nel cranio di Tutankhamon e’ abbastanza visibile tale anomalia e sarebbe interessante poter
verificare se tale aspetto e’ stato segnalato nella letteratura scientifica. Il tumore ipofisario piu’
comune e’ l’adenoma che e’ un tumore benigno generalmente associato a disfunzioni ormonali gravi
che prevedono anche l’Acromegalia che consiste , fra l’altro, in un allungamento delle ossa piatte e
loro ispessimento come la mascella che diviene ipertrofica o l’ispessimento delle ossa della volta
cranica. In questo RX tali anomalie non sono evidenti e lasciano aperto il campo alle ipotesi.
Altra anomalia riscontrata in questo RX e’ una accentuata dolicocefalia, cranio allungato in senso
anteroposteriore, senza diminuzione dei restanti diametri cranici.La conseguenza e’ un aumento del
volume cranico fino a 1600-1750 ml contro i 1300-1400 del cranio umano normale. Escludendo per
ragioni di spazio, ma rimandando l’argomento in un secondo eventuale articolo, l’esistenza di crani
o scheletri completi che suggeriscono una loro origine ancora piu’ misteriosa, concluderei facendo
alcune considerazioni personali.

1) e’ possibile che in passato siano coesistiti sulla terra due tipi di uomini, l’Homo Sapiens
Sapiens e l’uomo macrocefalico.

2) All’uomo macrocefalico e’ stata attribuita una natura superiore e probabilmente benevola,


venerata e riprodotta nei tratti somatici, attraverso l’abbigliamento e la deformazione rituale del
cranio in quei soggetti che piu’ rappresentavano l’autorita’ e il sacro.

3) Anche attualmente nelle gerarchie piu’ elevate e’ d’uso indossare copricapo che mimano
questo aspetto anatomico come a voler continuare l’associazione tra autorita’ benevola e guida
spirituale e la presenza di una testa grande e allungata.

4) E’ possibile che questi antichissimi e scomparsi esseri siano stati gli ultimi di una grande razza
decaduta e probabilmente cultural-mente molto avanzata, una razza caratterizzata da un alto senso
morale che li ha spinti a governare e a consigliare, fino alla loro fine, l’umanità’ primitiva di quei
tempi e, in tale ottica, ad indirizzarla verso il progresso.

5) Potrebbe essere verosimile la possibilita’ di incrocio di tali esseri con i Sapiens con, come
conseguenza, una rarefazione dei tratti somatici piu’ appariscenti del loro volto con il passare delle
generazioni, con un meccanismo genetico puramente mendeliano.

Rimane aperto il campo delle ipotesi sulla loro origine e sulle vicende che li hanno portati ad abitare
il nostro pianeta, a decadere e ad estinguersi nel lontanissimo passato appartenuto al primo regno
degli shemsu hor o al mitico tempo di Tubalkhain, Thoth-Ermete o …

Genoma alieno? Prospettiva degli antichi miti della creazione umana

Nel considerare la tematica Ufo si potrebbe rischiare, molto facilmente, di cadere nel ridicolo,
considerando solo le supposizioni, e non dati di fatto.Si può discutere all’infinito di tematiche legate
all’ufologia come l’esistenza della famosa aerea segreta degli Usa, destinata, a detta di alcuni, a
studiare reperti di alieni e dischi volanti, conosciuta col famoso nome di Area 51; o del famoso e
presunto UFO-crash di Roswell, o dei vari fenomeni di rapimento (abduction) o di mutilazioni
animali; oppure di zone particolarmente a rischio come il Triangolo delle Bermuda, o dei contattisti
e dei loro alter ego, gli uomini in nero.
Naturalmente il tutto lo si farebbe con più o meno veritiere prove fotografiche e video,
testimonianze personali, avvistamenti visivi, documenti dalla dubbia provenienza: il tutto
accompagnato dal sorriso scettico e denigratorio di coloro che non credono all’esistenza di tale
problematica, o, quanto meno, ne negano l’esistenza a priori, tanto per far i bastian contrari.
Abbiamo già detto, nel capitolo precedente che l’ interesse ufologico si sviluppò, a partire dal 1947,
prima con l’avvistamento di Kenneth Arnold e poi col presunto Ufo-crash, di Roswell.
Grazie a ciò, nei primi anni ’50, incominciò a fiorire una certa letteratura, che affrontava un nuovo
tema, detto “paleoastronautica”, grazie ad autori dalle diverse estrazioni culturali come Leslie,
Jessup (morirà misteriosamente suicida qualche anno dopo), Williamson, dove vengono messe in
discussione tematiche di vario genere, dalla storia all’archeologia, dalla religione all’antropologia,
sino a scomodare persino le dottrine esoteriche, rivalutando tesi ormai ritenute superate, come
quelle di Charles Fort, il primo vero indagatore dei fatti misteriosi. Infatti, Fort, col suo libro dal
titolo “Il libro dei dannati” (1919), dove racchiudeva un incredibile campionario di fatti misteriosi
realmente accaduti e sufficientemente documentati, per primo ipotizzò, deriso dall’opinione
pubblica, l’intervento nella nostra creazione e nell’ordine pubblico della nostra storia, d’intelligenze
extraterrestri.
Nel 1953 la famosa commissione Robertson decise quale atteggiamento si sarebbe dovuto tenere
sulla questione UFO, non solo negli USA, ma in tutto il mondo. Dal momento che gli UFO non
rappresentavano una minaccia, non c’era bisogno di rimettere in discussioni le leggi scientifiche
conosciute. Per ottenere ciò c’era bisogno di un sistematico discredito atto ad arginare l’interesse
sempre più crescente: un modo di fare che prese il nome di “debunking”.
Il vasto pubblico, meravigliato e incuriosito dalle rivelazioni fornite dai fautori della
paleoastronautica, e insospettito sempre di più da sistemi silenziatori, sempre messi in primo piano
da ufologi, finisce per appassionarsi sempre più alla tematica ufologia e a coltivare sempre più una
cultura del sospetto, del cosiddetto cover-up.Esponenzialmente cresce sempre di più la volontà di
conoscenza e la richiesta di nuove notizie eclatanti. Ed è qui che nasce lo sbaglio di alcuni ufologi e
autori letterari: al fine di sostenere cose “impossibili” per la scienza ufficiale, vengono inventate e
scritte altre ancora più impossibili, talmente facili da confutare e da dimostrare come assolutamente
false, da indurre, in breve tempo, un processo inverso di demonizzazione del contesto ufologico e la
nascita, verso tale tematica, di uno scetticismo sempre più dilagante, delegittimando così il lavoro di
tanti ottimi ricercatori.
Quindi , nel corso degli anni, il discredito maggiore riguardo l’esistenza o meno di alieni e dischi
volanti,o come dir si voglia debunking, non è stato dovuto solo alle organizzazioni politico-segrete
delle varie nazioni, o agli studiosi dogmatici, bensì a errate interpretazioni, manipolazioni di fatti ed
invenzioni di sana pianta, tutti elementi screditativi forniti proprio da chi dovrebbe operare per
verificare la veridicità di tale problematica: l’ufologia.
Così contattisti surreali come Adamsky,probabili falsi filmati di autopsie aliene come quelli di
Santilli, speculazioni letterarie come quelle di Von Daniken ed altri casi simili, invece di portare le
prove dell’esistenza di vita aliena, hanno inverosimilmente contribuito a gettare più di un ombra di
discredito su tale tematica.In un lasso di tempo relativamente breve, l’ufologia e la
paleoastronautica, così come erano repentinamente nate, altrettanto repentinamente rischiavano di
morire. Il progetto Robertson stava avendo un successo insperato e un alleato insospettato:
il vero debunking non sarebbe stato quindi generato solo dai vari enti governativi nazionali, bensì,
sarebbe stato creato, grazie a salti nel buio con occhi bendati, dagli stessi sostenitori dell’esistenza
di vita aliena!
In questo trattato non interessa all’autore, anche per lo sviluppo dello stesso, approfondire o meno
la veridicità di tali congetture, bensì, egli vuole analizzare i fatti storici e le testimonianze osservate
nel precedente capitolo lo sono, indipendentemente che esse siano riferite ad oggetti di natura aliena
o meno. Così come sono dati di fato quelli che studieremo in questo capitolo.
Ebbene, ora affrontiamo il vero e proprio discorso che ci interessa .
Consideriamo le visioni o i presunti avvistamenti che abbiamo analizzato precedentemente, come
reali casi di avvistamento UFO (e consideriamo che essi sono documentati sino ai giorni nostri,
passando per le varie epoche storiche,dal Medioevo ai primi ‘500, dall’inizio dell’epoca industriale,
tardo ‘700 sino al 2000) e quindi di indizi certi di una vita aliena.
Immagine:il presunto apparecchio ad elica inciso a Monte Alban, attribuito
agli Olmechi.

Immagine 2: un
quadro, del 1600, che descrive l'apparizione sul cielo di Norimberga di presunti oggetti volanti non
identificati.
A questo punto potremmo porci una domanda: se così fosse, quale impedimento negherebbe ad una
civiltà aliena (di sicuro molto più evoluta della nostra ed in possesso di notevoli conoscenze
scientifiche e quindi anche nel campo militare), capace di attraversare lo spazio per giungere sulla
Terra, di mostrarsi pienamente a noi, in una qualunque veste , sia amichevole che nemica?
Dopotutto lo stesso Colombo, con le sue immense caravelle (rispetto alle imbarcazioni indigene), le
sue caratteristiche etniche, i suoi armamenti, le sue vesti, dovette apparire, agli occhi degli
esterrefatti indigeni, come un essere superiore, non appartenente a questo mondo; eppure ciò non
tolse a Colombo la voglia di scendere a terra e instaurare rapporti con le popolazioni indigene cui
venne a contatto. E da quei primi contatti nacquero le basi per la successiva conquista e
colonizzazione del continente americano.
Si sostiene che gli alieni non abbiano interesse a mostrarsi e che abbiano instaurato connessioni
segrete con i nostri governi. Che interesse avrebbe avuto Colombo a non mostrarsi? E cosa
potremmo mai offrire a questi alieni, anche in termine di minaccia, che essi non abbiano o che
temino?
Personalmente chi scrive è molto scettico su questi punti.
L’esistenza degli UFO, se fosse mai provata, e questa loro reticenza nel mostrarsi, potrebbe
d’altronde essere spiegato se tale atteggiamento fosse paragonato all’atteggiamento del nostro
zoologo quando studia una specie animale.
Lo studio di una specie animale si effettua cercando di penetrare nel loro habitat, senza creare
scompensi ecologici, cercando di essere il meno invadente possibile. Si piazzano telecamere, ci si
nasconde fra la vegetazione, si prendono appunti, il tutto senza disturbare assolutamente la specie
animale in studio.
Tali appostamenti durano giorni, settimane, a volte mesi interi, ma, nel contempo,l’animale non
percepisce affatto questa intrusione nel suo mondo. O, se la percepisce,è talmente di poca rilevanza
da non badarci, così continua la sua abituale routine e lo zoologo riempie il suo block notes di
appunti che riguardano l’alimentazione, l’accoppiamento, la gestazione della gravidanza, la
procreazione, le abitudini sociali ed altro.
Ogni tanto campioni di animali vengono catturati, , studiati, analizzati, per seguirne il loro
sviluppo,o, come nel caso di squali, uccelli, delfini, catalogati e contrassegnati per imparare
qualcosa sui loro sistemi migratori.
Naturalmente anche gli alieni potrebbero aver bisogno di conoscerci meglio, prima di eventuali
contatti: possibile che tutti questi millenni non siano ancora bastati?
Oppure noi non siamo altro che una specie animale da
osservare, prelevare (il caso dei presunti rapimenti),
analizzare, modificare ( vedi i presunti impianti inseriti dagli
alieni in alcuni individui), sezionare (vedi mutilazioni
animali), allo scopo di seguire il nostro sviluppo o
semplicemente come cavie genetiche?
Il tutto farebbe parte di un grande progetto, incominciato
millenni fa ( o forse milioni di anni fa), nel quale noi saremmo, inconsapevolmente, similmente ad
animali racchiusi in uno zoo, senza gabbie, con confine solo l’universo che è intorno a noi?
Sembreranno vaneggiamenti di un pazzo e l’autore ammette che non è piacevole vedersi sotto
questo punto di vista, ma, ancora una volta, dai popoli antichi ci viene spiegato che questo potrebbe
essere più di un semplice vaneggiamento.
Basterebbe rileggere e spiegare i miti della creazione dell’uomo e delle sue origini.
I Dogon, un popolo africano, rivendicano il loro nome e le loro origini da un fantomatico popolo
delle stelle, proveniente dalla costellazione di Sirio, dei quali gli stessi Dogon, già all’inizio del
secolo scorso, senza l’ausilio di telescopi o altri strumenti, davano un ‘accurata descrizione,
sostenendo chiaramente che la stessa stella Sirio era composta in effetti da due stelle, conosciute
oggi come Sirio A e Sirio B (questa, una stella nana che ruota intorno a Sirio A, è assolutamente
invisibile ad occhio umano) e che la durata di orbita della seconda rispetto alla prima era di
cinquanta anni (come esattamente è).
Essi sostengono l’esistenza di un dodicesimo pianeta, oltre agli undici a noi già noti, da cui
sarebbero provenuti gli antichi progenitori.
In effetti, al di fuori del nostro sistema solare, e con un’orbita che intersecherebbe tra Marte e
Venere ogni 3600 anni, pare veramente che esista un pianeta sino ad ora sconosciuto.
le tradizioni dogon su Sirio e su un dodicesimo pianeta paiono far parte anche del retaggio egizio e
sumerico.
I sumeri infatti narrano che le loro origini sono dovute ad un popolo, chiamato Anunnakki
,proveniente da un ‘altro pianeta, che solo occasionalmente, in un’orbita dal periodo lunghissimo,
si avvicinerebbe alla nostra Terra.
Cambiamo continente e troviamo i Kappas giapponesi. La loro origine sarebbe tuttora misteriosa.
Secondo quanto affermato da Kitamura, archeologo e storiografo giapponese:
“ I Kappas erano delle creature strane che negli antichi testi vengono descritte come simili
all’uomo, ma caratterizzate da gravi malformazioni, poiché appaiono con arti palmati o muniti di tre
dita terminanti con artigli. La loro pelle è bruna..la loro testa sottile e le orecchie grosse, con occhi
triangolari. Sulla testa portano sempre un curioso cappello dal quale fuoriescono quattro lunghi aghi
ed il loro naso ha l’aspetto di una proboscide che si appoggia sulle spalle terminando indietro, dove
si congiunge ad una specie di gobba a forma di cassetta (N.d.A.: si tratta forse di cosmonauti che
indossavano tute spaziali?)”
Immagine3: due statue giapponesi preistoriche.rappresentano creature vestite con una sorta di
scafandri con lenti simili a quelle polari (usate per difendere la vista) e con elmi collegati a tali
scafandri tramite bullonatura. Sono rappresentazioni dei mitici Kappas?
Spostiamoci da un paese all’altro, sempre rimanendo nell’area dell’Oceano Pacifico e andiamo a
conoscenza degli esseri alieni australiani, dal nome impronunciabile: Namumaurkunjurkunju. Sono
fra i piu' singolari esseri alieni, oggi considerati antenati-lucertola venuti dallo spazio per diffondere
la Conoscenza. Questo curioso antenato aveva al seguito un'"equipe" di Esseri noti come
"Numbakulla". Le tradizioni delle popolazioni autoctone australiane parlano di esseri molto diversi
dall'uomo odierno: avevano palpebre calate sugli occhi, orecchie chiuse, membra incollate su un
corpo informe poiche' risultavano essere uniti l'uno con l'altro. L'equipe celeste dei Numbakulla
intervenne geneticamente su quegli esseri "separandoli e dando loro libertà di membra".
Namumaurkunjurkunju sorvegliava dall'alto e, a operazioni compiute, scese in terra e istruì gli
esseri su come ci si potesse unire per procreare...
Il divino alieno continuerebbe tuttora a sorvegliare dall'alto l'evolversi di questo mirabile
esperimento di alta ingegneria genetica. Sempre in Australia, presso le tribù Aranda e Kaitish si
tramanda una storia interessante:... quando il Tempo era un sogno, volò sulla Terra un popolo di
extraterrestri, noti come "Ulla-Kupera"; questo popolo di alieni "trasformò molte creature non finite
in uomini e donne". Terminato il loro compito, gli alieni tornarono ai sentieri celesti alla volta di
altri lidi inesplorati. La realtà divenne cronaca e la cronaca fu leggenda?
Alfred Metraux, nel suo studio sulle credenze e sulle cerimonie religiose dell’isola di Pasqua,
ricorda come:
“vi era un tempo in cui la cerimonia religiosa più importante ricordava l’arrivo dell’uomo uccello
sull’isola, in un’era in cui i cieli erano solcati da apparecchi che non potevano essere di origine
terrestre..impossessarsi dell’uovo significava diventare uomo-uccello, simile agli dei discesi dal
cielo…arrivano gli uomini volanti, gli uomini col cappello che volano….”
Naturalmente Metraux, essendo inanzitutto uno scienziato e dovendosi, di seguito, attenersi ai fatti,
dice e non dice, lascia capire che dietro la leggenda potrebbe esserci qualcosa di più reale.
Naturalmente l’autore chiede al lettore di tener conto anche dei testi indù trattati nei capitoli
precedenti.
Passiamo al continente americano e ritroviamo di nuovo questo insistente, allusivo, continuo
attribuire le nostre origini ad esseri che non sono di questo pianeta.Gli indiani Hopi, discendenti
della stirpe Maya, narrano dell’arrivo su questo mondo dei Katchinas, i “maestri della stella Blù”,
provenienti dalle stelle per formare gli uomini e donar loro la civiltà. Tali esseri scesero sulla Terra
nel tempo della Creazione e che lasciarono una pietra divinatoria dove sarebbero stati segnati vari
eventi da divenire in futuro ( fra cui la II guerra mondiale, rappresentata da una svastica), compreso
la data del loro ritorno.
Due Katchinas sarebbero poi sopragiunti in un secondo momento, sopra una tartaruga (un disco
volante?) a portare insegnamenti.
I Chippewa e i Sioux narrano che Wakon ( da Wako, che significa sacro) scese tra gli uomini tra
una moltitudine di Uccelli del Tuono ( altri dischi volanti?), anch’esso spesso rappresentato a bordo
di una tartaruga. Gli Hav-musuvs che “viaggiano a bordo di canoe volanti”, che si muovono con un
lieve suono ronzante e sono forniti di armi manuali a forma di tubo, capaci di stordire generando
una sensazione pungente (come una scarica elettrica?), sono dominio della razza Navaho. Secondo
tutte queste tradizioni l’umanità non sarebbe nata naturalmente, ma venne creata per asservire questi
esseri spaziali, come schiavo e lavoratore, milioni di anni fa ( e con ciò potremmo trovare un punto
di incrocio con i fossili umani precedentemente trattati).
In effetti l’uomo sarebbe stato un animale geneticamente modificato e questi nostri “creatori” ci
avrebbero aiutato, con conoscenze ed insegnamenti, nei vari stadi della nostra storia.Tale forma di
pensiero è uguale ai miti sumerici sopra accennati, e similmente ai miti sumerici, il pianeta di
provenienza di tali alieni dovrebbe essere visibile a noi alla fine di questo ciclo( gli indiani dividono
l’età della Terra in cicli e questo sarebbe il quinto). Gli Hopi sostengono che questo pianeta ( o
stella) ha l’aspetto luminoso blù e ha una “croce sul viso”: Niburu, secondo lo studioso di tradizioni
sumeriche Sitchin (uno dei pochi a saper leggere i caratteri cuneiformi) ,il dodicesimo pianeta del
sistema Solare, veniva rappresentato dai sumeri con il simbolo della croce.
Croce che è anche il simbolo religioso (Ankh) egizio, della tradizione giudaico-cristiana, in alcune
tradizioni indù e meso americane. Tutto un caso?
Un’altra coincidenza: anche i Katchinas, come i Dogon, gli Annunaki, i dei della mitologia egizia
ed altri, provenivano dalla Stella del Cane (Sirio).
Andiamo sulle rive del lago Titicaca, dove sorge il maestoso complesso di Tiahuanaco, in Bolivia,
con la sua complessa Porta del Sole (forse erroneamente collocata nel posto dove è ora) e andiamo a
studiare gli scritti di Garcilaso de la Vega, storico all’epoca della Conquista spagnola (tardo 1500)
riguardo le credenze sulla creazione dell’umanità tramandate dai popoli locali:
“Nell’era terziaria, circa cinque milioni di anni fa, quando nessun essere umano esisteva e il nostro
pianeta era popolato da animali fantastici, un’aeronave brillante come l’oro venne a posarsi sul lago
Titicaca. Da essa discese un essere simile alle donne terrestri, ma con la testa conica, grandi
orecchie e mani palmate, a quattro dita. Il suo nome era Orejona (grandi orecchie) e proveniva dal
pianeta Venere. Orejona camminava diritta, era dotata di intelligenza ed aveva il compito di creare
l’umanità, dando alla luce settanta figli. Un giorno, creata la razza terrestre e compiuta la sua
missione, Orejona ripartì. I suoi figli, in seguito, procrearono a loro volta e la tribù sul lago Titicaca,
rimasta fedele alla sua memoria, conservò i miti religiosi e rappresentò il punto di partenza per le
civiltà preincaiche”
La descrizione morfologica di Orejona è associabile agli uomini pesce presenti nelle leggende
mesopotamiche degli Oannes, dei Kappas giapponesi, dei Dogon del malì. In quanto alla stessa città
di Tiahuanaco, benché gli archeologi ritengono che sia stata costruita dagli Incas, bisogna far notare
come al tempo della conquista di Pizzarro del Perù, gli stessi Incas affermarono, più volte, di aver
conosciuto la città quando era già in rovina.
Sommando tutti questi elementi, a semplice scopo di fornire un punto di vista, potremmo osare
rileggere parzialmente la nostra tradizione biblica sulla creazione dell’uomo. Sarà semplicemente
un gioco, ma estremamente curioso. Dio ( un essere superiore, o per meglio dire un’equipe di esseri
alieni, altamente progrediti nel campo della ricerca genetica) “costruisce” l’uomo, a sua immagine e
somiglianza ( fornendolo però di elementi capaci di adattarsi al diverso ambiente del nostro pianeta,
allora niente probabili branchie, ma polmoni capaci di catturare e trasformare l’ossigeno, niente
mani e piedi palmati ma con dita, fra cui il pollice,( che, ricordiamolo, è l’arto opponibile che ci
distingue dai primati e che ci consente diversi movimenti e prese), lo fa vivere in una sorta di
paradiso, dove l’uomo si nutre dei frutti (probabilmente modificati anche loro per attecchire sulla
Terra) che spontaneamente sorgono ( a mò di abituarlo a ciò che troverà sulla Terra), infine lo caccia
dal paradiso, mandandolo sulla Terra dove dovrà sudare per ottenere il cibo, dove sarà attentato da
animali pericolosi da cui dovrà impararsi a difendere (vedi la storia del serpente)e dove la donna
imparerà a mettere al mondo dei suoi simili.
La cacciata del paradiso (il pianeta originario) e l’arrivo su un nuovo pianeta (la Terra) sarà stato
sicuramente motivo di grande costernazione e paura da parte di quei primi “eletti” strappati dal loro
habitat pacifico e tranquillo per essere catapultati in una realtà sconosciuta e pericolosa.Gli
esperimenti genetici continuano sino ad ottenere la razza “pura” vera e propria.
D’altronde pensare che solo Adamo ed Eva abbiano potuto popolare la Terra implica problemi che,
oltre ad essere di natura semplicemente numerica, sono anche di matrice prettamente costumistica,
in quanto ciò avrebbe portato, nelle prime generazioni, ad una storia di intrecci a sfondo sessuale tra
fratelli e sorelle,fatta di incesti più o meno voluti, chiaramente in antitesi con le volontà e gli
insegnamenti della Chiesa. Questi stessi incesti avrebbero potuto portare a alterazioni genetiche non
volute ( è il caso delle varie razze di uomini primitivi?), per cui sarebbe più idoneo identificare
Adamo ed Eva come capostipiti di una razza poi creata geneticamente, con opportuni cambi in
corsa, alla stregua di semplici catene di DNA, da manipolare a piacimento.
Il motivo? Potrebbe essere lo stesso che ci spinge oggi a clonare una pecora, a cui abbiamo
affettuosamente dato il nome di Dolly: semplice ricerca scientifica, voglia di onnipotenza, di
abbattere determinati confini culturali e sociali, di verificare nuove tecniche e capacità, e quanto
altro ancora.
Ultimamente abbiamo fatto passi avanti nella ricerca scientifica, soprattutto a partire da quel
lontano 1947, quando si verificò quell’inatteso ( e mai provato del tutto) UFO-crash, nella lontana
Roswell, in Texas. Da allora abbiamo subito un’accelerazione scientifica in grado di portarci in
pochi decenni dalla radio a transistor alla conquista della Luna, dal telegrafo a fili ai satelliti sparsi
in orbita nello spazio, dai calcoli a mano ai grandi computer. In tutto questo vi è chi vi ha visto
l’intervento ( o l’interferenza) di un’altra civiltà, proveniente dallo spazio, o la conoscenza derivata
dal fatto di aver saputo ben interpretare nozioni giunte sino a noi e contenute in quei rottami spaziali
( infatti sarà di pochi anni dopo l’invenzione delle fibre ottiche e dei microprocessori). Forse i
governi mondiali avranno capito qualcosa di più sulle nostre origini e tali civiltà extraterrestri
avranno ritenuto svelarsi solo a loro e istruirli in materie di conoscenza sia sulla nostra origine che
in campo scientifico, tenendo all’oscuro la massa mondiale,onde evitare un collasso del nostro
ecosistema sociale, religioso e politico, con danni irreparabili. L’unica condizione dettata da queste
forze extraterrestri è la possibilità di continuarci a studiare, prelevando elementi umani e animali,
facendo test, al fine di creare nuovi ibridi adattabili forse ad altri pianeti ancora, il tutto con la
connivenza dei governi mondiali, interessati a scambi di informazioni tecnologiche.
Naturalmente quest’ultima parte è solo un gioco di fantasia di chi scrive e,magari, di chi legge, il
quale tende, con esso, di dare un nuovo angolo di luce a questa prospettiva, dalla quale, comunque,
chi scrive mantiene un atteggiamento distaccato, da semplice osservatore, in quanto da sempre
definitosi un moderno San Tommaso (se non tocco,non credo).
Naturalmente una prova concreta di queste interferenze aliene nella nostra origine non è stata
trovata: fa semplicemente parte di quel bagaglio culturale che l’uomo, in vari posti della Terra, si
porta con sé come fardello di ricordi. Ricordi da cui sono poi nati i miti e da cui un giorno, forse ,
rinascerà la nostra vera storia.
Potremmo concludere quest’ articolo con un’affermazione molto semplicistica: gli UFO hanno
potuto e potranno in futuro volare sulle nostre teste, potranno essere visti , fotografati, filmati, ma
forse la loro unica, vera, testimonianza si trova fra quelle pergamene, pietre antiche, nelle foreste
tracciate, tracce enigmatiche del tempo che tali sono rimaste.
In ogni modo, i popoli, antichi e non, del mondo conservano comunque un sapere e una cultura da
riscoprire e da tenere in maggiore considerazione come patrimonio dell’intera umanità.

Culti cargo e clipeologia

"Un mito offre un modello standard per interpretare il mondo, che non può essere ignorato, perché
guardando attraverso il mito, ci si rende conto che la realtà esalta l'evidenza del mito stesso."
Edward De Bono
Nel sempre presente dibattito tra “creazionisti” ed “evoluzionisti”, nato dai tempi delle asserzioni di
Charles Darwin sul presunto sviluppo umano, negli ultimi scorci del ‘900, si è intromessa un’altra
corrente di pensiero, quella cui fanno capo coloro i quali considerano l’evoluzione umana come il
punto culmine ultimo di un intervento alieno.
Presunti sbarchi di popoli extraterrestri che avrebbero aiutato l'evoluzione della nostra civiltà , se
non, addirittura, "creato" l'uomo con ardite operazioni di biogenetica.
Visitatori spaziali che avrebbero fornito ai terrestri le conoscenze necessarie per iniziare il loro
lungo cammino verso la civiltà; poi, compiuta la missione, sarebbero tornati al loro mondo sperduto
nella Galassia.
Come considerare queste asserzioni, sempre più presenti nelle opere letterarie degli esploratori della
nuova frontiera scientifica, quella mai riconosciuta dagli studiosi dogmatici, e cioè la fanta-
archeologia?
Ipotesi senza fondamento per il felice proliferare di centinaia di riviste specializzate del settore, che
hanno come cavallo di battaglia ardite tesi che propongono una soluzione extraterrestre a molti
degli enigmi insoluti della Storia? Abili manipolazioni di antichi resoconti e nuove riletture di
antichi testi da parte di abili speculatori letterari il tutto per vendere milioni di copie di libri a
poveri lettori che hanno la sola colpa di viaggiare troppo con la fantasia e di credere anche
all’impossibile?
Possibile che il tutto sia riconducibile a soli voli pindarici della fantasia, magari a solo scopo
lucrativo, o si potrebbe incanalare il discorso anche su basi più scientifiche?
Di certo è che l’argomento, oltre ad interessare vari autori come Von Daniken,Sitchin e quant’altri,
più o meno attendibili, ha fatto nascere un fenomeno che nel corso degli ultimi anni ha dato la vita a
migliaia di libri venduti per tutto il mondo, milioni di copie sparse ai quattro angoli della terra,
miliardi di soldi incassati e molti conti in banca che sono lievitati da un giorno all’altro.
Tra l’altro ha dato i natali ad una nuova pseudo-scienza, la clipeologia , che, sebbene contrastata
dagli ambienti accademici “puritani”, raccoglie, man mano che il tempo trascorre, sempre più
adepti sia fra i sostenitori attivi (scienziati, fisici, letterati etc) sia fra quelli passivi ( la massa
potenzialmente cliente di tali arditi Indiana Jones della ns epoca).
Ma cos’è la clipeologia, in effetti? E su quali basi fonda la sua stessa esistenza? Ed è tutto oro
quello che luccica o sono solo puerili affermazioni senza alcuna base scientifica? Ed è possibile
riscontrare i suoi temi in altre tematiche molto più approfondite sia scientificamente che
umanisticamente?
Ora vedremo di dare una risposta a questi quesiti, incominciando a definire in cosa consiste la
clipeologia e le tesi in cui affonda le proprie radici.
La clipeologia è la ricerca di eventuali manifestazioni UFO nel passato. Il termine deriva da
«clipeus», lo scudo rotondo dei guerrieri romani, e trova giustificazione nel fatto che gli antichi
scrittori latini, come ad esempio Plinio il Vecchio, descrissero come «clipei ardentes» (scudi
infuocati) certe strane apparizioni celesti dell'epoca.
Un esempio per tutti potrebbe celarsi dietro la presunta visione dell’imperatore Costantino che, di
fatto, cambiò i connotati della storia.
Per una volta tanto pare che possiamo affrancarci da stereotipi di discipline o altro nati oltre oceano,
e, anzi, possiamo “orgogliosi” gonfiare il petto e affermare che, sì, la parola clipeologia abbai avuto
i suoi natali in Italia; infatti, pare che sia stata coniata da Umberto Colazzi, alla fine degli anni’50, e
che abbia incominciato subito dopo a percorrere la nostra penisola grazie alla rivista “Clypeus”.
E , per una volta tanto, possiamo persino “vantarci” di essere copiati, perché la clipeologia, non è un
fenomeno prettamente italiano, anzi, in più parti del mondo ha trovato seguaci tanto che nel 1973
venne fondata la Ancient Astronaut Society, organizzazione fondata da Gene Philips, il cui scopo
consiste nel produrre le prove del contatto con intelligenze extraterrestri, verificatosi millenni
orsono e che per certi aspetti si manifestò con un massiccio intervento nella storia e nei destini
dell'uomo.
Nel corso della storia pare che siano state molte le testimonianze di presunti avvistamenti ufologici
nei cieli del nostro pianeta e l’esame stesso dei numerosi rapporti su quelli che possono essere stati
UFO prima dell’epoca dell’aeroplano fa nascere l’idea che la Terra sia da molto tempo osservata e
visitata da altre civiltà.
Tuttavia consideriamo che l’uomo ha da sempre rivolto il naso verso il cielo, cercando di carpirne i
segreti o cercando segni e portenti a lui favorevoli o meno ( e quasi sempre trovati), rendendo
quindi difficile fare una distinzione fra “veri” avvistamenti e altri prodigi celesti, interpretati di
volta in volta, e a seconda dei bisogni e delle circostanze, come ammonizioni, incoraggiamenti o
profezie.
Non è mia intenzione assolutamente disquisire sulla fondatezza o meno dell’argomentazione
extraterrestre su tali fatti, ma, bensì, a semplice scopo illustrativo, fornire un adeguato elenco e
sottolineare come, al di là di tutto, stiamo parlando di fenomeni che colpirono, e molto, gli
osservatori dell’epoca, tanto da far sì che il loro ricordo venisse tramandato ai posteri,
sopravvivendo all’usura del tempo.
Ecco quindi i casi più clamorosi, partendo dal più conosciuto argomentato.
Nel papiro egizio, noto col nome di “Papiro Tulli", si narra una serie di avvistamenti di oggetti
misteriosi nel cielo. Protagonisti della vicenda il Faraone Thuthmosis III (1504-1450, circa a. C.) e
molti suoi sudditi.
Lo studio del professor Solas Boncompagni portò alla traduzione in italiano del testo geroglifico.
In alcuni passi è addirittura sorprendente la chiarezza della descrizione che pare lasciare il lettore
senza alcun dubbio:
“Nell’anno 22, nel terzo mese dell’inverno, nella sesta ora del giorno, gli scribi della Casa della Vita
notarono che un circolo di fuoco stava arrivando dal cielo: il suo corpo era lungo una pertica e largo
una pertica.
Essi si distesero bocconi e andarono dal Faraone a riferire la cosa.Sua Maestà stava riflettendo su
quanto accadeva allora, queste cose diventavano sempre più frequenti di prima nel cielo,
scintillavano più brillanti del lucente sole e si estendevano fino ai limiti dei quattro sostegni del
cielo.
I soldati dell’esercito stettero a vedere insieme al Faraone.Fu dopo il pasto della sera che quei cerchi
di fuoco salirono più in alto nel cielo,verso il sud.
Il faraone fece bruciare dell’incenso per ristabilire al pace nel paese e ordinò che quanto accaduto
fosse trascritto negli annali della Casa della Vita”
Sempre da uno studio condotto dal professor Solas Boncompagni, in una scena tratta dal "Libro dei
Morti", nella riproduzione del "Papiro di Torino", si possono osservare chiaramente in cielo tre
corpi volanti di forma circolare. La scena presenta una imbarcazione con offerte.
Nel "Libro dei Morti" la descrizione, che fa parte del Capitolo CX, conclude:
«Io approdo al momento (...) sulla Terra, all'epoca stabilita, secondo tutti gli scritti della Terra, da
quando la Terra è esistita e secondo quanto ordinato da (...) venerabile».

Secondo Tito Livio, nella sua "Storia di Roma", il secondo re di Roma, Numa Pompilio, fu
testimone personale della caduta dal cielo di uno di questi "scudi volanti" e che lo avesse
annoverato tra gli oggetti di culto delle pratiche religiose che stava promuovendo.Tali oggetti
furono osservati anche in futuro nei cieli non solo di Roma, ma per tutto l’Impero.

A confermare al tesi dello storico Tito Livio ecco altri illustri storiografi dell’epoca romana.

Cicerone, nel suo "De Divinatione", nel Capitolo 43, parla di quando «...il sole splendette nella
notte, con grandi rumori nel cielo e il cielo sembrava esplodere e stupefacenti sfere vi apparvero...»

Plinio il Vecchio, nelle "Historiae Naturales", nei capitoli 25 e 36, racconta di "Clipeus Ardens" visti
sfrecciare nel cielo dell'antica Roma.

Giulio Ossequente, nel "De Prodigiis" narra di avvistamenti, effettuati sia di giorno che di notte,
riguardanti "Scudi di fuoco", "torce", "più soli", più lune", "ruote luminose" ecc., apparsi su Roma e
su altri luoghi. Dal "De Prodigiis", il disegno di due Soli che apparvero su Alba nel 204 a. C.

Esiste la cronaca di identici avvistamenti anche nelle opere di Plutarco, Eschilo e Valerio Massimo.

Nel suo trattato di scienze naturali, Seneca racconta, con numerose osservazioni, di inspiegabili
"travi luminose" che comparivano all'improvviso nei cieli delle città antiche. Le "travi" rimanevano
immobili per giorni, per poi sparire all'improvviso, così come erano arrivate.

Senofonte, nel suo "Anabasi", fa una classifica degli oggetti volanti avvistati in base alla loro
forma; li descrive nelle forme a conchiglia, piatti, a campana, triangolari.
Alessandro Magno e il suo esercito, essendo abili nell’ambito della guerra, paragonarono a grandi
scudi di argento scintillante quella che potrebbe essere un incursione UFO del 329 a.C., che
sorprese l’esercito greco mentre attraversava il fiume Jaxartes, in India.
Persino Aristotele trovò l’occasione di parlarne, paragonandoli ai dischi lanciati dai lanciatori di
disco dell’antica Grecia.
E’ interessante notare come la descrizione usata per descrivere questi fenomeni si adatti
perfettamente alle conoscenze dei posti e dei tempi dove tali avvistamenti avevano atto.
Nell’era delle scoperte e delle esplorazioni, i corpi che viaggiavano nel cielo assunsero, agli occhi
degli osservatori, forme simili a navi e più tardi, dopo l’invenzione della mongolfiera, gli oggetti
volanti furono descritti, in Francia, come scintillanti palloni di fuoco.Nel Vermont del XIX secolo,
gli osservatori dediti alla tessitura chiamarono ciò che vedevano un fuso aereo.
Insomma gli osservatori di tutti i tempi hanno sempre avuto la tendenza a definire gli oggetti in
movimento nel cielo con i termini che salivano più spontaneamente alle loro labbra.
Corrado Lychostene, nel suo libro "Prodigiorum ac Ostentorum Chronicon", stampato a Basilea
nell'anno 1557, ci descrive gli avvistamenti di oggetti strani che solcavano il cielo nel Medio Evo e
nel Rinascimento.
Oltre a croci greche e cristiane, nel libro si descrive il passaggio nel cielo d'Arabia, nell'anno 1479,
di un oggetto definito "trave". Accanto alla notizia è stampato anche il disegno di tale “trave", che è
identica ad un moderno missile.Eccone un’immagine:

Nel 1290, un enorme oggetto circolare di colore argenteo sorvolò lentamente l'Abbazia benedettina
di Amplefort, in Inghilterra, sotto gli occhi terrorizzati dei monaci che interruppero le loro preghiere
già iniziate nella cappella, per accorrere a vedere il prodigio.

Benvenuto Cellini (1500-1571) nella sua autobiografia descrive lo strano fenomeno di cui fu
testimone lui stesso assieme a un suo compagno di viaggio. I due stavano ritornando da Roma, a
cavallo, verso Firenze, quando giunsero su una collina da cui si vedeva la città. Poterono così
vedere una enorme "trave luminosa" stagliarsi nel cielo sopra Firenze.

Gli abitanti di Norimberga, il 14 aprile 1561, furono testimoni di un fenomeno inspiegabile. Nel
cielo della città comparvero numerosissimi oggetti cilindrici che rimasero immobili, in alto. Subito
dopo, dall'interno degli oggetti cilindrici uscirono moltissimi altri oggetti, a forma di sfera e di
disco, che si misero a compiere evoluzioni nel cielo.

Nel cielo di Basilea, in Svizzera, il 7 agosto 1566, apparvero


numerosi oggetti di forma sferica e di colore chiaro e scuro. Gli
oggetti si affrontarono in una specie di combattimento aereo, davanti
agli abitanti della città che, con lo sguardo rivolto al cielo,
osservavano la scena.
Sorvoliamo, solamente per motivi di spazio, all’innumerevole
casistica ufologia che pare permeavi tutta la tematica biblica,
citando solo a mò di appunti il rapimento di Enoch, la visione di
Ezechiele,la stessa ascesa al cielo di Ezechiele, la caduta di Gerico ,
il tramutarsi in una statua di sale della moglie di Lot e tanti altri
ancora.
Così come rimando ad altri articoli sul sito ACAM (vedi “I misteri
dell’Antica India”) le disquisizioni sui Vimana dell’India
protostorica e sulle probabili catastrofi nucleari di Mohenjo Daro e
Harappa.
Cosa ancora più interessante è quando questi presunti avvistamenti
ufologici del passato sembrano dar vita a dei veri e propri
movimenti religiosi e di pensiero che condizionarono sia il presente
che il futuro delle popolazioni venute a contatto di tali fenomeni, di
qualunque natura siano essi stati.
Infatti molte antiche tradizioni religiose, in varie parti del mondo e per diversi popoli antichi,
parlano di dei discesi dal cielo a governare e istruire l’umanità, divinità dotate di grandi poteri ed
eccezionali mezzi.
È il caso del mito dell’uomo-pesce Oannes, della tradizione sumera, il quale sarebbe sceso dal cielo
a bordo di una "enorme perla luccicante", per portare la conoscenza agli uomini. Si tenga presenta a
questo proposito un dato estremamente interessante: la civiltà sumera, di fatto la più antica del
mondo, si sviluppò repentinamente, quasi da un giorno all'altro.
Nelle Ande riscontriamo il mito della donna-pesce ( o donna tapiro, a secondo delle tradizioni)
Orejona,anch’essa discesa dal cielo nei pressi del lago Titicaca, e al cielo ritornata, dopo aver
compiuto il suo compito.Vorremmo poi dimenticare i Nefilim biblici o i Kjappas di alcune culture
nipponiche, o lo strano Bep Kororoti, strano essere dall’ambigua tenuta (una tuta spaziale?), dalla
cui mani scaturivano fulmini e che discese in Amazzonia presso la tribù di indios Kajappos?
Insomma potremmo citare molti altri esempi, ma non è la lunghezza dell’elenco che definirebbe
l’importanza dell’argomento o la sua veridicità.
"La ragione ci trae in inganno più spesso della natura."
L. de C. de V. Vauvenargues
Piuttosto è interessante notare come queste tradizioni religiose siano nate attraverso la sicura
interferenza di un qualcosa che dovette almeno sembrare meritevole di catalizzare l’attenzione di
quei antichi osservatori.
Da cosa nasce il bisogno interiore di quei popoli di divinizzare quei strani fenomeni? E ne abbiamo
un riscontro documentato ai giorni nostri di una possibile coercizione di pensiero di fronte ad
avvenimenti che hanno per lo meno dello strano?
Ebbene tutti queste antiche nascite di movimenti di pensiero religioso hanno un riscontro in una
fenomenologia molto documentata e ben studiata: i culti cargo.
I culti cargo sorgono nel momento in cui una data cultura, tecnologicamente avanzata, entra in
contatto con un'altra più arretrata.
I “culti del cargo” fanno parte della tradizione culturale-religiosa di gran parte della popolazione
indigena dell'Oceania, dove, le navi dei primi colonizzatori europei venivano considerate dei carichi
di doni loro inviati dagli Dei. Un ulteriore recrudescenza di questi culti si ebbe durante la Seconda
Guerra Mondiale, stavolta dovuti prevalentemente agli aerei da trasporto militari, visti come
“uccelli celesti” che trasportavano doni.
Testimonianze importanti di questi culti cargo riguardarono grandi esploratori come Cristoforo
Colombo che, dopo esser approdato in una delle isole dell'arcipelago delle Bahamas, scrisse nel suo
diario di bordo: "Ci accolsero riverendoci come se fossimo stati dei discesi dal cielo".

Alla stessa maniera di Colombo anche Sir Francis Drake, e vi è testimonianza nel suo libro di
bordo, fu scambiato per un entità divina e ultraterrena dai nativi americani stanziati nella zona dove
attualmente sorge San Francisco: "Cercammo di spiegare loro che non eravamo degli dei, ma
inutilmente."
I Conquistadores spagnoli, capeggiati prima da Cortes e poi da Pizzarro, ebbero facilmente la
meglio sulle popolazioni locali (Aztechi ed Incas), benché in numero nettamente inferiore, poiché,
per via del loro aspetto fisico, vennero scambiati per antichi semi-dei civilizzatori (Kukulkan,
Quetzalcoatl) tornati in quei luoghi.I loro stessi cavalli e le loro armi apparvero agli occhi stupefatti
di quei popoli come elementi prodigiosi di divinità.
Basta pensare che gli stessi Spagnoli, per infoltire la credenza popolare che i loro cavalli erano
animali immortali, ne nascondevano il corpo quando una della cavalcature rimaneva uccisa.
Jean Rimbault, capitano, nel 1565 fece erigere in Florida una colonna monumentale raffigurante
l'emblema della propria nazione. Dopo qualche anno, la popolazione indigena del luogo iniziò a
venerare tale colonna, rendendola centro del culto religioso, adornandola con ghirlande e ponendole
davanti sacrifici come dono.
L’idealizzazione di tali culti personalizzò talmente la filosofia religiosa di alcuni di questi popoli
che essi arrivarono persino ad estremizzare tali culti, al punto tale di compiere vere proprie
nefandezze.
James Cook fù proprio una delle vittime dei culti cargo in quanto la sua storia è un sciagurato
susseguirsi di coincidenze che, viste dalla parte del retroterra culturale e religioso dei nativi del
posto, lo porteranno alla morte.
17 gennaio 1779, il capitano James Cook, al comando del suo Discovery, raggiunge le isole Tahiti
accolto generosamente dagli indigeni . Una volta sbarcato, con i suoi uomini, Cook fu avvolto da
un sacerdote con una stoffa rossa mentre la gente lo acclamava chiamandolo “Lono!”. Tutta questa
adorazione aveva un motivo ben fondato nella liturgia spirituale-religiosa del posto; infatti,ogni
anno, tra novembre e dicembre, , nell'isola di Hawaii iniziavano le celebrazioni del Makahiki, la
festa della rigenerazione della natura la cui divinità protettrice era Lono, il dio della fertilità, la cui
vela compariva quando le Pleiadi si affacciavano all'orizzonte. Secondo il mito locale, Lono era
stato esiliato dall'isola per altri mesi dell'anno e percorreva un lungo viaggio circolare, in senso
orario, attorno all'isola per fecondarne tutti paesi. Cook era arrivato proprio quando gli hawaiani
attendevano Lono e lui era stato accolto come una divinità. Il cerimoniale prevedeva che dopo
trentatré giorni Lono inscenasse un combattimento rituale con il re dell'isola e ne venisse ucciso. Il
suo corpo, caricato su una canoa, avrebbe ripreso la via dell'esilio, per fare ritorno l'anno
successivo. Cook ripartì da Kealakekua il 4 febbraio, al termine delle celebrazioni, ma una tempesta
danneggiò le sue navi e lo costrinse a fare ritorno alla baia. Era il 14 febbraio, quando la nave
inglese riapparve agli isolani. Nessuna festa, nessun canto, ma un atteggiamento di ostilità.
L'improvviso ritorno di Lono, peraltro in direzione opposta, aveva turbato gli indigeni. Era un segno
di disordine, una sfida all'autorità regale. Occorreva il sacrificio del dio per risanare una rottura
dell'equilibrio cosmico. Fu così che Cook cadde sotto i colpi dei capi hawaiani, subendo il destino
del dio con cui era stato divinizzato, un altro orizzonte lo aveva condannato.
Altri movimenti di culti cargo nacquero spontaneamente nel periodo della seconda Guerra
Mondiale, quando spesso i soldati americani e i loro mezzi venivano scambiati per dei venuti da
lontano a combattere gli invasori nipponici e a portare doni.
Similmente al linguaggio pastorale adottato da Ezechiele per descrivere la sua visione , e al
linguaggio, adattato ogni volta sia all’estrazione culturale che sociale dell’osservatore dei presunti
fenomeni ufologici nel lontano passato, come è stato precedentemente affermato, è sorprendente
notare come anche nel caso dei culti cargo il lessico usato per descrivere gli strumenti tecnici degli
"stranieri" tramite concetti mutuati dallo stesso lessico, ad esempio l'aereo chiamato "Uccello
tonante" o "Grande uccello" o i cavi telefonici "Fili cantanti" o la locomotiva definita "Cavallo di
fuoco, siano molto simili ai concetti espressi da popoli antichi in antichi tempi.
Proviamo a confrontare dunque questi culti cargo con le religioni a noi note. Non possiamo fare a
meno di notare sorprendenti comunanze. Le leggende tramandateci oralmente che narrano di dei
scesi dal cielo sulla terra su carri di fuoco per punire i peccatori, per ricompensare gli uomini o per
esigere servigi da loro, sono presenti indubbiamente presso tutte le culture, le tradizioni e le
religioni del mondo, come abbiamo visto sopra. Ma, mentre gli "Dei" appartenenti ai detti culti
cargo,esponenti di un periodo (XVI-XIV secolo) vicino a noi e quindi ben documentato, sono ben
noti a noi, dobbiamo domandarci, invece, chi o cosa furono quelli che in epoche remote
determinarono la formazione degli attuali culti ormai fortemente radicati nelle culture di tutti i
popoli del pianeta?
In entrambi i casi è comunque importante constatare come ci sia la necessità impellente di
divinizzare elementi tecnologici estranei alla collettività sociale del popolo che veniva in contatto
con queste nuove realtà.
Così come molti popoli polinesiani costruivano veri e propri “totem” o simulacri di immagini sacre
rappresentanti le navi dei primi esploratori europei prima o gli aerei delle milizie americane dopo,
così spesso, nello studio di antiche civiltà, ci troviamo di fronte ad elementi culturalmente estranei a
quelle entità.
Basta ricordare i presunti alianti egiziani o i monili a forma di aeroplano appartenenti alle culture
incaiche, spesso, e forse erroneamente, indicate come raffigurazioni fantasiose o al più di volatili.
Se prendiamo per vera l’ipotesi che vuole la Terra oggetto di visite extraterrestri nel lontano
passato, e di come queste visite siano diventate, nell’immaginario collettivo dei popoli di allora,
come elementi formativi di primi ancestrali culti-cargo ante litteram, ecco che molte
rappresentazioni su pareti, scritti su pergamena, citazioni di oggetti volanti, conoscenze
astronomiche e quant’altro, potrebbero aver un fondamento e una spiegazione.
Quindi la clipeologia, oltre a fenomeno mediatico a semplice scopo lucrativo, potrebbe essere molto
più presa in considerazione, partendo dal presupposto che essa si basa su due fondamenti:1) il
fenomeno UFO non è esclusivo del nostro tempo: esso affonda le proprie radici nella storia, fino
alle epoche più remote;2) il suo manifestarsi attraverso i secoli è rimasto documentato, sotto forma
di descrizioni, allusioni, riferimenti, nelle mitologie, nei testi sacri, nei libri degli antichi autori,
nelle cronache medioevali, nei diari di viaggio, nei libri di bordo ecc.
Riassumendo possiamo affermare che lo scopo della clipeologia è quindi quello di scoprire queste
presunte tracce e di presentarle come tali dopo averle spogliate della veste mitica, religiosa o
leggendaria, sempre tenendo conto comunque che essa può dare una nuova chiave di lettura ma non
imporre che tale interpretazione sia quella giusta.
Insomma, se da un lato inventarsi falsi resoconti e false prove, come hanno fatto alcuni autori
dissennati, veri discreditatosi della fenomenologia ufologia, può sembrare solo un misero tentativo
di far “cassetta”, bisogna comunque ammettere che eliminare a priori tali evidenze storiche e non
considerarle in una diversa luce è un tantino come voler essere cavalli con paraocchi, con schemi
erroneamente configurati e prestabiliti solo dalla nostra cecità conoscitiva ed interpretativa.

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