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RIASSUNTO STORIA DEL CRISTIANESIMO ANTICO

Dagli ebrei seguaci di Gesù all’antagonismo fra cristiani ed ebrei

Il problema della transazione

La transazione da una religione all’altra, o la trasformazione di una religione ad un'altra, è una delle
dinamiche più delicate e complesse della storia delle religioni. Si verifica, quando per l’iniziativa di un
personaggio storico, considerato il fondatore, incomincia ad affermarsi, all’interno di una determinata
tradizione religiosa, una nuova proposta, che progressivamente si differenzia dalla matrice di partenza e,
attraverso un processo più o meno lungo e articolato, sfocia in una religione nuova e autonoma. Quello che
va dal giudaismo al cristianesimo rappresenta, forse il caso più difficile e complicato di questi passaggi,
certamente il più studiato. Un modello che ha conosciuto una particolare fortuna è quello della
“separazione delle vie” tra giudaismo da un lato, e cristianesimo dall’altro, con interminabili discussioni per
identificare il momento cronologico o l’evento determinante che avrebbero causato questa separazione, la
maggioranza degli studiosi si orienta per gli anni successivi alla guerra giudaica del 132-135, la terza rivolta
contro Roma, dopo quelle del 66-70 e del 115-117, quest’ultima scoppiata in Cirenaica, Egitto e Cipro.
Daniel Boyarin ritiene che sia necessario adottare un modello più flessibile, e suggerisce quello ondulatorio,
che permette ai linguisti di spiegare la nascita di dialetti e lingue in analogia con il fenomeno
dell’interferenza delle onde. Boyarin sostiene che il cristianesimo non sarebbe nato in seguito a una
separazione avvenuta in un momento precisamente identificabile a partire da un giudaismo originario
piuttosto uniforme: al contrario, il cristianesimo avrebbe avuto origine da specifiche scelte di elementi
identitari, operate da gruppi differenti, e dalla conseguente loro aggregazione e diffusione, fino a formare
un agglomerato “dialettale”. Questo processo si sarebbe concluso soltanto nel IV secolo, quando
l’intervento degli apparati di potere ideologico e repressivo dell’Impero rese possibile la nascita di una vera
e propria religione nuova, dai confini chiari e netti, e permise di stabilire in modo preciso l’appartenenza e
rendere operativa l’esclusione.

I primi sviluppi del movimento di Gesù dopo la morte violenta del capo carismatico

Il movimento di Gesù è nato e ha conosciuto i suoi primi sviluppi all’interno del mondo giudaico. Gesù
aveva svolto la sua missione pubblica prevalentemente nei villaggi rurali della Galilea, rivolgendo il suo
messaggio di speranza esclusivamente alla popolazione locale di origine ebraica. Dopo la sua morte, il
gruppo dei seguaci si ricompattò e si riorganizzò e seppur non senza tensioni e difficoltà, riuscì a continuare
a promuovere la causa per la quale Gesù si era battuto: l’annuncio del regno di Dio. È verosimile che i
discepoli di Gesù della cerchia più stretta, compresi i Dodici, il cui numero, dopo il suicidio di Giuda, si
ricompone, con l’elezione di Mattia, siano ritornati in Galilea, dove potevano contare sul supporto di
numerosi simpatizzanti, per riprendere la predicazione iniziata dal loro maestro, così brutalmente
interrotta. Dell’attività in Galilea abbiamo scarsissime testimonianze, per lo più indirette; è in questo
contesto che va collocata l’azione dei cosiddetti “predicatori itineranti “che portano avanti il messaggio di
Gesù con le stesse sue modalità. Ma la tragedia rappresentata dalla morte di Gesù, infamante, in quanto il
condannato “appeso ad un albero” viene esplicitamente dichiarato maledetto dal Torah, difficilmente
avrebbe consentito al grosso dei seguaci, anche quelli di Galilea, di continuare a credere che la causa
godesse dell’approvazione divina, se non fosse intervenuto l’elemento nuovo della fede nella resurrezione
del capo carismatico, suffragata dalle esperienze individuali e collettive delle apparizioni del Risorto.
Queste esperienze alimentarono la convinzione che Dio fosse intervenuto in un modo straordinario per
rendergli giustizia, non abbandonandolo alla morte, ma elevando, a una nuova condizione. All’inizio dunque
il tema della resurrezione di Gesù più che segnare un radicale mutamento di prospettiva nella predicazione
dei discepoli, dovette servire a legittimare la causa per la quale Gesù si era battuto durante il suo ministero
pubblico. Dei primissimi sviluppi del movimento di Gesù abbiamo notizie scarne, che ricaviamo
principalmente dagli Atti degli Apostoli. Ma i dati desumibili da questa fonte, attribuita a Luca, vanno usati
con una certa cautela, perché condizionati del progetto letterario dell’autore, che concentra a
Gerusalemme tutti gli eventi successivi alla tragica morte di Gesù, senza menzionare in alcun modo la
Galilea. Gli Atti, dunque, si aprono fornendo alcune informazioni sulla comunità che si sarebbe raccolta a
Gerusalemme, e raccontano che i discepoli più stretti e i familiari di Gesù si riunivano insieme in
un’abitazione in città, dove attendevano costantemente alla preghiera in piena armonia, frequentavano
regolarmente il Tempio, e conducevano una vita comune. Si trattava quindi, di un gruppo perfettamente
inserito nel quadro del giudaismo del tempo. Contrariamente però all’armonia che Luca intende mostrare,
il gruppo dei seguaci di Gesù nel periodo immediatamente successivo alla sua morte non conobbe sempre
una convivenza pacifica, ma fu anche attraversato al suo interno da tensioni e conflitti, riguardanti
innanzitutto la questione della successione alla guida del movimento e quella dell’accoglienza dei gentili
nelle file del gruppo.

La successione alla guida del movimento

Nella competizione per la successione dovettero svolgere un ruolo di vitale importanza le apparizioni: il
fatto di essere stati testimoni, in modo individuale o collettivo, di un’apparizione del Risorto, conferiva
senz’altro un prestigio e un’autorità che erano preclusi a quanti non potevano fare riferimento a una tale
esperienza. I racconti delle apparizioni contenuti nei vangeli canonici e nell’apocrifo Vangelo secondo gli
Ebrei, le liste di destinatari di apparizioni fanno intuire l’esistenza di gruppi in competizione, che aspiravano
a essere riconosciuti come gli eredi autentici di Gesù e della sua opera, e facevano riferimento, ai fini della
loro legittimazione, gli uni a Pietro, ai Dodici e alla cerchia più stretta dei discepoli di Gesù, gli altri a
Giacomo fratello di Gesù e verosimilmente alla cerchia allargata dei suoi familiari. Ovviamente non
entravano in questa dinamica le donne, anche se è verosimile che la prima destinataria di un’apparizione
fossa Maria di Magdala. Secondo Max Weber, tre le modalità con cui i gruppi sociali risolvono il problema
della successione dei capi carismatici figurano la designazione compiuta dello stesso capo carismatico e
l’identificazione del successore all’interno del suo gruppo familiare, nella convinzione che il carisma sia una
qualità di sangue e si trasmetta per via ereditaria. È esattamente la situazione che troviamo nel caso della
successione di Gesù. Si confrontano due gruppi: il primo si richiama a Pietro, designato da Gesù come suo
successore nell’episodio della confessione di Cesarea di Filippo; il secondo fa riferimento a Giacomo,
fratello di Gesù. La competizione ha lasciato qualche traccia all’interno degli scritti protocristiani. Il fatto che
i vangeli canonici parlino molto poco dei familiari di Gesù e quando lo fanno, tendano a metterli in cattiva
luce, indica che essi rappresentano il punto di vista dei gruppi che si richiamavamo a Pietro e ai Dodici.
Giacomo finché visse riuscì a ottenere ampi riconoscimenti del suo prestigio e della sua autorità. Lo
ritroviamo, infatti, alla guida della comunità di Gerusalemme, affiancato da due membri del gruppo dei
Dodici: Pietro e Giovanni. I familiari di Gesù continuarono, anche dopo la morte di Giacomo, a svolgere ruoli
importanti nella comunità dei seguaci del Nazareno in Terra di Israele. Secondo la testimonianza dello
storico di origine giudaica Egesippo, che conosciamo indirettamente attraverso le citazioni che ne fa
Eusebio di Cesarea, fu Simeone, figlio di Clopa, cugino di Gesù e Giacomo, a succedere a quest’ultimo alla
guida della comunità di Gerusalemme e a subire il martirio sotto Domiziano.

L’accoglienza dei gentili all’interno dei movimenti di Gesù

Il processo di ripensamento della figura di Gesù, nonché di tutta la sua vita e attività alla luce della fede
nella resurrezione costituisce l’avvio in senso proprio della cristologia, termine con cui si designa la
riflessione di fede su Gesù. A poco a poco il personaggio si vede assegnata una vera e propria funzione
salvifica, non più circoscritta soltanto nel perimetro del giudaismo, ma potenzialmente aperta all’umanità
intera. Non siamo in grado di ricostruire in modo preciso come sia nata, all’interno di un movimento, l’idea
di una missione ai gentili. È ancora una volta Luca in At 6 a darci qualche lume, distinguendo nella primitiva
comunità di Gerusalemme due gruppi, che si chiama rispettivamente “ebrei” ed “ellenisti”. È probabile che
la distinzione alludesse, fra le altre cose, alla prevalente diversità di lingua e di origine. A un certo momento
fra i due gruppi sarebbero sorte tensioni, che avrebbero portato dapprima alla separazione. Le motivazioni
adottate da Luca, che parla di lamentele per l’inefficienza del servizio di assistenza alle vedove sono
palesemente fittizie. Più verosimilmente, gli ellenisti rappresentavano un gruppo particolare all’interno del
movimento di Gesù, che frequentava proprie sinagoghe, aveva una lingua, una cultura e tradizioni proprie,
che furono percepite come estranee e pericolose del gruppo maggioritario degli ebrei. Successivamente, a
seguito di una non meglio definita “persecuzione”, che Luca sembra connettere all’uccisione di uno dei
Sette, Stefano, gli ellenisti furono espulsi da Gerusalemme. Con il loro allontanamento, l’annuncio del
vangelo di Gesù lascia la Giudea e raggiunge le genti. Luca fa legittimare questo allargamento della missione
ai pagani da Pietro, con l’episodio del battesimo a Cesarea del centurione Cornelio e della sua famiglia,
preceduto da una visione. Sappiamo che una base importante di questa missione si era costruita ad
Antiochia. Capoluogo della provincia di Siria, la città era un importante centro economico e commerciale,
oltre che amministrativo e militare, dell’Impero romano. La sua popolazione piuttosto numerosa,
comprendeva una folta comunità giudaica. Luca ci dice che ad Antiochia per la prima volta i discepoli di
Gesù furono chiamati “cristiani”, mettendo in connessione la notizia con il moltiplicarsi di Paolo e Barnaba.
Diversamente da Gerusalemme, i rapporti dei Giudei con le altre componenti etniche della città dovevano
essere molto fitti; sappiamo, infatti, che intorno alle numerose sinagoghe si muoveva una schiera di
simpatizzanti che pur senza aderire in modo pieno al giudaismo e alle sue osservanze, tuttavia ne era
attratta per la sua concezione monoteistica della divinità, per i suoi ideali etici, per la rinomata efficacia di
certe sue pratiche religiose. Il giudaismo del tempo prevedeva procedure e regole di ingresso per quanti
volessero aderirvi senza essere Giudei di origine, in considerazione all’attrattiva esercitata dalle sue
pratiche religiose e sociali. Le modalità di adesione al giudaismo erano varie e graduate. I “timorati di Dio”
erano semplici simpatizzanti, i quali apprezzavano del giudaismo gli ideali etici e la fede monoteistica e
osservavano alcune pratiche (digiuni, regole alimentari, elargizioni liberali); i proseliti, invece, sceglievano di
aderire in modo pieno al giudaismo, accettando la circoncisione, un bagno purificatore, e soprattutto
assumevano su di sé la completa osservanza delle prescrizioni della Legge mosaica. Una figura importante
della comunità di Antiochia era Barnaba, un personaggio che Luca aveva già introdotto parlando della
primitiva comunità di Gerusalemme. Fu lui a portare Paolo ad Antiochia, dandogli modo di condividere la
nuova avventura dell’annuncio dei pagani intrapresa da quella comunità. Ora la prassi degli evangelizzatori
in Antiochia era quella di accogliere i gentili nel gruppo dei seguaci di Gesù mediante il battesimo, senza
richiedere loro la circoncisione, cioè senza imporre una previa adesione al giudaismo. Questa prassi non
mancò di creare problemi interni, provocando tensioni soprattutto con il gruppo della comunità madre di
Gerusalemme, che faceva riferimento a Giacomo fratello del Signore. In effetti, l’accoglienza di gentili
incirconcisi all’interno di un movimento che fino ad allora era composto quasi esclusivamente da ebrei non
poteva non sollevare qualche difficoltà per quanto riguardava la convivenza, dal momento che l’ebreo
osservante, per ragioni di purità rituale, era tenuto ad adottare particolari accorgimenti che limitavano la
sua vita di relazione con i non ebrei. Con il passar del tempo, tuttavia, il conflitto si acuì e per risolvere le
difficoltà, fu necessaria una formale discussione del problema tra rappresentanti della comunità di
Antiochia e quelli della comunità madre di Gerusalemme. Due racconti di Paolo (Gal 2) e di Luca (At 15)
sembrano riferirsi allo stesso episodio, vale a dire a questa discussione in merito all’opportunità di fare e
non fare circoncidere i gentili che si convertivano alla fede di Gesù. At 15(Luca) affronta due problemi
diversi, ambedue relativi alla missione: quello delle regole di purità da osservare per rendere possibile la
convivenza tra seguaci di Gesù di origine giudaica e di origine gentile nelle comunità miste. In Gal 2 Paolo
tiene distinti i due problemi e assegna la discussione del primo, quello della circoncisione a un incontro a
Gerusalemme con le “colonne” Pietro, Giacomo e Giovanni, mentre parla del secondo riguardante le regole
di purità, in riferimento al racconto della sua controversia con Pietro ad Antiochia. Nonostante le
discrepanze, difficilmente risolvibili, fra queste due fonti, da entrambe risulta comunque che c’erano Giudei
seguaci di Gesù i quali sostenevano l’assoluta necessità di circoncidere i convertiti dal paganesimo, cioè di
farne veri e propri proseliti. Giacomo e i suoi, invece, intendevano diversamente: consideravano i Giudei
vincolati dall’obbligo dell’osservanza della Legge mosaica e non ammettevano una comunione di mensa con
chi era in stato di impurità rituale. Pietro, prima dell’arrivo dei rappresentanti di Giacomo, mangia con i
convertiti dal paganesimo, che evidentemente non osservavano nessuna norma di purità, ma poi fa marcia
indietro e trascina dalla sua anche Barnaba. L’incidente di Antiochia chiarisce il punto di vista di Paolo sul
problema della convivenza tra i Giudei credenti in Gesù e quelli di origine gentile nelle comunità miste. Per
l’Apostolo, nella nuova ekklesia dei seguaci di Gesù, ogni distinzione è superata e la fede nel Cristo morto e
risorto assicura la salvezza a tutti nello stesso modo. Pertanto, i convertiti di origine gentile dovevano
essere accolti senza alcuna restrizione, che si trattasse della circoncisone o di qualsiasi altra norma culturale
giudaica. Anche sul ruolo svolto da Gesù nell’offerta della salvezza ai gentili Giacomo assume una posizione
particolare. Per Pietro negli Atti, alle nazioni è offerta la salvezza grazie all’ascolto dell’evangelo predicato,
vale a dire grazie all’annuncio di Gesù e della redenzione da lui compiuta; per Giacomo, alle nazioni è
offerta la salvezza attraverso la conversione al vero Dio, nel quadro della restaurazione escatologica di
Israele, che rimane il popolo eletto. La conseguenza che Giacomo trae dal suo discorso è che i convertiti alla
fede nel vero Dio debbano esser senz’altro accolti, ma senza condizioni.

La comunità di Gerusalemme e i credenti in Gesù di origine giudaica

I credenti in Gesù di origine giudaica sono rappresentati, innanzitutto, dalla comunità di Gerusalemme,
guidata, almeno a partite da un certo momento, da Giacomo, fratello di Gesù. Come si è detto, Giacomo e
gli anziani della comunità riescono a comporre il conflitto sorto ad Antiochia. Non mancano i conflitti con le
autorità giudaiche: Pietro viene fatto arrestare dai sacerdoti perché annunciava in Gesù la resurrezione dei
morti; sempre i sacerdoti fanno incarcerare gli apostoli; Stefano, uno dei Sette, viene lapidato; Giacomo,
fratello Giovanni, è fatto uccidere da Erode Agrippa I. Ma l’episodio più grave di questi conflitti con le
autorità giudaiche è rappresentato negli Atti degli Apostoli, ma ce ne parla lo storico ebreo Flavio Giuseppe.
Secondo uno schema che ripete quello che ritroviamo in casi analoghi raccontati negli Atti degli Apostoli,
l’autorità sacerdotale approfittando di un vuoto di potere, convoca il sinedrio e fa condannare alla
lapidazione Giacomo, fratello di Gesù, con la generica motivazione di avere trasgredito la Legge. Siamo
nell’anno 62, quando Gerusalemme e nella Giudea già fervono i preparativi in vista dell’insurrezione contro
Roma, che scoppierà nel 66. Il momento è delicato. La comunità di Gerusalemme si trova decapitata e il suo
atteggiamento nei confronti degli altri gruppi giudaici, dopo quanto è successo, è caratterizzato dalla
diffidenza e dalla paura. Ma una notizia di Eusebio ci informa che, prima dello scoppio dell’insurrezione
aperta, la comunità cristiana di Gerusalemme abbandonò la città per trasferirsi in Perea, al di là del
Giordano, nella città di Pella. Dopo l’editto dell’imperatore Adriano del 135, che vietava a tutti i Giudei di
risiedere a Gerusalemme, inizia nella città una successione di vescovi di origine gentile. Il dato importante,
in ogni caso, è che la comunità di Gerusalemme sopravvisse alla tragedia della prima insurrezione giudaica
contro Roma del 66-70. Che i seguaci di Gesù fossero ancora numerosi e attivi in Giudea al tempo della
seconda insurrezione colà scatenarsi contro Roma è attestato da una notizia di Giustino, il quale riferisce
che il leader della rivolta, Simone Bar Kokhba, aveva ordinato che i cristiani fossero severamente punti se
non rinnegavano la messianicità di Gesù. Il momento della guerra del 133-135 segnò una svolta decisiva nei
rapporti tra i seguaci di Gesù della Palestina e gli altri Giudei: per ben due volte i primi si erano rifiutati di
schierarsi a fianco dei loro fratelli in quella che era sentita come una causa comune nazionale contro lo
straniero oppressore; e questo rifiuto dovette essere sempre più percepito come una sorta di tradimento,
che di fatto li assimilava al nemico. L’atteggiamento dei seguaci di Gesù della Palestina durante le due
insurrezioni contro Roma produsse una lacerazione profonda, che contribuì a isolare i gruppi dei cristiani di
origine giudaica degli altri settori del giudaismo del tempo. Tuttavia, l’istruzione del “fiscus Iudaicus” sotto
Vespasiano in seguito alla distruzione del Tempio di Gerusalemme e al conseguente scioglimento
dell’apparato amministrativo a esso connesso, e in particolare il suo inasprimento sotto Domiziano,
mutarono profondamente la situazione. Le tensioni tra le comunità giudaiche della diaspora, da un lato, e
l’amministrazione romana e le aristocrazie pagane locali, dall’altro, si riacuirono e in questa situazione di
reciproca diffidenza e sospetto i Giudei si sentirono come vigliati speciali, ai quali era richiesto di ribadire
costantemente la loro fedeltà a Roma, che ora non era più data per scontata come in precedenza. Anche se
i romani avevano dimostrato, in più occasioni, di essere perfettamente in grado di distinguere i cristiani dai
Giudei, nella delicata situazione che si era venuta a creare verso la fine del I secolo, i Giudei avevano un
crescente interesse a sottolineare la loro separazione dai cristiani, in modo da evitare qualsiasi confusione
con questi ultimi. Se nel caso dei cristiani di origine gentile la distinzione si imponeva da sé, nel caso dei
cristiani di origine giudaica la confusione restava possibile. È quindi del tutto verosimile che le misure
adottate dai Giudei per salvaguardare la propria identità agli occhi delle autorità romane avessero come
obbiettivo soprattutto i cristiani di origine giudaica. È questa la situazione che emerge dalle lettere agli
angeli della comunità di Smirne e di Filadelfia contenute nell’Apocalisse canonica. Le due lettere
dell’Apocalisse alle comunità di Smirne e di Filadelfia intendono portare conforto ai credenti in Gesù che
sono stati allontanati dalle comunità giudaiche di appartenenza e versano in gravi difficoltà; il veggente
rivendica per loro il titolo di Giudei, mentre lo nega ai Giudei che non credono in Cristo, accusandolo di
essere “sinagoga di Satana”, preoccupati soltanto di compiacere i Romani, rappresentanti per eccellenza di
un paganesimo ostile e idolatra. Verso la metà del II secolo, Giustino affronta per la prima volta, in modo
esplicito e diretto, il problema dei cristiani di origine giudaica e del ruolo all’interno della più vasta
compagnie dei seguaci di Gesù. Nel suo “Dialogo con Trifone” l’autore affronta con l’interlocutore giudeo la
grande questione del significato e della portata salvifica della vicenda terrena di Gesù, e il problema
strettamente connesso, dei rapporti tra i seguaci di quest’ultimo e i Giudei che non hanno aderito al suo
messaggio. L’articolata risposta di Giustino è caratterizzata da tolleranza e flessibilità. Egli distingue,
all’interno della vasta compagnie dei credenti in Gesù, diversi gruppi caratterizzati da sensibilità e
atteggiamenti diversi. Tra i cristiani di origine gentile si profilano due posizioni differenti: una più moderata,
condivisa da Giustino stesso, che accetta di vivere in comunione con i Giudei credenti in Gesù che
continuano a osservare le prescrizioni della Legge mosaica, e ammette la possibilità che si salvino, e una più
radicale, che nega a questi seguaci di Gesù la possibilità di salvarsi e rifiuta la comunione con loro,
ritenendo che l’osservanza della Legge non sia compatibile con la fede in Gesù Cristo. Una terza categoria è
rappresentata da quei cristiani provenienti delle genti che, attratti e affascinati del giudaismo, decidono di
osservare le prescrizioni della Legge. Anche tra i Giudei credenti in Gesù si fronteggiano moderati e radicali:
i primi, pur continuando nell’osservanza delle norme rituali giudaiche, non pretendendo di imporle anche i
cristiani provenienti dalle genti, vorrebbero imporre anche ai cristiani di origine gentile l’osservanza delle
prescrizioni rituali, e quindi rifiutano la comunione con chi non si sottometta a questa condizione,
ricambiati da Giustino. In fine si fa riferimento ai Giudei che non credono nel Cristo e scagliano anatemi
contro i cristiani; per costoro, come anche per tutti quelli che hanno rinnegato il Cristo, secondo Giustino
non c’è salvezza possibile. L’emergenza del fenomeno gnostico nella seconda metà del II secolo contribuì in
modo decisivo alla messa in crisi di questo delicato equilibrio e favorì l’aggregazione di una corrente
maggioritaria, la cosiddetta Grande Chiesa che progressivamente si adoperò per marcare in modo sempre
più netto i confini di quella che stava diventando una nuova religione, il cristianesimo. I rapporti tra i vari
gruppi dei seguaci di Gesù subiscono un profondo mutamento verso la fine del II secolo. In questa nuova
situazione certe credenze e pratiche che fino a poco tempo prima erano accettate incominciano ad essere
guardate con sospetto e diffidenza perché divergono dalla norma che si sta lentamente imponendo e i
gruppi che le veicolano sono bollati come eretici e di conseguenza vengono marginalizzati ed esclusi dalla
comunione.

Il successo della missione paolina e i credenti in Gesù di origine gentile

La situazione è diversa nei gruppi di credenti in Gesù di origine gentile, che a partire soprattutto dal
successo della missione paolina, diventano maggioritari. Come si è visto, secondo gli accordi presi durante il
concilio di Gerusalemme le missioni ai gentili, sia quella dei cristiani di origine giudaica che facevano capo
alla comunità di Gerusalemme, guidata da Giacomo, non imponevano ai convertiti provenienti dalle genti la
circoncisone, segno dell’appartenenza al popolo di Israele: per aderire al movimento di Gesù non era
dunque necessario essere o diventare ebrei. Restava, però, il problema della convivenza nella comunità
miste: problema risolto con la richiesta esplicita di osservare un minimo di norme di purità rituale. Paolo
comunque rimase una figura controversa, se non addirittura detestata, per molti Giudei credenti in Gesù:
ne fa fede il cosiddetto “scritto di base”, risalente all’inizio del III secolo, contenuto nelle Pseudoclementine,
romanzo del IV secolo, conservato in due versioni diverse, greca e latina. La missione paolina ottiene grandi
successi e le comunità credenti in Gesù di origine diventano sempre più numerose. Il patrimonio religioso
condiviso con il giudaismo resta grande: sono comuni la credenza in un Dio unico; le Scritture sacre; i valori
etici; alcune pratiche religiose, come il digiuno e l’elemosina; le feste. Ma al tempo stesso, si assiste a una
progressiva differenziazione dei credenti di Gesù provenienti dalle genti rispetto al giudaismo, e in
particolare rispetto al nascente giudaismo rabbinico. Tale processo si svolge su due piani: innanzitutto, sul
piano politico amministrativo; e in secondo luogo sul piano culturale. Abbiamo già accennato al fatto che
l’autorità romane iniziarono abbastanza presto ad identificare i seguaci di Gesù come un gruppo a parte e a
distinguerli dai Giudei. Verosimilmente, l’appellativo stesso “cristiani” dato ai seguaci di Gesù per la prima
volta ad Antiochia, risale all’autorità amministrativa romana, che avrebbe coniato il termine per indicare i
partigiani e i seguaci di Gesù sul modello di termini analoghi. Ma l’elemento che contribuì in modo decisivo
alla distinzione dei cristiani dai Giudei fu l’istituzione del “fiscus Iudaicus”, che costituiva la tassa che tutti i
giudei pagavano al Tempio di Gerusalemme dopo la distruzione. Ovviamente per riscuotere la tassa, i
Romani dovettero censire i Giudei, verosimilmente con la collaborazione delle sinagoghe sparse nelle
diverse città dell’Impero. L’iscrizione alle liste dei contribuenti al “fiscus Iudaicus” permetteva quindi,
all’autorità romana, di identificare i giudei e di distinguerli da altri gruppi etnici e religiosi e in particolare
dai credenti in Gesù di origine gentile, i quali rivendicavano per sé il diritto di professare liberamente la loro
fede, senza però vedersi riconosciuti i privilegi in ambito religioso di cui godevano i Giudei. Un secondo
fattore che contribuì a differenziare i cristiani di origine gentile fecero ampio ricorso agli strumenti
concettuali offerti dalla tradizione filosofica greca, in particolare quella platonica e stoica; in questo modo,
si assistette progressivamente a una sorta di transculturazione del patrimonio dottrinale del cristianesimo
nascente che, veniva ora riformulato in categorie di pensiero greche per renderlo maggiormente fruibile da
parte di persone appartenenti a quella cultura. In tale riformulazione del messaggio cristiano attraverso la
filosofia greca, i seguaci di Gesù di origine gentile si servivano in particolare del metodo allegorico. Questo
procedimento interpretativo permetteva, di far dire al testo altre cose rispetto al suo senso immediato,
cogliendo significati nuovi e più profondi sotto la lettera della Scritture sacre che restarono per i cristiani
quelle giudaiche, in primo luogo il metodo allegorico consentiva di interpretare alla luce di Cristo, come
prefigurazione dei fatti della vita sua e dei suoi seguaci, tutta la storia ebraica. La discussione è volta a
dimostrare come il valore normativo della Legge mosaica fosse provvisorio e la sua funzione si sia esaurita
con l’avvento del messia Gesù. La conclusione è che, nel progetto salvifico divino, l’antico Israele secondo la
carne viene ora sostituito dai cristiani, che costituiscono il nuovo popolo di Dio.

La svolta costantiniana

Con l’avvento al potere dell’imperatore Costantino, la situazione subì profondi cambiamenti. Dopo i falliti
tentativi dei suoi predecessori, da ultimo Diocleziano, con un’intuizione geniale, cambiò radicalmente
politica e offrì ai cristiani, la forza nuova fino ad allora considerata un ostacolo e una minaccia, tolleranza e
pace in cambio di un riconoscimento e di un appoggio del potere imperiale. Con il mutamento della
situazione dei cristiani anche quella dei Giudei andò incontro a trasformazioni, sempre più sfavorevoli nei
loro confronti. Pur se non è Costantino a sancire la separazione fra le due diverse religioni, una svolta
tuttavia si coglie: è in dubbio che una serie di sue misure occasionali vanno nella direzione di assecondare lo
sguardo negativo che i cristiani proiettano sui Giudei e fanno scivolare il loro culto al disotto di quello
cristiano e del culto tradizionale pagano. Dal 324 in poi è distinguibile, come attesta il CODICE
TEODOSIANO, un interesse di Costantino a legiferare in materia di giudaismo: viene limitato il privilegio
dell’esenzione dagli incarichi onerosi nelle curie, si proibisce la lapidazione dell’ebreo appostata nonché la
circoncisione forzata degli schiavi. Le disposizioni comprendono anche il divieto di unione di ebrei con
donne non ebree. Per quanto riguarda i cristiani di origine giudaica, fino ad allora inclusi nelle liste degli
eretici soprattutto per la loro cristologia considerata erronea o per lo meno carente, si assiste a un
mutamento di prospettiva negli autori del IV secolo. Secondo Girolamo i cristiani di origine giudaica, che
egli identifica con il gruppo dei nazorei o nazareni, pur professando una cristologia perfettamente
ortodossa, si trovano in una situazione particolarmente scomoda, in quanto sono biasimati dagli altri
cristiani per il fatto di continuare nelle pratiche giudaiche, e degli altri Giudei nella preghiera sinagogale
delle Diciotto benedizioni per il fatto di credere in Gesù. La costruzione dell’identità cristiana richiede una
definizione precisa del patrimonio dottrinale e delle pratiche religiose e un altrettanto precisa
identificazione dei suoi tratti distintivi, che lo differenziano da altre realtà religiose; questo impone di
tracciare chiare linee di confine, che delimitino in modo univoco gli spazi e permettano precise procedure
per l’inclusione e l’esclusione dal gruppo. I cristiani di origine giudaica, in questa nuova situazione non
hanno futuro: si lasceranno progressivamente assimilare alla forma del cristianesimo dominate, oppure
saranno condannati a un’estrema marginalità. L’alleanza politica tra Impero e Chiesa con il passar del
tempo si consolida sempre di più. Nel 380, l’editto di Tessalonica promulgato dall’imperatore Teodosio I fa
del cristianesimo, nella forma cattolica, l’unica religione dell’Impero.

Le molteplici strade del vangelo (I-II secolo) e il consolidamento ortodosso del III secolo

Cristianesimo e cristianesimi

La tragedia della distruzione del Tempio di Gerusalemme nel 70 e l’adesione alla fede in Gesù di un numero
sempre maggiore di gentili, furono fattori che contribuirono a diversificare e a complicare la vita dei gruppi
dei seguaci di Gesù. La convivenza tra fedeli di origine giudaica e fedeli provenienti dal paganesimo, non era
facile. La posizione assunta da Paolo, per il quale l’unica salvezza è in Gesù Cristo, fu alla lunga vincente sul
piano del successo dell’evangelizzazione, perché liberava i pagani da obblighi costruttivi che costituivano
perlopiù un imbarazzo sociale, ma poteva produrre un atteggiamento di sufficienza nei confronti di chi si
ostinava a credere che l’osservanza fosse parte integrante del lascito di Gesù. Inoltre, la speranza ricorrente
della ricostruzione del Tempio e le rivendicazioni dei Giudei esercitavano una pressione forte su quanti fra
loro credevano in Gesù. Un documento anonimo in forma epistolare, successivamente attribuito a Barnaba,
la cosiddetta LETTERA DI BARNABA, getta luce su tali difficoltà. L’autore è un missionario itinerante di Gesù:
nel suo scritto non compaiono i termini “cristiano e “giudeo”, ma tutta la lettera è un atto di accusa contro
l’Israele storico: l’autore si spinge a sostenere che l’interpretazione letterale della Torah, la circoncisione, i
digiuni, è stata un tradimento, istigato da un angelo malvagio, della volontà di Dio, il quale chiede un culto
spirituale e la fedeltà del cuore. Non si conosce la provenienza del testo, ma se è egiziano, la sua reazione
contro le pratiche culturali giudaiche potrebbe spiegarsi con le difficoltà in Egitto a ridosso della
sanguinosissima rivolta dei Giudei del 115- 117. Non è un caso che del cristianesimo egiziano non sappiamo
nulla prima dell’emergere dei maestri gnostici, il che ha portato in passato a pensare che nasca con loro.
Negli Atti è ricordata la figura di Apollo, proveniente da Alessandria d’Egitto, già seguace di Gesù quando a
Efeso incontrò gli amici di Paolo, i coniugi Priscilla e Aquila: l’evangelizzazione che aveva ricevuto non
contemplava il battesimo, in compenso era esperto nelle Scritture. Il cristianesimo egiziano ha quindi una
matrice giudaica e il silenzio sulle prime fasi dell’evangelizzazione può spiegarsi con la catastrofe della
rivolta del 115- 117, che provoca la decimazione dei Giudei e un difficile riassetto. L’autocomprensione dei
cristiani e quindi il loro modo di vivere, di pregare, di riunirsi dipendeva da quello che pensavano su Gesù,
sulle modalità della salvezza da lui portata e sui suoi destinatari.

Le vie dell’evangelizzazione

A seguito della cacciata dei Sette da Gerusalemme il messaggio di Gesù arriva in Samaria, in Siria, e in
particolare ad Antiochia già negli anni 30 del I secolo. Anche a Roma giunse rapidamente. È un fatto che il
cristianesimo a Roma si è impiantato in una forma impregnata di cultura giudaica, il che vuol dire
innanzitutto conoscenza della Scrittura ebraica. Lo conferma l’ampio uso di citazioni scritturistiche nella
Lettera ai Romani, che Paolo scrive per presentarsi a fedeli che non era stato lui a evangelizzare e chiedere
sostegno in vista del viaggio in Spagna, e nella cosiddetta PRIMA LETTERA DI CLEMENTE AI CORINZI, il primo
documento cristiano di sicura origine romana. Dalle sette lettere autentiche di Paolo e dagli Atti degli
Apostoli abbiamo notizie di qualche spostamento di Pietro e soprattutto dell’evangelizzazione condotta da
Paolo, dopo la sua “conversione” e il sodalizio con Barnaba. Dapprima Paolo si muove in un’aerea piuttosto
limitata. L’unica data sicura, Il 52, certificata da un’iscrizione di Delfi, riguarda il primo soggiorno a Corinto,
dove incontra Priscilla e Aquila, esuli da Roma. In seguito si spingerà fino a Efeso, dove c’erano già alcuni
credenti in Gesù. L’azione missionaria di Paolo, che Luca specifica in tre viaggi, sarà interrotta dalla sua
cattura a Gerusalemme, forse qualcuno credente in Gesù, che lo accusano di aver profanato il Tempio.
Dichiaratosi cittadino romano, passa due anni in custodia a Cesarea e quindi, appellatosi a Cesare, viene
tradotto a Roma. Paolo predica a Roma per due anni, in una casa presa in affitto: non sappiamo nulla di
certo sulla sua fine. Una tradizione romana parla di un successivo viaggio in Spagna, il paese dove aveva
progettato di andare, ma molti storici non le danno affidamento. Si ammette invece, in ogni caso, che morì
a Roma. Oltre alle sette lettere autentiche, sono entrate a far parte del Nuovo Testamento altre cinque che
figurano scritte da Paolo: Colossesi ed Efesini, e le cosiddette pastorali. Le prime due sono con ogni
probabilità pseudoepigrafiche (cioè scritte da qualcuno che finge di essere il personaggio menzionato come
autore) e certamente lo sono le pastorali. La pseudoepigrafia, che per la nostra mentalità è senz’altro un
falso, non deve stupire: gli ignoti autori non pensano di fare un’impostura, anzi, considerandosi discepoli di
Paolo, si assumono il compito di prolungarne l’insegnamento, adattandolo alle circostanze presenti. Ciò
avviene anche per le cosiddette lettere “cattoliche”, anch’esse entrate a far parte del Nuovo Testamento. Ci
siamo soffermati su Paolo perché la sua è la storia più nota in base a fonti attendibili, ma altri missionari
avranno agito in modo simile. Certo non tutti hanno avuto la capacità organizzativa di Paolo, che restava in
contatto con le chiese fondate mediante l’invio di lettere e di missionari a lui collegati, ma molti avranno
viaggiato, come lui, insieme ad almeno un compagno. La predicazione di Paolo, a differenza di quella di
Gesù, si svolge nelle città. Fino al IV secolo il cristianesimo rimase un culto sviluppato soprattutto nelle città
e poco nelle campagne. Il motivo sta nell’imponente rete viaria dell’Impero romano: fra i percorsi principali
c’era la “via del mare”, che collegava Egitto e Palestina passando per Antiochia di Siria, i centri dell’Asia
Minore e terminando al Bosforo. Queste arterie erano sfruttate da altri tracciati di collegamento interni. Il
tutto permetteva di muoversi agevolmente verso Oriente fino alla Mesapotamia e lungo tutto il
Mediterraneo: commercianti e artigiani sono stati in prima fila nel compito missionario, proprio per la loro
facilità di movimento. Gli evangelizzatori presto cominciarono a figurare i soldati, che porteranno il
cristianesimo nei luoghi più remoti, fino ai confini nordici dell’Impero.

L’organizzazione interna delle chiese

I vangeli fanno capire che Gesù con i discepoli, per spostarsi da un luogo all’altro, aveva bisogno di qualche
risorsa economica, messa a disposizione da componenti del gruppo stesso, fra cui alcune donne, o altri
discepoli che, restando nelle loro case e ai lavori abituali, potevano fornire ospitalità: insomma, una pur
spontanea essenziale organizzazione esisteva. Dopo la morte di Gesù, il movimento proseguì in varie forme.
I missionari generalmente trovavano ospitalità e vivevano grazie al sostegno di seguaci in loco. Paolo ci
teneva a lavorare per mantenersi, ma usufruiva anch’egli dell’ospitalità occasionale, come ripetutamente si
dice negli Atti. Sulle riunioni per il culto è Paolo, a fornire notizie fondamentali. I suoi adepti continuavano
la loro vita abituale nelle loro case o in quelle dei padroni, se erano schiavi, e avevano occasioni di riunione
per la preghiera e a cena con la frazione del pane, in una stanza fornita da chi era nelle condizioni di farlo.
L’organizzazione delle riunioni in una casa(oikos) non è un’operazione priva di significato: implica prendere
parte e condividere i rapporti gerarchici all’interno dell’oikos, che non corrispondeva alla nostra attuale
famiglia mononucleare, ma comprendeva varie generazioni di parenti, nonché gli schiavi e i clientes, sicché
quando il padrone aderisce alla fede anche il resto dell’oikos lo segue. Il padrone era anche la guida
spirituale del gruppo che si riuniva presso di lui e che comprendeva altre persone ospitate per il culto. Una
fondamentale notizia, parlando in generale della ekklesia di Antiochia, dice che in essa c’erano profeti e
maestri. In Atti ma anche in Paolo il termine usato per indicare la riunione dei fedeli di Gesù è ekklesia, che
ne vocabolario profano significa “raccolta”, “assemblea”. Il termine è quasi del tutto assente nei vangeli,
comparendo solo due volte in Matteo, e ciò indica chiaramente che si riferisce ai gruppi di seguaci che si
riuniscono e interagiscono nella fase successiva alla vita di Gesù. Al significato sociologico si aggiunge
presto un significato dottrinale, che avrà tutta una serie di sviluppi e si intreccerà con l’altro. Già nella
Lettera agli Efesini con ekklesia si intende un’entità che è spirituale e addirittura preesistente, sposa e corpo
di cui Cristo è rispettivamente sposo e capo. Il significato primario di ekklesia come “assemblea” è
equivalente a quello di sinagoga, usato correntemente per indicare l’adunanza di preghiera ebraica. Anche
questo secondo termine era usato, pur se meno frequente, per indicare il raduno dei fedeli di Gesù.
Entrambi i vocaboli, ekklesia e sinagoga, sono usati, oltre che nel greco profano, nel greco dei Settanta per
indicare la riunione degli Israeliti: possiamo ipotizzare che i Giudei fedeli di Gesù scelsero ekklesia, per
distinguersi, in quanto meno usuale, e man mano che cresceva la distanza fra cristiani e Giudei, i vocaboli
siano stati messi in contrapposizione, fino ad essere rappresentati iconograficamente, nelle cattedrali
medievali, mediante due figure femminili, la Chiesa sorridente e regale, mentre la Sinagoga tiene gli occhi
chiusi ed è bendata, per simboleggiare la cecità spirituale. C’erano sicuramente forme di raccordo fra
cristiani di diversi gruppi in una stessa città, ma ci potevano anche essere diversità dovute all’influsso di
diversi evangelizzatori, come a Corinto, dove, oltre Paolo, operano Apollo e Pietro. Per indicare ruoli
particolari all’interno dell’ekklesiai Paolo non ha termini specifici. Però in un caso parla di episcopi
(sorveglianti) e diaconi (servitori, ministri). Lui stesso si menziona più volte, oltre che come apostolo, come
diakonos, un termine, questo, che indica la missione propria del seguace di Cristo il quale aveva detto di sé
di essere venuto a servire. L’astratto diakoniai ha in Paolo una pregnanza parli alla multiformità dei possibili
ruoli specifici, da lui concepiti come “doni”. Per frenare gli entusiasmi fa una precisa gradazione dei carismi:
al primo posto ci sono gli apostoli, al secondo i profeti, al terzo i maestri, poi i vari doni spirituali, ultimo dei
quali la glossolalia. La Didaché forse di area siriana, mostra una situazione in cui all’autorità di profeti e
maestri si sta sostituendo quella di episcopi e diaconi, che debbono essere eletti. La Didachè da un lato
raccomanda di guardarsi dal profeta che chiede soldi, d’altra parte comanda di accogliere il vero profeta a
spese del gruppo. Paolo, a suo tempo, sosteneva, con buon realismo, che la cosa migliore era che pure
l’apostolo lavorasse. Il pericolo dell’avidità si pone però anche per episcopi e diaconi, visto che la Didachè
raccomanda di eleggere persone provate e non desiderose di arricchirsi. Nelle lettere autentiche di Paolo e
nella Didaché non compare il termine presbyteros (anziano), che avrà invece grande fortuna: a capo della
Chiesa di Gerusalemme. Di certo la Prima Lettera di Clemente ai Corinzi attesta per Roma e per Corinto
l’identificazione fra episcopi e presbiteri. Questa fonte ci parla di un conflitto all’interno della Chiesa di
Corinto, causato dalla rimozione di alcuni presbiteri dal loro ruolo, voluta da gran parte della comunità. La
Prima Lettera di Clemente ai Corinzi schierandosi con i presbiteri deposti, sostiene che furono gli apostoli a
stabilire i presbiteri a guida delle chiese e, per evitare contese, aggiunsero la clausola che, alla loro morte,
fossero sostituiti da altri, designati, sembrerebbe, dai predecessori, con l’approvazione dell’assemblea.
Nelle prime decadi del II secolo, in alcune chiese di Asia e di Siria l’organizzazione basata sul collegio degli
episcopi/presbiteri lascia il posto all’affermazione di un episcopo al di sopra del collegio presbiteriale che a
sua volta è sovraordinato ai diaconi. Cosi talvolta si parla di monoepiscopato. La prima attestazione del
passaggio allo schema verticale che vede il vescovo a capo del collegio dei presbiteri e i diaconi in subordine
si trova nelle lettere di Ignazio di Antiochia, che muore non più tardi degli anni 20 del II secolo. Il ruolo del
vescovo unico è ancora incerto, così non è chiarita neppure l’ideologia sottesa a tale ruolo. Infatti Ignazio
giustifica il ruolo sovraordinato del vescovo in quanto figura di Dio Padre, collega i diaconi a Cristo, sulla
base dell’idea di servizio, e i presbiteri agli apostoli.

Le pratiche di vita

Nei vangeli entrati a far parte del Nuovo Testamento non abbiamo attestazione che Gesù predicasse la
continenza o che guardasse ai peccati sessuali con particolare severità. Con ogni probabilità egli però, a
causa della sua scelta di vita, non aveva moglie. Paolo predilige lo stato di continenza, contestualizzando
nella perdita di valore di tutte le istituzioni del mondo attuale rispetto all’evento decisivo della salvezza in
Cristo e al compimento prossimo della sua seconda venuta. In lui si insinua però l’idea che il peccato
sessuale contamini in modo intimo l’essere umano, al contrario di altri peccati. È un fatto che il pensiero di
Paolo ha alimentato precocemente il variegato e ampio fenomeno dell’encratismo(continenza) nel
cristianesimo delle origini: negli Atti di Paolo e Tecla, un testo largamente diffuso, il vangelo proposto da
Paolo consiste essenzialmente nella predicazione della verginità. L’encratismo presenta tutta una gamma di
sfumature. C’era chi riteneva che la continenza perpetua dovesse essere la condizione dei battezzati: nel II
secolo discussero in proposito il vescovo Pinto di Cnosso, che la sosteneva e obbligava i fedeli coniugati alla
castità, e Dionigi, vescovo di Corinto, che la sconsigliava per indulgenza verso i più. Nella Prima lettera a
Timoteo l’autore dimostra di essere preoccupato per coloro che condannano le nozze e afferma che la
donna si salva partorendo figli. L’encratismo radicale fu emarginato dalla Grande Chiesa e fu praticato dai
movimenti eterodossi, ma l’apprezzamento per la verginità, considerata superiore al matrimonio, rimase
per secoli un caposaldo della morale cristiana, perché, sganciando l’individuo da molti legami sociali,
consentiva una vita dedita a Dio. I cosiddetti apologisti, cioè i cristiani che scrissero in difesa della loro fede,
insistettero sulla superiore morale sessuale dei cristiani. Tuttavia era sempre possibile, a causa del rifiuto
delle nozze da parte dei cristiani estremisti, esporsi all’accusa di asocialità ed è forse per questo timore che
nel II secolo la Lettera a Diogneto parla dei cristiani come di coloro che allevano i figli, non li espongono,
obbedendo alle leggi e superandole nella pratica, mentre non fa parola della continenza. I testi più recenti
fra quelli entrati a far parte del Nuovo Testamento insistono sui cosiddetti “codici domestici”, cioè sulle
prescrizioni per le categorie sotto tutela, donne, giovani, schiavi, con intento di disciplinamento. È indubbio
che, rispetto alla prassi di Gesù, che appare liberatoria, le fonti successive mostrano da un lato un forte
coinvolgimento femminile alle origini del cristianesimo, dall’altro lato lasciano trapelare la resistenza a
rendere visibili le donne mediante l’uso del maschile inclusivo, e quando ne parlano, sottolineano
comunque la loro debolezza e il bisogno di protezione. Non possiamo esprimerci con certezza
sull’eventuale ruolo di guida nelle chiese svolto da donne, ma ci sono elementi sufficienti per non negarlo in
particolari circostanze, come induce a pensare il caso di Ninfa che esercitava il ruolo che esercitiva il ruolo
di responsabile di una chiesa domestica, forse perché vedova o non sposata. La Prima lettera di Pietro
raccomanda le donne la sottomissione ai mariti in funzione di missionaria, per convertire il coniuge con la
dolcezza; un chiaro esempio, questo, della possibilità per la donna di prevalere attraverso l’uso intelligente
dei codici di comportamento patriarcali. La diffusione del cristianesimo si verificò in un periodo in cui nella
società romana la condizione femminile mostrava segni di emancipazione e questo avrà consentito qualche
spazio autonomo alle cristiane. Non bisogna d’altro canto dimenticare che i cristiani, per farsi accettare
dalla società contemporanea dovevano dimostrare di avere standard etici superiori ma non in contrasto
con quelli circostanti: la donna cristiana doveva possedere gli atteggiamenti di riservatezza, pudicizia,
modestia raccomandati dai moralisti pagani anzi superarli. Quando l’autore della Prima lettera a Timoteo
impone alla donna di tacere e di non insegnare perché è colpevole della trasgressione di Eva, ai nostri occhi
è chiaro che la prescrizione viene data proprio perché c’erano donne che intervenivano nell’assemblea e
insegnavano, ma ciò non toglie che questo comando, contenuto in un testo che diverrà canonico, ha
contribuito, insieme con altri simili, a produrre l’esclusione o la forte limitazione dai ruoli attivi femminili
nelle chiese.

Alla radice del conflitto teologico

La logica intrinseca alla predicazione missionaria imponeva di concentrarsi sulla figura di Gesù, per il fatto
stesso che, annunciando il vangelo, bisognava spiegare le ragioni dell’autorità di chi lo aveva pronunciato.
La fede nella resurrezione, di per sé, non implicava che Gesù fosse qualcosa di diverso da un uomo e
confermato da Dio. Il prologo del Vangelo secondo Giovanni, identificando Gesù Cristo con il Logos “presso
Dio”, lo considera senz’altro un essere preesistente, chiamandolo “dio”, anche se il racconto della passione,
oltre a tutto lo svolgimento della narrazione, garantisce in Giovanni la realtà del suo essere uomo. È vero
che alcune figure, come il Figlio dell’uomo, erano considerate dalle correnti giudaiche apocalittiche
promanare della sfera divina, è altrettanto vero che, nel contemporaneo giudaismo ellenistico, Filone
faceva del Logos e della Sapienza le potenze con cui Dio opera nel mondo, ma la via imboccata
progressivamente dalla riflessione cristiana conduce a parlare di Gesù Cristo come “dio” in senso proprio e
personale, aprendo la questione di come conciliare tale convinzione con l’unicità di Dio e acuendo la
polemica con gli ebrei. Nell’ambito di chi pensava in termini di cristologia alta si diffonde presto la
convinzione, opposta a quella sostenuta nel Vangelo secondo Giovanni, che Gesù, in questo essere divino,
fosse uomo soltanto in apparenza: questa dottrina viene chiamata “docetismo”.

I cristiani di Roma e Cartagine fra II e III secolo

A Roma, capitale dell’Impero, la continua immigrazione portava alla presenza di gruppi di cristiani di varia
provenienza, ognuno con una propria fisionomia e con proprie sedi di riunione. A complicare la situazione,
nel corso del II secolo, maestri cristiani, ortodossi ed eterodossi, venuti da ogni parte, vi aprirono scuole,
dove si celebrava anche il culto cristiano. Il prolungarsi della conduzione collegiale dei presbiteri, attesta
sicuramente poco prima della metà del II secolo da un fortunato scritto romano, il Pastore di Erma, si spiega
con questa disarticolazione della Chiesa. Anche se Pietro e Paolo non sono stati i fondatori della Chiesa, a
partire da metà del II secolo, il periodo in cui si diffonde l’idea della successione apostolica delle chiese,
cominciano a essere considerati tali, in forza della tradizione secondo cui entrambi sono stati martirizzati a
Roma. Gli studiosi, con qualche eccezione che vorrebbe spingere la conduzione collegiale fino a metà del II
secolo, concordano che Vittore si regista un comportamento da vescovo monarchico. L’episodio più
significativo in tal senso è la sua decisione di uniformare il calendario pasquale a Roma, dove la comunità
asiatica celebrava secondo l’uso quartodecimano, mentre la maggioranza celebrava la domenica successiva
al plenilunio di primavera. Un risvolto interessante della faccenda è che Vittore aveva chiesto alle chiese
d’Asia di riunirsi in concilio, evidentemente confinando nell’abbandono della prassi quartodecimana, che
invece esse confermarono. Vittore allora si spinge a volere “tagliare come se fossero eterodosse”,
suscitando l’approvazione dello stesso Ireno che ricorda, come Aniceto di Roma e Policarpo di Smirne si
fossero incontrati senza raggiungere un accordo sulla Pasqua ma rimanendo in comunione reciproca. C’era
certo un problema liturgico derivante dallo sfasamento della data, per cui alcuni festeggiavano la Pasqua
mentre gli altri erano ancora in digiuno penitenziale, e vi era anche un risvolto teologico in quanto la
Pasqua quartodecimana era incentrata sulla passione di Cristo, mentre quella domenicale sulla
resurrezione. Il montanismo, nato in Frigia fra il 151 e il 171, si diffuse rapidamente in Asia Minore e in
generale in Oriente, nonché in Africa. È indubbio che il montanismo attirava sospetti in molti fra quanti
avevano un ruolo di responsabilità nella Chiesa, per il ruolo di primo piano di due donne profetesse, Priscilla
e Massimilla, per il rigore ascetico, e l’esortazione all’autodenuncia come cristiani, rafforzata dalle speranze
millenariste. Inoltre i montanisti, valorizzando l’azione dello Spirito, consideravano sempre aperto e
passibile di essere accresciuto il novero delle Scritture cristiane per le quali, proprio nella seconda metà del
II secolo, si stava cercando di determinare e delimitare un corpus. Il vescovo di Roma più importante della
prima metà del III secolo fu Callisto, un tempo schiavo banchiere. La rocambolesca vicenda della sua vita è
narrata da fonte a lui avversa, l’autore per noi sconosciuto dell’opera antieretica Elenchos(Confutazione),
un tempo indentificato con Ippolito, un esegeta di cui abbiamo molte opere. Callisto dopo un periodo di
prigionia nelle miniere di Sardegna come confessore della fede, fu liberato con altri cristiani per
intercessione della concubina dell’imperatore Commodo, Marcia. Protetto da Vittore, organizzò poi come
diacono per il vescovo Zefirino il primo cimitero di proprietà della Chiesa di Roma, dove ricchi e poveri sono
sepolti insieme, con formulario epigrafico uguale, che ricorda solo il nome del defunto e nessun altro dato
biografico. Diventato vescovo propone una visione ecclesiale: indulgente in campo penitenziale,
accomodante verso le esigenze dei cristiani di origine altolocata, aliena da elaborazioni raffinate in teologia.
Il tema della penitenza era molto sentito fra i primi cristiani che in generale ritenevano che dopo il
battesimo non fosse possibile la riconciliazione nella Chiesa per i peccati gravi. Callisto, servendosi
dell’allegoria dell’arca di Noè in cui convivono animali puri e impuri, riteneva che la Chiesa non dovesse
respingere i peccatori, ma indurli a penitenza. Il problema matrimoniale era grave per le ricche cristiane,
che per legge non potevano contrarre matrimonio, pena la decadenza dei privilegi di rango, con uomini di
classe inferiore, e che difficilmente trovavano nella loro cerchia mariti cristiani. Alcuni decenni dopo
emerge a Roma un’altra personalità di intellettuale cristiano, anch’egli in contrasto con la linea prevalente
della sua Chiesa: Novaziano. Novaziano produce con il “de trinitate” l’ultimo testo di elevato impegno
dottrinale nella Chiesa di Roma. È scritto in latino, mentre l’autore dell’Elenchos, tradizionalista anche in
questo, scriveva ancora in greco, la prima lingua adoperata nella Chiesa romana. Con lui assistiamo al
riemergere di una linea rigorista. Nel 250, dopo il martirio del vescovo Fabiano, che si era rifiutato di fare il
sacrificio prescritto da Decio in tutte le città, Novaziano, come portavoce dei presbiteri romani, aveva
intessuto una corrispondenza con Cipriano di Cartagine. La Chiesa di Cartagine era antica, importante nella
regione, ed era sempre stata in stretti rapporti con Roma. Tertulliano non era stato l’espressione letteraria
più significativa all’inizio del II secolo: era un rigorista e un brillante polemista, che dopo aver aderito al
montanismo, finì la sua vita in una setta tutta sua. Era anche una mente eccelsa e, nonostante avesse finito
i suoi giorni da scismatico, fu, fino all’altro grandissimo africano, Agostino, il maestro di generazioni dei
cristiani latini che volessero avere una preparazione. Quanto a Cipriano, era di famiglia altolocata, avvocato
di professione. Aveva aderito in età matura al cristianesimo con una conversione clamorosa e subito, nel
249, era stato fatto vescovo, suscitando la gelosia dei presbiteri di lunga data. Cipriano si trovò di fronte al
doppio enorme problema costituito da un lato dai lapsi (cioè i caduti), i cristiani che a vario livello, avevano
ceduto per paura davanti al decreto di Decio, e dall’altro dai confessori che, in prigione, riammettevano
immediatamente nella comunione della Chiesa quanti avevano apostato. La situazione è per noi
interessante soprattutto perché mostra come le chiese si siano trovate impreparate di fronte a una
situazione di pericolo inaspettata: da lungo tempo i cristiani, vivano tranquilli. Le lettere di Cipriano ci
mostrano il dramma che avviene nelle case dei cristiani, con il capofamiglia che di solito cerca tutti i mezzi
per scampare i suoi, agendo anche con violenza per obbligare moglie e figli a sacrificare, oppure, quando
possibile, garantendo lui per gli altri, mettendo in pericolo solo la sua anima. Cipriano tiene una via media
che rifiuta l’immediata riammissione, rimanda la decisione sui lapsi a un concilio da svolgersi quando fosse
tornata la calma. Ma una volta diventato vescovo Cornelio, fattosi eleggere a sua volta in contrapposizione
a lui, rifiuta di ammettere i lapsi anche in punto di morte, rimettendo a Dio il giudizio. Nel frattempo
Cipriano, appena chiusa la persecuzione, nel 251 e nel 252 tiene due concili sul problema dei lapsi. Quelli
pentiti e disposti a una durissima penitenza potevano essere riconciliati in punto di morte. I libellatici, cioè
quelli che avevano comprato il libelluss senza sacrificare, avevano una penitenza più mite.

Il consolidamento dell’organizzazione episcopale

Fra il 180 e il 260 si compie il processo di stabilizzazione organizzativa nel cristianesimo. La maggioranza
delle chiese sparse nel bacino del Mediterraneo è retta da un vescovo e ha una propria identità di fede,
d’etica e di culto, anche se ci sono i gruppi che potremmo definire dissidenti, le sette emarginate o
autoemarginatisti. Il mezzo epistolare consentiva di confrontare le opinioni, stabilire linee comuni ai vescovi
di una regione o di aree diverse. Altro strumento per prendere decisioni condivise e/o risolvere conflitti
erano i concili di cui il prototipo è il concilio di un’area più vista. All’inizio del III secolo, si constata
l’affermarsi di una terminologia sacerdotale in riferimento ai ruoli ecclesiastici. La prima testimonianza in
tal senso è Tertulliano. La Lettera agli Ebrei, nel I secolo affermava che l’unico sacerdote è Gesù Cristo, ora
si passa a parlare di vescovo-sacerdote. Cipriano di Cartagine completa la dottrina episcopale con la sua
competenza giuridica, precisando la natura indivisa del potere episcopale. Egli ricorda casi di vescovi
africani che hanno impedito il reintegro nelle loro chiese agli adulteri pentiti ma hanno mantenuto l’unità
della Chiesa accettando che gli altri vescovi si comportassero diversamente. Nello stesso torno di tempo,
veniamo a conoscere che la Chiesa di Roma ha elaborato un’interpretazione tutta sua di Mt 16,18 secondo
la quale, essendo il vescovo di Roma successore di Pietro, si estende a lui la priorità di Cristo rivolta a Pietro
nel Vangelo.

Oralità e scrittura

Anche se, come vedremo, non si può definire il cristianesimo una religione del libro senza fare opportune
precisazioni è indubbio che la religione cristiana ha prodotto libri sacri e letteratura in proporzioni
sconosciute alle religioni tradizionali del mondo mediterraneo, essenzialmente baste sulla corretta
officiatura dei riti. Per quanto riguarda il giudaismo la presenza della Scrittura fa sì che in Palestina
l’insegnamento elementare

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