Esplora E-book
Categorie
Esplora Audiolibri
Categorie
Esplora Riviste
Categorie
Esplora Documenti
Categorie
LE OPERETTE MORALI
Tra il gennaio e il novembre 1824, Leopardi scrive le Operette morali, venti prose di argomento filosofico e
taglio satirico, in forma o di narrazione o di discorso o di dialogo. L'edizione definitiva esce postuma a cura
di Ranieri e conterrà ventiquattro operette. Vi è comunque una differenza d'ispirazione tra i testi del 1824 e
quelle aggiunte tra il 1827 e il 1832. Le prime operette corrispondono infatti a un ripiegamento psicologico
e culturale di Leopardi, che tenta di trovare un equilibrio nel distacco. L'organicità dell'opera non sta nella
struttura, ma nel suo fine, concettuale e pratico: da un lato, essa vuole mostrare il vero e irridere alle sue
mistificazioni illusorie; dall'altro, il fine pratico determina il carattere morale dei testi. L'ironia implica infatti
un rifiuto dello strumentario ipocrita della morale tradizionale: le Operette possono essere morali sono a
patto di proporre una nuova forma di moralità, che si cali nella concreta esperienza. E ciò comporta lo
smascheramento della morale tradizionale. Le Operette morali vogliono dunque assolvere tre funzioni:
rappresentare senza veli la necessità del dolore per gli uomini; smascherare le illusioni consolatorie;
additare un modello di reazione all'infelicità, nelle passioni e nei gesti generosi che anche la disperazione
può consentire.
Il pessimismo cosmico
Questa prima fase della vita di Leopardi venne seguita da un
peggioramento delle condizioni salutari del poeta, gobbo e afflitto da gravi
problemi alla vista, nonché in pena a causa di diverse delusioni amorose.
Tutto ciò lo portò ad una netta evoluzione del suo pensiero. Mentre in
principio la natura era vista come un elemento benigno, con l'aggravarsi
dei problemi personali essa divenne la principale antagonista dell'uomo. Si
entrò così nella fase denominata "pessimismo cosmico". È possibile
ritrovare questa corrente di pensiero all'interno di una delle sue liriche più
celebri, contenuta all'interno dei "Canti": "La ginestra o il fiore del
deserto". Negli ultimi componimenti leopardiani il pessimismo raggiunse
così il suo massimo livello, tanto che il letterato accennò più volte alla sua
aspirazione verso la morte, considerata l'unica via di fuga
dall'insoddisfazione della vita. Anche la sua concezione del piacere
cambiò. Esso non venne più percepito come un qualcosa di raggiungibile
tramite le illusioni, ma venne invece distinto perlopiù come una
momentanea sospensione del dolore. Abbiamo terminato la nostra guida
sul pensiero di Leopardi.
LO ZIBALDONE
Lo Zibaldone del Leopardi è un’opera vasta, immensa dal punto di vista
nozionistico e in termini fisici (ben 4525 pagine!), scritta in un lasso di
tempo ventennale da parte dell’autore e che raccoglie, in ordine sparso,
vari e numerosi pensieri, spunti, pareri, riflessioni sulla propria poetica,
vita e modo di intendere l’esistenza da parte dell’autore.Nello specifico, i
temi trattati sono: la religione cristiana, la natura delle cose, il piacere, il
dolore, l'orgoglio, l'immaginazione, la disperazione e il suicidio, le
illusioni della ragione, lo stato di natura del creato, la nascita e il
funzionamento del linguaggio (con anche diverse annotazioni
etimologiche), la lingua adamica e primitiva, la caduta dal Paradiso, il
bene e il male, il mito, la società, la civiltà, la memoria, il caso, la poesia
ingenua e sentimentale, il rapporto tra antico e moderno, l'oralità della
cultura poetica antica, il talento, e, insomma, tutta la filosofia che sostiene
e nutre la propria poesia. Va da sé che ci sia un filo di conduttore
all’interno dell’opera che mostra anche l’evoluzione del pensiero
leopardiano, che lo stesso autore avrà cura nel mostrarlo, riordinando ad
un certo punto lo Zibaldone stesso e inserendo riferimenti a suoi pensieri
precedenti, rendendolo nel tempo un’opera organica
Struttura dello Zibaldone
Di per sé, come detto, lo Zibaldone non nacque come opera strutturale:
l’autore ne cominciò una libera scrittura su un proprio quadernetto a soli
diciannove anni, creando il primo nucleo di quella che sarebbe poi
diventata l’opera: nella prima parte infatti la stesura è confusionaria, non
ordinata e molto casuale, poi dal 1827 viene reso un vero e proprio diario
di vita, nel quale il poeta annota gran parte della propria esperienza
letteraria e dell’evoluzione del suo pensiero, dei suoi interessi e di tutto ciò
che può essere la base delle sue discussioni filosofico-letterarie,
organizzandolo anche con un’indicizzazione cui fa spesso riferimento per
eventuali richiami o rimandi interni, che lo trasformano appunto in
un’opera autonoma.
La teoria leopardiana sul dolore
Tra i temi maggiormente trattati, il dolore, il ricordo e la poesia sono
capisaldi fondamentali: il dolore viene inteso come la legge della realtà ed
è universale. Esso riguarda "non gli individui, ma le specie, i generi, i
regni, i globi, i sistemi, i mondi" (Zibaldone, 3); Il ricordo ha, come detto,
un'importanza fondamentale nella poesia leopardiana: "La rimembranza è
essenziale e principale nel sentimento poetico, non per altro se non perché
il presente, qual ch'egli sia, non può essere poetico; e il poetico, in uno o in
altro modo si trova sempre consistere nel lontano, nell'indefinito, nel vago"
(Zibaldone, 6); La poesia è poi identificata da Leopardi con il senso
dell'indeterminato e con le emozioni interiori cui corrispondono alcune
particolari parole evocatrici di immaginazioni e rimembranze infinite:
lontano, antico, notte, notturno, oscurità, profondo, ecc.
Quiete
In questa fase della vita del poeta, l’unica felicità che l’uomo può ottenere è molto
breve perché è dovuta all’interruzione solo temporanea del dolore. Quella felicità
eterna, da sempre aspirazione di tutti gli uomini, è quindi raggiungibile solo con la
morte.
Gli eventi della vita però, porteranno il poeta ad una maturazione meno
pessimistica e più cosciente del suo pensiero nelle fasi successive della sua poetica.
A silvia
1. La poesia si apre con la descrizione della primavera dove la creatura Silvia canta
tessendo la tela, dove, si affaccia poi il poeta che ascolta il canto; si descrivono i
sogni che si affacciano alla gioventù.
2. La consapevolezza da parte del poeta che tutto quello che sogna in realtà è svanito
per colpa della natura.
3. La malattia che sconfigge Silvia e non le permette di realizzare i suoi sogni
vivendo la giovinezza.
4. La riflessione del poeta sulla morte della speranza, sullo svanire delle sue illusioni
e come l’intera umanità sia condannata a un destino di morte.
Il poeta all’inizio della lirica si rivolge a Silvia e hai tempi in cui era felice e
spensierata pensando al futuro e ai suoi progetti e sogni; quando ella era ancora
viva. L’avvenire a cui pensa Silvia è vago perché non saprà cosa le succederà in
un futuro ma sicuramente sarà per lei qualcosa di bello e felice. Durante i periodi
felici Silvia tesseva e cuciva per preparare la sua dote per quando si sarebbe
sposata come le giovani della sua età e cantava gioiosa; Leopardi ascoltava la sua
voce allontanandosi dai suoi amati studi.
Alla luna
Il poeta guarda la luna che rischiara il colle e la selva e ricorda che l'anno prima gli era apparsa
nebulosa e tremula perchè egli aveva gli occhi pieni di pianto per l'angoscia che sentiva in sè. Ora la guarda
senza lacrime, anche se il dolore in lui non si è dissolto: il ricordo è sempre di grande sollievo per l'uomo
angustiato dall'infelicità della vita. Nella dolcezza del ricordo si placa, quindi, il tormento del poeta ritornato
sul colle dell'infinito a mirare la luna alla quale parla con teneri accenti e con intima familiarità perchè essa
è l'unica, muta testimone del suo dolore.
Infinito
Questo breve idillio esprime il desiderio del giovane poeta di godere
dell’immensità. Infinito spaziale («interminati spazi»), infinito temporale («e mi
sovvien l’eterno») si fondono insieme, ma sempre partendo da un dato oggettivo
e fisico: la siepe nel primo caso; il vento nel secondo. Quindi non è un infinito
mistico-spirituale, ma solo materiale: i sensi sono sempre il punto di partenza di
ogni possibile riflessione. Di fronte all’infinito materiale il cuore ha un sussulto,
un brivido, che gli deriva dal pensiero.
Tristan
Scritto nel 1832 e pubblicato nell’edizione del 1834, il Dialogo di Tristano e di un amico inizia con
questa battuta: «Ho letto il vostro libro. Malinconico al vostro solito». L’amico (che resta anonimo,
perché rappresenta l’intellettuale ottocentesco “tipico”, almeno nell’ottica leopardiana) ha letto
le Operette morali, e ora le commenta con l’autore. Così come Saffo, l’Islandese e il pastore errante,
Tristano è di nuovo un alter ego di Leopardi: stavolta, egli ha scelto per sé il soprannome dello
sfortunato eroe medievale, celebre per il suo amore per Isotta.
L’amico è conciliante, ottimista, moderatamente soddisfatto della vita, e vorrebbe portare Tristano
dalla sua parte («voi siete diventato de’ nostri», dice a un certo punto, senza rendersi ben conto del
fatto che Tristano gli sta dando ragione per finta, e sta dicendo in realtà il contrario di ciò che
pensa). Le battute di Tristano manifestano invece un disprezzo profondo per gli altri uomini, che non
vogliono aprire gli occhi sulla verità.
Un discorso a parte meritano gli italiani. «Le classi superiori d’Italia sono le più ciniche di tutte le
loro pari nelle altre nazioni. Il popolaccio italiano il più cinico dei popolacci». Il cinismo degli
italiani ha avuto, tuttavia, il merito di aprire loro per primi gli occhi di fronte «all’apparir del vero»,
contro le illusioni e gli inganni della tradizione. Questo vantaggio iniziale, però, si è poi tradotto in
un freno verso la formazione di un costume nazionale. «Gl’italiani hanno piuttosto usanze ed
abitudini che costumi». E queste, «che si possono e debbono dire provinciali e municipali, sono
seguite piuttosto per sola assuefazione».
Per Leopardi, dunque, gli italiani vivono una profonda contraddizione: da un lato, proprio grazie al
loro cinismo, hanno manifestato il loro primato di modernità nell’aver individuato per primi
l’«infinita vanità del tutto»; ma da questa superiorità iniziale è discesa una pesante inferiorità, quale
maggiore immoralità.
Di grande interesse il fatto che Leopardi non parli mai di popolo, ma di cittadini e di società civile.
La conseguenza di ciò è l’abbinamento automatico, quasi psicologico, fra popolo e principi
fondamentali: scomparsi questi, per opera dei Lumi, è scomparso anche il primo. Eppure, in questo
stesso saggio, come ne La ginestra, affiora sempre il bisogno che qualche valore possa prima o poi
riaffermarsi in via universale, magari mosso da un autentico processo popolare.
Cinismo
Oggi, il termine ‘cinico’, ha assunto una connotazione negativa, viene usato per indicare chi ostenta
disprezzo e beffarda indifferenza verso ideali o convenzioni della società odierna con note di
sfiducia, sarcasmo sfacciato e nichilismo. Si dà del cinico ad una persona fredda ed indifferente,
distaccata, imperturbabile, insensibile, sprezzante, beffarda.