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Solo et pensoso i più deserti campi e Tacito orror di solitaria selva

Trattando del primo componimento, il poeta cerca la solitudine, i luoghi isolati, per nascondere
agli altri uomini la vista del proprio stato d’animo.
Il paesaggio diventa l’unico testimone della vicenda interiore di Petrarca, che è però sempre
seguito da Amore, che lo tormenta.
Il rapporto privilegiato con il paesaggio e il dialogo interiore con i sentimenti è il prototipo della
lirica petrarchesca.
I due componimenti riprendono il topos letterario della fuga dal mondo dei contatti sociali e della
ricerca della solitudine in luoghi naturali.
I motivi della fuga sono tuttavia differenti, e testimoniano, oltre alla grande differenza tra i due
artisti, un mutamento dei costumi sociali e delle tematiche letterarie: Petrarca tenta di fuggire
dall’Amore di Laura mentre Alfieri si sente straniero alla sua età, che gli causa perenne tristezza e
insofferenza, e quindi crede che la solitudine sia l’unica soluzione per l’uomo libero costretto a
vivere in tale “vil secol”.
Per Petrarca questo tentativo è vano: non c’è luogo in cui si possa sfuggire a se stessi, mentre
l’Alfieri prova piacere ed un senso di pace solo in solitudine; questo è dovuto alla sua sensibilità
ribelle e tormentata, alla sua insofferenza verso i dispotismi e verso i vincoli dell’esistenza terrena:
infatti è la ribellione verso le forme di oppressione e condizionamento che lo porta in conflitto con
la società e gli fa desiderare di “rinselvarsi”.
Petrarca fugge dal mondo e da ogni traccia di presenza umana perché vuole sottrarsi, per
vergogna, alla vista delle “genti”, che possono leggere nella tristezza del suo comportamento le
tracce del suo tormento interiore (“di fuor si legga com’io dentro avampi”); la sua identità è messa
in discussione dal potere dell’amore e dalle lacerazioni nell’anima che esso produce, ma anche
rispecchia e ingigantisce la solitudine dell’io.
Alfieri, nell’ambiente solitario e cupo della selva, prova una “dolce tristezza” che gli allieta il cuore:
è la somiglianza fra i suoi pensieri e l’ambiente naturale aspro e desertico che rasserenano
l’animo, e il poeta riesce a placare i propri sentimenti ribelli solo quando in solitudine.
Le ambientazioni dei due componimenti sono una proiezione oggettiva dello stato d’animo dei
poeti, e sono caratterizzati da un paesaggio psicologico, che corrisponde all’io del poeta. Le “aspre
vie” petrarchesche e la “solitaria” e silenziosa selva alfieriana simboleggiano l’interiorità sofferta
dei due poeti, diverse in quanto il dissidio di Petrarca deriva dall’incapacità di sfuggire all’amore
per Laura, mentre quello di Alfieri da un individualismo esasperato, dall’eccezionalità dei suoi eroi,
che in realtà non sono altro che un alter ego del poeta stesso. L’Alfieri mostra sofferenza per il
“pesante real giogo” ma allo stesso tempo anche insofferenza nei confronti dei problemi del suo
secolo, perché se ne sente sopraffatto.
Da queste due descrizioni viene alla luce l'io dei poeti colmo di conflitti e contraddizioni,
soprattutto quello del Petrarca che è sdoppiato tra coscienza e istinto, ragione e passione; da
questo si evince il valore supremo della poesia come strumento di autoanalisi e introspezione.
Nel componimento di Alfieri il tema della ricerca della solitudine Petrarchesco è allontanato dal
clima del petrarchismo: non vi è qui l’assorta e pacata esplorazione interiore del poeta
trecentesco, ma un animo tempestosamente titanico che cerca la pace in una natura orrida e
selvaggia. Non si ha quindi la grazia del gusto trecentesco, ma la ricerca del “sublime”, cioè un
orrore che appare piacevole.

Da un punto di vista stilistico, mentre nel sonetto petrarchesco la struttura tematica è divisa in
quattro momenti, che coincidono con la misura dello schema metrico, nel componimento
alfieriano vi è corrispondenza tra sintassi e contenuto del sonetto solo nelle prime quartine,
mentre nelle terzine il discorso iniziato al nono verso viene terminato alla fine del componimento.
A livello fonico suoni nasali e assonanze sembrano accompagnare l'incedere lento e malinconico
del Petrarca, mentre nel sonetto alfieriano si alternano suoni aspri e dolci (tristezza, orrida - dolce,
bea), che simboleggiano l'opposizione fra l'asprezza dell'ambiente e la dolcezza che esso produce
nell'animo del poeta.

Analisi Alfieri
In sonetto presenta la forma metrica tradizionale ABBA ABBA CDC DCD.
È romantica la corrispondenza tra l’io lirico del poeta e il paesaggio che lo circonda, in questo
ambiente egli trova la pace.
L’esigenza di solitudine non nasce quindi dall’egocentrismo di un uomo che si ritiene superiore agli
altri, ma dallo scontro con il vil secol: l’uomo magnanimo, come affermato già nella Tirannide, non
ha altra via di scampo che la morte o la chiusura nella solitudine.
La selva gli consente di isolarsi e di non pensare ai mali del presenta, il suo tormento interiore è
come se trovasse una giustificazione “storica”. È in isolamento rispetto alla mediocrità
convenzionale.
La ricerca dell’io lirico era presente anche in Peytrarca, ma qui si discosta per lo stile, non più
sublime ma aspro e tenebroso.
Nel sonetto troviamo chiari echi del modo di procedere dantesco, soprattutto nella creazione di
neologismi come “rinselva” e “inselva”, entrambi contenenti la parola chiave del componimento. Il
significato da attribuirgli però è diverso: nella Commedia era luogo di smarrimento e perdizione
morale, qui è luogo di pace e beatitudine interiore. Un ulteriore richiamo all’Inferno è nel “buon
sentier”, che richiama la “dritta via smarrita” di Dante.

vv. 3-4, vv. 9-10 -> enjambements


v.2, v.13 -> anastrofe
vv. 1, 5, 8 (selva, inselva, rinselva) -> figura etimologica
v. 5 (piè) -> sineddoche
v. 13, v. 14 -> metafore
v. 2 (della tristezza) -> ossimoro
Allitterazioni della r, della m ed n, della s

Le Rime
Le Rime si presentano come un corpus poetico sostanzioso, diviso in due parti. Una prima
raccolta, edita nel 1789, contiene oltre cento componimenti, composti tra 1786 e 1788. Il primo
sonetto risale però al 1776. Una seconda raccolta contiene i componimenti scritti tra 1789 e il
1798, ma viene pubblicata solo postuma nel 1804.

Il sonetto predomina tra le forme poetiche, ma sono presenti anche odi e canzoni. La
predominanza del sonetto accentua il senso di una poesia d'occasione, vista come diario in
itinere, che permette di cogliere il percorso poetico dell'autore. Alfieri, infatti, segna la data e il
luogo, ma non il luogo dove è stato composto, ma quello in cui egli si è sentito ispirato.
L'influenza principale delle rime è Petrarca ma non viene emulato nella lingua e nello stile. Viene
usato come modello da Alfieri per la necessità di esprimere il proprio sentire in forma poetica.
Da Petrarca viene ripresa l’immagine di un io lacerato da forze contrastanti, ma al petrarchismo
settecentesco regolare e limpido Alfieri contrappone uno stile aspro e duro, riprendendo il registro
linguistico petrarchesco con una sistematica ripresa a contrasto.
Se per Petrarca la poesia ha il compito di purificare e illimpidire il duolo, per Alfieri deve al
contrario puntare all’intensificazione espressiva “far sempre più viva la doglia”.

Alla tematica amorosa, intesa come amore irraggiungibile e tormentato, vi si affianca quella
politica, con la continua critica nei confronti di un’epoca vie e meschina, con un amore fremente
della libertà e il protendersi verso un passato idealizzato in contrapposizione con il vile presente.
Alfieri delinea in questi sonetti un ritratto di sé che risponde a quell’ideali del letterato-eroe,
l’ideale di un uomo dotato più di sentimento che di ragione, gelido razionalismo senza poesia.
Accanto a questi atteggiamenti combattivi vi è anche una tematica pessimistica: Alfieri sottolinea
come siano compresenti in lui ira e malinconia, un senso di disillusione, di costante scontentezza.
La morte diviene quindi un’immagine ricorrente, ed è intesa come unica possibilità di liberazione
dell’io e anche come unica prova della rettitudine ed eroicità o meno della propria vita.
Questa disposizione d’animo cupa ed angosciata ama sfondi di paesaggio aspri, selvaggi,
tempestosi e orridi. L’io vuole una natura simile a sé, in cui potersi rispecchiare. Anche questo
sentire il paesaggio come proiezione dell’animo è un motivo tipicamente romantico.

Il Canzoniere
Il Canzoniere di Petrarca è un’opera in volgare composta da 366 componimenti, di cui 263
composti prima della morte di Laura e 103 dopo la morte. I componimenti sono per lo più sonetti,
ma ci sono anche ballate, canzoni e madrigali. Come affermato dallo stesso Petrarca (Voi
ch’ascoltate in rime sparse il suono) questi componimenti non sono collegati fra loro.
Il tema principale del Canzoniere è l’amore per Laura, ma si potrebbe anche intendere come il
desiderio di gloria del poeta (da lauro, rametto con cui viene incoronato il sommo poeta).
È evidente nel componimento un mutamento repentino e continuo di stati d’animo, tra illusioni e
disillusioni di un amore non corrisposto, e il dissidio interiore tra i fini materiali della vita (amore e
gloria) e l’aspirazione al misticismo religioso. Laura, infatti, è una nobilissima creatura terrena, ma
non la donna-angelo di Dante, e pertanto l’amore verso di lei allontana dalla fede in Dio.
Il Canzoniere può considerarsi l’opera di tutta una vita, poiché Petrarca continuò a lavorarvi per 40
anni, modificando man mano la struttura e i componimenti presenti nell’opera. L'elemento che
rende unitaria la raccolta è un amore (per Laura) scarsamente ricambiato, visto dal poeta quasi
sempre nella luce del ricordo. A un livello più profondo, il Canzoniere esprime un'inquietudine
esistenziale, nella quale confluiscono gli affanni amorosi e quelli di natura religiosa o morale.

Sublime specchio di veraci detti, dalle Rime


Il sonetto è un componimento autobiografico, definibile come una descrizione del poeta.
Nella prima quartina Alfieri si rivolge proprio alla poesia stessa: egli afferma che saprà far vedere,
come un quadro, sia i tratti fisici che quelli spirituali; capelli naturalmente rossi e radi in fronte
rispetto a quelli della gioventù; alta statura e testa sempre a terra per un atteggiamento
pensieroso e riflessivo, non per umiliazione. Alfieri vuole sicuramente ergersi in un atteggiamento
eroico e titanico.
Continua definendosi magro su due gambe dritte; pelle bianca, occhi azzurri e aspetto buoni, tratti
tipicamente nobiliari poiché erano gli unici a potersi permettere la carnagione chiara, non
dovendo svolgere lavori all’esposizione della luce solare; giusto naso, bel labbro e denti eletti, qui
vi è una variazione dell’ordine di sostantivi e attributi (chiasmo). Si descrive che il suo naso è
proporzionato e che i denti sono bianchi; “pallido in volto, più che un re sul trono”, esso è uno dei
versi più importanti dal momento che è la prima volta che conosciamo in maniera distinta la
polemica di Alfieri contro i tiranni, contro chi accentra a sé un potere, lotta che è il tratto distintivo
della produzione di Alfieri: se lui è pallido perché naturalmente così, i re lo sono operchp hanno la
costante paura di essere vittima di congiure e quindi di perdere il proprio potere. Da questo punto
di vista, Alfieri non ha nulla di rimproverarsi.
Nelle due terzine si ha una descrizione psicologica dell’autore: “or duro, acerbo, ora pieghevol,
mite”, talvolta aspro e certe volte più mite, “irato sempre e non maligno mai”, questi tratti,
tipicamente romantici, fanno capire il motivo per cui Alfieri è stato definito un re-romantico: irato
perché ha una disposizione d’animo teso, insaziabile e inquieto, non maligno perché la di non aver
mai fatto del male a nessuno. La malignità è la cattiveria, mentre l’ira è la giusta indignazione
contro il male del suo tempo.
“La mente e il cor meco in continua lite” è un altro verso fondamentale che aiuta a far capire
l’inquietudine esistenziale del poeta; “per lo più mesto, e talor lieto assai”, sono sempre
sentimenti contrastanti: l’antitesi è un procedimento retorico quindi molto presente nel sonetto.
Quivi afferma che la maggior parte delle volte è triste, solo poche volte è lieto; “or stimandomi
Achille, ed or Tersite”, Achille può esssere il prototipo dell’eroe, mentre Tersite è l’antieroe
codardo e vigliacco; “com, se tu grande, ovie?”, ritorna anche nell’ultimo verso la
contrapposizione tra l’eroe e il vile che era presente nel verso precedente sotto forma di
personaggi tratti dall’epica; “muori, e il saprai”, se una persona è grande sarà ricordata: questa è
un’ossessione di Alfieri, La questione della morte è fondamentale, il problema è quello di fare
qualcosa di grande, tanto da poter essere ricordati dopo la morte.

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