La differenza tra i versi lirici dell’inizio e della fine e i versi 24-39 ha aperto un dibattito
critico sulla mancanza di unità dell’idillio. Ma c’è un elemento che unifica il tutto: il canto
dell’artigiano che il poeta sente allontanarsi per le vie del paese e che lo riporta alla
sensazione di angoscia che sentiva da bambino.
Questa poesia raccoglie concetti ed immagini che negli stessi anni compaiono anche negli
appunti e nelle lettere. Essa è caratterizzata dalla compresenza, tipica di tutte le poesie
leopardiane, ma qui più vistosa, di momenti descrittivi e di discorso polemico
protestatario; la protesta è contro la natura che al poeta ha negato anche i mediocri
divertimenti e le speranze che illudono gli altri uomini e si svolge in termini personali
patetici.
I nuclei tematici
I/notturno e il sonno della donna (vv. 1-l0). ll poeta contempla il paesaggio lunare nella
sera di un giorno festivo e lo interiorizza. Nei primi quattro versi la natura e il paesaggio
notturno sono i protagonisti, circondati da un’area semantica che riconduce alla pace e alla
tranquillità; alcuni esempi sono le parole dolce, chiara, senza vento, queta, posa, serena. È un
momento di grande pace e di idilliaco e autentico rapporto con la natura stessa, che
infonde serenità
La festa degli altri e /a disperazione del poeta (w. 11-24). Il verso undici, che inizia con
l’anafora“Tu dormi”, evidenza il contrasto tra lo stato d animo del poeta e quello della
donna, sottolineato dall’uso dei pronomi Tu e Io. Mentre lui scruta la natura angosciato,
lei dorme serena. Sempre da questo verso inizia un ribaltamento totale del conforto della
natura: essa viene definita antica (come a mostrare la precarietà della vita umana rispetto
al cosmo) e onnipossente (può infatti creare o distruggere a suo piacimento); inoltre
Leopardi nel verso quattordici, riferendosi sempre alla natura, dice: “che mi fece
all’affanno”, ossia, che mi generò per farmi soffrire. Evidenzia così chiaramente come senta
ostile ciò che lo circonda: non è più madre ma matrigna.
Nel verso quattordici c’è una prosopopea: è la natura stessa che parla, personificata dal
poeta, e che, come una maledizione, afferma di aver negato lui anche la speme, la speranza,
e che gli occhi del poeta non brilleranno d’altro se non di pianto,eccezionale l uso del
verbo brillare,solitamente riferito alla gioia,qui associato al pianto. Al verso diciassette
inizia quella che è la sezione narrativa, come mostra il primo verbo che
incontriamo, fu ossia un passato remoto, il tempo del racconto appunto. Si rivolge di
nuovo alla donna, usando tra l’altro una parola di solito riferita ai bambini, trastulli per
indicare gli svaghi che durante il giorno l’hanno stancata e da cui ora si riposa.
La immagina mentre sogna tutti gli uomini su cui ha fatto colpo e soprattutto quanti le
sono piaciuti: e l’autore, con più negazioni, ribadisce la sua convinzione di non essere tra
questi: non può nemmeno sperarlo, la natura glielo nega.
È nel verso ventuno che subentra l’angoscia vera propria del poeta, con una disperazione
espressa in una maniera molto incontrollata ed esasperata, come si nota anche dai verbi
“mi getto e grido e fremo”, introdotti con un enjabement che costituiscono sia un climax
ascendente del furore provocato dalla passione, che un polisindeto e che rimandano al
tema romantico del titanismo.
Dal giorno di festa ad una sensazione infantile (w. 40-46). Nel verso quaranta c’è il ritorno
all’infanzia, nella quale, come ora, non riusciva a dormire nel dì di festa. Il salto nel
passato è permesso dal canto dell’artigiano, tramite tra passato e presente, che anche
quand’era piccolo s’udia per li sentieri. L’affievolirsi della voce, a causa della lontananza gli
faceva stringere il core similmente ad ora. Al canto dell’artigiano Leopardi associa dunque la
caducità della vita, ma riesce a giungere a questo pensiero solamente in età adulta, quando
ha già scoperto il vero, raggiungibile solamente tramite la riflessione. C’è qui la
consapevolezza del dolore dell’uomo.