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LA SERA DEL DI’ DI FESTA

Composto nell'estate del 1820, quest'idillio può  essere considerato l'esempio tipico di


come la situazione sentimentale dei 'Piccoli Idilli', tutta basata sull'aspirazione di
sensazioni vaghe ed indeterminate, si distenda sull'onda di ricordi di paesaggi e di
intuizioni dell'anima e si raggeli invece ogni qual volta riaffiori un tema immediatamente
personale e polemico. Così quest'idillio si racchiude soprattutto sulla descrizione del
villaggio addormentato contemplato in un silenzio immobile in un' estasi sospesa; sull'eco
musicale del canto che sale dalla strada, e sul ricordo della fanciullezza che questo canto
suscita.
Il canto si apre con una straordinaria descrizione della notte illuminata dalla luna e si
chiude in un malinconico indugio sulla propria infanzia ormai irrimediabilmente
trascorsa. Nella lirica prevale il carattere soggettivo e autobiografico: il poeta riflette sul
proprio destino. Nella prima parte (w. 1-24) si coglie il motivo dell’amore non ricambiato e
della natura ingannatrice, che ha condannato il poeta all’infelicità. Ciò che maggiormente
colpisce è lo stato d'animo contemplativo raggiunto dal Leopardi, quello improvviso
contemplare e tacere di ogni altro senso, quello aprirsi nuovo degli occhi dinanzi alle
immagini della natura.
La seconda parte (vv. 24-46) introduce invece le tematiche dello scorrere del tempo che
vanifica ogni evento umano, della rimembranza, della delusione che si prova al
sopraggiungere di un’attesa ma vana felicità un idillio anche questo che cerca il senso
della fugacità del trapassare e spegnersi di ogni vaghezza; che accomna un altro degli
aspetti della poesia leopardiana cioè la capacità di rinvenire nelle contemplazioni del
momento, stupori, incanti e malinconie degli anni passati.

La differenza tra i versi lirici dell’inizio e della fine e i versi 24-39 ha aperto un dibattito
critico sulla mancanza di unità dell’idillio. Ma c’è un elemento che unifica il tutto: il canto
dell’artigiano che il poeta sente allontanarsi per le vie del paese e che lo riporta alla
sensazione di angoscia che sentiva da bambino.

Questa poesia raccoglie concetti ed immagini che negli stessi anni compaiono anche negli
appunti e nelle lettere. Essa è caratterizzata dalla compresenza, tipica di tutte le poesie
leopardiane, ma qui più vistosa, di momenti descrittivi e di discorso polemico
protestatario; la protesta è contro la natura che al poeta ha negato anche i mediocri
divertimenti e le speranze che illudono gli altri uomini e si svolge in termini personali
patetici.
I nuclei tematici
I/notturno e il sonno della donna (vv. 1-l0). ll poeta contempla il paesaggio lunare nella
sera di un giorno festivo e lo interiorizza. Nei primi quattro versi la natura e il paesaggio
notturno sono i protagonisti, circondati da un’area semantica che riconduce alla pace e alla
tranquillità; alcuni esempi sono le parole dolce, chiara, senza vento, queta, posa, serena. È un
momento di grande pace e di idilliaco e autentico rapporto con la natura stessa, che
infonde serenità

La quiete evoca in lui il ricordo dell’amata che a quell’ora dorme serenamente(“Tu


dormi”vv.7, frase che ripeterà in anafora anche al verso undici). Le negazioni (non ti
morde cura nessuna, non sai nè pensi) sottolineano la spensieratezza della donna di contro
all’angoscia del poeta, escluso dai sogni e dai pensieri della fanciulla e destinato a
un’esistenza di dolore. Nei versi nove e dieci l’autore rivela la piaga d’amore che la donna
stessa gli ha provocato, cosa a cui lei sicuramente non dà pensiero: e già non sai né pensi
quanta piaga m’apristi in mezzo al petto.

La festa degli altri e /a disperazione del poeta (w. 11-24). Il verso undici, che inizia con
l’anafora“Tu dormi”, evidenza il contrasto tra lo stato d animo del poeta e quello della
donna, sottolineato dall’uso dei pronomi Tu e Io. Mentre lui scruta la natura angosciato,
lei dorme serena. Sempre da questo verso inizia un ribaltamento totale del conforto della
natura: essa viene definita antica (come a mostrare la precarietà della vita umana rispetto
al cosmo) e onnipossente (può infatti creare o distruggere a suo piacimento); inoltre
Leopardi nel verso quattordici, riferendosi sempre alla natura, dice: “che mi fece
all’affanno”, ossia, che mi generò per farmi soffrire. Evidenzia così chiaramente come senta
ostile ciò che lo circonda: non è più madre ma matrigna. 

Nel verso quattordici c’è una prosopopea: è la natura stessa che parla, personificata dal
poeta, e che, come una maledizione, afferma di aver negato lui anche la speme, la speranza,
e che gli occhi del poeta non brilleranno d’altro se non di pianto,eccezionale l uso del
verbo  brillare,solitamente riferito alla gioia,qui associato al pianto. Al verso diciassette
inizia quella che è la sezione narrativa, come mostra il primo verbo che
incontriamo, fu ossia un passato remoto, il tempo del racconto appunto. Si rivolge di
nuovo alla donna, usando tra l’altro una parola di solito riferita ai bambini, trastulli per
indicare gli svaghi che durante il giorno l’hanno stancata e da cui ora si riposa.

La immagina mentre sogna tutti gli uomini su cui ha fatto colpo e soprattutto quanti le
sono piaciuti: e l’autore, con più negazioni, ribadisce la sua convinzione di non essere tra
questi: non può nemmeno sperarlo, la natura glielo nega.
È nel verso ventuno che subentra l’angoscia vera propria del poeta, con una disperazione
espressa in una maniera molto incontrollata ed esasperata, come si nota anche dai verbi
“mi getto e grido e fremo”, introdotti con un enjabement che costituiscono sia un climax
ascendente del furore provocato dalla passione, che un polisindeto e che rimandano al
tema romantico del titanismo.

Il canto dell’artigiano e i grandi imperi dimenticati (w. 24-39). Dal verso ventiquattro


Leopardi racconta di udire il solitario canto dell’artigian, che riede a tarda notte, dopo i sollazzi,
al suo povero ostello. È l’unico residuo della festa che c’è stata, dove probabilmente si è
rafforzata – o è nata – la passione dilaniante per la donna che ora dorme e a lui non pensa.
Associa il canto dell’artigiano che si allontana sempre di più per le vie a come tutto passa a
questo mondo; il suono lo riporta a una riflessione sulla caducità della vita, il mondo è
coinvolto nella fugacità. Anche i versi successivi trattano ancora lo stesso tema: il tempo
tiranno porta via ogni umano accidente. Partendo da questa esperienza personale, siamo al
verso 33, passa a una riflessione ancora più allargata, nella quale si domanda che fine
abbiano fatto i popoli gloriosi antichi, le battaglie famose e quella Roma caput mundi.
Associando ciò al canto dell’artigiano, utilizza termini che riportano a delle percezioni
sensoriali uditive, come le parole suono, grido, fragorio. Si può notare anche una netta
differenza con I Sepolcri, nei quali Foscolo esprimeva la sensazione di vedere ancora
infuriare la battaglia, solamente vedendo o trovandosi, secoli – se non millenni dopo –
nello stesso luogo.
Il verso trentotto segna il ritorno alla quiete: pace, silenzio, posa. Sempre in questa riga c’è
una forte anafora della parola tutto e viene ripreso lo stesso verbo dei primi versi – posa –
che era stato usato per la luce lunare.

Dal giorno di festa ad una sensazione infantile (w. 40-46). Nel verso quaranta c’è il ritorno
all’infanzia, nella quale, come ora, non riusciva a dormire nel dì di festa. Il salto nel
passato è permesso dal canto dell’artigiano, tramite tra passato e presente, che anche
quand’era piccolo s’udia  per li sentieri. L’affievolirsi della voce, a causa della lontananza gli
faceva stringere il core similmente ad ora. Al canto dell’artigiano Leopardi associa dunque la
caducità della vita, ma riesce a giungere a questo pensiero solamente in età adulta, quando
ha già scoperto il vero, raggiungibile solamente tramite la riflessione. C’è qui la
consapevolezza del dolore dell’uomo.

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