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Pascoli, Giovanni - La mia sera:


commento
Appunto di italiano relativo ad un'interpretazione personale
alla poesia La mia sera di Giovanni Pascoli.
di Barca_della_vita
10' di lettu
(4337 punti)

La mia sera: commento

La lirica “La mia sera” scritta dal poeta Giovanni Pascoli nel 1903 mette in
evidenza il contrasto tra la violenza di un temporale avvenuto durante il
giorno e la quiete della sera che, però, risente degli effetti del tempo
burrascoso conferendogli un senso di precarietà. Ciò è un ambiente, una
condizione esterna al poeta ma al contempo rispecchia le pulsioni del suo
stato interiore: all’apparenza sereno e pacifico, in realtà disilluso, stanco e
ferito.

Nella prima strofa viene descritta la speranza del poeta di rivedere le stelle
dopo una giornata piena di lampi. Un pensiero, questo, che si confonde con
gracidare di piccole rane e il tremolio delle foglie del pioppo scosse da una
leggera brezza. Il tutto è racchiuso in un’ immagine bucolica e georgica, tipic
della poesia del Pascoli. É da notare come il richiamo agli astri costituisca
un’immagine simile a quella dantesca in cui il poeta sta uscendo dall’oscurità
e dalla melmosità dell’Inferno per rivedere dopo tanto tempo le stelle. Così
come, quindi, Dante liberato dal peccato mortale ritorna a vedere la luce
della speranza anche Pascoli sta cercando di liberarsi dal peso delle avversit
e vivere una tranquillità duratura. Nella seconda strofa, infatti, il desiderio
diventa certezza: ci saranno le stelle nel cielo perché sarà finita la tempesta
di essa rimarrà solamente un “dolce singulto”. Intanto la scena bucolica si
ampia e si complica, quasi in associazione con l’arricchimento delle
sensazioni del poeta, dal momento che si introduce lo scorrere monotono d
un piccolo fiume in contrasto con il verso allegro delle rane. Questa antitesi
continua anche nella terza strofa in cui la tempesta, considerata dal poeta
infinita, si esaurisce in modo finito: la sua veemenza ormai è ridotta ad un
semplice scorrere delle acque del fiumiciattolo della seconda strofa, le nubi
minacciose ora sono piccole, rossastre e dorate. Ciò produce un rilevante
effetto: il riposo del dolore del poeta. Anche questa condizione, però, sembr
precaria e apparente come viene descritto nella quarta strofa. Qui, infatti, si
descrivono gli effetti più drammatici della tempesta: a causa di essa le rondi
non hanno potuto nutrire i loro piccolini con cibo a sufficienza e per questo
loro fame sarà prolungata durante il corso della sera serena. Si può notare
ancora qui il contrasto tra una sensazione positiva e una negativa ma con un
particolarità: quest’ultima è dominante nell’ambiente esterno e in quello
intimo del poeta. Con la reticenza “Né io…” Pascoli sottintende al lettore, e
forse a sé stesso, il fatto di avere fame. Una fame, però, diversa ma parallela
da quella animale. È una fame umana che potrebbe essere il prolungamento
di quella iniziata nel “ X agosto”, poesia scritta nel 1986, in cui come i
rondinini non hanno ricevuto la cena per l’uccisione della rondine madre cos
la famiglia dell’artista non ha mai preso tra le braccia il dono delle due
bambole fatto dal padre poiché anch’esso è stato assassinato.
In entrambi i contesti la sensazione del dolore della fame è uguale ma quello
che cambia è la matrice: il primo è fisico, il secondo è più intimo, spirituale,
affettivo. Si tratta, quindi, di una voracità antica, ma elaborata fino ad ora ch
si arricchisce, però, come il paesaggio bucolico, di altre valenze. Per capirle
occorre interpretare il significato della “Mia sera” presente nel titolo e nel
verso 32 (“mia limpida sera”). Essa è un simbolo, già usato da altri autori qua
ad esempio il Foscolo, per indicare non solo la fine della giornata ma anche
fine dell’esistenza e la morte. È la fine della sofferenza, del dolore, della
tempesta piena di fulmini intesi come eventi naturali e traumi di una vita
affettiva e familiare distorta, caratterizzata dall’assenza di armonia. È la mor
il mezzo tramite cui si arriva alle stelle non coperte da nessun tipo di nuvola
minacciosa o rossastra. Di essa ha fame il poeta, stanco di sopportare la
gravità della sua condizione, rassegnato sotto peso dello scorrere del tempo
Gli anni passano e il poeta non si sazia vivendo tra una burrasca e l’altra tan
che esclama: “O stanco dolore riposa!”. Non desidera più nulla ma spera il
nulla dopo la fame ed ecco perché utilizza la reticenza. Questo senso luttuos
è ribattuto nella quinta strofa in cui si ha in sottofondo il suono delle
campane suggerito dall’onomatopea “don…don” mentre una voce tenera
ripete al poeta diverse volte di dormire. È una voce nota a Pascoli che apre
alla dimensione del ricordo dell’infanzia di un canto che quasi assomiglia ad
una ninna nanna: si tratta della voce della madre. Si accenna alla donna non
solo perché i Canti di Castelvecchio sono a lei dedicati ma anche per
un’analogia nascosta nella strofa. Come, infatti, la mamma canta al figlio, in
questo caso il poeta, una dolce melodia per farlo addormentare serenamen
durante la notte così, attraverso la dimensione del ricordo, Pascoli cerca di
rievocare queste note materne affinché lo accompagnino durante la sua
ultima sera e il suo eterno sonno, quasi volesse recuperare quell’estrema
fame di affetto di cui si è visto privato a causa della morte. Fino alla fine,
quindi, si può notare il senso contrastante della poesia: il poeta ormai
arrivato in tarda età spera di porre fine alla sua esistenza volendo vivere il
nulla ma proprio negli ultimi attimi nasce in lui il desiderio di essere in
contatto con la voce della madre e di tornare come era durante la sua
infanzia. Ma, giunto a questo punto, Pascoli non desidera più e se lo fa è sol
illusoriamente perché il nulla è più forte e la sera, la morte sempre più buia
conclude la lirica così come la vita del poeta. Tutte queste suggestioni sono
state rese attraverso figure di suono e significato, utili al lettore da una parte
perché rendono con un verismo simile a quello di Verga l’ambiente rurale in
cui si collocano i pensieri del poeta rendendoli concreti e non solamente
frutto di una mente metafisica dall’altra poiché sono il mezzo tramite cui
questi due ambienti (esterno ed interno) si legano e dialogano
armoniosamente l’uno con l’altro tanto da creare un’unicità nella loro essenz
e consistenze diverse. Forse è proprio per la concezione, in Pascoli, di una
natura umanizzata, benevola e amorevole che patisce le stesse pulsioni del
poeta che egli stesso è stato portato a desiderare sua madre per l’ultima
volta.
La natura, però, non viene considerata solamente in senso positivo e
positivista dal momento che è influenzata da tendenze spiritualistiche che
toccano un misticismo oscuro, misterioso, sospeso, luttuoso che genera
nell’animo attrazione e al tempo stesso sgomento. Al di là di essa c’è una
dimensione quasi onirica in cui tutto è caotico, inconsistente e disgregato. E
è proprio nella natura e nei suoi simboli che sono presenti i temi più cari a
Pascoli e oscuri agli uomini: in un aratro messo in analogia con una lavandai
c’è il senso della solitudine e dell’abbandono, in una stella cadente, nel canto
di un assiolo, di un paesaggio invernale e nel volo di un aquilone una lacrima
per il lutto e l’incombenza della morte, nella pianta parassita del vischio che
succhia la linfa vitale del vegetale ospitante si trova la malattia che assorbe
tutti gli impulsi, nel fiore della Digitale purpurea un sogno d’amore ormai
perduto e un ricordo che si è fatto presente ma pur sempre si tratta di una
rievocazione. Tale concezione della natura può anche essere vista nel poeta
decadente francese Charles Baudelaire nel sonetto “Correspondances” in cu
emerge un senso di indefinito, suggestioni sensoriali e naturali. Come in
Pascoli c’è un senso di espansione e unione della materia e del tempo fino a
creare un’unica realtà in cui tutto si confonde.

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