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Leopardi, Canti

Bruto minore
La canzone Bruto minore, composta nel dicembre 1821 e pubblicata per la prima volta
nelle Canzoni del 1824, si compone di 8 strofe, ciascuna di 15 versi sciolti, endecasillabi e settenari. Le
strofe successive sono invece il monologo di Bruto. Notevoli sono le affinit tra questa canzone
e Ultimo canto di Saffo, composta pochi mesi dopo. Esse sono spesso chiamate "canzoni del suicidio".
Possiamo notare che queste due canzoni rappresentano il suicidio come l'estrema, nobile
manifestazione di un animo teso a grandi ideali e deluso dalla realt; anni dopo, nel Dialogo di Plotino e
di Porfirio, Leopardi esprimer una posizione diversa.
Nella seconda stanza, Bruto rivolge una serie di domande aspre e venate di sarcasmo agli dei, che
hanno verso gli uomini "ludibrio e scherno" (v. 21).
Chi debole non pu che rassegnarsi alla "ferrata/necessit" (vv.31-32) ovvero al ferreo destino; il
prode invece combatte contro il "fato indegno" (v.38) una guerra mortale, e piuttosto di piegarsi rivolge
contro se stesso la spada e "maligno alle nere ombre sorride" (v.45). La quinta strofa propone il tema
del confronto tra la condizione degli uomini e quella degli animali (confronto che, in forma diversa,
torner nelle poesie Il passero solitario e Canto notturno di un pastore errante dell'Asia). L'animale
giunge alla morte serenamente in vecchiaia; ma se anche per qualche motivo cercasse la morte, n
religione n filosofia potrebbero opporsi. Solo agli uomini dato di trovare insopportabile la vita; e solo
agli uomini la divinit proibisce il suicidio. Ora lo sguardo di Bruto si volge a contemplare la notte, con la
luna che sorge "placida" (v.83) dal mare, indifferente allo scorrere della storia. Nell'ultima strofa, Bruto
non invoca le divinit; esprime un ultimo sdegnoso giudizio sull'umanit futura, i "putridi nepoti" (v.113)
che certo non potranno custodire il ricordo della virt; affida il suo corpo ("ignota spoglia") alle forze
della natura, e lascia il nome e la memoria del proprio essere al vento che se li porti via.

Linfinito

L'infinito una delle liriche pi famose dei Canti di Giacomo Leopardi. Il poeta la scrisse negli
anni della sua prima giovinezza a Recanati, sua cittadina natale, nelle Marche. Le stesure
definitive risalgono agli anni 1818-1819. La lirica, composta da 15 endecasillabi sciolti, appartiene
alla serie di scritti pubblicati nel 1826 con il titolo "Idilli". n questo idillio, composto in endecasillabi
sciolti, con il ricorso continuo all'enjambement il poeta ottiene significativi effetti di straniamento,
giocando con l'enfasi che le parole chiave della poesia, tutte attinenti alla sfera semantica
dell'infinito. La natura: tra gli elementi che ricorrono maggiormente in questa poesia troviamo
elementi naturali: l'ermo colle, la siepe, il vento, le piante, le stagioni, il mare. La presenza di questi
elementi l'unica cosa che ncora il poeta alla realt, ma esse appaiono ovunque indistinti e
piuttosto indeterminati. E' vero che si parla di questo ermo colle, questa siepe, ecc, ma quest'uso
di termini determinativi come questo e quello in realt evidenziano ancora di pi l'indeterminatezza
del paesaggio (quale colle? quale siepe?). In realt al poeta non interessa parlare della natura ma
di ci che accade al poeta di fronte ad essa. Ogni elemento naturale diventa cos solo una
coordinata vaga per mettere in scena e reappresentare l'esperienza dell'io poetico, vero
personaggio della poesia. Lo spazio: un elemento fondamentale in questa poesia; l'elemento
descrittivo e metaforico su cui regge tutta la narrazione. Tutto nasce infatti da una
contrapposizione iniziale tra uno spazio lontano (ma caro), il "laggi" rappresentato dal colle, e uno
spazio vicino e ristretto, il "qui", delimitato dalla siepe. Il poeta si trova nel "qui" e non riesce ad
andare oltre, a raggiungere il colle tanto caro, perch la siepe glielo impedisce. Ma quando il poeta
si siede e si mette a guardare l'orizzonte, ecco che grazie alla sua immaginazione riesce a
pensare a interminati spazi oltre la siepe e prende cos vita la sua esperienza poetica pi pura.
Anche se la poesia non fa uso di rime, in realt sapientemente costruita su un'infinit di
piccoli accorgimenti fonetici e sintattici che gli danno una cadenza e una musicalit particolari.
Ad esempio, dopo i primi tre versi introduttivi, nel momento in cui ha inizio l'esperienza sensoriale
del poeta, l'uso del gerundio di sedendo e mirando (v. 4), l'uso del polisindeto con la ripetizione
della congiunzione "e" (e sovrumani silenzi, e profondissima quiete... - vv. 5-6), e quello
dell'assonanza col suono "s" (sedendo / spazi / sovrumani silenzi / profondissima quiete) danno
alla frase un'ampiezza maggiore e una cadenza pi lenta e dolce, che accompagnano bene il
significato espresso dai versi. Un'altra assonanza presente nella poesia quella col suono "v"
(ove per poco... e come il vento... a questa voce vo comparando... e mi sovvien... e la presente
e viva): un'assonanza che si dipana su ben 9 versi (vv. 5-13), accompagnata da molte ripetizioni
del suono "o", particolarmente profondo, che lega tra loro tutti i versi centrali della poesia fino a
consegnarla all'epilogo. Di nuovo, il polisindeto dei versi 11-13 (e mi sovvien l'eterno, e le morti
stagioni, e la presente e viva, e il suon di lei), accentuano il senso del succedersi dei pensieri nella
mente del poeta, e del suo vagabondare da un pensiero all'altro. Altra figura retorica importante in
questa poesia l'enjambement, grazie al quale leggiamo i versi in modo continuo, senza pause, e
che d maggiore enfasi all'ampiezza di questi endecasillabi.
Infine, tutta la poesia si basa su metafore, dove la siepe rappresenta la barriera mentale dell'uomo
che lo stimola a guardare "oltre", lo stormire del vento tra le piante ricorda alla mente gli spazi
infiniti entro cui pu muoversi il pensiero, e il mare in cui annegare la dimensione senza confini
dell'immaginazione.

Alla luna
Alla luna una delle liriche dei Canti di Giacomo Leopardi, composta a Recanati probabilmente nel
1820. Si tratta di un componimento poetico assai significativo in quanto qui troviamo un tema che sar
molto frequente nella lirica leopardiana: si tratta del ricordo (lo stesso titolo originario della poesia
era La rimembranza). A distanza di un anno (v. 2, or volge lanno) il poeta ritorna nuovamente sulla
sommit del monte Tabor, un colle che si erge a sud di Recanati (si tratta dello stesso scenario
contemplativo dell'Infinito), per ammirare l'astro, della quale ribadisce la piacevolezza estetica e le
qualit morali: al primo verso, infatti, la luna qualificata dall'aggettivo graziosa, da intendersi anche
come leggiadra e amabile, come pi avanti (precisamente al v. 10) definita diletta. Davanti allo
spettacolo offerto della luna, che rischiara la selva sottostante con una luce ovattata e lattiginosa, il
poeta cerca, in petrarchesca solitudine, di trovare consolazione ai suoi travagli interiori, pur
comprendendo che neanche l'astro - pur essendogli favorevole - avrebbe potuto genuinamente
comprenderlo. Questo timore espresso al terzo verso, che caratterizzato infatti da una struttura
quasi ossimorica, siccome accosta nella medesima locuzione il gesto assiduo (come suggerito dal
verbo venia all'imperfetto) del poeta di recarsi a contemplare il paesaggio lunare all'angoscia che
tormentava il suo animo: io venia pien dangoscia a rimirarti. All'equilibrio spaziale dei primi cinque
versi si contrappone quello temporale dei secondi, dove ancora protagonista l'io soggettivo del poeta,
che si scopre ancora travagliato dal dolore e dalle sofferenze, proprio come un anno addietro, tanto che
la vista dell'astro gli impedita dalle copiose lacrime (vv. 6-7, ma nebuloso e tremulo dal pianto / che
mi sorgea sul ciglio).[1] Giunti al decimo verso termina la parte narrativa del componimento, ed ha
inizio quella teorico-filosofica, dove Leopardi sviluppa una tematica che sar assai frequente sia
nello Zibaldone che nelle sue liriche della maturit. Si tratta, come gi accennato nell'incipit, del ricordo:
nella giovent, come osservato dal poeta, la rimembranza di un'esperienza dolorosa del passato pur
essendo triste comunque gradita, essendo la memoria breve e la speranza lunga. Alla luna presenta
un lessico denso di arcaismi, tesi a nobilitare il componimento (v. 4: pendevi; v. 10: giova; v. 11:
noverar letate), e ricco di parole che evocano efficacemente una sensazione di vago e di
indeterminatezza, e pertanto definite dallo stesso Leopardi poeticissime. Sono presenti
numerosi enjambement, che conferiscono al testo un ritmo armonioso senza spezzarne
eccessivamente la struttura, e la sintassi semplice e piana
Le ricordanze

Le ricordanze vengono composte nella nata Recanati tra la fine di agosto e i primi giorni di
settembre del 1829 (dal 26 agosto al 12 settembre, secondo le testimonianze). Il canto compare
poi per la prima volta nelledizioni Piatti (Firenze, 1831) dei Canti. Al centro del testo vi
"ricordanza", ovvero uno degli elementi-chiave della poetica idillica. Leopardi, tornato dopo alcuni
anni a Recanati, ritrova nella casa paterna e nel paese natale le memorie del s stesso di un
tempo, e misura con sofferenza ci che la natura ha inflitto a lui, come a tutti gli altri esseri che
dall'infanzia e adolescenza, luminose e piene di speranze e sogni, passano a un'et adulta
segnata dal disinganno. Il tema viene svolto con ampiezza (173 endecasillabi sciolti, suddivisi in
sette strofe di varia estensione), con un continuo rimando dal passato al presente, e viceversa.
Solo la strofa centrale, ai versi 95-103, si rivolge al futuro, e lo identifica con la morte, "invocata" e
tuttavia ancora turbata dall'amarezza del ricordo. E il canto si chiude affermando che fino alla
morte nessun moto del suo animo potr essere disgiunto dalla "rimembranza acerba".Il testo
caratterizzato dal libero fluire della memoria attraverso immagini ed esperienze diverse della
fanciullezza e della prima giovinezza. La materia autobiografica, che pure offre evidenti punti di contatto
con altri canti (soprattutto "A Silvia"), appare espressa in forma pi diretta ed effusa, sia nel richiamo a
momenti sereni e dolci (le sere in giardino, gli allegri giochi coi fratelli), sia nell'affiorare dell'angoscia (la
tentazione del suicidio, il dolore per la morte di Nerina). Un aspetto che contrasta con i caratteri idillici si
pu cogliere nella polemica contro il "natio borgo selvaggio" e la sua "gente zotica, vil", incapace di
riconoscere la grandezza del poeta.

Canto notturno di un pastore errante dellAsia


Il Canto notturno di un pastore errante dell'Asia una poesia di Giacomo Leopardi composta a
Recanati tra il 1829 e il 1830.
Il poeta, nelle vesti di un pastore, interroga la luna sulla condizione umana, e sul suo incarico di
governare il gregge, che non a conoscenza del dolore dell'esistenza, in quanto di natura animale. Il
pastore interroga ancora la luna, senza ricevere risposta. Sogna di viaggiare, di volare via dal mondo,
ma non pu, e cos conclude che tragico l'essere nati. appartiene al cosiddetto ciclo pisano-
recanatese e fu pubblicato nel 1831, nell'edizione fiorentina dei Canti. L'idea di questo componimento
deriv a Leopardi dopo la lettura di una recensione apparsa sul Journal des Savans nel 1826
sul Voyage d'Orenbourg. Il passo che pi colp Leopardi fu quello in cui si parlava delle abitudini dei
pastori nomadi dei Kirghisi, i quali vagabondando per le sabbiose lande di quella terra in compagnia del
loro gregge spesso si sedevano su una pietra e contemplavano la Luna, intonando nel frattempo canti
tristissimi. Il canto si apre con il pastore kirghiso che rivolge delle domande retoriche alla luna, muta e
preziosa confidente delle sue angosce, rivelandole i propri dubbi sul senso della vita. , il pastore
effettua un parallelismo tra la sua vita e il viaggio notturno dell'astro (vv. 9-10: Somiglia alla tua vita / la
vita del pastore): cos come la luna compie ogni sera il suo percorso nel firmamento, anche il pastore
percorre gli stessi campi ogni giorno, guardando le cose meccanicamente, senza nessun interesse.
L'incipit della seconda strofa rinvia a un celebre sonetto petrarchesco, Movesi il vecchierel canuto e
bianco (Canzoniere, XVI), dal quale riprende l'immagine di un anziano che, con i suoi affanni, nel Canto
notturno assurge a simbolo della condizione umana. Secondo il pastore la vita pu essere paragonata
al faticoso cammino di un vecchierel bianco, infermo, / mezzo vestito e scalzo, / con gravissimo fascio
in su le spalle / [che] corre via, corre, anela, / varca torrenti e stagni, / cade, risorge (vv. 21-30): questa
tumultuosa vicenda si concluder inesorabilmente con la morte. Il pastore errante, insomma, critica gli
sviluppi della vita umana, la quale a suo giudizio null'altro che un viaggio affannoso verso la morte. l
pastore errante, pertanto, decide di proseguire il suo colloquio con l'eterna peregrina chiedendole
perch gli uomini soffrono e continuano a desiderare invano. Impostata su queste domande, la strofa
prosegue con il pastore che, alzati gli occhi alla volta celeste, si rende desolatamente conto
dell'immensit del cosmo: egli non sa quale beneficio apporta questo universo smisurato e superbo,
n a conoscenza del motivo per cui stelle e pianeti continuano questo loro andirivieni in un
movimento pressoch perpetuo. L'unica certezza che ha che la vita dolore e sofferenza (v. 104: a
me la vita male).[5] Nella sesta e ultima strofa il pastore cerca invece di compensare la propria
tristezza nell'immaginazione, sperando di poter sottrarsi alla sua infelice condizione dotandosi di ali per
fuggire, cos da contare le stelle una ad una e ricercare felicit infinite. Il Canto notturno di un pastore
errante dell'Asia composto da sei strofe libere in cui si alternano liberamente endecasillabi e settenari,
con cadenze ritmiche che assecondano l'andamento melodico. Le rime sono libere secondo le
esigenze dell'ispirazione: l'unico elemento di regolarit dato dall'ultimo verso di ciascuna strofa, dove
ritorna regolarmente la rima in -ale, impiegata da Leopardi per imprime[re] una cadenza stanca,
sconsolata, dolente (Binni).[7]

Il pensiero dominante

Canzone libera di quattordici strofe di varia lunghezza, fu composta forse nellestate


del 1832 a Firenze, e pubblicata la prima volta nelledizione di Napoli 1835. Fa
parte, con Consalvo e i tre Canti successivi, del cosiddetto ciclo di Aspasia, i Canti
dedicati allamore per Fanny Targioni Tozzetti. Il ciclo di Aspasia ispirato allamore per
Fanny Targioni Tozzetti, che per non che un occasionale motivo unificatore; quello reale , invece, la
meditazione sullamore e sulla morte a partire dallio del poeta, espressa in forme poetiche lucide, che
riflettono larticolarsi di un pensiero che rilegge il genere lirico alla luce di una volont introspettiva e
filosofica. Linvocazione allamore La prima strofa rivolta, a mo di protasi, al pensiero damore, definito
dominator, connotato con ossimori (dolcissimo-possente; terribile-ma caro, vv. 1 e 3), a evidenziarne la
natura drammatica, e associato alla morte (consorte/ai lugubri miei giorni, vv. 4-5). Leopardi riprende la
migliore tradizione lirica italiana, in particolare Dante e Cavalcanti: il primo per limmagine della signoria
damore, Leitmotiv della Vita nuova, il secondo per lidea drammatica e distruttiva dellamore, che trova
espressione nella metafora bellica applicata allamore inteso come guerra dei sentimenti. La seconda strofa
incentrata sulluniversalit dellamore, della cui natura misteriosa tutti parlano, e alla cui forza attrattiva tutti
soggiacciono; potrebbe sembrare, quindi, superfluo parlare dellamore, ma questo sentimento sembra essere
sempre latore di novit e la poesia damore riesce sempre a comunicare sensazioni nuove. Di fronte al
pensiero damore nulla ha valore, n le attivit umane, n la vita stessa che noia, n lesistenza fatta di
attivit (commerci usati, v. 25) e di riposo (ozi, v. 25), n le illusioni che sono vane e si appuntano su falsi
obiettivi di felicit (e di vano piacer la vana spene, v. 26). Leopardi introduce una similitudine con il
pellegrino che dallAppennino vede in lontananza la pianura, la meta del cammino; una similitudine, con
illustri precedenti letterari, che connota lesperienza poetica come acquisizione di un luogo al di l,
allontanamento dalla mondanit e conquista del giardino, del locus amoenus della poesia e della letteratura.
A questo allude limmagine della campagna che sorride (un campo verde che lontan sorrida, v. 31). Amore e
vita Il poeta non pu capire come abbia potuto sopportare linfelicit (vita infelice, v. 38) e la stupidit del
mondo esterno (mondo sciocco, v. 38) senza il conforto del pensiero damore e si meraviglia del fatto che gli
altri uomini (altri, v. 43) possano avere altri desideri.

A se stesso
A se stesso una poesia di Giacomo Leopardi scritta a Firenze nel settembre del 1833, appartenente
ai cinque canti del ciclo di Aspasia e pubblicata a Firenze nel 1835. A se stesso una delle liriche pi
brevi della raccolta dei Canti: in questi sedici versi di estremo pessimismo, infatti, Leopardi condensa
tutta la sua desolazione (dovuta alle sfortunate vicende biografiche e amorose), raggiungendo il punto
pi intenso della sua negativit. Il poeta, infatti, inevitabilmente condannato alla sofferenza, siccome
ha visto perire l'inganno estremo (v. 2), ovvero l'illusione pi grande che l'uomo possa mai coltivare,
e che egli riteneva eterna: si tratta dell'amore. Si ricordi che il componimento fa parte del cosiddetto
ciclo di Aspasia, raccolta di canti scritti dopo che Leopardi si infatu di Fanny Targioni Tozzetti, una
donna che egli conobbe a Firenze nel 1830 e che tuttavia non lo ricambi. per questo motivo che il
poeta, straziato da un dolore aspro e pungente, si rivolge al suo cuore che, tramontate le illusioni, la
speranza, persino il desiderio, non pu che posa[re] per sempre (v. 6) cos da concedere spazio alla
razionalit, l'unica facolt in grado di restituirgli la dignit. Finalmente congedatosi dalle illusioni,
Leopardi diviene consapevole della vanit del tutto e assume un orgoglioso atteggiamento di lotta
contro il mondo e le sue avversit. A se stesso risponde alla forma metrica del canto. Il testo si
compone di sedici versi in endecasillabi e settenari, liberamente alternati e legati da tre rime ai versi 3-5
(sento-spento), 11-15 (dispera-impera) e 14-16 (brutto-tutto). Il canto animato da un
grande pathos, esaltato dalla solida architettura della lirica che, come osservato dal critico Angelo
Monteverdi, si pu dividere in tre parti di cinque versi ciascuna pi il verso finale. Questa tensione
potenziata anche dall'ampio ricorso a proposizioni brevissime e lapidarie, quasi giustapposte e a volte
formate persino da un'unica parola (Per, v. 3).[2]
La drammaticit del dialogo di Leopardi, infatti, si concretizza anche con l'impiego di un linguaggio
nudo, potente, quasi glaciale, totalmente spogliato da cedimenti sentimentali e da accenti patetici.

Il tramonto della luna

"Il tramonto della luna" , quasi sicuramente, l'ultimo canto scritto da Leopardi nella primavera estate del 1836 a Villa
Ferrigni, presso Torre del Greco, sulle falde del Vesuvio. Il canto riassume e sintetizza, in modo poetico ed armonico,
tutti i temi e le idee che il giovane Leopardi aveva elaborato e scritto nelle sue opere precedenti sulla vita e sulla morte,
sulla vecchiaia e sulla giovinezza degli uomini. Il canto esprime, insomma, tutto il pessimismo del poeta e la sua
profonda convinzione sulla inutilit della vita, che ostacolata dalla natura ed basata sul dolore che caratterizza
l'esistenza degli uomini. Il linguaggio poetico del canto raffinatissimo ed aulico, costruito con una lexis alta, aulica e
latineggiante e arricchito di tantissime figure retoriche tra cui la grande similitudine iniziale che copre tutta la prima e
parte della seconda strofa. Altre figure retoriche presenti nel canto sono le rime, le rime al mezzo e gli enjambement. Il
tono emotivo della poesia si sviluppa in tre grandi momenti:
il primo momento emotivo dato dalla stupefacente contemplazione da parte del poeta del notturno marino e della luna
che biancheggia sul mare. Leopardi rimane incantato di fronte a questo spettacolo naturale;
nel secondo momento subentra la riflessione del poeta (III strofa) nella quale Leopardi esprime la sua rabbia, la
disperazione, la ribellione e la protesta contro gli dei che hanno imposto la vecchiaia agli uomini;
nel terzo momento, alla rabbia subentra uno stato d'animo quasi di rassegnazione ma soprattutto uno stato di pacatezza,
accettazione e di rasserenazione del poeta di fronte al destino degli uomini che devono subire e patire su questa terra.

La ginestra
La ginestra o Il fiore del deserto la penultima lirica di Giacomo Leopardi, scritta nella primavera
del 1836 a Torre del Greco nella villa Ferrigni e pubblicata postuma nell'edizione
dei Canti nel 1845. E gli uomini vollero / piuttosto le tenebre che la luce[modifica | modifica
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A epigrafe del componimento, quindi prima del suo effettivo inizio, Leopardi colloca una citazione
del Vangelo di Giovanni:
(EL) (IT)
/ E gli uomini vollero / piuttosto le tenebre che
la luce
(Giovanni, III, 19)
La citazione, tuttavia, dolentemente ironica, e rovescia anticristianamente il significato originario
attribuito da Giovanni, secondo cui la luce (phos) coincideva con la parola di Dio. L'ateo Leopardi, al
contrario, impiega questa citazione per sottolineare la difficolt con la quale la verit riesce a rivelarsi
tra gli esseri umani, che - barricati dietro a concezioni spiritualistiche e ottimistiche, fiduciose e un po'
ottuse - preferiscono rifugiarsi in opinioni false e rassicuranti (le tenebre) piuttosto che prendere
consapevolezza della propria tragica condizione esistenziale (la luce).La ginestra si apre con la
descrizione delle pendici del Vesuvio, il vulcano che nel 79 d.C. erutt seminando distruzione e morte
dove un tempo sorgevano ville, giardini e citt grandi e prosperose (l'allusione
a Pompei, Ercolano, Stabia ...) Si tratta, questo, di un paesaggio desolato e privo di vegetazione,
rallegrato esclusivamente da una ginestra che, contenta di fiorire nel deserto vesuviano, esala al
cielo un soave profumo che addolcisce un po' la desolazione di quel luogo arido e solitario.[3] Da questo
momento in poi il poeta si rivolge alla ginestra, che diventa l'interlocutrice privilegiata del suo discorso
poetico: abbandonandosi al ricordo, Leopardi comunica al fiore di averlo gi visto nelle campagne
deserte (erme contrade) che cingono la citt di Roma. La prima strofa si conclude infine con una
virulenta polemica verso tutti coloro che, esaltando la condizione umana e il progresso, credono che la
Natura sia amica dell'uomo. A loro rivolge un amaro invito a visitare le aride pendici del Vesuvio, cos
da poter vedere con i propri occhi come il genere umano stia a cuore alla natura amorosa. Nella
seconda strofa Leopardi prosegue la sua polemica contro lo spiritualismo ottocentesco. Proprio
l'Ottocento definito dal poeta secol superbo e sciocco perch dotato di una componente irrazional-
spiritualistica con la quale avrebbe rinnegato la filosofia materialista dell'Illuminismo; era proprio grazie
alle acquisizioni del pensiero settecentesco che l'uomo era riuscito a sfuggire alle barbarie e alle
superstizioni del Medioevo. Leopardi prende orgogliosamente le distanze dal nuovo spiritualismo
romantico, e condanna con acuto disprezzo tutti coloro che predicano quelle dottrine di matrice
provvidenzialistica e ottimistica. Secondo Leopardi l'unica forma di progresso possibile consiste nella
formazione di una confederazione degli uomini che, pur nell'infelicit, si sostengono reciprocamente per
lottare contro il vero nemico, cio la Natura, madre di parto [...] e di voler matrigna Nella quinta strofa
Leopardi sviluppa un lungo paragone tra gli effetti di un'eruzione vulcanica e la caduta di un pomo su
un formicaio. Cos come un piccolo frutto, conclusasi la stagione vegetativa, cade dall'albero e devasta
le accoglienti abitazioni di una colonia di formiche, cos l'eruzione del 79 d.C. con ceneri, pomici, sassi
[e] bollenti ruscelli (vv. 215, 217) seppell le fiorenti citt di Ercolano e Pompei. Con questo paragone
Leopardi riflette sulla potenza distruttrice della natura che, nella sua sostanziale indifferenza per le
vicende terrene, non si cura n dell'uomo n delle formiche. , intende sottolineare l'aspetto
meccanicistico della Natura, la quale mira a perpetuare l'esistenza in un lungo processo di nascita,
sviluppo e morte senza tuttavia esser guidata da un disegno benevolo volto a rendere felice il singolo,
animale o umano che sia. Nell'ultima strofa ritorna l'immagine iniziale della ginestra, che con i suoi
cespugli profumati abbellisce quelle campagne desertificate. Anche questo umile fiore, afferma
Leopardi, verr presto sopraffatto dalla crudele potenza della lava in eruzione: egli, tuttavia,
all'inesorabile sopraggiungere della colata mortale che lo inghiottir piegher il proprio stelo, senza
opporre resistenza al peso della lava. Il poeta vede nella ginestra un simbolo del coraggio e della
resistenza estrema di fronte a un destino inevitabile: a differenza dell'uomo, il fiore accetta con umilt il
suo tragico destino, senza vilt o folle superbia, e sopporta con dignit il male che gli fu dato in
sorte.[5]

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