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Alla Luna-Analisi

L’idillio Alla luna viene composto da Leopardi tra 1819 e 1820, e poi inserito nell’edizione
dei Canti del 1831 (e, con l’aggiunta degli ultimi due versi, nell’edizione postuma del 1845). La
poesia sviluppa un tema tipicamente romantico - quello del legame tra il dolore dell’uomo e il
paesaggio serale 1 - aggiungendovi alcune memorie letterarie dai classici (Petrarca e Tasso sopra
tutti) e sviluppando il tema, assai caro al poeta, del piacere e del dolore evocati dal ricordo
nell’uomo.

L’idillio, in endecasillabi sciolti, si apre con un’invocazione alla luna, che per Leopardi costituisce
una preziosa confidente delle sue angosce, nonostante la distanza che separa lui e l’astro. I primi
cinque versi, composti di un unico periodo, mescolano infatti il ricordo di quando il poeta andava a
confidarsi con la luna (v. 2: “or volge l’anno”) e l’atmosfera serena di questa abitudine (la luna, al
v. 1, è appunto definita “graziosa”, come più avanti è detta “diletta”, v. 10). Queste parole
mescolano però da subito l’evocazione del proprio passato con la percezione dolorosa
dell’illusorietà e della vanità del tutto, e con il sospetto che neanche l’astro, pur favorevole a
Leopardi, possa davvero capire il suo tormento interiore. Questo timore è già espresso dal v. 3,
che presenta una struttura quasi ossimorica che contrappone la contemplazione della luna e del
paesaggio che si vede dal monte Tabor di Recanati con “l’angoscia” che egli ha nel cuore:
io venia pien d’angoscia a rimirarti 2
Questa percezione viene riconfermata nei successivi cinque versi (vv. 6-10), speculari ai primi, in
cui è ancora protagonista la soggettività del poeta, che riflette nel paesaggio lunare la certezza che
tutta la sua esistenza è “travagliosa”, e cioè attraversata e percorsa dalla sofferenza (tanto che la
vista della luna gli è impedita dalle lacrime: “[...] nebuloso e tremulo dal pianto | che mi sorgea sul
ciglio”).

Qui termina la prima parte del testo, dedicata all’evocazione del paesaggio nel ricordo e al suo
confronto con il dolore persistente del poeta (v. 9: “[...] ed è, né cangia stile”). Nella seconda parte
(vv. 10-16), Leopardi sviluppa quella che potremmo definire la parte teorico-filosofica di Alla luna,
che ha molti rimandi sia ad altri testi leopardiani della maturità sia allo Zibaldone. Il tema centrale
del componimento è la “rimembranza” di un’esperienza dolorosa del passato 3, che persiste nel
presente e da cui scaturisce la riflessione leopardiana sul ricordo.

Il motivo è innanzitutto autobiografico: sembra infatti certo che il “colle” del v. 2 sia il monte
Tabor de L’infinito e che forse Leopardi alluda in quel verso alla morte di Teresa Fattorini,
l’ispiratrice di A Silvia. Il confronto tra passato e presente, che attraversa tutta la poesia (v. 2: “io
mi rammento”; v. 4: “e tu pendevi allor”; v. 5: “siccome or fai”; v. 9: "era mia vita: ed è, nè cangia
stile"), eleva però questa riflessione a legge universale; per tutti gli uomini, il ricordo è fonte di un
piacere doloroso, che ci rattrista ma ci conforta di fronte al nulla:
Proprio per dare un senso generale alla propria riflessione, Leopardi aggiunge i due versi finali in
un secondo momento, avvicinando Alla luna ad alcuni testi della maturità, fortemente intrisi di
pessimismo esistenziale, come Le ricordanze oppure il Canto notturno di un pastore errante
dell’Asia.

Alla luna è un buon esempio dello stile e della poetica degli Idilli del 1818-1821; si nota
innanzitutto come il tema autobiografico sia innalzato ed elevato in un’atmosfera lirica ed
indeterminata (ad esempio, non viene mai specificato il motivo del soffrite del poeta, né
l’ambientazione viene precisata realisticamente) e come la dimensione soggettiva si associ sempre
ad un momento per così dire “filosofico”, in cui Leopardi tira le fila generali del proprio
ragionamento. Qui questo “momento” corrisponde appunto ai versi finali, dove emerge la
consapevolezza del piacere doloroso del ricordo.
Vago è infatti il paesaggio - un colle, una selva, la luna che la illumina - che evoca
la “rimembranza” e la percezione dell'indefinito. La sintassi è prevalentemente piana, e anche
gli enjambements (vv. 1-2; vv. 8-9; vv. 10-11; vv. 11-12; vv. 13-14) non “spezzano” eccessivamente
la struttura del testo.

In Alla luna sono anche rintracciabili una serie di modelli e riferimenti letterari che permettono di
mettere a fuoco meglio il “messaggio” della poesia. Abbiamo innanzitutto un modello classico di
base, quello del poeta greco Mosco di Siracusa, che visse a metà del II secolo a.C. e che si ispirò
alla poesia bucolica di Teocrito
Ai modelli classici (dietro al modello idillico c’è ovviamente Virgilio) si aggiungono quelli della
tradizione letteraria italiana; in particolare, è Petrarca (assai presente in molti testi leopardiani) ad
essere disseminato nel testo di Alla luna, come al v. 2 (“or volge l’anno” ricorda le espressioni
del Canzoniere petrarchesco per indicare il tempo passato dall’innamoramento per Laura o dalla
morte di lei), al v. 7 (“alle mie luci”, metafora tipicamente petrarchesca) o al v. 9 (“né cangia stile”,
altro stilema dei Rerum vulgarium fragmenta).

Vi sono poi riferimenti interni alla poesia leopardiana, in testi cronologicamente successivi a
questo idillio. Il tema del ricordo torna sia nell’Infinito che nella Sera del dì di festa 5, e anche
nelle Ricordanze 6. Ci sono anche alcune pagine dello Zibaldone che sviluppano il tema della
mescolanza di piacere e sofferenza nelle cosiddette “ricordanze della fanciullezza”:
Siccome le impressioni, così le ricordanze della fanciullezza in qualunque età sono più vive che
quelle di qualunque altra età. E son piacevoli per la loro vivezza anche le ricordanze di immagini e
cose della fanciulezza che ci erano dolorose e spaventose ec. E per la stessa ragione ci è piacevole
nella vita anche la ricordanza dolorosa, e quando bene la cagion del dolore non sia passata, e
quando pure la ricordanza lo cagioni o l'accresca, come nella morte de' nostri cari, il ricordarsi del
passato ec. 7
A Silvia-Analisi

L’argomento – Il componimento si presenta come un intimo colloquio con Silvia ed è caratterizzato da una
struttura ordinata, in cui le strofe sono alternativamente dedicate ora a Silvia ora al poeta stesso.
Prima strofa: ha una funzione introduttiva e in particolare inserisce esplicitamente il colloquio con la
fanciulla morta nella dimensione del ricordo («rimembri»); di lei sono messi in rilievo la bellezza della
giovinezza e lo sguardo luminoso e schivo.
Seconda strofa: è dedicata ancora alla giovinezza di Silvia. La sensazione uditiva descritta dà risalto al canto
della fanciulla che riecheggia nelle stanze della casa e nelle vie adiacenti, mentre ella attende al lavoro
domestico della tessitura. I sogni e le spettative per il futuro sono ancora intatti: Silvia è «contenta» di quel
«vago avvenire» che immagina per sé. La dolcezza e la serenità del paesaggio primaverile sottolineano la
sensazione di sereno ottimismo.
Terza strofa: rappresenta la giovinezza del poeta. Anch’egli è animato da illusioni e speranze, come
simboleggiano gli spazi aperti ammirati dai «veroni», i balconi, (il «ciel sereno», le «vie dorate», gli «orti», il
«mar», il «monte») che sembrano aprire ampie prospettive di vita. Il giovane Leopardi condivide con Silvia
la faticosa realtà quotidiana (l’una si dedica all’«opre femminili», l’altro alle «sudate carte») ma anche il
piacere di un rapporto affettivo creato a distanza e sottolineato dal canto della fanciulla che raggiunge lo
studio del poeta, inducendolo ad affacciarsi sul balcone.
Quarta strofa: è fortemente espressiva, soprattutto per le interrogazioni e le esclamazioni che si
susseguono nell’invettiva contro la natura. I due giovani sono accomunati dalla triste delusione che fa
seguito alla caduta delle loro speranze: la natura inganna i suoi stessi figli facendo loro vane promesse di
felicità; non a caso la parola «sventura» rima con la parola «natura».
Quinta strofa: corrisponde alla seconda, dedicata a Silvia, e rappresenta la morte fisica della fanciulla,
scomparsa ancora prima di vedere il «fiore» dei suoi anni. Stroncata da una malattia allora incurabile, Silvia
non ha potuto avere le gioiose soddisfazioni di cui invece hanno goduto le sue coetanee.
Sesta strofa: rappresenta la “morte spirituale” del poeta, la cui speranza svanisce prima che egli possa
godere della giovinezza. Di tanti sogni resta solo la prospettiva della «fredda morte».Il lessico – Risponde
alla poetica dell’«indefinito» perché ricorrono quelle parole “vaghe” che Leopardi considera sommamente
poetiche: «fuggitivi», «quiete», «perpetuo», «vago», «odoroso», «da lungi», «dolce». Vi sono anche termini
suggestivi per il loro elevato registro letterario, che li rende molto evocativi: «rimembri», «veroni»,
«ostello», «giovanezza».

Le figure di significato – Poche ma chiare metafore (la fanciulla che sale il «limitare di gioventù», il «fiore
degli anni» ecc.) alludono alla tematica esistenziale affrontata nel testo; alcune personificazioni
sottolineano il pessimismo dell’autore: la natura «inganna», la speranza è «compagna» della giovinezza del
poeta, ma «perisce presto e indica di lontano la morte e la tomba».Le figure di suono – La musicalità è una
caratteristica costante del testo. Un esempio suggestivo è dato dal frequente ricorso al gruppo “vi”:
«fuggitivi», «salivi», «avevi», «solevi», «sedevi», «schivi», «festivi», «perivi», «occhi ridenti e fuggitivi»,
«innamorati e schivi». È lo stesso suono che riecheggia nel nome di Silvia, quasi simbolo fonico della
presenza costante della fanciulla nella trama del testo. La sensazione del canto della fanciulla è resa
mediante la prevalenza della vocale “a” perché dà un’impressione di vastità: «sonavan», «canto».

La costruzione del discorso – Risalta l’opposizione dei tempi verbali, imperfetto e presente.
L’imperfetto caratterizza il momento dei ricordi dei sogni giovanili, è il tempo della memoria e
dell’illusione; per questo domina nelle strofe 1, 2, 3, 5, che rievocano il passato. Il presente prevale nella
strofa 4 in cui il poeta inveisce contro la natura che nega all’uomo la gioia. La sintassi è regolare, con
periodi brevi e poche subordinate. Solo nelle strofe 4 e 6 ricorrono esclamazioni, interrogazioni, anafore
(«che… che… che», «o… o», «perché… perché», «anche… anche», «come… come», «questo…
questi…questa») che danno più movimento al discorso, conferendogli così toni più accesi di sdegno e di
protesta.
La metrica e il ritmo – Il testo è una canzone, formata da strofe libere, senza schema fisso, con alternarsi di
endecasillabi e settenari e con rime anch’esse liberamente ricorrenti. Questa libertà metrica risponde
perfettamente a quella tendenza alla vaghezza e all’indefinitezza delle immagini, che è il motivo centrale
della poetica leopardiana. In genere l’unità metrica del verso e quella sintattica coincidono, e ciò dà un
senso di fluidità ritmica.
Gli enjambement sono frequenti nell’ultima strofa, dove il tono si fa più vibrante: «perìa fra poco / la
speranza mia dolce», «negaro i fati / la giovanezza», «questi / i diletti». L’enjambement mette in rilievo le
parole chiave, la «speranza», la «giovinezza», i «diletti», ideali cui l’uomo aspira e che la natura maligna
nega. L’allontanamento di queste parole al di là del confine del verso sembra sottolineare l’irragiungibilità
della realtà che esse evocano.

Canto notturno di un pastore errante dell’Asia-Analisi

Analisi e commento:
Il “Canto notturno di un pastore errante dell’ Asia” è stato composto a Recanati nel 1830. L’idea del canto fu suggerita al
poeta dalla lettura di un passo di un articolo riportato su una rivista (Journal des Savants). Nell’ articolo si legge che
"alcuni pastori nomadi dell’Asia Centrale sono soliti trascorrere le notti all’aperto e seduti su una pietra rivolgono delle
parole malinconiche alla Luna".
La lirica consiste in un lungo monologo di un essere umano (il pastore) che si rivolge direttamente alla luna. Nel canto il
pastore errante pone diverse domande alla luna sulla vita e sull’ esistenza dell’ essere umano. Leopardi sceglie di
servirsi della semplice ed ingenua voce di un pastore, ritenendo quest’ultimo meglio di altri adatto ad interpretare l’ansia
di conoscenza comune a tutti gli uomini e le domande che egli pone sono le domande che tutti gli uomini si portano
dentro.
Nel canto la luna ha un ruolo centrale e assurge a simbolo del trascendente, cioè di quella forza misteriosa che regge le
sorti dell’intero Universo e degli esseri viventi. E’ la confidente del pastore, raccoglie i suoi dubbi e le sue
preoccupazioni, sembra essere una presenza consolatrice anche se non può (o non vuole) dare risposte alle domande
che le vengono rivolte.
Questo canto mette in risalto la teoria del pessimismo cosmico.
Secondo Leopardi la natura è una matrigna. L’uomo nasce al solo scopo di morire perché l’ esistenza è un ciclo
continuo di distruzione della materia. L’uomo (anzi l’essere vivente, uomini e animali) è nato per soffrire, vittima di una
natura e di una forza superiore del tutto indifferente al suo dramma. L’infelicità umana è una realtà concreta che domina
l’ universo. Anche questo aspetto è messo in evidenza nel canto perché il pastore nel silenzio non riesce ad essere
tranquillo ma è dominato dalla paura e dall’ insicurezza.
Si contrappone alla natura la ragione come efficiente strumento conoscitivo capace di svelare le contraddizioni del
reale. La ragione non conduce alla felicità, rende l’uomo consapevole della propria condizione e lo libera da false
credenze. L’uomo ha una sua dignità e deve saper prendere atto con fierezza della sua triste condizione ed accettarla,
visto che cambiarla è impossibile.

Metrica:
Canzone libera articolata in sei strofe libere di varia lunghezza (endecasillabi e settenari). Le rime sono libere anche se
ciascuna strofa si conclude con una identica rima finale che termina in "ale".
L’andamento e il tono della lirica ricordano una litania. Il linguaggio, a differenza che in altri canti, è quasi spoglio, sobrio
e semplice, in armonia e consono al livello del semplice pastore. Tuttavia spesso viene dato spazio anche ad un
profondo e commosso lirismo.
La lirica è densa di molte rime interne e assonanze, iterazioni lessicali, allitterazioni

LGli Idilli segnano un momento nuovo nella storia della lirica leopardiana: il poeta
abbandona le costruzioni macchinose delle canzoni civili e filosofiche, che pure
nacquero in quello stesso giro di anni, e a esse sostituisce temi e motivi legati a
situazioni quotidiane e a occasioni private e personali, e strutture espressive più
semplici e agili. Il nome stesso che individua questi componimenti è significativo:
l’idillio, infatti, era nel mondo greco un breve componimento descrittivo
(“quadretto” o “piccola visione” significa il termine idillio, in greco) e, di fatto, nei
suoi Idilli Leopardi prende sempre spunto, per il suo canto, dalla descrizione di un
paesaggio caro al suo cuore e legato alla realtà delle sue esperienze quotidiane:
un colle e una siepe, lo spettacolo di un paesaggio illuminato dalla luna, una festa
paesana, il canto di un artigiano e la vita in campagna.

L’Infinito-Analisi

L’infinito è scritto in endecasillabi sciolti, già sperimentati da Vincenzo Monti. Sono


quindi versi legati da nessuna rima. Leopardi avrebbe potuto usare il sonetto,
anch’esso breve, in versi, che ben conosceva, essendo uno dei principali commentatori
di Petrarca, che aveva codificato il genere. Ma ecco che Leopardi in un certo senso
con l’idillio compone un sonetto che sorpassa ogni limite, ogni costrizione metrica e
che ben rende ritmo e moti dell’animo. E già a livello metrico L’infinito diventa
l’abbattimento di un limite. Un sorpasso che si concentra anche sul piano delle
immagini, del linguaggio e delle emozioni.

Al poeta si presenta una visione limitata dell’orizzonte, ostacolata da una siepe, posta
sulla cima di un colle. La vista impedita permette a Leopardi di mettere in moto un
processo immaginativo e fantastico assai piacevole, fantasticando sul concetto-limite
dell’infinito, proprio a partire da una sensazione di limitatezza.

L’intero componimento risulta costruito sull’affiancamento di un’immagine reale e di


una spirituale, di una realtà empirica e di una immaginaria. A rappresentare la prima il
«colle», la vista della «siepe», lo stormire del «vento» tra le «piante».
I dati sensoriali – il guardare («guardo» «mirando») e l’udire («odo», «voce», «suon»,
«silenzi», «silenzio») – danno avvio a reazioni emotive e razionali. Un rimando al
sensismo. Ma ogni elemento è motivo di riflessione e indagine filosofica volta al
superamento di un limite. Il limite della siepe accende il bisogno di negare e superare
il limite, di immaginare l’infinito; così com’è dalla limitatezza del suono delle foglie che
nasce l’ulteriore allargamento in senso temporale: dall’infinito spaziale all’infinito
temporale, l’«eterno». Un’esperienza di cui la ragione umana non sa darsi pienamente
ragione, ma rimane piacevole e appagante.
Non sussiste una confusione tra il piano reale e quello immaginario: Leopardi mostra
di riconoscere tanto la forza oggettiva del limite quale condizione non eludibile
dell’uomo quanto l’esigenza antropologica a superare quel limite (questa intuizione,
questo pensiero repentino è segnalato a v.11 «e mi sovvien l’eterno»). Il poeta
fornisce un’alterantiva al nichilismo, che vede solo il limite, e allo spiritualismo che
trasforma in dato reale il bisogno umano di superarlo.

Si definisce tale idillio, dunque, un itinerarum mentis ad infinitum, di cui i verbi


portanti sono «fingo» e «vo comparando»; un itinerario interiore verso l’infinito
davanti al quale i sensi prima si «spaurano» e poi naufragano dolcemente.

Questo viaggio verso l’infinito a livello metrico si esplica nella presenza di


numerosi enjambements – ad eccezione del primo e dell’ultimo verso – della stessa
lunghezza, determinando una struttura circolare; e del polisindeto; sul piano lessicale
nella presenza di aggettivi polisillabici con valore superlativo («interminati»,
«profondissima», «sovrumani»), Gli aggettivi dimostrativi, poi, indicano in una prima
parte una partecipazione effettiva («quest’ermo colle», «questa siepe») per poi
spostarsi a un piano universale («questa immensità», «questo mare»). Mentre
«queste piante», «questa voce» in contrapposizione a «quello infinito» sottolineano
l’irragiungibilità dell’infinito da parte dell’uomo.

In ultima analisi, L’infinito si colloca nella fase del pessimismo storico: la natura
è ancora benevola e Leopardi cerca quel rapporto tra natura e interiorità che negli
antichi era immediato e si esplicava nella «poesia ingenua» e che diventa nei moderni
«poesia sentimentale», di cui L’infinito è un esempio lampante: solo mediante il
ragionamento è possibile stabilire un nesso tra realtà interiore e realtà oggettiva.

A se stesso-Analisi
Il brevissimo componimento a se stesso, fu scritto da Leopardi nel maggio 1833. Il testo fa parte dei Canti e
più precisamente del Ciclo di Aspasia, nella terza fase della poesia leopardiana (1831-37). Aspasia è lo
pseudonimo che Leopardi dà a Fanny Targioni Tozzetti, donna di cui è innamorato ma che però non
ricambia i suoi sentimenti. Il tema trattato è quello della disillusione nei confronti dell’esistenza umana.
Si capta dal testo un invito disperato da parte dell’io lirico a non illudersi più che esista sulla terra qualcosa
(o qualcuno) che sia ancora degno di essere amato. Il poeta si rivolge direttamente al suo cuore dicendogli
di riposarsi per sempre, egli sente dentro di se che il desiderio di piacevoli illusioni e di speranze si è
esaurito. Al genere umano la natura non ha concesso altro che la morte.
Quest'opera rappresenta la sintesi della penultima fase di Leopardi. Stilisticamente è spoglia, essenziale,
senza sentimento. Il testo può essere diviso in sequenze che vanno dal v. 1 al v. 5, dal v. 6 al v. 10 e dal v. 11
al v. 16. Il motivo che accomuna l’inizio di ogni sequenza è il riposo del cuore del poeta, che rimanda al
tema dell’abbandono di ogni illusione, di ogni speranza. I versi «Or poserai per sempre,/Stanco mio cor»
(vv. 1-2), «Posa per sempre/assai palpitasti» (vv. 6-7), «T’acqueta omai. Dispera/l’ultima volta» hanno una
struttura abbastanza simile e, come si vede, propongono con sempre maggior forza il tema del riposo del
cuore (si noti l’uso di verbi di forza crescente : «Poserai», «Posa [dunque] »e «T’acqueta omai», con l’ultimo
verbo che acquista un senso definitivo)

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